Mensile Valori n. 96 2012

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Cooperativa Editoriale Etica Anno 12 numero 96. Febbraio 2012. € 4,00 Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB Trento Contiene I.R.

PETER PEREIRA / 4SEE / CONTRASTO

Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità

Tracollo educativo Alla base della crisi: addio istruzione, fattore di crescita e uguaglianza Finanza > I debiti degli Stati e la grande truffa dei credit default swaps Economia solidale > In pensione dopo perché si vive di più. Ma in Italia cala la vita sana | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 1 | Internazionale > Le banche che finanziano l’inquinamento globale. C’è anche Unicredit


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| editoriale |

Alfabeti di cittadinanza di Marco Rossi-Doria*

I L’AUTORE Marco Rossi-Doria, nato a Napoli nel 1954. Insegnante elementare dal 1975 e formatore dei docenti dal 1990, ha insegnato in varie città italiane, a Parigi, Nairobi e negli Usa. Primo maestro di strada, ha fondato a Napoli il progetto Chance - scuola pubblica di seconda occasione. Per il ministero del Lavoro e del Welfare ha partecipato alla Commissione povertà (2007-2009). È sottosegretario presso il ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca scientifica.

* Il presente testo è un estratto dell’intervista, pubblicata a pagina 21, che Corrado Fontana ha rivolto al sottosegretario Marco Rossi-Doria.

L RAPPORTO tra povertà e istruzione è un rapporto biunivoco, un cane che si morde la coda.

Se vieni da una famiglia povera, in Italia, hai un deficit potente di istruzione. E se hai un deficit di istruzione formi una nuova famiglia povera. I dati più attendibili che attestano un’assoluta costanza di questo trend negli ultimi cinquant’anni sono stati riassunti dalla Commissione sull’esclusione sociale nel rapporto del 2008. Lì si può vedere come le bocciature, le mancate iscrizioni, il ritardo accumulato prima del diploma sono tutte cose che si concentrano nelle aree del Paese dove è massima la concentrazione di famiglie sotto la soglia di povertà. Vi è corrispondenza diretta tra la mancata istruzione e la povertà, provincia per provincia, periferia per periferia. È triste constatare che tale corrispondenza resiste dal giorno in cui fu pubblicato Lettera a una professoressa. Con una differenza, però: i ragazzi di Barbiana erano in possesso di una cultura antropologica e di un’appartenenza forte. Sapevano chi erano e sapevano fare molte cose. Quelli di adesso, no. C’è poi un paradosso: se per caso raggiungi, proveniente da una famiglia povera, un grado medio-alto di istruzione, tutti gli indicatori a tuo vantaggio crescono. Ti ammali di meno, rischi di meno le dipendenze, trovi lavoro, vivi di più, hai un reddito maggiore di vari punti percentuali per ogni anno di istruzione in più. Dunque l’istruzione servirebbe ancora, ma capita poco di riuscire ad ottenerla proprio per chi ne avrebbe più bisogno. Nel concreto del lavoro a favore dell’istruzione nelle periferie povere, si tratta di rompere il cerchio in un punto: poiché è difficile pensare di romperlo, ancor più in tempo di crisi, dal punto di vista della sicurezza economica delle famiglie povere, la scelta va concentrata sull’istruzione dei figli. E qui conta quello che imparano in età precoce. In altre parole ancora vale in Italia quello che è vero a Nuova Delhi o a San Paolo del Brasile. Se un ragazzo impara bene e presto le conoscenze e competenze irrinunciabili forse ce la può fare, altrimenti sicuramente no. La scuola deve migliorare le condizioni relazionali con famiglie e bambini perché l’attenzione ritorni a concentrarsi sull’apprendimento. Ovviamente oggi questo riguarda anche i nuovi media, la consapevolezza del proprio corpo, la possibilità di esprimere la curiosità e la creatività, ecc. Ma ci deve essere un centro e il centro sono ancora gli alfabeti di cittadinanza: leggere, scrivere, parlare bene, seguire ragionamenti logici. Un altro ingrediente fondamentale è il sistema di alleanze nel territorio, poter parlare e agire con diverse voci verso un unico obiettivo di integrazione autentica: parrocchie, centri sportivi, scuole, artigiani, centri di formazione professionale, Asl hanno in alcuni casi saputo lavorare insieme sul territorio a lungo e bene con buoni risultati. La mancanza di sostegno politico e denaro per queste opere è uno dei motivi di ulteriore crisi nelle aree difficili del Paese. Si tratterebbe di evitare sprechi e interventi a pioggia: ottimizzare le risorse per riprendere queste pratiche. L’immagine modello di scuola che funziona di più è quello di un luogo comunitario dove c’è il piacere di stare ma anche la richiesta rigorosa di apprendimento. In genere è un posto dove chi opera – docenti, educatori e altre figure di supporto – si interroga e riflette sui compiti pratici, in modo operativo. Questi luoghi hanno un ulteriore compito: quello di essere luoghi politici in senso proprio. Luoghi che si occupano della polis. | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 3 |


per leggere tra le righe Cooperativa Editoriale Etica Anno 12 numero 96. Febbraio 2012. € 4,00 Anno 11 numero 95. Dicembre 2011 Gennaio 2012. € 4,00

Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità

Anno 11 numero 94. Novembre 2011. € 4,00

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AUGUSTO CASASOLI / A3 / CONTRASTO

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Dossier > Serve un nuovo modello economico: industria, fisco, energia, efficienza

Dossier > Un’occasione d’oro per mostrare un’economia diversa, ma rischia il flop

Manuale anticrisi

Expo sostenibile? Finanza > Inchiesta: le banche giocano con gli spread, cambiati all’ultimo minuto Economia solidale > Cemento assassino dietro i disastri da Genova a Messina Internazionale > Fukushima: situazione fuori controllo. Informazioni pilotate

Tracollo educativo

Finanza > Dopo oltre un anno la riforma della finanza Usa è ferma in un cassetto Economia solidale > Agricoltori in crisi attendono la nuova Pac, valida dal 2014 Internazionale > Non solo Libia, la Francia punta alla conquista dell’Africa Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB Trento - Contiene I.R.

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ezioni ez e zziio ni di ni di io. b bil iU l ora debito. o r a debito . apida rischia acorrezioni plizzando ida da aadebito. risc risch hia ad docorrezione nuove iamo per esempio il caso delle di bilancio per svincolarsi trappol nalizzando do n na a izzando o la a eficit-debito-interessi-deficit epiù ancora Una troppodalla lenta fa acc anzi e debiti; una correzione rapida rischia di mettere in ginocchio l'econom one Goldilocks: o n e Goldilock o ks s : rto della domanda pubblica o penalizzando la domanda privata con l'aumento d ibili i b ili i misure u d di i c co o vuole unada soluzione Goldilocks: misure di nel sostegno ne povertà e, portano re e , non por p port r ta tan no o r e e periodo accompagnate credibili misure di correzione lungo periodo; cioè me l'aumento dell'età pensionabile, non portano restrizioni significative subito, so ssiim cumu cumulano cumulan no oanel nel ne lttoall'opera estare gli effetti, ma detti effetti siucumulano tempo e riducono tangibilment mma, non ha visto m ma, on n vis vist ungo periodo.Questa crisi, insomma, non ha visto i normali meccanism armi ooluzioni della Ha a ripresa. p es o e H achiamato ciampo dellalacaduta e vera. il rimbalzo della ripresa. Ha in di causa non tanto soluzioni Goldilock mica quanto politica Le soluzioni Goldilocks richiedono mediare fra il " s o luzioni uzioni Goldiloc Goldilo o c ck k oppo freddo", di conciliare gli interessi, di affrontare i dissensi ideologici, di placa eressi, di affronta e r ressi, essi, , affront a sociale: interessi, dissensicontese e contese che diventano più intensi in tempi di corporation che dive contese che di div ve v e i ritmi e i passi adeguati. cr fronte a queste sfide la politica ha stentato a trovare Li rio è certamente questo. E"70 laha speranza èche che la soluzione trovata nella non sicostellaz riveli eff stentato a trov h a t ntato n tro r o v 'altra speranza: il pianeta Virginis b" è un pianeta extrasolare eranza è la so e r a anza za a ch e s gine; scoperto nel 1996 fu battezzato Goldilocks, non era né Hipparcos troppo caldo rginis b" èleun pian gain inis sGoldilocks b pi p iun aperché o, e quindi potenzialmente abitabile. Ma osservazioni del satellite zato guito che Goldilocks era troppo caldo. Ma forse giorno troveremo il giusto md t to o Go oldilocks oldilock l l k s questo che su qualche altro pianeta. bile. osser laldo. eld . oMa a le e oss ss s e r forse fondi .uMa for fo he qualche e ssu q ua a lcrshe

finanza

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febbraio 2012 mensile www.valori.it anno 12 numero 96 Registro Stampa del Tribunale di Milano n. 304 del 15.04.2005 editore Società Cooperativa Editoriale Etica Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano promossa da Banca Etica soci Fondazione Culturale Responsabilità Etica, Arci, FairTrade Italia, Mag 2, Editrice Monti, Fiba Cisl Nazionale, Cooperativa Sermis, Ecor, Cnca, Fiba Cisl Brianza, Federazione Autonoma Bancari Italiani, Publistampa, Federazione Trentina delle Cooperative, Rodrigo Vergara, Circom soc. coop.,Donato Dall’Ava consiglio di amministrazione Paolo Bellentani, Antonio Cossu, Donato Dall’Ava, Giuseppe Di Francesco, Marco Piccolo, Fabio Silva (presidente@valori.it), Sergio Slavazza direzione generale Giancarlo Roncaglioni (roncaglioni@valori.it) collegio dei sindaci Giuseppe Chiacchio (presidente), Danilo Guberti, Mario Caizzone direttore editoriale Mariateresa Ruggiero (ruggiero.fondazione@bancaetica.org) direttore responsabile Andrea Di Stefano (distefano@valori.it) caporedattore Elisabetta Tramonto (tramonto@valori.it) redazione (redazione@valori.it) Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano Paola Baiocchi, Andrea Baranes, Andrea Barolini, Francesco Carcano, Matteo Cavallito, Corrado Fontana, Emanuele Isonio, Michele Mancino, Mauro Meggiolaro, Andrea Montella, Valentina Neri progetto grafico Francesco Camagna (info@mokadesign.org) fotografie e illustrazioni Gerard Guittot, Clare Kendall, Salah Malkawi, Kevin Moloney, Peter Pereira, Richard Perry, Allison Shelley, Hazel Thompson (Contrasto), Tomaso Marcolla grafica, impaginazione e stampa Publistampa Arti grafiche Via Dolomiti 36, Pergine Valsugana (Trento) abbonamento annuale ˜ 10 numeri Euro 35,00 ˜ scuole, enti non profit, privati Euro 45,00 ˜ enti pubblici, aziende Euro 60,00 ˜ sostenitore abbonamento biennale ˜ 20 numeri Euro 65,00 ˜ scuole, enti non profit, privati Euro 85,00 ˜ enti pubblici, aziende come abbonarsi I carta di credito sul sito www.valori.it sezione come abbonarsi Causale: abbonamento/Rinnovo Valori I bonifico bancario c/c n°108836 - Abi 05018 - Cab 01600 - Cin Z Iban: IT29Z 05018 01600 000000108836 della Banca Popolare Etica Intestato a: Società Cooperativa Editoriale Etica, Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano Causale: abbonamento/Rinnovo Valori + Cognome Nome e indirizzo dell’abbonato I bollettino postale c/c n° 28027324 Intestato a: Società Cooperativa Editoriale Etica, Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano Causale: abbonamento/Rinnovo Valori È consentita la riproduzione totale o parziale dei soli articoli purché venga citata la fonte. Per le fotografie di cui, nonostante le ricerche eseguite, non è stato possibile rintracciare gli aventi diritto, l’Editore si dichiara pienamente disponibile ad adempiere ai propri doveri.

XINHUA / EYEVINE / CONTRASTO

| sommario |

Tre ragazzini tornano a casa da scuola; un segno di speranza a Camden NJ, una delle città più pericolose degli Stati Uniti.

globalvision

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fotonotizie

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dossier Tracollo educativo Educazione in crisi. La frattura nascosta che minaccia l’America Usa, se le sbarre prendono il posto del welfare Sicurezza a tutti i costi Marco Rossi Doria. A scuola di eguaglianza La cultura delle periferie dell’imperialismo

finanzaetica Debiti sovrani. La grande truffa dei Cds Paradisi fiscali, il G20 getta la spugna? Area C, alla ricerca di una mobilità dolce Le ombre sulla gestione dei trasporti milanesi

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l’italiaincifre economiasolidale

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La vita sana non abita più in Italia (ma nessuno ne parla) L’approccio slow fa breccia in medicina Made in Italy a rischio/11 - Quel fattore cruciale che affonda gli agrumi italiani Unità, biologico, filiera corta: ecco la ricetta anti-crisi Un marchio europeo per chi finanzia l’impresa sociale Buone pratiche/3 - L’altra economia trova casa a Mestre

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consumiditerritorio internazionale

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Banche nere come il carbone L’aria dell’industria costa cara all’Europa Dopo Kyoto chi penserà all’ambiente? La petromonarchia che metterebbe il velo agli “occhi seducenti”

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islamfinanzaesocietà + euronote altrevoci bancor action!

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LETTERE, CONTRIBUTI, ABBONAMENTI, PROMOZIONE, AMMINISTRAZIONE E PUBBLICITÀ Il Forest Stewardship Council (Fsc) garantisce tra l’altro che legno e derivati non provengano da foreste ad alto valore di conservazione, dal taglio illegale o a raso e da aree dove sono violati i diritti civili e le tradizioni locali. Involucro in Mater-Bi®

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E T N E M L SOCIA ABILI S N O P S E R

economicamente vincenti* ETICA SGR: VALORI IN CUI CREDERE, FINO IN FONDO. Etica Sgr è una società di gestione del risparmio che promuove esclusivamente investimenti finanziari in titoli di imprese e di Stati selezionati in base a criteri sociali e ambientali. L’investimento responsabile non comporta rinunce in termini di rendimento. È un investimento “paziente”, non ha carattere speculativo e quindi ben si coniuga con la filosofia di guadagno nel medio-lungo termine comune a tutti gli altri fondi di investimento. Parliamo di etica, contiamo i risultati. I fondi Valori Responsabili si possono sottoscrivere presso tutte le filiali e i promotori di Banca Popolare Etica, Banca Popolare di Milano, Banca Popolare di Sondrio, Banca di Legnano, Simgest/Coop, Banca Popolare dell’Emilia Romagna, Casse Rurali Trentine, Banca Popolare dell’Alto Adige, Banca della Campania, Eticredito, Cassa di Risparmio di Alessandria, Banca di Piacenza, Online Sim e presso alcune Banche di Credito Cooperativo. Per maggiori informazioni clicca su www.eticasgr.it o chiama lo 02.67071422. Etica Sgr è una società del Gruppo Banca Popolare Etica. Prima dell’adesione leggere il prospetto informativo. I prospetti informativi sono disponibili presso i collocatori e sul sito www.eticasgr.it

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Premio Migliori risultati Fondi Italiani

Valori Responsabili Bilanciato e Valori Responsabili Azionario - Rendimenti a tre anni (2008-2010)

LIPPER FUND AWARDS 2011

Premio Migliori Risultati Categoria Risparmio Gestito

Valori Responsabili Bilanciato e Valori Responsabili Obbligazionario Misto - Rendimenti a tre anni (2008-2010) e a cinque anni (2005-2010)

LIPPER FUND AWARDS 2010

Premio Migliori Risultati Categoria Risparmio Gestito

Valori Responsabili Bilanciato e Valori Responsabili Obbligazionario Misto - Rendimenti a tre anni (2007-2009)

LIPPER FUND AWARDS 2009

Premio Migliori Risultati Categoria Risparmio Gestito

Valori Responsabili Monetario e Valori Responsabili Obbligazionario Misto - Rendimenti a tre anni (2006-2008) LIPPER è una storica agenzia di rating e fund research, appartenente al Gruppo Reuters, che ogni anno individua – dopo un’attenta analisi – i prodotti di investimento migliori sul mercato. I Lipper Fund Award-Italia premiano in particolare i migliori fondi a tre e a cinque anni di diritto italiano ed estero venduti in Italia.

MILANO FINANZA GLOBAL AWARDS 2009 Valori Responsabili Obbligazionario Misto - Rendimento a un anno (2008)


| globalvision |

Rating in crisi

Le agenzie predicano crescita e poi la ostacolano di Alberto Berrini

GNI GIORNO siamo costretti ad assistere a turbolenze economiche di varia natura, a cui fanno seguito tentativi di cura (chiamate in gergo “manovre correttive”), che fanno riferimento a ricette economiche non sempre decifrabili. La confusione regna sovrana. In realtà, tutti gli interventi di politica economica sono riconducibili sostanzialmente a due visioni teoriche

del mondo economico: quella “keynesiana” e quella “liberista”. Per la prima i sistemi economici sono intrinsecamente instabili e, spesso, come nella situazione odierna, l’insufficiente domanda aggregata di beni e servizi conduce alla recessione. Se poi tra le cause della crisi c’è anche una carenza di liquidità è indispensabile che la Banca Centrale aumenti l’offerta di moneta, ossia aggiunga olio a un motore che rischia di “grippare”. Per la seconda concezione i problemi sono sempre di “offerta”. I sistemi economici sono indirizzati all’equilibrio, ma tale tendenza può essere loro preclusa dalle rigidità strutturali (che devono dunque al più presto essere rimosse) presenti nei mercati e dalle incertezze generate dalle misure politiche, ossia dagli interventi in campo economico degli Stati. L’attuale “versione tedesca” del liberismo si esprime nell’assioma (spesso ricordato criticamente da Padoa Schioppa) che «se tutti i governi nazionali tenessero la propria casa in ordine, sarebbe in ordine anche il mondo intero». Da qui le politiche di rigore fiscale attuate a livello europeo che rischiano di mandare in recessione l’intera economia mondiale. È quindi sorprendente constatare che “i gendarmi dei merca-

TOMASO MARCOLLA / WWW.MARCOLLA.IT

O

I “valutatori” si scoprono “keynesiani”: declassano per la scarsa crescita e non credono nel solo rigore ti finanziari”, ossia le società di rating, sembrano aderire a una visione keynesiana dell’economia quando a motivazione dei loro recenti (13 gennaio 2012) downgrading a raffica, ossia il declassamento di affidabilità di alcuni Paesi europei (tra cui la Francia!), fanno esplicito riferimento alla mancanza di crescita nei Paesi colpiti dai loro giudizi negativi. Così recita Standard & Poor’s: «Crediamo che un processo di riforma basato unicamente sul pilastro dell’au-

sterità fiscale rischia di sconfiggersi da solo nella misura in cui la domanda interna si adegua alle crescenti preoccupazioni dei consumatori riguardo la sicurezza dell’occupazione e del reddito disponibile, erodendo in tal modo il gettito fiscale del paese in questione». In sostanza Standard & Poor’s ribadisce ciò che a tutti è ormai chiaro: di sola austerità si muore. E la Grecia ne è l’esempio più drammaticamente evidente. Come è altrettanto evidente che lo stesso declassamento operato da tali società è in contraddizione con tale concezione, poiché rende ancora più difficile agli Stati il reperimento di quelle risorse indispensabili per sostenere la crescita. In breve ciò che serve è un vero governo economico unico dell’Europa, che sia in grado di affrontare una volta per tutte la questione degli Eurobond e della Banca Centrale. Questo stesso governo dovrebbe poi a livello globale, per esempio in sede di G20, porre con maggior fermezza la questione della finanza speculativa, ossia le necessarie e ormai non più rinviabili riforme dei sistemi finanziari. Mentre oggi siamo al paradosso di subire le lezioni di politica economica dei loro stessi gendarmi! | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 7 |


| fotonotizie |

Il relitto della Costa Concordia come un manifesto, con migliaia di litri di carburante nei serbatoi e lo scafo “spiaggiato” davanti all’Isola del Giglio, dopo aver ingoiato – oltre alla vita dei suoi passeggeri – un pezzo di preziosa scogliera toscana. Perché l’industria del turismo navale di massa si porta dietro inevitabili rischi ambientali, commisurati alla stazza delle imbarcazioni e al numero dei passeggeri. E, mentre i lavoratori Fincantieri di Sestri Ponente (Ge) da mesi protestano, con l’ultima nave da crociera in lavorazione e poi il buio sul futuro della cantieristica nazionale, Costa Crociere S.p.A. e tutto il comparto europeo volano: a giugno 2011 l’European Cruise Council registrava 5,5 milioni di crocieristi nel 2010 (+10% rispetto al 2009) e si contavano 5,2 milioni di passeggeri imbarcati da porti europei (+7,2%), per un impatto economico complessivo dell’industria delle crociere sul territorio di 35,2 miliardi di euro. Un giro d’affari importante e un dissenso della società civile che cresce. A gennaio la manifestazione di veneziani e ambientalisti contro la Magnifica di Msc (2.500 passeggeri, mille uomini di equipaggio, 16 ponti d’altezza e oltre 93mila tonnellate di stazza), ennesimo “gigante” passato a pochi metri da piazza San Marco (il dibattito sulla questione è vivo da tempo). Mentre al porto di Livorno si è tenuto un presidio per chiedere conto alla Grimaldi Lines di una notizia secondo cui il 17 dicembre 2011 a causa di una tempesta sarebbero caduti in mare fusti di sostanze tossiche trasportati dall’eurocargo Venezia, disperse nelle acque dell’Isola di Gorgona protette dal Parco nazionale dell’Arcipelago Toscano. Il ministro dell’Ambiente Corrado Clini, a naufragio della Costa Concordia in corso, ricordava: «Questi condomini galleggianti stanno diventando un problema ambientale serio». [C.F.]

| 8 | valori | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 |

GERARD GUITTOT / REA / CONTRASTO

Condomini galleggianti Quante altre isole del Giglio?


| ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 9 |


| fotonotizie |

Sono passati dieci anni dall’apertura del carcere speciale di Guantanamo, l’enclave militare statunitense nell’isola di Cuba che dall’avvio delle ostilità in Afghanistan “ospita” alcuni prigionieri della guerra al terrorismo internazionale. Nel corso dell’ultimo anno, ha ricordato a gennaio il Washington Post, nessun detenuto ha potuto lasciare il carcere. Una situazione che continua a sollevare le proteste degli attivisti per i diritti umani. Di fronte ai ricorsi legali, alcune corti distrettuali statunitensi hanno accolto le istanze dei detenuti ma le sentenze sono state successivamente ribaltate in appello presso il tribunale federale di Washington. A dieci anni dall’invasione dell’Afghanistan, a Guantanamo sono tuttora presenti 171 detenuti, tutti classificati come “combattenti irregolari” e non sottoposti, per questo, alle tutele della Convenzione di Ginevra. Nel corso della sua campagna elettorale, Barack Obama aveva promesso la rapida chiusura del carcere salvo poi ammettere, già nei primi mesi del suo mandato, l’esistenza di alcune difficoltà operative. L’amministrazione americana, di recente, ha approvato il trasferimento di 59 terroristi detenuti ma restano evidenti le difficoltà nel trovare Paesi disposti ad accoglierli e in grado, al tempo stesso, di offrire garanzie sui loro diritti fondamentali (se rimandati nei propri Paesi d’origine, i detenuti di passaporto pakistano o yemenita, ad esempio, rischierebbero la tortura e la pena capitale). A gennaio, ha riferito ancora il quotidiano di Washington, alcuni detenuti hanno attuato azioni di protesta all’interno della prigione. Amnesty International e altre organizzazioni non governative stanno preparando eventi di sensibilizzazione in varie città d’Europa tra cui Berlino, Parigi e Madrid. [M.CAV.]

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RICHARD PERRY / THE NEW YORK TIMES / CONTRASTO

Usa Buon compleanno Guantanamo


| ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 11 |


| fotonotizie |

Nel gennaio del 2010, Haiti, il Paese più povero del continente americano, fu devastato da un terremoto di magnitudo 7 che provocò la morte di oltre 300 mila persone causando danni incalcolabili. A due anni di distanza dal sisma, tuttavia, la popolazione dell’isola ha ricevuto poco più della metà dei finanziamenti esteri promessi, circa 2,38 miliardi di dollari contro i 4,5 programmati. Lo ha raccontato in queste settimane il quotidiano britannico Guardian citando i dati diffusi dalle Nazioni Unite. In questa situazione di grave carenza degli aiuti, denunciata da molte Ong presenti sul territorio, emergono in modo particolare i ritardi nei finanziamenti da parte di Stati Uniti e Venezuela, gli stessi Paesi, ricorda il quotidiano, che avevano promesso di “fare la parte del leone negli aiuti”. Gli Usa hanno inviato il 30% della cifra (278 milioni), il Venezuela appena il 24% (223 milioni). Non si è comportata particolarmente meglio la Germania, che ha fornito poco più di un terzo degli aiuti in programma (18,9 degli oltre 52 milioni previsti), mentre alcuni Paesi, come Belgio, Kuwait, Corea del Sud e Qatar, non hanno versato nemmeno un centesimo del denaro promesso (altri, come l’Italia, non hanno partecipato direttamente agli aiuti). Poche nazioni hanno versato l’intero ammontare (ma sono cifre contenute, non si va oltre gli 8 milioni di dollari della Russia), mentre l’organizzazione degli Stati americani (Oas) ha erogato meno del 2% di quanto accordato. Due Paesi, Giappone e Finlandia, hanno versato addirittura una cifra lievemente superiore a quella programmata. Ad oggi, ha denunciato Oxfam, 500 mila haitiani sono privi di un’abitazione, il 70% non ha un lavoro regolare mentre resta tuttora vasta la diffusione del colera. [M.CAV.]

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ALLISON SHELLEY / THE NEW YORK TIMES / CONTRASTO

Haiti A due anni dal terremoto consegnata solo la metà degli aiuti


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dossier

a cura di Paola Baiocchi, Matteo Cavallito, Corrado Fontana e Valentina Neri

Istruzione: risorsa anticrisi e fattore di sicurezza sociale. L’educazione costa meno della repressione delle devianze. La sua riduzione cosa comporta?

La frattura nascosta che minaccia l’America > 16 Usa, se le sbarre prendono il posto del welfare > 18 Sicurezza a tutti i costi > 20 A scuola di eguaglianza > 21 La cultura nelle periferie dell’imperialismo > 24

PETER PEREIRA / 4SEE / CONTRASTO

Uno studente guarda Ana Murriez, preside della Saint Anthony of Padua School di Camden NJ – ormai considerata la città più pericolosa degli Stati Uniti – mentre si prepara a lasciare la classe. Con oltre 2.300 crimini violenti per ogni 100.000 persone, Camden si è trasformata in un caso-studio della disfunzione urbana.


Tracollo educativo


dossier

| tracollo educativo |

Educazione in crisi

La frattura nascosta che minaccia l’America di Matteo Cavallito

S

E CHIEDETE a un centinaio di analisti, operatori e docenti di economia scel-

ti a caso che cos’abbia provocato la crisi globale, otterrete con ogni probabilità la medesima risposta. In fondo, in apparenza, è solo una questione tecnica: bolla immobiliare, collateralizzazione, derivati e leva finanziaria. Come a dire un effetto domino che si innesca laddove meno te lo aspetti provocando un terremoto mai visto prima. La spiegazione è corretta, ma al tempo stesso rischia di essere riduttiva. Visto che le radici del collasso sembrano in realtà molto più profonde. Ne è convinto da qualche tempo uno dei più brillanti docenti della Booth School of Business della Chicago University, quel Raghuram Rajan che nell’agosto 2005 si permise di “rovinare” la festa d’addio di un mostro sacro come Alan Greenspan, pronunciando un discorso carico di pessimismo all’incredula platea accorsa a Jackson Hole, nel Wyoming, per celebrare il congedo dell’uomo che aveva guidato la politica monetaria statunitense nel corso di una lunga era di crescita economica e apparente benessere. L’incubazione della crisi Pubblicato a cinque anni di distanza, il suo saggio Fault Lines (Princeton, 2010) è già diventato un classico della letteratura post crisi, un’analisi delle cause primarie del dissesto che si concentra su un nesso troppo spesso ignorato: quello tra educazione e sviluppo. La diffusione della tecnologia, nota Rajan, è stata decisiva per la promozione della crescita, ma l’incapacità del sistema formativo americano di tenere il passo con le nuove esigenze imposte da quest’ultima (la crescita della domanda di lavoratori qualificati) ha determinato un drammatico sviluppo della disuguaglianza sociale. Nella seconda metà dell’800 la crescita dell’industria manifatturiera si accompagnò alla diffusione dell’educazione di massa, trasformando l’America nella nazione più colta del mondo e avviando un trend che si sarebbe confermato tale per più di un secolo. Nel 1910 meno di un decimo dei cittadini statunitensi poteva vantare un diploma. Nel | 16 | valori | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 |

Raghuram Rajan, economista statunitense di origini indiane, docente della Booth School of Business della Chicago University

A partire dagli anni ’90 le facilitazioni per l’accesso al credito sono state il mezzo “più semplice, popolare e rapido” per mascherare le diseguaglianze. Una strategia insostenibile. Ecco il nesso tra deficit formativo e mutui subprime, tra impoverimento e crisi 1970 l’istruzione superiore interessava ormai i 3/4 della popolazione. Ma l’inversione di tendenza era dietro l’angolo.

Gli statunitensi del 1980 – osserva Rajan – studiavano in media ben 4,7 anni in più dei loro concittadini del 1930. Venticinque anni dopo l’incremento medio della durata dell’istruzione sarebbe stato di soli 0,8 anni. Educazione superiore di scarsa qualità, aumento dell’abbandono scolastico, crescita delle tasse universitarie (alla base dell’indebitamento degli studenti, vedi BOX ). Eccoli i fattori chiave della prima grande frattura. Il progresso richiede nuove competenze, ma il sistema educativo non si adegua e le carenze dell’istruzione riducono le opportunità. I laureati di più alto livello vedono i propri salari aumentare, tutti gli altri fanno i conti con retribuzioni in stallo o addirittura in diminuzione. Nel 1975 il 10% della popolazione americana guadagnava in media il triplo rispetto al restante 90%. Nel 2005 il rapporto retributivo era salito a 5 volte tanto. «Il divario tra l’aumento della domanda di lavoratori preparati e la carenza di offerta degli stessi a causa della carenze quantitative e qualitative dell’istruzione – rileva Rajan – è soltanto una, anche se probabilmente la principale, ragione dietro alla crescita delle disuguaglianze».

La bolla del credito Una società profondamente diseguale non può andare incontro a una crescita economica duratura, ha sottolineato di recente il Fondo monetario internazionale in una sua relazione*. La questione è relativamente semplice di fronte a problemi palesi come la difficoltà dell’accesso all’istruzione e la ridotta capacità di spesa sul mercato.


| dossier | tracollo educativo|

Il secondo 20%

Il terzo 20%

+55%

+99%

1980-2009

+25%

+15%

+113% +7%

+101%

Il 20% più povero della popolazione!

