Giornale Italiano della Ricerca Educativa 11/2013

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Giornale Italiano della Ricerca Educativa Italian Journal of Educational Research RIVISTA SEMESTRALE anno VI numero 11 Dicembre 2013


Direttore / Editor in chief LUCIANO GALLIANI - Università degli Studi di Padova Condirettore / Co-editor PIETRO LUCISANO - Sapienza Università di Roma Comitato Scientifico / Editorial Board ROBERTA CARDARELLO - Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia ARMANDO CURATOLA - Università degli Studi di Messina JEAN-MARIE DE KETELE - Université Catholique de Leuvain MARIA LUCIA GIOVANNINI - Alma Mater Studiorum – Università di Bologna ALESSANDRA LA MARCA - Università degli Studi di Palermo GIOVANNI MORETTI - Università degli Studi di Roma Tre ELISABETTA NIGRIS - Università degli Studi di Milano Bicocca ACHILLE M. NOTTI - Università degli Studi di Salerno VITALY VALDIMIROVIC RUBTZOV - City University of Moscow RENATA VIGANÒ - Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

Comitato editoriale / Editorial management ANNA SERBATI - Università degli Studi di Padova MARIA CINQUE - Università degli Studi di Palermo ROSA VEGLIANTE - Università degli Studi di Salerno Note per gli Autori I contributi, in format MS Word, devono essere inviati all’indirizzo email del Comitato Editoriale: editor.sird@gmail.com Ulteriori informazioni per l’invio dei contributi sono reperibili nel sito www.sird.it Notes to the Authors Submissions have to be sent, as Ms Word files, to the email address of the Editorial Management: editor.sird@gmail.com Further information about submission can be found at www.sird.it Codice ISSN 2038-9736 (testo stampato) Codice ISSN 2038-9744 (testo on line) Registrazione Tribunale di Bologna n. 8088 del 22 giugno 2010

Finito di stampare: DICEMBRE 2013 Abbonamenti/Subscription Italia euro 25,00 • Estero euro 50,00 Le richieste d’abbonamento e ogni altra corrispondenza relativa agli abbonamenti vanno indirizzate a: Licosa S.p.A. – Signora Laura Mori Via Duca di Calabria, 1/1 – 50125 Firenze • Tel. +055 6483201 • Fax +055 641257 • mail: laura.mori@licosa.com Editing e stampa Pensa MultiMedia Editore s.r.l. - Via A. Maria Caprioli, 8 - 73100 Lecce - tel. 0832.230435 www.pensamultimedia.it - info@pensamultimedia.it Progetto grafico copertina Valentina Sansò


Obiettivi e finalità Il Giornale Italiano della Ricerca Educativa, organo ufficiale della Società Italiana di Ricerca Didattica, è dedicato alle metodologie della ricerca educativa e alla ricerca valutativa in educazione. Le aree di ricerca riguardano: lo sviluppo dei curricoli, la formazione degli insegnanti, l’istruzione scolastica, universitaria e professionale, l’organizzazione e progettazione didattica, le tecnologie educative e l’e-learning, le didattiche disciplinari, la didattica per l’educazione inclusiva, le metodologie per la formazione continua, la docimologia, la valutazione e la certificazione delle competenze, la valutazione dei processi formativi, la valutazione e qualità dei sistemi formativi. La rivista è rivolta a ricercatori, educatori, formatori e insegnanti; pubblica lavori di ricerca empirica originali, casi studio ed esperienze, studi critici e sistematici, insieme ad editoriali e brevi report relativi ai recenti sviluppi nei settori. L’obiettivo è diffondere la cultura scientifica e metodologica, incoraggiare il dibattito e stimolare nuova ricerca. Aims and scopes The Italian Journal of Educational Research, promoted by the Italian Society of Educational Research, is devoted to Methodologies of Educational Research and Evaluation Research in Education. Research fields refer to: curriculum development, teacher training, school education, higher education and vocational education and training, instructional management and design, educational technology and e-learning, subject teaching, inclusive education, lifelong learning methodologies, competences evaluation and certification, docimology, students assessment, school evaluation, teacher appraisal, system evaluation and quality. The journal serves the interest of researchers, educators, trainers and teachers, and publishes original empirical research works, case studies, systematic and critical reviews, along with editorials and brief reports, covering recent developments in the field. The journal aims are to share the scientific and methodological culture, to encourage debate and to stimulate new research. Comitato di referaggio Il Comitato di Revisori include studiosi di riconosciuta competenza italiani e stranieri. Responsabili della procedura di referaggio sono il direttore e il condirettore della rivista. Referees Committee The referees committee includes well-respected Italian and foreign researchers. The referral process is under the responsability of the Journal’s Editor in Chief and Co-Editor. Procedura di referaggio Il Direttore e Condirettore ricevono gli articoli e li forniscono in forma anonima a due revisori anonimi, tramite l’uso di un’area riservata nel sito della SIRD (www.sird.it), i quali compilano la scheda di valutazione direttamente via web entro i termini stabiliti. Sono accettati solo gli articoli per i quali entrambi i revisori esprimono un parere positivo. I giudizi dei revisori sono comunicati agli Autori, assieme a indicazioni per l’eventuale revisione, con richiesta di apportare i cambiamenti indicati. Gli articoli non modificati secondo le indicazioni dei revisori non sono pubblicati. Referral process Editor in chief and co-editor collect the papers and make them available anonymously to two anonymous referees, using a reserved area on the SIRD website (www.sird.it), who are able to fulfill the evaluation grid on the web before the deadline. Only articles for which both referees express a positive judgment are accepted. The referees evaluations are communicated to the authors, including guidelines for eventual changes with request to adjust their submissions according to the referees suggestions. http://perleggere.pensamultimedia.it/it/board-editorialeArticles not modified in accordance with the referees guidelines are not accepted.


INDICE Editoriale 9

VALUTARE PER MIGLIORARE IL SISTEMA EDUCATIVO Il caso INVALSI tra cultura della valutazione e responsabilità politica LUCIANO GALLIANI

Ricerche 16 25 44 58 75 95 112

STEFANO NOVENTA, PIERMATTEO ARDOLINO, GIUSEPPE FAVRETTO Performance ed esami integrati. Un’esperienza nell’ambito delle Università di Verona e Padova Performance and integrated exams. An experience in the Universities of Verona and Padova MICHELE BIASUTTI Approcci collaborativi in ambienti virtuali: l’esperienza di un corso universitario online Online collaborative approaches: the experience of a university module ROBERTA CALDIN, ALESSIA CINOTTI, LUCA FERRARI La prospettiva inclusiva. Dalla risposta “specialistica” alla risposta “ordinaria” The inclusive perspective. From the “specialist response” into an “ordinary” PAOLO CALIDONI, FILIPPO DETTORI, LUISA PANDOLFI TFA: un’analisi sul campo TFA: a field analysis MARCEL CRAHAY, CAROLINE MARBAISE, ELISABETH ISSAIEVA What is teachers’ belief in the virtues of student retention founded on? Cosa rende gli insegnanti convinti dei benefici della ripetenza? ÉMILIANE RUBAT DU MÉRAC La misura degli atteggiamenti di leadership degli adolescenti in due contesti educativi: scuola e scautismo The measurement of leadership attitudes of adolescents in two educational contexts: school and scouting DELI SALINI Les dimensions formatives de l’information-conseil initiale en validation des acquis de l’expérience Training aspects of initial information and advising for validation of prior learning

Esperienze 127 140

NADIA CARLOMAGNO, ALESSANDRO CIASULLO, PIO ALFREDO DI TORE, ELISA FRAUENFELDER Forme sonore in movimento Moving sonic forms GIUSEPPINA RITA MANGIONE, FIORENZA MAFFEI Didattica e Gifted Children. Approcci consolidati e prassi emergenti Didactics and Gifted Children. Proven approaches and emerging practices


Studi 157 176

ELISABETTA GHEDIN, DEBORA AQUARIO, DIEGO DI MASI Co-teaching in action: una proposta per promuovere l’educazione inclusiva Co-teaching: a practice to improve inclusive education CINZIA RONCHI Rassegna degli studi sulle (mis)concezioni astronomiche e il cambiamento concettuale in bambini e insegnanti di scuola primaria Review of the researches on astronomy (mis)conceptions and conceptual change in primary school children and teachers

Informazioni 194

GIOVANNI MORETTI “La ricerca nelle scuole di dottorato in Italia. Dottorandi, Dottori e Docenti a confronto”: il settimo seminario SIRD “The research at Doctoral Schools in Italy. Comparing Doctoral candidates, Ph.D.s and Teachers”: the seventh edition of SIRD conference


hanno collaborato •

ARDOLINO PIERMATTEO Centro Docimologico, Università di Verona, ardolino.piermatteo@univr.it • FAVRETTO GIUSEPPE Centro Docimologico, Università di Verona, Giuseppe.favretto@univr.it • NOVENTA STEFANO Centro Docimologico, Università di Verona, stefano.noventa@univr.it –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– • BIASUTTI MICHELE Dipartimento FISPPA, Università degli Studi di Padova, michele.biasutti@unipd.it –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– • ROBERTA CALDIN Dipartimento di Scienze dell’Educazione “G.M. Bertin”, Università di Bologna, roberta.caldin@unibo.it • ALESSIA CINOTTI Dipartimento di Scienze dell’Educazione “G.M. Bertin”, Università di Bologna, alessia.cinotti2@unibo.it • LUCA FERRARI Dipartimento di Scienze dell’Educazione “G.M. Bertin”, Università di Bologna, luca.ferrai15@unibo.it –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– • PAOLO CALIDONI Università degli Studi di Sassari, calidoni@uniss.it • FILIPPO DETTORI Università degli Studi di Sassari, fdettori@uniss.it • LUISA PANDOLFI Università degli Studi di Sassari, lupandolfi@uniss.it –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– • MARCEL CRAHAY Universities of Genève and Liège, marcel.crahay@unige.ch • CAROLINE MARBAISE University of Liège, • ELISABETH ISSAIEVA University of Genève, Elisabeth.Issaieva@unige.ch –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– • ÉMILIANE RUBAT DU MÉRAC Università degli Studi Roma Tre, emirubatdumerac@yahoo.com –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– • DELI SALINI Istituto universitario federale per la formazione professionale (IUFFP) Lugano - Membre associé, équipe CRAFT, FPSE, Université de Genève, deli.salini@iuffp-svizzera.ch –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– • NADIA CARLOMAGNO Università degli Studî Suor Orsola Benincasa, nadia.carlomagno@me.com • ALESSANDRO CIASULLO Università degli Studî Suor Orsola Benincasa, alessandrociasullo@gmail.com • PIO ALFREDO DI TORE Università di Salerno, alfredo.ditore@gmail.com • ELISA FRAUENFELDER Università degli Studî Suor Orsola Benincasa, elisa.frauenfelder@unisob.na.it –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– • MANGIONE GIUSEPPINA RITA DIEM-Università degli Studi di Salerno, gmangione@unisa.it • MAFFEI FIORENZA Scuola Primaria “Paolo Lioy”, fiorenza.maffei@istruzione.it –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– • CINZIA RONCHI Università degli Studi Roma Tre, cinziaronchi@inwind.it –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– • ELISABETTA GHEDIN Dipartimento FISPPA, Università degli Studi di Padova, elisabetta.ghedin@unipd.it • DEBORA AQUARIO Dipartimento FISPPA, Università degli Studi di Padova, debora.aquario@unipd.it • DIEGO DI MASI Dipartimento FISPPA, Università degli Studi di Padova, diego.dimasi@unipd.it –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– • GIOVANNI MORETTI Università degli Studi Roma Tre, gmoretti@uniroma3.it


Editoriale VALUTARE PER MIGLIORARE IL SISTEMA EDUCATIVO Il caso INVALSI tra cultura della valutazione e responsabilità politica LUCIANO GALLIANI

Il sistema formativo è stato investito nell’ultimo ventennio del secolo scorso da un cambiamento profondo, determinato dall’introduzione dei concetti, delle strategie e delle pratiche della qualità per migliorare le sue prestazioni educative, didattiche e organizzative. Le dinamiche del cambiamento dei sistemi formativi sono state innescate dai nuovi bisogni e diritti dei cittadini-utenti-clienti e delle famiglie, dall’evoluzione socio-economica e dalle domande del mercato del lavoro, dalla contestualizzazione europea delle riforme legislative-amministrative, dallo sviluppo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. In questa prospettiva, l’ineludibile apertura del sistema scolastico al più ampio sistema sociale è stata vissuta da molti operatori educativi e docenti come rinuncia alle finalità meta-funzionali, proprie delle istituzioni educative in quanto creatrici e trasmettitrici di “valori”, piuttosto che confronto e interazione con le culture e i nuovi saperi sociali, soprattutto in campo etico, economico, politico, tecnologico. È evidente che se si affidano al sistema formativo finalità di sviluppo continuo della persona umana nelle diverse età e nei diversi contesti di vita, obiettivi di apprendimento sul piano delle conoscenze e delle competenze, compiti di integrazione sociale e lavorativa dei giovani, esigenze di sviluppo economico sia collettivo che individuale-professionale, allora occorre contemperare l’approccio pedagogico-didattico con l’approccio economico-sociale. Questo difficile equilibrio ha purtroppo condotto nel perseguire la qualità della scuola a non distinguere la mission educativa dalle metodologie e dalle pratiche istruttive e soprattutto dall’organizzazione del servizio, con le loro diverse caratteristiche strutturali e funzionali. Indicatori e strumenti di analisi e di valutazione della qualità vanno infatti differenziati e commisurati alle tre componenti dinamiche (valori educativi di equità e inclusione sociale, processo formativo e apprendimento di conoscenze e competenze, autonomia e gestione amministrativa) e funzionali (relazione interpersonale, comunicazione didattica, informazione organizzativa) delle azioni formative, che definiscono rispettivamente la “qualità dell’educazione”, la “qualità dell’istruzione” e la “qualità del servizio”, come tentavamo di argomentare nel 1999 (Qualità della formazione e ricerca pedagogica, Pensa MultiMedia). Nello stesso anno – dopo le esperienze qualificanti del CEDE di Frascati e del Servizio Nazionale per la Qualità dell’Istruzione (SNQI) con il suo Archivio Docimologico per l’Autovalutazione delle Scuole (ADAS) – viene istituito l’INVALSI (Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema dell’Istruzione), con tre finalità principali: migliorare l’organizzazione complessiva della scuola; elevare la qualità dell’istruzione; adeguare l’offerta di formazione alle esigenze sociali. Nel 2004, mutato il quadro politico, viene varato un Servizio Nazionale di Valutazione del Sistema Educativo di Formazione e di Istruzione, in seguito alla legge Moratti di riforma della scuola, e viene riordinato l’INVALSI assegnando ad esso anche i compiti in materia di va-

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lutazione dei dirigenti scolastici e di rilevamento dei livelli di apprendimento degli studenti con ”verifiche periodiche e sistematiche sulle conoscenze e abilità e sulla qualità complessiva dell’offerta formativa delle istituzioni dell’istruzione”. L’applicazione autoritaria dei rilevamenti con l’obbligo di partecipazione di tutte le scuole e le modalità di somministrazione delle prove, sollevarono molte critiche inducendo il Ministro Fioroni a ritornare alle prove a rilevazione campionaria, in funzione di una loro revisione che fosse partecipata e condivisa dalle scuole. Nel 2008 e 2009, con il ritorno del Governo Berlusconi il Ministro Gelmini vara due Direttive con le quali dare nuovo impulso:

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alla valutazione di sistema (Rapporto Annuale sulla Scuola, indicatori sulle condizioni strutturali e sulle risorse impiegate, indicatori sugli esiti quantitativi e qualitativi a conclusione dei tre cicli); alla valutazione delle scuole (partecipazione ai progetti internazionali OCSE-PISA, IEATIMSS Advantage, IEA-ICCS); alla valutazione degli apprendimenti degli studenti con l’obiettivo di “rilevare gli apprendimenti nei momenti di ingresso e di uscita nei diversi livelli di scuole (2008-2009 scuole primarie-seconda e quinta classe, 2009-2010 scuole secondarie di primo grado-prima e terza classe, 2010-2011 scuole secondarie di secondo grado-seconda e quinta classe) così da rendere possibile la valutazione del valore aggiunto fornito da ogni scuola in termini di accrescimento dei livelli di apprendimento degli alunni”.

Molti esperti – che già avevano apprezzato le indagini IEA sugli apprendimenti matematici (TIMSS) e di lettura (PIRLS) e ed espresso critiche sul PISA-OCSE per i quindicenni iniziato nel 2000 – hanno rilevato che le criticità di questo sistema italiano di misurazione degli apprendimenti, non a campione, stavano sia nella qualità e nella correttezza delle prove nazionali criteriali, standardizzate sui programmi ministeriali di lingua e di matematica, sia nel loro collocarsi parallelo, e per certi versi antagonista, al sistema di valutazione formativa e sommativa interno alla scuola e fondato su prove normative, coerenti con le “condizioni dell’apprendimento” nelle singole classi. Inoltre le prove dovrebbero essere sempre più in grado di verificare non solo le conoscenze dichiarative, ma anche le connesse abilità operative e competenze trasversali. Si tratterebbe insomma di costruire prove esperte, collegate alle rubriche proprie di un’authentic assessment e allineate alle didattiche attive, collaborative e cooperative. Solo in questo modo, rimossi i casi di cheating, spia evidente del disagio degli insegnanti, si eviterebbe il rischio di un progressivo snaturamento dell’istruzione scolastica, che verrebbe finalizzata non ad imparare per la vita, ma per rispondere alle prove INVALSI! Come sappiamo l’attività perseguita negli ultimi anni dall’INVALSI, guidato da esperti (Cipollone e Sestito) provenienti dall’Ufficio Studi della Banca d’Italia, è stata preceduta da un rapporto commissionato a Vittadini, Checchi e Ichino, studiosi di statistica ed economia politica. I pilastri portanti del sistema proposto, oltre le prove nazionali di valutazione degli esiti dell’apprendimento, venivano indicati in una anagrafe scolastica nazionale, in grado di ricostruire le condizioni ambientali e familiari in cui crescono e maturano gli studenti e i percorsi scolastici seguiti, e nel tempo dato agli operatori della scuola, necessario per conoscere la sperimentazione, apprezzarne l’affidabilità e accettarne le conseguenze.Veniva ribadito che, per l’utilizzo dei risultati delle prove standardizzate, “il punteggio ottenuto dallo studente sia opportunamente affiancato da dati elaborati statisticamente al fine di separare: 1. ciò che nella performance dello studente può essere attribuito specificamente alla sua scuola e agli insegnanti; 2. ciò che nella performance dello studente può essere attribuito al contesto socio-economico e familiare in cui lo studente ha vissuto; 3. ciò che invece può essere attribuito allo

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studente stesso”. I tre esperti ritenevano che esistessero metodi statistici, e relativa letteratura specializzata con applicazioni in più paesi OCSE, per misurare il “valore aggiunto” di ciascuna scuola, di ciascun studente o in alcuni casi persino del singolo insegnante, nel caso di mobilità relativa degli studenti e degli insegnanti. La prudenza, però, con cui i tre studiosi – non pedagogisti o docimologi – individuavano le condizioni necessarie per l’adozione generalizzata di un sistema di valutazione della scuola (preliminare sperimentazione, chiari obiettivi da raggiungere, risorse e autonomia per realizzarli, accettazione da parte degli operatori della scuola, definizione della natura di premi e penalità) impone una riflessione sulla responsabilità di una politica educativa, che vara il nuovo Regolamento senza assicurare alcune delle condizioni suddette, anzi escludendo la comparazione tra le scuole, per le quali non vi saranno né premi né penalità, se non la priorità degli interventi valutativi nelle cosiddette “scuole in difficoltà”. Il Regolamento del Sistema Nazionale di Valutazione in materia di Istruzione e Formazione, approvato il 13 marzo 2013 dal Parlamento, affida a tre soggetti (INVALSI, INDIRE, Corpo Ispettivo del Ministero) le attività di valutazione, che si dovranno svolgere in quattro fasi: autovalutazione degli Istituti scolastici, valutazione esterna degli Istituti, azioni di miglioramento, rendicontazione sociale. Si dice che la sperimentazione sia avvenuta attraverso il Progetto VALeS –Valutazione e Sviluppo, tuttora in atto in 300 scuole, che ha anticipato il modello di valutazione recepito nel Regolamento, e il Progetto VM –Valutazione e Miglioramento, appena iniziato con l’arruolamento e la formazione di “figure professionali addestrate” per i rilevamenti nelle classi e nelle scuole (250 primarie e secondarie di primo grado e 110 secondarie di secondo grado). Nel 2009 l’OCSE ha lanciato un programma per la costruzione di un framework unitario e sistemico per la progettazione di un impianto valutativo generale, per l’implementazione coerente dei suoi elementi portanti e per l’utilizzo efficace dei suoi risultati, compresa la loro comunicazione e discussione con tutti gli stakeholder. Valutazione del sistema educativo (System Evaluation), dunque, inteso come unità integrata, al cui interno figurano elementi interrelati riconducibili ad azioni distinte di:

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Accertamento degli esiti di apprendimento degli studenti (Student Assessment); Valutazione interna ed esterna delle organizzazioni scolastiche (School Evaluation); Valutazione partecipata della performance professionale degli insegnanti (Teacher Appraisal); Valutazione delle politiche educative (Policy Evaluation).

Per sostenere questa prospettiva serve, innanzitutto, una chiara indicazione valoriale per un sistema scolastico ispirato dall’equità, come garanzia di uguaglianza di opportunità attraverso la necessaria adozione di percorsi formativi diversificati, che offrano diseguali chances di apprendimento, “per riparare – come sostiene Rawls – le disuguaglianze immeritate di nascita e di doti naturali”, già evidenziate dal grande Rousseau: “Quando un gigante e un nano camminano sulla stessa strada, ogni passo che faranno entrambi darà un nuovo vantaggio al gigante”. Il che comporta per ogni scuola e per ogni insegnante attivare e modulare strategie di individualizzazione, rispetto alla stessa offerta formativa e alle stesse abilità culturali per tutti, e strategie di personalizzazione rispetto alla diversificazione dei traguardi di apprendimento per valorizzare i talenti di ciascuno, anche in funzione di un corrispondente inserimento sociale e lavorativo. In secondo luogo serve una chiara indicazione programmatica perché il miglioramento (improvement) sia basato su:

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assessment per l’apprendimento e non solo dell’apprendimento degli studenti, ovvero sulla centralità della valutazione formativa e regolativa delle attività degli studenti e dei docenti e non solo su quella sommativo-certificativa degli esiti finali, comunque da confrontare con standard nazionali; valutazione partecipata delle performance degli istituti scolastici e non solo da parte degli insegnanti, del personale tecnico e dirigente e poi da ispettori ed esperti esterni, ma anche dagli stakeholder del territorio; programmi di sviluppo professionale degli insegnanti, correlati all’analisi formativa contestualizzata delle loro pratiche didattiche e delle metodologie comunicativo-tecnologiche da modificare; policy finalizzata alla risoluzione delle criticità e alla adozione di innovazioni solo se corroborate dalla ricerca educativa evidence based e accompagnate da finanziamenti adeguati.

È inevitabile che sorgano dubbi sulla sostenibilità politica, culturale, scientifica e organizzativa di un “Sistema Nazionale di Valutazione del Sistema di istruzione e formazione”, composto dalle “scuole pubbliche” (e quelle “paritarie”?) e dalle “istituzioni formative accreditate dalle Regioni”. E ciò soprattutto considerando l’uso equivoco del concetto di “sistema”. Esso infatti viene riferito alla modalità nazionale di auto/etero valutazione delle organizzazioni scolastiche e formative pubbliche e accreditate, relazionandone i risultati agli esiti di apprendimento degli allievi, bilanciati dalle variabili di contesto, e ai processi didattici e organizzativi messi in atto. Sorgono perciò spontanee alcune domande.

Come si possono valutare i singoli istituti se al sistema scolastico italiano manca una definizione degli standard di prestazione e di qualità minimi da raggiungere, ma vengono indicati solo liste di contenuti (“indicazioni programmatiche”), oggi nobilitati in conoscenze, abilità e competenze, secondo il mantra europeo, né vengono previste soglie precise per i “profili in uscita” dai vari ordini e gradi di scuola?

Come si può finalizzare la valutazione al miglioramento in scuole in cui i Dirigenti non hanno alcun potere circa il reclutamento del personale e il suo sviluppo professionale e in cui essi stessi verranno giudicati in base a quei risultati, mentre la performance degli insegnanti non viene valutata né premiata, ad esempio, con progressione di carriera e di stipendio legati al merito?

Come pensare di valutare scuole in cui si continuano ad immettere insegnanti senza formazione iniziale garantita da lauree quinquennali abilitanti per la scuola dell’infanzia e primaria e da specializzazioni abilitanti (almeno il TFA a regime) per le scuole secondarie1, imputando poi alle stesse i risultati insufficienti?

1 Dopo aver abolito le SSIS da cinque anni, sono partiti finalmente nel 2012 i primi TFA abilitanti (non a regime) per la scuola secondaria e il primo concorso nazionale a posti di ruolo dopo oltre dieci anni. Di fronte a centinaia di migliaia di precari con graduatorie bibliche, si è purtroppo deciso di attivare i PAS – Percorsi Abilitanti Speciali, senza alcuna selezione, cosicché diventeranno “todos caballeros”, compresi quelli che da quindici anni non superano la prova di ammissione alla laurea abilitante in Scienze della Formazione Primaria e quelli che non hanno superato l’ammissione ai primi TFA, condotti con grandi difficoltà dalle Università, ma frequentati con dedizione e risultati sicuramente positivi, stando almeno ai primi rilevamenti e analisi (cfr. Questionari di Atenei come Padova-Verona-Venezia e della SIRD- Società Italiana di Ricerca Didattica sulla qualità dei frequentanti e delle attività didattiche).

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Come pensare di attivare iniziative di miglioramento delle pratiche didattiche nelle scuole senza collegarvi una sperimentazione di “teacher appraisal” (non “evaluation”) secondo il framework dell’OCSE, che consideri standard, procedure e processi condivisi di “apprezzamento” degli insegnanti, bilanciato tra accountability delle performance e improvement dello sviluppo professionale e in cui devono giocare un ruolo determinante, assieme agli ispettori, i dirigenti scolastici (leaders), i colleghi insegnanti (peers) e le organizzazioni professionali (purtroppo in Italia costituite ancora su ideologie politiche, confessionali oppure sindacali)? O si ritiene sufficiente il parziale “metodo reputazionale” dei questionari a docenti, genitori, studenti del pur interessante progetto “Valorizza”, sperimentato dall’associazione TREELLE in 33 scuole di tre regioni con insegnanti volontari, di cui il 20% ha ricevuto il premio di una mensilità aggiuntiva, essendo stato “riconosciuto” da tutte e tre le componenti come meritevole?

Come integrare gli esiti di apprendimento degli allievi relativi a livelli di competenze verificate, da un lato, con prove normalizzate rispetto a tutti gli insegnamenti realmente erogati nelle diverse classi e, dall’altro lato, con gli esiti degli apprendimenti verificati dalle prove criteriali relativi ai soli curricoli nazionali di lingua e matematica preparate dagli esperti Invalsi? E come impedire “connubi proibiti” con le prove a campione del PISA?

Chi autorizza poi l’INVALSI a considerare scadenti, buoni, eccellenti i livelli di competenze posseduti dagli allievi, con prove in cui lo standard è definito a livello statistico, secondo il modello PISA, giustificabile a livello internazionale dove non vi sono standard unici e si prescinde dalle culture specifiche di ogni Paese, ma assolutamente insufficiente in un modello che dovrebbe integrare autovalutazione con valutazione esterna rispetto agli standard di prodotto e di processo, e queste due con la co-valutazione del dirigente e degli insegnanti, in una prospettiva di miglioramento continuo?

Come integrare nell’autovalutazione di istituto, operata tecnicamente da un Referente e dal Nucleo individuati dal Dirigente, anche l’analisi e la riflessione di tutto il personale interno alla scuola e dei primi utenti come genitori e allievi, per confrontare poi questi risultati con la valutazione esterna, ancora tecnico-ispettiva e senza peer review, se non si adotta esplicitamente un modello di “valutazione partecipata” in cui gli indicatori di qualità ( relativi a obiettivi, risultati, processi, organizzazione, risorse umane-tecnologiche-finanziarie) siano condivisi da tutti gli attori interni ed esterni?

Molte risposte a queste domande stanno proprio nella concezione della “valutazione educativa” a cui ci si ispira e quindi in una cultura politica e pedagogica, che ha separato le pratiche amministrativo-gestionali e quelle educativo-didattiche dalle responsabilità decisionali derivanti dalla valutazione di prodotto e di processo, imputandole al “sistema” centralistico, ingovernabile con autonomie senza poteri reali e non sottoposto ad una System Evaluation integrata. Avviene di conseguenza che tutta la cultura della valutazione – riguardante non solo il sottosistema scolastico ma anche quelli universitario e della formazione professionale e continua – si traduce in uno scontro tra sostenitori del paradigma positivista/informazionista e sostenitori del paradigma pragmatista/funzionalista. I primi, ritenendo che sia possibile una spiegazione probabilistico-causale degli effetti di una azione formativa, soprattutto se organizzata in programma, e quindi ottenere il miglioramento voluto, concepisce la valutazione come misurazione del risultato-prodotto formativo

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da comparare conseguentemente con l’obiettivo progettato. Il modello di valutazione che emerge è quello razionalista, per cui nel definire una buona programmazione si possono prevedere non solo gli effetti, ma anche cambiamenti e miglioramenti, attraverso misurazioni preventive, successive e disegni sperimentali con studio delle variabili indipendenti e dipendenti. La metafora, che meglio rappresenta storicamente questa concezione della valutazione come misurazione, è quella docimologica degli esami e dei test, delle “prove oggettive” valide e attendibili non solo perché depurate dai “fattori soggettivi” e dalla “variabilità interindividuale e intra-individuale degli esaminatori”, come scriveva Pieron. I secondi, ritenendo che il valore da ricercare-giudicare stia nelle “azioni educative” e nella qualità delle interazioni comunicative, concepiscono la valutazione educativa come gestione delle procedure organizzative per garantire il raggiungimento degli standard formativi definiti all’interno o all’esterno del sistema.Valutare le “pratiche educative” – goal free, come propone Scriven, primo rappresentante di questo paradigma – comporta un cambio profondo del punto di vista che considera l’allievo con i suoi risultati d’apprendimento come oggetto privilegiato da indagare con strumenti “oggettivi”. Il nuovo punto di vista considera invece le “pratiche educative” come fenomeni sociali, il cui giudizio sulla qualità non può essere riservato solo a coloro che le producono (merit, come valore intrinseco), ma esteso anche agli utenti-clienti, stakeholders formativi (worth, come valore estrinseco), e la cui qualità (significance, come valore finale) può essere garantita solo dal management. In questo modello la valutazione si trasforma in una “pratica sociale di controllo su una pratica educativa”, garantendo procedure di standardizzazione e di assicurazione della qualità, compresi l’accreditamento nazionale e/o regionale degli organismi di formazione e, ove necessario, la certificazione secondo le norme ISO 9000:2000. La metafora è quella cibernetica, sia nel senso greco di “arte per governare” gli uomini conducendo un’organizzazione nella giusta direzione, sia nel senso moderno di “arte per costruire macchine programmate” tecnologicamente, in modo da svolgere le funzioni previste con controllo automatico del pilotaggio. Altri, e noi tra questi, ritenendo che la conoscenza sia costruita dall’esperienza di chi apprende, dagli strumenti culturali (simbolici e tecnologici) che sa usare, dai contesti che frequenta e dalle forme di negoziazione sociale che sono permesse, pensano sia necessario un terzo paradigma costruttivista-sociale, che concepisca la valutazione educativa come interpretazione delle azioni formative in quanto processo, con il compito di regolarne lo sviluppo e di produrne il senso, attraverso la costruzione sociale dei valori di riferimento da parte di tutti gli stakeholder. Il focus della valutazione educativa si sposta così, dal pur necessario controllo di conformità e di legalità dei risultati delle azioni formative con gli obiettivi (misurazione dei prodotti: paradigma positivista) e con gli standard (gestione delle procedure della qualità: paradigma pragmatista), all’osservazione e all’analisi esplorativa di ciò che accade durante le azioni formative e alla ricerca di un giudizio condiviso (interpretazione del processo: paradigma costruttivista). Oltre l’etero-valutazione e la valutazione tra pari si previlegia l’auto-valutazione e la co-valutazione, derivate da riflessione metacognitiva e da negoziazione all’interno di una rete comunicazionale, che porta alla valutazione come “atto comunicativo condiviso”, da sostenere nella successiva interpretazione esterna al sistema formativo. La valutazione educativa, infatti, richiamando la classificazione di Barbier, quando da attività “implicita” (percettivo-emotiva naturale) e “spontanea” (oggettivata-espressa liberamente) si trasforma in “istituzionalizzata”, attraverso un “atto formalmente deliberato e socialmente organizzato”, assume straordinaria rilevanza etica e politica, in quanto “manifestazione di un potere”, che riconosce non solo l’acquisizione di conoscenze, abilità e competenze negli allievi, ma certifica e rilascia qualifiche e titoli professionali (otto livelli dell’European Qualifications Framework for Lifelong Learning) indispensabili a svolgere mansioni

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e ruoli lavorativi. La selezione delle persone rispetto ai titoli di istruzione e formazione (scolastica, professionale, universitaria) contribuisce anche a regolare la produzione e il mercato dei beni e dei servizi e quindi a garantire, come ci hanno insegnato Bourdieu e Passeron, il funzionamento del sistema politico a democrazia liberale e ad economia capitalistica, “temperata” dalla coesione e dall’inclusione sociale. La “necessità sociale” della valutazione comporta dunque una responsabilità politica ed etica che non può essere attribuita unicamente alla scuola e ai suoi operatori, ma anche alla qualità della ricerca scientifica in educazione. Ecco perché l’INVALSI deve ritornare alle finalità volute dai suoi padri: valutare per migliorare l’organizzazione complessiva della scuola, elevare la qualità dell’istruzione, adeguare l’offerta di formazione alle esigenze sociali. Per questo, dopo pluriennali diagnosi interne e internazionali sul nostro sistema scolastico, occorrerebbe preoccuparsi finalmente delle cure adeguate per migliorare le condizioni gravi in cui versano troppe scuole in molte Regioni d’Italia e soprattutto capire le ragioni di quelle che funzionano bene, presenti non solo al nord, ma anche al centro e al sud. Ricorrendo magari, come si fa in Sanità, ai “migliori medici”, che normalmente stanno nelle università e si intendono di ricerca scientifica. Quando si tratta di educazione, di istruzione, di processi di insegnamento, in questo strano Paese non ci si rivolge agli esperti-ricercatori di pedagogia, di didattica o di psicologia dell’apprendimento, ma ad economisti, ingegneri, statistici, sociologi oppure si chiudono gli IRRSAE e ci si affida a strutture centralistiche come l’INDIRE, in cui si reclutano giovani leve digiune di ricerca e senza guide esperte. Le nostre Società Scientifiche, non solo di area pedagogica ma anche di quelle dei colleghi disciplinaristi esperti di didattica, dovrebbero scendere in campo con più consapevolezza del loro ruolo politico e culturale.

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Ricerche Performance ed esami integrati Un’esperienza nell’ambito delle Università di Verona e Padova Performance and integrated exams An experience in the Universities of Verona and Padova STEFANO NOVENTA • PIERMATTEO ARDOLINO • GIUSEPPE FAVRETTO Nel presente lavoro vengono riassunti alcuni risultati di una ricerca relativa alle performance di uno stesso esame in differenti corsi universitari.Vengono investigati fattori quali il genere, l’età, la frequenza alle lezioni, l’essere o meno studente lavoratore, la media dei voti, il diploma. In particolare, vengono discussi possibili effetti negativi sulle performance dovute all’uso degli esami integrati. Tali risultati forniscono interessanti spunti di riflessione riguardo ad alcune tendenze della didattica e della valutazione particolarmente diffuse nell’Università Italiana. Le analisi sono state effettuate utilizzando i modelli misti lineari, noti anche come multilevel o modelli lineari gerarchici.

In the present work, some of the findings of a research relative to the performances of the same exam in different academic curricula are outlined. Several factors like gender, age, class attendance, working students, grade average and school-leaving certificate were investigated. A particular focus is given to the possible negative impact on performances of an integrated assessment structure. Results offer some cause for reflection about some tendencies in teaching and assessment in Italian University. Analysis have been carried by using linear mixed-models, also known as multilevel or linear hierarchical models.

Parole chiave: docimologia, misurazione, valutazione, esami integrati, test a scelta multipla, modelli a effetti misti

Key words: assessment, measurement, evaluation, integrated exams, multiple-choice test, mixed-effects models

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2038-9736 (in press) / ISSN 2038-9744 (on line) Giornale Italiano della Ricerca Educativa • anno VI – n. 11 – dicembre 2013

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Performance ed esami integrati Un’esperienza nell’ambito delle Università di Verona e Padova

Introduzione L’analisi delle problematiche del sistema universitario europeo ha evidenziato come esso sia rimasto a lungo isolato, tradizionalista e di conseguenza slegato dalla società e da una vera e propria prospettiva internazionale (Commissione delle comunità europee, 2003).Tale critica, riportata al contesto nazionale, ha comportato nell’ultimo decennio una serie di mutamenti che hanno interessato la struttura e l’assetto dell’Università Italiana, configurandosi in un vero e proprio cambio di paradigma, definito come un passaggio dall’Università delle Conoscenze all’Università delle Competenze che ha coinvolto il sistema universitario a numerosi livelli, dalla qualità dell’offerta formativa e della didattica, fino alla preparazione dei futuri ricercatori (si veda per esempio, Zaggia, 2008; Galliani, 2011). Tra i punti sollevati, è stata sottolineata l’importanza dell’interdisciplinarietà in termini di formazione, didattica e ricerca dato che “le attività universitarie, in particolare in materia di insegnamento, tendono a restare organizzate, e spesso compartimentate, in funzione del quadro disciplinare tradizionale” (Commissione delle comunità europee, 2003). Negli ultimi anni, infatti, l’approccio interdisciplinare ha ricevuto un notevole riscontro nella letteratura internazionale (si vedano per esempio Shoemaker, 1989;Walker, 1995; Fink, 2003) configurandosi come uno dei capisaldi per la formazione e lo sviluppo di nuovi ruoli e competenze la cui trasversalità e il cui ampio spettro appaiono più idonei alla risoluzione dei problemi della società moderna. In particolare, è opinione diffusa che l’aggregazione di corsi e la formazione di curricula e indirizzi didattici basati su tematiche complementari, interrelate e affini favorisca la comprensione delle materie potenziando e rafforzando la rete di connessioni e conoscenze di studenti e futuri ricercatori. Tale idea è stata quindi un’importante linea guida da quando, con l’introduzione dei CFU, è emersa la necessità di ridistribuire e ridefinire il contenuto dei corsi e degli indirizzi di laurea in termini di carico lavorativo richiesto agli studenti. In numerose ex facoltà prima, e dipartimenti poi, è emersa pertanto nell’ultimo decennio la tendenza ad accorpare corsi che precedentemente erano indipendenti con l’introduzione di una particolare modalità di esame definita “integrato”, nella quale in sostanza gli esami diventano moduli e i voti finali ottenuti in due o più corsi, in genere tenuti da differenti docenti, vengono accorpati in un unico punteggio finale (una media semplice o ponderata sui crediti formativi a seconda dei criteri adottati). Nel caso specifico della presente ricerca, sono stati confrontati i risultati conseguiti nello stesso esame di Organizzazione Aziendale sostenuto dagli studenti di sei diverse coorti provenienti da differenti lauree magistrali e triennali afferenti a due diversi Atenei per verificare la presenza di effetti dovuti a variabili di carattere generale o anagrafico come il genere, l’età, la frequenza alle lezioni, il voto medio, l’essere o meno studenti lavoratori e il diploma posseduto al momento dell’iscrizione, ed eventuali effetti di trattamento dovuti alla modalità di esame (con o senza orale) e alla presenza di un esame integrato o meno.

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Anche se i risultati ottenuti nell’analisi delle performance in un singolo esame, per quanto su un discreto spettro di studenti e corsi, non possono certo essere generalizzati all’intero quadro dei corsi integrati italiani in tutti gli indirizzi e le aree, è nostra opinione che essi forniscano interessanti spunti di riflessione critica nei confronti dell’impostazione della didattica e delle prove di misurazione sulla base delle quali vengono oggi costruite le valutazioni di merito. Assessment drives learning è un noto adagio, ma è importante anche ricordare come la valutazione sia un “momento di bilancio riguardo la validità del lavoro svolto e della direzione di quello da svolgere” (Notti, 2002).

1. Dati e metodo Lo studio osservazionale è stato iniziato nel 2010, contestualmente alla somministrazione di un questionario contente alcuni item relativi al genere, all’età, alla frequenza alle lezioni, all’essere o meno studente lavoratore, alla media dei voti e al diploma. Grazie alla continuità didattica è stato inoltre possibile recuperare i voti degli studenti degli anni precedenti fino al 2006. Nel presente lavoro sono stati quindi presi in considerazione e incrociati due differenti database. Il primo (1683 studenti, M=603, F=1080), contenente i risultati della prova scritta degli studenti dell’esame di Organizzazione Aziendale nei corsi di Scienze della Formazione, Ingegneria Informatica, Scienze dei Servizi Sociali ed Economia, dell’Università degli studi di Verona e Consulenti del lavoro dell’Università degli studi di Padova. I dati, come si può vedere in Tabella 1, riguardano nel complesso il periodo 2006-2012, ma variano a seconda dell’attivazione dei corsi nei vari dipartimenti. La tabella riporta inoltre le numerosità, la modalità di esame e la presenza o meno di un esame integrato. I corsi elencati, con l’eccezione di Consulenti del Lavoro sono stati al momento tutti soppressi o cambiati nel loro assetto didattico. Coorte

Integrato

Modalità d’esame

Numerosità

Periodo

Scienze della Formazione 1

No

Scritto più orale

310

2006-2009

Scienze della Formazione 2

Scritto

64

2010-2012

Ingegneria Informatica

No

Scritto

396

2007-2012

Scienze dei Servizi Sociali

No

Scritto

78

2008-2011

Consulenti del lavoro

Scritto più orale

762

2006-2012

Economia

Scritto

73

2011-2012

Tab. 1: Coorti e modalità di esame, integrazione, numerosità e periodo

Nel secondo database (416 studenti, età media 22.0 ± 0.1, M=146, F=270) sono invece contenute le anagrafiche e le risposte al breve questionario fornite dagli studenti iscritti ai suddetti corsi nel biennio 2010-2012. Si noti che il curriculum di Scienze della Formazione è spezzato in due coorti a causa di un cambiamento in itinere sia nella modalità di esame, passata da una modalità che contemplava scritto più orale a una modalità solo scritta, che nella presenza di un corso integrato al quale è stato successivamente accorpato. Nei periodi elencati gli studenti hanno seguito lo stesso esame (Organizzazione aziendale) tenuto dallo stesso docente con lo stesso libro di testo e le stesse slide, ma con principale differenza il fatto che tali corsi fossero o meno integrati da un altro corso o avessero una

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modalità d’esame che poteva prevedere o meno una successiva prova orale. La prova d’esame scritta consisteva, per tutti gli studenti indipendentemente dalla presenza o meno di un’integrazione o di un successivo orale, in un test a scelta multipla formato da 30 item estratti a random da una item bank costruita sul testo principale del corso. Gli item sono stati scritti nel formato convenzionale dei multiple-choice (Burton et al., 1991; Haladyna et al., 2002) e il test è stato costruito per valutare il programma coperto in circa 4 CFU. L’analisi complessiva delle performance e della loro dipendenza da eventuali fattori quali integrazione, modalità di esame, genere, sessione e appello, area di appartenenza è stata quindi effettuata sui voti dell’ultima prova scritta nota di ogni studente, contenuti nel primo database, e i risultati di tale analisi sono stati incrociati con quelli del secondo database contenente invece le anagrafiche di 416 studenti raccolte nel periodo 2010-2012 e riguardanti età, voto medio, diploma posseduto al momento dell’iscrizione, se frequentante e se lavoratore. Le analisi sono state effettuate tramite linear mixed-models (si veda per esempio, Pinheiro & Bates, 2000) con il software statistico R (R Development Core Team, 2013) e i pacchetti lme4 (Bates & Maechler, 2009) and languageR (Baayen, 2008). Tale tipologia di modelli statistici, noti anche come multilevel o modelli gerarchici, è molto efficace nel trattare dati altamente sbilanciati e descrivere la presenza di effetti fissi come il genere o il trattamento controllando al contempo gli effetti sulla variabile dipendente dovuti a fattori random o annidati quali l’appartenenza degli studenti a diverse prove d’esame in diverse aree. Come si evince dalla Tabella 1, infatti, i dati sono altamente sbilanciati, con differenti numerosità nelle diverse coorti. In questi frangenti i test delle ipotesi effettuati con la distribuzione F, come tutti i metodi lineari che si basano sui minimi quadrati ordinari, sono più sensibili alle violazioni delle assunzioni di normalità e di omoschedasticità; limitazione che invece i modelli misti possono gestire.

2. Risultati e discussione In Tabella 2 sono riportati i principali risultati ottenuti mediante i modelli misti per entrambi i database. Si noti che il secondo dataset è costituito da studenti che hanno svolto l’esame nel periodo 2010-2012 mentre il primo contiene anche gli studenti nel periodo 2006-2009 per il quale non erano disponibili anagrafiche e risposte al questionario. Le distribuzioni dei voti nei due periodi risultano diverse (p < .01 con il test di permutazione), infatti, come si nota in Tabella 1, nel periodo 2010-2012 l’esame non integrato di Formazione 1 non è presente; inoltre, gli esami di Ingegneria Informatica e di Scienze dei Servizi Sociali sono in fase di cessazione, per cui risentono dell’accumularsi degli studenti meno abili o motivati. Ne consegue che i risultati del secondo database si riferiscono a un sottocampione costituito per il 76% da studenti che hanno seguito un esame integrato e per il 24% dalle code statistiche degli esami non integrati. La generalizzazione dei risultati del secondo database va effettuata quindi alla luce di questa considerazione. È inoltre importante osservare come fattori quali l’area e il diploma non siano stati riportati in Tabella 2 perché la loro varianza stimata risultava nulla o trascurabile e la loro non significatività verificata tramite test di Likelihood-ratio. Se trattati come fattori random, così che i loro livelli possano essere considerati un campionamento da una popolazione più vasta, una stima di varianza nulla suggerisce come non vi sia una distribuzione alla base. Per quanto tale assenza di variabilità potrebbe essere dovuta alla difficoltà di ripartire in troppi livelli la varianza osservata, soprattutto in disegni sbilanciati, è interessate notare che, anche se trattati

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come fattori fissi e considerando quindi un’analisi focalizzata nel cercare differenze rispetto a quegli specifici livelli (come in un’analisi della varianza) essi risultano non significativi. Questo suggerisce che la variabilità dovuta all’appartenenza degli studenti a diverse aree o alla provenienza da differenti istituti sia effettivamente non incisiva nel presente campione nello spiegare eventuali differenze di voto. Come si evince dalla Tabella 2, non emergono inoltre effetti significativi in vari fattori quali l’età degli studenti, la modalità di esame oppure la frequenza alle lezioni, e le maggiori fonti di variabilità in entrambi i database sono intrinseche alle sessioni d’esame e agli appelli, mentre il punteggio finale è ben predetto dalla media dei voti, dalla presenza o meno di un esame integrato (livello di riferimento: assenza di integrazione) e dall’essere o meno uno studente lavoratore (livello di riferimento: studente lavoratore). Vi è inoltre una tendenza del genere con le femmine che otterrebbero circa mezzo punto in più dei maschi (livello di riferimento: femmine). Effetti

Database 1 (N=1683)

Database 2 (N=416)

Random

Varianza

Dev.St.

Varianza

Dev.St.

Esame

2.25

1.50

1.73

1.31

Sessione

0.86

0.93

5.11

2.26

Residui

18.69

4.32

16.36

4.04

Fissi

Stima

Err.St.

Stima

Err.St.

Età

/

/

0.04

0.10

Media Voto

/

/

0.59 (***)

0.11

Integrazione

-2.38 (***)

0.50

-0.09

0.61

Mod. esame

-0.65

0.51

0.18

0.53

Genere

-0.47 (.)

0.25

0.19

0.45

Lavoratore

/

/

1.12 (*)

0.48

Frequentante

/

/

-0.07

0.50

Tab. 2: Principali risultati dei mixed linear models nei due database Indicatori di significatività: (.) al 10%, (*) al 5%, (***) allo 0.1%

Il risultato più interessante, da un punto di vista formativo e didattico è probabilmente il fatto che la presenza di un’integrazione con un altro esame venga stimata ridurre di oltre due punti il punteggio degli studenti. Si noti che l’integrazione è significativa nel primo database, ma non nel secondo. Tale risultato è coerente con il fatto che, come osservato in precedenza, il secondo database è costituito in prevalenza da studenti che hanno effettuato esami integrati e dalle code statistiche degli esami non integrati perciò l’effetto dell’integrazione scompare e viene stimato come non significativo. Osservando inoltre il secondo database si nota come la media dei voti degli studenti si confermi un buon predittore della loro performance all’esame, mentre lo stesso non si verifica per l’età. Allo stesso modo, mentre la frequenza alle lezioni non sembrerebbe avere un particolare effetto sul voto finale, l’essere uno studente lavoratore comporterebbe una diminuzione del voto finale stimata in circa un punto. Per quanto tali risultati siano ristretti al

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campione del secondo database, non è implausibile una loro generalizzazione. Da un lato, infatti, la media dei voti è un predittore della performance già noto in letteratura e il coefficiente di regressione (β=0.59) indicato in Tabella 2 è stato stimato aggregando gli studenti indipendentemente dalla presenza di integrazione e dalla stratificazione per area che è risultata non significativa. Dall’altro lato, l’essere studente lavoratore si configura nel secondo database come un aggravio, ed è ragionevole supporre che tale risultato sia generalizzabile: la percentuale maggiore di lavoratori (χ2(1) = 24.24, p < .01) si ha infatti tra gli studenti che non integrano. Su 100 studenti non sottoposti a integrazione circa il 50% è lavoratore, mentre nei 316 che integrano lo è il 27%. Non è quindi irragionevole presumere che, se l’essere studente lavoratore costituisce un aggravio per quelli che non integrano, a maggior ragione può costituire un ulteriore aggravio per coloro che devono integrare. Pur nei limiti della presente generalizzazione è un risultato che merita attenzione. Discorso a parte riguarda invece la tendenza del fattore genere, verificabile nel primo database ma non nel secondo. L’esistenza di un gender bias è stata infatti discussa a lungo e investigata in letteratura, soprattutto economica, e un’ampia porzione di ricerche indicherebbe come le donne ottengano voti inferiori nei test a scelta multipla o più in generale nei test standardizzati (si veda per esempio Siegfried, 1979). A giustificazione di ciò è stato, per esempio, ipotizzato che gli uomini siano abili nell’utilizzare le conoscenze per risolvere nuovi problemi mentre le donne avrebbero migliori doti verbali, abilità di scrittura e memorizzazione (Lumsden & Scott, 1987). Tuttavia, ricerche più recenti hanno osservato che classi con alte percentuali di donne progrediscono più rapidamente (Beekhoven et al., 2003) e che i punteggi delle donne sono in genere migliori durante il percorso scolastico al punto che il gender gap sarebbe ormai stato colmato e rovesciato negli ultimi anni (Goldin et al., 2006). Nel caso in cui la tendenza indicata in Tabella 2 fosse indice di un effetto reale, secondo le analisi tramite modelli misti sarebbero infatti le donne ad avere un voto superiore di circa mezzo punto. Un’altra interessante osservazione riguarda gli effetti random. La variabilità dell’esame non deve essere confusa infatti con la variabilità nella difficoltà dei singoli test. In primo luogo, essa sintetizza l’annidamento di diversi test in diversi appelli perciò non tiene conto del loro andamento temporale, i punteggi ottenuti infatti dagli studenti nel primo appello sono significativamente superiori al secondo appello (t(1237.7) = 7.9, p < .001). Un effetto simile si trova a livello delle sessioni: nella sessione estiva i punteggi risultano migliori che nelle altre due sessioni (p < .001 con correzione di Bonferroni nei contrasti multipli). In secondo luogo, il punteggio medio del singolo esame non corrisponde alla reale media di ciascun test somministrato in quanto sono stati considerati solo gli ultimi voti degli studenti e non i loro precedenti tentativi. A questo va inoltre aggiunto il fatto che punteggi più estremi e ai margini della distribuzione di cui viene stimata la deviazione standard, corrispondono a sessioni d’esame con numerosità particolarmente basse e aventi ampi errori standard. Nonostante ciò, la variabilità associata al singolo esame è quantificata all’incirca in 1.5 punti, sufficientemente stabile da considerare affidabile e valida la misurazione dei test. Una nota finale, modellare l’eteroschedasticità raffina i modelli ma non cambia in modo sostanziale le stime e le significatività. Inoltre, le assunzioni fondamentali per applicare i modelli misti sono rispettate, i residui sono leggermente platicurtici ma distribuiti in modo simmetrico attorno allo zero. Gli effetti random sono distribuiti normalmente. Infine, le correlazioni tra gli effetti fissi suggeriscono non vi siano problemi di multicollinearità.

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Conclusioni Nel presente lavoro sono stati incrociati due database. Il primo, contenente i voti ottenuti nel periodo 2006-2012 da 1683 studenti afferenti a diverse aree didattiche e sottoposti alla prova scritta di Organizzazione Aziendale; il secondo, contenente le anagrafiche associate ai 416 studenti che hanno sostenuto l’esame nel periodo 2010-2012 e ai quali è stato inoltre somministrato un breve questionario riguardante fattori quali il genere, l’età, la frequenza alle lezioni, l’essere o meno studente lavoratore, la media dei voti, il diploma. Poiché in linea generale ci si può aspettare una variabilità nelle performance associate a differenti aree e corsi (Beekhoven et al., 2003), sono stati applicati i modelli lineari misti per cercare di contenere la variabilità legata a fattori quali l’area, l’esame e la sessione in presenza di dati altamente sbilanciati. L’uso di fattori fissi e random permette infatti di pulire i contributi di fattori anagrafici o di trattamento, quali il genere, la presenza di un’integrazione e la modalità d’esame, la frequenza alle lezioni e così via, tenendo conto al contempo del contributo di variabili annidate che descrivono le fluttuazioni delle performance a livello individuale, del singolo esame, dell’area di indirizzo o di eventuali andamenti temporali. L’aspetto più saliente emerso dall’analisi di entrambi i database riguarda la presenza di pochi fattori realmente predittivi della performance degli studenti: diploma, frequenza alle lezioni, genere, età, modalità di esame, e la stessa area di corso non sembrano avere effetti significativi sulle performance o quanto meno tali effetti sono oscurati da fattori più incisivi. Le differenze più notevoli emergerebbero infatti in relazione all’essere o meno studenti lavoratori, con gli studenti lavoratori che prenderebbero circa un punto in meno di quelli non lavoratori, alla media dei voti dello studente che si conferma come un buon predittore delle performance, agli andamenti temporali associati alle sessioni e agli appelli, con voti superiori nel primo appello e nella sessione estiva. L’effetto più interessante e che emerge invece nel primo database riguarda la presenza di un’integrazione che viene stimata in un peggioramento della performance di oltre due punti su trenta. Quali siano le cause all’origine di tale differenza, esse non possono essere desunte dalla natura dei dati a disposizione. Le strategie di apprendimento sono infatti suscettibili a numerosi fattori di natura sociale, psicologica e pedagogica, non controllabili con dati anagrafici e di performance.Tuttavia alcune osservazioni potrebbero rivelarsi utili spunti di riflessione. In termini generali si potrebbe infatti parlare di distorsione della perfomance e quindi di washback effect, nella sua accezione negativa (per delle review recenti si veda, Pan, 2009; Ahmad & Rao, 2012), nella fattispecie quindi un effetto di modulazione dell’apprendimento dovuto alla modalità finale di esame. Più difficile è però delinearne le cause effettive. Una differenza così pronunciata potrebbe essere indice di un approccio più superficiale nelle strategie di apprendimento dovuto a un aumento del carico di lavoro, inteso come numero di ore di lavoro e CFU complessivi, oppure dovuto alla percezione dell’aumento del carico di lavoro (si veda per esempio, Chambers, 1992; Kember, 2004). Non necessariamente in antitesi alle ipotesi precedenti, la differenza di metodo di apprendimento potrebbe dipendere da un aumento del carico cognitivo, e quindi avere una spiegazione in termini di processi non necessari, di memoria di lavoro, e di risorse cognitive, attenzione divisa e ridondanza (si veda per esempio van Merriënbor & Sweller, 2005). Al contempo, una spiegazione plausibile potrebbe essere individuata in termini di work avoidance, intesa come ‘la preoccupazione di concludere un lavoro con il minimo sforzo possibile’ (Meece et al., 1988). Gli studenti potrebbero essere indotti ad accettare un voto inferiore pur di concludere un carico lavorativo che ritengono troppo oneroso per concretizzarsi in un solo voto finale. Considerando

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infatti lo storico di tutti i voti presi degli studenti all’esame scritto, risulta in effetti che una percentuale statisticamente significativa di studenti in più ripete l’esame nei corsi nei quali non c’è integrazione. L’aumentato carico cognitivo potrebbe quindi disincentivare gli studenti meno abili. In conclusione, per quanto i risultati del presente studio osservazionale non siano in alcun modo generalizzabili all’intero contesto nazionale, in quanto limitati a sei differenti corsi in due sole università, essi suggeriscono l’importanza di tutelare categorie di studenti quali gli studenti lavoratori, e di approfondire l’impatto che i corsi integrati hanno sul rendimento e l’apprendimento degli studenti negli atenei italiani. Il problema di strutturare efficacemente corsi interdisciplinari e di creare delle valide forme di misurazione e quindi di valutazione di tali esami va probabilmente ben oltre la natura segmentata e compartimentata dei metodi di insegnamento e delle procedure di valutazione spesso utilizzate nei nostri Atenei. La complessità di un approccio integrativo e interdisciplinare è infatti vasta, non soltanto in termini valutativi ma anche educativi e pedagogici. La multidisciplinarietà, intesa come esposizione e rappresentazione parallela di competenze, compartimentate e indipendenti da parte di diversi docenti, non implica infatti la capacità dello studente di integrare quanto appreso (Klein, 2005). Sono richiesti approcci che, mescolando aspetti di apprendimento collaborativo, lavoro di gruppo, comunitario e multiculturale, a seminari ed esperienze tematiche, ridefiniscano i concetti stessi di studio, apprendimento e valutazione (si veda per esempio Newell, 2001), trasformando lo studente in un interlocutore attivo e ridefinendo le abilità e le competenze degli insegnanti per renderli in grado di mantenere i fili di un approccio integrato e di rovesciare da negativo a positivo ogni effetto di washback. Un aspetto quest’ultimo che non dovrebbe essere trascurato all’interno di una corretta pianificazione che traduca “le finalità educative in possibilità operative controllabili, misurabili e gestibili didatticamente” (Marzano, 2002).

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Ricerche Approcci collaborativi in ambienti virtuali: l’esperienza di un corso universitario online Online collaborative approaches: the experience of a university module MICHELE BIASUTTI Questo articolo descrive uno studio in ambito universitario nel quale è stato adottato un metodo collaborativo basato sull’interazione sociale con la teoria del costruttivismo sociale come paradigma di riferimento. Gli studenti hanno partecipato alle attività del modulo di e-learning in un ambiente asincrono che sono state valutate utilizzando un questionario di auto-valutazione che ha permesso di raccogliere dati quantitativi e qualitativi sulla soddisfazione degli studenti sulle attività collaborative. L’articolo discute anche la progettazione didattica utilizzata nel corso. I risultati dimostrano che i partecipanti hanno aumentato le loro potenzialità didattiche come insegnanti. I risultati sono discussi in relazione all’implementazione di attività collaborative nella formazione a distanza degli insegnanti.

This paper describes a higher education study adopting a collaborative method based on social interaction between participants within an asynchronous e-learning environment, having the social constructivism theory as a surrounding paradigm. Students participated in e-learning module activities in an asynchronous e-learning environment. The activities were assessed using a self-evaluation questionnaire, which allowed us to collect quantitative and qualitative data about student satisfaction of the collaborative e-learning activity. The paper also highlights the instructional design used in the course development. The participants’ results in the module increased their didactic potential as school teachers.The findings are discussed in relation to their impact on the application of collaborative activities in teacher education in distance learning.

Parole chiave: apprendimento cooperativo online, ambiente asincrono, educazione degli insegnanti, Wiki, valutazione, Moodle

Key words: online cooperative learning, asynchronous environment, teacher education, Wiki, assessment, Moodle

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2038-9736 (in press) / ISSN 2038-9744 (on line) Giornale Italiano della Ricerca Educativa • anno VI – n. 11 – dicembre 2013

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Approcci collaborativi in ambienti virtuali: l’esperienza di un corso universitario online

Introduzione Nell’ultimo decennio vi è stato un proliferare di ricerche sulla formazione a distanza la maggior parte delle quali ha preso in considerazione aspetti tecnici, finanziari e amministrativi focalizzandosi meno su questioni metodologiche e didattiche. La ricerca sulla formazione a distanza che si è soffermata su aspetti didattici ha presentato spesso solo quello che l’insegnante può fare online spiegando tutte le potenzialità degli strumenti (Alexander, 2001). Si tratta di un approccio che ha dato impulso a varie sperimentazioni, poiché rende conto di ciò che è effettivamente possibile fare in rete, ma che deve essere seguito da momenti ponderati di valutazione e di riflessione rispetto alle nuove modalità applicative. È importante ragionare qualitativamente sulle scelte, per selezionare le proposte più efficaci e definire i nuovi stimoli educativi che ne possono derivare (Galliani, 2002; Garrison & Anderson, 2003). In seno a questo orientamento, recentemente si è sviluppata una dimensione critica della formazione online, considerando le esperienze degli studenti (Baturay & Bay, 2010; Biasutti, 2011; Biasutti & EL-Deghaidy, 2012; Gilbert, Morton & Rowley, 2007; Dewiyanti, Brand-Gruwel, Jochems & Broers, 2007; Seddon & Biasutti, 2009) e valutando l’efficacia delle attività. È stato anche confrontato l’apprendimento a distanza e in presenza, riscontrando che con le attività online è possibile raggiungere livelli qualitativi simili a quelli delle attività faccia-a-faccia (Campbell, Gibson, Hall, Richards, & Callery, 2008; Francescato, Porcelli, Mebane, Cudetta, Klobas & Renzi, 2006; Francescato, Mebane, Porcelli, Attanasio & Pulino 2007; Ward, Peters & Shelley, 2010). Le ricerche sulla valutazione delle attività online hanno dato impulso ad una serie di sperimentazioni nelle quali è stato rivisto profondamente il modello formativo basato sull’istruzione con materiali predeterminati e studio indipendente, spostando l’oggetto della ricerca sull’applicazione di nuovi metodi didattici. La teoria costruttivista è stata utilizzata come quadro teorico in numerosi studi sull’apprendimento a distanza (Krause, Stark & Mandl, 2009; So & Brush, 2008; Wheeler, Yeomans & Wheeler, 2008) con l’utilizzo di metodologie basate sul discente (learner-centered) rispetto alle più tradizionali basate sul docente (teacher-centered). Le attività online sono state ridisegnate e le metodologie, sviluppate precedentemente nell’insegnamento in presenza, sono state testate nell’apprendimento online prendendo in considerazione approcci quali il learner-centered, considerando che anche online è possibile indurre una modalità di interazione diversificata nel rapporto tra l’insegnante e l’allievo. Jonassen, Peck, e Wilson (1999) evidenziano l’importanza di stimolare una partecipazione attiva da parte degli studenti, che genera risultati qualitativamente diversi e induce un apprendimento significativo rispetto a esperienze nelle quali gli studenti ricevono gli stimoli passivamente. Nei corsi online è possibile realizzare una dimensione personalizzata dell’insegnamento, tarato sulle caratteristiche dei singoli e con livelli di partenza adeguati. Il

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Michele Biasutti

modello educativo learner-centered consente questo approccio, nel quale la didattica è funzione delle necessità individuali e delle esigenze degli studenti. Si tratta di un metodo che tiene conto degli interessi e delle abilità degli studenti, nel quale le discipline sono messe in secondo piano e il docente assume un ruolo di facilitatore e di monitoraggio piuttosto che essere il centro e il dominatore di tutte le interazioni educative. A questo livello risultano particolarmente utili le esperienze di apprendimento cooperativo (Johnson & Johnson, 1999) che possono essere applicate anche online.

1. Online collaborative learning La tecnologia dell’informazione offre strumenti per sviluppare attività di collaborazione e cooperazione non considerati precedentemente nella formazione a distanza (Aiken, Bessagnet & Israel, 2005; Jara, Candelas, Torres, Dormido, Esquembre & Reinoso, 2009; Macdonald, 2003), facilitando le interazioni tra studenti in una prospettiva costruttivista. Collaborazione e cooperazione implicano un impegno verso i coetanei attraverso l’interazione sociale (Hew & Cheung, 2008; Rusman, van Bruggen, Cörvers, Sloep & Koper, 2009) che è molto più di una semplice comunicazione. Attività di collaborazione e cooperazione fornite in un ambiente sociale virtuale offrono allo studente la possibilità di sviluppare la comprensione attraverso i propri costrutti, diventando studenti attivi. L’apprendimento a distanza è stato applicato estesamente e con esiti più che soddisfacenti anche nei programmi di formazione degli insegnanti e per lo sviluppo professionale di insegnanti in servizio. Chao, Saj e Hamilton (2010) ritengono che l’apprendimento collaborativo è uno dei metodi migliori per progettare corsi online di qualità. È stata altresì considerata la necessità di sviluppare delle metodologie idonee di valutazione delle attività svolte (Johnson, Hornik & Salas, 2008). Diversi studi hanno considerato l’apprendimento collaborativo online soffermandosi su aspetti quali la maggiore o minore efficacia delle attività collaborative rispetto a quelle individuali, lo sviluppo delle abilità collaborative degli studenti e l’influenza di caratteristiche individuali sull’apprendimento a distanza. Riguardo alla questione di confrontare l’apprendimento collaborativo con quello individuale,Van Eijl, Pilot & de Voogd (2005) hanno confrontato gli esiti formativi di studenti che decidevano di lavorare in team, rispetto ad altri che preferivano lavorare individualmente in corsi di apprendimento virtuale, verificando come questa variabile influenzava i risultati ottenuti alla fine del corso. L’analisi statistica ha evidenziato che gli studenti che hanno svolto attività collaborative hanno ottenuto risultati significativamente migliori. EL-Deghaidy & Nouby (2008) hanno riscontrato livelli migliori di apprendimento per il gruppo sperimentale rispetto a quello di controllo, in una ricerca con disegno quasi sperimentale per verificare l’efficacia di attività cooperative in un corso online di formazione per insegnanti. Riguardo alle variabili che favoriscono la formazione di una comunità virtuale di apprendimento, Nevgi, Virtanen & Niemi (2006) hanno sviluppato uno strumento per facilitare l’apprendimento collaborativo online riscontrando benefici rispetto alla capacità dei partecipanti di diventare consapevoli delle loro abilità di lavorare in gruppo. Anderson & Simpson (2004) hanno valutato le discussioni asincrone in un corso online evidenziando che le discussioni per piccoli gruppi sono state considerate le più rilevanti per la comunicazione, mentre la non-partecipazione alle attività è stato il problema più rilevante.

