Realtà Forense

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O R G A N O D E L S I N D A C A T O AV V O C A T I D I B A R I F O N D A T O N E L 1 9 6 9 - A d e r e n t e A N F Anno XL - N. 2

Spedizione in abbonamento postale comma 20/C legge 662/96, Filiale di Bari

Bari, dicembre 2014

21-24 gennaio 2015: l’importanza del voto per il rinnovo dei componenti del Consiglio dell’Ordine di Bari

Il Sindacato Avvocati alle elezioni con la propria lista

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Inaugurare un nuovo corso e uscire dall’isolamento

Rinnovamento e cambiamento per garantire trasparenza, apertura e partecipazione

Una sana competizione segna la fine della stagione delle liste uniche e del comodo unanimismo

l congresso celebratosi nell’ottobre scorso a Venezia più di due mesi fa e le elezioni per il rinnovo dei componenti dei consigli degli ordini circondariali che si terranno nel prossimo mese di gennaio sono eventi che solo apparentemente hanno poco in comune. Del congresso lagunare é facile dire. Non si é discusso minimamente dei temi altisonanti e oltre il mercato che si volevano affrontare, il primo giorno dedicato a relazioni - con tanto di colonna sonora - autocelebrative e il tempo residuo speso per un organismo (quello previsto dall'art. 39 della nuova legge professionale) che potesse accontentare tutti e del quale molti si potessero sentire padripadroni. Il risultato é stato fallimentare. La tre giorni veneta ha dimostrato (ecco il primo elemento che lega l'evento alle prossime elezioni dei componenti dei COA) la forza e i limiti del ruolo dei consigli degli ordini circondariali. La mancata approvazione delle sei mozioni statutarie che dovevano dare origine al nuovo organismo previsto dall'art. 39 ha evidenziato ancora una volta che i delegati rispondono (in fase di voto teso al boicottaggio dell'altrui proposta) a logiche di appartenenza quasi sanguigna ai presidenti che li hanno designati o fatti eleggere; al tempo stesso, i delegati di matrice ordinistica non sono riusciti a portare a casa l'approvazione della mozione dagli stessi elaborata perché ciascun ordine si sente depositario della verità e delle soluzioni da proporre alla politica e a tutti gli interlocutori istituzionali. Quest'ultimo aspetto é ancora più marcato ove ci si limiti a considerare che, nonostante i ripetuti incontri all'indomani del congresso (tenutisi, per esempio, a Matera e a Cagliari), i presidenti dei COA che si reputano investiti di un potere di rappresentanza assoluto, ma che risponde a due o tre migliaia di Colleghi a fronte di sette, otto, o ventiquattromila aventi diritto al voto nel rispettivo circondario nonché ad un'iscrizione obbligatoria all'albo, non sono riusciti a dar di

LUIGI PANSINI

(segue a pag. 5)

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utto è pronto: il regolamento di attuazione c’è e nella terza decade del primo mese del nuovo anno, come ormai a tutti noto, si procederà al rinnovo dei Consigli degli Ordini. Si tratta delle prime elezioni successive all’entrata in vigore della nuova legge professionale, che, di bruttura in bruttura e di iattura in iattura, viaggia verso la sua piena attuazione. Non so quanti di coloro che al Congresso di Bari votarono a favore della sua immediata approvazione oggi si siano pentiti; sicuramente tanti e fra questi in gran numero figurano gli esponenti dell’AIGA. Mai vi fu previsione normativa più punitiva per i giovani avvocati. Noi di A.N.F. avevamo visto giusto, ma, nonostante lo sforzo profuso, non siamo riusciti ad essere maggioranza: troppi Presidenti di Ordini e di Associazioni servilmente appiattiti sulla politica censuaria del C.N.F.. A parte tali doverose annotazioni e ritornando alle elezioni dei nuovi Consigli, v’è da dire che moltissime sono le novità: la durata dell’incarico portata a quattro anni, il numero dei componenti da eleggere aumentato sino a venticinque, la quota di un terzo riservata al genere meno rappresentato, la limitazione a due mandati consecutivi, l’abolizione del ballottaggio, la possibilità di esprimere il voto di lista, il divieto di ricevere incarichi giudiziari nel corso del mandato, etc.. Novità, queste, di indubbio rilievo pratico, ma che, a mio parere, passano in secondo piano, se l’accento viene posto sul dato “politi-

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co” che caratterizza questa tornata elettorale barese. Mi riferisco alla fine di una “stagione”, quella delle liste uniche, da cui il Sindacato ha preso per tempo le distanze. Esse, a fronte di una propagandata unità dell’avvocatura barese, di fatto mai esistita, mal celavano un misero e comodo unanimismo, atto ad allineare la volontà dei più a quella di pochi se non addirittura sfociare nel pensiero unico. Personalmente preferisco il confronto dialettico e, perché no, lo scontro fra maggioranza e minoranza, in cui risiede l’essenza della democrazia. L’auspicio è che una nuova stagione abbia avvio e che essa sia caratterizzata dalla presenza qualificata e qualificante delle varie associazioni forensi, portatrici di interessi diffusi e che avranno anche il gravoso compito di traghettare il nostro Foro fuori dall’isolamento in cui è venuto a trovarsi nella scena regionale e nazionale all’indomani della celebrazione del XXXI congresso dell’Avvocatura. Oggi ai nastri di partenza si registra già la presenza di tre liste, ben vengano altre, il seme del rinnovamento è stato gettato, ora la parola passa agli avvocati baresi, su di loro la responsabilità di inaugurare un nuovo corso o restare impantanati nella palude. di

PIERLUIGI VULCANO

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Anno XL - N. 2 - Dicembre 2014

La Corte di Giustizia Europea, con la sentenza di luglio scorso, si esprime sugli avvocati stabiliti

Via libera agli abodagos Le possibili nuove mosse del Consiglio Nazionale Forense sull’elusione della legislazione italiana

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el numero precedente ho avuto l’onore ed onere di affrontare l’annosa questione degli abogados. Pur consapevole di trattare un tema delicato, mai avrei immaginato di essere personalmente contattato dai lettori per ricevere indistintamente complimenti e critiche. Fra il sentimento di soddisfazione e quello di amarezza, è tuttavia prevalso lo stupore nel constatare il particolare interesse mostrato dagli addetti ai lavori: sintomo di un diffuso malumore che coinvolge gran parte della categoria degli avvocati e di coloro che si accingono ad accedervi. Da una parte vi sono i professionisti abilitati, costretti a destreggiarsi in un mercato pressoché saturo, dall’altra l’eser-

seguito ritorno nello Stato membro di cui è cittadino per esercitarvi la professione di avvocato, con il titolo professionale ottenuto nello Stato membro in cui tale qualifica è stata acquisita, costituisce uno dei casi in cui l’obiettivo della direttiva 98/5 è conseguito e non può costituire, di per sé, un abuso del diritto di stabilimento risultante dall’articolo 3 della direttiva 98/5”. Eppure avevano ben esordito asserendo la necessità di elementi oggettivi e soggettivi affinché una condotta potesse considerarsi abusiva, pertanto sarebbe stato legittimo aspettarsi una interessante dissertazione sulle circostanze oggettive riscontrabili nel caso di specie e sull’elemento psicologico, inteso come volontà di ottenere un vantaggio derivante dalla normati-

cito dei praticanti, vittima di un discutibile sistema di accesso alla professione forense e disposto a sfruttare le falle del D. Lgs. 96/2001 (in attuazione della direttiva 98/5/CE sulla libera circolazione dei professionisti). Nel mezzo il Consiglio Nazionale Forense che, individuando la soluzione a tutti i problemi in un esame di abilitazione altamente selettivo, come concepito con la recente riforma forense, ha dichiarato guerra agli abogados portando la questione innanzi alla Corte di Giustizia Europea. Nello scorso numero di Realtà Forense sottoponevamo all’attenzione dei nostri lettori la paradossale situazione che si sarebbe potuta creare nel caso in cui la Corte non avesse ravvisato alcun contrasto tra l'art. 3 della direttiva 98/5/Ce e l’art. 4, paragrafo 2, del TUE, lasciando pertanto che l’asse Italia – Spagna continuasse a sfornare un crescente numero di “avvocati stabiliti”, trend fisiologico direttamente proporzionale alla difficoltà di conseguimento del titolo. Oggi, a distanza di quasi otto mesi, tale paventata ipotesi rischia di diventare realtà. La CGE, infatti, con sentenza del 17 luglio 2014 ha deciso le cause riunite Torresi C-58/13 e C-59/13 dichiarando legittima la condotta di chi si reca all’estero al sol fine di conseguire il titolo utile per esercitare l’attività professionale anche in Italia. I Giudici dell’Unione, discostandosi dalla sentenza Cavallera (sentenza 29.01.2009, C-311/06), che faceva ben sperare il CNF, sono giunti a conclusioni diametralmente opposte, sebbene supportate da motivazioni simili, limitandosi a ribadire che “il fatto che un cittadino di uno Stato membro che ha conseguito una laurea in tale Stato si rechi in un altro Stato membro al fine di acquisirvi la qualifica professionale di avvocato e faccia in

va dell'Unione mediante la creazione artificiosa delle condizioni necessarie per il suo ottenimento. L’impressione è che la Corte, chiamata a delineare i labili confini fra l'esercizio legittimo di una libertà fondamentale e l'abuso del diritto, non abbia voluto prendere una posizione netta, glissando sul nocciolo della questione. La CGE, infine, si è altresì espressa sulla questione relativa alla compatibilità dell'art. 3 della direttiva 98/5/CE con l'articolo 4, paragrafo 2, del TUE, che vincola l’Unione a rispettare l'identità nazionale degli Stati membri, insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale. Può una domanda di iscrizione all'albo degli avvocati stabiliti configurare un’elusione della legislazione dello Stato membro ospitante relativa all'accesso alla professione forense? Secondo la Corte no, non incidendo la direttiva sull'accesso alla professione di avvocato. Proprio su tale ultima questione potrebbe puntare il CNF per sparare le sue ultime cartucce, ipotizzando un conflitto delle norme della direttiva con l’art. 33, comma 5, della Costituzione, il quale statuisce un esame di stato per l’abilitazione all’esercizio professionale. Difatti, la c.d. teoria dei controlimiti, elaborata dalla Corte Costituzionale a difesa dei principi fondamentali del nostro Stato, prevede che la stessa possa essere investita per regolare tali conflitti. La diatriba CNF – Abodagos è tutt’altro che definita e potrebbe offrire nuovi clamorosi colpi di scena. di

