PIG Mag 88

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Mensile. Numero 88, Natale 2010

Italia €5 - U.K. £6,50 - France €8 - Germany €9,30 Spain €8 - Greece €7,70 - Finland €8,50 - Malta €5,36 Japan ¥2.250 - Austria €8,90 - Portugal €6,40

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Red Room a Bassano: il party organizzato da Stefano e Andrea Rosso all’interno della discoteca nel basement dell’excasa di Renzo. Lot of red lot of girls! Foto di Matteo C.

PIG Mag 88, Natale 2010 Publishers: Daniel & Simon Beckerman

Management Editor in Chief, Creative Director: Simon Beckerman Executive Editor: Valentina Barzaghi Assistant Creative Director: Piotr Niepsuj

Editorial Music: Giacomo De Poli (Depolique) Fashion: Fabiana Fierotti Cinema: Valentina Barzaghi Design, Art and New Media: Giovanni Cervi Design: Maria Cristina Bastante

Advertising James Robins - adv@pigmag.com Human Resources Barbara Simonetti Victoria Ebner Contributors for this issue Marco Braggion, Michela Biasibetti, Sara Ferron Cima, Sara Kollhof, Coley Brown, Mathias Sterner, Wai Lin Tse, Ana Murillas, Txus Sánchez, Carolina Vargas, Elena Lazic, Harley Weir, Marina Pierri, Klara Andreasson, Sista Agency, Antonio Trovisi, Daniel Hamaj, Gabriel Bradiceanu, Gideon Barnett. Special Thanks Bianca Beckerman, Caterina Napolitani, Caterina Panarello, Rebecca Caterina Elisabeth Larsson, Piera Mammini, Giancarlo Biagi, Matteo Convenevole, Karin Piovan, Laura Cocco, Teo (Spingo), Damir (Dna Concerti), Elena Barolo (Club to Club).

Books: Rujana Rebernjak

Edizioni B-arts S.r.l. www.b-arts.com

Videogames: Janusz Daga

Direzione, Redazione e Amministrazione Ripa di Porta Ticinese, 21 - 20143 Milano. Tel: +39 02.36.55.90.90 - Fax: 02.36.55.90.99

Contributing Editors Sean Michael Beolchini: Contributing Editor Ilaria Norsa: Contributing Fashion Editor Gaetano Scippa: Contributing Music Editor Marco Lombardo: Contributing Music Editor

Magazine Layout: Stefania Di Bello

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PIG Magazine: Copyright ©2002 Edizioni B-Arts S.r.l. Autorizzazione del Tribunale di Milano n° 453 del 19.07.2001 Sviluppo foto Speed Photo, via Imbriani 55/A - 20158 Milano Stampa: Officine Grafiche DeAgostini S.p.A. Corso della Vittoria 91 - 28100 Novara (Italy). Tel: +39 0321.42.21 Fax: +39 0321.42.22.46

Distribuzione per l’Italia SO.DI.P. “Angelo Patuzzi” S.p.A. Via Bettola 18 - 20092 Cinisello Balsamo (MI). Tel: +39 02.66.03.01 Fax: +39 02.66.03.03.20 Distribuzione per l’estero S.I.E.S. Srl Via Bettola, 18 20092 Cinisello Balsamo (MI). Tel. 02.66.03.04.00 - Fax 02.66. 03.02.69 - sies@siesnet.it PIG all’estero Grecia, Finlandia, Singapore, Spagna, Inghilterra, Brasile, Hong Kong, Giappone, Turchia, Germania. PIG è presente anche nei seguenti DIESEL Store Berlino, Londra, Parigi, Tokyo, Milano, Roma e Treviso. PIG Magazine è edita da B-arts editore srl. Tutti i diritti sono riservati. Manoscritti, dattiloscritti, articoli, disegni non si restituiscono anche se non pubblicati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta in alcun modo, senza l’autorizzazione scritta preventiva da parte dell’Editore. Gli Autori e l’Editore non potranno in alcun caso essere responsabili per incidenti o conseguenti danni che derivino o siano causati dall’uso improprio delle informazioni contenute. Le immagini sono copyright © dei rispettivi proprietari. Prezzo del numero 5 Euro. L’Editore si riserva la facoltà di modificare il prezzo nel corso della pubblicazione, se costretto da mutate condizioni di mercato.

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MINI e . Incontro al vertice della tecnologia. Consumi (litri/100 km) ciclo misto: da 4,4 (MINI One D Countryman con cambio manuale) a 7,7 (MINI Cooper S Countryman ALL4 con cambio automatico). Emissioni CO2 (g/km): da 115 (MINI One D Countryman con cambio manuale) a 180 (MINI Cooper S Countryman ALL4 con cambio automatico).

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Sommario

Interviste:

72: Tom DiCillo

82: Four Tet

86: Wildbirds & Peacedrums

76: Glasser Foto di copertina di Harley Weir

68: Elisa Palomino

Moda:

70: Sessùn

Street Files:

90: Freshman fifteen

100: Elena

58: Gothenburg

Foto di Piotr Niepsuj

Foto di Wai Lin Tse

Foto di Klara Andreasson

Regulars 14: Bands Around 22: Shop: Lolo vintage 24: Publisher: General Public Library 26: Design 28: PIG Files 34: Moda News 50: Moda: Christmas’ wish list 52: Photographer of the Month: Grant Cornett 114: Musica 120: Cinema 124: Books and So 126: Videogames

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Bands Around

Foto di Piotr Niepsuj

Shy Child Tommy Hilfiger Loud Party @ Magazzini Generali, Milano Nome? Pete Cafarella. Età? 29. Da dove vieni? NYC. Cos'hai nelle tasche? Il cellulare rotto, i tappi per le orecchie, il passaporto e il cordino per portare la macchina fotografica, ma senza la macchina. Qual è il tuo vizio segreto? Call of Duty (videogioco - n.d.r). Qual è l'artista-la band più sorprendente d'oggi? The Fresh and Onlys. Di chi sei la reincarnazione? Tony Danza (da morto). Che poster avevi nella tua camera quando eri un teenager? “Taron e la pentola magica” - un film di Walt Disney, lo so che fa schifo. Ci dici il nome di un artista o di una canzone italiana? Fabrizio De André !!! Nome? Nate Smith. Età? 28 Da dove vieni? Sono cresciuto in Virginia, ma adesso vivo a Brooklyn. Cos'hai nelle tasche? Il cellulare, la patente, il bancomat e tappi per le orecchie. Qual è il tuo vizio segreto? Tantissimi. Tv e film spazzatura sono uno, quello che posso ammetere. Qual è l'artista-la band più sorprendente d'oggi? I Devo sono ancora divertenti. Di chi sei la reincarnazione? Gene Krupa o John Cazale. Che poster avevi nella tua camera quando eri un teenager? I poster dei film “Blow-Up” e “Cuore Selvaggio”. Ci dici il nome di un artista o di una canzone italiana? Gino Soccio, Goblin.

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Bands Around

Foto di Piotr Niepsuj

Trevor Jackson Pink Is Punk Show @ Queen, Milano Nome? Trevor Jackson. Età? Fatti i fatti tuoi. Da dove vieni? Da qualche altra parte. Cos'hai nelle tasche? La medicina per l’influenza, fazzoletti, preservativi, biglietti da visitia, cellulare, soldi. Qual è il tuo vizio segreto? I gelati. Qual è l'artista-la band più sorprendente d'oggi? Bryan Ferry. Che poster avevi nella tua camera quando eri un teenager? Poster – La copertina di Like A Virgin di Madonna. Ci dici il nome di un artista o di una canzone italiana? Raf “Self Control”

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Fart uno spazio dedicato al sacro fuoco dell’arte

Di Giovanni Cervi (verbavolant@pigmag.com)

Mi sono sempre chiesto cosa muova le persone che stanno nel mondo dell’arte. Gli artisti è facile, si sa, è il sacro fuoco che li divora. Ma tutti quelli che ci stanno intorno? Galleristi, curatori, critici, agitatori… cosa li spinge? Fart questo mese intervista Marzia Lodi, architetto e organizzatrice di eventi

Marzia Lodi Tra architettura e il mondo dell’arte, come ti trovi? Beh l’architettura ha avuto un ruolo fondamentale nella mia formazione, ebbene sì, sono anche io un “architetto”, anche se contemporaneamente ho sempre avuto una grande curiosità nei confronti dell’arte, passione aiutata dalla (s)fortuna di un susseguirsi di fidanzati “artisti”, appunto. Credo che la possibilità di vedere uno spazio vuoto e riuscire ad immaginarlo come sarà allestito, riempito dei diversi contenuti, sia un valore aggiunto per il mio lavoro, che in fondo comprende sia la sfera artistica che quella architettonica. In realtà la cosa che ritengo più interessante è lo scambio continuo tra le diverse sfere artistiche, che si tratti di architettura, arte visiva, grafica, musica o performance. Mi sembra che ti interessi anche al mondo tecnologico, come riesci a unire tutto? Infatti si fa fatica ad unire il tutto… La tecnologia ha un ruolo fondamentale in questo processo di scambio e integrazione; è ovvio che, se una volta gli strumenti usati per “fare arte” erano limitati, ora c’è la possibilità di utilizzare una infinità di mezzi per creare

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infinite combinazioni. Che scene ci sono a Firenze? In che direzioni va? Mmm bella domanda…cercherò di essere sintetica. Premetto che io non sono di razza autoctona, nata e vissuta in Emilia, nel bel mezzo della bassa modenese (Carpi per la precisione*) e trasferita a Firenze per fare Architettura, possiamo dire di “adozione fiorentina” (*sottile precisazione ma importante). Amo molto Firenze è la città in cui ho scelto di vivere (per ora) per diversi motivi. E’ meravigliosa… tanto quanto complicata. In realtà a Firenze ci sono un sacco di scene, intendo che ci sono veramente tante persone, gruppi, collettivi, amici/che o come li vogliamo chiamare, che fanno cose, vedono gente…dai sto scherzando… La produzione artistica “locale” a 360° e di buona qualità, ti garantisco che non manca; il problema della Città è che non è in grado di mettere tutte queste persone nelle condizioni di sviluppare i propri progetti all’interno della città stessa. Una grande parte di questi artisti ed operatori di settore, assolutamente quotati e riconosciuti in vari contesti, sia in Italia che

all’estero, non lo sono a Firenze. A volte è come se non ci fosse la volontà (o forse manca la consapevolezza) di sfruttare le risorse che abbiamo sotto il naso (*dando ovviamente a “sfruttare” un’accezione positiva). Il futuro cosa ti riserva? I DoN’T KnoW! E neanche lo voglio sapere, preferisco ignorare e cercare di vivere meglio il presente. Secondo te il mondo creativo contemporaneo cosa ha imparato dalla storia? Se non esistesse la Storia noi non saremmo qui… scontato ma vero. Credo che tutto ciò che è contemporaneo derivi da quello che c’è stato prima. Nel caso specifico ricordo che siamo Firenze, inutile dirlo. La storia però non dovrebbe mai essere un limite per il futuro…o per il presente e quindi per il contemporaneo; è semplicemente la sua base, la sua imprescindibile origine, non può e non deve essere elusa, ma ripeto, nemmeno trasformarsi in un vincolo. www.myspace.com/mknproject www.studiokmzero.com/taxonomy/ term/26


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Shop

Intervista di Sara Ferron Cima

Lolo Vintage Quando in un’area urbana di oltre 7000 kmq si trova un solo negozio di vintage, la domanda che sorge spontanea è: “perché?”. E’ interessante come da un così semplice spunto si possa risalire ad un’analisi più profonda di una società complessa come quella della Cina. Ed è proprio grazie all’aiuto della proprietaria dell’unico negozio vintage esistente a Shanghai che abbiamo ripercorso importanti tappe storiche-culturali cinesi. Ciao Lolo, come stai? Sei stata un po’ difficile da rintracciare, finalmente riesco a parlarti! Molto bene, grazie e scusami ma sono stata molto impegnata ultimamente… Oltre ad occuparmi del negozio sono anche stylist e sto lavorando ad una mia collezione personale. Bene, non preoccuparti, quindi avremo molto di cui parlare! Cominciamo un po’ alla volta: prima parlami un po’ di te, poi passiamo ai tuoi interessi: Dunque, mi chiamo Lolo, ho 34 anni, sono originaria della provincia del Sichuan, ho studiato come Make-up artist a Shanghai e da allora mi sono trasferita in questa città. Ormai sono 12 anni che vivo e lavoro qua. Momentaneamente sto seguendo diversi shooting per alcune riviste (Vogue China, Elle China…) e precedentemente ho seguito anche alcune pubblicità. Inoltre sto lavorando ad una mia collezione personale (Miss Mish Mash) e finalmente un anno fa mi sono decisa ed ho anche aperto un negozio di vintage. Quando e perché ti è venuto in mente di

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aprire un negozio vintage a Shanghai? L’idea è stata una conseguenza del mio primo viaggio in Europa, cinque anni fa sono stata in Germania, Francia e Italia e in tutti questi posti sono rimasta affascinata dai negozi di vintage. In Cina non esiste il concetto di vintage, se non per i negozi di seconda mano (di vestiti giapponesi) in cui mi ricordo mia madre mi portava quando ero piccola, quindi quando mi sono ritrovata di fronte a questa “visione” ho dato via ad uno shopping sfrenato che tutt’oggi non si è ancora arrestato. Da dove provengono tutti i pezzi che hai in negozio? Provengono dall’Europa e dal Giappone (o dal mio armadio personale). Pensi che il vintage sia “sottovalutato in Cina”? Perché non si vedono altri negozi come il tuo? Si, credo sia molto sottovalutato. Sono convinta che in Cina non ci sia ancora una “cultura” del vintage (e non so se mai ci potrà essere), per questo non ci sono altri negozi oltre al mio. I motivi sono tanti. La

ragione principale è sicuramente storica: la Cina è uscita dalla dittatura comunista alla fine degli anni ’70 e dopo di questa ha dovuto attraversare una fase molto difficile di riassestamento. Quindi quello che noi oggi consideriamo vintage (supponiamo dagli anni ’50 ai ‘70) in Cina non esiste, semplicemente perché non è mai esistita questa libertà nel vestire. Se tu ti ritrovassi su un’isola deserta e potessi scegliere tre capi da avere con te, cosa sceglieresti? Difficile da dire… Sicuramente mi porterei il mio vestito preferito: un vestito blu anni ’50 a pois, una collana in finte gemme che adoro e un impermeabile anni ’60 coloratissimo che ho trovato a Monaco in Germania. (Speriamo che piova sull’isola deserta!) Dove possiamo trovarti su internet? Per ora ho solo questo sito con i lavori che ho fatto come make-up artist e stylist, a breve uscirà anche il sito della mia linea. www.lololuoluo.com



Publisher

Intervista di Rujana Rebernjak. Foto di Gideon Barnett

General Public Library Era da mesi che giravo sul sito di General Public Library, che ogni volta mi faceva scoprire un nuovo libro mai visto di cui mi innamoravo perdutamente. Per questo ho contattato Mylinh Trieu Nguyen, il genio che sta dietro a questo, e come ho scoperto dopo, dietro mille altri progetti che avrei voluto creare io. Com'è nata l'idea di General Public Library? General Public Library nasce dalla collaborazione con un'associazione non-profit di New York, Art in General, durante la mia residenza quest'estate, dove lavoravo come designer. Nel crearla mi interessavano due cose in particolare: la prima era il desiderio di creare una risorsa che i prossimi artistsin-residence avrebbero potuto usare come

riferimento. Sentivo che fosse importante creare una base per poter costruire qualcosa in futuro, una risorsa collettiva. La seconda è che volevo creare uno spazio sia fisico sia basato sul web che potesse coinvolgere attivamente il pubblico incoraggiando le donazioni che rappresentano gli interessi e le idee personali. E poi sono sempre stata attratta da questa idea molto borghese di una libreria infinita.

Come funziona questa web community in relazione alla fisicità di una libreria 'vera'? Ci sarà sempre una chiara distinzione tra il libro o la libreria fisica e quella virtuale; questo rapporto tangibile non sarà mai riproducibile in forma digitale, ma d'altra parte un sito internet crea una distribuzione di informazioni o idee che altrimenti le persone non riuscirebbero a vedere. Inoltre, una comunità virtuale crea dei collegamenti tra le persone basati sugli interessi personali intorno ad un argomento, che altrimenti non sarebbero così visibili. Come pensi si evolverà GPL dopo che sarà finito il periodo della reading room? Le donazioni continuano ad arrivare, almeno due libri vengono donati ogni giorno, sia tramite internet che dalle persone che visitano lo spazio. Penso che adesso ci siano oltre 300 libri! Penso che GPL dovrebbe ripetersi ogni anno in modo tale da evolversi e cambiare in base agli interessi di quel particolare momento. Anche il progetto A Wikipedia Reader è basato sui collegamenti. Di cosa si tratta? A Wikipedia Reader nasce dalla mia collaborazione con David Horvitz, estesa anche ad altri progetti sotto il nome ASDF. Per il progetto A Wikipedia Reader abbiamo invitato degli artisti a creare una serie di collegamenti partendo da un tema di particolare interesse trovato su Wikipedia e continuando con altri link all'interno della stessa pagina. Il risultato è una serie di temi più o meno simili connessi tra di loro. Visto che è in arrivo la NY Book Fair, puoi parlarmi del progetto che presenterai lì? Per la NY Book Fair sto lavorando su un progetto chiamato Investment Futures Strategy, Limited (IFS, Ltd.), The Book Trust, con altri quattro studenti della Yale University School of Art. Il progetto cerca di suggerire un nuovo tipo di scambio per la fiera, un contesto dove il libro può essere considerato come capitale - sostituire effettivamente i soldi. Il valore percepito non è più dato dall'edizione o dal prezzo, ma dai valori che i potenziali commercianti assegnano ad ogni libro. Alla fine, se potessi consigliare un libro, quale sarebbe? And Our Faces, My Heart, Brief as Photos, di John Berger è il mio libro preferito da un po' di tempo. Ogni volta che lo leggo scopro qualcosa di nuovo che mi colpisce.

www.generalpubliclibrary.info

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Design

Intervista a Manuela Roncon e Stefano Maccarelli di Mariacristina Bastante (kikka@pigmag.com)

Chi ha paura dello Yeti? Il design, da un altro punto di vista. Grafica, interaction, utilizzo di software generativi. Ispirazione, curiosità e tecnologia (quando serve e dove serve). Questo fa Yeti, uno studio che si occupa di comunicazione e molto altro. Ecco che cosa ci hanno raccontato Manuela e Stefano, inventori dello Yeti..

The city is a loom, poster per Felicity Project 2010

Chi compone Yeti? Descrivetevi in breve! Yeti è composto da Manuela Roncon e Stefano Maccarelli. In quattro aggettivi direi che siamo curiosi, entusiasti, pragmatici, poliedrici. Quanti anni avete? 27 e 31 anni. Dove vivete? A Torino. Una domanda… spontanea. Perché Yeti? Lo yeti è un creatura maestosa, affascinate, che desta curiosità; è “diversamente umana” e per questo difficilmente definibile. Noi ci proponiamo di agire in modi inaspettati, non vogliamo attaccarci ad un solo stile, ci piacciono cose molto

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varie e cerchiamo di far convivere la nostra natura creativa, sperimentale, sognatrice con quella più pragmatica e tecnologica. E questo ci rende difficilmente identificabili al primo sguardo. Spesso quando si parla di design si pensa quasi esclusivamente a sedie, lampade e vasi. Niente di più sbagliato. Che cos’è il design per voi? Essenzialmente design è progettare qualcosa che assolva ad una funzione nel migliore dei modi, ed è progettare per la gente, non per il designer. Il nostro lavoro oggi è a cavallo tra design ed arte, e spazia dall'illustrazione alla programmazione, passando per art

direction e interaction design, ma tutto ha una radice comune: definire un obiettivo e raggiungerlo con le modalità e gli strumenti più adatti alla situazione. Pensate che il design debba essere utile? Il design è utile per definizione. Un oggetto d'arte può anche essere solo bello da vedere, ma un "prodotto" del design deve funzionare, nasce per un motivo ben preciso; le scelte estetiche non devono essere predominanti, ma complementari. Se le tue scelte sono motivate e possono rispondere in modo semplice ed esaustivo alla domanda “perché?” vuol dire che hai progettato con criterio e che il tuo lavoro


tempo reale da un servizio pubblico, l'applicazione crea forme, volumi, sfumature, colori e genera un'immagine allo stesso tempo “tangibile” ed astratta, una scena in uno spazio tridimensionale non riconoscibile. Il vostro poster God forgives anyone esprime un concetto molto forte. Quello che mi colpisce è il contrasto tra il significato e l’immagine che riprende l’iconografia dei santini… Volevamo enfatizzare proprio questa contraddizione. La mafia quotidianamente usa le persone per trarre profitto per se stessa ed è composta da persone che si definiscono cristiane, che sono addirittura convinte che esista la santa protettrice della mafia. Volevamo appunto rappresentare questo paradosso. Se guardiamo l'opera di sfuggita ha tutte le sembianze di un normale santino, ma sono i dettagli a sprigionare la sua

vera natura. Inoltre volevamo in qualche modo rappresentare il fenomeno tutto italiano per cui la “furbizia” è vista come una cosa positiva. La nostra provocazione è legittimare questo atteggiamento, dire che è cosa talmente buona e giusta da essere rappresentata su di un'immagine sacra che riporta il proverbio, in uso sopratutto nel sud Italia, “Fotti e strafotti, che Dio perdona tutti”. Raccontatemi qualcosa del vostro progetto realizzato per Felicity? Come è nato? Il poster per Felicity è nato a colazione in una mattina di luglio, leggendo un quotidiano di finanza e riflettendo sulle parole del premio nobel Elinor Ostrom, che dice: “La gestione dei beni pubblici affidata alle comunità locali può essere una terza via tra stato e mercato.” Il telaio ci è sembrato il simbolo più semplice e anche il più antico di cooperazione tra elementi, perfetto per

richiesta di stampa di una copia del libro ci sarà un'applicazione principale che lancerà le 42 applicazioni degli artisti, le quali genereranno in quel momento delle nuove immagini. L'applicazione principale raccoglierà le singole immagini, le impaginerà in un libro e manderà quest'ultimo in stampa. Il risultato, quindi, è che chi ordina il libro avrà la sua personalissima copia, generata materialmente al momento dell'ordine. E’ molto interessante (e complesso) il lavoro Weatherverse: esattamente come funziona? Weatherverse è il progetto che verrà stampato sul libro Written Images. Si tratta di una rappresentazione visiva non letterale delle condizioni climatiche, l'obiettivo è realizzare delle immagini che possano trasmetterne la sensazione, più che descriverle in modo preciso. Analizzando i dati del meteo forniti in