+115%

1947-1979 130% 120% 110% 100% 90% 80% 70% 60% 50% 40% 30% 20% 10% 0% -10%

Il quarto 20%

Il 20% più ricco

UNIVERSITÀ USA: QUANTO PESANO I DEBITI C’è chi condivide la propria storia sui blog e sui social network e chi firma per la Occupy student debt campaign, che, una volta raggiunto il milione di sottoscrizioni, propone di smettere di pagare. Sono i milioni di statunitensi che si sono indebitati per poter studiare e che ora pagano le conseguenze della crisi. Il tasso di disoccupazione (con l’8,6% dello scorso novembre, si mantiene altissimo per gli standard d’oltreoceano) lo testimonia. Quella di indebitarsi per le spese scolastiche, negli Usa è una necessità che non nasce di certo con la crisi: anche il presidente Barack Obama e la moglie Michelle hanno terminato l’università con un debito di circa 120 mila dollari. Ma la tendenza è in netta crescita. All’inizio del 2011 il volume totale dei prestiti ha raggiunto i 550 miliardi di dollari, il 511% in più rispetto al 1999. Due laureati su tre nel 2010 – ricorda il Project on student debt – hanno contratto debiti con una media di oltre 25 mila dollari a testa. D’altronde le prime a crescere sono le rette. Nelle università pubbliche, frequentate dai due terzi degli studenti, quest’anno l’aumento medio è stato dell’8,3% rispetto al 2010/11 (riporta Trends in college pricing 2011 di College Board). In valori assoluti 8.244 dollari, a fronte dei 7.613 dell’anno scorso. Ha pesato l’ennesimo calo (-4%) dei finanziamenti pubblici, crollati del 23% rispetto al 2000. Crescono, ma a ritmi inferiori, anche le spese per le università private senza fini di lucro: la media è di 28.500 dollari, il 4,5% in più rispetto allo scorso anno accademico, seppure con enormi disparità tra Stato e Stato.

Viste le cifre in gioco, le difficoltà si fanno sentire. Lo dimostra il rapporto Delinquency: the untold story of student loan borrowing – pubblicato a marzo 2011 dall’Institute for higher education policy – che prende in esame i dati forniti da cinque agenzie che forniscono garanzie sui prestiti federali. Sono 1,8 milioni gli studenti che hanno iniziato a restituire i propri debiti nel 2005: e solo per il 37% di loro è andato tutto secondo i piani. Il 23% ha dovuto dilazionarne i termini; il 26% si è trovato in mora; nel 15% dei casi si può parlare di insolvenza. In tutto, quindi, 1,1 milioni di persone hanno avuto problemi a rimborsare i loro debiti, per un totale di 24,3 miliardi di dollari. Non stupisce, dunque, che Obama abbia pensato agli studenti in una manovra annunciata, dal nome eloquente: We can’t wait (non possiamo aspettare). Agganciare il tetto dei rimborsi al 10% del reddito, tagliare di mezzo punto il tasso d’interesse e ridurre da 25 a 20 anni il periodo dopo il quale la quota ancora da pagare va considerata estinta. Sono i cambiamenti proposti. A beneficiarne dovrebbero essere circa sei milioni di studenti. Ma, stando ai movimenti di protesta, non basta. Tali misure, infatti, si applicano soltanto per i debiti federali: che sono garantiti dal governo e prevedono condizioni di favore, ma comportano un tetto massimo alla somma che si può richiedere. Chi ha bisogno di più denaro deve ricorrere al mercato privato, per il quale esistono pochissimi dati ufficiali. E che impone tassi d’interesse molto più alti. V. N.

| ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 17 |

FONTE: R. REICH, “THE LIMPING MIDDLE CLASS”, NEW YORK TIMES, 3 SETTEMBRE 2011

LA CRESCITA DEL REDDITO NEGLI STATI UNITI

-4%

«Non è una semplice coincidenza il fatto che negli ultimi cento anni la quota di ricchezza detenuta dalle classi più elevate, rispetto al totale prodotto dalla nazione, abbia toccato i suoi picchi nel 1928 e nel 2007, ovvero nei due anni che hanno preceduto i più grandi collassi economici». Parola dell’ex segretario al Lavoro e attuale docente della University of California, Robert Reich. Già autore del noto Aftershock: the next economy and America’s future, l’ex componente dell’amministrazione Clinton ha ribadito le proprie tesi in un articolo dal titolo emblematico – The limping middle class (la zoppicante classe media) – pubblicato a settembre sulle colonne del New York Times. Proprio le fortune della classe media, evidenzia Reich, sono alla base dei momenti di espansione e stabilità. Come il trentennio della Grande prosperità (1947-79) quando a beneficiare dei maggiori incrementi di reddito fu, in proporzione, il 20% più povero d’America (vedi GRAFICO ). Un trend clamorosamente spazzato via nei trent’anni seguenti, quando le carenze del sistema formativo, il trattamento fiscale diseguale e la riduzione della sindacalizzazione hanno premiato al contrario il 20% più ricco. Determinante, secondo Reich, anche la progressiva liberalizzazione del settore finanziario (di cui è stato responsabile, però, anche il suo ex capo di governo Bill Clinton), alla base della crescita senza pari dei profitti del comparto. Nel 2007 le compagnie finanziarie compensavano il 40% dei profitti del settore privato statunitense contro il 10% registrato tra il 1947 e il 1979. Un segnale

di un ulteriore fenomeno rappresentato dal sostanziale trasferimento della redditività dal lavoro alla proprietà: nel trentennio della “Grande regressione”, per citare l’espressione di Reich, la produttività è aumentata dell’80% (contro il 119% dei tre decenni precedenti), tuttavia i salari e le retribuzioni in genere su base oraria sono cresciuti rispettivamente solo del 7% e dell’8% (contro il 72% e il 100% del periodo 1947-79). M.Cav.

+122%

LA CLASSE MEDIA USA COME SPECCHIO DELLA CRISI


dossier

| tracollo educativo |

LIBRI Raghuram G. Rajan Fault Lines: How Hidden Fractures Still Threaten the World Economy Princeton University Press, 2010

Robert B. Reich Aftershock: The Next Economy and America’s Future (Hardback) Three Rivers Press, 2010

Ma l’aspetto decisivo resta l’inopportunità della risposta politica. A partire dagli anni ’90 le facilitazioni per l’accesso al credito sono state il mezzo “più semplice, popolare e rapido” per mascherare le disuguaglianze. Una strategia che si sarebbe rivelata complessivamente insostenibile. Eccolo il nesso tra deficit formativo e mutui subprime, ecco il legame tra impoverimento e crisi finanziaria. Nel 1995 Bill Clinton si appellò pubblicamente alla «creatività e alle risorse dei

settori pubblico e privato» per «affrontare gli ostacoli finanziari al possesso di una casa». Parole, contenute nel famoso documento noto come National Homeownership Strategy, che suonano oggi più che mai emblematiche. Retorica di un’illusione spazzata via da una crisi che ha investito in primo luogo un intero modello di sviluppo. * Andrew G. Berg and Jonathan D. Ostry, “Equality and Efficiency”. Finance & Development, September 2011, Vol. 48, No. 3. http://www.imf.org/external/pubs/ft/ fandd/2011/09/Berg.htm

Usa, se le sbarre prendono il posto del welfare di Valentina Neri

Gli Stati Uniti hanno la “popolazione carceraria” più numerosa al mondo: 2,3 milioni di persone nel 2009. Un sistema giudiziario particolarmente efficace? Oppure una società che non cerca di risolvere a monte l’esclusione sociale? dei sociologi e dei giornalisti mass imprisonment è un’espressione sempre più ricorrente, tradurla in italiano non è facile. Anche in questo caso i numeri sono più immediati delle parole: stando agli ultimi dati, forniti dal dipartimento di Giustizia, nel 2009 negli Stati Uniti 2,3 milioni di persone erano in prigione, nel 1972 erano 330 mila. E se a queste cifre si aggiungono la semilibertà e la condizionale, si arriva a un totale di 7,2 milioni di persone (erano 1,8 milioni nel 1980). Fino agli anni Settanta l’aumento del numero di detenuti seguiva, a un tasso leggermente superiore, quello demografico. Ma, fra il 1970 e il 2000, si è verificata un’impennata del 500% di presenze in carcere, a fronte di un +40% della popolazione. Traduzione: nel 2009 un americano su 135 era (o era stato in passato) in carcere.

N

EL LINGUAGGIO

| 18 | valori | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 |

Se più persone finiscono dietro le sbarre significa che ci sono più reati? Non è detto. Almeno non secondo Bruce Western, autore di Punishment and inequality in America, né secondo The sentencing project, organizzazione con sede a Washington che lavora «per cambiare il modo di pensare al crimine e al carcere». Il numero di detenuti è costantemente aumentato negli ultimi quarant’anni: sia durante le ondate di crimini violenti che hanno costellato gli anni Ottanta, sia nel decennio successivo, in cui, al contrario, si assisteva a un calo record dei reati. Molti

Più detenuti non significano più reati commessi: tra il 1991 e il 1998 nello Stato di New York i reclusi sono aumentati del 24%, mentre i crimini sono diminuiti del 43%

citano proprio gli anni Novanta come prova dell’efficacia di un sistema giudiziario molto severo. Ma, osservando i dati nello specifico, si nota come fra il 1991 e il 1998 nello stato di New York – in cui le presenze in carcere sono aumentate del 24% – i crimini sono calati addirittura del 43%: un risultato molto più consistente rispetto al -35% e -36% di Texas e California, in cui le detenzioni hanno registrato picchi rispettivamente del +144% e del +53%.

Una questione di welfare Il carcere nasce come misura di ordine pubblico. Ma il boom delle carcerazioni è anche una questione politica: basti pensare alle conseguenze della three strikes law, attualmente in vigore sotto varie forme in ventisei Stati nordamericani, che prevede pene molto severe (fino all’ergastolo) per la recidiva. Deriva anche dalla scelta di come affrontare determinati


FONTE: BUREAU OF JUSTICE STATISTICS

| dossier | tracollo educativo |

POPOLAZIONE CARCERARIA USA 8.000.000 7.000.000 6.000.000 5.000.000 4.000.000 3.000.000 2.000.000

0

1980 1981 1982 1983 1984 1985 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009

1.000.000

In carcere

problemi sociali, come quelli legati alla droga: questi ultimi – complice il fatto che anche il possesso sia reato – fra il 2008 e il 2009 riguardavano il 18% dei detenuti nelle prigioni statali e il 51% in quelle federali. Il mass imprisonment, in sintesi, è un qualcosa che ha molto a che vedere col welfare. I rischi derivanti dall’esclusione sociale, infatti, possono essere approcciati a monte, tramite politiche educative volte a scongiurare che si trasformino in una minaccia per gli altri, o tramite interventi assistenziali per garantire a tutti

LIBRI

Lorenzo Carletti Condannato perché nacque. I graffiti del carcere di Vicopisano tra Otto e Novecento Edizioni Ets, 2010

Charles Klopp La zebrata veste. Lettere e memorie di detenuti politici italiani (Cellini, Tasso, Casanova, Pellico, Gramsci, Moro) Felici Editore, 2010

Condizionale

Semilibertà

una vita dignitosa. Oppure li si può affrontare a valle: e in tal caso entrano in gioco le misure punitive.

Governare attraverso la criminalità Jonathan Simon, professore di Legge all’università di Berkeley, individua un passaggio: dal “governare la criminalità” al “governare attraverso la criminalità”. Nel primo caso ci si limita semplicemente a punire i reati, con una reazione commisurata al problema. Ma il discrimine è molto sottile: e si arriva a governare attraverso

Totale

la criminalità quando si conferisce legittimità a qualsiasi azione che venga letta come una mossa in prevenzione del crimine. La paura della violenza, d’altronde, è naturale: ed esiste da molto prima dell’11 settembre. Ma, quando si attraversa questa soglia, la violenza diventa la chiave interpretativa attraverso la quale si spiegano e si giustificano le scelte politiche. Mano a mano che si alimenta una cultura di paura, si abbassa la soglia della paura stessa. E si è più disposti a fare sacrifici in termini di eguaglianza e libertà.

SEMPRE PIÙ STRETTI I “RISTRETTI” ITALIANI Sono raddoppiati in vent’anni i detenuti nelle carceri italiane: nel 1991 erano 31.053 i “ristretti”. Se ne sono contati 67.394 il 30 giugno 2011. In condizioni di sovraffollamento spaventose, nonostante esistano una serie di penitenziari già costruiti ma mai entrati in funzione: a fronte di una capacità “tollerabile” di 45.636 persone nelle 206 carceri italiane, la metà delle quali costruita tra il 1200 e il 1800, ci sono 21.758 detenuti in più. Oltre a circa 90 mila persone che transitano durante l’anno per pochi giorni, per reati collegati all’uso e alla detenzione di droghe o all’immigrazione. A riprova che alcune leggi, come la Giovanardi o la Bossi-Fini, servono ad affollare le carceri con i poveri di tutto il mondo e perseguono la criminalizzazione dei problemi sociali. L’inadeguatezza delle carceri nei confronti di queste detenzioni risulta anche dal numero dei decessi: 1.500 morti in dieci anni nelle carceri italiane; 186 lo scorso anno, delle quali 66 per suicidio, 23 sulle quali sono in corso indagini giudiziarie, 1 per omicidio e 96 per cause naturali. Secondo Antigone, l’associazione più conosciuta tra quelle che si occupano delle condizioni della detenzione in Italia, nel 2011 la metà circa della popolazione carceraria (32.991 persone) era detenuta per reati contro il patrimonio, 28.092 per reati previsti dalla legge sulle droghe, 6.438 per associazione di stampo mafioso, 1.149 per reati legati alla prostituzione. Il 75% dei detenuti sono ex disoccupati, il 95% sono persone che hanno al massimo la terza media. In venti anni è cresciuta molto anche la percentuale degli stranieri: era il 15,3% nel 1991, lo scorso anno ha toccato il 36,14% deila popolazione carceraria (24.401 detenuti). Pa. Bai. | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 19 |


dossier

| tracollo educativo |

Sicurezza a tutti i costi di Valentina Neri

In California vengono destinate più risorse al sistema carcerario che all’istruzione; eppure un posto in carcere costa di più di una laurea. Chi non ha terminato le scuole superiori rischia 5 volte di più di andare incontro a una condanna A WELFARE STATE A PENAL STATE. Sarebbe questa, secondo Jonathan Simon, la direzione intrapresa dagli Usa. E a dimostrarlo sarebbe l’enorme quantità di risorse convogliate nel sistema penale. Fra il 1982 e il 2003 il numero di dipendenti del comparto della giustizia è cresciuto dell’86%: attualmente supera quello dei dipendenti di Ford, General Motors e Walmart messi insieme. Supervisori, addetti alla vigilanza e forze di polizia costituiscono un quinto della forza lavoro statunitense. Una percentuale costantemente in aumento e sempre più dominata dal lato della sicurezza interna, più che dai militari.

D

Un sistema al collasso Si può dire, in sintesi, che negli Stati Uniti il sistema penale sia diventato una componente a pieno titolo del mercato del lavoro e una delle principali voci di spesa per il bilancio pubblico. Indipendentemente dall’effettivo tasso di criminalità, quella di costruire una prigione rischia di essere considerata la scelta vincente: perché dà ai cittadini un’illusione di maggiore sicurezza e perché crea | 20 | valori | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 |

posti di lavoro. E si arriva a casi come quello della California: il sistema carcerario continua ad assorbire circa il 10% del bilancio pubblico (molto di più di quanto venga destinato all’istruzione), ma non basta. La criminalizzazione della lotta alla droga, intrapresa a partire dagli anni Settanta, ha portato a una popolazione carceraria di circa 150 mila persone (la metà rispetto a quella che, trent’anni fa, era il totale dei cinquanta Stati americani messi assieme). Ciascun posto letto costa allo Stato 44 mila dollari all’anno: più di un corso di studi universitario. E il sistema è al collasso. Tanto che una sentenza della Corte Suprema, riscontrando nelle prigioni condizioni di vita “incompatibili con il concetto di dignità umana”, ha obbligato le autorità a liberare 40 mila persone in tre anni. In altri casi, si ricorre alla privatizzazione: già il 9% dei

I territori che investono di più nel sistema penale sono anche quelli dove la distanza tra ricchi e poveri è più grande

detenuti americani vive in istituti a gestione privata. Ma, di fatto, sono sempre i contribuenti a pagare: gli Stati, infatti, devono corrispondere alle società private un ammontare fisso per ogni prigioniero, indipendentemente dall’effettivo costo per mantenerlo.

La diseguaglianza nascosta Ma a livello sociale cosa significa destinare così tante risorse alla sicurezza? Secondo un’analisi di Sam Bowles e Arjun Jayadev, la quota di lavoro di guardia ha una correlazione tutto sommato debole con il tasso di criminalità: molto più forte è la relazione con la diseguaglianza sociale. In poche parole i territori che investono di più nel sistema penale sono anche quelli in cui la popolazione è più polarizzata: cioè dove i ricchi sono più ricchi e i poveri più poveri. Riscontrare rapporti univoci di causaeffetto, anche in questo caso, è impossibile. Ma i tassi di presenza in carcere sono eloquenti. Stando ai dati ufficiali del 2009, la media negli Usa (la più alta al mondo) è di 743 detenuti su 100 mila persone. Ma, se per i maschi bianchi scende a 708 su 100 mila,


| dossier | tracollo educativo |

TOTALE DEGLI ADDETTI ALLA GIUSTIZIA NEGLI USA DAL 1982 AL 2007 2.500.000

0

Totale

1982

1987

1992

Settore giudiziario e legale

1997

Forze dell’ordine

2002

47,5% 31,7%

20,8%

46,2% 32,6%

21,2%

20,2%

500.000

20,8% 47,7% 31,5%

1.000.000

20,5% 52% 27,5%

1.500.000

45,8% 34,1%

2.000.000

19,5% 57% 23,5%

FONTE: U.S. CENSUS BUREAU, ANNUAL SURVEY OF PUBLIC EMPLOYMENT

per gli ispanici sale a 1.822 e per i LIBRI neri a 4.749 su 100 mila. Ma non Bruce Western è quella etnica l’unica discrimiPunishment nante. Bruce Western calcola le and inequality probabilità medie, per un cittain America dino statunitense, di andare inRussell Sage contro a una condanna penale Foundation Publications, 2006 nel corso della propria vita. Queste scendono quasi di un Jonathan Simon terzo con un aumento di 100 Governing dollari del proprio reddito setthrough crime timanale; e sono quintuplicate Oxford University per chi non ha terminato le Press, 2006 scuole superiori. Ruth Wilson Proprio la scuola, d’altra Gilmore parte, è una delle tappe che i soGolden Gulag: ciologi individuano nella tranprisons, surplus, crisis, and sizione alla vita adulta: insieme opposition in al lavoro e alle relazioni famiglobalizing liari e affettive, aiuta a instauCalifornia rare forti legami sociali che alUniversity of California lontanano dalla marginalità e Press, 2007 dal rischio che questa si traduca in devianza. La detenzione, Randall Kennedy Race, crime di norma, arriva in giovane età. and the law E non solo allontana da questi Vintage, 1998 passaggi, ma li complica anche in futuro. Western fa un’analisi approfondita della vita postcarcere: ne emerge che la reclusione rimane come uno stigma che mette in crisi la vita familiare e riduce le prospettive lavorative e salariali. Se il sistema educativo nasce con lo scopo di appianare le diseguaglianze, offrendo a tutti le medesime possibilità, il carcere rischia di diventare il nuovo ghetto della marginalità, che, una volta rinchiusa tra le mura delle prigioni, viene resa letteralmente invisibile. E l’America si ritrova più divisa che mai.

2007

Sistema carcerario

TABELLA TRATTA DA: JUSTICE EXPENDITURES AND EMPLOYMENT, FY 1982-2007 - STATISTICAL TABLES DI TRACEY KYCKELHAHN. U.S. DEPARTMENT OF JUSTICE - OFFICE OF JUSTICE PROGRAMS - BUREAU OF JUSTICE STATISTICS

A scuola di eguaglianza di Corrado Fontana

Dalle classi dei quartieri difficili alle stanze del Ministero: il sottosegretario Marco Rossi-Doria parla di una “discriminazione positiva” per la scuola italiana, che ora è una fucina di diseguaglianze L FIGLIO di un impiegato laureato ha l’830% in più di possibilità di laurearsi del figlio di un manovale con la terza media. Anche in Germania c’è disparità, ma questo divario è sotto il 300%». Lo rivela a Valori il neo-sottosegretario all’Istruzione, Marco RossiDoria, citando i dati Eurosilc (European union statistics on income and living conditions, ovvero il rapporto europeo che Marco Rossi-Doria, analizza risorse economiche e condizioni sottosegretario di vita). E non è l’unico studio che evidenall’Istruzione zia una situazione “anomala” per l’Italia: le statistiche pubblicate dall’Ocse nel rapporto Education at a glance 2011 - Oecd indicators descrivono un Paese che arranca, soprattutto rispetto agli emergenti, e un legame significativo tra livello/qualità d’istruzione e condizioni di vita/lavoro/reddito.

«I

Perché esiste questo deficit sul fronte dell’istruzione tra l’Italia e altri Paesi (europei e non)? Bisogna stare attenti ai confronti tra Paesi sviluppati da tempo e Paesi che si trovano nel boom in questo momento. Se guardassimo i dati dell’Italia tra il 1954 e il 1965 potremmo constatare che nel mezzo del boom c’è un rapporto diretto e positivo tra espansione economica e inclusione del sistema scolastico. Il trend rallenta con lo stabilizzarsi delle economie ai livelli di massimo sviluppo. Tuttavia va notato che tra i Paesi sviluppati l’Italia partiva con un forte ritardo nei livelli di alfabetizzazione rispetto ai modelli austro-ungarico, tedesco, francese, inglese e americano. Avevamo un deficit e il problema è che quel deficit non è stato mai completamente colmato. La ragione principale di questo problema strutturale del nostro sistema sta nella sua rigidità: stesso tipo di scuola uguale per tutti senza una differenziazione che permetta delle offerte su richiesta di chi rimane indietro, innanzitutto, ma anche per le esigenze personali. Dietro questa rigidità c’è un’idea povera di eguaglianza, che non è riuscita a dare di più a chi parte con meno e a continua a pagina 22

| ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 21 |


dossier

| tracollo educativo |

Nella prestigiosa classifica internazionale della qualità degli atenei di tutto il mondo Qs World university ranking 2011 la prima università italiana – l’Alma Mater di Bologna – è solo al 183° posto. Per fortuna il Politecnico di Milano è al 48° nell’area disciplinare dell’Engineering and technology.

INCIDENZA DI POVERTÀ ASSOLUTA PER TITOLO DI STUDIO DELLA PERSONA DI RIFERIMENTO [Anni 2009-2010 - valori percentuali] Titolo di studio

2009

2010

Nessuno / elementare

8,7

8,3

Media inferiore

5,3

5,1

Media superiore e oltre

1,7

2,1

SITOGRAFIA www.istruzione.it, Miur - ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca www.oecd.org, Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) o Organization for economic cooperation and development (Oecd) www.almalaurea.it, Alma laurea, servizio gestito da un Consorzio di atenei italiani con il sostegno del ministero dell’Istruzione http://marcorossidoria.blogspot.com, blog del sottosegretario all’Istruzione Marco Rossi-Doria

FONTE: RAPPORTO ISTAT “LA POVERTÀ IN ITALIA - ANNO 2010”, PUBBLICATO A LUGLIO 2011

dare diversamente. Paradossalmente siamo stati più inclusivi rispetto alle disabilità che rispetto all’esclusione culturale ed economica delle famiglie di origine: non abbiamo dato opportunità ben mirate a chi partiva con reddito e conoscenze minori. Lei considera il sistema scolastico come parte del welfare? Storicamente è la più estesa politica di welfare esistente. Nasce come principale politica compensativa o di discriminazione positiva nei confronti di chi parte con meno nella vita. Tuttavia a partire dagli anni ’70 gli economisti dell’educazione hanno dimostrato una corrispondenza tra i gradi di istruzione e formazione diffusi e la crescita del Pil, nonché la capacità di innovazione del sistema produttivo e dei servizi. Questo colloca il sistema di istruzione in uno spazio intermedio tra la protezione e la promozione dei bambini e dei ragazzi più deboli socialmente (ascensore sociale) e una più diretta partecipazione alla crescita economica. L’educazione è quindi un tassello fondamentale per l’economia di un Paese? L’Agenda di Lisbona dell’Unione europea ha confermato questa prospettiva: la quantità di conoscenza necessaria alla società per mantenere il proprio grado di sviluppo è determinata dalla capacità di tenuta e innovazione del proprio sistema di formazione primaria e secondaria, dunque la scuola non è solo parte del welfare, ma di più. È su questo “di più” che l’Italia arranca, perché ha un modello di scuola troppo distante dalla vita sociale, dalle | 22 | valori | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 |

sperimentazioni tecnologiche, dalle esperienze e dalle produzioni. Da tutti questi punti di vista i tagli lineari di 8 miliardi di euro degli ultimi anni vanno letti come un grave attacco anche alla possibilità di sviluppo del sistema Paese, in quanto si è considerato la spesa in istruzione con il segno negativo e non come investimento. Quale compito può assolvere la scuola italiana e con quali strumenti per contribuire alla riduzione delle disuguaglianze? Gli strumenti di cui sarebbe utile dotarsi sono quelli che vanno sotto la dicitu-

ra “discriminazione positiva”, ossia dare di più a chi parte con meno. Questo significa che le scuole delle zone povere dovrebbero essere dotate dei migliori docenti come nelle zone di educazione prioritaria in Francia e in molte periferie americane e inglesi. Vale ancora l’adagio di Don Milani: “Non c’è cosa più ingiusta che dare cose uguali a persone che non sono uguali”. Il nostro sistema scolastico purtroppo insiste che bisogna dare cose uguali a tutti. Ma insegnare in un posto o in un altro fa differenza e si lavora di più o di meno. Gli investimenti dovrebbero perciò concentrarsi sui gruppi dei docenti in azione, sulla qualità delle scuole (edifici, spazi esterni, tempo di apertura, uso comunitario dei mezzi tecnologici, laboratori, ecc.) proprio nelle aree più deboli del Paese. Sarebbe ora di invertire il trend standardizzante e ingiusto degli ultimi lustri. Dare di più in termini forse anche salariali, ma soprattutto mezzi tecnici e professionali a disposizione: supervisione psicologica e pedagogica, nuovi media e formazione, lavoro intenso per ragionare sui risultati delle prove e fare di tutto per migliorare in modo verificabile i livelli reali di alfabetizzazione. Sono cose possibili.

ABOLIZIONE DEL VALORE LEGALE DELLA LAUREA La soluzione dei problemi economici dell’Italia sta ai tassisti e alle loro licenze, come quella dei problemi della formazione universitaria sta all’abolizione del valore legale della laurea. Improbabili ambedue, eppure ripresentate ciclicamente negli ultimi anni: l’abolizione del valore legale della laurea è un cavallo di battaglia della Fondazione Rodolfo De Benedetti, sponsorizzata da Confindustria, da economisti allineati alle sue politiche come Francesco Giavazzi e anche dal presidente del Consiglio Mario Monti, rettore della Bocconi nel 2005 (attualmente sospeso). Se ne riparla in questi giorni perché forse ora ci sarebbero “le congiunzioni astrali” favorevoli al progetto, che per i sostenitori servirebbe a mettere in concorrenza tra di loro gli atenei, lasciandoli liberi di pagare quanto vogliono i professori più prestigiosi, con la conseguenza di riqualificare internazionalmente il livello degli atenei italiani. Il modello è quello anglosassone, con università pubbliche, ma libere di applicare le rette che vogliono entro i massimi stabiliti dal governo (ricordate gli scontri dopo gli aumenti in Inghilterra?), che rilasciano un certificato senza valore legale, più o meno importante in base all’università frequentata. La proposta di abolizione sembra una questione secondaria, ma alcune parole d’ordine dei sostenitori, come “per un’idea di università che sposi le regole del mercato” ne lasciano capire le conseguenze: spianerebbe la strada a università di serie A e di serie B, a tasse insostenibili per le famiglie dei lavoratori, e dove gli atenei più titolati, anche privati, sarebbero ricompensati con più fondi pubblici. Un progetto che non migliorerebbe l’università, ma approfondirebbe il solco tra le classi, in una società come quella italiana che ha pochissima mobilità sociale. Pa. Bai.

GLOSSARIO OCSE: Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) o Organization for Economic Co-operation and Development (Oecd). È un’organizzazione internazionale di studi economici. I membri sono Paesi sviluppati aventi in comune un sistema di governo di tipo democratico e un’economia di mercato.


| dossier | tracollo educativo |

L’ITALIA FA LA DIFFERENZA

COSTI... Da Education at a glance 2011 (rapporto Ocse di riferimento) scopriamo che nel 2008 l’Italia ha speso solo il 4,8% del Pil per l’educazione, anche per colpa di investimenti privati limitati (l’8,6% del totale; media Ocse al 16,5%), contro un totale Ocse del 6,1%. Tra 2000 e 2008 la nostra spesa per studente nei cicli di livello primario, secondario e post-secondario non universitario (elementari, medie e superiori di una volta) è salita al 6% (Ocse +34%); quella per studente d’università pubblica era nel 2008 di 7.241 euro (Usa 22.293; media Ue 9.425; Germania 12.649; Francia 11.574). La cifra è aumentata dell’8% nel nostro Paese contro un aumento medio Ocse del 14%. Quanto ai lavoratori, il dossier della Cgil Scuola RicominciAMO dalLA SCUOLA PUBBLICA ricorda che – a seguito della “riforma Gelmini” –

[Anni 2009-2010 - valori percentuali]

Paesi

Euro PPS*

% in rapporto al PIL pro capite

Stati Uniti

22.293

59

Germania

12.649

44

Finlandia

12.192

42

Francia

11.574

43

Spagna

10.810

42

Media UE (27)

9.425

39

Portogallo

8.179

42

Italia

7.241

28

* EURO A PARITÀ DI POTERE D’ACQUISTO FONTE: EUROSTAT. RAPPORTO MINISTERO DELL’ISTRUZIONE, UNIVERSITÀ E RICERCA SCIENTIFICA (MIUR) “L’UNIVERSITÀ IN CIFRE 2009-2010”

BENEFICI... E sul piano dei risultati degli studi? Dei giovani italiani tra 25 e 34 anni circa il 70,3% ha un diploma di istruzione secondaria superiore (media Ocse 81,5%), ma solo il 20,2% (media Ocse al 37,1%) ha un titolo d’istruzione terziaria (università e master). Studiare qui rende meno e conta poco rispetto all’esperienza: nei Paesi Ocse lo stipendio per studente con istruzione secondaria superiore è di 3.450 dollari, contro la media italiana di 2.998. E se i nostri datori di lavoro pagano il 120% in più per un laureato FONTE: XIII RAPPORTO ALMALAUREA SULLA CONDIZIONE OCCUPAZIONALE DEI LAUREATI (2011)

SPESA PER STUDENTE DELLE ISTITUZIONI UNIVERSITARIE PUBBLICHE, IN ALCUNI PAESI

nell’anno scolastico 2011/2012 saranno tagliati 24.200 posti tra docenti e personale Ata (bidelli, tecnici, ecc.), in aggiunta ai 98 mila complessivi del biennio precedente. Nelle università italiane, invece, nel 2010 i docenti di ruolo erano l’8% in meno rispetto al 2008.