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Nagel, Blignaut & Cronjé (2009) hanno analizzato alcune variabili che facilitano la formazione delle comunità virtuali di apprendimento, evidenziando i seguenti aspetti: comunicare i doveri nella classe online; incoraggiare discussioni di alta qualità e dare feedback formativi; riconoscere il livello dei singoli nei progetti di gruppo e ruotare i membri di gruppi; aumentare la comunicazione facilitata per veicolare informazioni importanti. Amhag & Jakobsson (2009) hanno evidenziato i seguenti tre livelli diversificati di dialogo utilizzati dagli studenti quali strumenti di apprendimento mentre interagivano in gruppi in corsi online: passivo e autoritario, persuasivo con negoziazione preliminare e persuasivo con negoziazione con coautori. Jeong & Hmelo-Silver (2010) hanno esaminato l’uso che gli studenti facevano delle risorse di apprendimento in ambienti virtuali: essi hanno la necessità di sviluppare conoscenze e abilità per utilizzare le risorse collaborativamente e devono essere guidati. Altri elementi che influenzano l’apprendimento collaborativo sono i presupposti teorici e la progettazione del corso, le caratteristiche dell’istruttore, l’addestramento, le dinamiche di gruppo, lo sviluppo di una comunità virtuale di apprendimento e la tecnologia utilizzata. Altre ricerche hanno analizzato le caratteristiche individuali che influiscono sulle attività collaborative a distanza. Dewiyanti, Brand-Gruwel, Jochems & Broers (2007) hanno esplorato le caratteristiche individuali e del corso che regolano l’apprendimento collaborativo e influenzano la soddisfazione degli studenti individuando che il prodotto del gruppo influenza i processi di regolazione, mentre la coesione del gruppo influenza la soddisfazione. So & Brush (2008) hanno esaminato le relazioni tra apprendimento collaborativo, presenza sociale e soddisfazione percepita dagli studenti in un corso online con modalità blended. I risultati hanno mostrato che la percezione degli studenti dell’apprendimento collaborativo era collegata in modo statisticamente significativo alla percezione della presenza sociale e alla soddisfazione: gli studenti che percepivano alti livelli di apprendimento collaborativo tendevano ad essere più soddisfatti del loro corso a distanza rispetto a chi percepiva livelli bassi. Johnson, Hornik, & Salas (2008) hanno sviluppato un modello di e-learning che ha aggiunto presenza sociale, esaminando i fattori che contribuiscono al successo. I risultati hanno indicato che l’auto-efficacia nel lavoro al computer e la gestione percepita erano collegati alla performance, alla soddisfazione e alla strumentalità. La presenza sociale è stata collegata alla soddisfazione e alla strumentalità, mentre l’interazione alla prestazione e alla soddisfazione del corso. Krause et al. (2009) hanno studiato come l’apprendimento cooperativo e il feedback influenzano l’apprendimento virtuale basato su esempi, variando il contesto sociale da individuale a cooperativo e rendendo l’intervento di feedback disponibile o non disponibile. I risultati hanno dimostrato che l’apprendimento cooperativo migliora la prestazione percepita e la competenza percepita. La prestazione del gruppo nell’apprendimento cooperativo è stata superiore rispetto al rendimento individuale, anche se la cooperazione non ha influenzato direttamente i risultati di apprendimento. È stata anche dimostrata l’importanza del feedback di apprendimento, che è stato rilevante per gli studenti con scarse conoscenze preliminari. Nam & Zellner (2011) hanno valutato l’importanza di aspetti specifici del cooperative learning utilizzando un disegno sperimentale con tre gruppi: gruppo interdipendenza positiva, gruppo di elaborazione e gruppo senza nessuna struttura. I primi due gruppi hanno ricevuto una formazione specifica, mentre il gruppo senza nessuna struttura aveva funzioni di gruppo di controllo e non aveva alcuna formazione aggiuntiva. I risultati al termine delle

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attività hanno indicato che il gruppo interdipendenza positiva ha avuto risultati significativamente più alti rispetto al gruppo di elaborazione e al gruppo senza nessuna struttura. Per quanto riguarda l’atteggiamento degli studenti verso le esperienze di apprendimento cooperativo – che erano partecipazione, risorse di comunicazione e attività online – non sono state rilevate differenze significative tra i gruppi. Nell’analisi della letteratura considerata sono stati utilizzati una varietà di approcci con gruppi relativamente piccoli di partecipanti. In generale, emergono diversi elementi come la rilevanza dell’apprendimento collaborativo rispetto a quello individuale in attività online e diversi aspetti utili per lo sviluppo della coesione del gruppo e l’aumento della soddisfazione dei partecipanti. Si tratta di aspetti che sono considerati in maniera funzionale alla valutazione finale dei corsi, dimostrando che all’apprendimento collaborativo sono generalmente associati risultati migliori. Un elemento mancante in questo scenario è la definizione di aspetti sovraordinati per l’apprendimento collaborativo online secondo la prospettiva dei partecipanti. Diversi autori (Blass & Davis, 2003; Gilbert et al., 2007; Seddon & Biasutti, 2009) hanno riportato che in letteratura vi è una scarsità di ricerche che pone enfasi sulla prospettiva dei partecipanti con particolare riferimento al settore dei corsi online. Più recentemente Biasutti (2011) ha reso conto che questo approccio non è stato ancora applicato estensivamente in ambienti virtuali contraddistinti da metodologie collaborative. Il presente studio intende aggiungere degli elementi mancanti a questo scenario, coinvolgendo un numero sufficientemente ampio di partecipanti e impiegando tecniche di raccolta dati quantitative e qualitative. L’obiettivo è di analizzare come i partecipanti valutano la loro esperienza e che cosa riportano dei processi di apprendimento attivati durate le attività collaborative. Il corso è stato svolto online con classi virtuali di circa 30 partecipanti la cui gestione è avvenuta con l’ausilio di tutor online. È stato attivato l’apprendimento collaborativo ed è stata utilizzata la modalità Wiki: si tratta di un ambiente di lavoro condiviso nel quale si strutturano in maniera collaborativa nuove forme di conoscenza (Shih, Tseng & Yang, 2008).

2. La ricerca Obiettivi e domande della ricerca In base alla letteratura analizzata precedentemente, la ricerca qui presentata ha come oggetto l’analisi della prospettiva degli studenti rispetto alle attività collaborative di un modulo di un corso a distanza in un ambiente di lavoro asincrono. In questo contesto la piattaforma online diventa un’espansione distribuita dell’ambiente di apprendimento nel quale si sviluppano le varie interazioni tra studenti, stimolando l’acquisizione continua di competenze esperte durante il corso, attraverso esperienze basate sulla collaborazione e sulla contestualizzazione. Le seguenti domande sono state considerate per orientare il processo di ricerca del presente studio: 1) Il modulo a distanza ha consentito ai partecipanti di apprendere effettivamente i contenuti proposti durante le attività collaborative nell’ambiente virtuale di apprendimento? 2) Qual è la prospettiva dei partecipanti rispetto agli aspetti più significativi delle attività collaborative online? 3) Qual è la prospettiva dei partecipanti rispetto agli aspetti più significativi da migliorare delle attività collaborative online?

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Metodologia Il disegno sperimentale della ricerca è stato con gruppo unico, poiché si tratta di un progetto pilota che intende per il momento saggiare la funzionalità dei servizi e verificare le procedure didattiche attivate. Gli strumenti utilizzati sono stati attivati all’interno della piattaforma multimediale Moodle. Si tratta di un software che consente di programmare attività, di monitorarle, di condividere moduli formativi online, documenti e file (anche multimediali) di supporto all’attività formativa, di gestire test iniziali e finali, di partecipare a forum e chat. I forum possono avere come moderatori docenti e tutor, e supportano interventi con diversi formati come audioforum e videoforum nei quali è possibile avere una valutazione dei singoli interventi. Di particolare importanza è la presenza di strumenti di lavoro condiviso come Wiki, nel quale gli studenti hanno la possibilità di svolgere lavori in maniera collaborativa. Le attività del modulo comprendevano letture, discussioni per piccoli gruppi, processi di feedback tra pari e attività collaborative con wiki che si sono svolte con modalità asincrona. I partecipanti dovevano leggere un testo sulla pianificazione curricolare in musica, discuterlo online attraverso forum tematici e successivamente progettare in collaborazione un’unità di apprendimento lavorando in piccoli gruppi utilizzando la risorsa wiki. Si tratta di uno scenario che prevede dei compiti autentici poiché compiti di progettazione di unità di apprendimento possono far parte dei compiti istituzionali dei docenti e sono particolarmente significativi in contesti di ricerca, in quanto attività autentiche inducono degli effetti significativi nei partecipanti (Tsai, 2010). Durante le attività wiki i partecipanti hanno avuto la possibilità di condividere esperienze, negoziare comprensioni, costruire conoscenza in maniera partecipata e supportarsi l’un l’altro nei processi di apprendimento nell’ambiente virtuale. Per la progettazione delle unità di apprendimento i partecipanti hanno lavorato in maniera asincrona in piccoli gruppi di circa quattro partecipanti utilizzando il seguente modello: obiettivi, contenuti, metodologia, mezzi e strumenti, durata, ambiente e valutazione. I partecipanti hanno lavorato per circa un mese e hanno ripetuto l’attività ogni 15 giorni, progettando due unità di apprendimento per la scuola primaria: una sull’ascolto musicale e una sulle attività creative. Nelle unità di apprendimento sull’ascolto, i partecipanti proponevano attività che si basavano sull’ascolto di brani musicali, mentre in quella sulle attività creative prevedevano un utilizzo creativo dei suoni come completare o inventare dei ritmi. I partecipanti sono stati suddivisi in piccoli gruppi in maniera casuale in modo da minimizzare gli effetti dovuti a precedenti esperienze (Nam & Zellner, 2011). Il processo del feedback fornito dal tutor è stato un aspetto importante del modulo, poiché ha promosso la partecipazione alle attività online in conformità con il ruolo del moderatore delineato da De Smet,Van Keer, De Wever & Valcke (2010).

Partecipanti Ha partecipato alla ricerca un gruppo di 92 studenti frequentanti un corso di formazione per insegnanti attivato in un’università del nord-est d’Italia. Si tratta di studenti che per la maggior parte lavoravano e avevano un’età compresa tra i 25 e i 55 anni. Il profilo dei partecipanti combacia con quello di studenti per i quali l’apprendimento a distanza è considerato particolarmente utile. Essi hanno le potenzialità per sviluppare un appren-

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dimento indipendente e sono ben motivati a completare gli studi attraverso stimoli personali e il supporto istituzionale (Gilbert et al., 2007). La valutazione della qualità del corso ha incluso strumenti qualitativi e quantitativi e si è svolta con la presentazione di un questionario alla fine delle attività.

Lo strumento Lo strumento utilizzato per la presente ricerca è un questionario di autovalutazione sulla soddisfazione del corso. Si tratta di un questionario derivato a seguito di un processo di adattamento di altri strumenti e modelli teorici presenti in letteratura (Marsh & Bailey, 1993; Marsh & Dunkin, 1992), che comprende due tipologie di domande: quantitative inerenti ad aspetti specifici del modulo, e qualitative che invitano a formulare dei commenti generali e complessivi. La parte quantitativa è composta da 27 domande chiuse. Una serie di affermazioni è proposta ai partecipanti chiedendo di esprimere il proprio accordo o disaccordo su una scala Likert a dieci punti. Le cinque sezioni quantitative del questionario sono le seguenti: 1) processi (6 item, ad esempio: “ho ampliato le mie conoscenze sulla didattica della musica”; “ho compreso l’importanza della pianificazione curricolare in musica”); 2) attività del modulo (4 item, ad esempio:“le attività mi hanno fornito idee su come insegnare la disciplina”; “le attività erano adeguate ai miei bisogni formativi”); 3) competenze didattiche (6 item, ad esempio: “ho migliorato le miei abilità di definire gli obiettivi didattici”; “ho migliorato le mie abilità di definire la valutazione didattica”); 4) materiale d’insegnamento (5 item, ad esempio: “il materiale didattico era chiaro”; “il materiale didattico era utile”); 5) i tutor (6 item, ad esempio : “i tutor hanno stimolato la cooperazione”; “i tutor hanno dato indicazioni su come migliorare il lavoro”). Riguardo agli aspetti qualitativi, sono state proposte le seguenti domande per stimolare commenti generali e complessivi: 1) Prego, indichi quali sono stati gli aspetti della metodologia collaborativa che ha considerato più importanti. 2) Prego, indichi quali sono stati gli aspetti della metodologia collaborativa che dovrebbero essere migliorarti. Si tratta di domande che hanno indotto una serie di commenti qualitativi da parte dei partecipanti che hanno consentito di dedurre degli insight riguardo ai punti di forza e alle debolezze delle attività. Alla fine del modulo i partecipanti sono stati invitati a compilare in forma anonima il questionario di autovalutazione delle attività svolte. Il questionario è stato reso disponibile attraverso la piattaforma Moodle, che ha consentito la compilazione online, e prevedeva circa 25 minuti per il suo completamento.

Analisi e risultati I dati raccolti consistevano nelle valutazioni delle unità di apprendimento, nei risultati degli esami finali e del questionario di autovalutazione del corso. I dati quantitativi (domande chiuse) e i commenti qualitativi (domande aperte) del questionario sono stati analizzati

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rispettivamente con l’analisi statistica (statistiche descrittive, analisi fattoriale esplorativa e alpha di Cronbach) e un metodo induttivo (constant comparative method) come descritto nelle sezioni seguenti. Valutazione delle unità di apprendimento e del modulo Le unità di apprendimento realizzate dai partecipanti sono state valutate ottenendo le seguenti medie in trentesimi: unità sull’ascolto 28.39, unità sulla creatività 28.72. Alla fine del modulo 83 studenti hanno sostenuto l’esame finale e tutti lo hanno superato con esiti positivi e una media di 27.94 trentesimi. Gli altri studenti hanno sostenuto l’esame finale in altre sessioni. I risultati indicano che il modulo è stato superato con successo. Domande chiuse del questionario La parte quantitativa del questionario di autovalutazione consisteva in 27 domande chiuse su scala Likert a dieci punti (1 = minimo; 10 = massimo). Per valutare la consistenza del questionario, i dati sono stati sottoposti ad un’analisi fattoriale esplorativa per identificare la struttura fattoriale delle subscale utilizzando il Kaiser criterion (Kaiser, 1960), che ha evidenziato una struttura monofattoriale per ogni singola sezione. L’analisi dell’affidabilità è stata svolta calcolando l’alpha di Cronbach ottenendo coefficienti da .89 a .96, tutti oltre lo standard di affidabilità di .70. Le medie, le deviazioni standard e gli alpha di Cronbach sono stati i seguenti: processi (6 item) media di 8.82 (SD: 1.31, alpha di Cronbach: .91), attività del modulo (4 item) media di 8.92 (SD: 1.40; alpha di Cronbach: .89); competenze didattiche (6 item) media di 8.45 (SD: 1.54; alpha di Cronbach: .96); materiale d’insegnamento (5 item) media di 8.93 (SD: 1.34; alpha di Cronbach: .91); i tutor (6 item) media di 9.43 (SD: 1.09; alpha di Cronbach: .91). Questi risultati indicano dei buoni livelli di soddisfazione degli studenti. Domande aperte del questionario Per l’analisi delle domande aperte del questionario di autovalutazione è stato adottato come riferimento teorico la “grounded theory” di Glaser & Strauss (1967). Si tratta di un metodo nel quale le categorie emergono dai dati attraverso un’analisi induttiva piuttosto che essere classificati in base a categorie predeterminate (Charmaz & Henwood, 2008). In particolare il “Constant Comparative Method” (CCM)(Strauss & Corbin, 1998) è stato impiegato per analizzare e categorizzare le domande aperte. Le seguenti cinque fasi del CCM sono state applicate per analizzare le domande aperte: 1) immersione, nella quale tutte le differenti risposte discernibili sono state riconosciute, 2) categorizzazione, nella quale tutte le risposte sono state collocate in categorie di riferimento, 3) riduzione fenomenologica, nella quale dalle categorie emergono i temi, 4) triangolazione, nella quale aspetti suppletivi sono utilizzati per sostenere le interpretazioni del ricercatore, 5) interpretazione, il momento finale nel quale è riportata una spiegazione estesa dei risultati delineati in collegamento con risultati e modelli presenti in letteratura. Si tratta di un metodo che è stato utilizzato precedentemente in maniera fruttuosa in ricerche sull’apprendimento online della musica (Seddon & Biasutti, 2009). Per ulteriore chiarezza, due diagrammi con le prime tre fasi dell’analisi qualitativa sono riportati in fig.1 (A: aspetti positivi e B: aspetti da migliorare).

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1. Immersione

2. Categorizzazione

3. Riduzione fenomenologica

5 temi: A

aspetti positivi

156 risposte differenti

28 categorie

cognitivo emotivo/etico lavoro in gruppo operativo organizzativo

4 temi: B

aspetti da migliorare

63 risposte differenti

19 categorie

emotivo/etico lavoro in gruppo operativo organizzativo

Fig.1: Diagramma delle prime tre fasi dell’analisi induttiva dei dati qualitativi del questionario di valutazione A: aspetti positivi dell’attività collaborativa online; B: aspetti da migliorare dell’attività collaborativa online.

Nella fase di immersione, il ricercatore ha letto più volte le risposte per acquisire un livello elevato di familiarità con il materiale. In questa fase sono state individuate 156 risposte diverse per gli aspetti positivi e 63 per gli aspetti aspetti da migliorare. Nella fase di categorizzazione, le risposte simili sono state raggruppate e 28 categorie sono emerse per gli aspetti positivi e 19 per gli aspetti da migliorare. Nella fase di riduzione fenomenologica, cinque e quattro temi sono emersi dalle categorie che sono stati interpretati dal ricercatore come: cognitivo, emotivo/etico, lavoro in gruppo, operativo, e organizzativo per gli aspetti positivi ed emotivo/etico, lavoro in gruppo, operativo, organizzativo per gli aspetti da migliorare. Nella fase di triangolazione, citazioni dalle risposte alle domande aperte e commenti dai forum di discussione sono stati utilizzati per sostenere l’interpretazione del ricercatore rispetto ai temi individuati. L’esame di questo materiale ha rivelato che i partecipanti in maniera indipendente hanno fatto riferimento alle interpretazioni del ricercatore sui temi. In particolare, per gli aspetti positivi nel tema cognitivo i partecipanti hanno riportato le componenti mentali dei processi di apprendimento (ad esempio: “abbiamo analizzato e integrato diversi punti di vista”); nel tema emotivo/etico, i partecipanti hanno riportato le sensazioni e gli aspetti morali (ad esempio: “ho sviluppato il mio senso di responsabilità”); nel tema lavoro in gruppo i partecipanti hanno riportato gli aspetti sociali dei processi di apprendimento (ad esempio: “abbiamo lavorato collaborativamente a più mani sullo stesso documento”); nel tema operativo, i partecipanti hanno riportato gli aspetti pratici degli interventi (ad esempio: “È stato utile perché ci ha permesso di contribuire, quando il lavoro era già iniziato, e di fare degli aggiornamenti”); nel tema organizzativo, i partecipanti hanno riportato elementi inerenti alla gestione delle attività (ad esempio: “abbiamo distribuito il carico di lavoro in maniera organizzata”). Per gli aspetti da migliorare nel tema emotivo/etico, i partecipanti hanno riportato le sensazioni e gli aspetti morali (ad esempio: “scarso rispetto reciproco”); nel tema lavoro in gruppo i partecipanti hanno riportato problematiche rispetto agli aspetti sociali dei processi di apprendimento (ad esempio: “il problema maggiore è stato il livello differente di partecipazione nel gruppo”); nel tema operativo, i partecipanti hanno riportato i problemi

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sugli aspetti pratici delle attività (ad esempio:“ho avuto problemi nel caricare le modifiche”); nel tema organizzativo, i partecipanti hanno riportato problematiche inerenti alla gestione delle attività (ad esempio: “è importante avere più coordinamento e organizzazione”). La codifica delle domande aperte è stata successivamente convalidata da un ricercatore indipendente che ha controllato separatamente i dati. Un’analisi di affidabilità utilizzando il Kappa di Choen è stata eseguita per determinare la coerenza tra valutatori. L’affidabilità iniziale per i valutatori è risultata essere Kappa = 0.807 per le 28 categorie emerse per gli aspetti positivi e Kappa = 0.846 per le 19 categorie emerse per gli aspetti da migliorare. L’autore e il ricercatore indipendente hanno esaminato le eventuali controversie relative alla loro codifica e attraverso un processo di negoziazione hanno raggiunto un accordo pari al 100%. Le categorie e i temi degli aspetti positivi e degli aspetti da migliorare sono stati sottoposti ad una valutazione quantitativa contando il numero di volte che sono stati menzionati da ogni partecipante. Questa analisi ha permesso di evidenziare la rilevanza di ogni categoria e dei temi. I dati quantitativi delle categorie e dei temi sono stati riportati in tab.1 (aspetti positivi), e nella tab. 2 (aspetti da migliorare).

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Tab. 2: Dati quantitativi degli aspetti da migliorare delle attività collaborative

Discussione Prima domanda della ricerca (Il modulo a distanza ha consentito ai partecipanti di apprendere effettivamente i contenuti proposti durante le attività collaborative nell’ambiente virtuale di apprendimento?) Durante il modulo e-learning i partecipanti hanno sviluppato le loro competenze di progettazione in educazione musicale. Questo aspetto è stato valutato considerando le unità di apprendimento che hanno svolto nell’ambiente virtuale asincrono, i risultati della prova finale ed i risultati quantitativi e qualitativi del questionario di autovalutazione. Nel complesso i risultati sono stati molto buoni: l’unità di apprendimento sull’ascolto musicale ha ottenuto una media di 28.39 su 30, mentre la seconda unità di apprendimento sulla creatività musicale ha riscontrato 28.72 di 30. I voti ottenuti dai partecipanti nell’esame finale hanno avuto una media di 27.94 su 30. Nella sezione quantitativa del questionario di autovalutazione, la scala relativa alle competenze didattiche ha segnato 8.45 su 10 (item quali “ho migliorato la mia capacità di definire gli obiettivi didattici”, “ho migliorato la mia capacità di definire la valutazione didattica”), che dimostra come i partecipanti hanno aumentato la loro potenzialità didattiche di insegnanti. Le attività del modulo hanno avuto un punteggio di 8.92 su 10 (item quali “le attività mi hanno dato idee su come insegnare la disciplina”, e “le attività erano adeguate ai miei bisogni formativi”), dato che indica che le attività sono state ben accolte dai

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partecipanti. Ulteriori fattori emergono dalle domande della subscala sui processi che ha ottenuto un punteggio di 8.82 su 10 (item quali “ho ampliato le mie conoscenze sulla didattica della musica”, e “ho capito l’importanza della pianificazione curricolare in musica”), a dimostrazione della crescita professionale dei partecipanti. Il materiale didattico è stato valutato con 8.93 su 10 (item come “il materiale didattico era chiaro”, e “il materiale didattico era utile”), dato che dimostra che il materiale è stato ben concepito. L’aspetto più significativo è stata la performance dei tutor (item come “i tutor hanno stimolato la cooperazione”, “i tutor hanno dato indicazioni su come migliorare il lavoro”), che ha ottenuto il punteggio di 9.43 su 10 e ha fornito evidenze che i tutor sono stati molto importanti stimolando e motivando i gruppi. I tutor hanno svolto compiti in riferimento alle funzioni riportate da De Smet et al. (2010), che si sono dimostrate rilevanti per dare sostegno e fornire feedback ai partecipanti. Inoltre, nella parte qualitativa della valutazione (domande aperte), i partecipanti hanno espresso commenti specifici sugli aspetti di maggior successo del modulo, nonché una soddisfazione generale sulle attività erogate. I partecipanti hanno avanzato commenti quali: “È stato un ottimo strumento per sviluppare il lavoro di squadra e la produzione di un’unità di apprendimento” e “È stata un’esperienza positiva. Il mio gruppo è stato molto collaborativo e questo ci ha permesso di creare un’unità di apprendimento valida perché c’è stato confronto tra noi per sviluppare un lavoro coerente”. Si potrebbe sostenere che una possibile ragione dell’efficacia del modulo è dovuta all’applicazione dei seguenti elementi: approccio pedagogico corretto, tecnologia adeguata, materiale didattico chiaro e organizzato, opportunità per i partecipanti di collaborazione, dinamiche di gruppo, supporto e feedback dei tutor online (Blass & Davis, 2003; Garrison & Anderson, 2003). Nella presente ricerca anche l’ambiente virtuale è stato rilevante in quanto si è trattato di un ambiente semplice ma efficace, che ha permesso ai partecipanti di lavorare in modo collaborativo, di condividere esperienze, di costruire significati e di sostenersi a vicenda nel processo di apprendimento con l’aiuto del tutor online. L’inter pretazione dei risultati trova riscontri nei risultati di ricerche analoghe sull’apprendimento collaborativo online condotte da Nam & Zellner (2011). Seconda domanda della ricerca (Qual è la prospettiva dei partecipanti rispetto agli aspetti più significativi delle attività collaborative online?) Le risposte alla domanda generale sugli aspetti utili delle attività del modulo, hanno evidenziato i vari criteri espressi dai partecipanti. I risultati dell’analisi induttiva hanno rivelato i seguenti cinque temi: lavoro in gruppo, cognitivo, operativo, organizzativo, ed emotivo/etico. La prospettiva dei partecipanti ha assegnato un grande valore al tema lavoro in gruppo che è stato l’aspetto più menzionato delle attività di collaborazione online. Lo sviluppo delle competenze sociali durante il lavoro di squadra è stato considerato molto importante dai partecipanti come emerge dal seguente esempio: “[...] Wiki è una palestra per le abilità sociali anche per noi adulti, esattamente come per i nostri bambini a scuola, cui ogni giorno cerchiamo di insegnare a collaborare, cooperare, a vedere le diversità dei singoli come risorsa. E laddove risulta un po’ più faticoso capirsi, è senz’altro opportunità significativa per crescere insieme”. Questo dato supporta i risultati della ricerca condotta da Jones & Issroff (2005), che hanno fornito evidenze riguardo alla dimensione affettiva e sociale nelle attività di apprendimento collaborativo supportato dal computer. Gilbert et al. (2007) hanno riportato che i forum di discussione e altre interazioni degli studenti sono stati citati dai partecipanti

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come uno degli aspetti più importanti delle attività online, mentre So & Brush (2008) considerano le percezioni degli studenti sull’apprendimento collaborativo un indicatore di soddisfazione dei corsi online. Johnson et al. (2008) hanno dimostrato che l’interazione è legata alla prestazione e alla soddisfazione del corso. La collaborazione online è stata utile per i processi di apprendimento e i partecipanti della presente ricerca hanno riportato aspetti quali “è stato bello perché sono stato coinvolto a collaborare con altri colleghi durante le attività”, ed “è stato importante per il continuo interscambio di idee tra persone che condividono gli stessi obiettivi”. L’importanza di essere membro effettivo di un gruppo è stato considerato un fattore cruciale per lo sviluppo della collaborazione così come riportato dai partecipanti: “abbiamo realizzato un prodotto che è in realtà l’espressione di un lavoro di squadra”, e “abbiamo lavorato in collaborazione a più mani sullo stesso documento”. I membri del gruppo hanno collaborato e hanno stabilito una coesione di gruppo durante la realizzazione del compito: “abbiamo condiviso conoscenze e competenze che ci hanno sostenuto l’un l’altro”, dimostrando il rapporto reciproco che è intercorso tra i membri del gruppo. Questi risultati sono coerenti con risultati di ricerche analoghe di Anderson & Simpson (2004, 2) che ha riferito: “quando gli studenti sono distanti, la comunicazione online è un mezzo efficace per accomunare gli studenti e per sviluppare un senso di comunità”. La sensazione di essere parte di una comunità promuove i processi di apprendimento degli studenti. Si potrebbe sostenere la rilevanza degli aspetti sociali e che la sensazione di essere parte di una comunità di apprendimento è una caratteristica importante legata al processo di studio. Altri aspetti considerati sono stati quelli operativi, con circa il 22% delle risposte. I commenti riportati dai partecipanti sono stati connessi all’utilizzo della piattaforma che è stata considerata particolarmente utile per la collaborazione online e per la produzione di un documento collettivo. “Wiki è una risorsa preziosa: mi piace definirla un vero ‘cantiere di lavori in corso’. Nelle varie sezioni si entra con la possibilità di rivedere i percorsi, di modificarli a più mani con la sicurezza dello storico che mantiene traccia per eventuali ripensamenti [...] Non è da poco! È un ambiente – comunità di pratica, in cui si co-costruisce – limando, togliendo, aggiungendo, ampliando, migliorando – per arrivare a risultati che possono essere considerati validi soprattutto dal punto di vista qualitativo del prodotto e del processo.” Inoltre, sono stati menzionati altri aspetti pratici, tra cui la flessibilità di wiki come facilitatore per lo sviluppo delle attività collaborative online: “È stato utile perché ci ha permesso di contribuire, quando il lavoro era già iniziato, di fare degli aggiornamenti, di inserire i nostri punti di vista personali e queste modifiche non erano definitive poiché era possibile qualsiasi aggior namento”. Questo risultato è supportato da ricerche analoghe condotte da Wheeler et al. (2008) che hanno analizzato i vantaggi nell’uso di wiki. Un altro aspetto interessante legato al modo di lavorare era la percezione dello sviluppo del lavoro e vedere come il prodotto prendeva forma: “è stato interessante osservare come dalle prime idee, gradualmente, grazie agli interventi chiarificatori dell’una e dell’altra, si siano definiti i nuclei intorno ai quali lavorare. Successivamente è stato sicuramente arricchente il poter contare sulle diverse esperienze reciproche per poter definire in pratica le attività da svolgere”. L’attività collaborativa online ha sviluppato anche la percezione che il dominio cognitivo sia stato importante, come testimoniato da circa il 14% delle risposte. I partecipanti hanno menzionato processi legati alla dimensione sociale dello sviluppo cognitivo, come “ho imparato a cooperare e collaborare”, e “ho imparato dagli altri che sapevano più di me”, che ha dimostrato l’importanza dell’apprendimento tra pari, in accordo con EL-Deghaidy & Nouby (2008) che hanno riportato l’apprendimento tra colleghi come un aspetto

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rilevante di un’attività collaborativa di e-learning. Potrebbe essere discussa anche la qualità dei processi cognitivi e di come si sono svolti durante le attività. Diversi studi hanno evidenziato che nei forum di discussione online ci sono ampie interazioni in cui si verificano processi quali fornire informazioni ed esplorare idee, ma sono meno presenti elaborazioni più complesse come l’integrazione di idee e la sintesi (Anderson & Simpson, 2004). Nella ricerca presente sembra che anche i livelli superiori di abilità cognitive siano stati coinvolti in quanto i partecipanti hanno riferito aspetti quali: “abbiamo analizzato e integrato i diversi punti di vista”, che dimostra come l’ambiente virtuale wiki permette agli studenti di sintetizzare in modo collaborativo conoscenze disciplinari specifiche, sviluppando anche la capacità di pensiero critico. Questi risultati sono coerenti con Bliuc, Ellis, Goodyear & Piggott (2011) che hanno dimostrato una profonda attenzione su aspetti specifici durante le discussioni asincrone. Si potrebbe sostenere che anche altre caratteristiche oltre lo strumento wiki sono state rilevanti, come la pianificazione, considerato che ricerche precedenti hanno dimostrato che la progettazione didattica potrebbe influenzare il modo con il quale i partecipanti interagiscono (Anderson & Simpson, 2004). Nella ricerca attuale, il compito di pianificazione curricolare è stato concepito per sviluppare le abilità con le quali integrare diverse modalità e facilitare la sintesi dei concetti poiché il risultato finale non era solo una mera discussione, ma un prodotto definito (l’unità di apprendimento). Anche la dimensione del piccolo gruppo ha intensificato le possibilità di impegnarsi e di avere maggiori opportunità per l’integrazione dei diversi punti di vista: “È stato molto sorprendente sviluppare una tale varietà di apprendimenti interessanti all’interno del gruppo”, ha detto uno dei partecipanti. Il tutor online ha avuto un ruolo fondamentale in questo, facilitando i processi e guidando le attività verso livelli cognitivi di ordine superiore (Anderson & Simpson, 2004). Il tema emotivo/etico ha avuto circa l’8% delle risposte dei partecipanti che hanno riportato un ambiente positivo e una crescita personale: “l’ambiente cordiale e il lavoro di squadra sono state delle condizioni favorevoli e questo ha facilitato il processo”. Inoltre, sono stati segnalati i seguenti aspetti etici: “Ho sviluppato il mio senso di responsabilità” e “lavorare in wiki offre interessanti opportunità di miglioramento e di confronto, poiché permette di integrare i contenuti o di inserirne di nuovi in una dimensione di rispetto verso tutti i collaboratori [...] credo che la possibilità di lavorare insieme con questo strumento costituisca una vera potenzialità in termini di crescita professionale”. Questo aspetto è coerente con i risultati di altri studi in cui è stata dimostrata la rilevanza degli aspetti emotivi nell’apprendimento collaborativo supportato dal computer (Jones & Issroff, 2005). Questi risultati hanno fornito evidenze che nell’ambiente virtuale, così come nell’ambiente in presenza, sono coinvolti aspetti sociali ed emotivi. Infine, il 5% delle risposte ha riguardato l’organizzazione, riportando gli aspetti legati alla gestione del lavoro di gruppo, come l’articolazione della pianificazione di gruppo e il carico di lavoro: “è stato utile per organizzare l’attività”, “è stato utile per una pianificazione razionale del tempo” sono stati alcuni commenti segnalati dai partecipanti. C’è stato anche un riferimento al coordinamento delle attività dei gruppi: “abbiamo distribuito il carico di lavoro in modo organizzato”. Questo tema non è stato molto menzionato dai partecipanti in quanto ha ricevuto solo il 5% delle risposte totali, probabilmente perché è stato il fattore più importante da migliorare, come si vedrà di seguito.

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Terza domanda della ricerca (Qual è la prospettiva dei partecipanti rispetto agli aspetti più significativi da migliorare delle attività collaborative online?) La collaborazione online ha anche alcuni aspetti da migliorare, così come hanno riportato i partecipanti nel questionario di autovalutazione. Le risposte alla domanda sugli aspetti da migliorare hanno fornito alcuni interessanti suggerimenti sintetizzabili nei seguenti quattro temi: lavoro in gruppo, operativo, organizzativo ed emotivo/etico. Il punto di vista dei partecipanti ha assegnato un grande valore al tema dell’organizzazione con il 42% delle risposte, che può essere considerato l’aspetto più rilevante da migliorare del modulo online. Elementi quali più coordinamento e organizzazione, gestione del lavoro, la mancanza di collegamenti tra gli aspetti, una maggiore divisione del lavoro e un tempo di lavoro più rilassato sono stati suggeriti per migliorare l’organizzazione del modulo. Uno dei partecipanti ha riportato: “L’organizzazione rappresenta secondo me il punto centrale della metodologia Wiki: la suddivisione dei compiti (spesso ad intreccio) e l’abilità dei componenti del gruppo permettono di costruire un progetto che singolarmente è impossibile fare. Bisogna essere disposti a scrivere, modificare e a perdere le proprie idee”. È stata inoltre menzionata l’importanza di specificare con chiarezza i compiti all’interno del gruppo: “L’unica cosa, forse, è definire meglio i compiti che ognuno dovrebbe avere.” Un partecipante ha affrontato l’importanza di avere un coordinatore all’interno del gruppo: “il riconoscere fin da subito una ‘figura di coordinamento dei lavori’, che in altri corsi abbiamo chiamato ‘segretaria’, avrebbe agevolato sin da subito il percorso: non è facile, tra tante teste pensanti e quindi tante idee, trovare subito la strada da percorrere e il modo di operare. Questo inoltre, proprio perché è anche un lavoro di mediazione, cooperazione e revisione continua, avrebbe richiesto un po’ più di tempo”. Altri partecipanti hanno espresso opinioni diverse: “la dimensione del piccolo gruppo è stata importante così come la collaborazione tra pari, senza avere un coordinatore che guidava il gruppo”; “proficuo il numero limitato dei membri del gruppo e la collaborazione alla pari senza cioè un coordinatore incaricato di tenere le fila del gruppo” e “non vedo invece opportuno il coordinatore di gruppo, perché non trovo giusto che ci sia chi deve impegnarsi più di altri”. Altre osservazioni hanno fornito esempi di aspetti di organizzazione del lavoro da migliorare: “è importante trovare il modo di coordinare meglio le varie parti del testo” e “l’organizzazione settoriale del lavoro non permette un facile controllo di tutto il documento”. Il tema operativo è stato rilevante con il 28% delle risposte e aspetti come “l’aggiornamento delle modifiche” e “software troppo sofisticato” sono stati alcuni commenti proposti. Uno dei partecipanti ha suggerito di utilizzare più tecniche: “Sarebbe interessante, ma non so se è tecnicamente possibile, supportare la metodologia wiki con uno strumento di comunicazione sincrona, come la chat”. Questi risultati sono in accordo con quelli ottenuti nella ricerca condotta da Wheeler et al. (2008) nella quale sono stati segnalati alcuni problemi con il software durante le attività collaborative online. Il tema del lavoro in gruppo ha rappresentato circa il 22% delle risposte dei partecipanti, che hanno segnalato principalmente più coesione, collaborazione e discussione all’interno del gruppo. La questione della costituzione del gruppo e la coesione è stata menzionata in particolare da un partecipante: “Di per sè la modalità di lavoro online con Wiki non è complessa, anzi è stimolante, ma presuppone un feeling tra i componenti del gruppo non così semplice da costruire. Si spende tempo inizialmente per “conoscersi” e “rompere il ghiaccio”, come si suol dire. Poi, nel pieno dell’attività, può capitare di fare proposte che non vengono capite da alcuni componenti del gruppo (a me è capitato). Talvolta si teme di intervenire nel lavoro degli altri in modo troppo invasivo”. Questa affermazione dimostra

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che l’apprendimento collaborativo online funziona se si è in grado di instaurare delle dinamiche di gruppo. Questi risultati sono in accordo con la ricerca di Dewiyanti et al. (2007) che hanno dimostrato che la coesione di gruppo influenza la soddisfazione degli studenti nell’apprendimento collaborativo. Altri commenti sono stati:“il problema principale è stato un diverso livello di partecipazione”, dimostrando che la natura del piccolo gruppo influenza in larga parte il lavoro e l’esito positivo dipende dalla partecipazione di tutti (Anderson & Simpson, 2004; Gilbert et al., 2007). Se uno o due partecipanti in un gruppo di quattro o cinque decidono di non partecipare, o partecipano impegnandosi al minimo, questo comportamento influisce in modo significativo sul numero dei potenziali legami, riducendo la qualità dei processi indotti. C’è una differenza tra la ricerca attuale e una precedente ricerca di Anderson & Simpson (2004) nella quale la non partecipazione alle attività di gruppo online è stata la principale preoccupazione espressa dai partecipanti, mentre nella ricerca corrente è stato la terza questione in base alle percentuali riscontrate. Questi risultati potrebbero essere spiegati dalle diverse caratteristiche dei partecipanti e dall’organizzazione dei due studi. L’ultimo tema è stato quello emotivo/etico con circa il 6% delle risposte e sono stati espressi commenti del tipo “maggiore fiducia nello strumento wiki e nelle possibilità che offre”, “senso etico più marcato” e “scarso rispetto reciproco”. Questi risultati confermano l’importanza già citata di aspetti emotivi in ambienti virtuali con apprendimento collaborativo (Johnson et al., 2008; Jones & Issroff, 2005; So & Brush, 2008).

Conclusione La presente ricerca ha fornito evidenze riguardo alla prospettiva valutativa dei partecipanti rispetto a vari aspetti di un modulo di e-learning, basato sulla proposta di attività di collaborazione in un ambiente asincrono, e ha fornito informazioni sui processi che si sono verificati. Per la maggior parte degli studenti, le attività in piccoli gruppi hanno contribuito a sviluppare le loro competenze professionali e migliorare la comunicazione e le abilità sociali, dimostrando che anche in ambienti virtuali la collaborazione è un elemento formativo importante. Tra i diversi benefici riportati si rilevano lo sviluppo di abilità per il lavoro in gruppo, l’attitudine a collaborare, lo sviluppo di processi cognitivi quali l’analisi e l’integrazione di punti di vista differenti, la comprensione dei propri limiti e dei limiti altrui e lo sviluppo di un senso di responsabilità e rispetto verso gli altri. Questo risultato è in accordo con diversi studi analoghi in letteratura (Anderson & Simpson, 2004; Baturay & Bay, 2010; Nevgi, Virtanen & Niemi, 2006; Palmer & Holt, 2010; Tsai, 2010) che hanno evidenziato i numerosi vantaggi nella partecipazione all’attività di collaborazione in un ambiente virtuale online, ivi compreso lo sviluppo delle competenze di lavoro di gruppo, l’atteggiamento nel collaborare, lo sviluppo dei processi cognitivi come l’autoanalisi e lo sviluppo del senso di fiducia rispetto alla disciplina insegnata. Oltre all’importanza del lavoro in piccoli gruppi, i partecipanti hanno segnalato anche problemi organizzativi e operativi nelle attività. L’organizzazione è stata considerata un punto cruciale che deve essere considerato attentamente per il buon funzionamento del gruppo. Anche il diverso livello di partecipazione individuale nelle attività in piccoli gruppi è stato considerato un aspetto da migliorare per lo sviluppo della motivazione e dell’impegno all’interno del gruppo.Tenendo conto che i risultati dello studio possono essere confrontati con altre ricerche sulle esperienze degli studenti sull’e-learning (Biasutti, 2011; Gilbert et

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al., 2007; Seddon & Biasutti, 2009), una panoramica completa di come i partecipanti hanno percepito l’attività collaborativa potrebbe avere implicazioni pratiche per la progettazione di nuovi moduli collaborativi in ambienti virtuali. L’organizzazione di gruppo è stata considerata una questione cruciale che deve essere tenuta attentamente sotto controllo per il buon funzionamento dei sottogruppi. Un altro aspetto che può essere potenziato per indurre uno sviluppo professionale dei partecipanti è la fase di valutazione che potrebbe essere utilizzata come modo per sviluppare la consapevolezza delle loro potenzialità come docenti. I partecipanti hanno riferito diversi dati interessanti sui processi sperimentati durante le attività online. Follow-up di discussione quali focus group o altro potrebbero essere utili per sondare ulteriormente i processi di apprendimento coinvolti nell’attività online collaborativa e per lo sviluppo di strategie metacognitive e di attività sui processi di self-assessment e di auto-riflessione (Biasutti, 2010; 2012). Riguardo alle prospettive, i risultati di questo studio hanno potenziali implicazioni per il settore di ricerca sugli ambienti virtuali e sostengono la necessità di ulteriori studi sulla natura dei processi indotti durante le attività di collaborazione online.Tutti gli aspetti elencati hanno fornito uno scenario ricco e completo di come i partecipanti hanno valutato l’esperienza online. Questi aspetti potrebbero essere utili per lo sviluppo di un questionario strutturato a domande chiuse in un contesto di ricerca quantitativa per valutare gli effetti delle attività online collaborative testando le metodologie utilizzate con un disegno sperimentale definito.

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Ricerche La prospettiva inclusiva. Dalla risposta “specialistica” alla risposta “ordinaria” The inclusive perspective. From the “specialist response” into an “ordinary” ROBERTA CALDIN • ALESSIA CINOTTI • LUCA FERRARI* Le trasformazioni sociali, l’eterogeneità delle classi, la frequente delega da parte della famiglia verso gli insegnanti, per quanto concerne l’educazione dei figli, richiedono alla scuola di far fronte a nuove tematiche educative. Dinanzi a questo scenario, il contributo presenta alcuni risultati della ricerca “Screening e formazione sull’imparare a studiare” che ha promosso la sperimentazione e la diffusione di azioni didattiche e metodologie inclusive attraverso cui sostenere i processi di insegnamento/apprendimento e i metodi di studio in tre scuole dell’EmiliaRomagna. Come dimostreremo, l’incontro e il dialogo tra insegnanti/genitori e alunni è una dimensione ineludibile per attuare una corresponsabilità educativa, attraverso la condivisione di una pluralità di metodi, nell’educazione delle nuove generazioni.

The social transformations, the variety of classes, the high frequency of delegation by the family to teachers concerning the education of children, require to the school to face off with new educational issues. Related to this scenario, this paper presents some results of the research “Screening on learning to learn: inclusive educational approaches to supporting study methods in Primary School” that promoted the experimentation and dissemination of teaching actions and inclusive methodologies through which support the processes of teaching/ learning and the study methods in three schools of Emilia-Romagna. As we are going to demonstrate, the encounter and the dialogue between teachers/parents and pupils is an inescapable dimension to implement the educational co-responsibility, through the sharing of a variety of methods in order to educate the new generations.

Parole chiave: educazione inclusiva, insegnamento/apprendimento, metodi di studio, progettualità.

Key words: inclusive education, teaching/learning, study methods, life project planning.

* Il presente contributo, completamente condiviso dai tre autori, è stato così stilato: §§ 2 e 6 da Roberta Caldin, §§ 1 e 5 da Alessia Cinotti e §§ 3 e 4 da Luca Ferrari.

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2038-9736 (in press) / ISSN 2038-9744 (on line) Giornale Italiano della Ricerca Educativa • anno VI – n. 11 – dicembre 2013

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La prospettiva inclusiva. 1 Dalla risposta “specialistica” alla risposta “ordinaria”

1. Dall’educazione “speciale” all’educazione “per tutti” A partire dal 1990, il dibattito politico e scientifico internazionale promuove un concetto di inclusione in cui accesso e partecipazione di tutti gli alunni (disabili inclusi) sono considerati priorità educative. Inoltre, l’UNESCO (2000) raccomanda di sostituire il termine di “Bisogni Educativi Speciali” con “Educazione per tutti”; al fine di promuovere un cambiamento educativo e culturale, il concetto di “Educazione per tutti” mira a considerare la diversità come un valore. Come indica la Dichiarazione di Madrid (2002), l’istituzione scolastica costituisce per molti minori con disabilità, e non solo, una delle opportunità educative più importanti e significative della vita, attraverso l’incontro con potenziali adulti significativi per la crescita e lo sviluppo psico-sociale di ogni bambino/a. La Pedagogia Speciale – in un’ottica fortemente integrata con le competenze della scuola e della famiglia – è chiamata a far fronte a nuove sfide educative e sociali (Cottini, 2004). Crediamo che la strada da seguire sia quella dell’inclusione, secondo un approccio che sappia prendere in considerazione almeno le seguenti dimensioni: • guardare alla globalità delle sfere educativa, sociale e politica; • prendere in considerazione tutti gli alunni; • intervenire prima sui contesti e poi sull’individuo; • trasformare la risposta specialistica in ordinaria (Caldin, 2009); • rifarsi al modello sociale della disabilità e al costrutto di empowerment il quale mette al centro di tutti i processi decisionali il disabile stesso e i suoi familiari (D’Alessio, 2011). Certamente, trasformare la risposta “specialistica” in “ordinaria” appare una delle sfide più importanti e, allo stesso tempo, più complesse all’interno del nostro sistema educativo e sociale, laddove la focalizzazione sulla persona disabile (e/o su altre fasce vulnerabili) sembra ancora prevalere a discapito di un approccio inclusivo di ampio respiro. Alcuni studi condotti in ambito nazionale e internazionale sul mondo della scuola hanno evidenziato una pluralità di fattori che possono facilitare/ostacolare l’inclusione: «gli aspetti organizzativi, i quadri normativi, le modalità di insegnamento, la disponibilità di insegnanti di sostegno e altro personale educativo, la formazione di docenti, il coinvolgimento della famiglia e la collaborazione con altri servizi» (Dovigo, 2008, 25). L’ inclusione necessita di adulti significativi di riferimento, capaci di lavorare assieme e di offrire non solo un sistema “custodialistico”, ma di convivenza plurale attraverso l’esercizio della quotidianità (Sapucci, 2007), l’incontro, il dialogo e l’arricchimento reciproco. Gli stessi Stainback e Stainback (1990) ritengono che la nozione di inclusione sia un imperativo morale che non dipende dai risultati e dalle prove empiriche delle ricerche scientifiche: l’inclusione è un modo di vivere onestamente, eticamente e con equità. I due studiosi propongono un paradigma etico secondo il quale «tutti gli individui hanno il diritto morale

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di essere educati nella scuola comune e che l’inclusione è il contesto ideale per realizzare questo obiettivo» (Stainback & Stainback, 1990, 71-87). Come indica D’Alessio (2011), l’educazione inclusiva è collegata alla possibilità di educare tutti/e le bambini/e e al miglioramento della loro qualità di vita. In tal senso, la prospettiva inclusiva non vincola se stessa al processo di scolarizzazione degli studenti disabili nelle classi comuni (Booth & Ainscow, 2002); l’educazione inclusiva riguarda la società più ampia, in cui l’educazione è concepita come un agente di cambiamento, piuttosto che un riproduttore delle disuguaglianze sociali (F.Armstrong & Barton, 1999). La scuola dovrebbe essere il luogo dove a ciascun/a alunno/a viene garantito il diritto di apprendere secondo le proprie capacità ed inclinazioni, offrendo delle risposte educative e delle metodologie didattiche in linea con le trasformazioni del tessuto sociale. Si ritiene che la scuola sia il contesto che debba promuovere inclusione e ridurre esclusione, impegnandosi a superare il paradigma assistenzialista e normalizzante che continua a connotare e a pervadere molte culture, politiche e pratiche dei processi di integrazione scolastica in Europa (Caldin, 2009).

2. La ricerca “Screening e formazione sull’imparare a studiare” Il progetto di ricerca “Screening e formazione sull’imparare a studiare. Approcci educativi inclusivi alle abilità e ai metodi di studio” (condotto nel 2011-2012) e promosso dal Laboratorio Inclusione e Tecnologie (LAB-INT) del Dipartimento di Scienze dell’Educazione “G.M. Bertin” dell’Università di Bologna, con la collaborazione dell’Ufficio Scolastico Regione Emilia-Romagna, verte sul riconoscimento e sull’individuazione dei bisogni educativi di classi scolastiche, cosiddette ad “alto tasso di complessità” nella regione Emilia-Romagna (ER). Con classe ad “alto tasso di complessità” intendiamo quella con un alto numero di alunni, tra cui un’elevata percentuale di alunni con disabilità, alunni con disturbo dell’apprendimento, alunni per i quali è in corso una certificazione e/o con una diagnosi non chiara; e ancora, alunni in situazione di povertà socio-culturale ed economica, oppure alunni disabili provenienti da famiglie migranti (Graf. 1).

Graf.1: Informazioni preliminari sugli alunni

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A partire dal riconoscimento e dall’individuazione dei bisogni, delle potenzialità e delle difficoltà delle scuole coinvolte, la ricerca ha promosso la sperimentazione e la diffusione di azioni didattiche e metodologie attraverso cui sostenere i processi di insegnamento/apprendimento e i metodi di studio nelle realtà educative considerate. La presenza degli alunni disabili nella scuola di tutti rappresenta un indicatore di inclusività del sistema educativo e, come indicano Stainback e Stainback (1990), l’inclusione si prefigura come una modalità esistenziale, un imperativo etico, un diritto base che nessuno deve guadagnarsi; di conseguenza, non è necessario dimostrare il valore pedagogico della vita in comunità e dell’apprendimento in una scuola comune. I ricercatori impegnati hanno effettuato scelte pedagogico-educative in linea con quanto emergeva dalla quotidianità, dai bisogni reali e dalle difficoltà degli/delle alunni/e (Zappaterra, 2010); soltanto in questo modo, infatti, riteniamo possibile garantire un miglioramento della qualità dei processi di insegnamento/apprendimento, grazie anche alla sperimentazione di nuove prassi che possano acquisire, per tutti gli attori coinvolti nel processo di ricerca (insegnanti, alunni, genitori) le caratteristiche della gradualità, applicabilità e sostenibilità.

3. L’impianto metodologico Ipotesi Agganciandoci ai quadri concettuali dell’approccio inclusivo sopramenzionato, l’ipotesi che ha guidato la progettazione del percorso di ricerca prevede che per attuare azioni didattiche e metodologie inclusive nella scuola primaria sia necessario – prima di tutto – agire sui contesti e poi sugli individui. Evidentemente, la scuola potrebbe svolgere un ruolo chiave nel facilitare i processi inclusivi di tutti i bambini e le bambine essendo il luogo per eccellenza atto a rispondere – attraverso l’attivazione di didattiche rispondenti all’eterogeneità dei gruppi classe – ai bisogni di tutti i bambini (alunni disabili, provenienti da contesti socioculturali svantaggiati, migranti, di eccellenze, ecc.). Di seguito, elenchiamo le ipotesi specifiche della ricerca: • gli strumenti messi a punto per l’analisi del contesto (insegnanti e alunni) hanno la caratteristica di validità nella rilevazione dei processi di apprendimento/insegnamento nel contesto classe, inteso come cornice significante dell’attività didattica; • gli strumenti messi a punto per l’analisi del contesto (la famiglia) hanno la caratteristica di validità nella rilevazione dei processi di apprendimento che avvengono a casa, inteso come cornice significante per l’apprendimento dei bambini e delle bambine; • la sperimentazione congiunta scuola-famiglia delle azioni didattiche e relativa restituzione dei dati promuovono processi di riflessione negli insegnanti, sia a livello individuale che collegiale con ricadute nella ri-progettazione didattica. La restituzione dei dati consente all’insegnante di riflettere e di individuare punti di forza e di criticità in merito alle proprie prassi, all’organizzazione (spazio, tempi, materiali) e alla progettazione dell’attività didattica; • la sperimentazione congiunta scuola-famiglia delle azioni didattiche e la relativa restituzione dei dati promuovono processi di riflessione dei genitori sia a livello individuale che di gruppo, per individuare punti di forza e di criticità in merito alle proprie competenze educative; • la sperimentazione congiunta scuola-famiglia delle azioni didattiche e la relativa restituzione dei dati, promuovono processi di riflessione degli alunni sia a livello individuale sia

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di gruppo, per riflettere sul proprio metodo di studio e, conseguentemente, individuarne i punti di forza e di criticità; • la corresponsabilità educativa innalza la qualità della scuola inclusiva. La corresponsabilità consente di condividere obiettivi educativi e di dare a ciascun attore (insegnanti, alunni, genitori) un proprio specifico know how. Ci sono, poi, alcune caratteristiche tipiche della ricerca-azione che sono emerse durante il nostro intervento. Gli obiettivi non possono essere mai troppo definiti, i risultati di una fase condizionano gli obiettivi di quella successiva, diversificando ipotesi e strategie d’intervento. Il coinvolgimento attivo (in fase ideativa, progettuale, decisionale ecc.) degli attori della sperimentazione è un elemento cruciale in tutte le fasi del ciclo di vita del progetto, come le differenti ricadute della sperimentazione e le progettualità differenziate in base ai bisogni dei singoli contesti. Infine, il riconoscimento dell’impossibilità di generalizzazione dei risultati conseguiti: la finalità, piuttosto, è quella di individuare una esemplarità dei risultati. Obiettivi guida della ricerca Gli obiettivi guida della ricerca sono stati quelli di: • sostenere gli alunni a riconoscere/acquisire un proprio metodo di studio; • rafforzare negli insegnanti le competenze necessarie a sviluppare metodologie didattiche non tradizionali e strumenti multimediali (es. utilizzo della LIM); • potenziare la co-responsabilità educativa in riferimento al costrutto di empowerment. Partecipanti Il campione è costituito da 31 insegnanti, 51 genitori e 229 alunni (classi III, IV,V) provenienti da tre scuole primarie del territorio emiliano romagnolo (Bologna, Ferrara, Forlì). Le fasi della ricerca Per esplorare i metodi di studio degli alunni e le strategie di insegnamento/apprendimento messe in atto dagli insegnanti, la ricerca ha previsto l’adozione di una pluralità di strumenti di indagine differenziati per fasi di lavoro. Ciascuna di queste fasi, anche se presa ed analizzata singolarmente, va sempre considerata come strettamente legata con le fasi precedenti e/o successive, poiché questo percorso di ricerca ha visto l’intrecciarsi costante di più attori (insegnanti, genitori, alunni), a partire da una molteplicità di strumenti volti ad indagare il metodo di studio (a casa e a scuola) e di insegnamento nella scuola primaria. Possiamo sintetizzare le fasi di ricerca nei seguenti cinque punti: • preparazione alla ricerca; • conoscenza del contesto; • conoscenza delle strategie di studio degli alunni e delle alunne; • conoscenze delle strategie, dei metodi di insegnamento e formazione; • proposta di azioni didattiche, sperimentazione e successivo monitoraggio. Analisi del contesto Dopo una fase di coordinamento tra Università, USR ER e scuole sono stati avviati alcuni incontri in presenza – con Dirigenti scolastici e insegnanti – volti alla condivisione del macro piano d’azione della ricerca. Durante gli incontri è stato messo a punto, con la collaborazione degli insegnanti, una scheda per la raccolta delle informazioni sulla classe, mirata a rilevare alcune caratteristiche di contesto. La scheda, compilata online dagli insegnanti, si articolava in due sezioni: informazioni sugli insegnanti e informazioni sugli alunni. Per quanto riguarda

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gli insegnanti, sono state esplorate le seguenti variabili: genere, figura professionale, anni di insegnamento, anni di lavoro nella scuola, numero di alunni seguiti per classe, tipologia di contratto. Per quanto riguarda gli alunni, le variabili considerate sono state: il numero di alunni seguiti per classe, il genere, la presenza di alunni con disabilità, D.S.A., ospedalizzati, alunni con accertamenti diagnostici in corso e alunni spesso assenti. I risultati si possono sintetizzare nel concetto sopra esposto di “classe ad alta complessità” come esemplificato nel Grafico 1. Conoscenza dei metodi di studio degli/delle alunni/e a scuola e a casa Le strategie di studio adottate dagli alunni/e in classe, prima e durante la lezione, prima di una verifica scritta e/o orale sono state rilevate attraverso un questionario e due prove strutturate somministrate agli alunni in aula. Le strategie di studio sono state esplorate attraverso la somministrazione in aula di due prove: la prova Amos e la prova di tipo metacognitivo. Il test Amos 8-15 (Cornoldi, 2005) è una batteria di valutazione e autovalutazione delle abilità di studio, degli stili cognitivi e delle componenti motivazionali dell’apprendimento, che consente sia di riconoscere i punti di forza e i punti deboli delle strategie di studio degli alunni, sia di avviare attività mirate alla promozione di metodi di studio efficaci e al sostegno delle componenti di motivazione legate ai processi di apprendimento. La prova metacognitiva di comprensione del testo è stata utilizzata per rilevare e verificare, invece, l’approccio allo studio, la capacità di comprensione di un testo, e le strategie messe in atto per avanzare ipotesi sul contenuto per individuare le parti più importanti e per porsi delle domande sul testo. La prova presentata agli alunni era articolata in due parti: la prima richiedeva lo studio di un testo e la seconda prevedeva la risposta ad alcune domande chiuse e aperte inerenti al testo stesso. È stato, inoltre, consegnato agli alunni un foglio bianco sul quale, facoltativamente, potevano riportare il riassunto dell’elaborato sia in forma di mappa concettuale sia in forma di disegno. A completamento dell’analisi di contesto sono state svolte, successivamente alle prove sopra citate, delle video interviste in cui si chiedeva agli alunni di descrivere le strategie di studio utilizzate a casa e a scuola. Focus group famiglie Per affrontare la tematica relativa ai metodi di studio degli alunni sono stati condotti dei focus group con i genitori ai quali si domandava se e quale tipo di supporto veniva offerta ai figli durante lo studio a casa. Le domande poste sono state: i genitori aiutano i figli durante lo svolgimento dei compiti? Quali strategie vengono messe in atto? Quale consapevolezza hanno i genitori rispetto ai metodi di studio attivati dai propri figli? La scelta di condurre i focus group con i genitori è stata dettata dalla necessità di affrontare le tematiche relative ai compiti a casa in una situazione di gruppo, nella quale ai genitori è stata data la possibilità di riportare la propria testimonianza e, allo stesso tempo, di ascoltare le esperienze di altri genitori attraverso una condivisione volta alla conoscenza reciproca. Focus group insegnanti Il riconoscimento delle strategie di insegnamento nel contesto classe viene sostenuto e approfondito attraverso un focus group organizzato in un momento successivo a quello delle prove sostenute dagli studenti e dai focus group dei genitori. La decisione di condurre un focus group con gli insegnanti è stata determinata dall’idea di creare un percorso condiviso, mai slegato dagli altri partecipanti, che facesse in modo che gli insegnanti divenissero l’elemento di congiunzione rispetto a quella che sarebbe stata la fase di sperimentazione

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Formazione agli insegnanti Riferendoci al ruolo assegnato dagli insegnanti alle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (TIC), per sostenere i metodi d’insegnamento e apprendimento, i dati raccolti durante la prima fase della ricerca evidenziavano una bassa propensione da parte del corpo docente nell’impiego didattico di strumenti audiovisivi, del computer e della Lavagna Interattiva Multimediale (LIM). L’accompagnamento degli insegnanti è stato pensato allo scopo di superare le difficoltà e le resistenze principalmente causate dalla scarsa conoscenza delle potenzialità educative degli strumenti informatici e, soprattutto, dalla paura legata alla ingovernabilità delle “macchine” all’interno del contesto didattico (Graf. 2).

Graf. 2: Frequenza d’uso del PC

Dopo una fase di analisi dei bisogni degli insegnanti è stato ideato un percorso di formazione e accompagnamento del corpo docente rispetto all’uso competente delle TIC per l’insegnamento e l’apprendimento. Una formazione indirizzata a: • formalizzare e condividere i saperi e le pratiche già agite dagli insegnanti; • co-costruire conoscenze e metterle in condivisione tra tutti gli attori coinvolti; • cercare risposte differenti sulla base dei diversi contesti di ricerca; • suggerire azioni implementative (e non sostitutive) per rafforzare, attraverso il supporto delle TIC, alcuni aspetti relativi ai metodi di studio (aspetti cognitivi, sociali, organizzativi, ecc.). Sono state organizzate due iniziative di formazione: la prima sull’uso didattico della lavagna interattiva, la seconda sulla creazione di mappe concettuali per l’inclusione (Fogarolo, 2007). Entrambe le iniziative avevano l’obiettivo sia di sensibilizzare gli insegnanti a comprendere e a sperimentare il potenziale didattico delle TIC, sia di coinvolgerli nella individuazione/creazione di percorsi didattici potenzialmente realizzabili nei contesti territoriali, in cui le scuole erano collocate. Le dimensioni pedagogiche e metodologiche che hanno guidato la costruzione e la realizzazione del piano di formazione valorizzano il concetto di modello tecnologico problematico (Guerra, 2002, 2011). L’idea di complessità dei modelli tecnologici dell’educazione riprende i temi del problematicismo pedagogico (Bertin, 1975) e si impegna a implementare le tecniche e i loro strumenti valorizzando la possibile positiva compresenza di ipotesi pedagogiche diverse. Secondo il problematicismo, la teoria non tratta direttamente della prassi, ma di modelli educativi e sono questi ultimi ad esercitare una funzione guida verso la prassi (Baldacci, 2010). Come indica Baldacci, «un modello salda in una medesima armatura concettuale l’elemento teleologico (uno o più fini formativi) con quello metodologico (una o più tecniche didattiche), facendo di questi elementi due facce della medesima medaglia pedagogica» (Baldacci, 2010, 67).

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4. Le azioni didattiche L’avvio dell’ultima fase del progetto, costituita da due diversi momenti – sperimentazione e monitoraggio – è stata il frutto non solo di uno screening iniziale dei bisogni educativi delle realtà scolastiche incontrate, ma anche di un continuo confronto con le/gli insegnanti, che ha dato luogo ad uno spazio per condividere tutti i dati raccolti nelle precedenti fasi, con la finalità di co-costruire (Bruner, 1996; Vygotskij, 1971) le azioni didattiche proprie della fase della sperimentazione. Questa fase – settembre/dicembre 2012 – ha previsto una sperimentazione congiunta tra scuola e famiglia della durata di quattro settimane, secondo un modello di corresponsabilità educativa di tutti gli attori (insegnanti, genitori, alunni). Agli insegnanti, mediante la sottoscrizione di un patto formativo, sono state indicate cinque azioni didattiche finalizzate a supportare i processi di insegnamento/apprendimento. In continuità con il lavoro svolto a scuola, anche ai genitori, nello stesso arco temporale, sono state proposte le medesime azioni didattiche, mediante la sottoscrizione di un analogo patto formativo. È importante sottolineare come tutte le azioni proposte siano state predisposte sulla base delle azioni didattiche maggiormente utilizzate in classe, nonché sulle metodologie già in essere, rafforzando l’esperienza degli insegnanti in una cornice pedagogica condivisa e potenzialmente “trasferibile” anche ai colleghi delle altre sezioni e ai genitori. La prima azione didattica consisteva nel far individuare autonomamente all’alunno/a una frase significativa e/o una parola chiave all’interno di un brano da studiare. Obiettivo di tale azione era quello di sviluppare capacità legate all’autonomia dell’alunno/a nell’ identificare elementi/nozioni essenziali alla comprensione del testo. La seconda azione didattica era, invece, inerente alla scansione temporale, e si poneva l’obiettivo di rafforzare nell’alunno/a l’aspetto organizzativo dell’apprendimento e la capacità di scandire, riconoscere e gestire il tempo, con l’aiuto degli insegnanti, dei genitori e/o in autonomia. Con la terza azione ci si prefiggeva l’obiettivo di far costruire una mappa concettuale, in continuità con le attività di individuare una frase significativa e/o una parola chiave, sempre in autonomia all’alunno/a, da presentare e discutere in classe. L’obiettivo è stato quello di far comprendere come realizzare una mappa concettuale (individualizzazione) nella quale sono indicati i principali concetti e le relazioni tra i contenuti di un brano con eventuali collegamenti e/o connessioni con altre materie. La quarta azione è stata un approfondimento della precedente. Si richiedeva agli insegnanti di differenziare le consegne agli/alle alunni/e per quanto concerne la costruzione delle mappe concettuali, sulla base delle differenti motivazioni, inclinazioni, interessi dei/delle singoli/e alunni/e al fine di personalizzare gli apprendimenti e, conseguentemente, valorizzare le potenzialità di ciascuno/a attraverso proposte differenziate, in un’ottica di cooperazione, in aggiunta agli obiettivi prefissati per tutti. Infine, l’ultima azione didattica ha riguardato lo studio a casa in coppia: è stato richiesto, infatti, sia agli insegnanti che ai genitori, laddove possibile, di far svolgere ai/alle bambini/e attività di studio in coppia a casa, valorizzando diverse forme di aggregazione, come ad esempio coppie formate spontaneamente, coppie suggerite dagli insegnanti stessi, coppie con caratteristiche eterogenee e/o omogenee. Tale attività è stata proposta con l’obiettivo di favorire l’acquisizione di competenze socio-relazionali attraverso la sperimentazione di modalità di peer tutoring (Kagan, 2007; Johnson & Johnson, 1996).