Wheatherverse, progetto di arte generativa

Munari, Albe Steiner, i ragazzi di d-night. A che cosa state lavorando adesso? Stiamo facendo l'intervista per PIG :D Un vostro progetto verrà pubblicato su Written Images. Potete spiegarci qualcosa in più su questo libro, in cui ogni copia stampata è unica? Una sorta di imited edition, ma democratica? Written Images è un progetto di arte generativa molto interessante, il primo nel suo genere. Realizzare un'opera di arte generativa significa costruire un software che generi delle immagini basandosi su dati variabili o casuali, seguendo delle regole che impone l'artista/programmatore. É come creare il DNA di un essere vivente, che ogni volta dà alla luce una creatura simile alle precedenti ma diversa, poiché i dati che la alimentano sono sempre diversi. Il libro Written Images raccoglierà 42 opere/software. Al momento della

Suspect Device Record, copertina

sarà sensato e funzionale. Voi utilizzate strumenti tradizionali e strumenti innovativi come i software generativi o l’interaction design. Qual è la vostra idea sul rapporto tra uomo e nuove tecnologie? Noi raggiungiamo il massimo della soddisfazione quando un nostro lavoro che include tecnologie molto complesse, viene apprezzato dalle persone che solitamente hanno un rapporto difficile con la tecnologia. E' segno di aver azzeccato le dosi. Questo vuol dire che quando la tecnologia è fruibile la gente l'accetta di buon grado. C’è qualche collega (artista, designer) che ammirate in modo particolare? Più che “colleghi” diremmo un po' di nomi in ambiti diversi: James Jean, Vasili Zorin, Karsten Schmidt, Matt Pyke, Andreas Philstrom, Robert Hodgin, UnitedVisualArtists, Armando Testa, Bruno

rappresentare la creazione del “tessuto sociale”. E se non aveste fatto i designer, che cosa sareste diventati? Manuela: A nove anni io e la mia amica del cuore giocavamo all'agenzia pubblicitaria. Lei teneva la contabilità e io facevo strampalati disegni che vendevo alle mie bambole. Si chiamava agenzia P.I.R. Problemi Irrisolvibili Risolti. Bei tempi. Stefano: Io credo che non avrei potuto fare altro. Non posso neanche definirmi designer in senso stretto, ho degli ambiti di interesse molto ampi e distanti. Mi sarebbe piaciuto fare l'illustratore, o il pittore, ma mi sarebbe mancata la parte progettuale ed informatica. D’altro canto se avessi fatto solo il programmatore mi sarei annoiato a morte. www.weareyeti.com

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PIG files

Di Giovanni Cervi

Emaciado Corazon Il cuore verde e vitale della Terra è sempre più sofferente. Molti pensatori cercano di aiutarlo, un po' meno le istituzioni e chi ha a che fare con l'economia. Certo è, che moltissimi sono i progetti "verdi" che non vedranno mai la luce del sole. Come questo palazzo, Cor, di Oppenheim Architecture. Un esoscheletro che riscalda, sistema di riciclo acque, un mix di energie pulite, bambù e molti altri dettagli ecosostenibili. Cor è stato pensato per Miami, lo vedremo mai dal vero? www.oppenoffice.com

Soft bulletin

Lost in space

Berlino si sà, è una città dinamica e innovativa, dove quasi tutto può diventare realtà. Raumlabor è uno studio collettivo specializzato nella ricerca sulla trasformazione degli spazi urbani. Soft solutions è stato pensato come luogo ideale di riposo/svago/incontro per un festival di fotografia. Una mangrovia gonfiabile e colorata che conquista la città. www.raumlabor.net

Daisuke Motogi è un architetto che si occupa anche di design, con una predilezione per i divani. Me lo vedo mentre riflette per risolvere problemi nel suo studio, con appunti e gingilli che si perdono in giro per la stanza. Forse da qui nasce "Lost in sofa", un comodo scrigno dove conservare le cose più preziose o tenere a portata di mano, e di intelletto, i nostri pensieri. www.dskmtg.com

FFF fast forward fly Se gli areoplani mi sembrasssero meno contronatura, più simili ad astronavi o più leggeri, forse ne prenderei di più. Ci sono dei "futuristi visionari" che cercano di innovare il concetto di volo, Yelken octuri è uno di questi. Il suo lavoro è progettare gli interni dei grandi airbus, nel tempo libero lascia la sua immaginazione libera di progettare il futuro, con risultati che lasciano a bocca aperta. www.octuri.com 28 PIG MAGAZINE


55DSL Store - Corso Porta Ticinese 60 - Milano


PIG files

Di Giovanni Cervi

It’s wanky! Ho un debole per le cose dispari e storte. Trovo queste case bellissime, moderne, affascinanti e pericolanti. Novelle torri di Pisa nel cuore di Pittsburgh, danno spazio a studi di artisti e abitazioni, concertati con le istituzioni locali per rendere uno spazio debilitato attraente e utile alla comunità. Glass Lofts sono un’idea di front Studio Architects e un esempio da seguire. www.frontstudio.com

Dirty deeds A metà strada tra grandi occhi che sbucano dai muri e grosse narici dove infilare i panni sporchi, questi sono i Polyp di Helene Steiner. La valorizzazione estetica del lercio, l'uso opposto delle macchie, non più da nascondere, ma da esporre come plusvalore art decor. Una volta riempiti è il momento di usare la lavatrice, i panni sporchi non si lavano più in famiglia. www.helenesteiner.com

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CD sight

Light my fire

Nel sito di instructables. com ho trovato questo post su come ri_usare vecchi cd e dvd per coprire i tetti. Ce ne vogliono 120 per metro quadrato e se si seguono le istruzioni per installarli è garantito che non passa l'acqua. E magari quando piove o quando ci batte il sole creano anche illusori suoni e riverberi della loro vita precedente, come fantasmi postmoderni. www.instructables.com

Nel mondo del design forse solo le sedie sono più gettonate delle luci, due classici sui quali ogni studente e studio si confronta. Buoys! sono luci ispirate alle boe di segnalazione del mondo anglofono. Segnalano relitti, scogli, ostacoli, la vicinanza della costa... così come quando in casa camminiamo al buio e pensiamo di conoscere tutto a memoria, ma puntualmente andiamo a sbattere. Meglio avere una luce che ci mostri la via... www.postlerferguson.com


www.bluedistribution.com




Feature on Designer: Vladimir Karaleev www.vladimirkaraleev.com - www.wok-store.com Intervista di Fabiana Fierotti. Foto di Piotr Niepsuj

Io e Valdimir ci siamo incontrati qualche settimana fa in occasione di un evento speciale organizzato per il lancio della sua collezione ss11 al Wok store di Milano. Fare due chiacchiere con lui è stato davvero piacevole, è veramente una persona carina. Lo avevamo conosciuto già due anni fa, sentite un po’ cosa è cambiato nella sua vita. Dove sei nato? Sono nato in Bulgaria, a Sophia. Che cosa hai studiato? A 19 anni mi sono trasferito a Berlino per studiare fashion design in una scuola piuttosto tecnica. Come mai hai scelto Berlino rispetto ad altre città? Perché una volta ci andai in gita con la scuola e me ne innamorai, nonostante all'epoca fosse ancora molto sporca e la direzione in cui si sarebbe evoluta non era ancor ben chiara. C'erano già delle gallerie d'arte stupende ed era piena di energia positiva. C'è uno stilista berlinese che ammiri in particolare? Quello che mi piace di più è "Bless". Mi piace il suo concetto di arte, design industriale e moda.

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Perché ti trovi qui in Italia in questo momento? Sto presentando la mia collezione nuova, qui a Milano da "Wok", che è un bellissimo negozio in Via Col Di Lana. Dopo Milano mi sposterò a Roma. Parliamo un po’ della tua collezione aw10. Che mi racconti riguardo all'estetica e alla scelta dei materiali? I materiali sono molto duri e freddi. Uso molto feltro perché quando viene tagliato ha lo stesso effetto della carta. E' grazie al feltro che posso dare la forma ai miei abiti e farli sembrare sculture. Sembrano dei progetti architettonici. Il nome "Proforma" arriva esattamente da questa idea. "Proforma" significa "fare qualcosa per la forma" Nella SS11 invece, vi sono delle novità nelle forme, nei tagli e nei colori.

II tema è " Spiaggia e mare deserti", molto nostalgico. I colori sono più chiari rispetto a quelli dell'inverno. Si possono comparare a quelli che si vedono in spiaggia a Settembre. Amo quel periodo dell'anno… diciamo che si tratta più di una "Collezione di Settembre". Hai qualche novità, progetti futuri o collaborazioni per il tuo marchio? Inizierò una piccola collezione uomo per vedere cosa succede. Quali sono stati i cambiamenti più grandi per te in questi due anni, da quando ci siamo visti per la prima volta? Sicuramente mi sento più sicuro. Due anni fa ero agli inizi e non avevo la più pallida idea di come la gente avrebbe potuto reagire al mio lavoro. In Giappone e in Asia vi sono state delle razioni molto positive, come d'altronde anche in Europa e sopratutto in Italia.



Blog of the Month: We Live Young weliveyoung.blogspot.com - Intervista di Fabiana Fierotti

A soli 18 anni Nirrimi Hakanson è una stella. Fa la fotografa da due anni e ha un blog in cui racconta senza filtri tutto ciò che le passa per la testa, documentandolo con le sue foto. Interessante il suo modo di percepire la bellezza femminile... Ciao Nirrimi come stai oggi?

Una scrittrice.

un'artista del vetro che vive nel Queensland.

Sto bene…ancora un po' addormentata.

Il tuo blog, We Live Young, è super fresco.

Entrambi sono molto interessanti, le pecore

Dove ti trovi ora?

Esprime perfettamente quanto è bello

nere delle proprie famiglie che non erano

Su un divano, che momentaneamente mi fa

essere giovani e spensierati. Quando e

eccentriche quanto loro. Hanno i piedi ancorati

anche da letto, in una casa slovacca a Sidney.

perché hai deciso di aprirlo?

per terra e io non posso fare a meno di amarli.

Ma sono costantemente in movimento.

Mi serviva una sfogo e così è nato We Live

Cosa ti ispira veramente in questo

Settimana prossima sarò a New York City.

Young. Ora, grazie al mio blog, posso scrivere

momento?

Di dove sei originariamente e quanti anni

e fotografare mettendo le due cose insieme.

Giovane ed insolita bellezza.

hai?

Si capisce la tua passione per la scrittura, dal

Hai in programma qualche shoot in questi

Sono originaria del paese dell'estate,

modo in cui sviluppi i post. Mi ha incurisito

giorni? Di cosa si tratta?

Townsville e ho appena compiuto 18 anni.

quello che riguarda il tuo desiderio di avere

Si tratta di qualsiasi cosa finirà per trasformarsi.

Raccontaci un po' della tua infanzia.

un bambino. Come ti senti a riguardo?

Solitamente non lo so fino a quando non

La mia infanzia è stata selvaggia e bellissima.

A dire la verità l'ho scritto per necessità. La

incomincio a scattare.

Sono cresciuta su una casa galleggiante con

verità è che voglio avere figli da giovane ma

La mia ultima domanda: come mai hai già un

la quale abbiamo viaggiato lungo la costa

che ora forse lo sono ancora un po' troppo…

agente essendo così giovane?

atlantica. I miei genitori erano degli spiriti liberi

Direi proprio di si... Com'è la tua famiglia?

Lavoro con il mio agente da quando ho

e ho ereditato il loro modo di vivere nel mio

Ho visto foto stupende di tua madre…

16 anni. Non credo che sarei in grado di

presente.

Mio padre è un cantastorie e pittore indigeno

gestirmi da sola e il mio agente ha moltissime

Sei una fotografa, cosa avresti voluto essere?

e vive a Londra. Mia madre è una scrittrice e

conoscenze. E' grandioso.

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Live From Asia

Di Sara Ferron Cima

Come tutti avrete notato, il mercato asiatico è in continua espansione. La nostra amica Sara si trova a Shanghai da un anno così le abbiamo chiesto di documentarci un po’ sulla moda, gli eventi, i trend che si stanno sviluppando in questo momento così particolare.

C’est la vie

Back in the 90’s

Nato nel 2002 dalla mente creativa di Jenny Ji, La Vie è sicuramente l’esempio più eclatante del cosiddetto “East meets West”. Nonostante la grande influenza europea della designer (Jenny ha studiato nella nostra Marangoni), le collezioni hanno solidi rimandi all’estetismo cinese. Le linee, i colori e tutto il mondo a cui si ispira ci ricordano vagamente l’immaginario di Wong Kar Wai di “In The Mood for Love”. Attualmente il brand è distribuito solo a Shanghai, sarà che il resto del mondo non si “fida” ancora dei designer cinesi? Davvero un peccato per quelli che valgono come Jenny Ji... che dire! C’est la vie... www.lavie.com.cn

Per tutti i nostalgici degli anni ’90, Proudrace fa al caso vostro! Il brand nasce a Manila nel 2009 e i “colpevoli” di questo revival sono Rik Rasos (26 anni) e Patrick Bondoc (24 anni). Nonostante alle spalle abbiano backgrounds molto diversi (Rik ha studiato business management e Pat è designer industriale), entrambi hanno sempre condiviso la passione per la moda, per i 90’s e per le canzoni pop coreane. Il risultato di questo mix letale è ottimo : linee minimaliste dal look androgino, outfits compatibili con tutti i tipi di guardaroba e soprattutto prezzi accessibili. Li vogliamo in Italia! www.proudrace.com

Uma Wang

Shanghai Tang

Background molto accademico per Uma Wang: dopo aver studiato alla China Textile University di Shanghai si trasferisce a Londra per seguire il corso di stilismo al Central Saint Martins College. Nel 2005 presenta la sua prima collezione personale e da lì a breve il successo in patria. Il suo marchio distintivo è decisamente il coraggioso accostamento di tessuti. La sua passione per l’arte e il suo amore per il vintage sono fonte inesauribile di ispirazione. Riesce ad inventare sempre qualcosa di diverso pur rimanendo canonicamente classica. Un più per Uma! www.umawang.com

Pioniere cinese del Luxury Brand a presenza internazionale,

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ambasciatore contemporaneo della Cina di un tempo e soprattutto unica Maison Haute Couture cinese, Shanghai Tang è uno degli ultimi bastioni rimasti intatti di quello che è il “made in china” come si deve. I materiali utilizzati vanno dal cashmere della Mongolia alle sete più raffinate. Le collezioni sono sempre ispirate a quella che è la tradizione cinese: Qipao, ricami e nodi à gogo! Ogni Grand Hotel all’altezza di questo nome ha almeno un negozio Shanghai Tang. Sarà un “acchiappa turisti” o ci piace per davvero? www.shanghaitang.com



Claudia Ligari: Individual Timeless Elegance www.claudialigari.com - Intervista di Fabiana Fierotti Ciao Claudia, come stai? Benissimo, grazie! Dove ti trovi in questo momento? In ufficio, nell’est di Londra. Dove sei nata? A Morbegno, un paese del nord italia, sul lago di Como. Come mai il trasferimento a Londra? Terminati gli studi, mi sono resa conto che la mia estetica e il mio gusto non rispecchiavano esattamente la richiesta del mercato italiano, e oltretutto, trovavo che i giovani stilisti fossero troppo sottovalutati. Così ho deciso di realizzare uno dei miei sogni, quello di trasferirmi qui. Da quando hai intrapreso la tua avventura con un brand tutto tuo? Da pochissimo. Questa è la mia seconda collezione, un paio d’anni più o meno. E’ stata dura? Intendi dire è dura! perché lo è ancora! Ma ne vale la pena. Parlaci della collezione ss11. Ho voluto trasformare in abiti la

bellezza nascosta di un taglio in una tela, ispirandomi inizialmente alla famose opere di Fontana. I tagli sono netti, squadrati, a vivo. La pelle nuda si intravede a tratti e le strisce di tessuto sono disposte quasi a ricordare la forma di un scheletro umano, il tutto accostato da trasparenze che addolciscono la figura. La pelle è diventata il tessuto centrale della collezione. Sapresti definire in tre parole la tua estetica? Individual timeless elegance Che progetti hai per il futuro? Dedicarmi a tempo pieno al mio brand. In questo momento sto disegnando la nuova collezione autunno inverno 2011/12, poi una collaborazione con una textile designer americana che sperimenta nuovi tessuti utilizzando fibre e materiali del tutto inusuali.

Curiouser + Curiouser Alice Waese, nativa di Toronto, ha dato il via, dopo gli studi al Goldsmiths College, ad un brand di accessori based in London. Pelle, argento, fibre e carta. Partendo dalle proprietà dei materiali, Alice crea pezzi che non sembrano sentire il tempo, mostrando la sperimentazione dietro il processo di creazione. Tutti unisex e in edizione limitata, variano dalle 150 alle 2.000 sterline. www. curiouserandcuriouser.ca di Michela Biasibetti 40 PIG MAGAZINE

Diesel + Uffie Dopo l’uscita dell’album Sex Dreams and Denim Jeans, quale collaborazione poteva più azzeccata se non quella con Diesel? A partire dalla copertina, interamente realizzata in jeans, il brand e la cantante pop 22enne lanciano una capsule collection formata da 12 pezzi in pelle e denim, caratterizzati da un forte tocco femminile e un taglio intrigante. www.diesel.com F.F.


Over 100 stores in Italy.


Disaya Quella di Disaya è proprio una collezione da donna con la "D" maiuscola. Ogni pezzo rappresenta la complessa psiche femminile e cerca di esprimerne l'essenza attraverso le stampe, i tessuti, i tagli. E non è di certo facile. Ciò che salta all'occhio è uno stile che rimanda agli anni '90 e una predilezione per la seta. www.disaya.com F.F.

Rachel Freire

Neo Nature

Rachel Freire fa parte della grande e bellissima famiglia dei designer emergenti di Londra. La sua prima collezione è stata presentata nel 2009 durante On|Off della settimana della moda di febbraio. Il suo gusto rimanda a un immaginario futuristico, misto all'amore per la storia. Traspare anche un tocco di decandenza. www.rachelfreire. com F.F.

Clarissa Labin è alla sua prima collezione. Nata e cresciuta in Germania, si è trasferita a Londra per studiare al London College of Fashion. Dopo due anni da Christian Dior come designer di accessori, ha passato sei anni a Stoccolma come designer per H&M. Nel 2009, decide di spostarsi a Berlino dove finalmente inizia la sua avventura personale. La sua collezione "Neo Nature" combina superfici tridimensionali e influenze psichedeliche. I colori sono davvero d'impatto. Good luck Clarissa! www.clarissalabin.com F.F.

Travelling the world Prada torna alle origini e alle tradizioni del suo fondatore. Agli inizi del secolo scorso, Mario Prada viaggiava per il mondo in cerca di idee e ispirazioni per la sua casa di moda, all'epoca appena avviata. Riuscì a scovare e entrare in contatto con i più esperti artigiani di diversi paesi. Sulla scia della sua stessa storia, la maison italiana, decide di rimanere fedele a questi professionisti che rappresentano uno standard di qualità impareggiabile e dedicare ad ogni paese selezionato una collezione caratteristica. Nascono così le linee Made in Scotland, India, Japan e Perù. Prada fa rivivere questi paesi tramite capi della tradizione: la Scozia rivede i tipici kilt di lana, l'India decora i capi con il suo ricamo più prezioso, il Chikan e accessori lavorati ad intreccio. Dova, la casa produttrice di denim più sofisticata al mondo, tiene alto il nome del Giappone creando una linea che prevede sette lavaggi differenti. Il Perù crea una linea di magliera in lana di alpaca. Ogni capo, in edizione limitata, è segnato da un'etichetta dedicata al paese d'origine. www.prada.com M.B

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Silent by Damir Doma Già da un po’ di tempo teniamo d’occhio Damir Doma, designer di origini croate tra i più interessanti del panorama parigino. Silent non è altro che la sua proposta casual per la stagione aw10. Rinunciando agli elementi decorativi, Doma si concentra più sulle forme e i volumi. Jersey, knitwear, pelle e materiali selezionati sono al centro di questa scelta stilistica, contro il mercato di massa odierno. Qui ci vuole proprio un’intervista... wwww.damirdoma.com F.F.

i-D All Covers Milleneufcentquatrevingtquatre Se vi state chiedendo se questo è uno scioglilingua, beh, non lo è. Chi di voi mastica un po' di francese, sicuramente avrà riconosciuto una data ben precisa: il 1984. Si tratta di un brand creato da Amelie Carroin e Marie Colin-Madan, che si concentra sulla produzione di sciarpe e foulard in seta. Sembra di essere di fronte a veri e propri dipinti da indossare, interamente made in France. www.milleneufcentquatrevingtquatre.com F.F.

Per celebrare i 30 anni della ormai leggendaria rivista i-D, TASCHEN pubblica una raccolta, edita dal Creative Director, nonchè fondatore, Terry Jones, delle più belle copertine e i dettagli di backstage più interessanti. Un vero e proprio contenitore di ricordi, assolutamente da avere. www.taschen.com F.F.

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Welcome adidas to the denim family. PUBBLIREDAZIONALE - PIG Mag per adidas Originals Denim Testi di Fabiana Fierotti. Foto di Piotr Niepsuj. Ritratti delle designers di Sean Michael Beolchini.

adidas Originals si lancia nel campo del denim

macchie procurate dai jeans nuovi. Per saperne

per la stagione primavera-estate 2011. In effet-

di più sul mondo del denim in generale, abbiamo

ti era l’unico step mancante per completare la

pensato di visitare una vera e propria lavanderia,

collezione di un brand icona come il Trifoglio. La

la Lim Group, dove il proprietario, Gianfranco

linea Denim comprende due modelli da uomo

Stevanin, ci ha accompagnati nel percorso cono-

e due da donna, in diversi lavaggi: dall’usato, al

scitivo di tutti i diversi stadi di trattamento dei

vintage, al delavè. Ciò che ci ha incuriosito mag-

jeans. In queste pagine troverete tutto ciò che

giormente è il dettaglio dello sneaker-protector,

abbiamo visto e imparato, l’intervista alla head

particolare esteticamente piacevole (di colore

designer della linea Originals Denim, Josefine

blu, ovviamente), ma soprattutto utile nel pro-

Adberg e anche qualche curiosità sulla storia di

teggere le sneaker più chiare dalle fastidiose

questo capo, un classico ormai da secoli.

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Intervista a Josefine Adberg, designer. Ciao Josefine, come stai? Bene, grazie; mi godo il cambio di stagioni. Di dove sei e quanti anni hai? Ho 35 anni, sono nata in Finlandia e ho passato gran parte della mia vita in Svezia. Com’è iniziata la tua avventura con adidas? Lo streetwear, arricchito con una nota sportiva è da sempre una costante della mia carriera di designer. E’ da molto che sono affascinata dal brand e dal significato che porta con sè, di conseguenza non è stato difficile decidere di lavorare per loro. Ormai sono quasi tre anni e mezzo che mi sono trasferita in Germania per unirmi al resto del team Originals. Il tempo passa velocemente. Da quando ho aderito al progetto ho potuto constatare dei cambiamenti importanti, come per esempio adesso, l’introduzione del denim. Sono curiosa di vedere cos’altro ci aspetterà. Da dove arriva appunto l’idea di creare una linea Denim? I jeans fanno parte del nostro look quotidiano. In combinazione con le visioni e con i valori del brand - originalità e autenticità - il fatto di ampliare la nostra gamma di prodotti con adidas Originals

Denim ci è venuto più che naturale. Completa la nostra offerta come marchio sportivo iconico nello streetwear. Qual è la prima cosa alla quale pensi quando dici adidas Originals? A parte il marchio con le tre strisce, il trifoglio e il colore blu con il quale si firma, ciò che lo caratterizza sono le sneakers. Le calzature sono il nostro punto forte e le sneakers sono state il nostro punto di partenza per i jeans. Il vostro slogan infatti è “These jeans are made for sneakers”... Con le sneakers ai piedi e nella mente, siamo arrivati a capire velocemente quali sono le diverse necessità e ci siamo sentiti responsabili di fare qualcosa per soddisfarle. Le donne non si sentono sexy con un paio di jeans e sneakers e conoscendo bene questo problema abbiamo lavorato accuratamente sul fitting per offrire delle silhouettes che possano soddisfare i loro bisogni. Per i ragazzi invece una delle problematiche più grandi consiste chiaramente nel rischio che un paio di scarpe possano essere macchiate da un jeans nuovo. Per questo abbiamo creato un “protettore sneaker”.