LAUREA DEL PADRE E LAUREA DEL FIGLIO (maschio) Quota di padri con figlio nello stesso gruppo disciplinare Ingegneria

43,1%

Giuridico

42,7% 32,3%

Economico-statistico

31,2%

Medico

28,7%

Linguistico Chimico-farmaceutico

23,9%

Psicologico

23,4%

Architettura Letterario Politico-sociale Scientifico Agrario Geo-biologico

18,8% 18,0%

con esperienza rispetto a un neolaureato, la media Ocse è del 50% in più. Senza contare che nel 2009, il tasso di disoccupazione Ocse dei laureati 25-64 anni era al 4,4% quando in Italia raggiungeva il 5,1%. ... E MERITI Anche alcuni indicatori di diseguaglianza che connettono percorsi formativi, distribuzione del reddito e stratificazione sociale non sono incoraggianti in Italia. Secondo AlmaLaurea.it (2011), che evidenzia con allarme la «robusta crescita del lavoro nero tra i laureati del 2007 e quelli del 2009», ben il 43% dei padri laureati in giurisprudenza o ingegneria ha un figlio (maschio) con il medesimo titolo di studio (32% per economia; 31% per medicina…). Quanto ai redditi a cinque anni dal titolo, i laureati della borghesia staccano i colleghi nati da famiglie operaie nel guadagno mensile netto (1.404 euro contro 1.249) e nel grado di soddisfazione per il lavoro svolto. Corrado Fontana FONTE: XIII RAPPORTO ALMALAUREA SULLA CONDIZIONE OCCUPAZIONALE DEI LAUREATI (2011)

I dati mostrano un orizzonte del sistema scolastico e universitario italiano impoverito e sottolineano la crisi della sua capacità di innescare meccanismi di sviluppo equo e diffuso. Il confronto internazionale non lusinga

GUADAGNO MENSILE NETTO A CINQUE ANNI DALLA LAUREA PER CLASSE SOCIALE DEI GENITORI Borghesia

€ 1.404

Classe media impiegatizia

€ 1.309

Piccola borghesia

€ 1.296

Classe operaia Totale*

€ 1.249 € 1.321

* Comprende anche una quota di laureati per i quali non è disponibile l’informazione

16,6% 10,7% 10,0% 5,5%

Non sono riportati i gruppi difesa e sicurezza, educazione fisica e insegnamento

| ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 23 |


dossier

| tracollo educativo |

La cultura nelle periferie dell’imperialismo di Paola Baiocchi

N

EGLI ANNI ’10 del Novecento l’inge-

gner Frederick Winslow Taylor, il padre “dell’organizzazione scientifica del lavoro”, sosteneva che il lavoratore ideale doveva somigliare a Schmidt, l’operaio scelto tra altri 74 per trasportare la ghisa perché «tonto», pieno di «spirito di sacrificio», «non molto aperto di mente» e così «sciocco e paziente da ricordare come forma mentis […] la specie bovina». Tanta “ottusità” risultava attraente per Taylor perché i lavoratori più “sciocchi” “obbediscono sempre” anche quando non gli converrebbe: Schmidt aveva accettato, infatti, a fronte di un incremento del 60% del salario, di sobbarcarsi quasi il 400% di lavoro in più. Taylor e la sua visione appartengono al passato? Le recenti cronache che arrivano dalla Fiat ci dicono di no: a causa del nuovo contratto di lavoro, insieme a quello che nell’industria torinese definiscono un «metodo per il miglioramento della produzione industriale» (Wcm, World class manufacturing), nella “catena” produttiva della maggiore fabbrica italiana l’operaio non ha più pause durante l’orario di lavoro e non può muovere neanche un passo dalla sua postazione, durante 18 turni, sabato compreso e con almeno 120 ore di straordinario l’anno.

Concorrenti dei Paesi emergenti Cosa c’è al di fuori della Fiat? «Una struttura produttiva debole, fatta da unità piccole o piccolissime, a gestione familiare, che non arrivano a svilupparsi fino ad avere bisogno di forza lavoro qualificata come quella laureata», spiega Fabrizio Battistelli, docente di Sociologia sociologia e direttore del dipartimento di Scienze sociali | 24 | valori | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 |

La politica italiana taglia l’istruzione, adeguando la scuola pubblica alle richieste industriali di una formazione a “scarso valore aggiunto” all’università La Sapienza di Roma. Eppure i nostri giovani sono solo il 14% della popolazione, rispetto al 19% della media europea e la percentuale dei nostri laureati è inferiore alla media Ocse. Quale ruolo occupiamo, quindi, nella divisione internazionale del lavoro? «Molti dei settori produttivi di specializzazione dell’Italia (tessile, calzature, cuoio, gioielleria, vetro-ceramiche, mobili-arredo) sono gli stessi delle economie emergenti più aggressive come Cina, India e Brasile», spiega Massimo Angelo Zanetti, docente di Sociologia del mercato del lavoro a Torino, che continua: «Dati Eurostat pre-crisi parlavano di più del 20% della manodopera italiana occupata nel 2004 nei settori manifatturieri tradizionali. Una presenza ancora forte, a fronte di poco più del 5% della Germania e di una media europea del 13%». In Fiat si ricorre all’aumento dell’intensità del lavoro, anche con l’estromissione di lavoratori, e non si punta su prodotti ad alto contenuto tecnologico per aumentare il profitto. Lo stesso nelle piccole-medie imprese, impegnate in settori maturi a scarso valore aggiunto. Risultato: il monte ore lavorate per addetto più alto d’Europa e gli stipendi tra i più bassi della Ue.

Cambiare le politiche di sviluppo Ultimi tra i primi e già quasi in ritardo rispetto ai nuovi “emergenti”. «Servirebbe un cambiamento nelle politiche per lo

MAL DI FABBRICA Nel periodo della grande espansione economica del capitalismo, durata dal 1945 al 1973, i lavoratori delle zone più sviluppate hanno conseguito, grazie alle loro lotte, una serie di importanti conquiste in termini di diritti e di salario diretto e differito. Ma è in corso da anni un’inversione di tendenza per cui le condizioni dei lavoratori occidentali stanno progressivamente peggiorando, avvicinandosi a quelle dei lavoratori delle zone di più recente sviluppo. Ne parla nel suo libro Il produttore consumato, Francesca Coin, ricercatrice presso Ca’ Foscari. Uno degli indicatori più sensibili è l’orario di lavoro per cui gli Stati Uniti hanno ormai superato, con 2000 ore in media di lavoro l’anno, i giapponesi. Aumenta anche in Italia l’orario di lavoro e assieme alla perdita dei diritti e di rappresentanza sindacale e politica, aumenta un disagio che resta sempre più spesso senza la possibilità di esprimersi. I lavoratori sono esposti alla «tentazione di supplire all’esperienza della realtà con un’esperienza regressiva» come quella del consumo delle droghe. Una necessità tanto più dominante quanto più sono ridotti gli strumenti culturali e le alternative che la società offe ai lavoratori chi vi ricorrono. Tanto che le sostanze psicotrope diventano l’unica via (alienante) di uscita dall’alienazione. Pa. Bai.

sviluppo – afferma l’economista Roberto Romano – che deve passare attraverso la capacità di industrializzare le risorse della conoscenza e dell’innovazione tecnologica pubblica». Ma i dati mostrano un panorama sconfortante: investiamo in ricerca l’1,27% sul Pil, mentre la media Ue-27 è pari al 2,01% (meno di noi spende solo la Slovacchia). Una minore spesa che non è un risparmio, significa meno occupazione, si-


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MORTI BIANCHE. IL RACCONTO DI UNA “DONNA DI SCUOLA” Nell’istruzione da 30 anni, dirigente dell’istituto comprensivo “R. Viviani” di Caivano (Napoli), la preside Eugenia Carfora sogna una scuola che funzioni «secondo sistemi continuamente rinnovati e resi calzanti. Il reclutamento degli insegnanti lo realizziamo ancora con i concorsi e le graduatorie permanenti, ma non tutti possono fare gli insegnanti, né i collaboratori o gli assistenti amministrativi, specialmente in realtà dove c’è spaccio, delinquenza, difficoltà di comunicazione in un contesto in cui molte ragazze diventano madri a 15-16 anni. Venire qui ha un valore aggiunto. Per questo voglio l’albo professionale per le aree deboli, professionisti dello Stato pronti a intervenire e a lasciare il territorio a emergenza passata. La dispersione scolastica qui riguarda vere e proprie “morti bianche”, ragazzi che non amano una scuola che offre loro solo un pacchetto da digerire come un dogma. Senza contare la burocrazia: l’ultimo docente mi è arrivato il 21 novembre e per avere il segretario ho dovuto alzare la voce. C’è una continua fluttuazione di personale e ogni ritardo si ripercuote in modo devastante sui ragazzi. E vorrei che si verificasse ogni sei mesi, non occasionalmente, l’opera di chi dice di impegnarsi nella scuola. Come “donna di scuola” sento quindi il pathos del mio compito, l’impotenza di docente che non può semplicemente trasmettere un contenuto, ma soprattutto dei valori, di cui deve essere modello impeccabile, di vita vissuta prima e poi come professore. Sogno la scuola di Milano come quella di Napoli. E viceversa». C.F. gnifica impoverimento dei ceti medi e sottrazione di prospettive per i più svantaggiati: i dati Eurostat riferiti al 2010 parlano di un tasso di occupazione del 68,6% nella Ue a 27 e del 68,4% nell’Eurozona; in Italia è al 61,1% (soltanto Ungheria e Malta registrano una percentuale più bassa). Paesi che spendono di più per l’istruzione pubblica – come tutto il Nord Europa e la Danimarca, che viene spesso richiamata

come modello di flessibilità sul lavoro – hanno meno disoccupati. Deve far pensare anche il dato di quanti ragazzi non compiono gli studi superiori in Italia: secondo Eurostat nella Ue-27 il tasso di dispersione scolastica dei ragazzi di età compresa tra i 18 e i 24 anni è stato nel 2010 pari al 14,1%; al 18,8% in Italia, al 12,8% in Francia, all’11,9% in Germania, al 14,9% nel Regno Unito, al 28,4% in Spagna.

LIBRI Francesca Coin Il produttore consumato. Saggio sul malessere dei lavoratori contemporanei Il Poligrafo, 2006

Istruzione e sicurezza nelle città «C’è un nesso molto solido tra istruzione, inclusione sociale e sicurezza nelle città», riprende Battistelli «perché istruzione non è solo creazione di competenze, ma è anche education, cioè un insieme di attività che sviluppano la personalità e la socialità dell’individuo e gli forniscono gli elementi per poter stare nella società, ricoprirvi un ruolo, relazionarsi con gli altri. Tutti questi aspetti si imparano nella scuola dell’obbligo, in particolare nei primi otto anni. Non scolarizzare un bambino o un adolescente – continua Battistelli – vuol dire ritrovarlo per strada ad aggiungersi a gruppi più o meno potenzialmente devianti, fino a essere materia di reclutamento da parte della criminalità organizzata». Le tematiche di cui abbiamo parlato sono tutte note e i dati disponibili: perché la politica continua a scegliere di tagliare gli investimenti sull’istruzione pubblica, ponendoci in concorrenza con i settori meno garantiti della forza lavoro internazionale, contribuendo così all’aumento della disoccupazione? Per molti economisti i governi italiani sono incapaci di programmare le politiche industriali. Crediamo, invece, sia molto azzeccata la descrizione dell’Italia come “un esempio di stabile non governo” fatta nel famoso rapporto del 1975 di Crozier, Huntington e Watanuki, The Crisis of democracy, per la Trilateral Commission (di cui Mario Monti è un esponente). Per inciso, il famoso rapporto attribuiva le difficoltà per la governance in Paesi come gli Stati Uniti, il Giappone e l’Europa alla “troppa democrazia” e nella cultura vedeva un pericolo per “l’emergere dell’avversario culturale”. L’ingegner Taylor non avrebbe avuto dubbi: la scuola migliore è quella che prepara lavoratori con una forma mentis il più possibile vicina a quella bovina. | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 25 |


HAZEL THOMPSON / THE NEW YORK TIMES / CONTRASTO

finanzaetica

Cds, mercato da 32 trilioni di dollari > 29 Paradisi fiscali, il G20 getta la spugna? > 31 Area C, la ricerca della mobilitĂ dolce > 33 Le ombre dei trasporti milanesi > 35 | 26 | valori | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 |


| finanzaetica | speculazioni |

Lo smantellamento della sede di Lehman Brothers, a New York, dopo il crack del settembre del 2008

Debiti sovrani

Nel 2008 i Credit default swaps permisero agli speculatori più attenti di guadagnare miliardi dall’ondata di default nel mercato immobiliare americano. Ma oggi, di fronte all'haircut greco, potrebbero rivelarsi del tutto inutili

La grande truffa dei Cds O

che si rispetti, è noto, deve porsi sostanzialmente non più di due obiettivi fondamentali: individuare un’operazione redditizia e bilanciarne i rischi. A volte basta diversificare le attività, altre volte è possibile acquistare prodotti ad hoc capaci di garantire una rendita se l’investimento va male. Altre volte ancora le due cose coincidono. Almeno in teoria. Nel settembre 2008, sostenne in seguito l’Economist, il fallimento della Lehman Brothers fruttò al magnate Usa John Paulson circa un miliardo di dollari. Il motivo? Semplice, ipotizzando in anticipo il collasso della banca, il leggendario speculatore statunitense aveva comprato qualcosa come 22 milioni di dollari di credit default swaps (Cds), prodotti derivati che assicurano gli operatori in caso di default del debitore (vedi BOX ). E che, in quanto derivati, possono essere acquistati anche dagli investitori che non si sono esposti sul sottostante. Tradotto: senza possedere alcuna obbligazione targata Lehman, al fallimento della stessa il leggendario speculatore di Wall Street si scoprì più ricco di un migliaio di milioni di dollari. GNI INVESTITORE

di Matteo Cavallito

Questo non è un default La straordinaria esperienza dell’infallibile (o quasi) gestore della Paulson & Co. avrebbe ispirato successivamente un certo numero di operatori che, ipotizzando la bancarotta delle casse elleniche, sarebbero | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 27 |


| finanzaetica |

corsi ad accaparrarsi i relativi Cds a protezione del debito. Secondo Fitch l’esposizione netta sui Cds nel mercato mondiale sarebbe aumentata di 85 miliardi di dollari dal 2008 a oggi grazie soprattutto alle operazioni sull’Europa. Quello che allora non si sapeva, però, è che a bancarotta conclamata questa massa di titoli di garanzia si sarebbe rivelata fondamentalmente inutile. A chiarirlo ci ha pensato l’Isda, l’International Swaps and Derivatives Association, regolatore supremo di uno dei mercati meno regolamentati del mondo. L’haircut greco, ovvero il taglio del valore nominale dei titoli, proposto da Atene ai suoi creditori (vedi BOX ), “sembrerebbe dalle prime notizie un’operazione volontaria”, ovvero non farebbe scattare la liquidazione dei Cds. Il verdetto ufficiale deve ancora arrivare, ma in molti danno ormai per scontata la clamorosa beffa. In pratica, chi avesse scommesso al ribasso comprando direttamente i derivati si ritroverebbe senza niente in mano. Chi avesse investito nei bond di Atene decidendo contemporaneamente di coprirsi finirebbe per perdere due volte. Un risultato folle che, a un veterano del mercato come David Einhorn (numero uno del fondo hedge Greenlight Capital, su cui ritorneremo a

La Trahison des images René Magritte 1928-29, olio su tela

breve) è sembrato la versione finanziaria di un noto dipinto surrealista. Atene come la celebre pipa di Magritte, quella che appariva tale, ma tale non lo era. “Ceci n’est pas une pipe”. Ceci n’est pas un default. «I Cds sono uno strumento ormai inutile – sostiene Filippo Montesi Righetti,

consigliere di Banca Ifigest – sono prodotti scambiati in un mercato senza regole, in un vero e proprio Far West. Se come investitore acquisto bond sovrani e decido di proteggermi con i Cds devo essere garantito, punto e basta. Se la Grecia diventa insolvente, se la Grecia non paga, a pagare deve essere colui che ha emesso i Cds. Non c’è altro. Il resto è finzione».

La scintilla della speculazione

LA GRECIA FALLISCE? LA LOMBARDIA PAGA 153 MILIONI Da emittente del proprio debito ad assicuratore di quello ellenico. Con il rischio di dover scaricare sui contribuenti il costo del default greco. È l’incredibile parabola che ha caratterizzato la regione Lombardia, trovatasi, suo malgrado, esposta al rischio del fallimento di Atene. L’ennesima incredibile storia di finanza strutturata è stata svelata da una lunga inchiesta condotta da Sara Monaci sul Sole 24 Ore. Nel 2002 la Regione ha emesso un bond trentennale da un miliardo di dollari, affidando l’operazione di collocamento a due banche, Ubs e Merrill Lynch. Queste ultime hanno costituito un fondo di garanzia per la restituzione dell’obbligazione. Il fondo, ovviamente, è formato da una serie di investimenti tra i quali una montagna di bond ellenici per un controvalore nominale di 153,5 milioni. Fin qui tutto bene, se non fosse che le banche hanno ottenuto di poter sottoscrivere credit default swaps con la Regione stessa a protezione dei titoli greci. Risultato? In caso di default di Atene i contribuenti lombardi rischierebbero, ISDA permettendo, di dover pagare alle banche fino a 153,5 milioni di euro. L’operazione è finita ovviamente in tribunale. L’ipotesi di reato più grave (truffa) è stata accantonata per intervenuta prescrizione. Resta però aperta la causa civile per costi impliciti illegittimi avanzata dalla Regione. Le banche, dal canto loro, si sono tutelate rivolgendosi alla Corte di Londra per un parere sulla liceità dell’operazione. Il caso è tuttora aperto. M.Cav.

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Secondo Montesi proprio la clamorosa impasse, creata dall’Isda di fronte alla ristrutturazione greca, sarebbe stata alla base dell’incredibile ondata di speculazione che ha colpito il mercato obbligazionario europeo a partire dal giugno scorso. Esposti sui debiti europei per i quali si erano scoperti non garantiti, i grandi fondi hedge e gli investitori istituzionali in genere hanno ini-

GLOSSARIO HAIRCUT: è l’ammontare percentuale della riduzione del valore nominale di un credito dopo un default. Chi ha emesso obbligazioni che non è più in grado di saldare può proporre ai debitori la sostituzione delle stesse con nuovi titoli a scadenza differita e con rendimento inferiore. La differenza tra il valore delle obbligazioni iniziali e i nuovi titoli offerti, ovvero la misura delle perdite dell’investitore, costituisce l’haircut. Nella trattativa in corso tra la Grecia e i suoi creditori, è stato ipotizzato da subito un haircut del 50%, ovvero un dimezzamento di fatto del valore dei crediti, ma non è escluso che ad accordo raggiunto la perdita possa essere superiore.


| finanzaetica |

CREDIT DEFAULT SWAPS, UN MERCATO DA 32 “TRILIONI” DI DOLLARI La banca A acquista Cds dalla banca B per un controvalore di 10. La banca B acquista un controvalore 4 dalla banca C. La somma delle transazioni (10+4) rappresenta il nozionale lordo, la somma delle posizioni effettive il nozionale netto. In definitiva se i Cds vengono liquidati A riceverà 10, B guadagnerà 4 da C ma pagherà 10 ad A, C pagherà 4 a B. La cifra totale sborsata in caso di default sarà pari a 10, ma il controvalore dei contratti movimentati nel mercato equivale a 14. Il nozionale netto, quindi, ci dice quanto costa il default, quello lordo indica quanto è esteso e attivo il mercato. Secondo le ultime stime del Wall Street Journal, il nozionale lordo totale dei Cds vale circa 32 trilioni (32 mila miliardi) di dollari. 2,9 trilioni è il valore dei Cds a protezione dei soli titoli di Stato (2.700 miliardi) e degli indici degli stessi (200 miliardi). Il titolo maggiormente coperto da questi strumenti è il bond sovrano francese, sul quale pendono contratti per oltre 21 miliardi di dollari. Il Cds più costoso in assoluto è quello emesso Nozionale lordo a protezione del debito greco che a inizio gennaio oscilla tra i novemila e i diecimila punti base (ovvero 10 per assicurare 10 milioni di credito con Atene 4 si devono sborsare dai 9 ai 10 milioni). Il nozionale 14 netto dei Cds sulla Grecia vale circa 3,7 miliardi.

Un Credit default swap è un contratto derivato in cui una parte (A) si impegna a tutelare l’altra (B) dall’impossibilità di recuperare un credito a fronte dell’ipotetica bancarotta del debitore (C). In questo caso A si fa garante del debito di C. B ha la certezza di recuperare il credito, ma deve retribuire A per il rischio. Tanto più è elevato quest’ultimo, tanto maggiore sarà la retribuzione. Tale retribuzione è misurata in punti base: affermare che il valore di un Cds a protezione di C costa 1.000 punti base equivale a dire che per assicurare un credito da 10 milioni con C, B dovrà pagare 1 milione ad A. In caso di default B recupererà di fatto 9 milioni (10-1). Nel mercato mondiale i Cds vengono continuamente emessi e scambiati sulle piazze mondiali. La somma di tutti i contratti scambiati costituisce il cosiddetto nozionale lordo, mentre il nozionale netto è la cifra massima che può essere liquidata in caso di fallimento dei titoli coperti dai Cds. Un esempio: Scambio 1

Banca A

Banca B

10

-10

2 Posizioni nette

10

Banca C

4

-4

-6

-4

TABELLA 1. LE PRINCIPALI ESPOSIZIONI SUL MERCATO DEI CDS NOZIONALE NETTO Debitore assicurato

[Dati in dollari USA]

[Dati in dollari USA]

Debitore assicurato

Nozionale lordo

FRANCIA

21.806.664.491

ITALIA

302.029.991.940

ITALIA

20.489.186.950

BRASILE

GERMANIA

19.375.782.221

SPAGNA

168.764.126.360

BRASILE

18.368.656.177

TURCHIA

145.564.859.030

SPAGNA

15.811.530.992

FRANCIA

138.459.632.414

12.197.691.982

MESSICO

129.134.713.667

GERMANIA

118.539.917.441

GRAN BRETAGNA GENERAL ELECTRIC

Nozionale netto

TABELLA 2. LE PRINCIPALI ESPOSIZIONI SUL MERCATO DEI CDS NOZIONALE LORDO

10.614.305.668

176.312.266.505

CINA

9.162.347.347

RUSSIA

114.583.635.312

GIAPPONE

8.857.192.312

GENERAL ELECTRIC

91.409.396.834

8.625.114.586

MBIA INSURANCE

80.984.743.372

MESSICO

FONTE: ISDA - INTERNATIONAL SWAPS AND DERIVATIVES ASSOCIATION (WWW.ISDACDSMARKETPLACE.COM), 31 DICEMBRE 2011

ziato a disfarsi delle obbligazioni scatenando il trend ribassista. E, siccome le vendite, il panico e la mancanza di contromisure da parte dei governi e della Bce hanno prodotto volatilità, ecco sorgere, in un attimo, l’opportunità di ottenere grandi profitti con il più ovvio e collaudato sistema a disposizione: la speculazione ribassista. Compro, rivendo, riacquisto e guadagno sui margini. Lo schema ha funzionato alla perfezione e i titoli di Stato ne hanno

FONTE: ISDA - INTERNATIONAL SWAPS AND DERIVATIVES ASSOCIATION (WWW.ISDACDSMARKETPLACE.COM), 31 DICEMBRE 2011

fatto le spese. «In un mercato particolarmente liquido come quello dei titoli sovrani – notava qualche settimana fa un trader – è davvero semplicissimo». Come a dire che si può riprodurre l’effetto di una vendita allo scoperto semplicemente attraverso la compravendita. Non ci sono blocchi al prestito titoli, non ci sono monitoraggi sulle posizioni corte. Insomma, è il trionfo della speculazione «di fondi Usa, Uk, mercati emergenti, chiunque».

Da giugno a oggi, lo spread (differenziale di rendimento) tra i titoli italiani a 10 anni e i corrispettivi tedeschi è passato da 200 a circa 500 punti base (con il picco di 575 durante le contrattazioni del 9 novembre scorso). Il divario tra i decennali spagnoli e i bund di Berlino è salito nello stesso periodo da 230 a quasi 400. Il premier greco Papandreou ha dovuto rassegnare le dimissioni, il governo italiano è caduto sotto i colpi della crisi. | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 29 |


L’EVOLUZIONE DEL MERCATO DEI CDS

(1) 1° semestre

32.409

29.898 2010 (2)

2011 (1)

30.261 2010 (1)

32.693 2009 (2)

36.098 2009 (1)

41.883 2008 (2)

2008 (1)

2007 (2)

10.211

28.650 2006 (2)

2006 (1)

0

2005 (2)

10.000

2005 (1)

20.000

6.396

30.000

13.908

40.000

20.352

50.000

2007 (1)

60.000

42.580

70.000

57.403

58.244

[Valore di mercato, nozionale lordo, in miliardi di dollari]

2004 (2)

FONTE: BIS - BANK OF INTERNATIONAL SETTLEMENTS (WWW.BIS.ORG), NOVEMBRE 2011

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(2) 2° semestre

A chiarire il fenomeno ci ha pensato il già citato David Einhorn. Nel corso del terzo trimestre dell’anno, il numero uno di Greenlight Capital ha venduto sul mercato circa la metà dei suoi 667 milioni di dollari in Cds sovrani lanciandosi nell’attacco diretto loro sottostanti (i titoli di Stato). Una scelta imitata da molti. Secondo Bloomberg nello spazio di un anno l’ammontare dei Cds sottoscritti su Francia, Italia, Spagna, Grecia e Portogal-

lo è sceso da 74,5 a 66,8 miliardi di dollari con il dato della Grecia quasi dimezzatosi (da 6,3 a 3,4 miliardi).

Da assicurazioni a prodotti virtuali L’aspetto più divertente della storia è, però, un altro. «A partire da quest’estate – spiega un analista di Borsa Italiana – la tendenza si è invertita: prima il prezzo dei bond seguiva quello dei Cds, poi, con la speculazione spostatasi direttamente

?

Soffri di carenza di informazione Sei intollerante al gossip Perdi diottrie nella tua visione del mondo

?

?

sui titoli, è accaduto esattamente il contrario. La liquidità del mercato obbligazionario si è ribaltata in parte su quella dei derivati che hanno preso a seguire, di riflesso, il valore dei titoli». In pratica i Cds si sono trasformati in uno strumento capace di replicare l’andamento dei titoli, abbandonando il carattere assicurativo per diventare un puro e semplice strumento speculativo. Vengono comprati e venduti per sfruttare le oscillazioni di prezzo, e poco importa che non vengano mai liquidati di fronte a un default effettivo. Sono come i futures petroliferi, con la differenza che non predicono un bel niente, perché come detto “seguono” e non anticipano. Così il mercato è sopravvissuto, come una rappresentazione virtuale, ma redditizia, della realtà. Il 30 giugno scorso i Cds sul debito italiano viaggiavano a 171 punti base (171 mila euro per assicurarne 10 milioni di controvalore in bond). Il 22 settembre, gli stessi derivati toccavano il picco di 534 punti. Nel primo semestre 2011 Greenlight ha perso sui Cds qualcosa come 7,2 milioni di dollari. Nel terzo trimestre, lo stesso comparto dei derivati ha fruttato al fondo americano guadagni per 22,7 milioni.

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Paradisi fiscali, il G20 getta la spugna? di Andrea Barolini

Il Gruppo dei Venti, dopo i roboanti proclami di lotta senza quartiere ai tax havens, sembra ormai aver abbassato la guardia. Soprattutto per ragioni politiche. E così i paradisi continuano a crescere, quasi indisturbati e il segreto bancario non esistono più». Il presidente francese Nicolas Sarkozy, al termine del G20 di Londra, nel 2009, si lanciò in un proclama tanto ardito quanto smentito, nel tempo, dalla realtà. A due anni e mezzo da quell’incauto trionfalismo, la situazione appare tutt’altro che risolta. I passi in avanti concreti sono stati, infatti, pochi, e frutto unicamente di iniziative unilaterali. Lo stesso Gruppo dei Venti non è riuscito, finora, ad andare oltre le “dichiarazioni di guerra” ai tax havens, che invece sembrano prosperare, in barba alle liste Ocse dei Paesi “non-cooperativi”, svuotate in fretta e furia negli ultimi anni. Ad essere convinta dell’eccellente stato di salute dei paradisi fiscali è l’associazione cattolica francese CCFD-Terre Solidaire, che, proprio per tentare di far rialzare la guardia ai governi delle grandi economie mondiali, ha presentato all’ultimo summit di Cannes un rapporto intitolato Paradisi fiscali: il G20 dell’ultima chance. Al centro dell’analisi c’è il raffronto tra le tabelle pubblicate dagli organismi istituzionali, come lo stesso Ocse, il Gafi e il governo francese, da un lato, e, dall’altro, quella indipendente del Tax Justice Network (TJN), rete di Ong e ricercatori che si battono contro l’opacità del sistema finanziario internazionale. Lo squilibrio nei giudizi è enorme: secondo l’Ocse non ci sono che cinque territori “non cooperativi” in tutto il mondo. Similmente sei giurisdizioni figurano nella lista nera del Gafi. Meno accomodante è stato il governo di Parigi, che ha indicato 18 Paesi.

«I

PARADISI FISCALI

TAX & THE CITY: LONDRA PARADISO FISCALE? Potrebbe sembrare un errore o un’esagerazione il fatto che in alcune liste di paradisi fiscali compaiano Paesi come il Regno Unito. Eppure City of London Corporation, l’ente che “governa” il centro finanziario britannico, presenta numerose zone d’ombra. Già a partire dalla sua forma giuridica: la City non dipende infatti dal comune di Londra, è gestita da consiglieri eletti dai soli ottomila abitanti del luogo: quasi uno Stato nello Stato. Dal punto di vista fiscale, poi, la City è un volano per raggiungere in breve tutta una serie di giurisdizioni, alcune formalmente sotto la stessa corona inglese, economicamente vantaggiose: dalle Channel Islands ad Hong-Kong, da Singapore a Jersey. E ancora Man, Bermuda, Gibilterra. Non solo: basta fare un giro su internet per scoprire numerosi siti che si offrono di aprire a prezzi modici una società off shore. E, tra le giurisdizioni che si possono scegliere, insieme a British Virgin Island, Bahamas e Panama, figura anche il Regno Unito. Paese nel quale – si legge in un sito svizzero del quale non pubblichiamo l’indirizzo per evitare ogni sorta di pubblicità – «le società hanno il vantaggio di beneficiare di un tasso d’imposizione basso (21%) fino a 300 mila sterline di ricavi, pur essendo europee e avendo quindi la possibilità di disporre di un numero di partita Iva». Capitale minimo da versare: 1 dollaro. Quando in Costa Rica ne servono almeno 20. Sempre comunque pochissimi, però, se raffrontati ai 54 Stati individuati dal TJN a ottobre del 2011.