PIERLUIGI IANDOLO

Tipizzazione “per quanto possibile” delle condotte ed espressa indicazione della sanzione applicabile

Disciplina rinnovata per l’esercizio della professione forense: il nuovo codice deontologico

In vigore dal 15 dicembre 2014, le norme si applicano ai procedimenti in corso, se più favorevoli all’incolpato

stato finalmente pubblicato in Gazzetta È Ufficiale (Serie Generale n. 241 del 16.10.14), con entrata in vigore il 15.12.2014,

il nuovo Codice Deontologico Forense, già approvato dal Consiglio Nazionale Forense (d’ora in poi CNF) nella seduta del 31.01.14. Il fondamento del potere disciplinare e la natura delle sue regole sono da individuarsi nella legge di riforma dell’Ordinamento Professionale (L. 247/12), che all’art. 3, all’art. 35 co. 1 lett. D) e all’art. 65 sancisce definitivamente la natura giuridica del codice deontologico e delle regole in esso contenute, individuando altresì nel CNF l’Autorità chiamata a scriverlo ed in seguito ad aggiornarlo (così eliminando ogni possibile futura invasione da parte del legislatore). Fin dall’emanazione della Legge n. 247/12 si è più volte sottolineata la stortura - tra le altre - del duplice ruolo del CNF, in questo ambito sia creatore delle norme, con potestà esclusiva, sia suo interprete. Preannunciato dal CNF come ulteriore tassello per il rinnovamento della professione, il Codice Deontologico servirebbe - secondo i proclami del Presidente Alpa - a configurare "l’Avvocato del nuovo millennio a fianco dei cittadini, delle imprese, degli organismi intermedi, con le sue capacità di assistenza e soprattutto di consiglio". L’obiettivo - come si sa - è ben lontano, anche alla luce dell’equivoco correlato alla riserva di consulenza. In ogni caso il nuovo Codice presenta una struttura diversa rispetto alla previgente disciplina del 1997 ed alle sue successive integrazioni. Nelle intenzioni si è cercato di costruire un impianto più moderno ed organico, rispondente anche al nuovo assetto ordinamentale ed alle novità disciplinari già introdotte dalle più varie fonti legislative, il tutto in ossequio ad una scelta politica ben precisa: tutelare, in ogni caso, "l’affidamento della collettività ad un esercizio corretto della professione, che esalti lo specifico ruolo dell’Avvocato come attuatore del diritto costituzionale di difesa e garante della effettività dei diritti, salvaguardandosi, al contempo, quella funzione sociale della difesa richiamata anche nelle disposizioni di apertura della L. 247/12" (si veda la Relazione illustrativa). Invero i principi generali rimangono sostanzialmente gli stessi, e l’unica sostanziale novità è da rinvenire nell’eliminazione dei canoni complementari (che formavano il precedente Codice), per effetto della tipizzazione delle condotte imposta dall’art. 3 della Legge di Riforma, e nella aggiunta delle sanzioni edittali, corredate di un sistema di aggravanti ed attenuanti del tutto simile a quello delle norme penali. Nei programmi ciò dovrebbe servire a ridurre la discrezionalità degli organi disciplinari di prima istanza, attualmente i Consigli Distrettuali di Disciplina. Con il nuovo Codice Deontologico si è provveduto a riunire in un unico testo tutte quelle novità disciplinari introdotte nel recente passato dalle più varie fonti legislative (a titolo esemplificativo il preventivo, la polizza assicurativa, l’obbligo informativo). Non vi sono pertanto particolari innovazioni relative ai comportamenti vietati, mentre la normativa sulla pubblicità informativa è stata snellita, in conformità alle disposizioni della legge professionale. Nel titolo relativo ai rapporti con i colleghi - che ripropone sostanzialmente le regole previgenti - sono stati ancor più specificate e dettagliate le norme di comportamento

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nei confronti dei propri collaboratori e praticanti, sovente disattese e di difficile controllo. Ancora una volta si è persa l’occasione per occuparsi dei numerosi avvocati in posizione di parasubordinazione rispetto al titolare dello studio, senza alcuna garanzia. Si tratta dei c.d. avvocati "sans papier", ai quali gli studi professionali presso i quali lavorano forniscono la stanza, il computer e ogni ulteriore elemento per l’esercizio della professione. Come ben si sa, tali colleghi per il fisco e la società sono liberi professionisti, lavoratori autonomi a partita iva, con tutti i rischi che la libera professione comporta; in realtà sono veri e propri lavoratori dipendenti di fatto, senza alcuna delle garanzie delle quali i lavoratori dipendenti godono. Il preteso rinnovamento della professione - anche sotto l’aspetto deontologico - continua ad ignorare tale fenomeno, che - sulla base dei dati raccolti - coinvolgerebbe non meno di cinquantamila avvocati. Ulteriori novità riguardano gli obblighi deontologici relativi al ruolo dell’Avvocato chiamato a svolgere le funzioni di arbitro o di mediatore, quelli correlati all’ascolto del minore, alla notifica compiuta direttamente dal professionista. È stato previsto un nuovo titolo dedicato ai doveri verso le Istituzioni Forensi, alla luce del rafforzamento del rapporto Avvocato / Istituzione previsto dalla Legge Professionale. L’art. 72 - ricollegandosi alla famigerata disposizione dell’art. 46 co. 10 della Legge Professionale, che prevede la pena della reclusione fino a tre anni (salvo che il fatto costituisca più grave reato) per colui che faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante gli esami di abilitazione, testi relativi al tema proposto - prevede per il responsabile la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da due a sei mesi (da uno a tre anni ove il soggetto sia commissario d’esame), ed altresì la sanzione disciplinare della censura per il candidato che nell’aula di esame riceva scritti o appunti di qualunque genere e non ne faccia immediata denuncia alla Commissione. Il titolo settimo contiene la disposizione finale, mutuata dalla legge, ma che può costituire anche appropriata ed essenziale norma di chiusura del Codice. L’art. 73 - "Entrata in vigore" - costituisce mera applicazione e riproduzione della previsione di cui al co. 4 dell’art. 3 L. 247/12, che si coniuga, quanto al regime transitorio, con quella di cui al co. 5 dellart. 65 della stessa legge, in base al quale "l’entrata in vigore del codice deontologico determina la cessazione di efficacia delle norme previgenti anche se non specificamente abrogate". Si evidenzia che proprio l’art. 65 prevede espressamente che "le norme contenute nel codice deontologico si applicano anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l’incolpato": è questa una innovazione rispetto alla giurisprudenza tanto del Consiglio Nazionale Forense quanto delle Sezioni Unite della Cassazione, ispirata all’osservanza del principio per cui tempus regit actum.

di

TOMMASO PONTASSUGLIA


Anno XL - N. 2 - Dicembre 2014

Dal 1° gennaio 2015 in vigore il nuovo regolamento del Consiglio Nazionale Forense

Avvocati … quale formazione?

È preferibile esaltare il contenuto e la libertà di scelta piuttosto che l’eccessiva burocratizzazione

n avvocato lo vedi anche dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia, ma soU prattutto lo vedi dall’atto.

È il titolo con cui è stato presentato un incontro di formazione (e non di informazione come ha precisato il relatore che ha aperto l’evento) sulle tecniche di scrittura forense, tenutosi presso il Tribunale di Milano. Il titolo mi ha incuriosito e ancor di più il contenuto dell’articolo, pubblicato su ‘Diritto e Giustizia’. L’evento ha avuto ad oggetto una simulazione processuale su una fattispecie reale offrendo importanti spunti di riflessione sulle modalità di scrittura dell’atto alla luce dell’introduzione del processo civile telematico che pone il Giudice, come le altre parti del processo, dinanzi ad una nuova modalità di lettura dell’atto. Leggendo con curiosità l’articolo ho ripensato ai regolamenti attuativi della nuova legge professionale (n. 247 del 2012), approvati o in fase di approvazione. Il regolamento per la formazione continua (approvato dal CNF nella seduta del 16.7.2014) nella prima parte “si spende” con grande pregio ed attenzione nella definizione della formazione continua, distinguendo tra attività di aggiornamento (diretta all’approfondimento delle conoscenze acquisite) ed attività di formazione (caratterizzate dall’acquisizione di nuove conoscenze); conferma il sistema del credito formativo quale unità di misura del carico di studio e dell’impegno necessario; riconosce che le attività formative possano essere promosse da soggetti pubblici e privati; prevede che ogni attività formativa debba ricevere l’accreditamento e la contestuale attribuzione di crediti da parte del CNF e dei COA; introduce l’attestato di formazione continua, attribuendo rilevanza sotto il profilo disciplinare alla violazione dell’obbligo di formazione.