Se potessi scegliere una celebrità del passato o del presente , alla quale fare indossare questi jeans, per chi opteresti? Kate Moss! Si sente moderna indipendentemente da cosa fa; e’ un mix di glamour, stile e Rock’n Roll. Hai un negozio di jeans vintage preferito? A Tokyo si trovano dei negozi vintage validissimi. La cultura giapponese ha un ottimo fiuto per riconoscere l’eccellenza delle cose, ma bisogna anche essere disposti a pagarne il prezzo. Il blue jeans è un must da diverse decadi ormai. Qual è la tua epoca preferita? Raccomando sempre di rimanere autentici e originali in qualsiasi cosa si faccia e questo riguarda anche il proprio stile - in altre parole, mettiti ciò che sottolinea la tua personalità e che ti fa sentire bene con te stesso. Detto questo, credo che gli anni ‘70 siano stati un periodo iconico e che il denim abbia avuto un grande ruolo in tutta quella scena. Qual è stato il tuo primo paio di jeans? Il mio primo capo in jeans è stata una salopette in stile contadino. Avevo circa 4 anni e la ereditai da mio fratello. La amavo!

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Come si ottengono i lavaggi del denim? Un esperto ce lo racconta. Prima di iniziare il nostro giro, Gianfranco ci ha fatto vedere e analizzare in ogni singola parte i nostri jeans adidas Originals Denim: le cuciture, il colore originale, i vari lavaggi impiegati. I più scuri costituiscono praticamente il modello base da cui si parte per effettuare le varie modifiche di colore e lavorazione. Del resto, come ci conferma anche Josefine Adberg: “un jeans esteticamente pulito ti fa venire voglia di metterlo giorno dopo giorno, senza mai stancartene. Nessun dettaglio ammazza il prodotto, niente dovrebbe mai dominare sul tuo total look. Sono convinta che il nostro denim dovrebbe fare parte della vostra vita quotidiana”.

Fase 1: Questa macchina è quella che ci ha affascinato di più. I jeans vengono praticamente “indossati” dalle due gambe artificiali, che si gonfiano fino a riempire completamente il fit. Gianfranco ci ha mostrato come si fa: ha utilizzato in questo caso un paio di adidas Originals Denim, con il lavaggio basico indaco, per spiegarci come vengono fatte le sfumature leggere che di solito si hanno sulla parte superiore della gamba, per avere un effetto più o meno usato. Ha pigiato un pulsante e il jeans si è gonfiato fino a riempire completamente la circonferenza della gamba; poi vi ha strofinato la carta smeriglio sopra per ottenere una sfumatura blu chiaro.

Fase 2: Le sfumature che danno l’effetto un po’ invecchiato delle pieghe sulla gamba del jeans usato da tempo, al contrario di ciò che tutti noi pensavamo, vengono fatte prima del lavaggio vero e proprio con una tecnica talmente semplice che ha dell’incredibile: delle sagome in plastica che riproducono sulla superficie queste pieghe, vengono inserite all’interno della gamba; sopra viene passata della carta smeriglio che le trasferisce sul tessuto.

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Gianfranco ci ha spiegato che non sempre, nel processo di lavaggio, vengono impiegati agenti chimici. Tuttavia, nel caso si voglia ottenere un colore molto chiaro e i tessuti abbiano una qualità non proprio eccellente, il loro utilizzo è necessario.

Fase 3: Quelli che tecnicamente vengono chiamati “frollini”, ovvero i piccoli tagli sdruciti fatti lungo il bordo delle tasche o alle estremità della gamba, ma anche i veri e propri buchi che danno al jeans un aspetto più vintage, vengono fatti con questa macchinetta con la punta rotante in carta smeriglio.

Fase 4: Adesso i nostri jeans sono pronti per il lavaggio. Vengono inseriti in enormi lavatrici capaci di contenere circa 50 kg di jeans e 60 kg di pietra pomice, materia abrasiva che insieme ad alcuni agenti chimici serve ad ottenere il colore richiesto. I jeans vengono lavati da un minimo di mezz’ora a un massimo di tre ore, in base all’intensità di usura a cui si vuole arrivare. Ciò dipende anche dalla qualità del tessuto. Una volta lavati, i jeans vengono passati alle asciugatrici.

Queste che vedete in alto sono delle lavatrici più piccole che vengono utilizzate per i campionari.

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The adidas Originals Denim

Come ci ha spiegato Josefine, il risvolto blu del Denim Originals è un dettaglio importante per la salvaguardia delle sneakers: parliamo del “protettore delle sneaker” caratterizzato dal trattemento di colore blu all’interno dell’orlo inferiore. Grazie a questa speciale lavorazione la scarpa è protetta dall’indaco che stinge, fenomeno che accade di frequente quando si porta un jeans scuro con le sneakers chiare di camoscio, canvas o pelle.

4 silhouette: due da donna, Cupie: un jeans skinny, vita media a gamba diritta a partire dal ginocchio in giù; e Winetta: il fit boyfriend che ti dara’ quel look come se avessi fregato i jeans al tuo fidanzato. Due da uomo: Conductor: il fit rilassato e lo stile classico con una nota moderna; e Record: un fit un po’ più attillato con il cavallo basso, vita rilassata e gamba stretta.

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Sapevate che... Il blue jeans, da “blue de Genes”, nasce a Genova intorno al 1500. Il suo tessuto resistente, prodotto a Nimes (la parola denim deriva proprio dal francese “de Nimes”) veniva utilizzato per le vele delle navi e per ricoprire le merci. Solo a partire dal 1850 il termine “jeans” viene adoperato per indicare il famoso modello di pantaloni. I primi sono i “waist overalls”, soprapantaloni da lavoro per cercatori d’oro, minatori, cowboys e marinai. Trattandosi di jeans fatti apposta per le sneakers, Josefine ci dà qualche dritta sui modelli più adatti da abbinare agli adidas Originals Denim: con il Cupie, il sandalo estivo Mesoa; con il Record un modello classico come la Rod Laver (sempre della linea Originals).

Per risolvere il problema delle tasche dei minatori che facilmente si strappavano, Jacob Davis ebbe l’idea di usare rivetti di metallo per tenerle ben salde al jeans. Nel 1950 il Denim diventa famoso tra i giovani, soprattutto perchè simbolo della ribellione in film come “Gioventù Bruciata” con il bello e dannato James Dean. A causa sua i jeans vengono addirittura banditi dai college e dalle scuole americane.

Qualche anticipazione per la stagione aw11: “L’offerta del nostro Denim sarà caratterizzata da un’evoluzione che va di pari passo a ciò che accade nelle strade. Dovrebbe essere una linea moderna e fresca, competitiva e pertinente sul mercato”. E noi sappiamo bene che un occhio sempre aperto su ciò che ci circonda, è sicuramente una carta vincente.

Il denim è blu perchè originariamente il filato veniva tinto con un pigmento ottenuto dalla tintura indaco, che era il colorante più efficace e durevole esistente in natura, perfetto per gli abiti da lavoro che dovevano essere lavati spesso. Sul nostro sito www.pigmag.com potete vedere una galleria completa tratta dalla nostra visita in fabbrica. Nei migliori negozi adidas Orginals.

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Christmas’ wish list State già pensando ai regali di Natale? Ecco la lista selezionata da PIG, traete pure ispirazione o mandateci un bel pacco in ufficio. Sarà gradito. Merry Christmas! - Di Fabiana Fierotti

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1.Chloè 2.Super 3.Maison Martin Margiela 4.Acne 5.Christian Louboutin 6.Lucio Battisti “Il nostro caro angelo”, prima stampa. 7.Azzedine Alaïa 8.adidas 9.Smythson 10.Miss Sixty 11.Givenchy 12.Zilla 13.Paul Smith 14.Swatch 15.Aubin & Wills 16.Vitra 17.Dickies 18.Pringle Of Scotland 19.Miu Miu

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1.Yamaha 2.Christopher Kane 3.Lanvin 4.L’Autre Chose 5.Daisy Knights 6.Alex Corporan, Andre Razo, Ivory Serra “Full Bleed” 7.Nike 8.Uniform Wares 9.Ari Marcopoulos “Now is forever” 10.Brionvega 11.Michael Schmelling “Atlanta” 12.Chanel 13.vintage 14.Delfina Delettrez 15.Borsalino 16.Diesel 17.Norma Kamali 18.Dr. Martens 19.Pendleton 20.Wrangler 21.Super x Barney’s 22.Roger Vivier 23.Bruce Palmer “The cycle is complete”, prima stampa

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Photographer of the Month: Grant Cornett grantcornett.com - thelivest1.tumblr.com A cura di Sean Michael Beolchini. Special thanks: Piotr Niepsuj

I colori accesi e la ricerca del dettaglio iper-realistico e inconvenzionale di Grant Cornett hanno catturato immediatamente la nostra attenzione. Ma ciò che lo ha fatto finire su queste pagine è la sua capacità di usare il digitale con lo stesso gusto e profondità della nostra tanto amata pellicola. Dopo l’ondata di materiale scattato in 35mm con macchine point & shoot, possiamo finalmente vedere ed apprezzare dei cambiamenti tra i giovani fotografi indipendenti. Dimostrando ancora una volta che nella fotografia non ci sono regole da seguire e che si tratta semplicemente di fare propria una tecnica avendo la capacità di mescolarla con lo stile giusto. Questo Texano trasferitosi a Brooklyn sta producendo una serie di immagini che hanno la capacità di catturare i dettagli meticolosamente e con chiarezza cristallina, fornendo una visuale documentaristica unica. Grant va seguito sul suo photoblog, che aggiorna costantemente. 53


Come ti chiami? Grant Leslie Cornett. Di dove sei? Texas, Brooklyn. Ci campi con la fotografia? Si, direi di si. Quando hai iniziato a fotografare e perché? Avevo 23 anni. La madre di mia figlia era incinta. Avevo molta paura e mi nascosi dietro la macchina fotografica. Le fotografie che facevo incominciarono ad avere un buon riscontro dai miei amici e tanti di loro, essendo loro stessi fotografi, mi fecero da mentori. Mi

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insegnarono come fare le stampe, mi presero come loro assistente etc…Alla fine devo tutto a mia figlia Quinn! Si tratta più di estetica o del senso delle cose? Estetica. Il catalizzatore è definitivamente la stimolazione estetica dalla quale deriva il senso delle cose. Come descriveresti il tuo modo di fotografare? Pittoresco, surreale, di un’epoca non meglio definita. Qual è la tua big picture? Le stai guardando tutte. Cosa

altera la tua percezione? I viaggi, la vulnerabilità, l’onestà, e focalizzarmi sulle cose. Le tue foto tendono ad avere dei colori molto forti. La tua vita è colorata? Va a periodi. Cosa non ti piace della fotografia oggi? Niente. Cosa ami della fotografia oggi? La sfida che comporta il fatto di lavorare con un genere artistico così accessibile. Hai mai scattato con la pellicola? Con che metodo hai incominciato a scattare e


perché hai scelto il digitale? Incominciai a scattare solo ed esclusivamente con la pellicola. Con la digitale invece iniziai quando Leica fece una Digital M. Ora scatto solo con la digitale con la quale tutto diventa più veloce e conveniente. Segui qualche regola? Se sì, quali? Si, molte che nessuno deve sapere. Chi è il tuo fotografo preferito? Ne ho parecchi, per diversi motivi. Mi sono appena avvicinato al lavoro di Paul

Outerbridge. E’ stato uno dei pionieri della fortografia a colori. Mi piace da impazzire in questo momento. Che tipo di macchina fotografica usi? 95 per cento dei miei lavori sono stati scattati con la Leica M8. Anche gli still life. Mi piace il vetro. Con questa mi piace scattare sopratutto commercialmente, ma la maggior parte dei miei lavori sono scattati con una Hasselband o una Mamiya. Che macchina vorresti usare? Leica S2 sa-

rebbe divertente. Mi serve anche una 5x7 view camera. Chi ti piacerebbe scattare in topless? Una giornata con Ernest Hemingway su una barca a pescare al largo della costa cubana. Lui ovviamente sarebbe senza maglietta. Chi dovrebbe essere il nostro prossimo fotografo del mese? Chris Anderson. Qual sarà il tuo prossimo scatto? Un film che stiamo producendo io e la mia fidanzata.

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franklin & marshall college - lancaster, pennsylvania 1961

franklinandmarshall.com

find out more about the f&m winter collection 2010



Nome? Hanna Ezzi. EtĂ ? 28. Di dove sei? Malmoe. Cosa rende speciale Gothenburg? I miei amici. Cosa non la rende speciale? Il tram. La tua ossessione odierna. Fare il pane. Il tuo film preferito? La Danse. Guarda di fronte a te, cosa vedi? L'autunno.

Street Files.

Gothenburg - Foto di Klara Andreasson - klaraandreasson.com

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Nome? Bjorn Odin. Età? 24. Di dove sei? Ostersund. Cosa rende speciale Gothenburg? Tutto, questa gente incredibilmente dolce. Cosa non la rende speciale? Non saprei. Non c'è nulla che rende questa città meno speciale di quello che è. La tua ossessione odierna. Speedos, caffè e cercare di ritrovare la roba che perdo in giro per la città. Il tuo film preferito? Brickestreet Benisteed. Guarda di fronte a te, cosa vedi? La mia bellissima ragazza.

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Nome? Pontus Westerberg. EtĂ ? 21. Di dove sei? Kungshamin. Cosa rende speciale Gothenburg? La gente, Patrik Sjoberg e il suo account su Twitter. Cosa non la rende speciale? Brutta gente e internet che non va. La tua ossessione odierna. Il basket, filmati di Kevin Daurant su youtube. Il tuo film preferito? Un VHS di una partita di hockey di Wayne Gretzkg che ho registrato quando avevo 9 anni. Guarda di fronte a te, cosa vedi? Non molto.

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Nome? Emma Faeth. EtĂ ? 33. Di dove sei? Gothenburg. Cosa rende speciale Gothenburg? La primavera. Cosa non la rende speciale? Segregazione.La tua ossessione odierna. Chanterelles Il tuo film preferito? Beau Travail di Claire Denis. Guarda di fronte a te, cosa vedi? Foglie che cadono.

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Nome? Moa Magnusson. Età? 24. Di dove sei? Kungaelv. Cosa rende speciale Gothenburg? Le buone caffetterie. Il fatto che puoi camminare a piedi quasi ovunque e la gente è carina. Cosa non la rende speciale? Il traffico. La tua ossessione odierna. Caffè. Il tuo film preferito? I love you man. Guarda di fronte a te, cosa vedi? Il sole.

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Nome? Joel Kasavi. EtĂ ? 30. Di dove sei? Gothenburg. Cosa rende speciale Gothenburg? Qui non esiste un futuro. Cosa non la rende speciale? Ponti e Tunnel ovunque vai. La tua ossessione odierna. Io stesso. Il tuo film preferito? En Karleks Historia Guarda di fronte a te, cosa vedi? Il futuro.

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Nome? Per Bckstrm. EtĂ ? 27. Di dove sei? Mamma. Cosa rende speciale Gothenburg? La posizione geografica. Cosa non la rende speciale? La mancanza di Godzilla. La tua ossessione odierna. Mangiare, dormire, giocare. Il tuo film preferito? Donnie Darko.Guarda di fronte a te, cosa vedi? La punta del mio naso.

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Elisa Palomino Intervista di Fabiana Fierotti. Foto di Piotr Niepsuj

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Elisa Palomino, designer di origini spagnole trapiantata a New York City, è stata una piacevole scoperta fatta durante l’evento Milano Unica, svoltosi durante il mese di settembre alla Fondazione Pomodoro. Il nostro è stato amore a prima vista: subito dopo la sfilata, mi sono avvicinata per congratularmi per la stupenda collezione floreale e lei mi ha ricoperta di complimenti per i fiori che portavo fra i capelli. Da lì ho raccolto un po’ di informazioni e ho deciso di intervistarla: senza sorpresa ho riscoperto una persona piacevolissima e interessante, con un amore particolare per i kimono e i viaggi. Ciao Elisa, come stai? Tutto bene, grazie! Dove ti trovi adesso? Sono sempre in giro, ora sono a Madrid. Come mai sei a Madrid? Devo finire le vendite. Starò qui per altri due giorni. Fino a ieri ero a Parigi. Com'è andata a Parigi? Benissimo! Sono molto soddisfatta…è andata bene anche a Milano! Per caso sei andata alla festa per i 90 anni di Vogue Francia? No, figurati. Ho lavorato tutto il tempo. Quale sarà la tua prossima tappa? Torno a NY dove devo continuare a lavorare alla collezione invernale. L'avevamo già incominciata da un po', ma dobbiamo lavorarci ancora su. Parlaci un po' delle tue origini, di dove sei? Sono spagnola, nata a Valencia. Ho deciso di studiare all'estero, prima in Italia, poi a Londra alla St. Martins. Lì ho avuto la grande fortuna di avere dei compagni di scuola incredibili come McQueen e Berardi, persone veramente fantastiche. Dopo scuola ho incominciato da Moschino dove ho lavorato per cinque anni e ho avuto l'occasione di capire i meccanismi del mondo della moda. E' per questo che parli così bene l'Italiano? Si. Poi torno spesso in Italia; è un po' il mio secondo paese. In che modo Moschino ha influenzato la tua percezione estetica e il tuo stile di oggi? Sicuramente, nel mio marchio delle influenze si possono trovare. Le caratteristiche di Moschino che mi sono più care sono i colori, le stampe, le lavorazioni e il senso di ironia con il quale guarda la moda. Parliamo un po della collezione che hai presentato a "Milano Unica". Mi è piaciuta moltissimo. Ho adorato le stampe floreali e mi ha ricordato un po' Courtney Love al tempo delle Hole ... Si, la collezione è molto romantica in confronto a quella che avevo presentato a Roma che era decisamente più forte, almeno per quanto riguarda i colori, come il nero ed il rosso ad esempio. Quest'anno invece volevo far vedere il mio lato più romantico attraverso colori pastello, giocando con i fiori, non solo a livello di stampe, ma anche a livello di lavorazioni, come per esempio i ricami. Per me è importante esprimermi in questo modo. Mi piace partire con tessuti piatti, elaborarli e farli diventare tridimensionali. Sono un po' come i quadri che escono dai quadri. La donna stessa

diventa quasi un fiore. Volevo qualcosa di estremamente romantico e femminile. Su chi vedresti maggiormente la tua collezione? Mi è piaciuto molto il commento di una giornalista a NY che ha detto che vedrebbe le mie creazioni su tre generazioni diverse: sua madre, lei stessa e sua figlia. Mi piace il pensiero che la mia possa essere una collezione adattabile a tutti. Non voglio creare solo per una donna giovane la quale è chiaro che abbia un corpo stupendo e sulla quale ovviamente tutto sta bene. Cerco di fare delle cose che possano stare bene a tutte; dalla donna più seducente a quella più tradizionale, dandole quel qualcosa in più che le possa fare sentire speciali. Mi puoi dare qualche anticipazione sulla collezione A/I? Hai già qualche idea? Certo, lavorerò ancora tanto sulla maglieria con cui ho avuto un grande successo lo scorso inverno. Sto lavorando con i maglioni grossi. Porto avanti anche il tema floreale che in questa stagione è influenzato da una nota orientale. Mi sono ispirata anche ai kimono, alla foresta e al mondo delle fiabe…insomma c'è un po’ di tutto. Da cosa ha origine questo tuo interesse per il mondo delle fiabe? Lo devo a mio marito, con il quale sto lavorando molto ultimamente. Lui fa film. Ne ha appena incominciato uno sulle sirene a Manhattan. Per la stagione estiva ne ha realizzato uno sulle fate e le ninfe. Mi piace molto questa linea fiabesca che abbiamo preso. Credo che sia anche un modo per evadere dalla quotidianità in un momento difficile che la nostra realtà sta attraversando in questo momento. Spero che i miei vestiti e le mie favole possano aiutare a farlo in qualche modo. Quando ti sei sposata? Ci siamo sposati l'anno scorso a capodanno. Abbiamo fatto un matrimonio molto divertente durante il quale indossavamo tutti dei kimono. Avevo portato una collezione di circa cento kimono che avevo a casa e ho fatto una sorta di fitting e di sfilata durante i quali ognuno poteva fare lo stylist di se stesso. Ci siamo divertiti molto. Come mai hai deciso di andare a vivere a NY? E' stato quando ho incominciato a lavorare per Diane von Furstenberg. Quando mi sono trovata lì ho realizzato che NY aveva bisogno di un po' più di luce, colore e romanticismo. Penso che molte collezioni americane siano

piuttosto noiose ed estremamente sportive. Volevo proporre un prodotto un po più sofisticato e romantico, non basato solo su prezzo e vendita come si usa fare in America. Anche per questo motivo ho voluto incominciare a sfilare lì invece che in Europa, che sarebbe stato più logico. Se dovessi scegliere di cambiare completamente vita e di andare a vivere da qualche altra parte, quale città sceglieresti? Uhm…è un po' difficile, ma sarebbe sicuramente qualche città europea. L'Europa mi manca moltissimo. Torneresti nella tua città natale? Non saprei. So solo che l'Europa mi manca. Mi mancano la storia e i monumenti. Forse anche perché mia madre era restauratrice…mi mancano le cattedrali, le chiese…tornerei subito! Se dovessi fare un viaggio verso una meta che non hai ancora visitato, dove andresti? Uhm… sono stata un po' ovunque… sarei già felice con qualche giorno di vacanza! Sicuramente l'India è uno dei paesi che porto nel cuore e dove torno sempre volentieri… Vorrei fare un bel pellegrinaggio, un viaggio spirituale. Immagino che tu sia già stata in Giappone, dato che collezioni kimono…? Si, è stato il nostro viaggio di nozze! E’ stato bellissimo. Dopo tutti quegli anni in cui avevo sognato il Giappone, andarci è stata un'emozione grandissima. Sono tornata con una valigia enorme piena sia di beni materiali che di ricordi meravigliosi ed incontri con gente fantastica. Da piccola avevi un lavoro dei sogni? Volevo diventare una soprano. Purtroppo ho una voce terrificante e tutti gli studi al conservatorio sono stati fatti invano… A volte canto per mio marito che però non ne è troppo contento. Ho un'educazione classica. Vado pazza per l'opera del '700 e dell '800. A volte ancora ci provo ma senza alcun successo. Ti piace solo la musica classica o ascolti anche altri generi? No. Parto dal medioevo fino ad arrivare all'800 ma non tocco neanche il '900. Sono molto rigorosa per quanto riguarda la musica. Il tuo compositore preferito? Monteverdi. Dove possiamo trovare i tuoi vestiti qua a Milano? Ci sono da Spiga 2 (il nuovo negozio di Dolce & Gabbana). www.elisapalomino.com