Parametri diversi per “salvarsi” La differenza sta – come si può immaginare – nei differenti parametri utilizzati per individuare i paradisi fiscali. L’Ocse si basa solamente sul numero di accordi bilaterali siglati dai governi dei territori “opachi”: ne bastano 12, e non importa neppure verificare con chi vengano stipulati e se risultino o meno efficaci. Il Gafi considera, invece, il rispetto di 49 “raccomandazioni” (di

cui 16 considerate “chiave”): se ci si conforma anche solo a qualcuna di esse, si esce dalla lista nera. Così, si legge nel rapporto del CCFD, «risulta incredibile la grande clemenza della quale beneficiano certi Stati, come ad esempio il Lussemburgo». Un rapporto firmato dallo stesso Gafi nel feb-

Le liste Ocse sono ormai pressoché vuote. Eppure secondo le Ong i Paesi “non cooperativi” sono ancora decine in tutto il mondo | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 31 |


FONTE: WWW.FINANCIALSECRECYINDEX.COM

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TABELLA 1. I VENTI MERCATI FINANZIARI “OPACHI” PIÙ PERICOLOSI AL MONDO SECONDO IL FINANCIAL SECRECY INDEX (2011) Paese

FSI

Svizzera

1879,2

Isole Cayman

1646,7

Lussemburgo

1621,2

Hong Kong

1370,7

USA

1160,1

Singapore

1118,0

Jersey

750,1

Giappone

693,6

Germania

669,8

Bahrain

660,3

British Virgin Islands

617,9

Bermuda

539,9

Regno Unito

516,5

Panama

471,5

Belgio

467,2

Isole Marshall

457,0

Austria

453,5

Emirati Arabi Uniti (Dubai)

439,6

Bahamas

431,1

Cipro

406,5

Il Financial Secrecy Index è un indice che valuta la segretezza di 73 giurisdizioni, sulla base di elementi finanziari, fiscali e giuridici. La misura viene poi ponderata tra un dato quantitativo e uno qualitativo. Il primo, il Global Scale Weight, prende in considerazione l’ampiezza del mercato, ovvero semplificando quanto esso “pesa”. Il secondo, il Secrecy Score, riguarda invece proprio la segretezza del sistema. Il FSI è un dato, dunque, che combina segretezza e valore del sistema finanziario, dando chiaramente l’idea di quali siano le piazze più sfruttate per affari poco trasparenti.

braio del 2010 giudica il Paese europeo conforme solo al 20% delle raccomandazioni. E solo a 4 delle 16 “chiave”. Eppure esso non è presente nella lista nera. Il Tax Justice Network, invece, adotta un criterio più ampio, puntando a misu-

rare l’effettivo grado di opacità delle singole giurisdizioni: segretezza bancaria, trasparenza, qualità della cooperazione fiscale internazionale e di quella giudiziaria, livello di corruzione e di attività criminale presente sul territorio. Parametri secondo i quali Usa, Lussemburgo, Svizzera o Hong-Kong non si “salvano”.

Business e diplomazia, la lotta ai paradisi fiscali non conviene Gli organismi istituzionali, insomma, sembrano quelli meno in grado di fronteggiare il problema. Perché? Secondo il CCFD la ragione è evidente e strettamente politica: «Gli Stati membri del G20 rappresentano da soli il 39% dei mercati finanziari definibili come “opachi”, e l’88% se aggiungiamo gli altri Paesi dell’Unione europea e alcuni territori sotto la loro influenza». Così si spiegano, secondo il rapporto dell’associazione, l’uscita dalle liste nere delle Channel Islands britanniche o delle Isole Vergini americane. «Come giustificare poi il trattamento di favore concesso a Macao o a Hong-Kong se non con gli interessi diplomatici legati ai rapporti con la Cina?», si chiedono gli autori. «E come potremmo immaginare una lista di paradisi stilata dal G20 che comprenda il Delaware o la City londinese (considerati tra i centri finanziari più nocivi del mondo secondo il TJN, ndr)?». A nessuno conviene “esagerare” nella lotta ai tax havens, insomma. Per questo, paradossalmente, negli ultimi anni la situazione è perfino peggiorata: «Molti dipendenti del settore finanziario londinese, come anche di multinazionali, oggi percepiscono i loro compensi direttamente su conti aperti a Jersey o a Cipro», ha accusato Mathilde Dupré, del CCFD, in un’intervista rilasciata al quotidiano 20minutes.

TABELLA 2. IL NUMERO DI GIURISDIZIONI SECONDO LE DIVERSE LISTE Territori non cooperativi secondo l’Ocse [agosto 2011]

Lista del governo francese dei territori non cooperativi [aprile 2011]

5

18, di cui 1 (Panama) gestisce servizi finanziari per oltre lo 0,1% del totale dei capitali off shore di tutto il mondo

| 32 | valori | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 |

Lista nera delle giurisdizioni non cooperative e ad alto rischio secondo il GAFI [giugno 2011]

Lista dei territori “opachi” del Tax Justice Network [ottobre 2011]

6 (altri 26 figurano nella “lista grigia”)

54, di cui 12 gestiscono servizi finanziari per oltre lo 0,1% del totale dei capitali off shore di tutto il mondo

LA MOBILITAZIONE DELLA SOCIETÀ CIVILE Il primo ente a costituirsi a livello internazionale specificatamente per combattere i paradisi fiscali è stato il Tax Justice Network, nel 2002. Dal 2005 ha costituito al proprio interno la Piattaforma paradisi fiscali, che conta una quindicina di organizzazioni e che nel 2009 ha lanciato la campagna “Stop paradisi fiscali”. Sul tema, in Europa, si sono mobilitati anche numerosi sindacati europei, le associazioni Attac, Eurodad, CIDSE, Christian Aid, Action Aid e Oxfam. In Africa dal 2007 opera una Rete per la giustizia fiscale, mentre in America Latina ci si è riuniti in seno all’organizzazione Latindadd (che ormai si è estesa anche in Asia). Nel febbraio scorso, in occasione del Forum sociale mondiale di Dakar, TJN, Latindadd, CCFD-Terre Solidaire e Oxfam hanno lanciato la campagna “Azione mondiale Stop paradisi fiscali”, alla quale aderiscono 50 organizzazioni di 30 Paesi di tutto il mondo.

Eppure per le casse pubbliche servirebbe eccome concentrarsi sul problema: «Circa l’8% del patrimonio finanziario dei risparmiatori di tutto il mondo, ossia 6 mila miliardi di dollari, è conservato in paradisi fiscali», ha ricordato a Le Monde Gabriel Zucman, ricercatore della Scuola di economia di Parigi.

L’eccellenza americana Va detto che, nonostante tutto, qualche passo in avanti è stato fatto. E il governo che si è più prodigato è stato quello americano di Barack Obama, come confermato dalla stessa Dupré. Il Foreign Account Tax Compliance Act (Fatca), del marzo 2010, e la legge Dodd-Frank del luglio 2010 costituiscono due buone basi per contrastare l’opacità della finanza. A partire dal gennaio del 2013, infatti, la trasparenza e gli scambi di informazioni da parte degli intermediari finanziari saranno una conditio sine qua non per l’accesso al mercato statunitense. Va sottolineato anche che Paesi, come Singapore, che prima della crisi si rifiutavano perfino di intavolare un dialogo con l’Ocse, hanno deciso di aprire alla possibilità di comunicare alcuni dati fiscali all’estero. Ma si tratta di passi troppo isolati e lenti. Il rischio è di ritrovarsi tra qualche anno con la crisi superata, ma con, in larga parte, lo stesso sistema finanziario del 2007.


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Area C, alla ricerca di una mobilità dolce di Corrado Fontana

La guerra allo smog cede il passo al sostegno per una “mobilità dolce”: a gennaio Milano ha inaugurato Area C guardando alla congestion charge di Londra, ma con altri numeri. Intanto Oltremanica fanno parziale marcia indietro

S

I FACCIANO DA PARTE gli ossessionati

dalla lotta allo smog e alle polveri sottili – il famigerato PM10 che avvelena le città – perché a Milano, come già a Londra, Oslo e Stoccolma, questo obiettivo è secondario. Anzi, come si definisce in gergo tecnico, l’abbattimento del livello d’inquinanti nell’aria diventa “esternalità

positiva”, cioè effetto previsto e desiderabile, ma nient’affatto primario, di una politica che intende governare la mobilità urbana con l’obiettivo principale di scoraggiare l’utilizzo dell’auto privata, favorendo i mezzi pubblici e la mobilità ciclopedonale. Nel capoluogo lombardo tutto comincia con la definizione di un’area urbana sotto-

posta a congestion charge (tassa sulla congestione, ndt) che si chiama Area C e ha preso vita il 16 gennaio.

All’ombra del Big Ben? «È un po’ difficile paragonare Area C alla congestion charge di Londra – precisa Maria Berrini, direttrice di Amat, l’Agenzia

LEGAMBIENTE CI CREDE MA… Così Damiano Di Simine, presidente Legambiente Lombardia, sollecitato sui punti deboli del modello di congestion charge milanese: «Gli introiti ad esempio: come facciamo ad essere sicuri che vengano reinvestiti in mobilità dolce? La domanda c’è, la pressione pure, ci aspettiamo trasparenza. Senza essere ottimisti, inoltre, il “sistema” è costoso. Difficile aspettarsi che, al netto degli ammortamenti e dei costi di funzionamento, resti molto più del 60% degli introiti programmati. E poi il funzionamento della mobilità pubblica: è vero che la rete è estremamente capillare e performante, ma ci sono criticità non facilmente risolvibili (la principale è l’inadeguatezza della linea 1 del metrò, incapace di gestire aumenti di domanda). E, certo, l’area soggetta a tariffazione è ancora piccola. Nonostante ciò, stiamo comunque parlando del primo vero intervento di carattere strutturale che agisce orientando i comportamenti e gli stili di mobilità. E non più, come finora, il mercato dell’auto (cosa che peraltro ha

prodotto risultati apprezzabili in termini di notevole miglioramento delle motorizzazioni, a fronte però di un aumento delle pressioni ambientali). Un intervento che esce dal “pensiero unico dello smog” per posizionarsi su una nuova traiettoria programmatica della riduzione del traffico e del tasso di motorizzazione: se verrà perseguita con coerenza e progressività (anche in termini di espansione dell’area interessata, parallelamente all’adeguamento dello standard di servizio di mobilità collettiva) il (dimostrabile) beneficio in termini di riduzione dell’inquinamento sarà solo una delle esternalità positive. Molto dipenderà dalle politiche di contorno: se, per esempio, Area C sarà integrata in un sistema di mobilità alternativa che si ripercuota positivamente anche al di fuori dell’area di tariffazione. Perché chi è diretto al centro di Milano deciderà di abbandonare l’auto molto prima di entrarvi, o magari di non usarla affatto». | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 33 |


FONTE: “EXPERIENCE WITH CONGESTION CHARGE”, SETTEMBRE 2011. RAPPORTO FINALE DEL PROGETTO CORPUS (CONNECTIVITY BETWEEN RESEARCH AND POLICY MAKING IN SUSTAINABLE CONSUMPTION), SOSTENUTO DALLA COMMISSIONE EUROPEA E REALIZZATO DA MARTON HERCZEG DEL COPENHAGEN RESOURCE INSTITUTE.

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TABELLA 1. ESPERIENZE DI CONGESTION CHARGE A CONFRONTO Città e anno di attivazione

Caratteristiche del modello

Impatto sull’inquinamento e sulla mobilità

Singapore (1975-1998 e dal 1998)

• Attivo dalle 7 alle 19 dal lunedì al venerdì • Tassa di 2 dollari (1,5 euro) per ogni attraversamento dei varchi • Sistema di pagamenti automatizzato dal 1998

• Traffico ridotto del 24% • Velocità media aumentata di 10-15 km/h

Londra (dal 2003)

• Attivo dalle 7 alle 18 dal lunedì al venerdì • Tassa di 10 sterline (9,6 euro, da poco aumentato, prima era a 8 sterline) per ogni veicolo che attraversi i varchi, esca o si muova nell’area della congestion charge • Sconto del 90% per i residenti nell’area

• Ridotto del 18% il numero dei veicoli circolanti • Ridotti del 25% i ritardi dovuti al traffico • Ridotte del 7-15% le emissioni di NOx, CO2 e PM10

Stoccolma (dal 2006)

• Attivo dalle 6,30 alle 18,30 dal lunedì al venerdì • La tassa è di 10, 15 o 20 corone svedesi (1,2-1,7-2,2 euro) per ogni attraversamento dei varchi a seconda dell’orario, con un tetto massimo di 60 corone (6,8 euro) al giorno • Esentati veicoli ibridi, taxi e bus

• Traffico ridotto del 10-15% • Ridotte del 14% le distanze percorse dai veicoli nell’area di congestion charge • Ridotte del 10-14% le emissioni di CO2 e del 7-9% di altri inquinanti

di Londra, Boris Johnson, di ridurre ampiamente la zona ovest della cosiddetta Lez – Low Emission Zone (zona a bassa emissione, ndt) – sottoposta a congestion charge. Quanto poi agli obiettivi: Milano stima di ottenere nella Ztl (Zona a traffico limitato) dei Bastioni una riduzione assoluta del traffico «compresa fra il 23% e il 28%, pari a 31/38.000 veicoli in meno in accesso fra le 7,30 e le 19,30» e una riduzione del tasso di congestione (traffico/capacità di assorbimento della rete stradale) del 17%. Mentre i primi otto anni dell’esperienza londinese dicono che il numero di veicoli che entrano nella Lez è calato del 18%, con una significativa velocizzazione degli spostamenti. Milano stima ricavi per circa 30 milioni di euro l’anno da reinvestire in potenziamento del trasporto pubblico (7-9 milioni per il 2012) e nella cosiddetta “mobilità dolce” (spostamenti a piedi, in bici, car sharing), mentre la congestion charge londinese ha permesso di reinvestire 148

mobilità ambiente territorio del Comune di Milano, che presiede alla definizione di Area C – perché quest’ultima si applica a un’area assai più vasta ed è molto più costosa, intorno alle 10-12 sterline per ingresso, salvo deroghe, sconti e abbonamenti. Detto questo, con congestion charge Londra ha potuto potenziare enormemente il sistema del trasporto pubblico e le reti di piste ciclabili: l’investimento che hanno prodotto sulla mobilità dolce è incredibilmente alto rispetto a quanto avrebbero potuto fare senza. Per quanto riguarda il risultato, ovviamente, non posso comparare una riduzione del 10% del traffico su un’area ampia come quella di Londra rispetto al 20% in meno ipotizzato sulla nostra cerchia dei Bastioni». La direttrice di Amat prende le distanze, ma non rinnega l’ispirazione d’Oltremanica, nonostante che, proprio ai primi di gennaio, a seguito di una consultazione cittadina, sia scattata la decisione del sindaco TABELLA 2. L’ESTENSIONE DELLA CONGESTION CHARGE Città

Superficie territoriale [km2]

Orario di applicazione

Tariffa [convertito in euro]

Londra

41

7-18

10-14

Milano

8,2

7,30-19,30

5

Oslo

64

0-24

3,3

Bergen

18

0-24

2-4

FONTE: “VALUTAZIONE NUOVI SCENARI DI REGOLAMENTAZIONE DEGLI ACCESSI ALLA ZTL CERCHIA DEI BASTIONI”, NOVEMBRE 2011, AGENZIA MOBILITÀ AMBIENTE E TERRITORIO (AMAT) DEL COMUNE DI MILANO

| 34 | valori | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 |

milioni di sterline in interventi per la mobilità nell’esercizio 2009/10.

Fantascienza sostenibile Area C o tassa d’ingresso che sia, il punto di partenza resta la congestione delle grandi aree urbane. Basti pensare che il numero di auto per abitante a Milano è più alto che in qualsiasi altra città europea, tranne forse Lussemburgo. Parigi, Copenhagen, Londra, Berlino contano dalle 20 alle 40 automobili per 100 abitanti, il capoluogo lombardo sorpassa le 50 vetture. Area C si configura perciò come un modello in cui vengono “pedaggiati” tutti i mezzi che entrano nella Ztl e non solo i veicoli più inquinanti. Dovrebbe insomma avviare una serie di politiche che, continua Maria Berrini, «sollecitino un cambio di mentalità: se vivo in città, in linea di massima, non ho bisogno dell’utilizzo sistematico di un’auto di proprietà. Quando mi serve, se devo fare un trasporto, un viaggio di lavoro – a meno di essere pendolare – o una vacanza posso accedere al car sharing. Quando mi muovo in città uso il bike sharing o i mezzi pubblici. E con quello che risparmio posso anche permettermi qualche taxi ogni tanto». Fantascienza? Presto si vedrà. Ma, se qualcuno dubita che i milanesi accoglieranno il cambiamento con favore, gli ambientalisti sono già pronti a rilanciare per un allargamento dell’esperimento meneghino: un’ipotesi peraltro già sul tavolo di Amat, pur con qualche problemino da risolvere. Da un lato il Comune non ha attualmente le risorse necessarie all’installazione di ulteriori telecamere – ma questa potrebbe diventare una linea prioritaria per i reinvestimenti del primo anno di Area C – e poi c’è un vincolo di carattere tecnico: l’amministrazione vorrebbe infatti mantenere il modello della congestion charge per il centro città e invece, man mano che l’area a pedaggio si allarga, applicare una sorta di pollution charge (tassa sull’inquinamento, ndt) che riguarderebbe soprattutto veicoli più inquinanti. Non solo. Un allargamento di Area C o sue emanazioni dovrebbe avvenire in modo progressivo rispetto al potenziamento dei trasporti nelle fasce più esterne della città. Senza contare la necessaria costruzione di un consenso verso tale iniziativa.


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Le ombre sulla gestione dei trasporti milanesi di Marco Schiaffino

L SOGNO di un centro senza traffico passa necessariamente per il potenziamento del servizio di trasporto pubblico. A Milano “trasporto pubblico” significa Atm, la partecipata al 100% dal Comune di Milano che gestisce metropolitane, tram, autobus, parcheggi e, non ultimo, il servizio di pagamento per gli automobilisti che vogliono accedere all’Area C. Ma qual è lo stato di salute di Atm e quali le sue possibilità di trasformare la mobilità milanese?

I

Pubblica, ma non troppo

Le “bizzarrie” di Atm: dall’intricata rete di controllate all’unico socio, il Comune di Milano, che attinge alle sue casse con troppa libertà

Dal 2001 l’Azienda Trasporti Milanesi è una S.p.A. a totale capitale pubblico. Una formula diventata di moda negli anni scorsi in molti comuni italiani e non sempre per motivi facilmente comprensibili. In primo luogo perché la forma della S.p.A., al di là della “partecipazione pubblica”, ha natura privatistica. Codice civile alla mano, questo significa che ha come obiettivo quello di “fare utili”. Un obiettivo che ha ben poco a che fare con la gestione di un servizio ai cittadini. Perché quindi utilizzare la società per azioni? Una prima risposta richiama le teorie ultra-liberiste che vorrebbero l’apertura al mercato di qualsiasi settore dei servizi. Teorie che, in Italia, hanno avuto ben poco successo. Anche perché un servizio come quello di Atm opera normalmente con un 30% di perdite. L’adozione della forma privatistica, però, apre altri orizzonti, in particolare quelli legati al controllo delle attività dell’azienda in questione. Sottratta al controllo pubblico, la S.p.A. consente di operare con una “libertà” che le aziende speciali non consentono. | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 35 |


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In quanto a disinvoltura nella gestione, la situazione di Atm è piuttosto emblematica. A confermarlo non è solo la drastica revoca del CdA voluta da Pisapia lo scorso luglio: stando a un recente studio di Federconsumatori, infatti, la società è ben lontana dai criteri di trasparenza che ci si potrebbe (e dovrebbe) aspettare da chi opera nel settore pubblico.

Scatole cinesi Nell’analisi condotta da Sandro Potecchi per Federconsumatori emergono parecchie stonature. Prima tra tutte la presenza di una struttura societaria molto (troppo) articolata. Le “bizzarrie” riguardano in primo luogo singoli uffici trasformati in Srl controllate al 100% da Atm stessa, con conseguente proliferazione di nomine all’interno dei diversi consigli d’amministrazione. L’elenco delle controllate comprende Guidami Srl, che gestisce car sharing e biciclette comunali, Atm Servizi Diversificati (gestione servizi turistici) e GeSAM Srl., che si occupa dei sinistri assicurativi e conta solamente sei impiegati. Nel mezzo, altre società di cui l’azienda detiene solo parte del capitale e che si occupano di servizi all’interno del territorio comunale o nel resto della Lombardia. Un bel castello di partecipazioni che fa sembrare Atm, più che una ex-municipalizzata, una holding finanziaria. Non mancano elementi positivi: tra le varie partecipate figura anche International Metro Service Srl, di cui Atm detiene il 51%, che gestisce il trasporto sui 21 km della modernissima metropolitana di Copenaghen.

Forma privata, soldi pubblici Nell’era del “cambio di pelle” delle municipalizzate, sempre più spinte a operare secondo una logica di mercato, l’impostazione dell’Azienda Trasporti Milanesi segna in ogni caso un netto scarto. La recente messa in gara del servizio di trasporto, vinto da Atm Servizi S.p.A. in qualità di unico concorrente, porta nelle casse della società un compenso fisso annuale di 610 milioni di euro. Questo significa che gli introiti di Atm non dipendono più dalla vendita dei biglietti, ma sono | 36 | valori | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 |

predeterminati e prevedibili. Una situazione che farebbe gola a qualsiasi operatore del mercato, se non fosse che i conti continuano a parlare di un servizio in perdita. La gestione del trasporto milanese, infatti, ha un costo che si aggira sui 900 milioni di euro, mentre gli introiti per la bigliettazione sono di circa 300 milioni l’anno. Con la nuova situazione, il ricavato dei biglietti arriva direttamente nelle tasche del comune e Atm rimane “scoperta” per 300 milioni. Nonostante la forma societaria e l’escamotage della messa in gara, quindi, l’azienda rimane un ente che si appoggia sui finanziamenti pubblici e che dipende, per la sua sopravvivenza, direttamente dal Comune.

Bancomat Atm Ma è proprio nei rapporti con il Comune di Milano, socio unico di Atm, che le zone d’ombra negli ultimi anni della gestione Moratti si sono fatte più dense. A far storcere il naso sono soprattutto tre successivi delibere per la distribuzione di “dividendi straordinari” per un valore complessivo di 116 milioni di euro tra il 2009 e il 2010. La distribuzione dei dividendi, decisa dal “socio unico” Comune di Milano, ha, infatti, attinto al capitale di Atm e tutto il denaro è stato utilizzato per ridurre l’indebitamento del Comune nei confronti dell’azienda stessa. Insomma: il Comune ha deciso di girare parte del patrimonio di Atm per far tornare i conti del bilancio comunale. Un’operazione legale, ma poco comprensibile nell’ottica di un’azienda che dovrà affrontare investimenti piuttosto corposi, non ultimo quello per il rafforzamento della linea metropolitana in prospettiva dell’Expo prossimo venturo e per il quale è stata prospettata recentemente la possibilità di richiedere una deroga al patto di

Con tre delibere tra il 2009 e il 2010 il Comune di Milano ha attinto alle casse di Atm: 116 milioni di euro di dividendi straordinari. Usati per ridurre il proprio debito con l’azienda

SCELTA DI CAMPO Con l’arrivo della Giunta Pisapia, le cose sono cambiate anche in Atm, con la nomina di un nuovo consiglio d’amministrazione. Le novità nel CdA Atm sono Giulio Ballio, ex rettore del Politecnico, Alessandra Perazzelli, manager del gruppo Intesa SanPaolo, ed Elisabetta Olivieri, amministratore delegato di Sirti. Un ritorno, invece, quello del Presidente dell’associazione Utenti Trasporto Pubblico, Massimo Ferrari, già membro del CdA di Atm per oltre 10 anni. Il nome più “ad effetto”, però, è quello di Bruno Rota. Ex dirigente di Milano Serravalle, Rota era sparito dal panorama milanese dopo che nel 2003 aveva bloccato e denunciato il tentativo di truccare una gara d’appalto proprio in Serravalle. Il periodo era quello dell’amministrazione Colli e la vicenda si è chiusa con la sentenza d’appello solo nello scorso gennaio, confermando in tutto e per tutto la versione di Rota. stabilità. Al quale, tra l’altro, Atm non sarebbe soggetta se fosse un’azienda speciale di diritto pubblico.

Il fattore “C” Nessuna deroga, invece, è prevista per il potenziamento promesso in vista dell’attivazione dell’Area C. Secondo quanto comunicato dalla stessa azienda, il blocco per i veicoli privati nella cerchia dei bastioni verrà compensato con un potenziamento delle vetture in circolazione e l’ampliamento degli orari di punta. In totale si parla di quasi 200 corse in più al giorno, oltre al prolungamento di alcune linee (tram e autobus) che dovrebbero consentire lo smaltimento del maggiore traffico sul servizio pubblico. Un impegno quantificato in 9 milioni di euro per il 2012. Una cifra che, secondo i programmi del Comune, dovrebbe arrivare proprio dagli incassi per il transito in Area C.



| l’italiaincifre |

Il peso dei numeri di Paola Baiocchi

Nell’Autopsia della politica italiana 38 tavole per “sezionare” l’attività del sistema politicoistituzionale italiano che ricorda quello dell’Allegro chirurgo, un gioco un po’ demenziale in cui bisogna estrarre le “farfalle nello stomaco” senza far male al paziente, che altrimenti protesta vivacemente con un suono orribile e facendo lampeggiare il naso. Distesi sul tavolo operatorio qui, invece, siamo tutti noi, cittadini italiani pazientissimi, che, per il progressivo scippo di diritti e di democrazia perpetrato sotto i nostri occhi, protestiamo troppo poco. In parte perché mal informati – e l’Autopsia della politica italiana vuole sopperire a questa carenza – in parte perché la nostra democrazia è stata ridotta a un Frankenstein che non ha più nulla a che vedere con la nostra Costituzione. “Sapere è potere”, ci ricordano gli autori di questo atlante civile, consultabile gratuitamente on line sul suto www.atlanteitaliano.org. 38 infografici di straordinaria efficacia (che spaziano dal debito pubblico alle stratificazioni geologiche di chi siede in Parlamento da più tempo, dalle indennità dei parlamentari agli ingressi gratis allo stadio per i ministri) che visualizzano con immediatezza una situazione alla quale pensiamo sia ancora possibile praticare una biopsia, piuttosto che un’autopsia.

C’

È UN OMINO

Sono undici i grafici-illustratori (bravissimi) che hanno preparato le tavole dell’Autopsia della politica italiana, curata da Cristiano Lucchi e Gianni Sinni, edita da Nuovi Mondi srl (2011). | 38 | valori | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 |


| spaccatidiunpaese |

| ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 39 |


CLARE KENDALL / EYEVINE / CONTRASTO

economiasolidale

L’approccio slow fa breccia in medicina> 44 Quel “fattore culturale” che affonda gli agrumi italiani > 46 Dall’Europa un marchio per le imprese sociali > 50 L’altra economia trova casa a Mestre > 53 | 40 | valori | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 |


| economiasolidale | cattivo sviluppo |

Una struttura ospedaliera.

La vita sana di Emanuele Isonio

L’Eurostat rivela che, a partire dal 2004, il nostro Paese ha perso numerose posizioni nella classifica della qualità della salute. Viviamo di più ma gli anni vissuti senza malattie invalidanti sono sempre meno. Un problema sanitario ed economico. Ignorato però da istituzioni e organi d’informazione

non abita più in Italia (ma nessuno L ne parla) A NOTIZIA,

questa volta, è tutta racchiusa in un grafico. Anzi, per la precisione in due curve lunghe più di un decennio che, una volta sovrapposte, mostrano una verità assai scomoda. Che pochi conoscono e pochissimi trovano allarmante. Non che i dati alla base di quei grafici siano rimasti nascosti in qualche polveroso archivio. Tutt’altro. Erano (e sono) pubblici da parecchio tempo. Disponibili in rete e anche nei rapporti ufficiali. Basta sapere dove cercare.

La quantità non è tutto Il fantomatico grafico è pubblicato a pagina 42. La fonte è autorevolissima: Eurostat, l’ufficio statistico della Commissione Europea. I dati sono quelli forniti direttamente dai singoli Stati membri ed elaborati dall’istituto comunitario per monitorare il livello di longevità e degli anni di vita sana nei 27 Paesi dell’Unione. In parole povere: un indicatore quantitativo (quanto si vive) e uno qualitativo (fino a che età si vive senza avere disabilità o malattie che ostacolano le attività quotidiane). Sul fronte della quantità non sembra ci si possa lamentare. La curva è in crescita più o meno costante da ormai mezzo secolo. Se nel 1960 la vita media in Europa era di 69 anni, nel 2009 ha superato i 78. E in Italia siamo sempre stati sopra | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 41 |


GRAFICO 1 L’ASPETTATIVA DI VITA IN ITALIA E IN EUROPA

82 80 78 76 74 72 70 68 66 64 62

In Europa

1960 69,66 1961 70,54 1962 70,27 1963 70,52 1964 70,98 71,03 1965 71,08 1966 71,18 1967 1968 71,15 1969 70,92 71,20 1970 71,18 1971 71,63 1972 71,65 1973 71,97 1974 1975 72,17 1976 72,42 72,65 1977 1978 72,64 1979 72,69 72,84 1980 73,10 1981 73,37 1982 73,32 1983 73,59 1984 73,88 1985 75,56 74,23 75,89 1986 74,36 76,34 1987 76,52 74,56 1988 76,96 74,52 1989 74,44 1990 77,1 74,43 77,11 1991 77,54 74,60 1992 77,83 74,78 1993 78,05 75,07 1994 75,18 78,32 1995 75,52 78,66 1996 79 75,72 1997 76,05 79,1 1998 79,6 76,33 1999 79,9 76,57 2000 80,2 76,95 2001 80,4 76,79 2002 76,92 2003 80 81 77,50 2004 77,56 80,9 2005 77,94 81,5 2006 81,6 78,09 2007 81,9 78,52 2008 78,66 2009

In Italia

GRAFICO 2 L’ASPETTATIVA DI VITA SANA PER DONNE E UOMINI

GRAFICO 3 QUANTI ANNI DI VITA SANA RIMANGONO DOPO I 65 ANNI?

100

25

50 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Età media delle donne

Età media degli uomini

la media: l’aspettativa, dai 75 anni del 1985 (prima rilevazione Eurostat per il nostro Paese), è cresciuta fino agli 82 del 2008 (valore medio tra i 79 per gli uomini e gli 84,5 per le donne). Ma, almeno quando si parla di anni di vita, la quantità è niente senza la qualità e, come osservava già nel 1997 l’allora direttore generale dell’Organizzazione mondiale della Sanità, Hiroshi Nakajima, «aumentare la longevità senza la qualità di vita è una vittoria di Pirro». L’Healthy Life Years Index (Hly) corre in soccorso degli esperti di tutto il mondo perché fornisce una misura degli anni vissuti liberi dalla disabilità. E in questo caso, purtroppo per il nostro Paese, le notizie positive si fermano al 2003.