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5. Risultati: insegnanti, genitori, alunni Una volta proposte le azioni didattiche e trascorso il tempo stabilito per la sperimentazione congiunta, si è imposta la necessità di verificare se fossero stati raggiunti o meno gli obiettivi e in quale misura le attività proposte avessero prodotto dei cambiamenti significativi nei processi di insegnamento/apprendimento e nell’acquisizione di un metodo di studio da parte degli/delle alunni/e. I dati relativi al monitoraggio della sperimentazione sono stati rilevati per gli alunni, per i genitori e per gli insegnanti attraverso un questionario semistrutturato somministrato in cartaceo. Di seguito proponiamo una sintesi dei risultati suddivisi per ciascun target, attraverso un confronto tra i dati pre/post sperimentazione. Prospettive degli insegnanti I dati raccolti al termine della sperimentazione delle azioni didattiche riportano, generalmente, un impatto positivo della sperimentazione sui processi di insegnamento/apprendimento in aula. I grafici (Figg. 1, 2, 3, 4) mostrano che gli obiettivi sono stati perlopiù raggiunti e che, in alcuni casi specifici, ci sono stati cambiamenti significativi nelle pratiche didattiche quotidiane, secondo metodologie inclusive volte all’educazione “per tutti” (Verillon & Belmont, 2003). Uno dei dati più interessanti è quello relativo alla costruzione delle mappe concettuali, sia sul versante della individualizzazione sia in quello della personalizzazione didattica. Alla domanda “Secondo lei, in quale misura sono stati raggiunti gli obiettivi relativi ad ogni attività didattica?”, gli insegnanti riportano un buon grado di soddisfazione, inteso come il raggiungimento dell’obiettivo condiviso ad inizio sperimentazione, rispetto alle attività relative alle mappe concettuali. Le percentuali degli insegnanti evidenziano che gli/le alunni/e hanno costruito, durante le lezioni in aula, delle mappe concettuali in autonomia, individuando i principali concetti e le relazioni tra di essi, mostrando una buona comprensione dei contenuti, mediante anche connessioni pertinenti e/o riflessioni con altri insegnamenti. Nella fase pre-sperimentazione, i dati relativi a questa attività mostravano come la costruzione delle mappe fosse prevalentemente un’attività svolta dall’insegnante (ad es. alla lavagna) e, quindi, nella maggior parte dei casi, era l’insegnante stesso a fornire un modello di mappa, dove gli/le alunni/e avevano ruoli di meri riproduttori dei contenuti offerti dall’insegnante curricolare. Analogamente, possiamo affermare che anche i dati relativi alla “frase significativa” sono molto simili ai risultati ottenuti per quanto concerne le mappe concettuali. Le percentuali dei dati (Fig. 1) sono molto più alte rispetto ai dati ottenuti pre-sperimentazione, dove gli insegnanti hanno riportato di indicare la parole chiave ai/alle propri/e alunni/e, attraverso una modalità prevalentemente trasmissiva dei contenuti. Crediamo che i dati del pre/post sperimentazione riportino cambiamenti significativi sia per quanto concerne i processi di insegnamento/apprendimento in aula, sia nella graduale adozione, da parte degli/delle alunni/e, di un proprio metodo di studio. Gli insegnanti hanno dato ai/alle propri/e alunni/e la possibilità di “stare” in un processo formativo arricchente che ha promosso, in termini educativi e al di là del prodotto finale, l’opportunità di sbagliare, sperimentare, pensare, fare. In tal senso, possiamo dire che i/le bambini/e sono stati attori attivi dei propri processi conoscitivi. Per quanto concerne l’impatto dell’attività che prevedeva lo studio di coppia a casa, un’insegnante intervistata afferma che «per i ragazzi [è] stato molto utile confrontarsi sulle strategie utilizzate, sui diversi metodi e soprattutto un nuovo approccio a conoscersi, ad organizzarsi per lavorare

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insieme fuori dall’ambiente scolastico». I dati del questionario riportano come l’obiettivo di questa azione didattica sia stato raggiunto, seppur con percentuali più basse rispetto alle altre azioni. Tuttavia, la percezione degli insegnanti è stata molto positiva verso la promozione dello studio a casa in coppia, e gli insegnanti hanno avuto un ruolo chiave nel sostenere le famiglie a creare occasioni di studio a casa in coppia e/o in piccolo gruppo (es. facilitando la creazione guidata o spontanea delle coppie sulla base della vicinanza territoriale e/o degli interessi degli/delle alunni/e).

Fig. 1: Studio a casa in coppia

Per quanto concerne l’azione didattica “studio a casa in coppia”, il confronto tra i dati pre/post sperimentazione è molto chiara: studiare a casa insieme ad un/una compagno/a era una modalità del tutto assente – fatta eccezione di qualche sporadico caso – nelle tre realtà scolastiche che abbiamo incontrato. La complessità delle realtà educative, le stesse caratteristiche dei partecipanti della ricerca sono stati elementi che probabilmente non hanno sempre permesso ai/alle bambini/e di sperimentare lo studio a casa con un/una compagna/o. Prospettive degli alunni Seppure tra costanti e divergenze tra gli/le alunni/e delle tre scuole coinvolte, la maggior parte degli/delle alunni/e adotta un metodo di studio basato sulla lettura reiterata del testo, accompagnata dalla sottolineatura guidata dei concetti salienti e dall’esposizione orale degli stessi ad una figura adulta di riferimento (padre, madre, nonni, sorelle o fratelli più grandi). A conclusione della sperimentazione, le risposte degli/delle alunni/e riportano un miglioramento nella capacità di sottolineare il testo in autonomia e nella creazione di mappe concettuali utili per lo studio, in quanto una buona percentuale di bambini/e afferma di “ricorrere con meno frequenza all’aiuto degli insegnanti e/o dei genitori”. Rispetto al confronto tra il pre/post sperimentazione, una insegnante afferma che: «[al termine della sperimentazione] si sono ridotti i tempi di esecuzione delle attività, vi è stata una maggiore attenzione nell’individuare parola ed espressione chiave. Attività che prima richiedevano a noi [inse-

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gnanti] una grande ‘presenza’». Inoltre, i dati post-sperimentazione mostrano che i bambini hanno avuto occasione di riflettere tra di loro, con gli insegnanti e - in alcuni casi - con i genitori sui propri metodi di studio. Sono cambiati sicuramente i tempi dell’attenzione verso i compiti e l’impegno nel rispettare le consegne. I dati riportano una maggiore attenzione alla selezione delle informazioni per la sottolineatura del testo e per la costruzione di mappe e schemi per lo studio, che vengono usati come traccia per esporre le informazioni. C’è anche una maggior consapevolezza nella ricerca delle informazioni chiave e nelle parole significative all’interno del testo. I dati raccolti nella post-sperimentazione rilevano una sostanziale propensione degli/delle alunni/e a uno studio consapevole e a un atteggiamento incline all’auto-osservazione/valutazione, nonché alla riflessione sui propri processi di apprendimento. Il confronto tra i risultati pre/post sperimentazione riportano una maggiore autonomia degli/delle alunni/e nello svolgere i compiti, nonché un loro ruolo più attivo nei processi di insegnamento/apprendimento. I dati del post-sperimentazione testimoniano, inoltre, la ricchezza del processo che è avvenuto nelle quattro settimane di sperimentazione, ossia come gli/le alunni/e abbiano, gradualmente, imparato a trovare un proprio metodo nel costruire la mappa, affinando le proprie competenze e conoscenze. Da un punto di vista educativo, le azioni didattiche hanno rafforzato nell’alunno/a le seguenti dimensioni: crescere nella responsabilità e nell’autonomia (Winzer & Mazurek, 2000); imparare a imparare; imparare a gestire il tempo; impadronirsi dei contenuti; imparare a conoscere se stessi e il proprio metodo di studio. Prospettive dei genitori Nella fase pre-sperimentazione, abbiamo rilevato che gli adulti di riferimento (madri e padri) tendevano a prediligere nei compiti a casa modalità essenzialmente protettive nei confronti dei figli, a discapito di spinte emancipative indispensabili per lo sviluppo psicocognitivo dei/delle bambini/e. Dai focus group precedenti alla sperimentazione, infatti, emerge con forza che la maggior parte dei genitori è coinvolta nello studio a casa dei figli: molti di loro, ad esempio, si siedono accanto ai propri figli durante tutta la durata dei compiti, svolgendo insieme a loro i compiti scritti (ad es. matematica). La quasi totalità degli intervistati, inoltre, ascolta i propri figli mentre ripetono le materie orali, come la storia e la geografia, soprattutto durante le ore serali, in quelle famiglie nelle quali gli adulti rientrano tardi dal lavoro. Si riscontra – da parte di alcuni genitori – un certo piacere nel partecipare ai compiti dei propri figli «Io sono felice di fare insieme alla mia bambina», tuttavia, molti di loro riportano un senso di fatica e di frustrazione «È davvero faticoso per me essere ascoltata per fare i compiti», e ancora, «quando mio figlio è stanco, metto in scena una sorta di competizione: anch’io faccio le operazioni di matematica e il primo che finisce vince!». Alla luce di queste riflessioni, le cinque azioni didattiche hanno avuto delle ricadute positive nelle modalità educative adottate dai genitori durante i compiti a casa, dove ai genitori è stato chiesto di assumere un ruolo molto differente rispetto a quello comunemente utilizzato, ossia quello di lasciare i propri figli in totale autonomia nello svolgimento dei compiti attraverso una chiara struttura fornita dalle azioni didattiche indicate sul patto formativo.

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Fig. 2: L’impatto delle azioni didattiche nella percezione dei genitori

Come già accennato, per le attività che prevedevano l’identificazione di una parola chiave e/o di una frase significativa, oppure la costruzione di una mappa concettuale, è stato chiesto ai genitori di non fornire né suggerimenti né indicazioni al fine di consentire ai propri figli di approcciarsi ai compiti utilizzando personali strategie. Per quanto riguarda, invece, la scansione temporale, i genitori potevano preparare il contesto trovando, insieme ai figli, strategie per organizzare e gestire gli spazi ed i tempi dei compiti. I dati post-sperimentazione fanno emergere che i genitori hanno depotenziato in maniera significativa il ruolo di “sostituti dei figli” nei compiti a casa, attraverso l’adozione di modalità emancipative nei confronti dei figli (Caldin, 2007). Ne consegue che i bambini hanno avuto – anche a casa – un ruolo maggiormente attivo nello svolgimento dei compiti, senza la presenza di un adulto che offre risposte e suggerimenti alla prima difficoltà. A tal proposito, i genitori riportano (Fig. 6) che i propri figli sono stati molto autonomi nello svolgere i compiti a casa, seguendo le azioni didattiche come strategie per approcciarsi allo studio (Hollenwegere & Haskell, 2002). I genitori, infine, hanno riportato che i figli si sono sentiti sicuri di fronte ad un brano da studiare, e come abbiano attivato delle strategie personali per far fronte a delle eventuali difficoltà, tra le quali chiamare il compagno di scuola, piuttosto che affidarsi all’aiuto immediato della madre o del padre. Una mamma afferma “mio figlio si agita moltissimo durante le verifiche, e credo che queste attività possano aiutarlo a prendere un po’ più sicurezza in se stesso”.

Conclusioni Questo contributo ha illustrato una serie di indicazioni didattiche inclusive a supporto dei processi di insegnamento/apprendimento e dei metodi di studio, per riflettere sul ruolo dei genitori, degli insegnanti e degli alunni, nodo centrale del rapporto scuola/famiglie all’interno della nostra società. I dati raccolti durante il monitoraggio evidenziano come vi sia da parte degli insegnanti una certa consapevolezza rispetto al proprio metodo di insegnamento e alle strategie messe in campo durante l’azione didattica, oltre ad una certa propensione nei confronti di nuove metodologie didattiche, come l’utilizzo inclusivo della LIM e delle mappe concettuali Inizialmente, gli insegnanti hanno riferito di una certa resistenza nell’utilizzo delle TIC, laddove lo strumento sembrava non essere familiare, anche nelle funzioni basi, come l’accendere la LIM e/o l’utilizzare software didattici. Evidentemente, come indica d’Alonzo (2004) occorre conoscere appieno la disciplina da insegnare in tutti suoi aspetti, ma occorre anche conoscere e avere padronanza degli aspetti relazionali e formativi che permeano i processi di insegnamento/apprendimento. Inoltre, è stato interessante rilevare come, sia da parte degli insegnanti sia dei genitori,

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Roberta Caldin, Alessia Cinotti, Luca Ferrari

venga evidenziata la positività della collaborazione scuola-famiglia: gli stessi genitori, infatti, hanno valutato “molto positivamente” la collaborazione con la scuola, ossia la possibilità di condividere insieme agli insegnanti le finalità, gli obiettivi e le attività didattiche. Le riflessioni dei genitori ci testimoniano l’importanza della corresponsabilità educativa (Pourtois & Desmet, 2009; Jesu, 2004) tra insegnanti e famiglia, come una preziosa risorsa che ha ricadute anche sugli stessi apprendimenti dei figli. A tal proposito, i genitori intervistati rilevano come i figli, in seguito alla sperimentazione, siano diventati più consapevoli dei propri metodi di studio, e come si sentano più sicuri nelle interrogazioni e nelle verifiche scritte, grazie all’acquisizione, graduale, di un ruolo maggiormente attivo e autonomo nello studio, sia a casa che a scuola. Le trasformazioni sociali, l’eterogeneità delle classi, la frequente delega da parte della famiglia agli insegnanti, per quanto concerne l’educazione dei figli, richiedono alla scuola di far fronte a nuove emergenze educative. È buona prassi, dunque, che gli insegnanti stabiliscano dei contatti con i genitori per offrire informazioni in merito all’andamento scolastico, ma è anche importante condividere prassi e strategie educative. L’incontro e il dialogo tra insegnanti/genitori e alunni è una dimensione ineludibile per attuare una corresponsabilità educativa che, attraverso la condivisione di una pluralità di metodi, rinnovi e arricchisca l’educazione delle nuove generazioni.

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Ricerche TFA: un’analisi sul campo TFA: a field analysis PAOLO CALIDONI • FILIPPO DETTORI • LUISA PANDOLFI* L’articolo illustra i primi risultati di una ricerca partecipata condotta presso il TFA dell’Università degli Studi di Sassari che ha coinvolto studenti, docenti tutor nelle scuole e coordinatori di tirocinio. La ricerca ha preso spunto dal lavoro di Ulvik M. & Langørgen K. (2012) che individua le aree in cui i docenti principianti apportano un contributo nella scuola, mettendo a confronto il loro punto di vista con quello dei docenti esperti. Gli obiettivi principali sono: a) riflettere sul ruolo del tirocinante in quanto risorsa per la scuola; b) individuare punti di forza e criticità del TFA. La ricerca è articolata in due fasi: i) nella prima (illustrata in questa sede) ci si è concentrati sull’esperienza del TFA da parte degli studenti, ii) nella seconda (ancora in via di realizzazione) l’attenzione viene rivolta al punto di vista dei docenti accoglienti. In entrambe le fasi, come nella ricerca di Ulvik M. & Langørgen K. (2012), viene utilizzato, in un primo momento, lo strumento del questionario e successivamente, ai fini di un maggiore approfondimento dell’analisi, il focus group. I principali risultati emersi fino ad ora evidenziano che il tirocinio consente lo sviluppo di importanti competenze professionali (capacità comunicativa e relazionale, gestione della classe, strategie didattiche, ecc.) sebbene si rilevino delle criticità attribuibili soprattutto alla dimensione organizzativa e progettuale nella gestione del TFA. I tirocinanti hanno avuto esperienze positive nei contesti scolastici accoglienti dove le loro capacità e risorse sono state valorizzate ed incentivate, in modo particolare nella proposta di attività innovative e laboratoriali, nonché riguardo l’utilizzo delle nuove tecnologie. Sarà interessante confrontare questi elementi con le considerazioni dei docenti esperti.

This paper presents the first results of a research carried out at the TFA (Tirocinio Formativo Attivo) of the Università degli Studi di Sassari, involving trainee teachers and teachers, who teach in schools, and act as training coordinators. The objectives of this study are: a) study the role of the trainee as a resource for the school; and b) examine the strengths and weaknesses of the TFA. The study takes the cue from the study by Ulvik M.& Langørgen K. (2012), who have compared the contributions of trainee teachers with those of regular teachers. This is studied in two phases: i) the focus of the first one (shown here) is on the TFA students’ experience; ii) the focus of the second part, under implementation now, is on the host-teachers’ points of view. In both the phases, as well as in Ulvik M. & Langørgen K. (2012), first questionnaire was used and then focus groups have been used for a deeper qualitative analysis. The results show that the curriculum allows development of professional competencies (communication and relationship competencies, class management, didactic strategies, etc...), even though some shortcomings were noticed due to constraints in the organisation and poor planning. Trainee-teachers had positive experience in the welcoming setting of the school where their capabilities have been recognised, resourcefulness praised, and incentives offered , particularly for introducing innovative techniques and laboratory experiments, specially focused on new technologies. It will be interesting to compare these views with those of the expert teachers.

Parole chiave: apprendimento esperienziale, competenze didattiche, tirocinante

Key words: experiential learning, teaching competence, resource, novice teacher

* L’attribuzione dei capitoli è così suddivisa: cap. 1 (§1.1 e 1.2 a Calidoni; §1.3 a Dettori); cap. 2 a Pandolfi; cap. 3 a Dettori e Pandolfi; cap. 4 a Calidoni)

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2038-9736 (in press) / ISSN 2038-9744 (on line) Giornale Italiano della Ricerca Educativa • anno VI – n. 11 – dicembre 2013

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TFA: un’analisi sul campo1

1. Quadro di riferimento 1.1 Profilo degli insegnanti italiani di scuola secondaria di primo grado secondo TALIS La ricerca TALIS – Indagine Internazionale sull’Insegnamento e l’Apprendimento (Teaching And Learning International Survey – TALIS), promossa dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) per elaborare indicatori internazionali sugli insegnanti, le pratiche di insegnamento e l’apprendimento, mette a disposizione un quadro di riferimento utile per lo sviluppo di riflessioni e ricerche sulla formazione degli insegnanti. L’Italia ha partecipato alla (prima) edizione 2008 con altri 24 Paesi e parteciperà all’edizione 2013 con altri 32. In tutti i Paesi l’indagine è rivolta all’insieme delle scuole che appartengono al 2° livello della classificazione internazionale standard dei tipi d’istruzione (ISCED2International Standard Classification Education Level). Unità di osservazione dell’indagine sono il singolo insegnante ed il dirigente scolastico delle scuole selezionate. Lo studio è effettuato secondo le tecniche dell’indagine campionaria. Gli strumenti utilizzati per la raccolta delle informazioni sono due questionari complementari indirizzati, rispettivamente, ai dirigenti scolastici e agli insegnanti. Nel 2012 è stato pubblicato il volume Teaching Practices and Pedagogical Innovation – Evidence from TALIS, di Svenja Vieluf, David Kaplan, Eckhard Klieme, Sonja Bayer, che disegna i profili d’insegnamento emergenti dalle risposte dei docenti nei paesi partecipanti alla rilevazione. Sebbene i dati siano relativi a docenti di scuola secondaria di primo grado, i profili tracciati delineano i tratti di culture professionali proprie dei paesi partecipanti che indicano tendenze dell’insegnamento anche ad altri livelli scolastici, in particolare dell’istruzione secondaria. Sulla base della letteratura, prevalentemente di tipo empirico, lo studio identifica le dimensioni cruciali di un insegnamento che si correla con buoni risultati di apprendimento rilevati da indagini internazionali (IEA ed OCSE). Le dimensioni e le domande attraverso le quali sono state indagate, vengono riassunte nella seguente tabella.

1 Si ringraziano per la collaborazione i tutor coordinatori proff. Michela Caiazzo, Giovannella Meazza, Gianfranco Mura, Mauro Solinas e la dott.a Eliana Sias che ha curato la conduzione e la trascrizione dei focusgroup.

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Paolo Calidoni, Filippo Dettori, Luisa Pandolfi

• Dimensioni e pratiche dell’insegnamento secondo TALIS Dimensioni

Con quale frequenza si svolgono le seguenti attività nella “classe campione” nel corso dell’anno scolastico? *

Strutturazione

Indico gli obiettivi dell’apprendimento in modo esplicito. Esamino con gli studenti i compiti che hanno fatto a casa. All’inizio della lezione faccio un breve sommario della lezione precedente Controllo i quaderni degli esercizi dei miei studenti. Facendo domande, controllo se l’argomento è stato capito.

Orientamento/ adeguamento agli studenti

Gli studenti lavorano in gruppi basati sulle loro abilità. Chiedo ai miei studenti di suggerire o di collaborare alle attività e agli argomenti del programma della lezione. Affido lavori differenti agli studenti che mostrano difficoltà di apprendimento e/o a quelli che vanno avanti più velocemente. Gli studenti lavorano in piccoli gruppi per trovare soluzioni comuni ai problemi e ai compiti assegnati.

Attività avanzate e di arricchimento

Gli studenti dibattono e ragionano su un punto di vista particolare che può non essere il loro. Chiedo ai miei studenti di scrivere un saggio di una certa lunghezza nel quale devono spiegare il loro modo di pensare e di ragionare I risultati del lavoro degli studenti saranno usati da altri studenti. Gli studenti lavorano su progetti che richiedono almeno una settimana di tempo per completarli.

Le risposte del campione di insegnanti italiani di scuola secondaria di primo grado portano a disegnare i seguenti profili, che tengono come riferimento (0) la media dei risultati TALIS 2008. • Profili delle pratiche d’insegnamento dei docenti italiani secondo TALIS

TALIS, inoltre, esplora le caratteristiche delle comunità professionali nelle scuole, che costituiscono il contesto e la condizione di un insegnamento pluridisciplinare coordinato per lo sviluppo di competenze verso un profilo formativo unitario. Le risposte del campione di insegnanti italiani di scuola secondaria di primo grado portano a disegnare i seguenti profili.

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• Profili delle comunità professionali dei docenti italiani secondo TALIS

Anche da una sommaria lettura dei dati si evince un orientamento dei docenti italiani che privilegia le attività d’insegnamento strutturato, collettivo e ‘privato’ –ognuno insegna la sua materia – mentre meno rilevanti risultano le attività collaborative e personalizzate, anche se si condividono – nelle riunioni e dichiarazioni – gli obiettivi ed i criteri di valutazione degli apprendimenti degli alunni.

1.2. Situazione e sfide della formazione degli insegnanti in Italia e funzioni del tirocinio La formazione iniziale ed in servizio degli insegnanti si colloca nel contesto delineato nel § 1.1. caratterizzato da una prevalenza di lavoro individuale e trasmissivo a fronte di una domanda di costruzione collaborativa della conoscenza che viene dal più ampio contesto sociale, dalle nuove generazioni, dalle indicazioni della ricerca (Dumont H., Istance D., Benavides F., 2010) e dalla diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione nella vita quotidiana e – poi – nelle scuole. È noto che in Italia si intersecano diversi canali di accesso all’insegnamento (a) il superamento di un concorso basato prevalentemente sulla valutazione delle conoscenze teoriche, (b) anni di ‘precariato’ non accompagnati da azioni formative mirate allo sviluppo di competenze (riflessive, costruttive e cooperative) d’insegnamento, (c) solo da qualche lustro, percorsi formativi mirati che comprendono anche attività di tirocinio. Dapprima le SSISS ed ora i TFA che fin dalla denominazione evidenziano la centralità del tirocinio. Ma il canale b resta quello prevalente e privilegiato dalle politiche del personale e coloro che seguono il canale c si trovano a dover fare tirocinio presso colleghi che non hanno seguito percorsi strutturati di professionalizzazione all’insegnamento e si sono ‘costruiti da sé’, con l’esperienza individuale, il modo d’insegnare che adottano. Un modo d’insegnare che, a giudicare da quanto emerge dalla ricerca TALIS, risulta per lo più inadeguato rispetto alle evidenze che la ricerca mette a disposizione ed alle sfide che la scuola di oggi e di domani è chiamata ad affrontare.

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Insomma, il tirocinio (percorso c) potrebbe diventare un rimedio peggiore del male, proponendo ai principianti un modello inadeguato d’insegnante e d’insegnamento. È quanto si verifica quando si adotta un approccio trasmissivo unidirezionale, nell’insegnamento e nel tirocinio. Un approccio che la normativa sulla formazione iniziale degli insegnanti (DMMIUR 10 settembre 2010, n. 249) vorrebbe evitare enfatizzando l’importanza dei momenti laboratoriali e riflessivi funzionali all’interazione tra saperi disciplinari, scienze dell’educazione e sapere ‘sul campo e per esperienza’ degli insegnanti, grazie alla mediazione dei tutor coordinatori. Secondo questa impostazione, che prevede un corso di laurea magistrale finalizzato all’insegnamento seguito da un anno di TFA, il tirocinio sul campo può/deve essere concepito ed impostato come un’opportunità di formazione non top-down, per non correre i rischi ora indicati o analoghi quando all’autorità ascritta dell’esperienza e delle consuetudini si voglia sostituire quella del sapere accademico, ma together in cui lo scambio di saperi e generazioni diverse possa risultare reciprocamente utile, connettendo la formazione iniziale con quella in servizio con la mediazione della ricerca didattica. Tuttavia, la prima attuazione dei TFA si è svolta in condizioni ben diverse. Poiché i corsi di laurea magistrale per l’insegnamento non sono ancora stati avviati, dopo una selezione iniziale al TFA hanno avuto accesso laureati magistrali o vecchio ordinamento, che potevano anche essere già in servizio nella scuola come precari. Inoltre, il MIUR con D.D.G. n. 82/2012 ha indetto nello stesso anno dell’attivazione dei TFA dei concorsi a cattedre per titoli ed esami, finalizzati al reclutamento del personale docente nelle scuole dell’infanzia, primaria, secondaria di I e II grado, ai quali hanno partecipato anche molti iscritti ai TFA. Pur con questi condizionamenti strutturali, comunque i TFA sono stati svolti ed è sembrato quindi opportuno farne oggetto di ricerca. Dopo una sommaria revisione della letteratura sul tema (v. §1.3. seguente) e considerata la specificità della situazione in esame, è sembrato interessante prendere spunto da uno studio che ha cercato di comprendere e di approfondire: cosa gli insegnanti esperti possono apprendere dai principianti che arrivano nella scuola come tirocinanti o si trovano nei primi anni d’insegnamento. La ricerca, condotta in Norvegia, ha coinvolto tutor e principianti ai quali i ricercatori – mediante interviste e questionari – hanno chiesto di elencare le aree nelle quali gli insegnanti più esperti possono imparare dai tirocinanti e viceversa. Dallo studio emerge che i principianti possono essere una risorsa maggiore rispetto ai docenti esperti (cioè con esperienza) su tre aree: sono più entusiasti e hanno molte nuove idee, hanno maggiori competenze digitali e sanno avere rapporti migliori con gli studenti (Ulvik & Langørgen, 2012).

1.3 Alcune evidenze dalla ricerca sulla formazione iniziale dei docenti La review di Ingersoll R.M. & Strong M. del 2011 ha preso in esame 15 studi empirici condotti a partire dalla metà degli anni 80 sul ruolo del pre-service nella formazione dei futuri insegnanti. La maggior parte degli studi analizzati conferma l’ipotesi iniziale della ricerca, ossia che il tirocinio è molto utile nella formazione dei professionisti in particolar modo nei seguenti tre ambiti: impegno iniziale del docente e conservazione dello stesso nel tempo; efficacia didattica, buoni risultati raggiunti dagli studenti. Soprattutto l’efficacia didattica pare essere superiore nei nuovi docenti che hanno seguito pre-service ben strutturati, essi infatti da subito quando operano come docenti titolari si mostrano sicuri nella gestione della classe, nella motivazione degli studenti e nella creazione di un clima positivo (Ingersoll & Strong, 2011).

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Ma quali sono gli elementi che costituiscono ed i caratteri principali che definiscono un tirocinio efficace? Contagio positivo – Uno studio spesso richiamato in letteratura (Mandel, 2006), ha cercato di comprendere di quale formazione hanno bisogno i nuovi docenti per evitare che abbandonino l’insegnamento prima del quinto anno di servizio. Fra i diversi bisogni formativi espressi dai docenti coinvolti nella ricerca vi è la necessità di confrontarsi con colleghi più anziani che siano capaci di trasmettere loro entusiasmo, positività perché si presentano contenti e soddisfatti del loro lavoro. Al contrario se si hanno come mentori colleghi anziani frustrati, stanchi e demotivati c’è il rischio che i nuovi docenti non reggano allo stress che la scuola pone. D’altra parte, però, come hanno evidenziato Ulvik M., & Langørgen K. (2012) i principianti nella scuola accogliente possono essere una risorsa maggiore rispetto ai docenti titolari: sono più entusiasti e hanno molte nuove idee. Tirocinio osservativo e sviluppo della riflessività professionale – L’agire didattico è costituito, oltre che di azioni concrete, di atteggiamenti, intenzioni, modi di fare e di essere che influiscono ed influenzano il processo di apprendimento. Lam (2000) già oltre un decennio fa sosteneva che è molto difficile individuare i principi didattici più profondi che regolano la didattica per esplicitarli, formalizzarli e renderli accessibili alla comunità scientifica. La stessa ricerca didattica per troppo tempo non è riuscita a cogliere i diversi sguardi sulle pratiche d’aula e solo recentemente si sta industriando per capire e rendere esplicite idee, convinzioni, principi che regolano l’azione didattica (Laneve, 2010). L’esperienza sul campo, consente al tirocinante di cogliere gli impliciti d’aula che rappresentano il cuore di quella sapienza tacita dell’insegnante che viene chiamata didattica dell’implicito (Perla, 2010). Il tirocinio mette lo studente nelle condizioni di conoscere ed entrare in contatto con quello che Perrenoud (2001) chiama un inconscio pratico fatto di routine, di convinzioni latenti, principi consolidati negli anni, che solo parzialmente si esplicitano e che invece rappresentano una parte importantissima della didattica.Tali aspetti della didattica sono talvolta oscuri anche a chi li mette in atto e difficilmente possono essere trasmessi a parole. Solo attraverso l’osservazione, la problematizzazione, il confronto essi possono essere prima intravisti durante l’osservazione e, successivamente, compresi e fatti propri (resi chiari) per entrare a far parte del proprio bagaglio di competenze professionali. Diverse ricerche hanno dimostrato che lo studente che si forma per diventare insegnante impara molto nella relazione con i colleghi esperti che ha modo di instaurare nel tirocinio (pre-service), lavorando a stretto contatto con l’operatore esperto e osservando in situazione le dinamiche della classe, in questo modo egli riesce a cogliere gli impliciti d’aula che difficilmente si possono comprendere attraverso lo studio dei testi o la partecipazione alle lezioni universitarie (De Angelis, Wall, & Che, 2013). D’altra parte, la presa di consapevolezza dei propri ‘impliciti’, che il tirocinio catalizza, costituisce opportunità di ‘deprivatizzazione delle pratiche’ ovvero di formazione e miglioramento anche per l’esperto. Comunità professionale – I neo insegnanti acquisiscono le competenze didattiche in parte proprio mediante il confronto costante con gli altri colleghi; la creazione nelle scuole di gruppi di lavoro che prevedono il coinvolgimento e la condivisione di idee e punti di vista fra novizi ed esperti ha dimostrato di essere molto utile nella crescita professionale dei primi,

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anche al fine di prevenire nel futuro fenomeni quali stress, logoramento, abbandono (Joiner & Edwards (2008). I docenti che iniziano la professione spesso si sentono inadeguati e non efficaci perché in molti casi nella scuola non si crea una comunità coesa dove si condividono idee, metodologie, obiettivi e, per queste ragioni, il nuovo assunto talvolta si sente solo, spaesato, incapace di rispondere alle richieste di classi numerose con allievi portatori di bisogni educativi particolari (Angelle, 2006; Curtner-Smith, Hastie & Kinchin, 2008). Nella ratio dei TFA questa funzione è attribuita ai momenti laboratoriali e riflessivi, grazie alla mediazione dei tutor coordinatori. Empowerment nella collaborazione professionale nel tirocinio attivo – Proprio durante i primi contatti con la professione educativa si apprendono le abilità necessarie per confrontarsi con la complessità del lavoro e si traggono le strategie per imparare a superare le difficoltà, senza perdere la fiducia in se stessi come professionisti anche di fronte al fallimento (Sfard & Prusak, 2005). Durante le esperienze di osservazione in situazione, che il tirocinio offre, lo studente che si sta formando per diventare insegnante, impara a misurarsi con la difficoltà del lavoro delle professioni di aiuto e a non perdere l’entusiasmo e la fiducia sul proprio operato, nonostante gli inevitabili fallimenti. Gli studi sul tirocinio iniziale degli studenti che si preparano a diventare insegnanti hanno dimostrato che le esperienze di pre-service nel mondo della scuola sono importanti soprattutto perché aiutano a rafforzare il proprio senso di autoefficacia (Tschannen-Moran & Hoy, 2007). Avere un alto senso di autoefficacia consente al professionista di operare sicuro nel compito educativo ritrovando facilmente entusiasmo e motivazione anche di fronte a situazioni frustranti. Alcuni studi si sono occupati della correlazione fra senso di autoefficacia degli insegnanti “teacher self-efficacy belief ”(TSEB) e i risultati ottenuti dagli studenti, dimostrando che se i docenti si percepiscono adeguati al proprio compito anche gli allievi ottengono risultati migliori (Caprara, Barbaranelli, Steca & Malone, 2006; Ozder, 2011; Tschannen-Moran & Hoy, 2007). I docenti che hanno un alto senso di autoefficacia investono maggiormente nel proprio lavoro, spronano gli studenti meno motivati, sanno gestire bene il gruppo classe e ricorrono a nuove strategie per aiutare gli allievi che presentano grandi difficoltà (Hoy & Spero, 2005; Dee & Hoy, 2008). Una ricerca ha inoltre dimostrato che gli insegnanti più giovani con alto senso di autoefficacia non demordono di fronte ai fallimenti e cercano di stimolare gli alunni meno competenti ricorrendo per esempio all’utilizzo delle nuove tecnologie (Tekkaya & Cakiroglu, 2002). Uno studio recente ha dimostrato che una buona esperienza di pre-service (il nostro tirocinio, in particolare quello cosiddetto ‘attivo’) è molto importante perché aiuta a prevenire in futuro esperienze di burnout. Gli insegnanti confrontandosi con docenti già esperti trovano strategie efficaci per superare le difficoltà nella gestione della classe che li aiuterà a non perdere il controllo e a non sentirsi inadeguati e incompetenti di fronte agli insuccessi didattici (Le Cornu, 2009). In sintesi, una sommaria esplorazione della ricerca sulla formazione iniziale on the job dei docenti ne segnala l’efficacia per gli insegnanti stessi e – ancor più importante – per gli studenti ed i risultati di apprendimento, ma evidenzia anche che ciò è frutto dell’interazione di esperti e principianti motivati nell’ambito di comunità professionali riflessive, non della

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mera osservazione di azioni d’insegnamento ma della partecipazione – dapprima periferica e via via più attiva – dei principianti alle pratiche didattiche che comprendono la riflessività costruttiva e proattiva della comunità professionale.

2. La ricerca sul campo La ricerca sul campo, di cui si illustrano le prime parziali risultanze nelle pagine seguenti, ha preso spunto dalle considerazioni illustrate nel § 1 ed è strutturata seguendo la procedura utilizzata nel citato saggio di Ulvik M., & Langørgen K., 2012, con alcuni adattamenti dovuti alla specificità dell’oggetto e del contesto in esame: l’esperienza di tirocinanti e tutor dei corsi TFA tenuti nel periodo gennaio-giugno 2013 presso l’Università di Sassari, dove sono stati attivati per le classi di abilitazione all’insegnamento in lingue straniere (spagnolo ed inglese), scienze naturali, lettere e filosofia, per un totale di 45 iscritti. Gli insegnamenti di scienze dell’educazione sono stati comuni a tutti e precedenti al tirocinio diretto che si è svolto nell’ultimo bimestre delle lezioni, parallelamente a quello indiretto condotto dai tutor coordinatori.

2.1 Il contesto La ricerca si è svolta presso l’Università degli Studi di Sassari per iniziativa del gruppo di ricerca di area pedagogica ed ha coinvolto i seguenti soggetti: – quattro tutor coordinatori delle rispettive aree di competenza per l’abilitazione dei futuri insegnanti: lingue straniere (spagnolo ed inglese), scienze naturali, lettere e filosofia; – 43 corsisti/tirocinanti del TFA, aspiranti insegnanti di scuola secondaria di primo e secondo grado nei settori delle lingue straniere (spagnolo ed inglese), scienze naturali, lettere e filosofia; – I docenti tutor accoglienti delle scuole in cui i corsisti hanno svolto il tirocinio diretto. Il lavoro preliminare ha previsto il coinvolgimento diretto dei tutor coordinatori, quali partner di ricerca e di raccordo tra il gruppo di ricerca, i tirocinanti e i docenti tutor delle scuole; con loro sono state condivise le finalità della ricerca e la costruzione degli strumenti di indagine.

2.2 Obiettivi, fasi e metodologia La ricerca è iniziata nel mese di aprile 2012 e, come già accennato, a livello metodologico si è ispirata all’indagine già citata e realizzata in Norvegia nel 2008, attraverso la partecipazione di insegnanti novizi (new teachers) e insegnanti esperti (mentors) della scuola secondaria. In particolare, uno degli obiettivi principali che ha guidato quel lavoro e orientato la nostra ricerca è racchiuso nello stesso titolo del saggio di Ulvik M. & Langørgen: “What can experienced teachers learn from newcomers? Newly qualified teachers as a resource in schools”, ossia si è cercato di esplorare attraverso quali modalità il ruolo del tirocinante può configurarsi come una risorsa per la scuola e, allo stesso tempo, la riflessione si è concentrata sull’individuazione dei punti di forza e dei nodi critici del percorso formativo avviato presso l’Università di Sassari, nella prospettiva di un miglioramento futuro.

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La strutturazione dei tempi di lavoro ha previsto la suddivisione in due fasi distinte, anche se tra loro interrelate: 1. la prima fase della ricerca, appena conclusa e di cui verranno illustrati i primi esiti, ha coinvolto i 43 corsisti/tirocinanti del TFA nella compilazione di un questionario e nella partecipazione a successivi focus-group finalizzati ad approfondire i principali elementi emersi dai questionari. Il questionario aperto (tranne che per una domanda a risposta chiusa) ha riprodotto, con alcune variazioni, lo strumento utilizzato nella ricerca norvegese, con l’intento di esplorare le seguenti aree principali: – Gli aspetti della competenza di insegnamento promossi nei tirocinanti dalla frequenza delle lezioni universitarie del TFA; – Le aree in cui i tirocinanti hanno maggiormente sviluppato le proprie competenze durante il tirocinio diretto nelle scuole; – Le aree in cui i tirocinanti sentono di poter apportare un contributo positivo agli insegnanti già esperti e in ruolo da tempo; – Le modalità attraverso cui la scuola ha valorizzato le risorse e le competenze del tirocinante nell’attività didattica; – L’eventuale cambiamento/trasformazione delle convinzioni iniziali del tirocinante riguardo l’insegnamento, in seguito all’esperienza del TFA, sia per ciò che concerne le lezioni teoriche che l’attività del tirocinio in aula. La compilazione dei questionari e la relativa analisi dei dati è avvenuta nel mese di maggio 2013. Nel mese di giugno 2013 sono stati realizzati quattro focus group, con i tirocinanti di ciascuna delle quattro aree omogenee di classi di concorso. La scelta di approfondire ed arricchire gli esiti emersi dai questionari attraverso lo strumento del focus group si inscrive all’interno di una cornice metodologica di tipo induttivo e si basa sull’esigenza, quale obiettivo prioritario, di esplorare e far emergere opinioni, motivazioni, aspettative e dinamiche dei tirocinanti, attraverso una riflessione comune in merito agli aspetti più significativi rilevati. La traccia utilizzata per i focus group è stata elaborata a partire dai dati emersi dai questionari, soprattutto relativamente agli aspetti che necessitavano di essere esaminati più a fondo. Nello specifico queste le aree affrontate: – Il contributo delle lezioni del TFA al miglioramento delle competenze professionali dei tirocinanti, sia per quanto riguarda l’area delle didattiche disciplinari, che l’area trasversale di scienze dell’educazione; – L’esperienza del tirocinio diretto in aula e il contributo personale del tirocinante, in termini di risorsa positiva nell’ambito della scuola; – Il ruolo delle nuove tecnologie nella didattica d’aula e nell’organizzazione degli ambienti di apprendimento (in particolare questo tema è emerso come rilevante negli esiti dei questionari); – Gli aspetti da migliorare. Si evidenzia che i primi risultati emersi da questa fase della ricerca sono stati condivisi, nell’ottica della ricerca partecipata, con i quattro tutor coordinatori nell’ambito di un incontro in cui il confronto e lo scambio reciproco ha permesso una riflessione contestualizzata e l’individuazione di nuove chiavi interpretative.Tali esiti preliminari sono stati, altresì, diffusi e ‘restituiti’ ai tirocinanti durante un seminario pubblico realizzato presso l’Università di Sassari.

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2. Il secondo step della ricerca, che è in fase di realizzazione, prevede il coinvolgimento dei tutor docenti delle scuole che hanno accolto i tirocinanti. La metodologia, gli strumenti e le tematiche affrontate saranno uguali a quelli utilizzati nella prima fase, ma focalizzati sul punto di vista dei docenti “mentori”, nella prospettiva di un confronto ed un dibattito più ampio sull’argomento. 2.3 Analisi dei dati L’obiettivo principale del processo di analisi è stato quello di mettere in luce il punto di vista dei soggetti coinvolti partendo dai dati empirici rilevati. Le informazioni raccolte tramite i questionari, prevalentemente a domande aperte, sono state elaborate e categorizzate attraverso l’individuazione di nuclei tematici ricorrenti. Per quanto concerne i focus group, il processo di analisi si è svolto nell’ambito di diverse fasi: la trascrizione delle registrazioni; la classificazione e codifica del contenuto attraverso la scomposizione del testo in nuclei tematici, unità di significato, categorie specifiche e parole chiave. All’analisi individuale si è affiancata la comparazione tra i quattro testi ottenuti nelle differenti rilevazioni, al fine di ricostruire la struttura di senso sottostante. Relativamente alle procedure di categorizzazione utilizzate, la codifica – ispirandosi al modello della Grounded Theory utilizzato da NVivo (Tarozzi, 2008) – è avvenuta in tre fasi: la prima fase volta ad analizzare dettagliatamente i testi (sia delle risposte aperte dei questionari che delle trascrizioni dei focus group) assegnando delle etichette concettuali; nella seconda fase i dati sono stati raggruppati in macrocategorie sulla base dei diversi nuclei tematici; mentre durante la terza fase sono state individuate le categorie specifiche e i nessi concettuali che le collegano.

3. Primi risultati: il punto di vista dei tirocinanti I 43 tirocinanti che hanno partecipato alla ricerca hanno un’età media di 35 anni (minima 26, massima 45); il 50% di essi ha già avuto esperienze (in alcuni casi pluriennale) di insegnamento nella scuola e differenti percorsi di formazione post universitari (dottorati, master, ecc.). La presentazione degli esiti di questa prima fase della ricerca deriva dalla comparazione trasversale dei dati ottenuti dall’elaborazione dei questionari e dall’analisi del contenuto dei focus group e si concentra sui nodi cruciali emersi, che si declinano in tre grandi macro aree: • aspetti organizzativi e formazione universitaria nell’ambito del TFA; • tirocinio diretto nelle scuole; • tirocinanti come risorse per la scuola. Queste aree si articolano al loro interno in diversi nuclei tematici che saranno di seguito illustrati anche attraverso la voce dei protagonisti, riportando alcune delle loro affermazioni più significative; a tal fine verranno utilizzate le seguenti sigle identificative: FG (focus group) seguito dai numeri da 1 a 4 per indicare la partecipazione ad uno dei quattro focus group, M o F per indicare il genere. 3.1 Aspetti organizzativi e formazione universitaria I ritardi nell’attivazione del TFA, che hanno comportato un’eccessiva riduzione e contrattura dei tempi previsti per lo svolgimento delle varie attività, hanno causato grandi difficoltà or-

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ganizzative che sono state evidenziate in tutti i focus-group che hanno segnalato come principali criticità: • Tempistica inadeguata “Ciò che è mancato è stato il tempo per costruire qualunque cosa: dall’attività didattica al rapporto con i ragazzi, al rapporto di dialogo con il docente.. non c’è stato proprio il tempo per riflettere..” [FG3-F]. • Mancanza di coordinamento La programmazione e l’organizzazione delle diverse attività, sia didattiche che di tirocinio, hanno risentito, a parere degli studenti, negativamente della mancanza di lavoro di rete e di coordinamento tra le varie aree, i vari docenti e gli enti: “È mancato il lavoro di progettazione e comunicazione tra i docenti di area trasversale, quelli di area disciplinare e i docenti tutor. C’era proprio una differenza tra le discipline trasversali, le disciplinari e il tirocinio, sembravano proprio dei momenti diversi” [FG1-F] “È necessario migliorare i tempi, l’organizzazione, la didattica, soprattutto disciplinare.. creare una rete tra docenti, fare molto lavoro a monte.. un lavoro preliminare..” [FG3-F]. Nonostante tali criticità, i risultati del questionario segnalano aspetti della competenza di insegnamento per le quali i corsisti hanno avuto esperienza positiva durante le lezioni del TFA all’Università, che hanno contribuito a modificare le loro convinzioni sull’insegnamento. • Competenze di insegnamento acquisite Sul totale dei 43 questionari compilati, 17 partecipanti hanno indicato la relazione con gli studenti quale elemento su cui ritengono di aver acquisito maggiori competenze grazie alla frequenza delle lezioni del TFA. A seguire, con poca differenza di punteggio, emerge l’importanza dell’attività didattica, intesa quale acquisizione di competenze relative all’insegnamento, segnalata da 15 partecipanti. Infine, le ultime due dimensioni ritenute più significative sono, in ordine di importanza: le competenze e le strategie acquisite in merito all’inclusione di alunni con BES e le competenze legate alla gestione della classe. • Crescita in termini professionali Le aree in cui le convinzioni riguardo l’insegnamento sono maggiormente cambiate a seguito della frequenza delle lezioni del TFA, a parere dei corsisti sono: – Conoscenza di metodologie didattiche diversificate; – Maggiore attenzione alla disabilità e ai DSA; – Maggiore attenzione alla relazione, all’ascolto ed alla comunicazione (verbale e non verbale); – Consapevolezza della necessità di una formazione continua. E la crescita professionale è attribuita principalmente a: utilizzo delle nuove tecnologie, attenzione al punto di vista degli studenti, contenuto delle lezioni dell’area trasversale e attività di tirocinio indiretto. • Importanza dell’area trasversale Tutti i partecipanti ai focus group hanno precisato la rilevanza delle lezioni di Scienze dell’Educazione, sia per le tematiche affrontate (che per alcuni studenti, come quelli dell’area scientifica, erano completamente nuove) sia per gli strumenti acquisiti, a livello di riflessione, di comunicazione e relazione. Come viene rimarcato da un tirocinante: “Le lezioni trasversali sono risultate molto arricchenti, soprattutto pedagogia speciale e la didattica, perché il problema è porsi con i ragazzi e quelle sono state molto utili e da utilizzare con il tirocinio diretto” [FG3-F]. • E del Tirocinio indiretto “Il tirocinio indiretto è stato molto interessante.. avere a che fare con un’insegnante della scuola superiore, dà la possibilità di approfittare della sua esperienza pratica” [FG-1F].

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• Nodi critici delle didattiche disciplinari Relativamente alle didattiche disciplinari sono emerse molte criticità a più livelli: “… è mancato il rapporto tra le attività didattiche disciplinari e la scuola, cioè erano più delle attività didattiche di tipo accademico, un po’ adattato magari, ma è mancato il coordinamento diretto con la scuola..” [FG4-M], scarsa integrazione con l’area trasversale e impostazione didattica troppo nozionistica ed accademica. E questo è solo uno degli elementi che inducono i corsisti ad evidenziare un punto di debolezza generale e strutturale del TFA sassarese: lo • Scarso riconoscimento del ruolo di adulto in formazione per la professione Molti dei partecipanti ai focus group hanno sottolineato che spesso l’impostazione e l’organizzazione delle attività non hanno tenuto in considerazione lo status di studente adulto (sovente con alle spalle anni di esperienza lavorativa) dei corsisti del TFA, provocando in loro la spiacevole sensazione di non sentirsi riconosciuti nel proprio ruolo. “Siamo adulti, non adolescenti ... uno può riprendere a studiare anche a 50 anni nell’ottica della formazione personale, ma chi gli insegna deve sempre ricordarsi che ha di fronte un adulto” [FG1F].“… avere le lezioni in video-streaming ... avrebbe dato la possibilità di integrare la propria vita con il TFA” [FG2-F]. • Atteggiamento dei corsisti già in servizio nella scuola Le attività trasversali di scienze dell’educazione e di tirocinio diretto e – soprattutto – indiretto hanno consentito anche a coloro che avevano già servizio nella scuola uno spazio di riflessione che ha permesso loro di rileggere in termini critici e di autoanalisi le metodologie precedentemente utilizzate. A questo proposito risulta particolarmente significativa la testimonianza di una docente con pluriennale esperienza di insegnamento: “Io ho ripensato anche ad alcune esperienze difficili di lavoro che ho avuto negli anni scorsi e, alla luce degli insegnamenti delle aree trasversali, ho capito gli errori che facevo e che non facevano altro che rinforzare il comportamento negativo della classe... li ho capiti grazie alla riflessioni che queste lezioni mi hanno stimolato a fare...” [FG1-F]. 3.2 Tirocinio nelle scuole “Non abbiamo visto dall’inizio dell’anno scolastico ... come si sono costruiti i rapporti, le dinamiche nelle classi.. ed è proprio l’inizio la cosa più importante per costruire un rapporto ...” [FG2-F]. Anche per il tirocinio diretto, il ritardo con cui è stato avviato ne ha condizionato l’organizzazione ed ha fatto sì che, in alcuni casi, l’esperienza si sia rivelata poco produttiva perché: “ognuno è arrivato in classe e se aveva un tutor che lo coinvolgeva di più bene, altrimenti ... quindi molto è dipeso dal caso”. [FG4-M]. La maggior parte dei partecipanti al focus group ha rilevato, quale criticità fondamentale del tirocinio diretto, • l’insufficienza di progettazione preliminare e in itinere delle attività con le scuole accreditate “ … che garantisse a tutti un’esperienza uguale e positiva” [FG4-M] Tuttavia, il tirocinio in aula ha comunque sviluppato alcune competenze professionali specifiche. • Competenze sviluppate Nel questionario ai corsisti è stato chiesto di indicare in quali aree hanno maggiormente sviluppato le proprie competenze durante il tirocinio in aula, indicando un punteggio partendo dall’area maggiormente sviluppata fino a quella meno sviluppata.

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La sommatoria dei punteggi attribuiti alle aree proposte (domanda chiusa) è illustrata nell’istogramma seguente: !

Aree significative di competenze sviluppate

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La maggior parte dei tirocinanti ritiene che l’esperienza di tirocinio diretto nelle scuole abbia permesso loro di sviluppare maggiormente l’area relativa alle strategie di comunicazione con gli studenti, dato quest’ultimo che conferma l’importanza attribuita dai corsisti alla dimensione relazionale-comunicativa con gli alunni. Al pari delle competenze acquisite a livello teorico, anche per ciò che concerne l’esperienza pratica emerge la rilevanza delle pratiche di insegnamento, che vengono considerate come la seconda area maggiormente sviluppata durante l’attività di tirocinio, seguita, al terzo posto, dalle competenze relative alle relazioni tra colleghi, intese come strategie di lavoro in gruppo, capacità di confronto e di collaborazione. Infine, l’area meno sviluppata a livello di acquisizioni di competenze durante l’esperienza pratica del tirocinio diretto risulta essere quella dell’inclusione di alunni con BES, nonostante la maggiore significatività ed attenzione emersa in ambito teorico sullo stesso tema. • Cambio di prospettiva Il questionario chiedeva di indicare quali loro convinzioni sull’insegnamento sono cambiate a seguito dell’attività di tirocinio in aula. I corsisti hanno indicato che ora sono (più) convinti della – Opportunità del superamento di una didattica di tipo nozionistico; – Necessità di una didattica che valorizzi maggiormente l’uso delle tecnologie (LIM, ecc.); – Importanza della dimensione relazionale; – Ottimismo verso la professione docente; – Necessità di una personalizzazione degli interventi didattici; I cambiamenti avvenuti vengono attribuiti principalmente al rapporto diretto con gli alunni, all’osservazione e presenza in classe e all’utilizzo delle nuove tecnologie nella didattica. • I fattori facilitanti Nonostante le criticità emerse i tirocinanti hanno evidenziato che l’esperienza di tirocinio è stata positiva quando si è configurata come un’opportunità di apprendimento, di confronto e di sperimentazione, verificandosi alcune condizioni d’interazione: “Ho fatto molte domande alla mia tutor su come lavora e questa esperienza mi ha dato anche maggiore fiducia in me stessa perché

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finora avevo lavorato senza avere una guida …” [FG1-F].“Sono state molto più utili le ore passate con gli insegnanti che ci hanno davvero mostrato il loro modo di lavorare, la passione, i casi che si potevano presentare …” [FG3-F]. • Indicazioni per una produttiva organizzazione del tirocinio in aula In sintesi, l’esigenza di maggiore circolarità fra scuola e università e fra teoria e prassi è individuata dai corsisti come essenziale per l’efficacia del TFA ed in particolare del tirocinio diretto. “Se le lezioni trasversali fossero contemporanee al tirocinio in aula sarebbe possibile anche portare degli esempi su cui ragionare..” [FG3-M] “Non c’è stata abbastanza comunicazione tra la scuola e l’Università, forse sarebbe meglio per i prossimi anni dare delle indicazioni ai tutor su quello che dovremmo fare, perché i docenti non sapevano come muoversi” [FG1-F]

3.3 Tirocinanti: nuove risorse per la scuola Una finalità centrale della ricerca era quella di indagare le modalità attraverso cui le scuole hanno valorizzato le competenze del tirocinante e come quest’ultimo si è percepito all’interno del sistema scolastico. A tal fine ai corsisti è stato chiesto se e come la scuola dove hanno svolto il tirocinio ha valorizzato le loro risorse e competenze nell’attività didattica. Le risposte hanno indicato soprattutto le seguenti: – Possibilità di proporre metodologie didattiche innovative; – Possibilità di sperimentarsi nell’attività didattica; – Supporto nella preparazione per le tesine finali per l’esame di maturità; – Supporto nella correzione e valutazione degli elaborati; – Affiancamento al docente. Inoltre, il questionario chiedeva di indicare le aree in cui sentivano di poter dare un contributo maggiore di quello degli insegnanti già di ruolo da tempo e in cosa dovrebbe migliorare la loro preparazione. I corsisti hanno evidenziato di poter contribuire nelle seguenti aree: • Nell’uso di differenti ed innovative metodologie e tipologie di lezioni/didattica rispetto a quella tradizionale/frontale; • Nella comunicazione e relazione con gli studenti; • Attraverso una maggiore attenzione all’inclusione; • Nell’utilizzo delle nuove tecnologie; • Nell’utilizzo di una didattica laboratoriale; • Nell’aggiornamento dei contenuti disciplinari. Ma – anche a seguito del tirocinio – i corsisti ritengono di dover migliorare la loro preparazione in particolare riguardo alla comunicazione e alle dinamiche relazionali con gli studenti e con le famiglie. Questi elementi sono stati successivamente approfonditi durante i focus group, dai quali si evince che i tirocinanti ritengono di aver dato un loro contributo alla realtà scolastica accogliente in termini di supporto all’attività didattica ordinaria, anche attraverso: • Idee ed elementi innovativi: “È stato detto che io venivo dalla Spagna ... questo ha permesso di attivare tutti quei meccanismi di curiosità verso questa figura esotica … io non parlavo italiano e ho chiesto agli alunni di aiutarmi a non sentirmi un pesce fuor d’acqua in classe parlando la mia lingua” [FG2-F]. • Entusiasmo e motivazione.

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Inoltre, l’entusiasmo e la motivazione iniziale per questa professione sono considerati dai tirocinanti come fattori importanti, risorse per la scuola. Questo dato conferma quanto già sottolineato nella ricerca di Ulvik M., & Langørgen K.( 2012) e in altre evidenze sopra illustrate. In questo senso sono significative le seguenti testimonianze: “Dalla nostra abbiamo il fatto che stiamo ancora iniziando, quindi l’entusiasmo dei primi anni c’è.. siamo più vicini in termini di età agli studenti, siamo più entusiasti perché non siamo ancora stanchi.. la freschezza, quella sicuramente ce l’abbiamo..” [FG3-F] “È importante la motivazione nella professione di insegnante.. ad esempio anche iscriversi ad un TFA vuol dire che da parte nostra c’è la motivazione per fare questo mestiere.. quindi già questo ci mette in un’altra ottica ... possiamo dare qualcosa di più e di diverso in vari ambiti” [FG1-F]. • Competenze digitali e l’organizzazione di laboratori Un’altra dimensione in cui i tirocinanti credono di aver dato un contributo positivo riguarda le loro competenze digitali e l’organizzazione di laboratori con gli studenti, anche in questo caso si conferma quanto emerso dall’indagine norvegese: “Ho avuto modo di constatare che ciò che tiene alto il livello di attenzione è l’interazione, perché se si fa un uso della LIM non interattivo la classe dopo dieci minuti non segue, altrimenti si ottengono ottimi risultati” [FG4-F]. “La maggior parte di noi ha esperienza nella ricerca e questi sono dei vantaggi per noi in determinati approcci, ad esempio con attività di laboratorio, di utilizzo di tecnologie.. perlomeno a me ha aiutato tantissimo, per incuriosire i ragazzi, è un’arma in più che si ha” [FG4-M]. • Condivisione di esperienze e pratiche I corsisti hanno dichiarato, inoltre, di essere stati delle risorse per la scuola, in quanto la loro presenza è stata un’opportunità di scambio e confronto con gli stessi insegnanti, contribuendo, in tal modo, ad una condivisione di esperienze e pratiche: “La mia tutor mi faceva sentire a mio agio e mi diceva: “questo è uno scambio, è importante anche per me, quindi non sono solo io che insegno qualcosa a te … ma anche tu darai il tuo contributo a me..” [FG1-F].

4. Prime conclusioni e sviluppi “How new teachers manage their job, particular areas in which they contribute, utilization of their resources? and How their expectations have developed or changed?” (Ulvik & Langørgen, 2012, p. 48). Al pari della ricerca norvegese, anche il presente lavoro ha cercato di rispondere a questi interrogativi soffermandosi sulle aree in cui gli insegnanti in formazione sono diventati delle risorse all’interno della scuola che li ha accolti: l’entusiasmo e la motivazione iniziale, le competenze digitali e la maggiore capacità di relazionarsi ai ragazzi. Il percorso formativo del TFA ha permesso ai corsisti – compresi quelli già operanti nella scuola – di entrare meglio nel vivo della quotidianità scolastica sia attraverso la riflessione teorica durante le lezioni dell’area trasversale che attraverso l’esperienza diretta in aula. In tal senso, le loro aspettative e convinzioni iniziali rispetto all’idea dell’insegnamento sono state arricchite da nuove prospettive di analisi che hanno consentito loro di avere uno sguardo più realistico del ruolo del docente nel contesto multidimensionale della scuola odierna grazie alle consapevolezze sviluppate. Per esempio, come si è visto nella presentazione dei risultati, i tirocinanti hanno affermato di aver compreso quanto l’ascolto del punto di vista degli studenti e la comunicazione (verbale e non verbale) acquistino grande rilevanza nell’ambito della relazione educativa, elemento basilare nel processo di insegnamento e apprendimento.

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Questi risultati, pur senza pretese di generalizzazione, confermano quanto è emerso dall’indagine di Ulvik e Langørgen, nonostante siano presenti delle interessanti specificità legate al contesto preso in esame. Infatti la riflessione e l’analisi hanno preso in considerazione anche l’organizzazione dell’intero percorso formativo del TFA, al suo primo anno, al fine di valutarne l’andamento, individuando punti di forza da potenziare e aspetti critici da rivedere, anche in vista di una riprogettazione per gli anni futuri. La condivisione e il lavoro di rete fra scuola e università, la programmazione congiunta, la valutazione in itinere, il riconoscimento dello status di “studente adulto”, l’utilizzo delle nuove tecnologie rappresentano i principali elementi che, a parere dei tirocinanti coinvolti nella ricerca, devono essere valorizzati, ri-pensati e considerevolmente migliorati al fine di rendere la formazione iniziale degli insegnanti efficace. Serve, quindi, sviluppare occasioni di interazione tra saperi disciplinari, scienze dell’educazione e saperi sul campo ed esperienziali degli insegnanti, tra esperti e principianti, reciprocamente utili. Alla luce degli aspetti emersi, la successiva fase della ricerca – che prevede il coinvolgimento dei docenti tutor accoglienti – offrirà nuovi spunti di riflessione, diverse prospettive e punti di vista che andranno ad integrare quanto finora descritto, permettendo di tracciare un quadro più ampio e completo.

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Ricerche What is teachers’ belief in the virtues of student retention founded on? Cosa rende gli insegnanti convinti dei benefici della ripetenza?

MARCEL CRAHAY • CAROLINE MARBAISE • ELISABETH ISSAIEVA The aim of this research is to try to explain beliefs of teachers in favour of student retention, beginning with their psycho-pedagogical beliefs in other areas: learning, intelligence, assessment, principle of justice. A questionnaire was administered to 112 primary teachers of the Belgium French. The responses have been processed through factor analysis to construct and validate metric scales. Then, using regression equations, we have tried to predict beliefs about student retention using other categories of beliefs. Finally, we conducted cluster analyses in order to identify groups of teachers, distinguishable by the nature of their beliefs. Two major results emerge from these analyses. On the one hand, it appears that the awareness of research on the effects of repetition influences teachers’ beliefs about this practice. On the other hand, contrary to our assumptions, the other categories of beliefs do not seem to affect teachers’ beliefs about student retention.These results are discussed in relation to the classical theories postulating that beliefs and social representations are organized into a system.

La presente ricerca ha lo scopo di tentare di spiegare la credenza degli insegnanti a favore della ripetenza a partire dalle loro credenze psico-pedagogiche in altri campi: apprendimento, intelligenza, valutazione, principio di giustizia. Un questionario è stato sottoposto a 112 insegnanti primari della CFWB [Communauté Française Wallonie-Bruxelles, N.d.T.]. Le risposte ottenute sono state trattate attraverso analisi fattoriali al fine di costruite e validare delle scale metriche. In seguito, utilizzando delle equazioni di regressione, abbiamo tentato di predire le credenze relative alla ripetenza usando le altre categorie di credenze. Infine, abbiamo proceduto a delle analisi tipologiche con lo scopo di identificare dei gruppi d’insegnanti distinguibili per la natura delle loro conoscenze. Due risultati principali risultano da queste analisi: da una parte, sembra che la conoscenza delle ricerche sugli effetti della ripetenza influenzi le credenze degli insegnanti a proposito di tale pratica; dall’altra, contrariamente alla nostra ipotesi, le altre categorie di credenze non sembrano influenzare la credenza degli insegnanti a proposito della ripetenza. Tali risultati sono discussi in relazione con le teorie classiche, che postulano che le credenze e le rappresentazioni sociali sono organizzate in un sistema.