Il Regolamento sui corsi per l’iscrizione all’albo speciale per il patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori (adottato dal CNF in data 16.7.2014) prevede che il corso, la cui lodevole e proficua frequenza è condizione necessaria per l’iscrizione nel predetto albo, ha durata trimestrale e si svolge prevalentemente a Roma (solo una parte presso sedi decentrate), vi si accede dopo il superamento di una prova selettiva, è necessario il versamento di un contributo, è prevista una prova finale di idoneità che si svolgerà a Roma. E allora la curiosità e l’entusiasmo che mi hanno sollecitato l’articolo e la voglia di accettare le nuove sfide che le riforme pongono all’Avvocatura si sono infrante dinanzi a crediti formativi, attestati, test, corsi “romani”, prove di verifica, contributi in denaro … niente insomma che abbia veramente a che fare con la fantasia che suggerisce all’Avvocato come formarsi, come aggiornarsi, con la passione che fa scegliere il percorso migliore per il proprio modo di vivere ed interpretare l’essere Avvocato, con la formazione, quella che si costruisce ogni giorno sui libri, sui documenti, nelle aule giudiziarie e sulle persone con cui si entra in contatto. Perché non valorizzare il contenuto e la libertà di scelta, perché non attribuire valore all’esperienza concreta piuttosto che esaltare la “burocratizzazione” della formazione, perché non cambiare prospettiva all’obbligo di formazione? Tutto ciò anche nel rispetto del principio di libera concorrenza che la Corte di Giustizia Europea non perde occasione di richiamare. di

A Venezia bocciate tutte le mozioni di modifiche statutarie

Mirella Casiello alla guida dell’O.U.A.

"Avvocati-truffatori", dai media ancora attacchi all’Avvocatura uoni, lampi, fulmini e saette hanno T preceduto il Congresso Nazionale di Venezia, ma non hanno colpito l’Organi-

smo Unitario dell’Avvocatura. Una volta tanto tuonò, ma non piovve! Con l’entrata in vigore della nuova legge professionale, il Congresso rappresentava l’occasione per la nascita del nuovo organismo politico alla stregua dell’art. 39 della L. 247/12. I tavoli di concertazione, le riunioni giacobine, i moti carbonari e i proclami non hanno partorito altro che sei diverse mozioni statutarie proposte da associazioni e ordini arroccati sulle loro posizioni con la logica conseguenza che nessuna di queste ha raggiunto il quorum per essere approvata. Anche i disperati tentativi di trovare un punto d’incontro nei momenti immediatamente antecedenti il voto, hanno cozzato contro le gelosie e l’indisponibilità dei singoli proponenti che pervicacemente hanno anteposto la loro

cessità di un organismo unico che ci rappresentasse politicamente. È stato necessario dover ricorrere ad una legge perché all’organismo politico si riconoscesse la rappresentanza dell’Avvocatura. Ma si sa, la rappresentatività bisogna anche guadagnarsela e ad oggi l’O.U.A., per colpe spesso non sue, non vi è riuscito. Atteso il deplorevole ostracismo degli Ordini nei confronti di quell’organismo (lO.U.A.) che loro stessi avevano creato e giurato di far crescere, la possibilità di inserire stabilmente alcuni loro rappresentanti, avrebbe potuto essere quella via mediata per consentire allo stesso organismo di acquisire la famosa, perduta rappresentatività. Così non è stato. Allora non resta che rimboccarsi le maniche e lavorare. Le premesse per ben operare ci sono. Mirella Casiello, eletta presidente del "sopravvissuto" organismo è persona capace e volitiva. Alle sue spalle ha creato una

LOREDANA PAPA

La Corte di Cassazione dirime i dubbi sugli adempimenti telematici delle cancellerie

La notifica ai tempi della PEC La comunicazione per esteso della sentenza non influisce sui termini per l’impugnazione

sentenza integrale inviata via pec dalla Cancelleria non fa decorrere il termine Labreve per impugnare. Tra i corridoi del Tribunale i dubbi si moltiplicano: "notifica o mera comunicazione

del provvedimento da parte della cancelleria?", "termine breve o termine lungo per l'appello, dopo la pec della cancelleria?", "e se invece mi viene notificato il solo dispositivo?", "Come farà la controparte a dimostrare che io abbia avuto piena conoscenza del provvedimento?". L'Avvocatura dei dubbi...tanti! Ma d'altra parte...dubito ergo sum! Modificando l'art. 133, co. 2 cpc, il D.L. "Orlando" n. 90/2014 (art. 45) ha disposto che la comunicazione di cancelleria avente ad oggetto la sentenza non sia più limitata ai soli dispositivi ma alla versione integrale del provvedimento. La differenza tra comunicazione e notificazione non è di poco conto - ha evidenziato l’Avvocatura - dal momento che, portando formalmente a conoscenza del destinatario la sentenza integrale del giudice, la cancelleria effettua una notificazione; e così, ex art. 326 cpc, quest’ultima può essere ritenuta idonea a far decorrere il termine breve. Ancora una volta è intervenuta (per tempo) la Corte di legittimità: "il fatto che ora la Cancelleria invii ai procuratori delle parti, la sentenza per esteso attraverso la posta elettronica certificata, non cambia le norme preesistenti in materia dei termini per impugnare" (ordinanza del 5.11.2014). Insomma, il termine breve per proporre appello continua a decorrere unicamente dalla notifica del provvedimento giudiziale da parte dell'Avvocato. Forza Colleghi. di C'è tempo per l'appello!

MARIAVALENTINA DE RENZO SIMONA DE NAPOLI

visibilità e brama di potere agli interessi dei singoli avvocati che in teoria dovrebbero rappresentare. La posizione del Consiglio dell’Ordine di Bari è nota. Cavalcando slogan sull’esorbitante costo dell’O.U.A. per le tasche degli avvocati (in realtà pari a soli 5 euro annui), il COA distrettuale pugliese ha, con i delegati di suo riferimento (non quelli del Sindacato), sostenuto infruttuosamente la necessità di un nuovo organismo a mio modo di vedere elitario e non rappresentativo in quanto composto esclusivamente da Presidenti dei Consigli dell’Ordine. La chiave di lettura del risultato raggiunto dal Congresso è, come al solito, duplice. Di certo vi è che per l’ennesima volta è emersa una Avvocatura spaccata ed incapace di far fronte comune. Non mi sento di condividere l’entusiasmo manifestato soprattutto dai movimenti forensi per così dire meno tradizionali, sorti nell’ultimo periodo specie sul web, che hanno gioito per la vittoria a loro dire, della democrazia. È certamente vero che i modelli di organismo sviluppati nelle mozioni proposte prevedevano al loro interno delle quote, ovvero dei posti riservati alle associazioni ed agli ordini, quindi con dei rappresentanti eletti non attraverso il voto ma con cooptazione per grazia ricevuta; ma ciò pur rappresentando un vulnus per un voto democratico, costituisce con ogni probabilità, il male minore per poter giungere alla formazione di un organismo politico finalmente forte e rappresentativo. Ho più volte lamentato che molti Ordini non hanno tenuto fede al patto suggellato circa venti anni or sono sulla ne-

paginatre

squadra con voglia di fare e comunque ansiosa di provarci: augurateci, auguriamoci buona fortuna. Si parte già col botto. Sul ‘Corriere della Sera’, Luigi Ferrarella ha pubblicato un articolo intitolato "Il processo punta sugli arbitri ma sono corruttibili". In sostanza, il giornalista ritiene che gli avvocati nominati arbitri potrebbero essere facilmente corruttibili non potendosi configurare nei loro confronti il reato di corruzione non essendo Pubblici Ufficiali. Pronta la protesta dell’O.U.A. e dell’Ordine di Firenze per mezzo dei rispettivi presidenti; non mi risulta, ad onor del vero, che altri Ordini abbiano fatto sentire la loro voce. Esigenze di spazio non mi consentono di contestare adeguatamente l’ennesima inammissibile fandonia. Non posso però tacere dal riferire che il giornalista abbia peggiorato la sua posizione, dichiarando che l’articolo era stato travisato e che non era sua intenzione muovere una critica all’avvocatura. Oltre che truffatori, evidentemente, il giornalista ci ritiene pure idioti. L’articolo ha un solo ed univoco significato, quindi se mai fosse vero che non debba leggersi quello che invece vi è chiaramente scritto, allora vuol dire che questo giornalista le scuse avrebbe dovuto porgerle non agli Avvocati ma all’ordine dei giornalisti al quale credo non sia degno di appartenere per manifesta incapacità. di

ANTONIO BELLOMO


LA NOSTRA SQ DM 170 del 10.11.14: un pasticcio tra tutela delle minoranze e rispetto della parità di genere

PRIMA LE REGOLE. POI IL GIOCO.