2004, il crollo della vita sana Nel 1995 l’Italia era ai vertici della classifica europea della vita sana. Alla nascita, potevamo sperare di vivere 68 anni senza gravi problemi di salute (66 gli uomini, addirittura 70 le donne). E il primato si è mantenuto tale fino al 2003. Anzi: i valori dell’Hly sono progressivamente cresciuti | 42 | valori | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 |

6.8 7.3

8.5

7.2

14.2(e) 11.8(e)

8.7

13.4(e) 11.4

7.9

13.6 11.9

12.2(bi)

13.1 11.1

8.9

12.7 10.6

9

12.7 10.9

11.2(bi)

12.2(e) 10.6

11.9(e)

11.8

5

10.3

61.2

10

62.4

61.9

64.10 64.7

70.70(bi)

66.50 65.7

15

62.8

55

68.4(bi)

72.9

74.4(e) 70.9(e)

70.4(e)

69.8

68.7

67.9

68.0

60

67.4

70 65

69.7

72.1

71.3

71.3

70.5(e)

75

70.0

80

73.9(e)

20

85

73.0(e)

90

14.4(e)

95

66.7

FONTE: EUROSTAT

FONTE: HTTP://EC.EUROPA.EU/HEALTH/INDICATORS

| economiasolidale |

0 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Età media delle donne

fino al picco di 72 anni (70,4 anni gli uomini, 74,4 le donne). Nei successivi cinque anni, il tracollo, con il dato maschile sceso a 62 anni e quello femminile sprofondato a poco più di 61. A dire il vero, altri Stati europei evidenziano lo stesso trend negativo. Come la Germania (vita sana femminile da 65 a 57 anni), il Portogallo (da 62 a 57) e il Belgio (da 69 a 63,5). Ma tutti gli altri mostrano andamenti stabili o addirittura in crescita: è il caso della Gran Bretagna e dei Paesi scandinavi, su tutti Svezia e Norvegia, che nel 2009 erano i nuovi leader del gruppo, con oltre 69 anni di vita sana. Tra l’altro se, invece di considerare i nuovi nati, si prendono gli over 65, i dati, se possibile, peggiorano: «Le tabelle di Eurostat – spiega Valerio Gennaro, epidemiologo dell’Ist (Istituto nazionale per

LINK UTILI www.salute.gov.it Ministero della Salute http://epp.eurostat.ec.europa.eu Eurostat www.iss.it Istituto Superiore di Sanità www.agenziafarmaco.gov.it AIFA

Età media degli uomini

la Ricerca sul Cancro) – evidenziano una cosa molto semplice: nel 2003 una donna italiana di 65 anni aveva di fronte circa 13/14 anni in salute. Nel 2008 si è passati a 7. In appena cinque anni, l’aspettativa di vita sana si è dimezzata». Ce n’è abbastanza per allarmare i medici, almeno quella (esigua) parte a conoscenza di tali dati, e gli epidemiologi, che, per professione, indagano le cause delle patologie umane. Tanto più che il peggioramento della salute collettiva arriva nonostante in Italia il consumo di farmaci sia in costante aumento da ormai più di dieci anni (vedi BOX ). «I nostri bambini e bambine vantavano i migliori livelli di aspettativa di vita sana fino al 2004. Poi la drastica flessione», denuncia Gennaro. «Nei comunicati stampa e nei mass media si parla solo dell’allungamento della vita media, ma si ignora o si sceglie volutamente di omettere il dato della qualità della nostra salute. L’incrocio dei dati Eurostat ci dice che, a conti fatti, ogni anno guadagniamo tre mesi in longevità, ma ne perdiamo 30 in termini di salubrità. Questi crolli non sono possibili


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Un problema anche economico Il problema, tra l’altro, non è limitato al solo (pur fondamentale) aspetto sanitario. Ma ha ricadute dirette e ingenti sulle casse statali (che destinano alla spesa sanitaria 110 miliardi all’anno, oltre il 7% del Pil) e sui costi delle aziende italiane. Un numero minore di anni passati senza patologie invalidanti significano meno ore di lavoro, più giorni di malattia, minore produttività, maggiori costi sanitari per visite, esami diagnostici, ricoveri e interventi chirurgici. Impossibile non pensare anche alla ricaduta che questa situazione potrebbe avere sull’impatto della riforma pensioni appena varata dal governo Monti. Una preoccupazione nient’affatto peregrina. Basta leggere l’ultimo Rapporto sullo stato sanitario del Paese, presentato a metà dicembre dal neoministro della Salute, Renato Balduzzi, per capire che gli stessi esperti del ministero si pongono tale dubbio: «In un’ipotesi di innalzamento dell’età pensionabile – si legge a pagina 21 del rapporto – sarebbe necessario sapere se le persone godono di buona salute e se sono fisicamente ancora in grado di lavorare». In parole povere: pensare di mandare in pensione a 70 anni uomini e donne che possono attendersi di viverne in modo sano quasi dieci in meno, rischia di essere impossibile. E ciò che si risparmia di pensioni può consumarsi in maggiori spese mediche. Da qui la richiesta degli esperti: «Iniziamo subito a studiare le cause di questo fenomeno», auspica Giovanni Ghirga, pediatra dell’Isde (Associazione medici per l’ambiente). «Ci sono responsabilità politiche, economiche, sociali da individuare. Ma se non si inizia ad ammettere l’esistenza del problema non si può passare ad analizzare i fattori scatenanti. Tanto più che è legittimo supporre che gli ultimi anni di recessione economica abbiano peggiorato un quadro già a tinte fosche». I dati presentati da Eurostat si fermano, infatti, al 2009 (per l’Italia, unico tra gli Stati Ue a eccezione della Gran Bretagna, l’ultimo dato utile è del 2008).

MEDICINALI: IL CONSUMO CRESCE MA NON AIUTA LA SALUTE FONTE: OSMED

in una società che effettivamente progredisce. Vogliamo chiederci il motivo di un così marcato passo indietro?».

Nel Paese in cui la vita sana sembra sempre più un sogno e sempre meno una realtà il consumo dei farmaci prosegue, anzi cresce senza sosta. [Dosi giornaliere Basta spulciare tra i bollettini pubblicati ogni anno per 1000 abitanti] dall’Osmed, l’Osservatorio sull’impiego dei medicinali, 2000 attivato dall’Agenzia italiana del Farmaco. Nel 2000 > 580 il numero di dosi prescritte era a quota 580 ogni mille abitanti. L’anno scorso, il dato era salito a 965,4 dosi. 2009 Un aumento del 66% in dieci anni (vedi GRAFICO ), solo in parte figlio dell’invecchiamento della popolazione, visto > 924 che l’età media è passata da 41,3 del 2000 a 43,2 anni del 2010: «Il fenomeno del consumo di farmaci è 2010 impressionante e solo l’1% dell’aumento di prescrizioni > 954,2 può essere giustificato con l’innalzamento dell’età media degli italiani», spiega Roberto Raschetti, direttore del 2011 reparto di Farmaco-epidemiologia dell’Istituto Superiore > 965,4 di Sanità. Tra l’altro, considerando i dati sull’aspettativa di vita libera da disabilità, viene da dubitare che lo smodato uso delle medicine rappresenti un vantaggio in termini di qualità di vita. «Vuole che parli fuori dalle righe?» ci chiede un medico di base, dietro la promessa dell’anonimato. «Gli italiani non ci stanno tanto con la testa. Quando vengono a farsi visitare pensando di avere una malattia, esigono di uscire con una ricetta». Niente di più sbagliato, perché l’abuso di farmaci può creare gravi danni. Il paradosso è che sono le stesse agenzie del farmaco mondiali a implorare cautela. Non è solo il caso degli antibiotici – il cui utilizzo scorretto può provocare fenomeni di resistenza e renderli inutili (troppi ancora credono che vadano presi per curare forti raffreddori o i sintomi influenzali, mentre sono utili solo in caso di infezioni batteriche e non contro i virus) – ma anche di notissimi farmaci da banco. Qualche esempio: l’Italia consuma il 60% dell’intera produzione mondiale di nimesulide (meglio noto come Aulin), medicinale vietato in Spagna, Finlandia e Irlanda dopo che sei pazienti sono stati colpiti da un’insufficienza epatica che ha richiesto il trapianto di fegato. Solo da un paio d’anni, l’Aifa ha informato i medici di una circolare dell’Agenzia del farmaco europea che imponeva di usare la nimesulide solo dopo che altri antidolorifici non avessero avuto effetto e per un massimo di due settimane. Dalla nimesulide al paracetamolo, principio attivo largamente usato nei medicinali antinfluenzali (su tutti, la Tachipirina): la Food and Drug Administration, l’agenzia del farmaco Usa, ha allertato sui possibili danni da abuso, acuto o cronico, di tale sostanza (reazioni allergiche, danni epatici, renali, ematici), chiedendo di ridurre la dose a 325 milligrammi per compressa. In commercio, attualmente, la maggior parte delle confezioni ne contiene da 500 a 1000 mg. Acquistabili da tutti, senza alcun tipo di ricetta. FARMACI: +66% IN DIECI ANNI

Il fatto che, nonostante le nostre ripetute richieste di commento, né il ministero della Salute né l’Istituto Superiore di Sanità abbiano voluto rilasciare dichiarazioni, non è di certo il migliore dei segnali

possibili. «Purtroppo – considera sconsolato Ghirga – non parlare di questo fenomeno fa comodo a enormi interessi industriali che da una popolazione sempre più malata possono solo trarre vantaggio». | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 43 |


| economiasolidale |

L’approccio “slow” fa breccia in medicina di Emanuele Isonio

Niente cure inutili, né uso eccessivo di farmaci, nuovo rapporto con i pazienti, attenzione a tenersi sempre aggiornati. Ridurre i costi sanitari e aumentare la qualità dell’assistenza è possibile AI AVREI IMMAGINATO che la mia scoperta di quarant’anni fa avrebbe provocato un simile disastro sanitario». Sembra di risentire le riflessioni di Alfred Nobel, in preda al rimorso per aver inventato la nitroglicerina. Come Nobel, anche Richard Ablin, scopritore del test Psa per il tumore alla prostata, ha sconfessato, dalle colonne del New York Times, l’utilità della propria “creatura”, messa in dubbio da varie ricerche e, infine, scaricata anche dalla United States Preventive Service Task Force, perché costringe a terapie con effetti collaterali enormi (impotenza e incontinenza), appesantisce i costi della sanità (solo negli Usa, per lo screening Psa si spendono tre miliardi di dollari) ed è ritenuta incapace di discernere tra tumori sintomatici e asintomatici. Ma il dietrofront di Ablin è solo uno degli esempi di un mondo medico che sempre più si domanda se l’uso eccessivo di test, terapie e interventi invasivi non provochi più danni che possibili vantaggi. Clamoroso, in tal senso, un articolo apparso recentemente fra le pagine degli Archives of Internal Medicine, che suggerisce una top five di comportamenti nella medicina interna, per evitare casi di sovradiagnosi e sprechi di soldi. Suggerimenti shock che intaccano comportamenti finora ritenuti inevitabili: bisogna attendere almeno sei settimane prima di prescrivere indagini diagnostiche per il mal di schiena, a meno di sin-

«M

| 44 | valori | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 |

tomi specifici; nelle persone sane le periodiche analisi del sangue sono inutili; gli esami cardiologici e gli elettrocardiogrammi in pazienti a basso rischio non sono predittivi; contro il colesterolo va evitato l’uso di statine specifiche, perché, rispetto a quelle generiche, costano solo di più; la densitometria ossea effettuata su pazienti senza fattori di rischio non migliora la qualità della vita rispetto a chi non si sottopone al test.

Secondo l’Eurostat in Italia una donna ha un’aspettativa di vita sana di 62 anni, nel 2003 era 70 anni.

SETTE “SCOPERTE” CONTRO I VELENI DELLA MEDICINA MODERNA

1

Nuovo è meglio

La maggior parte dei dispositivi medici sono simili a quelli in uso e vengono introdotti solo per motivi commerciali, senza dimostrazione diretta di efficacia clinica. [Journal of the American Medical Association, 2003]

2

Tutte le procedure usate nella pratica clinica sono efficaci e sicure

Su 2.500 prestazioni sanitarie, supportate da buone evidenze scientifiche, solo il 46% è sicuramente utile e il 4% è giudicato dannoso. [British Medical Journal, 2007]

3

L’uso di tecnologie più sofisticate risolverà ogni problema di salute

La disponibilità di immagini sempre più dettagliate aumenta gli interventi chirurgici inappropriati alla vescica, al ginocchio e alla colonna. [British Medical Journal, 2011]

4

Fare di più aiuta a guarire e migliora la qualità della vita

Chi vive in regioni ad alta intensità di prescrizioni mediche sperimenta livelli di sopravvivenza peggiori di chi vive in regioni a bassa intensità. [British Medical Journal, 2011]

5

È sempre utile scoprire una “malattia” prima che si manifesti con dei sintomi

Dopo 20 anni di follow-up il numero di decessi per cancro alla prostata negli uomini sottoposti a screening con Psa non erano diversi da quelli del gruppo di controllo. [British Medical Journal, 2011]

6

I potenziali “fattori di rischio” devono essere trattati con i farmaci

Le soglie di normalità per pressione arteriosa, colesterolemia, glicemia e densità ossea sono riviste continuamente al ribasso. In questo modo il numero di “malati” cresce a dismisura. [American Journal of Public Health, 2010]

7

Per controllare meglio gli stati d’animo è utile affidarsi alle cure mediche

Nel 2002 il British Medical Journal ha pubblicato la classificazione internazionale delle non-malattie per cui si interviene con cure mediche. Tra di esse: calvizie, lentiggini, orecchie a sventola, infelicità, cellulite, gravidanza, solitudine.


| economiasolidale |

Liberarsi dal giogo di mercato Un approccio per certi versi rivoluzionario. Una svolta all’insegna della sobrietà, che ha spinto anche alcuni medici e operatori sanitari italiani a fondare Slow Medicine, associazione indipendente che si colloca nel grande mondo di Slow Food. «Ci siamo ritrovati uniti dalla voglia di ritornare a una professione medica libera dalle esigenze di mercato, perché siamo convinti che fare di più, usare troppi farmaci, eccedere in esami non aiuti a combattere le malattie», spiega Antonio Bonaldi, presidente di Slow Medicine e direttore sanitario dell’ospedale San Gerardo di Monza. «La nostra non è una medicina alternativa. Seguiamo le tecniche tradizionali, ma cerchiamo di applicarle in modo più riflessivo e tenendoci sempre aggiornati con la più recente letteratura medica indipendente». Aggiornamenti essenziali per confutare quelli che i medici slow definiscono “i sette veleni” della medicina moderna (vedi BOX ). Sette convinzioni finora ritenute oro colato, che vengono però messe in discussione da prestigiose ricerche scientifiche.

«INFORMATECI SUI CONFLITTI D’INTERESSE» I FUTURI MEDICI SI RIBELLANO ALLE LOBBY Nessuna concessione a quello sfarzo spesso usato dalle lobby del farmaco per irretire i medici e per rendere più appetibili i messaggi alla classe medica. Solo uno stanzone che l’Arci di Ulignano, in provincia di Siena, ha affittato al Segretariato Italiano Studenti di Medicina e che, per tre giorni, ha funzionato da refettorio e ostello per i giovani partecipanti. Un incontro che testimonia la fame dei futuri medici di notizie indipendenti e non filtrate dagli interessi dell’industria. Nelle facoltà universitarie, denunciano gli organizzatori, il tema della deontologia è sottovalutato e non c’è quasi mai traccia di lezioni sulle strategie delle case farmaceutiche per convincere i medici a somministrare cure costose, ma spesso inutili. Nei tre giorni di lavori si è parlato di casi concreti; si sono presentati gli intrecci tra le Agenzie del farmaco e Big Pharma; si è affrontato il ruolo delle lobby per influenzare i contenuti degli articoli pubblicati su prestigiose riviste scientifiche e sono state illustrate le tattiche che le aziende insegnano agli informatori farmaceutici per colpire l’attenzione dei medici, in funzione del loro carattere. Tre giorni di rivelazioni che molti dei corsisti hanno descritto come uno “shock”. Ma, a fronte dei trenta partecipanti della prima edizione, il convegno di quest’anno ha quasi triplicato le presenze. Una goccia nell’oceano degli studenti di medicina, ovviamente. Ma anche un viaggio lungo mille chilometri inizia sempre con un piccolo passo.

Da Slow Food a Slow Medicine: troppi esami e troppi farmaci non aiutano a curare le malattie. Non una medicina alternativa, solo evitare gli eccessi Adesioni controllate A Slow Medicine potranno aderire medici, infermieri, fisioterapisti, ricercatori. Ma l’adesione non sarà libera: «Non vogliamo una campagna associativa selvaggia», spiega Silvana Quadrino, del direttivo di Slow Medicine. «Le domande d’iscrizione dovranno essere accompagnate da brevi curriculum, che saranno vagliati dai soci fondatori e dovranno dimostrare la coerenza con i valori del nostro gruppo». Sono poi in programma campagne di comunicazione rivolte sia ai medici sia ai pazienti, per offrire informazioni corrette, rigorosamente documentate, non soggette alle pressioni delle lobby. | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 45 |


| economiasolidale | made in italy a rischio/puntata 11 |

Quel “fattore culturale” che affonda gli agrumi italiani di Emanuele Isonio

Produzione e consumi crescono, ma uno dei potenziali tesori del nostro Meridione è sempre più in affanno rispetto ai concorrenti internazionali. Alla base la diffidenza tra produttori e l’incapacità di capire che l’unione fa la forza

AROCCO NUCELLARE, moro, sanguinello, navelina, newhall, valencia late, vaniglia, mandarino “Ciaculli”, clementino, mandarancio, nova, tangeli, pompelmo giallo e rosso, limone e cedro limone. Avremmo sinceramente voluto iniziare il 2012 parlandovi delle numerosissime qualità di agrumi che le regioni del nostro Meridione producono. Avremmo voluto descrivervi un settore che, grazie a questa straordinaria varietà, gode di buona salute e di un futuro brillante. In grado di stare sul mercato e di competere da posizioni di forza con i concorrenti internazionali. Capace di ripagare come si deve chi dedica la propria vita alla propria terra e di “fare sistema”, unendo in un unico “cartello” le eccellenze gastronomiche, il patrimonio culturale, le meraviglie naturali, gli scenari mozzafiato e lo straordinario calore del Sud d’Italia. E invece no. Eccoci qui, a fare un elenco di tutt’altro tono: filiera lunga, disaggregazione del comparto, diffidenza reciproca, rapporti difficili con la grande distribuzione, problemi logistici, arretratezza imprenditoriale,

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credit crunch, concorrenza estera, illegalità. Tanti fattori che, tutti insieme, rendono antieconomiche le produzioni e spingono l’agrumicoltura italiana nell’affollato gruppo dei “made in Italy alimentari” a rischio collasso.

Problemi complessi, settore in bilico «Raccontare i problemi del settore-agrumi è difficile e i dati, leggendoli superficialmente, non evidenziano il suo stato di salute», spiega Mario Schiano, analista di Ismea (Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare). Eccoli, comunque, i numeri più significativi: la coltivazione di agrumi copre l’1% della superficie agricola nazionale (oltre 170 mila ettari), coinvolge 126 mila imprese (il più delle volte di dimensioni ridotte) ed è concentrata in cinque Regioni. La Sicilia è capofila con il 60% della produzione, seguita da Calabria, Basilicata, Puglia e Campania. Una produzione in crescita, a giudicare dal trend decennale: erano 2,8 milioni le tonnellate del 2001, sono salite a 3,8 nel 2010. Identico l’andamento dei con-

sumi (da 1,5 tonnellate del 2001 a 1,9 del 2010, con un picco di 2,3 milioni nel 2009). In pratica, ogni italiano mangia (e beve) in media 33 chili di agrumi: 20 di arance, 7 di clementine, 4 di limoni, 1,6 di mandarini e mezzo chilo di pompelmi. La bilancia commerciale evidenzia un tendenziale aumento delle esportazioni (avevano un valore di 137 mila euro nel 2001 e di 209 mila nel 2010) ma, al tempo stesso, una crescita delle importazioni, soprattutto negli anni in cui la produzione nazionale è scarsa.

«Taglio tutto e non ne voglio sapere niente» Dove sono allora i problemi del settore? Qualcosa si inizia a intuire confrontando i prezzi all’inizio e alla fine della filiera. Nel suo rapporto economico finanziario 2012, Ismea fissa a 0,51 euro il valore medio degli agrumi all’origine, a 1,01 all’ingrosso e a 1,39 al dettaglio. Il costo in pratica triplica durante la filiera e l’unica fase in cui i prezzi sono aumentati rispetto a 10 anni fa è nella vendita ai consumatori finali (+19% rispetto al 2001). Ma basta parlare con qualsiasi produttore per capire che la realtà è ben più fosca. Denunciata già oltre due anni fa


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dalla Confederazione Italiana Agricoltori: «Attualmente – rivelava nel 2009 la Cia – le arance bionde sono acquistate dall’industria a 7 centesimi di euro al chilo. Cifra che include anche gli oneri di trasporto. Prezzi che stanno pregiudicando la raccolta, perché i costi di produzione sono superiori ai ricavi». Dal 2009 a oggi, nulla è cambiato. Rivela Roberto Li Calzi, fondatore del consorzio siciliano “Le Galline Felici”, che ormai da anni ha fatto una scelta diametralmente opposta (e vincente) a quella di molti altri produttori (vedi ARTICOLO a pag. 48): «Proprio l’altro giorno un agricoltore qui vicino – racconta – mi diceva che gli hanno offerto cinquemila euro per 60 tonnellate di arance». In pratica, 8 centesimi al chilo. «Anche senza contare il costo del lavoro e il concime, solo le spese di potatura (4.500 euro) e di irrigazione (2.000 euro) sono superiori ai ricavi. Naturale che, sconfortato, abbia detto: taglio tutto e non ne voglio più sapere niente». Un sacrificio di generazioni, un frutteto costruito con orgoglio da suo padre e suo nonno che rischia di andare in fumo. «Una disaffezione figlia dell’insoddisfazione economica», spiega Lorenzo Bazzana, responsabile economico di Coldiretti. «Per alcuni agrumi, come il limone, il fenomeno dell’abbandono delle coltivazioni assume toni preoccupanti».

DISTRETTO AGRUMI DI SICILIA: CENTOCINQUE IMPRESE, UN UNICO MARCHIO La diffidenza è molta, le esperienze passate certamente non aiutano a diffondere la fiducia sui vantaggi di votarsi all’economia di comunione. Comunque, qualcuno ci sta provando. La notizia è di fine settembre, l’esordio, agli inizi di ottobre, al Macfrut di Cesena: i cinque consorzi di tutela Dop e Igp (Arancia rossa di Sicilia, bionda di Ribera, Mandarino tardivo di Ciaculli, Limone Interdonato di Messina e Limone di Siracusa) scelgono la strada dell’unità e danno vita al Distretto produttivo Agrumi di Sicilia. Un unico marchio regionale che identifichi il territorio siciliano e lo valorizzi attraverso le sue produzioni agricole di qualità. «Il comparto agrumi – spiega Federica Argentati, presidente del neonato distretto – necessita di interventi condivisi e di una strategia comune, dalla fase di produzione a quelle di distribuzione e commercializzazione. Il Distretto Agrumi di Sicilia mira a questo: raccogliere le istanze del territorio e proporre le soluzioni agli interlocutori istituzionali». All’interno del distretto, come soci, si contano 105 imprese, in rappresentanza di duemila addetti, 21 mila ettari di colture e un fatturato annuo di circa 400 milioni di euro. Ad esse si aggiungono 39 tra associazioni di categoria, enti locali, organismi di ricerca, realtà turistiche e della cooperazione internazionale. Marciare uniti per aumentare il proprio potere contrattuale nei confronti dei vari canali di vendita, ma facendo attenzione a veicolare un nuovo concetto di qualità. Non più basato solo sulla dimensione dei frutti, ma sul gusto e sulle peculiarità delle tante varietà diverse di agrumi. Perché se è certo che fra i vini non c’è solo il Chianti, è altrettanto sicuro che fra le arance non ci sono solo i Tarocchi.

vori concordano: le cause sono molte, ma prima di tutto c’è un problema culturale: «Manca quella che io chiamo “massa critica di pensiero”» spiega Federica Argentati, presidente del neonato Distretto Agru-

Massa critica di pensiero Ma cosa c’è alla base di questo vicolo cieco? Per una volta, esperti e addetti ai la-

GRAFICO 1 L’ECCESSO DI PRODUZIONE DEPRIME I GUADAGNI DEI PRODUTTORI DI ARANCE

GRAFICO 2 IL PREZZO DEGLI AGRUMI DAL CAMPO AGLI SCAFFALI [tonnellate]

Consumo apparente complessivo di agrumi

Produzione di agrumi

2010

0,00

1,39

1,37

1,41

1,37

1,32

1,18

1,28

1,38

1,33

1,17

2004

1,04

1,06

2006

2007

2008

2009

2010

Prezzi all’ingrosso

1,01

2005

0,89

1,02

1,08 2003

0,51

2002

0,55

1,03

2001

Prezzi all’origine

0,51

2009

0,52

2008

0,57

2007

1,02

2006

0,51

2005

0,96

2004

0,50

2003

0,44

2002

0,50

0,75

+3%

0,98

1.983.305

2.311.796

1.847.962

1.856.906

1.779.420

1,00

0,25 2001

+18,8%

0,47

3.822.772

3.825.947

3.484.037

3.892.624

3.653.769

1,50

0,50

500.000 0

0% 1,75

1,25

1.660.642

1.761.159

2.781.298 1.671.615

2.789.211 1.460.068

1.000.000

1.577.413

1.500.000

2.895.410

3.000.000

3.335.585

3.500.000

2.000.000

[euro/kg]

2,00 3.518.097

4.000.000

2.500.000

mi di Sicilia (vedi BOX ). «Tutta la filiera (produzione, distribuzione, commercializzazione) è disaggregata. Manca una regia che fissi strategie e obiettivi, i produttori non sono felici di collaborare gli uni con gli altri. E, in linea di massima, latita la capacità manageriale. Le aziende hanno dimensioni troppo piccole e la loro scarsa capacità produttiva impedisce di avere denaro per gli investimenti».

+8,5%

Prezzi al dettaglio

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FONTE: ISMEA RAPPORTO ECONOMICO FINANZIARIO 2012

I costi per coltivare le arance superano i ricavi. La raccolta spesso non conviene


FONTE: ISMEA RAPPORTO ECONOMICO FINANZIARIO 2012

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TABELLA 1. CONSUMO APPARENTE PRO CAPITE DI AGRUMI (KG) 2001

2005

2010

Agrumi

27,7

28,3

32,8

Arance

16,1

15,5

19,6

Limoni

4,0

5,0

4,3

Mandarini

1,5

1,5

1,6

Clementine

5,5

5,6

6,8

Pompelmi

0,5

0,6

0,5

«Purtroppo – condivide Li Calzi – è ancora diffuso un atteggiamento di reciproca diffidenza, che fa naufragare ogni iniziativa di tipo associativo. Lo spirito dei produttori non va in direzione di una vera economia di comunione. Spesso, soprattutto in passato, sono nate cooperative al cui vertice c’era un boss che trattava gli altri soci come schiavetti». Diffidenza e disaggregazione che costringono il settore a subire le decisioni dei grandi marchi della distribuzione organizzata. «Loro sono grandi e organizzati. Noi piccoli e disorganizzati. Inevitabile che il loro potere contrattuale sia forte e noi non abbiamo capacità di imporre i prezzi». Poi, certo, la concorrenza estera non aiuta. Non solo (e forse non tanto) perché in Spagna e nel resto del Mediterraneo cresce la produzione di agrumi. Ma soprattutto per il fatto che, altrove, i referenti con cui deve interfacciarsi la grande distribuzione sono uniti e parlano con poche voci. «E quando le catene mondiali di supermercati hanno già rapporti consolidati con dei fornitori, tendono a utilizzare quei canali anche negli altri Stati». Ed ecco quindi che nei punti vendita italiani si trovano arance e limoni esteri.

Unità, biologico, filiera corta: ecco la ricetta anti-crisi di Emanuele Isonio

Finora, le aziende che hanno scelto questa strada hanno avuto remunerazioni maggiori e i consumatori hanno maggiori tutele. Un sistema che riduce anche le infiltrazioni criminali

N

EL MONDO DEGLI AGRUMI TRICOLORI sempre più in affanno e

sempre meno in grado di reggere la competizione internazionale, tre strade premiano chi, con un pizzico di lungimiranza, le ha intraprese: il biologico, l’unione tra produttori e la filiera corta. Tre strade che portano nella stessa direzione: aumento di valore del prodotto, riduzione dei costi, più margini di guadagno, canali distributivi scevri dai diktat della grande distribuzione, maggiore certezza nei pagamenti.

Il sogno del “modello Melinda”

Convertirsi, per differenziare

Per uscire dal tunnel, molti guardano a quanto avviene su altri alberi. Di mele, soprattutto. «Il nostro sogno – spiega un altro produttore del catanese – sarebbe il “modello Melinda”. Quando si pensa a una mela, vengono in mente, se va bene, un paio di nomi. Dietro a quei due nomi, centinaia di produttori. Un esempio formidabile di associazione vincente e di promozione congiunta del proprio territorio». Ma la strada per copiare l’esperienza delle mele è lunga. Ci sono invece interventi che potrebbero dare rapidamente ossigeno ai produttori nazionali. Il più importante riguarda le arance da succo. Oggi la percentuale di succo d’arancia nelle bibite non supera il 12%. «Considerando che con un chilo di succo concentrato si fanno sei litri di succo naturale, che, al 12%, si traduce in 50 litri di aranciata, il conto è fatto. In un litro di aranciata venduta sugli scaffali a un euro e mezzo ci sono tre centesimi di succo d’arancia», spiega Alessandro Chiarelli, presidente di Coldiretti Sicilia. Da qui un’idea tutto sommato semplice (tramutata in proposta di legge dal parlamentare pd Nicodemo Oliverio): elevare dal 12 al 20% la percentuale obbligatoria di succo nelle bibite. «Ogni punto percentuale corrisponde a 250 mila quintali di arance. Mille ettari di coltivazioni». O, se preferite, al 10% della produzione italiana.

La conversione biologica, prima di tutto: già oggi, numeri alla mano, rappresenta circa il 14% delle colture agrumicole totali. Oltre 23 mila ettari di arance, mandarini e limoni, concentrati per l’85% in Sicilia e Calabria (vedi TABELLA 2 ), che rendono ai produttori ben più rispetto alle coltivazioni convenzionali. La conferma arriva dal responsabile economico di Coldiretti, Lorenzo Bazzana: «Dal punto di vista economico, il biologico accresce il valore del prodotto di circa il 50%». «La conversione – commenta Mario Schiano, analista di Ismea – è una valida strategia di differenziazione del prodotto e permette di catturare nuove fette di mercato, soprattutto all’estero. Va poi considerato che, nel caso delle arance, coltivare secondo i criteri biologici è più semplice di altri frutti come mele, pere e pesche».

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TABELLA 1. SUPERFICI E COLTURE IN AGRICOLTURA BIOLOGICA Agrumi totale Pomelo e pompelmo

[valori in ettari]

In conversione

Biologico

Totale

7.572

15.853

23.424

40

115

155

Limone e lime

1.297

3.144

4.441

Arance

3.911

9.080

12.991

Altri agrumi (piccoli agrumi)

2.324

3.513

5.837


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Il problema è quello di garantire una tracciabilità del prodotto, per evitare gli scandali del “falso biologico” che finiscono per danneggiare l’intero comparto. «Sono anni che chiediamo maggiori controlli. Alla frontiera e nei porti arrivano, da Spagna e Marocco, tonnellate di arance che vengono spacciate per biologico italiano», denuncia il presidente di Coldiretti Sicilia, Alessandro Chiarelli. Un business redditizio, su cui spesso si allunga la longa manus delle mafie. Proprio la mancanza di controlli ha costretto i produttori a iniziative fai-da-te. «Ci tocca andare a pedinare i tir provenienti dal continente – spiega Chiarelli – per verificare i contenuti ed evitare una concorrenza scorretta. Non capisco perché le forze dell’ordine non ci mettano lo stesso impegno profuso nell’alta moda».