Key words: experiential learning, teaching experience, resource, novice teacher

Parole chiave: Ripetenza, credenze degli insegnanti, rappresentazione sociale

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2038-9736 (in press) / ISSN 2038-9744 (on line) Giornale Italiano della Ricerca Educativa • anno VI – n. 11 – dicembre 2013

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What is teachers’ belief in the virtues of student retention founded on?1

Introduction The problem of repetition is an exemplary case of the opposition which may be encountered between teachers’ beliefs and research results. Indeed, in many countries (especially in French-speaking countries, but also in Southern Europe), student retention is in use with the strong approval of teachers (and parents) while many studies have demonstrated the inefficiency of this practice, and even its negative effects (see Crahay, 2005, 2007).This paradox challenges us as researchers, surprised that teachers’ beliefs and practices apparently resist scienctic evidence in the field, as well as attempts to introduce reform (see in particular on this subject Crahay & Donnay, 2001, 2002). This leads to the question: “Why do they carry on with student retention? “(Marcoux & Crahay, 2008). And therefore, they follow in Mannoni’s footsteps (1998) to question “the psychological mechanisms which support the constituent representations of beliefs [...] which can be identified” (p. 31). Certainly repetition is rooted in a traditional notion of school because, as pointed by Pouliot and Potvin (2000), “student retention is used since school as a social institution exists, that is to say, since students are grouped by levels constituting barriers which hold back students who do not achieve the fixed objectives”(p. 49). Moreover, this social practice is compatible with a series of arguments and perceptions about students, the way they learn and their “intelligence” which support teachers in their use of repetition against those who struggle. Thus, noting that some students have not managed, at the end of the school year, to learn some notions judged fundamental to take up those of the following year, many teachers consider it reasonable to make them repeat the school year in order to “solidify the foundations”. In such cases, teachers use a metaphorical reasoning: scholastic learning is assimilated to the construction of a house and it is known that it must be based on solid foundations.This way of reasoning seems to confirm the observation of students who repeat; it is common, in fact, for teachers to see progress in repeaters and ascribe them – erroneously, from the point of view of researchers – to the fact that they are repeating the school year. Other times, teachers use arguments based on “maturity”, “citing age, size or girth of the child” (Marcoux & Crahay, 2008, p. 508) or arguments referring to aspects of the nature and development of cognitive abilities, such as the lack of understanding (Desombre, Delelis, Antoine, Lachal, Cleavers & Urban, 2010; Do, 2007). In short, like many beliefs about education, those concerning student retention seem to fit in some sort of personal theory or implicit theory (Vause, 2009) of teaching, learning and development. The impermeability

1 This research was made possible by funding from FNS, decision 100013_132218/1

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Marcel Crahay, Caroline Marbaise, Elisabeth Issaieva

of this belief to researchers’ findings could be explained then by its integration into a network of ideas, beliefs and/or representations. The assumption that beliefs (or representations) are structured in a network or a system is classic. It is common to different theories: that of Rokeach (1976), who postulates the centrality of certain beliefs over others, that of Green (1971), who suggests that beliefs are organized in clusters (sets of beliefs) more or less isolated the one from the other, or even totally free of relations amongst them, or that of Abric (1989), according to whom the social representations are structured around organizing elements, forming the stable core, and involve peripheral elements, which can fluctuate depending on the circumstances and thereby exert a buffer role towards reality data which would otherwise undermine its foundations. This general assumption, mainly stemming from social psychology, has established itself amongst educational researchers. It is notably what leads Marcoux and Crahay (2008, 6) to undertake the investigation of “the structure of beliefs by trying to understand which configuration(s) of belief(s) give(s) account – at least partially – of certain practices”. This line of research is equally recommended in the overview of Crahay,Wanlin, Issaieva and Laduron (2010) on the psycho-pedagogical beliefs of teachers. It is within this conceptual line that this research falls. Our goal here is to investigate the beliefs of primary teachers in the CFWB for what concerns student retention.The aim is to identify some of the determinants of the belief of teachers with regard to the positive effects of repetition. This is also our first hypothesis; indeed, on the basis of previous research (Crahay, 2007), we assume that the majority of the teachers we interviewed were in favour of this practice.Then we will try to identify parameters which affect this belief. More exactly, our investigation starts from the assumption that even within the teaching system in the CFWB, where the decision to make a student repeat a year is commonplace, a certain variability of beliefs can be observed: even if the majority of teachers believe in the effectiveness of this practice, others are sceptical. It is on this variability of beliefs that our methodology is based. In this research, we seek precisely to identify some parameters which characterize teachers who believe in student retention versus those which characterize teachers who do not believe in it. More precisely, we assume that the belief in the benefits of repetition is nourished by other beliefs about learning, intelligence, assessment and the principle of justice which must reign in school. With regard to research on the effects of repetition, it does not seem realistic to assume that all teachers ignore it, considering how much it was advertised in the CFWB both by the media and by the researchers. How do those who are aware of the researchers’ conclusions deal with this knowledge? This is a central question of this research. Referring to Smith’s survey (1990) on a small number of teachers from the USA, which showed that the belief in the benefits of repetition was related to the conception of development those teachers have, we formulate the hypothesis that teachers aware of research in the field are more inclined to hold back their results than those who have a conception based on pupils’ maturity. In contrast, those who believe that development is a matter of social interactions and educational influences are likely to integrate this knowledge into their pedagogic theory. In detail, here are the assumptions we made on the basis of our previous work (Crahay & Donnay, 2001 & 2002; Marcoux & Crahay, 2008), to submit it to empirical verification. Assuming that teachers’ beliefs regarding repetition are influenced by their beliefs about learning, intelligence, assessment and justice, we make the following specific assumptions: • H1 – The majority of primary teachers in the CFWB remain favourable to the practice of repetition, which they think offers a second chance to pupils in difficulty.

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• H2 – The beliefs of teachers concerning repetition are influenced by the concept of learning they develop. a. The more they are constructivist, the less they are likely to make a student repeat a year - disruption and trial and error reflecting their mode of operating. b. In contrast, the more teachers look at learning as something mechanical (“the trigger”), the more they will tend towards student retention. • H3 – The beliefs of teachers regarding repetition are influenced by their conception of intelligence. a. Thus, teachers who have a progressive conception of intelligence – through interaction with the environment and the positive climate that is established – are less likely to believe in the efficacy of repetition. b. Conversely, teachers who consider intelligence as innate and think less intelligent students need more time to understand, are inclined to believe in the efficacy of repetition. c. We equally assume that teachers who consider the existence of different types of intelligence believe less in the usefulness of repetition than those who do not have the same conception of intelligence. • H4 – Teachers who assign to student assessment a regulatory or formative function are less likely to believe in the utility of student retention. They thus consider evaluation as a means in the service of learning and not as a tool of punishment. Conversely, teachers who envision evaluation as normative, allowing to classify students, are more favourable to the practice of repetition. • H5 – Teachers inclined to adhere to the ideology of equality of treatment, and therefore to consider the educational relationship as having to be identical for all students, are likely to use the practice of repetition. It is important to note that the hypotheses H2, H3, H4 and H5 presuppose a precise structuring of teachers’ beliefs. Thus, hypothesis 2 supposes that some teachers have a constructivist view of learning and others have a “trigger” theory. Hypothesis 3 is based on the idea that some teachers have an evolutionary conception of intelligence while others are nativist and others yet follow Gardner’s theory of multiple intelligences. As for hypothesis 4, it counts on the distinction between teachers who emphasize formative assessment and others who prefer a normative approach. Finally, hypothesis 5 assumes a division of teachers into two groups: some adhere to the ideology of equality of treatment, while others adhere to the equality of achievement. To test these four hypotheses, we will have to confirm this structuring of beliefs by factor analysis. With regard to the influence of knowledge of this research on beliefs, we are in doubt, considering the research mentioned above. Findings suggest that teachers know little or nothing of such research; in particular, the older ones who, having left teachers’ college long time ago, have not been trained on this subject. This will be our hypothesis 6, which we formulate as follows: • H6 – The majority of primary teachers are not aware of research on the effects of repetition. This is especially the case for teachers who have several years of service. Moreover, some researchers suggest that, even when they know the research, teachers do not actually change their beliefs (Crahay & Donnay, 2001, 2002). It is mainly on this point that we are in doubt. We will accordingly produce a seventh hypothesis: • H7 – Even when they are aware of research on repetition, teachers continue to believe in the usefulness of this practice.

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Marcel Crahay, Caroline Marbaise, Elisabeth Issaieva

Finally, making the general hypothesis that teachers’ beliefs are likely to be articulated in personal “theories”, we will try to identify patterns of beliefs using cluster analysis. Thus, it would seem logical that teachers who adhere to a corrective conception of justice (equality of achievement), adhere as well to a formative conception of evaluation, have a progressive conception of intelligence and a constructivist view of learning, and, consequently, do not believe in the virtues of repetition, especially if they were made aware of the research on the subject. As for teachers convinced of the effects of student retention, it seems plausible to assume that they are characterized by a profile of opposite beliefs.

1. The research method The sample of teachers surveyed A questionnaire was presented to a sample of 112 primary school teachers in the region of Liège in Belgium. To ensure maximum diversity to this convenience sample, recruitment has been conceived according to two axes: (1) the number of years of service and (2) the class taught (the level of schooling taken in charge by the teacher). The resulting sample is presented in Table 1. Note that we wanted to have an identical number in each cell, but it was not possible. Nevertheless, it will be possible to test the effect of age on the knowledge of research on the effects of repetition (hypothesis 6) Class taught

Years of service

!

Total 1P – 2P

3P – 4P

5P – 6P

Other

Between 0 and 10 years

6

10

9

5

30

Between 11 and 20 years

11

8

7

5

31

More than 21 years

22

11

15

3

51

Total

39

29

31

13

112

Tab. 1: The sample obtained

The structure of the questionnaire presented to teachers The questionnaire results from the assembly of different questionnaires developed by members of our research team. The set comprises 153 items, divided into six categories, which correspond to the different variables involved in our assumptions: 1. Beliefs related to repetition, its effects and conditions of success, the reasons to opt for it (Source: Boraita & Marcoux, submitted): 47 items; 2. Knowledge of research on repetition and their results (Source: Boraita & Marcoux, submitted): 8 items; 3. Conceptions of intelligence (Source: Issaieva & Crahay, submitted, a): 41 items; 4. Beliefs about learning (Source: Issaieva & Crahay, submitted, b): 28 items;

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5. Conceptions of assessment (Issaieva & Crahay, 2010): 14 items; 6. Principles of justice (Crahay, unpublished): 15 items. The items are presented in the form of a Likert scale ranging six points from the pole “totally disagree” to the pole “strongly agree”. As a result, the more the average of responses to an item tends to 6, the more teachers voted in agreement with the proposition. The questionnaire on teachers’ beliefs is completed by a series of dichotomous questions, multiple choice, semi-open and open, designed to gather information on the situation, both “personal” (gender, age, education, etc.) and professional (training followed, number of years experience, style of classroom management), of each teacher. These questions are placed at the end of the questionnaire.

2. Results Construction and validation of scales by factor analysis The whole questionnaire contains 153 items (plus those known as identification questions) for which we have responses from 112 teachers.To obtain metric scales structured according to the patterns of teachers’ responses, we conducted as many exploratory factor analyses as the categories distinguished in the development of the questionnaire (Table 2). As a reminder, the exploratory factor analysis (EFA) has the function of gathering the items according to the similarity of the responses which the subjects interviewed gave. More precisely, it is a statistical technique which enables variables that are not directly observable (latent) to be analysed, defined in turn by various observable and inter-correlated combinations of parameters (items).The objective, by applying this analysis to our data, is to identify and name these latent variables, also called common factors, by examining the manifest (hence measurable) parameters that comprise them. Note that from these analyses results the suppression of a certain number of items (with factor loading lower than 0.30), and thus the reduction of the total number of those taken into account (N = 84 remaining items). Exploratory factor analyses have all been successful in the sense that, for all the questionnaires, it was possible to extract a certain number of robust and coherent factors. In addition, all scales formed by the EFA have good indicators of internal consistency (Cronbach’s alpha).

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Marcel Crahay, Caroline Marbaise, Elisabeth Issaieva

Questionnaire

Repetition

Learning

Intelligence

Assessment

% of variation explained

Number of items

Cronbach Alphas

Repetition has negative effects (F1)

16,920

6

0,853

The practice of repetition is beneficial (F2)

33,632

7

0,783

Repetition seen as a source of motivation for the student (F3)

11,327

2

0,775

Learning is developed around a constructivist conception (F4)

23,930

5

0,797

Learning takes place through repetition (F5)

11,929

5

0,806

Learning is transmitted through an implicit approach (F6)

9,401

4

0,695

Learning requires the "trigger� (F7)

5,695

3

0,659

Intelligence is developed through interaction with the environment (F8)

18,762

8

0,801

Intelligence is seen as innate with regard to the speed of understanding (F9)

14,647

9

0,93

Intelligence is seen as innate with regard to the different styles of intelligence (F10)

8,480

9

0,857

Intelligence is developed by the cumulative contribution of knowledge and culture (F11)

6,787

6

0,761

Intelligence is multiple (F12)

4,339

3

0,754

Assessment is in the service of school regulation (F13)

26,835

3

0,720

Assessment is seen normative tool (F14)

22,021

3

0,680

Equality of treatment (F15)

23,368

4

0,727

Equality of achievement

27,308

2

0,768

Knowledge of the ineffectiveness of student retention (F17)

30,813

3

0,732

Asserted knowledge of the effectiveness of student retention (F18)

14,652

3

0,454

Factors selected

as

a

Justice

Knowledge of research on the effects of student retention

!

Tab. 2: Construction and validation of scales by exploratory factor analysis

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All exploratory factor analysis have been attested by confirmatory factor analysis; as shown by the data given in Table 3, the fit indices are satisfactory every time. CFA related

Fit indices Chi-square (dl =24) = 39,2 ;

RMSEA = 0,08 ; CFI = 0, 9525

Beliefs about repetition Knowledge of research on the effects of repetition

Chi-square (dl =5) = 8,3 ; RMSEA = 0,08 ; CFI = 0, 96 Chi-square (dl=170) = 242,0 ;

Conceptions of intelligence

RMSEA= 0, 06 ; CFI = 0,91 Chi-square (dl=72) = 110,8 ;

Beliefs about learning

RMSEA= 0, 07 ; CFI = 0,91 Chi-square (dl=8) = 15,071 ;

Conceptions of assessment

RMSEA = 0, 09 ; CFI = 0,95 Chi-square (dl=9) = 17,254 ;

For the principles of justice

RMSEA = 0, 09 ; CFI = 0,94

! Tab. 3: Results of confirmatory factor analyses

The results of these analyses combined with the examination of averages and standard deviations calculated for the 84 items selected and the calculation of correlations between factors (see Appendix 1 for the correlation matrix) make it possible to draw a first series of observations: • Regarding the effects of repetition, it appears that teachers do not express marked belief. The averages calculated for each of the items in this category vary between 2.54 and 4.26, that is to say between slightly negative opinions (between 2.54 and 3) and slightly positive ones (between 3 and 4.26)3. In short, the trends are less marked. Neither are the standard deviations very high (between 1.26 and 1.49). In other words, these trends express either moderate agreement or moderate disagreement. This is a first cause of astonishment, given what earlier surveys reveal (see Crahay, 2007). Furthermore, factor analysis highlights two clearly opposite factors (r = -0.49): the first (F1), which we call

2 Chi-square allows to estimate the importance of the difference between the anticipated theoretical model and the observed one. Its fit is the better the more 2 decreases to 0 without being significant at 0.05; the ratio of 2 and the degree of freedom must also not exceed the value of 2.The CFI (“Comparative Fit Index”) evaluates the fit of the hypothetical model for null models. It varies from 0 to 1 and shows a good fit when it reaches at least 0.90. The parsimonious fit index, RMSEA (“Root Mean Square Error of Approximation”), evaluates the incurred risk that the models are little adequate to data. Until it does not exceed 0.09, it can be considered an acceptable fit. 3 Remember that, the scale ranging between 1 and 6, the average is 3,5.

82 !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!


Marcel Crahay, Caroline Marbaise, Elisabeth Issaieva

“repetition has negative effects” and the second (F2), called “the practice of school retention is beneficial”. This result suggests that the sample is divided into two groups of teachers with quite antagonistic conceptions.The third factor isolated by the factor analysis reveals a third belief: repetition would be a source of motivation for the student. Logically, this third factor (F3) is negatively correlated to the first (r = - .24). In other words, teachers who assign negative effects to repetition doubt that it can be a source of motivation for students who are subject to it. • Factor analysis related to the knowledge of research on the effects of repetition highlights two opposing factors: one (F17) which includes responses attesting the knowledge of the ineffectiveness of this measure and the other (F18 ) revealing a false understanding of research results. It is thus clear that in the CFWB there are teachers who have a correct knowledge of research related to repetition; we shall see later that they are not a majority, which will confirm our hypothesis 6. Other observations relate to other categories of beliefs. • With regard to learning, it appears that the majority of teachers agree with several learning theories: namely constructivism (F4), learning by repetition (F5), a conception that can be termed behaviorist, learning “by trigger” (F7). The correlations between these three factors are positive (the r vary between 0.39 and 0.45) (see Appendix). On the other hand, they seem to be less favourable to the concept of implicit learning (F6): this factor is also negatively correlated with the other three. It can be noted that the emergence of factors 4 and 7 will allow to test hypotheses 2a and b; the appearance of factors 5 and 6 will possibly allow to formulate new ones. • Factor analysis highlights five conceptions of intelligence. The first conception (F8), according to which intelligence develops through interaction with the environment, can be described as constructivist with regards to items which saturate the first factor. The progressive nature of intelligence would equally appears in factor 11, which is characterized by the importance attributed to the accumulation of knowledge. These two factors come into play as for the possibility to test hypothesis 3a. Factors 9 and 10 reveal two forms of nativism. The first (F9) emphasizes the speed and ease of some when it comes to learning: it is the intelligent one who learns and understands quickly, almost effortlessly. The second (F10) is partly inspired by Howard Gardner and his theory of multiple intelligences: intelligence is innate, but it can take different forms; in short, we are born with different potentials and different forms of intelligence. These two factors are important in view of our hypothesis which assumes a relation between the beliefs of the innateness of intelligence and those in favour of student retention (hypothesis 3b). The last factor (F12) covers only 4.34% of the total variance and is saturated with only three items, items that relate to intelligence styles. A look at the averages related to the items indicates that the conceptions revealed by factors 8 and 9 are dominant. These reflect two antagonist conceptions: a malleable and progressive one and, in contrast, an innate and fixed idea of intelligence. Surprisingly, the correlation between them is not negative: r = 0.17. More generally, the correlation matrix does not show any negative correlation between the various factors related to intelligence (see Appendix). On the other side, it shows a positive correlation between factors 8 and 11 (r = 0.36) and another between the factors 9 and 10 (r = 0.64); these correlations show links between, on the one hand, the two progressive conceptions and, on the other hand, between the two nativist ones.

83


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• With regard to the assessment, teachers’ beliefs are structured into two sets: (1) assessment serves the school regulation (F13); (2) assessment is used to classify students (F14).These two factors, which come into play with regard to hypothesis 4, are not correlated to one another (r = -0.07). • With regard to questions regarding the principle of justice, two factors emerged: F15, comprising four items related to equality of treatment, and F16, gathering two items regarding the equality of achievement. These two factors, which are not correlated with each other, come into play with regard to hypothesis 5. In general, the examination of the various averages and standard deviations suggests that the idea that there are clear-cut beliefs amongst the teaching staff should be excluded.

Exploring the links between beliefs by calculating correlations The main purpose of this research is to find an explanation for teachers’ beliefs in the benefits of repetition, moving from the theories in the field which posit that beliefs or representations of individuals are connected, in one way or another (see above). One way to explore our different assumptions on this subject is to calculate the correlations between the different scales identified by the factor analyses we made. This first analysis leads to timid results (see the correlation matrix in the Appendix); some correlations are consistent with some of our assumptions. Thus the belief in the benefits of repetition (F2) is correlated with the belief that intelligence is innate in relation to the speed of understanding (F9) (r = 0.23) and in relation to the difference of style of intelligence (F10) (r = 0.23), which is consistent with hypothesis 3b. The belief in the benefits of repetition is also correlated to a normative conception of assessment (F14) (r = 0.23), which is predicted by hypothesis 4. Other correlations express trends opposite to our assumptions. Thus, we see that the belief in favour of student retention is negatively correlated (r = -0.28) with the knowledge of research in the field. This suggests an effect of knowledge of research on beliefs, which is reinforced by the finding of a strong positive correlation (r = 0.82) between the same factor 17 and the belief in the negative effects of repetition (F1).Table 4 shows all the correlations between factors 1 and 2 related to beliefs about repetition and factors 17 and 18 on the knowledge of research on the effects of repetition. It can also be noted that the correlation between factors 17 and 18 is negative (r = 0.26). The same goes for factors 1 and 2 (r = -0.49). Belief in the

Belief in the

negative effects of

benefits of

repetition (F1)

repetition (F2)

,817**

-0,280**

-,341**

0,237*

Knowledge of the ineffectiveness of repetition (F17) Asserted knowledge of the effectiveness of repetition (F18)

!

Tab. 4: Correlations between beliefs about the effects of repetition and knowledge of research in the field

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Marcel Crahay, Caroline Marbaise, Elisabeth Issaieva

What variables are useful to “explain” the belief in the benefits versus the dangers of repetition? In order to consolidate these first results, we conducted two multiple regression analyses, one to “explain” the belief in the benefits of repetition (F2) and the other to “explain” (in the statistical sense) the opposite belief (F1). For the first regression analysis, we identified five factors significantly correlated (F9, F10, F14, F17 and F18) with the belief in favour of student retention and for the second two significantly correlated (F17 and F18) to the belief against this practice. $

$

$

$ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ With regard to the belief in the benefits of repetition, we have proceeded in successive $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ analyses using the backward regression method (the initial model includes all$ supposed vari$ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ ations to explain the belief of repetition and highlights those with the lowest input). In the $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ first$ analysis, we have mentioned the regression $ $introduced $ the$ five$ factors $ $ $ $ above; $ $ $ $ equation $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ thus calculated$ explains only the of the variance to$ predict $ $ 17.8% $ $ $ $of the variable $ $ $ (F2).$ A$ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ more economical and is$ obtained by only two predictors: intelli$ $ $ satisfactory $ $ model $ $ $ using $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ gence is innate in $ relation to$ the speed $ $ $ of understanding $ $ $ $ (F9) $ and ignorance $ $ of $ research $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ (F18). By$ themselves, these explain the $ $ $ two $predictors $ $ $ 15.7% $ $ of$ the $ variance $ $ of $the belief $ $ $ in !the benefits of repetition (Table 5). The presence of factor 9 in the regression $ $ $ $ $ $ $ $ $ $$ $ $ $ $$ $ $$ $ $ $ $ $ $ $ $ equation $ $ $ $ goes in the direction of a relation between the belief that intelligence is innate and the belief $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ in the benefits with hypothesis $ of repetition, $ $ which is consistent $ $ $ $ $ $ 3b. Nevertheless, $ $ $the$ result $ $ $ produced is low, which we interpret as a sign that psycho-pedagogical beliefs scarcely explain $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $

$

the belief in the utility of repetition. ! $

$

$ $

R

$

$

$

R2

$ $

$

$

$

$

$

$

$

adjusted ! $

$

!

$

$ $

$

$ $

$

$

error of

of R2

$ estimation $ $ $

0,585

of F $

- 0,008

$

$ $

$

2,260

$

1

91

Variation of $F $

$ $

$ $ $

$

0,136

Tab. 6: Results of regression analysis aimed to “explain” the belief in the negative effects of repetition

! $

$ $

0,828 0,686 0,679

$

$

$

$ $ $ $ $ $ $ $ $

Standard Variation Variation ddl1 ddl2 Sig. error of of R2 of F Variation of $ $ $ $ $ $ $ $ $ estimation F

R2 adjusted

$

$ $

$ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ 0,397 0,157 0,127 0,988 0,011 1,048 1 83 0,309 $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $$ $ $ $ $ $ $ $ $ $ Tab. 5: Results of regression analysis aimed to “explain” ! $ $ $$ $ $ $ $ $$ the belief $ $ $ in the $$ $ $ benefits $ $ of $$ $ $ $ $ repetition $$ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ R2 Standard Variation Variation ddl1 ddl2 Sig. R R2 $

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$ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ To identify the! position with regard to we conducted cluster analy! $ of teachers ! repetition, ! $ ! have $ $ $! $ ! $ ! $ ! $ $ $ $ $ $ $ $ ses by introducing five variables: the three factors related to beliefs with regard to repetition $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ and the two$ factors$ on$ the knowledge of$ research. First, a hierarchical $ $ $ $ $ we have$ conducted $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ cluster analysis to highlight contrasting profiles $ $ $ $ $ $ whose$ cutting $ $ is the $ most$ appropriate. $ $ This $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ suggests the$ existence of two groups of teachers: some, knowing of the research showing the $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $$ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $$ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $

Two teacher profiles: the$ pros and$ cons of$ repetition $$ $ $ $ $

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Giornale Italiano della Ricerca Educativa • VI • 11 / DICEMBRE • 2013

ineffectiveness of repetition, no longer believe in its benefits, while others continue to believe in it, ignoring the research. In order to confirm the existence of these two groups of teachers, we have conducted a cluster analysis using the method of K-average. It clearly confirms this interpretation of our results.Two groups of teachers emerge (see Figure 1), gathering 96 subjects, while the other 16 could not be included in either of the two profiles: on one side, there are 39 teachers (Cluster B) who know the research on the effects of repetition (index = 0.76) and who, at the same time, believe that repetition has a negative impact (index = 0.89); on the other hand, there are the majority of those (N = 57, cluster A ) who (1) believe that repetition is a tool for the disciplinary control of students (index = 0.36), (2) believe in the benefits of repetition (index = 0.36), (3) do not know the research (index = - 0.51) or (4) claim about the analysis$ of variance $ false $ knowledge $ $ $ $ $research $ $ (index $ $ = .19). The $ $ $ confirms $ $ that these of for each $ $two$ groups $ $ teachers $ $ differ $ $ $ of $ the five $ $parameters $ $ considered. $ $ These $ results $ confirm are unaware of the on $ $ $ $ 6, that $ $a majority $ $ of teachers $ $ $ $ research $ $ $ our hypothesis $ $ $ the effects of repetition. However, contrary to our hypothesis 7, it is possible to identify a mi$ $$$ $ $$ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $$ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $no$ longer $ $ $ $ in the$ benefits $ nority of teachers who, knowing the$ research, believe of$ repetition. ! $

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Fig. of $ the$ two categories of towards retention $ 1: Profiles $ $ $ $ teachers $ $ $ student $ $$ $ $ $ and the knowledge of scientific research $

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(n=57)

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(n=39)

Cluster Cluster A (n=57) (n=57)

Cluster Cluster B (n=39) (n=39)

F

Pr obability Probability

771 0, 0,771

117, 574 117,574

<0, 0001 <0,0001

,64 - 00,64

0,913 0,913

26,704 26,704

<0, 0001 <0,0001

1, 014 1,014

,49 - 00,49

0,790 0,790

18,876 18,876

<0, 0001 <0,0001

- 00,51 ,51

0, 656 0,656

0, 76 0,76

0, 63 0,63

88,388 88,388

<0, 0001 <0,0001

0,19 0,19

0,749 0,749

- 00,27 ,27

0,80 0,80

8,328 8,328

<0, <0,0001 0001

Average Average

St Standard andard deviation deviation

Average Average

Standard Standard devi ation deviation

Belief Belief in in the the dangers dangers of R (F1) (F1)

,60 - 00,60

0,568 0,568

0,89 0,89

Be Beliefs liefs in in the the benefits benefits off R (F (F2) 2)

0,36 0,36

0,936 0,936

is a source source Repetition Repetition is vation for the the of motivation motiva (F3) st udent (F3) student

0,35 0,35

of research re s e a rc h Knowledge Kn owledge of (F17) R = iineffective neffective (F17) Kn owledge ooff research Knowledge (F18) R = eeffective ffective (F18)

$

$

Tab. 7: Averages, standard deviations and significance of beliefs

$

$ and $ knowledge $ $ $ $ $ student $ $ retention $ $ $ (R) in$ the $ $different $ $ $ ($$ two ,$ $ $ $ about clusters $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $

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Marcel Crahay, Caroline Marbaise, Elisabeth Issaieva

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Total job tenure

$

Total

Between 0 and 10 years

Between 11 and 20 years

Over 21 years

Repetition is beneficial (cluster A)

16

18

23

57

Repetition has negative effects (cluster B)

8

9

22

39

Tab. 8: Cross-tabulation between the two clusters regarding beliefs and $ $ $ about $ $repetition $ $ $ teachers’ $ $ $ $ years of service $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ Is it $possible to identify teacher profiles according to their psycho-pedagogical beliefs? $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ With regard to learning, intelligence, assessment and the principles of justice, the results of $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ factor $analyses confirm the existence amongst the teachers interviewed of distinct beliefs $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ (see Table 2). However, the $results of the$ correlational analysis and regression equations do $ $ $ $ $

$ $ $ $ $ $ $

not support our hypotheses 2, 3, 4 and 5. Furthermore, the results of the correlational analyses teachers ! ! suggest! that ! on average, ! ! !tend to agree ! ! with ! everything. To overcome ! ! this perception, we have conducted cluster analyses (using the hierarchical method first and then the$ method on the 4$ beliefs related $ $ of K-average) $ $ base of the $ $ $ $ to learning $ $ (F4,$ F5, $ F6 $and F7 $ ), the $5 beliefs about $ $ intelligence $ $ (F8, F9, $ F10, F11 $and $ F12),$the 2 conceptions $ $ $ of $ assessment $ $ (F13$and F14) and the 2 principles of justice (F15 and F16). This analysis reveals two clearly $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ distinct teacher 9). $ $ $ profiles $ $ (Table $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ Cluster analysis on the psycho-pedagogical beliefs of teachers gathers 43 of them in a $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ first cluster, in $ $ and $ 57$ in$ a second. $ $Twelve teachers $ $ $ are not $ $ included $ $ $ any of $ $the two$ profiles. $ $ $ The opposes the teachers who are characterized by high values on most scales $ $clustering $$*"#$d$3#1&#)+$%3(5*$&2*#11&8#2-#$`C]7$Cj7$C@Z7$C@@$%26$C@Ac7$*"#$A$-(2-#0*&(2+$()$%++#++'#2*$`C@[$ with $low (Cluster A). 2$ clearly$ high- $ %(Cluster $ $ B)$ to those $ $ $ values $ on$ these $ same $ scales $ $ $ Figure $ lights $ this phenomenon. $ $ $

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87

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Cluster A (n=43)

$

Cluster B (n=57)

F

Probability

Average

Standard deviation

Average

Standard deviation

Learning is developed around a constructivist conception

- 0,628

0,881

0,463

0,641

51,343

<0,0001

Learning takes place through repetition

- 0,696

0,841

0,518

0,643

67,002

<0,0001

Learning is transmitted through an implicit approach

0,112

0,819

-0,051

0,877

,889

0,348

Learning requires the "trigger"

-0,335

0,837

0,317

0,781

16,057

<0,0001

Intelligence is developed through interaction with the environment

- 0,405

0,853

0,339

0,780

20,594

<0,0001

Intelligence is seen as innate with regard to the speed of understanding

- 0,480

0,817

0,426

0,772

32,124

<0,0001

Intelligence is seen as innate with regard to the different styles of intelligence

- 0,621

0,885

0,408

0,671

43,723

<0,0001

Intelligence is developed by the cumulative contribution of knowledge and culture

- 0,349

0,801

0,262

0,840

13,510

<0,0001

Intelligence is multiple

- 0,098

0,923

0,019

0,898

,406

0,526

Assessment is in the service of school regulation

- 0,268

,915

0,162

1,014

4,808

0,031

Assessment is seen as a normative tool

- 0,199

0,907

0,062

0,953

1,916

0,169

Equality of treatment

- 0,146

0,987

0,062

0,953

1,812

0,181

Equality of achievement

- 0,453

0,871

0,093

0,788

19,470

<0,0001

Tab. 9: Averages, standard deviations and significance of beliefs and knowledge learning, of $ $ about $ $ $ intelligence, $ $ assessment $ $ $ $ and $the principles $ $ $ justice $ $ $ $ in the two clusters isolated by cluster analysis $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ 0.05$ for most $scales, $ The $ Snedecor F$ indicates $ $ $ high$ values $ $and a P of $ less$ than $ $ $ except $ the one$ corresponding in $implicit refers to the $ $ $ to the $ belief $ $ $ learning, $ the $ $ one$ which $ $ $ idea of $ different learning styles, the one which echoes the normative assessment and the one refer$ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ ring$ to $equality of the$ factor is at$ the of school $ $ $ treatment. $ $ $ Regarding $ $ $ $“Assessment $ $ $ service $ $ $ $ regulation”, the F obtained corresponds to a probability threshold below 0.05 but above $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ 0.01. Nearly (43 of$ 112) has thus “lukewarm” $ $ half$ of $teachers $ $ $ $ provided $ $ $ $ answers $ $ to most $ items, as if they not to$ most of the $ $ $ could $ $ take $ $ a clear position $ $ in $ relation $ $ $ $ propositions. $ $ $ $ The$ $ other in relation to $most of $the$ propositions. $ half (57 $ of 112) $ took$ a $clear $ position $ $ $ $ $ In$ short, $ $ contrary to what the theoretical debates lead us to expect, cluster analysis does not place $ $

constructivist teachers in opposition to others who are behaviourist. Neither does it oppose ! $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ teachers who have a$ nativist$ conception of intelligence to those who have an$ evolutionary $ $ $ idea of it. The results presented in Table 9 do not show a divide between teachers based on the base of psycho-pedagogical theories. We will return on this topic in the discussion.

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Marcel Crahay, Caroline Marbaise, Elisabeth Issaieva

$ Fig. 2: Profiles of the two categories of teachers with regard to their beliefs about learning, ! ! intelligence, ! !assessment ! and the ! principles! of justice ! ! ! !

!

! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! What relation exists between the beliefs about repetition and those relating to learning, intelligence, as- $ $ $ ! $ $! $ ! $ $ ! $! $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ !$ $ sessment and principles of justice?

!

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$

$

$ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ With $ $ $ on$ the $ same $ $ it is $ logical $ $ $ $ to cross $ $ $ their $ $results. $ $ $ In $this $ case, $ it$ $ $ $ two $ $ cluster$ analyses $$ $$ data, $has even $ $more sense, $ $ since $ this $ crossing $ $ $ better $ $ $ $how the $ different$ $ can help us understand ! $ $ $ $ $ $ $ $ $ of this crossing $ $ of$ beliefs considered $ $ in$the context $ $ of $ our research $ $ interact. $ $ The$ results types $

!

are shown in Table 10. $

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$

$ $

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$

$

$

$

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Cl Clusters usters related related to to R Be Beliefs lie f s about learning, le arning, intelligence, in telligence, et c. etc.

$ $

Total Total

In ffav favour avour ooff R

Ag Against a in s t R

A

29

21

50

B

23

15

38

Total Total

52

36

88

$ $ $ $ $

$ $ $

$

Tab. 10: Crossing of the results of cluster analyses

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$

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3. Discussion and conclusion $

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The objective of our work was to try to explain the beliefs of teachers regarding the practice $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ of student retention by their psycho-pedagogical beliefs about learning, intelligence, assessment $ and $ $ $of$ justice. $ $ $ $ from$ the$ $ premise $ $ the majority $ $$ $ $ $ $ Moving $ that $ $ $ of teachers $ $ $ $ the$ principles $$ expressed $ opinion $ $ the $ hy$ $ $ $ $ $ $ $ towards $ degrees $ $ $ practice $ of repetition, $$ $ $ $ the $ to$ $various a favourable we$$ made $ put $$ in relation $ $ $that$ this $ $ $ of $variability $ $ $ or less $ $ pothesis $ $ $ $strong$ adhesion $$ $$ degree $ $ $ $ could be to$ a more $ $ $ theories $ $$and $intelligence, $ $ $ as$ $well as$ $various $$ $$ $ $ to $ various $ $$ of$ learning $ $$ of $$ $ teachers of$ these ideas of analyses $ $$ $ we $ $ $ $assessment $ $ $From $$ $ $ hypotheses. $ justice. $ $there, $ $ $ $ The statistical $ $ $ we made $ $ $ a$ series $ $ $ $and made led us to reject all the hypotheses concerning a possible link between psycho-pedagog$$ $ $ $ $ $ $ $ $$ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $ $

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Giornale Italiano della Ricerca Educativa • VI • 11 / DICEMBRE • 2013

ical beliefs of teachers and their faith in student retention (hypotheses 2, 3, 4 and 5). More precisely, it turns out that the psycho-pedagogical beliefs on learning, intelligence and assessment, as well as the conceptions of justice measured through various questionnaires where psychometric qualities could be shown, are not reliable predictors of beliefs with regard to repetition. More specifically, when we introduce in a regression equation psycho-pedagogical beliefs which have a (even small) correlation with beliefs about repetition (these being the variable to predict), they account for only a tiny percentage of the variance thereof. On the contrary, knowledge of research on the effects of repetition has a strong impact on teachers’ beliefs on the subject. Correlational and regression analyses helped to highlight neatly the phenomenon that teachers who think that scientific research shows the negative effects of repetition are likely to abandon this belief and thus to negatively perceive it.This result seems new to us; we have not found a trace of it in our literature review. It must be noted that in the first analysis, the results of the present study converge with those of previous research on teachers’ beliefs in the CFWB with regard to repetition: in accordance with our hypothesis 1, the majority of teachers expresses a favourable opinion towards the practice of repetition (Crahay, 2007). Nevertheless, a cluster analysis nuances this statement. This is valid for a majority of teachers (in our case, certainly 57 teachers), but it is not true for a certain number of them (39 in our cluster analysis) who have been informed of the results of research on the effects of repetition. Thus, it appears that teachers who can demonstrate a good knowledge of scientific research on the effects of repetition tend not to believe anymore in its benefits. This seems to us an important and promising result in terms of changing things. From this result, we can deduce the hypothesis of action that if more teachers were well informed of the research on repetition, they would be more likely to question its benefits. We write “well informed” because our data show that some teachers claim to know the research, but attribute the opposite results to what they really are. The second analysis which we processed led to equally questioning results. It focuses on beliefs about learning, intelligence, assessment and the principles of justice in education. Two groups of teachers can be distinguished, but what opposes them are not antagonistic beliefs. Cluster analysis does not put constructivist teachers in opposition to behaviourists. Neither does it oppose teachers who have a nativist conception of intelligence to those who have a progressive idea of it. The results presented in Table 8 above do not show a divide between teachers based on theoretically opposing psycho-pedagogical trends.We obtain a typology which does not differentiate according to the nature of beliefs, but according to the intensity of their agreement with different conceptions.Thus, the analysis shows firstly that nearly half of the teachers have responded lukewarmly to most theoretical propositions that were presented to them, as if they had no opinion about them. The analysis reveals a second group of teachers, slightly in the majority, who expressed clearly in favour of almost all theoretical propositions which were submitted to them. This finding goes against much research which posits, and sometimes observes, a gap between constructivist teachers, also referred to as progressive, and others described as traditionalist and/or behaviourist (Kember & Kwan, 2000; Trigwell , Prosser & Waterhouse, 1999). Teachers who express strongly fixed beliefs consider, consistently with constructivism, that learning requires disequilibrium in situations-problems and, at times, “trigger” operations, but this belief does not stop them from thinking (in accordance with behaviourism) that student retention is necessary. Regarding intelligence, they believe that it develops thanks to the interaction with the environment and the cumulative contribution of knowledge and cultural elements, but they also believe that intelligence is innate with regard to the speed of understanding and some

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Marcel Crahay, Caroline Marbaise, Elisabeth Issaieva

individual differences in cognitive styles.These teachers also adhere to a corrective conception of justice and, therefore, to the equality of achievement as well as to a conception of assessment which focuses on its formative function. We immediately notice that this beliefs profile is close to the ideas that are taught in teacher training. From this to question the social desirability of this beliefs profile and the reasons for the lukewarm responses of the majority of teachers surveyed, there is only one step that should be taken. More specifically, we believe that, given its importance, this observation must be replicated, because it emerges from a survey of 112 teachers only. It should be noted, however, that in two other studies conducted with French teachers, we obtained similar results (Issaieva & Crahay, a & b, submitted). In these studies as in the one presented here, the correlations between different beliefs are of low amplitude, if not nonexistent.This forces us to think that, amongst teachers, beliefs are isolates. In other words, contrary to the hypotheses of Rokeach (1976), Green (1971), or Abric (1989), the psychopedagogical beliefs do not work in a network.This leads us to refute both the theory of the centrality of Rokeach and Abric and that of the organization in clusters of Green. Our observations lead us to adopt the point of view of Schommer (1990 Schommer-Aikins, 2002, 2004) who, about the epistemic beliefs of adults, supports the thesis of the existence of beliefs that are more or less independent the one from the other. We must, however, point out that, contrary to conventional studies conducted on social representations (Abric, 1989; Mannoni, 1998), the beliefs investigated come from what was convenient to call common sense, but stay on the verge of the field of professional practice. It must be remembered that what was required from teachers was to position themselves in relation to theoretical propositions; as it is also the case, but on a different topic, in the research of Schommer. It may be this theoretical character of the propositions submitted to the opinion of the teachers which explains, on the one hand, the lack of network structure and, on the other, the impact that the knowledge of research has on beliefs about the effects of repetition. It must be noted in this regard that, in our sample, six teachers show a real knowledge of research on the effects of repetition4 and, yet, maintain a belief in the benefits of this practice5, so despite and against the results of the research.This leads us to recognize that the influence of the knowledge of scientific research on beliefs is not automatic.This means therefore that some teachers inflect their beliefs on the base of rational elements which are presented to them, and others do not. It is a phenomenon that further research should explore.

4 Their score on the F17 is higher than 0.50. 5 Their score on the F2 is higher than 0.

91


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Appendix: Matrix of correlations calculated amongst the different factors as defined in Table 2

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Giornale Italiano della Ricerca Educativa • VI • 11 / DICEMBRE • 2013


Marcel Crahay, Caroline Marbaise, Elisabeth Issaieva

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Ricerche La misura degli atteggiamenti di leadership degli adolescenti in due contesti educativi: scuola e scautismo The measurement of leadership attitudes of adolescents in two educational contexts: school and scouting ÉMILIANE RUBAT DU MÉRAC La ricerca si interessa di sapere come le richieste emesse dall’OCSE, UNESCO e Unione Europea rispetto alla scuola, intesa come luogo di formazione alla vita sociale, vengono applicate rispetto allo sviluppo di atteggiamenti di leadership. È stato scelto di confrontare la proposta educativa della scuola con quella dello scautismo per studiare l’impatto di questi due ambienti educativi sul modello di leadership degli adolescenti. Per questo scopo sono stati utilizzati due strumenti, il primo volto a misurare gli atteggiamenti e i valori di leadership espressi dai ragazzi, il secondo volto a cogliere attraverso le percezioni dei ragazzi le caratteristiche dei due contesti educativi. Come strumento per la misura degli atteggiamenti di leadership è stata utilizzata la Socially Responsible Leadership Scale (SRLS) (Tyree, 1998; Appel-Silbaugh, 2005; Dugan, 2006), tradotta e utilizzata per la prima volta in Italia. Lo strumento di Percezione del contesto Educativo (ECPQ) è stato ispirato alle dimensioni del Culture Questionaire della Global Leadership and Organizational Behavior Effectiveness research (GLOBE) (House, 2004) e sono state rielaborate sulla base dell’analisi fattoriale dei dati rilevati. I questionari sono stati somministrati a 600 studenti e 231 scout, iscritti al biennio della scuola secondaria di secondo grado a Roma. Nel presente articolo vengono descritte le caratteristiche dei due strumenti e presentati i risultati relativi alle differenze tra scout e studenti nella loro percezione del contesto classe o gruppo scout e nel loro sviluppo di atteggiamenti di leadership. Le analisi indicano differenze statisticamente significative a favore degli adolescenti scout per quanto riguarda sia la percezione del contesto sia lo sviluppo di atteggiamenti di leadership.

The research aims to see how the requests issued by the OECD, UNESCO and European Union with respect to the school, intended as a place of training in social life, are applied with respect to the development of leadership attitudes.The educational program of the school has been compared with that of Scouting, to study the impact of these two educational contexts on the leadership model of the adolescents. For this purpose, we used two instruments: the first designed to measure the attitudes and values of leadership expressed by the students, the second aimed to identify through the perceptions of adolescents the characteristics of the two educational settings. To measure the attitudes of leadership, we used the Socially Responsible Leadership Scale (SRLS) (Tyree, 1998; Appel-Silbaugh, 2005; Dugan, 2006), translated and used for the first time in Italy. The instrument of Educational Context Perception (ECPQ) of the Environment was inspired to the Culture Questionnaire dimensions of the Global Leadership and Organizational Behavior Effectiveness Research (GLOBE) (House, 2004), which have been revised on the basis of factor analysis of the collected data. The questionnaires have been submitted to 600 students and 231 scouts, enrolled in upper secondary schools in Rome. In this article, are described the characteristics of both instruments and presented the results concerning the differences between scouts and students in their perception of the classroom or scout group environment and in their development of leadership attitudes. The analyzes indicate statistically significant differences in favor of adolescents scout, relating to both the environment perception and the development of leadership attitudes.

Parole chiave: Leadership basata sui valori, Social Change Model (SCM), Scuola secondaria, Scoutismo, Adolescenti, Questionario di Percezione del Contesto Educativo (ECPQ).

Key words: Value-based leadership, Social Change Model of Leadership (SCM), SRLS, High school, Scouting, Adolescent leadership development.

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2038-9736 (in press) / ISSN 2038-9744 (on line) Giornale Italiano della Ricerca Educativa • anno VI – n. 11 – dicembre 2013

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La misura degli atteggiamenti di leadership degli adolescenti in due contesti educativi: scuola e scautismo

Introduzione all’obiettivo e al contesto della ricerca La nostra ricerca è volta a comprendere come gli studenti percepiscano aspetti caratterizzanti del contesto all’interno della loro classe, e gli scout della stessa età all’interno del loro gruppo scout, e a verificare se alcuni aspetti della loro percezione del contesto influenzino l’acquisizione di attitudini e atteggiamenti di leadership. La scelta di confrontare la proposta della scuola con quella dello scoutismo è stata motivata dalla rappresentanza del movimento scout nel mondo (dal censimento dell’OMMS del 2010 ci sono più di 38 milioni di scout e guide nel mondo) e dagli obiettivi stessi delle attività scout. Nella costituzione e il regolamento dell’Organizzazione Mondiale del Movimento Scout, Il metodo scout viene definito come un sistema di auto-educazione progressiva orientato allo sviluppo del carattere e all’acquisizione di competenze, fiducia in se stessi, senso del servizio e attitudini sia a cooperare che a dirigere. L’OCSE non prevede indicatori che riguardino lo sviluppo di competenze di leadership, sia che si consideri questo aspetto tra i motivi per investire in educazione, sia che lo si consideri come risultato atteso della formazione scolastica. L’UNESCO, invece, definisce la qualità dell’educazione attraverso due indicatori. Il primo riguarda lo sviluppo cognitivo dell’allievo e il secondo lo sviluppo emotivo, della creatività e di valori e atteggiamenti di cittadinanza responsabile. La Commissione Europa, benché centri i suoi obiettivi sullo sviluppo economico, cerca di dar spazio anche ad aspetti educativi come lo sviluppo della cittadinanza attiva a livello individuale e della democrazia a livello sociale. In Italia, la Carta dei diritti e doveri degli studenti di scuola secondaria si propone di promuovere lo sviluppo di una partecipazione attiva, dello sviluppo del senso di responsabilità, della coscienza critica e della cittadinanza. In questo documento, la scuola è definita come «comunità di dialogo, di ricerca, di esperienza sociale, informata ai valori democratici e volta alla crescita della persona in tutte le sue dimensioni» (D.P.R. 249/1998). La presente ricerca muove da tre presupposti principali. Il primo riguarda l’idea che il processo educativo includa la trasmissione di valori e modelli morali. Come sostiene Kohlberg (1984) «piaccia o non piaccia agli insegnanti, essi sono educatori (o diseducatori) sotto il profilo morale, in quanto fautori di un “curricolo latente”, sotteso all’atmosfera morale della classe» (Viganò, 1991, 36). Il secondo è che abilità quali la leadership si apprendano facendone esperienza. Per riprendere il pensiero di John Dewey (1916) potremo dire che «non educhiamo mai direttamente, ma indirettamente per mezzo dell’ambiente» e che «l’ambiente implica una partecipazione personale alle esperienze comuni» (p. 24 e 90). Infine il terzo riguarda l’idea che l’organizzazione del contesto ha conseguenze dirette sull’atteggiamento e il comportamento di chi ne fa esperienza. Mars (1982) attribuisce, per esempio, il nome di «lavoro da asino» a un ambiente di lavoro in cui le relazioni tra membri del gruppo sono ridotte e in cui il controllo sulle attività è forte e le decisioni vengono prese senza la

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Émiliane Rubat du Mérac

partecipazione dei membri del gruppo. Questo ambiente avrebbe come conseguenza una ricerca, attraverso modi illeciti, di compensazioni della mancanza di autonomia, creatività e sfida. Come sosteneva Piaget «la costrizione esteriore non distrugge l’egocentrismo: lo ricopre e lo dissimula, quando non lo rinforza direttamente» (Piaget, 1932, 66). Il passaggio dal conformismo dello stadio del realismo morale all’espressione di una morale intrinseca autonoma nello stadio del relativismo morale è, per Piaget, il frutto di una costruzione progressiva che non si può realizzare che attraverso la cooperazione, il confronto e l’accordo comune intorno a un insieme di regole stabilite in funzione del contesto. Per la formazione del senso morale è dunque necessario un contesto in cui si possa riflettere sulle regole, cooperare nel deciderle e adattarle all’esperienza in corso. La definizione di leadership cui si fa riferimento è basata su teorie che hanno come obiettivo lo sviluppo della leadership degli studenti (College students). Queste teorie sono il Relational Leadership Model (Komives et al., 1998, 2007), il Social Change Model of Leadership development (HERL, 1996), il Servant Leadership Model (Greenleaf, 1977) e la Leadership Challenge (Kouzes & Posner, 2002). Pochi modelli di ricerca hanno utilizzato queste informazioni, sulle possibilità e conseguenze dello sviluppo della leadership nei giovani, per costruire uno strumento che permetta di studiare come l’esperienza scolastica o universitaria possa influenzare il loro modello di leadership. I due strumenti adatti a questo scopo e questa fascia di età sono il Kouzes and Posner’s Leadership practices Inventory (Posner, 2004) e la Tracy Tyree’s Socially responsible Leadership Scale (SRLS) (Tyree, 1998). Quest’ultimo è stato ripreso e modificato dai ricercatori del programma di ricerca internazionale Multi-Institutional Study of Leadership (MSL) (Appel-Silbaugh, 2005; Dugan,2006), che si occupa di studiare l’impatto della scuola superiore e università sulle capacità di leadership socialmente responsabile (Socially Responsible Leadership Capacities) e altri esiti come la leadership efficacy. La SRLS si rifà al quadro concettuale del Social Change Model of Leadership (HERL, 1996), e più in generale al paradigma post-industrial in cui la leadership è vista come processo interattivo che include il leader quanto i seguaci, implica valori, abilità e competenze che vengono appresi, contiene una visione ed è orientata al cambiamento (Rost, 1991). La leadership, secondo questo approccio, deve essere indirizzata al miglioramento e pertanto essere basata su valori considerati indispensabili all’espressione della democrazia. Compito del leader è «facilitare cambiamenti sociali positivi dell’istituzione o della comunità» (HERI, 1996, 19). Si tratta dunque di un ruolo che può essere esercitato potenzialmente da chiunque, dunque ciascuno può emergere come leader in una data situazione e la leadership può essere esercitata solo nell’interazione e con il consenso delle persone implicate nella situazione di specie.

1. Il disegno di ricerca L’indagine si è svolta su un campione di giudizio costituito da adolescenti scout e non scout iscritti al primo e secondo anno della scuola secondaria di secondo grado a Roma. La scelta dell’età dei soggetti è legata a considerazioni generali relative allo sviluppo di modelli valoriali autonomi che inizia appunto nella fase dell’adolescenza. Importanti cambiamenti avvengono tra i 15 e i 16 anni, inoltre l’inizio della scuola secondaria di secondo grado implica un cambiamento nei rapporti con la scuola, con gli insegnanti e nuove modalità di rapporto con i compagni di classe. Gli studenti si trovano nel biennio in un nuovo ambiente che implica l’adattamento a regole diverse e a nuovi colleghi. Anche nello scou-

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tismo a questa fase di età corrisponde la richiesta ai ragazzi di maggiori assunzioni di responsabilità che per molti ragazzi comprende il compito di guidare un piccolo gruppo di ragazzi più giovani. La scelta dei due gruppi è stata effettuata a partire dal tipo di scuola frequentata dai ragazzi scout del Lazio rilevata sulla base di una precedente ricerca, questo al fine di evitare di confrontare due gruppi diversi per caratteristiche di sfondo. La percentuale di studenti provenienti da ciascun indirizzo scolastico è stata definita sulla base degli indirizzi scolastici degli scout di Roma. Questo ha portato a sovradimensionare, nel campione, studente proveniente da indirizzi di studio liceali. La ripartizione in funzione dell’indirizzo scolastico per la nostra ricerca viene riportata nella tabella successiva. Il campione raggiunto comprende 600 studenti e 231 scout delle associazioni AGESCI e CNGEI. La minore ampiezza del campione degli scout deriva dal fatto che in ogni unità educativa l’età è distribuita tra i 12 e i 16 anni dunque in un reparto scout i ragazzi tra i 15 e i 16 anni sono presenti in numero ridotto. Tipo scuola

Studenti Scout

Liceo classico o scientifico

58,8

57,6

Altro liceo

17,7

23,5

Istituto tecnico

16,8

14,7

6,7

4,1

Istituto professionale Totale %

100,0 100,0

Totale soggetti

600

231

Tab.T 1: Indirizzi scolastici degli studenti e scout in % T Anno del biennio Studenti Scout Primo

51,7

41,9

Secondo

48,3

58,1

Totale %

100,0 100,0

Totale soggetti a

600

231

sono stato somministrati: Tab. 2: Anno del biennio degli studenti e scout in % sono stato somministrati:

a A

La ricerca è stata condotta con l’uso di tre strumenti rivolti ai ragazzi e due strumenti riA volti ai loro educatori. Agli studenti e scout sono stato somministrati: a) un breve questionario di sfondo (19 item) per l’analisi delle variabili socioeconomiche; b) un questionario di percezione del contesto classe e reparto scout (47 item); c) un questionario su valori e capacità di leadership (77 item).

L

L

Agli studenti scout sono stati somministrati due strumenti: a) un questionario di sfondo (7 item) Per gli scout, non b) un questionario di percezione del contesto Scuola e Gruppo scout (47 item)

Per gli scout, non

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Émiliane Rubat du Mérac

I questionari di percezione del contesto e sui valori e capacità di leadership sono entrambi costruiti con la tecnica di Likert con cinque alternative di risposta. La somministrazione degli strumenti è stata complessivamente agevole in particolare con le scuole dove è stato possibile somministrare i questionari online, attraverso la piattaforma di Google. Il tempo richiesto per la compilazione dei questionari è di circa trenta minuti. Gli insegnanti non ci hanno riferito particolari difficoltà incontrate dai loro studenti, bensì piacere manifestato dai ragazzi nel rispondere alle domande. Per gli scout, non è stato possibile utilizzare la somministrazione online e si è reso necessario raggiungere i diversi gruppi per ottenere la compilazione in presenza dei questionari su carta.

2. I questionari e le dimensioni di percezione del contesto e dei valori di leadership Per analizzare come i ragazzi che vivono nella scuola e nello scautismo percepiscono il loro contesto, abbiamo scelto di ispirarci alla GLOBE Theory (House, 2004) e alle dimensioni della Organizational Culture Scale. Per Hofstede & Hofstede (1980, 1997), i cui lavori hanno influenzato la teoria della GLOBE, la cultura è acquisita e deriva dal proprio ambiente sociale, è «il libro non scritto che contiene le regole sociali che vengono trasmesse dai suoi membri ai nuovi arrivati e si annidano nella loro mente» (p. 26). Le dimensioni del Culture Questionnaire sono state utili alla individuazione del modello da cui derivare gli item, ma poiché le scale del questionario sono state ricavate da analisi fattoriali effettuate su dati raccolti in contesti imprenditoriali, del tutto diversi da quelli della scuola e dello scautismo, nella nostra ricerca è stato necessario ripensare queste dimensioni, che abbiamo chiamato di percezione del contesto, sulla base dello studio dei contesti in esame. Le scaleL che vengono proposte sono frutto dell’elaborazione dei dati del tryout della ricerca. Le dimensioni di Percezione del Contesto Educativo (ECPQ) sono le seguenti: 1. Apertura al nuovo, intesa come disponibilità ad accogliere e stimolare gli interessi degli L adolescenti. La scala contiene 5 item, il suo Alfa di Cronbach è di .70 e comprende un solo fattore. Item

Fattore

cont24 Nella mia classe le nostre proposte di attività vengono accolte.

0,762

cont2 Nella mia classe ci vengono spesso proposte cose nuove e inaspettate.

0,713

cont28 Nella mia classe i comportamenti innovativi per arrivare al risultato sono apprezzati.

0,677

cont41 Nella mia classe parliamo spesso di ciò che potremo fare da grandi.

0,609

cont36 Nella mia classe affrontiamo problemi di attualità. % di varianza

0,579 45,094

Tab. 3: Scala Apertura al nuovo – Analisi fattoriale (componenti principali) L

2. Orizzontalità delle relazioni, che indica che le decisioni non vengono prese solo dagli insegnanti, ma che questi condividono le loro responsabilità con gli studenti. La scala è composta di 5 item, il suo Alfa di Cronbach è uguale a .72 e forma un fattore.

di varianza

L

99


Giornale Italiano della Ricerca Educativa • VI • 11 / DICEMBRE • 2013 L

Item

Fattore

cont11 Nella mia classe studenti e insegnanti discutono insieme sulle cose da fare.

0,753

cont19 Nella mia classe possiamo discutere le indicazioni dell’insegnante.

0,654

cont39 Nella mia classe quando abbiamo problemi ne parliamo con gli insegnanti.

0,738

cont7 Nella mia classe ci vengono affidate responsabilità.

0,706

cont32rec Nella mia classe gli insegnanti tendono a mantenere le distanze dagli studenti. % di varianza

0,584 47,545

Tab. 4: Orizzontalità delle relazioni – Analisi fattoriale (Componenti principali) L

3. Senso di appartenenza, che riguarda la coesione del gruppo complessivo e il sentimento di farne parte di ciascun membro. La scala, il cui Alfa di Cronbach è .80, contiene 3 item e un unico fattore. Item

Fattore

cont33 Nella mia classe sentiamo di far parte di un gruppo.

0,815

cont34 Nella mia classe le regole sono condivise da tutti.

0,857

cont35 Nella mia classe viviamo le attività come un impegno comune. % di varianza

0,866 71,613

Tab. 5: Senso di appartenenza – Analisi fattoriale (Componenti principali) di varianza

L

4. Riconoscimento reciproco, ovvero la relazione di fiducia e riconoscimento reciproco tra di varianza educatore e ragazzi. L La scala è formata da un fattore e comprende 5 item, il suo Alfa di Cronbach è .86. L

Item

Fattore

cont14 Nella mia classe gli insegnanti cercano di esserci simpatici.

0,686

cont15 Nella mia classe ci fidiamo degli insegnanti.

0,833

cont16 Nella mia classe siamo orgogliosi dei nostri insegnanti. di varianza cont31 Nella mia classe gli insegnanti sono orgogliosi di noi.

0,845

cont43 Nella mia classe gli insegnanti si fidano di noi. % di varianza

0,818 0,818 64,347

Tab. 6: Riconoscimento reciproco – Analisi fattoriale (Componenti principali) di varianza

5. Imparzialità del giudizio, intesa come modalità di interazione e di valutazione imparziale, alle simpatie dell’insegnante. che non dipende né dal genere né da simpatie dell’insegnante. La scala contiene un fattore ed è composta da 6 item. Il suo Alfa di Cronbach è uguale a .68. alle simpatie dell’insegnante.

Item

cont44 Nella mia classe tutti vengono ascoltati allo stesso modo. cont8rec Nella mia classe l’apprezzamento di una persona è legato alle simpatie dell’insegnante. di varianza cont38rec Nella mia classe gli insegnanti preferiscono le ragazze ai ragazzi. cont42rec Nella mia classe se un ragazzo ha problemi con gli altri e ne parla con un insegnante viene giudicato male dai compagni. di varianza cont47rec Nella mia classe l’apprezzamento di una persona è legato al prestigio della famiglia. cont46 Nella mia classe i giudizi sono imparziali. % di varianza

Fattore 0,723 0,675 0,67 0,584 0,576 0,467 38,638

Tab. 7: Imparzialità del giudizio – Analisi fattoriale (Componenti principali)

di varianza

100


alle simpatie dell’insegnante.

Émiliane Rubat du Mérac di varianza

6. Piacevolezza del clima, ossia l’assenza di prepotenze e aggressività, la percezione di un rapporto piacevole tra i membri del gruppo. La scala contiene 6 item ed forma un solo fattore. Il suo Alfa di Cronbach è .78. Item

Fattore

cont40 Nella mia classe c’è un clima amichevole.

0,761

cont3rec Nella mia classe le persone sono aggressive tra loro.

0,699

cont5rec Nella mia classe non ci sono regole, ognuno fa come gli pare.

0,691

cont18rec Nella mia classe le persone tendono a imporsi sugli altri.

0,684

cont9 Nella mia classe la lealtà tra studenti è considerata importante.

0,671

cont29 Nella mia classe se qualcuno è in difficoltà viene aiutato. % di varianza

0,647 48,012

Tab. 8: Piacevolezza del clima – Analisi fattoriale (Componenti principali)

7. Orientamento alle persone. Il contesto da valore alle persone e ai rapporti interpersonali a prescindere dai loro risultati. La scala contiene 10 item che si raggruppano in due fattori. L’Alfa di Cronbach della scala è .71. Item

Fattore 1 Fattore 2

cont21rec Nella mia classe chi è più veloce è considerato più bravo.

0,637

-0,118

cont45rec Nella mia classe vengono ascoltati soprattutto i più bravi.

0,595

0,305

cont13rec Nella mia classe è meglio ubbidire senza discutere.

0,576

0,064

cont12rec Nella mia classe il tempo per fare le cose richieste non è sufficiente.

0,542

0,178

cont37rec Nella mia classe si apprezza chi lavora per conto proprio.

0,473

0,161

cont26rec Nella mia classe viene data più importanza ai risultati ottenuti che alle persone.

0,46

0,351

cont4rec Il miglior modo per avere successo nella mia classe è adeguarsi alla situazione.

0,455

0,057

cont6 Nella mia classe gli insegnanti ci incoraggiano a lavorare in gruppo

0,265

0,733

cont23 Nella mia classe l’impegno è apprezzato più dei risultati.

0,061

0,749

cont22 Nella mia classe sono apprezzate persone che collaborano con tutti.

0,044

0,7

21,045

18,842

% di varianza

Tab. 9: Orientamento alla persona – Analisi fattoriale (Componenti principali con rotazione Varimax)

Per misurare l’identificazione da parte degli adolescenti nei valori di leadership abbiamo utilizzato la Socially Responsible Leadership Scale (SRLS) (Tyree, 1998; Appel-Silbaugh, 2005; Dugan, 2006). Questo strumento è stato costruito per studenti di scuola secondaria in risposta alla domanda: “Cosa gli studenti hanno bisogno di imparare per poter lavorare insieme e creare cambiamenti”. Le dimensioni analizzate sono raggruppabili in tre macrocategorie: valori di gruppo, valori personali e valori sociali. E’ stata poi creata un’ultima dimensione, chiamata Cambiamento (o coraggio nel cambiamento), considerata punto d’arrivo o conseguenza alla quale gli altri valori dovrebbero portare. Nei valori di gruppo le scale individuate sono: 1. Collaborazione, capacità ad agire insieme ad altri e partecipare attivamente ad attività comuni. La scala contiene 8 item, è formata da due fattori e ha un Alfa di Cronbach uguale a .75.

101


Giornale Italiano della Ricerca Educativa • VI • 11 / DICEMBRE • 2013

Collaborazione

Fattori

Items

1

lead67 Il mio contributo è riconosciuto dagli altri membri del gruppo di cui faccio parte. lead55 Gli altri mi trovano una persona che collabora attivamente nel gruppo.

0,781 0,762

lead12 Sono considerato/a una persona che lavora bene con gli altri.

0,641

lead34 Quando lavoro in gruppo il mio contributo si vede.

0,623

lead35 Ascolto con attenzione ciò che gli altri hanno da dire.

2

0,57

lead49 Mi piace lavorare insieme ad altri per uno scopo comune.

0,73

lead64 La collaborazione porta a risultati decisamente migliori.

0,715

lead72 Tendo a fidarmi della gente con cui lavoro. % di varianza

26.4

0,695 25.2

Tab. 10: Collaborazione – Analisi fattoriale (Componenti principali con rotazione Varimax)

2. Obiettivo comune, inteso come capacità a orientare la propria attività in funzione di un 1 obiettivo condiviso e a partecipare alla sua definizione. La scala contiene 9 item1 che si raggruppano in due fattori e ha un Alfa di Cronbach di .81. Items

Fattore

lead23 Contribuisco agli obiettivi del mio gruppo.

0.776

lead16 Prendo parte agli obiettivi comuni dei gruppi di cui faccio parte.

0.723

lead74 Appoggio ciò che il gruppo cerca di compiere.

0.709 0.68

lead65 Conosco gli scopi del gruppo al quale appartengo.

0.671

lead68 Lavoro bene quando conosco i valori che sono importanti per il gruppo.

0.61

lead42 Ho partecipato a decidere cosa fa il mio gruppo.

0.57

lead36 Penso che sia importante conoscere le priorità degli altri. lead18 In un gruppo è importante seguire una linea comune per ottenere un risultato. % di varianza

0.517 43.8

Tab. 11: Obiettivo comune – Analisi fattoriale (Componenti principali)

3. Disaccordo con civismo, riguarda l’attitudine ad essere in disaccordo con qualcuno e rispettare allo stesso tempo le sue opinioni, e a vedere nel conflitto un’opportunità di dialogo. La scala è composta da 7 item2, forma un unico fattore e ha un Alfa di Cronbach uguale a .070 Items

Fattore

lead1 Sono aperto/a alle idee degli altri.

L

0.73

lead19 Rispetto le opinioni degli altri quanto le mie.

0.687

lead6 Sentire opinioni diverse mi arricchisce.

0.683

lead4 Apprezzo la differenza negli altri.

0.638

lead30rec Quando c’è un conflitto tra due persone, uno vince e l’altro perde.

0.516

lead69 Condivido le mie idee con gli altri.

0.496

lead13 Dal conflitto può nascere una migliore intesa.

0.427

% di varianza

36.7

Tab. 12: Disaccordo con civismo – Analisi fattoriale (Componenti principali) L

1 La scala Obiettivo comune viene utilizzata senza l’item 44 - Sono i valori di un’organizzazione che orientano la sua attività – che non aumenta l’Alfa della scala e può essere inteso in due diversi modi: come un’organizzazione dovrebbe comportarsi o come di fatto si comportano le organizzazioni.

102


Émiliane Rubat du Mérac

Fanno parte dei valori personali le dimensioni seguenti: 1. Coscienza di sé, relativa alla conoscenza degli aspetti della propria personalità e alla capacità d’introspezione. La scala contiene 8 item2 che si raggruppano in due fattori e ha un Alfa di .73. Coscienza di sé

Fattori

Items

1

2

lead7rec Non ho molta stima di me stesso. lead11 In generale ho fiducia in me stesso.

0.877 0.834

lead66 Mi esprimo con facilità.

0.462

lead26 Mi conosco abbastanza bene.

0.341

lead63rec Riflettere su me stesso mi risulta difficile.

0.341 0.380

lead5 Sono in grado di definire le mie priorità.

