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107 Molti elementi tornano: la malattia come processo che ci spossessa (così come il passatomalattia ci invade, ci altera e non è nostro), la semantica del movimento, del vettore e del veicolo, il distacco tra me e me. E come il treno porta via o porta lontano, così il corpo, quest‘altro veicolo, è tutto un andarsene, un separarsi da sé. Non c‘è traccia, tuttavia, dell‘esuberante tecnica metaforica di CC, e il tono sembra decisamente più scorato e disilluso. Per comprendere cosa sia accaduto tra un‘opera e l‘altra dobbiamo continuare la lettura di CC. Dopo aver enunciato la tesi e operato il primo impianto testuale, il libro arriva a ―descrivere‖ le vicissitudini medico-sanitarie del piccolo ―io‖, e lo fa riepilogando la posa di «innumerevoli protesi», altro nome per l‘impianto. La prima protesi, la protesi originaria sono gli occhiali, dispositivo tecnico di correzione che permetterà un giusta messa a fuoco del campo visivo. Nel secondo capitolo, intitolato con inversione e bisticcio linguistico Exfanzia; contrapponendo il prefisso ex- all‘in- su cui il libro si era aperto (per dire che si è fuori dall‘infanzia quando il primo innesto è effettuato, ma anche che il dentro e il fuori sono inestricabili e non si può tracciare un confine rigido a separarli), gli occhiali vengono descritti come «ricetrasmittente d‘infezione», come macchinario e canale a doppio senso tramite il quale ci si sintonizza con il mondo e si è pronti ad interagire con esso, ovvero a contrarre e diffondere malattie: «perché fu il guasto la mia vera guida, lo psicopompo, la voce fuori campo» (p. 5). E gli occhiali da prova che l‘oculista lascia sul viso del bambino conferiscono a costui l‘aspetto di un ibrido mostruoso che lega perfettamente con la citazione platonica del primo capitolo. Il procedimento analogico si occupa di attenuare i confini tra la materia inerte e manipolata degli occhiali («cerchi tarati e pesanti») e il dominio dell‘organico, sfruttando l‘anfibologia del termine ―antenne‖ (qui in uso catacretico) per fare del congegno una «creaturina ciliata» munita di «flagelli». Gli occhiali vengono così incorporati e sentiti inseparabilmente come un oggetto e come un organo, come una cura e come un fattore di deformità; il «senso di nauseante enucleazione» provato in quel giorno lontano resterà sempre come marchio più proprio dell‘identità dell‘io. A questo punto, una volta rovesciato l‘io-corpo fuori di sé senza però produrre lacerazione, trasformatolo in una membrana organico-macchinica, «i programmi potevano avere inizio» (p. 6). Tutti i disturbi e le malattie elencati nei capitoli che seguono hanno come filo conduttore disarticolazioni, svuotamenti, tumefazioni del corpo, crescita di entità estranee sui suoi limiti e nel suo interno, difficili equilibri, nuove affezioni prodotte dagli espedienti per curare le vecchie. Le prose si combinano su criteri di ripresa, contiguità e somiglianza, secondo una specie di montaggio delle attrazioni; e anche nei limiti del pezzo singolo l‘organizzazione è affidata, più che alla sintassi – prevalentemente paratattica – o a uno sviluppo strutturato – abbondano anzi nessi logico-causali usati in maniera incongrua, vedi ad es. il «perché» dell‘incipit del secondo paragrafo – allo scorrere e combinarsi delle immagini. Un breve regesto di questi temi-organi: gli occhi, le orecchie, la pelle, i piedi, le reni; cerume, eritemi, calcoli, verruche. Nel corso di questa proiezione alcuni termini dalla semantica polivalente sono sfruttati per collegare il corpo a ciò che sta fuori di esso, su varie scale dimensionali: abbiamo già incontrato «gli spazi interstellari della carne», e aggiungo almeno l‘immagine della circolazione, nei cerchi di risonanza della quale trovano posto il traffico automobilistico e il percorso del sangue, i viaggi e i circuiti elettrici. Va osservato che in questa maniera l‘io viene sì esautorato ed esonerato di parti sempre più consistenti del suo corpo, fino a non sapere più dove si trova la sua residenza, se non nel movimento di entrata/uscita da ―sé‖, e che il corpo non più proprio appare assemblato con elementi indifferentemente vegetali, minerali, tecnici, in una sorta di laboratorio del dottor Frankenstein, ma che d‘altro lato lo stesso procedimento concorre a reintegrare i ―pezzi‖, i frantumi eterogenei che ha prodotto in un unico corpo cosmico tenuto assieme dai campi magnetici delle analogie. L‘unità e l‘identità, smarrite a livello personale, resterebbero comunque garantite su un piano superiore, e difficilmente percepibile. E allora sarebbe giusto la lingua a restituirlo ai nostri sensi, questo piano, contribuendo col suo incanto e con le sue legature magiche a mantenerci in contatto con esso. Le «paroletrattino» che Magrelli usa massicciamente a cominciare da ET sono un esempio splendido del pendolarismo inarrestabile, della perplessità profonda di cui si parla. E dato che la poesia di ET in


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