Il Sindacato Avvocati Bari ha impugnato il regolamento elettorale dinanzi al TAR Lazio - Roma

on la tornata prevista per il mese di gennaio C 2015 fa il suo debutto il nuovo regolamento elettorale emanato dal Ministero di Giustizia con il

DM n. 170 del 10.11.2014 (pubblicato in GU n. 273 il 25.11.2014), secondo quanto previsto dalla nuova legge professionale (L. 247/12). Il Sindacato Avvocati di Bari, con i Colleghi Emilio Toma e Loredana Papa, ha impugnato il regolamento dinanzi al TAR Lazio con ricorso notificato in data 5.12.2014 e depositato in data 9.12.2014. In sintesi: l’art. 28 della legge n. 247/2012 prevede che: 1. il consiglio dell’ordine è composto da un numero di membri che varia da cinque fino a venticinque, a seconda del numero degli iscritti (comma 1); 2. i componenti del consiglio sono eletti dagli iscritti con voto segreto in base a regolamento adottato ai sensi dell’art. 1 e con le modalità nello stesso stabilite. Il regolamento deve prevedere, in ossequio all’art. 51 della Costituzione, che il riparto dei consiglieri da eleggere sia effettuato in base a un criterio che assicuri l’equilibrio tra i generi. Il genere meno rappresentato deve ottenere almeno un terzo dei consiglieri eletti. La disciplina del voto di preferenza deve prevedere la possibilità di esprimere un numero maggiore di preferenze se destinate ai due generi. Il regolamento provvede a disciplinare le modalità di formazione delle liste … (comma 2); 3. Ciascun elettore può esprimere un numero di voti non superiore ai due terzi dei consiglieri (comma 3). Il regolamento n. 170 del 2014, nonostante le osservazioni contrarie sul punto delle commissioni Giustizia di Camera e Senato, prevede il voto di lista e che “…le liste possono recare l'indicazione dei

nominativi fino ad un numero pari a quello complessivo dei consiglieri da eleggere nella sola ipotesi in cui i candidati appartengano ai due generi ed a quello meno rappresentato sia riservato almeno un terzo dei componenti della lista, arrotondato per difetto all'unità inferiore…” e che “…nella sola ipotesi di voto destinato ai due generi, le preferenze possono essere espresse in misura pari al numero complessivo dei componenti del consiglio da eleggere, fermo il limite massimo dei due terzi per ciascun genere…”. A nostro avviso, la fissazione di un numero massimo di voti a disposizione di ciascun elettore pari ai due terzi dei componenti del consiglio da eleggere - costituisce norma che evidenzia la volontà del legislatore di imporre un sistema di voto che garantisca la composizione “plurale” del consiglio dell’ordine forense così valorizzando e garantendo anche le (possibili) candidature singole e nel contempo evitando che il consiglio risulti espressio-

ne totale di un’unica cordata elettorale. Il Regolamento ha evidentemente violato tale disposizione avendo consentito all’elettore sia l’espressione di un numero di preferenze in misura pari al numero complessivo dei componenti del consiglio da eleggere (art. 9, comma 5) che, soprattutto (art. 9 comma 4), l’espressione del voto alla lista (con attribuzione dello stesso a tutti i suoi componenti che potrebbero, sempre per espressa previsione del regolamento, essere pari agli eligendi). Ne consegue che - laddove la lista fosse composta da un numero di candidati pari agli eligendi, come consentito dall’articolo 7, comma 1 - il Consiglio potrebbe risultare espressione di un’unica lista e verrebbe, così, del tutto obliterata la previsione normativa di cui al prefato art. 28 comma 3 che, viceversa, presuppone una composizione pluralistica del Consiglio con il riconoscimento di un diritto di tribuna per le candidature non afferenti la lista i cui componenti dovessero risultare i più suffragati. Inoltre, il DM ha violato la norma di cui all’art. 28 della legge n. 247/2012 a tutela del genere meno rappresentato, nonché le disposizioni costituzionali e di legge sulla parità di genere, dettando una disciplina di voto che di fatto non garantisce affatto la presenza in consiglio di un numero di componenti, appartenente al genere meno rappresentato, pari a due terzi, e ponendo un arrotondamento “per difetto all’unità inferiore” contrario alla legge. Infine, la legge n. 247/12 solleva un dubbio di legittimità costituzionale, che si rifrange sulla legittimità del regolamento, in parte qua, sotto il profilo della violazione da un lato della parità di opportunità di accesso ai pubblici uffici e alle cariche elettive dei cittadini di entrambi i sessi, dall’altro del rispetto del voto e dell’uguaglianza del voto espresso dall’elettore. Se è invero pacifico che in ogni procedimento di scelta (sia esso nomina o elezione) di organi pubblici debba essere rispettato il principio della parità di genere tale principio va contemperato con il diritto di scelta dell’elettore attraverso l’espressione del voto che deve essere uguale e quindi valere nella stessa misura indipendentemente se sia stato espresso nei confronti di un genere o dell’altro. È del 10 dicembre scorso l’indizione delle elezioni per il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bari, previste per i giorni 21, 22 23 e 24 gennaio 2015, e dunque ora c’è attesa per la decisione che il TAR Lazio di Roma dovrà adottare, in particolare in ordine alla richiesta di sospensiva dell'applicazione del regolamento ex DM 170/14. Anche l’ANF Associazione Nazionale Forense, cui il Sindacato di Bari aderisce, ha autonomamente adito il giudice amministrativo: “È una decisione che si è resa inevitabile - ha commentato il suo segretario generale Avv. Ester Perifano - in quanto il regolamento è una sorta di ‘Italicum’ in salsa forense, di cui ripropone le storture, con candidature calate dall’alto e meccanismi che favoriscono le maggioranze bloccate”. Per l'ANF è grave e preoccupante che il Ministero della Giustizia non abbia inteso ascoltare i pareri delle associazioni forensi e addirittura quelli delle Commissioni Giustizia del Senato e della Camera, ed abbia invece fissato delle regole che contrastano in modo palese con la legge di riforma forense oltreché con i princìpi costituzionali della rappresentanza. Il regolamento del 10 novembre scorso è un pasticcio che mal contempera il rispetto del principio della tutela delle minoranze con quello della parità di genere e non poteva non essere impugnato. L’importante è conoscere a monte le regole del gioco e poi partecipare. La parola spetta ora al TAR e al Consiglio di Stato. Elle.Pi.

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VULCANO Pierluigi

ALTAMURA Filomena

BONASIA Nicola

CICIOLLA Leonardo

DE NAPOLI Simona

DE RENZO Mariavalentina

NOTARISTEFANO Giovanni

NUZZO Tiziana

PEZZUTO Antonella

POLITO Francesco Saverio


UADRA DI PRIM’ORDINE

Perché il voto al Sindacato Avvocati di Bari

AMODIO Francesco

BARILE Pasquale

BENTIVOGLIO Giuseppe Alessandro

CONVERTINO Antonella

D’AUTILIA Alberto

DE LEONARDIS Daniele

Per il recupero della centralità del Foro barese e per la fine del suo isolamento in ambito regionale e nazionale. Per una pari dignità per il ruolo dell’avvocato fuori e dentro la giurisdizione. Per un SI ad una previdenza equa e solidale, d’aiuto ai più giovani e ai/alle colleghi/e in difficoltà; per un NO all’epurazione dagli albi. Per il pluralismo dell’offerta formativa obbligatoria per l’accesso allalbo. Per un SI allaggiornamento e formazione qualificata e qualificante; per un NO alla semplice distribuzione di crediti. Per la trasparenza e la terzietà nell’attribuzione degli incarichi di spettanza del Consiglio. Per una pari dignità per gli avvocati iscritti negli albi speciali. Per il dialogo con la Pubblica Amministrazione e la politica per una sede unica degli uffici giudiziari. Per Bari capitale giuridica. Per un’interlocuzione diretta all’individuazione e all’erogazione di strumenti finanziari che agevolino l’avvio dell’esercizio professionale. Per una presenza qualificata negli organismi dell’amministrazione giudiziaria. Per l’attuazione della mozione congressuale di Bari sulle modifiche da apportare alla legge professionale. Per un forte sostegno all’organismo di rappresentanza politica ex art. 39 L.P.. Per tutele e più servizi a favore di tutti i Colleghi e di tutte le Colleghe.