0.405

lead41 Posso descrivere la mia personalità.

0.763

lead48 Posso descrivere in cosa sono simile agli altri. % di varianza

0.737 25.1

24.4

2 Tab. 13: Coscienza di sé – Analisi fattoriale (Componenti principali con rotazione Varimax) in quanto abbassava l’Alfa di

C

2. Coerenza, che riguarda l’autenticità e la corrispondenza tra valori, credenze e comportamento. La scala è composta di 6 item3, contiene due fattori e il suo Alfa di Cronbach è molto basso (.59). Secondo il prof. Mario Pollo, che insegna psicologia dell’adolescenza alla LUMSA, la coerenza (congruenza) non è più un valore in questa nostra complessa società. Il paradigma dominante è quello di adeguare i propri valori al contesto per ottimizzare i vantaggi che ogni situazione offre. Ora, l’educazione, rispetto a questa tendenza culturale, dovrebbe andare contro corrente, ma i suoi effetti si verificano solo dopo l’adolescenza. Secondo lui, questo potrebbe spiegare il fatto che questa scala non funzioni con gli adolescenti di oggi. I risultati di questa scala vengono riportati solo perché fa parte del modello del SRLS che utilizziamo. Coerenza

Fattori

Items

1

2

lead75 È facile per me essere sincero/a. lead71 Sono autentico/a.

0.721 0.702

lead59 E’ importante per me essere visto/a come una persona corretta.

0.628

lead38 Le mie azioni sono coerenti con i miei valori.

0.395 0.579

lead32 È importante per me agire secondo le mie convinzioni. lead15 I miei comportamenti corrispondono alle mie credenze. % di varianza

0.694 0.771 26.2

24.7

Tab. 14: Coerenza – Analisi fattoriale (Componenti principali con rotazione Varimax) ha un Alfa di Cronbach di .76 ed è formata da un unico fattore.

2 L’item 2 - Do priorità alle cose che mi appassionano - è stato levato dalla scala Coscienza di sé, in quanto abbassava l’Alfa di Cronbach della scala. 3 L’item 70 - I miei comportamenti riflettono ciò che credo – abbassava leggermente l’Alfa di Cronbach della scala Coerenza, il quale, anche senza questo item, rimane troppo basso per dare informazioni attendibili.

103 L


Giornale Italiano della Ricerca Educativa • VI • 11 / DICEMBRE • 2013 importante per me agire secondo le mie convinzioni.

3. Impegno, che indica l’affidabilità e la capacità a dedicarsi agli impegni presi e ad essere responsabile. ha un Alfa di Cronbach di .76 ed è formata da un unico fattore. La scala contiene 6 item, ha un Alfa di Cronbach di .76 ed è formata da un unico fattore. Items

Fattore

lead60 Quando do la mia parola la mantengo. lead61 Quando accetto una responsabilità sono affidabile.

0.771 0.736

lead33 Cerco di assumermi le mie responsabilità.

0.682

lead58 Si può contare sul fatto che faccio la mia parte.

0.667

lead27 Sono motivato/a a dedicare tempo e energia alle cose che ritengo importanti.

0.598

lead29 Rimango vicino/a alle persone quando attraversano periodi difficili. % di varianza

0.577 45.6

Tab. 15: Impegno – Analisi fattoriale (Componenti principali) L

A livello sociale, l’aspetto indagato è uno solo: 1. Cittadinanza, come coscienza delle proprie responsabilità civiche, e impegno sociale. La scala è composta da 7 item4 e un solo fattore. Il suo Alfa di Cronbach è uguale a .81. Items

Fattore

lead47 Lavoro insieme ad altri per fare della mia comunità un posto migliore.

0.768

lead73 Mi piace avere la possibilità di contribuire al bene della comunità.

0.736

3

lead54 Partecipo in attività che contribuiscono al bene comune.

0.683

4

lead40 So di avere delle responsabilità nei confronti della mia comunità.

0.676

lead53 Sono motivato/a a agire per far rispettare i diritti degli altri.

0.663

lead62 So di avere delle responsabilità civiche nei confronti della società.

0.649

lead45 Do del mio tempo per aiutare altre persone. % di varianza

0.608 46.9

Tab. 16: Cittadinanza – Analisi fattoriale (Componenti principali)

L’item 51 “Ho il potere di far cambiare le cose nella mia comunità” benché eliminato dalla scala, ci da comunque un’informazione sulla quale è interessante fermarsi. Questo item esprime di fatto una credenza non molto diffusa in Italia. Molte persone sono pessimiste rispetto all’idea di poter influenzare il corso degli eventi, che pensano, a volte a ragione, determinato da accordi presi senza di loro. Inoltre, è certamente difficile, se non impossibile, per degli adolescenti sentire che possono avere un impatto sul loro ambiente se non hanno alcuna responsabilità né in famiglia né a scuola. Osserviamo di fatto una differenza statisticamente significativa tra gli studenti/ scout che hanno una responsabilità e quelli che non ne hanno, nel punteggio che ottengono per questo item.

4 L’item 51 della scala Cittadinanza - Ho il potere di far cambiare le cose nella mia comunità – abbassa l’Alfa e non viene utilizzato.

104


Émiliane Rubat du Mérac

Responsabilità a scuola e agli scout

Media lead51 Studenti

Scout

Si

3.17

3.29

No

2.67

2.68

17.028

5.776

0.000

0.017

F Sig.

Tab.17: Item lead51 – Medie degli studenti e scout in funzione dell’avere o meno una responsabilità

L’ultima dimensione del costrutto, chiamata Cambiamento (Change) o Coraggio nel cambiamento. La scala contiene 9 item5, è formata da due fattori e il suo Alfa è .70. Coraggio nel cambiamento

Fattori

Items

5

1

lead52 Cerco nuovi modi di fare le cose. lead50 Sono aperto/a alle nuove idee.

0.709

lead46 Lavoro bene negli ambienti che sono sempre in evoluzione.

0.635

lead20 Il cambiamento porta nuove energie a un’organizzazione.

0.575

lead24 E’ stimolante scoprire un modo diverso dal solito di fare una cosa.

0.575

lead14 Vedo facilmente le cose sotto nuovi punti di vista.

0.537

2

0.662

lead10rec Mi infastidiscono i cambiamenti.

0.782

lead43rec Mi mette a disagio fare le cose in modo diverso dal solito.

0.717

lead31rec I cambiamenti mi mettono a disagio. % di varianza

0.81 25.9

20.8

Tab. 18: Coraggio nel cambiamento – Analisi fattoriale (Componenti principali con rotazione Varimax)

Sulla base dell’approfondimento della tematica in relazione alla specifica fase di età (Pollo, 1988) abbiamo inoltre costruito una scala di Capacità di leadership, che riguarda non più il L percepirsi leader ma la capacità di svolgere la funzione di leader6. Questa scala considera tre aspetti considerati indispensabili all’assunzione di un ruolo di comando o guida: 1. Fiducia e comprensione. 2. Capacità di organizzazione che riguarda la capacità a organizzare il lavoro di altri;

5 È stato escluso dalla scala Coraggio nel cambiamento l’item 57 - So vedere la differenza tra un cambiamento positivo e negativo – che abbassa l’Alfa della scala. Potrebbe essere difficile per degli adolescenti sapere come valutare l’effetto di un cambiamento. Per saper stimare il valore e le conseguenze di un cambiamento, è necessario aver vissuto dei cambiamenti e averne sperimentato le conseguenze. 6 I quattro fattori identificati dalla ricerca di Andrew W. Halpin (1954), ripresi da Mario Pollo (1988), sono: - Fiducia e comprensione, che corrisponde alla nostra sottoscala Atteggiamento collaborativo, - Organizzazione del gruppo che abbiamo chiamato Capacità di organizzazione, - Stimolare la produzione nominata da noi Capacità di motivazione e - Assunzione della responsabilità. Per l’aspetto di Fiducia e Comprensione sono stati utilizzati item già presenti nella scala Collaborazione della SRLS.

- Fiducia e comprensione, che corrisponde alla nostra sottoscala Atteggiamento collaborativo, - Organizzazione del gruppo che abbiamo chiamato Capacità di organizzazione, - Stimolare la produzione nominata da noi Capacità di motivazione e - Assunzione della responsabilità. P

105


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3. Capacità di motivazione, ossia la capacità di valorizzare, incoraggiare, motivare e ascoltare gli altri; 4. Assunzione di responsabilità, che indica la capacità ad assumersi responsabilità. L La scala contiene 10 item che si raggruppano in due fattori e il suo Alfa è uguale a .75. Capacità di leadership

Fattori

Items

1

lead49 Mi piace lavorare insieme ad altri per uno scopo comune.

0,676

lead64 La collaborazione porta a risultati decisamente migliori.

0,656

lead35 Ascolto con attenzione ciò che gli altri hanno da dire.

0,638

lead28 Mi piace motivare gli altri a fare delle cose insieme.

0,629

lead22rec Quando le cose vanno male la responsabilità è degli altri.

0,625

lead72 Tendo a fidarmi della gente con cui lavoro.

0,575

2

lead37 Mi sento responsabile di ciò che succede quando svolgo un'attività insieme ad altri. 0,519 0,342 0,504 0,402 lead17 Tendo a valorizzare le capacità dei miei compagni. 0,790

lead9 Ci sono attività in cui gli altri mi chiedono di guidarli.

0,803

lead3 so organizzare il lavoro degli altri. % di varianza

29.4

16.9

Tab. 19: Capacità di leadership – Analisi fattoriale (Componenti principali con rotazione Varimax)

6

3. Primi risultati -

- Organizzazione del gruppo che abbiamo chiamato Capacità di organizzazione, - Stimolare la produzione nominata da noi Capacità di motivazione e - Assunzione della responsabilità. P

Le prime analisi dei dati tendono a confermare l’ipotesi di una differenza sostanziale tra i due contesti educativi esaminati. In tutte le dimensioni considerate dal Questionario di Percezione del Contesto Educativo, gli scout ottengono punteggi medi significativamente più alti di quelli degli studenti (tabella 21 e Graf.1). T Scale Sc ale di Percezione Pe rcezione del del contesto contesto

Studenti St udenti

Scout Sc out

Medie Dev. Medie Dev. Me die De v. std. std. Me die De v. std. s td .

ANOVA sign. si gn.

Ap Apertura ertura aall nuovo nu uovo

2,71 2, 71

0,72 0, 72

3,63 3, 63

0,56 0, 56

0,000 0, 000

Or izzontalità delle delle relazioni re la z io n i Orizzontalità

2, 94 2,94

0, 78 0,78

4, 05 4,05

0, 51 0,51

0, 000 0,000

Ri conoscimento reciproco r e c ip r o c o Riconoscimento

2, 83 2,83

0, 89 0,89

4, 21 4,21

0,57 0,57

0,000 0,000

Senso Se nso di aappartenenza ppartenenza

2,82 2, 82

1,03 1, 03

4,16 4, 16

0,68 0,68

0,000 0,000

Pi acevolezza del del clima c li m a Piacevolezza

3, 4 3,4

0, 86 0,86

44,31 ,31

0,55 0,55

0,000 0,000

Im Imparzialità parzialità del del giudizio giudizio

3,5 3,5

0, 0,74 74

4,25 4,25

0,59 0,59

0,000 0,000

3,21 3,21

0, 58 0,58

3,96 3,96

0,5 0,5

0,000 0,000

alle persone p e rs o n e Orientamento Orienttamento alle

Tab. 20: Medie degli studenti e scout alle scale di percezione del contesto e significatività del’ANOVA

106


Émiliane Rubat du Mérac

Graf. 1: Confronto medie degli scout e studenti alle scale di percezione del contesto

L’ambiente scout e quello della scuola sono percepiti diversamente dai ragazzi non solo per la loro organizzazione, i loro obiettivi ma anche per il tipo di adesione e il clima sociale. I ragazzi scout scelgono di aderire al movimento, mentre dagli studenti la scuola è percepita come un dovere e l’obbligo scolastico più come un obbligo che come un diritto. Ci si attendeva dunque una descrizione più positiva da parte degli scout del loro contesto educativo. Ma in che misura queste differenze cosi marcate contribuiscono allo sviluppo morale e alla 7 capacità di leadership dei ragazzi? E ancora si tratta di effetti collaterali o della rispondenza a un progetto educativo ben definito? Qual è il metodo con cui gli educatori scout ottengono un contesto educativo più partecipato e più stimolante? La differenza tra scoutismo e scuola va ricercato nell’impianto del modello educativo, in quello che Dewey (1939) chiamava il piano generale dell’organizzazione scolastica7. Baden-Powell (1919) aveva ben presente che per ottenere la partecipazione attiva dei ragazzi fosse necessaria una adesione libera e che questo richiedesse di «rendere lo Scautismo abbastanza interessante da attrarre il ragazzo, quale che sia l’attrazione concorrente di altre attività» (p. 32). B.-P. intendeva proporre un modello educativo in cui i ragazzi apprendessero attraverso l’esperienza, in linea con quanto si andava proponendo con le scuole attive e con il metodo Montessori. Un ambiente che mettesse i ragazzi alla prova e che li abituasse a decidere. L’ambiente di vita degli scout, la sede scout e il campo in particolare, vengono pensati da B.-P. in modo del tutto diverso dell’aula scolastica. «Per sede intendo, – spiega B.-P. non una grande aula scolastica prestata per l’occasione in cui, una volta alla settimana, si tiene mezz’ora d’istruzione – ché questo molto spesso

7 Il piano generale dell’organizzazione scolastica (cioè i rapporti degli scolari fra di loro e con gli insegnanti) fa della scuola un tipo di istituzione del tutto diverso da quello delle altre istituzioni sociali. Richiamate all’immaginazione un’aula scolastica consueta, i suoi orari, i suoi sistemi di classificazione, di esame e di promozione, le regole disciplinari; penso che intenderete che cosa voglio dire con «piano dell’organizzazione». Se poi contrapponete questa scena a quanto accade in famiglia, per esempio comprenderete che cosa si intende affermare quando si osserva che la scuola è un tipo di istituzione del tutto diversa dalle altre organizzazioni sociali (Dewey 1939).

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sembra essere tutto lo scopo di chi si occupa dei ragazzi – ma un posto che veramente i ragazzi sentano come proprio anche se si tratta solo di una cantina o di una soffitta; un posto dove essi possano recarsi, se necessario, ogni sera, e trovare lavoro e divertimenti interessanti, molte e svariate attività ed un’atmosfera limpida e gioiosa. […] Il campo poi (che dovrebbe essere organizzato il più spesso possibile) è un ulteriore ed ancora più potente antidoto rispetto alla sede di Reparto. L’atmosfera aperta e vivace ed il cameratismo della vita comunitaria sotto tenda, in mezzo alla natura ed attorno al fuoco di bivacco, ispirano al ragazzo lo spirito migliore, ed offrono al Capo l’occasione più favorevole per entrare in contatto diretto coi suoi ragazzi». Tutto nel contesto educativo scout è pensato in funzione di B proporre spirito di iniziativa da parte dei ragazzi, iniziativa che si trasforma anche grazie al lavoro dei capi in un processo di autoeducazione. Al contrario la scuola rimane ancorata ad un modello tradizionale tanto che probabil« mente se qualcuno, come accadde a John Dewey, cercasse oggi materiali didattici per una proprio anche se si tratta solo di una scuola cattiva otterrebbe la stessa risposta: “Mi dispiace signore, credo averlavoro nullae di ciò o di una soffitta; un posto dove essi possano recarsi, se necessario, ogni di sera,non e trovare d che lei cerca. Lei vuole qualcosa che sia adatto a far lavorare i ragazzi, mentre tutto ciò che abbiamo è pensato per farli ascoltare” (Lucisano, Salerni & Sposetti, 2013, p. 194). Tornando ai dati anche per quanto riguarda lo strumento di analisi dei valori e delle capacità di leadership osserviamo di nuovo differenze nelle medie alle scale statisticamente significative tra i gruppi di ragazzi osservati. Gli scout ottengono punteggi medi significativamente più alti rispetto ai loro coetanei nella scala di capacità di leadership e in sette delle otto dimensioni previste dal questionario Socially Responsible Leadership Scale. Soltanto la scala Coerenza che, come abbiamo visto in precedenza, ha un Alfa di Cronbach troppo basso per essere utilizzata, non ottiene una differenza significativa tra medie degli studenti e degli scout. Le dimensioni che differenziano di più il gruppo degli scout rispetto a quello degli stuS denti sono il valore sociale (Social value) Cittadinanza e i tre valori di gruppo (Group values) L Obiettivo comune, Collaborazione e Disaccordo con civismo che implicano valori morali come il rispetto e il senso di responsabilità. Le dimensioni in cui invece i due gruppi sono più vicini sono i valori individuali (Individual values), più legati a dimensioni di sviluppo personale e meno fortemente connotate in termini di valori. Studenti

Scout

Medie

Dev. std.

Medie

Dev. std.

ANOVA sign.

Cittadinanza

3,52

0,72

4,02

0,56

0,000

Collaborazione

3,61

0,61

4,05

0,5

0,000

Obiettivo comune

3,64

0,66

4,12

0,47

0,000

Disaccordo con civismo

3,68

0,67

4,02

0,51

0,000

Impegno

4,11

0,64

4,29

0,53

0,000

Coerenza

3,91

0,62

3,97

0,76

0,210

Coscienza di sé

3,56

0,71

3,7

0,63

0,020

Coraggio nel cambiamento

3,49

0,58

3,69

0,55

0,000

Capacità di leadership

3,54

0,62

3,99

0,51

0,000

Scale di ledaership

Tab. 21: Medie degli studenti e scout alle scale di Capacità di leadership e del SRLS e significatività del’ANOVA

108


Émiliane Rubat du Mérac

Graf. 2: Confronto medie degli scout e studenti alle scale di Capacità di Leadership e del SRLS e

e

c

e

p

Le prime analisi confermano inoltre che i ragazzi con esperienza di scoutismo raggiungano risultati in termini di acquisizione di valori e capacità di leadership superiori a quelli che i loro coetanei raggiungono attraverso la sola educazione scolastica. Si tratterà in seguito di cercare una conferma del fatto che questi risultati siano tra loro dipendenti, cioè che siano proprio alcuni elementi di contesto a contribuire al migliore risultato nella leadership. I

p

a

e

e

,

4. Brevi riflessioni conclusive Queste prime analisi ci portano a dire che se, come si afferma indimolti documenti, del metodo autoeducazione attiva e la di nostra societàa ha bisogno di costruire cittadini attivi e classi dirigenti con capacità di leadership e valori democratici è necessario che la scuola consideri profondamente i limiti di un impianto educativo che nella sostanza rimane quello dell’insegnamento-apprendimento, non limitandosi a genericis appelli sagli insegnanti e alle famiglie ma intervenendo sugli elementi orga. nizzativi del contesto. Mondiale a cura di Hillcourt W., 1944. Trad. it. L In questa prospettiva, accanto a una rilettura dei classici (Ferriere, Decroly, Montessori, Dewey,B Makarenko), utili a riproporre un modello attivo e partecipativo dell’esperienza scolastica, può essere interessante considerare modelli educativi extrascolastici quali lo scautismo . educazione. e (Agnoletti EE, Trans.). che ha elaborato un metodo educativo fondato sull’esperienza sul protagonismo dei giovani. Maria Montessori sosteneva che lo scautismo fosse in naturale continuità con la sua , proposta educativa e Baden Powells scriveva nel 1919 che la scuola sarebbe stata organizzata a a scuola nel modo giusto il giorno in cui si sarebbe appropriata del metodo di autoeducazione attiva for che dello e di apprendimento attraverso l’esperienza proprio sia del metodo Montessori L Programs. scautismo (p. 21).

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Émiliane Rubat du Mérac

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Ricerche Les dimensions formatives de l’information-conseil initiale en validation des acquis de l’expérience Training aspects of initial information and advising for validation of prior learning DELI SALINI Cette contribution rend compte d’une recherche en éducation des adultes, qui concerne l’information et le conseil en validation des acquis de l’expérience (VAE) et qui a été réalisée dans un centre suisse d’informationconseil pour la VAE. À partir du cadre théorique «cours d’action», qui articule la perspective de l’enaction avec la sémiotique peircienne, elle pointe la problématique d’anticipation qui caractérise l’expérience des candidats des procédures de validation et les concordances ou discordances de signification entre conseillers et candidats. À partir de cette problématique, les implications sémiotiques de la diffusion de la VAE dans notre culture seront soulignées, ainsi que l’importance d’intégrer explicitement une dimension formative dans les entretiens d’info-conseil en ce domaine. Cette dimension formative explicite facilitera, pour les potentiels candidats, une meilleure compréhension de «l’expérience de la validation des acquis de l’expérience».

This contribution presents a research in adult education concerning the information and the guidance in Validation of Non-formal and Informal Learning (VNFIL) and which was realized in a Swiss VNFIL information centre. On the basis of the theoretical frame “course-of-action”, which articulates the perspective of enaction with Peirce’s semiotic, it points to the problem of anticipation, which characterizes the candidates’ experience of validation procedures and the significations’ concordance or discordance between counselor and candidate. From this problematic, the semiotic implications of the VNFIL dissemination in our culture; as well as the importance of explicit integration of a formative dimension in the information and guidance interviews in VNIL, will be underlined.Thus allowing all potential candidates to better understand: “the experience of validation of experiential learning”.

Mots clés: activité, anticipation, conseil, cours d’action, sémiose, validation des acquis de l’expérience.

Key words: activity, anticipation, advising, course-of-action, semiosis, validation of prior learning

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2038-9736 (in press) / ISSN 2038-9744 (on line) Giornale Italiano della Ricerca Educativa • anno VI – n. 11 – dicembre 2013

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Les dimensions formatives de l’information-conseil initiale en validation des acquis de l’expérience

Introduction La diffusion internationale des pratiques de validation des acquis de l’expérience (VAE) donne lieu à la mise en place de nombreux services de consultation. Ceux-ci sont préconisés par plusieurs documents de l’Union Européenne et nationaux, afin de promouvoir l’information et le conseil concernant les pratiques de VAE, en tant que moyen d’assurer l’accès à ce droit à tout public (Conseil de l’Union Européenne, 2012). Dans les Lignes directrices européennes pour la validation notamment il est souligné l’importance pour les personnes intéressées de pouvoir bénéficier de conseils impartiaux et éclairés, adaptés à leurs besoins, afin qu’elles puissent s’engager dans la procédure de validation et prendre des décisions tout au long de ce processus (Cedefop, 2009). L’information-conseil pour la VAE se situe ainsi dans un cadre porteur de différents niveaux de complexité qui, comme indiqué par Cortessis (2013), montrent que les pratiques de VAE reposent sur l’exigence de susciter l’adhésion collective et individuelle en amont de toute procédure. Plus concrètement, l’information-conseil dans le domaine de la VAE se caractérise par trois sortes d’intervention: a) la mise en circulation d’informations «tout public» diffusées par différents acteurs et médias, souvent au travers de «portails d’entrée» publiés sur le web; b) la proposition de séances d’information collectives destinées aux différents acteurs de la formation; c) l’offre d’entretiens d’information-conseil individuels ou en petits groupes pour les individus qui envisagent d’entamer ce type de procédure. Ces entretiens prennent deux formes possibles: l’une permet aux demandeurs potentiels d’évaluer la pertinence globale et la faisabilité de la procédure par rapport aux parcours personnels et professionnels; l’autre donne des repères concrets pour s’engager dans la validation. Au-delà du moment initial, l’information-conseil doit être aussi prévue tout au long de la procédure, pour soutenir les personnes ou calibrer le type d’intervention en fonction des mutations de leurs parcours de vie, ainsi que pour permettre aux personnes de s’orienter dans leur carrière ou à propos de possibles formations supplémentaires au moment de son achèvement (Cedefop, 2009; Chauvet, 2003; Dubouchet & Berlioz, 2005; OFFT, 2010). Par ailleurs, l’information et le conseil dans ce domaine doit se confronter au fait que la VAE est encore une modalité de qualification en devenir, porteuse de conceptions divergentes et parfois contradictoires, et dont on repère une méconnaissance diffusée du mode de sa réalisation. Ainsi, pour les demandeurs, cette procédure est souvent associée à beaucoup de confusion ou d’incertitude (Duvekot, Schuur & Paulusse, 2005; Mayen & Perrier, 2006). De fait, la procédure de VAE relève d’une quête d’intégration entre différentes modalités d’apprentissage et de formation, qui est vécue en premier lieu par ceux qui désirent entamer une procédure de validation et par ceux qui sont censés les accompagner dans ce parcours. Il s’agit, pour les premiers, de trouver des correspondances entre leur formation extrascolaire et la formation formelle: savoir comment donner parole et statut à sa propre expérience,

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apprendre le langage du monde scolaire... En même temps, les professionnels du conseil sont interpellés par les exigences des bénéficiaires des services de VAE ainsi que par la multiplicité des instances concernées. Ces conseillers doivent alors proposer aux candidats des données actualisées et transparentes sur les caractéristiques de la procédure, et surtout effectuer un important travail d’interprétation et de médiation, afin que l’information soit comprise et que les demandeurs puissent s’en servir (Mayen & Perrier, 2006). Nous avons investigué cette quête de correspondance entre les différents contextes de la formation, dans le cadre d’une thèse de doctorat concernant un moment particulier de l’entrée dans une procédure de validation: le premier entretien d’information-conseil de candidats avec les conseillers en validation (Salini, 2013). Sur la base d’une recherche empirique réalisée auprès d’un service suisse pour la VAE, nous avons focalisé notre attention sur : a) les dynamiques de signification et d’apprentissage des candidats et les possibles implications de celles-ci pour la compréhension de la VAE; b) les modes de signification et d’interventions des conseillers et leur pertinence par rapport aux exigences des bénéficiaires; c) l’articulation réciproque de ces modes de signification. L’étude a pris en compte trente-sept séances d’information conseil (SIC), gérées individuellement par les quatre conseillers en validation du service. Les résultats ont confirmé le sentiment d’incertitude de la part des candidats, qui se manifeste aussi par des difficultés d’anticipation de la procédure de VAE. Parallèlement, ils ont permis d’identifier la spécificité des modes d’intervention des conseillers, axés sur la mise en œuvre de stratégies diversifiées pour faciliter la compréhension de la démarche de validation. En considération de ces éléments, nous avons élaboré l’hypothèse qu’informer et conseiller en validation engage une problématique spécifique de signification, concernant les modes de compréhension et anticipation d’un phénomène inconnu (Eco, 1997). Par rapport à cette problématique, nous soulignons la nécessité de mettre en exergue la dimension explicitement formative de l’information-conseil pour la VAE. Cette nécessité tient à la spécificité de cette étape par rapport à l’ensemble de la procédure car, comme nous verrons par la suite, tout en représentant une composante de celle-ci, elle constitue une «porte d’entrée» vers une nouvelle modalité de conception des interactions entre le scolaire et l’extrascolaire.

1. Cadre théorique Notre cadre théorique fait référence au programme de recherche théorique et technologique «cours d’action» (Theureau, 2006). Ce programme considère l’activité comme l’expression fondamentale de l’existence et de l’identité de tout organisme vivant et vise la prise en compte de l’activité humaine dans son contexte complexe, à partir de la perspective de l’enaction (Varela, Thompson & Rosch, 1991) en articulation avec la sémiotique de Peirce (1931-1958). Cette focalisation sur l’activité se fonde sur l’exigence d’aller au-delà des séparations ou clivages entre facultés humaines, en faisant référence à un continuum dynamique qui recouvre à la fois des dimensions biologiques, psychologiques, sociales et culturelles (Durand, 2009; Theureau, 2006). À partir de ce cadre, nous soulignons la spécificité de trois notions qui traversent notre étude: l’information, l’expérience et l’apprentissage. L’information est conçue comme un construit émergeant de la dynamique de l’activité, et non pas comme un élément transporté d’un lieu ou d’un individu à un autre. Elle est alors codépendante, constructive et créatrice du sens (Varela, 1989). Cette conception sur l’information est enrichie des réflexions de

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Sartre au regard de l’irréductible présence de l’autre dans notre conscience (Sartre et Levy, 1991, in Theureau, 2006) ainsi que par la conception dialogique de la pensée selon Peirce. Pour ce dernier, l’activité cognitive n’est pas un monologue intérieur, mais s’inscrit toujours en relation avec une altérité, dans une «dialogue» entre des esprits ou entre des composantes de son propre esprit (Peirce, 1931-1958). La notion d’expérience est considérée à la lumière des conceptions de Theureau et de Peirce. Premièrement elle correspond au vécu de l’activité, c’est-à-dire à une modalité de conscience particulière, de «présence à soi» consubstantielle au flux de l’activité et qui est à l’origine d’un point de vue à la première personne ou «conscience préréflexive» (Sartre, 1943). Celle-ci correspond à une familiarité de l’acteur à son activité, comportant un vécu qui est susceptible de compréhension et d’une certaine connaissance de la part de l’individu, par la mise en œuvre de conditions spécifiques d’exploration (Theureau, 2006, 2010). Deuxièmement, l’expérience se caractérise par une activité interprétative continue de l’existant. Elle inclut l’ensemble de la dynamique de signification, qui se constitue dans l’interaction entre les trois catégories de l’expérience définies par Peirce. La première est de l’ordre du possible, des significations qui pourraient s’actualiser ou non dans une situation donnée; la deuxième est de l’ordre de l’actuel, de ce qui est perçu comme significatif dans une situation spécifique; la troisième est de l’ordre du virtuel et de la généralisation, et se constitue comme médiation émergeante de l’interaction entre les deux catégories précédentes. Cette dernière catégorie correspond au «sens de l’apprentissage» car elle nous permet de valider, infirmer ou modifier les significations d’une situation donnée, constituées auparavant (Peirce, 1931-1958; Theureau, 2006). En intégrant à cette perspective la théorie de la «métaphore conceptuelle» (Lakoff & Johnson, 1980), nous soulignons que la signification est appréhendée par l’acteur par émergence de cadrages essentiellement métaphoriques. Ces cadrages ne sont pas seulement d’ordre langagier mais impliquent l’ensemble des processus à l’œuvre dans la signification et la compréhension du monde. À la lumière de ces conceptions, l’apprentissage n’est pas quelque chose qui advient ou qui peut ne pas advenir. Si toute activité est à la fois cognitive et signifiante, toute situation expérienciée par un individu comprend des dynamiques qui transforment ses significations, dans le sens d’une consolidation et d’une spécification ou dans le sens d’une déconstruction et d’une reconstruction. Ces transformations s’inscrivent dans des cycles de recherche activés initialement par une «surprise» (un élément perturbateur parce qu’inhabituel) et procèdent d’une dynamique d’interprétation, caractérisée par des doutes, questionnements, hypothèses, assertions. Cette dynamique d’interprétation est suivie par des consolidations et des spécifications de ces assertions, ou par des invalidations (qui réactivent des questionnements, hypothèses et nouvelles assertions) jusqu’à l’établissement d’une habitude (Peirce, 1878, 1879). Ces dynamiques, qui sont simultanément de signification et d’apprentissage, ne fonctionnent pas sur un mode séquentiel enchaînant mécaniquement des éléments précédents à d’autres qui leur sont conséquents, mais s’expriment par l’émergence d’éléments qui à la fois intègrent et vont au-delà de leurs prémisses (Maturana & Varela, 1987; Theureau, 2006). En ce sens, la notion d’interprétation n’est pas à considérer selon la conception herméneutique classique comme le dévoilement d’une signification en amont de quelque chose «qui fait signe», mais comme la constitution d’une signification pour un esprit, en aval du mouvement sémiotique (Fisette, 1996).

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2. Méthode Sur la base du cadre théorique décrit, la méthode de constitution et de traitement des données se fonde sur les conditions suivantes: – le recueil de données de l’activité des acteurs en situation naturelle; – la clarification du positionnement éthique et méthodologique du chercheur au regard de ses rapports avec les acteurs de terrain, garantissant non seulement la fiabilité des données récoltées, mais également une relation à l’autre non objectivante; – la prise en compte de la «conscience préréflexive» des acteurs et la mise en œuvre d’une méthodologie facilitant l’accès à celle-ci; – l’identification des catégories de l’expérience des acteurs à partir du cadre d’analyse sémio-logique de l’activité, inspiré par la sémiotique de Peirce. La prise en compte de la «conscience préréflexive» de l’acteur se fait à partir de la notion de «cours d’expérience» (CdE). Celle-ci correspond à un niveau de circonscription de l’activité humaine qui prend en considération ce qui est significatif, montrable, racontable, mimable et commentable par l’acteur. Son analyse rend possible l’identification des catégories d’expérience d’un acteur et sa construction de signification au fur et à mesure de son activité. La méthode utilisée pour solliciter l’expression de la conscience préréflexive de l’acteur se fonde sur des séances de «remise en situation dynamique» (RSD) par auto-confrontation de l’acteur aux traces (souvent des enregistrements vidéo) de sa propre activité. Au cours de ces séances (enregistrées elles-aussi), il s’agit de permettre à l’acteur de se «dé-situer» le plus possible de la situation concrète actuelle et de se «re-situer» dans la situation objet d’analyse. Cela avec des consignes de non explication et non justification, ainsi que des interruptions, des relances et un pilotage par le chercheur lorsque l’acteur s’éloigne du vécu propre à l’activité étudiée, par le support des traces d’enregistrement qui facilitent l’accès contextualisé à l’activité vécue. Les acteurs, confrontés à l’enregistrement audio-visuel de leur activité, sont ainsi invités à «revivre» les situations enregistrées, et incités à en raconter, montrer, décrire et commenter les éléments significatifs pour eux (Theureau, 2010). Le traitement des données concernant la conscience préréflexive des acteurs, est réalisé selon le cadre d’analyse sémio-logique de l’activité, issu d’une modélisation en six composantes de trois catégories d’expérience définies par Peirce: – des composantes d’actualisation d’un «état de préparation» dans la situation: le Representamen [R], en considérant ce qui fait signe pour l’acteur à un instant donné, à partir des éléments sur lesquels il se concentre, ou ses focalisations; l’Unité de signification élémentaire de l’acteur [U], en considérant les actions pratiques, les communications vers autrui ou le discours privé et les émotions vécues; – des composantes de l’«état de préparation» dans la situation prise en compte, en lien avec les éléments précédents, qui correspondent à un ensemble de possibles et qui peuvent ou non s’actualiser dans la situation: des Engagements [E] ou horizons d’intentionnalité et/ou de recherche en lien avec le Representamen; des Anticipations [A] concernant le déroulement de l’activité, c’est-à-dire ce que l’acteur s’attend ou prévoit de faire dans les unités de significations successives, ainsi que les ruptures d’anticipations (quand, s’actualise une contradiction avec une anticipation); le Savoir situé [S] ou culture propre de l’acteur en lien avec la situation, c’est-à-dire les connaissances, les règles d’action, les situations vécues en antécédence et, plus en général tous les éléments de la culture de l’acteur, exprimés par lui-même.

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– des composantes de généralisation synthétisées par l’Interpretant [I]: les éléments validés/invalidés par rapport à [S], les nouvelles assertions et règles d’action, ainsi que les manifestations de cycles de recherche: doutes, questions, hypothèses émergeants (Durand, 2009; Peirce, 1878-1879; Theureau, 2006).

3. Recueil et traitement des données Le recueil et le traitement des données se sont faites en deux étapes. Dans un premier temps, nous avons réalisé une étude préalable à partir de la récolte d’éléments généraux du contexte et de l’enregistrement audio de vingt-six SIC. Les données ont été traitées selon une approche ethnographique (Céfaï, 2003) ce qui a permis d’élaborer une modélisation des caractéristiques générales des situations prises en compte. Dans un deuxième temps, sur la base de l’enregistrement vidéo de onze SIC supplémentaires, on a procédé aux séances de RSD. Celles-ci ont été menées individuellement avec chaque conseiller et candidat. Lors du visionnement des enregistrements, les relances du chercheur portaient sur les actions et les événements significatifs pour l’acteur. Elles visaient favoriser l’expression de ses sensations, perceptions, focalisations, préoccupations, émotions, pensées et interprétations. Le traitement des données issues de cette étape a été effectué selon la procédure suivante: Constitution de deux types de protocoles de synchronisation (sur la base de la transcription du verbatim de tous les enregistrements effectués1). Le premier a mis en parallèle la SIC de référence et la séance de RSD avec chaque acteur (voir l’exemple Tableau 1). Le deuxième a mis en parallèle la SIC de référence avec les séances de RSD du conseiller et du candidat. t 0 :02:06

SIC entre CoC&AoSo

RSD de AoSo

CoC : … toutes les branches, se résument sur cette feuille. Alors ça c'est le profil de qualification (appuie la feuille sur la table vers AoSo, montre avec le doigt les différents éléments) (…) AoSo : (observe attentivement la feuille)

Cher : Que regardez-vous là ? Qu'est-ce qui attire votre attention ? AoSo : Je regarde ça, je regarde vraiment la feuille, ce qui est marqué, ce qu'ils demandent, ce qu'il faut faire. C'est vraiment la feuille que je regarde. J'entends quand même ce qu'elle me dit, mais c'est la feuille, parce que tout d'un coup, c'est ça que je vais devoir savoir-faire. (…) Donc là, je me dis qu'il y a des trucs que je ne sais pas...

Tab. 1: Exemple d’un protocole de mise en correspondance Note. Extrait du protocole de transcription et de mise en correspondance de la SIC entre le conseiller CoC et le candidat AoSo, et de la séance de RSD avec AoSo.

1 La codification des extraits du verbatim suit la modalité suivante: chaque conseiller est indiqué par un code selon une progression alphabétique (CoA, CoB, etc.) et chaque demandeur par les lettres initiales de son nom et son prénom. Le sigle Cher indique le chercheur.

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Identification des caractéristiques du mouvement de signification des acteurs à partir de ces protocoles. Cela a été réalisé en trois étapes: a. découpage du flux d’activité de chaque acteur en unités de signification élémentaire, catégorisées selon une matrice à six composantes, faisant référence au cadre d’analyse sémio-logique de l’activité décrit auparavant. Ce traitement analytique des données a été relaté sur des tableaux de codage (un exemple au Tableau 2).

SIC

rsdDiRu

[R]

[U]

[E]

[A]

[I]

CoA : C'est des changements en fait de... En fait je ne saurai pas vous dire dans les détails, les changements par rapport à tous les métiers.

DiRu : Donc là justement il n'est pas au courant, il ne sait pas, il ne peut pas répondre à ma question. Donc moi je reste là comme ça…

L’affirmation de CoA « je ne saurai pas vous dire »

8. Perçoit avec déception que CoA n’est pas au courant des différences entre le nouveau et l’ancien titre

Comprendre quoi faire par rapport à cette période de transition entre deux titres

Recevoir des informations claires sur les différences entre les deux titres

« Il n'est pas au courant, il ne sait pas, il ne peut pas répondre à ma question »

inquiétude

Choisir la bonne option pour lui

Tab. 2: Extrait de l’U8 du CdE du candidat DiRu Note. À gauche les données des transcriptions de la SIC entre DiRu et le conseiller CoA, et de la séance de RSD avec DiRu. À droite cinq composantes de signification de cette unité (sans la composante [S] car elle ne contenait pas d’éléments).

b. Identification des dimensions typiques des significations de chaque acteur tout au long de la SIC prise en compte c. Mise en correspondance des unités et des dynamiques de signification du conseiller et du candidat et identification du mode d’articulation des significations réciproques. Les dimensions typiques du CdE de chaque acteur ont été répertoriées selon une classification thématique. Pour chacun nous avons identifié les formes d’engagement typiques, ainsi que les éléments prioritaires de sa culture qui s’actualisaient ou qui exprimaient des «transformations majorantes». Par ces dernières, nous indiquons les transformations des significations qui expriment un nouvel apprentissage explicite (Durand & Horcik, 2012). Pour les deux acteurs, nous avons quantifié la fréquence de chaque catégorie d’engagement ainsi établie, par rapport à l’ensemble des unités de signification, et visualisé cela dans des histogrammes. En outre, l’identification des états affectifs a permis de déterminer l’atmosphère émotionnelle prépondérante pendant la SIC, ainsi que ses mutations, pour chaque acteur. Pour les candidats, nous avons aussi procédé à une autre forme de présentation graphique, car nous avons identifié comme significative la correspondance qui pouvait être établie entre les inattendus/ruptures d’anticipation, les états affectifs et les interprétants émergeant de leur CdE. Pour rendre ces correspondances visibles, d’abord nous avons constitué une échelle progressive avec les grandes catégories d’états affectifs et d’interprétants répertoriées, ainsi que de ruptures d’anticipation. L’échelle de référence pour les états affectifs présente une graduation entre des états inconfortables jusqu’à des états confortables (Confusion / In-

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quiétude / Ennui / Attente / Calme / Satisfaction). L’échelle des Interpretants présente une graduation entre le manque de compréhension absolue et le moment de la constitution d’une généralisation (Vague / Questionnement / Hypothèse / Ajustement / Consolidation / Découverte / Intégration / Assertion). Pour les ruptures d’anticipation, nous avons constitué deux degrés de différenciation (Attendu / Inattendu). Nous avons ensuite a) procédé à une codification numérique des éléments de ces différentes échelles, b) repris toutes les Unités de signification des candidats dans une feuille de calcul (entre 110 et 140 U pour chacun) et c) codées ces Unités selon le nombre établi pour chaque niveau de gradation. Ce travail progressif de codage nous a permis de constituer des courbes pour les trois catégories du vécu des acteurs prises en compte et d’intégrer ces dernières dans une figure unique (voir exemple Figure 1). Dans cette figure, l’ordonnée représente les différents éléments des échelles établies auparavant et l’abscisse, la succession des Unités de signification.

Fig. 1: Transformations de l’état affectif, en correspondance avec les inattendus et les interprétants (exemple extrait de l’analyse du CdE de TeJo). Le nombre des Unités de signification répertoriées est indiqué en bas. À gauche figurent les catégories utilisées pour différencier les éléments de chaque composante. Pour repère, certaines catégories principales sont aussi reprises à l’intérieur de la figure.

4. Résultats Nous présentons les résultats en trois volets: d’abord nous synthétisons les éléments principaux de la «trame typique des SIC, caractérisée par un déroulement et des contenus spécifiques, ainsi que des formes d’intervention prépondérantes. Ensuite, nous présentons quelques éléments typiques de l’expérience des candidats et des conseillers et enfin, l’articulation des dynamiques de signification de ces deux catégories d’acteurs.

4.1 Le déroulement des séances d’information conseil Les SIC étaient structurées en quatre moments principaux: la présentation réciproque et la présentation du déroulement de l’entretien; la description des caractéristiques générales de la procédure de VAE; la co-élaboration d’une première hypothèse de validation en considération des caractéristiques de l’activité du candidat et du référentiel du titre visé et enfin,

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une investigation conclusive par rapport à l’intention du candidat d’entrer dans la procédure. Les contenus abordés dans chaque phase sont présentés au Tableau 3. L’entrée dans la SIC

présentation réciproque et présentation de l’activité du conseiller - parfois présentation du déroulement de l’entretien ; courte investigation par rapport aux modalités dans lesquelles le candidat avait pris connaissance du dispositif et récolte éventuelle des documents manquants par rapport aux papiers envoyés.

Les caractéristiques générales de la procédure de VAE

présentation de la procédure dans ses généralités ; présentations des caractéristiques du titre envisagé et des documents correspondants ; indications au regard des éléments clés à prendre en considération pour la rédaction du dossier de preuves.

La co-élaboration de l’hypothèse de validation

élaboration d’une première hypothèse de validation à partir d’une évaluation sommaire co-construite avec le candidat, sur la base du profil de qualification du titre.

La conclusion

investigation par rapport à l’intention du candidat de rentrer dans la procédure et - si oui – activation des dimensions administratives - si non - informations par rapport aux possibilités de recontacter le service et aux temps d’attente.

Tab. 3: Trame typique des SIC

Les formes d’intervention observées étaient multiples: l’information, dont l’objectif était de permettre aux candidats de s’engager dans la démarche «en connaissance de cause», l’accueil en tant que composante spécifique de l’accompagnement et qui s’exprimait par des activités visant la mise en confiance et l’encouragement des candidats. L’orientation-conseil (par rapport au choix général de rentrer dans une procédure de VAE) qui d’ailleurs se manifestait de manière limitée, car celle-ci était proposée davantage dans d’autres instances de l’office d’orientation où était intégré le service en question. Une démarche d’analyse des besoins émergeait à cette occasion, visant à mieux cerner les exigences des candidats. Enfin, à ces formes d’intervention s’ajoutait une modalité régulière d’évaluation pronostique: tout au long de la SIC des processus d’investigation et de co-évaluation avaient lieu, permettant aux deux interlocuteurs d’établir une hypothèse de réussite de la démarche.

4.2 L’expérience des candidats Pour les candidats, la procédure de VAE est signifiée globalement comme un moyen d’atteindre une stabilisation et/ou un développement de leur situation professionnelle, par la légitimation de leur expérience dans le domaine du titre visé et parfois comme ouvrant sur la possibilité de développer cette expérience et/ou d’avancer dans sa carrière. Dans l’arrière-fond de cette intentionnalité, se dégagent plusieurs thématiques, dont nous reprenons ici les deux principales: celle qui concerne leurs attentes et intentionnalités par rapport à la SIC (Figure 2), et celle qui concerne la connaissance réduite des caractéristiques de la procédure de VAE. Pour tous les candidats la SIC est principalement signifiée comme un lieu où des infor-

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mations qu’il faut «récolter» seront fournies. Cette métaphore de la récolte se manifeste par une activité axée prioritairement sur l’écoute et la réception silencieuse des informations données par les conseillers. Pour quelques candidats cette dimension de récolte est différée dans le temps et l’espace: ‘ici et maintenant’ (lors de la SIC) on récolte des informations, plus tard, ‘chez soi’, on les analyse et on les trie. Pour plusieurs, il s’agit aussi de comparer les informations proposées par les conseillers avec celles obtenues auprès d’autres personnes ou repérées par eux-mêmes. Cette recherche préalable d’informations est souvent partielle et parfois incorrecte, et engendre souvent des mécompréhensions de la procédure. La préoccupation de tous de «faire comprendre» la spécificité de son propre cas ou de son propre travail et celle de «réussir», s’inscrit d’ailleurs dans une attente élargie d’accueil et de support par rapport à sa propre situation.

Fig. 2: Histogramme des engagements typiques de quatre candidats (codés avec les initiales de leur nom et prénom) montrant les divers degrés d’intentionnalité de chacun. Les catégories d’intentionnalité sont indiquées en bas. Le nombre d’occurrences de celles-ci sur l’ensemble des Unité répertoriées est indiqué à gauche.

La connaissance réduite de la procédure de validation, se manifeste par la thématique plus saillante qui traverse le du vécu des candidats: la difficulté à saisir et à anticiper «l’expérience de la validation des acquis de l’expérience», de concert à la difficulté à anticiper et à saisir la façon dont l’expérience devrait être «travaillée», pour en argumenter la pertinence par rapport au référentiel du titre visé. Cela s’exprime d’abord par la difficulté à préfigurer les caractéristiques de la procédure: «je ne sais pas à quoi m’attendre» est une affirmation commune, associée très souvent à un vécu d’incertitude et d’insécurité tout au long de la SIC. Également, les explications concernant la procédure de VAE interpellent les significations données par les candidats aux notions d’expérience, d’évaluation ou plus globalement de formation. Souvent, chez ces acteurs s’exprime une séparation de la signification donnée à l’expérience et à la formation (cette dernière assimilée globalement à la formation formelle ou à la scolarité), entités qui sont alors conçues comme distinctes ou en opposition, où parfois un pôle est valorisé par rapport à l’autre. Encore, ce qui déconcerte les candidats, au regard de la validation, c’est qu’il y a quelque chose à «comprendre» et pas seulement des informations à «récolter». La VAE apparait alors comme un objet de connaissance très (trop) nouveau, abstrait et vague, ce qui provoque des inattendus, concernant presque toujours les

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modalités de réalisation de la procédure, spécialement au regard de la documentation de l’expérience par le biais d’un dossier de validation. Ainsi, face à certains propos des conseillers auxquels les candidats ne s’attendent pas, des moments de déstabilisation cognitive et d’inquiétude se déclenchent, accompagnés pour certains par des moments d’impasse. Le dépassement de ces déstabilisations se manifeste par l’émergence de cycles de recherche, caractérisés souvent par des «bricolages» avec des significations préalables, ainsi que par des questionnements, des hypothèses, jusqu’à l’émergence de nouveaux apprentissages concernant la validation. À partir des différentes modalités de s’approcher et de signifier l’inconnu de la validation pour les différents candidats pris en compte dans cette étude, nous avons établi une échelle de quatre modes possibles de compréhension de la VAE: a. La VAE comme inconnu qui ne fait pas encore partie des préoccupations de l’acteur, ce qui génère peu d’incertitude lors de la SIC, mais presque aucun apprentissage au sujet de la spécificité de la VAE. b. LA VAE comme inconnu qui fait rupture par rapport à une culture axée sur la valeur des formations formelles et des procédures. Cela se manifeste par beaucoup d’incertitude, presque un choc culturel ainsi qu’une dynamique d’apprentissage lente et ardue, caractérisée surtout par un cycle de déconstruction des significations préalables. c. La VAE comme inconnu partiellement prévisible, évoquant des valeurs partagées, mais dont les spécificités ne sont pas prévues. Cela se manifeste par des incertitudes et des préoccupations ponctuelles ainsi que par une dynamique d’apprentissage qui présente des cycles de déconstruction et de consolidation simultanés. d. La VAE comme inconnu prévisible, dont seuls des détails procéduraux sont surprenants. Cela se manifeste par une incertitude réduite sur la procédure en soi, tandis que des préoccupations typiques émergent par rapport aux dimensions évaluatives de celle-ci. La dynamique d’apprentissage est axée davantage sur un cycle de consolidation, avec des dimensions réduites de déconstruction de significations.

4.3 L’expérience des conseillers Au-delà des modes d’intervention déjà présentés, l’expérience des conseillers s’exprime sur un fond d’intentionnalité visant à «faciliter la réussite de la procédure VAE» aux candidats. Par rapport à cela, nous pointons ici leur préoccupation constante de «comprendre» (les candidats) pour leur «faire comprendre» la procédure de VAE. Sur cette base, les dynamiques de signification des conseillers s’expriment à plusieurs niveaux. Premièrement, la modalité selon laquelle ils proposent des modes de compréhension de la VAE, s’articule à la manière dont ils interprètent les possibilités de signification et de compréhension de leurs interlocuteurs, ainsi que les obstacles que ceux-ci pourraient rencontrer lors de la procédure. Ils sont alors attentifs à la manière dont le candidat se positionne vis-à-vis de la démarche et soucieux de lui faire comprendre la spécificité des activités requises. Deuxièmement, les conseillers s’investissent de manière importante pour permettre aux candidats d’imaginer en quoi consiste concrètement l’engagement dans une démarche de validation. Cela se fait à travers une offre de modes de compréhension basés sur la ressemblance (schémas, métaphores, exemples, anecdotes, dialogues fictifs, simulation d’entretiens d’explicitation, etc.)

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que nous assimilons, en suivant Peirce (1931-1958), aux modalités de signification de type iconique. Cette offre, indique l’effort des conseillers pour donner des ancrages de signification accessibles aux candidats, afin de faciliter la compréhension et la préfiguration du parcours de validation, en reliant l’événement de la VAE à un cadre expérientiel connu. Notamment, deux catégories principales de métaphores sont utilisées: celle du «voyage» (tout au long d’un parcours, ou du centre à la périphérie) et celle de la «balance» comme quête de correspondance entre deux types de «conteneurs» (l’expérience et le titre visé). Enfin, les conseillers insistent sur l’importance de différencier la VAE par rapport aux parcours scolaires pour l’obtention d’un titre professionnel, ainsi que sur l’importance de distinguer entre les méthodes et les outils spécifiques à la VAE et ceux de la reconnaissance des acquis (comme les bilans de compétences), non focalisés sur un titre.

4.4 L’articulation de l’expérience des candidats et des conseillers Nous avons identifié des dimensions consensuelles et non consensuelles des dynamiques de signification entre les deux catégories d’acteurs, à partir de trois thématiques principales: a) la quête et l’offre d’une base fiable; b) la dissonance entre «récolte» et «échange» ainsi que des significations données à l’expérience et à la formation; c) la constitution progressive d’une entente. Parmi les préoccupations typiques des acteurs, on repère une convergence de signification par rapport au rôle des conseillers, en fonction de la demande des candidats d’entamer une démarche de validation. Pour les conseillers, il s’agit de proposer «accueil et support» aux candidats et pour ces derniers, il y a une attente de prise en compte de leur spécificité et d’un soutien pour la réalisation de la démarche. Cette concordance est d’ailleurs à nuancer par rapport à la quête/attente parallèle de reconnaissance/assomption d’autonomie et de responsabilité personnelle des candidats. Pour les conseillers, il faut garder l’équilibre entre la dimension de «protection et réassurance offerte ou demandée» et celle de «respect de liberté de l’autre», lorsque le candidat peut assumer ses choix et s’aider soi-même. Il s’agit alors de proposer un «conteneur» qui soit suffisamment circonscrit pour rassurer le candidat, mais suffisamment ouvert pour que son autonomie puisse se déployer, dans l’évaluation de sa situation et les décisions à prendre, mais aussi par rapport à ses ressources. Une divergence importante entre conseillers et candidats se manifeste au regard de la signification donnée à la séance d’information conseil. La métaphore de la «récolte», exprimée par tous les candidats, s’accorde difficilement avec la métaphore de «l’échange», exprimée par les conseillers. Si pour les premiers, la situation est souvent signifiée de façon passive et réceptive, pour les seconds la situation est signifiée comme un lieu où devraient se manifester des interactions actives entre interlocuteurs. De plus, les attentes des candidats ne comportent souvent pas le fait d’avoir à donner des informations concernant leur pratique professionnelle, et parfois de devoir «travailler» sur celles-ci. Cette «non attente» d’implication active n’est pas nécessairement anticipée par les conseillers, qui s’interrogent sur la manière de rendre les candidats plus participatifs. Autre divergence saillante concerne les significations données aux notions d’expérience et de formation. Pour les conseillers ces notions ont leur ancrage dans une culture de la formation des adultes valorisant tout élément de l’histoire de vie des individus et, en connaissance de cause, les modalités à rendre visibles les acquis de l’expérience. Alors que pour les candidats, les deux notions sont vécues d’une manière contradictoire: ils sont convaincus de l’importance de leur expérience, mais souvent démunis

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sur la façon de la rendre visible, incertains sur la possibilité de pouvoir le faire, et de pouvoir constituer la correspondance avec les exigences d’un titre formel. D’ailleurs, chaque séance d’information-conseil initiale recèle sa propre histoire des transformations de l’articulation des dynamiques de signification entre conseillers et candidats. Certains éléments qui pour les uns ou les autres ont généré des ruptures d’anticipation, des dissonances ainsi que des incompréhensions, trouvent globalement un dépassement dans l’évolution de la SIC et conduisent à mieux saisir les significations respectives. Pour les deux interlocuteurs se manifeste l’émergence progressive d’un engagement commun, fondé sur la préoccupation réciproque de saisir les significations de l’autre. Ce que nous pouvons résumer par l’identification d’une intentionnalité partagée de «comprendre pour se comprendre» et de «se comprendre pour comprendre». Cette articulation des dynamiques de signification vers un consensus est illustrée aussi par l’adéquation émergeant entre les modes d’intervention des conseillers et les formes d’engagement des candidats, car la fréquence des quatre formes d’intervention typiques présentées initialement se diversifie en fonction des intentionnalités et des préoccupations spécifiques de chaque candidat. L’émergence de ces consensus ne doit pas masquer les éléments de divergence qui peuvent persister. Un élément reste particulièrement problématique: celui de la relation entre formation et expérience. Les candidats expriment globalement une signification dichotomique de la relation entre ces deux catégories culturelles, tandis que les conseillers partagent une culture où ces deux catégories sont signifiées comme ayant une interaction continue.

Conclusions Cette étude rend attentif à la nécessité de tenir compte des significations données aux notions qui traversent la culture de VAE, par les bénéficiaires potentiels de ces procédures. Si, par exemple, dans la culture des professionnels de la reconnaissance et de la validation des acquis, l’expérience peut être conçue comme «un réservoir d’où on peut puiser nombre de ressources» (Salini et Durand, 2012), pour d’autres, et parmi eux les bénéficiaires potentiels de la procédure, la notion d’expérience peut évoquer l’incertain, quelque chose de confus et parfois un peu inquiétant. En fait, et comme signalé aussi par d’autres études (e.g. Duvekot et al., 2005) à une plus large échelle des interactions sociales et au-delà de l’enclos des «pionniers de la validation», la culture de la VAE est largement inconnue et encore peu stabilisée dans la culture collective. Cela suscite de l’incertitude (ou de la méfiance) chez la plupart du public qui pourrait en bénéficier ou des autres acteurs sociaux (de la formation, du monde du travail) potentiellement impliqués dans ce domaine. En ce sens, nous soulignons la dimension explicitement formative que doit prendre l’information-conseil pour la VAE, en considérant la spécificité de cette étape de la démarche par rapport à son ensemble. Car elle constitue un « lieu d’entrée» d’une nouvelle modalité de conception des interactions entre le scolaire et l’extrascolaire. Un espace de découverte, de rencontre et de valorisation des différentes formes du savoir, qui puisse être sans détriment de l’une ou l’autre modalité de formation. Il s’agit alors d’intégrer dans l’information-conseil sur la VAE des modalités facilitant des «transformations majorantes» de la culture des acteurs, pour tous ceux qui s’approchent pour les premières fois de ces pratiques. Notamment, il nous semble essentiel de tenir compte des déstabilisations cognitives qui peuvent émerger quand on aborde le domaine de la VAE. Cela demande une attention particulière de la part des professionnels qui doivent accueillir et soutenir les candidats dans un parcours caractérisé

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souvent par l’incertitude, en sachant articuler différentes formes d’intervention, afin de permettre une mise en perspective de la procédure de VAE et en assurer la réussite. Une diversification réalisée à partir de la compréhension de l’autre, de ses intentions, préoccupations et conceptions, qui puisse faciliter une première appropriation de cet objet culturel inédit. Pour cela, et comme signalé aussi par Hagen et Jordan (2008) la prise en compte de ses propres métaphores conceptuelles et de celles de ses interlocuteurs résulte particulièrement appropriée. Pour conclure, nous pensons que l’intervention des conseillers en VAE, certainement enracinée dans des pratiques professionnelles de domaines plus étendus, comme celui du conseil d’orientation et/ou celui de la formation des adultes, trouve sa spécificité et ses problématiques propres. Elle nécessite alors une formation spécifique, ce que nous avons exploré dans d’autres études (Salini, Ghisla, Bonini, 2010; Cortessis, Salini, Rywalski, 2013) et que à notre avis doit être fondée non seulement sur des apports théoriques, prescriptifs et méthodologiques concernant la VAE, mais aussi sur l’expérience en première personne de l’élaboration d’un dossier de validation, et la participation à des projets concrets en ce domaine.

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Esperienze Forme sonore in movimento Moving sonic forms NADIA CARLOMAGNO • ALESSANDRO CIASULLO PIO ALFREDO DI TORE • ELISA FRAUENFELDER * Muovere forme sonore consente al soggetto di realizzare un processo originale di significazione dinamica attraverso il quale il corpo diventa un “biologically designed mediator” in grado di trasferire l’energia fisica del suono a un livello mentale e di restituire la rappresentazione mentale in una forma materiale (Leman, 2008). Nell’ ottica della embodied music cognition il concetto di percezione appare recepire la riflessione scientifica più recente che ruota intorno all’assunto per cui “what happens in perception can be understood in terms of action” (Jeannerod, 1994; Berthoz, 1997; Prinz and Hommel, 2002; Decety and Jackson, 2004). Il framework concettuale del lavoro recepisce, in tal senso, la prospettiva della semplessità (Berthoz, 2011) in campo didattico, ovvero la possibile fruizione di principi capaci di semplificare l’azione didattica, utilizzando complessità accessorie (Berthoz, 2011) che siano in grado di fronteggiare la complessità dell’esperienza formativa (Sibilio, 2013). Questo approccio che si fonda sulla visione bioeducativa della didattica (Frauenfelder & Santoianni, 2002), riconoscendo nell’esperienza formativa il significato delle corporeità didattiche (Sibilio, 2011), tenta di capitalizzare la dimensione dinamica del suono musicale, disegnando immagini fisse di un flusso in continuo movimento (Godøy, 2003). Sul piano didattico, infatti, l’accoppiamento di azioni, forme e sonorità, sollecita i processi di significazione attraverso l’ampliamento dello spazio della conoscenza. La proposta progettuale intende realizzare una versione fruibile didatticamente di NodeBeat, uno strumento interattivo di creazione musicale basato su forme e suoni da costruire e manipolare, prevedendo la LIM come strumento di supporto alla realizzazione dell’esperienza formativa nelle prime classi della scuola primaria.

Moving sonic forms allows the subject to promote an original process of dynamic signification through which the body becomes a “biologically designed mediator” able to transfer sound physical energy up to a mental level and to give back mental representation into a material form (Leman, 2008). In the embodied music cognition perspective the concept of perception seems to reflect the latest neuro-scientific debate, for which “what happens in perception can be understood in terms of action” (Jeannerod, 1994; Berthoz, 1997; Prinz and Hommel, 2002; Decety and Jackson, 2004). The conceptual framework of this work, in this sense, reflects the perspective of simplexity (Berthoz , 2011) in the educational field, that is the possible use of principles capable of simplifying the teaching action, using complex additional strategies (Berthoz, 2011) which are able to face the formative complexity (Sibilio, 2013). This approach, based on the bioeducational vision of teaching (Frauenfelder & Santoianni, 2002), recognizing in the formative experience the significance of educational corporealities (Sibilio, 2011), tries to capitalize the dynamic dimension of the musical sound, paradoxically drawing still images of a continuous stream (Godøy, 2003). On the educational field, the coupling of actions, forms and sounds, stimulates the signification processes through the expansion of the space of knowledge. The proposed project intends to provide a teachingoriented version of NodeBeat, a creative interactive music making software based on shapes and sounds to build and manipulate through the use of the IWB as support in Primary school.

Parole chiave: Bioeducazione, Semplessità, Corporeità didattiche, Educazione Musicale, Interfacce tangibili, Audiation.

Key words: Bioeducation, Simplexity, Educational Corporealities, Music Education, Tangible Interfaces, Audiation

* Nadia Carlomagno è l’autore del lavoro; Alessandro Ciasullo ha collaborato alla realizzazione del progetto di ricerca ed ha coadiuvato l’autore nella parte del lavoro Attività in classe; Pio Alfredo Di Tore ha collaborato alla realizzazione del progetto di ricerca ed ha coadiuvato l’autore nella realizzazione della parte Framework tecnologico; Elisa Frauenfelder è il coordinatore scientifico del lavoro. © Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2038-9736 (in press) / ISSN 2038-9744 (on line) Giornale Italiano della Ricerca Educativa • anno VI – n. 11 – dicembre 2013

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Forme sonore in movimento

Introduzione Nella prospettiva bioeducativa, il rapporto tra corpo, movimento e processi cognitivi si traduce una visione adattiva e complessa dell’apprendimento che coinvolge il soggetto nella sua dimensione interattiva (Carlomagno, Ciasullo, Orefice & Frauenfelder, 2013). In tale visione il nucleo della formazione è situato “nella considerazione del soggetto nella sua globalità e nel suo sviluppo, come individuo attivo nel fare esperienza della realtá circostante, selezionandola, codificandola e interpretandola. [...] Nelle scienze bioeducative un discorso sulla formazione considera l’apprendimento come centro di convergenza moltiplicativa a cui possono essere ricondotti gli apporti di tutte quelle discipline la cui competenza perennemente si intreccia con quella piu specificamente pedagogica” (Frauenfelder, 2002, 39). È indispensabile sottolineare che questa prospettiva avvalora l’unicita della relazione apprendimento-formazione e trova significatività nelle acquisizioni delle recenti scoperte neuro-scientifiche, considerate fondamentali per allargare l’orizzonte delle chiavi interpretative utilizzabili al fine di attribuire i possibili significati al processo insegnamento-apprendimento. In tale ottica, si coniugano naturalmente apparenti antinomie sul significato dinamicamente evolutivo di corpo e cognizione. “With ascending level of abstraction, the role of cognitive processing grows gradually. Rather than thinking in terms of a dichotomy, however, I prefer to think in terms of a continuum between lower and higher levels of processing, stressing the role of direct perception and of cognitive mediation, that is the outcome of learning processes” (Reybrouck, 2001, 602-603).

Il rapporto tra percezione e processi cognitivi, in questo contesto, viene considerato alla luce del rovesciamento del paradigma “classico” percezione-azione, operato sulla base delle evidenze provenienti dalla riflessione neuro-scientifica più recente. “we base on the action, not on the representation, our conception of the activity of the body. The perception does not represent the world, but constitutes it as Umwelt. The action does not just react to the event, she precedes it with simulation or emulation” (Berthoz & Petit, 2006).

Di tale approccio offre una efficace sintesi Marc Leman nell’ affermare che: «what happens in perception can be understood in terms of action» (Leman, 2008, 48; Jeannerod, 1994; Berthoz, 1997; Prinz and Hommel, 2002; Decety and Jackson, 2004).

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Nadia Carlomagno, Alessandro Ciasullo Pio Alfredo Di Tore, Elisa Frauenfelder

Il legame tra corpo, spazio e processi cognitivi, che presuppongono l’uso del movimento per la manipolazione sonora, viene ribadito in maniera esplicita dal neurofisiologo Alain Berthoz: “La mia ipotesi a questo proposito è duplice. La prima è che gli strumenti mentali elaborati nel corso dell’evoluzione per risolvere i molteplici problemi che pone l’avanzamento nello spazio siano stati utilizzati anche per le funzioni cognitive più elevate: la memoria e il ragionamento, la relazione con l’altro e anche la creatività. La seconda ipotesi è che i meccanismi mentali deputati all’elaborazione spaziale permettano di semplificare numerosi altri problemi posti agli organismi viventi” (Berthoz, 2011, 107).

Su tale rovesciamento di paradigma, e sull’ipotesi di Berthoz in particolare, si fonda l’ipotesi progettuale presentata in questo lavoro che ha come obiettivo il design e lo sviluppo di un software finalizzato alla manipolazione virtuale di forme sonore, che realizzi le interazioni educative attraverso il movimento di oggetti sonori bidimensionali. L’ambito di riferimento è l’ambito specifico della research in music education in generale (Price & Chang, 2000) e della didattica della musica in particolare1.

