Mensile Valori n. 115 2013

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Cooperativa Editoriale Etica Anno 13 numero 115. Dicembre 2013 Gennaio 2014. € 4,00 Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB Trento Contiene I.R.

FABIO KNOLL

Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità

Umanità urbane Dalle smart city alle favelas: progettare città sostenibili per vivere meglio Finanza > Se le offerte turistiche on line fanno svanire le tasse nei paradisi fiscali Economia solidale > Biodiversità addio. Quello che mangiamo arriva da poche multinazionali | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 1 | Internazionale > La Bei pensa all’ambiente, ma le centrali a carbone rischiano di farla franca


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| editoriale |

Ecosistema urbano di Andrea Di Stefano

N

ell’epoca dell’industrialismo, trionfante ideologicamente oltre che materialmente, abbiamo progettato e gestito il paesaggio come scenografia, piuttosto che come un ecosistema funzionante. Nulla è stato pensato per riconoscere le interconnessioni fra risorse naturali, umane, fisiche. Da ormai trent’anni si parla di metabolismo urbano, il risultato di un processo olistico, caratterizzato dalla circolarità delle variabili che compongono questo organismo, con l’obiettivo di cercare l’ottimizzazione del benessere dei cittadini e della gestione delle risorse (energia e materia) per l’intero ciclo di vita del progetto. L’ecosistema sostenibile urbano è inteso come un paesaggio progettato e gestito per minimizzare l’impatto sull’ambiente e massimizzare il ritorno economico e sociale nel lungo periodo. Il nostro bagaglio analitico per l’interpretazione della città deve abituarsi a connettere la tradizionale lettura “meccanica” delle variabili urbane con quella dei fattori biofisici. Il progetto di una comunità urbana non può che essere il risultato della ricerca del miglior compromesso tra esigenze tra loro non massimizzabili contemporaneamente: funzionalità, qualità visivo/percettiva, costi di costruzione/manutenzione/gestione. Il processo è completato quando si trova la soluzione più vicina a quella “ideale”, che “compone” tutti i diversi obiettivi e li consegue ad un livello giudicato soddisfacente. Una definizione chiara e coerente è stata data da Alberto Magnaghi (urbanista, professore di Pianificazione e progettazione della città e del territorio alla facoltà di Architettura di Firenze), che definisce l’ecosistema urbano come neoecosistema: “Organismo vivente ad alta complessità […] in continua trasformazione, prodotto dall’incontro di eventi culturali e naturali e composto da luoghi dotati di identità, storia, carattere, struttura di lungo periodo” (Magnaghi, 2010). Questa definizione pone l’accento sulla necessità di considerare la città non solo come un insieme di elementi intercambiabili, ma piuttosto come appunto un organismo (più o meno antropizzato) che vive, caratterizzato da una parte importante di capitale naturale e una altrettanto importante di capitale sociale (le persone). Questi elementi interagiscono tra di loro producendo processi metabolici, economici, produttivi; processi di socializzazione, partecipazione e sensibilizzazione. Queste interazioni mantengono il sistema vivo e capace di reagire e, soprattutto, di recuperarsi di fronte a un trauma. Sotto questa ottica risulta ancora più interessante l’ipotesi dell'architetto William Mc Donough di rivoluzionare i processi di produzione e progettazione dei beni in modo da eliminare il rifiuto, che diventerebbe invece materia utile ad un altro processo. Se pensiamo di ampliare l’ambito d’interesse di tale rivoluzione ai flussi di informazioni (condivisione della conoscenza, acquisizione di capacità pratiche utili alla comunità, come permacultura, artigianato, fablab, etc.) e non solo a quelli di energia e materia, si può pensare di dar vita a processi che siano in grado di creare un sistema dinamico, capace di modificarsi e sensibile ai cambiamenti esterni e inaspettati. Infatti, inglobando tutti gli elementi e i processi del neoecosistema, lo stesso, nel caso venga affettato da un fattore esterno, risulta capace di riorganizzarsi (da un punto di vista ambientale, sociale ed economico), con la possibilità di perdere uno o più elementi, acquisendone un altro utile alla nuova riorganizzazione.  | ANNO 13 N. 115 | DICEMBRE 2013/GENNAIO 2014 | valori | 3 |


fotoracconto 02/07

Tra gennaio e giugno 2012 una mostra itinerante curata da Stefano Boeri e promossa dalla Segreteria de Habitação di San Paolo ha portato in sei favelas della città brasiliana le esperienze vissute da un gruppo di ricerca internazionale composto da architetti, antropologi, attivisti e artisti in alcuni insediamenti informali a Roma, Nairobi, Medellin, Mumbai, Mosca e Baghdad. I ricercatori provenienti da ognuna di queste realtà hanno trascorso a rotazione un mese a San Paolo, immergendosi nella realtà di una determinata favela. L’obiettivo era di esplorare il fenomeno della città informale, le sue criticità e le sue potenzialità, attraverso il confronto tra la realtà delle comunità di San Paolo, le politiche intraprese dall’amministrazione pubblica della metropoli brasiliana e alcune esperienze che,

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in modi e in luoghi diversi e lontani del mondo, stanno affrontando temi fondamentali quali il diritto all’abitare e alla qualità della vita in quelle parti di città̀ che si stanno espandendo al di fuori delle regole e delle leggi urbanistiche, sotto la pressione dell’urgenza abitativa dei nuovi cittadini che vi affluiscono. Abbiamo scelto di dedicare il fotoracconto a questo progetto. Per ogni città coinvolta proponiamo gli scatti che i fotografi ci hanno messo a disposizione. Uno spaccato dello scenario urbano, sociale, umano di sette realtà, molto diverse tra loro, ma con alcuni tratti in comune. Dove la progettazione urbana finora è mancata, ma in alcuni casi, se introdotta oggi, potrebbe portare dei miglioramenti, se effettuata con attenzione e cura per la realtà esistente e per i bisogni degli abitanti.

ALEXEY NARODITSKY

I micro rayon di Mosca. Il 70% del tessuto edilizio della città è stato costruito attraverso questi microdistretti, blocchi residenziali dell’era sovietica, pensati per resistere una ventina d’anni. Oggi stanno subendo un processo di degradamento incontrollabile, conseguenza della liberalizzazione del mercato edilizio. Mosca è una delle sei città coinvolte nel progetto “Sao Paolo Calling”.


FABIO KNOLL

| sommario |

dicembre 2013/gennaio 2014 mensile www.valori.it anno 13 numero 115 Registro Stampa del Tribunale di Milano n. 304 del 15.04.2005 editore Società Cooperativa Editoriale Etica Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano promossa da Banca Etica soci Fondazione Culturale Responsabilità Etica, Arci, FairTrade Italia, Mag 2, Editrice Monti, Fiba Cisl Nazionale, Cooperativa Sermis, Ecor, Cnca, Fiba Cisl Brianza, Federazione Autonoma Bancari Italiani, Publistampa, Federazione Trentina della Cooperazione, Circom soc. coop., Donato Dall’Ava consiglio di amministrazione Antonio Cossu, Donato Dall’Ava, Maurizio Gemelli, Emanuele Patti, Marco Piccolo, Sergio Slavazza, Fabio Silva (presidente@valori.it). direzione generale Giancarlo Roncaglioni (roncaglioni@valori.it) collegio dei sindaci Mario Caizzone, Danilo Guberti, Giuseppe Chiacchio (presidente). direttore editoriale Mariateresa Ruggiero (ruggiero.fondazione@bancaetica.org) direttore responsabile Andrea Di Stefano (distefano@valori.it) caporedattore Elisabetta Tramonto (tramonto@valori.it) redazione (redazione@valori.it) Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano Paola Baiocchi, Andrea Baranes, Andrea Barolini, Francesco Carcano, Matteo Cavallito, Corrado Fontana, Emanuele Isonio, Michele Mancino, Mauro Meggiolaro, Andrea Montella, Valentina Neri grafica, impaginazione e stampa Publistampa Arti grafiche Via Dolomiti 36, Pergine Valsugana (Trento) fotografie e illustrazioni Francesco Giusti; Alessandro Imbriaco; Fabio Knoll; Alexey Naroditsky; Antonio Ottomanelli; Riccardo Ronchi; Toshiya Watanabe; URBZ; Sémhur, Sergey Subbotin Сергей Субботин, http://commons.wikimedia.org

fotoracconto 01/07 A San Paolo l’amministrazione locale ha effettuato un risanamento mirato delle favelas. Invece di abbattere e ricostruire ha ristrutturato, rinnovato o anche costruito, ma solo dove serviva. Nella favela Cantino do Ceu, raffigurata in copertina, è stata effettuata una bonifica e costruito un lungolago.

dossier Umanità urbane

6 8 10 12 14

Destinazione smart city La prosperità non è mai diseguale Le favelas sono la città Deserto urbano

È consentita la riproduzione totale o parziale dei soli articoli purché venga citata la fonte. Per le fotografie di cui, nonostante le ricerche eseguite, non è stato possibile rintracciare gli aventi diritto, l’Editore si dichiara pienamente disponibile ad adempiere ai propri doveri. chiusura in stampa: 28 novembre 2013 in posta: 4 dicembre 2013

globalvision finanzaetica

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Grand Hotel “Paradiso fiscale” City of God. A Londra la nuova frontiera della finanza islamica Avanzi, tagli, interessi. Anche l’Italia ha il suo debito “odioso”

19 22 25

numeridellaterra economiasolidale

28

Troppo cibo in poche mani L’assalto al cibo danneggia tutti Il think tank che dà voce alle multinazionali Sochi 2014. I Giochi invernali in riviera Sport e legalità al calcio d’inizio

31 32 34 36 38

socialinnovation internazionale

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Bei, stop ai finanziamenti alle centrali inquinanti. Ma con molti dubbi Le centrali a carbone “rischiano” di farla franca Alaska, l’inarrestabile febbre del petrolio

43 45 47

avvistamenti altrevoci bancor

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Il Forest Stewardship Council® (FSC®) garantisce tra l’altro che legno e derivati non provengano da foreste ad alto valore di conservazione, dal taglio illegale o a raso e da aree dove sono violati i diritti civili e le tradizioni locali. Involucro in Mater-Bi®

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dossier

a cura di Corrado Fontana, Emanuele Isonio e Valentina Neri

fotoracconto 03/07 Sullo sfondo i grattacieli di San Paolo. In primo piano, senza soluzione di continuità, le case e baracche delle favelas. Spiccano le costruzioni dell’amministrazione pubblica (coloratissimi). Sebbene la forma ricordi gli interventi che hanno disegnato gran parte delle periferie delle città europee, la densificazione ha permesso di mantenere gli abitanti nel loro quartiere senza trasferirli in insediamenti fuori città.

Destinazione smart city > 8 La prosperità non è mai diseguale > 10 Le favelas sono la città > 12 Deserto urbano > 14


FABIO KNOLL

UmanitĂ urbane

Progettare smart city si può: significa creare posti belli, sani e sicuri. Molti i casi nel mondo Esistono poi esempi di crescita spontanea di aree urbane, che vanno trattate con grande cura

???


dossier

| umanità urbane |

Destinazione smart city di Valentina Neri

accogliere un sacchetto di immondizia abbandonato nel proprio quartiere, portarlo al punto di Cambio Lixio più vicino e ricevere in cambio verdure fresche o biglietti dell’autobus. Accade a Curitiba, una città di 2 milioni e 750 mila abitanti nell’altopiano del Paraná, in Brasile. Curitiba ricava gran parte dell’energia di cui ha bisogno proprio dai rifiuti, oltre che dalle fonti rinnovabili. Ogni cittadino ha a disposizione in media 55 metri quadrati di verde pubblico e sette famiglie su dieci preferiscono lasciare a casa l’auto e prendere i mezzi pubblici. Vale a dire il BRT (Bus Rapid Transit), un sistema di autobus simile a una metropolitana, ma trenta volte più economico, che passa ogni novanta secondi e viaggia su corsie riservate.

R

Rinascimento urbano Quando l’architetto e urbanista Jaime Lerner, appena eletto sindaco, ha deciso di rivoluzionare la propria città natale, era il 1972. E il concetto di smart city era ancora di là da venire. A quarant’anni di distanza, la rivoluzione green di Curitiba è un simbolo di un paradigma positivo che è tutt’altro che utopia. È una strada obbligata. Una smart city non è solo «una città che si adatta alle necessità del suo tempo e dei suoi abitanti, è resiliente ed è per tutti un posto sano, bello e sicuro dove vivere». Ma è anche una città che gestisce in modo efficiente ed ecosostenibile l’energia e i rifiuti e facilita le sinergie all’interno della popolazione. La definizione è di Tom Bosschaert, direttore dello studio Except-Integrated Sustainability di Rotterdam, un laboratorio di innovazione multidisciplinare che lavora col modello che prende il nome di “Rinascimento Urbano”. Cosa significa tutto questo, tradotto in termini concreti? A detta di Bosschaert, non esistono ancora realtà smart al 100%. E non si può immaginare di trasformare dall’oggi al domani città che si stanno dimostrando «inadatte alle sfide dei nostri giorni, ma soprattutto al futuro», alle | 8 | valori | ANNO 13 N. 115 | DICEMBRE 2013/GENNAIO 2014 |

Una gestione efficiente dei rifiuti, dei trasporti pubblici, dell’energia, del verde. Che offra servizi gratuiti o a basso prezzo, per tutti. Questa è una città intelligente: un posto sano, bello e sicuro dove vivere prese con divari sociali, inquinamento, sfide logistiche e problemi finanziari. Ma i progressi possono arrivare anche dove non li si aspetta.

Le città intelligenti oggi È il caso di TransMilenio, il sistema integrato di trasporti di Bogotà, fortemente voluto dall’allora sindaco Enrique Peñalosa, fra il 1998 e il 2001. Si tratta, come a Curitiba, di un sistema di Bus Rapid Transit che ogni giorno sposta da un lato all’altro della città 1,5 milioni di persone, grazie anche a un biglietto volutamente economico. E permette di accumulare carbon credits da vendere sul mercato delle emissioni. La città ospita 200 km di piste ciclabili e ogni domenica chiude le strade alle auto, destinandole a iniziative culturali e ricreative. O si può guardare a

Singapore che, con la sua altissima densità di popolazione, si è posta l’ambizioso obiettivo di ridurre al minimo la produzione di rifiuti e la quota che finisce in discarica. I rifiuti che non si riescono a riciclare vengono dirottati su un’isola molto diversa da una comune discarica, che è meta di escursioni e visite guidate e dove le foreste di mangrovie fungono da barriera naturale, favorendo la vita vegetale e animale nelle acque circostanti. Stanno facendo grossi passi avanti anche Vancouver e Malmö, mentre in Europa è Lione il caso d’eccellenza.

Non solo tecnologia Secondo Paolo Cottino, docente del corso di laurea in Urbanistica al Politecnico di Milano e socio del laboratorio di innovazione urbana KCity, il problema è dato dal fatto che «spesso si ragiona solo sulla tecnologia, che però non basta se non si riflette sui suoi usi. Bisogna cercare di mettere insieme l’hardware, vale a dire gli aspetti tecnologici e infrastrutturali, e il software, dato dagli elementi gestionali». Una dicotomia che si incontra anche nelle proposte legislative sulla rigenerazione urbana avanzate nel nostro Paese: «La legislazione pugliese, che è stata una delle prime, è incentrata sull’esclusione sociale e sulla riqualificazione dei quartieri, mentre in altre Regioni si parla di efficienza energetica e green building. La vera innovazione è far dialogare questi aspetti. A tal proposito, iniziano a emergere discorsi interessanti sull’edilizia scolastica: oltre ai necessari interventi strutturali sugli edifici, si inizia a ripensare al loro ruolo nel territorio. In futuro, anche se è ancora tutto da de-


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Vancouver si è impegnata a tagliare le emissioni di un terzo rispetto al 2007, ha finanziato infrastrutture per i veicoli elettrici e introdotto misure per scoraggiare il consumo di acqua in bottiglia. L’obiettivo per il 2020 è che un tragitto su due sia effettuato a piedi, in bici o con i mezzi pubblici e che tutti i residenti vivano a non più di cinque minuti di distanza da un’area verde.

La seconda città più ciclabile del mondo (superata solo da Amsterdam) si è posta l’obiettivo di eliminare la dipendenza da fonti fossili entro il 2025. Attualmente il 98% della domanda di calore è coperta dal teleriscaldamento, alimentato per il 30% da biomasse e rifiuti.

COPENAGHEN

È l’unica città che nel 2011 è riuscita a rientrare nei limiti di concentrazione di polveri sottili individuati dall’Oms col progetto Aphekom, grazie alle misure per la dissuasione del traffico veicolare e il controllo delle emissioni. Otto famiglie su dieci sono servite dal teleriscaldamento e la maggior parte dell’energia proviene da biomasse, mentre il 30% è generato dai rifiuti.

UN MONDO SMART

STOCCOLMA MALMÖ Per un tragitto su quattro si sceglie la bici, contando sui 490 km di piste ciclabili. Malmö

VANCOUVER

è stata la prima grande città svedese a organizzare la raccolta dei rifiuti organici in tutte Nel 2007 ha lanciato un piano per LIONE le case. Le pietanze delle mense scolastiche sono in gran parte biologiche ed è consistente ridurre le emissioni: -20% l’uso di prodotti Fairtrade. A Öresund l’eolico fornisce energia per 60 mila famiglie. La città mira a ridurre il consumo di energia PAREDES dell’uso di energia e più coinvolgendo la cittadinanza e le imprese, tramite Entro il 2015 sarà interamente rinnovabili. Oltre alle iniziative per agevolazioni mirate a chi taglia i consumi. connessa da una rete rinnovare gli stabili a più alto di 100 milioni di sensori che HOUSTON consumo, si testano smart grid ed trasmetteranno dati su tutti edifici a bilancio energetico Ha progettato una rete wireless 4G a banda i servizi urbani (dall’illuminazione positivo. Il progetto Optimod larga. Oltre a ridurre i costi amministrativi, pubblica allo smaltimento dei Lyon, basato su tecnologie il progetto ha fornito la connessione internet rifiuti, dall’edilizia al traffico) per mobile, permetterà di pianificare gratuita a centinaia di migliaia di abitanti, I rifiuti non riciclabili vengono immagazzinati elaborare soluzioni avanzate. un tragitto combinando i mezzi di soprattutto tra le fasce meno abbienti. su un’isola in cui l’ecosistema è tutelato. trasporto e analizzando il traffico BOGOTÀ SINGAPORE in tempo reale. La capitale della Colombia si distingue sul tema della mobilità sostenibile. È una città ad alta concentrazione di spazi verdi con un efficiente TransMilenio è un efficiente sistema sistema di trasporti basato sul Bus Rapid Transit. La gestione di Bus Rapid Transit che permette dei rifiuti è innovativa, con una soglia di riciclo del 70% di accumulare carbon credits, ci sono e meccanismi di scambio tra spazzatura e beni alimentari. 200 km di piste ciclabili e ogni domenica CURITIBA le auto non possono circolare.

SEATTLE

LA VIA TRENTINA CONTRO LE SPECULAZIONI IMMOBILIARI: LA “LEGGE GILMOZZI” COMPIE OTTO ANNI FONTE: ELABORAZIONE A CURA DI VALORI

cidere, si potrebbe ad esempio coinvolgere le associazioni che li usino per attività integrative». In questo modo, conclude Bosschaert, ben lungi da considerarla solo un insieme di edifici, si interpreta la città con «testi di sociologia più che di architettura». Nasce così, ad esempio, Sustainable Schiebroek-Zuid, un progetto di housing sociale avviato dallo studio Except nel 2010 a Rotterdam. I ricercatori per mesi hanno incontrato a più riprese gli abitanti di quello che era uno dei quartieri più problematici in tutta l’Olanda, suonando al loro citofono come organizzando festival ed eventi, in modo da costruire una mappa di obiettivi e desideri. Il risultato è una comunità d’avanguardia, che ricava in loco la stragrande maggioranza dell’energia (tramite una combinazione di solare e impianti a biogas), dell’acqua e delle riserve alimentari di cui ha bisogno e gestisce da sé lo smaltimento dei rifiuti. Una comunità in cui le startup hanno a disposizione dei laboratori in cui lavorare e in cui si ipotizza anche di sperimentare una valuta complementare. 

Quando fu proposta e poi approvata, si attirò le ire della lobby immobiliare. Eppure, da più parti, la legge trentina sulle nuove case è indicata come un esempio virtuoso da seguire. Ai più è nota come “Legge Gilmozzi” (dal nome dell’assessore provinciale all’Urbanistica che l’ha voluta). Due gli obiettivi per i quali è nata: evitare che le valli a più forte vocazione turistica fossero snaturate dall’invasione di case vacanze vuote per la maggior parte dell’anno e porre un freno ai costi delle abitazioni per chi quei territori li abitava veramente, «perché l’eccesso di valore delle case faceva scappare la nostra gente dalle zone turistiche, come avviene con le città, verso fasce cuscinetto non in grado di sopportare il carico antropico. Il che si trasformava in maggiori costi per gli enti che dovevano erogare i servizi pubblici», racconta Mauro Gilmozzi, oggi “promosso” assessore all’Ambiente, energia, trasporti e lavori pubblici dal neoeletto presidente Ugo Rossi. «In più ci preoccupava la situazione spagnola in cui la bolla immobiliare è esplosa con un effetto dirompente». Nel 2005 la decisione: i nuovi immobili residenziali di 90 comuni trentini (quelli in cui il turismo è più radicato) vennero divisi in due categorie. Quelli abitabili solo da chi risiede stabilmente nel territorio. E quelli destinabili a uso turistico. Una categoria residuale, quest’ultima, perché «in media le seconde case non possono superare la soglia del 15% del totale delle nuove costruzioni». Con tassi pari a zero in Comuni già fortemente compromessi come Madonna di Campiglio. E in più una clausola: le case vacanze possono essere pianificate solo quando è stata raggiunta la quota prevista per i residenti. Interessante anche il capitolo sanzioni: 15 mila euro per ogni verifica di uso incongruo. Multa salata. E per di più replicabile ogni tre mesi. In un anno, in pratica, si può venire multati fino a 60 mila euro. «I risultati, dopo otto anni, sono sotto gli occhi di tutti», commenta Gilmozzi. «Abbiamo frenato l’occupazione di nuovo suolo, abbiamo avviato prima degli altri il recupero dei centri storici, ammodernato il patrimonio edilizio esistente e permesso anche un calo dei prezzi del mercato immobiliare per chi vive il nostro territorio». Em.Is.

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dossier

| umanità urbane |

La prosperità non è mai diseguale di Corrado Fontana

Dove c’è crescita equilibrata prevalgono prospettive positive: vale per gli Stati come per le grandi aree urbane del Pianeta, luoghi chiave per interpretare lo sviluppo. A stilarne la classifica sono state le Nazioni unite, che hanno stabilito i cinque criteri della prosperità cellona, Amsterdam, Melbourne, Tokyo, Parigi, Londra, Toronto, New York, in fondo al gruppo stanno solo in cinque, tutte realtà africane che hanno recentemente sperimentato instabilità politica e conflitti con vari gradi di intensità: Monrovia (Liberia), Conakry (Guinea), Antananarivo (Madagascar), Bamako (Mali), Niamey (Niger). Le fasce medie e inferiori sono invece perlopiù occupate dai centri asiatici, sudamericani e dei Paesi emergenti (Mosca, San Paolo, Budapest, e poi Beijing, Bangkok, Cape Town, Manila e, ancora più giù, Mumbai e New Delhi, Tegucigalpa, Nairobi, Dakar, La Paz). È una vera scala di merito, insomma, dove spuntano anche originalità si-

gnificative: New York, Johannesburg e Cape Town, ad esempio, che nascondono dietro una facciata di solida prosperità picchi troppo elevati di diseguaglianza economica tra i cittadini; Shanghai, che svetta per sostenibilità ambientale ma pecca in produttività; Harare, la capitale dello Zimbabwe, come simbolo delle contraddizioni, tra infrastrutture da prima fascia e produttività minima.