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Sessùn Emma François, head designer nonchè mamma del brand Sessùn, nato nel 1995, è una creatura affascinante sotto molti punti di vista. Dopo gli studi in economia ed antropologia, e un’enorme quantità di viaggi in giro per il mondo, rimane particolarmente attaccata alla cultura latino americana, che la influenza costantemente nelle proprie scelte stilistiche. Non ci meraviglia che un brand così abbia sede a Marsiglia, bellissima città portuale del sud della Francia, e non nella più fighetta Parigi; sarebbe stato quasi un pesce fuor d’acqua, dal momento che il suo punto forte è proprio una disarmante sensualità femminile, nella più totale semplicità. Intervista ad Emma François di Fabiana Fierotti. Foto di Sista Agency Ciao Emma, piacere di conoscerti! Piacere mio!!! Come stai oggi? Bene, come sempre! Quali sono i tuoi programmi per la giornata di oggi? Devo andare in ufficio, per lavorare sulla collezione aw11. Il mio obiettivo di oggi è scegliere i bottoni. Però! Hai passato un bel weekend? Cosa hai fatto? Ha piovuto! Quindi sono stata a casa e ho ascoltato l'ultimo cd che ho comprato (e anche quelli vecchi) mangiando pasticcini francesi. Dove sei nata e dove vivi ora? Sono nata a Montpellier, ma vivo da sempre a Marsiglia, nel sud della Francia. Ti piace vivere lì? Certo. Amo questo posto: mare, sole, amici, feste…e ci lavoro anche! Certo, come tutte le città portuali Marsiglia è senza dubbio affascinante... ma raccontaci un po' dei tuoi studi, penso di aver sentito qualcosa riguardante l'antropologia, giusto? Ho fatto cinque anni di economia e uno di antropologia. Sei una continua sorpresa, non c'è che dire! E che lavoro avevi in mente di fare? Non avevo le idee ben chiare. Non le ho mai avute. Stavo aspettando che mi venisse in mente qualcosa riguardo al mio futuro e al mio lavoro. Per via della tua passione per l'antropologia, hai viaggiato molto. Hai da raccontarci qualche aneddoto interessante? Agli inizi di Sessùn, mi cimentai in una piccola produzione di denim in una minuscola cittadina sul confine fra la Colombia e l'Ecuador. Questo posto era specializzato in

produzione di merce contraffatta, ma io non ne sapevo nulla. Quando arrivai a controllare l'uscita della mia prima produzione, tutto era perfetto, bellissimo ed ero contentissima. L'unica cosa che mancava, erano i bottoni…Tornai per vedere il prodotto ultimato e realizzai che il produttore aveva messo dei bottoni di Calvin Klein, per farmi felice…!!! Oddio non ci posso credere! A parte questi episodi a dir poco grotteschi, qual è il posto più bello che hai visitato? Uhm…domanda molto difficile…Picinguaba in Brasile, Zipolite e Coyocan in Messico e Mancora in Perù. Bene, non sono stata in nessuno di questi posti, mi sa che dovrò rivedere un po' le mie priorità... Quale lingua ti ha affascinata di più? Lo spagnolo parlato in Messico, molto cool e sensuale! Come mai secondo te hai ricevuto l'ispirazione che ti ha reso ciò che sei ora, mentre ti trovavi in Amerca Latina? La mia forte ispirazione al femminile mista all'esperienza degli artigiani e ai ricchi materiali grezzi che vi si trovano, come per esempio l'alpaca. Qual è stato il passaggio dall'America Latina al "Who's Next" a Parigi nel 1998? Tornai a Parigi per vendere i pochi pezzi che avevo disegnato e prodotto, per pagarmi le bollette. I pezzi erano un mix fra cultura urbana, ispirazione femminile e materiali tradizionali. Questa piccola collezione ha avuto un grande successo e piacque ad alcuni negozi. Di conseguenza decisi di concentrarmi sulla mia passione, partecipando alla mia prima fiera a Parigi. Quale credi sia stata la tua carta vincente? Stile, qualità, linearità e forse un approcio diverso alle relazioni commerciali, diciamo di natura più confidenziale.

Quando nacque Sessùn? Nel 1995, con la nascita dello street wear femminile. Com'è stato il primo periodo? Deve essere stata dura! Un misto costante tra difficoltà, divertimento e piacere. Parliamo un po' del tuo approccio estetico, che personalmente adoro… Eleganza, semplicità e freschezza. Si tratta proprio di una storia di grandi mix, che vedono il vestire autentico, le ispirazioni vintage e un ricco range di tessuti, stampe e dettagli messi insieme. Cosa mi racconti della ss11? Cè qualche tema che fa da linea guida? Ci sono non solo una, ma ben due storie. La prima è "Campus Picnic": lo stile è nettamente influenzato da una nota femminile molto dolce, delicata. La seconda è "Sweet Adventurer": un guardaroba bruciacchiato dal sole. La storia è quella di un avventuriero al quale piacciono i mercatini delle pulci, pezzi etnici e tessuti lavati e rilavati. Quali sono i tuoi programmi per il futuro? Spero di poter continuare questa bella avventura con serenità. Hai mai pensato ad eventuali collaborazioni con altri brand? Sarebbe una bella cosa, non credi? Ci sono alcuni progetti in ballo, ma sfortunatamente ancora niente di concreto… Arriverà anche il momento per quello. Progetti nella tua vita privata, invece? Magari hai qualche nuovo viaggio in programma? Quien sabe? Sessùn è distribuito in Italia da ANA www.anadivision.com www.sessun.com

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Tom DiCillo Intervista di Valentina Barzaghi. Foto di Coley Brown

Tom DiCillo si dichiara un filmmaker indipendente ed è particolarmente modesto nel pensare che pochi sappiano chi sia. “Johnny Suede”, “Living in Oblivion, “The Real Blonde”... sono tutti suoi film, ma non è finita... Il suo cv vanta esperienze come direttore della fotografia in film come “Permanent Vacation” e “Stranger Than Paradise” di Jarmusch. L’occasione per parlare con lui ci è stata data perché il suo ultimo lavoro da regista, un inedito ed emozionante biopic sui The Doors intitolato “When You’re Strange”, è sbarcato finalmente in Italia e proiettato come apertura al Festival dei Popoli di Firenze. Solare e gentilissimo, determinato e fin troppo umile, sarei andata avanti a parlare con Tom per ore e tante sono state le domande che purtroppo non ho avuto modo di fargli, ma il tempo è stato inclemente, anche perché era il suo ultimo giorno di pausa prima di tornare sul set. 72 PIG MAGAZINE


Ciao Tom, piacere di conoscerti! Come stai? Ah molto bene! Mi dispiace solo che non ci siamo potuti fare questa chiacchierata a Firenze, al festival, mi sarebbe piaciuto davvero tanto parteciparci, ma sto iniziando le riprese di un nuovo lavoro, quindi anche volendo non riuscivo ad incastrare tutto... Immagino che mi perderò qualcosa di fantastico! Dispiace anche a me non aver potuto avere il privilegio di incontrarti di persona... Incomincerei subito però a parlare del film per cui siamo qui, When You’re Strange, una sorta di biopic inedito sui The Doors, tralasciando il tuo prossimo film... per questo ci

sarà tempo di vedere e parlare. Entriamo quindi subito nel vivo: chi è stato Jim Morrison per te? Perché il tuo documentario è sulla band certo, ma molto focalizzato sul suo leader. Buona domanda per iniziare... richiederebbe una risposta di due anni, ma tenterò di rispondere in due minuti. Quando iniziai a lavorare su questo film non è che sapessi molto su Jim Morrison... Sicuramente sapevo molto di più sui The Doors, non avevo una reale opinione su chi davvero lui fosse fino ad un livello avanzato del film, quasi alla fine, quando compresi quello che fu il suo potentissimo impatto. Per prima cosa c’è da focalizzarsi sul suo aspetto umano, nel senso che Morrison era un uomo: non era un dio, non era il demonio... Un semplice essere umano e, come tutti gli essere umani, aveva un sacco di aspetti diversi, di conflitti di personalità... A volte è strano sentire le persone che cercano di spiegare chi realmente fosse: è impossibile! Al di fuori del suo essere una persona estremamente complessa, confusa, brillante, era innanzitutto un uomo che ha usato tutta la sua anima trasformandola in quello che per lui era arte. La sua vita, la sua musica, i suoi film, le sue poesie, tutto quanto, e per questo lo rispetto tremendamente... guardandolo poi oggi, con l’occhio di un sistema in cui tutto è fatto per guadagnare denaro, per essere venduto al pubblico... figuriamoci! Credo che lui non si facesse troppe domande del tipo “chissà come farò a vendere?” o “come riesco ad essere popolare?”. Da un punto di vista artistico ha avuto enorme impatto su di me perché sono un filmmaker indipendente e la battaglia che affronto ogni giorno è “come faccio a rimanere un artista indipendente, ma nello stesso tempo trovare qualcuno disposto a darmi soldi per fare un film?”. E’ come fare un patto col diavolo. Per i The Doors stesso discorso, ognuno di loro seguiva questa logica, erano talentuosi musicisti, che facevano la musica che avrebbero voluto ascoltare. E questa è una cosa che rispetto in ogni creativo. Ma ti consideri davvero ancora un regista indipendente? Assolutamente sì. Ma ti senti ancora libero nelle tue decisioni artistiche? Insomma, ormai hai una filmografia di tutto rispetto e immagino che i produttori sul set si divertano a starti alle calcagna... No, non mi sento libero. Se credi davvero questo su di me, ti assoldo per girare l’Italia e trovare soldi per i miei film (ride). E’ molto difficile essere un regista indipendente, tieni conto che da dieci anni il business cinematografico statunitense è cambiato nettamente - dieci anni fa era triste, ora è pessimo - e quindi è difficile trovare soldi. Le persone che guardano film sono cambiate, anche il modo di guardarli: dobbiamo sopravvivere in un mondo in cui il film viene visto anche su un oggetto che metti in tasca... Cosa hai amato di più di When You’re

Strange? Sicuramente aver avuto accesso a tutto questo incredibile archivio video, a tutto il materiale. Molti erano tributi, realizzati da amici che avevano frequentato la Film School con lui e che iniziarono a seguire la band. Nel 1966, un ragazzo di nome Paul Ferrara iniziò a riprendere la band ovunque fosse e terminò cinque anni dopo: io ho avuto la possibilità di usare tutto il materiale che volevo. Per me che sono un filmmaker, è stato davvero come entrare in quella mente brillante. Ovunque cercassi c’erano incredibili parti di materiale, di film... Se avessi potuto guardare tutto questo, avresti visto come la band interagiva con la camera e come “recitassero” ognuno in modo diverso, personale... che poi è anche la forza del film. Abbiamo avuto la possibilità di usare tutto il girato, senza far intervenire musicisti che ci raccontassero chi erano i The Doors. Hai usato anche HWY, il film di Morrison, ma solo gli outtakes. Perché? Una sorta di messaggio di rispetto? No, è che ho dovuto vedere tutto il materiale prima di dare una struttura filmica: il produttore mi stava letteralmente alle spalle e mi chiedeva ogni cinque minuti se avessi un concept. Prima di quello non mi avrebbe dato una lira e io volevo assolutamente fare questo film, ma gli dicevo “come posso farlo se non mi lasci lavorare?”. Ho speso dieci ore al giorno per tre settimane seduto in una stanza di montaggio e stavo diventando davvero nervoso, perché il tempo se ne andava e non avevo il mio concept. Quando finalmente sono riuscito ad organizzare il tutto, ho pensato di inframmezzare le immagini dei live e della band con le parti in cui un Jim Morrison barbuto camminava nel deserto. Ho pensato che fossero parti davvero interessanti, senza ricollegare subito che fossero stralci del film di Jim: sembrava che si stesse chiedendo, che fosse alla ricerca di qualcosa e nella mia idea di concept, volevo usare le parti più spirituali di Morrison, come se fosse davvero alla ricerca di cosa erano i The Doors e se stesso. Solo più tardi ho capito cosa avevo trovato (parti del suo film) e che HWY stava per highway... quindi ho deciso di non mettere proprio le stesse scene. C’erano le parti tagliate, ma fu un casino, nel senso che alla morte di Jim tutte le sue cose personali, tra cui libri di poesie e film, andarono alla famiglia della sua fidanzata: Pam Courson. Loro mi hanno detto “ok, ti facciamo usare gli outtakes, ma il prezzo che devi pagare è che non menzionerai in alcun modo che nostra figlia abbia avuto i suoi problemi”. Avevo un conflitto in corso perché stavo per mostrare Morrison anche nel suo lato più nero, le droghe, e non mi andava di fare uscire lei così pulita... ma alla fine credo di aver preso la decisione migliore. Ho letto sul tuo sito, che sia tuo padre che quello di Jim Morrison hanno fatto carriera nella Marina Militare (tuo padre come colonnello, quello di Morrison come ammira-

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glio), che hai potuto capirlo meglio perché conoscevi il tipo di educazione con cui era cresciuto. Famiglia a parte, cosa pensi di avere avuto in comune con lui? Questa era un’altra cosa che non sapevo prima del film, cioè che il padre di Jim fosse un militare U.S.A. e quando l’ho scoperto è stata una connessione incredibile, perché credo sia un tipo d’esperienza molto particolare per un bambino. Mio padre era un colonnello e l’idea che queste persone ti dicano sempre quello che devi fare, che tu lo voglia o meno, ha un effetto davvero forte sulla crescita di un individuo. Mio padre aveva molte qualità, ma il suo essere una persona autoritaria, con un grande senso del controllo, mi ha reso ciò che sono oggi: non mi faccio dire da nessuno quello che devo fare (ride). Se qualcuno mi spiega le cose ci penso e lo accetto, ma se mi si dice “fallo!” non lo considero nemmeno. Se guardi Jim Morrison penso che abbia avuto delle motivazioni simili al “nessuno deve dirmi quello che devo fare. Nessuno”, quindi era aperto a qualsiasi cosa, anche stato della sua anima... ma nel suo caso, purtroppo, credo che sia anche l’aspetto che poi l’ha distrutto. Tuo padre non ha mai obiettato, tentato di scoraggiarti, sulla tua carriera artistica? Sai, quei discorsi che fanno i genitori tipo “di arte non si campa”. In un certo senso ho sempre voluto avere qualità simili a quelle di mio padre. Come di dicevo, essendo stato colonnello della marina, aveva un appeal davvero forte, ma sai... Voleva che mio fratello diventasse un avvocato e invece ha fatto il dottore... alla fine succede sempre così, in quasi tutte le famiglie. Ovviamente nei confronti dell’arte era un po’ diffidente, ne aveva paura e pensava che tutto coloro che vivevano di quello, gli artisti, lo facevano alle spalle della società, approfittandosene. Ma se credi davvero in quello che fai e lo fai bene, anche tuo padre alla fine penserà lo stesso. Certo, come artista è davvero dura sopravvivere, ma non si può negare che chi vive d’arte sia davvero indipendente per se stesso... Capisci quello che voglio dire? Un artista deve pensare davvero tantissimo alla propria persona, sia psicologicamente che per sussistenza... Certo, ancora ora credo che mio padre non abbia capito davvero il perché del percorso che ho deciso di intraprendere, diventare un filmmaker, ma è solo un aspetto. Per lui deve essere stato realmente incomprensibile, però non mi disse mai che non ci dovevo provare... Visto che stiamo parlando sia di te sia di musica. Tu ti sei trasferito a NYC nel 1976, quando avevi 22 anni. Mi racconti qualcosa di quel periodo della tua vita a NYC? Erano gli anni d’oro del CBGB e dei movimenti underground... Che musica ascoltavi? Facevi parte di qualche scena musicale? Diciamo che ero a metà tra un punk e un rockabilly. E’ una domanda interessante... Diciamo che a NYC i movimenti musicali iniziarono molto presto, nel 1976 era una città

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straordinaria: c’erano energia, anima ed era tutto così reale nonostante poi non sia durato tantissimo tempo. La gente gridava “Fuck you!” a tutto quello che era noioso, sicuro e commerciale; soprattutto musicalmente, era come se la gente dicesse “svegliatevi” e lo amavo. Adoravo anche tutto quello che veniva di conseguenza, come il modo di vestire, di portare i capelli: mi ci sono gettato! Il mio gusto musicale comunque è sempre stato molto libero... Mi piacevano tantissimo i The Cramps, una band neo rockabilly, cioè prendeva le idee alla base del rockabilly e le applicava ad un sensibilità più contemporanea, di NYC: avevano un’energia pazza e libera. Uno dei paradossi più grandi è che uno dei ricordi più vividi che ho di quel periodo è che, era il 1977, invitai un po’ di persone a casa mia e tra le cose che misi su quella sera c’era il primo album dei The Doors. Mi ricordo che tutti mi guardarono come se fossi matto chiedendosi perché ascoltassi quella merda “quella musica è vecchia, cosa stai facendo?”. Ed eccomi qui, trentatré anni dopo, a fare un documentario su di loro. Mi puoi dare una tua definizione di celebrità? Wow! Questa è una domanda grossa... Ti posso dire quello che vale per molti e quello che invece penso io, cioè che le persone che credono di essere celebrità in verità sono quelle che nessuno considera. Se sei un bravo artista, musicista o filmmaker che sia, credo che non te ne freghi nulla di essere famoso. Per il resto del mondo invece celebrità significa avere qualcosa di meglio o di più grande sotto un aspetto semplicemente umano e questa è una stronzata. A furia di scavalcare le persone, passarci quasi attraverso come se neanche ci fossero, ti ritrovi vuoto. Una domanda che mi è balenata nella testa guardando il tuo documentario (nella parte in cui fai la carrellata sui volti noti della musica morti giovanissimi, tra cui Jimi Hendrix, Janis Joplin...): pensi che troppa sensibilità - a livello artistico e non - possa davvero uccidere? Beh, su questa questione abbiamo anche un esempio recente con la morte di Michael Jackson ... Credo che le persone che hanno un tipo di sensibilità così sviluppata, tendano ad avere anche un’idea di sé - oltre che di tutto ciò che li circonda - molto potente, che può arrivare a distruggerli. E’ una cosa che succede davvero velocemente, perché il resto del mondo arriva a girare intorno a loro, li osserva con così tanta fascinazione, fino a cercare un modo per riuscire a toccare la loro sensibilità, non capendo che questo possa distruggerli. Perdonami, suonerà stupido - e io qualche volta sono stupido - ma in qualche modo anche Gesù aveva la stessa energia di Morrison, quella che ha fatto unire così tante persone intorno a lui. Chi lo può sapere? Stavo solo pensando che se accettiamo il fatto che Gesù fosse a tutti gli effetti un essere umano, forse lui aveva questa particolare sen-

sibilità verso la vita e questo era il suo potere. “Vedo la vita come quest’uomo”, capisci è un pensiero così potente perché può cambiare il mondo. Jim toccava diverse delle cose che io penso e provo: aveva una relazione difficile con suo padre e credo che suo padre non lo abbia mai accettato. Morrison lasciò la sua famiglia quando aveva 18 anni, varcò la porta di casa e non tornò mai indietro. E’ un passaggio drammatico: non tutti hanno il coraggio di farlo. Tu mi chiedevi di persone che hanno questa forza emotiva e non so se lui abbia mai trovato una risposta a questa domanda. Perché suo padre lo rifiutava? Perché suo padre gli ripeteva “tu non sei un cantante”? Era questo che diceva, lo scrisse in una lettera: “tu non hai talento”. Avere que-


sto tipo di problemi porta delle complicazioni e diciamo che Jim per un lasso di tempo poteva dirsi quasi una persona fortunata, perché sembrava fosse riuscito a dimenticare... Per non parlare del fatto che è stata la prima rockstar a riuscire veramente a combinare tutti gli elementi d’attrazione che aveva: la sensualità di Elvis - ma Elvis non fu mai un poeta-, inoltre aspetti sessuali, pericolosi, sporchi alla Mick Jagger - ma Morrison le aveva davvero dentro di sé, non le creò -. Morrison era un artista tremendamente sexy: non sapevi mai cosa sarebbe successo dopo, toccava l’estremità dell’universo in ogni suo singola performance... Quindi cosa successe poi? Penso che le persone ne rimasero attonite, una creatura come Jim Morrison le portava alla vita e la sua

capacità era così forte che cominciò a crescere l’interesse, fino ad avere l’attenzione del mondo intero... E non penso che un essere umano abbia una forza sufficiente a sostenere questo tipo di attenzioni. La droga più forte del mondo non è nemmeno paragonabile alla sensazione che si ha nell’avere cento milioni di persone che ti amano, ma poi la cosa si ingigantisce e si perde il reale significato di chi si è veramente: in questo caso Jim Morrison, un potenziale ragazzo qualsiasi. Nel film ho cercato di mostrare questi suoi aspetti più da ragazzo qualunque, un giovane a cui piace ridere, un giocherellone... ma si sa che i giovani rischiano di perdersi. Se combini questo con i suoi sentimenti verso il padre, le droghe, l’alcol... Insomma, penso che per venti-

cinque anni avrebbe dovuto vivere in terapia (ride)! Non so se lui cercasse davvero la morte a 27 anni - io non lo credo - e credo che non si sarebbe potuto evitare anche se le persone accanto a lui gli avessero tentato di parlarci o gli avessero detto roba tipo “D’accordo la creatività, la pazzia, ma non ucciderti”. Scusa sto andando a piede libero (ride), è stata una risposta infinita... non so se mi sono spiegato (ride). Grazie mille per il tuo tempo Tom... Grazie a te, mi è piaciuto rispondere alle tue domande. Sono ancora davvero spiacente di non aver potuto personalmente fare un salto al Festival dei Popoli, mi sarebbe piaciuto moltissimo.