Alle elezioni con la propria lista (segue dalla preima pagina)

DIGENA Giuseppe

PAPA Loredana

PONTASSUGLIA Tommaso

FLORO Vincenzo

PAVONE Lucilla

PUTIGNANO Nicola

MARINO Luigi

PENNETTA Antonio Fabio

RANIERI Claudia

vita ad un organismo diverso da quello ex art. 39 della legge n. 247/12, che trascenda la realtà locale dal quale provengono e contrasti un Consiglio Nazionale Forense che domina incontrastato nell'ordinamento forense, salva sempre l'ipotesi di "occupare" il CNF e realizzare per altra via il loro progetto. Questo é il gioco, piaccia o non piaccia. E di Avvocatura, del suo ruolo fuori e dentro la giurisdizione, delle difficoltà in cui versa, del mercato, dell'Europa, dei giovani, della previdenza, nessuna traccia. Né a Venezia, né nei mesi successivi, né in un futuro prossimo. E il solito ritornello si ripete quando si tratta di designare i componenti del consiglio nazionale forense, di individuare i delegati per la cassa, di "votare" per il consiglio distrettuale di disciplina, per la composizione delle curie regionali, di indirizzare l'andamento di un congresso. Il ruolo del consiglio dell'ordine (questo é il secondo elemento in comune) é delicato perché da esso muove tanto a livello locale e a livello nazionale. In questo contesto si inseriscono le elezioni di gennaio, le prime ai sensi della nuova legge. Importanti perché segnano il futuro di un foro per quattro anni. E l'Avvocatura di base che scalpita e, più in generale, tutti i Colleghi hanno una grande possibilità. Quella di esercitare il diritto di voto. E quella di mettersi in gioco presentandosi come una possibile alternativa allo status quo. Pochi sono i fori (e il nostro lo è) dove vivacità e confronto sono sintomi di vitalità. Molti sono i fori in cui la discussione è schernita, sterilizzata, accomodata. Ma in tutti i fori, però, giurisdizione, processo, modernità e Avvocatura fanno i conti con una realtà che muta velocemente, che impone cambi di rotta, che lascia indietro i più giovani, i più meritevoli ma meno fortunati, la generazione dei quarantenni. In questo contesto e in vista delle elezioni di gennaio, il Sindacato Avvocati si presenta al foro barese con la sua lista e con una squadra di prim’ordine. Alla presidenza di Pierluigi Vulcano e agli amici e colleghi candidati che lo affiancano nella tornata elettorale il compito di attuare un programma ambizioso, in linea con l’impegno profuso da sempre dal Sindacato Avvocati Bari in termini di tutela, decoro e dignità dell’Avvocato. Tutti noi crediamo che rinnovamento e cambiamento siano il modo migliore per garantire trasparenza, apertura e partecipazione.

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Luigi PANSINI


Anno XL - N. 2 - Dicembre 2014

Nuove problematiche legate all’entrata in vigore del processo telematico

Tra il dire ed il fare c’è di mezzo il mare D

noscenza? Oppure il cancelliere o il magistrato nulla può? Oppure è il SICID che deve provvedervi? Ai posteri la sempre più ardua sentenza. di

Un percorso ad ostacoli tra norme, giurisprudenza e pratica quotidiana

IRE: giurisprudenza. Troppo presto per cristallizzare con l’auspicio della oramai desueta nomofilachia (riferita impropriamente ai Tribunali) la “giurisprudenza telematica”. Dopo alcune ferree pronunzie in ordine alla perentorietà di forme (vedasi la forma degli atti principali in formato pdf editabile piuttosto che mere scansioni di immagini) nonché alla nullità di atti non previsti come le costituzioni nei giudizi (salvo il noto ricorso per D.I.) è apparso il sole. Infatti, appare snellente la pronuncia

del Tribunale di Vercelli, ordinanza del 31 luglio 2014, secondo cui può legittimamente depositarsi un atto introduttivo di un giudizio pur in assenza di decreto della DGSIA ex art. 325 DM n. 44/2011, trattandosi di mera irregolarità e, comunque, di nullità sanata dal raggiungimento dello scopo. Alle medesime conseguenze, e per le stesse ragioni giuridiche, soggiace il deposito telematico di atto principale in pdf immagine (cioè stampato e scansionato) anziché pdf testuale, che è appunto affetto da mera irregolarità o, semmai, da nullità sanabile e perciò mai da inammissibilità. MARE: passiamo alla teoria. Il decreto “Orlando” sul PCT pubblicato nella Gazzetta Ufficiale (n. 144 del 24/06/2014) è il

Direzione, Redazione, Amministrazione: 70123 Bari, Palazzo di Giustizia, Piazza E. De Nicola (6° piano) tel 0805798198

aderente all’ASTAF (Associazione Nazionale Stampa Forense) Direttore Editoriale Francesco Maione Direttore Responsabile Luigi Pansini Vice Direttore Giovanni Cavalli

Hanno collaborato: Antonio Bellomo, Giuseppe Alessandro Bentivoglio, Vincenzo Bonifacio, Leonardo Ciciolla, Simona De Napoli, Mariavalentina De Renzo, Pierluigi Iandolo, Maxime Manzari, Loredana Papa, Claudia Ranieri, Tommaso Pontassuglia, Pierluigi Vulcano Iscritto al n. 379 del Registro dei giornali e periodici del Tribunale di Bari giusto Decreto Presidenziale del 16 agosto 1969 Sindacato Avvocati: tel./fax 080 5798198 www.sindacatoavvocatibari.it info@sindacatoavvocatibari.it avv.maione@tiscali.it Realizzato presso: LEVANTE EDITORI srl - Via Napoli 35 - BARI

decreto legge (n. 90) contenente “misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari. Per quello che ci interessa, il Capo II (art. 44 e ss.) è quello che tratta il PCT. Cosa prevede: - La rateizzazione del PCT. Il PCT sarà obbligatorio per i procedimenti instaurati in Tribunale a far data dal 30 giugno 2014, mentre per quelli già pendenti a tale data esso sarà facoltativo fino al 30 dicembre 2014 (per poi diventare obbligatorio dal 31/12/2014). Ma attenzione ai i procedimenti già pendenti al 30/06/2014, poiché è possibile anticipare l’obbligatorietà del PCT mediante DM Giustizia (co. 2 art. 44 cit.) e probabilmente - visto che vi sono dubbi interpretativi - l’obbligo o la facoltà del deposito telematico viene subordinata alla emanazione di decreti DGSIA (Direzione generale dei sistemi informativi automatizzati) tanto ai sensi dellart. 35 DM n. 44/2011. Vi consiglio quindi di verificare, asseconda dell’ufficio da utilizzare, quanto previsto per ciascun ufficio sul portale dei servizi telematici del ministero www.pst.giustizia.it (per il Tribunale di Bari si veda lo schema riepilogativo riportato nel box) Per le Corti dappello. ex comma 9-ter all’art. 16 bis DL 179/2012, il DL “Orlando” cit. (art. 44 co. 2) si statuisce che “con decorrenza dal 30 giugno 2015 nei procedimenti civili, contenziosi o di volontaria giurisdizione, innanzi alla corte di appello, il deposito degli atti processuali e dei documenti da parte dei difensori delle parti precedentemente costituite ha luogo esclusivamente con modalità telematiche“, il tutto con la solita "possibilità" di anticipazione dei termini ma questa volta a mezzo di “uno o più decreti aventi natura non regolamentare, da adottarsi sentiti l’Avvocatura generale dello Stato, il Consiglio nazionale forense ed i consigli dell’ordine degli avvocati interessati, il Ministro della giustizia, previa verifica, accertata la funzionalità dei servizi di comunicazione”. - Non mancano le eccezioni, come quella prevista per i difensori delle pubbliche amministrazioni. Infatti ex art. 44 co. 2 le pubbliche amministrazioni costituite in giudizio personalmente a mezzo dei propri dipendenti sono "esonerate" dall’"obbligatorio PCT ". Potremmo chiederci cosa sia previsto per i comuni cittadini che, per alcuni giudizi, potrebbero non avere l’obbligo dell’assistenza di un legale (vedi art. 417 cpc). - Il deposito di buste multiple. Il noto problema di non poter "appesantire " le oramai note buste XML (file allegato alle PEC con cui ci si interfaccia con il PCT) è stato risolto. Quando il file eccede il limite di capacità della busta (30 MB, anzi in realtà 25 MB) si può procedere ad un invio di buste multiple anche in fase di costituzione essendo, di contro, già previsto l’invio multiplo per le memorie 183 cpc. - Dispositivo o sentenza? L’art. 133 co. 2 cpc, ora prevede che le cancellerie comuni-