TABELLA 2. AGRUMI BIOLOGICI: DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA Abruzzo

Valore percentuale (%)

Valore assoluto

0

2

Basilicata

4,8

1.126

Calabria

36,9

8.649

Campania

1,1

254

Emilia Romagna

0

0

Friuli Venezia Giulia

0

0

Lazio

0

3

Liguria

0

1

Lombardia

0

0

Vendita diretta, fiducia reciproca

Marche

0

0

Un aiuto a ridurre il problema arriva dall’altro tassello della ricetta anti-crisi: la filiera corta e la vendita diretta. Più si riducono i passaggi, più sono difficili le truffe, più aumenta il senso di reciproca fiducia che lega consumatore e produttore. E la remunerazione dei produttori aumenta esponenzialmente. La scelta ha assicurato, se non la ricchezza, quantomeno la tranquillità del consorzio Le Galline Felici. 15 aziende, 700 mila euro di fatturato, produzioni biologiche e una scelta precisa: vendere solo ai Gruppi d’acquisto solidale. «Il 99,8% dei nostri scambi lo facciamo con loro», spiega il fondatore Roberto Li Calzi. «Saltiamo gli intermediari, abbiamo la certezza di essere pagati. La quota di insoluti è vicina a zero e abbiamo costruito una rete di fiducia e relazioni tale che, se ci sono casi di emergenza, possiamo chiedere di ricevere i soldi in anticipo». A beneficiare di questo rapporto, mesi fa, la cooperativa Arcolaio che opera nel carcere di Siracusa e produce, con i detenuti, prodotti a base di mandorle. Una crisi di liquidità le impediva di acquistare la materia prima. «Ho

Molise

0

0

Piemonte

0

0

Trentino Alto Adige

0

0

Puglia

5,12

1.199

Sardegna

0,4

98

Sicilia

51,6

12.087

Toscana

0,1

5

Umbria

0

0

Valle d’Aosta

0

0

Veneto

0

Totale Italia

0 23.424

mandato una mail ai nostri amici gasisti. Tra il mio appello e il primo bonifico, di tremila euro, sono passati 15 minuti». Qualcuno, nelle mail successive, ha commentato così: “Economia solidale 1 – Pago e pretendo 0”.

I PRODUTTORI DEL SUD SBARCANO IN PIAZZA. TORNERÀ IL TRENO DELLE ARANCE? Il sogno, questa volta, ha preso la forma di due binari e di un treno da riattivare dopo decenni di disuso. Di una favola condivisa da centinaia di persone che credono nella possibilità di unire buon cibo, buona economia, benessere e progresso della società. Il treno è quello che, dagli anni ’50 e per vent’anni, partiva dalla stazione Bicocca di Catania due volte al giorno, diretto verso il Nord Italia e l’Est Europa carico di arance. Quel treno, negli anni ’70, fu dismesso a vantaggio del trasporto su gomma. Con un po’ di sforzo, però, potrebbe tornare a vivere. Strumento a uso dei Gas, desiderosi di acquistare arance del Sud Italia, ma preoccupati di dover scegliere tra iniziative ugualmente meritevoli. «Perché i produttori che ruotano attorno al consorzio Goel e Libera in Calabria e a Le Galline Felici in Sicilia non formano un soggetto unico che definisca una carta di valori condivisi, acquistando la forza di scala per attuare le necessarie sperimentazioni innovative?», si domandava a novembre Sergio Venezia, del Distretto dell’economia solidale della Brianza.

Di lì a poco, un crescendo di contributi e soluzioni attraverso la mailing list della ReteGas nazionale, concretizzatesi in Sbarchi in piazza, un’iniziativa che, da fine febbraio alla primavera, vedrà i produttori del Meridione salire al Centro-nord per incontrare i consumatori. «Vogliamo spiegare i vantaggi sociali della cosiddetta “altra filiera”», spiega Roberto Li Calzi, de Le Galline Felici. «Vogliamo coinvolgere tutti quei soggetti del Terzo settore che possono essere interessati a dar forza a questo nuovo stile di acquisti. Vogliamo decuplicare il numero di Gas. Far capire quale valenza politica può avere ogni singolo acquisto di una semplice cassetta di arance». Per riuscire nell’obiettivo, servirà un’organizzazione comune, una risposta unica alle difficoltà logistiche e alle esigenze dei Gas. «Dobbiamo dare agli amici dei Gruppi d’acquisto il servizio più efficiente possibile». A quel punto, ridare vita ai 27 vagoni di quel treno non sarà solo un sogno. Info su: www.legallinefelici.it Em. Is. | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 49 |


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Dall’Europa un marchio per le imprese sociali di Elisabetta Tramonto

A SOCIAL BUSINESS INITIATIVE è una pietra miliare per l’imprenditoria sociale. Orienterà la politica europea del prossimi anni». È il commento entusiastico di Flaviano Zandonai, segretario generale di Iris Network (Associazione italiana degli Istituti di Ricerca sull’Impresa Sociale), di fronte alla rapida sequenza di passi che la Commissione europea sta compiendo a sostegno dell’imprenditoria sociale. Un “innamoramento” scoppiato un anno fa, concretizzatosi tra ottobre e dicembre 2011, con tre passi da gigante da parte di Bruxelles: una comunicazione al Parlamento europeo a ottobre (intitolata, appunto, “Iniziativa per l’imprenditoria sociale. Costruire un ecosistema per promuovere le imprese sociali, elemento chiave dell’economia e dell’innovazione

«L

La Commissione europea lancia in grande stile la Social Business Initiative. Una serie di misure per sostenere le imprese sociali: motore di crescita sociale”); una conferenza in grande stile a novembre e, infine, una proposta di regolamento a dicembre, che ha introtto un marchio per i fondi di investimento dedicati alle imprese sociali.

“Conquistati” dall’impresa sociale Ma perché questo improvviso interesse per l’impresa sociale? «Credo che il motivo stia nella coerenza con la strategia di Lisbona», azzarda Davide Dal Maso, partner del centro di ricerca Avanzi, specializzato nella sostenibilità delle imprese. «L’obiettivo stabilito nel 2000 dai Capi di Stato e di Governo dell’Ue – continua Dal Maso – era “fare dell’Europa entro il 2010 l’economia

più competitiva e dinamica e la più coesa e sostenibile”. L’impresa sociale si presta a questa finalità, posizionandosi all’incrocio tra le questioni economiche e sociali». Le motivazioni di questo interessamento verso l’imprenditoria sociale sono descritte nero su bianco dalla stessa Commissione: «Le imprese sociali contribuiscono a una crescita intelligente, rispondendo con l’innovazione sociale a bisogni non ancora soddisfatti; creano una crescita durevole, prendendo in carico il proprio impatto ambientale, con una visione di lungo termine; e sono il cuore di una crescita inclusiva, grazie all’accento posto sulle persone e sulla coe-

MANUALE DI CACCIA (AI FINANZIAMENTI) di Corrado Fontana Meno risorse pubbliche e le imprese sociali in sofferenza guardano a strumenti di finanziamento innovativo. Il progetto transnazionale Isede-Net li mette in fila e valorizza il ruolo di governance delle amministrazioni Di necessità si farà virtù, in un momento storico in cui la difficoltà delle imprese sociali nel reperire risorse dai canali tradizionali (pubblici e privati) è evidente. Questo auspicano i partner italiani (comuni di Brescia e Venezia e Caritas Ambrosiana) del progetto comunitario Isede-Net (Innovative Social Enterprise Development Network), cui

SITI INTERNET www.isede-net.eu sito ufficiale del progetto Isede-Net

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è stato commissionato il rapporto “Sviluppo di strumenti finanziari innovativi per le imprese sociali”. Ruoli e compiti da rinnovare «La pubblica amministrazione – ricorda Pierangelo Spano, esperto di welfare sociale e firmatario del rapporto – ha ben chiaro di voler mirare efficacemente gli interventi verso progetti che abbiano un effetto leva. D’altra parte l’impresa sociale sente sulla pelle la fatica di essere percepita come “impresa”, immersa in un mercato del credito in difficoltà, e di dover essere appetibile per i finanziatori». In tale contesto, continua Spano «si crea uno spazio per l’amministrazione pubblica, che può assumere un ruolo “terzo”, da intermediario, e mettere a disposizione le garanzie che mancano all’impresa sociale, riconoscendole un impatto positivo sul tessuto locale». Se, infatti, il successo di un progetto sociale spesso si misura attraverso flussi


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LE BENEFIT CORPORATION SBARCANO A NEW YORK Imprese che hanno come obiettivo (fissato nello statuto) produrre un impatto positivo sull’ambiente e sulla società, e che pubblicano ogni anno un report sulle proprie performance ambientali e sociali. Si chiamano Benefit Corporation e stanno prendendo sempre più piede negli Stati Uniti. Per queste realtà la distribuzione dei profitti non è vietata, solo limitata quantitativamente, perché la massimizzazione degli utili è posta in secondo piano rispetto a finalità di tipo sociale. Da un mese circa, grazie alla firma del Governatore, Andrew Cuomo, anche nello Stato di New York sarà possibile registrarsi come una Benefit Corporation. È il settimo Stato americano ad approvare una legge che riconosce questa tipologia di organizzazione, dopo Maryland, California, Hawaii, Vermont, Virginia e New Jersey. Può sembrare cosa da poco, invece è una notizia rivoluzionaria per il mondo del social business, soprattutto in una società come quella americana: una Benefit Corporation è di fatto una impresa che dichiara di non agire solo nell’interesse dei propri azionisti, ma in quelli della comunità in cui opera. Come forma giuridica si inserisce a cavallo tra profit e non profit, risolvendo non pochi problemi per tutti gli imprenditori sociali che si vedono costretti, all’atto di costituzione della propria organizzazione, a fare una scelta tra i due fronti.

sione sociale». Così si legge nella comunicazione inviata al Parlamento.

Due date importanti 25 ottobre e 18 novembre 2011: sono queste le due date che le imprese sociali europee hanno segnato in rosso sulle loro agende. La prima ha sancito l’impegno della Commissione europea per favorire lo sviluppo del social business in Europa, con la sopraccitata comunicazione al Parlamento. Bruxelles individua gli ostacoli sulla strada delle imprese sociali e fissa una serie di misure, cadenzate in un calendario serrato, per cercare di porvi rimedio (vedi Valori di novembre 2011). Tre gli ordini di problemi individuati dalla Commissione: la difficoltà dell’accesso al credito; il basso

riconoscimento (anche da parte di investitori) e una normativa che non considera la “diversità” delle imprese sociali. Il 18 novembre, invece, a Bruxelles è andata in scena la conferenza Together to create new growth. Social entrepreneurship & social economy: developing a European ecosystem to unlock social innovation, growth and jobs. Nel titolo le parole chiave che la Commissione ormai accompagna al concetto di imprese sociali: crescita, innovazione, lavoro. Una conferenza di presentazione e discussione delle proposte per la Social Business Initiative. Tra i presenti nomi di alto livello: oltre a Manuel Barroso e Michel Barnier, il commissario per l’Occupazione, lo sviluppo sociale e l’inclusione, László Andor, ma anche i rappre-

sentanti di molti governi europei e il Nobel, simbolo del microcredito, Muhammad Yunus, padre del social business.

Un fondo… Per contribuire a risolvere il problema del finanziamento delle imprese sociali, la Commissione europea ha estratto due assi dalla manica: uno stanziamento dedicato a questa categoria di imprese e un marchio dedicato alle realtà che investono nell’economia sociale. Alla conferenza del 18 novembre, infatti, è stato annunciato un investimento da 100 milioni di euro per il 2012. Si tratta di uno stanziamento, da parte della Commissione, che sarà gestito dal Fondo europeo per gli investimenti (Fei), con l’obiettivo di «sostenere, ad ampio spettro, lo sforzo di chi sta già investendo in vari settori della social economy», hanno dichiarato a Bruxelles. «Non investirà direttamente nelle imprese – spiega Davide Dal Maso – ma in fondi nazionali che investono in imprese sociali. Non si tratta, quindi, di credito, ma di investimenti in capitale. È questa la vera novità e l’aspetto principale dell’iniziativa. Le imprese sociali, più che di accesso al credito, hanno bisogno di accesso al mercato dei capitali. Perché necessitano di crescere. E la loro natura giuridica spesso costituisce un ostacolo in tal senso. O sono cooperative oppure imprese che non possono distri-

STRUMENTI FINANZIARI finanziari “intangibili” (un mancato costo per la cittadinanza, una miglior qualità della vita o dell’ambiente sul territorio, un migliore livello dei servizi), la pubblica amministrazione – il cui ruolo è «tutto da costruire e formalizzare» – può assumersi la responsabilità della valutazione dell’intangibile, che serve a definire un rating delle imprese, come garanzia della collaborazione tra impresa sociale e finanziatori. I capitani d’impresa (sociale), se non già “imparati”, dovranno insomma guadagnare competenze per redigere un business plan aziendale che garantisca la copertura dei cosiddetti “fattori produttivi” e prendere confidenza con formule quali Social impact bond e Venture philantropy, ovvero due delle vie di “raccolta” delle risorse che il rapporto indica come di particolare interesse dal punto di vista della gestione. Anche se, sottolinea Spano, «non è il tasso di innovazione che fa il successo di uno strumento finanziario, ma la capacità di portare lo strumento giusto nel contesto adatto».

VENTURE PHILANTROPY: consiste nell’applicazione al settore non profit delle pratiche del venture capital (fornire capitale di rischio a imprese nasciture o in espansione, in settori ad alto potenziale di sviluppo), non al fine di remunerare il capitale investito, ma per ottenere il miglior risultato in termini di creazione di attività imprenditoriale e sviluppo economico e sociale. La venture philantropy investe in imprese puramente non profit o imprese non profit che gestiscono attività commerciali con un reinvestimento degli utili nella propria attività. Concretamente importa nel terzo settore metodi e strumenti di accompagnamento di impresa e di misurazione delle performance, sviluppando una vera e propria partnership tra l’investitore, l’organizzazione filantropica che gestisce il fondo, e l’impresa finanziata. Un rapporto che richiede un orizzonte temporale d’investimento di medio periodo (normalmente tra i tre e i cinque anni). SOCIAL IMPACT BOND (SIB): è un contratto tra la pubblica amministrazione e degli investitori. L’ente pubblico emette un’obbligazione (bond) per raccogliere capitali che serviranno a finanziare un progetto specifico in grado di produrre risparmi per l’ente e un migliore profitto sociale. In cambio l’ente si impegna a versare agli investitori parte degli eventuali risparmi conseguiti. Il rimborso è commisurato ai risultati. Gli investitori sociali sottoscrivendo un Sib conseguono sia un ritorno sociale, sia finanziario. Le imprese sociali, infine, vedono remunerate le proprie prestazioni e sono messe in condizione di perseguire la propria mission.

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buire utili. Entrambe le soluzioni rendono difficile l’investimento da parte di un privato. Questo strumento fornito dalla Commissione europea è la cosa giusta al momento giusto».

…e un marchio Il 7 dicembre scorso la Commissione ha presentato una proposta di regolamento per creare un mercato per i fondi di investimento in imprese sociali. Secondo il commissario Barnier le imprese sociali, «nonostante i contributi pubblici, dipendono fortemente da finanziamenti privati che operano tramite fondi di investimento destinati specificatamente alle imprese a carattere sociale. Finanziamenti che, però, sono ancora rari e difficili da individuare». Per questo la Commissione ha proposto l’introduzione di «un marchio Ue, legato al Fondo europeo per l’imprenditoria sociale, che permetterà agli investitori di reperire più facilmente i fondi specializzati nel finanziamento di imprese europee a carattere sociale». Una sorta di bollino di garanzia, quindi, per chi voglia investire in questo settore, essendo certo di finanziare imprese sociali. Ma che cos’è per la Commissione europea l’impresa sociale? Una domanda

PER BRUXELLES FINANZIARE LE IMPRESE SOCIALI NON COSTITUISCE “AIUTO DI STATO” L’annuncio è arrivato il 20 dicembre scorso: la Commissione europea ha autorizzato il Governo del Regno Unito a concedere un finanziamento (per un cofinanziamento pubblico), fino a un massimo di 400 milioni di sterline (480 milioni di euro circa!), per la costituzione di una società di investimenti sociali denominata “Big Society Capital” (BSC). Per Bruxelles in questo caso non si tratterebbe di aiuti di Stato. I giornali britannici si sono subito scatenati: “Un regalo di Natale per Cameron”, titolavano. Il Big Society Fund è un fondo che intende investire su iniziative di imprenditorialità e innovazione sociale, dando corpo alla politica della cosiddetta Big Society che ha riportato al potere il partito conservatore del Premier David Cameron. Tutto lecito, secondo l’istituzione europea, grazie all’esplicito valore sociale dell’iniziativa. Una decisione che rientra nella nuova politica di sostegno all’imprenditorialità sociale inaugurata dalla Commissione europea con la Comunicazione Social Business Initiative (vedi articolo in pagina). Il caso inglese potrebbe quindi rappresentare un importante precedente per la costituzione di altri fondi simili.

tutt’altro che semplice. Perché nei diversi Paesi europei l’economia sociale assume volti molto diversi. «La Commissione europea – spiega Dal Maso – ha adottato una definizione piuttosto ampia, per contenere le diverse versioni che si ritrovano in Europa». La Commissione europea è consapevole che sul fronte della definizione di impresa sociale esistano ancora molti punti di domanda. «Dobbiamo capire meglio con chi andremo a lavorare», ha dichiarato alla conferenza del 18 novembre il parlamentare europeo, Marc Tarabella. Sono quindi necessarie ricerche per definire le forme che l’economia sociale ha assunto nei diversi Paesi Ue. E, per il collega

Sven Giegold, «bisogna far comprendere la differenza tra un’impresa che dichiara di essere socialmente responsabile e un’impresa sociale in quanto tale». Ed è ampia anche la definizione dei fondi che possono meritare il marchio. “Basta” che investano in imprese sociali il 70% dei propri asset. «Per ora in Europa non esistono molte realtà che potrebbero beneficiare di questo marchio – dichiara Flaviano Zandonai – ma spesso è lo strumento che crea il beneficiario». E questa è una delle finalità dell’iniziativa della Commissione: favorire la nascita di nuovi fondi di investimento dedicati all’imprenditoria sociale.


| economiasolidale |

L’altra economia trova casa a Mestre di Valentina Neri

Un polo di promozione dell’economia solidale: un’osteria, il doposcuola, spettacoli a prezzi simbolici e libri in vendita grazie alla biblioteca di Mestre ALTRA ECONOMIA FUNZIONA: basta darle spazio e risorse. È questa la sfida della cooperativa Sesterzo, nata a maggio del 2010 per iniziativa di quattro associazioni (Acli, Emù, Mandragola e Movimento Consumatori). La rete di economia solidale AEres, il Comune di Venezia e la municipalità di Mestre e Carpanedo le hanno affidato la gestione del Palaplip: ex sede della centrale del latte di Mestre, oggi un centro multifunzionale da trasformare in un polo di promozione dell’economia solidale. Il percorso non è semplice e, per mesi, alcuni intoppi burocratici hanno bloccato la realizzazione dell’osteria Bem Viver, che finalmente potrà aprire i battenti a marzo. Offrirà prodotti biologici e locali e ospiterà iniziative di educazione alimentare; si tratta di un’attività essenziale per assicurare la sostenibilità economica del complesso. Il progetto, che ha preso il via nella primavera del 2011, è aperto a nuove adesioni. E prevede il vincolo di reinvestire metà degli eventuali utili per la promozione dell’altra economia nel territorio. «Finora noi della rete dell’economia solidale – afferma David Marchiori, presidente di Sesterzo – abbiamo sottolineato quanto sia importante da un lato promuovere le buone pratiche, dall’altro fare rete e raccontarsi le proprie esperienze. Questo è assolutamente giusto, ma è arrivato il momento di fare un passo avanti, entrando in relazione con tutti i corpi della città a cui restituire nuove elaborazioni».

L’

Cultura a molte facce L’OltreScuola ad esempio offre aiuto scolastico per i ragazzi in difficoltà, all’interno di un percorso più ampio che comprende attività creative e culturali: teatro, giocoleria, educazione alimentare. Ai preadolescenti è rivolto il progetto “Strada facendo”, in cui si insegna il teatro di strada, mescolando la recitazione all’acrobazia. E nel fine settimana, al prezzo simbolico di pochi euro, è possibile assistere ai concerti di docenti e allievi del Conservatorio di Venezia. La cultura, in sintesi, dev’essere per tutti. L’hanno capito i gestori della biblioteca civica di Mestre, che proprio al Palaplip mettono in vendita i libri che resterebbero inutilizzati perché già disponibili in diverse copie e, col ricavato, acquistano testi in lingua straniera per andare incontro alle esigenze dei migranti.

Per la rete dell’economia solidale è il momento di relazionarsi con la città

Il Palaplip, inoltre, ospita l’attività di ricerca che, grazie a un finanziamento del Cesve, si è concretizzata nello studio “I Gas nel Veneto”, presentato a Terra Futura, a Firenze a maggio 2011 e al Forum internazionale dell’economia sociale e solidale di Montreal a ottobre scorso. Dopo aver raccolti i dati quantitativi, si è nel pieno delle interviste approfondite ai produttori e ai Gas locali. «Questo per noi è importante – spiega David Marchiori – perché, quando ci troviamo a discutere su alcune sfaccettature del nostro agire sul territorio, manca quasi sempre il dato, la quantificazione, l’impatto territoriale. Ora invece abbiamo del materiale su cui lavorare». Il prossimo passo sarà quello di farne il primo osservatorio permanente sull’economia solidale italiana.

Il passo in più «Veniamo da un’esperienza quasi decennale – continua Marchiori – in cui il Comune di Venezia ha investito pesantemente dal punto di vista strutturale sui temi dell’altra economia. Ora si auspica un salto di qualità: le reti di economia solidale devono essere accreditate al pari di altri attori della città, che siano pubblici, privati, fondazioni o altro. Proprio in questo momento di crisi della rappresentanza politica e sociale, la rete ha più radicamento, perché proviene da un contesto associativo che è più vicino. In un territorio come il Veneto che negli ultimi anni è andato incontro a una serie di trasformazioni radicali, si sente il bisogno di ricostituire dei forti legami comunitari. E le Res, in questa dinamica, sono fra le esperienze più credibili e hanno una faccia da spendere». | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 53 |


| 54 | valori | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 |


| consumiditerritorio |

Il non innocuo elettrodomestico

Può avere effetti anche gravi sulla salute EL 2004 GLI ADOLESCENTI DI CAVRIGLIA, un paesino di circa novemila abitanti sul versante aretino delle colline del Chianti (dove una volta si estraeva la lignite), sono stati i protagonisti di un esperimento condotto dalla seconda clinica pediatrica dell’università di Firenze e dall’ospedale pediatrico Meyer. Per una settimana 74 volontari, maschi e femmine, tra i 6 e i 12 anni,

di Paola Baiocchi

non hanno guardato la televisione e non hanno usato il computer o la playstation. L’intento era di verificare sperimentalmente se l’esposizione alla televisione avesse qualche responsabilità nell’anticipo puberale. Dagli anni ’90 si è anticipato di 12 mesi l’inizio del percorso di maturazione sessuale, per cui attualmente – per il nostro ministero della Sanità – si parla di pubertà precoce per i maschi prima degli 8 anni e per le femmine prima dei 7 anni. Si sta indagando sulle cause di questo scatto in avanti dell’orologio biologico. Si sa che il sovrappeso o i precedenti familiari hanno la loro importanza, ma come spiegarsi la precocità in giovani magri e magari con una storia familiare di ritardi nella maturazione? L’ipotesi per cui il Meyer aveva chiesto la collaborazione degli adolescenti di Cavriglia era nata perché grazie a dei questionari avevano individuato in molti dei soggetti precoci una vera e propria overdose di abitudine televisiva e, per verificare se questo fattore ambientale fosse correlato con l’anticipo della pubertà, si era pensato all’esperimento sul campo. Dopo sette giorni di astinenza dal video i livelli di melatonina contenuti nelle urine dei ragazzi sono stati comparati con i campioni prelevati prima dell’inizio dell’esperimento. Dopo una

pione più vasto e sui ragazzi che frequentano la scuola steineriana che non guardano la televisione (come i figli di Berlusconi e Veronica Lario). L’ipotesi è che anche i contenuti delle trasmissioni abbiano un ruolo nell’anticipo puberale. Lo studio dei neuroni a specchio, quelli che ci permettono di provare emozioni vedendole negli altri, porta delle conferme in questa direzione. Ci spiega Chiara Ciampi, neuropsichiatra infantile al Meyer: «Le aree cerebrali attivate sia dalla visione che dall’esperienza sono vicine, nella stessa zona (corteccia cingolata anteriore e insula anteriore). I bambini, soprattutto se guardano la televisione senza un adulto che media, “assorbono” quello che vedono in tv come se fosse un esempio, e il continuo impatto visivo con stimoli erotici anche allusivi può indurre la produzione di ormoni sessuali isolati, sfasati nel tempo, anche a sei anni». In Italia i fondi mancano un po’ per tutta la ricerca, tranne per quella di carattere militare, quindi non si può fare della “dietrologia” sul perché proprio gli studi sulla televisione non abbiano potuto continuare. Ce n’è comunque abbastanza per ricordarsi di scrivere sotto il non innocuo elettrodomestico “può avere effetti anche gravi sulla salute”.

N

Le nuove Brigate Rozze. A mano armata contro la televisione Nell’ironico romanzo di Fabio Zanello (Coniglio editore, 2006), una banda di giovani, disgustati dalla perdita di valori della società, rapisce ospiti di talk show, proletari che hanno ceduto alle sirene del Grande fratello e dell’Isola dei famosi. Per riavviare un dibattito sulla televisione spento da troppo tempo.

settimana di giochi da tavolo, di letture e di chiacchiere in famiglia con la televisione spenta, la melatonina era aumentata del 30% in media. Questo ormone si abbassa con l’inizio e la progressione della pubertà e i ragazzi di Cavriglia con il Meyer hanno stabilito che l’esposizione televisiva è in grado di diminuire la secrezione della melatonina. Quindi la televisione funziona da acceleratore della pubertà. La notizia ha occupato per qualche giorno le pagine dei giornali, i cronisti hanno intervistato i giovanissimi di Cavriglia, rimanendo stupiti che i genitori fossero più provati dei figli dai giorni senza la baby sitter televisiva. Poi i riflettori si sono spenti e al Meyer è stata sospesa, per mancanza di fondi, l’annunciata continuazione della seconda fase delle ricerche, da svolgersi su un cam-

| ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 55 |


KEVIN MOLONEY / THE NEW YORK TIMES / CONTRASTO

internazionale

L’aria dell’industria costa cara all’Europa > 60 Dopo Kyoto chi penserà all’ambiente? > 62 La petromonarchia che metterebbe il velo > 63 agli “occhi seducenti” | 56 | valori | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 |


| internazionale | inquinamento/1 |

Centrale elettrica a carbone nella periferia di Boulder, Colorado.

Banche nere di Andrea Barolini

Il rapporto redatto da un gruppo di Ong punta il dito contro l’intero Gotha delle banche global. Tutte hanno concesso importanti finanziamenti alle industrie più inquinanti

come il carbone di cambiamenti climatici. E le attività antropiche, ovvero quelle generate dall’uomo, ne sono la principale causa. Ma chi sono i “finanziatori” del climate change? Chi, cioè, fornisce i capitali che confluiscono nelle casse dei principali responsabili dell’inquinamento globale? A far luce sull’aspetto finanziario del cambiamento climatico ci ha pensato un rapporto, redatto da un gruppo di Ong – tra cui la tedesca Urgewald, Earthlife Africa Johannesburg e la rete internazionale BankTrack – intitolato Bankrolling Climate Change (Finanziare il cambiamento climatico). L’analisi punta il dito contro l’intero Gotha delle grandi banche global. Nell’elenco di quelli che vengono definiti senza mezzi termini “assassini dell’ambiente” ci sono le americane JPMorgan Chase, Citigroup, Morgan Stanley, BofA; le inglesi Barclays, Rbs, Hsbc; la tedesca Deutsche Bank; le svizzere Credit Suisse e Ubs. E anche l’italiana Unicredit. Tutte, a vario titolo e in misura differente, hanno concesso importanti finanziamenti all’industria del carbone: miliardi di euro (un solo impianto da 600 MW costa in media 2 miliardi) che hanno consentito di continuare a produrre energia, generando miliardi di tonnellate di biossido di carbonio.

S

I PARLA MOLTO

Miliardi per il surriscaldamento Proprio il carbone è responsabile di circa l’80% del surriscaldamento globale (dato | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 57 |


indicato nei suoi studi da James Hansen, direttore del Goddard Space Institute della Nasa). Ma per le banche, evidentemente, il business è più importante. E così l’enorme flusso di denaro concesso all’industria ha contribuito a far sì che, nel 2010, le emissioni globali di CO2 abbiano toccato un livello record: «Ciò mette in serio pericolo l’obiettivo che ci siamo posti di limitare l’innalzamento delle temperature a un massimo di 2 gradi Celsius nel prossimo futuro», ha ammonito Faith Birol, capo economista dell’International Energy Agency, in una nota ufficiale del maggio del 2011. Il rapporto che accusa gli istituti di credito si è concentrato sui 93 gruppi più grandi del mondo, sulle 31 major minerarie più importanti (la cui produzione complessiva rappresenta il 44,4% di quella totale) e sui 40 maggiori produttori di energia dalla combustione di carbone (che possiedono da soli il 50,8% degli impianti del Pianeta). «Nella nostra analisi – ha spiegato Heffa Schücking di Urgewald –

LE 20 BANCHE CHE HANNO FINANZIATO MAGGIORMENTE IL SETTORE DEL CARBONE JPMorgan Chase

16.540

Citi

13.751

Bank of America

12.590

Morgan Stanley

12.117

Barclays

11.514

Deutsche Bank

11.477 10.946

Royal Bank of Scotland BNP Paribas

10.694

Credit Suisse

9.495

UBS

8.217

Goldman Sachs

6.770

Bank of China Industrial and Commercial Bank of China Crédit Adricole / Calyon UniCredit / HVB

6.323 6.182 5.637 5.231

China Construction Bank

5.110

Mitsubishi UFJ Financial Group

4.980

Société Générale

4.742

Wells Fargo

4.523

HSBC

4.432

[Dati in milioni di euro]

FINANZA PRIVATA E CLIMATE CHANGE : UN RAPPORTO PERICOLOSO Il ruolo della finanza privata nel processo di lotta al cambiamento climatico è stato spesso indicato come fondamentale. Se non addirittura salvifico. Non solo gli stessi istituti finanziari, ma anche il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e perfino le Nazioni Unite, negli ultimi anni hanno composto – di fatto – un coro pressoché unanime. Eppure sono pochissimi gli studi che abbiano cercato di analizzare il reale supporto “ecologico” del settore. Un rapporto dello Stockholm Environment Institute (Sei), intitolato Will Private Finance Support Climate Change Adaptation in Developing Countries?, si è proposto proprio di rispondere a questa domanda, focalizzando in particolare l’attenzione sui Paesi in via di sviluppo. Esaminando la distribuzione geografica e settoriale dei flussi di capitale, gli analisti hanno cercato di comprendere quali siano i reali benefici derivanti dalle operazioni finanziarie. Fornire conclusioni inequivocabili – sottolineano gli stessi autori – non è facile: la diversità degli investimenti, le differenti realtà locali, i tempi lunghi previsti da alcuni progetti “rendono complicato comporre il puzzle”. Ciò che emerge con chiarezza è però il tipo di operazioni “privilegiate” dal mondo della finanza. E, purtroppo, la scelta

| 58 | valori | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 |

sembra privilegiare unicamente i business che garantiscono buoni ritorni economici per chi investe. Flussi di capitali verso pochi Paesi L’analisi prende in esame la distribuzione di investimenti diretti, prestiti internazionali e altri strumenti finanziari attraverso i quali banche, compagnie d’assicurazione e fondi d’investimento concedono capitali che, in linea teorica, dovrebbero essere destinati unicamente a fronteggiare il climate change. Capitali diretti sia a progetti esistenti che a nuove iniziative. Il primo dato che emerge è l’orientamento geografico di tali flussi: la stragrande maggioranza dei finanziamenti giunge alle principali economie emergenti. Tra il 2000 e il 2002 solo cinque Paesi – Cina, Brasile, Messico, Repubblica Ceca e Singapore – hanno ricevuto quasi il 75% degli investimenti stranieri diretti. Mentre tra il 1997 e il 2002 i cosiddetti Least Developed Countries (un gruppo di 49 Stati, individuato dall’Onu, tra i quali figurano Angola, Bangladesh, Congo, Eritrea, Etiopia, Mozambico, Myanmar, Senegal, Ruanda, Sudan) si sono dovuti accontentare del 3%. Nonostante essi rappresentino (secondo i dati 2011 dell’Agenzia delle Nazioni Unite Unfpa) il 12% della popolazione mondiale.