Fuori scala L’interesse del documento non si limita però all’offerta di una ricetta per la prosperità (ammesso di saper recuperare le risorse per applicarla), ma nello svelare ciò che sta dietro gli indici: la maggiore fragi-

CITTÀ COME MOTORI DI SVILUPPO HDI delle città

INDICE DI SVILUPPO UMANO (HDI) DELLE CITTÀ E DEI PAESI CHE LE OSPITANO A CONFRONTO

HDI dei Paesi nel 2010

1.0 0.9 0.8 0.7 0.6 0.5 0.4 0.3 Toronto

Seoul

Mexico City Warsaw

Cairo

Mumbai New Delhi

Accra

Dakar

Niamey

Monrovia

Kinshasa

0.2

Città con alti valori di HDI (cioè l’Indice di sviluppo umano) appaiono sia come motori di cambiamento positivo che come beneficiarie di prosperità. Alcune aree urbane stanno diventando così prospere da riuscire a chiudere (quando non a oltrepassare) il gap con l’HDI delle città sorte in nazioni assai più sviluppate. Ad esempio, Seoul (Corea del Sud) presenta una HDI di 0,911, cioè superiore a quello di molte città europee, soprattutto delle regioni meridionali e orientali, come Lisbona, Atene o Varsavia. L’analisi di UN-Habitat mostra che alcune città riflettono un progresso molto significativo in ambiti come sanità e istruzione, anche in assenza di una crescita economica sostenuta. | 10 | valori | ANNO 13 N. 115 | DICEMBRE 2013/GENNAIO 2014 |

FONTE: UN-HABITAT, GLOBAL URBAN OBSERVATORY, 2012

Q

uasi fossero dei comandamenti, il gruppo di studio UN-Habitat delle Nazioni unite ha individuato cinque dimensioni di prosperità per le aree urbane del Pianeta: produttività e lavoro; sviluppo delle infrastrutture; qualità della vita; equità e inclusione sociale; sostenibilità ambientale. Rappresentano gli aspetti da incentivare e mantenere in equilibrio per assicurarsi un buon futuro, raccontati in un rapporto sulle prospettive delle città del mondo (State Of The World’s Cities 2012/2013 - Prosperity of Cities). In base a questi criteri l’ONU ha classificato il grado di sviluppo attuale e le prospettive future. E così, mentre in cima troviamo Vienna, Varsavia, Milano, Bar-


| dossier | umanità urbane |

lità dell’Europa meridionale e orientale perché Atene, Roma, Madrid, Barcellona e Milano, ma anche Berlino, restano un po’ fuori dalle grandi reti internazionali, nonostante la loro dimensione economica. E, per il motivo opposto, la forza di Londra e Parigi. L’immane contributo che può offrire a un Paese come gli Stati Uniti quell’area urbana continua che raggruppa Boston, New York, Philadelphia, Baltimora e Washington DC, dove vivo-

no 52 milioni di individui (il 17% della popolazione nazionale), generando il 21% del Pil americano. Gli esempi altrettanto fondamentali, infine, forniti dai quasi 18 milioni di abitanti dell’area diffusa tra Il Cairo e Giza, o dalle cosiddette città in forma di “corridoio policentrico urbano”, come quello che si estende tra Il Cairo e Alessandria lungo 225 chilometri, o i 600 chilometri che collegano Ibadan, Lagos e Accra, attraverso Nigeria, Benin, Togo e

Ghana. Un modello diffuso anche nella regione del mondo dove la popolazione è più urbanizzata, l’America Latina: qui le città maggiori assomigliano a regioni (tra San Paolo e Rio de Janeiro abitano 43 milioni di persone), nascono costrette dalla conformazione fisica del territorio lungo le arterie di trasporto, ma mantengono uno sviluppo delle periferie e delle costruzioni “a bassa densità”.  www.unhabitat.org

Una crescita da guidare di Valentina Neri

La Commissione europea ha destinato allo sviluppo urbano sostenibile almeno il 5% delle risorse del Fondo europeo di sviluppo regionale Il termine tecnico urban sprawl a prima vista può sembrare oscuro. Ma le sue conseguenze ci sono molto vicine. Le città dello sprawl crescono in maniera rapida e disordinata, consumando quantità crescenti di suolo e perdendo gradualmente la distinzione tra area urbana e campagna. Le periferie si estendono a dismisura, ma la densità abitativa si fa sempre più bassa perché si costruisce di più rispetto al reale aumento della popolazione. E non si parla solo di Sydney, Los Angeles, Washington o Atlanta. Nell’arco dell’ultimo decennio, nelle nostre dieci città metropolitane (Roma, Milano, Napoli, Torino, Bari, Bologna, Firenze, Genova, Venezia e Reggio Calabria) la popolazione è scesa dal 32 al 30% del totale nazionale e nel frattempo la superficie è passata dall’8,8 all’11%. Con una quota crescente di abitanti che si spostano in provincia. A fornire i dati è Carlo Tosti, direttore dell’Osservatorio sulla mobilità e i trasporti Eurispes, che a ottobre, in occasione di Citytech (www.citytech.eu), ha dato qualche anticipazione del Libro bianco che uscirà in primavera. E ha spiegato che le famiglie si trovano ad affrontare tragitti quotidiani sempre più lunghi e, in assenza di servizi adeguati («La sola Madrid ha più chilometri di metropolitana di tutte le città italiane messe insieme»), finiscono per acquistare un’altra auto, che pure «vale, secondo le stime, il 10% del reddito familiare». I minori costi delle case e della vita in provincia, in sintesi, vengono bilanciati dall’aumento delle spese di spostamento. Ciò accade perché, racconta Tosti a Valori, «lo urban sprawl in Italia non è stato guidato», a differenza di quanto è accaduto a «Parigi, Praga o Berlino, dove la forte crescita residenziale è stata seguita con un progetto che, prima ancora di approvare piani regolatori, salvaguardasse i trasporti, la scuola, i servizi». Non è certo facile e «non esiste un approccio standard: bisogna affrontare simultaneamente problemi di fattibilità tecnica, economica e politica», ha dichiarato

Alessandro Balducci, professore in Pianificazione e politiche pubbliche del Politecnico di Milano, al convegno City Making organizzato da KCity. Risorse per uno sviluppo urbano sostenibile Non a caso la Commissione europea ha proposto di destinare allo sviluppo urbano sostenibile almeno il 5% delle risorse del Fondo europeo di sviluppo regionale. I dettagli sono ancora da confermare, ma il ministero della Coesione territoriale stima che all’Italia debbano arrivare circa 30 miliardi di euro, a cui aggiungere il cofinanziamento nazionale. Il 5% della cifra, comunque, a detta di Tosti «sarebbe assolutamente insufficiente a risolvere i problemi delle nostre città. Potrebbe però servire per interventi di soft mobility (car e bike sharing, strumenti di info-mobilità e applicazioni mobili), che aiuterebbero a limitare la congestione delle aree metropolitane. Vale a dire un fenomeno che, secondo i nostri studi, provoca ogni anno danni diretti e indiretti pari a un punto percentuale di Pil, cioè 15 miliardi di euro». Ma la cosa più interessante, spiega Paolo Cottino, è che «i finanziamenti, sia a livello europeo sia col Piano Casa nazionale, saranno destinati sempre più a progetti integrati. È senza dubbio una sfida per le amministrazioni, che sono strutturate per settori indipendenti tra loro. Ma, in un periodo difficile come questo, è anche un modo per aggregare fonti di finanziamento differenti, destinate ad esempio all’ambiente, allo sport, alla cultura». Ma i fondi pubblici non sono l’unica strada. «In questa fase di spending review bisogna puntare sul project financing», afferma sicuro Tosti. L’integrazione tra pubblico, privato e Terzo Settore, conferma Cottino, è il modo migliore per far fruttare le competenze di tutti questi soggetti. Competenze che, in fin dei conti, sono la risorsa più importante: «A un livello zero – conclude – si può fare innovazione urbana anche senza finanziamenti aggiuntivi. Capita ancora troppo poco, ad esempio, che assessorati e associazioni si mettano tutti attorno a un tavolo per capire come coordinare per un fine comune le fonti che ciascuno di essi ha a disposizione. Ma questo è il primo modo per rendere una città più smart e quindi più vivibile». 

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Le favelas sono la città di Lorenza Baroncelli*

Ovunque nel mondo gli insediamenti informali sono parte integrante delle città. Non possiamo non considerarli o trattarli come qualcosa da eliminare, l’amministrazione pubblica e tutti noi dobbiamo prendercene cura

N

città, o pezzi di città, dei Paesi in via di sviluppo come Kenya, Brasile, India e Colombia, in cui guerra, cambiamenti economici o tecnologici spingono imponenti flussi di persone a cercare rifugio in città nell’illusione di una vita migliore. I movimenti nel territorio sono così rapidi e imponenti che le amministrazioni pubbliche non riescono a gestirne la crescita. E nascono disfunzioni strutturali tali da creare conseguenze non solo sulla struttura urbana (assenza di condizioni igieniche minime e

Un ruolo nella società Questo eterogeneo e parziale abaco di pezzi di città informale ci racconta tre aspetti che, come architetti e urbanisti, abbiamo il dovere di osservare con attenzione. Primo, la città informale ha la capacità di essere estremamente porosa, in grado di accogliere i flussi imponenti di migrazione verso le grandi aree urbane del Pianeta. Gli insediamenti informali costituiscono la prima forma di accesso ANTONIO OTTOMANELLI

elle favelas di San Paolo vivono tre milioni di persone, otto negli slum di Mumbai, due milioni e cinquecento mila in quelli di Nairobi. Gli insediamenti informali non sono un corpo alieno, estraneo, sono una parte fondamentale della città contemporanea. Ognuna ha la sua identità, la sua organizzazione, il suo linguaggio, le sue attività, la sua musica, il suo rituale, la sua aspirazione. Ciò che accomuna realtà così diverse è la modalità con cui nascono: la città informale cresce più rapidamente della capacità dell’amministrazione pubblica di pianificarne lo sviluppo.

di infrastrutture primarie), ma soprattutto sul tessuto sociale. Gli slum sono spesso il luogo di spaccio di droga o terreno fertile per la criminalità organizzata. Nella grande famiglia delle città informali rientrano tutti i processi di “slumificazione”, cioè di deterioramento della qualità del tessuto urbano, in particolare negli edifici di edilizia residenziale pubblica costruiti con tecnologie ormai superate. Un esempio chiaro lo fornisce Mosca, in cui il 70% del tessuto edilizio è stato costruito attraverso i microrayon o microdistretti, blocchi residenziali edificati durante l’era sovietica che stanno subendo un processo di degradamento incontrollabile, conseguenza della liberalizzazione del mercato edilizio.

Anche a casa nostra La città informale è stata parte fondante anche del patrimonio italiano: nel Medioevo furono costruiti centri al di fuori di una legislazione che ne regolasse l’edificazione. I borghi fino alle grandi trasformazioni urbanistiche risorgimentali furono conurbazioni labirintiche, insalubri, luogo di diffusione della lebbra. Osservando la storia del XX secolo giungeremmo alla stessa conclusione: il Mandrione o il Porto Fluviale a Roma sono state auto-costruite (o costruite abusivamente) dai migranti del sud Italia quando, finita la seconda guerra mondiale e nel pieno del boom economico, si spostarono a Roma per cercare lavoro. Ma quando oggi parliamo di città informale subito pensiamo a slum, favelas, bidonville, shintytown, comunas, tutte | 12 | valori | ANNO 13 N. 115 | DICEMBRE 2013/GENNAIO 2014 |

Baghdad, una delle città coinvolte nel progetto seguito da Lorenza Baroncelli.


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Prendersi cura Se ragioniamo oggi sul panorama urbanistico, sociale ed economico che caratterizza una grande città come San Paolo, ma anche la gran parte delle grandi città del mondo, capiremo che si è aperta una nuova fase nel modo in cui le culture dell’architettura e dell’urbanistica – e con esse le politiche pubbliche – affrontano la questione del dilagare della città informale: quella del prendersi cura, di un pezzo della nostra città, di un pezzo fondamentale della nostra società, che non possiamo più cancellare dal nostro sguardo, ma che non possiamo neanche più semplicemente condannare come un difetto o guardare come se fosse un ambiente malato. Prendersi cura significa soprattutto guardare con grande attenzione quello che succede nelle società che abitano gli spazi di questi insediamenti informali e che la loro presenza non solo è ormai indiscutibile, ma anche necessaria. Prendersi cura significa valorizzare le potenzialità che esistono nel territorio e nutrirle. L’amministrazione pubblica dovrebbe mettersi dalla parte della domanda e non più dell’offerta. Di fronte a carenze strutturali, ma contemporaneamente alla presenza di saperi tecnici e capacità imprenditoriale nel territorio, dovrebbe avere il coraggio di utilizzare il patrimonio di risorse, dinamismo, solidarietà e inventiva che gli insediamenti informali possono offrire.  * Architetto, ha lavorato con Stefano Boeri e ha coordinato il progetto a Sao Paolo Calling

L’HOUSING SOCIALE A MILANO È GREEN E PARTECIPATO RICCARDO RONCHI

alla vita urbana per migliaia di migranti e contadini. Il secondo elemento è legato alla dimensione produttiva. Negli insediamenti informali le necessità di sopravvivenza e l’assenza di vincoli e regolamenti possono favorire lo sviluppo diffuso di piccole imprese artigianali e di servizio al cittadino che sostituiscono il welfare pubblico e alimentano un mercato molecolare di prodotti. E, infine, la struttura fisica degli insediamenti informali, un nuovo modello di urbanizzazione e di socialità, densissimo e molecolare. Migliaia di piccole costruzioni ammassate costituiscono una struttura compatta, minuta, intima, dove ogni angolo è vita.

Via Cenni per i milanesi era soltanto una strada in zona San Siro. Dal 16 novembre, data dell’inaugurazione, è ufficialmente la sede del progetto di housing sociale residenziale più grande d’Europa. I quattro palazzi di nove piani, per un totale di 123 appartamenti, sono stati costruiti nell’arco di soli 18 mesi. L’architetto fiorentino Fabrizio Rossi Prodi, che si è aggiudicato il concorso internazionale indetto nel 2009, ha scelto di puntare sul legno e sul risparmio energetico (tutto il complesso è in classe A). Ma, per quanto importante, la modalità di costruzione è solo uno dei tasselli. Non a caso attorno al progetto ruota una lunga lista di soggetti. L’area è del Comune, che mette a disposizione alcuni alloggi a canone sociale, e fa parte del Fondo Immobiliare Lombardia. A gestirlo è Polaris Sgr, mentre la Fondazione Housing Sociale è l’advisor tecnico e sociale e la cooperativa DAR Casa è il gestore sociale. È la cooperativa, quindi, a presidiare il complesso, riscuotere i canoni di locazione, curare la manutenzione e, insieme alla Fondazione, incaricarsi dell’accompagnamento sociale, quel percorso che «andrà avanti almeno per un paio d’anni ed è iniziato prima ancora che gli inquilini entrassero nelle case, con l’acquisto delle cucine», spiega Roberta Conditi della Fondazione. Gli abitanti hanno incontrato i referenti di alcune aziende che hanno visitato gli appartamenti, hanno valutato gli aspetti da personalizzare e, al raggiungimento di una massa critica, hanno concesso un prezzo agevolato. Una sorta di Gas, replicato anche coi traslochi. L’obiettivo, d’altronde, è quello di «trasformare dei perfetti sconosciuti in una comunità di residenti». Anche sfruttando i numerosi spazi comuni e gli ambienti al piano terra, destinati al commercio e ai servizi. «Abbiamo lavorato con il consiglio di zona e le reti già esistenti – conclude – per far sì che si insedino attività che sappiano rispondere ai bisogni del territorio». V.N.

IL FORNO DI ONNA: COSTRUIRE BENE ASCOLTANDO I CITTADINI La vita a Onna ricomincerà dal forno. Dal luogo simbolo di una comunità che cerca di ripartire. Ancor più simbolico per gli abruzzesi, per i quali la crosta croccante del pane è un pezzo di cuore che batte. Il forno del paese raso al suolo dal terremoto del 2009 sarà il primo edificio storico a essere ricostruito. Per lui sono arrivati 250 mila euro di fondi dell’associazione costruttori Ance e dalle Casse edili. Per altre 110 case mancano ancora i soldi. Ma il progetto è ultimato (e visibile sul sito onnaonlus.org). A caratterizzarlo, il sogno di ricostruire Onna secondo i principi della bioarchitettura. «Manterremo intatte le facciate originarie e gli edifici di alto valore storico. Ma l’intero centro urbano osserverà i principi di antisismicità, risparmio energetico, bioclimatica», spiega Wittfrida Mitterer, direttrice della rivista Bioarchitettura e coordinatrice del pool di architetti che segue la ricostruzione. Che, fattore cruciale, è stata pensata in funzione delle esigenze dei cittadini, con i quali sono stati organizzati incontri settimanali. Una dimostrazione di urbanistica partecipata, che può diventare modello da esportare. Anche dal punto di vista economico. «Perché con un programma ben studiato – spiega Mitterer – si spende meno che costruendo male». onnaonlus.org Em.Is.

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Deserto urbano di Corrado Fontana

Città in crisi profonda o addirittura in fallimento, spogliate, scomparse o abbandonate perché esaurite di funzioni e prospettive. Interi quartieri nati già morti. Il capezzale delle città del mondo è affollato, per non dire del cimitero naturalmente molto forte la tentazione di “progettare” una città da zero e poi semplicemente eseguire il progetto, edificando così un’utopia in senso materiale. Tuttavia, queste città sono costruite su un errore mentale, a partire dall’idea che una città sia un luogo fisico prima di tutto e che la cultura e l’economia vengano guidate da questa struttura materiale. Ma la realtà è

«È

toshiyawatanabe.see.me / per vedere le foto di Namie realizzate da Toshiya Watanabe

l’opposto: una città è il risultato di un sistema socio-economico, non una sua causa»: così sostiene Tom Bosschaert. Che, per dare corpo al concetto, cita gli appartamenti vuoti di Dubai, scintillante ma priva di una classe culturale vivificatrice, e cita Detroit.

Se anche Motown crolla L’estate scorsa, infatti, il governatore Rick Snyder faceva richiesta di fallimento per Detroit, appellandosi al cosiddetto Chapter 9 (la norma che regola la bancarotta degli enti statali negli Usa). Era il 18 luglio 2013 e Motown, come è chiamato il simbolo urbanizzato dell’industria automobilistica americana, si arrendeva, schiacciata dai debiti (18 miliardi di obbligazioni mu-

LE CITTÀ FANTASMA Hashima (Giappone): isola fantasma detta anche “Gunkanjima”. Fu abitata nel 1890, quando la comprò Mitsubishi per estrarre carbone dalle miniere sottomarine, e giunse a ospitare quasi 6 mila persone nel 1959. Alla cessazione delle attività minerarie, nel 1974, fu chiusa per motivi di sicurezza. Prypijat (Ucraina): situata vicino al confine bielorusso, a circa 110 km a nord di Kiev. Nel 1986 rimase deserta dei suoi 47 mila abitanti, sfollati in seguito al terribile incidente occorso nella vicina centrale nucleare di Chernobyl. Kolmanskop (Namibia): fondata nel 1908, venne lentamente abbandonata dopo la prima guerra mondiale, quando le vendite di diamanti iniziarono a crollare. Oggi la sua cittadina mineraria è una popolare destinazione turistica. Pomona (Namibia): sorta nel deserto, presso quella che nel 1910 era la più ricca miniera di diamanti del mondo, è caduta anch’essa vittima del crollo del mercato delle pietre preziose nel primo dopoguerra. Oradour-sur-Glane (Francia): distrutta il 10 giugno 1944, con l’uccisione dei suoi 642 abitanti da parte delle SS. Pyramiden (Norvegia): insediamento minerario russo sull’isola norvegese di Spitsbergen, nelle Svalbard, fondato nel 1910 e venduto all’URSS nel 1927. Sopravvissuto grazie allo sfruttamento dei giacimenti carboniferi e al turismo estivo, è stato abbandonato nel 1998 ma case e infrastrutture sono intatte. E ora godrebbe di un lento rilancio turistico. Stromness (Regno Unito): una stazione baleniera attiva dal 1912 al 1931, quando venne convertita in sito di riparazione di navi, e abbandonata nel 1961. Si trova a sud-est delle coste argentine ma è colonia britannica. Sewell (Cile): città mineraria nata sui pendii del Cerro Negro, sulle Ande, fra i 2.000 e i 2.250 metri d’altitudine. Fondata nel 1904 dalla Braden Copper Company per estrarre il rame, nel 1918 ospitava 14 mila abitanti ma dal 1977 la Compagnia cominciò a trasferire le famiglie a valle, fino a smantellare la miniera. È monumento nazionale dal 1998 e Patrimonio dell’umanità dell’UNESCO dal 2006.

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nicipali, 2 miliardi delle quali non strutturate, cioè non garantite) e da un sistema assicurativo-sanitario e previdenziale pubblico molto gravoso (circa un terzo del budget cittadino). La richiesta di bancarotta – al vaglio della Corte Costituzionale mentre scriviamo – ha messo in crisi gli investimenti di altri enti locali del Michigan (Saginaw County, Battle Creek...) bloccati dalla diffidenza dei creditori, e certifica una crisi economica e di lavoro solo da poco in calo (la disoccupazione a Detroit è scesa dal 28% del 2009 al 18%). Ma soprattutto è una bancarotta attesa per un’area urbana che si è estesa fino a inglobare due milioni di persone negli anni ’50, perlopiù occupate e quindi capaci di pagare tasse e servizi corrispondenti, ma che ora si è spopolata fino a contare 700 mila abitanti, in gran parte poveri e senza lavoro. La scommessa di Detroit è perciò farsi più piccola e attrarre nuove società di buona prospettiva e famiglie benestanti, per ripartire grazie al prezzo delle case crollato e ai servizi del centro ancora adeguati. È un processo di gentrification (vedi GLOSSARIO ) che, insieme, produce la progressiva espulsione dei poveri e denuncia i limiti solidaristici del sistema di federalismo fiscale americano.

Oltre la bolla immobiliare Aree urbanizzate in profondo rosso, perciò, ma anche vere e proprie ghost towns, città intere o quartieri fantasma, si diffondono per il Pianeta. Lo denunciano le Nazioni Unite, registrando, ad esempio, la sfrenata corsa immobiliare della “tigre celtica” irlandese e della Spagna tra 2001 e 2010, poi frustrate entrambe dallo scoppio dalla crisi economica internazionale e dallo scoppio della bolla, con il crollo dei prezzi, le case invendute e l’aumento esponenziale degli sfratti di chi una casa non può più permettersela. Ma non solo. In nazioni come l’Angola, l’Egitto, il Messico o la Ci-

GLOSSARIO GENTRIFICATION In italiano “gentrificazione”, ovvero il fenomeno per cui una fascia di popolazione benestante acquisisce immobili in una comunità meno ricca, contribuendo a un processo di riqualificazione socio-culturale ed economica del territorio urbano.


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UNA DETROIT DI ROMANIA Come la capitale dell’auto Usa, Aninoasa, città rumena di seimila anime sconosciuta ai più, ha dichiarato bancarotta nel 2013: la miniera di carbone su cui aveva fondato la propria economia è stata dismessa, cancellando quasi ogni opportunità occupazionale. Un fallimento inedito per la Romania, conseguenza di uno sviluppo finora drogato dal sostegno dei finanziamenti europei, che l’amministrazione non è riuscita a trattenere, ma su cui avrebbe incentrato i propri bilanci.