chino non già il mero dispositivo bensì l’integrale sentenza. - Verbale di udienza. La modifica dell’art. 126 co. 2 cpc e dell’art. 207 co. 2 cpc ha comportato l’eliminazione dell’obbligo di sottoscrizione del verbale da parte dei terzi (CTU, testi, ecc.) eliminando il problema dell’uso della firma digitale da parte di soggetti che a tanto non sono obbligati e creando così i presupposti per giungere all’agognato verbale d’udienza telematico. - L’ orario del deposito. Il deposito telematico può essere effettuato entro le ore 24 del giorno di scadenza (non più ore 14,00). - Notifiche telematiche in proprio, marche ed autentiche. Eliminata l’autorizzazione del Consiglio dell’ordine, non più necessaria per le notifiche in proprio a mezzo PEC, ora non si è più neanche tenuti all’apposizione delle marche per la regolarità delle notifiche telematiche in proprio. Risolto inoltre (forse) il nodo relativo al termine per la validità relativa alla tempistica delle notifiche telematiche. - Novità economiche e l’autentica delle copie. Ex comma 9 bis all’art. 16 bis, salvo che per i documenti, tutti gli altri file degli atti e dei provvedimenti del fascicolo d’ufficio informatico “equivalgono all’originale”. Ergo, l’avvocato costituito e i cancellieri possono autenticare ed anzi dichiararne la conformità ai detti atti telematici con, si badi bene, esenzione dal pagamento delle marche per diritti di copia. Una chicca per il famigerato contributo unificato: se la parte intende evitare qualsiasi accesso alle Cancellerie, potrà pagare il Contributo Unificato mediante pagamento telematico, versamento su C/C postale o modello F23. Se si paga con marche, il procuratore della parte dovrà provvedere alla scansione della marca per inserirla nel fascicolo informatico e, successivamente, recarsi presso l’Ufficio giudiziario per consentire l’annullamento della marca. Altre ancora sono le modifiche e/o conferme come l’indicazione della PEC nell’atto di costituzione in giudizio. FARE. Dalla teoria alla pratica che sono, sfortunatamente, assolutamente alternativi. Sarà capitato a più di un avvocato una comunicazione, anche a mezzo PEC, così concepita: “INSERITA ANNOTAZIONE (oggetto: acquisizione documentazione cartacea)”. Comunicazione questa, pervenuta nell’ambito di un (obbligatorio) deposito telematico di un ricorso per DI, motivata dal fatto che, udite udite, il giudice assegnatario, non ha “la consolle telematica”. Vi sarà anche capitato di ricevere una PEC, per esempio con notifica di un provvedimento di rigetto di un ricorso per D.I. ma senza allegato. Questo, proprio perché il magistrato, ha vergato il provvedimento, sempre per assenza della citata consolle telematica. E così via. In CONCLUSIONE, come sempre ci barcameniamo tra norme, giurisprudenza e pratica. Per come la vedo io, il problema maggiore concerne quello che realmente gli uffici fanno o, meglio, possono fare. L’obbligatorietà del PCT non doveva e non deve essere imposta solo agli avvocati ma alla stessa PA e questo non solo in linea teorica (visto che le norme sono già obbligatorie per gli uffici) ma anche in linea pratica altrimenti bene farà (il Ministero) ad emanare uno di quei soliti avvisi come, per esempio: “il Ministero della Giustizia comunica che a causa di improrogabili interventi di manutenzione, il sito web del Portale dei Servizi Telematici non sarà disponibile oggi 24 gennaio 2014, dalle ore 14 alle ore 18 circa” Perché allora non si usano questi avvisi per tutte le manchevolezze degli “uffici informatici”? Forse il Ministero non ne è a co-

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LEONARDO CICIOLLA

Sovvertito l’onere della prova a carico del paziente

Gli interventi della giurisprudenza sulla malpractice medica

Anche i giudici di merito sono per la limitazione della responsabilità risarcitoria

N

el 2011 sono partite dagli studi legali 31.500 denunce contro i camici bianchi per i presunti danni causati da ricoveri, interventi o terapie errate. Probabilmente questo proliferare di attività ha indotto il legislatore a introdurre l’art. 3 della L. 8.11.2012 n.189, che ha convertito il decreto Balduzzi, stabilendo che l’esercente la professione sanitaria non risponde per colpa lieve, purché si attenga alle linee guida scientifiche. Tale disposizione normativa deve avere influenzato la recente giurisprudenza di merito. Essa, per conseguenza, ha determinato, secondo la IV sez. della Cassazione (sent. 16237/2013), la parziale abrogazione dei fatti colposi lievi commessi dai medici, ferma la possibilità per il danneggiato di avvalersi dell’art. 2043 del codice civile. Con la recente sentenza dell’8.8.2014, il Tribunale di Milano ha dettato, forse anche fin troppo frequentemente, gli indirizzi a tutti i giudici di merito, rivisitando la ripartizione dell’onere della prova. Sulla scia della sentenza delle S.U. 577/2008, infatti, ha deciso che incombe sul medico la prova di essersi attenuto alle linee guida professionali e quindi alla perizia. Sul paziente, invece, grava “l’onere della prova degli emendamenti costitutivi di tale fatto illecito, del nesso di causalità, del danno ingiusto e della imputabilità soggettiva”. I giudici di merito hanno interpretato la detta disposizione normativa alla luce del chiaro intento del legislatore di restringere e di limitare la responsabilità risarcitoria derivante dall’esercizio della professione sanitaria. Il Tribunale di Milano ha ribadito anche l’orientamento inerente la differenza fra l’azione di responsabilità contrattuale nei confronti della struttura sanitaria e quella extracontrattuale nei confronti del medico. Nel primo caso, la prescrizione estintiva del diritto del paziente è di dieci anni, mentre nel secondo caso è di soli cinque anni. I mass media hanno parlato di una sentenza rivoluzionaria, in linea con la cosiddetta medicina difensiva. La citata sentenza di merito, però, si discosta dal costante orientamento pluridecennale del Supremo Collegio per il quale sul paziente grava solo l’onere della prova del contratto sociale con la struttura sanitaria, mentre sul medico ogni altra prova. Tale orientamento avrà seguito o risulterà una isolata interpretazione della legge? Per saperlo dobbiamo attendere nuove decisioni. di

CLAUDIA RANIERI


Anno XL - N. 2 - Dicembre 2014

La corte di legittimità, con una recente pronuncia, attribuisce rilevanza all’ordine pubblico interno

La durata triennale della convivenza coniugale e la delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale

P

rovocando grande fervore, la Cassazione SS. UU. n. 16379 del 3 dicembre 2013/17 luglio 2014 ha attribuito, ancora una volta (cfr. Cass. SS. UU. 19809/2008 – Cass. n. 1343/2011; Cass. n. 9844/2012), rilevanza alla convivenza coniugale, indicandola quale ostacolo alla delibazione per contrasto con l’ordine pubblico interno. Nello specifico, lorgano giudicante si è espresso enunciando seguente principio: “la convivenza come coniugi, protrattasi per almeno tre anni dalla data di celebrazione del matrimonio concordatario regolarmente trascritto, connotato nell’essenziale listituto del matrimonio nell’ordinamento italiano, è costitutiva di una situazione giuridica disciplinata da norme costituzionali, convenzionali ed ordinarie, di ordine pubblico italiano …. è ostativa della dichiarazione di efficacia nella Repubblica italiana delle sentenze definitive della nullità del matrimonio accertato e dichiarato dal giudice ecclesiastico nell’ “ordine canonico” nonostante la sussistenza di detta convivenza coniugale”. Ricordiamo che ai sensi dell’art. 8.2 dell’Accordo di Villa Madama del 1984 (l. n. 121 del 1985), la sentenza di nullità matrimoniale dichiarata dai Tribunali Ecclesiastici e resa esecutiva dal Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, può ot-

Il matrimonio-rapporto è manifestazione di un insieme di diritti inviolabili ed inderogabili tenere riconoscimento nel nostro ordinamento con procedimento reso dinanzi alla Corte dAppello competente per territorio, su istanza delle parti o di una di esse, quando quest’ultima accerti: 1) che il Giudice ecclesiastico era il giudice competente a conoscere della causa; 2) che sia stato assicurato, nel Tribunale ecclesiastico, il diritto di agire e resistere in giudizio; 3) che ricorrano le altre condizioni richieste dalla legislazione italiana per la dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere tenendo conto della specificità dell’ordinamento canonico, e purché non siano contrarie all’ordine pubblico italiano (art. 64, lett. g, L. 218/1995; Corte Cost. 18/82; art. 8.2, lett. c, Accordo) inteso, quest’ultimo, come l’insieme delle regole fondamentali poste dalla Costituzione e delle leggi a base degli istituti giuridici in cui si articola l’ordinamento positivo nel suo perenne adeguarsi all’evoluzione della società. Venuta meno la riserva di giurisdizione in materia di nullità matrimoniale (art. 34 Patti Lateranensi), nonché l’automatismo del riconoscimento delle

sentenze ecclesiastiche, quindi, solo se le fattispecie concrete decise in sede canonica superano il raffronto con l’ordine pubblico interno, le sentenze che le riguardano possono produrre i loro effetti in Italia. In caso di contrasto manifesto con i valori propri del sistema normativo interno, le sentenze degli altri ordinamenti e i loro effetti non possono riconoscersi in Italia. Per quanto rileva in questa sede, le Sezioni Unite, operando una netta distinzione tra matrimonio-atto e matrimonio-rapporto,

Dichiarato parzialmente incostituzionale l’art. 32 del dpr 600/1973

I prelievi bancari del professionista non sono più considerati “nero”

I

Finalmente abrogata una norma che poteva mettere in difficoltà anche l’avvocato nei confronti del Fisco

prelievi dal conto bancario da parte di professionisti ed autonomi senza giustificazione non possono essere più considerati automaticamente compensi in nero. La novità arriva dalla sentenza n. 228/2014 della Corte Costituzionale che ha bocciato la presunzione relativa ai titolari di reddito di lavoro autonomo. L’art. 32, comma 1, numero 2), secondo periodo del DPR 600/1973 stabiliva che i prelievi bancari dei professionisti, ove non fossero giustificati, ovvero senza indicazione del beneficiario, si intendevano compensi non dichiarati, parificando, così, il reddito dei lavoratori autonomi al reddito dimpresa. Secondo questa norma assurda e senz’altro irrazionale l’avvocato, per esempio, che prelevava una somma di danaro dal bancomat per fare un regalo, se non avesse avuto l’accortezza di conservare lo scontrino, sarebbe potuto incappare nell’accertamento da parte del Fisco che avrebbe potuto considerare quel prelievo alle stregua dei ricavi. Finalmente, sollevata la questione di legittimità costituzionale da parte della Commissione Tributaria del Lazio, la Corte Costituzionale con la suddetta sentenza ha dichiarato l’illegittimità di tale disposizione limitatamente, appunto, ai professionisti. In motivazione la Consulta sottolinea che, benché le figure dell’imprenditore e del lavoratore autonomo siano per molti versi affini nel diritto interno come nel diritto comunitario, esistono specificità di quest’ultima categoria che inducono a ritenere arbitraria l’omogeneità di trattamento prevista dalla disposizione censurata.