1. Framework concettuale La riflessione sull’approccio embodied alla ricerca in campo musicale (Leman, 2008; Reybrouck, 2001) avvalora la fruibilità didattica della sintesi corpo-suono-movimento, evidenziando il ruolo centrale del corpo come componente primaria della percezione musicale e della comprensione sonora dei significati. Nell’ipotesi di Leman il corpo è un “biologically designed mediator” in grado di trasferire l’energia fisica del suono a un livello mentale e di restituire la rappresentazione mentale in una forma materiale. “The human body can be seen as a biologically designed mediator that transfers physical energy up to a level of action-oriented meanings, to a mental level in which experiences, values, and intentions form the basic components of music signification.The reverse process is also possible: that the human body transfers an idea, or mental representation, into a material or energetic form.This two-way mediatidxon process is largely constrained by body movements, which are assumed to play a central role in all musical activities. The embodied music cognition approach assumes that the (musical) mind results from this embodied interaction with music” (Leman, 2008).

La funzione del corpo, come mediatore biologico tra l’energia fisica del suono e la costruzione di significati, si sostanzia e si realizza attraverso l’uso del movimento come strumento e soggetto di interazione con ambienti tecnologici:

1 Per una trattazione esaustiva della prospettiva bioeducativa si rimanda ai testi “Introduzione alle scienze bioeducative” (Frauenfelder, Santoianni, & Striano, 2004) e “Le scienze bioeducative. Prospettive di ricerca” (Frauenfelder & Santoianni, 2002), mentre per il concetto di semplessità e per la declinazione didattica di tale concetto si rimanda ai testi “La semplessità” (Berthoz, 2011) e “La didattica semplessa” (Sibilio, 2013).

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«[…] Properties, such as objects coming closer or moving away, can be expressed using body movement [...]. In that sense, dealing with sonic moving forms in terms of body movement provides descriptions that are based on perceptual and sensorimotor mechanisms» (Leman, 2008, 20).

Su queste basi si struttura il concetto di sonic form, per cui la percezione musicale corrisponde ad una simulazione corporea della percezione di forme sonore in movimento (Godøy, 2003). Le forme sonore, in questa ottica centrata sull’interazione corpo-macchina, rimandano necessariamente ai concetti di azione, anticipazione e intenzionalità: «If the moving sonic forms can engage humans in body movements, then it is straightforward to assume that this movement will engender sensory qualities which can be attributed to music as well. If corporeal imitation of movement in sound is possible, then the association with sensory qualities is straightforward» (Godøy, 2003).

Tali suggestioni inducono a riflettere su nuovi spazi di ricerca offerti dal concetto di corporeita’ didattiche, attraverso l’indagine dei possibili significati derivanti dalla manipolazione di forme sonore. «In questo senso, appaiono importanti non solo le modalità adottate dal docente per costruire personalmente i diversi significati, ma la sua capacità di proporre ai discenti la stessa o altre modalità attraverso forme didattiche che rispecchino fedelmente le sue intenzioni, impiegando anche le potenzialità corporee nella costruzione di significati condivisi» (Sibilio, 2001, X.)

Interpretando, dunque, il corpo come «dispositivo principale attraverso il quale, realizzando esperienze, sviluppiamo apprendimento e produciamo conoscenza» (Rivoltella, 2012, 12), si ipotizzano opportunità di apprendimento volte a «guardare alle corporeità didattiche come una vera e propria pratica situata e a considerare i risultati dell’azione didattica come il prodotto finale di un’interazione complessa non linearmente “spiegabile”» (Sibilio, 2011, 61). L’ipotesi alla base di questo studio è che l’approccio della embodied music cognition (Leman, 2008), applicato alla didattica della musica, possa incentivare nei bambini la capacità di Audiation nei primi anni di vita, attraverso il gioco e il movimento. L’Audiation si configura come un processo cognitivo incarnato attraverso il quale il soggetto dà significato (organizza) ai suoni musicali e si determina in un processo sequenziale che dura nel tempo (Gordon, 2003). La capacità di Audiation, secondo Gordon, si svilupperebbe a partire dall’età neonatale per poi evolversi durante la prima infanzia attraverso la guida informale di un adulto competente che utilizza come principio didattico-pedagogico l’esempio diretto, il gioco e il movimento. La produzione musicale, sia essa costituita dal cantare, dal suonare uno strumento reale o virtuale, rappresenta una potenziale estensione della spinta comunicazionale e organizzativa di una dimensione organica e strutturata che può essere recepita dall’esperienza didattica attraverso l’uso del corpo in movimento.

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2. Framework tecnologico Sul versante dello sviluppo software, il progetto intende capitalizzare sul piano didattico le opportunità di interazione enattiva (Chow & Harrell, 2011) offerte dalla Interfacce Naturali, che consentono il recupero alla Human Computer Interaction di paradigmi naturali della interazione umana (suono, voce, tatto, movimento). “Natural User Interface (NUI) is the next metaphysical paradigm shift in man machine interaction (MMI) also known as human computer interaction (HCI). Beginning with the Command Line Interface (CLI) and followed by the Graphical User Interface (GUI), we are now in the midst of discovering the next phase of a more organic interfaces which are based on more traditional human interaction paradigms such as touch, vision, speech and most importantly creativity. Natural user interfaces can include sound, touch, gesture, tactile inputs and outputs and are really about making the most efficient use of the human senses when interacting with machines” (NUIGroup, 2011). La diffusione di Interfacce Naturali, già supportate da molti devices e software presenti nelle aule scolastiche (LIM, tablet, smartphone), consente di rimuovere il diaframma che, nelle interfacce grafiche, separa l’utente dall’applicazione: l’interazione non avviene “attraverso lo specchio” (Carroll, 2012) dello schermo, ma avviene, attraverso il movimento, nello spazio naturale dell’utente, in relazione ad una umwelt aumentata (digitale) che inter-agisce in maniera continua (non discreta) con l’intero corpo dell’utente (Di Tore, Carlomagno, Di Tore, & Sibilio, 2013). “The analysis of the educational potential of gesture-based technologies is developed from the awareness that the devices that encourage to touch, to move and to explore are considered interesting for teaching and education. The gesture-based computing will probably be able to control the educational experience through the body and voice, to transform the teaching action in digital contexts in a natural and interactive experience and to interact in and with an augmented environment to “manipulate”, influence and transform it into an intuitive manner” (Di Tore, Carlomagno, Di Tore, Sibilio, 2013, 43).

In questo senso, l’implementazione delle interfacce naturali in ambito educativo, valorizzando l’interazione azione-suono-spazio-forma, rappresenta un dispositivo didattico in grado di recuperare le corporeità didattiche alla Human Computer Interaction.

3. Obiettivi Partendo da tali premesse teoriche, il progetto di ricerca ha come obiettivo la creazione di un software didattico finalizzato alla manipolazione di forme sonore, che realizzi le interazioni educative attraverso il movimento di oggetti sonori. Il focus principale del progetto è sulle interfacce naturali, che rappresentano lo strumento attraverso cui la manipolazione di forme sonore prende corpo. Il progetto mira alla realizzazione di un sistema multi-touch, che consenta ai bambini di creare e generare musica interagendo con una tangible interface in cui le caratteristiche fisiche dell’input siano emulate e l’interazione avvenga con uno strumento virtuale. Il progetto non si propone di realizzare il software ex-novo; intende piuttosto sviluppare una versione orientata al processo di insegnamento-apprendimento di un software open

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source esistente, NodeBeat, che è pensato principalmente per l’utilizzo su dispositivi mobili quali tablet e smartphone. Si intende quindi valorizzare le componenti NUI (Natural User Interface) di NodeBeat, orientandole all’utilizzo sulla LIM2. NodeBeat è un sintetizzatore/sequencer creato per far suonare le connessioni generate dalle immagini e i suoni da esse generate; in NodeBeat, esistono due tipologie principali di “oggetti sonori” (di varie dimensioni e misure): Nodi-Generatori e Nodi-note; ogni nota, perché possa effettivamente suonare, deve essere fisicamente collegata ad uno o più generatori. Il tipo di nota, il numero di collegamenti ai generatori e la distanza da questi determinano effettivamente come e quanto ogni nota suona. In altre parole, ciò che viene fisicamente costruito spostando i diversi oggetti sulla interfaccia di NodeBeat è una figura che, in base alle sue caratteristiche (tipologie e numero di oggetti, distanza tra gli oggetti), produce un determinato suono. NodeBeat sembra immediatamente offrirsi come concreta istanza di ciò che Leman ha definito, riprendendo Godoy, moving sonic forms. Inoltre, questo software presenta molteplici vantaggi: è freeware nella versione per desktop, consente creazioni musicali e composizioni senza la necessità di competenze specifiche circa la teoria e la pratica strumentale, è modificabile, è open-source. L’attività di seguito presentata ha avuto il carattere di uno studio di usabilità (Nielsen, 1994) volto a verificare la possibilità: a) che effettivamente l’utilizzo di software come NodeBeat, grazie al supporto che offre per le Interfacce Naturali, possa rappresentare uno strumento per tradurre nella pratica didattica le suggestioni provenienti dall’idea di embodied music cognition (Leman, 2008). b) che sia fattibile sviluppare una versione didattica per la LIM di un software originariamente pensato per altro utilizzo su altri dispositivi.

4. Metodologia Il lavoro qui presentato riguarda la progettazione e la valutazione di un sistema multi-touch semplice che permetta ai bambini di creare musica attraverso l’interazione con le forme sonore. Occorre rendere esplicito che l’obiettivo primario del lavoro è stato quello di verificare la funzionalità della versione del software, nella consapevolezza di non registrare il comportamento e i risultati degli utenti in un setup sperimentale. Il report presentato di seguito costituisce dunque il resoconto di uno studio di usabilità tradotto in una ricerca a carattere applicativo ed empirico relativa alla progettazione di una tecnologia educativa; in particolar modo il report riguarda la fase di analisi funzionale al design del software. La verifica della efficacia didattica, con strumenti propri della ricerca educativa, verrà affidata ad un successivo step del progetto, da realizzarsi dopo la produzione definitiva del software in oggetto, sulla base delle osservazioni di seguito riportate.

2 Il design e lo sviluppo del software avverranno come parte di un più ampio progetto sulle potenzialità didattiche delle Interfacce Naturali, avviato da Alfredo e Stefano Di Tore presso il Dipartimento di Scienze Umane, Filosofiche e della Formazione dell’Università di Salerno, con il coordinamento scientifico del prof. Maurizio Sibilio.

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Nel caso specifico, trattandosi di una versione modificata di un software esistente, questo stage consiste essenzialmente nello studio delle interazioni rese possibili dal software attuale e nella individuazione delle modifiche alle funzionalità e alle prestazioni che esso dovrà offrire al fruitore. Lo studio esplorativo è stato avviato in una classe terza della scuola primaria, utilizzando la LIM come supporto, ed ha coinvolto 22 studenti, non modificando il contesto normale di svolgimento delle loro attività didattiche quotidiane (presenza in aula di una loro insegnante). Gli studenti sono stati divisi in gruppi e a ogni gruppo sono stati sottoposti tre musical tasks (di cui fornirà la descrizione nel prossimo paragrafo); le performances degli studenti e la discussione informale all’interno dei gruppi e tra i gruppi sono state videoregistrate per generare dati sufficienti per analizzare i diversi aspetti del comportamento provocato dall’applicazione del prototipo, nel tentativo di individuare qualsiasi difficoltà gli utenti potessero sperimentare con l’applicazione, in che misura essa ha permesso loro di collaborare, e il grado in cui essa li ha impegnati. Non si è ritenuto di preparare griglie di osservazione o di definire indicatori specifici, al fine di evitare possibili condizionamenti nell’osservazione. La valutazione della fase di osservazione è stata affidata ai singoli componenti del gruppo di ricerca, composto da: un principal investigator (esperto in didattica della musica); due software designers con esperienza nell’ambito delle interfacce naturali; un coordinatore scientifico (esperto nella valutazione del movimento). Considerato il topic del progetto (muovere forme sonore), si è ritenuto di valutare in via preliminare: • il grado di integrazione visuomotoria degli studenti coinvolti; • la capacità di intonazione; Per il primo punto sono stati utilizzati i test Bender e VMI (Beery, 1967; Beery, 2004). Occorre precisare che il Bender è stato somministrato a scopo dimostrativo, per familiarizzare con il gruppo, considerando anche che alcune forme dei task descritti di seguito sono state mutuate da questo test, e sono stati presi in considerazione esclusivamente i risultati ottenuti con il VMI. Per il secondo punto, è stata utilizzata la scala di valutazione dell’intonazione sul modello elaborato da Graham F. Welch (Welch, 1994). Considerando il valore preliminare di queste valutazioni, non si ritiene qui, per brevità, di riportare i dati. Si sottolinea comunque che i risultati non evidenziano nessuna differenza significativa con le classi di normalità di riferimento (i risultati normalizzati del VMI collocano tutti gli utenti tra il 49° e il 51° percentile).

5. L’attività in classe Le attività hanno seguito una scansione in quattro fasi.

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Fase 1 Esplorazione libera di NodeBeat sulla LIM (Fig. 1).

Fig. 1: Esplorazione libera

Osservazioni: I commenti degli osservatori sono concordi nel rilevare una tendenza a generare forme simmetriche e riportare tutti gli elementi presenti sulla LIM ad una tendenziale uniformità.

Fase 2 Riproduzione di configurazioni per difficoltà crescente. In un primo step, viene presentato, come stimolo da riprodurre, soltanto il suono (Fig. 2; 3).

Fig. 2: Presentazione dello stimolo sonoro

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Fig. 3: Realizzazione del solo stimolo uditivo

In un secondo step, viene presentato lo stimolo sonoro accompagnato dalla visualizzazione dell’interfaccia di NodeBeat (Configurazione 1: un generatore, due note; Configurazione 2: due generatori, quattro note; Configurazione 3: tre generatori, sei note) (Fig. 4; 5)

Fig. 4: Presentazione di stimolo visivo e uditivo

Fig. 5: Esecuzione secondo lo stimolo visivo ed uditivo

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Osservazioni: i commenti degli osservatori sono concordi nel rilevare una performance più sicura e rapida quando i due stimoli sono stati presentati in combinazione; nell’ottica dello sviluppo di una tangible music interface (che è tra gli obiettivi del progetto) questo assume un’importanza peculiare. Fase 3 Riproduzione di configurazioni mutuate dal Bender Gestalt Test e dal Visual Motor Integration Test. Ai bambini è stato chiesto di riprodurre, con NodeBeat, alcune forme presenti nei test Bender e VMI; durante la fase di illustrazione, è stata mostrata ai bambini una legenda indicante dove posizionare, riproducendo la figura, i nodi generatori e dove le note (Fig. 6; 7).

Fig. 6: Presentazione grafica di figure dal “Bender”

Fig. 7: Esecuzione del “Bender”

Osservazioni: i commenti degli osservatori sono concordi nel segnalare che diversi studenti hanno riprodotto, oltre alle forme, anche le indicazioni su dove posizionare i nodi generatori (occorre specificare che i bambini avevano già familiarità con le forme selezionate, perché era stato loro somministrato, in precedenza, sia il Bender che il VMI test). Si è convenuto, pertanto, di modificare l’interfaccia in cui il task viene proposto all’utente, inserendo un disclaimer esplicativo e proponendo due schermate in sequenza, inserendo le indicazioni solo nella prima schermata e proponendo la seconda schermata come risultato atteso.

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Fase 4 Riproduzione di strutture complete realizzate tramite NodeBeat. Nella quarta fase è stata presentata una struttura completa creata sull’interfaccia di NodeBeat ed è stato chiesto ai bambini di riprodurla (Fig. 8; 9).

Fig. 8: Presentazione di una figura completa

Fig. 9: Realizzazione della figura presentata

Osservazioni: I commenti sono concordi nell’assegnare a questa fase le performances migliori, intese come aderenza del prodotto dell’attività dei bambini rispetto allo stimolo proposto.

Conclusioni Al fine di realizzare una edizione di NodeBeat espressamente progettata per l’utilizzo didattico, l’ esperienza in classe ha avuto lo scopo di verificare la fattibilità del progetto, ovvero di constatare l’effettiva spendibilità didattica di un sequencer come NodeBeat. La suddetta esperienza sembra confermare, da un lato, la fattibilità tecnica del porting di

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NodeBeat verso la LIM e, dall’altro, l’opportunità di realizzare una versione del software orientata al processo d’insegnamento-apprendimento. Tale risposta incentiva gli obiettivi futuri del progetto, che possono essere così presentati: • Elaborare una variegata scelta di forme per il riconoscimento degli elementi musicali; • Superare la bidimensionalità e estendere, utilizzando ed integrando altre interfacce, la manipolazione di forme e suoni in 3D. • Procedere ad una verifica sperimentale dell’efficacia didattica dello strumento proposto. In conclusione, da quanto sopra argomentato, si possono desumere notevoli occasioni d’integrazione sistemica sul piano didattico, tali da favorire una maggiore diffusione dell’approccio al mondo sonoro/virtuale, oltre che nuove possibilità date al corpo di agire su di esso. Ciò denota le potenzialità di uno studio ulteriore su nuovi strumenti da applicare ai contesti formali e non-formali (Carlomagno, 2012), oltre che la possibilità di calibrare nuovi approcci utilizzabili per fronteggiare didatticamente i bisogni educativi speciali.

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Esperienze Didattica e Gifted Children. Approcci consolidati e prassi emergenti Didactics and Gifted Children. Proven approaches and emerging practices GIUSEPPINA RITA MANGIONE • FIORENZA MAFFEI La visione adattiva dell’istruzione si inserisce e sostiene in particolare il tema dell’educazione dei bambini “plusdotati” necessitanti di interventi didattici differenziati e personalizzati. In questo lavoro verrà dapprima introdotto il concetto di insegnamento adattivo e istruzione personalizzata per poi il panorama normativo nazionale a supporto di interventi didattici per i bambini ad alto potenziale. In un secondo momento il focus sarà sugli approcci prevalenti alla didattica dei gifted e per i quali la letteratura mette in evidenza buoni livelli di efficacia con riferimento anche alle potenzialità che l’introduzione della tecnologia comporta rispetto ad un approccio multidimensionale all’educazione. Infine nell’ottica di un approccio basato sulle evidenze verrà presentata una sperimentazione elaborata nelle scuole primarie del vicentino che si inserisce in un quadro più ampio di un’azione di formazione formatori volta a individuare e sostenere l’apprendimento dei gifted children nel contesto italiano.

The principles of Adaptive Instruction can sustain solutions for the education of gifted children who need personalised and individualised didactic activities. The paper introduces, firstly, the main ideas underlying the Adaptive and Personalized Instruction and, secondly, the Italian National laws which regulate how giftedness has to be managed at schools. Subsequently, the focus is positioned on the study of didactic approaches mostly adopted and reported in specialized literature with good levels of efficacy. Particular attention is also given to the benefits (with respect to the aforementioned efficacy) of the introduction of ICTs in the schools. According to an evidence-based approach, experimentation results will be provided in the last part of the work. This experimentation has been carried out in a “Scuola Primaria di Vicenza” and it is part in a wider programme where the main actions regard the training of educators. The learning objective of the aforementioned training activities concerns the methods useful to sustain learning of gifted children in the Italian context.

Parole chiave: giftedness, istruzione adattiva, apprendimento personalizzato, interventi didattici

Key words: giftedness, adaptive instruction, personalized learning, educational strategies

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2038-9736 (in press) / ISSN 2038-9744 (on line) Giornale Italiano della Ricerca Educativa • anno VI – n. 11 – dicembre 2013

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Didattica e Gifted Children. Approcci consolidati e prassi emergenti

«I bambini iperdotati non sono esattamente come gli altri, ma come gli altri sono bambini» (Oliver Revol)

Introduzione Il sistema di istruzione italiano si presenta oggi profondamente rinnovato. Una scuola efficace richiede la progettazione e l’attuazione di piani di insegnamento in ambienti che consentono agli studenti di raggiungere i risultati desiderati coerentemente col tenore della legge sull’autonomia il cui principale leit motiv è racchiuso proprio nell’idea che «le istituzioni scolastiche […] riconoscono e valorizzano le diversità, promuovono le potenzialità di ciascuno adottando tutte le iniziative utili al raggiungimento del successo formativo»1. La scuola è chiamata a gestire l’eterogeneità delle classi e a condurre contemporaneamente didattiche differenziate per andare incontro alle esigenze dei singoli, promuovendone il riconoscimento e la valorizzazione delle identità. Un complesso e articolato iter culturale, sociale e politico, maturato nel corso degli ultimi anni, ha condotto, sia in ambito scolastico che formativo, a una messa in luce del concetto di “adattamento” dei percorsi di insegnamento rispetto alle necessità degli studenti. Si aprono così ampi spazi di azione per processi “adattivi” e per la concreta realizzazione di esperienze educative in grado di dare una dimensione di reale praticabilità a una esigenza pedagogica e didattica (Mangione, 2013). Gli approcci istruttivi e le tecniche a cui si ricorre per soddisfare le esigenze specifiche dello studente rientrano nell’area di studio e ricerca conosciuta come “istruzione adattiva” (Corno & Snow, 1986). Adattare l’insegnamento (adaptive teaching) alle caratteristiche individuali dei discenti, tramite specifiche e concrete azioni didattiche (Vogt & Rogalla, 2009), dovrebbe avere come fine ultimo quello di stimolare e supportare il raggiungimento degli obiettivi didattici, di migliorare le capacità intellettive degli allievi, permettendo a ciascuno di loro il raggiungimento di una propria “eccellenza cognitiva”. Se prima il tema della differenziazione era esclusivamente legato ai disturbi dell’apprendimento (Cornoldi, 2007) e ai bisogni speciali intendendo esclusivamente situazioni di recupero e di compensazione, oggi si dibatte intorno ai concetti di precocità e talento (Dozio & Bontà, 2003). «La scuola potrebbe rappresentare un ottimo laboratorio di germinazione e di sperimentazione dei talenti personali; è compito degli insegnante cercare, trovare, scoprire, disporre situazioni tali da far emergere i potenziali di sviluppo ed impostare azioni educative che valorizzino quei talenti e su quei talenti facciano leva per la promozione della persona come cittadino, nel percorso educativo di crescita intellettuale, affettiva, esperienziale, socio-relazionale» (Tessaro, 2011, 7). Accanto quindi al diffondersi di numerose tassonomie dell’iperdotazione (Betts & Neihart,1988) matura la consapevolezza che un curriculo orientato alla formazione dei talenti e allo sviluppo del potenziale di ciascuno trova nell’azione formativa del docente il suo car-

1 Art. 4, Regolamento dell’autonomia scolastica di cui al D.P.R. 275/1999)

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Giuseppina Rita Mangione, Fiorenza Maffei

dine centrale (Margiotta, 1997; Margiotta, 2003). L’idea che il successo di un intervento educativo dipenda dalla capacità del docente di adattare il percorso alla individualità di ciascuno studente si ritrova fin dalle antiche scritture romane (Rhandi & Corno, 2005). Quintiliano, ad esempio, affrontò il problema dell’importanza dell’ambiente nel processo educativo del bambino e dell’insegnamento individualizzato al fine di riconoscere e favorire le attitudini proprie di differenti personalità (Rhandi & Corno, 2005). La letteratura degli ultimi dieci anni riflette lo sviluppo che nell’ambito del settore pedagogico ha avuto l’apprendimento personalizzato rispetto ai processi cognitivi e comportamentali dello studente. In particolare è giunta a ridefinire l’idea di una effective teaching practice, una pratica di insegnamento fortemente legata alla competenza di adatptively teaching (Corno, 2008). I docenti, anche nei contesti di classe più tradizionali, sono da sempre tenuti a mantenere un clima positivo e un atteggiamento di tipo supportivo tra pari, nonché a valorizzare le individualità adattando i programmi alle esigenze dello studente, e correlandoli ai livelli di achivement e al successo dell’esperienza didattica (Creemers, 1994). L’interesse rispetto a questo filone di ricerca è la risultante delle evoluzioni tecnologiche che gli ultimi due decenni hanno influito sulla ridefinizione delle architetture didattiche e delle pratiche educative (Mangione, 2013), avviando interventi di adaptve schooling e definendo ambienti che prendono in considerazione esperienze, interessi, abilità, background cognitivo, sociale ed economico dei singoli studenti per adattare al meglio l’esperienza di insegnamento e apprendimento. In alternativa e in contrapposizione con il punto di vista delle “differenze in quanto ostacolo” (difference as obstacle) e rispetto ad un agire didattico consolidato intorno al one fit for all, emerge l’aspetto delle pratiche didattiche e della competenza adattiva che il docente deve avere al fine di utilizzare le differenze individuali come “opportunità di apprendimento” (differences as opportunities) e per l’innovazione pedagogica (Rhandi & Corno, 2005; Mangione, 2013). Tutti gli studenti sono portatori di bisogni educativi speciali e come tali vanno riconosciuti e considerati nel sistema scolastico. Il modello di insegnamento centrato sul talento personale è in sintonia con le strategie didattiche di tipo personalizzato e con una diversificazione dei percorsi e dei traguardi formativi declinati a seconda delle potenzialità dell’individuo (Simeon, 2002). Allontanandoci dalla concezione del talento come un “potenziale innato” per cui il ruolo dell’istruzione possa essere solo quello di fornire le condizioni di attuazione di ciò che esiste già in potenza, la pedagogia moderna, a forte connotazione socio-culturalista parla di “alto potenziale” o “plusdotazione” attribuendo un ruolo fondamentale ai fattori esterni, e configurando il talento come un prodotto delle specifiche inclinazioni di un individuo e le risorse di contesto in cui l’individuo stesso si forma e apprende (Sansuini,1997). Il ruolo dell’istruzione allora diviene quello di offrire all’alunno l’opportunità di coltivare il proprio potenziale e far emergere il talento (Callahan & Hertberg-Davis, 2012). Nei programmi di adaptive instruction le tecnologie dovrebbero sostenere una maggiore schools’ adaptability (Glaser, 1977), contribuendo così alla personalizzazione e alla valorizzazione della “plusdotazione” (Heller & Schofield, 2000) e dei differenti tipi di eccellenza. La visione adattiva dell’istruzione si inserisce e sostiene l’educazione dei bambini dotati e di talento, un settore di ricerca dell’ educazione speciale che sta suscitando crescente interesse e attenzione da parte scuole, dei distretti scolastici ma che non trova ancora il meritato spazio all’interno dei piani di offerta formativa. Il Piano dell’offerta formativa è uno degli strumenti di flessibilità interna ed esterna destinati a promuovere il pieno sviluppo della personalità

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degli alunni e a valorizzarne le potenzialità, anche attraverso la preparazione di “moduli di approfondimenti per gruppi di eccellenza”. Le scuole possono infatti, secondo appunto la legge sull’autonomia, avere cura di ripensare la didattica delle discipline prevedendo nuove attività destinate legate a crediti formativi aggiuntivi e moduli volti alla scoperta di specifiche vocazioni”. Il ministero però non chiarisce in dettaglio cosa intenda per eccellenza né cosa siano i moduli di approfondimento”. Nel Piano di offerta formativa di alcuni istituti di istruzione secondaria di secondo grado, c’è un vago riferimento ad attività organizzate per la promozione delle eccellenze, ma non si indicano chiaramente i tipi di interventi educativi previsti. I bambini iperdotati non godono di un vero e proprio riconoscimento nel sistema scolastico. Per loro non sono previsti insegnanti specializzati, non sono istituzionalizzati i metodi di identificazione e di consulenza e non esistono programmi specifici. Da questo punto di vista L’Italia appare non al passo con altri paesi europei come l’Inghilterra, che hanno già da tempo dato vita a movimenti e indicazioni volte a dare valore alla didattica dei gifted nei loro piani di offerta formativa. Mancano inoltre anche manifestazioni autonome e locali di di ricerca-azione volte a individuare tramite processi di analogazione del dato esperienze modello da poter utilizzare per rivedere modelli di riferimento e pratiche educative situate. Per promuovere e sostenere efficacemente i talenti è di fondamentale importanza il ruolo svolto dalla scuola di base nella tempestiva diagnosi e negli interventi mirati dei primi anni di studio. In questo lavoro verrà dapprima introdotto il panorama normativo nazionale a supporto di interventi didattici per i bambini “plusdotati” e i modelli didattici maggiormente riconosciuti a livello internazionale legati un approccio multidimensionale alla didattica del talento In un secondo momento verrà presentata una sperimentazione pilota sul territorio italiano, la prima voluta e indirizzata dal ministero e dagli organi periferici dell’istruzione, elaborata all’interno di un più vasto evento di formazione formatori volto a individuare e sostenere l’apprendimento dei gifted children2 nelle classi del primo ciclo del territorio vicentino.

1. Personalizzazione e giftedness. La risposta normativa italiana La ricerca psicopedagogica sottolinea come, per la scuola italiana debba inserire tra le sue priorità la personalizzazione del processo di insegnamento-apprendimento al fine di garantire attenzione al successo formativo attraverso il potenziamento dei talenti individuali e, promuovere in ogni alunno lo sviluppo e la formazione della persona nel rispetto e nel potenziamento delle caratteristiche individuali cognitive, emotive e relazionali. La scuola deve infatti cercare di riconoscere le differenze fra gli allievi e adoperarsi al fine di permettere ad ognuno di sviluppare al meglio le proprie potenzialità. Da un punto di vista politico-normativo ricordiamo che nel 1975 si tenne a Londra il primo congresso mondiale per i bambini “dotati” nel quale fu disposta la creazione del Consiglio Mondiale per Bambini Dotati (WCGTC)3. Ma è nel 1994, in concomitanza della rac-

2 Gifted: bambini il cui quoziente intellettivo è nella fascia medio- alta (tra 100 e 125/130). 3 World Council for Gifted And Talented Children http://www.world-gifted.org/

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comandazione n. 1248 del Consiglio d’Europa sull’educazione dei bambini gifted, che emerge la necessità di alimentare e curare potenziale intellettivo dello studente dotato attraverso strumenti e condizioni di insegnamento particolari. Secondo la raccomandazione in oggetto «i bambini talentati dovrebbero poter beneficiare di condizioni adeguate di insegnamento, capaci di sviluppare completamente le loro potenzialità, nel loro interesse e nell’interesse della società. Nessun paese si può permettere di sprecare dei talenti, poiché sarebbe proprio uno spreco di risorse umane non identificare in tempo delle potenzialità intellettuali o di altra natura, per le quali sono necessari strumenti adeguati». Si annoverano molteplici alternative didattiche adottate all’interno dei contesti formali dai vari paesi europei al fine di migliorare l’esperienza didattica del bambino “plusdotato”. Tali misure vengono adottate coerentemente con un modello legislativo che ne accoglie la necessità. Il sistema scolastico italiano non prevede ad oggi una legge ad hoc per il bambino ad alto potenziale cognitivo, non legittima e regolamenta percorsi differenziati né prevede la possibilità di interventi volti a accelerare il percorso scolastico per i bambini speciali Tuttavia, dal combinato disposto dell’art.3 della Costituzione Diritto di Eguaglianza e dell’art. 34 comma 3 della Costituzione Diritto allo Studio, è possibile evincere un principio fondamentale: assicurare ad ogni allievo il pieno sviluppo della propria personalità nel rispetto delle differenze individuali al fine di garantire il diritto inviolabile dell’eguaglianza sostanziale. Infatti, la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli che di fatto limitano la piena realizzazione di questo principio fondamentale. In concreto, ciò è stato realizzato attraverso il decentramento amministrativo che per la scuola consta nell’emanazione del Decreto n° 275, 8 marzo 1999 sull’autonomia scolastica4. Dall’entrata in vigore della Legge sull’autonomia e del successivo regolamento (D.P.R. n. 275/1999) le singole istituzioni scolastiche, nel rispetto della libertà d’insegnamento e del pluralismo culturale, sono chiamate a progettare e realizzare gli interventi di educazione, formazione ed istruzione adeguandoli a diversi contesti e in coerenza con le finalità del sistema d’istruzione nazionale. Con l’autonomia si introduce per la prima volta il Piano dell’offerta formativa (P.O.F.), documento che deve essere elaborato annualmente da ogni istituto e presentato agli utenti del servizio, alunni e famiglie, al momento dell’iscrizione a scuola. Nel dettaglio l’articolo 4 comma 1 della Legge sull’autonomia recita: «le istituzioni scolastiche, nel rispetto della libertà di insegnamento, della libertà di scelta educativa delle famiglie e delle finalità generali del sistema, concretizzano gli obiettivi nazionali in percorsi formativi funzionali alla realizzazione del diritto ad apprendere e alla crescita educativa di tutti gli alunni, riconoscono e valorizzano le diversità, promuovono le potenzialità di ciascuno adottando tutte le iniziative utili al raggiungimento del successo formativo». Si intende realizzare qui interventi educativi e formativi mirati allo sviluppo della persona, ampliando l’offerta formativa, adeguandoli ai vari contesti e alle richieste delle famiglie e dell’economia del territorio, al fine di garantire il successo formativo in coerenza con le finalità generali del sistema di istruzione stabiliti a livello nazionale. Il comma 2° entra nello specifico prevedendo «l’attivazione di percorsi didattici individualizzati, nel rispetto del principio generale dell’integrazione degli alunni nella classe e nel

4 L’Autonomia scolastica trova origine nell’art. 21 della Legge 15 marzo 1997, n, 59, dove viene definita l’articolazione dell’attività didattica e si introduce il principio sulla flessibilità oraria dei docenti.

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gruppo, anche in relazione agli alunni in situazione di handicap (secondo quanto previsto dalla Legge 5 febbraio 1992, n. 104) e «l’articolazione modulare di gruppi di alunni provenienti dalla stessa o da diverse classi o da diversi anni di corso». La medesima legge all’articolo 9 sancisce l’autonomia didattica come azione «finalizzata al perseguimento degli obiettivi generali del sistema nazionale di istruzione, nel rispetto della libertà di insegnamento, della libertà di scelta educativa da parte delle famiglie e del diritto ad apprendere. Essa si sostanzia nella scelta libera e programmata di metodologie, strumenti, organizzazione e tempi di insegnamento, da adottare nel rispetto della possibile pluralità di opzioni metodologiche, e in ogni iniziativa che sia espressione di libertà progettuale, compresa l’eventuale offerta di insegnamenti opzionali, facoltativi o aggiuntivi e nel rispetto delle esigenze formative degli studenti». In forza dell’autonomia, quindi, si possono prevedere progetti specifici che mirano alla personalizzazione dell’insegnamento e dell’apprendimento per la valorizzazione delle eccellenze. Il concetto di personalizzazione è da porre in relazione alla necessità di porre ciascun allievo nella condizione di maturare la propria formazione in coerenza con le proprie aspettative e desiderata. Lo scopo della personalizzazione è trasformare in autentiche competenze le potenzialità di ogni essere umano e porre il soggetto in formazione al centro del processo di insegnamento/apprendimento. In tal senso si sono susseguiti anche ulteriori interventi legislativi: 1) La Legge 28 marzo 2003, n. 53 Delega al Governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione professionale, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 77 del 2 Aprile 2003.Tale legge all’articolo 2, comma 1 impone l’osservanza dei seguenti principi e criteri direttivi: • Promuovere l’apprendimento in tutto l’arco della vita assicurando a tutti pari opportunità di raggiungere elevati livelli culturali e di sviluppare le capacità e le competenze, attraverso conoscenze e abilità, generali e specifiche, coerenti con le attitudini e le scelte personali, adeguate all’inserimento nella vita sociale e nel mondo del lavoro, anche con riguardo alle dimensioni locali, nazionale ed europea; • Sostenere la scuola primaria e secondaria di primo gradonelle attività di .diversificazione didattica e metodologica in relazione allo sviluppo della personalità dell’allievo al fine di favorire l’acquisizione di competenze e delle capacità di scelta corrispondenti alle attitudini e vocazioni dei singoli. • L’azione didattica per il “gifted” richiede ai docenti di utilizzare metodologie di lavoro innovative proprio perché il bambino ad alto potenziale, in generale, ha bisogno di un programma didattico articolato in periodi più breve rispetto a quello dei compagni, e di “differenziarlo” affrontando attività e compiti specifici, pensati ad hoc per i suoi bisogni. 2) Il Decreto Legislativo 19 febbraio 2004, n. 59 Definizione delle norme generali relative alla scuola dell’infanzia e al primo ciclo dell’istruzione, a norma dell’articolo 1 della legge 28 marzo 2003, n. 53, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 51 del 2 marzo 2004 Supplemento Ordinario n. 31 al Capo I (Scuola dell’infanzia). Il suddetto decreto all’ art. 3, comma 2 richiama il dovere dei docenti di curare «la personalizzazione delle attività educative». In particolare al capo III (Scuola primaria), art. 5, comma 1: «La scuola primaria, accogliendo e valorizzando le diversità individuali […] promuove, nel rispetto delle diversità individuali, lo sviluppo della personalità»; e nuovamente al capo IV (Scuola secondaria di primo grado), art. 9, comma 1: «è caratterizzata dalla diversificazione didattica e metodologica in relazione allo sviluppo della personalità dell’allievo».

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3) Le Nuove Indicazioni per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione5 al capitolo “Cultura, scuola, persona”, paragrafo “Centralità della persona” richiamano l’attenzione sulla definizione e realizzazione delle strategie educative e didattiche sottolineando come queste debbano «sempre tener conto della singolarità e complessità di ogni persona, della sua articolata identità, delle sue aspirazioni, capacità e delle sue fragilità, nelle varie fasi di sviluppo e di formazione». 4) La Legge 170/2010 relativa alle “Nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento” indica come le istituzioni scolastiche debbano garantire «l’uso di una didattica individualizzata e personalizzata, con forme efficaci e flessibili di lavoro scolastico che tengano conto anche di caratteristiche peculiari del soggetto, adottando una metodologia e una strategia educativa adeguate». Questo principio di carattere generale in questo specifico testo di legge viene richiamato per garantire il diritto allo studio degli alunni e studenti con Disturbo Specifico di Apprendimento ma non vi è dubbio che esso debba orientare sempre la prassi didattica. La legge 170/2010 infatti si richiama alla Legge 53/2003 e al Decreto legislativo 59/2004 nei quali si stabilisce che l’offerta didattica e le modalità relazionali debbono calibrarsi sulla specificità ed unicità a livello personale dei bisogni educativi che caratterizzano gli alunni della classe, considerando le differenze individuali soprattutto sotto il profilo qualitativo. 5) Il D.P.R. 20 marzo 2009 n. 89 “Regolamento recante Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione”, a norma dell’articolo 1, comma 4 pone lo studente «[…]al centro dell’azione educativa in tutti i suoi aspetti: cognitivi, affettivi, relazionali, corporei, estetici, etici, spirituali, religiosi. In questa prospettiva, i docenti dovranno pensare e realizzare i loro progetti educativi e didattici non per individui astratti, ma per persone che vivono qui e ora, che sollevano precise domande esistenziali, che vanno alla ricerca di orizzonti di significato. Sin dai primi anni di scolarizzazione è importante che i docenti definiscano le loro proposte in una relazione costante con i bisogni fondamentali e i desideri dei bambini e degli adolescenti». 6) La Direttiva della Giunta Regionale del Veneto n. 1192 del 25 giugno 2012 è un’altra fonte di legittimazione per una didattica differenziata per potenziare l’educazione dei bambini talentuosi. Con tale provvedimento si è tentato di ampliare il bagaglio di interventi a sostegno della scuola, recependo la necessità, da tempo segnalata, di non massificare contenuti e prestazioni bensì di garantire lo sviluppo e la formazione della persona nel rispetto e nel potenziamento delle caratteristiche cognitive, emotive e relazionali di ciascun individuo. Nel quadro strategico di valorizzazione del capitale umano, la DGR n 1192/12 ha come finalità quella di sviluppare percorsi formativi che coinvolgano il corpo docente, contribuendo a migliorarne le competenze, così da adeguare i sistemi di istruzione e formazione nell’offerta di percorsi flessibili mirati alle diverse capacità degli allievi con differente potenziale cognitivo. Nell’ambito della suddetta DGR n. 1192/12 si propone di realizzare un percorso formativo sperimentale rivolto agli insegnanti e concernente le tematiche e le problematiche connesse ai bambini con un buon potenziale cognitivo: in altre parole l’obiettivo è quello

5 Indicazioni per il curricolo per la Scuola dell’Infanzia e per il primo ciclo di istruzione recuperato da http://www.indire.it/indicazioni/templates/monitoraggio/dir_310707.pdf

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di garantire a ciascun discente il successo formativo nel contesto scolastico. Quindi, anche sulla base della normativa esplicitata, la scuola deve essere in grado di riconoscere le differenze esistenti fra gli allievi, per permettere ad ognuno di sviluppare la propria personalità, e di continuare a porsi in linea con le misure suggerite dagli organismi nazionali e internazionali, che indicano come la diversità degli allievi vada riconosciuta e considerata nel sistema educativo. Le stesse misure spingono la classe docente a non considerare le differenze quale elemento su cui poggiare atteggiamenti di discriminazione o privilegio di categorie ma come elementi su cui avviare soluzioni interne al normale funzionamento scolastico, fondate sul principio d’integrazione di tutti gli allievi, valorizzando il riconoscimento di fatto di ogni tipo di differenza. Il quadro pedagogico e normativo sin qui descritto evidenzia che una struttura scolastica efficace deve favorire l’integrazione delle differenze sia attraverso misure di adattamento interno alle classi sia con misure che riguardano l’organizzazione curricolare. L’istituzione scolastica deve agire per “differenziazione” optando per un “insegnamento adattato e adattabile” ai bambini ad alto potenziale avvalendosi di interventi didattici che, coadiuvati dalle nuove tecnologie, riescano a coniugare differenziazione interna e offerta formativa aggiuntiva.

2. Studenti gifted e interventi didattici La centralità della persona e la conseguente valorizzazione delle differenze è un imprescindibile pre-requisito nella realizzazione di percorsi pedagogici e didattico- educativi all’interno di una società complessa, in cui la qualità delle intelligenze rappresenta la risorsa fondamentale a cui dedicare impegno e attenzione istituzionale. Dunque, misure di differenziazione e di sostegno sono necessarie per valorizzare ogni tipo di differenza e vanno applicate non solo per gli allievi che presentano difficoltà di apprendimento, ma anche per gli allievi che sono connotati da un buon potenziale cognitivo e sono particolarmente interessati al sapere. Nonostante la pedagogia del talento sia ormai diffusa a livello internazionale, in Italia il fenomeno della “plusdotazione” cognitiva” è ancora poco approfondito impedendo così la messa in pratica di interventi di sistema (Zanchin, 2002). Un gruppo ristretto di studiosi ha preso a cura questa tematica e ha cominciato a elaborare una definizione molto più complessa di giftedness in quanto potenziale carico cognitivo e motivazionale che permette di raggiungere l’eccellenza in una o più aree disciplinari (Bronfenbrenner & Ceci, 1994; Ceci & Williams, 1997). Al termine anglosassone gifted corrisponde quello italiano di “superdotato” o ad “alto potenziale”, il francese (sur)douè, il tedesco hoct-begabtè, tutti termini accomunati dall’idea di un “dono” che si attualizza in condizioni particolari di motivazione, di impegno e di educazione (Dentici 1990; Dentici 2001). I bambini ad alto potenziale «provengono da ogni realtà di vita, da ogni appartenenza etnica e socioeconomica, oltre che ad ogni nazionalità, ma esibiscono anche una varietà pressoché illimitata di caratteristiche diverse di temperamento, di propensione ad assumere dei rischi o di maggior cautela, d’introversione o di estroversione, di reticenza o stravaganza, come infine nella quantità d’impegno investito per raggiungere un obiettivo» (Neihart, 2002, 1). Le ricerche condotte in ambito internazionale sulla popolazione scolastica dotata hanno dimostrato che questo target di alunni si aggira tra il 3 e il 10% dell’utenza scolastica complessiva, e che un numero significativo di alunni talentati si trova in difficoltà e cerca di frequente un’assistenza sociale, per evitare l’insuccesso o l’abbandono scolastico.

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In Italia in particolare, come mostra la fig. 1, una recente indagine nel contesto nazionale, i bambini “plusdotati” sono intorno all’8% e solo il 2% supera un livello di QI (Quoziente di Intelligenza) di 145 (Comunian, 2000).

Fig. 1: Bambini (plusdodati) in Italia scala di Wechsler

In letteratura si sottolinea come il QI è un utile indicatore ma non è l’unico: creatività, motivazione, impegno, persistenza e passione sono elementi centrali che impattano con la traiettoria di sviluppo del talento. Il contesto educativo ha un ruolo centrale: lo studente grazie ad un ambiente stimolante, motivante e incoraggiante e ad eventuali interventi educativi e/o psicologici adeguati può incrementare il suo QI e la sua performance scolastica in modo molto marcato (Cairo, 2001). Lo studente con alto potenziale può incrementare il suo QI se gli/le vengono forniti risorse adeguate (speciali) e può raggiungere risultati eccezionali se gli viene fornito un programma individualizzato e/o viene inserito in un gruppo di “pari” con una “programmazione scolastica per gifted” (Pfeiffer, 2012). Tra le misure adottabili, volte a sostenere l’apprendimento di studenti speciali, ritroviamo il “percorso di studio abbreviato” (accelerazione), le “attività di livello avanzato” (arricchimento) e, l’”offerta educativa differenziata” (raggruppamento) che ad oggi rappresenta la strategia di utilizzo più frequente, una soluzione intuitiva che crea classi speciali o raggruppamenti adattate alle particolari esigenze dei bambini che dimostrano caratteristiche eccezionali (Tomlinson, 2012). Secondo Luzzo (2010) se da un lato l’accelerazione offre agli allievi lo stesso percorso didattico significativo ma concentrato in un minor numero di anni, permettendo un risparmio di tempo (che può arrivare a dimezzare i tempi canonici), dall’altro è l’itinerario che presenta maggiori rischi di “dissincronia emotiva”. L’arricchimento (di contenuto, di processo, di prodotto) mira, invece, ad aggiungere alla normale educazione nuove e stimolanti attività al fine di sviluppare le loro capacità in aree di maggiore eccellenza. Il raggruppamento infine, come detto prima, è la modalità didattica maggiormente presente nelle realtà scolastiche europee che presenta il vantaggio non indifferente di permettere agli studenti di esercitare tra loro la funzione «specchio» a scapito però di una inclusione educativa di classe (Luzzo, 2010). Una recente review internazionale sul tema della plusdotazione e della gifted education (Reis & Renzulli, 2010) propone una riflessione critica sulla reale efficacia educativa dei differenti itinerari didattici riportando i risultati delle varie ricerche condotte sul campo (Colangelo et al., 2004; Field, 2009; Gavin et al., 2007; Gentry & Owen, 1999; Gubbins et

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al., 2007; Kulik & Kulik,1992; Reis et al., 2007). Gli studi in particolare dimostrano che la strategia dell’arricchimento pedagogico (anche detta curriculum enhancement) (Gavin et al., 2007; VanTassel-Baska et al., 2002) (Field, 2009; Reis et al., 2007; Reis, 2008) così come quella dell’accelerazione (Colangelo et al., 2004), favoriscono lo sviluppo di studenti plusdotati sostenendo il raggiungimento degli obiettivi educativi in modo eccellente. In particolare la meta-analisi condotta da Colangelo, Assouline, e Gross (Colangelo et al., 2004) su interventi didattici basati sull’accelerazione conferma come i percorsi di studio abbreviati favoriscano il processo di apprendimento di studenti dotati e di talento. Gli studenti il cui percorso viene accelerato tendono ad essere molto più ambiziosi e raggiungono, perché fortemente motivati, livelli e punteggi più elevati degli altri studenti che non possono beneficiare di un intervento appositamente definito e adattato per l’emersione del talento. Gli studenti nell’ambito dell’esperimento di cui sopra hanno potuto accedere a percorsi abbreviati e hanno definito l’esperienza come un’opportunità che ha permesso loro di essere «academically challenged, socially accepted, and did not fall prey to the boredom, as do highly capable students who are forced to follow the curriculum for their age-peers» (Reis & Renzulli, 2010, 16). Gavin e colleghi (Gavin et al., 2007) hanno utilizzato metodi quasi-sperimentali in aule didattiche tradizionali per indagare l’efficacia di un curriculum di matematica appositamente arricchito per sostenere lo studio di studenti dotati. I risultati hanno mostrato la capacità di tale intervento di guidare lo sviluppo dei talenti delle prime classi con una maggiore comprensione dei concetti matematici, delle capacità di calcolo e di risoluzione dei problemi. Utilizzando metodi quasi-sperimentali in classi tradizionali anche VanTassel-Baska (VanTassel-Baska et al., 2002) ha rilevato l’efficacia legata all’uso di contenuti avanzati con studenti dotati in specifici domini. Little, (Little et al., 2007) ha utilizzato i metodi quasi-sperimentali per verificare se unità didattiche avanzate rispondono alle esigenze di studenti ad alto potenziale delle scuole primarie e secondarie di primo grado. I risultati mostrano differenze significative tra i gruppi di controllo e gruppo sperimentale, confermando il valore di percorsi di tipo enriched. Reis e colleghi (Reis et al, 2007; Reis, 2008), infine, utilizzando metodi di ricerca sperimentale nell’ambito del programma SEM-R hanno scoperto che gli studenti dotati beneficiano di un intervento che integra arricchimento e accelerazione dei programmi e dei percorsi. A conferma della validità didattica di tali interventi si aggiunge il più recente studio di Field (2009) che tramite la predisposizione di un programma didattico on line arricchito per gli studenti di talento ha rilevato un impatto significativo sullo sviluppo di capacitò di lettura rispetto ai gruppi di controllo che hanno fruito di percorsi non arricchiti. Le ricerche mostrano come la pedagogia dell’enrichment (Field, 2009; Reis et al., 2007, Reis, 2008), della differenziazione (Gentry & Owen, 1999), e dell’accelerazione (Colangelo et al., 2004; Gavin et al., 2007; VanTassel-Baska et al., 2002) possano considerarsi efficaci per gli studenti gifted e che il loro utilizzo va inserito e formalizzato all’interno della programmazione didattica personalizzata e legittimato dalla giurisprudenza locale. Occorre ricordare che lo studente con alto potenziale può incrementare il suo QI solo se gli/le vengono forniti risorse adeguate (speciali) e può raggiungere risultati eccezionali se gli viene fornito un programma individualizzato (arricchimento) che integri le evoluzioni di interazione tra se e mondo quali appunto quelle tecnologiche (Persson, 2009; Reid, 2011). Lo studente grazie ad un ambiente didattico stimolante, motivante e incoraggiante e ad eventuali interventi educativi e/o psicologici adeguati può incrementare il suo QI e la sua performance scolastica in modo molto marcato. Le nuove tecnologie possono coadiuvare interventi didattici per studenti eccezionali (Eriksson, 2012). Infatti ad esempio come si so-

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stiene nel lavoro di (Eckstein, 2009) gli educatori del Gifted «[…]. strive to provide curricula with complexity and depth. This includes organizing, analyzing, synthesizing, and communicating large amounts of information. Technology can be used effectively in this process» (Siegle, 2004, 33). In particolare il web 2.0 contribuire a aggiornare il modello dell’enrichment (Eckstein, 2009) proprio grazie alla possibilità di usufruire di numerosi ambienti social e di collaborazione. «Opportunities for gifted and talented students to collaborate with other gifted students in areas of interest are important to keeping gifted and talented students engaged and motivated in school. « Enrichment wikis, social bookmarking, aggregators, podcasts, collaborative documents, and blogs.2.0 allows students who are not physically in the same space to collaborate in an area of interest» (Eckstein, 2009, 63). La tecnologia come sostenuto anche da (Shieffield, 2007) dovrebbe divenire componente didattica dei percorsi educativi per gifted student. Questo per tre principali ordini di ragioni. Prima di tutto perché la tecnologia è parte integrante la vita dei bambini e degli adolescenti(Lenhardt et al., 2005; Roberts et al., 2005). Ignorare la presenza della tecnologia e l’interesse che i bambini, indicati come nativi digitali, hanno per i dispositivi interattivi, tattili e gesture based sarebbe controproducente (Thomson, 2010). In secondo luogo gli educatori devono preparare gli studenti ad utilizzare le tecnologie per affrontare il mondo e sviluppare in loro higher order thinking e abilità di collaborazione (Erikson, 2012). Infine ricordiamo che gli studenti gifted tipicamente possiedono competenze che sono propri di della generazione dei nativi digitali, simbionti delle tecnologie e caratterizzati da abstract thinking e rapid processing (Siegle, 2005). Proprio per questo i bambini ad alto potenziale vengono chiamati Gifted Digital Native (Cross, 2006; Shieffield, 2007) al fine di indicare la nuova generazione di studenti dotati di un nuovo brain frame, di tipo “cibernetico”, (Ardizzone & Rivoltella, 2009) la cui vocazione talentuosa può essere quindi sostenuta anche grazie all’integrazione di queste ultime nei processi di apprendimento formali al fine di rinnovare gli itinerari di arricchimento, differenziazione e potenziamento (Ziegler et al., 2012).

3. Applicazione e sperimentazione nell’area vicentina Per poter rispondere alle difficoltà e per poter valorizzare il potenziale dei bambini “gifted”, è fondamentale conoscere e riconoscere le caratteristiche di questi bambini intervenendo nel corso della loro formazione. E’ questa la ragione per cui la Regione del Veneto ha emanato una direttiva che ha l’obiettivo di rispondere alle necessità pedagogiche e didattiche dei bambini con buon potenziale cognitivo (gifted children), e della classe nella quale sono inseriti. Il progetto “E.T. Education to Talent”6, promosso appunto dalla Regione Veneto con l’Ufficio Scolastico Regionale e realizzato dal Centro Produttività Veneto con il Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione dell’Università di Padova, ha come obiettivo quello di dare al sistema scolastico gli strumenti per valorizzare i talenti, perché possano mettere al servizio della società il loro alto potenziale cognitivo. Occorre aiutare gli insegnanti a riconoscere e valorizzare le differenze esistenti tra gli allievi, permettendo a ciascuno di svilupparsi nel migliore dei modi e personalizzare il processo di insegnamento ed apprendimento. Il progetto è un’iniziativa sperimentale per affrontare il fenomeno degli allievi ad alto

6 http://www.edutalenti.it/

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potenziale cognitivo nella scuole elementari (primaria) e medie (secondaria di primo grado), e vuole costruire, a livello regionale, una rete di scuole pilota sul tema dei bambini gifted ed i loro problemi di adattamento nelle strutture didattico-educative. Le risorse messe a disposizione dalla Regione Veneto hanno permesso di mettere in campo un sistema di formazione e accompagnamento rivolto sia alle istituzioni scolastiche sia alle famiglie al fine di riconoscere, innanzitutto, questi bambini, di valorizzare le differenze di talenti di ciascuno, di personalizzare non solo il processo di insegnamento ed apprendimento ma anche quello educativo-pedagogico. L’Istituto Comprensivo di Vicenza 2 comprende sei scuole situate nella periferia orientale della città: due plessi scuola dell’infanzia, tre scuole primarie, una scuola secondaria di primo grado, per un totale di 805 alunni, così ripartiti: 89 alunni nelle due scuole dell’infanzia; 450 alunni, nelle tre scuole primarie; 247 alunni, nel plesso di scuola secondaria di primo grado. Gli alunni stranieri sono 143 (17.80 % sul totale). Pur in una complessiva macro-omogeneità, le diverse scuole dell’Istituto si distinguono per contesto territoriale, per situazione socioculturale, per esperienza e storia. Forte della convinzione che tali caratteristiche siano patrimonio irrinunciabile della comunità scolastica dell’Istituto, il Piano dell’Offerta Formativa intende valorizzare queste diversità e socializzarle come realtà dinamiche che, proprio nel confronto, si arricchiscono ed evolvono. Pertanto i professionisti elaborano una molteplicità di azioni educative e di progetti volti a qualificare la scuola come luogo dell’accoglienza, dell’interculturalità e della diversità, nonché a integrare così l’azione cognitiva, procedurale, formativa e orientativa delle discipline. Una struttura scolastica efficace deve favorire l’integrazione delle differenze sia attraverso misure di adattamento interno alle classi sia con misure che riguardano l’organizzazione curricolare. Una esperienza di ricerca-azione inerente la didattica differenziata per i bambini ad alto potenziale cognitivo ha avuto avvio nell’anno scolastico 2012/2013 e prosegue attualmente per l’anno scolastico 2013/2014. I destinatari del progetto sperimentale sono gli insegnanti dei tre ordini di scuola: scuola dell’infanzia; scuola primaria; scuola secondaria di 1° grado. Destinatari ultimi sono gli studenti con buon potenziale cognitivo, i loro pari, i loro genitori e le famiglie. L’azione ricade in due ambiti di intervento: • sensibilizzazione dei docenti e la partecipazione a percorsi formativi , volti a migliorare le competenze in relazione agli alunni plusdotati. (DGR n. 1192 del 25/06/2012, Direttiva Regione Veneto e USR Veneto del 9 Ottobre 2012); • valorizzazione gli alunni ad alto potenziale cognitivo (Gifted Children) attraverso una didattica differenziata. La prima fase di intervento ha avuto piena attuazione nell’anno scolastico 2012/2013. Una volta inserito all’interno del P.O.F., è stato somministrato un questionario7 per individuare le percezioni dei docenti rispetto agli studenti ad “alto potenziale” per evidenziare le eventuali discrepanze con le caratteristiche del profilo dello studente gifted. Il questionario è stato somministrato a 110 docenti che prestano servizio nell’Istituto (12 nelle Scuola dell’Infanzia, 60 nelle Scuole Primarie, 38 nella Scuola Secondaria di Primo Grado). Dalla somministrazione e analisi del questionario somministrato ai docenti sono emersi pregiudizi nei confronti dei bambini gifted. Tra questi ricordiamo l’idea che «i bambini in-

7 Il questionario somministrato è quello della Dott.ssa Maria Assunta Zanetti -Laboratorio Italiano per lo Sviluppo del Potenziale del Talento e della plusdotazione (Dipartimento di Studi Umanistici sezione Psicologia - Università di Pavia).

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tellettivamente dotati devono essere trattati come gli altri, restare in classe con i propri coetanei e fare le cose che fanno i bambini della loro età». In realtà, il bambino precoce ha un’età mentale di due o tre anni maggiore dell’età cronologica: costringerlo ad adeguarsi al livello dei propri coetanei significa forzarlo ad una condizione innaturale di noia ed insofferenza, piuttosto che aiutarlo a svilupparsi serenamente. Un secondo pregiudizio è quello per il quale si ritiene opportuno «non rimandare al bambino un’immagine di superiorità intellettiva, per evitare che sviluppi una personalità con aspetti narcisistici». Il bambino gifted sulla base delle informazioni che raccoglie osservando l’ambiente relazionale è già consapevole di avere un funzionamento psichico diverso dai propri coetanei. La negazione da parte degli adulti delle qualità del bambino, significa comunicargli che una parte di lui è socialmente inaccettabile e, quindi, da nascondere. Il bambino gifted dovrebbe essere aiutato ad integrare questa sua specifica caratteristica personale nella propria immagine di sé. Secondo gli insegnanti «non bisogna sovraccaricare il bambino, anche se sembra più intelligente della media». Il bambino gifted ha la necessità di essere stimolato: se gli adulti non gli forniscono gli stimoli di cui ha bisogno, li cercherà autonomamente. Il problema potrebbe nascere dall’abitudine di richiedere al bambino dei comportamenti da adulto, come la costanza e l’impegno negli interessi,la realizzazione completa e perfetta di compiti scolastici e non. Soprattutto, i bambini gifted, hanno la necessità di cercare stimoli interessanti, di studiarli e di conoscerli ed infine di abbandonarli quando l’interesse si è esaurito, magari per tornarvi mesi dopo. «Un bambino molto intelligente non ha la necessità di essere aiutato». La “plusdotazione” rappresenta un problema per alcuni bambini, perché li espone a fenomeni di esclusione del gruppo di coetanei, li rende più sensibili alle sofferenze emotive e può comportare problemi scolastici a causa della discrepanza rispetto ai programmi ed al resto della classe. «I bambini plusdotati sono pochi rispetto ai bambini con il problema opposto». Il fenomeno della iperdotazione cognitiva è sottostimato, perché in Italia non è diffusa una consapevolezza rispetto alla sua esistenza. Una volta educati i docenti ed eliminati alcune convinzioni pregiudizievoli è stata avviata la seconda fase di lavoro che ha avuto inizio nell’anno scolastico 2012/2013 nella classe prima A della scuola primaria “P. Lioy”. La classe si componeva di 20 alunni, e si presentava eterogenea, con probabili casi di “plusdotazione” (due maschi e una femmina) con difficoltà di relazioni relativa a bisogni di situazioni conflittuali. La progettazione curriculare si è basata sulla verifica delle competenze in entrata degli alunni. Per cui all’inizio dell’anno scolastico, prima della stesura della “progettazione a ritroso”8, attraverso la somministrazione di prove strutturate (prove d’ingresso concordate ed identiche per tutte le classi parallele) si sono valutate le competenze già acquisite dall’alunno per la messa a punto della progettazione delle Unità di Apprendimento. Si sottolinea che le Unità di Apprendimento sono state costruite tenendo presente che “il compito unitario in situazione” ovvero “il compito globale” permette all’alunno di costruire e/o trasferire competenze in modo cosciente. È stato importante aiutare l’alunno ad essere cosciente e delle competenze di cui era in possesso, e del percorso fatto nel nuovo compito e della messa a punto delle competenze acquisite e infine sostenerne la capacità di fare osservazioni sistematiche e analizzare i risultati dei compiti di prestazione. La metodologia adottata per potenziare i presunti bambini ad alto potenziale cognitivo,

8 La progettazione a ritroso è un coaching pianificato dove l’approccio alla progettazione è logicamente in avanti, ma di fatto è a ritroso. Si inizia quindi dalla fine: i risultati desiderati si determinano le evidenze di accettabilità poi si ricava il curricolo e si pianifica l’esperienza.

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ed applicata a tutta la classe, si fonda soprattutto su una didattica attiva, basata sui concetti di arricchimento e raggruppamento, che ha messo in gioco la creatività e le capacità logiche degli alunni, attraverso la problematizzazione delle proposte, rendendole più complesse per gli alunni ad alto potenziale. Allo scopo di dare all’insegnamento- apprendimento un carattere di efficacia e di piacere, motivando i bambini, si è tenuto conto di alcuni principi: favorire l’apprendimento attivo ed aiutare a costruire, anziché presentare il sapere già elaborato; adattare l’insegnamento all’evoluzione mentale degli alunni ed alle capacità individuali, differenziando proprio per sostenere le diversità e gli alunni gifted attraverso il raggruppamento e l’ arricchimento; adottare il principio di partire dall’esperienza situata per giungere al sapere più astratto; seguire percorsi diversi per giungere all’acquisizione di conoscenza fattuale. Si è fatto ricorso ad una didattica laboratoriale per una scuola che non si limita alla trasmissione dei saperi, ma diventa luogo dove operare, intendendo il laboratorio non solo come luogo fisico ma anche come luogo mentale, concettuale e procedurale, dove si adotta il metodo del “compito reale”. Le attività sono state svolte per gruppi di alunni all’interno del gruppo classe per favorire da un lato la personalizzazione del lavoro scolastico, permettendo a ciascun alunno di operare secondo propri ritmi e le proprie capacità, dall’altro la capacità di collaborare (nel gruppo e tra i gruppi) per un obiettivo comune. È stato definito un ambiente in cui gli alunni sono stati messi nelle condizioni di costruire la propria conoscenza lavorando ed usando una molteplicità di strumenti comunicativi ed informativi (con particolare riferimento ai nuovi strumenti tecnologici promossi dal piano Scuola Digitale quali la LIM e gli spazi “sociali”) creando un nuovo setting aula, di natura più costruttivista nel quale trasporre il sapere collaborando e cooperando tra pari e con il docente. I bambini che hanno riscontrato nell’acquisizione delle conoscenze disciplinari (in particolare nell’area matematica e linguistica) alcune risposte alle loro domande di vita, riferite a realtà concrete e visibili e non organizzate secondo le strutture disciplinari, hanno scoperto da soli i principi e le idee alla base delle conoscenze da utilizzare. Diventa, così, naturalmente chiaro il senso ed il significato non solo delle conoscenze e dei saperi disciplinari ma anche della sintassi che accompagna ogni disciplina e del sistema simbolico che la esprime. La metodologia della didattica differenziata per arricchimento e raggruppamento ha avuto, come mostrato in Fig.2, esiti molto positivi accentuati dalla discrepanza evinta dai risultati finali a cui la classe 1 A è pervenuta rispetto alle altre classi parallele. Nello specifico, la ricerca - azione è stata pianificata più volte durante l’anno scolastico. Inizialmente nell’ambito linguistico il gruppo di lavoro dei docenti di classe ha ravvisato l’esigenza di migliorare “l’ascolto”: ciò perché i bambini appena entrati nella scuola primaria manifestavano un’ attenzione labile. Successivamente si è lavorato sul “parlato” per via della presenza di un numero consistente di (n.7) alunni stranieri. In un terzo momento si è dato spazio alle capacità di “lettura” e alla “correttezza ortografica”. Nell’ambito logico matematico è stato invece pianificato solo il miglioramento del “numero”. Dopo la pianificazione, e messi al corrente i genitori degli allievi, è stato possibile programmare momenti di discussione settimanali tra i docenti per analizzare i risultati degli strumenti adottati durante la sperimentazione (griglia di osservazione e interviste semistrutturate). Attraverso la ricerca- azione è stato possibile dare vita a un processo di crescita professionale delle docenti stessi che hanno imparato a mettere in discussione il tradizionale metodo di lavoro. Inoltre, al fine di valutare l’impatto qualitativo della sperimentazione, a fine anno scolastico le insegnanti hanno somministrato le prove di verifica finale standard elaborate da tutti i docenti dell’Istituto Comprensivo. I risultati, come si evince dalle figure, non hanno disatteso le aspettative.

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Fig. 2: Percorsi didattici differenziati: risultati ottenuti nelle conoscenze disciplinari

Dai grafici risulta infatti, e in modo evidente, come i bambini rispondono meglio se le misure adottate per sostenere l’apprendimento sono quelle del raggruppamento e arricchimento rispetto ad una didattica tradizionale utilizzata nelle altre classi. Molto importante è stato anche l’utilizzo delle tecnologie didattiche, e in particolare quello della L.I.M. La lavagna interattiva multimediale è stata utilizzata soprattutto per canalizzare l’attenzione dei gifted e per proporre loro stimoli diversi basati su una maggiore interazione tattile e per proporre loro prove più complesse necessitanti di una maggiore attenzione e senso di competizione. L’esperienza può essere considerata una “buona prassi” attraverso la quale le strutture profonde e logiche delle discipline così come i linguaggi disciplinari vengono acquisiti dagli allievi come stili di pensiero con cui osservare la realtà. La dimensione soggettiva e personale del processo cognitivo va a coniugarsi, naturalmente e spontaneamente, con l’oggettività e l’indipendenza delle discipline storicamente determinate.