NEL NOME DEL CHAPTER 9 Prima della città dell’auto, altri 60 enti locali nella storia americana si erano appellati al capitolo 9, dichiarando bancarotta e chiedendo così una regolazione giudiziale dei propri debiti coi creditori (fecero scalpore i quattro miliardi di dollari di buco della contea di Jefferson, in Alabama). L’agenzia di Rating Moody’s, peraltro, ha sostenuto ad agosto scorso di aspettarsi altri casi di fallimento, soprattutto in California, poiché lì sarebbero una decina i grandi centri con problemi sistemici e difficoltà a pagare le fatture. Sul web, poi, c’è chi scommette su Compton, Latham, Fresno e persino sulle cosiddette too big-too fail (troppo grandi per, essere lasciate, fallire), come Chicago, Philadelphia e New York. La prima, secondo il Manhatthan Institute, potrebbe ad esempio patire i conti disastrati di vari fondi pensione.

IL PAESE DELLA FINANZA ALLEGRA: IN DISSESTO 479 COMUNI Dalla A di Alessandria alla Z di Zapponeta. Un elenco alfabetico che coinvolge quasi tutte le regioni e che, dal 1989 al 13 maggio scorso, ha raggiunto quota 479. Tanti sono i Comuni italiani che hanno finora dichiarato il dissesto finanziario. Termine più burocratico e meno sconcertante di default o bancarotta, ma per nulla diverso nella sostanza: un ente in dissesto non può pagare i propri debiti ed erogare i servizi di propria competenza. Per 72 di quei 479 Comuni il dissesto è ancora in corso, rivela la Corte dei Conti citando dati del ministero dell’Interno. E nella Relazione sulla gestione finanziaria pubblicata ad agosto scorso, sottolinea che nel 54% dei casi i Comuni in bancarotta hanno meno di diecimila abitanti, segno probabile di «disfunzioni organizzative e amministrative o di difficoltà degli Enti minori ad affrontare situazioni gravi e particolari». Tra le cause frequenti di dissesto «il mantenimento in bilancio di residui attivi spesso sopravvalutati e inesigibili, la crisi irreversibile di liquidità con ricorso sistematico ad anticipazioni di tesoreria di notevole entità, ingenti debiti fuori bilancio, debiti inerenti agli andamenti dei derivati stipulati e la mancanza di equilibrio di bilancio, causato dalla sopravvalutazione di alcune entrate e dalla sottovalutazione di alcune spese». Un argine al fenomeno pare essere stato posto dalla riforma della Costituzione che impone agli enti dissestati di provvedere da soli al proprio risanamento, senza aiuti dallo Stato. Ma l’effetto perverso è sempre dietro l’angolo: «La mancanza di finanziamenti erariali per il sostegno al risanamento – avvisa la Corte dei Conti – ha purtroppo reso i sindaci propensi a non dichiarare lo stato di dissesto degli enti, rendendo più gravosa la situazione economico-finanziaria». Non a caso, il dissesto viene dichiarato subito dopo le elezioni dal sindaco appena eletto, che spesso si trova a dover gestire problemi creati prima del suo arrivo. Dal 2012, per evitare il fallimento, i Comuni possono chiedere di aderire alla procedura di riequilibrio finanziario pluriennale, «rimedio meno radicale del dissesto ma più impegnativo per l’azione strutturale di recupero degli squilibri», si legge nella relazione. In un solo anno, 46 enti ne hanno fatto richiesta (11 hanno più di 50 mila abitanti), per rientrare di 670 milioni di debiti. Em.Is. ENTI DISSESTATI PER REGIONE E NUMERO DI ABITANTI AL 13.05.2013 Numero di abitanti [migliaia] Regione <3 3-5 5-10 10-20 20-50 50-100 Piemonte 5 Lombardia 9 4 2 Liguria 2 2 Veneto 1 2 Emilia Romagna 2 3 3 Toscana 1 1 2 1 Umbria 3 1 Marche 1 4 1 Lazio 12 10 8 3 5 6 Abruzzo 7 7 2 1 1 Molise 11 3 1 Campania 22 33 12 20 18 15 Puglia 8 11 14 2 1 Basilicata 5 7 3 2 1 Calabria 30 60 26 14 8 Sicilia 3 5 4 8 6 4 Sardegna 1 1 1 Totale complessivo 110 150 74 65 42 31

100-150 1

>150

1

2

1 1

1

5

2

Totale 6 15 4 3 8 5 4 6 45 18 15 123 37 19 138 30 3 479

FONTE: MINISTERO DELL’INTERNO

na sono numerosi gli insediamenti pianificati per accogliere fasce di popolazione a medio-basso reddito, magari migranti rurali, che però ora non hanno i requisiti adeguati al target iniziale, per i prezzi elevati o la dipendenza da strade che richiedono l’uso di auto e trasporti a motore, generando il loro abbandono. Così è per Kangbashi, città satellite di Ordos, nella Mongolia Interna, semivuota sebbene il 90% delle case siano state vendute; oppure per la cinese Chenggong, scarsamente occupata a 10 anni dal completamento; e per l’Egitto, dove tra il 20 e il 30% delle unità abitative urbane disponibili sarebbero vuote. E poi ci sono intere città morte per le cause più differenti (vedi SCHEDE ), economiche, belliche o ambientali: tra le ultime in ordine di tempo c’è Namie, cittadina giapponese abbandonata forzatamente dopo il disastro di Fukushima, a causa della contaminazione radioattiva seguita al terremoto. 

N.B.: Nel periodo in esame n. 12 Enti hanno dichiarato il dissesto due volte; deve inoltre aggiungersi a questi l’Amministrazione Provinciale di Napoli, con dissesto dichiarato nel 1993 e presentazione del rendiconto nel 2003.

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| globalvision |

I pericoli dei prezzi bassi

Urge una politica di bilancio espansiva ggi si parla solo di deflazione, un modo di dire recessione a partire dai prezzi, o, più precisamente, dal loro calo. L’inflazione non fa più paura. Era il luglio 2008 quando la Banca centrale europea alzò improvvidamente i tassi di interesse, temendo l’inflazione, mentre il mondo stava entrando nella più grave recessione mondiale del secondo dopoguerra,

O

paragonabile per gravità solo alla Grande Depressione degli anni Trenta. Ora è la deflazione che fa paura al punto che Draghi ha recentemente (primi di novembre del 2013) ridotto i tassi (dallo 0,5% allo 0,25%) al loro minimo storico. Ma perché temere la deflazione? Non è forse un bene se i prezzi scendono, cioè se costa meno ciò che acquisto? Ciò può valere per il singolo prodotto o limitatamente ad alcuni comparti. Può accadere per esempio che il progresso tecnologico o l’innovazione nei processi o le economie di scala possano condurre a cali di prezzi di alcuni beni, diffondendo in tal modo benessere, cioè aumentando il potere di acquisto a parità di redditi. Ma con il termine deflazione si intende una fase di crisi che comporta una generale e simultanea discesa dei prezzi di beni e servizi, delle attività mobiliari e finanziarie in genere e degli immobili. Da un lato i prezzi in calo spingono i consumatori a posticipare gli acquisti (più si aspetta e più si risparmia), creando un vuoto di domanda che si autoalimenta su nuove aspettative di ribasso dei prezzi. Dall’altro i crolli dei valori mobiliari e immobiliari causano importanti danni economici diretti e indiretti. Questi ultimi riguardano la riduzione di ricchezza che ha | 16 | valori | ANNO 13 N. 115 | DICEMBRE 2013/GENNAIO 2014 |

Se l’economia europea entrasse in un periodo di deflazione si avvierebbe un processo rischioso e difficile da scardinare. Per evitarlo serve una politica di bilancio espansiva effetti depressivi sui consumi. I danni diretti riguardano invece il valore delle garanzie sui prestiti che, dunque, mettono a repentaglio la stabilità del sistema bancario. In definitiva la spirale deflazionistica di un’economia è pericolosa proprio perché è difficile da superare, insomma è arduo uscirne perché, come detto, si autoalimenta (ne sa qualcosa il Giappone).

di Alberto Berrini

L’intervento di Draghi, ossia un allentamento monetario volto a combattere i rischi deflattivi di un’economia in crisi, è dunque benvenuto. Ma, come quasi tutti sanno e alcuni fanno finta di non sapere (i liberisti), la politica monetaria da sola non è sufficiente a combattere la deflazione. Serve una politica di bilancio “espansiva”. Come ha ricordato lo stesso Draghi: «Anche i governi devono fare la loro parte». Ancora di più: data la gravità della crisi serve un altro New Deal, vale a dire un vasto programma a lungo termine di investimenti pubblici per una vera rivoluzione industriale, tecnologica e sociale. Ma l’Europa, imperterrita, continua a parlare e a praticare una politica economica di austerità. Così la crisi non finisce mai. 


fotoracconto 04/07

ANTONIO OTTOMANELLI

La città di Baghdad sta subendo un notevole processo di migrazioni interne a causa della guerra. La popolazione scappa dai luoghi dei conflitti e si rifugia in città. Ma il conflitto è in continuo movimento. Così capita che abitanti delle campagne si trovino a occupare case abbandonate dalla borghesia cittadina. Anche questi sono insediamenti informali. | ANNO 13 N. 115 | DICEMBRE 2013/GENNAIO 2014 | valori | 17 |



| turismo in rete |

finanzaetica

City of God. A Londra la nuova frontiera della finanza islamica > 22 Avanzi, tagli, interessi. Anche l’Italia ha il suo debito odioso > 25

Grand Hotel “Paradiso fiscale” di Andrea Barolini

I principali siti Internet dedicati alle prenotazioni di viaggi, hotel e case-vacanza a prezzi ridotti.

hi abita a Pisa osservi bene la Torre pendente. I romani scrutino a fondo il Colosseo. I veneziani si soffermino sul campanile di piazza San Marco. E gli isolani sardi diano un’occhiata più attenta alla spiaggia di Stintino. È tutto in ordine? Non manca proprio nulla? In effetti, apparentemente, le nostre bellezze naturali, i monumenti, le attrazioni e tutto ciò che rende il Bel Paese una meta turistica unica al mondo per ricchezza e varietà continuano a far parte del nostro patrimonio. Eppure questo inestimabile regalo che la storia e la natura ci hanno fatto sta pian piano abbandonando l’Italia. Non fisicamente, certo, quanto piuttosto economicamente. A compiere il “miracolo” di delocalizzare ciò che è sempre stato considerato intrinsecamente “indelocalizzabile”, il

C

Prenotare viaggi e soggiorni on line offre ai clienti notevoli vantaggi economici, ma a quale prezzo? Gli albergatori devono pagare alte percentuali di commissioni. E le tasse di solito finiscono nei paradisi fiscali. L’Italia “perde” circa 5 miliardi di tasse non pagate all’anno

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| finanzaetica |

turismo appunto, sono le Online Travel Agencies, note agli addetti del settore come le “OTA”. Sigla semi-sconosciuta ai più che racchiude, al contrario, un florilegio di marchi arcinoti. Alzi la mano chi non si è imbattuto in Expedia, Edreams, Booking, Opodo, TripAdvisor, Virtualtourist o Voyage-Sncf (soltanto per citarne alcuni). Organizzare un viaggio senza passare per uno o più di questi colossi del web-turismo è ormai impossibile. Perché sono comodi, a portata di mouse, immediati, aperti 24 ore su 24 e 365 giorni all’anno. Perché forniscono in molti casi anche valutazioni e opinioni su hotel, bed&breakfast, ristoranti, campeggi utili per orientare le proprie scelte. E, soprattutto, perché spesso riescono a offrire il prezzo meno caro. Tutto indiscutibile. Salvo il fatto che quello che viene dato con una mano, con un’altra, spesso, viene tolto.

Commissioni e posizioni di forza Partiamo dal meccanismo. Tipicamente un sistema di prenotazione on line può funzionare su due modelli. Il primo è quello che prevede che la OTA sia un intermediario tra un hotel e un cliente: pubblica sul proprio sito internet le offerte e, ogni volta che una camera viene prenotata, chiede una commissione all’esercente. Di norma tra il 15 e il 35% del prezzo totale (spesso più è alta la quota pagata alle OTA, maggiore è il livello di visibilità che gli albergatori ottengono sui siti). «Ho sentito perfino parlare del 60% – racconta Marco Michielli, presidente di Federalberghi Veneto – ma quando si arriva a questi livelli non si tratta più di collabo-

razioni: sono soltanto dei cappi stretti attorno al collo degli albergatori». Il rapporto, in effetti, appare decisamente squilibrato, dal momento che gli esercenti si vedono di fatto costretti a firmare contratti con le agenzie on line. Esse controllano una parte enorme del mercato e molti gestori ritengono impossibile lavorare senza di loro. Una dinamica che, secondo uno studio di XerfiPrecepta, citato dal mensile francese Alternatives Economiques, ha consentito al cosiddetto e-tourism di triplicare il proprio giro d’affari in sei anni. Ciascuna OTA, infatti, è in grado di proporre decine di migliaia di soluzioni per ogni Paese: Booking.com, ad esempio, parla sul proprio portale di 359 mila tra hotel, ville, appartamenti. «Soltanto in termini di pubblicità su Google le agenzie on line investono cifre che noi non potremmo mai neanche sognarci. Competere è semplicemente impossibile», prosegue Marco Michielli. Il secondo modello più diffuso tra le OTA prevede, invece, l’acquisto da parte loro di un certo quantitativo di notti in albergo, a fronte delle quali viene versata all’esercente una quota del prezzo finale (spesso il 75%). Quando un cliente effettua una prenotazione, pagando l’intera cifra, l’agenzia guadagna la differenza. «A tutti noi – accusa ancora il presidente di Federalberghi Veneto – vengono inoltre imposti numerosi vincoli. A partire dalla parity rate, ovvero il divieto di proporre prezzi diversi da quelli presenti sul sito dell’agenzia on line. In pratica ci viene impedito il marketing. Perfino nei confronti di quei clienti che si presentano in hotel senza es-

sere passati attraverso i portali web». Gli albergatori, poi, sono anche costretti a cedere l’uso del marchio: è per questo che quando si prova a scrivere il nome di un hotel su un motore di ricerca internet, molto spesso i primi risultati sono pagine di agenzie come Expedia o Booking.

Quale valore aggiunto Ma cosa ci guadagnano, in cambio, gli albergatori? In linea teorica, la possibilità di raggiungere un bacino di clienti che altrimenti forse non sarebbero riusciti a trovare. «In realtà, però, occorrerebbe maggiore coraggio da parte degli esercenti – spiega Renato Andreoletti, direttore della rivista specializzata Hotel Domani – perché internet è una rete libera, e facendo un portale come si deve, si potrebbe per lo meno minimizzare il problema. Le OTA, in questo senso, sfruttano un analfabetismo informatico diffuso nel nostro Paese». Su questo piano, insomma, i gestori di hotel potrebbero immaginare di fare concorrenza alle agenzie on line. Restano però alcuni problemi. Il fatto che i portali delle OTA offrono, in una sola pagina, decine e decine di possibilità per scegliere. E, ancor di più, il fatto che il turista sfrutta le agenzie soprattutto per spuntare il miglior prezzo. «Per questo – aggiunge Renato Andreoletti – si potrebbero offrire soluzioni diverse, pacchetti all inclusive o altre offerte per convincere i clienti. Altrimenti, come accade oggi, è inevitabile che le OTA diventino un oligopolio che impone le proprie condizioni». E a perderci, attenzione, non sono soltanto gli esercenti. Ma tutti noi.

Tasse addio, dall’Italia

SE ANCHE I COLOSSI SI RIBELLANO Il direttore generale del gruppo alberghiero Accor, Dennis Hennequin, dopo aver accusato una perdita netta di 599 milioni di euro sull’esercizio 2012, ha deciso di investire 120 milioni di euro per contrastare le agenzie di viaggi on line. «Le OTA – ha dichiarato nel febbraio scorso – hanno guadagnato altre porzioni di mercato lo scorso anno e rappresentano ormai un volume d’affari da quasi 1 miliardo di dollari nei nostri hotel». Per questo il gruppo punta a far sì che almeno il 50% delle prenotazioni arrivi direttamente dal loro sito, non attraverso gli intermediari. Se così fosse, a guadagnarci sarebbero anche le casse pubbliche dei luoghi dove fisicamente sono presenti gli alberghi, dal momento che i profitti rimarrebbero in loco. E sarebbero regolarmente tassati.

| 20 | valori | ANNO 13 N. 115 | DICEMBRE 2013/GENNAIO 2014 |

Prendiamo due casi emblematici: i gruppi Expedia e Priceline (quest’ultimo proprietario di Booking.com). Il primo risiede nello Stato americano del Delaware, che per la Ong Tax Justice Network è a pieno titolo un paradiso fiscale. Ciò significa che tutte le volte che prenotiamo un hotel italiano sulle loro piattaforme e paghiamo loro (quasi inconsapevolmente) una parte del prezzo finale, facciamo defluire denaro al di fuori dei confini – benché virtuali – del nostro Paese. Quella parte di ricavi non potrà essere tassata dallo Sta-


| finanzaetica |

to e contribuirà a rimpinguare le casse di un tax haven: «Esaminando i dati di Bankitalia possiamo dedurre che queste “multinazionali dell’intermediazione on line” sottraggono all’Italia da 10 a 20 miliardi di euro in termini di commissioni. Il che equivale a circa 5 miliardi di euro di tasse non pagate», aggiunge Andreoletti. Cifre da capogiro. Priceline, in questo senso, è perfino più “trasparente”: sul proprio rapporto annuale spiega senza nascondersi che gli albergatori iscritti su Booking.com versano le commissioni dovute su un conto olandese, perché nei Paesi Bassi il sito è considerato una «attività innovatrice». E, per questo, è autorizzata a pagare soltanto il 5% di tasse sui propri ricavi. Il danno alla collettività è dunque evidente. Si potrebbe eccepire che, se si ammettesse un notevole incremento dei flussi di turisti derivanti dalle intermediazioni delle OTA, il totale incassato dal Tesoro potrebbe alla fine essere comunque più alto. «Niente di più falso», prosegue il direttore di Hotel Domani. «Prendiamo Roma: da quando è stato eletto papa Francesco, che è evidentemente più carismatico del suo predecessore, il giro d’affari degli alberghi ha ripreso di colpo vitalità: cosa c’entrano in tutto questo le OTA?». Ancora, si potrebbe osservare che anche prima esistevano degli intermediari, ovvero le agenzia di viaggi “classiche”. «Ma loro chiedevano commissioni ben più basse, nell’ordine del 10-15%. E fornivano un servizio», sottolinea Michielli.

GB, FRANCIA, GERMANIA E SVIZZERA: GLI ALBERGATORI DENUNCIANO Negli ultimi anni le associazioni di albergatori europee hanno deciso di tentare di contrastare i colossi delle prenotazioni on line. In Francia sono state adite sia la Commissione d’esame delle pratiche commerciali che l’Autorità per la concorrenza. Gli esercenti denunciano un abuso di posizione dominante da parte delle OTA. In Germania, l’Autorità per la concorrenza ha imposto ai siti internet delle agenzie on line di rivedere alcune clausole contenute nei contratti proposti agli albergatori. Procedure simili sono state avviate anche nel Regno Unito e in Svizzera. Nella Confederazione elvetica, in particolare, la Commissione della concorrenza ha aperto, l’11 dicembre 2012, un’inchiesta contro Booking.com B.V., Expedia, Inc., e HRS (Hotel Reservation Service). Nella comunicazione ufficiale si legge che «esistono indizi secondo cui determinate disposizioni contrattuali tra Booking.com, Expedia e HRS e i relativi alberghi convenzionati ostacolano o sopprimono la concorrenza sulle commissioni». Inoltre, alcune clausole «potrebbero costituire un abuso di una posizione dominante». In Italia, per ora, non sono state presentate denunce analoghe.

DOVE FINISCONO I NOSTRI SOLDI QUANDO PRENOTIAMO UN HOTEL

1

2

Cliente

Cliente

Agenzia di viaggi tradizionale

OTA

Hotel

Hotel

Transazione interamente tassata nei Paese in cui hanno sede l’agenzia e l’hotel

Transazione tassata solo in parte nel Paese in cui ha sede l’hotel

Cliente

Hotel

Un film già visto negli anni Sessanta Si tratta di una situazione che ricorda da vicino quella che ha riguardato il settore alimentare negli anni Sessanta. L’avvento della grande distribuzione organizzata, ovvero delle catene di supermercati, impose un intermediario “obbligato” tra consumatori e produttori. Anche in quel caso, facendo leva sulla comodità (di trovare in un unico luogo tutti o quasi i prodotti di cui si ha bisogno) e sui prezzi, tenuti bassi anche grazie alle condizioni imposte ai fornitori delle merci. Ma se i prezzi praticati dalle OTA sono imbattibili e se la loro forza econo-

3

Transazione interamente tassata nel Paese in cui ha sede l’hotel

mica è incontrastabile, quale potrebbe essere allora una soluzione? «Si dovrebbero oscurare i siti di coloro che hanno sede nei paradisi fiscali. Stigmatizziamo spesso la Cina che oscura parti di internet, ma non ci rendiamo conto che loro non fanno altro che difendere la propria economia», rilancia Andreolet-

ti. Forse più immediata e praticabile è una soluzione concorrenziale. Il sito internet Italia.it, che dovrebbe costituire la vetrina istituzionale del nostro Paese nel mondo, non consente di effettuare prenotazioni on line: forse la soluzione è più a portata di mano di quanto si creda.  | ANNO 13 N. 115 | DICEMBRE 2013/GENNAIO 2014 | valori | 21 |


| finanzaetica | investimenti sharia-compliant |

City of God A Londra la nuova frontiera della finanza islamica di Matteo Cavallito

Londra punta alla leadership del mercato finanziario Shariacompliant. Un settore in forte crescita. Con un potenziale enorme a data di emissione non è ancora stata fissata, ma l’impegno, ha lasciato intendere il premier David Cameron, è ormai preso. In un futuro non troppo lontano, il Regno Unito collocherà sul mercato un ammontare complessivo di 200 milioni di sterline di nuovi titoli sovrani. L’annuncio passerebbe quasi inosservato se non fosse per un particolare sostanziale. Perché i bond in questione non sono i tradizionali gilts, le obbligazioni nazionali del Tesoro britannico, bensì i meno noti sukuk. L’equivalente islamico delle obbligazioni occidentali. Per le casse di Sua Maestà è una novità assoluta.