FONTE: “BANKROLLING CLIMATE CHANGE”, PUBBLICATO DA URGEWALD, GROUNDWORK, EARTHLIFE AFRICA JOHANNESBURG E BANKTRACK, DICEMBRE 2011.

| internazionale |


| internazionale |

abbiamo preso in considerazione in particolare i finanziamenti erogati alle centrali alimentate a carbone, dal momento che esse costituiscono il pericolo maggiore per l’ecosistema». Il risultato è che, grazie a 1.405 transazioni individuate dal 2005 a oggi, le banche hanno elargito qualcosa come 232 miliardi di euro: in particolare prestiti e investimenti, che costituiscono l’88% del flusso totale di capitali. E, in barba alle preoccupazioni ambientali, il trend è persino in aumento. La gran parte di tale gigantesca quantità di capitali è arrivata da 20 banche, le “top killer” individuate dalle Ong (vedi GRAFICO ): in testa quattro gruppi americani – JPMorgan Chase, Citigroup, Bank of America e Morgan Stanley – che complessivamente hanno finanziato l’estrazione e lo sfruttamento del carbone con quasi 55 miliardi di euro. Quindi c’è la britannica Barclays con 11,5 miliardi, la tedesca Deutsche Bank con 11,4 e, via via, tutti i nomi noti della finanza mondiale (Unicredit ha garantito 5,2 miliardi).

Pennellate di verde Ci sono proprio le banche, dunque, dietro l’inquinamento prodotto dal carbone. Per questo numerosi gruppi si sono lanciati negli anni scorsi in campagne “proclima” che, secondo Banktrack, hanno il chiaro sapore del greenwashing: niente più che una “riverniciata” di verde. In realtà, l’attenzione ambientale delle banche è storicamente carente. Basti pensare che per anni i grandi gruppi hanno preferito calcolare il proprio impatto ambientale considerando solamente le emissioni “dirette”, ovvero quelle derivanti, ad esempio, dagli spostamenti dei

Terra e acqua trascurate In secondo luogo ad allarmare è il fatto che settori fondamentali per l’ambiente e gli ecosistemi, come quello idrico e quello agricolo, ricevano pochissimi capitali. Tra il 2005 e il 2007 gli investimenti diretti in agricoltura, foreste e pesca sono stati di soli 3 miliardi di dollari. Una cifra irrisoria se si considera il peso del comparto agricolo nelle emissioni nocive per l’ambiente (di gran lunga il settore più inquinante, anche rispetto all’industria o ai trasporti). E, soprattutto, se si tiene conto che, secondo le cifre della Banca mondiale, la media degli investimenti stranieri diretti verso i Paesi in via di sviluppo è stata pari – tra il 2003 e il 2010 – a 310 miliardi di dollari: i 3 miliardi destinati all’agricoltura rappresentano dunque lo 0,8% del totale. Per non parlare della costruzione di infrastrutture per l’acqua potabile o il sostegno alle piccole colture locali in Africa, che risultano quasi del tutto snobbate dalla finanza privata (a parte qualche raro caso, citato dal Sei, in Zambia, Zimbabwe, Etiopia, Tanzania). Disarmante il dato relativo all’educazione: «Non abbiamo riscontrato alcun investimento – si legge nel rapporto – né sull’istruzione, né sulla sanità o i servizi sociali. L’unico caso è relativo alla Tanzania, e vale lo 0,1% degli investimenti diretti verso tale Paese nel 1999».

dipendenti, dagli impianti per l’aria condizionata o per il riscaldamento. E quando hanno accettato di tenere conto anche del contributo “indiretto”, lo hanno fatto con escamotage che mostrano chiaramente quale sia la reale sensibilità dei top manager nei confronti dei temi ambientali. Alcune importanti banche americane e Credit Suisse, ad esempio, nel 2008 hanno firmato i Carbon Principles, che puntavano proprio a ridurre i finanziamenti al settore del carbone. Ma si è pensato bene di limitare la restrizione solo ai capitali destinati ai nuovi impianti costruiti negli Usa. Una vera e propria presa in giro.

A sinistra l’impianto a lignite nel Land del Brandeburgo, sul confine tedesco-polacco. A destra la copertina del rapporto “Bankrolling Climate Change”.

Ad attrarre maggiormente, invece, sono i progetti su larga scala, soprattutto se orientati all’export: proprio quelli che in molti casi determinano i vantaggi minori non solo per l’ecologia globale ma anche e soprattutto per il miglioramento delle condizioni economiche delle popolazioni locali. Banche poco collaborative E anche l’atteggiamento del mondo finanziario rispetto alla stessa stesura del rapporto del Sei è apparso poco collaborativo: «Mi sarei aspettato – ha spiegato al sito specializzato Environment-finance.com uno degli autori dello studio, Aaron Atteridge – un impegno più attivo nel sostenere l’analisi. Soprattutto speravo di poter usufruire delle loro esperienze per quantificare la quota dei finanziamenti davvero utile alla lotta al cambiamento climatico». Gli istituti finanziari hanno fornito, infatti, misurazioni dei flussi di capitale quasi sempre quantitative e non qualitative. Il che lascia intendere come l’importante sia, sempre e comunque, finanziare e ottenerne un ricavo. È la regola d’oro del business privato. E non sembra che ci sia l’intenzione di rinunciarvi quando in gioco c’è l’ecosistema globale. Andrea Barolini

| ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 59 |


| internazionale | inquinamento/2 |

L’aria dell’industria costa cara all’Europa di Corrado Fontana

talvolta, non fa per niente bene (se l’aria è inquinata). Né alla salute delle persone né alle casse degli Stati. Può pesare per una cifra compresa tra 200 e 330 euro l’anno per ogni cittadino europeo. Il calcolo, relativo al solo 2009, proviene da un documento – Revealing the costs of air pollution from industrial facilities in Europe – pubblicato lo scorso novembre dall’Eea (European Environment Agency, ovvero l’Agenzia europea dell’ambiente - Aea) di Copenhagen, che ha analizzato le emissioni in atmosfera di sostanze inquinanti di diecimila stabilimenti industriali, i peggiori sotto questo profilo, valutandone il danno economico per la collettività.

Palma “d’oro” alle centrali elettriche Considerando che le stime dell’Agenzia sono state calcolate utilizzando i dati sulle emissioni indicate dagli stessi impianti e che queste cifre sono state vagliate – precisa la professoressa Jacqueline McGlade, direttrice di Eea – con gli «strumenti impiegati dai decisori politici per valutare i danni alla salute e all’ambiente», appare preoccupante la dimensione dell’esborso annuo (da 102 a 169 miliardi di euro), che tocca ai contribuenti per attività in buona parte di natura privata. Lo studio rivela all’opinione pubblica comunitaria i costi nascosti dell’inquinamento atmosferico, per oltre la metà (da 51 a 85 miliardi di euro) ascrivibili a soli 191 stabilimenti e per tre

I COSTI DEI DANNI AGGREGATI PER PAESE, COMPRESA LA CO2

[Dati in milioni di euro]

Nota: La differenza tra livelli alti e bassi deriva dai 2 diversi approcci utilizzati per valutare la mortalità derivante da inquinanti atmosferici regionali.

35.000 30.000 25.000

I COSTI DEI DANNI AGGREGATI PER SETTORE

[Dati in milioni di euro]

120.000

Nota: La differenza tra livelli alti e bassi deriva dai 2 diversi approcci utilizzati per valutare la mortalità derivante da inquinanti atmosferici regionali.

100.000 80.000

20.000 60.000 15.000

Coefficiente VOLY per inquinanti regionali * vedi legenda nella pagina accanto

| 60 | valori | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 |

Coefficiente VSL per inquinanti regionali

Coefficiente VOLY per inquinanti regionali * vedi legenda nella pagina accanto

Agricoltura

Rifiuti

Uso di solventi

0

Combustibili fossili, estrazione, lavorazione

0

Processi produttivi

20.000

Produzione combustione

5.000

Energia

40.000

10.000

Germania Polonia Regno Unito Francia Italia Romania Spagna Repubblica Ceca Bulgaria Olanda Grecia Belgio Slovacchia Finlandia Ungheria Portogallo Svezia Austria Norvegia Danimarca Irlanda Estonia Svizzera Slovenia Lituania Cipro Lussemburgo Malta Lettonia

FONTE: “REVEALING THE COSTS OF AIR POLLUTION FROM INDUSTRIAL FACILITIES IN EUROPE” (2011), RAPPORTO DELL’EUROPEAN ENVIRONMENT AGENCY (EEA)

R

ESPIRARE A PIENI POLMONI,

quarti generati dalle emissioni di appena 622 impianti industriali. Le sostanze prese in esame sono inquinanti atmosferici (NH3, NOx, PM10, SO2), metalli pesanti (arsenico, cadmio, cromo, piombo, mercurio e nichel), microinquinanti organici (benzene, idrocarburi policiclici aromatici-IPA, diossine e furani), e CO2. Oggetto dell’analisi sono grandi centrali elettriche, raffinerie, strutture industriali con processi di produzione e combustione o trattamento dei rifiuti, oltre ad alcune attività agricole. Ma non c’è gara sulla ripartizione del danno per tipologia di produzione: la quota maggiore se la aggiudicano le centrali elettriche (66-112 miliardi), seguite con ampio distacco da impianti dove si svolgono processi produttivi (23-28 miliardi) e di combustione (8-21 miliardi). Senza contare che sono rimaste escluse dall’analisi le emissioni derivanti dai trasporti, dalle attività delle famiglie e di mol-

Coefficiente VSL per inquinanti regionali

FONTE: “REVEALING THE COSTS OF AIR POLLUTION FROM INDUSTRIAL FACILITIES IN EUROPE” (2011), RAPPORTO DELL’EUROPEAN ENVIRONMENT AGENCY (EEA)

Diecimila grandi impianti avvelenano l’aria e impoveriscono i cittadini con costi sociali esorbitanti. Oltre metà del danno viene da meno di duecento stabilimenti. E l’Italia figura nella Top 20


LOCALIZZAZIONE DEI 191 IMPIANTI CHE HANNO CONTRIBUITO PER IL 50% DEI COSTI DEI DANNI STIMATI NEL 2009

SITOGRAFIA www.eea.europa.eu/it EEA - European Environment Agency

te altre produzioni agricole. Quanto alla distribuzione geografica degli “inquinatori”, Paesi come Germania, Polonia, Regno Unito, Francia e Italia, dove si trova un elevato numero di strutture di grandi dimensioni, contribuiscono maggiormente ai costi in termini assoluti, ma se si rapporta il danno causato ai livelli di produzione delle economie nazionali, a scalare la classifica sono altre economie (Bulgaria, Romania, Estonia, Polonia e Repubblica Ceca).

-30°

-20°

-10°

10 °

20 °

30 °

[Dati in milioni di euro] 40°

50 °

60°

70 °

< 200 200-350 350-600 600-900 > 900

60°

50 °

FONTE: “REVEALING THE COSTS OF AIR POLLUTION FROM INDUSTRIAL FACILITIES IN EUROPE” (2011), RAPPORTO DELL’EUROPEAN ENVIRONMENT AGENCY (EEA)

| internazionale |

50 °

BRINDISI POCO CONVENIENTE

LEGENDA VSL (valore di vita statistica) e VOLY (valore di un anno di vita perduto) sono due metodi di valutazione dei costi della mortalità. Il primo si basa sul numero di decessi associati all’inquinamento atmosferico, il secondo sulla perdita di aspettativa di vita (espresso in anni di vita persi).

40°

40°

0

500

1000

1500 km 10 °

20 °

30 °

40°

LE TOP 20 DEI COSTI: SONO TUTTI IMPIANTI DI GENERAZIONE DI ENERGIA Nome dell’azienda

Paese

1

PGE Elektrownia Bełchatów S.A.

Polonia

[Dati 2009]

Costi aggregati [milioni di euro] VOLY low VSL high 1.550

2.518

2

TETs Maritsa Iztok 2, EAD

Bulgaria

1.432

3.339

3

Vattenfall Europe Generation AG Kraftwerk Jänschwalde

Germania

1.232

2.002

4

RWE Power AG Bergheim

Germania

1.130

1.560

5

Drax Power Limited

Regno Unito

1.026

1.625

6

Complexul Energetic Turceni

Romania

889

2.082

7

RWE Power AG Eschweiler

Germania

824

1.135

8

RWE Power AG Kraftwerk Neurath

Germania

781

1.095

9

RWE Power AG Kraftwerk Frimmersdorf

Germania

742

1.051

10 PGE Elektrownia Turów S.A.

Polonia

722

1.299

11 Vattenfall Europe Generation AG Kraftwerk Boxberg

Germania

713

1.059

12 PPC S.A. SES Megalopolis A’

Grecia

692

1.609

13 Elektrownia “Kozienice” S.A.

Polonia

688

1.246 1.107

14 Vattenfall Europe Generation AG Kraftwerk Lippendorf

Germania

677

15 PPC S.A. SES Agioy Dhmhtrioy

Grecia

629

944

16 Complexul Energetic Rovinari

Romania

611

1.376 949

17 Elektrárny Pruné ov

Repubblica Ceca

541

18 Centrale Termoelettrica Federico II (BR Sud)

Italia

536

707

19 Longannet Power Station

Regno Unito

527

1.018

495

731

20 Vattenfall Europe Generation AG Kraftwerk Schwarze Pumpe Germania

* LA TABELLA INTEGRALE, CON LE QUANTITÀ DI SOSTANZE INQUINANTI EMESSE DA OGNI IMPIANTO, È DISPONIBILE SUL SITO DI WWW.VALORI.IT

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FONTE: “REVEALING THE COSTS OF AIR POLLUTION FROM INDUSTRIAL FACILITIES IN EUROPE” (2011), RAPPORTO DELL’EUROPEAN ENVIRONMENT AGENCY (EAA)

A Giuseppe Onufrio, direttore esecutivo di Greenpeace, abbiamo chiesto di commentare la situazione dell’unico stabilimento italiano citato per “nome e cognome” nel rapporto dell’Eea, ovvero la centrale Enel di Brindisi Sud. «Il rapporto Revealing the costs of air pollution from industrial facilities in Europe (2011) riporta i costi esterni associati alla centrale relativamente ai soli macroinquinanti (CO2, NOx, SOx e PM), riportandoli in una cifra compresa tra 536 e 707 milioni di euro per l’anno 2009. Dalla stima riportata si può evidenziare come questi costi esterni – danni ambientali dovuti all’inquinamento – siano dello stesso ordine di grandezza dei ricavi lordi prodotti dalla centrale. Infatti nel 2009 l’impianto ha prodotto circa 15 miliardi di kWh. Ai costi operativi stimati per il 2009 per le centrali a carbone dall’Osservatorio energia dell’Associazione italiana economisti dell’energia, si desume un costo totale di circa 270 milioni di euro. Considerato il prezzo medio di vendita dell’elettricità nel 2009, i 15 TWh (terawatt) hanno generato un ricavo di circa 964 milioni di euro e un ricavo di oltre 690 milioni di euro, al lordo delle spese fisse. Dunque: il limite superiore dei costi esterni dovuti all’inquinamento prodotto dalla centrale di Brindisi corrisponde abbastanza bene ai ricavi lordi generati nel corso dell’anno. I vantaggi economici di produrre a carbone sono incamerati dall’azienda, mentre una cifra simile è scaricata come costi ambientali sulla società».


| internazionale | cambiamenti climatici/3 |

Dopo Kyoto chi penserà all’ambiente? di Alberto Zoratti

La conferenza sui cambiamenti climatici di Durban è stata un tentativo di tenere in piedi la speranza di un accordo

chiarisce come, dei 30 miliardi di dollari all’anno entro il 2012 decisi a Cancun nel 2010, ne siano arrivati solo 2,4.

E LA COPERTINA DEL 2011 dedicata al “personaggio dell’anno” del settimanale americano Time è stata dedicata alla figura del manifestante ci sarà pur bene una ragione. A ben vedere è ancor più significativo pensare a chi non è stata dedicata la copertina. E fra i tanti “vorrei ma non posso” andrebbero inserite, loro malgrado, le diplomazie mondiali presenti all’ultima Conferenza delle Parti Onu sul clima che si è tenuta a Durban in Sudafrica nel dicembre scorso. La quindici giorni negoziale si è conclusa con un applauso liberatorio un giorno e mezzo dopo la sua chiusura programmata. Ma non è stato un successo, se con questo termine intendiamo un momento storico dove le decisioni prese potrebbero cambiare il corso degli eventi. Al contrario la Conferenza è stata un ulteriore tentativo di tenere in piedi la speranza di un accordo globale, realmente efficace, contro un clima che sempre più sta cambiando. Un impegno di tutti che può essere raggiunto solo se uno spazio multilaterale come la Conferenza Onu non deraglia, come si è rischiato due anni fa nella fredda Copenhagen.

Defezioni dell’ultimo minuto

S

Le promesse di Durban Tre temi erano sul tavolo a Durban: il secondo periodo di impegni a cui i Paesi industrializzati, sotto il Protocollo di Kyoto, dovranno sottostare alla scadenza naturale della prima fase dell’accordo, prevista per il dicembre 2012. La decisione presa è che un periodo post-Kyoto (2012-2017) ci | 62 | valori | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 |

sarà, ma resta ancora da decidere quali impegni di taglio delle emissioni i Paesi ricchi prenderanno. Prossima occasione per saperlo? La Conferenza di Doha del dicembre 2012. Il secondo tema era la necessità di un accordo che comprendesse tutti, grandi e piccoli, vecchi e nuovi, inquinatori. Per evitare che gli appelli al “fare presto” della comunità scientifica internazionale cadano nel vuoto. L’accordo trovato è, ancora una volta, appeso a un filo, perché si è concordato di trovare un quadro generale entro il 2015 che entri in vigore nel 2020. Tra 8 anni e senza la garanzia di regole vincolanti. Il terzo tema era il fondo di finanziamento per i Paesi in via di sviluppo da 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020. È stato riconfermato, ma non si è deciso né le fonti né una sua reale indipendenza dal condizionamento dei privati e della Banca Mondiale. E sui fondi decisi gli anni passati, a cominciare da Copenhagen, la situazione è pessima, come denuncia la ministra degli Esteri del Bangladesh che

E il 2011 si è chiuso con altre due, pessime, sorprese. Il Canada ha scelto di chiudere definitivamente con il Protocollo di Kyoto perché troppo vincolante per le sue ambizioni di sfruttare le sabbie bituminose dell’Alberta, miliardi di barili di petrolio potenziali, la cui estrazione è fino a cinque volte più inquinante di quella convenzionale con le trivelle. E l’India, per bocca della sua ministra all’Ambiente, ha chiarito di non essere intenzionata a sottostare a obblighi vincolanti che mettano il guinzaglio alla sua crescita esplosiva. Così si apre l’anno nuovo, che vedrà alla fine di giugno Rio+20, il summit sullo sviluppo sostenibile e la green economy a vent’anni da quello più famoso del 1992. Un appuntamento che rischia di diventare l’icona di un modo distorto di leggere la lotta al cambiamento climatico perché a un fallimento del mercato e alle sue esternalità si sta cercando di rispondere con soluzioni di mercato, senza interventi reali e concreti dal punto di vista regolatorio. Il progressivo aumento della concentrazione di CO2, che sta veleggiando verso le 400 ppm (una concentrazione atmosferica che ritroviamo solo in certe epoche preistoriche), dimostra che solo con la green economy o con il mercato del carbonio non si raggiunge l’obiettivo. E la prossima Conferenza delle Parti, durante la quale si potrà decidere qualcosa, avverrà tra un anno a Doha, nel Qatar, membro emerito dell’Opec. Anche simbolicamente, una prospettiva preoccupante.


| internazionale | osservatorio medio oriente/Arabia Saudita |

La petromonarchia che metterebbe il velo agli “occhi seducenti” SALAH MALKAWI / THE NEW YORK TIMES / CONTRASTO

di Paola Baiocchi

Il più grande tra i Paesi del Golfo Persico rafforza da anni la sua influenza finanziando formazioni politiche, movimenti e terroristi islamici. Mantenendo sempre rapporti privilegiati con gli Stati Uniti CONCLUSIONE dell’anno delle “primavere arabe”, lo scorso 19 dicembre, si è svolto l’incontro dei sei Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg): Arabia Saudita, Bahrein, Qatar, Oman, Emirati Arabi Uniti, Kuwait. L’incontro ha stabilizzato un ampio fronte sunnita, in funzione di contenimento dell’Iran sciita e di appoggio alle realtà più conservatrici del Medio Oriente, che le petromonarchie del Golfo stanno finanziando, soprattutto in Egitto. Re Abd Allāh d’Arabia ha auspicato la formazione di una singola entità tra le sei monarchie, che in futuro possa includere anche realtà sunnite che non si affacciano sul Golfo. Il Ccg pensa ora di organizzare un sistema comune di difesa più rapido e potente e una più stretta collaborazione tra i servizi segreti. Il fine è quello di arrivare a un esercito del Golfo, in cui l’Arabia Saudita farà la parte del leone.

A

Secondo produttore mondiale di petrolio, con 9.764.000 barili al giorno (la Russia, che è il primo produttore, estrae 10.120.000 barili/giorno), l’Arabia Saudita è detentore del 24% delle riserve petrolifere mondiali, ma non ha corsi d’acqua perenni e dipende per l’approvvigionamento idrico dagli impianti di desalinizzazione dell’acqua di mare.

La dinastia al Saud Abdulaziz, il capostipite del terzo regno degli al Saud, morto nel novembre del 1953, durante la sua vita non aveva mai avuto più di quattro mogli legittime contemporaneamente, come permette la Sharia, ma divorziava regolarmente e sostituiva le mogli, scegliendole per aggiustare i rapporti tra i rami cadetti della dinastia o per cooptare una tribù. Si era poi circondato di schiave e concubine. Una famiglia reale con 350 discendenti

diretti del capostipite e settemila membri della famiglia reale tra i quali scegliere il re, sono un problema per l’Arabia Saudita, il Paese che occupa circa l’80% della penisola arabica, dove, delle quattordici successioni avvenute nella dinasta al Saud tra il 1744 e il 1891, solo tre sono state pacifiche. Quasi tutte le altre hanno visto uccisioni, guerre civili e interventi stranieri. Attuale re è Abd Allāh, figlio di Abdulaziz, nato nel 1924, che si è recentemente “sbilanciato” nella promessa del voto alle donne nel 2015, che potranno anche candidarsi nelle elezioni municipali, l’unico tipo di elezioni che si celebrano in Arabia Saudita. Nel frattempo alle donne non viene dato il permesso di guidare la macchina, non possono fare compere non accompagnate, devono portare il velo e una veste lunga e informe in pubblico. E, se hanno occhi “troppo sensuali”, possono | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 63 |


| internazionale |

È del principe ereditario Nayef la decisione di accogliere Ben Alì, dopo la caduta del suo regime in Tunisia, nel gennaio 2011 sentirsi intimare di coprirli con un velo dalla “Commissione per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio”, ovvero la polizia religiosa che controlla il rispetto delle norme della Sharia. Dopo la morte il 21 ottobre 2011 di Sultan, erede al trono designato, la scelta del successore è stata per la prima volta affrontata da un “Consiglio di fedeltà” di principi al Saud, che tuttavia ha confermato la scelta già fatta da re Abd Allāh nella persona di Nayef, ministro degli Interni dal 1975 e primo ministro dal 2009.

Pugno di ferro contro gli sciiti

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Proclamato Stato unitario indipendente da Abdulaziz, il 23 settembre 1932, è il terzo regno degli al Saud, dai quali prende il nome. Il primo regno saudita fu creato nel 1744 da Muhammad bin Saud, che aveva stretto alleanza con il fondatore del wahabismo, il riformatore religioso Muhammad bin Abdul al-Wahh b, che predicava un ritorno alla religione delle origini con la cancellazione di tutte le innovazioni apportate nel tempo. Il regno di Muhammad durò fino al 1818, quando venne disfatto dall’esercito egiziano. Il secondo regno si ricostituì nel 1822, arrivando alla sconfitta definitiva della famiglia rivale l Rash d nel 1921. Il regno attuale risulta dall’unione dei regni di Hij z e Najd e degli emirati di ’Asir, Najran e Al Hasa. L’Arabia Saudita è un Paese teocratico con una monarchia assoluta, dove il re, il cui titolo ufficiale è “custode delle sante moschee” – Mecca e Medina – detiene il supremo potere legislativo ed esecutivo, affiancato dalla Shura, un Consiglio composto da 150 membri di sua nomina, con limitati poteri. Il sistema legale è la legge islamica, la Sharia, con alcuni elementi di diritto egiziani e francesi: comprende pene corporali come le fustigazioni e il taglio delle mani per i ladri. La pena di morte è prevista per i reati di omicidio, stupro, rapina a mano armata o in autostrada, stregoneria, adulterio, sodomia, omosessualità, sabotaggio e apostasia, cioè rinuncia della religione islamica: viene eseguita per lapidazione, impiccagione o decapitazione. Secondo il rapporto 2008 di Amnesty International in Arabia Saudita vengono mandate a morte, in media, più di due persone a settimana. Quasi la metà delle esecuzioni (e si tratta di una percentuale sproporzionata in rapporto alla popolazione locale) riguarda cittadini stranieri provenienti da Paesi poveri e in via di sviluppo. La scoperta del petrolio nel 1938 ha proiettato l’Arabia Saudita da una posizione marginale a una nodale nelle relazioni internazionali.

IL PAESE IN CIFRE Governo: monarchia assoluta. Unificazione del regno: 23 settembre 1932. Capitale: Riyadh. Territorio: 2.149.690 kmq, che lo pongono nella classifica mondiale al 13° posto per grandezza, ma i confini meridionali con gli Emirati Arabi Uniti e con l’Oman non sono precisamente definiti, per cui alcune stime lo valutano di 1.960.582 kmq. Terre irrigate: 17.310 kmq (2008). Popolazione: 26.131.703 (stima luglio 2011). Composizione della popolazione: arabi 90%, africani/asiatici 10%. Religione: al 100% musulmana. Età media: 25,3 anni. Mortalità infantile: 16,16 morti/1.000 nati. Aspettativa di vita: 74,11 anni. Spese per l’educazione: 5,6% del Pil (2005). Alfabetizzazione*: 78,8% totale (84,7% maschile, 70,8% femminile). Pil: 622 miliardi dollari (2010 stima). Pil, tasso di crescita reale: 3,7% (stima 2010). Pil pro capite: $ 24.200 (stima 2010). Disoccupazione giovani** tra i 15-24 anni: 28,2% (2008), posizione nella graduatoria mondiale 17°. Disoccupazione totale**: 10,8% (stima 2010), posizione nella graduatoria mondiale 117°. * persone di 15 anni e oltre che sanno leggere e scrivere ** il dati sono riferiti solo ai maschi sauditi

DATI: CIA WORLD FACTBOOK 2012

Nayef è un conservatore, sia sotto il profilo religioso che politico. Da lui non si aspettano riforme al sistema giudiziario. È un sostenitore della linea dura nei confronti delle minoranze sciite: nel marzo del 2011 Nayef ha dispiegato le forze di sicurezza nelle province orientali dell’Arabia a maggioranza sciita, dove si erano manifestati tentativi di rivolta. Ha deciso anche l’invio di truppe e blindati nel Bahrein a sostegno della famiglia Khalifa e contro le manifestazioni organizzate dalla maggioranza sciita. Va ricordato, poi, che è del principe ereditario la decisione di accogliere Ben Alì dopo la caduta del regime in Tunisia nel gennaio del 2011 e che Nayef è stato uno degli imputati nel processo, poi archiviato, avviato dalle famiglie delle vittime dell’11 settembre. Sui molto complessi rapporti con il terrorismo tenuti dall’Arabia Saudita, spiega qualcosa il cable pubblicato da WikiLeaks, scritto dal segretario di Stato Hillary Clinton nel dicembre 2009 e classificato “segreto”. La Clinton scrive: «Nonostante l’Arabia Saudita abbia intensificato i suoi sforzi, dal Paese partono la maggior parte dei finanziamenti ai movimenti terroristici sunniti in tutto il mondo» tra cui «Al Qaeda, i Talebani, Lashkar-e-Taiba (movimento pakistano, ndr) e altri, come Hamas».

DAL NOMADISMO AL FUTURO, PASSANDO PER IL PETROLIO


| islamfinanzasocietà |

Né fiori né primavera

Cosa succede in Siria?

| euronote |

Agricoltura e pesca

Sussidi oppure incentivi contro l’ambiente

di Federica Miglietta*

dall’ombelico dell’Europa Roberto Ferrigno

A QUALI NOTIZIE ancora dobbiamo ascoltare prima di prendere una posizione sugli orrori siriani? E come è possibile che una nave russa sospettata di trasportare tra le 36 e le 60 tonnellate di armi ed esplosivi abbia potuto aggirare l’embargo europeo con la sola dichiarazione alle autorità cipriote che non avrebbe più attraccato in Siria bensì in Turchia? Proviamo a dare un senso alle 35 tonnellate e ipotizziamo che la metà siano armi (circa 18 tonnellate) e l’altra parte esplosivo. Se un fucile d’assalto pesa (con il caricatore) circa 3 chili e un fucile semiautomatico circa 5 chili, vuol dire che la nave ha trasportato svariate migliaia di fucili ed esplosivo sufficienti a decimare gli oppositori del regime per molto altro tempo. E mi sconcerta l’inettitudine delle forze politiche in campo nel tentativo di risolvere la crisi. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu è bloccato dal vigliacco appoggio russo alla Siria (e, infatti, la nave di armi proveniva proprio dalla Russia) e non è neppure in grado di parlare con voce unica, per mezzo di una risoluzione, per condannare il regime di Bashar al-Assad. La Lega Araba parla di soluzione politica e si affida ad Hamas, che pure non disdegna le armi e il terrore. Ma a quale soluzione politica si allude? Perché in nessuna delle rivolte della Primavera araba si fa mai cenno al “dopo” in termini di concreto rispetto dei diritti umani, di disarmo, di abbandono della violenza? Non vorrei che la Siria fosse l’ennesima riedizione del fallimento totale della politica estera dei nostri Paesi: sarebbe forse il caso di fare tesoro degli errori macroscopici commessi in Tunisia, Egitto e Libia. Ci siamo resi conto che, mentre il mondo guarda la Siria e inneggia alla Primavera araba, in piazza Tahrir i militari picchiano e torturano le donne? La giunta militare sarebbe il risultato della Primavera araba o non piuttosto un nuovo regime turpe, violento, privo di scopi, se non quello di rimanere al potere? E in Libia cosa sta succedendo sotto il controllo dei capi militari che si sono esercitati nei campi talebani in Afghanistan? Insomma, i nostri governi si rendono conto che non basta armare le braccia dei militari, bombardare, distruggere, promettere per poi abbandonare, per fare fiorire una reale Primavera? Non bisognerebbe negoziare in modo concreto l’abbandono delle violenze prima di intervenire e di finanziare gruppi uguali se non peggiori dei precedenti? Cosa importa che gli autori non siano più Moubarak o Gheddafi? Chi li ha seguiti non sembra migliore: laddove c’erano violenza, sopraffazione e morte non è nato nulla di buono; mi spiace dirlo, ma abbiamo fallito: non un fiore è venuto dalla Primavera.