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Glasser Intervista di Marina Pierri. Foto di Harley Weir

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Alla domanda “ma avevamo proprio bisogno di un’altra cantautrice?”, ricordate che la risposta è “si”. Non ci sono mai abbastanza songwriter al mondo e certo non saremo noi a lamentarci dell’ascesa della nuova Cat Power, della nuova PJ Harvey o della nuova Bjork (a seconda della vostra preferenza). I paragoni, comunque, non fanno del tutto giustizia a Cameron Mesirow, che è una figlia d’arte spigliata e solare, con un’estetica ben chiara e una voce che ricorda tutto e niente. “Ring”, il suo album di debutto uscito per l’ottima True Panther, è un gruppo prismatico in cui ognuno è invitato a vedere il riflesso delle sue passioni e inclinazioni, che si tratti di elettronica o new wave, musica etnica o folk. In quest’intervista abbiamo indagato le sue radici, passando dal primo album che abbia mai comprato (a 7 anni) alla casa in cui è nata. Ci ha anche raccontato della sua passione per i colori e i gioielli, per lo show americano “Project Runaway” e per l’eterna New York City. Ecco la verità: saremmo rimasti a chiacchierare con lei per ore. È nata una stella - si chiama Glasser. Nome che ha rubato ad un (suo) sogno. Ciao. Cameron? Ciao, ciao! Mi senti? Si, ti sento. Ciao! Ciao. Che ore sono lì? È mezzogiorno. Sono a Los Angeles. Oh. Avevo letto che ti eri trasferita a New York… Si, mi sono trasferita, ma sono in tour e stasera suono qui. Che, poi, tu sei di Los Angeles, giusto? Non sono di Los Angeles, ma ho vissuto in città gran parte della mia vita. In che area di New York abiti? A Soho, al momento. Ah, bello. Sono stata da pochissimo alla CMJ Music Marathon, proprio a NYC. Figata! Io ci ho suonato due o tre volte, neppure due settimane fa. Lo so. Purtroppo a causa di impegni incrociati ho perso la tua performance al Pitchfork Festival (l’Offline Festival, manifestazione parallela al CMJ “ufficiale” organizzata dalla celebre webzine, NdR). Mi hanno detto che sei stata… folgorante! Grazie, è stato divertente. Mi hanno contattata loro. Sono stati davvero gentili. E il Brooklyn Bowl (dove si teneva il tutto, NdR), cosa non era? Pensa che non ci ero mai stata! La sera in cui ho suonato c’erano un sacco di cose tutte assieme: la gente che giocava a bowling, che mangiava, che ascoltava… l’atmosfera era allegra. Non facevi parte, comunque, del pannello ufficiale del CMJ, o sbaglio?

No, non credo! È sempre così: i party carbonari che gravitano attorno ai festival sono sempre più interessanti. Parlando di questo, l’altro mio show è stato alla festa di Fader (il giornale) e a un certo punto se n’è andata la luce! Una cosa delirante. Ah, accidenti, l’ho letta questa: c’è stato una specie di blackout mentre eri sul palco e tu hai sorriso alla cattiva sorte e cantato a cappella. Si, esatto! Ho letto un report entusiasta in merito. Avrei voluto esserci. Per il pubblico dev’essere stato una specie di happening. Non sono stata, in genere, molto fortunata durante il CMJ. Pensa che dovevo anche suonare in un altro posto a Brooklyn, il Coco 66, ma i poliziotti l’hanno chiuso minuti prima che andassi in scena. Quel genere di occasioni, comunque – dico i festival – sono sempre caotiche. Bisogna essere preparati a improvvisare. Hai mai suonato al SXSW? Si, l’ho fatto. Però, devo dirti la verità, mi sono divertita molto di più ad ascoltare le band che a suonare. Ero davvero poco conosciuta ai tempi ed era deprimente fare e non fare parte del SXSW allo stesso tempo. Spero che quest’anno sia differente. Io credo di si. Poi lì c’è questa regola inespressa per cui “più volte suoni più dischi vendi”. C’è gente fa diciotto show

in cinque giorni… Lo so! Temo molto di non farcela, ma proverò anche io a buttarmi nella mischia. (cade la linea) Cameron? Scusa. Ti chiamo da Skype e cade la linea. Oh, grande! Fai benissimo. Anche io lo uso da matti! Si, tra l’altro sono seduta per terra vicino alla vasca, perché la mia casa è piuttosto piccola e il mio fidanzato è di là che fa delle telefonate di lavoro. (ride, NdR) Ma dove ti trovi, in Italia? A Milano. Ah, a Milano! Ma ci ho suonato poco tempo fa… i tour diventano un pasticcio nella testa dopo un po’, non ricordo esattamente dove, però ho fatto da spalla a Jonsi. Hai presente? Il cantante dei Sigur Ros. Dio mio, mi ricordo che era davvero pienissimo. Mi sa che lui ha una fan base notevole lì da voi: era davvero, davvero evidente. Quanto a me, devo dire che la mia musica è molto diversa dalla sua, ma la gente ha apprezzato – mi pare. Ma quando sei venuta, hai visitato un po’ la città? No, non l’ho vista per nulla. Mi piacerebbe venire in occasione della Fashion Week. Oh. Io non sono una grandissima appassionata di moda. Sono un’amante delle cose belle e, soprattutto, ho un debole per i colori, cosa di cui forse ti sarai accorta già guardando la copertina di Ring. E poi

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impazzisco per i gioielli. Ci vuoi lasciare qualche nome in particolare? Sonia Boyajian è una delle mie preferite (ho fatto un po’ di ricerca, NdR: www. soniabstyle.com). Mi piacciono gli oggetti, ma anche i vestiti “complicati”, pieni di dettagli e colori, anche se finisco sempre per vestirmi di nero, specie sul palco, è un riflesso quasi spontaneo. Ma ci sto lavorando. In occasione degli show del CMJ, ad esempio, ho scelto il rosso… Ho visto qualche foto. Sembrava un vestito di Comme Des Garçons! No, non lo era! Era un ensemble creato con una blusa molto larga, tipo kimono e un paio di pantaloni, che ho messo assieme io. Quello che mi dici, invece, mi fa pensare un po’ allo stile di Marni. Certo, conosco Marni… i gioielli sono eccezionali. Ecco, niente, hai capito allora. Non devo spiegarti nient’altro. Bene, parliamo un po’ del tuo progetto adesso. Di Glasser. Ho cercato su qualche

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vocabolario online ma sembra una parola inesistente. Lo è o sono i dizionari in rete ad essere pessimi? Oh, no, non significa nulla! È una parola che ho inventato io. O meglio, non proprio inventato. L’ho sognata. Wow. So che è veramente nel peggiore clichè dei giornalisti musicali chiedere a un’artista perché ha scelto il suo pseudonimo, ma in questo caso sono intrigata, specie considerato che sembra davvero esserci una certa sinergia tra il nome che hai scelto e il genere che suoni. O almeno questa è la mia impressione. In breve, nel sogno c’era un uomo che poteva volare e fluttuava su una piccola distesa di acqua. Il suo nome era Glasser… È stato un momento à la Doc Brown, in Ritorno al Futuro, tipo il sogno del flusso canalizzatore? Ti sei svegliata e hai detto “adesso metterò in piedi una one woman band e la chiamerò Glasser!”? Oh no, non è stato un momento determinante, o significativo. Il sogno non

aveva senso. O almeno non mi sembra che l’avesse. Solo piuttosto… scenografico. Comunque, ho letto che, per dire, non hai studiato musica dalla più tenera età e il tuo sogno di ragazzina non era fare la musicista. È verissimo, non ho avuto istruzione di quel tipo. Ho iniziato a comporre pezzi come Glasser circa tre anni fa, ma sin da piccola sapevo di avere un’inclinazione per la musica. Sono cresciuta in una famiglia abbastanza particolare, in questo senso. Ho letto. Tuo padre è membro dei Blue Man Group e vive a Berlino; tua madre, beh, anche lei ha una storia intensa alle spalle, come musicista. Si. Come saprai quando ero piccola ha fondato una band focalizzata sul kazoo, i Kazoondheit e poi gli Human Sexual Response. Che si sono sciolti da parecchio ma hanno avuto la loro fetta di fama. Tu ti chiami Cameron di nome, ma in realtà è il cognome da nubile di tua madre, giusto?


Esattamente. E… Essere stata tirata su in questo ambiente non convenzionale e carico di musica mi ha reso ossessionata a mia volta. Ho cominciato a comprare dischi quando avevo 7 o 8 anni: musica pop, ovviamente, roba da

Mh, credo di si. Se intendi gente che gira con una mega-cresta fatta ad hoc, quello si. Tra l’altro esiste una curiosa asimmetria tra l’uso della parola “punk” negli Stati Uniti e in Europa. Mi pare che voi americani la usiate per definire ciò che è “alternativo”, ossia che sia una specie di

lo stai facendo. Ah! Il mio è stato True Blue di Madonna. Amo da morire anche quello! E una buona domanda, comunque. Forse per me – e magari anche per te – il momento in cui ho deciso di andare a rovistare tra gli scaffali di dischi e non di giochi è stato un punto di

classifica, ai tempi. Mariah Carey, cose del genere, di cui non andare troppo fieri! Poi, più avanti, ho scoperto i Nirvana, i Red Hot Chili Peppers… poi è arrivato il momento del punk, con tutto quello che comporta e infine tutto il resto. Specialmente la new wave. Credo che sia un percorso comune a molte ragazze (me compresa). Ma dimmi una cosa: è vero che il punk è molto… presente, in Italia? È vero che esiste gente che si veste a quel modo, nicchie determinate che ascoltano solo quello? Voglio dire, certamente ce ne sono tante anche negli USA, ma non so chi – parlando – mi aveva detto che è un genere molto amato lì da voi.

termine ombrello. Da noi invece, designa proprio quello: Sex Pistols e compagnia bella. Solo quello, o quasi. Che io sappia. Al massimo un certo atteggiamento. Certo, me lo ricordo: Janet di Janet Jackson. Adoro quel disco. È una grossa transizione, per una bambina: hai sei anni, i tuoi genitori ti portano fuori a fare una passeggiata come sempre e arriva la volta in cui smetti di strepitare davanti alla vetrina di un negozio di giocattoli. Arriva la volta in cui dici: oggi non mi compro, che so, una bambola, mi compro un disco. Una cassetta, ai tempi, forse. È un momento davvero importante, come passare una grande staccionata. Percepisci di stare cambiando – o forse non lo percepisci, ma

svolta quasi identitario. Poi, diciamocelo, a sei anni la musica si apprezza quasi più per quello che fa, che per quello che è. E per me afferrare Janet è stato come dire: “io sono, o voglio essere, il tipo di persona che ascolta questo”. E… nella casa dei tuoi c’era qualcosa tipo uno studio di registrazione sotterraneo, un posto dove la famiglia suonava, o una cosa del genere…? Si, c’era, ma non era uno studio di registrazione. Era una grande stanza foderata di cartoni di uova, sai, il luogo comune della sala prove. Non posso dire che ci passassi molto tempo, anche perché è stata una casa che abbiamo lasciato moltissimo tempo fa.

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Com’è stato venire su in un ambiente così creativo? Ripensandoci, è stato fantastico. Mi considero molto fortunata. Ma certamente non posso dire di averla pensata sempre così. Quando hai cinque anni e i tuoi ti portano per mano in un night club, non puoi raccontarlo ai tuoi coetanei perché non hanno le categorie né gli strumenti per capire il tipo di esperienza. Andavo alle prove, ai concerti e tutto quanto. Volevo andarci, ovviamente, specie se a esibirsi erano i miei; anche se di tanto in tanto mi pesava non avere uno stile di vita più “regolare”. Grazie a Dio non sono mai stata messa in situazioni difficili, o troppo particolari per la mia età, come nei racconti di figli di musicisti che emergono di tanto in tanto. La mia è una questione più che altro di percezione. È capitato a volte che mi sentissi in imbarazzo, cioè che il lavoro dei miei mi imbarazzasse. È normale, del resto! Quando si cresce si tende a preferire quello che è uniformazione a quello che è anticonformismo. Le cose prendono i contorni giusti quando si è grandi. Adesso ovviamente considero mia madre e mio padre un grande motivo di orgoglio. E come ti trovi a New York, adesso? Benissimo, anche se non ho ancora un posto mio. La città è perfetta per qualsiasi cosa, ma la ricerca di un appartamento è infernale. Specie se non ci si vuole accontentare della prima cosa che capita. E io, appunto, non lo voglio. Per fortuna la cosa non nuoce per nulla al mio progetto, a Glasser: tutto quello che faccio è “portatile” e per provare o comporre mi serve lo stretto necessario. Tipo, un computer! La sensazione che ho avuto a New York è stata strana, per quello che concerne la musica indipendente almeno: è come se lì l’idea stessa di nicchia fosse scomparsa, o si fosse andata a nascondere in anfratti abbastanza reconditi. Cioè, se vai a fare la spesa a Brooklyn, è probabile che dalle casse del supermercato suoni il disco degli Animal Collective. Eh si, conosco il sentimento. La parola giusta per New York credo sia “competitiva”. È una cosa trasversale, che coinvolge moltissime aree della vita quotidiana: dagli appartamenti, appunto, fino all’essere in una band. Non c’è altro posto al mondo in cui vorrei vivere adesso, ma ammetto che trovarsi costantemente in mezzo a cose che il resto del mondo reputa “speciali” le renda sempre più ordinarie. E questo è un peccato. È un sentimento

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contro cui bisognerebbe combattere. Tornando a te. Ho letto che hai una grande passione per i Muppets. Si, sono profondamente appassionata di Muppets (ride, NdR). Ma soprattutto di Jim Henson, il loro creatore. Immagino conoscerai Labyrinth, o Fraggle Rock. Ma Kermit e la gang erano famosi quando eravate piccoli voi, in Italia? Si, credo che qualcosa sia andato in televisione. Ma il fenomeno, suppongo, sia rimasto più marginale rispetto agli Stati Uniti. Cioè, da quello che ho visto, non c’è un bambino di America che non sappia chi è il Cookie Monster; non so se da noi si possa dire altrettanto. No, infatti, è piuttosto raro. Ma, vorrei capire, quello che dici averti ispirato di Henson, è più a livello musicale o creativo, in maniera generica? Lui è un autore, un creatore straordinario. Quello che mi affascina è la sua capacità di costruire realtà parallele, alternative, con palette di colori variopinte e originali (te l’ho detto che sono fissata con i colori). Può darsi che sia penetrato nel mio orecchio anche per quel che concerne certe melodie, ma dopo tanti anni credo che la sua influenza sia indistinguibile, ossia, magari c’è, ma io per prima non la sento più. Soprattutto, da dove è venuta fuori questa storia dei Muppets? Non credo di aver trovato una singola intervista o articolo sul tuo conto che non citasse questa faccenda! E noi abbiamo riconfermato. È vero, accidenti, l’ho detto a una sola persona, non ricordo chi esattamente e poi tutti l’hanno presa da lì. Immagino che non sia così frequente imbattersi in un musicista che parla di Sesame Street. L’infanzia ci avvicina tutti. Ed è un ottimo spunto di conversazione. Rimanendo in tema di omaggi e “cose che amiamo e non sappiamo come ma fanno parte di quello che facciamo”, il video di Mirrorage contiene una citazione precisa della Loggia Nera di Twin Peaks… Lo so, è pazzesco. Mi credi se ti dico che non ci ho pensato, che non ci ho fatto caso? Me ne sono accorta soltanto dopo. D’altronde io adoro l’immaginario di Lynch e la Loggia Nera effettivamente mi è rimasta dentro. A dirti la verità, però, non sono una grandissima amante del cinema e della televisione, devo essere nel mood giusto per lasciarmi andare, rilassarmi: e non mi capita così spesso. Di questi tempi si finisce sempre a parlare

di serie televisive. Come ti difendi, allora, con gli amici, nelle conversazioni? No, ma qualcuna ne guardo! Sono stata innamorata di Six Feet Under e di recente ho seguito con passione Project Runway. Credo che vada in onda sulle reti a pagamento. Ma ovviamente so di cosa si tratta: è il reality condotto da Heidi Klum, protagonisti una serie di aspiranti stilisti che devono creare abiti e accessori con limiti di tempo e ostacoli di ogni sorta, dico bene? Si! È incredibile quello che una mente creativa è in grado di ricavare da… praticamente niente. Bene. Chiusa parentesi. Riprendendo l’argomento musica, il tuo stile canoro viene spesso paragonato a Bjork e Joni Mitchell. Vivi questa cosa come una sfida, un onore o… Mi spiace solo che nessuno mi associ a un uomo! Mi piacerebbe. Mi sembra di essere vissuta come cantautrice, con tutto quello che il nome si porta. Tutte le cantautrici vengono avvicinate l’una all’altra, sempre donne con donne, mai donne con uomini o viceversa. Sarebbe un bel cambiamento. Ce n’è qualcuno in particolare? In realtà pensarci è difficile anche per me… Comunque Joni Mitchell è stata una colonna portante nella mia formazione musicale, mi ha ispirato all’ennesima potenza. Un’altra donna che è di grande rilevanza per la mia musica è Karin Dreijer Andersson. Fever Ray e The Knife. Si, anche se in realtà l’ho ascoltata pochissimo con The Knife e moltissimo con Fever Ray. Insomma, qualsiasi cosa faccia. La adoro. Di solito non ascolto molta musica “nuova”; credo sia una cosa comune a molti musicisti, che finiscono per essere più assorbiti dalla loro. Però dopo essere stata in tour con gli xx li ho messi in loop nello stereo. La loro musica è universale e sono certa che ci accompagneranno per un bel pezzo (anche se lì per lì, devo dire, non ci ho parlato parecchio). Adoro anche Caribou… Anche, forse sono solo io, ma in Ring mi pare di avere sentito una eco della musica tradizionale giapponese… Sono stata in Giappone e ci sono molte scale pentatoniche nell’album, a cui sono dedita da quando ero piccola… penso sia stato questo a darti l’impressione. Non sono “fissata”, ma ho un certo feeling con la cultura del posto e - come hai capito - sono affascinata dalle forme, dunque il loro design mi fa impazzire.


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Four Tet

Intervista di Gaetano Scippa. Foto di Piotr Niepsuj. Special thanks: Teo (Spingo), Damir (Dna Concerti), Elena Barolo (Club to Club)

In poco più di dieci anni è diventato un pilastro dell’elettronica mondiale, un nome imprescindibile capace di influenzare giovani produttori dubstep – a partire dall’amico Burial – e IDM tanto quanto gruppi post-rock. Come Four Tet, il ragazzo di buona famiglia inglese Kieran Hebden ha prodotto cinque album seminali, senza contare i lavori di Fridge, le compilation e gli innumerevoli remix. Persino i brani di Radiohead e Black Sabbath sono stati sottoposti alla sua tecnica da manuale e a una sublimazione quasi maniacale della ripetizione. Ma da quando la sua genuina passione per il digitale si è incrociata con l’arte pura del leggendario Steve Reid, nulla è stato più come prima. Kieran ricorderà il 2010 come un anno speciale, per la nascita del figlio, la scomparsa dell’anziano amico Reid e l‘uscita del deflagrante album “There is Love in You”, cui ha fatto seguito un lunghissimo tour mondiale. In una Torino internazionale, piacevolmente invasa dal festival Club To Club, lo abbiamo incontrato in esclusiva. 82 PIG MAGAZINE


Stasera suoni dopo Caribou, cui sei legato da lungo tempo. Sì, la nostra è un’amicizia di lunga data. Conosco Dan (Snaith, ndr) da ancora prima di iniziare a pubblicare musica, quando mi invitava in Canada per dei djset. Poi si è trasferito a Londra, proprio in fondo alla via dove abito io, per cui è stato più facile frequentarci e scambiarci opinioni sulle reciproche produzioni. Quando lavoro a una traccia che ho ascoltato duemila volte, lui è la persona adatta per darmi il parere definitivo. Lo stesso vale per lui, prima di pubblicare un album mi fa sempre sentire prima le tracce per una mia opinione. E’ bello avere un partner che possa bilanciare le idee quando si lavora per lo più da soli con la musica, come facciamo noi. Avete anche in comune il concetto di psichedelia. Questa parola in genere mi fa venire in mente cose del passato, degli anni Sessanta. Molta musica che la gente descrive oggi come psichedelica a me suona invece del tutto normale. Chi usa in modo ripetitivo droni, rumori, stranezze in attacco, nel bilanciamento del suono e così via, è etichettato come psichedelico, ma non fa altro che emulare band retro hippy. E’ meno facile fare musica estrema risultando originali. Cosa rappresenta per te la musica? La musica è la mia vita, la mia religione. E’ ciò che mi dà un senso e uno scopo. Attraverso la musica riesco a esprimere gioie, ricordi e situazioni annesse. E’ una costante così come lo sono il mangiare, il dormire, il parlare con le persone. Quando è nata questa passione? Fin da piccolo ho sempre amato la musica che mio padre suonava in casa, i dischi che metteva. Quindi diciamo che sono cresciuto adolescente già con un buon bagaglio musicale alle spalle, avendo assorbito di tutto senza nemmeno realizzare come. A quell’epoca mi ero costruito un gusto personale, a 14-15 anni ascoltavo molto hip hop tipo Cypress Hill. Riconoscevo tutti i campionamenti di vecchio soul che si trovavano nelle loro tracce, perché avevo già ascoltato gli originali. Avere un senso della storia della musica in giovane età è senza dubbio un vantaggio, perché ti fa scattare la curiosità di scoprire nuove cose molto più velocemente. Mi appassionai agli Stereolab e ogni volta che li ascoltavo mi domandavo da chi traessero ispirazione, quindi mi recavo immediatamente a comprare i dischi di Can e Neu!. Che dischi metteva tuo padre? Soprattutto jazz e soul, ma anche molti cantautori americani come Tom Waits e