L’equiparazione delle due figure di contribuenti faceva sì che, anche per i lavoratori autonomi, in assenza di giustificazione, doveva ritenersi che la somma prelevata, non contabilizzata o non fatturata, fosse stata utilizzata per l’acquisizione di fattori produttivi e che tali avrebbero prodotto beni o servizi a loro volta venduti, appunto, “a nero”. La sentenza n. 228/2014 della Consulta precisa che “l’attività svolta dai lavoratori autonomi, al contrario, si caratterizza per la preminenza dell’apporto del lavoro proprio e la marginalità dell’apparato organizzativo; tale marginalità assume poi differenti gradazioni a seconda della tipologia di lavoratori autonomi, sino a divenire quasi assente nei casi in cui è più accentuata la natura intellettuale dell’attività svolta, come per le professioni liberali”. Aggiungasi, ancora, che l’irragionevolezza della norma censurata emergeva ancora più prepotentemente se si considera che i professionisti hanno un regime di contabilità per lo più semplificato, per cui la fisiologica promiscuità delle entrate e delle spese, sia esse personali che professionali. Una pronuncia da accogliere con soddisfazione soprattutto dagli avvocati che, vessati dai tanti obblighi ed adempimenti quotidiani, almeno non avranno più anche quello di conservarsi lo scontrino per l’acquisto del pane o dei regali per giustificare i prelievi bancari. di

VINCENZO BONIFACIO

individuano nella “convivenza come coniugi” (il riferimento specifico è alla nostra Costituzione, alla legislazione italiana, alle Carte europee dei diritti delluomo), quale “consuetudine di vita comune, il vivere insieme stabilmente e con continuità nel corso del tempo o per un tempo significativo tale da costituire legami familiari, integra un aspetto essenziale e costitutivo del matrimonio-rapporto … come manifestazione di una pluralità di diritti inviolabili, di diritti inderogabili, di responsabilità anche genitoriali in presenza di figli, di aspettative legittime e di legittimi affidamenti degli stessi coniugi e dei figli, sia come singoli, sia nelle reciproche relazioni familiari”, un principio di ordine pubblico. Ma ciò che sembra un ostacolo insormontabile alla richiesta di delibazione, finisce con l’essere solo un’eccezione di parte, potendo essere eccepita solo dal coniuge che intende farla valere e soltanto nella comparsa di costituzione. Spetta, inoltre, a quest’ultimo l’onere della prova sull’effettiva esistenza della convivenza come coniugi, come innanzi specificata, che possieda, peraltro, i requisiti della esteriorità (che sia, cioè, riconoscibile esteriormente attraverso fatti e comportamenti che vi corrispondano in modo non equivoco) e della stabilità (individuata in un periodo di tempo tale da implicare l’irrilevanza giuridica dei vizi genetici eventualmente inficianti l’atto di matrimonio, che si considerano, perciò, sanati dall’accettazione del rapporto). Il giudice della delibazione, quindi, dovrà tenere conto di molteplici fattori che possono incidere o meno sulla sua decisione e, senza per questo dover entrare nel merito della sentenza canonica, valuterà di volta in volta quegli aspetti particolari, quelle modificazioni normative che intervengono a regolare gli istituti giuridici nella materia ed ai quali è soggetto il giudice in sede di delibazione. L’ordine pubblico interno, questo principio supremo del nostro ordinamento non può essere ignorato, eppure, a leggere attentamente la decisione della Corte di Cassazione,

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sembrerebbe che tale principio non rappresenti più la regola inderogabile, ma solo una mera circostanza, un’eccezione che dovrà essere sollevata e dimostrata da parte di colui che vi abbia interesse. Non sarà, quindi, la semplice esistenza di una convivenza triennale ad impedire la delibazione; questa sarà solo probabile qualora il resistente dimostri che si sia trattato di una “convivenza come coniugi” secondo il senso inteso dalla Cassazione. Per di più, a nulla varranno tali considerazioni di ordine pubblico qualora la domanda sia presentata congiuntamente dai due coniugi, rientrando, l’eccezione in questione, tra i diritti potestativi della parte interessata che è l’unica a poterla sollevare. Leggiamo in sentenza: “non possono sussistere dubbi circa la tendenziale delibabilità, sotto tale profilo … anche nel caso in cui già emergesse ex actis una situazione di convivenza coniugale … ciò in ragione dell’affermata rilevabilità della convivenza coniugale solo a seguito di una tempestiva eccezione di parte, sia della prevalenza da dare alla consapevole, concorde manifestazione di volontà delle parti. Una domanda congiunta, come ovvio, fa presumere la rinuncia alla formulazione di qualsivoglia eccezione. Come accade, peraltro, nei casi di simulazione unilaterale (altro ostacolo di ordine pubblico alla delibazione), dove alcuna tutela è offerta da tale principio quando l’esclusione dei bona matrimonii, seppur unilaterale, ”sia stata portata a conoscenza dell’altro coniuge prima della celebrazione del matrimonio, o se questo ne abbia comunque preso atto, ovvero quando vi siano stati elementi rilevatori … non percepiti dall’altro coniuge solo per sua colpa grave…” (Cass. n. 5026/1986). Solo per inciso, il richiamo della sentenza al favor matrimonii conseguente alla consapevole, piena ed effettiva prosecuzione del rapporto matrimoniale che giustifica, in un certo senso, la stabilità della convivenza coniugale come coniugi, nonché la netta distinzione operata tra matrimonio-atto e matrimonio-rapporto, sono concetti che, in realtà, non si discostano molto dal diritto canonico che fa del favor matrimonii un principio davvero inderogabile dinanzi al dubbio sull’esistenza di un reale motivo di nullità. In quanto sacramento, infatti, il matrimonio, secondo la legge canonica è sempre valido e la prova diabolica della nullità del vincolo spetta proprio alla parte che ha interesse a farla valere. Solo dopo lunghi interrogatori, acquisizione di prove e documenti, spesso dopo la nomina di periti esperti, il Tribunale ecclesiastico si esprime sulla validità del vincolo; l’accertamento di un vizio del consenso, che renda nullo il matrimonio-atto, non può non influire sul matrimonio-rapporto che, di fatto, è viziato ab origine. E non sempre l’evidente durata del matrimonio, allietata da prole, è prova di una certa stabilità, di comunione e di vera unione tra i coniugi. Spesso è solo apparenza. Forse la Suprema Corte, consapevole che non sempre la realtà coniugale è ciò che appare, ha voluto certamente dare rilevanza al matrimoniorapporto quale fonte inderogabile di diritti, obblighi, aspettative, ma ha lasciato una porta aperta, non solo alla volontà dei contraenti, ma anche e soprattutto, consentendo alla parte interessata di dimostrare l’inesistenza di situazioni coniugali che non possono darsi per certe. di GIUSEPPE ALESSANDRO BENTIVOGLIO


Anno XL - N. 2 - Dicembre 2014

La revisione delle circoscrizioni giudiziarie prosegue con la riforma delle corti d’appello

Necessaria una riflessione sul sistema penitenziario con professionalità e scienze moderne ed attuali

È un errore rimanere arroccati su posizioni precostituite

Sono in aumento i decessi in carcere rispetto al 2013

Di storie e geografie…

S

e c’è una cosa che accomuna davvero l’Italia è l’estrema diversità genetica e sociale dei suoi abitanti. Già Metternich parlava dell’Italia come di un’espressione geografica. Assai più confacente alla realtà il D’Azeglio, con il suo federalismo puro; e non è un caso se, dopo quasi due secoli, buona parte degli storiografi italiani ritenga ormai opportuno riscrivere “una gloriosa” pagina dell’iconografia nazionale. Del resto, di casi eccelsi e isolati la storia politica e culturale del nostro paese è assai ricca e variegata. Tra questi anche gli avvocati, come altri, esponenti di un certo federalismo illuminato. Lo sa bene l’associazione geografi d’Italia che ha proposto, in sede di riforma e abrogazione delle Province, la ridistribuzione delle competenze amministrative nel rispetto di una maggiore attenzione del territorio, di modo da scomporre le regioni italiane, abrogare le province ed ingrandirne gli ambiti territoriali. Un po’ quel che ha fatto la città di Altamura proponendo di passare o alla BAT o alla provincia materana. Qualcosa di più rispondente alle necessità degli avvocati e dei restanti operatori giudiziari l’aveva congegnato lo sciagurato legislatore della L. 141/11, in cui il governo, al fine di “realizzare risparmi di spesa e incremento di efficienza” provvedeva con “uno o più decreti legislativi” a “riorganizzare la distribuzione sul territorio