L

Il business Sharia-compliant

SUKUK E BOND GCC: EMISSIONI ANNUALI

2004

2011

45.474

2010

85.361

81.151

48.243

84.112

2003

23.053

30.000

25.518

40.000

20.822

50.000

43.627

70.000 60.000

62.744

90.000 80.000

19.628

FONTE: KUWAIT FINANCIAL CENTRE “MARKAZ”, GCC BONDS AND SUKUK MARKET SURVEY, AGOSTO 2013. DATI IN MILIONI DI DOLLARI

A chiarire il senso dell’operazione ci ha pensato il ministro delle Finanze George Osborne. «La nostra ambizione – ha

scritto di suo pugno sulle colonne del Financial Times – è quella di diventare il primo centro della finanza islamica nel mondo occidentale». Un obiettivo, ha spiegato ancora il ministro, giustificato dalle cifre: «La finanza islamica cresce a un ritmo superiore del 50% rispetto al settore bancario tradizionale». E sebbene i musulmani rappresentino tutt’oggi un quarto della popolazione mondiale, «soltanto l’1% dei prodotti finanziari presenti sul mercato risulta Shariacompliant», ovvero compatibile con le prescrizioni religiose islamiche (vedi BOX ). «Alcuni contratti derivano direttamente dal Corano e sono alla base delle stesse transazioni commerciali odierne», spiega Federica Miglietta, ricercatrice di Economia degli Intermediari Finanziari presso l’Università di Bari ed esperta di finanza islamica. «Di fatto sono concepiti come veri e propri mattoni da costruzione, elementi, cioè, che, una volta combinati insieme, danno vita ad altri prodotti finanziari compatibili con la Sharia». Alla base di tutto c’è il principio del profit comes with liabilities, ov-

20.000 10.000 0

2005

2006

2007

| 22 | valori | ANNO 13 N. 115 | DICEMBRE 2013/GENNAIO 2014 |

2008

2009

2012 2013/1° sem.

vero il diritto a ottenere una remunerazione soltanto con la condivisione del rischio imprenditoriale. «Di norma – sottolinea ancora Miglietta – quando finanzio un’impresa sottoscrivendo le sue obbligazioni, ricevo un tasso di interesse a prescindere dal fatto che questa impresa stia facendo profitti o meno. Nella finanza islamica, al contrario, si condividono sia i profitti che le perdite. Anche se – precisa – talvolta è possibile inserire apposite clausole assicurative per coprire in parte queste ultime».

Boom di settore Gli asset finanziari Sharia-compliant gestiti sul mercato mondiale hanno raggiunto alla fine del 2012 (l’ultimo anno per il quale sono disponibili dati completi) quota 1.760 miliardi di dollari. Una cifra, ha sottolineato lo scorso ottobre il Kuwait Financial Centre S.A.K. Markaz, che rimarca un trend di crescita del 25% annuo che dura da almeno un quadriennio. Nello stesso periodo, le emissioni di bond e sukuk nei soli sei Paesi della Gulf Cooperation Council Region (GCC, ovvero Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar) hanno raggiunto gli 85 miliardi di dollari. Nel primo semestre 2013, ha ricordato ad agosto lo stesso Markaz, le nuove emissioni del comparto avevano toccato i 45,5 miliardi. Come a dire che, se il ritmo dovesse mantenersi costante, l’ammontare complessivo di fine anno dovrebbe superare quota 90. Dieci anni fa, il controvalore dei collocamenti non raggiungeva i 20 miliardi (vedi GRAFICO ). Nei mesi scorsi un rapporto di Deloitte ha ipotizzato che nel 2017 il mercato dei prodotti assicura-


| finanzaetica |

ALTRI 8,7%

BARHAIN 2,0%

INDONESIA 1,4%

TURCHIA 3,1% QATAR 4,0% KUWAIT 7,9%

IL MERCATO MONDIALE DEGLI ASSET BANCARI ISLAMICI

IRAN 42,7%

EMIRATI ARABI UNITI 8,0%

MALAYSIA 10,0%

ARABIA SAUDITA 12,2%

FONTE: KFH-RESEARCH, MARZO 2013

tivi islamici (i takaful) raggiungerà quota 20 miliardi contro i 9,5 del 2010. All’origine della grande espansione ci sono diversi fattori, a cominciare, per i mercati occidentali, dal «desiderio di attrarre investimenti dal mondo islamico, una delle poche sacche di liquidità in un momento di crisi per quest’ultima», spiega a Valori Ibrahim Warde, consulente e docente di Economia internazionale presso la Fletcher School of Law and Diplomacy della Tufts University di Medford, Massachusetts, già autore di Islamic Finance in the Global Economy. «Oggi, molti governi hanno cambiato la propria regolamentazione per permettere il collocamento dei sukuk ed è scattata una grande competizione tra diversi centri per il ruolo di principale hub finanziario islamico: prima c’era Kuala Lumpur, più di recente Dubai, oggi Londra dove operano già sei banche islamiche». Un ulteriore fattore di successo risiede poi in una precisa norma religiosa: il divieto di speculazione, che nella finanza islamica moderna proibisce il ricorso al leverage e a un eccessivo indebitamento (superiore al 30-33% del valore del

capitale azionario). La regola ha imposto fino ad oggi ai fondi Sharia-compliant di escludere dal portafoglio le società ad alta leva, a cominciare da quelle del settore bancario che, come noto, pesano in modo decisivo negli indici di mercato. La relazione inversa è quindi inevitabile: quando le banche volano in borsa i fondi islamici ottengono performance peggiori

I PRINCIPI DELLA FINANZA ISLAMICA All’origine della finanza islamica c’è il divieto di usura che, nell’interpretazione del Corano, corrisponde al divieto di imposizione di tassi di interesse risk-free. La remunerazione del capitale può avvenire pertanto solo in presenza di una condivisione del rischio sull’operazione che viene finanziata (ad esempio un’attività imprenditoriale). Gli investimenti Shariacompliant escludono quindi il credito al consumo e le attività altamente speculative. Le operazioni finanziarie, precisa Markaz, «escludono la leva, un indebitamento superiore al 33% del valore del capitale sociale, gli investimenti in alcool, ricerca su cellule staminali o sugli embrioni, il gioco d’azzardo, gli alimenti a base di carne di maiale, la pornografia, il tabacco, le transazioni differite di oro e argento. I criteri in ogni caso possono essere più o meno restrittivi a seconda di una diversa interpretazione della legge islamica».

A fine 2012: 1.760 miliardi $ di asset Sharia-compliant, 85 miliardi $ di bond e sukuk dei Paesi del Golfo. Nel 2017 ci saranno 20 miliardi $ di assicurazioni islamiche

DERIVATI SHARIA-FRIENDLY È possibile operare sui derivati in accordo con i principi della Sharia? La questione resta aperta. In termini generali, ricorda Federica Miglietta (ricercatrice di Economia degli Intermediari Finanziari presso l’Università di Bari), «i derivati non sono ben visti», anche se il loro utilizzo è comunque permesso con funzioni di hedging (ovvero come semplice copertura assicurativa). Interpellato sul tema da Valori, il Kuwait Financial Centre Markaz precisa che «alcuni prodotti strutturati sono Sharia nature», ovvero compatibili con i principi coranici. Nell’elenco dei prodotti leciti, tuttavia, lo stesso Markaz indica i contratti “Salam, Istisna e Arbun”. Questi ultimi, per la cronaca, sono utilizzati per effettuare operazioni di vendita allo scoperto. «Le pratiche di vendita allo scoperto – ricorda ancora Federica Miglietta – sono implicitamente vietate dalla legge islamica dal momento che, secondo il Corano, non è lecito vendere ciò che non si possiede. È pur vero, tuttavia, che combinando insieme i contratti commerciali è possibile creare flussi di cassa che replicano il funzionamento delle opzioni di acquisto». Quella dei derivati, insomma, resta una zona grigia, anche perché nella stessa finanza islamica convivono tuttora diverse scuole di pensiero più o meno intransigenti. Con tutte le conseguenze del caso.

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| finanzaetica |

LIBRI Federica Miglietta Bond islamici alla conquista dei mercati. Opportunità, rischi e sfide dei sukuk Egea, 2012 - 118 pagine

Antonio Dell’Atti, Federica Miglietta Fondi sovrani arabi e finanza islamica Egea, 2009 - 202 pagine

Ibrahim Warde Islamic Finance in the Global Economy Edinburgh University Press; 2nd edition 2010 - 288 pagine

rispetto agli indici; quando gli istituti di credito vanno male, l’islamic finance sovraperforma. Esattamente ciò che è accaduto nel corso della crisi.

Il futuro si chiama retail L’espansione del settore porta con sé l’immancabile domanda: possibile che uno sviluppo così impressionante non nasconda implicitamente una sostanziale bolla? «Con tassi di crescita così alti il rischio c’è sempre», spiega Ibrahim Warde. Anche per questo «la regolamentazione del settore rappresenta oggi la sfida principale». La finanza islamica, ricorda ancora il docente, «offre investimenti prevalentemente asset-based e non permette l’utilizzo di quei prodotti rischiosi come i mutui subprime». Il settore, è bene chiarirlo, non disdegna completamente il ricorso ai derivati (vedi BOX ), ma esclude i titoli strutturati “esotici”, quelli, per intenderci, «che spesso non

sono compresi nemmeno da coloro che li creano e poi li vendono». Una caratteristica che, sebbene non sufficiente a ricondurre i fondi islamici nel mondo degli investimenti responsabili (vedi BOX ), evidenzia un’implicita vocazione alla clientela retail (famiglie, individui, piccole imprese). Ovvero a quel segmento che offre oggi le maggiori opportunità di espansione. Ad oggi gli asset bancari Sharia-compliant sono ampiamente concentrati nei Paesi musulmani (almeno il 91% del mercato, vedi GRAFICO a pag. 23) anche perché la popolazione islamica immigrata è spesso esclusa dalla categoria dei “bancabili” perché sprovvista di sufficienti garanzie. Come a dire che l’integrazione finanziaria offrirebbe importanti opportunità di business per l’intero comparto bancario (nel solo Regno Unito vivono 2,7 milioni di cittadini islamici). Ma le prospettive di sviluppo sono evidenti anche negli stessi Paesi di origine. «In Africa e in Medio Oriente meno del 20% degli adulti possiede un regolare conto bancario», ha ricordato di recente lo stesso ministro delle Finanze britannico Osborne. «Un gap che porta con sé una grande opportunità economica per il Regno Unito». Gli asset del comparto gestiti a Londra ammontano oggi a 19 miliardi di dollari.  NOTA: l’intervista completa a Ibrahim Warde è pubblicata sul sito www.valori.it

I FONDI D’INVESTIMENTO: MOLTO RELIGIOSI, MENO RESPONSABILI È corretto collocare i fondi islamici nella più vasta categoria dei fondi socialmente responsabili (Sri)? «La finanza islamica è una componente chiave di quel comparto», sostiene Ibrahim Warde secondo il quale la crescita del business Sri rappresenterebbe tra gli altri uno dei fattori di attrazione degli investimenti Sharia-compliant. Ma la discussione resta aperta e le differenze tra investimento religioso e investimento responsabile restano comunque evidenti. Come ricordano Federica Miglietta e Antonio Dell’Atti in “Fondi sovrani e finanza islamica” (2009), ad esempio, a differenza dei loro colleghi Sri, i fondi islamici non seguono criteri di esclusione in base a variabili come il rispetto dell’ambiente o la tutela dei diritti umani. Una scelta che permette loro di investire tanto nel settore energetico tradizionale (oil & gas) quanto, più in generale, negli stessi Paesi arabi, notoriamente assai deficitari in termini

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di diritti civili, parità di genere, libertà di stampa, diritti dei lavoratori per citare solo alcuni aspetti. Ma le differenze non si fermano qui. I fondi islamici seguono un codice normativo definito e costante (il Corano) mentre le linee guida dei fondi etici possono variare molto tra di loro. Il comitato di controllo (Sharia Board) è sempre presente con diritto di veto sugli investimenti, cosa che non sempre si verifica per i fondi Sri (il comitato etico non è presente in tutti i fondi). I parametri finanziari (leva, livello di indebitamento etc.) sono sempre discriminanti per l’inclusione dei titoli nei portafogli dei fondi islamici a differenza di quanto accade per i fondi etici. Queste ultime variabili, come noto, sono anche alla base di un’ampia discussione sulla definizione stessa di fondo Sri e alla conseguente polemica sull’inserimento di alcuni di essi nei cosiddetti indici di sostenibilità (vedi Valori n. 112, settembre 2013).


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Avanzi, tagli, interessi Anche l’Italia ha il suo debito “odioso” di Matteo Cavallito

Lo sostiene Francesco Gesualdi, nel suo libro “Le catene del debito”. Sulla voragine italiana pesano soprattutto i pagamenti per gli interessi: 2.200 miliardi in tre decenni uemila miliardi, due trilioni di euro. Ovvero il 133% del prodotto interno lordo. È il peso del debito pubblico italiano, una voragine contabile maturata in larga parte nel corso di tre decenni sotto il peso degli interessi e degli interessi sugli interessi. Da sempre il principale tallone d’Achille dei conti. Per capirlo basta guardare alle cifre: nel 2012 l’Italia ha chiuso con un avanzo primario pari al 2,5% del Pil, come a dire che il valore delle entrate statali ha superato di oltre 39 miliardi l’ammontare delle uscite. Lo Stato italiano, in altre parole, sembra aver incassato più di quanto abbia speso, eppure il debito è aumentato. Perché? La spiegazione risiede proprio in quell’aggettivo, “primario”, che caratterizza un bilancio contabile che tiene conto di tutto, ma proprio tutto, a eccezione di un elemento chiave: gli interessi, appunto. Che nel corso del 2012 sono stati pari a 86,7 miliardi.

D

I favolosi anni ’80 La storia del debito italiano è più o meno tutta qui, nell’infinita spirale del costo di finanziamento. Una tesi fatta soprattutto di numeri che costituisce il punto di partenza de “Le catene del debito” (Feltrinelli, 2013), il lavoro con il quale Francesco Gesualdi, coordinatore del Centro Nuovo Modello di Sviluppo, ha scelto di riaprire il dibattito su quello che, in un modo o nell’altro, costituisce ormai da tempo il tema chiave di ogni agenda politica ed economica. I numeri in questione sono soprat-

tutto quelli dei favolosi anni ’80, il decennio dorato che si apre con il celebre divorzio tra Bankitalia e il Tesoro. Fino ad allora Via Nazionale si era sempre impegnata a farsi carico dei titoli sovrani non collocati, limitando così la speculazione del mercato. Ma così facendo aveva inondato il sistema di liquidità producendo tassi di inflazione annuali al 20%. Una situazione cui si era posto rimedio con la cosiddetta “scala mobile”, il sistema di adeguamento salariale alla corsa dei prezzi, capace di sostenere il potere d’acquisto dei lavoratori. Ma anche, va da sé, di alimentare a sua volta l’inflazione. Nel 1981, istituto centrale e Tesoro separano le proprie strade. E l’inflazione cala bruscamente. Tutto bene, dunque. O forse no. Il fatto, spiega a Valori Francesco Gesualdi, è che ad abbattere l’inflazione sono soprattutto altri fattori: «la fine della scala mobile», ritoccata da Bettino Craxi nel 1984 e definitivamente abrogata da Giuliano Amato nel 1992, «la riduzione dei prezzi delle materie prime, che frena l’impennata del decennio precedente, e soprattutto la politica di rialzo dei tassi imposta dagli Usa al resto del mondo». Sono gli anni in cui gli Stati Uniti lanciano la corsa al riarmo (come l’Unione Sovietica, del resto), ma anche il taglio delle tasse e la lotta all’inflazione. Un programma ambizioso che secondo l’allora numero uno della Fed, Paul Volcker, può realizzarsi in un solo modo: mandando in orbita i tassi di interesse per attrarre capitali e investi-

LE VOCI DEL DEBITO PUBBLICO ITALIANO Riepilogo finanziario 1980-2012 [in miliardi di euro]

Debiti accumulati per servizi e investimenti

Risparmi realizzati

Debito finale

Debito di partenza al 1980 Somma dei disavanzi primari Totale indebitamento per servizi e investimenti

Somma degli avanzi primari Somma dei disavanzi primari Risparmio netto Debito di partenza Avanzo del periodo

114 + 149 = 263

672 – 149 = 523 – 114 = 409

Interessi pagati nel periodo 2.230 – Avanzo del periodo 409 = Differenza a debito per interessi 1.821 + Altre voci di debito 201 (esempio versamenti a UE) Debito totale al gennaio 2013 2.022

FONTE DATI: FRANCESCO GESUALDI, “LE CATENE DEL DEBITO”, 2013. DATI ISTAT E BANCA D’ITALIA

LIBRO Francesco Gesualdi Le catene del debito. E come possiamo spezzarle Feltrinelli, 2013 192 pagine

| ANNO 13 N. 115 | DICEMBRE 2013/GENNAIO 2014 | valori | 25 |


L’esplosione globale dei tassi, insomma, stritola l’Italia. Ma le responsabilità, è bene ricordarlo, sono anche “nostrane”. Perché a pesare sui conti pubblici c’è anche la bassa pressione fiscale. All’inizio degli anni ’80, ricorda la Commissione Europea, il rapporto tra entrate fiscali e Pil in Italia è inferiore al 30% contro il 36% circa della Francia e il 41,6% della Germania Occidentale. Nel 1990 la pressione fiscale italiana si collocherà al 37,8% contro il 39,5% della Germania e il 43,9% della Francia. Negli anni successivi, quelli del riordino dei conti a partire dalla svalutazione della lira e dall’epopea del governo Amato, il peso delle tasse imposto ai contribuenti italiani continuerà ad aumentare fino a raggiungere il record odierno, mentre i servizi di welfare e le (nuove) pensioni, al contrario, si ridimensionano fortemente. L’anatomia di una beffa. «Se negli anni ’80 l’Italia avesse scelto la strada di una maggiore equità fiscale aumentando la pressione sulle classi più agiate, si sarebbe potuta mitigare la spinta al rialzo del debito – spiega Francesco Gesualdi – ma, al contrario, ha prevalso il solito equivoco ideologico del liberismo: lasciare in pace chi ha i soldi, nella convinzione che i ricchi investono i loro profitti in attività produttive. Ma l’esperienza dimostra che

IN RETE Centro Nuovo Modello di Sviluppo www.cnms.it

| 26 | valori | ANNO 13 N. 115 | DICEMBRE 2013/GENNAIO 2014 |

150

[in % sul Pil] 2002 - Ingresso nell’Euro: 105,6%

2013 - ultimo dato: 133,3%

130 110 90 70

1981 - “divorzio” Bankitalia/Tesoro: 58,4%

1992 Governo Amato: 105,4%

2012 - Crisi dello spread/austerity: 127%

50 30

il loro unico obiettivo è il profitto e pur di fare soldi in tempi rapidi privilegiano piuttosto la speculazione».

… e speculazione È un tema decisivo, anche e soprattutto alla luce della recente (ma non del tutto rientrata) crisi dello spread. «Fino ad oggi – spiega Gesualdi – si è ragionato come se la speculazione dovesse essere lasciata libera di agire, limitandosi a intervenire sui suoi meccanismi per mitigarne gli effetti. Ma è arrivato il tempo di mettere in discussione la liceità stessa della speculazione». Tra le proposte avanzate il divieto imposto ai contratti futures sui titoli di Stato, lo stop alle vendite allo scoperto e l’utilizzo dei credit default swaps soltanto in funzione assicurativa. Un’iniziativa, sostiene l’autore, che potrebbe partire proprio dall’Italia. «Riconosco che per una simile rivoluzione servirebbe un’azione coordinata. Ma se l’Europa è sorda cosa possiamo fare se non agire da apripista nella convinzione che altri Paesi potranno seguirci? Non dobbiamo abbandonare l’Unione ma dobbiamo smet-

(ottobre)

Politica fiscale…

ITALIA: L’EVOLUZIONE DEL DEBITO 1970-2013

1970 1971 1972 1973 1974 1975 1976 1977 1978 1979 1980 1981 1982 1983 1984 1985 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013

menti. È l’inizio della concorrenza al rialzo e della tempesta globale del costo del denaro. Il tasso interbancario Usa tocca il 20%, più o meno lo stesso rendimento offerto dai Bot trimestrali italiani in quel fatidico 1981. I Paesi latinoamericani, che nel corso degli anni ’70 si erano indebitati in allegria sfruttando la disponibilità di denaro a basso costo, vanno in bancarotta. Il debito italiano sale alle stelle. Tra il 1980 e il 2012, l’Italia accumulerà un avanzo primario di 672 miliardi, che al netto del debito di partenza fa un saldo positivo totale di circa 400 miliardi. Nello stesso periodo, tuttavia, lo Stato verserà interessi sul debito per oltre 2,2 trilioni di euro.

tere di rispettare quei trattati che vanno contro l’interesse dei suoi cittadini». Ma le riforme necessarie, secondo Gesualdi, non si fermano qui. Dalla lotta all’evasione e alla corruzione, passando per una riforma fiscale in senso progressivo, fino ad arrivare, tra le altre cose, all’autoriduzione degli interessi e all’indagine sulla legittimità del debito. È la tesi della cosiddetta deuda odiosa, un tema sviluppato nell’ultimo decennio nei Paesi latinoamericani, Argentina ed Ecuador su tutti (vedi Valori n. 106, febbraio 2013). Ma pienamente d’attualità, sottolinea ancora l’autore, anche nel caso italiano. «Le Nazioni Unite hanno già sancito che i diritti fondamentali dei cittadini non possono essere sacrificati in nome del debito – spiega Gesualdi – ma in Italia la povertà sta crescendo per effetto dei tagli alla spesa sociale e ai servizi fondamentali, operati per recuperare denaro da destinare agli interessi. È dal 1992 che si persegue questa politica e non dobbiamo meravigliarci se oggi i poveri assoluti sono 5 milioni. Che cos’è questo se non debito odioso?». 

FONTE: ISTAT, CENTRO NUOVO MODELLO DI SVILUPPO, WWW.CNMS.IT, SETTEMBRE 2013, BANKITALIA, NOVEMBRE 2013

| finanzaetica |


fotoracconto 05/07

FRANCESCO GIUSTI

In un quartiere disagiato di Nairobi, in Kenya. L’associazione locale Liveinslum è stata coinvolta nel progetto a San Paolo. Si è occupata di educazione e agricoltura e anche nella favela della capitale brasiliana si è dedicata alla questione scuola, cercando di permettere ai bambini di ricevere un’istruzione. | ANNO 13 N. 115 | DICEMBRE 2013/GENNAIO 2014 | valori | 27 |


| numeridellaterra |

I disastri naturali nell’era del climate change

87

211

453

278

239 99

71

171

104

97

77

62

500 450 400 350 300 250 200 150 100 50 0

272

IL COSTO ECONOMICO DEI DISASTRI NATURALI

2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012

COREA DEL SUD, GIAPPONE Tifone Rusa N. morti: 217 Costo totale: 5,4 mld Fonte: National Institute for Disaster Prevention South Korea

FONTE: AON BENFIELD, 2013 HTTP://CATASTROPHEINSIGHT.AONBENFIELD.COM/ANNUALLOSSES/GLOBAL -ANNUAL-LOSSES.PDF. DATI IN MILIARDI DI DOLLARI INDICIZZATI ALL’INFLAZIONE (PREZZI CORRENTI)

di Matteo Cavallito

miliardi di dollari. È il costo dei disastri naturali del XXI secolo, secondo lo United Nations Office for Disaster Risk Reduction. Le stime iniziali del fenomeno, ha spiegato il Segretario Generale dell’Onu Ban Ki-moon, «erano sottostimate almeno del 50%». Due anni fa l’UN Intergovernmental Panel on Climate Change ha affermato che il riscaldamento globale renderà più frequenti ondate di caldo e alluvioni, mentre la relazione con l’aumento della frequenza di uragani e tifoni è tuttora oggetto di dibattito. In queste pagine gli eventi più distruttivi, in termini di vite umane e costi economici, verificatisi a partire dal 2000, terremoti a parte (la connessione con il riscaldamento globale non è mai stata ipotizzata). Il costo economico dei terremoti è, invece, compreso nell’indagine della compagnia assicurativa Aon, che presentiamo a margine. Nel XXI secolo i danni economici annuali dei disastri naturali sono passati da 77 miliardi di dollari del 2000 a 211 del 2012. 

