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I pazienti “invisibili” per gli studi clinici randomizzati

Gli studi clinici randomizzati di fase III rappresentano il “gold standard” per la dimostrazione di efficacia di nuovi trattamenti sperimentali, da cui prende avvio il processo di approvazione delle Agenzie Regolatorie internazionali e nazionali (FDA, EMA e AIFA).1

Il processo di randomizzazione, oltre a dover dimostrare l’eventuale superiorità o equivalenza (in base all’obiettivo predefinito dello studio) del braccio sperimentale rispetto al braccio di controllo o standard, garantisce di ridurre l’errore legato a fattori confondenti, al fine di rendere i risultati ottenuti validi e replicabili su una popolazione con caratteristiche simili a quella dello studio clinico in questione.2

L’omogeneità della popolazione da studio è garantita dall’applicazione di una selezione dei pazienti tramite criteri di inclusione ed esclusione. Tali criteri, se da una parte tendono a minimizzare il rischio di elementi confondenti al momento della randomizzazione e/o di sbilanciamenti (grazie anche all’appli-

Uno studio troppo selettivo, seppur positivo ed una volta superato l’iter approvativo, potrebbe quindi esporre il clinico ed il paziente a potenziali rischi in termini di sicurezza e di alterata efficacia, una volta impiegato il farmaco o il trattamento in una popolazione più eterogenea per criteri clinici e sicuramente più arricchita di pazienti “fragili”, che potremmo definire “invisibili” agli studi clinici.

D’altra parte, l’uso di criteri di selezione troppo restrittivi rappresenta una difficoltà ed un limite anche per le Agenzie Regolatorie nell’approvazione e nella rimborsabilità del trattamento (studiato su una popolazione dissimile da quella della pratica clinica), nonché per la ricerca stessa in termini di tempi di arruolamento e costi delle sperimentazioni. 3

Seppure gli studi clinici attuati risultino ancora molto selettivi in termini di criteri di inclusione/esclusione, gli Enti Regolatori, come la FDA, sono intervenuti sul tema, promuovendo delle raccomandazioni atte a favorire l’inclusione di alcuni sottogruppi di pazienti, frequentemente esclusi dai trial clinici, nonostante l’assenza di un forte razionale a sostegno.

Tra i sottogruppi di pazienti spesso poco rappresentati nei trial clinici, ma frequenti nella pratica clinica, vi sono quelli con pazienti in condizioni generali compromesse (Eastern Cooperative Oncology Group – Performace Status; ECOG-PS = o >2), età avanzata (>65 anni) e/o con comorbilità significative (cardiovascolari, epatiche, renali, immunologiche), con pregresse o concomitanti neoplasie, con infezioni concomitanti (HIV, HBV, HCV) o con metastasi encefaliche.4

Il carcinoma del polmone non a piccole cellule (NSCLC) rappresenta un esempio paradigmatico. Infatti, nel setting di malattia avanzata o metastatica, da 1/4 ad 1/3 dei pazienti, in base alle casistiche esaminate, si presenta con ECOG-PS 2 o superiore, nella maggior parte dei casi con età superiore ai 65 anni (70 anni di mediana di età). 5 Inoltre, i pazienti affetti da NSCLC sono frequentemente affetti da comorbilità fumo-correlate a carattere cardiovascolare, metabolico o polmonare. 6 In questo contesto già abbastanza complicato, va considerato che circa il 10% di pazienti con nuova diagnosi di NSCLC presenta metastasi encefaliche all’esordio.7

Il carcinoma squamoso polmonare

Il carcinoma a cellule squamose (SCC) polmonare, rappresenta poco meno di 1/3 di tutte le diagnosi di NSCLC con un’incidenza globale, maggiore nel sesso maschile rispetto a quello femminile, di circa 14 casi ogni 100.000 abitanti, seppur in calo negli ultimi anni, se paragonata all’incidenza dell’adenocarcinoma polmonare e in generale all’istologia non squamosa.

Il SCC polmonare si presenta tipicamente come malattia centrale, frequentemente associato a sintomi respiratori e toracici derivati dall’invasione delle strutture adiacenti o da atelettasia per ostruzione bronchiale. Ha una strettissima correlazione con l’esposizione al fumo di sigaretta, tanto che nel paziente mai fumatore rappresenta una patologia rara e da correlarsi con un approfondito profilo molecolare. 8

Da un punto di vista anatomopatologico, la morfologia appare spesso come cheratinizzante, ma non in maniera mandatoria, e il biomarcatore immunoistochimico più rappresentativo per specificità e sensibilità in termini di diagnosi è la positività della proteina p40 (isoforma della proteina p63, ma con maggiore sensibilità diagnostica).9

Gli studi di genomica hanno definito il SCC come un’entità a sé stante nell’ambito del gruppo di NSCLC. Nonostante questa crescente comprensione della biologia del SCC, gli sforzi effettuati, al momento, per identificare eventi molecolari specifici e sfruttabili da un punto di vista terapeutico, non hanno portato ad approvazioni di terapie biologiche a bersaglio molecolare in questa istologia, sottolineando le minori armi terapeutiche a disposizione a confronto dell’istologia non squamosa.10

Risulta comunque corretto testare con un profilo molecolare esteso ed in maniera routinaria anche i pazienti con SCC del polmone, preferendo l’impiego di piattaforme NGS, data la possibilità rara, ma non nulla (stimabile sotto al 5%) di identificare delle alterazioni molecolari con potenziale rilevanza clinica e terapeutica, comuni nell’istologia non squamosa (es. mutazioni di KRAS, di EGFR, di BRAF e deregolazioni di MET ). Tali presupposti risultano ancora più rilevanti, da un punto di vista di potenzialità terapeutiche, se il paziente affetto da SCC del polmone presenta scarsa e/o remota esposizione al fumo di sigaretta o risulta mai fumatore e/o di giovane età.11

Da un punto di vista immunologico, il SCC polmonare presenta alti tassi di infiltrato immunitario con elevati livelli di linfociti B e T, inclusi linfociti T CD8+ e T soppressori. Frequentemente la percentuale di NSCLC ad istologia squamosa è più alta tra i tumori definiti come “caldi”, quindi con maggiore immuno-dipendenza e potenziale maggiore beneficio dagli inibitori dei check-points immunitari. Nonostante questo, da analisi approfondite di comparazione tra le diverse istologie a livello del microambiente tumorale, si evince che il SCC presenta una significativa e varia espressione di recettori inibitori (es. PD-1, TIM-3, CTLA-4, TIGIT, LAG3, IDO1) ed in generale gli studi con immunoterapici antiPD-1/PD-L1 (mono-immunoterapia o associazioni di chemio-immunoterapia) sembrano evidenziare un minor beneficio nei pazienti con NSCLC ad istologia squamosa, rispetto a quelli con istologia non squamosa.12

Da un punto di vista clinico, oltre alla sintomatologia legata alla frequente sede centrale di presentazione, i pazienti con istologia squamosa sono solitamente più anziani, se confrontati a quelli con diagnosi di adenocarcinoma polmonare e gravati da maggiori comorbilità a carattere cardiovascolare, metabolico e polmonare (BPCO), sottolineando nuovamente la stretta correlazione con il danno dell’esposizione tabagica che si manifesta, chiaramente, a livello multiorgano (figura 1).6

Tutti questi elementi (es. età avanzata, sintomatologia cancro-correlata, comorbilità) rendono i pazienti affetti da SCC polmonare difficili da trattare, anche nella pratica clinica, e spesso sotto-rappresentati negli studi clinici a causa dei criteri stringenti di selezione.