degli uffici giudiziari ” consentendo di (art. 1 comma 2 lett. b) “ridefinire, anche mediante attribuzione di porzioni di territori a circondari limitrofi, l’assetto territoriale degli uffici giudiziari secondo criteri oggettivi e omogenei (omissis)”. Seguivano poi i commi 4 e 5 con tanto di procedure da adottare per rendere fattibile l’agognato risparmio di spesa. E così l’annus terribilis 2011 poneva le basi per i famigerati decreti legislativi nn. 155/12 e 156/12 che hanno visto realizzata la concentrazione, sfortunatissima, di tutti gli uffici giudiziari di tribunale nei capoluoghi di provincia di tutte le regioni d’Italia, con buona pace per tutte le sezioni distaccate di tribunale che avevano svolto, obtorto collo, la funzione per la quale erano state concepite: amministrare la giustizia sul territorio. Unica ancora di salvezza l’accollo di spesa da parte della Regione, per le sezioni di tribunale, e dei Comuni, per gli uffici del Giudice di Pace, con i risultati che tutti noi conosciamo. In realtà, fino a settembre scorso, vi era ancora una piccola speme rappresentata dalla possibilità di ridisegnare l’ambito territoriale di tribunale a mezzo di decreto interministeriale, ai sensi del comma 5 citato. Un tentativo più volte prospettato dagli avvocati di Altamura e Gravina, di modo da passare al tribunale di Matera. Un’eresia per alcuni, un toccasana per molti, i più, avvocati e cittadini, oltre 120

mila, che si sono visti, dall’oggi al domani, catapultati in un unico ufficio giudiziario, quello di Bari, in barba alla fisica classica che prescrive l’impenetrabilità dei corpi. Una legge, questa, affatto ignota alla Presidenza del Tribunale che ha tentato invano di salvare quantomeno le sezioni distaccate di Tribunale di Monopoli e Altamura. Da lì in poi una pioggia di ricorsi prosciugati dal “sole romano” che, ardente, ha seccato le risorse di noi poveri avvocati, predati dalla crisi economica e da un famelico legislatore occupato a far cassa in uno Stato colabrodo. Ma, oltre a diversità e federalismo, ad accomunarci vi è pure l’eterna eterogenesi dei fini che fa sì che quel che sembra uscito dalla porta passi poi dalla finestra. Il riferimento è alle linee di riforma delle Corti d’Appello d’Italia che pare comporti la soppressione delle Corti c.d. minori per numero di cause e abitanti. Tra queste, quella di Potenza con conseguente trasferimento della sua competenza alla Corte di Appello di Salerno per il Tribunale di Potenza, e a quella di Bari, per il Tribunale di Matera. In quella sede risulterebbe poi possibile estendere la competenza territoriale del detto tribunale ad altri comuni viciniori, quali Altamura e Gravina, con notevole alleggerimento del carico di lavoro presente, e pressante, negli uffici giudiziari baresi. La domanda allora è una sola. Perché non agevolare la realizzazione di questo progetto? Perché opporsi, come già hanno fatto taluni nostri colleghi rappresentanti? Comprensibile, ma non legittimo, il timore, invero ingiustificato, di perdere potere e prestigio. Ridicolo. Che cosa è rimasto all’Avvocatura e ai suoi rappresentanti se non una parvenza di autonomia e vigore? Dov’è quell’antico splendore? Sarebbe sciocco arroccarsi su posizioni precostituite pensando di poter coltivare il proprio orticello per mille anni ancora. Lo dimostrano i violini del Titanic, in fase di affondamento. Lo hanno capito bene quelle associazioni professionali che, a livello locale, si sono messe insieme, quali gli ingegneri e architetti, tanto relazionarsi come un unico soggetto istituzionale. Lo fanno per dignità e sopravvivenza professionale. Ritenere, come taluni, di potersi ancorare ad un comodo approdo non trova riscontro alcuno. Quante volte abbiamo sentito nominare l’Europa al fine di imbrigliare ordini e professioni? Ritenere di aver passato indenni questo momento storico è assai pernicioso per tutti gli iscritti, di qualunque fazione. Assai più utile ripensarsi in tutte le forme possibili. Certo le associazioni territoriali sono avvantaggiate nella lotta per la sopravvivenza, tanto dal potersi estendere territorialmente e penetrare laddove altri non sono riusciti. E allora perché non sondare questa possibilità che consente comunque di alleggerire la situazione dei nostri uffici giudiziari e di estendere l’associazionismo ad un ambito territoriale più vasto? Forse il mio è un sogno, ma non mi va di ritrovarmi di qua a qualche anno come quel vecchio brontolone, ritratto nelle vignette satiriche degli anni ’50, che, dinanzi al mondo che cambiava, affermava “arridatece er puzzone”. Almeno all’epoca vi erano le preture. di

(Non) sorvegliare e punire

orreva lanno 1975, quando Michel Foucault raccontava la modernità e l’umaC nità della pena detentiva, nel suo epocale

saggio “Sorvegliare e punire”. Moderna perché sarebbe stata definitivamente integrata nei sistemi penali in epoca piuttosto recente, a partire dalla fine del diciottesimo secolo. Umana perché la privazione della libertà personale è senza dubbio meno afflittiva degli antichi supplizi e torture, spesso pubblici, o addirittura delle vere e proprie esecuzioni. A partire da quel momento l’equazione “pena=privazione della libertà personale” diventa del tutto evidente, naturale, quasi un indiscutibile dogma della moderna esecuzione delle pene. La sorveglianza, rileva Foucault, ne è la cifra caratterizzante, espressione del potere di controllo che lo Stato sorvegliante esercita sui detenuti sorvegliati. Quasi quarantanni dopo, la questione del sorvegliare e punire sembra ancora attualissima. Non soltanto in riferimento a casi come quello di Cucchi, ma anche per le migliaia di lettere, segnalazioni e ricoveri, che testimoniano l’indifferibilità di una pronta riflessione e azione sul sistema carcerario. Insieme con gli effetti, spesso inutili, e talvolta devastanti, che la detenzione produce sui condannati. L’ordinamento punisce, ma sorveglia poco e male, e soprattutto ciò avviene in senso univoco. A ben guardare il problema è antico e rimanda alla nota aporia della Repubblica di Platone: chi sorveglia i sorveglianti? Corre l’anno 2014 e nei mesi da gennaio a novembre, su circa 119 decessi in carcere avvenuti per cause non chiare, 38 sarebbero addebitabili a suicidio. Secondo alcune stime la percentuale di chi si toglie la vita in carcere sarebbe salita quest’anno al 40%. In aumento dunque rispetto a quella dello scorso che sfiorava il 30%. Nel frattempo dalla commissione Gratteri sembrano provenire proposte tese ad affidare l’amministrazione penitenziaria alle forze di polizia. E ciò, come ha ricordato in ottobre il presidente di Antigone Patrizio Gonnella, dalle colonne del Manifesto, in palese contrasto con il suggerimento che le organizzazioni internazionali danno alle nuove democrazie di sottrarre le prigioni al controllo dei ministeri di polizia. Non si possono non ricordare le tante e

RENATO GONSALVO

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preziose iniziative, dalla riforma Gozzini ad altre, che negli ultimi decenni hanno inteso creare spazi e modi alternativi alla detenzione pura e semplice. Tanti anche gli sforzi quotidiani realizzati da attenti magistrati, avvocati, associazioni e personale addetto all’assistenza ai detenuti. Eppure, se soltanto si prova a fare qualche passo indietro, per non guardare il tassello ma il mosaico tutto intero, sembra che ciò non basti e non possa bastare. Non si discute qui della gravità di certi fatti e della necessaria funzione (anche) retributiva e preventiva di ogni pena. La domanda è un’altra. L’accelerazione dei mutamenti in ogni campo ha fatto del ’900 il “Secolo breve”, per dirla con Eric Hobsbawm. Ebbene, se l’accelerazione è rimasta la stessa, e così pare che sia, allora il secolo ventunesimo sarà brevissimo. Non mi pare che il mondo di oggi assomigli molto a quello del diciottesimo secolo: economia, società, tecnologia, dunque la criminalità, sono del tutto mutate, radicalmente evolute in ogni aspetto. La pena detentiva, invece, resta la stessa, salvi pur rilevanti ma non determinanti micro-adattamenti. Qual è il senso di tutto ciò, se senso vi è? Forse, in un tempo in cui si va su Marte e le tracce di un vinile girano su iPod, è giunto il momento di uno sforzo di pensiero ed azione che fuoriesca dai consessi di un mondo del diritto che talvolta finisce col parlare di se stesso a se stesso, con il rischio di un cortocircuito di comunicazione e di idee. Una soluzione moderna e attuale non può fare a meno del contributo di professionalità e scienze altrettanto moderne ed attuali, dall’ingegneria gestionale a quella sociale, dalla più recente criminologia alla psicologia penitenziaria. Infine, nell’epoca dei bilanci pubblici consultabili online e della trasparenza degli enti, è forse il momento di una scelta, politica nel senso più ampio, fra un sistema carcerario opaco ed incontrollabile dall’esterno ed uno, invece, più trasparente ed aperto allo sguardo della società civile, a garanzia dei sorvegliati oltre che dei sorveglianti. di

MAXIME MANZARI


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