[ 08/2002]

2.500

| 28 | valori | ANNO 13 N. 115 | DICEMBRE 2013/GENNAIO 2014 |

GERMANIA (DRESDA) Inondazioni N. morti: 27 Costo totale: 11,6 mld Fonte: Guardian COREA DEL SUD, GIAPPONE Tifone Maemi N. morti: 117 Costo totale: 5,6 mld Fonte: Yahoo asia News 2003/09/15

USA, CARAIBI, AMERICA CENTRALE Uragano Michelle N. morti: 17 Costo totale: 2,2 mld Fonte: US National Hurricane Center, Natural Hazards Review agosto 2003

[ 09/2003]

ITALIA, FRANCIA, SPAGNA, GERMANIA, PORTOGALLO, SVIZZERA Ondata di caldo N. morti: 72.210 Costo totale: 13,5 mld Fonte: Guardian

UK (GALLES) Inondazioni N. morti: nd Costo totale: 5,6 mld Fonte: Guardian

[ autunno 2000] [ 10-11/2001] [ 11/08/2002]

2000

2001

2002

[ estate 2003]

2003


| mala tempora currunt |

USA, MESSICO, CARAIBI Uragano Wilma N. morti: 23 Costo totale: 18,7 mld Fonte: US National Hurricane Center GIAPPONE, CINA, COREA DEL SUD Tifone Songda N. morti: 41 Costo totale: 11,3 mld Fonte: Cabinet Office, White Paper on Disaster Management (2005) 2005/06/01

CINA Inondazione N. morti: 829 Costo totale: 26,6 mld Fonte: Aon

RUSSIA Ondata di caldo e incendi N. morti: 56.000* Costo totale: 16 mld Fonte: Aon, Munich Re * variazione tasso medio di mortalità

[ 15-26/10/2005]

USA (SUD EST) Uragano Katrina N. morti: 1.833 Costo totale: 147,9 mld Fonte: Guardian

[ 09/2004] [ 29/08/2005] USA (STATI ORIENTALI) Uragano Ivan N. morti: 57** Costo totale: 17,1 mld Fonte: National Climatic Data Center ** solo negli Usa

MUMBAI, INDIA Inondazioni N. morti: 1.200 Costo totale: 33 mld Fonte: Guardian

[ 09/2004]

[ 26/07/2005]

PAKISTAN Inondazione N. morti: 1.985 Costo totale: 32 mld Fonte: Aon

EUROPA CENTRALE Inondazione N. morti: 23 Costo totale: 22 mld Fonte: Aon

USA, CANADA, CARAIBI Uragano Ike N. morti: 195 Costo totale: 28,7 mld Fonte: US National Hurricane Center

[ 1-14/09/2008]

USA (MID WEST) Inondazione N. morti: 17 Costo totale: 15,9 mld Fonte: Aon

TAIWAN, CINA, FILIPPINE Tifone Morakot N. morti: 614 Costo totale: 6,7 mld Fonte: OCHA (Office for the Coordination of Humanitarian Affairs)

[ 08/2009]

[ 06/2008] USA (SUD EST) Uragano Charlie N. morti: 15** Costo totale: 18,5 mld Fonte: National Climatic Data Center ** solo negli Usa

SPAGNA, GUADALAJARA Incendi N. morti: 11 Costo totale: 2,5 mld Fonte: CNN

MYANMAR Ciclone Nargis N. morti: 138.366 Costo totale: 10,7 mld Fonte: AP

AUSTRALIA Incendi N. morti: 173 Costo totale: 5 mld Fonte: Victoria Police http://www.police.vic.gov.au/cont ent.asp?Document_ID=20350

[ 08/2004]

[ 06/2005]

[ 02/05/2008]

[ 02/2009]

2004

2005

2008

2009 | ANNO 13 N. 115 | DICEMBRE 2013/GENNAIO 2014 | valori | 29 |

2012 2011

[ 07-12/2011]

THAILANDIA Inondazione N. morti: 815 Costo totale: 46,3 mld Fonte: Emergency Operation Center for Flood, Storm and Landslide 25 gennaio 2012

2010

AUSTRALIA Inondazione N. morti: 38 Costo totale: 30,9 mld Fonte: Aon

[ dicembre 2010 gennaio 2011]

THAILANDIA Inondazione N. morti: 790 Costo totale: 46,3 mld Fonte: Aon

USA Siccità N. morti: 82 Costo totale: 35 mld Fonte: Associated Press, Yahoo Voices (http://voices.yahoo.com/worst-statewildifres-numbers-8645143.html)

[ 07-08/2010]

USA, CANADA, CARAIBI Uragano Sandy N. morti: 186 Costo totale: 68,3 mld Fonte: Aon

[ 05-06/2010]

FILIPPINE Tifone Haiyan N. morti: 10.000+ Costo totale: nd Fonte: Reuters

[ estate 2010]

ILLUSTRAZIONE BASE CARTINA: DAVIDE VIGANÒ

[ 11/2013]

[22/10/2012]

FONTE MAPPA: US NATIONAL HURRICANE CENTER (2001), NATIONAL INSTITUTE FOR DISASTER PREVENTION SOUTH KOREA (2002), NATURAL HAZARDS REVIEW (2003), YAHOO NEWS (2003), US NATIONAL CLIMATIC DATA CENTER (2004), CNN (2005 E 2013), JAPAN CABINET OFFICE WHITE PAPER ON DISASTER MANAGEMENT (2005), VICTORIA POLICE AUSTRALIA (2009), MUNICH RE (2010), GUARDIAN (2011), US EMERGENCY OPERATION CENTER FOR FLOOD, STORM AND LANDSLIDE (2012), AON (2013), ASSOCIATED PRESS (2013), OFFICE FOR THE COORDINATION OF HUMANITARIAN AFFAIRS (2013), REUTERS (2013), ABC NEWS (2013). NOSTRE ELABORAZIONI.

[ 2012]

2013


| 30 | valori | ANNO 13 N. 112 | SETTEMBRE 2013 |


| oligopoli |

economiasolidale Il think tank che dà voce alle multinazionali > 34 Sochi 2014. I giochi invernali in riviera > 36 Sport e legalità al calcio d’inizio > 38

Troppo cibo in poche mani

A una manciata di multinazionali dell’agroindustria il controllo sulla produzione agroalimentare globale, dai semi ai prodotti trasformati. Un sistema economico, organizzativo e commerciale che si impone sui modelli tradizionali e uccide la biodiversità

di Corrado Fontana

essuna illusione. Che decidiate di comprare una barbabietola da zucchero da un fruttivendolo di quartiere o nell’amato-odiato centro commerciale, avrete solo una probabilità su dieci di acquistare un tubero che non provenga da una di queste corporation: Monsanto, Dupont, Syngenta, BASF o Bayer. E ciò è sempre più vero, perché tra il 1996 e il 2008 i cinque colossi mondiali delle sementi (che in Europa possiedono la metà dei brevetti registrati sulle piante) hanno messo le mani su almeno altre 200 società, tramite acquisizioni e partecipazioni. Ciò significa che il 90% della produzione mondiale della barbabietola da zucchero è controllato dalle tre maggiori multinazionali sementiere; che sono anche leader – guarda caso – di

N

| ANNO 13 N. 115 | DICEMBRE 2013/GENNAIO 2014 | valori | 31 |


| economiasolidale |

I settori principali della catena del valore CHI CONTROLLA IL NOSTRO CIBO Cibo per animali da allevamento

controllata Quota di mercato dalle 10 maggiori settore corporations del

Ci sono circa 1 miliardo di agricoltori per circa 450 milioni di aziende agricole in tutto il mondo, l’85% delle quali è di scala ridotta; a ciò si aggiungono circa 450 milioni di lavoratori impiegati nelle fattorie.

15,5 %

delle materie prime in prodotti alimentari (cibi e bevande)

Mercato mondiale

Giro d’affari del settore pari a 350 miliardi di dollari Usa

ato controllata Quota di merc corporations dalle 10 maggiori 28 % del settore

di cereali e soia

Animali da allevamento

llata dalle Quota di mercato contro del settore 4 maggiori corporations

Sono solo 4 le compagnie di livello mondiale nella fornitura di pollame da allevamento

Sementi*

Trasformazione

Giro d’affari del settore pari a 90,2 miliardi di dollari Usa

Pesticidi

ta cato controlla Quota di mer i 75 % dalle 4 maggior del settore corporations

cato Quota di mer 10 maggiori controllata dalle settore del corporations

Giro d’affari del settore pari a 34,5 miliardi di dollari Usa

Fertilizzanti

99 %

Produzione

Quota di mercato 10 maggiori controllata dalle settore corporations del

Consumatori Giro d’affari del settore pari a 7.180 miliardi di dollari Usa

Vendita diretta al pubblico/al dettaglio Pur avendo una piccola quota del mercato globale le maggiori società della grande distribuzione sono più potenti di molti stati (vedi Walmart su Valori di aprile 2013, con 422 miliardi di fatturato nel 2011, ndr).

55 %

lata dalle 11 cato control settore Quota di mer orations del maggiori corp

6 miliardi di

10.5 %

Giro d’affari del settore pari a 1.377 miliardi di dollari Usa

75 %

ato Quota di merc 10 maggiori controllata dalle settore corporations del

97,8 %

Giro d’affari del settore pari a 44 miliardi di dollari Usa

FONTE: ETC GROUP 2013, SU DATI 2011

(*) Le società leader del mercato dei pesticidi dominano anche quello delle sementi.

LE 10 MAGGIORI MULTINAZIONALI DEL MERCATO INTERNAZIONALE DELLE SEMENTI Monsanto (USA)

26%

Altre compagnie 24,7 % Takii & Company (Japan) 1,6 % Sakata (Japan) 1,6 % Dow AgroSciences (USA) 3,1 % Bayer CropScience (Germany) KWS AG (Germany) WinField (USA) (Land O Lakes) Vilmorin (France) (Groupe Limagrain)

3,3%

3,6% 3,9%

18,2%%

4,8% 9,2

DuPont (Pioneer) (USA) Syngenta (Switzerland)

Il valore complessivo stimato del controllo del mercato mondiale delle sementi era stimato in 34,5 miliardi di dollari nel 2011.

quella dei pesticidi e detengono il 57% di quella del mais e il 55% della soia. A scriverlo è un rapporto (Agropoly - A handful of corporations control world food production, cioè Agropoly - Una manciata di corporations controlla la produzione mondiale del cibo) incentrato sulla filiera alimentare globale. Un documento importante perché, commenta Cinzia Scaffidi, direttrice del Centro studio Slow Food, «mette l’accento sul fatto che i quattro elementi fondamentali per fare agricoltura, cioè i semi, gli animali giovani, i mangimi e i fertilizzanti, corrispondono ormai a quattro settori industriali potentissimi. E non è un caso che le multinazionali si occupino esattamente di tali elementi, senza i quali gli agricoltori

L’assalto al cibo danneggia tutti di Corrado Fontana

Una concentrazione lungo la filiera agroalimentare provoca un impoverimento delle competenze e del ruolo degli agricoltori. E potenziali danni alla salute «Nel 2012 il mais e la soia Ogm rappresentavano rispettivamente l’88% e il 93% di quelli coltivati negli Usa e il mercato del seme era in mano a Monsanto e Du Pont, che nel 2009 detenevano l’81,1% delle quote di mercato per il mais e il 94,5% della soia». Salvatore Ceccarelli, agronomo da una vita, al lavoro nelle campagne più aride del Pianeta, sorride disarmato mentre inquadra con questi numeri il problema dell’oligopolio privato montante in agricoltura. Consulente in miglioramento genetico partecipativo per ICARDA

| 32 | valori | ANNO 13 N. 115 | DICEMBRE 2013/GENNAIO 2014 |

Salvatore Ceccarelli, Consulente in miglioramento genetico partecipativo per ICARDA.

(International Center for Agricultural Research in the Dry Areas, Centro internazionale per la ricerca agricola nelle zone aride), insegna infatti agli agricoltori come selezionare i semi migliori e produrseli da sé, ciascuno per le proprie esigenze. E fa un esempio: «I contadini iraniani con cui lavoro da 6 anni hanno appena costituito 4-5 varietà di piante che producono molto di più, dimostrando che si possono aumentare i raccolti in sintonia col mantenimento della biodiversità e con un’agricoltura non basata sull’uso dissennato di prodotti chimici».


| economiasolidale |

non possono lavorare e noi non possiamo mangiare».

False libertà Pubblicato a settembre da EcoNexus, organizzazione britannica che raccoglie ricercatrici di varie discipline (biologhe, genetiste, ecologiste) e attivisti per la “giustizia ambientale”, Agropoly ci dice ad esempio che mentre in un Paese come la Tanzania il 90% dei semi viene ancora prodotto direttamente dai contadini, in Svizzera questa percentuale è scesa già a un misero 10% per quanto riguarda un bene primario come il grano. Non solo. Il rapporto ci impone diversi interrogativi: quale vera libertà di scelta abbiamo facendo la spesa se l’elvetica Nestlé, leader mondiale dei prodotti alimentari trasformati (cioè quasi tutti i cibi confezionati), vende sotto l’etichetta di ben 31 marchi diversi nel solo Regno Unito e controlla il 7% di un mercato da 1.378 miliardi di dollari l’anno? La risposta di Agropoly è preoccupante: quando compriamo prodotti trasformati abbiamo circa il 28% di possibilità di arricchire il marchio svizzero o le altre nove multinazionali (PepsiCo, Kraft, Coca-Cola, Unilever, ecc.) che insieme ad esso coprono questo ampio spicchio di mercato mondiale. E abbiamo ben il 75% di probabilità di acquistare cereali o soia che siano commercializzati da altre 4 compagnie: Cargill, Archer Daniels Mid-

LE 10 MAGGIORI MULTINAZIONALI DEL MERCATO INTERNAZIONALE DEI FERTILIZZANTI Yara (Norway)

Altre compagnie 45 %

12 ,0%

Mosaic (USA)

11,4%

FMC Corporation (USA) Arysta LifeScience (Japan) Sumitomo Chemical (Japan) 3,3% 3,4% Nufarm (Australia) 3,9%

Agrium (USA)

Sociedad Química e Minera de Chile 0,4 %

10,1 % K + S Group (Germany)

Arab Potash Company (Jordânia) 0,6 % JSC Uralkali (Russia) 1,3 %

LE 10 MAGGIORI MULTINAZIONALI DEL MERCATO INTERNAZIONALE DEI PESTICIDI

Israel Chemicals Ltd (Israel) PotashCorp of Saskatchewan (Canada)

CFIndustries (USA)

La Top 10 delle compagnie operanti nel settore dei fertilizzanti gestiva nel 2009 una quota di circa il 55% del mercato globale.

Syngenta (Switzerland)

23,1%

5%

Makhteshim -Agan 6,1 % Industries (Israel) 6,6 %

5,5 % 4,3 % 4,4 % 5,0 %

Altre compagnie 2,2%

DuPont (USA)

17,1%

7,4% 9,6%

12,3%

Bayer (Germany) BASF (Germany)

Monsanto (USA)

Dow AgroSciences (USA)

Il fatturato complessivo del mercato globale dei pesticidi è stimato a 44 miliardi di dollari. Nel 2011, la quota di mercato delle Top 10 è stata del 95% (e del 98% se si allarga la classifica fino alla Top 11).

FONTE: RAPPORTO ECONEXUS “AGROPOLY - A HANDFUL OF CORPORATIONS CONTROL WORLD FOOD PRODUCTION” SU DATI RICAVATI DAI SITI WEB DELLE COMPAGNIE

FONTE: RAPPORTO ECONEXUS “AGROPOLY - A HANDFUL OF CORPORATIONS CONTROL WORLD FOOD PRODUCTION” SU DATI 2011 DA ETC GROUP

land (ADM), Bunge o Dreyfus. Visto poi che il 10,5% dei 7.180 miliardi di euro della vendita al dettaglio – soprattutto grande distribuzione – vanno nelle casse di un gotha di 10 società (l’americana Walmart su tutte), le alternative per i consumatori e le ditte di trasformazione sono ulteriormente condizionate. E va anche peggio a chi è più in alto nella filiera, come agricoltori e allevatori. Nell’alimentazione delle bestie d’allevamento le

10 maggiori multinazionali si “limitano” a occupare il 15,5% di un mercato da 350 miliardi di dollari, ma ben il 99% di questi animali discende da un esemplare nato nelle stalle controllate da 4 multinazionali secondo la specie; per le sementi la top ten delle corporation si divide invece i ¾ di un giro d’affari da 34,5 miliardi di dollari; per i fertilizzanti il 55% di 90,2 miliardi di dollari; mentre 11 compagnie partecipano al 97,8% della torta da 44 miliardi

Un piccolo successo a favore della biodiversità, che si oppone ai problemi legati invece all’adozione di piante geneticamente modificate accoppiate ai loro diserbanti specifici, che non farebbero altro che selezionare periodicamente le varietà infestanti più resistenti («In Georgia nel 2012, l’anno dopo l’introduzione del cotone Ogm, circa il 60% degli agricoltori ha dovuto diserbare oltre la metà dei campi a mano. Mentre le multinazionali promettevano l’introduzione di un nuovo erbicida entro un paio d’anni»). Ceccarelli sottolinea perciò i danni effettivi e potenziali che questo oligopolio genera. Un sistema in base al quale «chi produce i semi si arroga il diritto di sapere cosa serve all’agricoltore e glielo fornisce, magari “infiocchettato” con un po’ di fertilizzante, quel certo diserbante, o con un prodotto da mettere alla fioritura per migliorare l’impollinazione. Per cui l’agricoltore è in sostanza escluso dal processo». Ciò determina non solo una perdita delle competenze di chi coltiva, ma rischia di rendere i contadini fragili di fronte al mercato. L’esempio è quello della new green evolution in Africa, pensata da

chi africano non è, e per cui i contadini etiopi sperimentano un pacchetto agronomico raccomandato dal governo e impostato sull’uso di concimi. Un paradosso pericoloso per un Paese che il concime lo importa, pagandolo ai prezzi internazionali in una valuta estera di cui è carente. Il rischio è infatti che in periodi di scarsità dell’offerta quei prezzi salgano al punto che a coltivare saranno solo gli agricoltori ricchi o quelli che possono accedere al mercato nero. E ciò mentre «le sperimentazioni in campo senza concimi danno risultati altrettanto validi». Ma se ciò non bastasse, Ceccarelli ricorda un articolo pubblicato dalla European Molecular Biology Organization (Organizzazione Europea per la Biologia Molecolare) in cui si diceva fosse «molto probabile l’associazione di malattie a base infiammatoria, asma e vari tipi di tumore, con la diminuzione della diversità della nostra flora intestinale associata a una riduzione della variabilità del cibo che ingeriamo. Di fatto, chi controlla i semi controlla la nostra salute».

| ANNO 13 N. 115 | DICEMBRE 2013/GENNAIO 2014 | valori | 33 |


| economiasolidale |

Il rapporto Agropoly A handful of corporations control world food production (ovvero: Agropoly - Una manciata di corporations controlla la produzione mondiale del cibo).

di dollari che ogni anno si fa coi pesticidi. «I danni per i produttori – sottolinea Scaffidi – sono nel fatto che questo sistema imposto dalle multinazionali indebolisce la biodiversità da cui si approvvigionano gli agricoltori tradizionali, per cui sarà sempre più difficile trovare spazio per le varietà che non sono “pensate per il mercato”».

Grande potere e responsabilità Un sistema oligopolistico, quindi, la cui prima ricaduta negativa è una scomparsa irreversibile di grandi quote di biodiversità. Secondo i ricercatori di EcoNexus, nei vent’anni seguiti alla cosiddetta “rivoluzione verde” iniziata negli anni ’60, che portò, grazie alla chimica, un aumento su vasta scala della produzione alimentare e della produttività, nelle Filippine si sono perse per sempre circa tremila varietà di riso, sostituite da soli due tipi coltivati sul 98% della superficie seminata. Ciò mentre si stima che a livello planetario sia andato perduto il 75% di tutte le varietà di piante coltivate nel corso del XX secolo, rendendo così più fragile e delimitata la ricerca di risorse alimentari, e determinando maggiori dif-

Il think tank che dà voce alle multinazionali di Corrado Fontana

Parola all’istituto che ha inviato all’Europa la lettera, contestata dalle Ong ambientaliste e anti-Ogm, e firmata dalle corporation agrochimiche e hi-tech, che chiedono una maggiore libertà di innovazione nticipata sul sito internet di Valori, in anteprima assoluta a ottobre, e poi approfondita con molte reazioni e commenti sul mensile cartaceo (il numero di novembre), prosegue l’inchiesta sulla lettera inviata ai vertici dell’Europa dai giganti dell’agrochimica e dell’hi-tech mondiale. Le corporations chiedono una revisione del principio di precauzione, nato per tutelare i cittadini dall’introduzione sul mercato di prodotti di cui non è accertata scientificamente la sicurezza (varietà Ogm comprese). Abbiamo chiesto delle risposte a Lorenzo Allio, Senior Policy Analyst di European Risk Forum, il think tank (una sorta di agenzia di studio e lobbying) che ha elaborato e diffuso la lettera: «Ciò che la nostra iniziativa vuol mettere in luce è la sproporzione o una cattiva applicazione del principio di precauzione e dell’approccio che viene definito in inglese hazard (di pericolo, ndr), contrap-

A

ficoltà di sopravvivenza ai sistemi agricoli tradizionali, soffocati da pressioni di ogni tipo: lo scarso profitto, i colossi agrochimici che cercano d’imporre l’utilizzo di prodotti di sintesi e Ogm, le speculazioni sui prezzi delle materie prime

alimentari, il consumo di suolo fertile a causa della cementificazione selvaggia (sprawling, ndr). Non è forse un caso, sottolinea Agropoly, che nella seconda metà del 2010, anno di estremo rialzo dei prezzi del cibo, certificato dal Food Price In-

I SIGNORI DEL CIBO

Charoen Pokphand Food Fondata a Bangkok nel 1921, è la più grande azienda alimentare in Asia e il maggior produttore di alimenti per animali del mondo. Fatturato 2012: 11,4 miliardi di dollari

Monsanto Compagnia americana fondata nel 1901, leader del mercato dei semi e tra i più grandi produttori di sostanze chimiche degli Usa (tra cui il famigerato erbicida Agente Arancio usato nella guerra del Vietnam). Controlla il 90% del mercato Ogm. Fatturato 2011: 11,8 miliardi di dollari

Yara Compagnia norvegese leader mondiale nella produzione e commercio di fertilizzanti, ma anche fornitore di CO2 e prodotti azotati per l’industria degli esplosivi. Fatturato 2012: 84,8 miliardi di dollari

| 34 | valori | ANNO 13 N. 115 | DICEMBRE 2013/GENNAIO 2014 |

Syngenta Fondata nel 2000 dalla fusione tra le sezioni agroalimentari di due società farmaceutiche, la svizzera Novartis e la britannica Astra-Zeneca, è leader del mercato dei pesticidi. Fatturato 2012: 14,2 miliardi di dollari

Cargill, ADM, Bunge, Louis Dreyfus Si spartiscono gran parte del commercio di soia e cereali. Cargill è il più grande commerciante di grano del mondo (nel 2013 136,7 miliardi di dollari di fatturato), Bunge della soia, Louis Dreyfus di riso e cotone.

Nestlé La società svizzera è prima al mondo nei prodotti alimentari trasformati. Controlla circa il 60% del mercato di alimenti per l’infanzia in America Latina, e in Brasile fino al 91% di quello del latte in polvere. Fatturato 2013: 103 miliardi di dollari

Walmart Leader mondiale della vendita al dettaglio di prodotti alimentari. Fatturato 2013: 469 miliardi di dollari


| economiasolidale |

posto al concetto di rischio vero e proprio, cioè alla combinazione tra il danno potenziale e l’esposizione a questo danno, che consideri la frequenza e l’attitudine del rischio». Lorenzo Allio, Senior Policy Analyst del think tank European Risk Forum.