Conclusioni e prospettive future «Non insegno mai ai miei studenti. Tento soltanto di creare le condizioni nelle quali possano imparare» (Albert Einstein)

Perché si possa sviluppare il talento è necessario predisporre un ambiente favorevole in grado di stimolare l’alto potenziale e definire strategie didattiche specifiche e consolidate in letteratura sintetizzabili nei processi di accelerazione, raggruppamento e arricchimento dell’esperienza educativa. I risultati emersi dalla prima sperimentazione condotta in una scuola primaria sono stati positivi e spingono a passare ad una seconda fase di approfondimento ed analisi, sostenendo per il nuovo anno scolastico la realizzazione di interventi a supporto dei bambini con buon potenziale cognitivo. La finalità generale che si pone è quella di passare da una fase di sperimentazione all’elaborazione di un modello d’intervento a sostegno dei bambini con buon potenziale cognitivo che, attraverso l’inserimento nel P.O.F. di una didattica differenziata, possa contribuire a sostenerne una crescita e una formazione quanto più possibile armonica e in grado di sostenere lo sviluppo di le capacità di elaborazione dell’informazione e di ragionamento complesso.

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Studi Co-teaching in action: una proposta per promuovere l’educazione inclusiva Co-teaching: a practice to improve inclusive education ELISABETTA GHEDIN • DEBORA AQUARIO • DIEGO DI MASI* Questo articolo esplora la pratica del co-insegnamento. Gli interrogativi di partenza a cui si è cercato di dare una risposta sono i seguenti: “Il Co-insegnamento è una pratica che trova spazio nella realtà scolastica odierna?” ,“Come funziona?”, “Cosa significa collaborare in termini di progettazione, insegnamento e valutazione?”, “Quali opportunità offre agli insegnanti?”, “Quali ostacoli trova alla sua realizzazione e come possono essere superati al fine di implementare tale pratica?”. Il co-teaching viene approfondito a partire dall’analisi della letteratura internazionale e in particolare in relazione alle tre dimensioni che lo compongono: la co-progettazione, il co-insegnamento, la co-valutazione, nel tentativo di offrire un modello integrato di pratica didattica accessibile a tutti gli attori coinvolti nei processi di insegnamento e apprendimento.

In the present paper the co-teaching practice as a way to promote differentiated instruction involving and enabling all children to access and succeed in the general education classroom and curriculum is explored. The questions are the following: Is coteaching a practice that could find a place in the actual educational system? How does it work? What does collaboration mean in terms of planning, teaching and assessing? Which are the opportunities offered to the teachers? Which are the obstacles for its implementation and how can be overwhelmed? The paper focuses on the proposal of a model of co-teaching (in its 3 dimensions: coplanning, co-teaching and co-assessing) as a teaching practice for all the actors involved in the teaching and learning process in an inclusive education perspective.

Parole chiave: co-insegnamento, educazione inclusiva, insegnante curricolare, insegnante di sostegno, co-progettazione, co-valutazione, collaborazione tra insegnanti.

Key words: co-teaching, inclusive education, general teacher, special education teacher, co-planning, co-assessing, teachers’ collaboration

* L’introduzione e i §§ 1, e 3 sono stati scritti da Elisabetta Ghedin; il § 2 da Diego Di Masi; il § 4 da Debora Aquario. Il modello e le conclusioni sono frutto di una riflessione comune tra tutti e tre gli autori.

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2038-9736 (in press) / ISSN 2038-9744 (on line) Giornale Italiano della Ricerca Educativa • anno VI – n. 11 – dicembre 2013

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Co-teaching in action: una proposta per promuovere l’educazione inclusiva1

Introduzione Il focus di questo articolo è la proposta di un modello di co-insegnamento per l’educazione inclusiva, inteso come pratica condivisa di progettazione, insegnamento e valutazione tra insegnanti che lavorano insieme con un gruppo eterogeneo di studenti che apprendono insieme e ottengono importanti traguardi di apprendimento (Ghedin, 2009). Il presente lavoro nasce dalla riflessione intorno ad alcune questioni come: “Il co-insegnamento è una pratica che trova spazio nella realtà scolastica odierna?”, “Come funziona?” ,“Cosa significa collaborare in termini di progettazione, insegnamento e valutazione?”, “Quali opportunità offre agli insegnanti?” ,“Quali ostacoli trova alla sua realizzazione e come possono essere superati al fine di implementare tale pratica?”. L’attuale linea sostenuta da molti sistemi di istruzione europei infatti, va nella direzione di promuovere un approccio collaborativo tra gli altri insegnanti della classe e l’insegnante di sostegno il quale non solo ha la funzione di sostegno individualizzato per gli studenti con disabilità, ma esercita un ruolo proattivo nel migliorare la capacità delle scuole di superare le barriere all’apprendimento e alla partecipazione (Forlin, 2001). La riflessione che qui proponiamo intende promuovere un modello di co-teaching per l’educazione inclusiva (fig. 1), inteso come pratica educativa e didattica articolata in tre dimensioni riferite alla progettazione, all’insegnamento e alla valutazione in cui l’aspetto comune è la collaborazione tra docenti e tra docenti e studenti intesa come relazione genuina di partecipazione che può divenire modello per tutti coloro che sono coinvolti nel processo di inclusione (classe, scuola, famiglie, comunità). In questa ottica “si tratta di assumere la relazione come insieme di interazioni tra individuo ed individui, fra individuo e contesti e tra questi e contesti più allargati: ciò significa che le attività educative, e non solo, possono essere interpretate non come atti singoli, isolati, ma azioni che sono connesse ad altre. Diventa qui di fondamentale importanza assumere il concetto di “ecologia” quale luogo di scambi e di relazioni, interrogandosi sulle possibilità che le istituzioni e i contesti offrono per la loro costruzione” (Medeghini & Fornasa, 2011, 18).

La relazione viene concepita come qualcosa che connette, e fa sì che si considerino nei pensieri, negli atteggiamenti e negli atti educativi, oltre all’intenzionalità, alla consapevolezza e ai significati di chi intende promuovere l’azione, anche quelli delle persone alle quali l’azione si rivolge, provocando una reciproca influenza tra le parti. Ecco allora che la dinamicità dell’insieme (contesti come classe, scuola, gruppo…) si attiva a partire dalle diversità delle

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Elisabetta Ghedin, Debora Aquario, Diego Di Masi

singole componenti e dallo stesso insieme. La circolarità delle interazioni rende l’insieme modificabile nella sua struttura di relazioni e apre la strada alla possibilità del cambiamento (Medeghini & Fornasa, 2011).

Fig. 1: Un modello di co-teaching per l’educazione inclusiva

1. Educazione inclusiva e co-insegnamento Attualmente il principio dell’inclusione rappresenta una priorità in molte Agende dei Sistemi educativi e ha portato all’introduzione di numerose riforme sul piano educativo. Clifton (2004, 77) ha affermato infatti che “l’inclusione, e quindi la partecipazione, nel sistema educativo, non significa solo promuovere e favorire opportunità di accesso all’educazione per tutti”, ma comporta uno spostamento di credenze e principi che sono sostenuti da nozioni come l’empowerment, l’emancipazione e l’equità, tutti compresi nel più ampio termine inclusione e ha a che vedere con le culture, le pratiche e le politiche inclusive, un processo che rende le società inclusive (Rodney, 2003, Booth & Aiscow, 2002, 2006; UNICEF, 2013). Dal momento che l’inclusione fa riferimento ad una comunità più ampia ricca di diversità culturali e linguistiche, anche nel contesto scolastico gli educatori hanno il dovere di evidenziare la complessità dell’inclusione e di incoraggiare lo sviluppo di un “ethos inclusivo” accompagnato da un curriculum flessibile e dalla capacità di gestione della classe (Armstrong & Moore 2004). L’educazione inclusiva comprende il miglioramento dei processi e degli ambienti per promuovere l’apprendimento considerando da un lato, gli studenti nel loro contesto educativo, e dall’altro il sistema per supportare l’intera esperienza di apprendimento (Ainscow e Miles, 2008). Come Slee (2011) ha affermato, “le culture inclusive della scuola richiedono cambiamenti radicali nel pensiero educativo rispetto ai bambini, ai curricula, alla pedagogia e all’organizzazione scolastica” (p. 110). Lo stesso afferma Canevaro quando scrive: “Un’edu-

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cazione inclusiva permette alla scuola regolare di riempirsi di qualità: una scuola dove tutti i bambini sono benvenuti, dove possono imparare con i propri tempi, e soprattutto possono partecipare, una scuola dove i bambini riescono a comprendere le diversità e che queste sono un arricchimento” (Canevaro, 2007, 12). In questo modo allora le diversità e le differenze diventano così normali da non essere fattori di minaccia, ma di crescita di un sistema (Santi & Ghedin, 2012, 102). Non è sufficiente dunque che i nostri sistemi siano semplicemente “sensibili” alle diversità, dal momento che spesso rispondono alle differenze in modo da creare una gerarchia di valore tra i bambini all’interno e tra le scuole, in base al successo scolastico, alle varie forme di disabilità, al credo religioso, e alla classe sociale di appartenenza (Davis & Florian, 2004; Kershner, 2007). Come afferma Michael Oliver, “insegnare è insegnare, indipendentemente dalla gamma e dalle necessità degli alunni, e un prerequisito essenziale per l’inclusione, nel nuovo senso della parola, è l’acquisizione di responsabilità da parte di tutti gli insegnanti a lavorare con tutti i bambini, che abbiano o meno bisogni educativi speciali. Solo quando gli insegnanti si assumeranno tale responsabilità allora l’inclusione potrà essere realmente raggiunta” (2011, 33). Un esempio di questo è il “pensiero inclusivo” (Rytivaara, 2012a, 182) nell’ambito del quale si ritiene che le difficoltà che un bambino incontra siano causate dall’ambiente di apprendimento e non dalle caratteristiche del bambino stesso. Quindi, pensare inclusivamente significa riflettere sul fatto che l’ambiente di apprendimento possa facilitare od ostacolare la crescita e l’apprendimento del bambino (ICF, OMS 2002, 2007).Alla luce di quanto illustrato, il co-teaching tra un insegnante curricolare e di sostegno per assicurare una migliore educazione rivolta a tutti gli studenti, può essere considerato un esempio di azioni volte ad intraprendere un percorso inclusivo (Rytivaara, 2012b; Ghedin, 2009, 142; D’Alonzo, 2011). In particolare nel corso degli ultimi anni si è assistito ad un aumento di interesse nei confronti di questa pratica (Conderman, Bresnahan, & Pedersen 2008; Nevin,Villa, & Thousand, 2009; Villa,Thousand & Nevin, 2004). La ragione risiede nella promessa di essere uno dei pilastri dell’educazione inclusiva (UNESCO, 1994). La European Agency for Development in Special Needs Education (EADSNE) (2003) definisce il co-operative teaching come uno dei cinque approcci educativi che sembrano essere efficaci nell’educazione inclusiva (Saloviita e Takala, 2010). Nella pratica, sempre più gli insegnanti curricolari si trovano a far fronte alla diversità nelle loro classi e alla necessità di sviluppare nuovi approcci all’insegnamento, per supportarli nel loro duplice ruolo: quello di insegnare e quello di creare un positivo ambiente di apprendimento. La pratica del co-insegnamento, sviluppata da Cook & Friend (1995) per offrire supporto agli studenti in situazione di disabilità in contesti educativi generali va proprio in questa direzione. Il co-teaching si configura come pratica in cui due o più insegnanti, uno curricolare e uno di sostegno, co-progettano (co-planning), co-insegnano (co-instructing) e co-valutano (co-assessing) per un gruppo eterogeneo di studenti all’interno della medesima aula, nella stessa realtà scolastica, con differenti approcci (Friend & Cook, 2007; Murawski, 2003, 10). Studenti, insegnanti e la stessa scuola possono beneficiare in modo diverso del co-teaching condiviso tra tutti gli interlocutori e sostenuto da uno sviluppo professionale continuo e da una Dirigenza che condivide i principi alla base del modello. Di seguito sono elencati i possibili benefici per gli studenti, gli insegnanti e le scuole

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Elisabetta Ghedin, Debora Aquario, Diego Di Masi

Gli studenti possono fruire dei seguenti benefici

Gli insegnanti possono fruire dei seguenti benefici

La scuola può fruire dei seguenti benefici

- opportunità di arricchimento - flessibilità didattica in classe - accesso a una varietà di strategie didattiche supportato da due insegnanti altamente qualificati - un sistema di supporto per gli insegnanti che affronta le esigenze degli studenti - opportunità di interazione tra pari - “accomodamenti ragionevoli” (convenzione ONU, 2006), metodi compensativi/dispensativi condivisi per tutti gli studenti - riduzione dell’esclusione per gli studenti con disabilità - esposizione a modelli sociali positivi di insegnamento

- responsabilità condivisa, che alleggerisce il carico di lavoro di entrambi gli insegnanti - proprietà combinate degli ambienti educativi e didattici - maggiore collaborazione nello sviluppo della lezione e nella consegna dell’insegnamento - obiettivi comuni - minore isolamento degli insegnanti - maggiore efficacia docente - responsabilità condivisa per il successo scolastico

- istituzione di una cultura scolastica basata sulla collaborazione - istituzione di un sistema di supporto per tutti gli insegnanti - diminuzione rapporto studenti/insegnante (2:25)

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Tab. 1: Benefici del co-teaching per studenti, insegnanti e scuola Fonte: adattamento da Shumway et al. 2011. Co-teaching Handbook. Utah Guidelines, p. 2

Sulla base del modello di co-teaching individuato (fig. 1) e rifacendoci alle tre dimensioni fondamentali nel co-teaching che ritroviamo nella definizione proposta da Murawski (2003): il co-planning (co-progettazione), il co-instructing (co-insegnamento1) e il co-assessing (covalutazione), l’obiettivo che ci proponiamo è quello di approfondire ciascuna di queste tre dimensioni, per proporre un modello integrato di pratica didattica accessibile a tutti gli attori coinvolti nei processi di insegnamento e apprendimento. La riflessione su questo modello viene articolata non solo a partire dal dibattito internazionale sviluppatosi negli ultimi anni nel mondo anglosassone (IDEA, 2004; DDA, 1995; SEN Code of Practice, DfEE, 1994; 20012) che si focalizza sulla presenza di un secondo insegnante nelle classi in cui è incluso uno studente con disabilità, ma anche rispetto al contesto italiano. Medeghini et al. (2013) sostengono che “l’esperienza scolastica nel suo incontro con la diversità, ha per diversi anni rappresentato un esempio avanzato di un modello integrativo a livello internazionale: ne sono esempio il superamento delle scuole speciali, l’integrazione degli alunni con disabilità, la ricerca di un’organizzazione scolastica adeguata con il supporto di risorse e dell’insegnante specializzato, pratiche didattiche in grado di restituire agli alunni con disabilità un ruolo all’interno della classe” (p. 13). Tuttavia, come riportano alcune recenti ricerche (Medeghini, 2005, AssociazioneTreeLLLe, Fondazione Agnelli e Caritas Italiana, 2011; Canevaro et al., 2011; Palumbo e Tremoloso, 2011) tale esperienza ha perso progressivamente il carattere innovativo originale e le possibilità di un cambiamento sostanziale della scuola. Il tentativo di riflessione sul modello di co-teaching qui avviato nasce quindi dall’offerta di una risposta a questi esiti e allo sfondo che li ispira, con l’intento di sottolineare che la proposta di didattica inclusiva che si realizza con il co-teaching potrebbe contribuire a promuovere la valorizzazione delle differenze e un ambiente di apprendimento flessibile e creativo. Il modello di

1 Si è deciso di indicare con il termine co-teaching il modello complesso di interazione tra co-planning, co-instructing, co-assessing, mentre quando si parla della pratica didattica in senso stretto in aula tra due docenti con tutta la classe si è deciso di utilizzare il termine co-insegnamento, visto che nella lingua italiana co-teaching e co-instructing possono essere tradotti nello stesso modo. 2 Individuals with Disabilities Educational Act (2004), PL. 108-446; Disability and Discrimination Act (1995).

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co-teaching individuato, infatti, può essere considerato come promotore di uno stile di insegnamento, un atteggiamento di tipo collaborativo, in cui entrambi gli insegnanti condividono l’ambiente classe e lavorano insieme a tutti gli studenti. In una prospettiva sistemica, l’opportunità offerta dal co-teaching di fare esperienza di collaborazione, equità, valorizzazione delle differenze, rispetto per gli altri, sollecita gli attori direttamente coinvolti (studenti e docenti oltre che la scuola tutta) a promuovere questi atteggiamenti nella comunità più ampia verso la diffusione di culture inclusive (Booth & Ainscow, 2002).

2. Il co-planning Nell’implementazione del co-teaching (Cook & Friend, 1995), si riconosce alla progettazione, o meglio alla progettazione collaborativa, un ruolo fondamentale per la riuscita dell’intervento. Un modello di apprendimento/insegnamento caratterizzato dalla collaborazione tra docenti è tale sin dalle fasi iniziali e per questa ragione la progettazione è da considerare come momento essenziale dell’intero processo. Mettere in luce la dimensione collaborativa della progettazione significa promuovere la partecipazione dei protagonisti, ma anche costruire un ambiente di condivisione che permetta di affrontare situazioni problematiche condividendo le conoscenze e le competenze rilevanti, spesso distribuite tra i diversi professionisti coinvolti (Arias et al., 2000). Walther-Thomas e Bryant (1996) hanno individuato nella progettazione collaborativa una componente essenziale del co-teaching perché consente agli insegnanti di definire ruoli e responsabilità durante la gestione della lezione, di costruire un linguaggio comune attraverso un lavoro di condivisione dei significati, di creare un ambiente favorevole per il coteaching e di facilitare l’attenta considerazione delle esigenze individuali e di gruppo per garantire benefici a ciascun bambino all’interno del contesto classe. La progettazione collaborativa, inoltre, consente agli insegnanti di stabilire obiettivi, strumenti, modalità, approcci di lavoro e i ruoli di ciascun soggetto coinvolto in tale pratica (Walther-Thomas, 1997) e diventa tanto più efficace quanto più la pianificazione delle attività in classe, oltre ad essere condivisa tra gli insegnanti e gli studenti, riesce a essere assunta dalla scuola e dall’intera comunità di riferimento. In letteratura la progettazione in generale, e la co-progettazione in particolare, si articola dunque su tre livelli: livello comunità, livello scuola, livello classe (Walter-Thomas, Bryant e Land, 1996). I primi due livelli hanno la funzione di creare, il primo un contesto politicoculturale proficuo per lo sviluppo e l’implementazione di pratiche di insegnamento ispirate al co-teaching; il secondo, invece, è funzionale per predisporre i dispositivi organizzativi ed amministrativi di una scuola necessari al co-teaching. Nel primo livello, esosistema (Bronfenbrenner, 1979), gli attori sono i rappresentanti politici, i funzionari pubblici, i le famiglie, i quali, in una prospettiva di medio e lungo termine, coordinano le iniziative, facilitano le comunicazioni e assicurano alle scuole di ricevere il necessario supporto economico e culturale (Fullan, 1993), oltre che contribuire a creare un ambiente culturale e valoriale di carattere inclusivo. Co-progettare nel mesosistema, invece, significa disegnare strategie organizzative di medio-breve termine che vedano il coinvolgimento dei dirigenti scolastici, personale amministrativo, docenti curriculari, insegnanti di sostegno, personale ATA. Secondo Walter-Thomas, Bryant e Land (1996), co-progettare un percorso di co-teaching efficace a livello scuola richiede: un’adesione volontaria di professionisti capaci e competenti; una pre-

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parazione specifica e del tempo per il lavoro di progettazione e di incontro con genitori, studenti e altri professionisti; classi eterogenee e una valutazione appropriata e coerente con il modello del co-teaching. Per quanto riguarda, invece, il terzo livello della progettazione, il livello classe, quest’ultimo si continua ad articolare nel mesosistema del modello ecologico dello sviluppo di Bronfrenbrenner, quando si sottolinea la collaborazione tra docenti, mentre entra nel microsistema quando la co-progettazione si apre anche agli studenti, che potrebbe rappresentare a sua volta un quarto livello di collaborazione. In questo lavoro ci focalizzeremo in particolare sul funzionamento della co-progettazione a livello classe, sottolineando in particolare la collaborazione tra docenti (mesosistema).

Co-progettare in classe In un contesto di educazione inclusiva il primo passo è la costruzione di un partenariato tra insegnante curriculare e insegnante di sostegno. Poiché la relazione tra i due insegnanti è orientata a un partenariato di tipo partecipativo (Bastiani, 1987), in cui entrambi condividono responsabilità e obiettivi, Walter-Thomas, Bryant e Land (1996), suggeriscono di dedicare ampio spazio alla conoscenza reciproca. Obiettivo di questa conoscenza preliminare è condividere le proprie visioni e filosofie educative, le proprie aspettative, i metodi e le tecniche di insegnamento, così come condividere gli strumenti di lavoro, in modo tale da accrescere la consapevolezza delle proprie e altrui caratteristiche professionali (in termini di punti di forza e debolezza), al fine di costruire una relazione autentica basata sul rispetto e la fiducia reciproca. In questa fase preliminare, così come in quelle successive, uno strumento di lavoro essenziale è senza dubbio il dialogo. In questa prospettiva risulta particolarmente interessante il lavoro di Walton e Krabbe (1995) i quali definiscono sette tipologie di dialogo che si distinguono per le caratteristiche iniziali e gli obiettivi dei partecipanti e del dialogo stesso. Tipo di dialogo

Situazione iniziale

Obiettivi dei partecipanti

Obiettivo del dialogo

Persuasione

Opinioni in conflitto

Persuadere l’altro

Risolvere o chiarire la questione

Ricerca

Bisogno di avere una prova

Verificare le prove

Confermare o rifiutare l’ipotesi

Scoperta

Necessità di trovare una spiegazione dei fatti

Trovare e difendere un’ipotesi sostenibile

Scegliere la migliore ipotesi da provare

Negoziazione

Interessi in conflitto

Ottenere ciò che si desidera

Accordo

Raccolta di informazioni

Mancanza di informazioni

Necessità di avere o dare informazioni

Scambio di informazioni

Deliberazione

Dilemma o problema pratico

Coordinare obiettivi e azioni

Decisione che permetta l’azione

Eristico

Conflitto personale

Colpire verbalmente l’avversario

Rivelare le basi profonde del conflitto

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Tab. 2: Tipologie di dialogo (Walton & Krabbe, 1995)

Gli insegnanti, nel loro lavoro di co-progettazione si troveranno a dialogare l’uno con l’altro attraversando una o più tipologie di dialogo all’interno anche dello stesso incontro. Sarà dunque compito degli insegnanti riconoscere o scegliere quale tipologia di dialogo è più coerente con gli obiettivi della fase progettuale che stanno realizzando e muoversi, per

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esempio, da un dialogo persuasivo orientato alla discussione critica per risolvere un conflitto di opinioni attraverso argomenti razionali, oppure, se necessario, avviare un dialogo di ricerca, orientato a cercare prove finalizzate a stabilire o rifiutare un’ipotesi avanzata da uno o più insegnanti (Rytivaara & Kershner, 2012). Tuttavia per quanto si possano presentare situazioni in cui sarà necessario arrivare a negoziare un compromesso tra le diverse posizioni, in modo tale da definire un accordo sul quale costruire le successive azioni, l’orizzonte dentro il quale si muove la progettazione collaborativa è senza dubbio quello dialogico in cui l’obiettivo non è trovare una sintesi tra opinioni diverse, quanto promuovere un dialogo che permetta di prendere coscienza delle proprie e altrui opinioni e facilitare una maggiore comprensione dei punti di vista divergenti (Bachtin, 1981). Per quanto riguarda i contenuti,Walter-Thomas (1995) identifica tre questioni principali che dovrebbero esser discussi in ogni sessione di co-progettazione: 1. gli obiettivi, 2. i bisogni/aspirazioni degli studenti, 3. le tecniche di insegnamento. Rispetto agli obiettivi, questi sono definiti dai curricula formali (Chevallard, 1985) che vengono stabiliti dal Ministero e dalla scuola (obiettivi di apprendimento). Nel co-teaching, gli insegnanti costruiscono link tra gli obiettivi e i percorsi individualizzati degli studenti, adattando o differenziando così i percorsi e le strategie alle reali situazioni (Tomlinson, 2003) e alle risorse dei contesti. Per quanto riguarda invece il secondo punto, nella co-progettazione, centrali sono i diversi bisogni, aspirazioni e abilità degli allievi che trovano risposte e stimoli sia nella complementarietà dei ruoli e delle competenze professionali che incarnano l’insegnante curriculare e l’insegnante di sostegno, che nel coinvolgimento diretto degli studenti nelle fasi di progettazione (quarto livello di collaborazione-microsistema). La terza e ultima questione sarà invece affrontata nel paragrafo successivo. La co-progettazione è dunque un’attività “dialogica”, orientata alla comprensione autentica attraverso la valorizzazione della pluralità di voci (Wertsch, 1991),“situata” nel senso che è un’attività che dipende dal contesto in cui si realizza (Brown, Collins & Duguid, 1989) “distribuita” in quanto è il risultato della collaborazione di diversi professionisti (Salomon, 1997), e infine “relazionale” (Medeghini & Fornasa, 2011). Per spiegare quest’ultima dimensione della co-progettazione ci riferiamo all’ultimo lavoro di Van Es, il quale spiega il successo di Shakespeare con la sua decisione di entrare nella compagnia Chamberlain’s Men. Secondo Van Es (2013) questa scelta portò Shakespeare a scrivere le sue opere non solo a partire dalla conoscenza diretta degli attori che avrebbero interpretato i ruoli da lui disegnati, ma valorizzando anche le interazioni degli attori che facevano parte della compagnia, che diventavano così le relazioni dei personaggi messi in scena. I co-insegnanti progettano, come Shakespeare, avendo bene in mente i propri studenti e le loro relazioni, ovvero la “compagnia” che la classe rappresenta.

3. Il co-insegnamento Esso può essere descritto attraverso quattro caratteristiche: a) la presenza di due insegnanti, generalmente un insegnante curricolare e un insegnante di sostegno; b) le pratiche di insegnamento distribuite tra entrambi gli insegnanti attivamente coinvolti e impegnati in tutti

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gli aspetti dell’istruzione; c) la presenza di un gruppo eterogeneo di studenti; d) una classe singola dove gli studenti con disabilità apprendono insieme ai loro compagni. L’articolazione di queste caratteristiche si manifesta in diversi modelli di co-insegnamento (i.e., leading and assisting, station teaching, parallel teaching, alternative teaching, and team teaching) che sono stati sviluppati a partire dalle caratteristiche e dai bisogni degli studenti, dai contenuti delle discipline, e dagli obiettivi di apprendimento (Dieker & Murawski, 2003). Il co-insegnamento solleva questioni circa le visioni differenti che gli insegnanti possono avere sugli aspetti che riguardano la gestione della classe (Villa, Thousand, & Nevin, 2004). Quando gli insegnanti decidono di lavorare insieme, come avviene nella pratica del co-insegnamento, si crea un nuovo ambiente per favorire l’apprendimento dei bambini, come ad esempio particolari forme di organizzazione dei gruppi e di team teaching (Rytivaara, 2012b). Questo comporta che gli studenti stessi imparano a diventare più collaborativi tra di loro e con gli insegnanti in quanto fanno esperienza del modello collaborativo e cooperativo dei loro insegnanti quando co-insegnano (Thousand & Santamaria, 2004). Inoltre esiste anche un nuovo significativo micro-sistema formato da insegnanti che collaborano tra loro, e questo significa valorizzare le loro continue conversazioni, la relazione e la pratica pedagogica all’interno e al di fuori della classe. Diviene allora necessario porre attenzione agli aspetti dialogici del processo professionale di apprendimento che incorpora l’intera partnership di insegnamento come pure l’attività di team-teaching che è visibile in classe. Il co-insegnamento costituisce, almeno potenzialmente, una relazione genuina di apprendimento tra pari, in cui la comunicazione passa tra differenti contesti dentro e fuori dalla classe (Rytivaara & Kershner, 2012). Friend and Cook (2007) distinguono sei approcci al co-insegnamento che servono come guida per identificare i metodi di insegnamento nel co-insegnamento: 1) uno insegna e l’altro osserva (One Teaching/One Observing), 2) uno insegna, l’altro si sposta (nella classe) (One Teaching/One Drifting), 3) insegnamento alternato (Alternative Teaching), 4) insegnamento in parallelo (Parallel Teaching), 5) insegnamento “a tappe” (Station Teaching), 6) insegnamento in team (Team Teaching). Nel primo modo un insegnante ha la responsabilità principale della classe, mentre l’altro insegnante raccoglie i dati di osservazione specifica sugli studenti o sull’insegnante (che fa lezione). La chiave di questa strategia è quello di focalizzare l’osservazione – in cui l’insegnante che osserva sta considerando comportamenti specifici di entrambi. Il secondo modo è forse quello più comunemente osservato nelle classi, dove una persona ha la principale responsabilità dell’insegnamento mentre l’altra circola nella stanza fornendo assistenza agli studenti se necessario monitorando i comportamenti, o fornendo suggerimenti riguardo alle consegne assegnate. Quando lo studente necessita di attenzione specializzata e individualizzata o personalizzata, l’insegnamento alternato è un altro approccio che può essere utilizzato. In questo approccio un insegnante ha la responsabilità dell’insegnamento per la maggior parte del gruppo mentre l’altro lavora con un piccolo gruppo di studenti. Il risultato di apprendimento è lo stesso per tutti gli studenti ma la strada per arrivarci è diversa. Questa strategia facilita una efficace “differenziazione” delle istruzioni. L’insegnamento parallelo si verifica quando gli insegnanti dividono la classe e insegnano la stessa cosa simultaneamente. Questo metodo di solito viene messo in pratica per facilitare una maggiore interazione tra lo studente e l’insegnante dal momento che riduce il rapporto studente/insegnante. Nell’approccio dell’insegnamento “a tappe” gli insegnanti si dividono il contenuto delle lezioni e gli studenti. Per esempio, un insegnante può insegnare il contenuto a un gruppo e successivamente ripetere l’istruzione ad un altro, o anche ad un terzo gruppo di studenti se necessario. Infine, esiste l’insegnamento in team, forse l’approccio più difficile, che dipende dall’abilità degli insegnanti di fornire istruzione contemporaneamente. Se ben pianificato, il

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team che insegna insieme, espone un flusso invisibile di istruzione con alcuna divisione prestabilita di autorità. Entrambi gli insegnanti sono coinvolti attivamente nella lezione. Dal punto di vista degli studenti, non c’è nessun leader ben definito – dal momento che entrambi gli insegnanti condividono l’azione didattica, sono liberi di intervenire in ogni momento, e disponibili ad assistere gli studenti e rispondere alle loro domande. Questo approccio è fortemente dipendente dagli stili di insegnamento, dalle filosofie di apprendimento, dalle abilità interpersonali, e dalle esperienze condivise. Ci preme adesso sottolineare cosa non è il co-insegnamento. Shumway et al. (2011) hanno messo in evidenza alcuni aspetti che non sono caratteristici del co-insegnamento come la presenza di un insegnante che si occupa di tutta la progettazione didattica; in realtà il co-insegnamento prevede una responsabilità condivisa che riguarda la pianificazione, l’attività didattica e la gestione della classe. Il co-insegnamento non si concretizza nella presenza di una classe “più piccola” dentro una “classe più ampia” e nemmeno in un’azione didattica offerta a un gruppo omogeneo di studenti. Elaine Neugebauer e Paula Schmitt (2013) sostengono che il co-insegnamento non debba essere confuso con quelli che le autrici definiscono come il “consultation model” e l’“in-class support model”. Quello che le autrici definiscono “consultation model” si riferisce alla situazione in cui l’insegnante di sostegno offre suggestioni e aiuti attraverso adattamenti e modificazioni senza però fornire un supporto diretto agli studenti. Rispetto all’ “in-class support model”, l’insegnante di sostegno si occupa dell’apprendimento degli studenti che hanno difficoltà di apprendimento o comportamentali. Al contrario il co-insegnamento si realizza attraverso l’azione condivisa di professionisti esperti per garantire il successo di tutti gli studenti, per rispondere ai bisogni /desideri di tutti gli studenti e per essere responsabili di tutti gli studenti. Per poter realizzare un co-insegnamento di successo è necessario promuovere la formazione da parte dei docenti coinvolti, dal momento che esso richiede un set aggiuntivo di abilità e capacità che sono raramente utilizzate nell’insegnamento tradizionale (Ploessl et al., 2010). Il co-insegnamento richiede un impegno non solo nel lavorare all’interno di un partnership in cui entrambi gli insegnanti hanno lo stesso ruolo, ma anche nello sviluppare nuove competenze in aree quali la creazione di attività didattica condivisa, la comunicazione frequente ed efficace tra insegnanti e la valorizzazione delle differenze in modo da arricchire la relazione collaborativa (Gately & Gately, 2001; Friend et al., 2010; Gurg & Uzuner, 2011; Murray, 2004). La pratica del co-insegnamento richiede di modificare l’ambiente di apprendimento e lo stile di insegnamento, attraverso un modo diverso di fornire le consegne e gestire le attività. In questo caso allora ci si potrebbe chiedere se in un ambiente di apprendimento in cui si attua il co-insegnamento non si debbano anche modificare le modalità di valutazione correlate indagando modalità alternative a quelle tradizionali. Di seguito prenderemo dunque in considerazione la co-valutazione.

4. La co-valutazione In base alla prospettiva sopra accennata, ci si chiede ora cosa significa lavorare in base ai principi del co-teaching in termini di assessment. In altre parole, cosa accade quando il coinsegnamento diventa co-valutazione? Cosa significa co-valutare? L’obiettivo specifico è quello di proporre un modello innovativo di co-valutazione fruibile in un contesto di coinsegnamento con una duplice valenza: da un lato promuovere un modo efficace per co-

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valutare l’apprendimento degli studenti e dall’altro stimolare negli insegnanti l’attivazione di pratiche collaborative e riflessive. Un modello di co-valutazione attraversato dunque da due dimensioni, collaborativa e riflessiva, entrambe declinabili sul versante dei docenti, su quello degli studenti, e su quello di interazione docenti/studenti. Se consideriamo il piano della valutazione collaborativa tra studenti, e tra docenti e studenti, gli studi sulla valutazione dell’apprendimento degli studenti e, nello specifico, sulle diverse forme e tipologie di procedure valutative, suggeriscono che le procedure che fanno uso dei principi della collaborazione e dell’autovalutazione sono quelle in grado di produrre effetti positivi non solo in termini di outcomes, quindi di risultati scolastici, ma sono le strategie che permettono anche di far emergere abilità che hanno a che fare con la dimensione relazionale e riflessiva, e che possono generare conoscenze e capacità di apprendere oltre le mura scolastiche (Hargreaves, 2007; Harris, & Brown, 2013). Tali ricerche dimostrano che nelle classi in cui gli studenti sono coinvolti in pratiche di co-, peer- e self- assessment, si assiste ad uno sviluppo delle capacità metacognitive degli stessi studenti (Kim, 2009), ad un miglioramento delle loro capacità sociali e comunicative (Topping, 2013), nonché ad un’assunzione di responsabilità rispetto al processo di apprendimento e di valutazione e ad una migliore comprensione e una maggiore familiarità con i criteri valutativi (Andrade & Valcheva, 2009; Black & William, 1998; Price et al., 2007; Munns & Woodward, 2006;Topping, 2003, 2013). Queste pratiche valutative (peer-, self-, co-assessment) possono essere dunque viste come validi strumenti per promuovere lo sviluppo di capacità personali, professionali e interpersonali utili agli studenti nei loro futuri percorsi di studio e di vita, in virtù della forte dimensione collaborativa e riflessiva che le caratterizza e che le rende veri e propri “strumenti per l’apprendimento” e “modi per promuovere la crescita di persone dotate di capacità riflessive” (Sluijsmans et al., 1998). Sebbene dunque la co-valutazione includa anche i processi valutativi messi in atto tramite la collaborazione tra docenti e studenti, e studenti tra di loro, tuttavia, in questa sede, ci si soffermerà sul significato della collaborazione tra docenti nei processi valutativi e in parallelo dell’attivazione di percorsi riflessivi e autovalutativi negli stessi insegnanti. Nello specifico, rispetto alla pratica della co-valutazione, la letteratura ne offre una definizione che mette in luce proprio il suo aspetto collaborativo in modo speculare rispetto al co-insegnamento. Conderman & Hedin (2012) intendono la co-valutazione come il mezzo tramite il quale i docenti che praticano il co-insegnamento possono essere attivamente coinvolti nella discussione e nella condivisione delle loro concezioni e delle corrispondenti pratiche riguardanti la valutazione. Se, per quanto concerne la pratica del co-teaching, si è assistito negli ultimi anni ad un incremento di studi e ricerche volti a sperimentarne l’efficacia e l’impatto su diversi aspetti (come precedentemente e ampiamente presentato), non è stato indagato l’aspetto, se pur fondamentale, della co-valutazione dell’apprendimento degli studenti, che deve necessariamente procedere di pari passo rispetto al co-insegnamento. Coinsegnare significa anche co-valutare, condividere le scelte e le responsabilità, discutere attivamente delle pratiche e dunque delle opportunità che si intende fornire agli studenti in termini di procedure valutative. Così come nel co-planning il primo passo è rappresentato dalla condivisione delle proprie visioni e filosofie educative rispetto alla progettazione dell’istruzione, nella co-valutazione l’obiettivo diventa quello della condivisione delle filosofie valutative sottostanti alle scelte dei metodi e delle procedure. La prima domanda che i docenti che co-valutano dovrebbero porsi, discutendone insieme, riguarda la concezione della valutazione che guida le decisioni in ambito valutativo. In questa prospettiva possono essere letti i risultati di un progetto promosso e realizzato nel 2005 dalla European Agency for Development in Special Needs Education, con l’intento di

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esaminare le politiche e le prassi riguardanti la valutazione scolastica di ventitre Paesi europei, cercando di far emergere gli aspetti che contribuiscono al miglioramento della didattica e dell’apprendimento. L’idea di valutazione che sostiene l’intero progetto è quella che, a partire dalla radice della parola stessa, associa il senso del valutare a quello di valorizzare, e considera tale processo un mezzo per promuovere la partecipazione e l’apprendimento di tutti, e per fornire indicazioni che servano a migliorare la didattica. Per queste ragioni viene definita valutazione inclusiva. L’analisi comparativa realizzata dall’Agenzia ha prodotto una serie di principi che stabiliscono dei punti fermi da cui partire per promuovere una valutazione inclusiva nelle scuole (ARG, 2008). In questa sede, sembra importante focalizzare l’attenzione in particolare su tre aspetti emersi nella ricerca, che risultano significativi all’interno di un modello di co-teaching. In primo luogo, i risultati del progetto suggeriscono la necessità di adottare molteplici fonti di informazione nel momento in cui si valuta l’apprendimento: ciò significa che adottare più strumenti e metodi, ciascuno dei quali fornirà informazioni diverse sul progresso dello studente, rappresenta un valore aggiunto perché permette di compiere delle scelte in base a dati provenienti da fonti differenti. Un secondo aspetto riguarda l’adeguatezza e l’importanza di un approccio partecipato alla valutazione, in cui non solo gli studenti diventano parte attiva del processo, ma insieme a loro, anche i genitori, i compagni di classe e gli altri potenziali attori del contesto. Infine, e in continuità con questo secondo aspetto appena descritto, un ulteriore elemento rilevante ai fini del modello di coinsegnamento che in questa sede si intende promuovere, è costituito dai principi chiave su cui deve basarsi la valutazione inclusiva: la partecipazione e la collaborazione tra docenti. Il lavoro condiviso sembra dunque essere la premessa per un insegnamento e una valutazione degli apprendimenti che tengano conto di tutti gli studenti presenti nel contesto classe. I tre principi emersi come capisaldi di una valutazione inclusiva (la multidimensionalità, l’approccio partecipato alla valutazione e la collaborazione tra insegnanti) possono essere considerati come elementi guida nella realizzazione di un modello di co-valutazione in un contesto di co-insegnamento. La condivisione e la discussione intorno a questi principi diviene il primo passo per i docenti che co-insegnano e che si impegnano a valutare per l’apprendimento dei loro studenti. In particolare, la dimensione della co-gestione della valutazione (sia tra insegnanti sia tra insegnanti e studenti) assume particolare importanza nell’ottica di una valutazione continua in cui si lavora insieme per delineare criteri e sviluppare strumenti che possano testimoniare la crescita che avviene nel tempo. Sono questi i modi in cui tutti gli studenti possono beneficiare di pratiche valutative realizzate tramite la partecipazione di tutti e finalizzate all’acquisizione di una maggiore consapevolezza dei punti di forza e dei punti critici, riuscendo ad avere anche un senso più chiaro del proprio percorso (Tomlinson, 2003; King et al., 2001). In quest’ottica, occorre a questo punto sottolineare il significato profondo della collaborazione tra docenti collegandolo alla dimensione riflessiva insita nel processo co-valutativo. Collaborare diventa un’opportunità di riflessione su di sé nel momento in cui ciascun attore impegnato nel processo collaborativo mette in campo le sue capacità critiche e autovalutative per riflettere sulle proprie concezioni e pratiche e per discuterle con l’altro, mettendole in comune. Appare a questo punto chiaro come la co-valutazione sia strettamente collegata all’autovalutazione dell’operato dell’insegnante. Ciò implica che la co-valutazione non venga considerata solo in relazione con la valutazione dell’apprendimento concepita e realizzata dai due insegnanti che co-insegnano, ma anche come mezzo per riflettere sul proprio insegnamento, sulle metodologie e sulle pratiche didattiche. In un contesto in cui due docenti collaborano attivamente durante tutto il percorso di insegnamento condividendo idee e

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scelte operative, la condivisione stessa assume le caratteristiche di una riflessione su tutto ciò che avviene configurandosi come una reflection-in-action, citata da Schön (1987) per indicare quella forma di riflessione che avviene mentre il comportamento è in corso di svolgimento, in cui pensiero e azione non sono separati ma in interazione e in continuo avvicendarsi. Se riflettere aiuta a divenire consapevoli delle teorie implicite che guidano le nostre azioni, questo crea maggiori possibilità per l’azione, in quanto l’analisi riflessiva porta a scoprire le diverse strade possibili e mette l’individuo nelle condizioni di poter scegliere (Schön, 1987). Numerosi sono gli esempi applicativi delle concettualizzazioni di Schön nell’ambito dell’insegnamento, che sottolineano l’importanza della riflessione nel corso della pratica didattica (Moon, 1999; Day, 1999; Korthagen & Vasalos, 2005). Sulla base di tutte queste suggestioni provenienti dalla letteratura, la Checklist for purposeful co-assessment elaborata da Conderman e Hedin (2012) potrebbe costituire un valido supporto per i docenti impegnati in un percorso di co-insegnamento e al tempo stesso fornire dati interessanti sugli aspetti della collaborazione e della riflessione in un contesto di co-insegnamento e co-valutazione. Lo strumento può essere utilizzato alla stregua di una traccia di riflessione per i docenti che co-insegnano, configurandosi come una sorta di narrative dossier, in cui le domande presenti hanno la funzione principale di accompagnare i docenti fin dall’inizio della formazione del team di co-insegnamento, stimolandoli a riflettere e a rispondere a diversi aspetti riguardanti la condivisione dell’impegno e delle responsabilità valutative. La riflessione è scandita secondo domande che fanno riferimento a quattro tempi cruciali: prima che il “co-teaching team” inizi a lavorare, prima che l’insegnamento abbia inizio, durante il co-insegnamento e dopo il co-insegnamento. Prima di iniziare il lavoro vero e proprio, è importante che i docenti discutano delle loro concezioni rispetto alla valutazione, dei loro punti di forza e dei bisogni riguardo alle pratiche valutative. In questa stessa fase, le domande dovrebbero dunque focalizzarsi sulle scelte rispetto alla condivisione delle responsabilità valutative, e i modi e tempi di coinvolgimento di ciascun docente durante il co-insegnamento. In una seconda fase, prima che l’insegnamento abbia inizio, i docenti sono sollecitati ad interrogarsi in primo luogo sulla necessità di raccogliere dati rilevanti sulle conoscenze e capacità già possedute dagli studenti, e di creare un sistema per monitorare i risultati degli allievi; inoltre, è importante anche fermarsi a riflettere sulla programmazione di attività di valutazione in grado di attivare le conoscenze pregresse. Durante il co-insegnamento, la riflessione dovrebbe soffermarsi su aspetti che riguardano nello specifico le pratiche e le procedure concrete di valutazione dell’apprendimento (ad esempio ci si dovrebbe chiedere se sono state programmate opportunità per gli studenti di dimostrare la comprensione attraverso un coinvolgimento attivo nelle diverse attività) e di rilevamento dei dati. Infine, per promuovere una valutazione su quanto già avvenuto, sono previste domande anche per la fase successiva al co-insegnamento, riguardanti la coerenza delle pratiche valutative utilizzate con gli obiettivi di apprendimento, con gli obiettivi delle singole lezioni e con le caratteristiche degli allievi, nonché la molteplicità di strumenti utilizzati per valutare l’apprendimento. Rispondendo a tali domande, ciascun docente è incoraggiato a pensare alle proprie concezioni e abitudini in termini di prassi valutative, e a confrontarsi con l’altro docente per arricchire il proprio e altrui bagaglio di esperienze. A conclusione del percorso, i docenti potranno beneficiare e avere a disposizione un dossier che raccoglie non solo le loro impressioni e opinioni ma anche i cambiamenti nelle concezioni e nelle pratiche avvenuti durante il percorso, e le corrispondenti azioni intraprese in termini di procedure concrete.

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Conclusioni Il co-insegnamento offre la possibilità di riflettere sul significato della collaborazione come dimensione fondamentale per la creazione di un ambiente in cui la partecipazione e l’attività diventano componenti essenziali per lo sviluppo armonico dell’individuo (Santi, 2004, 2006; ICF, 2002, 2007). Come sottolinea Sennett (2012), le società moderne sembrano indebolire la dimensione collaborativa. Tra i fattori che hanno prodotto questo progressivo indebolimento, il sociologo statunitense sottolinea le diseguaglianze economiche, che generano una sempre maggiore distanza sociale; le trasformazioni del mondo del lavoro, che indeboliscono le relazioni tra i lavoratori e i legami con le relative organizzazioni, e l’omologazione culturale che riduce le differenze. Questi fattori di natura materiale, istituzionale e culturale sembrano diventare così un ostacolo alla collaborazione. Ritroviamo le stesse difficoltà anche nella scuola, dove la situazione precaria degli insegnanti non favorisce le condizioni per relazioni di carattere collaborativo, ma a fronte di queste difficoltà, la letteratura scientifica insiste da una parte sull’importanza della collaborazione per lo sviluppo cognitivo del bambino (Gopnik, 2010; Bruner, 1990), dall’altra sulla necessità dello sviluppo di abilità sociali e collaborative per il buon funzionamento delle società complesse (Sennett, 2012). Dunque promuovere pratiche collaborative dovrebbe essere un mandato educativo in termini generali, e lo è ancora di più quando ci occupiamo di educazione inclusiva dove il lavoro collaborativo diventa centrale per promuovere il processo verso l’inclusione (Todd, 2011). Come viene visualizzato nel modello proposto la collaborazione rappresenta una dimensione importante del co-insegnamento (co-planning, co-instructing, co-assessing) per la cocostruzione di ulteriore conoscenza come pure è utile come repertorio condiviso di memorie attuali e conoscenza condivisa (Rytivaara, 2012a). Quindi in un contesto collaborativo, gli insegnanti dovrebbero poter accedere a maggiori risorse in termini di conoscenze e capacità di quante ne avrebbero se lavorassero da soli (Huffman et al, 2002; Puchner & Taylor, 2006)3. Keefe e Moore (2004) hanno concluso che se questa dimensione collaborativa viene meno e la corrispondente suddivisione dei ruoli e delle responsabilità reciproche non avviene, il co-teaching si riduce alla figura dell’insegnante curricolare come insegnante che dispensa le consegne e gestisce l’attività mentre l’insegnante di sostegno svolge un’azione di monitoraggio e aiuto. Questi ostacoli possono essere superati attraverso alcuni fattori individuabili nelle caratteristiche personali e professionali dei docenti, oltreché nel sistema scolastico per quanto riguarda il turn-over degli insegnanti di sostegno. Simona D’Alessio (2011) infatti mette in guardia il lettore su un possibile rischio che si corre nel contesto italiano rispetto al ruolo dell’insegnante di sostegno che da punto di forza per promuovere il processo di inclusione potrebbe diventare un ostacolo se questa figura docente diventa il fulcro attorno al quale si misura il successo, o l’insuccesso dell’inclusione scolastica, e nei casi peggiori, quando si trasforma in un’appendice o una protesi dell’alunno con disabilità4. L’insegnante di sostegno infatti, è assegnato alla classe (L. 104/92) in cui è incluso un bambino con disabilità o bisogni educativi speciali e partecipa all’implementazione dei curricula per tutti gli studenti,

3 Cit. in M.T. Gray, 2001, Co-teaching in Inclusive Classrooms:The Impact of Collaboration, Bibliobazaar, p. 10. 4 Il dibattito nazionale sulla figura dell’insegnante di sostegno necessiterebbe di una trattazione più approfondita. Per questa ragione si rimanda ai seguenti autori: Ianes, 2004; Gelati, 2004; Pavone, 2010; Canevaro, 2007; Favorini, 2009.

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in accordo con l’insegnante curricolare. Tutto questo fa del contesto italiano in teoria un contesto ideale per l’implementazione del co-teaching. Per questo motivo risulta importante promuovere la formazione degli insegnanti verso l’acquisizione di strumenti che orientino allo sviluppo di culture e pratiche inclusive (in cui può essere contemplato il modello del co-teaching). Quanto affermato risulta coerente anche con le indicazioni ministeriali che definiscono “Criteri e modalità per lo svolgimento dei corsi di formazione per il conseguimento della specializzazione per le attività di sostegno” (decreto 30 settembre 2011). Nell’Allegato A (articolo 2) che delinea il “Profilo del docente specializzato”, viene indicata come competenza fondamentale “la co-ideazione, il co-monitoraggio e la co-conduzione di progetti innovativi finalizzati a promuovere il processo di integrazione all’interno del contesto classe”, in linea con il Profile of inclusive teachers (European Agency for Development in Special Needs Education, 2012) in cui si identificano tra i core values la collaborazione la partnership e il team work come elementi fondanti della professionalità del docente inclusivo. Nello specifico il co-teaching è indicato come crucial skill da sviluppare all’interno di team di insegnamento capaci di rispondere in modo flessibile ai diversi bisogni/desideri/aspirazioni del gruppo classe. Un riferimento particolare va ai possibili sviluppi futuri della ricerca che dovrebbero andare nella direzione prima di tutto di indagare i significati che assume tale pratica non solo per gli insegnanti ma anche per gli altri attori coinvolti nella pratica dell’insegnamento e cioè i bambini e anche i dirigenti scolastici che svolgono un ruolo importante nella trasmissione di valori inclusivi nella struttura scolastica in cui operano. Un ulteriore aspetto che dovrebbe essere preso in considerazione riguarda il confronto tra i risultati di apprendimento degli studenti che usufruiscono di pratiche di co-teaching rispetto a studenti invece che fruiscono di metodi tradizionali di insegnamento anche per indagare come tale attività didattica differisca da altre più tradizionali. In questa prospettiva, una linea di ricerca interessante potrebbe essere finalizzata ad esplorare il co-teaching in un contesto di istruzione differenziata, cui corrisponde una altrettanto differenziata valutazione (Tomlinson & McTighe, 2006; Chapman e& King, 2012). Potrebbe essere rilevante, inoltre, analizzare il co-teaching in relazione alle diverse discipline e alle specifiche caratteristiche di apprendimento degli studenti: occorre infatti una significativa base di ricerca che stabilisca l’efficacia o meno dei diversi approcci del co-insegnamento in rapporto alle discipline, ai problemi, difficoltà, disturbi o potenzialità degli alunni e alle variabili che possono influenzare tale pratica.

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Studi Rassegna degli studi sulle (mis)concezioni astronomiche e il cambiamento concettuale in bambini e insegnanti di scuola primaria Review of the researches on astronomy (mis)conceptions and conceptual change in primary school children and teachers CINZIA RONCHI La ricerca ha mostrato che i bambini possano costruirsi delle teorie sul mondo fisico, a volte completamente errate dal punto di vista scientifico, e tuttavia tanto resistenti al cambiamento da permanere anche in età adulta, perfino tra gli insegnanti. Di qui l’esigenza di ripercorrere i principali passaggi della letteratura esistente sul tema della formazione dei concetti astronomici – che risultano essere i più resistenti al cambiamento e pertanto occupano un posto privilegiato nella ricerca psicologica e didattica – e di fornire un quadro degli studi sul cambiamento delle concezioni iniziali a seguito di istruzione. Ciò con l’obiettivo di fornire a studiosi e insegnanti un quadro teorico dello stato attuale della ricerca psicologica e didattica sullo sviluppo e il cambiamento concettuale e favorire pertanto il collegamento tra l’ambito della ricerca accademica e quello dell’insegnamento scolastico.

Research showed that children can construct some theories about the physical world, sometimes completely wrong in the light of the scientific knowledge, and yet as resistant to change to persist into adulthood, even among teachers. Hence the need to retrace the main steps of the existing literature on the development of astronomical concepts – which are the most resistant to change and therefore occupy a privileged place in psychological and teaching research – and to provide a framework of studies about conceptual change due to instruction. The aim is to provide students and teachers with a theoretical picture of the current state of psychological and teaching research on the development and conceptual change and thus promote the connection between the field of academic research and school teaching.

Parole chiave: cambiamento concettuale, rassegna, concezioni astronomiche, bambini, insegnanti

Key words: conceptual change, review, astronomy concepts, children, teachers

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2038-9736 (in press) / ISSN 2038-9744 (on line) Giornale Italiano della Ricerca Educativa • anno VI – n. 11 – dicembre 2013

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Rassegna degli studi sulle (mis)concezioni astronomiche e il cambiamento concettuale in bambini e insegnanti di scuola primaria

Introduzione In un suo libro, Gardner (2005) ha sottolineato quanto l’apprendimento disciplinare in campo scientifico sia lungo e difficile: la ricerca empirica ha infatti messo in luce come i bambini precocemente sviluppano delle teorie assai robuste sul mondo fisico, a volte completamente errate dal punto di vista scientifico, e tuttavia assai resistenti al cambiamento. Anche gli studenti più brillanti, secondo l’autore, aderiscono a queste teorie: se si chiede loro di spiegare un fenomeno fuori dal contesto scolastico, quasi certamente lo faranno come uno scolaro che non ha ancora studiato quell’argomento. Da una prospettiva costruttivista, la comparsa di concezioni errate – le cosiddette misconcezioni – è considerata un aspetto fondamentale e inevitabile dell’apprendimento (Alexandre, 1998) e richiede la messa in atto di strategie didattiche efficaci a promuovere la piena comprensione dei concetti scientifici (Murphy & Mason, 2006). Compito della scuola è pertanto quello di aiutare i bambini a rivedere le proprie concezioni errate e a costruirsene di nuove e più efficaci, come quelle attualmente accreditate, molte delle quali sono però in aperto contrasto con l’esperienza quotidiana. Di qui l’esigenza di una rassegna che affronti il tema della formazione delle concezioni astronomiche, che sono forse quelle più resistenti al cambiamento, occupando per questa ragione un posto privilegiato non solo tra gli studi psicologici che si sono occupati dello sviluppo concettuale infantile, ma anche tra quelli in campo didattico, che ne hanno analizzano il cambiamento a seguito di istruzione. Ciò con l’obiettivo di fornire a studiosi e insegnanti un quadro teorico dello stato attuale della ricerca psicologica e didattica sullo sviluppo concettuale, favorendo così il collegamento tra l’ambito della ricerca accademica e quello dell’insegnamento scolastico.

1. La ricerca in campo psicologico e didattico sulle concezioni astronomiche dei bambini Gli studi sulle concezioni astronomiche dei bambini, che rappresentano ad oggi la parte predominante della ricerca in questo settore (Bailey & Slater, 2004; Lelliot & Rollnick, 2010), prendono le mosse dal lavoro pioneristico di Piaget. Utilizzando il metodo dell’intervista clinica, egli ha mostrato che le convinzioni dei bambini prescolari sugli astri scaturiscono da un pensiero egocentrico, che li induce ad attribuire vita e intenzionalità agli elementi della realtà fisica dotati di movimento (1927; 1966). Dalle spiegazioni infantili sul movimento degli astri, Piaget (1927) ha individuato una sequenza di sviluppo della causalità nella quale le credenze magico-animistiche iniziali gradualmente si evolvono, permeandosi

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Cinzia Ronchi

di artificialismo e finalismo, fino ad arrivare a spiegazioni scientificamente accettabili. Dopo Piaget, negli Stati Uniti, Nussbaum e Novak (1976) hanno indagato le idee sulla forma della Terra e la caduta dei corpi in bambini di seconda classe di scuola primaria, individuando numerose nozioni “difformi” dalla conoscenza accreditata. Ulteriori ricerche condotte da Nussbaum (1979) in Israele hanno mostrato l’esistenza di nozioni “difformi” di Terra anche in bambini di una cultura così diversa da quella americana. Analizzando i risultati raccolti, l’autore ha descritto come l’apprendimento della nozione scientifica di Terra avvenga mediante una serie di transizioni, concepite come atti successivi di accomodamento cognitivo, che vanno dalla nozione più egocentrica (Terra piatta) ad altre solo in parte egocentriche, nelle quali le persone vivono dentro o sopra la sfera, fino ad arrivare a quella scientificamente condivisa (sfera con gravità). Le ricerche di Nussbaum sono state replicate da Mali e Howe (1979) su bambini nepalesi di età compresa tra 8 e 12 anni, nei quali è stata individuata la stessa progressione di sviluppo, anche se il ritardo evolutivo osservato dagli autori nella comparsa delle nozioni li abbia condotti ad ipotizzare che il processo di concettualizzazione della Terra fosse subordinato al possesso di abilità cognitive generali. Jones, Lynch e Reesink (1987) hanno allargato l’indagine alle conoscenze che i bambini di età compresa tra i 9 e i 12 anni possiedono circa i movimenti reciproci di Terra, Sole e Luna. Gli autori hanno individuato una sequenza di sviluppo costituita da 5 modelli che vanno da quello definito “magico”, nel quale la Terra è immobile e il Sole e la Luna alternativamente si avvicinano e si allontanano da essa, fino ad arrivare al modello scientifico, che vede la Terra in rivoluzione intorno al Sole e la Luna in rivoluzione attorno alla Terra. Dai risultati del loro studio è emerso che, nonostante numerosi bambini spieghino che la Terra ruota su se stessa, molti di loro non hanno idea di quante volte lo faccia in un anno. Una vasta indagine sulle credenze infantili sulla Terra e i fenomeni astronomici è stata condotta da Baxter (1989) su un campione di bambini di età compresa tra 9 e 16 anni. L’autore ha ipotizzato che le idee dei bambini sul ciclo dì-notte e le stagioni scaturiscano dalla mescolanza delle loro credenze con le informazioni scientifiche acquisite. Le nozioni raccolte sulla forma della Terra e la gravità sono poste lungo un continuum che sostanzialmente riprende la sequenza individuata da Nussbaum (1979). Baxter ha inoltre identificato 6 nozioni sul ciclo dì-notte, presentate nella figura 1, che vanno anch’esse da quelle più intuitive, in cui la notte viene spiegata in termini di occultamento del Sole (nozioni 1, 2 e 3), alla nozione accreditata che attribuisce il ciclo dì-notte alla rotazione della Terra sul proprio asse (nozione 6).

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Nozione 1

Nozione

Disegno

Il Sole va dietro alla collina

Nozione 2

Le nubi coprono il Sole

Nozione 3

La Luna copre il Sole

Nozione 4

Il Sole gira intorno alla Terra una volta al giorno

Nozione 5

La Terra gira intorno al Sole una volta al giorno

Nozione 6

La Terra ruota attorno al proprio asse una volta al giorno

Fig. 1: Le nozioni infantili sul ciclo dì-notte individuate da Baxter (1989) Fonte: Adattata da Baxter (1989, 507)

Anche nel caso delle stagioni Baxter (1989) ha individuato 6 nozioni (cfr. figura 2): da quelle che attribuiscono la causa di tale ciclo all’occultamento invernale del Sole (nozioni 1 e 2), a quelle che lo spiegano in termini di variazioni di distanza tra Sole e Terra (nozione 3 e 4), o di cambiamenti osservati nelle piante (nozione 5), fino ad arrivare alla spiegazione scientifica legata all’inclinazione dell’asse terrestre (nozione 6).

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Nozione 1

Nozione

Disegno

Dei pianeti freddi tolgono calore al Sole. Nozione 2

Pesanti nubi invernali fermano il calore del Sole. Nozione 3

Il Sole è più lontano dalla Terra in inverno. Nozione 4

Il Sole va dall’altra parte della Terra per far arrivare l’estate in quei luoghi. Nozione 5

I cambiamenti nelle piante sono la causa delle stagioni. Nozione 6

Le stagioni sono spiegate in termini di inclinazione dell’asse terrestre.

Fig. 2: Le nozioni infantili sulla causa delle stagioni identificate da Baxter (1989) Fonte: Adattata da Baxter (1989, 510)

Rilevando una certa analogia tra le nozioni espresse dai bambini e alcune teorie che si erano succedute nella storia del pensiero scientifico, Baxter (1989) riprendendo le tesi formulate in altri ambiti di ricerca da Carey (1985), ha postulato l’esistenza di un parallelismo tra il cambiamento concettuale individuale e il cambiamento di paradigmi nella scienza, mettendone in luce le implicazioni educative: il riferirsi ad antiche teorie scientifiche permette al bambino di considerare che, sebbene le proprie concezioni risultino errate alla luce dello sviluppo scientifico attuale, una volta facevano parte della conoscenza accreditata. Ripercorrendo gli studi finora citati si può intravedere la transizione da modelli di ispirazione piagetiana, che vedevano lo sviluppo concettuale come una progressione lineare fortemente ancorata alla maturazione di abilità cognitive generali come l’egocentrismo, a modelli che ne sottolineavano le analogie con il progresso scientifico, caratterizzato dalla progressiva sostituzione di modelli teorico-concettuali nuovi a quelli vecchi non più efficaci.

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L’approccio dei modelli mentali Proprio l’ipotesi, sviluppata da Carey in ambito biologico (1985), che lo sviluppo concettuale consista nel progressivo emergere di nuove concezioni da quelle vecchie, sottoposte nel corso dello sviluppo a ristrutturazioni anche radicali, ha condotto Vosniadou e Brewer (1987) a esplorare i modi in cui i cambiamenti di conoscenza implicano la creazione di nuove strutture concettuali tese a reinterpretare le vecchie informazioni o ad accoglierne di nuove. In un famoso lavoro (1992), gli autori hanno indagato l’origine delle concezioni di Terra in un campione di bambini di età compresa tra i 6 e gli 11 anni, analizzandone il cambiamento dopo l’esposizione all’informazione scientifica. Dalle risposte fornite nel corso di un’intervista semistrutturata, gli autori hanno evidenziato che essi dapprima possiedono dei modelli mentali “iniziali” (Terra rettangolare e a disco), interamente basati su credenze intuitive; in seguito si costruiscono modelli mentali “sintetici” (sfera cava e sfera appiattita) con i quali tentano di risolvere l’incongruenza tra il modello iniziale da essi posseduto e quello culturalmente accettato. Secondo Vosniadou e Brewer (1992) i modelli mentali elaborati dai bambini si basano su presupposizioni che scaturiscono dalla loro esperienza e che successivamente includono le informazioni scientifiche trasmesse dalla scuola: nello specifico, il modello iniziale di Terra rettangolare o a disco si basa sulla presupposizione, radicata nel bambino, che la Terra è piatta proprio come appare ai suoi occhi e che le cose non supportate cadono verso il basso. I bambini giungono a comprendere il modello scientifico solo quando riescono a reinterpretare le presupposizioni che hanno dato origine ai loro modelli mentali iniziali, ovvero quando arrivano a capire che a volte le cose tonde possono apparire piatte, e che la gravità è una forza capace di sostenere la Terra nello spazio e di attrarre cose e persone su di essa (figura 3).

Fig. 3: I modelli mentali di Terra individuati da Vosniadou e Brewer (1992) (da Berti, 2002, p. 29)

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Lo studio di Vosniadou e Brewer è stato successivamente replicato su un campione di bambini indiani di età compresa tra i 6 e gli 11 anni da Samarapungavan,Vosniadou e Brewer (1996), i quali hanno rilevato la medesima progressione di sviluppo dei modelli mentali di Terra. In un lavoro successivo (1994),Vosniadou e Brewer hanno dimostrato che le presupposizioni da cui scaturiscono i modelli mentali di Terra vincolano anche, più o meno direttamente, la costruzione dei modelli mentali relativi al ciclo dì-notte, i quali ne ricalcano inoltre la scansione evolutiva. Gli autori riconducibili all’approccio dei modelli mentali ipotizzano pertanto che il bambino costruisca la propria comprensione del mondo fisico sulla base di un ristretto numero di modelli mentali, qualitativamente analoghi a teorie, costruiti sulla base di presupposizioni radicate che ne determinano il tipo e che influenzano altresì la costruzione di quelli a essi collegati. Riportando tale modello teorico su un piano educativo è possibile scorgere l’idea, nemmeno troppo implicita, di apprendimento come processo lento e graduale di reinterpretazione dei dati scaturenti dall’ esperienza e di ricostruzione concettuale, che ricalca l’avvicendarsi delle spiegazioni teoriche nello sviluppo storico dell’astronomia (Vosniadou & Brewer, 1994). Come sottolineano Vosniadou e Mason (2012), un simile modello di apprendimento può sì condurre verso il cambiamento delle concezioni, ma anche verso la loro frammentazione, nel caso in cui l’informazione target sia incompatibile con le concezioni preesistenti. Grande attenzione deve essere pertanto dedicata alla strutturazione dei curricoli di studio, ispirati alla ricerca e in grado di evidenziare precocemente le possibili difficoltà degli studenti, fornendo ad essi – attraverso esperimenti, attività di misura, costruzione di modelli e l’uso di artefatti – la spiegazione dei fenomeni osservati (Vosniadou et al., 2001).