Townes Van Zandt. Non è propriamente musica da teenager. Dove trai gli spunti per scrivere un nuovo pezzo? Fare musica per me è un processo continuo, di costante esplorazione. Non mi fermo mai a pensare: “Adesso faccio il mio miglior disco, un album perfetto”, ma cerco piuttosto di documentarmi sul tipo di viaggio musicale che voglio intraprendere. Mi soffermo a pensare cosa ho fatto prima, dove mi trovo in quel preciso istante, dove voglio andare, che cosa mi sta entusiasmando e cosa sta accadendo nella mia vita. Più vado avanti e più mi capita di ascoltare musica in modo diverso. Per esempio, quando ho fatto l’ultimo album era un periodo in cui ascoltavo molta house. Adesso sto consumando un genere totalmente diverso che è la vecchia musica tradizionale scozzese, ma questo non significa che il mio prossimo album suonerà “bagpipe” (cornamusa, ndr). Se rifletti sui tuoi 13 anni di attività e vedi dove sei arrivato, sei soddisfatto? Guardarsi indietro è molto importante, ma spero di poterlo fare tra 30 o 40 anni per ripercorrere un mio personale documentario di viaggio musicale perché, ripeto, ogni album non definisce un suono, ma piuttosto un momento. Quando a casa riascolto i primi dischi di Miles Davis degli anni Cinquanta e quelli di metà anni Settanta, sono radicalmente diversi ma, voglio dire, è sempre Miles Davis. Anch’io un giorno vorrei avere un “catalogo” come lui. So per certo che se guardo indietro alla musica che ho fatto non è la soluzione più salutare, perché mi devo evolvere, ci deve essere un cambiamento. Ripetermi sarebbe uno spreco di energie. Ogni tuo album però non è a se stante, si sente un’impronta precedente. A partire da Fridge… Oh sì, puoi sentirmi in ogni disco. Il mio stile produttivo è quello, il mio gusto non cambia. Certi tipi di melodie, il modo con cui compongo alcuni pezzi e le dinamiche saranno sempre presenti perché rientrano nelle mie capacità. Non potrei fare cose differenti da quelle che faccio, non saprei proprio come affrontarle. Ad esempio non potrei mai mettermi a rappare, suonerei terribile (ride, ndr). Preferisco lavorare su ciò su cui mi sento preparato, su cui posso aggiungere del magico. Qual è invece un tuo punto di debolezza? Non so cantare né canticchiare in modo intonato. Meglio così, se avessi saputo farlo da ragazzo sarei probabilmente finito in qualche orribile band incazzata o gruppo grunge, prendendo una direzione

totalmente opposta. Cos’è che ami particolarmente in una composizione? Ciò che mi viene più naturale: le ripetizioni. Nella mia musica come in qualsiasi altra musica che amo, techno, hip hop o funk, ho bisogno di sentire delle ripetizioni. Anche nella classica minimalista, dove si prende un tema e se ne esplora ogni possibile variazione, appena ne trovo uno che mi piace e mi interessa, vorrei sentire e risentire solo quello. All’infinito. Chi suona tutti quegli strumenti, alcuni anche piuttosto strani, che si sentono nelle tue canzoni? Non suono fisicamente alcuno strumento né utilizzo musicisti dal vivo. Il concept dei miei album è che tutto il suono sia trattatato da me elettronicamente. Anche se senti una parte di chitarra e magari l’ho suonata io, quello che senti in realtà è una parte di chitarra ricostruita, registrata e poi rieditata al computer. Il modo in cui creo il suono, come Four Tet in particolare, è tale che quello che si ascolta è umanamente impossibile da riprodurre. Nessun essere umano potrebbe suonare così quegli strumenti, un’arpa o un flauto, anche quando questi suonano in modo tradizionale perché improvvisamente vado avanti o indietro di una nota per creare qualcosa di speciale. Se mi mettessi qui con una chitarra, per cercare qualcosa di unico, sarebbe praticamente impossibile. E’ lo strumento esistente più esplorato. Elaborando lo stesso pezzo di chitarra al computer ho molte più chance di trarne qualcosa di originale. Per me la musica è aggressivamente elettronica, è molto digitale nel modo in cui è costruita e questo può creare illusioni. E’ anche vero, però, che arrivi da un’avventura importante con Steve Reid (il leggendario batterista scomparso lo scorso aprile, ndr) dove la macchina lasciava ampio spazio al lavoro e al sudore umano. Cosa ti ha lasciato quell’esperienza? Oh, tantissimo. Lavorare con un musicista del genere, un maestro, ha dell’incredibile. Suonando con lui ho imparato molto sul ritmo, sulle dinamiche e sulle composizioni. Una delle cose che le persone non capiscono, o non notano nell’immediato soprattutto dei musicisti jazz americani che improvvisavano negli anni Sessanta e Settanta, è la struttura che sta nella dinamica. Steve sapeva esattamente il timing, quando costruire e quando invece fermarsi. E’ molto più facile lavorare sulle linee ritmiche e melodiche che entrare in una composizione complessa e capire dove va a finire. E’ lì che sta l’arte. Sono sempre

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stato consapevole della mia provenienza londinese, di far parte di una classe media europea fortemente influenzata e attratta dalla musica sudafricana e americana fatta da gente completamente diversa da me. Musica che non è nel mio sangue, nella mia cultura. Da qui a lavorare con qualcuno come Steve, che è l’essenza di quella musica, di quella tradizione ritmica, prendere direttamente la fonte e legarla alla mia musica senza doverla ricreare artificialmente, beh, è stato fantastico. Ti manca? Diavolo se mi manca. Come amico prima di tutto. Quando se n’è andato qualche mese fa è stata una tragedia per molte ragioni. Però mi sento benedetto per averlo avuto vicino per cinque anni e soprattutto perché in questi cinque anni non abbiamo mai perso un minuto di tempo. Abbiamo fatto il massimo possibile, registrato molto materiale, viaggiato insieme, siamo stati almeno quattro o cinque volte qui in Italia. Sapevamo entrambi che stavamo facendo le cose nel modo giusto. Cosa ti ha insegnato? Era uno che dava così valore alla musica e alla vita che non pensava affatto alla carriera, ai soldi. Pensava solo a farsi rapire dalla musica. E paradossalmente era uno dei musicisti dalla carriera più incredibile che si potesse incontrare. Se chiedi ai musicisti di oggi cosa sognano, ti dicono di voler finire su Mtv e di suonare a un concerto enorme con un pubblico enorme. Steve invece rispondeva così: “Vorrei suonare la migliore musica possibile”. There is Love in You ha a che vedere con la tua vita privata, con la nascita di tuo figlio? Non molto, nel senso che è stata una coincidenza positiva. Avevo già stabilito il titolo quando seppi che sarei diventato padre e lo dissi a un amico, il quale rispose: “Ah lo chiami così perché Catherine (la compagna di Kieran, ndr) è incinta”. A quel punto pensai che quel titolo sarebbe stato veramente appropriato. E’ cambiato qualcosa nella tua vita da quando sei diventato padre? Oh yeah (lunga risata, ndr)! E’ stata un’esperienza fenomenale. Quest’anno è stato il più lungo della mia vita. Il disco in uscita, la scomparsa di Steve, la nascita di mio figlio. Tre dei più grandi eventi della mia vita concentrati in pochi intensissimi mesi. Ora mi ritrovo a fare musica nei weekend, perché durante la settimana devo badare a mio figlio. Passo delle nottate in cui vado a dormire alle nove di sera, mi sveglio all’una di notte, vado a suonare in un grande club per un’ora e mezza davanti a migliaia di persone, torno a casa, dormo per altre

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due ore circa, mi alzo appena si sveglia il bambino che curo fino all’ora di pranzo, poi magari torno a letto per il resto del pomeriggio. E’ una sensazione stranissima. A volte, quando entro in un club colmo di gente magari strafatta e col sudore che gronda dalle pareti, penso che solo mezz’ora prima stavo cambiando un pannolino e ora devo mettere i dischi. Mi viene in mente Pablo’s Heart. Quello è il battito cardiaco del mio figlioccio. Sono il padrino di uno dei figli di due cari amici. Mi mandarono un messaggio registrato col telefonino dall’ospedale. Amplificai quel battitto all’inizio di un concerto: era incredibile come un cuoricino così piccolo potesse emettere un suono tanto potente e spaventoso. Parlando di club, c’è una traccia intitolata Plastic People. E’ un luogo che mi ha sempre ispirato, perché ogni volta che ci vado vivo la musica in modo diverso da qualsiasi altro posto per tipo di suono e atmosfera. Durante il making of dell’album ero resident lì, per cui ho avuto modo di testare le nuove tracce e ciò si è riflesso sul risultato finale del disco. Quel pezzo concentra tutte le influenze del periodo e non credo l’avrei mai scritto se non avessi fatto le serate al Plastic People. Quanto ti è servito fare djset per produrre musica? Quando cinque anni fa in UK c’è stato un ritorno alle rock band, in quel periodo ero resident con Timo Maas al The End. C’erano appassionati da tutta Europa che conoscevano quasi ogni disco e si godevano le serate in modo molto semplice e puro, senza hype. Questo mi ha riportato alla musica dance, a fare sempre più serate come dj, con l’impressione che negli ultimi due anni ci sia stato un vero boom del clubbing. Cosa pensavi quando ancora non si conosceva l’identità di Burial e qualcuno ipotizzava addirittura che fossi tu? Mi divertiva molto tutto quel vociare, in particolare su Internet e nei message board. Era anche strano per me, dato che lo conoscevo da anni. Quando abbiamo fatto uscire Moth/Wolf Club, in realtà ci abbiamo messo secoli a organizzarci perché era già pronto all’epoca in cui Burial era esploso con il suo primo 12”. Avevamo il problema di far uscire il lavoro nel modo più semplice possibile, cercando di evitare isterie di massa per far concentrare le persone sulla musica. E’ assurdo, è stato il disco in vinile più venduto nel 2009 in UK. E non aveva nemmeno una grafica. Ne approfitto per farti la stessa domanda che ho posto a Steve Goodman (Kode9,

ndr): perché Burial non suona dal vivo? Non è nella sua natura, non è il motivo per cui produce musica. Non ha mai desiderato essere un performer o apparire in pubblico. Non so neppure se abbia mai provato a fare il dj. Potrebbe essere terribile! Per la gente è difficile capire una scelta simile, perché a una persona possano non interessare la carriera o il denaro. Perfino io all’inizio come Four Tet non mi sarei immaginato dal vivo. Vedere artisti come Christian Fennesz e Aphex Twin negli anni Novanta fu determinante per farmi capire che con un laptop era possibile improvvisare con l’elettronica. Alcuni artisti, come Burial, o ancora Steve Reid, vogliono fare musica per il semplice gusto di farlo. Io rispetto profondamente questa scelta, che è la più sincera possibile. Hai remixato chiunque, dai Radiohead ai Black Sabbath. Ti sei divertito? Il remix è un lavoro completamente diverso, per il 50 per cento dipende dalla tecnica e a me piace perché stimola le mie capacità produttive. Mi fa lavorare con una gamma di suoni vastissima e mi mette in contatto con artisti che stimo. Sono particolarmente felice quando un artista che ammiro mi chiede di remixare un suo pezzo, come successo con i Battles. E’ difficile, però, quando conosci bene l’artista che vai a remixare, quando sei suo amico, perché temi di deluderlo. Ti è mai capitato? Per fortuna no, finora ho ricevuto solo feedback positivi. Ma forse lo fanno per educazione (ride, ndr). Ricordo ancora quando Thom Yorke mi chiamò per dirmi che il mio remix era fantastico. Fu bellissimo, al limite dell’imbarazzante. Prima hai citato Aphex Twin. Hai già ascoltato qualcosa del suo nuovo materiale, quello che dovrebbe far parte di sei nuovi album? Non ancora, anche se non perdo mai nulla delle sue uscite. L’ultima sua cosa che ho ascoltato è stata su Rephlex come The Tuss, ma ho anche visto una clip su YouTube dove lui suona alcune delle nuove tracce. Mi interessa tutto ciò che fa, è uno dei più grandi musicisti degli ultimi 20 o 30 anni per l’influenza che ha avuto e per la genuinità con cui lavora. Ormai non ha bisogno di dimostrare più niente a nessuno, potrebbe fare qualcosa che ripete quanto già fatto in passato o qualsiasi altro rumore bianco. Potrebbe deludermi solo se iniziasse a fare terribile musica jazz da ora di cena, un album alla Phil Collins o una cover Motown. Chi può dirlo, succede di tutto quando uno invecchia… E comunque fa parte di quei pionieri, come pure Timbaland, che hanno tirato fuori dei suoni inimmaginabili in tempi non sospetti.


“Nella mia musica come in qualsiasi altra musica che amo, techno, hip hop o funk, ho bisogno di sentire delle ripetizioni. Anche nella classica minimalista, dove si prende un tema e se ne esplora ogni possibile variazione, appena ne trovo uno che mi piace e mi interessa, vorrei sentire e risentire solo quello. All’infinito�. 85


Wildbirds & Peacedrums Intervista di Marco Lombardo. Foto di Mathias Sterner

Ciao ragazzi, come va? A&M: Bene, grazie! Dove vi trovate? Siete in tour? A: Siamo a Stoccolma, appena tornati da un weekend a Reykjavik. Abbiamo suonato con un coro islandese in una vecchia chiesa di legno. Dopo abbiamo festeggiato come matti. Reykjavik è forse la migliore città al mondo per fare baldoria. M: Ci siamo esibiti con il coro che ha cantato sul nostro ultimo album, The River. Un concerto molto intenso. Si è chiuso un capitolo. Una grande sensazione… Qui a Stoccolma invece

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nevica di brutto. E’ arrivato l’inverno, quello vero, che non finisce più. Cosa vi ha spinto a formare una band come i Wildbirds & Peacedrums? A: Un bisogno inesauribile di creare un qualcosa di unico e senza tempo. M: Siamo sempre stati irrequieti. Per noi questo gruppo ha rappresentato sin da subito la possibilità di esprimerci liberamente, con coraggio e senza vincoli di sorta. Vi considerate il risultato dell’incontro di due anime gemelle o l’ibrido di due personalità ben distinte?

A: Prima d’iniziare a suonare come duo abbiamo passato una anno ad ascoltare dischi e a parlare di musica. Eravamo entrambi frustrati dalla scena musicale di Goteborg e pronti a un cambiamento. Quando abbiamo provato per la prima volta è stato chiaro che ci univa qualcosa di magico. Una sensazione che non avevo mai avuto in nessuna delle mie band precedenti. Io e Mariam siamo due persone molto diverse che si completano perfettamente. Dove siete nati? M: Örebro, una città di media grandezza, al centro della Svezia, tra Goteborg e Stoccolma.


Alcuni gruppi ci entusiasmano per il modo in cui interpretano e innovano canovacci ormai consolidati. Altri ci sorprendono e basta. Rendendoci impossibile catalogarli. I Wildbirds & Peacedrums, duo svedese composto da Mariam Wallentin e suo marito Andreas Werliin, appartengono alla seconda categoria. Voce e steel drum lei. Batteria e qualsiasi cosa possa trasformarsi in strumento percussivo lui. Insieme creano mondi sonori inafferrabili e senza tempo. Li abbiamo intervistati.

Ci sono rimasta sino all’età di diciassette anni. A: Arjeplog, nel nord più profondo. Poi mi sono trasferito a Strömstad, un paesino di pescatori nella costa ovest del paese. Che tipo di educazione avete avuto? A: A sedici anni sono andato a Goteborg per seguire un corso di percussioni alle scuole superiori. Lasciare casa per seguire i miei sogni di musicista è stato un passaggio molto importante. Dopodiché sono andato all’Università dove ho seguito un corso d’Improvvisazione. Che dopo tre anni ho scoperto essere una materia alquanto insolita…

M: Anch’io a diciassette anni sono andata via di casa per studiare improvvisazione nel sud della Svezia, per poi seguire un corso individuale all’Università della Musica di Goteborg. Un programma molto speciale, una sorta di dottorato, simile a quelli di Arte Contemporanea. Niente lezioni, ma una borsa di studio da spendere liberamente in una serie di corsi per conoscere me stessa. Sono stati quattro anni molto importanti in cui ho studiato yoga, sono stata sotto terapia e ho studiato il modo di esprimere al meglio la mia voce. Il vostro background familiare?

A: Una piccola famiglia di operai, nessun artista o musicista alle spalle. M: La stessa cosa per me. Sono figlia unica. Mia madre è svedese, mio padre iraniano. Hanno divorziato quando avevo due anni. Mio padre è rimasto a Örebro sino a quando non ho raggiunto la maggiore età. Ci vedevamo nei weekend. Poi si è trasferito in Spagna con la sua nuova moglie brasiliana. Adesso dove vivete? A: Ci siamo appena spostati a Stoccolma, dopo essere stati dieci anni a Goteborg. Come vi siete conosciuti?

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M: C’incrociavamo a scuola ma la prima volta che abbiamo parlato davvero è stata durante una festa nel collettivo dove vivevo. Ricordo di aver invitato Andreas nella mia stanza per mostrargli un pezzo di batteria che avevo appena comprato. All’epoca era fidanzato, quindi c’è voluto un po’ per conquistarlo. Ma dopo un paio di settimane era tutto mio… E’ complicato separare la vostra relazione sentimentale dal legame musicale che vi unisce? A: Ci piace mescolare le due cose, altrimenti non lo faremmo. La musica è sempre stata la cosa più importante nelle nostre vite. Ancora prima che c’incontrassimo. Ora ci limitiamo a condividere questa ossessione da nerd. Avete suonato al vostro matrimonio? M: Ahaha, no. Non abbiamo fatto le cose in grande. In realtà eravamo solo io e lui. Abbiamo preso un treno per Östersund, una splendida cittadina della Svezia, e ci siamo sposati in Municipio, alle quattro del pomeriggio. Eravamo vicini ad Halloween così ho scelto un bouquet di fiori arancioni. Poi siamo andati in riva al fiume che costeggia la città di Östersund e abbiamo bevuto del Cava e mangiato cioccolato sino al tramonto. Che da queste parti scende abbastanza presto. Infine abbiamo cenato in un delizioso ristorante giapponese e ci siamo chiusi in albergo due giorni, per stare un po’ da soli. A: Sarebbe stato complicato riunire tutti i vari pezzi delle famiglie. Così abbiamo deciso di fare le cose solo per noi. La vostra musica evoca un senso di mistero e una strana forma di spiritualismo, a tratti quasi primitivo. Siete d’accordo? A&M: La musica dovrebbe sempre essere percepita come un qualcosa di spirituale, senza andare a finire nel religioso. Tutto dipende dal grado di coinvolgimento dei musicisti che la suonano. Un beat techno può essere spirituale tanto quanto una canzone folk. Qual è stata la prima canzone che avete scritto insieme? A: The Window sull’album Heartcore. M: La suoniamo ancora dal vivo. Ogni volta riusciamo a renderla diversa. Come siete arrivati a questo set-up strumentale - voce, steel drum, batteria, percussioni varie e nient’altro- davvero particolare per un duo? M: All’inizio ci siamo limitati a usare gli unici strumenti che eravamo in grado di suonare: io la voce, Andreas la batteria. La ragione è semplice. Volevamo fare musica che non coinvolgesse nessuna chitarra o nessun basso. Sperimentare il più possibile le sfumature e le opzioni date da quei soli due strumenti. E’ stato un sollievo liberarci dalla struttura tradizionale della rock band. Mi raccontate come nasce una vostra canzone? A: Tutto si basa sull’improvvisazione e sui testi di Mariam. Arriviamo in sala prove in bicicletta. Iniziamo a testare qualche ritmo, parliamo molto, a volte discutiamo. Una prassi comune a molti gruppi. Ci distingue il fatto di voler 88 PIG MAGAZINE

sottrarre il più possibile invece di aggiungere elementi. Se una melodia funziona, deve poter reggersi da sola per l’intera durata del brano. M: Cerco di scrivere dei testi quasi completi prima di improvvisare una linea vocale. In modo da definire in partenza l’atmosfera intorno alla quale lavorare. Le parole sono fondamentali per me. Qualcosa in cui amo tuffarmi. Cosa facevate prima di formare i Wildbirds & Peacedrums? Come vi guadagnavate da vivere? A: Studiavamo entrambi all’Università di Goteborg. Abbiamo iniziato ad andare in tour subito dopo la laurea. M: Entrambi vivevamo grazie ai soldi dei contributi per gli studenti, che in Svezia sono una prassi. Ho anche fatto qualche lavoro extra, in un centro per disabili e al bar del Teatro di Goteborg. A che età avete iniziato a suonare? A: Ero davvero molto piccolo, camminavo appena. Trascorrevo giornate intere nella cucina di mia madre sbattendo pentole e barattoli. A cinque anni mi è stata regalata la prima batteria fatta in casa. A dieci quella vera. Nel paesino dove vivevo, al confine con la Norvegia, c’erano moltissime band di Black Metal. Da ragazzo ero affascinato da quella scena. E’ curioso come le persone che scrivono la musica più paurosa, aggressiva e violenta in circolazione siano spesso quelle più amichevoli nella vita di tutti i giorni. M: Anch’io emetto suoni da sempre. Sin da quando ho memoria almeno. Da dove vengono le vostre canzoni? M: Ahaha. Non ne ho idea. E’ ciò che rende la scrittura un momento così eccitante. Penso da un senso di attesa e desiderio e dall’esigenza di creare, anche solo per alcuni minuti, un mondo parallelo dove potermi immergere insieme con l’ascoltatore. Quali sono gli stati d’animo che vi rendono più creativi? M: I sentimenti più evocativi sono sicuramente l’amore, l’amicizia, il sentirsi protetti e al sicuro. Quelli più produttivi sono spesso quelli diametralmente opposti: la tristezza, la solitudine, l’insicurezza, il dubbio. Gli artisti che hanno influenzato la vostra identità estetica? A: M’ispirano i cambiamenti sociali, il movimento delle idee e delle strutture. E’ pericoloso quando una scena musicale viene etichettata. Si creano delle attese, dei codici da rispettare, che trasformano la creatività in un’incubatrice prevedibile. A Stoccolma sino a due anni fa c’era un posto fantastico chiamato Ugglan. Era gestito da Conny Lindqvist. E’ stato in grado di creare un punto d’incontro tra il giro dei musicisti di improvvisazione free e il mondo più marcatamente indie-pop. Il numero di gruppi e progetti che sono venuti fuori da lì tra il 2005 e il 2008 è impressionante. M: Io sono il risultato di una grande confusione di input... La continua ricerca delle mie radici iraniane. La musica che ascoltavo nella macchina di mio padre da piccola. I dischi di Aretha Franklin di mia madre. La paura della

solitudine. La prima maestra di musica che mi ha insegnato a usare la voce con metodo invece di urlare a più non posso. La prima volta che ho ascoltato Nina Simone pensando che fosse un uomo. Per poi mettermi a piangere di gioia quando ho scoperto che era una donna. Molti degli amici che ho accanto e che non sono musicisti ma disegnano gioielli, sono registi o ballerini. Tante persone normali che vivono una vita normalissima… La vita di tutti i giorni, quella comune, è la cosa più strana e complicata che l’essere umano possa provare. Il resto è un privilegio. Cosa fate quando non siete in tour? A: Mangiamo cibo cucinato in casa e facciamo un sacco di saune. M: Incontro gli amici. Mi riposo. Leggo. Cerco di allenarmi. Penso a nuove canzoni. Musicalmente parlando, quali sono i prossimi territori che esplorerete? A: Abbiamo appena scoperto quanto ci piaccia uscire fuori dal circuito dei club per sperimentare soluzioni come il teatro o le chiese. Collaborare con un coro polifonico e scrivere musica con un’approccio scenico differente, come in quest’ultimo tour, è stato molto stimolante. In passato ci siamo anche esibiti con venti batteristi che ci accompagnavano sul palco. Tutto questo non risponde alla tua domanda, ma da il senso di come qualsiasi cosa può accadere in futuro. Che musica vi piace ballare? A: Come quasi tutti i musicisti maschi, ballo molto raramente. Se capita è sicuramente perché sta suonando qualche dj che ama lo stesso tipo di musica elettronica sperimentale che amo io. M: Beat lenti e sensuali, della buona Techno o le Destiny’s Child. Cosa ne pensate delle serie Tv? Siete fan di qualcuna in particolare? A: Quando sei in tour le serie tv possono salvarti la vita. Sono fondamentali per rilassarti e mantenerti in salute, creando dei diversivi. Ho appena finito The Kingdom di Lars Von Trier, un capolavoro. M: Io sono presissima da Mad Men. Lo scorso agosto avete suonato di fronte a Bjork la sua Human Behaviour, durante la serata di gala del Polaris Prize, un premio alla carriera molto prestigioso in Scandinavia. Come avete vissuto quell’esperienza? A: Eravamo molto spaventati. Come incontrare i genitori della tua compagna per la prima volta. Nudi però. M: Non ricordo molto, ero in una sorta di trance. E’ stato emozionate. L’avete incontrata? Avete ricevuto qualche feedback da Bjork in persona sulla vostra esibizione? A: Prima dello spettacolo abbiamo sentito dal backstage che qualcuno stava suonando la steel drum di Mariam… E’ molto gelosa del suo strumento così si è precipitata sul palco pronta a urlare contro l’invadente impostore. Si è trovata di fronte a Bjork, con le bacchette in mano, tutta intenta a suonare. Non c’era più alcun problema. Aahaha. L’abbiamo incontrata