L’iniziativa però proviene da un soggetto economicamente sostenuto dagli stessi firmatari della lettera... Questo meccanismo ci pare comunque trasparente. Abbiamo dichiarato che alcuni di questi soggetti sono membri di ERF (tutti registrati e il budget è pubblico); sul sito del forum ci sono documenti di accompagnamento alla lettera, che ne spiegano il contesto [...] Il Forum è completamente a favore dei cinque criteri con cui la Commissione europea, nel 2000, ha stabilito la possibilità di invocare il principio di precauzione. Il problema è che questa comunicazione è rimasta lettera morta, la sua applicazione è sottoposta a una discrezionalità amministrativa enorme da parte delle agenzie, delle direzioni generali e del Parlamento stesso. Ci deve essere invece una standardizzazione delle procedure che portano alla sua applicazione.

Per esempio? I costruttori di automobili sono obbligati da norme europee a limitare le emissioni dei loro nuovi modelli a una media per flotta di 130 grammi di CO2 per chilometro entro il 2015 e di 95 grammi per

dex della FAO, il valore delle azioni del colosso Bunge fece un balzo in alto del 30%. Né che l’industrializzazione e la globalizzazione della produzione animale abbia drasticamente aumentato le malattie degli animali e i costi per affron-

tarle; o che in un Paese come gli Stati Uniti, dove è consentito l’uso di antibiotici in allevamento per accelerare la crescita degli animali, si sviluppino negli esseri umani batteri sempre più resistenti a questi farmaci. 

La discrezionalità cui si riferisce è sufficientemente motivata? Assolutamente no e non c'è modo di sapere quando la Commissione applica il principio di precauzione e quando invece non voglia applicarlo, se sia per questioni puramente politiche oppure sulla base di una incertezza scientifica. Non si sa quando e perché la Commissione richieda o meno un impact assessment, cioè una valutazione sulle conseguenze di una decisione di applicazione del principio.

chilometro entro il 2020. Questi livelli saranno difficilmente raggiunti da tutte le case produttrici e gli esponenti di quell’industria fanno valere con successo i loro argomenti presso i governi europei per impedire sanzioni e per ritardare discussioni sulla possibilità di abbassare ulteriormente la soglia massima di emissioni. Ci sono invece altri settori sistematicamente presi di mira a causa di una stigmatizzazione diffusa di determinati rischi nell'opinione pubblica e nella società civile, che porta per principio a non considerare su basi scientifiche il rischio, ma semplicemente l’hazard, il pericolo, e a prendere decisioni puramente politiche, talvolta sulla base dell'interesse nazionale dei singoli Stati membri [...]. Ad esempio, i Paesi scandinavi non hanno bandito la pesca di determinati pesci come le aringhe, anche se sono contaminate da mercurio più nei loro mari che altrove in Europa: la lobby di questi Stati in questo caso ha pesato più della scienza. Critichiamo fortemente queste discrezionalità.  (*) Potete leggere la lettera, le reazioni e la versione integrale dell’intervista ad Allio su www.valori.it

IN RETE www.futuragra.it www.slowfood.it www.econexus.info

MAIS OGM: LA NOSTRA PRIMA VOLTA Testa di ponte della penetrazione dell’agrochimica globale in Italia è stato il Mon 810 (brevetto Monsanto), granturco coltivato sui campi di proprietà di Silvano Dalla Libera, vicepresidente di Futuragra, associazione con un migliaio di soci e apertamente a favore delle proposte dei colossi biotech. Seminato ad aprile e giugno a Vivaro e Mereto, in provincia di Pordenone, il 12 ottobre scorso ha dato il primo raccolto di mais ogm italiano. Dopo mesi di proteste di chi da anni si batte contro l’introduzione degli organismi geneticamente modificati (AIAB, Aprobio, ISDE, Legambiente e WWF) sul nostro territorio. A nulla sono serviti gli appelli per un intervento pubblico, che hanno dato vita solo a un rimpallo di responsabilità

tra il ministro dell’Agricoltura Andrea Orlando, che pretendeva il rispetto del decreto del 12 luglio 2013, e la Regione guidata da Deborah Serracchiani, che denunciava l’assenza di un sistema sanzionatorio applicabile ed efficace. E così, mentre Cinzia Scaffidi, direttrice del Centro studio di Slow Food, stigmatizza l’accaduto come frutto di un attacco continuo, di un sistema di lobbying, evidenziando che «...le istituzioni pubbliche, per paura di una denuncia da un avvocato della Monsanto, hanno messo a repentaglio l’agricoltura della loro regione e di tutto il Nordest», Futuragra sbandiera le analisi svolte dal Corpo Forestale sul campo di Vivaro dopo la trebbiatura, secondo cui non ci sarebbe stata “commistione” oltre i 10 metri.

| ANNO 13 N. 115 | DICEMBRE 2013/GENNAIO 2014 | valori | 35 |


| economiasolidale | costi olimpici |

Sochi 2014 I giochi invernali in riviera di Andrea Barolini

osa pensereste se il governo italiano proponesse Cagliari per le Olimpiadi invernali del 2022, indicando il Gennargentu come il fulcro delle competizioni sportive? D’accordo, il paragone è un po’ forzato, ma quello che è accaduto in Russia per i prossimi Giochi olimpici deve aver suscitato molte perplessità fra chi conosce la geografia dell’Europa dell’Est. Provate a cercare su un qualsiasi motore di ricerca il nome della città prescelta, Sochi. Scoprirete che è nota, da decenni, come una rinomata località balneare sulle rive del mar Nero. Questo agglomerato di 370 mila abitanti, sviluppato a partire dagli anni Trenta per volontà di Joseph Stalin, è soprannominato addirittura la “Riviera del Caucaso”. Stupiti? In realtà si tratta di una (soltanto una) delle “stranezze” dei Giochi russi. E di una (soltanto una) delle cause dell’impennata stratosferica dei suoi costi.

C

– riferita nelle scorse settimane dal quotidiano Le Monde – di 36 miliardi di euro, ossia cinque volte il budget annunciato inizialmente. Tanto per fare un raffronto, il “conto” dei Giochi di Vancouver, nel 2010, non ha superato gli 1,4 miliardi di euro. Tutto compreso. Ma in Russia è diverso. Per il presidente Vladimir Putin non si tratta solamente di una manifestazione sportiva. Sochi 2014 è innanzitutto una sfida politica e personale: «Sarà il più grande evento della storia post-sovietica», ha dichiarato magniloquente il numero uno del Cremlino. Il tutto inquadrato in una strategia che è partita con i Mondiali di atletica, disputati nell’agosto scorso a Mosca, e che raggiungerà l’apoteosi in occasione del Campionato del mondo di calcio del 2018. Di qui la decisione di privilegiare la grandeur, a ogni costo (letteralmente). Il parco olimpico – che si dipana tra la città di Sochi e l’insieme cosiddetto “di montagna”, a Krasnaia Poliana – potrà accoglie-

L’evento invernale più caro di sempre Quelle di Sochi verranno ricordate come le Olimpiadi invernali più care della storia. Previste dal 7 al 23 febbraio prossimo, ospiteranno seimila atleti di sette discipline: sci, slittino, pattinaggio, bob, hockey su ghiaccio, biathlon e curling. Con sei nuove discipline inaugurate per l’occasione, tra le quali il salto con gli sci femminile e la prova di squadra nel pattinaggio artistico. Il tutto alla modica cifra | 36 | valori | ANNO 13 N. 115 | DICEMBRE 2013/GENNAIO 2014 |

Sopra: i loghi istituzionali delle Olimpiadi 2014 di Sochi. A destra: il panorama della città di Sochi.

re 75 mila spettatori. Lo stadio Ficht offrirà un posto a sedere a 40 mila spettatori, anche se servirà unicamente per le cerimonie di apertura, di chiusura e di consegna delle medaglie (poi, almeno stando alle dichiarazioni del governo di Mosca, dovrebbe essere riutilizzato per i Mondiali del 2018). Sono state poi edificate due arene per l’hockey su ghiaccio: il palazzo Bolshoi e lo stadio Shaiba. L’Adler Arena ospiterà invece il pattinaggio in velocità, il palazzetto dello sport “Iceberg” quello artistico e l’“Ice Cube” sarà il tempio del curling. Tutto nuovo di zecca. Senza contare la creazione di una nuova stazione sciistica, con 70 chilometri di piste.

Ingegneria vs meteorologia Ma che ne sarà di tutto ciò al termine dell’evento? Difficile immaginare che Sochi possa diventare la Garmisch del Caucaso. Perché gli habitué delle vacanze in costume potrebbero risentirsi. Ma soprattutto perché la meteorologia sembra remare contro. Krasnaia Poliana non raggiunge i SERGEY SUBBOTIN / Сергей Субботин / HTTP://COMMONS.WIKIMEDIA.ORG

Un conto salato per le prossime Olimpiadi russe: 36 miliardi di euro. 1,4 per le precedenti a Vancouver


Mappa del parco olimpico, per le Olimpiadi invernali del 2014 a Sochi.

600 metri di altitudine. Sochi, ai suoi piedi, è situata a una latitudine non dissimile da quella della costa ligure ed è al riparo dall’aria fredda proveniente da Nord e dalla Siberia. Il clima, di conseguenza, è particolarmente mite: durante l’inverno le temperature faticano a scendere al di sotto dello zero (la media a gennaio è 5,8°) e le massime estive segnano 26-28 gradi. Per questo gli organizzatori si sono dovuti dotare di un sistema di innevamento artificiale mastodontico, che ha comportato lo stoccaggio di 500 mila metri cubi di polvere isotermica che è stata sparata l’inverno scorso per mezzo di cannoni. Grazie a questa protezione – ha rivelato il quotidiano francese Le Figaro – è stata limitata al 40% la fusione naturale della neve. Quest’ultima, poi, sarà rimpinguata con due milioni e mezzo di metri cubi di ghiaccio artificiale che è stato stoccato e sarà utilizzato durante l’evento. Un dispositivo incredibile, completato da un arsenale di cannoni di potenza tre volte superiore a quelli normalmente installati sulle Alpi. È tutto? Ovviamente no: gli spara-neve sono alimentati da due laghi artificiali che conservano 130 mila metri cubi di acqua. Putin gongolerà anche, ma per l’area è un vero e proprio stravolgimento. Le associazioni ambientaliste hanno gridato allo scandalo: è pericoloso effettuare in così breve tempo dei lavori così imponenti, si sono azzardate a osservare. Un esempio? Il trampolino per il salto con gli sci sarebbe precario a causa del terreno sottostante, che pare non sia particolarmente idoneo a ospitarlo (forse per gli organizzatori ne gioveranno l’imprevedibilità e l’audience).

Accuse di sfruttamento… Alle questioni economica e logistica se ne affianca un’altra, legata ai diritti dei lavoratori. Per terminare le opere in tempo la Russia ha sfruttato un numero incredibile di operai: al lavoro ce ne sono stati fino a 60 mila contemporaneamente. E secondo organizzazioni umanitarie come Human Rights Watch o Amnesty Inter-

International broadcasting center

Existing residential area

Olympic

Railway Station

Village

O

t

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m

Adler Arena Skating Center

pi

c

V

il

la

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Ice Cube Curling Center

Figure skating training ice rink

Medal Plaza

Iceberg Skating Palace

Entrance gate

Bolshoy Ice Dome Shayba Arena Fisht Olympic Stadium

Black Sea Hockey training ice rink

Quintuplicato il budget dei giochi di Sochi. Per Putin è una sfida politica national, si sarebbero verificati numerosi casi di personale sotto-pagato, se non addirittura mai pagato. Il tutto condito da assenza di contratti di lavoro e dal mancato rispetto delle norme sulla sicurezza. Si sarebbe perfino arrivati, in alcuni casi, alla confisca dei passaporti e alla detenzione ed espulsione di lavoratori immigrati. Molti di questi, venuti dall’Armenia, dall’Uzbekistan o dal Tagikistan, avrebbero guadagnato in media 1,50 euro l’ora.

... e di corruzione Il tutto, hanno accusato due membri del partito di opposizione Soldarnost, a vantaggio di una ristretta cerchia di amici di Putin. In un rapporto pubblicato nello scorso maggio si parla di una “vasta truffa”: «I Giochi olimpici sono un progetto personale del presidente ed è chiaro che coloro che hanno rubato sono i suoi stessi amici», si legge nel documento. Il riferimento è in particolare ad Arkady Rotenberg, amico d’infanzia di Putin, che ha ottenuto numerosi contratti attraverso la sua società di genio civile, la Mostorest. Quando si dice lo “spirito olimpico”. 

GLI INVESTITORI GIÀ A UN PASSO DALL’INCAPIENZA All’inizio di novembre il quotidiano russo Vedomosti ha rivelato un piano di aiuto finanziario, da parte del governo russo, nei confronti degli investitori incaricati di preparare i Giochi di Sochi 2014. Sarebbero ormai incapaci di rimborsare i capitali prestati dalle autorità pubbliche. Secondo il giornale, il premier Dmitrij Medvedev starebbe predisponendo per questo una serie di sgravi fiscali e di “sconti” sui tassi di interesse applicati alle imprese dalla VEB (la banca pubblica d’investimenti). Le linee di credito accordate agli imprenditori da quest’ultima sono pari a 241 miliardi di rubli (5,5 miliardi di euro) e comprendono i capitali necessari per edificare impianti sportivi, complessi alberghieri, nonché due centrali elettriche e un terminal aeroportuale. Per incrementare la liquidità necessaria, il fondo di garanzia predisposto dall’esecutivo di Mosca – ha riferito recentemente il quotidiano Le Monde – sarà largamente insufficiente. Putin e Medvedev dovranno perciò attingere al bilancio federale.

| ANNO 13 N. 115 | DICEMBRE 2013/GENNAIO 2014 | valori | 37 |

SÉMHUR / HTTP://COMMONS.WIKIMEDIA.ORG

| economiasolidale |


| economiasolidale | una ricerca |

Sport e legalità al calcio d’inizio di Valentina Neri

L’associazione Sport4Society lancia una nuova sfida: una ricerca sul tema “sport e legalità”. Perché purtroppo anche questo è un terreno fertile per le infiltrazioni della criminalità organizzata. Anche a livello dei dilettanti omenica 10 novembre, allo stadio Arechi, l’aria era surreale fin da prima del fischio d’inizio di Salernitana-Nocerina, con la squadra ospite chiusa negli spogliatoi durante il riscaldamento dei padroni di casa. Dopo soli cinquanta secondi di gioco l’allenatore della Nocerina chiede tre cambi, esaurendo tutti quelli a sua disposizione. Quella che si consuma nei venti minuti successivi ha i contorni di una farsa: uno dopo l’altro, cinque giocatori della Nocerina chiedono di uscire per infortunio, costringendo l’arbitro Sacchi a decretare la fine del match. Per un pomeriggio questa partita di Lega Pro (la vecchia serie C1) conquista le home page dei principali quotidiani nazionali, rubando la scena alle squadre di vertice della massima serie. Perché a spingere la Nocerina a rifiutarsi di giocare sono state le minacce dei suoi stessi ultras, che hanno protestato contro la decisione della questura di chiudere la curva per motivi di sicurezza proprio in occasione del derby. Una vicenda paradossale, che in un comune pomeriggio di metà campionato mette spietatamente sotto i riflettori uno dei tanti lati ambigui dello sport più

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amato del Belpaese. Ma basta allargare lo sguardo per capire che le ombre non finiscono certo qui.

La zona grigia Proprio per questo l’associazione Sport4Society, dopo essersi occupata tra le altre cose di etica sportiva, omofobia e razzismo, ha deciso di intraprendere un articolato progetto di ricerca sul tema Le sfide dello sport per l’Europa dei diritti: un percorso di legalità. Il lavoro, appoggiato anche dal Progetto San FrancescoCentro studi sociali contro le mafie, sarà vasto e andrà a sviscerare una lunga se-

Sport 4 Society De Lisi, progetto San Francesco: «La zona grigia dello sport non nasce solo da camorra e ’ndrangheta, ma anche nei salotti buoni della borghesia»

rie di temi, partendo dalla bibliografia, per poi arricchirla con documenti ufficiali, interviste, fatti di cronaca. Perché è vero – come si legge nell’abstract – che quello dello sport è uno dei pochi mondi che in questi anni di crisi ha continuato a crescere, coprendo il vuoto dato dalla sfiducia nella politica e nell’economia. Ma è vero anche che proprio lo sport, a tutti i livelli, è terreno fertile per le infiltrazioni di quella che Alessandro De Lisi, direttore del Progetto San Francesco, chiama “zona grigia”. «Se fosse solo una questione di criminalità organizzata, sul piano operativo e investigativo sarebbe tutto persino più semplice», afferma De Lisi. «Ma la zona grigia dello sport non nasce solo dalla camorra e dalla ’ndrangheta, ma anche nei salotti buoni della borghesia. Gli ultras ne sono la guardia armata: con la loro pressione sulla società sportiva, sulla tifoseria e sulla città, fortificano i legami paralleli». La zona grigia è quella in cui le società sportive non sono obbligate a pubblicare il proprio bilancio sociale e in cui non si riescono a tracciare i flussi delle sponsorizzazioni. È quella dei farmaci contraffatti, un business che – stando al Centre for Medicine in the Public Interest – è almeno dieci volte più redditizio del narcotraffico. Per non parlare del doping che torna ciclicamente sotto i riflettori.


| economiasolidale |

IL PROGETTO Se l’associazione Sport4Society, fondata nel 2009, fin dal nome si focalizza sul valore sociale dello sport, approfondendone vari aspetti con un’intensa attività di ricerca, forse il secondo partner del progetto, a prima vista, può stupire. Il Progetto San Francesco-Centro studi sociali contro le mafie, infatti, nasce nel 2011 a Cermenate, in provincia di Como, in una villetta confiscata alla ’ndrangheta. A fondarlo i sindacati Filca-Cisl (Federazione italiana lavoratori costruzioni e affini), Fiba-Cisl (Federazione italiana bancari assicurativi) e Siulp (Sindacato italiano unitario dei lavoratori di polizia), che hanno trasformato un bene confiscato in un vivace laboratorio di formazione, ricerca e coordinamento per il contrasto alla

Se l’illegalità colpisce anche i dilettanti Casi eclatanti come quelli di Lance Armstrong o Alex Schwazer, avverte Umberto Musumeci, presidente di Sport4Society, «non devono diventare un “vaccino”. Se, come abbiamo riscontrato, almeno mezzo milione di persone in Italia è coinvolto nel doping leggero o pesante, questi episodi di spicco rischiano di distogliere l’attenzione dalla realtà quotidiana di organizzazioni, preparatori atletici, genitori che stimolano i ragazzi a puntare al risul-

criminalità organizzata. Ci aiuta a capire il perché di questa collaborazione Alessandro De Lisi, direttore del Progetto San Francesco: «Proprio lo sport, se vissuto come esempio di aggregazione e valori positivi, è un argine fondamentale all’avanzata dell’illegalità». Quindi «non vogliamo criminalizzarlo, ma valorizzare le buone prassi, che spesso passano in secondo piano». E il progetto non finisce certo qui. Dopo la pubblicazione della ricerca l’obiettivo è quello di creare un cantiere di lavoro con associazioni e Ong già attive su questi temi, per organizzare una serie di eventi in varie regioni italiane. Nel cassetto c’è anche l’idea di coinvolgere la Nazionale Magistrati, per una campagna di responsabilità sociale per la legalità nel mondo dello sport. V.N.

tato a costo di trascurare la salute, i rapporti sociali, la correttezza, la serietà». Già: contrariamente a quello che si potrebbe immaginare, le sacche di illegalità più vaste sono proprio all’interno delle serie minori e dello sport dilettantistico, fino ad arrivare alle sezioni giovanili. Che paradossalmente, continua Musumeci, sono quelle in cui gli atleti – che fanno sport per passione e non certo per ingaggi milionari – sono meno tutelati. A questo punto, conclude De Lisi, «non è solo una questione di legalità, ma

IN RETE sport4society.org progettosanfrancesco.it

di responsabilità sociale. Un trauma come quello della Nocerina non danneggia solo la Figc, danneggia il territorio e la comunità, perché polverizza i legami sociali che si ritrovano attorno al mondo dello sport. Per questo anche gli enti locali devono avere la responsabilità di vigilare e intervenire». 


| socialinnovation |

Change Manager

Un profilo di innovatore sociale targato UK

Q

uando gli antichi romani conquistarono la Britannia costruirono una città sul primo crocevia che dal London Bridge conduce a Portsmouth. Poi la città divenne un centro politico per il popolo sassone, ospitando la pietra delle incoronazioni: Kingstone upon Thames. Questo distretto oggi si candida a essere un centro per l’innovazione sociale nell’amministrazione

di Andrea Vecci

pubblica. La Contea del Surrey è una delle più grandi autonomie locali in Inghilterra (oltre un milione di abitanti, bilancio da 1,5 miliardi di sterline). Shift Surrey è il suo design hub, nato per progettare e migliorare i servizi pubblici: l’obiettivo è di mantenerli e ottimizzarli per tutti i residenti, nonostante la crisi. Un esempio sono le politiche di mobilità intelligente e i Co-Wheels Car Club. La contea è alla ricerca di un Change Manager, una nuova figura professionale che costruisca il cambiamento dall’interno. Studiando il profilo del candidato si scoprono le caratteristiche di un innovatore sociale. La job description disciplina le responsabilità del Change Manager: convincere persone e amministratori a sperimentare nuovi approcci, ispirare il cambiamento, guidare la trasformazione. I requisiti del candidato sono di tipo relazionale: essere un comunicatore qualificato e avere esperienza nel coinvolgimento, nella persuasione e nella negoziazione con stakeholder differenti. Anche le caratteristiche dei campi creativi, la curiosità, la voglia di fare, non mancano nell’identikit ideale. Tra le tante qualifiche e abilità presenti nella job description, quello che colpisce non è solo la capacità di gestire una vasta gamma di flussi di lavoro o di

concentrato sull’innovazione degli enti pubblici in ottica smart city, ma che sconta un rapporto conflittuale tra i cosiddetti innovatori e la pubblica amministrazione. Lo sa bene il terzo settore costretto a trasformare in virtù la necessità di essere flessibile ed elastico, inventando soluzioni creative “a basso consumo” per muoversi in un contesto istituzionale percepito come lontano e a volte persino ostile. Dalle battaglie per i diritti delle persone con disabilità, al cinque per mille, dalla legge sull’impresa sociale alla chiusura dell’Agenzia per le Onlus, si finisce spesso per rivendicare l’alterità e la separatezza dal settore pubblico come un elemento di sana distinzione, sebbene molte delle iniziative sociali siano pubbliche, orientate cioè a costruire nuove policy. Questa posizione separatista sembra comunque produrre degli effetti positivi: si diffondono iniziative autonome e reti orizzontali, si producono aggregazioni informali di attori aperti al perseguimento di strategie comuni, si progettano ibridi per servizi pubblici, si costruiscono e si sperimentano luoghi di fiducia attraverso la condivisione di spazi, si rigenerano spazi urbani, nell’attesa che anche le istituzioni pubbliche partecipino al cambiamento, assumendo i nuovi acrobati al loro interno. 