COMMISSIONE EUROPEA negli scorsi mesi ha adottato due proposte fondamentali per la futura organizzazione delle politiche comuni su agricoltura e pesca, che non prevedono alcun serio scenario di sostenibilità ambientale. I governi nazionali quindi si danno battaglia su come spartirsi oltre 400 miliardi di sussidi agricoli e pescherecci che provocheranno un’ulteriore distruzione e desertificazione dei nostri mari e suoli nel prossimo decennio. Invocando la crisi economica e, soprattutto, con l’occhio alle elezioni presidenziali francesi (2012) e quelle politiche tedesche e italiane (2013), i sussidi pubblici verranno utilizzati per perpetrare pratiche dannose e pericolose per l’ambiente e, possibilmente, per diminuire i già scarsissimi controlli, sia a terra che in mare. Una nota confidenziale relativa alla prima discussione a livello governativo sulla politica europea della pesca dopo il 2013 riporta la preoccupazione di numerosi governi per gli oneri che i controlli sulla pesca illegale possono causare all’amministrazione pubblica che è “in via di riduzione” per esigenze di bilancio. Diversi governi poi notano che nella proposta della Commissione ci sono “troppi riferimenti alla necessità di proteggere l’ambiente”. D’altra parte Bloomberg ha dichiarato che nel 2011 gli investimenti globali nelle energie rinnovabili hanno superato i 200 miliardi di euro, con un incremento del 5% rispetto al 2010. L’anno scorso gli Usa hanno addirittura superato la Cina nella corsa all’utilizzo delle rinnovabili, nonostante la virulenta campagna a favore delle lobbies petrolifere condotta dal Partito Repubblicano. L’elemento interessante in questo quadro è che la vasta maggioranza di questi soldi proviene da investitori privati. Al contrario, sia l’amministrazione Obama che i governi europei, tagliano drasticamente gli incentivi alle rinnovabili, aumentando invece i sussidi alle attuali, inquinanti e distruttive pratiche dell’agricoltura e pesca industrializzate. Appare quindi lampante la fondamentale divergenza tra leader politici che difendono interessi ancora potenti, ma ormai obsoleti e dannosi, e fette sempre più consistenti di investitori e operatori economici che puntano al futuro sostenibile. Chissà se gli elettori ne terranno conto.

M

* Ricercatrice di Economia degli intermediari finanziari presso la facoltà di Economia all’università di Bari e presso l’università Bocconi di Milano.

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altrevoci FRANCIA LA SICUREZZA NUCLEARE COSTA MILIARDI La follia nucleare peserà ancora sulla popolazione francese: in termini di rischi per la salute dei cittadini e di costi, sotto forma di contributi. Secondo un rapporto dell’Agenzia per la sicurezza nucleare (Asn), occorrerà programmare un investimento di oltre 10 miliardi di euro per mettere in sicurezza le centrali transalpine. Spesa che crescerà «a circa 40 miliardi per i prossimi 30 anni, considerando i 58 reattori attivi», ha aggiunto Jean-Marc Miraucourt, capo ingegnere del colosso dell’energia Edf. Intanto il 5 dicembre scorso Greenpeace ha dimostrato la scarsa sicurezza delle centrali francesi: otto attivisti riuscirono a penetrare nell’impianto di Nogent-sur-Seine, a 95 km da Parigi. Eppure la stessa Asn all’inizio di gennaio aveva concesso il proprio via libera per il futuro prossimo: gli impianti, secondo l’agenzia di vigilanza, hanno infatti «un livello di sicurezza sufficiente». A patto, appunto, di sborsare valanghe di miliardi. E il costo medio dell’energia fornita da Edf passerà da 46 euro per Megawattora a 50 euro. [A.BAR]

CRESCONO GLI INVESTIMENTI IN ENERGIE PULITE Nel 2011, in tutto il mondo, gli investimenti nelle fonti energetiche green sono arrivati a 260 miliardi di dollari: la crisi, in sintesi, non è riuscita a fermare del tutto la crescita, che ha visto un +5% rispetto all’anno precedente. Lo dimostra il rapporto Bloomberg New Energy Finance. A ricoprire un ruolo da protagonista sono gli investimenti in energia solare, che hanno guadagnato addirittura il 36% in un anno, arrivando a quota 136,6 miliardi di dollari: un dato ancora più significativo se si considera il crollo dei prezzi delle principali componenti, che tuttavia è stato compensato dal numero di installazioni. Un pesante passo indietro, al contrario, per l’eolico: gli investimenti sono scesi del 17% in un anno. Mentre cresce il ruolo di India (che col +52% raggiunge i 10,3 miliardi di dollari) e Brasile (+15% e 8,2 miliardi), per la prima volta dal 2008 gli Stati Uniti tornano a superare la Cina, con 56 miliardi di investimenti a fronte dei 47,4 del gigante asiatico. L’Europa si mantiene stabile con 100,2 miliardi di dollari, vale a dire il 3% in più rispetto al 2010. [V.N.]

BRASILE E RUSSIA NEL GOTHA DELL’ECONOMIA GLOBALE

BIODIVERSITÀ DA NON DIMENTICARE

La crisi continua a modificare la geo-economia globale, a vantaggio soprattutto dei Paesi emergenti. Come noto, la Cina ha superato il Giappone, imponendosi come seconda economia del mondo, dopo gli Stati Uniti. A dicembre, secondo un’analisi del Center for Economics and Business Research (Cebr) di Londra, il Brasile ha superato il Regno Unito, diventando così il sesto sistema a livello globale, dopo – oltre a Usa e Cina – Giappone, Germania e Francia. «Si nota chiaramente – ha sottolineato alla BBC Douglas McWilliams, direttore del centro di ricerca – che le nazioni che producono beni di prima necessità, come gli alimenti o l’energia, scalano progressivamente il ranking economico globale». Al contempo un altro componente dei Brics, la Russia, ha ricevuto il via libera all’ingresso nell’Organizzazione mondiale del Commercio (Wto): un atto storico, che segue 18 anni di negoziati e che permette al governo di Mosca di sedere nel principale consesso internazionale che regolamenta gli scambi commerciali a livello globale. Secondo il Cremlino l’adesione di Mosca al Wto costituisce «un evento del quale beneficeranno al contempo il nostro Paese e i futuri partner». Ad osteggiare a lungo la presenza russa è stata la Georgia, le cui perplessità sono state superate solo di recente.

A Nuova Delhi in ottobre si è svolta l’undicesima Conferenza (Cop 11) della Convenzione sulla diversità biologica (Cbd). L’India è uno dei pochi Paesi al mondo ad avere una legge per la diversità biologica (2002) contenente disposizioni per l’accesso e la condivisione dei benefici genetici, nonché un’Autorità nazionale per la biodiversità (2003). Le notizie di minaccia alle specie naturali si moltiplicano in tutto il Pianeta. È dei primi di gennaio l’allarme del Commissario Ambientale dell’Ontario Gord Miller sul pericolo per alcune specie preziose come gli aceri da zucchero e l’abete bianco, minacciate da cambiamenti climatici, inquinamento, specie invasive e sfruttamento. E proprio in Canada – che ha firmato a ottobre del 2010 l’Aichi Biodiversity Targets, il programma della Cbd per il 2020 – infuria la polemica sulla mancata difesa della biodiversità. È invece della fine del 2011 uno studio dell’ecologista Michael Burrows dello Scottish Marine Institute pubblicato su Science che proverebbe che i cambiamenti climatici si riprodurrebbero con la stessa velocità in grandi masse d’acqua come sulla terra, con seri problemi di conservazione per la biodiversità marina.

[A. BAR.]

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[C.F.]


| LASTNEWS |

BANCA ETICA BOOM DEI PRESTITI NONOSTANTE LA CRISI In uno scenario dominato dalla crisi, la finanza etica si afferma in netta controtendenza. Lo dimostra Banca Popolare Etica, che nel 2011, per il terzo anno consecutivo, ha chiuso con aumenti a due cifre: un +11,7% nella raccolta di risparmio (salita a 717 milioni di euro) e un +23,9% nei crediti erogati. I finanziamenti concessi a famiglie e imprese salgono a 540,8 milioni di euro. Un unicum nel panorama degli istituti di credito italiani, che, in crisi di liquidità, hanno drasticamente tagliato l’erogazione di prestiti: secondo l’Istat nel secondo trimestre del 2011 ne sono stati concessi l’8,1% in meno rispetto ai tre mesi precedenti. E, secondo i dati raccolti e pubblicati su Eurisc (il sistema di informazioni creditizie di Crif), lo scorso mese di novembre la domanda di mutui casa è letteralmente crollata: -46% rispetto a un anno prima. Se si moltiplicano i prestiti concessi da Banca Etica è anche perché l’istituto ha deciso di mantenere invariati gli spread sui mutui (vedi Valori di dicembre/gennaio). [V.N.]

ZOPA RIPARTE SI CHIAMERÀ SMARTIKA

IL PIQ SALE LA LIBERTÀ ECONOMICA CALA

DA COOP ARRIVA L’ETICHETTA PER L’ACQUA PUBBLICA

Per il momento nella homepage c’è solo un invito a iscriversi alla mailing list per essere aggiornati sul D-Day, atteso ormai da molti mesi e previsto fra poche settimane (o giorni?). Il sito è quello di Smartika.it. Che ai più non dirà nulla, ma altro non è che il nuovo nome di Zopa, il più avanzato sistema di finanziamenti peer-to-peer, che permetteva ai privati di offrire e ricevere prestiti senza passare per le banche o le finanziarie (una manna dal cielo per molti, soprattutto in periodi di credit crunch). Importata nel 2008 dalla Gran Bretagna, Zopa fu stoppata dalla Banca d’Italia che nel 2009 la cancellò dall’elenco degli intermediari finanziari. Nel frattempo aveva già attirato 40 mila utenti e raccolto oltre 7,2 milioni di prestiti. Dal 2009 a oggi i vertici di Zopa hanno lavorato per superare i rilievi di Bankitalia. A maggio 2011 è stata inserita nel nuovo albo degli istituti di pagamento. E a dicembre l’ultima decisione: il cambio di nome in Smartika, motivato con la risoluzione del contratto di franchising che legava Zopa Italia a Zopa Ltd e con la volontà di avere piena indipendenza di marchio e di tecnologia (tra l’altro Smartika sarà una SpA e non una Srl). Per chi ha già contratti in essere con Zopa nulla cambia. Per i nuovi basta digitare il nuovo sito sul proprio browser.

Le produzioni di qualità in Italia non perdono terreno. Anzi, avanzano un po’. E in tempi di crisi, questa è una buona nuova. In estrema sintesi è il messaggio più rilevante del Rapporto PIQ 2011 presentato dalla Fondazione Symbola, che da anni promuove un ripensamento del Prodotto interno lordo, per incentivare il passaggio alla cosiddetta soft economy. Da qui l’idea del PIQ – Prodotto interno di qualità – che, nel 2010 si è attestato al 46,9% (+0,6% rispetto all’anno prima). In termini assoluti quasi 441 miliardi di euro di controvalore. «Oggi più che mai – spiega Ermete Realacci, presidente di Symbola – sia il mondo della politica sia quello dell’economia sono chiamati a ripensare la questione del rapporto tra quantità e qualità dello sviluppo». Non va altrettanto bene invece sul fronte della libertà economica. Il Wall Street Journal, nella sua annuale classifica, colloca l’Italia al 92esimo posto (cinque in meno rispetto al 2010) e 36esima sui 43 Stati europei. «La libertà economica – spiega il rapporto – rimane debole perché manca un sistema giuridico in grado di risolvere le contese giudiziarie con efficacia e tempestività». Per chi ancora non fosse convinto che un sistema giudiziario bloccato non sia, tra le altre cose, anche un danno per le nostre tasche.

In 41 punti vendita Coop nelle province di Modena e Ferrara i clienti d’ora in poi potranno confrontare le caratteristiche chimiche e microbiologiche dell’acqua in bottiglia e del rubinetto di casa propria. Merito dell’etichetta dell’acqua pubblica: sei indicatori, per ciascuno dei quali si specificano i dati aggiornati del Comune di riferimento, li si confronta col limite imposto o consigliato dalla legge e si spiega dove reperire ulteriori approfondimenti. L’iniziativa è di Coop Estense (una delle principali cooperative di consumo del sistema Coop), con la collaborazione di quattro gestori del territorio. E a breve arriverà anche in Puglia e Basilicata. Si tratta dell'ultima tappa, in ordine di tempo, della campagna “Acqua di Casa Mia”, lanciata alla fine del 2010 per dare un messaggio chiaro ai cittadini: l’acqua pubblica in Italia è sottoposta a numerosissimi controlli. E abbatte l’impatto ambientale: si stima che la produzione di 100 litri d’acqua in bottiglia, trasportati per 100 km, corrisponda all’emissione di 10 kg di CO2, che scendono a 0,04 per la stessa quantità di acqua di rubinetto. [V.N.]

[EM. IS.]

[EM. IS.]

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| ECONOMIAEFINANZA |

L’EURO HA FALLITO? UNA RISPOSTA POSSIBILE Bruno Amoroso Euro in bilico. Lo spettro del fallimento e gli inganni della finanza globale Castelvecchi, 2011

Euro in bilico - lo spettro del fallimento e gli inganni della finanza globale. Fin dal titolo non usa mezzi termini Bruno Amoroso, docente di Economia internazionale all’università Roskilde in Danimarca, coordinatore di programmi di ricerca e cooperazione internazionale e presidente del Centro studi Federico Caffè. Questo saggio, pubblicato (non a caso) a dieci anni dall’entrata in vigore della moneta unica europea, parte dalla fine, vale a dire dalla crisi che ha turbato i mercati globali a partire dal 2007. E, pagina dopo pagina, la colloca in un contesto storico in cui non è un’eccezione in un sistema altrimenti funzionante, ma una sorta di compimento inevitabile di un processo di trasformazione delle società occidentali che ha ridisegnato il rapporto tra politica ed economia, fino al dominio da parte delle lobby della finanza globale. Si conclude con la proposta di restituire in pieno il governo dell’economia a poteri pubblici orientati al bene comune: un obiettivo da raggiungere mediante riforme radicali delle istituzioni rappresentative, a partire dall’Europa.

NELLA TEMPESTA DELLA CRISI IL RUOLO DEL SINDACATO

LE DODICI REGOLE DELL’ECONOMIA

IMPRENDITRICI DIVISE TRA CASA E LAVORO

«L’odierna crisi è così profonda che sembra parte integrante del nuovo mondo che verrà; quanto meno contribuisce significativamente a delinearne i contorni». Descrive così la crisi economica e finanziaria che attanaglia il mondo ormai da oltre quattro anni Alberto Berrini, economista e da anni consulente per la Fiba Cisl. La chiama «una tempesta senza fine» e, in questo saggio, ne ripercorre le tappe, cercando di spiegarle e di trovarne le cause, riflettendo sul ruolo che il sindacato può avere nell’attuale momento economico. Perché il lavoro, scrive Berrini, «è ancora al centro delle nostre società, soprattutto quando, a causa della crisi, la sua rilevanza consiste nella sua mancanza (disoccupazione)». «Per un sindacato è fondamentale rendersi conto delle variabili di contesto per dare efficacia alle proprie strategie e raggiungere gli obiettivi prefissati». Per l’autore le difficoltà che stiamo attraversando possono addirittura essere considerate «dei macro laboratori economico-sociali e politici». Per il sindacato però c’è un pericolo, «quello di trovarsi in mezzo al guado tra un antagonismo ormai logoro alle spalle e una sponda partecipativa che non si riesce a raggiungere».

Non è facile spiegare i meccanismi della finanza e dell’economia con semplicità, chiarezza e completezza. I quattro docenti universitari americani che hanno scritto questo libro ci sono riusciti, gettando un ponte che aiuterà i lettori a comprendere una materia complessa come l’economia, trattata spesso o in modo troppo approssimativo o troppo accademico. Quattro capitoli dove si spiegano i dodici elementi chiave dell’economia e della finanza, il ruolo dei governi nel progresso economico e le fonti principali di tale progresso. Il libro contiene anche un utilissimo glossario e una lista di unità supplementari, ovvero altri materiali contenuti nel sito CommonSenseEconomics.com. Il premio Nobel Milton Friedman ha definito questo libro una «splendida e documentata esposizione dei principi base dell’economia. L’analisi economica è sofisticata, l’esposizione semplice, concisa, chiara e priva di tecnicismi».

La dedica è “Alle capitane coraggiose”, ovvero imprenditori in tailleur divisi tra casa e lavoro. “Donne in quota” è un libro di testimonianze raccolte e pubblicate da Confartigianato Varese che fotografa una realtà importante dell’economia, destinata ad essere determinante nei prossimi anni. Secondo una ricerca inglese, commissionata da Avon (nota multinazionale di cosmetici), nei prossimi trent’anni il numero delle donne imprenditrici è destinato a raddoppiare. Imbianchine, autoriparatrici, meccaniche, autotrasportatrici, falegnami, idrauliche si raccontano in libertà, dimostrando di sapersi gestire con efficienza su più fronti: casa, marito, figli e azienda. Il tema della conciliazione è centrale nella vita delle imprenditrici ed è proprio da questa vitale esigenza che viene fuori un nuovo modo di fare impresa delle donne (in linea con le dinamiche della globalizzazione) orientato più alla costruzione che non alla competizione.

J. D. Gwartney, R. L. Stroup, D. R. Lee, T. Ferrarini Le 12 regole dell’economia Casini Editore, 2011

Davide Ielmini Donne in quota Pietro Macchione Editore, 2011

Alberto Berrini Una tempesta senza fine. Sfide globali e azione sindacale Edizioni Lavoro, 2011 | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 69 |



| TERRAFUTURA |

LA MODA ALTERNATIVA HA UN NUOVO CIRCUITO La moda critica? «È veramente una bella realtà. Di soggetti produttori ce ne sono tantissimi, più di quelli che potessi immaginare. Ogni giorno ne trovo di nuovi, anche giovani e giovanissimi, bravi e attenti al recupero e al riciclo». Parola di Daniela Guerra, una vita fra Banca Etica e il mondo ambientalista. Ma tutte queste realtà, spiega, «fanno molta fatica ad emergere: spesso a livello ideale si ottiene una grande attenzione, ma poi si fatica a creare un vero e proprio mercato». Proprio per rispondere a queste esigenze, nel mese di aprile dello scorso anno è nato il progetto Green à porter. Si tratta di un circuito di una quarantina di stilisti indipendenti che, grazie all’impegno di Daniela Guerra, hanno trovato innanzitutto una boutique a Bologna dove vendere direttamente i propri capi, ricavandone un compenso equo grazie al meccanismo della filiera corta. Ma Green à porter è anche un vero e proprio coordinamento che permette loro di unire le forze e partecipare insieme alle tante occasioni indispensabili per farsi conoscere: da Terra Futura di Firenze a So critical so fashion di Milano. www.greenaporter.it

LA FINESTRA WEB SUL LAVORO IN CARCERE UNA BUSSOLA NELL’UNIVERSO DEL BIO Soprattutto per chi fa i primi passi nel vasto campo del biologico, può essere difficile destreggiarsi tra i tanti produttori e le numerose certificazioni. A dare una mano in questa direzione ci pensa piazzabio.it, un portale nato due anni fa in Umbria con l’obiettivo di estendersi al resto dell’Italia centrale. A lanciare l’iniziativa è stato l’assessorato regionale all’Agricoltura, che ne ha affidato la realizzazione al 3A-Parco Tecnologico Agroalimentare dell’Umbria, insieme ad AiabUmbria, Umbria Biologica, Pro.Bio e Menteglocale. In questo momento il sito conta 275 schede di produttori biologici, 156 di consumatori, 15 di mense scolastiche e altrettante di Gruppi di acquisto solidale. E non mancano 21 gallerie fotografiche e un calendario che, settimana dopo settimana, segnala fiere e mercati bio in Umbria, Toscana e Marche. Agli utenti non serve altro che una ricerca (geografica o per prodotto) per trovare quello di cui hanno bisogno, confrontando le offerte. E gli operatori del settore hanno uno strumento rapido e semplice per conoscersi fra di loro e “fare rete”. www.piazzabio.it

DAL VENETO I DOLCI ATTENTI ALL’AMBIENTE Le torte e i biscotti esposti sugli scaffali di un centinaio di negozi bio, da Catania a Ventimiglia, o scelti dai Gruppi d’acquisto solidale emiliani, veneti o lombardi, provengono anche da un piccolo laboratorio dolciario sulle Prealpi dolomitiche bellunesi. A Deola Dolciaria, oltre ad adoperare ingredienti biologici privi di additivi e di Ogm, si cucina tutto in un forno che brucia esclusivamente la legna sottile dalla naturale potatura degli alberi, che altrimenti andrebbe scartata dai boscaioli perché non ha mercato. E gli imballaggi per le spedizioni sono recuperati dalla grande distribuzione. Quando chiediamo se il biologico sia davvero un settore vitale, la titolare, la signora Nives, non ha esitazioni: «Noi a Natale non abbiamo sentito crisi, assolutamente». Anche se i prezzi non sono certo quelli di un supermercato: «Ci sono un sacco di produttori dolciari bio, ma c’è una grande differenza fra il bio industriale e quello strettamente artigianale. E la nostra realtà si rivolge a una clientela davvero attenta». www.deoladolciaria.it

Il lavoro è un’opportunità offerta a una percentuale ancora bassissima dei detenuti italiani. Anche per questo, acquistare prodotti fatti in carcere significa innanzitutto dare un segnale per valorizzare queste realtà; e, cosa non meno importante, garantire un sostegno concreto alle tante cooperative sociali che lavorano nelle prigioni. Per loro, «le difficoltà economiche e istituzionali sono tante», afferma Cristina Coglitore, che proprio per questo motivo si è dedicata a coordinare il progetto no profit Prodottinlibertà. Si tratta di un portale internet che presenta un catalogo dei prodotti fatti in carcere e le schede con la storia e le caratteristiche delle cooperative sociali che li offrono. Lo scopo è quello di mettere in comunicazione queste realtà con i Gruppi d’acquisto solidale del territorio, che – quando si parla di acquisti etici – non possono che essere gli interlocutori privilegiati. E non manca una sezione di good news, aggiornata tutte le settimane. www.prodottinliberta.it

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| bancor |

Le aste della Bce

La liquidità di Draghi sostiene la speculazione dal cuore della City Luca Martino

del foglio color salmone più diffuso nella City alludeva all’epopea ottocentesca di finanzieri onesti e broker rispettabili, mentre proprio in quei mesi le banche si esponevano irreparabilmente verso i mercati secondari e riempivano di debiti i bilanci degli Stati dell’Eurozona. We live in speculative times sarebbe stato il motto perfetto. A distanza di quattro anni dall’esplosione dei mutui subprime negli Stati Uniti, ancora non si è definita una exit strategy percorribile per uscire dalla crisi finanziaria: le cose, anzi, sono peggiorate con l’aggravarsi della recessione economica e della crisi dei debiti sovrani di molti Paesi europei. L’unico approccio che sembra aver prodotto un qualche risultato apprezzabile, ancorché controverso, pare quello della Bce per il finanziamento delle banche e dei Paesi periferici della Ue, almeno per i primi mesi del 2012. Con le due aste di liquidità – la prima, per quasi 500 miliardi di euro, svoltasi in dicembre, l’altra in programma a febbraio – Draghi, non potendo per statuto sovvenzionare direttamente i Paesi membri oltre i limiti dell’eccezionalità, di cui hanno beneficiato peraltro i titoli spagnoli e italiani per tutta la seconda metà del 2011, ha deciso di sussidiare le banche per un ammontare di fatto illi-

TOMASO MARCOLLA / WWW.MARCOLLA.IT

2007, nell’annunciare il più significativo restyling nei suoi 120 anni di storia, l’editore del Financial Times, Lionel Barber, impose il ripristino sotto la testata del motto without fear and without favour (senza timori né parzialità) e l’avvio di un’accattivante campagna pubblicitaria dallo slogan We live in Financial Times. Il ritorno alle origini

N

ELL’APRILE DEL

mitato. La logica di questa operazione di carry trade (definita sprezzantemente “Sarko-trade” da quegli ambienti della City che hanno convinto il premier britannico Cameron alla durissima presa di posizione contro la revisione dei trattati europei) è semplice: le banche cedono in garanzia alla Bce titoli propri anche di minor qualità creditizia rispetto al consueto, pagano il corrisposto controvalore di liquidità (l’1% su base annua) e, infine, acquistano titoli che rendono di più – Bonos o Btp ad esempio – oppure ricomprano il proprio debito subordinato, che quota oggi a prezzi molto depressi, facendo in entrambi i casi enormi plusvalenze da mettere a bilancio. I profitti delle banche crescono (a scapito della sicurezza di investitori e risparmiatori), gli Stati hanno un compra-

tore per il loro debito (non importa a che prezzi, tanto le politiche di austerity ridurranno la spesa corrente) e la Bce potrà dire di aver svolto il suo ruolo (in tutta sicurezza peraltro dato che le sue garanzie privilegiate la tutelano dal rischio leva implicito in tali operazioni). Ma, intanto, la recessione c’è e si aggrava. E non si avvertono misure significative di sostegno alla crescita nelle varie manovre di bilancio in corso di approvazione in tutta Europa. Dal canto suo Draghi deve aver dato una personale interpretazione alla consapevolezza che «ogni decisione economica ha conseguenze di carattere morale», concetto che egli stesso richiamava in un commento all’Enciclica Caritas in Veritate di Benedetto XVI, nel quale invitava gli operatori a una «maggiore sobrietà nell’accumulo del debito e a una maggiore consapevolezza dell’accettabilità sociale di certi comportamenti (...) che non possono essere disgiunti da istanze di tipo morale». Le aste di liquidità o il dimezzamento delle riserve bancarie all’1%, altra decisione presa da Draghi in vigore da pochi giorni, andrebbero forse nella direzione di “un sistema economico dal profilo etico volto in ultima analisi alla protezione dei più deboli”? todebate@gmail.com | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 73 |


| action! |

L’AZIONE IN VETRINA SAIPEM 13 gen 2012:

SPM.MI 38,34

Il rendimento in borsa di Saipem negli ultimi dodici mesi (-6,38%) confrontato con l’indice S&P 500 (in rosso, -046%)

^GSP C 1328,17

5% 0 -5% -10% -15%

-25% -30% -35% 2011

Mar

Apr

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Ott

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2012

a cura di Mauro Meggiolaro

RN, Conflict Risk Network. È una rete di quasi cento investitori istituzionali che effettua un monitoraggio continuo dei rischi politici, sociali e ambientali collegati alla presenza di grandi imprese quotate in Paesi in conflitto. Il 9 agosto del 2011 ha rivolto un appello a nove società petrolifere con affari in Siria per chiederne l’immediato ritiro dal Paese, o almeno l’impegno a condannare la violenza del regime siriano. I destinatari dell’appello sono l’taliana Saipem (gruppo Eni), Shell, Total e altre otto imprese europee, ma anche cinesi (Sinochem) e canadesi (Mena, Suncor Energy). «È tempo che le imprese prendano pubblicamente una posizione netta contro le violenze in Siria», ha dichiarato Constantina Bichta di Boston Common Asset Management, socio fondatore di CRN. «Il sostegno finanziario che queste imprese offrono al governo le rende complici degli abusi che si stanno compiendo». Per ora dalle compagnie è arrivato solo un assordante silenzio. Ma se il silenzio dovesse continuare, l’appello di CRN potrebbe trasformarsi presto in una mozione da presentare alle assemblee degli azionisti.

C

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L’AZIONISTA DEL MESE

Via dalla Siria L’appello degli azionisti

UN’IMPRESA AL MESE

FONTE: THOMSON REUTERS

-20%

Boston Common Asset Management

www.bostoncommonasset.com

Sede Boston - Usa Tipo di società Società di gestione del risparmio specializzata in investimenti socialmente responsabili e in azionariato attivo. È controllata dai dipendenti. Patrimonio gestito Circa 1,5 miliardi di dollari L’azione su Saipem e sulle compagnie petrolifere Nell’agosto del 2011 Boston Common, assieme a Conflict Risk Network, una coalizione di circa 100 investitori istituzionali, ha iniziato a fare pressione su Saipem, Shell, Total e altre otto compagnie petrolifere di ritirarsi dalla Siria e di condannare pubblicamente le violenze del regime siriano. Altre iniziative Boston Common è attiva da nove anni negli investimenti socialmente responsabili. Nel 2011 si è resa protagonista di una campagna di azionariato attivo contro il traffico di esseri umani nelle catene di approvvigionamento delle imprese. Tra le imprese che sono state oggetto della campagna si possono citare Carlson, Gap, HP, LexisNexis e Manpower.

Saipem

www.saipem.com

Sede Roma, Italia Borsa Borsa Italiana - Milano Rendimento negli ultimi 12 mesi -6,38% Attività Saipem è la società del gruppo Eni che si occupa di Engineering & Construction e Perforazioni. Azionisti principali Eni (42,93%), mercato 57,07% Perché interessa agli azionisti responsabili? Saipem è finita nel mirino degli investitori responsabili dopo aver acquisito, nel settembre del 2011, un nuovo contratto per la costruzione di un impianto all’interno del progetto Horizon Oil Sands (sabbie bituminose, altamente inquinanti) nella regione di Athabasca, in Alberta, Canada. Numeri 2010 Ricavi [Miliardi di euro] 11,16 Utile [Miliardi di euro] 0,884 Numero dipendenti circa 33.000


I valori, quando si fondano sulla fiducia e sulla credibilità di chi li possiede e li coltiva, si possono riassumere in una parola, in un segno, in un colore. Dire è comunicazione d’intenti e di progettualità, trasmissione di idee, di conoscenza, d’esperienza. Fare è la sintesi dell’attività, energia verso nuove imprese, capacità di ascolto e di offrire risposte. Ai nostri clienti e a quelli che lo diventeranno è dedicato il nostro lavoro quotidiano: un lavoro dove il dire e il fare sono tutt’uno e sintesi di una filosofia dell’operare.



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