anche dopo. Era molto emozionata. Siamo rimasti tutti e tre uno di fronte all’altro. Ridendo come dei cretini senza quasi dire una parola. M: E’ vero. Era molto contenta di tutta la cerimonia. Oggi è possibile guadagnare suonando in una band sperimentale? La musica vi paga le bollette? A: Sì, è possibile. Ci manteniamo con la musica. Alcune band vendono le proprie canzoni alle serie tv americane. Altre come noi, scelgono di fare anche 200 concerti all’anno per raggiungere l’indipendenza economica. M: Siamo fortunati, ma lavoriamo duramente. Siamo consapevoli che questa situazione potrebbe cambiare da un giorno all’altro. Ci sono artisti svedesi con cui avete delle affinità? M: Ci piacerebbe raccomandare tre etichette indipendenti che pubblicano musica straordinaria e inquadrano molto bene un certo modo di vivere l’arte, la musica e la cultura in Svezia. Sono la Häpna, la Kning Disk e l’Ideal Recordings. A: Oltre a queste etichette amiamo i Dungen, i Little Dragons e gli Atomic. Con il vostro primo disco Heartcore del 2007 avete vinto il Jazz in Sweden Award. Vi siete mai considerati una jazz band? A: No, per niente. Così come non ci consideriamo una pop band. E’ per questo che abbiamo accettato il premio. Per dimostrare agli amanti del jazz che si possono fare cose di qualità anche sotto forma di canzoni e ai fan della musica pop che è possibile intrattenere anche con musica dedita all’improvvisazione. Che relazione avete con il jazz? A: Ho sempre ascoltato molta musica jazz. Soprattutto i dischi del passato, più alcune sperimentazioni recenti. Ho anche provato a suonarlo per qualche anno ma mi ha stancato in fretta. E’ uno di quei generi in cui tutto si basa sul rispetto di determinate aspettative invece di andare alla ricerca del progresso e della creatività. Quali sono le principali differenze tra i due ep, Retina e Iris, che avete pubblicato nel corso del 2010? M: Retina ruota intorno al concetto di choirmusic. Nasce dalla collaborazione con il coro polifonico islandese con cui ci stiamo esibendo in Europa. Iris si concentra principalmente intorno a brani composti con la steel drum. Retina è un disco di ampio respiro, molto scuro, in bianco e nero. Come un oceano profondo e agitato. Iris rappresenta lo stesso oceano dopo la tempesta. Quel luccichio che si riflette sulle onde quando la luce colpisce la superficie dell’acqua. E’ più colorato. Insieme formano l’album The River. Cosa vi ha spinto a riunirli in un unico disco? M: Pur essendo ep molto diversi si appartengono. Provengono dallo stesso universo creativo. Non volevamo mischiare tra loro le canzoni, snaturandole. Allo stesso tempo però sono profondamente legate. Hanno bisogno le une delle altre per guadagnare profondità. Rappre-

sentano due prospettive diverse dello stesso soggetto. Sopra e sotto. Luce e ombra. Così abbiamo pubblicato un album che contenesse entrambi gli ep. Siete stati in tour in Cina. Com’è andata? A: Abbiamo suonato nel circuito delle principali università cinesi, in auditorium giganteschi, di fronte a folle di studenti adoranti. E’ stato magnifico. Molto intenso. Il suono era pessimo ma si avvertiva la differenza tra un pubblico che ha davvero bisogno della musica per sfogarsi e liberarsi dalla vita di tutti giorni e quello occidentale, per natura più borghese. Mariam cosa ti ha spinto a suonare la steel drum? M: Ho iniziato ad usarla nel nostro secondo album, The Snake. Avevo bisogno di uno strumento percussivo e mi sono ricordata che mia zia suonava la steel drum da giovane in un’orchestra. Me la sono fatta prestare, dato che era ancora in cantina. Mi sono innamorata immediatamente del suono. E’ lo strumento perfetto per me. Qualcosa di metallico che posso colpire mentre

canto. Adoro l’imperfezione dei toni, il modo in cui si mescolano con la voce, spingendomi a improvvisare le armonie, per via della sua imprevedibilità. Contrasta il suono di Andreas, ma allo stesso tempo si fonde con esso in maniera naturale e ne arricchisce le sfumature. Ho assistito al vostro concerto al Sodra Teatern di Stoccolma lo scorso ottobre con i Voices, il coro polifonico islandese di cui mi parlavate. E’ stato uno degli spettacoli più intensi a cui abbia mai assistito. Quanto tempo trascorrete in sala prove? A: Non proviamo mai. Il nostro live si basa sull’improvvisazione, sul momento specifico. Ci troviamo solo per scrivere nuovi brani. In quattro anni abbiamo provato cinque volte. I vostri piani per l’immediato futuro? M: Abbiamo ancora qualche concerto in Europa con il coro polifonico al seguito, poi un mese di pausa dove ci dedicheremo a scrivere il nuovo album e un tour in Asia, Stati Uniti e Australia in primavera. Nel frattempo cercheremo di vivere le nostre vite meglio che possiamo.

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Freshman fifteen

Daniel: giacca COSTUME NATIONAL, dolcevita vintage, pantaloni STUSSY, scarpe CLARKS Gabriel: giacca DIESEL, dolcevita vintage, pantaloni EDWIN, scarpe FORMALE

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Photographer: PIOTR NIEPSUJ Styling: FABIANA FIEROTTI Assnt styling: SARA KOLLHOF Models: DANIEL HAMAJ at D’ Management e GABRIEL BRADICEANU at L’Uomo Elite Hair & Make Up: ANTONIO TROVISI at Orea Malià

Abito SURFACE TO AIR, dolcevita vintage

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Gabriel: giacca SURFACE TO AIR, cintura WRANGLER, pantaloni FRED PERRY BY RAF SIMONS, scarpe BE POSITIVE - Daniel: giacca CARHARTT, t-shirt LEE, jeans LEE, scarpe CLARKS

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Giacca EDWIN, camicia vintage, occhiali LAURA BIAGIOTTI vintage, jeans WRANGLER

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Felpa WRANGLER BLUE BELL, bermuda LEE, scarpe adidas

Gabriel: giacca SURFACE TO AIR, t-shirt WRANGLER BLUE BELL - Daniel: giacca CARHARTT, t-shirt LEE

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Daniel: abito SURFACE TO AIR, dolcevita vintage - Gabriel: giacca PHONZ SAYS BLACK, camicia FRED PERRY BY RAF SIMONS, jeans WRANGLER, scarpe BE POSITIVE

T-shirt adidas, jeans WRANGLER, scarpe adidas

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Gabriel: giacca NIKE, t-shirt STUSSY, jeans LEE, scarpe CLARKS - Daniel: giacca EDWIN, camicia vintage, occhiali LAURA BIAGIOTTI vintage, jeans WRANGLER, scarpe PUMA

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Gabriel: t-shirt adidas, jeans WRANGLER, scarpe adidas - Daniel: camicia VANS, pantaloni SURFACE TO AIR, scarpe PUMA

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Camicia VANS

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Daniel: felpa WRANGLER BLUE BELL, bermuda e t-shirt LEE - Gabriel: felpa CARHARTT, camicia STUSSY, jeans KSUBI

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Elena Photographer: WAI LIN TSE Styling: ANA MURILLAS at 2DM Assistant Photographer: CAROLINA VARGAS Assistant Styling: TXUS SÁNCHEZ Model: ELENA LAZIC at Elite Barcelona

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Cardigan EL DELGADO BUIL, camicia AMERICAN APPAREL

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Abito LE SWING vintage, gonna CRUZ CASTILLO, scarpe DR.MARTENS

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Abito vintage BLOW, gonna CRUZ CASTILLO

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104 PIG MAGAZINE


Top vintage, shorts AMERICAN PÉREZ, cintura BIMBA Y LOLA

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106 PIG MAGAZINE


Salopette LEE vintage, camicia DORA ROMERO

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Blusa DORA ROMERO, abito LE SWING vintage

108 PIG MAGAZINE


Maglione vintage

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Maglione LACOSTE vintage, gonna ed anello LE SWING

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Camicia WRANGLER, abito BIMBA Y LOLA

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PIG list:

Per chiudere l’anno in bellezza e mitigare l’assenza dei best & worst abbiamo deciso di dedicare la PIG list ai nostri album preferiti di questo 2010. In ordine sparso o forse no, in quel caso ecco la nostra top ten.

Gonjasufi - A Sufi And A Killer, Delorean Subiza, Four Tet - There Is Love In You, Tame Impala - Innerspeaker, Caribou - Swim, Mount Kimbie - Crooks & Lovers, Chemical Brothers - Further, Il Pan Del Diavolo - Sono All'Osso, Ariel Pink's Haunted Graffiti - Before Today, Beach House - Teen Dream 114 PIG MAGAZINE


Musica Album del mese

Di Depolique e Gaetano Scippa

Daft Punk - Tron Legacy OST (Disney / EMI) Convocati dalla Disney per metter mano alla colonna sonora del sequel di Tron, filmone d’avanguardia dell’82 diventato più cult nell’ultimo anno che nei ventotto precedenti, i robot, che dalla loro ricomparsa live hanno abbandonato la penombra preferendo la luce dei riflettori, stile semi-celebrities virtuali, non fanno fatica a calarsi nel personaggio, in una sorta di cambio merce su larga scala alla conquista dei mercati di riferimento. Se per il risultato cinematografico tocca attendere, sul disco possiamo dire la nostra in seguito ad ascolto blindato: Tron Legacy è una colonna sonora, stop. Perfetta probabilmente per sfilare dietro alle immagini della pellicola, meno per chi si aspetta il “nuovo album dei Daft Punk”. Scritto e prodotto da Guy-Man e Thomas e registrato a Londra con un’orchestra di cento elementi, il disco si compone di ventidue tracce che restituiscono atmosfere cupe, disegnate da un ping pong tra crescendo e diminuendo di archi e fiati. Il tutto filtrato a dovere e preparato su un letto di sub-doli e minacciosi bassi. Fanno eccezione tre brani tre, anzi quattro, di stampo più elettronico - spicca il singolo civetta Derezzed, geniale bignami dell’opera omnia del duo in meno di due minuti - tanto per ricordare chi firma il tutto. A conti fatti un lavoro che cita Moroder e gli Air, Alan Parsons e Vangelis, mettiamoci pure Horner, da mettere vicino alle OST di Alien, Blade Runner, il primo Tron e Star Wars, che poco ci dice sul futuro suono dei due, non fosse proprio questa la strada intrapresa. E questo è davvero un peccato. D.

Lukid - Chord (Werk Discs) Abbiamo lasciato il wonder(lu)kid un anno fa sull’onda dell’entusiasmo del suo secondo album, Foma. Lo ritroviamo ora, ancora più entusiasti dopo averne apprezzato i mix su Brainfeeder e lo show del lunedì sera su Ustream. Abbiamo seguito ogni sua mossa perché Luke Blair, questo il suo vero nome, è un purosangue pronto a decollare in qualsiasi momento. La buona notizia è che finalmente Chord esce in triplo vinile, seppur in 500 copie, il che rende meglio l’idea del suono downtempo sporcato e impastato a dovere da Lukid: un personalissimo wonky di respiro che tocca le nostre corde. Tre pezzi già presenti su Foma (Chord, Veto, Saddlebags) e otto spettacolari inediti strumentali, tra cui la “pestona” Stripes e la risucchiante Hair Of The Dog. Se l’eterea Spiller è la traccia-manifesto, quella che in cinque minuti muove, commuove, dice tutto, Makes è lo Shangri-La dove rifugiarsi e non fare più ritorno. G.S.

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Musica Album del mese

Di Depolique, Marco Lombardo, Gaetano Scippa e Marco Braggion

Diamond Rings - Special Affections (Secret City Records) Diamonds Rings è la metamorfosi seguita alla lunga degenza in ospedale di John O’Regan, ordinario rocker di Toronto nei misconosciuti D’Urberville. Colpito da una fastidiosa infezione, trascorre l’estate del 2008 a letto. Gli tengono compagnia Garage Band e una chitarra elettrica. In quei mesi, tra un antibiotico e l’altro, John reinventa se stesso. Trasformandosi in un’icona glam e metrosexual. A metà strada tra David Bowie e Britney Spears, sintonizzati su un lo-fi rock vagamente elettronico. Special Affections chiama in causa Strokes e Depeche Mode. Sensuale. M.L.

Games - That We Can Play EP (Hippos In

Teebs - Ardour (Brainfeeder) Prosegue con questo disco di ambient/bliss l’avventura di un’elettronica ambientale che adora le contaminazioni dell’illuminato produttore losangeliano Fly-Lo. Non è un affare di singoli, bensì una sequenza di veloci polaroid di un mondo onirico, che rimescola l’illbient con il breaking, la contemplazione con il ritmo easy. Due anni per completare la colonna sonora di un pianeta incontaminato, con atmosfere baleariche ma senza l’E. Qui bastano il relax e la consapevolezza di avere ancora molto da dire. Mtendere Mandowa ha solo 23 anni. Relax, don’t do it. M.B.

Tanlines - Volume On (PIAS) Preziosa compilation doppia per questo duo di Brooklyn in costante ascesa che raccoglie Ep, singoli, remix e brani inediti. Volume On mette ordine nella frastagliata discografia della nuova creatura di Jesse Cohen, ex Professor Murder, e Eric Emm, ex Don Caballero. Lasciate alle spalle le influenze post-punk e math-rock delle precedenti esperienze, i Tanlines si cimentano con un synth-pop di matrice etnica, imprevedibile e colorato. Che ricorda The Tough Alliance, El Guincho e Delorean, ed è impreziosito dalle ospitate vocali di Glasser, Luke Jenner dei Rapture e Austin Fisher dei Suckers. M.L.

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Tanks) Quel che tocca Mr. Lopatin (Oneohtrix Point Never) diventa oro, specie in compagnia dell’amico d’infanzia Joel Ford (Tigercity). La bandiera americana che sventola sulle correnti anni ‘80 porta aria fresca sul versante glo pregna di synth evocativi, nostalgici, estratti chissà da quali serie tv, pubblicità, videogames o produzioni meteora e rimontati come un patchwork apparentemente casuale. Quando se ne riconosce la fonte (Flash In The Night trasformata in Shadows In Bloom) la sensazione è gratificante, ma quando i giochi non sono così chiari è ancora meglio. Basta farsi trasportare dalle emozioni e il gioco è fatto. G.S.

Maserati - Pyramid Of The Sun (Temporary Residence Ltd) Pyramid Of The Sun documenta le ultime registrazioni del batterista Jerry Fuchs, che collaborava anche con !!! e Juan Mclean, tragicamente scomparso nel novembre del 2009 durante un party di beneficenza in una warehouse di Brooklyn. Il nuovo disco dei Maserati omaggia un rock progressivo, elettronico e psichedelico, che a volte sfocia in un post-punk ballabile, altre si accartoccia su croste kraut introspettive. Il drumming di Jerry sempre al centro, preciso e mai invadente, mentre sintetizzatori, bassi e chitarre si rincorrono in cerca di un’epica metropolitana. M.L.

Oh No Oh My - People Problems (Koening Records) Quartetto indie-rock da Austin, Texas, gli Oh No Oh My aprono il loro secondo disco con Walking Into Me. Una clamorosa gemma pop destinata a fare sfracelli nelle serie Tv americane del prossimo anno, con il suo incedere malinconico e ballerino, degno dei migliori Postal Service e dei Grandaddy più radiofonici. Il resto di People Problems è un gradevole, anche se un po’ lezioso, palleggiare con un college rock americano dei più classici e con ballate alla Shins, piacevoli ma non memorabili. A volte però basta una sola grande canzone per portare a casa il risultato. M.L.


Anika - Anika (Invada) Memorabilia slavati della voce di Nico, qualche tastierina analogica à la Stereolab e un’aura da slacker che eredita il sogno e la visione di confini dell’impero elettronico di sua maestà Portishead Geoff Barrow, che l’aveva ingaggiata anche nel superprogetto Beak>. Un postindustrial magmatico registrato in 12 giorni, che ti avvolge in una patina di barocchismi dark wave. La proposta incunea il lo-fi in un percorso cupissimo e senza speranza. Agli antipodi del miglior dubstep, ecco la più giovane adepta dei Suicide. Alan e Martin, pregate per lei. M.B.

Drums of Death - Generation Hexed (Greco-Roman) Dietro al progetto Drums of Death si nasconde Colin Bailey, metallaro scozzese prestato a un electro figlia degli anni novanta e di certa scuola Hot Chip/Lcd Soundsystem. Dopo aver prodotto l’ultimo disco di Peaches, Colin esordisce sulla lunga distanza grazie al supporto di Joe Goddard e della sua etichetta personale, la Greco-Roman. Generation Hexed è un disco disomogeneo, ricco d’intuizioni ma incapace di brillare di luce propria, che scorre con mestiere senza lasciare nulla al suo passaggio. Come un fotomodello senza personalità. Bello certo, ma noiosissimo. M.L.

The Suzan - Golden Week For The Poco Poco Beat (Fools Gold) Scovata su myspace da “quel” Björn, questa all girl band del Sol Levante ci ha messo il tempo di un messaggio a convincerlo ad “emigrare” e mettere le mani su di loro. Ultimo nome di un scuola nipponica di gruppi al femminile da esportazione, The Suzan uniscono all’eclettismo caro alle Cibo Mato, il garage rrrock delle 5,6,7,8’s di killbilliana memoria e delle mitiche Shonen Knife. Se poi attraversiamo l’oceano, ecco l’attenzione alla ritmica chiamare in causa le pioniere ESG, mentre gli slanci dolciastri portano al vintage pop marchiato Spector di Ronettes e Crystals. Divertente. Speriamo solo non facciano la fine delle Pipettes. D.

Cepia - Cepia (Cepia Music) Cepia autodefinisce la propria musica come il suono dell’industria mischiato a frammenti di memoria che ognuno porta con sé. E’ un’immagine evocativa alquanto azeccata, perché Huntley Miller è bravissimo nell’infilare piccole parti melodiche tra i glitch di macchinari e software Max/MSP. L’aver suonato con Max Richter e pubblicato su Ghostly, di cui ricordiamo l’ottimo Natura Morta del 2007, ha sicuramente influenzato questo lavoro, tanto quanto il pop nei remix per M.I.A. (XXXO) e Dave Sitek/Maximum Ballroom (Groove Me). Di fatto, la sua è una musica elettronica ambientale calda e avvolgente, perfetta per un ascolto in cuffia. G.S.

Fabric 55 - Shackleton (Fabric) Il suono di Shackleton è concettuale, ancestrale, scava nell’inconscio per liberarlo dai suoi demoni. E’ una polveriera percussiva, ipnotica, mistica ma non immediata, per questo non esattamente in target con le raccolte danzerecce del Fabric. A sorpresa, quindi, esce questo mix che prova a riprodurre una tipica sessione live del producer. Fatto interamente con la sua musica, il Fabric 55 può considerarsi a tutti gli effetti un nuovo album di Shack: c’è qualche pezzo già pubblicato su Perlon, Skull Disco e Hotflush, ma gran parte delle tracce sono inedite e sbalorditive. Un rituale a flusso continuo che si completa in catarsi. G.S.

Dark Party - Light Years (Old Tacoma) Debutto sulla lunga distanza dei produttori elettronici Eliot Lipp e Leo 123, conosciutisi all’Istituto d’Arte di San Francisco e arrivati a dividere il palco con Gaslamp Killer e Prefuse 73. La loro miscela sorprendentemente lo-fi e sexy, ruffianama-neanche-poi-tanto di electro-funk, Chicago house, disco e hip hop newyorkese, potrebbe avvicinarli ai viali palmati di Daedelus, Jimmy Edgar o Dâm-Funk, ma in realtà i loro cocktails a prezzo ridotto e carichi di groove godono già di una forte personalità. Fatevi condurre da Pilot, abbandonate i sensi con Tina finché la danza Can’t Stop e cadete ai loro Feets. G.S.

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Musica Varie

Di Depolique, Marco Lombardo e Gaetano Scippa

Azari & III - Into The Night (Scion A/V)

Patrick Wolf - Time Of My Life (Hideout)

Richard Norris - New Masters Volume 2

Tra i campioni del 2009 - la coda di Reckless

Remixes EP

Presents The Time And Space Machine (Nang)

pare infinita - A&III battono il ferro finchè è

Persosi dopo un avvio da “craque”, Patrick co-

Compilation

caldo e prima dell’imminente album su Turbo

mincia con TOML la marcia d’avvicinamento a

L’inossidabile Norro raccoglie undici tra edit

calano un poker di remix per il nuovo nato. Bravi

The Conqueror. Un tris di rx con Leo Zero al ra-

e remixes targati TTASM. Un nuovo viaggio

tutti, specie Prins Thomas, che si cala nel perso-

lenty, un Ceephax asprissimo, tra italo e dream, e

“spazio-temporale” tra psichedelia, disco e at-

naggio. D.

Still Going al solito epici, a vincere. D.

mosfere baleariche. D.

Jacques Greene - The Look (LuckyMe) 12”

Gesaffelstein - Variations (Turbo) EP

Is Tropical - South Pacific (Kitsuné Records) 7”

Opera prima del 21enne di Montreal, produttore

Electro technoide ricca di arpeggi e bassline

Voci filtrate, beat digitali, aperture shoegaze e

house in erba influenzato da Uk garage e RnB.

trascinanti per questo nuovo gioiello dancefloor

qualche piccola reminiscenza rave. Il trio lon-

Tradizione (The Look) e visione personale del

in casa Turbo. James Holden e Boys Noize ap-

dinese punta alla copertina del New Musical

suono dance (Holdin’ On, Good Morning) con

prezzano. Noi pure. M.L.

Express. M.L.

Lunice - Stacker Upper (LuckyMe) EP

Dâm-Funk / Computer Jay - L.A. #7

Petar Dundov - Distant Shores (Music Man) 12”

Talento da tener d’occhio, come fa Diplo, Lunice

(All City) 12”

Più che veleggiare verso lidi lontani, siamo

ha già remixato gli xx e con questo primo EP

Showcase analogico di due tra i producer più

risucchiati in un vortice di techno e sonorità

mostra di fare sul serio: dall’anthem strumentale

quotati della Master Blaster. Se Dâm-Funk non

kraut psichedeliche che si formano e deformano

d’apertura al minimalismo della 808 (Hip Pop)

ha bisogno di presentazioni, Computer Jay si

l’una sull’altra, tanto da farci perdere rotta e

fino ai riferimenti jerk di Purple Walk. Ottimo

destreggia con un pezzo ipnotico (Phantom) di

coordinate. D.

lavoro. G.S.

funk minimale, anche in chiave dub. G.S.

un climax emotivo nello splendido uso di voci di Tell Me. G.S.