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Per innovare nel settore pubblico servono acrobati. Anche in Italia accettare la sfida del cambiamento dei servizi pubblici, quanto la dose di coraggio per sfidare lo status quo, riuscendo a mantenere un profilo “familiare” sia nei confronti dell’ente pubblico che dei cittadini. Il Change Manager avrà uno stipendio di 40-50 mila sterline all’anno e potrà assumere due membri nel suo staff oltre ai gestori dei singoli progetti di cambiamento. Il profilo del Change Manager ricorda quello di un acrobata, molto simile a quanto offre il panorama italiano, oggi


fotoracconto 06/07

URBZ

Mumbai, India. L’associazione coinvolta nel progetto a San Paolo è Urbz, un gruppo di attivisti che lavora molto con progetti di economia informale nei quartieri disagiati della città indiana. Non è vero che le favelas sono luoghi esclusivamente di povertà. Si inseriscono esperienze di lavoro informale anche ad alto reddito. | ANNO 13 N. 115 | DICEMBRE 2013/GENNAIO 2014 | valori | 41 |



| energia e sovvenzioni |

internazionale Le centrali a carbone rischiano di farla franca > 45 Alaska, l’inarrestabile febbre del petrolio > 47

Bei, stop ai finanziamenti alle centrali inquinanti. Ma con molti dubbi di Andrea Barolini

i può parlare di vittoria, sebbene parziale, per le Ong e la società civile in Europa. Alla fine di luglio la Banca europea per gli investimenti (Bei) ha precisato la propria strategia nel settore dell’energia, specificando in particolare le scelte riguardanti i finanziamenti alle centrali più inquinanti. Proprio di fronte alle critiche provenienti dal mondo delle associazioni ambientaliste, l’istituto ha deciso di non concedere più fondi a quegli impianti che emettono un quantitativo di CO2 superiore ai 550 grammi per chilowattora prodotto. Si tratta di una soglia che, di fatto, esclude le centrali a carbone, che come noto in termini di biossido di carbonio sono le più inquinanti in assoluto (vedi GRAFICO ). Una buona notizia, dunque. Ma che non soddisfa del tutto gli ambientalisti. La Bei ha, infatti, previsto

S

La Banca europea per gli investimenti ha imposto una soglia per le emissioni di CO2 pari a 550 grammi per kWh prodotto: chi la supera, non riceve finanziamenti. È il caso di molte centrali a carbone. Ma alle industrie del settore non mancano gli escamotage per aggirare la regolamentazione

| ANNO 13 N. 115 | DICEMBRE 2013/GENNAIO 2014 | valori | 43 |


| internazionale |

Secondo l’IEA, le energie fossili hanno ricevuto, solo nel 2012, 630 miliardi di dollari a livello globale. E il carbone è ancora la seconda fonte di energia al mondo una serie di eccezioni: alcune parzialmente comprensibili, altre decisamente più opinabili.

Molte eccezioni Da un lato saranno concessi finanziamenti a quelle centrali che, benché superino le soglie previste per le emissioni, sono considerate funzionali alla «certezza dell’approvvigionamento in Europa». È il caso, ad esempio, di quei luoghi che potrebbero non avere a disposizione altre fonti per produrre energia: è chiaro che essi non possano essere lasciati “al buio”. Ma è anche evidente che sarebbe stato intelligente imporre – anche nel loro caso – una tempistica per una transizione verso fonti rinnovabili e compatibili con le esigenze del Pianeta. Non a caso la Ong francese Les Amis de la Terre ha spiegato che «se è vero che la Bei impone degli standard sulle performance di emissione e chiede il rispetto delle recenti direttive europee in materia, va detto anche che i livelli indicati so-

EMISSIONI MEDIE DI ANIDRIDE CARBONICA PER FONTE

no meno ambiziosi di quelli decisi da Paesi come il Canada e persino da Barack Obama negli Stati Uniti». Lascia poi ancor più perplessi la seconda “porta aperta” che si è lasciata la banca. Essa finanzierà, infatti, anche quegli impianti che «contribuiscono alla riduzione della povertà e allo sviluppo economico al di fuori dell’Ue» e che saranno dunque esentati dal rispetto degli standard ambientali. In ogni caso, tuttavia, la decisione della Bei resta fondamentalmente positiva: «Con un livello massimo di 550 grammi vengono tagliate fuori anche le centrali a carbone di ultimissima generazione, come ad esempio nel caso di quella di Civitavecchia, le cui emissioni sono attorno ai 700 grammi», spiega Stefano Ciafani, vicepresidente di Legambiente. «I prestiti ai progetti di produzione di energia a partire da combustibili fossili – ha sottolineato la Bei di fronte alle critiche – sono scesi considerevolmente nel corso degli ultimi cinque anni. I fondi accordati alle centrali a carbone o a lignite, in particolare, rappresentano meno dell’1,5% del totale concesso al comparto». Ma resta il fatto che, secondo l’International Energy Agency, le energie fossili hanno ricevuto, solo nel 2012, 630 miliardi di euro a livello globale. E che, ancora oggi, il carbone costituisce la seconda fonte di produzione di energia al mondo, e la prima per quanto riguarda l’elettricità.

Una soglia aggirabile

,3 8O5/k7Wh lorda 2

,2 649

GAS NATURALE

,7 435 ,7 379

ALTRI COMBUSTIBILI

PRODOTTI PETROLIFERI

CARBONE

FONTE: ANNUARIO AMBIENTALE ISPRA

gC

Occorre inoltre riflettere sulla soglia stessa di 550 grammi di CO2 per kWh. Sulla carta, infatti, le centrali a carbone sarebbero tagliate fuori tutte: esse emettoda h lor W no in media tra gli 800 e gli 850 grammi, k / g CO 2 cifra che sale a 1.200-1.500 per quelle più inquinanti (il limite, invece, salva le centrali a gas, che emettono normalmente tra a d lor kWh 2/ O i 300 e i 500 grammi). In C g orda Wh l k realtà, però, esistono una se/ 2 g CO rie di scappatoie: nuove tecnologie di combustione potrebbero presto permettere di bruciare carbone a temperature e pressione molto elevate (600°C e 275 bar), migliorando il rendimento della combustione e diminuendo

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le emissioni di biossido di carbonio. In questo modo – secondo un’analisi del quotidiano francese Journal de l’environnement – alcune centrali a carbone potrebbero riuscire a scendere sotto la soglia imposta dalla Bei. Le industrie del settore potrebbero inoltre immaginare di stoccare la CO2 prodotta, abbassando così le proprie emissioni: «Ma ad oggi tale tecnica non è adottata per le grandi centrali. Esistono solo sperimentazioni e sistemi applicati a impianti di piccola taglia», prosegue Ciafani. Altro escamotage: se si bruciano insieme biomasse di origine vegetale e carbone si può evitare di contabilizzare le emissioni delle prime (che sono in ogni caso molto contenute), abbassando il totale emesso. Meglio di niente, si dirà: almeno la quantità di CO2 dispersa nell’atmosfera, in un modo o nell’altro, scenderà. E a giovarne sarà l’ambiente. Vero. Ma concedere così tante vie di fuga alla fonte di energia in assoluto più inquinante significa ritardare una transizione energetica ed ecologica che per il Pianeta è ormai indispensabile. «Va detto inoltre che la decisione della Bei, per quanto costituisca un segnale importante, dovrebbe essere seguita anche da tutte le banche del mondo per riuscire davvero a cambiare le cose», conclude Ciafani. La strada per liberarci dal carbone resta dunque ancora lunga. 


| internazionale |

Le centrali a carbone “rischiano” di farla franca di Andrea Barolini

Bruciando assieme al carbone una quota di legname si possono abbassare le emissioni di biossido di carbonio. In questo modo alcune aziende negli Stati Uniti possono perfino riuscire a far passare i vecchi impianti in categoria “rinnovabili”. E la transizione energetica potrebbe allontanarsi l dito degli ambientalisti è da tempo puntato verso le centrali a carbone, vere e proprie “bombe ecologiche” per il Pianeta. Più di recente anche alcune istituzioni hanno dato l’impressione di volersi muovere in modo più concreto rispetto al passato: in Europa c’è stato lo stop della Banca per gli Investimenti (BEI) ai finanziamenti alle produzioni di energia che emettono quantitativi troppo elevati di CO2 (come descritto nelle pagine precedenti); negli Usa la Environmental Protection Agency (EPA) ha chiesto ufficialmente ai gestori delle centrali di ridurre le emissioni. Eppure gli impianti in assoluto più inquinanti al

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mondo potrebbero essere “salvati” in extremis. Almeno in linea teorica. Potrebbe bastare, infatti, bruciare insieme al carbone una quota di legno per abbassare i livelli di biossido di carbonio. E per quanto non sia detto che ciò basti per scendere sotto ai tetti massimi indicati dalla Bei, negli Stati Uniti l’escamotage potrebbe “salvare” decine e decine di vecchi impianti. A rivelarlo è stato il New York Times, che ha citato l’esempio della Minnesota Power, azienda che, proprio grazie a questo stratagemma, è riuscita addirittura a far passare parte di un vecchio impianto in categoria “rinnovabili” (dal momento

Onufrio (Greenpeace): «La co-combustione di legno e carbone può far abbassare le emissioni di CO2 di un 5%. Mentre gli impianti a gas più nuovi ne emettono la metà»

che il legno utilizzato può essere recuperato da rifiuti o da scarti industriali). «Abbiamo ottenuto un effetto benefico dal punto di vista delle emissioni, così come da quello economico», ha dichiarato al quotidiano statunitense Allan Rudeck, presidente della compagnia. Il tutto grazie a un approccio a dir poco perfettibile, da parte degli Stati Uniti.

Un regalo alle grandi corporation L’EPA considera come zero-carbon perfino l’utilizzo di legnami provenienti dal disboscamento. Il ragionamento, ultra-semplicistico, è che gli alberi possono essere ripiantati: in questo senso, si tratterebbe di fonti rinnovabili. Un argomento che, ovviamente, è finito immediatamente nel mirino degli ambientalisti, che sottolineano come la deforestazione sia una delle principali cause dell’aumento della CO2 presente nell’atmosfera. Inoltre, sottolinea Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace Italia, anche nelle centrali a carbone di ultima generazione «la quantità di biomassa che può essere immessa in co-combustione è una frazione di pochi punti percentuali, in termini energetici, rispetto al totale. Ma

Da anni Valori vigila sulle dinamiche del settore dell’energia globale e sulle conseguenze ambientali delle strategie avviate dai governi. Da ciò dipende il futuro del nostro Pianeta. Nel numero di ottobre 2011 abbiamo lanciato per primi un grido d’allarme rispetto alla decisione degli Stati Uniti di puntare con forza sullo sfruttamento dello shale gas, la cui tecnologia di estrazione è particolarmente rischiosa sia per l’ambiente che per la salute pubblica. | ANNO 13 N. 115 | DICEMBRE 2013/GENNAIO 2014 | valori | 45 |


| internazionale | energia insostenibile |

costituisce una quantità importante in termini assoluti», dal momento che spesso si tratta di grandi impianti. Enormi quantità di legna, insomma, per risultati magri dal punto di vista ecologico. Il gioco, insomma, non vale la candela, anche perché bisogna tenere conto del costo – anche ambientale – che occorre sostenere per spostare quantità significative di biomasse fino a ciascun impianto. A conti fatti «un kWh di energia prodotto a carbone dagli impianti più moderni comporta un’emissione di circa 800 grammi di CO2. Bruciando insieme legno e carbone si può scendere del 5%. Mentre gli impianti a gas più nuovi inquinano meno della metà», aggiunge Onufrio. «Tenendo conto del fatto che gli Usa tendono a puntare a un sistema centralizzato fatto di grandi impianti, pur nella prospettiva di una riduzione della CO2, la soluzione è congeniale agli interessi delle grandi corporation, che vogliono mantenere inalterate le centrali e la rete», gli fa eco Mario Agostinelli, presidente dell’Associazione Energia Felice. Senza contare i problemi logistici che potrebbero presentarsi a causa della co-

SHALE GAS, RIBELLI IN ROMANIA. DIVIETI IN CANADA Il dibattito sullo shale gas è sempre più diffuso in tutto il mondo. E si moltiplicano le “resistenze” da parte delle popolazioni che abitano nei luoghi prescelti per l’estrazione di tale fonte di energia. Nel numero di novembre, Valori ha raccontato la vicenda di Balcombe, in Gran Bretagna. Ma anche gli abitanti di Pungesti, villaggio rumeno popolato da non più di 400 anime, hanno deciso di scontrarsi apertamente con il colosso petrolifero americano Chevron, che contava di avviare le esplorazioni alla ricerca di shale gas nell’area già alla metà di ottobre. Pensionati, uomini, donne e bambini hanno invaso le strade del paese, bloccando il convoglio delle società incaricate dalla compagnia di trasferire gli strumenti di lavoro. Nel frattempo, dall’altra parte del mondo, nella provincia canadese di Terranova, gli attivisti hanno centrato un’importante vittoria. Le autorità locali hanno infatto introdotto una moratoria sulla fratturazione idraulica, tecnica ad alto rischio ambientale, utilizzata proprio per lo sfruttamento degli idrocarburi da scisto intrappolati nel sottosuolo. Il tutto in un’area in cui è presente la maggior parte delle risorse della costa atlantica canadese. «La nostra prima preoccupazione è la salute e la sicurezza dei nostri cittadini», ha dichiarato il ministro locale per le Risorse naturali, Derrick Dalley, spiegando senza mezzi termini le ragioni della scelta.

combustione: dal rischio di ottenere basse rese a quello di andare incontro a guasti negli impianti, fino alla necessità di conservare in modo adeguato la “materia viva” (il legno, appunto). Una scelta strategica, dunque, che punta a ritardare di fatto la transizione

verso le rinnovabili. Queste ultime, infatti, «vogliono essere mantenute marginali per non obbligare a riprogettare su base locale e territoriale l’intero sistema», accusa ancora Agostinelli. L’ennesimo colpo di coda della potente lobby industriale. 

COME PRODURRE METANO RICICLANDO CO2 E SFRUTTANDO LE RINNOVABILI

Volt Gaz Volt, ovvero trasformare in metano il surplus di energia prodotto attraverso le fonti rinnovabili. L’idea è di Robert I. Bell, professore del Brooklyn College di New York, ed è stata presentata a maggio scorso al Parlamento europeo dall’eurodeputata francese Corinne Lapage. «La nostra non è un’utopia – ha spiegato il docente all’agenzia AFP – ma una realtà: due sistemi sperimentali sono già operativi

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a Stoccarda, in Germania». Il progetto parte dalla volontà di sopperire al problema principale delle fonti rinnovabili: la loro intermittenza. È ovvio, infatti, che i pannelli fotovoltaici di notte non funzionano, e lo stesso vale per le pale eoliche in assenza di vento. In altre fasi, però, le rinnovabili producono un’eccedenza di energia: nel sistema VGV essa viene recuperata, e utilizzata per decomporre acqua (attraverso elettrolisi) in ossigeno e idrogeno. Quest’ultimo viene quindi combinato con CO2 riciclata (ad esempio da scarti industriali) per produrre metano che, a sua volta, può essere stoccato e quindi utilizzato. Vero è che la combustione di metano è responsabile di grandi quantitativi di CO2, e perciò nel progetto VGV il biossido di carbonio derivante viene catturato da sistemi di cogenerazione, e infine può essere ricombinato con l’idrogeno prodotto all’inizio del ciclo. Ci sono però due problemi. Il primo riguarda il trasporto: le fabbriche VGV dovrebbero idealmente essere edificate a poca distanza dalle grandi industrie che producono CO2. Ma anche non lontane dalle fonti rinnovabili dalle quali si intende recuperare l’energia in eccedenza. Secondo problema: i costi. Per ora un kWh generato dal Volt Gaz Volt costa 23 centesimi di euro, anche se si prevede di scendere a 8 centesimi già nel 2016.


| internazionale | energia e climate change |

Alaska, l’inarrestabile febbre del petrolio di Matteo Cavallito

S

La corsa al petrolio L’arretramento dei ghiacciai nella stagione estiva, segnala Bloomberg, ha reso recentemente disponibili in mare nuovi giacimenti petroliferi un tempo tecnica-

Un oleodotto in Alaska vicino alla città di Coldfoot, sopra al Circolo Polare Artico.

ska e dintorni viaggia da tempo a livelli record. Il fatto è che l’Artico si sta riscaldando a ritmi impressionanti: più o meno a una velocità doppia rispetto al resto del Pianeta su scala trentennale. Il fenomeno «è noto come amplificazione polare ed è causato da processi che

ALASKA: TREND ECONOMICO DEI SETTORI CHIAVE 1997-2012 16.000 14.000 12.000 10.000 8.000 6.000 4.000 2.000 0

1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012

Costruzione

Commercio

Estrazioni di petrolio e gas

Trasporti e utility

Risorse naturali e minerarie

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FONTE: U.S. BUREAU OF ECONOMIC ANALYSIS (BEA WWW.BEA.GOV)

perduta, gelida e in larga parte disabitata. Ma da qualche tempo, pare, anche un po’ meno inospitale. Soprattutto per i colossi dell’energia fossile che guardano ai suoi territori con crescente interesse. È il ritratto contemporaneo dell’Alaska, terra estrema degli Stati Uniti travolta di questi tempi da una sorprendente, pericolosa, e al tempo stesso attraente, opportunità economica: quella offerta dal riscaldamento globale.

mente irraggiungibili. Per questo i grandi colossi dell’energia come Exxon, ConocoPhillips, Linc e Shell stanno investendo i loro risparmi nell’acquisto dei diritti di trivellazione delle riserve dello Stato (23,6 miliardi di barili secondo lo U.S. Bureau of Ocean Energy Management), con il rischio di alimentare il costante circolo vizioso del riscaldamento. Un fenomeno, quest’ultimo, che in Ala-

Contributo al Pil [in milioni di dollari]

I ghiacci si ritirano e nuovi giacimenti si rendono improvvisamente disponibili. “Merito” del riscaldamento globale


rafforzano il riscaldamento atmosferico in atto», spiega a Valori Paolo Gabrielli, glaciologo presso l’Ohio State University. Tra questi, «ad esempio, il ritiro del ghiaccio marino che lascia spazio a larghissime superfici d’acqua libera che d’estate assorbono efficacemente la radiazione solare», ovvero «energia che viene poi rilasciata in inverno sotto forma di calore». Ma anche «il sempre più ridotto innevamento del suolo», che si traduce in «un maggiore assorbimento di energia e un successivo rilascio in atmosfera». Un processo continuo, insomma, che produce danni tanto alle terre estreme (leggi erosione costiera) quanto al resto del Pianeta. Tra le principali conseguenze, spiega Gabrielli, la temuta fusione della calotta della Groenlandia «che potenzialmente può innalzare il livello dei mari fino a 7 metri, inondando le zone costiere di tutto il mondo», senza contare «l’intensificazione di fenomeni meteorologici alle medie latitudini e la deviazione delle traiettorie delle tempeste tropicali».

Opportunità rinnovabili Nel corso del 2012 il Pil dell’Alaska è cresciuto a un tasso dell’1,1%, meno della metà della media nazionale. Inevitabile, per molti, ipotizzare quindi che il rilancio dell’economia debba necessariamente passare dalla crescita dei comparti mi| 48 | valori | ANNO 13 N. 115 | DICEMBRE 2013/GENNAIO 2014 |

IL PAESE IN CIFRE Popolazione: 731.449 Incremento demografico: 3% (2010-2012, media Usa 1,7%) Capitale: Juneau, 32.556 ab. Città principale: Anchorage, 298.610 ab. Governatore: Sean Parnell Ingresso nell’Unione: 3/1/1959 Pil 2012: 51,9 miliardi di dollari Tasso di crescita Pil: 1,1% (media Usa: 2,5%) Pil Alaska/Pil Usa: 0,32% Industria principale: settore minerario (21,3% del Pil) Reddito pro capite: 49.436 dollari Tasso di crescita reddito p.c.: 3,8% (media Usa 4,2%) Reddito pro capite su media Usa: 113%

nerario ed energetico, i due settori chiave della regione i cui ricavi restano tuttora distanti dai picchi del recente passato (vedi GRAFICO alla pagina precedente). «La

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crisi economica ha di fatto azzerato il dibattito sulle trivellazioni che in generale sono viste con favore, a partire dall’amministrazione americana che le incentiva come se producessero energia alternativa», sottolinea Paolo Gabrielli. «L’idea è quella di continuare a trivellare e nello stesso tempo di verificare possibilità alternative per l’utilizzo delle fonti di energia rinnovabile». Secondo il senatore democratico dell’Alaska, Mark Begich, interpellato da Bloomberg, il comparto rinnovabili potrà arrivare a soddisfare il 50% del fabbisogno energetico dello Stato entro il 2025, contro il 27% odierno. In attesa di tempi migliori, comunque, nel solo mese di maggio, l’amministrazione locale ha concesso incentivi fiscali alle imprese petrolifere per oltre un miliardo di dollari. 

FONTE: U.S. BUREAU OF ECONOMIC ANALYSIS (BEA WWW.BEA.GOV), U.S. CENSUS BUREAU (WWW.CENSUS.GOV), NOSTRE ELABORAZIONI

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| avvistamenti |

Risorse preziose

Depredare o proteggere l titolo della conferenza che Gilles Clément ha tenuto a Milano nello spazio di Corso Como 10 era “Economia e paesaggio”. Due ore appassionanti e coinvolgenti in cui si è parlato di storia del paesaggio, di agricoltura, di piante e, dunque, di economia. L’occasione era la presentazione di una serie di volumi del paesaggista, ingegnere, agronomo, botanico, entomologo,

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di Angela Madesani

scrittore francese, pubblicati nel nostro Paese dalla casa editrice marchigiana Quodlibet. Non è questa l’occasione per relazionare la complessa conferenza del padre del Manifesto del terzo paesaggio. Certo è che alcune affermazioni del creatore del parigino parco Citroën a proposito del criminale ruolo della Borsa e della finanza nella storia del mondo contemporaneo sono decisamente rivoluzionarie, considerata poi la sede dove sono state espresse. A pochi metri dalla sala dove il francese ha parlato erano in vendita piccole borsette di coccodrillo al modico prezzo di tredicimila euro. Si è parlato di agricoltura eroica, così nel Salento, a Lanzarote, dove nel corso dei secoli l’uomo ha dovuto lottare strenuamente per avere dei frutti dalla terra, all’insegna del reciproco rispetto. Si è parlato di paesaggio economico, politico, dalla bolla dei Tulipani del XVII secolo alla Guerra dell’oppio del XIX secolo fra cinesi e inglesi. Si è parlato di storia del paesaggio, di quanto è avvenuto dopo la seconda guerra mondiale, di quanto l’uomo con ben poco acume, solo assetato da facili guadagni, ha fatto, di come ha ridotto il territorio. Gli ultimi settant’anni sono stati segnati dal gran-

se. «La scelta rivoluzionaria sarebbe quella di non possedere». Clément ha proposto l’esempio dell’Indonesia, un luogo che conosce molto bene, dove il governo ha imposto tre raccolti di riso all’anno. Un risultato che viene raggiunto attraverso la profonda modificazione del paesaggio, con l’utilizzo di una quantità smodata di prodotti chimici, che hanno causato la scomparsa di un’importante fauna locale di pesci e anfibi. Fenomeni questi che sono all’ordine del giorno anche nel nostro Paese. La salvezza, a detta di Clément – e qui ritorna l’idea di terzo paesaggio – è data dalla diversità. L’uomo dipende da essa, in questa forma di paesaggio non c’è speculazione. Stiamo parlando di un grande laboratorio in cui molto è ancora da comprendere. Quello di Clément è un atteggiamento empirico. Attualmente ha messo in piedi un grande progetto che si basa sull’energia naturale che arriva proprio dalla complessità biologica del suolo. Un’immensa area sottratta alla speculazione immobiliare selvaggia quanto inutile, in cui la dimensione estetica è posta a diretto confronto con una dimensione etica e politica. In molti lo tacciano di essere un utopista, ma nulla è detto. Chi vivrà vedrà. 

La salvezza è data dalla diversità. L’uomo dipende da essa, in questa forma di paesaggio non c’è speculazione. Stiamo parlando di un grande laboratorio in cui molto è ancora da comprendere. de sogno economico di sfruttare la terra quanto più possibile, senza badare alle conseguenze e adesso? Il nostro è un tempo del troppo. E il troppo nella maggior parte dei casi uccide, devasta. «Non sappiamo più dove mettere le cose», ha affermato l’intellettuale france-

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fotoracconto 07/07

Metropolis è uno spazio occupato a Roma. Il laboratorio Arti civiche dell’Università Roma 3 (coinvolto nel progetto a San Paolo) lavora sulla capacità degli spazi informali di costruire comunità. A Metropolis è avvenuta la prima occupazione che ha coinvolto anche i Rom, di solito esclusi da esperienze simili. All’interno di un capannone sono state realizzate delle vere e proprie unità abitative. Gli stessi ricercatori a San Paolo hanno lavorato con due comunità separate da un’autostrada, cercando di riallacciare i rapporti interrotti da tempo. | 50 | valori | ANNO 13 N. 115 | DICEMBRE 2013/GENNAIO 2014 |

ALESSANDRO IMBRIACO


| LASTNEWS |

altrevoci BOLLA TECH? GLI HEDGE SI METTONO AL RIPARO

L’espansione economica del settore tecnologico alimenta da anni i sogni di gloria di molti operatori del mercato. Ma dietro all’onda lunga dell’entusiasmo potrebbe nascondersi la più classica delle minacce finanziarie: una nuova bolla speculativa. È il sospetto che inizia a serpeggiare in alcuni ambienti della business community di fronte alla presenza di alcuni segnali chiave. Indizi preoccupanti come quello reso noto da una recente analisi di Credit Suisse ripresa dal portale 247wallst.com. Nonostante le major di Wall Street insistano nel mantenere posizioni rialziste sull’intero comparto, si sottolinea, l’esposizione netta complessiva sul settore ha toccato negli Usa il livello più basso dall’inizio del 2011 a oggi. Il problema, si intuisce dall’analisi, è che gli hedge funds attivi nel comparto hanno iniziato a vendere, come a voler capitalizzare al massimo la loro cosiddetta strategia crowded trade, che consiste nell’investire su quei titoli azionari che attraggono contemporaneamente l’attenzione di tutti gli operatori. L’ipotesi è che i fondi speculativi stiano prendendo di mira le azioni che viaggiano su livelli di prezzo apparentemente eccessivi rispetto ai loro fondamentali (ricavi, profitti etc.). Una caratteristica, quest’ultima, che interessa tipicamente il comparto Dot-com, ovvero il segmento internet. [M.CAV.]

STILI DI VITA RESPONSABILI ITALIANI PRONTI A CAMBIARE LA SVOLTA DELLA FED FARÀ CROLLARE IL PREZZO DELL’ORO La sempre più attesa svolta nella politica monetaria espansiva degli Stati Uniti avrebbe già prodotto un’evidente inversione di tendenza in un settore chiave della finanza globale: il mercato dell’oro. Lo ha sottolineato il Financial Times analizzando i numeri offerti dal mercato. A metà novembre, il prezzo dell’oro viaggiava intorno ai 1.240 dollari per oncia contro i 1.910 del picco raggiunto nel 2011. Alla fine del 2013, sottolinea il quotidiano britannico, il prezzo del lingotto dovrebbe far registrare il primo calo annuale dal 2001. La politica espansiva della Fed (acquisti di titoli di Stato e di mortgage-backed securities a un ritmo di 85 miliardi al mese) ha immesso sul mercato una valanga di liquidità a basso costo (i tassi della banca centrale sono al minimo), inducendo gli investitori a incanalare il denaro nei fondi del settore (gold-backed exchange traded funds). Il rallentamento degli acquisti da parte della Fed e un eventuale aumento dei tassi potrebbe dunque favorire un’escalation di un processo già in atto. Quest’anno, evidenzia ancora il FT, i fondi di investimento hanno tagliato le loro posizioni per complessive 700 tonnellate d’oro (30,6 miliardi di dollari, ndr), ma la loro esposizione resta superiore rispetto alla vigilia della crisi. Goldman Sachs ipotizza che il prezzo dell’oro possa scendere fino a 1.050 dollari nel corso del 2014. [M.CAV.]

Sareste disposti a modificare le vostre abitudini, il vostro stile di vita, se questo fosse necessario per adottare dei comportamenti socialmente responsabili? A questa domanda la risposta degli italiani è, nel 60% dei casi, affermativa. Lo rivela la prima edizione dell’Osservatorio del Vivere Responsabile di Altromercato, la più importante organizzazione di commercio equo e solidale in Italia. La consapevolezza dell’importanza di adottare comportamenti compatibili con ciò che ci circonda, dunque, è sempre maggiore. In particolare, gli intervistati si sono dichiarati impegnati in una serie di attività finalizzate all’ottenimento di benefici “collettivi”: l’84% ha dichiarato ad esempio di effettuare regolarmente la raccolta differenziata, ma gli italiani sembrano pronti a fare la propria parte anche per quanto riguarda la limitazione degli sprechi e la riduzione dei consumi (di energia, acqua, detersivi, ecc.). Nove intervistati su dieci, inoltre, considerano il commercio equo come un modello di economia alternativa e sostenibile in grado di fornire una risposta concreta alla necessità di imporre buone pratiche e stili di vita responsabili. Quanto ai fattori capaci di motivare maggiormente i cittadini ad adottare comportamenti responsabili, i risultati dell’Osservatorio indicano in particolare una maggiore diffusione dei valori, nonché l’affermarsi di “pratiche collettive” per effetto dell’azione di istituzioni, enti pubblici o aziende. [A.BAR.]

FONTE COMUNE IL SOCIALE NON FA ACQUA Nello il fontanello è a Buti, in provincia di Pisa. Sono stati gli scolari di Buti a scegliere questo nome per la fonte che eroga acqua refrigerata naturale o frizzante. Il fontanello è nato da un progetto della Cooperativa sociale pisana Il Melograno, che gestirà il servizio con i suoi soci. L’acqua è quella dell’acquedotto comunale, filtrata, trattata e servita alla spina al costo di 0,05 centesimi al litro. Grazie a Nello circoleranno circa 70 mila bottiglie di plastica in meno ogni anno, con un risparmio per la comunità di 30/35 mila euro. Il Comune pagherà un canone molto contenuto per dieci anni, pari al costo dell’impianto. Nello è piaciuto molto, soprattutto per il modello di rete sociale che genera lavoro anche per categorie svantaggiate, fa risparmiare ed è attento all’ambiente. Ora la Cooperativa curerà altri sei fontanelli: due saranno aperti agli inizi del 2014 a Capannori (Lucca). Uno di questi sarà localizzato nella piazza vicino alle scuole, dove c’è già l’erogatore del latte alla spina. Ma intanto attorno al progetto si sono aggiunti altri soggetti che aderiscono al Distretto dell’economia solidale Alto Tirreno: le cooperative eLabor e la Giovane comunità. I finanziamenti per gli investimenti arrivano dal prestito sociale dei soci delle cooperative e da Banca Etica. Per realizzare una finanza di progetto vera, che segna molti punti a suo favore rispetto al modello consumista della grande distribuzione e delle multinazionali dell’acqua. Per saperne di più guarda la videointervista su valori.it [PA.BAI.] | ANNO 13 N. 115 | DICEMBRE 2013/GENNAIO 2014 | valori | 51 |


| FUTURE | a cura di Francesco Carcano | per segnalazioni scrivete a redazione@valori.it

APP PER SMASCHERARE IL GREEN WASHING Aveva iniziato Oxfam pubblicando un report sul “dietro le quinte” dei principali marchi mondiali dell’alimentazione. Sette categorie di domande su temi etici (dai rapporti con i produttori agricoli alle modalità di utilizzo dell’acqua nel ciclo produttivo) che avevano fatto stilare il primo numero di Behind The Brands, di fatto un rapporto di verifica sulle politiche di effettiva sostenibilità adottate dalle principali aziende mondiali e sulla loro coerenza. Nessun premiato tra i ventisei brand analizzati e marchi come Nestlè e Coca Cola in attesa di un migliore giudizio sulla coerenza, malgrado gli enormi investimenti pubblicitari fatti a livello mondiale per dare una immagine etica e green. Arriva ora da un altro versante addirittura un’applicazione per mobile che promette di andare oltre e segnalare, tramite lettura del barcode, la rete di commistioni societarie, interessi reciproci. Presentata come l’applicazione che permetterà di scoprire se dietro la colazione si nasconde Monsanto, Buycott è una app per iPhone molto militante e che si promette di essere sempre più documentata e incisiva. Attraverso la lettura del barcode, il codice a barre che identifica in maniera univoca i prodotti distribuiti internazionalmente, si accede a informazioni sui prodotti e sul livello di “eticità” del produttore. Scaricabile gratuitamente dallo Store Apple.

UN FUTURO NEL PASSATO AGRICOLO Spesso il futuro viene identificato con la ipertecnologia, ma la saggezza e le recenti tendenze ci dimostrano che in realtà spesso il futuro è un ritorno sapiente alle origini. Questo spiega, usando un semplice esempio, perché nell’era della Rete si possano trovare veri geek che decidono di coltivare l’assenzio o fare i pastori erranti. Confagricoltura tramite Anga, associazione nazionale dei giovani imprenditori agricoli, lancia un tirocinio agricolo per under 30 che sappiano esprimersi in lingua inglese e possano dimostrare di aver maturato almeno un paio d’anni d’esperienza nel settore agricolo, per esempio nell’azienda di famiglia o in un agriturismo. Destinazione più gettonata per lo stage di lavoro l’Australia, mentre negli Usa è possibile affiancarvi uno stage universitario di tre mesi. Il periodo minimo di stage è di tre mesi, il massimo consentito diciotto. Poi o si rientra con un curriculum arricchito di esperienze internazionali concrete o si resta sul posto per iniziare una nuova vita. Per chi vuole avventurarsi tra vitigni australiani ed enormi trebbiatrici nordamericane, informazioni e moduli di richiesta sono sul sito di Anga.

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CICLISTI DIGITALI COMUNICANTI

NEUROCAM PER FOTOGRAFARE LE EMOZIONI

Fino a ieri l’immaginario era quello di “Ladri di Biciclette” o del Giro d’Italia. Nera e povera o verde Bianchi con un campione in sella. Ma la bicicletta è anche stile di vita green e tecnologia e i produttori di devices si adeguano. I prodotti sono ormai i più vari. La calza che comunica con lo smartphone tenendo il conto delle pedalate. La sella antifurto con una sim incorporata che lancia un disperato appello al proprietario se viene spostata, e tramite il gps geolocalizza la sua posizione. Ora arriva lo zaino Seil Bag, coreano e non distribuito in Italia (se lo volete meglio una ricerca rapida in Rete), segnalato sui social netowork dal blog greeneconomy. Seil Bag, creato dalla designer Lee Myung Su, è uno zaino che segnala le intenzioni del conducente, per esempio la volontà di svoltare a destra o sinistra. Richiede un device esterno agganciato al manubrio, una sorta di mouse-campanello, e garantisce grande sicurezza e visibilità nei percorsi notturni. Design accattivante, funzionalità semplici e utili per salvaguardare il percorso e creare una forma di comunicazione personale in movimento sono gli elementi di una proposta che troverà probabilmente estimatori anche nelle nostre città.

Viene presentata come una ricerca sulle emozioni, ma le finalità commerciali, come insegna Facebook, sono evidenti. Neurocam è al momento un prototipo giapponese di sensore collegato a un iPhone che “legge” le onde cerebrali e invia un segnale allo smartphone perché registri in automatico fotografie o filmati. A un picco di emotività, rivelabile dalle onde cerebrali in maggior movimento, i sensori inviano il segnale per registrare fotografie o video. Tutto ciò che cattura interesse, e quindi emozioni, viene registrato e può essere condiviso o analizzato. L’applicazione che permette di registrare un diario emotivo cyborg, creando una sorta di memoria emozionale parallela. Soprattutto è uno strumento commerciale destinato a capire cosa, dietro una vetrina o in una strada, cattura la nostra attenzione e a tarare quindi e profilare una possibile campagna di marketing. Le nostre onde cerebrali, insomma, per conoscere più a fondo i nostri gusti e desideri e proporci dei prodotti che sappiano prima di tutto emozionarci, richiamandoci sensazioni profonde o ricordi.


| TERRAFUTURA | a cura di Valentina Neri | per segnalazioni scrivete a neri@valori.it

DA NORD A SUD, IL NATALE DIETRO LE SBARRE Per regalare un po’ di solidarietà a Natale le occasioni non mancano. Anche cogliendo le molte offerte (di qualità ottima) in arrivo direttamente dal carcere. Con Natale in Jail il tradizionale cesto può essere un’occasione per toccare con mano il lavoro di alcune cooperative sociali che, da un capo all’altro del Belpaese, operano con i detenuti. Il caffè non può che venire da Napoli: a miscelarlo, tostarlo, macinarlo e confezionarlo sono le donne della casa circondariale di Pozzuoli, con la cooperativa Lazzarelle. Ci sono i tozzetti “poggia moka” in ceramica dipinta a mano dai ragazzi del carcere minorile di Nisida, guidati dalla Fondazione Il meglio di te. Ai dolci artigianali provvede la cooperativa Banda Biscotti, di Verbania e Saluzzo, ma anche il carcere di Padova, con i Dolci di Giotto. E se a far parte del progetto è anche una realtà siciliana come L’Arcolaio di Siracusa, nel cesto sono d’obbligo le mandorle. caffelazzarelle.jimdo.com www.bandabiscotti.it www.arcolaio.org www.ilmegliodite.it www.idolcidigiotto.it

CON L’UILDM BABBO NATALE ARRIVA SU PRENOTAZIONE

SPERIMENTARE LA TESSITURA NEL VERDE DELLA CASCINA

DAVIDE E GOLIA ALLE PRESE CON LE API

Un Babbo Natale che si presenta puntuale alla porta la notte del 24 dicembre per portare i regali, ravvivare la serata e – soprattutto – fare del bene. A organizzare il tutto, ormai da 28 anni, sono i volontari della sezione di Milano della Uildm (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare). Chiunque può prenotare il suo Babbo Natale a fronte di un contributo che ogni anno va a finanziare un progetto diverso: nel 2013 sarà il turno del sostegno scolastico ai ragazzi con problemi neuromuscolari e di Turtles, la squadra giovanile di hockey in carrozzina di Milano. In media La Uildm riesce a raccogliere 10-12 mila euro ogni anno. Sono più di 20 i volontari che si travestono da Babbo Natale, una settantina in tutto, compresi gli autisti e le aiutanti che tengono nota di tutte le prenotazioni, degli indirizzi delle case, dei nomi di tutti i bimbi. Appuntamento al campo base: vestito rosso, barba, pancione finto e via, verso le case delle famiglie che hanno prenotato il servizio: circa 220 a cui far visita in una notte. Per l’Uildm è l’occasione per realizzare progetti di enorme utilità, per i volontari un modo speciale per vivere il Natale, per i bambini un momento magico. www.babbonataleacasatua.it www.uildmmilano.it

Una vecchia cascina immersa nel verde a Zinasco, a 30 chilometri da Milano e 18 da Pavia. E una famiglia, formata dalla madre Michela e dalle figlie Lavinia e Carlotta, che decide di stabilirvi la propria vita e il proprio lavoro. Nasce così nel 2004 Lavgon, un laboratorio in cui si confezionano artigianalmente borse, capi d’abbigliamento e accessori: «Abbiamo ideato alcuni modelli-base, semplici ma versatili – spiega Lavinia – che diventano pezzi unici nel momento in cui li produciamo e li cuciamo uno a uno, con tessuti e inserti sempre diversi». Ma anche gli appassionati o i semplici curiosi possono sperimentare la tessitura manuale grazie ai laboratori didattici organizzati un paio di volte all’anno nella cascina. Laboratori che, opportunamente riadattati, sono proposti anche agli alunni della vicina scuola: «Ogni anno – continua Lavinia – realizziamo un progetto che prevede otto incontri, uno al mese. Ci sembra importante dare ai bambini un’occasione per perfezionare la manualità e il saper fare, tanto più perché, con i continui tagli di questi anni, è l’attività extrascolastica a trovarsi penalizzata». www.lavgon.it

Circa un anno fa, quando sulla scia della cooperativa aretina I Care Ancora nasceva A Mani Nude, probabilmente nessuno si aspettava che questa piccola cooperativa sociale agricola nell’arco di pochi mesi si sarebbe trovata a lavorare fianco a fianco a un colosso dell’apicoltura. L’opportunità si è concretizzata grazie ad Apicoltura Casentinese, che a livello di volumi è il primo produttore italiano di miele. Un gigante da 16 milioni di euro di fatturato che ha messo a disposizione di A Mani Nude sessanta famiglie di api, le arnie, il vestiario e gli smielatori, oltre alla necessaria attività di formazione. Un’occasione da sfruttare per i ragazzi della cooperativa, che provengono soprattutto da storie di tossicodipendenza o di detenzione. E che si sono messi alla prova col biologico, perché, afferma il responsabile Francesco Baroni: «Ci tenevamo innanzitutto a portare avanti un’attività rispettosa dell’ambiente, ma anche a riconoscere e valorizzare la qualità». Per ora – confermano all’unisono azienda e cooperativa – il progetto va avanti, tanto che si pensa di allargarlo anche alla produzione di pappa reale. E chissà che qualche altra importante realtà industriale del Belpaese non decida di prendere spunto. www.apicolturacasentinese.com amaninudecoop.altervista.org

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| bancor |

Capitalismo miope

La perniciosa ortodossia dello short-termismo egli effetti potenzialmente catastrofici dello short-termismo (neologismo anglosassone a significare l’ottica di brevissimo periodo tipica delle odierne strategie d’affari) ha parlato, all’assemblea annuale dei fondi pensione britannici, anche il principe Carlo: «Con l’invecchiamento della popolazione, e il conseguente aumento della duration delle vostre passività, mi

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dal cuore della City Luca Martino

pare lampante l’inadeguatezza del cosiddetto “capitalismo trimestrale”. Sta a voi adattare un sistema pensato alla fine dell’Ottocento alle sfide del ventunesimo secolo e fare quel salto innovativo di cui il mondo ha disperato bisogno, altrimenti i vostri nipoti, e i miei per quel che conta, saranno destinati a un futuro miserabile!». Le difficoltà che impattano oggi sul capitalismo globale, soprattutto sulla sua capacità di garantire a tutti un welfare adeguato, sono senza precedenti: cambiamenti climatici, conflitti e malattie endemiche nelle aree più povere del Pianeta, crescenti diseguaglianze e shock demografici anche nei Paesi sviluppati, flussi migratori quasi sempre incontrollati, economie in stato di perenne volatilità. Governi e società civile devono ovviamente essere parte attiva nella lotta a queste sfide così complesse, ma sta anche alle imprese e agli investitori mobilitarsi e trovare i mezzi necessari per sconfiggerle. In molti, dall’economista Herman Daly, che già nel 1989 propose di sostituire il Pil con l’Isew (Indice di benessere economico sostenibile), al premio Nobel ed ex vice-presidente degli Stati Uniti Al Gore – solo per citare due nomi illustri nel panorama internazionale – da decenni parlano di “capitalismo sostenibile”, una vi-

mente vantaggiosi se questi rischiano di abbassare il consensus degli analisti sui risultati aziendali del trimestre seguente e quasi tutti adottano lo stesso criterio, a discapito della creazione di valore nel lungo termine per i risparmiatori e i piccoli investitori, per tagliare le spese discrezionali, dalla ricerca allo sviluppo, al marketing. Si pensi, infine, al periodo medio di detenzione dei titoli azionari, passato dai 7 anni della fine degli anni Settanta agli attuali 6 mesi, una contrazione di più del 90%: non stupiscano allora la volatilità degli indici e l’instabilità nei mercati. Che fare? Servirebbero riforme, la politica dovrebbe riappropriarsi del suo ruolo. Ma qualcosa potrebbe cambiare se, ad esempio, si introducesse la rendicontazione integrata centrata sulla creazione di valore nel tempo, se si superassero le stime trimestrali sui profitti annuali, se si incentivassero fiscalmente gli investimenti strategici, ma anche con “titoli fedeltà privilegiati” e, ancora, se si allineassero le retribuzioni del management alle performance aziendali di lungo termine. Questo e altro ancora andrebbe fatto, ma in fretta. Benjamin Franklin diceva: «Puoi anche rimandare, ma il tempo no, e il tempo perso non tornerà più». 

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Perfino i fondi che seguono principi di investimento responsabile hanno un orizzonte di breve periodo sione strategica che cerca di massimizzare la creazione di valore nel lungo periodo in funzione di utilità quanto più condivise possibile. Eppure, anche dopo aver sperimentato la crisi finanziaria globale, secondo un recente studio americano, tra i gestori di fondi pensione, che pur aderiscono ai principi per gli investimenti responsabili (PRI) dell’Onu, solo il 20% dichiara di avere un orizzonte temporale uguale o superiore a un anno, mentre più della metà conferma di guardare esclusivamente al prossimo trimestre. La stessa ricerca dimostra anche che il 78% dei manager di tutte le società quotate cestina spesso progetti industriali pur economica-

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dossier

| rifiuti umani |

Bonificare è meglio che curare di Corrado Fontana

Numeri alla mano, il confronto tra costi di bonifica e benefici socio-economici condanna l’attendismo nei grandi siti contaminati siciliani di Gela e Priolo, in Sicilia. E il nesso tra inquinamento e gravi patologie in eccesso è quasi certo

Rifiuti umani Ilva: inquinamento che uccide. La bonifica costa meno dei danni provocati Finanza > Il futuro di Mps nelle mani di Bruxelles. La nazionalizzazione è dietro l’angolo Economia solidale > I big dell’agro-industria all’a!acco dei vertici Ue: chiedono carta bianca | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 1 | Internazionale > Vent’anni di errori. Gli economisti del Fmi fanno ammenda: cambiamo ro!a

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uanto sei disposto a pagare per ridurre il rischio di morire? Una domanda sgradevole a farsi, che però rappresenta in sintesi l’approccio utilizzato da molti ricercatori per attribuire un valore monetario a condizioni di salute sfavorevoli. In economia si definisce WTP (willingness to pay) ed è sta-

to utilizzato da uno studio (Policies to clean up toxic industrial contaminated sites of Gela and Priolo: a cost-benefit analysis) pubblicato nel 2011 su Environmental Health e curato da un’équipe internazionale, ma molto italiana (Carla Guerriero e John Cairns della London School of Hygiene and Tropical Medici-

BRESCIA, UNA CITTÀ AVVELENATA IN SILENZIO Le istruzioni per l’uso delle aree verdi sono in italiano, inglese e francese. Si spiega che il Comune di Brescia ha emanato un’ordinanza a tutela della salute pubblica nel territorio a sud della Caffaro e spiega il comportamento da tenere nei parchi e nelle zone agricole. «

ne, Fabrizio Bianchi e Liliana Cori del Cnr di Pisa). Obiettivo: due tra i grandi Sin in Sicilia, Gela, 10 mila ettari di terra su cui incombe il Polo petrolchimico Eni, e Priolo, 100 mila ettari sui comuni di Melilli, Priolo Gargallo e Augusta, dove si trova il Polo petrolchimico siracusano. Pagare 127,4 milioni di euro per bonificare l’area di Gela e 774,5 milioni per Priolo (sono le cifre previste in un Memorandum d’intesa ufficiale) e avere un beneficio economico (su 50 anni) rispettivamente da 6 miliardi e 639 milioni e da 3 miliardi e 592 milioni di euro per costi socio-sanitari non sostenuti (prestazioni pubbliche, carichi di paure e sofferenza, spese private, mancata produttività ecc.). Di fronte a una simile opzione non avremmo dubbi sulla necessità di agire subito. Tanto più se pensiamo alle 47 morti premature, i 281 ricoveri ospedalieri per tumore e i 2.702 ricoveri ospedalieri non tumorali, c

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