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Film del mese

Di Valentina Barzaghi

Away We Go Di Sam Mendes (ITA. American Life).

per far crescere il figlio?

che hai giorno dopo giorno, nonostante

Questo film l'ho visto più di un anno fa. Ero

Come ha già dimostrato di saper ben fare,

tutto quello che incontrerai sulla tua strada.

all'estero e trovandolo già in sala mi ci sono

Mendes sviluppa per lo spettatore una

A parte la manfrina strappa lacrime, non

fiondata. Sam Mendes che fa una sorta di

bellissima storia d'amore, con i suoi alti e

scherzo nel dirvi che questo film è una delle

indie-romantic-road movie? Mio! Peccato

bassi, con i suoi momenti di incertezza e

cose più commoventi nella sua naturalezza

che in Italia si sia dovuto aspettare così tanto

di scoraggiamento, con una delicatezza

e attaccamento alla realtà che abbia visto

per la sua uscita in sala, d'altronde non è

formale e un candore rari. Il road movie

l'anno scorso e poi il personaggio di Burt

proprio quello che il pubblico definisce "film

procede con i loro stati d'animo, tra ansie

è l'uomo che tutte le donne vorrebbero

di Sam Mendes" (e si sa che in Italia, in fatto

pre-parto, familiari e amici riabbracciati

avere, un principe azzurro tanto goffo

di gusti cinematografici, si viaggia spesso a

nei vari luoghi che vanno a visitare,

quanto romantico (quello che non ha paura

compartimenti stagni). Burt (un tenerissimo

aspettative per il futuro, affetto consolidato

di essere giudicato e che non si costringe a

John Krasinski) e Verona (Maya Rudolph)

e quelle piccole attenzioni che rinnovano

nascondersi dietro le convenzioni "maschili"

hanno appena passato i trent'anni e stanno

quotidianamente l'amore della coppia.

che il mondo esterno cerca di imporre).

per avere un bambino. Tutto sembra filar

Dopo quel pugno in pieno ventre di

Non è un amore banale, non è una storia

liscio, quando i genitori di lui, una eccentrica

Revolutionary Road, Mendes cambia

già vista, se questo vi può rassicurare: nella

coppia di mezza età su cui loro contavano

registro: lo ritroviamo ottimista e spensierato

sua piccolezza è qualcosa che va oltre. E ci

per un aiuto col neonato - unico motivo che

(l'avrà scritto in un momento particolarmente

piace.

li legava ancora a quel posto - comunicano

brillante del suo rapporto con la moglie

N.B. Il titolo: American Life? Che diavolo

loro che lasceranno per sempre il Colorado

Kate Winslet?), come volesse rassicurare il

è... mi trasformi l'inglese in inglese? Away

perché vogliono andare a vivere in Europa. A

suo pubblico che in fondo a qualcuno può

We Go era troppo difficile da tradurre? Mi

quel punto anche i due ragazzi decidono di

andare bene... Non importa dove sei, ma

astengo dal commentare oltre. Pernacchie a

spostarsi, ma quale sarà il luogo più adatto

con chi stai. Devi nutrire e curare quello

profusione.

120 PIG MAGAZINE


Cinema

Hereafter Di Clint Eastwood. Eccoci all’immancabile appuntamento annuale con Clint che, inutile dirlo, fa ancora centro. Questa volta si mette alla prova con un thriller soprannaturale scritto da Peter Morgan (The Queen, Frost/Nixon, The Last King of Scotland), che vede l’intrecciarsi di più storie che vengono narrate parallelamente e che hanno in comune un destino di morte e il personaggio di Matt Damon, un uomo che può parlare ai defunti e che verrà contattato dagli altri protagonisti per trovare consolazione e far luce sulla perdita. Eastwood non è uomo dai temi facilotti e qui si avvicina forse a una delle tematiche più difficile in assoluto da raccontare: la morte, appunto. Lo fa bene, accentuando le spettacolarizzazioni (la scena dello tsunami da brivido), ma rimanendo fedele al suo modo di fare cinema e confermandosi un cavolo di fuoriclasse.

The Tourist

Mic Macs

Di Florian Henckel von Donnersmarck. Di questo film, in Italia, si sente parlare da mo’ visto che parte delle riprese sono state effettuate in una Venezia in subbuglio per l’arrivo della coppia Depp-Jolie. Il regista di Le Vite degli Altri, riporta sullo schermo il film diretto da Jerome Salle - che qui rimane alla sceneggiatura - nel 2005, Anthony Zimmer. Action-spy-thriller in uno stile inusualmente “hollywoodiano” per von Donnersmarck (per fortuna non sono costretta a pronunciarlo vocalmente), è la storia di un turista americano che viene “sequestrato” da un’agente dell’Interpol “in borghese” per riuscire a catturare un criminale con cui aveva una relazione. Tratto dal romanzo di Olen Steinhauer, un film che promette di sbancare il botteghino (chissà perché...), a suon di colpi di scena e adrenalina.

Di Jean-Pierre Jeunet. Il regista de Il Favoloso Mondo di Amelie e Delicatessen, dallo stile e fotografia inconfondibile, torna ad incantarci con le sue favole legate al quotidiano. Bazil lavora in un videonoleggio e ama il cinema alla follia, ma la sua vita è stata rovinata dalla guerra: suo padre ne è rimasto vittima e lui in fin di vita. Senza più un lavoro, vaga in strada fino all’incontro con Slammer, un ex detenuto che ha ricevuto la grazia, che gli presenterà la sua crew di outsiders: un esperto matematico, il campione record come palla cannone, una contorsionista e un artigiano sui generis. Saranno loro che lo aiuteranno nel suo tremendo piano di vendetta contro i produttori d’armi responsabili della distruzione di tutto, soprattutto della sua vita. Emozionante.

You Will Meet a Tall Dark Stranger Di Woody Allen (ITA - Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni). Altro appuntamento imperdibile di fine anno: le storie di ordinaria follia di Woody Allen. Dopo il cinico, ma divertentissimo Whatever Works, Allen calca ancora una volta la strada del film sentimentale raccontandoci la storia di un uomo, Alfie, che resosi conto della sua vecchiaia, decide di lasciare la moglie Helena per Charmaine, una donna giovane e piuttosto vistosa. Mentre Helena ricorre a diverse forme di terapia per riprendersi, loro figlia Sally, che ha un matrimonio in crisi con uno scrittore nel panico, conosce Greg, un gallerista che trova interessante... Solito giro di personaggi, solito film situazionista e ottimamente sceneggiato di Allen.

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Dvd

Di Valentina Barzaghi

L.A. Zombie Bruce LaBruce è un filmmaker, fotografo, scrittore... sperimentale, hardcore, che ha iniziato la suo carriera girando video homo-punk e in super 8. Oggi Bruce si apre al grande pubblico con “L.A. Zombie”, un film che è stato in concorso al Festival Internazionale del Cinema di Locarno, oltre che proiettato in diverse competitions internazionali, di cui il 6 dicembre sarà in vendita il dvd in un cofanetto che contiene anche “Otto; Or, Up With Dead People”, il suo precedente film, ancora inedito in Italia. Non adatto a stomaci deboli o ad occhi facilmente scandalizzabili, “L.A. Zombie” è un film ironico e grottesco, indipendente e audace, che racconta la storia di questo zombie alieno che emerge dalle acque di Los Angeles, vaga per la città come un senza tetto e come un supereroe, riporta in vita alcuni uomini che muoiono sotto i suoi occhi per stenti, violenza, criminalità... Come? Facendoci sesso, ovviamente. Ciao Bruce! Piacere di conoscerti! Come stai? E' una domanda difficile a cui rispondere. Generalmente sto bene, ma recentemente ho molto male alla schiena. Un amico israeliano mi ha detto che in ebraico il mio stato è definito come "The Devil's Hand" (la mano del diavolo). E' come se il diavolo ponesse la mano nel bel mezzo della schiena

122 PIG MAGAZINE

e ti tirasse la spina dorsale. E' davvero doloroso e ti prende di punto in bianco, senza preavviso. In caso contrario, sto bene. Ti potresti descrivere usando tre aggettivi? Addolorato, Persistente, Artsy-Fartsy. Ti ricordi come ti è venuta l'idea per L.A. Zombie? E' un dato di fatto, ti racconto. Ero sdraiato a letto quando mi è venuta l'idea,

come se fossi in uno stato di dormiveglia. Ho avuto una sorta di visione onirica, di una creatura che emergeva dalle acque del mare nei dintorni di Los Angeles ed è come se avesse una connessione con i corpi morti che erano appena stati scoperti. Sapevo di voler fare un altro film sugli zombie, ma questa volta rendendolo più pornografico di tono e intenti. Avevo incominciato a pensa-


re ad un film di Kiyoshi Kurosawa chiamato Cure. L'avevo visto quando uscì nel 1997 e volevo evocarlo. Ricordavo le scene in cui c'erano persone in trance che uccidevano e questo mi ha fatto pensare al sonnambulismo e alla morte. Inoltre, avevo visto poco tempo prima questo film di un regista canadese, Daniel Petrie, chiamato Resurrection con Ellen Burstyn, che racconta la storia di questa donna che ha le capacità di guarire le persone dopo che queste hanno avuto terribili incidenti stradali. Questo mi ha dato l'idea dello zombie che scopava le persone morte per riportarle in vita. Poi finalmente riguardai l'horror sci-fi di Mario Bava Planet of the Vampires che mi aveva ridotto quasi in fin di vita dalla paura quando ero piccolo. Le creature di questo film erano una specie aliena in grado di colonizzare i corpi degli altri, vivi o morti che fossero. Il production design era fantastico. Questo è lo stesso film da cui i creatori di Alien presero molto in prestito in fatto di production design. Cinque cose che vorresti che il pubblico sapesse assolutamente su L.A. Zombie. 1. Esiste una versione hardcore e una softcore di L.A. Zombie e la versione soft è stata vietata in Australia! 2. Non ci sono effetti fatti in digitale. Tutti gli F/X sono stati fatti davanti alla camera. 3. E' il sequel del mio film Hustler White. Lo zombie alieno esce dall'Oceano Pacifico fino a Zuma Beach, la stessa location dove abbiamo girato la scena finale di Hustler White (che poi è anche la location della scena finale di What Ever Happened To Baby Jane!). 4. A dispetto del fatto che sia un film pornografico, L.A. Zombie è stato in concorso al Locarno International Film Festival. Il direttore del festival l'ha definito "A Masterpiece of Melancholia". 5. Ho recentemente proiettato L.A. Zombie ai festival di Mosca e Kiev, l'ultima capitale in cui è illegale mostrare materiale pornografico! Come spiegheresti ad un bambino che lavoro fai? Lo zio Bruce fa film che tu non puoi guardare. Quali sono i tuoi film preferiti sugli Zombie? I Walked with a Zombie, White Zombie, Night of the Living Dead, Dawn of the Dead, Day of the Dead, Land of the Dead, Diary of the Dead, Shock Waves, Oasis of the Zombies, Les Revenants. Ho visto il tuo film a Locarno quest'estate e letto curiosa numerose recensioni che

ne sono seguite. Tutti cercavano di spiegare il significato che sta alla base del film, a dargli dei significati-interpretazioni particolari (e ti dirò, che non ne ho trovato uno che abbia davvero convinto...). Quello che ti voglio chiedere quindi è, visto che per me è uno dei veri motivi che ti ha spinto a realizzare questo film: quanto ti sei divertito a girare L.A. Zombie? Le riprese di L.A. Zombie, sono state un inferno allo stato puro, ma ci ripenso ancora con affetto. Lo staff non era sufficiente e scarsamente attrezzato. Non avevo nemmeno un First A.D.! Eravamo una minuscola troupe che girava un film in stile guerrilla, quasi completamente senza permessi. Le riprese del film sono durate sette giorni e all'ottavo ci siamo fermati per una settimana di riposo! E' sempre divertente lavorare con il mio D.P. James Carman, che ha girato tutti i miei film da Hustler White; inoltre mi sono anche ricongiunto con il mio direttore artistico di Hustler White, Steve Hall, che ha fatto un ottimo lavoro nonostante non ci fosse budget. Il ragazzo F/X, Joe Castro, è un genio demenziale. E' stato un inferno lavorare con lui, ma il suo lavoro è davvero straordinario. Ho una predilezione per il guerrilla-gonzo film-making. E' stato anche divertente il fatto di girare praticamente senza uno script, solo con una traccia di tre pagine. Ci ha permesso di concentrarci molto sull'aspetto visivo del film. Com'è stato lavorare con Francois Sagat (uno dei più famosi attori porno francesi)? Posso dire solo cose positive su Francois Sagat. E' davvero un professionista completo e un attore straordinario. L'unico modo con cui L.A. Zombie poteva funzionare, era quello di trovare un attore che avrebbe preso il concept ridicolo ed estremo giocandoci però in modo rigido, senza ironia, che è quello che lui ha fatto. Direi che ha portato al ruolo dello zombie alieno un pathos abbastanza notevole. Per te cos'è ancora considerato tabù oggi? A quanto pare la pornografia "hardcore zombie" è tabù. L.A. Zombie è stato vietato in Australia e proprio ieri la polizia ha perquisito la casa del direttore del Melbourne Underground Film Festival, che ha mostrato il film illegalmente, cercando la copia di L.A. Zombie, che però lui aveva distrutto. E' pazzesco! La cosa più bella che hai sentito su di te. Che quando ero un giovane sui vent'anni ero davvero bello. E la peggiore?

Che sono superficiale. Hai qualche rimpianto lavorativo? Rimpianto lavorativo? Intendi dire quella volta che ho lavorato in una centrale nucleare per sei mesi per riuscire ad entrare all'università? Cosa ti piace fare quando non sei su un set? In verità non mi trovo su un set molto spesso, quindi in pratica ti parlo della maggior parte del mio tempo. Viaggio molto. Guardo film. Frequento le saune gay. Direi che è tutto. Se non avessi fatto il fotografo/regista, che altro lavoro ti sarebbe piaciuto fare? Il professore universitario. Mi daresti una tua definizione di indipendente nel cinema (o nell'arte in generale)? L'arte è quando crei qualcosa dal nulla. Ti consideri un filmmaker indipendente? Sei un fotografo/filmmaker ormai direi piuttosto famoso... Lavori ancora liberamente? Sono un filmmaker indipendente. Sono ancora libero di fare quello che voglio perché realizzo film a basso budget e quindi non ci sono tanti soldi in circolo. E' solo quando ti butti in super-produzioni (a budget alto) che tutti vogliono controllare quello che dici e come lo dici. Cosa diresti ad un ragazzo giovane che vorrebbe fare il regista oggi? Take Fountain (Chissà cosa intende? Forse il blog http://takefountainblog.wordpress. com...ndr) Mi racconti qualcosa dei tuoi progetti futuri? Con l'inizio del nuovo anno dirigerò un'opera d'avanguardia a Berlino intitolata Pierrot Lunaire di Arnold Schoenburg con Susanne Sachsse. Si tratta di una radicale rivisitazione di un lavoro che coinvolge l'omicidio di un transessuale. Sto inoltre sviluppando un film intitolato Gerontophilia, su un ragazzo di 18 anni che ha un feticcio sessuale per uomini molto vecchi. La domanda che nessuno ti ha mai fatto su L.A. Zombie, ma a cui ti piacerebbe rispondere? Hai mai fatto sesso con cadavere? E la risposta sarebbe? No, non l'ho fatto. Tuttavia, ho fatto sesso con alcuni degli uomini che hanno interpretato i cadaveri. Cosa farai dopo questa intervista? Mi masturbo, ovviamente! www.brucelabruce.com

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Books and So

Di Rujana Rebernjak

The Intellectual Work: Sixty Paperweights Chiunque sia mai stato incuriosito dal design e abbia visto lo studio di qualche grande designer, sarà rimasto affascinato dall’incredibile collezione di oggetti di tutti i tipi che esso probabilmente contiene. Nell’impossibilità di creare una mia collezione, mi sono appropriata di quelle altrui attraverso i libri, facendoli diventare in qualche modo una collezione fatta di collezioni. Anche se in questa pagina avrei preferito mettere la sua ormai lontana

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tesi di laurea sui chiodi e le loro diverse modalità d’uso, ho deciso che la raccolta di fermacarte di Enzo Mari era altrettanto degna di sprecare un po’ di carta. Pubblicato da Kaleidoscope in occasione dell’omonima mostra tenutasi a Milano, questo libro esprime in pieno la filosofia di Mari e la sua metodica ossessione per l’essenza della forma. Una raccolta di oggetti insoliti, segnati dal tempo: dal rubinetto in ottone alla zampa di un

fenicottero, che solo lui potrebbe prendere in considerazione, costituiscono una collezione preziosa per chiunque volesse pensare al design in un modo diverso dalle banalità proposteci quotidianamente. Titolo:The Intellectual Work: Sixty Paperweights Autore: Alessio Ascari, Barbara Casavecchia Casa editrice: Kaleidoscope Press, 2010


Märkte

Innamorarsi degli oggetti ci porta a compiere azioni folli. Almeno questo afferma l’autore di Märkte nel descrivere com’è iniziato il suo rapporto amoroso con gli oggetti usati; rapporto che, data la passione, è riuscito a trasformare non soltanto in un bellissimo libro, ma anche in un vero negozio pieno di cose da collezionare trovate in giro per

il mondo. Märkte è solo una piccola parte di questo immenso archivio che ormai da più di dodici anni Taro Tsukamoto sta costruendo. Riportando gli oggetti trovati nei mercatini di Berlino e Warsawa, quello che Taro Tsukamoto cerca di dirci, è che quello che sembra banale potrebbe non esserlo, se isolato dal suo solito contesto diventa qual-

cosa di speciale di cui solo noi conosciamo il vero valore. Titolo: Märkte Autore: Taro Tsukamoto Casa editrice: Petit Grand Publishing Anno: 2003

Design Del Popolo

Dicono che non bisogna giudicare il libro dalla copertina. In questo caso tale affermazione è proprio vera. Dietro l’anonima copertina, si nasconde una delle collezioni più improbabili e fantastiche. Design del popolo è la documentazione di un archivio privato, che l’autore Vladimir Archipov ha iniziato per puro caso e che si è trasformato in un’immensa

raccolta con più di mille oggetti. I duecentoventi selezionati, che variano da uno sturalavandini ad un’antenna tv, sono tutti degli esempi straordinari di design anonimo e autoprodotto, che raccontano la situazione di vita al tempo dell’Unione Sovietica. Quello di cui ci accorgiamo, oltre alle prime risate fatte dopo aver visto alcuni degli oggetti, è come la creatività e

l’immaginazione, anche nei tempi più duri, possano trasformare qualsiasi condizione umana. Titolo: Design Del Popolo 220 Invenzioni Della Russia Post-Sovietica Autore: Vladimir Archipov Casa editrice: ISBN Edizioni Anno: 2007

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Videogames

Di Janusz Daga (jan@pigmag.com)

PIG’s Most Played. Hey, Make Another Mario Kart Game, Dammit! Death Worm i_ iPhone Ci siamo già occupati del titolo precedente. Bellissimo. Ma questo è meglio: grafica assolutamente avanzata, molti più oggetti da mangiare e spappolare e schemi decisamente più complessi. 15 nuovi livelli, piramidi, rocce, dischi volanti, elicotteri e tanta, tanta gente per la strada. Death worm è per quelli che con il nuovo iPad si vogliono divertire davvero. La storia è sempre la stessa: un mega-verme che sfruttando la sua velocità e un paio di leggi fisiche deve massacrare quanti più esseri umani possibile, ma questa volta il bruco potrà anche essere upgradato e reso più grosso e pericoloso. Per 99 cent. non troverete di meglio. Capcom Arcade _ iPhone Capcom apre la prima vera sala giochi virtuale. Una volta entrati si hanno a disposizione una serie di mitici arcade del passato: per ora Street Fighter 2, Ghouls 'n Ghosts, Commando e 1942 ma cne arriveranno altri. Per fare una partita si dovranno utilizzare i gettoni, proprio come una volta. Il gioco ci mette a disposizione 3 crediti free al giorno e gli altri si dovranno comprare direttamente dalla signorina alla cassa. 10 gettoni costano 99 cent. Onesto. Naturalmente ci si potrà anche comprare il singolo gioco così da non dover poi spendere più moneta, ma è molto più divertente e conveniente il sistema dei gettoni. Ovvio che anche i "continue" e gli upgrade vanno pagati, ma è poca cosa immaginando la quantità di giochi che Capcom potrebbe mettere a disposizione nella sua arcade collection. Siamo certi che dopo questo primo tentativo, saranno molte le software house del passato a farci un pensierino... Star Wars Falcon Gunner_ iPhone Menzione d'onore per questo grandioso scacciapensieri: seduti davanti 126 PIG MAGAZINE

al mitragliatore a bordo del Millenium Falcon dovrete distruggere tutti i caccia imperiali in arrivo. Normale? Non se lo sfondo è quello che potete applicare voi utilizzando la fotocamera in tempo reale. Lo sfondo, le esplosioni e la grafica muterà a seconda della situazione che andrete a riprendere. Il tutto condito da splendidi effetti sonori stile Lucas. “Imperial TIE Fighter heading straight at us from the litter box sir!” Donkey Kong Country Return _Wii Non so come ci sono riusciti, ma con questo sequel Nintendo riuscirà a "inscimmiarci" per un bel pezzo! La grafica è notevole, i livelli sono piacevoli e divertenti e il gameplay è a dir poco rilassante. Uno di quei platform vecchio stile ma con qualche soluzione nuova che lo rende fresco e attuali. Schermo da condividere con l'amico Diddy Kong che ci aiuta nelle situazioni difficili indossando il suo jet-pack in un sistema coop che rende il titolo ancora più divertente e incasinato: scimmie volanti e banane dappertutto. Se volete un bel platform e avete già finito New Super Mario Bros, questo è il gioco da mettere sotto l'albero. Galgun _ Xbox360 Per chi non lo sapesse, Galgun è uno di quei giochi manga-eroticopervertito che piacciono tanto nel paese del sushi. Nei panni di uno studente di liceo, dovrete spargere il vostro "feromone" sulle tutte le studentesse che vi capitano a tiro per farle innamorare e portarvele a letto. Ragazzine ammiccanti in top aderenti, minigonne, mutandine e tutte quelle cose li. Il colpo di genio è il bottone "Pericolo Mamma" da premere se qualcuno entra improvvisamente nella stanza: apparirà immediatamente una schermata di un finto RPG di matematica con grafica 8bit. Geniale coitus interruptus!


livelli

modalitá

Salta in un affascinante mondo 2D tutto da scoprire.

Gioca da solo o assieme a un amico.

acrobazie Usa le caratteristiche Wii per le tue acrobazie scimmiesche.

rispondi al richiamo selvaggio di Wii Donkey Kong e Diddy Kong sono tornati! A Natale bananizza i tuoi amici e vivi mille avventure con i gorilla più scatenati del mondo! Con la funzione Super Guida, potrai giocare più facilmente e la sfida per diventare Re della giungla sarà davvero... a portata di tutti! www.nintendo.it © 2010 NINTENDO ® AND THE Wii LOGO ARE TRADEMARKS OF NINTENDO. © 2010 NINTENDO.




Indirizzi 55DSL

Daisy Knights

Joe Rivetto

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Acne

Delfina Delettrez

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