Sviluppo concettuale, contesto e cultura Alcuni autori hanno ben presto avanzato delle critiche all’approccio dei modelli mentali, sottolineando come spesso le credenze intuitive anziché essere scalzate dalle nozioni scientifiche, continuino a permanere accanto a esse nella struttura concettuale dello studente, che deve pertanto apprendere ad utilizzare le une e le altre nel contesto di spiegazione adeguato (Caravita & Halddèn, 1994; Spada, 1994). Accogliendo tale prospettiva Lanciano (1996) ha sottolineato la compresenza, nell’individuo, di due immagini di Terra: una piatta e ferma, in relazione alle informazioni sensoriali; l’altra sferica e in movimento, in relazione alle informazioni scientifiche ricevute. Muovendo da una prospettiva situata e discorsiva sullo sviluppo cognitivo di ispirazione vygotskiana, che considera il ragionamento come attività situata e dipendente dagli strumenti e dal contesto, Shoultz, Säljö e Wyndhamn (2001) hanno ipotizzato che ciò che il bambino dice nel corso di un’intervista non rifletta semplicemente il contenuto della sua mente ma possa essere influenzato da altri fattori, come ad esempio il contesto in cui il bambino interpreta la domanda, che ne influenzano la risposta. In uno studio condotto su un campione di alunni tra i 6 e gli 11 anni, gli autori hanno evidenziato che l’aggiunta di un globo da mostrare ai bambini nel corso dell’intervista si rivela in grado di supportare il ragionamento infantile e far emergere livelli concettuali notevolmente più elevati di quelli individuati da Vosniadou e Brewer (1992). Il contesto di spiegazione nel quale la domanda viene interpretata dal bambino sembra pertanto avere un effetto in relazione al tipo di risposta espressa. Risultati analoghi sono stati ottenuti nel lavoro di Perucchini e Ronchi (2008): sia i bambini

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che gli insegnanti da essi esaminati hanno ottenuto punteggi significativamente più elevati quando le domande implicano la semplice rievocazione delle conoscenze rispetto a quelle che richiedono la formulazione di un’inferenza. Altri autori (Nobes, Moore, Martin, Clifford, Butterworth, Panagiotaki e Siegal, 2003) hanno esteso l’indagine alla possibile influenza del contesto culturale nella formazione delle concezioni di Terra, confrontando bambini inglesi e indiani residenti in Inghilterra. L’ipotesi di partenza era che i contatti dei bambini del secondo gruppo con la loro terra di origine determinassero in questi ultimi una maggiore consapevolezza circa la sfericità della Terra. Dai risultati non sono tuttavia emerse differenze significative tra i bambini in relazione al gruppo di appartenenza né alla lingua, ma solo in relazione all’età. Differenze di tipo culturale nella concettualizzazione della Terra e del ciclo dì-notte sono invece state osservate, tra bambini inglesi e australiani di età compresa tra i 4 e i 9 anni, da Siegal, Butterworth e Newcombe (2004). Se i bambini australiani più giovani apparivano più competenti dei loro coetanei inglesi nel fornire risposte scientifiche, tali differenze culturali si attenuavano fino a scomparire a 8-9 anni, quando i bambini di entrambe le culture avevano acquisito le corrette nozioni dalla scuola. Tale differenza è stata spiegata dagli autori considerando che i bambini australiani di 4-6 anni avevano già ricevuto un’istruzione scolastica su questi temi. Al contrario, nei bambini inglesi istruiti più tardi, le concezioni intuitive potevano coesistere per un certo tempo accanto all’informazione scientifica, e pertanto riflettere le presupposizioni di piattezza e supporto che davano senso ai modelli mentali sintetici individuati da Vosniadou e Brewer (1992; 1994). Le critiche mosse all’approccio dei modelli mentali da parte di quegli autori che rivendicavano il ruolo del contesto nella formazione dei concetti, sono state solo in parte supportate dall’evidenza empirica: dalla ricerca è infatti emerso che il tipo di domanda e il contesto concettuale in cui il bambino la interpreta possono effettivamente avere un’influenza sul tipo di concezioni espresse (Frede et al., 2011), ma non la cultura di appartenenza, dal momento che le differenze culturali rilevate da Siegal e colleghi (2004) sembrano essere legate principalmente all’istruzione ricevuta.

L’approccio della conoscenza frammentaria Ulteriori critiche all’approccio dei modelli mentali sono fondate sul presupposto che la conoscenza iniziale dei bambini sia costituita da frammenti non sistematizzati di conoscenza, più che da modelli mentali coerenti e tra loro sistematicamente collegati. In altre parole, si è fatta spazio nella ricerca scientifica l’ipotesi che il passaggio dal ragionamento di senso comune alla comprensione scientifica implichi un cambiamento strutturale verso la sistematicità, piuttosto che semplicemente un avanzamento nei contenuti, come ha suggerito diSessa (1998). Alla luce di queste riflessioni, Nobes, Martin, Panagiotaki (2005) hanno condotto una ricerca tesa a determinare se le concezioni di Terra presenti in bambini e adulti siano costituite da modelli mentali coerenti o da frammenti isolati di informazione, culturalmente trasmessi e assimilati dal soggetto fino all’acquisizione della nozione scientifica. A ogni partecipante è stato chiesto di scegliere tra 16 carte illustrate, ognuna delle quali si differenziava dalle altre per la forma della Terra, la posizione delle persone su di essa e la localizzazione del cielo. Gli autori hanno dimostrato che anche i bambini più piccoli possiedono la concezione scientifica di Terra, e che pertanto deve esistere solo una lieve resistenza all’istruzione scientifica in questo dominio di conoscenza e non le presupposizioni radicate postulate da

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Vosniadou e Brewer (1992; 1994). Recentemente anche Hannust e Kikas (2007) hanno rilevato come la conoscenza infantile sulla Terra sia per la maggior parte frammentaria, e che la presenza dei modelli mentali individuati da Vosniadou sia solo marginale. In un lavoro teso ad esaminare l’acquisizione di conoscenze circa la Terra, gli autori hanno registrato la quasi totale assenza di modelli mentali coerenti, ma anche una bassa percentuale di risposte corrette, ponendosi pertanto in contrasto sia con l’approccio di Vosniadou e Brewer (1992), che con quello di Nobes e colleghi (2005). Nel già citato studio di Nobes (et al., 2003), l’analogia tra la distribuzione delle risposte osservata nel campione e quella attesa nel caso in cui i bambini avessero risposto in maniera incoerente e frammentaria ha condotto gli autori a concludere che l’approccio della conoscenza frammentaria si prestasse meglio dell’altro a spiegare la varianza nelle risposte dei bambini. Straatemeier, van der Maas e Jansen (2008) hanno effettuato una ricerca su bambini di età compresa tra i 4 e i 9 anni confrontando le risposte da essi fornite ad una prova scritta che prevedeva la scelta di immagini, con le concezioni che emergevano dai disegni e dall’intervista. Gli autori hanno evidenziato l’assenza di evidenze empiriche sull’esistenza delle presupposizioni individuate da Vosniadou e Brewer (1992; 1994), nonostante un piccolo numero di bambini del loro studio abbia fornito una concezione di Terra piatta. Gli autori riconducibili a questo approccio rigettano pertanto l’ipotesi di Vosniadou e Brewer (1992; 1994) sull’esistenza di presupposizioni generalizzabili che agiscono come dei vincoli sul tipo di concezione che il bambino riesce a elaborare. Essi sottolineano che la conoscenza posseduta dal bambino circa la Terra, anziché scaturire dall’esperienza, è prevalentemente mediata, anche perché non esiste alcuna esperienza concreta in grado di fornire al singolo individuo un’evidenza circa la sfericità della Terra (Nobes et al., 2005). Collocando le conclusioni di questo approccio teorico su un piano educativo, se ne svelerebbe un’idea di apprendimento come sedimentazione e interconnessione di saperi culturalmente mediati che il bambino via via acquisisce e sistematizza con relativa facilità. Come hanno evidenziato Vosniadou e Mason (2012) gli autori che fanno capo a questo approccio suggeriscono meccanismi di arricchimento graduale di conoscenza che poggiano sulle idee presenti nei bambini anziché tendere a sostituirle (diSessa, 1998).

Il cambiamento concettuale nei bambini a seguito di istruzione In ambito educativo l’attenzione si è concentrata prevalentemente sull’efficacia di interventi didattici mirati a modificare le concezioni presenti nei bambini, confrontando pertanto le idee da essi espresse prima e dopo tali interventi. Alcuni di questi studi hanno messo in luce la resistenza al cambiamento delle concezioni iniziali: dal già citato studio di Nussbaum e Novak (1976) è infatti emerso che, nonostante i bambini del gruppo sperimentale presentino, al termine del percorso didattico, concezioni più avanzate rispetto ai coetanei del gruppo di controllo, le concezioni preesistenti non sono state modificate in maniera significativa. Analogamente, Klein (1982), al termine di un percorso didattico che ha coinvolto un gruppo di bambini di seconda classe, ha rilevato come la maggioranza dei bambini continui a possedere un certo numero di idee contrastanti con i concetti scientifici ai quali sono stati esposti, soprattutto riguardo alla Terra: nonostante molti di loro affermino con convinzione che abbia una forma sferica, non riescono tuttavia a spiegare come mai essa appaia piatta in una foto scattata dalla sua superficie. Molti studi hanno esaminato i requisiti di una didattica in grado di promuovere un ap-

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prendimento duraturo delle concezioni astronomiche nei bambini, a partire da quello di Nussbaum e Niva Sharoni Dagan (1983), dal quale è emerso che se le attività vengono meticolosamente ordinate e sono accompagnate da spiegazioni audioregistrate, anche i bambini di 7 anni sono in grado di afferrare la nozione astratta di Terra come corpo celeste. Analogamente, Hayes e colleghi (2003) hanno dimostrato l’efficacia di una didattica basata su filmati nel modificare le concezioni di Terra inizialmente presenti in bambini di prima classe di scuola primaria. Dai risultati è emerso che, sebbene tutti i bambini che hanno visionato almeno un filmato (sulla forma o sulla gravità della Terra) abbiano fornito al post-test un numero maggiore di risposte corrette, solo quelli che li hanno visionati entrambi mostrano di aver acquisito una concezione di Terra sferica. Al fine di assicurare stabilità e persistenza alle concezioni apprese, Lanciano (1996) ha elaborato una metodologia didattica fondata su tre fasi: l’individuazione delle concezioni iniziali, attraverso attività che coinvolgono abilità diverse (il vedere, il toccare, il muoversi, l’ascolto, ecc.); l’analisi di tali concezioni, evidenziando quelle che possono rappresentare degli ‘ostacoli’ ai futuri apprendimenti (Giordan 1978); la realizzazione di attività didattiche costruite attorno a domande di tipo inferenziale scaturite dai ragionamenti dei bambini o da quelle che gli scienziati si erano posti nel passato. Considerando in termini educativi l’analogia tra le concezioni infantili e quelle emerse nella storia della scienza, Sneider e Ohadi (1998) hanno indagato il cambiamento nelle concezioni di Terra e ciclo dì-notte in ragazzi tra i 10 e i 14 anni a seguito di un percorso didattico, nel quale sono invitati a immedesimarsi in un popolo antico che considerava la Terra piatta e a formulare spiegazioni del ciclo dì-notte compatibili con tale modello di Terra. Un risultato inaspettato per gli autori è stato che il trattamento sperimentale sia risultato maggiormente efficace per i soggetti più giovani, cosicché dopo l’istruzione, i bambini di 10 e 11 anni hanno raggiunto livelli concettuali paragonabili ai loro colleghi di 14 anni riguardo la forma della Terra e la gravità. Il percorso didattico progettato da Sharp (2003) nel suo lavoro su bambini di età compresa tra i 9 e gli 11 anni ha previsto invece 3 fasi, la prima e l’ultima delle quali sono costituite dalla discussione collettiva, mentre quella centrale da attività di osservazione del cielo, di indagine e risoluzione di problemi. A seguito del percorso, le concezioni presenti nei bambini che hanno preso parte alla didattica risultano non solo di livello superiore rispetto ai coetanei del gruppo di controllo, ma appaiono stabilmente acquisite, in quanto presenti nei bambini anche a distanza di tempo. Analogamente, Ronchi, Perucchini e Musa (2007) in uno studio su bambini di 8 anni hanno evidenziato come una didattica che tenga conto delle concezioni inizialmente presenti nei bambini e che preveda attività di osservazione, indagine e discussione collettiva, risulti efficace a promuovere un cambiamento significativo delle loro conoscenze in direzione del sapere scientifico. In un recente lavoro su bambini di età prescolare, Kikas (2005) ha registrato un incremento legato all’età nelle concezioni corrette ma anche nell’incoerenza: bambini che hanno scelto un modello di Terra sferico affermano anche che si può cadere dal bordo della Terra; analogamente, molti di loro hanno utilizzato la teoria della distanza del Sole dalla Terra per spiegare l’alternanza delle stagioni. Secondo l’autrice, tali misconcezioni sarebbero da ricondurre alle illustrazioni e ai sussidi utilizzati dagli insegnanti. Anche Ronchi (2008) ha ipotizzato che le illustrazioni presenti nei libri di testo di scuola primaria sul ciclo delle stagioni possano indurre la comparsa di misconcezioni: nonostante i bambini di quarta classe presentino una conoscenza fattuale dei moti della Terra, quando viene loro chiesto di posizionare i modelli di Sole e Terra nello spazio così come sono quando alle nostre latitudini è estate (o inverno), essi abbandonano tale conoscenza, mostrando di prediligere spiegazioni intuitive basate sulla variazione di distanza tra Sole e Terra.

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Hannust e Kikas (2007) in una ricerca condotta su un campione di bambini dai 5 ai 7 anni, hanno fornito una possibile spiegazione dei modi in cui i bambini si possano costruirsi delle misconcezioni durante l’apprendimento. Assumendo una prospettiva vygotskiana, gli autori hanno ipotizzato che l’acquisizione degli strumenti per pensare – cioè delle parole – preceda l’attribuzione alle stesse del significato. In altri termini, i bambini prima memorizzano e utilizzano informazioni di tipo fattuale (ad esempio la nozione di sfericità della Terra) e solo in un secondo tempo arrivano a comprenderle pienamente (nell’esempio precedente, associando alla sfera la gravità). L’acquisizione di informazioni fattuali da parte del bambino, e la facilità con cui egli generalizza tali nuove concezioni, fanno supporre agli autori che i materiali utilizzati nella didattica possano indurre la costruzione di misconcezioni, che vanno pertanto tempestivamente affrontate per evitare che si strutturino in modelli coerenti. Plummer (2008) suggerisce che alla base della difficoltà dei bambini a comprendere alcune concezioni astronomiche possa esservi l’assenza di collegamento, nella didattica, tra i moti osservabili di Sole, Luna e stelle e quelli che essi compiono nello spazio. L’autrice utilizza il planetario come strumento in grado di collegare l’esperienza del bambino al sapere scientifico e struttura una sequenza di apprendimento basata sull’esplicitazione delle concezioni iniziali – espresse attraverso il gesto – e la loro verifica mediante il confronto con i dati di osservazione. Pochi studi hanno finora confrontato l’efficacia di percorsi basati su metodologie didattiche diverse. Diakidoy e Kendeou (2001) hanno paragonato l’efficacia di una didattica fondata sulle concezioni inizialmente presenti nei bambini di classe quinta, e costituita da attività che stimolano la discussione e la scoperta, con un percorso di tipo trasmissivo basato sulla lezione frontale e l’uso prevalente del libro di testo. Gli autori hanno rilevato come un approccio didattico che muova dalle conoscenze pregresse degli alunni risulti maggiormente efficace non tanto al post-test, ma ad un follow-up effettuato un mese dopo il percorso. Anche Yager e Akcay (2008) hanno comparato gli effetti di una didattica costruttivista con quelli di una didattica basata sull’uso del libro di testo in un campione di studenti di scuola media, mostrando come un percorso che tenga conto delle concezioni preesistenti negli alunni, e che offra loro occasioni di discussione e confronto, promuova una maggiore abilità di transfer delle conoscenze apprese in contesti diversi. La ricerca sul cambiamento concettuale ha evidenziato come la semplice trasmissione di nozioni induca molto spesso a un cambiamento effimero e superficiale delle concezioni preesistenti, risultando del tutto insufficiente a promuovere una modificazione strutturale profonda di tali concezioni. Strike e Posner (1985) hanno suggerito che un percorso efficace a promuovere il cambiamento concettuale deve tenere conto di alcuni fattori: l’insoddisfazione dell’alunno verso la propria concezione, che si rivela inadeguata a spiegare un fenomeno; la disponibilità ad accogliere la nuova concezione, che non deve porsi in contrasto con quelle che già possiede; la consapevolezza che tale concezione può consentirgli di comprendere una più vasta gamma di fenomeni.

2. Gli studi sulle concezioni astronomiche degli insegnanti L’ipotesi dell’esistenza di un legame tra la comprensione dei concetti da parte del docente e la trasmissione dei contenuti disciplinari agli studenti ha condotto alcuni autori ad interessarsi alle concezioni astronomiche possedute dagli insegnanti. Se paragonate a quelle sui bambini, le ricerche sulle concezioni astronomiche degli insegnanti di scuola primaria rap-

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presentano una piccola parte degli studi in tale campo. Di questi, una buona parte ha esaminato la presenza di misconcezioni tra gli insegnanti (Lawrentz (1986; Shoon, 1995; Atwood & Atwood, 1995, 1996; Lanciano, 1996;Vega Navarro, 2001; Frede, 2006), mentre altri lavori hanno confrontato la tipologia e il numero di misconcezioni possedute da docenti afferenti a diversi gradi di scuola (Parker & Heywood, 1998; Trumper, 2003; Brunsell & Marcks, 2005). In uno dei primi studi sui docenti di scuola primaria, Lawrentz (1986) ha mostrato che circa la metà dei partecipanti fornisce risposte errate che sembrano scaturire da una conoscenza disciplinare carente o da un’errata interpretazione dei fenomeni, cioè da misconcezioni. Considerando che molte delle misconcezioni presenti negli insegnanti sarebbero state certamente trasmesse agli allievi, Shoon (1995) oltre a investigare le concezioni astronomiche dei docenti ha chiesto loro anche di spiegare le ragioni che li hanno condotti a fornire una determinata risposta e di attribuire ad essa un giudizio di correttezza. L’autrice ha suddiviso le misconcezioni individuate in due categorie: quelle caratterizzate da errori o mancanza di osservazione (ad es. ritenere che il Sole a mezzogiorno sia allo zenit, cioè perpendicolare rispetto al piano dell’orizzonte) e quelle scaturite dall’errata applicazione di una teoria (ad es. attribuire il ciclo dì-notte alla rivoluzione della Terra attorno al Sole). La maggior parte dei docenti che ha espresso tali misconcezioni afferma di averle udite da altre persone, molto spesso il proprio insegnante o i mass media, di averle pertanto considerate logiche e non aver sentito mai il bisogno di sottoporle a verifica (Shoon, 1995). In altre parole, le misconcezioni culturalmente trasmesse ai bambini dai docenti sono molto spesso giudicate da questi ultimi come vere e incontrovertibili, permanendo come tali fino all’età adulta, come hanno indicato Harris e Koenig (2006). L’analisi della letteratura fa emergere un quadro poco rassicurante, dal quale appare che una percentuale considerevole di insegnanti possiede misconcezioni sulla Terra, le fasi della Luna, il ciclo dì-notte e quello delle stagioni. Un quinto degli insegnanti esprime misconcezioni riguardo la forma della Terra del tutto analoghe a quelle osservate nei bambini (Vega Navarro, 2001; Ronchi & Perucchini, 2009), costituite principalmente da la nozioni corrette circa la forma della Terra cui vengono abbinate concezioni intuitive di gravità (Brunsell & Marks, 2005; Perucchini & Ronchi, 2008). La maggior parte degli insegnanti esaminati attribuisce erroneamente le fasi lunari all’ombra che la Terra proietterebbe sulla superficie della Luna (Callison & Wright, 1993; Lanciano, 1996;Trundle, Atwood & Christofer, 2002) o allo spostamento della Luna all’interno del cono d’ombra del Sole (Trumper, 2003). Oltre la metà dei docenti indagati non ha compreso il moto di rivoluzione della Luna attorno alla Terra (Trundle, Atwood & Christofer, 2001) o quello di rotazione della Luna sul proprio asse (Lanciano, 1996). Molti docenti non riescono a collegare in un’unica spiegazione i movimenti e le fasi della Luna con l’osservazione del cielo (Brunsell & Marks, 2005). In molti insegnanti di scuola primaria sono presenti alcune misconcezioni sul ciclo dìnotte (Shoon, 1995;Trumper, 2003; Martìnez Sebastià & Martìnez Torregrosa, 2005; Brunsell & Marks, 2005). Una delle concettualizzazioni più diffuse riguarda la Terra in rivoluzione attorno al Sole, seguita da quella che vede il Sole in moto di rivoluzione attorno a una Terra immobile (Atwood e Atwood, 1995). Parker e Heywood (1998) hanno identificato 6 spiegazioni relative al ciclo dì-notte, che muovono da visioni ancorate ad una prospettiva terrestre (Sole e Luna si alternano nel compiere un percorso ad arco sopra l’orizzonte) fino ad arrivare alla nozione scientifica (la Terra gira su se stessa in senso antiorario). La maggior

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parte degli insegnanti intervistati da Lanciano (1996) ha affermato che il Sole a mezzogiorno è più potente e determina pertanto ombre più lunghe. Una percentuale consistente di insegnanti attribuisce la causa delle stagioni a variazioni di distanza tra Sole e Terra, oppure a cambiamenti nell’inclinazione dell’asse terrestre (Shoon, 1995; Atwood & Atwood, 1996; Parker & Heywood, 1998;Trumper, 2003). Solo pochi docenti mostrano di sapere che il percorso del Sole nel cielo si modifica nel corso dell’anno (Lanciano, 1996; Martìnez Sebastià & Martìnez Torregrosa, 2005) e, anche in quei casi la maggior parte di essi non riesce a collegare questo fenomeno alle proprie conoscenze di tipo fattuale sulle stagioni (Martìnez Sebastià & Martìnez Torregrosa, 2005; Brunsell & Marks, 2005). Gli studi sugli insegnanti mostrano che essi spesso presentano delle misconcezioni, causate da una carenza di osservazione o da errori nell’applicazione di teorie, che scaturiscono dalla trasmissione culturale o dall’istruzione scolastica. Il fatto che affermino di aver sempre considerato vere tali misconcezioni ripropone la questione della loro persistenza in età adulta, anche dopo cicli interi di istruzione, mentre l’analogia tra le misconcezioni degli insegnanti e quelle dei bambini pone la questione in termini educativi, sottolineando il problema della loro possibile trasmissione agli alunni.

Il cambiamento concettuale negli insegnanti a seguito di istruzione I dati raccolti sugli insegnanti pongono pertanto la questione, coerente con quanto evidenziato anche nel caso degli alunni, dell’efficacia di interventi di istruzione nel modificare le concezioni preesistenti. Ritenendo che le idee sul ciclo dì-notte e le stagioni possedute dagli insegnanti in formazione siano facilmente modificabili, Atwood e Atwood (1997) hanno sottoposto alcuni docenti a un percorso didattico basato sull’uso di modelli tridimensionali. Nonostante dai risultati sia stato registrato un cambiamento delle concezioni iniziali, gli autori si sono interrogati sulla stabilità delle conoscenze apprese e sulla possibilità che la scala dei modelli da essi utilizzati nella didattica abbia indotto la costruzione di misconcezioni tra gli insegnanti. L’indagine condotta da Callison e Wright (1993) ha indagato se il possesso di abilità cognitive (livello di ragionamento e abilità di tipo spaziale) e la metodologia didattica utilizzata potessero avere un ruolo nella comprensione delle fasi lunari da parte di insegnanti di scuola primaria in formazione. I risultati hanno mostrato che le suddette abilità cognitive non risultano direttamente collegate alla comprensione delle fasi lunari, ma che una didattica basata sull’uso di modelli determina il raggiungimento di concezioni più evolute negli insegnanti. Trundle, Atwood e Christopher (2002) hanno sottoposto un sottogruppo di insegnanti di scuola primaria in formazione ad un percorso didattico sulle fasi lunari che ha previsto inizialmente l’osservazione sistematica della Luna, poi momenti di discussione collettiva sui dati emersi da tale osservazione, e infine un’attività di tipo psicomotorio. A conclusione del percorso, la maggior parte di tali docenti mostrava di aver acquisito la concezione scientifica relativa a tale fenomeno. Trumper (2005) ha realizzato un percorso didattico di tipo costruttivista teso a modificare le concezioni presenti in un gruppo di insegnanti in formazione sul sistema Terra-SoleLuna e le stagioni. L’autore ha evidenziato che i docenti che hanno partecipato al percorso, costituito da osservazioni regolari del cielo e dalla raccolta dei relativi dati, mostrano in fase finale livelli di concettualizzazione significativamente più elevati rispetto al gruppo di con-

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trollo. Anche nello studio di Martìnez Sebastià e Martìnez Torregrosa (2005) la didattica ha previsto momenti di osservazione del cielo e rilevazione dei dati, cui è seguita l’elaborazione, da parte dei docenti, di un modello teorico coerente con i dati raccolti. A seguito del percorso didattico, la maggior parte degli insegnanti ha compreso il modello Terra-Sole e lo utilizza efficacemente per spiegare i cambiamenti nella lunghezza del dì e nell’altezza del Sole nel corso dell’anno. La ricerca sul cambiamento concettuale negli insegnanti ha mostrato che una didattica basata sull’osservazione diretta dei fenomeni, l’indagine, la discussione e l’elaborazione di modelli di spiegazione promuove risulta efficace a promuovere una migliore comprensione e generalizzazione delle nozioni scientifiche. Al contrario, l’uso di modelli tridimensionali in scala appare correlato alla comparsa di misconcezioni anche tra gli insegnanti. Ciò potrebbe suggerire ai docenti l’importanza del sistema di riferimento usato e soprattutto la necessità di renderlo esplicito nel lavoro con gli alunni, al fine di prevenire la comparsa di misconcezioni. Le aspettative degli insegnanti circa le conoscenze dei bambini La ricerca ha finora evidenziato come gli insegnanti spesso presentino delle misconcezioni delle quali non sono consapevoli, e che tali concezioni possono influire sugli apprendimenti futuri degli alunni. Ha inoltre messo in luce che anche i bambini possiedono delle misconcezioni, scaturite dall’esperienza o culturalmente assimilate, in aperto contrasto con la conoscenza accreditata e pertanto assai resistenti al cambiamento. È lecito pertanto domandarsi quali siano le aspettative degli insegnanti sulle conoscenze presenti negli alunni, anche perché nella quotidianità scolastica essi spesso basano il loro insegnamento proprio su tali aspettative. Non sono emersi dalla letteratura molti lavori sulle aspettative degli insegnanti circa le concezioni astronomiche presenti negli studenti. Due studi condotti su professori di scuola secondaria superiore mostrano che questi ultimi sono generalmente poco consapevoli non solo delle misconcezioni presenti nei loro allievi, ma anche di quelle che loro stessi possiedono (Berg & Brewer, 1991), e che tendono a sottostimare le concezioni acquisite dai loro studenti più giovani, e a sovrastimare quelle apprese dagli studenti più grandi al termine di un percorso didattico (Lightman & Sadler, 1993). In un lavoro su insegnanti di scuola primaria in formazione, Perucchini e Ronchi (2008) hanno mostrato che anche le aspettative di questi docenti sulle concezioni di bambini di terza classe non sono molto accurate. Se le concezioni attribuite agli alunni sulla gravità sono risultate sostanzialmente vicine a quelle realmente possedute da questi ultimi, le loro concezioni sulla forma della Terra sono state generalmente sottostimate. Inoltre, gli insegnanti esaminati tendono ad attribuire erroneamente agli alunni alcune misconcezioni relative al percorso osservabile del Sole. Gli stessi autori hanno sottolineato come l’efficacia di un percorso didattico sia legato anche alla consapevolezza, da parte dei docenti, delle conoscenze iniziali degli alunni, di come esse evolvano e quali possano essere gli ostacoli alla costruzione della conoscenza scientifica, al fine di calibrare tale percorso alle cognizioni effettivamente possedute dagli alunni, e promuovere in essi una comprensione profonda dei fenomeni indagati. Analogamente, Sadler (et al., 2010) in un recente studio condotto su un campione di 7599 studenti e 88 insegnanti dalla scuola primaria a quella secondaria superiore, mostra che la competenza disciplinare degli insegnanti non può essere interpretata come la sola causa dello scarso rendimento degli alunni. Gli stessi autori ipotizzano che gli insegnanti sovrastimerebbero le concezioni inizialmente possedute dagli alunni o la loro abilità ad apprendere un concetto in quanto sarebbero poco consapevoli delle misconcezioni più diffuse tra gli alunni e di come esse siano radicate nella loro mente.

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Cinzia Ronchi

Conclusioni Dalla ricerca in campo psicologico sulla formazione dei concetti emerge che il bambino precocemente si costruisce alcune robuste concezioni che utilizza efficacemente per dare un senso ai fenomeni che osserva (cfr.Vosniadou & Brewer, 1992; 1994) e che parallelamente assimila dei frammenti di informazione scientifica veicolati dalla cultura (cfr. Nobes et al., 2003; Straatemeier et al., 1998). Molte delle concezioni intuitive che si è inizialmente costruito non vengono, per così dire, ‘spazzate via’ dall’apprendimento scientifico, ma continuano a permanere e a essere utilizzate dall’individuo nella vita quotidiana (cfr. Caravita e Hàllden, 1994; Lanciano, 1996). Da tale quadro possono essere tratti numerosi spunti di riflessione utili alla crescita professionale dell’insegnante e al miglioramento della didattica (non solo) in campo scientifico. La consapevolezza del fatto che le idee intuitive dei bambini possano a volte porsi in contrasto con la conoscenza accreditata e pertanto strutturarsi come degli ostacoli all’apprendimento (Giordan, 1978), può suggerire all’insegnante la realizzazione di percorsi che consentano agli alunni di attivare le proprie conoscenze e metterle alla prova in contesti in cui siano inizialmente a contatto con l’oggetto di studio e solo in un secondo momento con la conoscenza mediata dai testi. Come si è visto, sono principalmente i percorsi basati sull’osservazione del cielo, la discussione, il riferimento alle antiche teorie scientifiche a determinare nei bambini la disponibilità a rivedere le proprie idee e a modificarle (Lanciano, 1996; Sneider & Ohadi, 1998; Sharp, 2003; Ronchi, Perucchini & Musa, 2007; Ronchi, 2008). La resistenza al cambiamento che caratterizza alcune concezioni, specialmente in campo astronomico, può provocare la loro persistenza anche in età adulta: dagli studi sulle concezioni degli insegnanti è infatti emersa la presenza di misconcezioni circa la Terra, il ciclo dìnotte, le stagioni e le fasi lunari, anche tra i docenti di scuola primaria, ai quali tra l’altro è affidato il compito di promuovere la formazione degli alunni in campo scientifico. Spesso gli insegnanti non sono consapevoli di possedere delle misconcezioni (Berg & Brewer, 1991; Shoon, 1995), e proprio per tale ragione possono trasmetterle ai bambini, i quali le classificheranno come conoscenza vera e incontrovertibile in quanto la fonte da cui proviene, la maestra, è da essi giudicata attendibile (Harris & Koenig, 2006). Un altro spunto di riflessione riguarda le aspettative che gli insegnanti hanno sulle conoscenze degli alunni: nonostante sia opinione condivisa che il bambino arrivi a scuola con un proprio bagaglio di conoscenze e di esperienze, le idee che gli insegnanti hanno circa tali conoscenze risultano più o meno distanti da quelle realmente possedute dagli alunni (Lightman & Sadler, 1993; Perucchini & Ronchi, 2008). La rilevanza dei temi legati alla formazione dei concetti nel bambino e al loro cambiamento legato all’età e all’istruzione nel bagaglio culturale e professionale dell’insegnante suggerisce una maggiore attenzione da parte delle università alla preparazione dei futuri insegnanti oltre che in ambito scientifico, anche in ambito psicologico e didattico, affinché essi possano individuare le strategie didattiche più efficaci a rimuovere gli ostacoli all’acquisizione delle conoscenze in campo scientifico.

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Informazioni “La ricerca nelle scuole di dottorato in Italia. Dottorandi, Dottori e Docenti a confronto”: il settimo seminario SIRD “The research at Doctoral Schools in Italy. Comparing Doctoral candidates, Ph.D.s and Teachers”: the seventh edition of SIRD conference GIOVANNI MORETTI L’articolo presenta la settima edizione del Seminario SIRD (Società Italiana di Ricerca Didattica), dal titolo “La ricerca nelle scuole di dottorato in Italia: Dottorandi, Dottori e Docenti a confronto”, svolta a Roma nel giugno 2013. Dell’iniziativa sono messi in evidenza alcuni degli aspetti più rilevanti emersi, in particolare: la presentazione di quindici progetti di ricerca da parte di dottorandi del secondo anno seguita da uno spazio di discussione; la novità della presentazione di poster da parte di tredici dottori di ricerca e le riflessioni critiche sul futuro del dottorato emerse dalla tavola rotonda su “I nuovi Corsi di Dottorato: quali soluzioni organizzative per i pedagogisti e per la ricerca educativa?”.

The purpose of this article is to present the seventh edition of SIRD (Italian Society for Educational Research) conference, entitled “The research at Doctoral Schools in Italy: Comparing Doctoral candidates, Ph.D.s and Teachers”, held in Rome in June 2013. The contribution highlight some of the most important aspects raised during the event: the presentation of fifteen research program s by second year Ph.D. students which was followed by an open debate; the innovative presentation of posters by thirteen Ph.D.s; critical reflections on the future of Ph.D. arisen from the roundtable on the topic “New Doctoral Programs: what organizational solutions for educators and the educational research?”

Parole chiave: dottorato, discussione pubblica, ricerca educativa, formazione alla ricerca, risorse per la ricerca

Key words: Ph.D., public discussion, educational research, research training, resources for research

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2038-9736 (in press) / ISSN 2038-9744 (on line) Giornale Italiano della Ricerca Educativa • anno VI – n. 11 – dicembre 2013

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“La ricerca nelle scuole di dottorato in Italia. Dottorandi, Dottori e Docenti a confronto”: il settimo seminario SIRD

1. Bilancio positivo di un appuntamento atteso Il bilancio della settima edizione del seminario SIRD “La ricerca nelle scuole di dottorato in Italia: Dottorandi, Dottori e Docenti a confronto” è stato ancora una volta positivo. L’ultimo appuntamento, atteso da un pubblico sempre più ampio di giovani dottorandi, si è svolto a Roma nei giorni 27-28 giugno 2013. La formula già consolidata del seminario, che prevedeva la presentazione dei lavori di ricerca da parte dei dottorandi iscritti al secondo anno, è stata ulteriormente arricchita con l’invito rivolto ai dottori di ricerca, già coinvolti nel quinto e nel sesto seminario SIRD e che hanno portato a termine il loro lavoro di tesi, di predisporre un poster. Il seminario è stato introdotto dagli interventi di Gaetano Domenici, Direttore del Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università Roma Tre e Luciano Galliani (Università di Padova) Presidente della SIRD. Con il coordinamento di Giovanni Moretti (Università Roma Tre) e Alessandra La Marca (Università di Palermo) quindici dottorandi del secondo anno che hanno visto accolta la loro richiesta di partecipazione, si sono alternati presentando la loro attività di ricerca nel tempo prestabilito di venti minuti. Come di consueto, terminata ciascuna presentazione, è stato lasciato uno spazio aperto al confronto durante il quale è stata registrata la partecipazione attiva di una quindicina di docenti esperti e di oltre sessanta giovani ricercatori e dottorandi molti dei quali iscritti al primo anno di corso. I presentatori nel rispondere alle domande, riferite a vari aspetti del loro lavoro, sia di tipo teorico, che procedurale o metodologico, hanno avuto modo di riflettere ulteriormente e criticamente sulle attività di ricerca ancora in corso. Essi, inoltre, da una parte hanno potuto raccogliere suggerimenti, stimoli e anche informazioni specifiche indubbiamente utili allo sviluppo della propria ricerca; dall’altra hanno potuto ampliare la rete delle proprie conoscenze incontrando direttamente studiosi e dottorandi impegnati su tematiche di ricerca affini e avviando un dialogo con loro. Il seminario 2013, dunque, conferma l’attenzione della SIRD alla formazione dottorale nei settori scientifici PED/03 (Didattica) e PED/04 (Pedagogia sperimentale). Ricordiamo che la SIRD, ponendosi l’obiettivo di mettere a confronto i dottorandi delle diverse Scuole dottorali italiane, ha avviato un primo seminario nel 2005, a Veroli, e lo ha riproposto con cadenza biennale, con qualche modifica nel 2007 e nel 2009 a Roma e nel 2010 a Linguaglossa (Catania). Successivamente il seminario è stato organizzato con cadenza annuale (Roma, 2011 e 2012), per rispondere più efficacemente alle esigenze di confronto e di messa in rete delle molteplici esperienze di ricerca emerse progressivamente nel corso delle varie edizioni. Oggi il seminario è divenuto per la comunità scientifica un appuntamento atteso e fortemente partecipato grazie anche al coerente e sistematico percorso svolto.

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Giovanni Moretti

2. La novità: la presentazione dei poster Nella settima edizione del Seminario il Direttivo SIRD ha ritenuto opportuno prevedere la presentazione di poster che potessero descrivere e illustrare in sintesi alcuni lavori di tesi già conclusi e i relativi risultati. A tal fine sono stati invitati i trenta dottori di ricerca che hanno presentato la tesi nel corso dei lavori del quinto e del sesto Seminario. Hanno risposto positivamente all’invito tredici persone, inviando un abstract di massimo 2000 battute entro la data del 24 maggio 2013. La tabella n. 1 evidenzia l’ampio numero delle sedi di provenienza dei dottorandi (nove sia nell’anno 2011 sia nel 2012), che diminuisce di poco nel 2013, anno in cui i dottori che presentano i poster provengono da otto sedi. Le Università che confermano con continuità la partecipazione di dottorandi e dottori di ricerca nei tre appuntamenti indicati in tabella sono cinque: Padova, Roma Tre, Roma “La Sapienza”, Modena e Reggio Emilia, Bologna. Università

V° Seminario 2011 Presentazione paper dottorandi

VI° Seminario 2012 Presentazione paper dottorandi

VII ° Seminario 2013 Presentazione poster dottori

Università di Padova

4

3

4

Università Roma Tre

3

2

1

Università Roma “La Sapienza”

1

2

2

Università di Modena e Reggio Emilia

2

1

1

Università di Bologna

1

1

-

Università di BolognaUniversità Roma “La Sapienza”

1

-

1

Università del Salento

1

1

-

Università di PalermoUniversità di Messina

1

-

-

Università di Macerata

-

2

-

Università di Bergamo

-

2

2

Università di Palermo

-

1

1

Università di Bari

1

-

1

Totale

15

15

13

Tab. 1: Università di provenienza dei dottorandi e dei dottori di ricerca (v.a.)

Il Consiglio SIRD in merito alla modalità di predisposizione del poster, nel promuovere le candidature aveva precisato:“L’organizzazione dei contenuti del poster (testi, grafici, tabelle, immagini, ecc.) potrà far riferimento alle seguenti sezioni: introduzione, materiali e metodi, risultati, discussione, conclusioni”. L’articolazione del poster, proposta con finalità orientative, ma volutamente ritenuta non vincolante, per favorire la creatività e l’originalità delle presentazioni, di fatto è stata presa a riferimento dalla maggior parte dei giovani presentatori, che tuttavia hanno introdotto spesso alcune interessanti soluzioni grafiche e argomentative che ne hanno personalizzato e ulteriormente specificato la presentazione. I poster sono stati resi disponibili al pubblico per l’intera durata del Seminario, ma il 27 giugno poco prima delle ore 17.00, per motivi logistici e organizzativi, sono state anticipate le sessioni parallele di presentazione dei poster con una sintetica presentazione pubblica di

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circa cinque minuti ciascuno. Questa soluzione, come si vedrà, è stata apprezzata dal pubblico presente, meno da alcuni dei presentatori dei poster. A questi ultimi, infatti, è stata inviata per posta elettronica la richiesta di collaborare esprimendo alcune brevi considerazioni sull’esperienza della presentazione dei poster mettendo in evidenza punti di forza ed eventuali elementi di criticità. Alla richiesta hanno risposto sei partecipanti (che indicheremo con le lettere A, B, C, D, E, F). Tra gli elementi di forza, a parere dei rispondenti, si conferma la valutazione positiva circa l’opportunità offerta dal Seminario di confrontarsi liberamente e in modo costruttivo sia con i dottorandi sia con i docenti: «Ho trovato l’occasione della sessione poster, organizzata quest’anno all’interno del VII° seminario SIRD, un’occasione interessante e produttiva. Ha dato modo sia a noi dottorandi del terzo anno, sia ai dottori di ricerca che avevano appena terminato il proprio percorso, di confrontarsi con i dubbi e gli interessi dei dottorandi dei primi due anni. É stata un’esperienza utile anche per l’interesse e la curiosità critica mostrata dai docenti presenti al seminario, che hanno saputo dare suggerimenti costruttivi e positivi rinforzi» (A). «La discussione con i docenti, avvenuta in un clima positivo e costruttivo, mi ha dato l’opportunità di cogliere alcuni elementi da approfondire, ma soprattutto sono arrivati dai docenti consigli utili alla prosecuzione della ricerca, in particolare per quanto riguarda la bibliografia e la coerenza tra l’intervento e la possibilità di verifica delle ipotesi. Importante, infine, la presentazione del Poster durante il mio terzo anno di Dottorato (settimo Seminario, 2013): il confronto con altre ricerche già concluse o in via di ultimazione, mi ha dato l’opportunità di cogliere possibili sviluppi nell’elaborazione dei risultati della mia ricerca» (E). «ho avuto modo di partecipare ai tre ultimi Seminari di confronto tra Docenti e Dottorandi, organizzati annualmente dalla SIRD. Durante il mio primo anno di Dottorato (quinto Seminario, Roma 2011) ho potuto seguire le presentazioni delle ricerche da parte delle colleghe/dei colleghi del secondo anno e le discussioni con i docenti che ne sono seguite, traendone un notevole aiuto nell’indirizzare la mia ricerca, a quel tempo ancora nella fase progettuale» (E).

È stata particolarmente apprezzata dai dottori e dottorandi di ricerca la possibilità di stabilire sia un confronto con altri giovani ricercatori che contatti diretti con persone interessate a tematiche affini: «La sessione Poster ritengo sia stata molto interessante, in quanto ha permesso sia di conoscere in modo approfondito le esperienze di ricerca trattate da altri colleghi dottorandi e/o dottori sia di intrecciare relazioni con chi tratta temi affini, facilitando gli scambi, le domande» (D).

Nel complesso l’impegno richiesto dalla stesura del poster è stato interpretato come uno stimolo per riflettere ulteriormente sulla ricerca svolta. L’esperienza ha rappresentato il completamento positivo di un percorso di accompagnamento critico risultato assai stimolante per il lavoro generale di ricerca. «Sin dalla mia prima presenza ai seminari SIRD (la prima quando ero dottoranda da appena un mese nel febbraio 2010!) ho sempre potuto raccogliere spunti utili dal punto

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Giovanni Moretti

di vista professionale e umano. La partecipazione al secondo seminario da dottoranda del secondo anno è stata molto importante per “re-indirizzare” la mia ricerca, che ha preso una svolta diversa anche grazie ai suggerimenti che mi sono stati dati in quella sede. Presentare la ricerca in quanto dottore di ricerca credo sia importante per creare un “filo” tra chi fa ricerca in campo pedagogico e per dare una continuità al proprio lavoro» (C). «Relativamente all’esperienza della presentazione del poster al seminario SIRD, posso dire che il mio giudizio è ampiamente positivo. Ritengo tale esperienza utile innanzitutto per chi prepara i poster, che in questo modo è chiamato a fare grande e preziosa sintesi del proprio lavoro in prossimità della discussione. È stato inoltre interessante osservare i diversi modelli adottati per la realizzazione, utile soprattutto ai fini di prossimi lavori analoghi. Penso sia stato tuttavia un prezioso stimolo per chi ancora deve terminare il percorso, per poter guardare avanti e trarre qualche spunto per la propria ricerca» (B). «Credo che l’esperienza del poster, dopo la presentazione dello scorso anno, sia stata sicuramente molto interessante. È stata un’occasione per vedere lo stato di avanzamento dei lavori dei nostri progetti che lo scorso anno erano all’inizio e, grazie anche ai vostri suggerimenti, sono cambiati» (F).

Tra le criticità segnalate è indicata l’anticipazione della presentazione “informale” del poster con una sua introduzione rivolta a tutto il pubblico: ciò costringe gli interessati ad adottare una modalità comunicativa ritenuta da alcuni troppo formale rispetto a un tipo di esperienza nella quale si preferiscono il confronto e lo scambio interattivo. Riportiamo qui di seguito alcune testimonianze: «Forse come punto di debolezza, rispetto al programma previsto, l’orario e la stanchezza della giornata hanno abbassato il livello di partecipazione da parte dei presenti; purtroppo si sono fermate meno persone di quante non fossero presenti alla presentazione dei paper. Comunque sia, ringrazio nuovamente per l’occasione offerta e sostengo positivamente la continuità di questa esperienza. Grazie nuovamente per la possibilità e l’organizzazione» (A). «Interessante anche il dialogo di fronte ai poster, anche se al termine della giornata molti dei partecipanti erano già andati via. Forse sarebbe stato meglio dedicare un tempo differente. Un po’ troppo improvvisata forse la presentazione nei 5 minuti in pubblico... ma forse meglio così!» (B). «Specificherei fin dall’inizio se il poster è redatto da un dottore di ricerca o da un dottorando al terzo anno, perché ovviamente lo stato di ricerca è diverso. Quest’anno questa differenziazione è stata espressa solo a voce dai singoli dottorandi. Per quanto riguarda la presentazione generale dei poster, richiesta senza avvisare per tempo i dottorandi/dottori, mostro qualche dubbio, mi sembra abbia tolto spazio, perché improvvisare cinque minuti di presentazione richiede tempo, non tutti i dottorandi/dottori sono riusciti a stare nei tempi. Inoltre valuto lo stile dei poster più informale, colloquiale, mentre la presentazione richiede uno stile diverso più formale» (D). «L’unica nota forse critica, può essere legata alla scelta di introdurre “la presentazione del poster”. Se la modalità deve essere quella della spiegazione, allora forse sono meglio

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le slides, si rischia forse di “ingessare un po’ la situazione”. Lasciare invece più tempo per muoversi, fermarsi davanti ai poster che interessano di più, secondo me può favorire lo scambio e il confronto. Ribadisco che è un’esperienza che mi piacerebbe ripetere» (F).

Non sono mancate alcune proposte di miglioramento, sia riguardo l’organizzazione di ulteriori eventi seminariali, sia in merito ai modi possibili per favorire la partecipazione degli iscritti al primo anno di corso delle Scuole dottorali ai lavori del Seminario. «Come suggerimento, credo che potrebbe essere importante istituire degli “spazi di confronto”, magari all’interno del seminario, tra chi si occupa di temi simili, in modo da poter arricchire lo scambio e la discussione e magari far nascere qualche feconda collaborazione anche tra professori e dottorandi/dottori di ricerca di città diverse. In questo modo potrebbe essere più semplice condividere i propri risultati e ampliare cooperativamente gli scambi di bibliografia, materiali, punti di vista, anche in vista della partecipazione a convegni internazionali o alla scrittura di paper o alla presentazione di progetti. Nel complesso ritengo comunque che l’idea di aprire il seminario SIRD ai dottori di ricerca sia stata un’idea molto valida e decisamente positiva» (C). «Credo importante consigliare a tutti i dottorandi del primo anno la partecipazione a tali occasioni di confronto, in particolare per selezionare i percorsi di indirizzo e individuare linee progettuali della ricerca fondate su presupposti chiari e rigorosi » (E).

2. Riflessioni sul futuro delle scuole dottorali Venerdì 28 giugno 2013, dalle ore 14.30 alle ore 16.30, si è svolta la tavola rotonda “I nuovi Corsi di Dottorato: quali soluzioni organizzative per i pedagogisti e per la ricerca educativa?”. Ha introdotto e coordinato i lavori Luciano Galliani (Università di Padova), sono intervenuti Carmela Covato (Università Roma Tre), Luigi Guerra (Università di Bologna), Umberto Margiotta, (Università Ca’ Foscari di Venezia) e Renata Viganò (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano). Luciano Galliani dopo avere motivato ed esplicitato le scelte relative al titolo della tavola rotonda e dei relatori, individuati tra quelli ritenuti rappresentanti autorevoli di Scuole dottorali di importanti realtà locali, ricorda ai presenti che il settimo Seminario SIRD si svolge in un momento in cui l’Università tutta vive un passaggio colmo di difficoltà, dovuto soprattutto al processo di completa ristrutturazione dei Dipartimenti e alla contestuale scomparsa delle Facoltà. Tale trasformazione ha determinato per le aree pedagogiche, in molte sedi universitarie, tranne poche eccezioni, la necessità di entrare a far parte di nuovi Dipartimenti assai differenti rispetto a quelli precedenti. I modi in cui le varie sedi universitarie hanno strutturato i Dipartimenti indubbiamente condizioneranno nei tempi brevi ma soprattutto in prospettiva i modi in cui saranno configurate le scuole di dottorato. La nuova situazione che si è venuta a determinare ha, infatti, penalizzato in particolare i dottorati di ricerca specifici, perché a causa della mancanza di risorse non hanno potuto reggersi da soli. Delle differenti situazioni presenti nel panorama italiano, Galliani ricorda quella di Padova, in cui prima c’era la Facoltà autonoma, con un Dipartimento autonomo e un proprio Dottorato autonomo; per contro oggi ci si trova in una struttura assai diversa insieme a psicologi e sociologi ed esperti di altre discipline, che tuttavia, in qualche modo possono conservare le loro tradizioni e le scuole dottorali di riferimento. Galliani presenta come possibile alternativa alla nuova situazione la possibilità di avvalersi di convenzioni e soprattutto di consorzi

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tra Atenei, strumenti ritenuti indispensabili per mettere in rete, attorno ad un comune progetto di formazione alla ricerca, più sedi appartenenti a territori diversi, per fronteggiare la carenza di finanziamenti e l’ostacolo dato dal numero delle borse richieste senza lasciare flessibilità nelle decisioni da assumere. Il riferimento al Rettore dell’Università di Foggia, Giuliano Volpe, autore della lettera aperta “Non sparate sui dottorati”, è funzionale all’idea di rilanciare la proposta di modifica del Decreto Ministeriale 8 febbraio 2013 n. 94. Il nuovo Regolamento recante modalità di accreditamento delle sedi e dei corsi di dottorato, infatti, crea non poche difficoltà soprattutto alle scienze umanistiche, alle scienze dell’uomo e sociali. Il rischio che si corre in questi ambiti è quello che s’interrompa bruscamente una gloriosa tradizione, perché le università non sono più in grado di tenere in piedi dottorati di ambiti specifici, per carenza di finanziamenti e di risorse. Che fare dunque? In che modo le diverse sedi ritengono di agire? Si possono fare consorzi o convenzioni tra atenei? È possibile evitare, soprattutto nei piccoli atenei, che si inventino dottorati interdisciplinari che rappresentano soluzioni di comodo, ma che rischiano di avere scarse prospettive future? Luigi Guerra (Università di Bologna), nel suo intervento sottolinea che il dottorato in Italia è una realtà molto articolata e complessa, e che ogni azione di trasformazione del sistema universitario deve tenere nella giusta considerazione il riconoscimento del lavoro svolto con abnegazione da molti docenti. Per rispondere alle sollecitazioni di Galliani, tenendo conto della realtà di Bologna, esprime il suo pensiero critico in merito al consorzio, e dichiara di preferire lo strumento della convenzione, perché può concorrere più efficacemente a definire un sistema più trasparente e visibile in grado di superare definitivamente il rischio della autoreferenzialità. È infatti il confronto tra punti di vista diversi che permette di fare “massa critica”, presupposto indispensabile per sviluppare rapporti più solidi con la comunità scientifica internazionale, superando la consuetudine dei rapporti individuali tra singoli colleghi che fraternizzano tra loro. La convenzione, rispetto al consorzio, può garantire maggiormente l’identità e quindi anche la sopravvivenza delle singole sedi che decidono di condividere un progetto di formazione alla ricerca e di collaborare tra loro. Il nuovo Regolamento di dottorato approvato dall’ Università di Bologna, all’art. 5, fa riferimento alla convenzione con Enti o Atenei, da stipulare prima della uscita del bando di dottorato, per una durata di cinque anni, previa condivisione effettiva della progettazione delle attività formative con tutti i partner della rete. La proposta è di “partire lenti”, di procedere gradualmente e di conquistarsi in itinere la gestione nelle diverse sedi, individuando per ciascuna la sua quota parte articolandola in più eventi congiunti (lezioni, seminari, summer school, ecc.). Sul piano strategico, inoltre, si ritiene opportuno cercare di caratterizzare progressivamente i diversi poli o sedi di dottorato, tra loro convenzionate, nell’ambito del complessivo progetto di dottorato. Alla fine del percorso formativo le università convenzionate, il cui numero non può essere superiore a quattro, possono rilasciare un titolo congiunto. Per quanto riguarda la realtà accademica di Bologna, nel passaggio dalla Facoltà al Dipartimento, è rimasta unita, ma poiché le anime sono interdisciplinari, sociologi, psicologi, storici, antropologi, occorre attivare qualche indirizzo particolare che “sposi” le discipline pedagogiche con le altre discipline anche per dare ad esse la possibilità di trovare nel dottorato alcune caratterizzazioni in cui riconoscersi. Carmela Covato (Università Roma Tre) invitata dalla SIRD in una precedente occasione per il suo ruolo di coordinatrice della Scuola dottorale istituita nel 2007, dichiara che la Scuola che ha coordinato cesserà di esistere benché sia nata sull’onda di un recente progetto innovativo e di una necessità premiale che ha spinto l’università ad abbandonare i tradizionali dottorati au-

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tonomi per fare raggruppamenti disciplinari e realizzare un’offerta formativa più articolata e coesa. Come spesso accade in Italia mentre le esperienze sono ancora in fase di sperimentazione e di sedimentazione, improvvisamente, la normativa impone di cambiare tutto. Nel merito del Decreto sul dottorato si rammenta che è stato oggetto di rilievi critici da parte del CUN e di molte Società scientifiche, anche perché ha previsto aspetti di difficile realizzazione e scadenze immediate. Il dibattito sul Decreto si è soffermato in particolare su due dimensioni: a) l’accreditamento, e b) la contrazione dell’offerta dottorale. La contrazione risponde a esigenze di risparmio, ma può imporre l’aggregazione di ambiti disciplinari che talvolta non è possibile realizzare. L’offerta si può articolare in tre tipologie: il dottorato di ateneo, il dottorato in convenzione e quello consortile; per tutte e tre le tipologie si auspica una integrazione dell’offerta formativa prima effettuata all’interno dei diversi percorsi dottorali o delle singole Scuole di dottorato. La figura di “dottorando” che emerge dal Decreto non è chiara, e può apparire come una sorta di “superstudente universitario” piuttosto che giovane ricercatore inserito in un percorso formativo che favorisce l’inserimento dei giovani nelle alte formazioni. Presso l’Università Roma Tre circa un terzo dei dottori di ricerca riesce ad inserirsi nelle Università o negli Enti che richiedono alta qualificazione. Questo dato dimostra che il dottorato rischia di essere un investimento a perdere se non è accompagnato da una rete integrata con il territorio locale e con gli ambienti internazionali. È necessario, inoltre, un discorso complessivo sull’alta istruzione, sul dottorato, e sul diritto allo studio perché questo ha indubbiamente una qualche ripercussione sul dottorato di ricerca. Infatti, è opportuno domandarsi, nel momento in cui ci sono meno borse disponibili, chi fa il dottorato? Quali opportunità sono date a coloro che non possono permettersi di seguire i corsi di dottorato? Quali politiche di uguaglianza siamo in grado di mettere in campo? L’Università Roma Tre ha approvato il Regolamento sul dottorato e bandisce entro luglio le nuove proposte di dottorato, il cui soggetto proponente è il Dipartimento di Scienze della Formazione. Il numero complessivo delle proposte comporta una riduzione numerica dei dottorati, condizione posta dall’Ateneo per garantire le modalità di funzionamento dello scorso anno. Come gli altri anni un dottorato che finanzia una borsa ne avrà cinque; le proposte sono orientate ad attivare dottorati autonomi interni all’Ateneo, o in convenzione, mentre sono assenti proposte di dottorato consortile perché probabilmente è considerata come tipologia più complessa. Nell’area delle Scienze dell’educazione ci sono due proposte, una legata al tema della innovazione in convenzione con l’Università di Foggia, l’altra è la Scuola dottorale in “Teoria e ricerca educativa e sociale”, che acquisisce le competenze della precedente Scuola dottorale in “Pedagogia e Servizio Sociale” e mantiene l’articolazione interna in due curricola. Umberto Margiotta (Università Ca’ Foscari di Venezia) approfondisce l’attuale fase di transizione dal punto di vista del Triveneto, area in cui da tempo si riflette sulla possibilità di associare le Università in un’unica Scuola dottorale del Nord-Est nelle Scienze dell’educazione e della formazione. Tale obiettivo è stato messo in discussione da alcuni “eventi traumatici” come la scomparsa della Facoltà di Scienze della Formazione di Trieste e la nascita a Padova del Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia applicata (FISPPA), per cui in accordo con le altre sedi (Udine, Trento e Bolzano) è stato deciso di muoversi in modo flessibile, tenendo conto di alcuni temi quali: a) dottorato in forma di consorzio o in convenzione; b) sviluppo della internazionalizzazione; c) placement. Margiotta prosegue il suo intervento affrontando i tre temi sopra citati nel contesto del Nord-Est, dove non è stata abbandonata l’idea di costituire una scuola di dottorato unica, su base convenzionale, con le Università di Bolzano, Udine,Trento ed eventualmente Padova. Coerentemente con l’obiettivo di fare rete si organizzano a Bressanone incontri dei dottorandi per riflettere su programmi di ricerca e sulle prospettive di internazionalizzazione. L’Università Ca’ Foscari per

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l’anno prossimo sarà ancora nella propria sede, in collaborazione con altri settori disciplinari, tuttavia si vorrebbe essere pronti almeno per il 2015 per procedere all’accreditamento di una scuola in cui ogni sede, come ha anticipato Luigi Guerra, possa avere dei curricoli e delle caratterizzazioni specifiche. Se ogni sede riesce a mettere a disposizione tre borse e può avere un’articolazione d’indirizzi si potrebbe creare una “massa critica” assai interessante. Margiotta in accordo con Carmela Covato sottolinea l’importanza di assumere un approccio di sistema, per aree territoriali vaste, indispensabile per “fare massa critica” nella consapevolezza che è l’unione a poter rilanciare la ricerca educativa del Nord-Est e non la divisione. Sarebbe opportuno fare investimenti continui per poli fruttiferi senza disperdere risorse, identificando sul piano nazionale le due o tre grandi scuole di dottorato in grado di porsi come punto di riferimento. L’internazionalizzazione è faticosa e non consiste nel numero di scambi che i dottorati realizzano con le Università straniere, ma si concretizza nella contaminazione progressiva delle linee di ricerche tra sedi in Italia e in abito internazionale; nell’incremento delle opportunità di lavoro presso le sedi straniere; nella possibilità di favorire la conoscenza dei prodotti di ricerca, attraverso la traduzione con pubblicazione di contributi su riviste indicizzate e collegate a banche dati. Inoltre i dottori di ricerca dovrebbero ampliare la propria “sensibilità pedagogica” potendo partecipare, anche con una remunerazione, ai progetti europei che i docenti riescono a vincere. Il titolo di dottore di ricerca dovrebbe essere un elemento qualificante l’occupabilità nella società della conoscenza. Per questo è fondamentale attivare rapporti con Enti locali, Confindustria e Imprese, esplicitando da parte nostra il valore aggiunto che un dottore di ricerca può portare nell’impresa, negli uffici o negli organismi europei internazionali. È opportuno organizzare negli atenei uffici per il job placement o career center con il compito di guidare i dottori di ricerca verso aree di occupabilità coerenti con la formazione ricevuta. Margiotta conclude il suo intervento concordando con la necessità di una profonda e urgente revisione del Decreto Profumo nella prospettiva della liberalizzazione, senza porre i vincoli sul numero delle borse di studio, e della promozione di processi di aggregazione tra sedi per qualificare la ricerca pedagogica italiana. Renata Viganò afferma di concordare con molte delle considerazioni esposte dai colleghi che l’hanno preceduta e segnala la rilevanza che assumono le condizioni di contesto, criterio di riferimento principale per valutare la qualità delle decisioni prese da ciascuna sede. Riguardo all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, esplicita che mentre per il prossimo ciclo dottorale tutto potrebbe cambiare, nell’immediato è stato deciso di evitare inutili innovazioni, di fare quanto necessario, adattando con poche modifiche il sistema esistente. Per quanto riguarda la ristrutturazione in ambito istituzionale la questione è più complessa rispetto alle altre sedi perché in Cattolica non è stato fatto il passaggio ai Dipartimenti, ma si è deciso di mantenere le strutture precedenti. Alle Facoltà, dunque, sono ancora assegnate le borse di dottorato e le stesse decidono come attribuirle ai diversi dottorati. Presso l’Università Cattolica il dottorato ha una storia specifica: per una serie di vincoli non è stato possibile attivare dei consorzi, ma è stato possibile mantenere distinti alcuni indirizzi e confermare la Scuola di dottorato come responsabile delle attività di coordinamento. Dalla tavola rotonda e anche da alcuni degli interventi effettuati dal pubblico, emerge un quadro complessivo assai articolato, che vede le università operare su più fronti: da una parte si auspica la modifica della normativa; dall’altra si è impegnati a dare risposte immediate ad alcune scadenze ritenute troppo rigide evitando di impegnarsi in forme organizzative al momento ritenute troppo vincolanti; dall’altra ancora, sulla base di quanto stabilito nei singoli Rego-

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lamenti di Ateneo, si cerca di capire il modo più efficace per costituire reti, per mobilitare risorse e utilizzare strumenti (la convenzione piuttosto che il consorzio) al fine di configurare solide Scuole dottorali nelle quali impegnarsi e investire con un respiro progettuale di lungo periodo. Un altro elemento emerso dalla tavola rotonda è la necessità di continuare a investire sul dottorato, soprattutto in una fase come quella attuale in cui la crisi che investe anche altri ambiti come le Amministrazioni locali, il mondo dell’impresa e le Fondazioni bancarie mette evidentemente in difficoltà le aree umanistiche e quelle pedagogiche in particolare. Se a tutto ciò si aggiunge la difficoltà aggiuntiva dovuta agli scarsi finanziamenti europei destinati alle scienze umane e sociali appare ancora più stringente la necessità di valorizzare maggiormente il ruolo strategico delle Scuole dottorali e investire in esse per fare “massa critica” e innalzare la qualità complessiva della ricerca. Dottorandi

Università

Titolo

Immacolata Brunetti

Università di Bari

I valori personali e professionali degli insegnanti.

Cristina Cavalli Bertolucci

Università di Padova

Alessandro Ciasullo Alessia Cinotti

Università Suor Orsola Benincasa - Napoli Università di Bologna

L’importanza della modellizzazione nello sviluppo delle competenze matematiche nella scuola superiore di secondo grado Moving Sonic Forms.

Eleonora Concina

Università di Padova

Luca De Giorgi

Università del Salento

Silvia Del Longo

Università di Padova

Pio Alfredo Di Tore

Università di Salerno

Andrea Fiorucci

Università del Salento

Francesca Gasparini

Università di Bergamo

Mario Giampaolo

Università di Padova

Ivonne González San Martín

Università Roma “La Sapienza”

Susanna Massa

Università Roma Tre

Émiliane Rubat du Mérac

Università Roma Tre

Contesti educativi e modelli valoriali di leadership degli adolescenti.

Università Roma “La Sapienza”

Le caratteristiche della domanda di lavoro dipendente e parasubordinato dei laureati Sapienza: uno strumento di monitoraggio.

Eleonora Renda

La figura del padre nelle famiglie con figli/e disabili. L'insegnamento efficace nella didattica della musica strumentale e vocale. Stimolare processi creativi attraverso laboratori musico-narrativi nella scuola dell’infanzia e primaria. Strategie e strumenti di scrittura per l’argomentazione: ipotesi di intervento nella scuola secondaria di II grado. Misurare l’empatia nel processo di apprendimentoinsegnamento: un approccio fenomenologico. Quando l’intolleranza siede in cattedra… Atteggiamenti culturali nei confronti delle persone disabili e omosessuali. Uno studio di caso. L’educazione familiare nei servizi per la prima infanzia. Uno studio delle conoscenze tacite delle educatrici nello sviluppo dell’empowerment genitoriale. La personalizzazione dei processi di apprendimento in contesto universitario. Identificazione precoce delle difficoltà in matematica. Il ruolo della competenza matematica e la memoria di lavoro visuo-spaziale. Lo sviluppo del pensiero critico nella scuola primaria. Il ruolo delle credenze degli insegnanti.

Tab. 2: Presentazione delle tesi di Dottorato

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Giovanni Moretti

Dottori

Università

Titolo

Carlotta Caterina Borghi

Università Roma “La Sapienza”

Analisi di produzioni scritte. Valutazioni e misure automatizzate di elaborati scolastici.

Marialuisa Damini

Università di Padova

Nunzia Schiavone

Università di Bari

Sviluppare sensibilità interculturale attraverso il cooperative learning: un percorso di ricerca-azione nelle scuole secondarie di secondo grado. La documentazione didattica. Una ricerca per la valorizzazione e la tutela del patrimonio scolastico.

Anna Serbati

Università di Padova

Riconoscimento e certificazione delle competenze tra apprendimento formale, non formale, informale.

Liliana Silva

Università di BolognaUniversità Roma “La Sapienza” Università di Padova

La misura dell’efficacia scolastica per mezzo del valore aggiunto: un’indagine empirica nella scuola secondaria di primo grado. La percezione di competenza degli insegnanti nell’azione didattica per le abilità di studio.

Daniela Marcucci

Università Roma “La Sapienza”

L’integrazione linguistica degli immigrati. Il ruolo dei Centri territoriali Permanenti e dei loro docenti.

Valentina Martini

Università di Modena e Reggio Emilia

Amalia Rizzo

Università Roma Tre

Vincenza Rocco

Università di Bergamo

Nuovi strumenti per la valutazione delle dimensioni creativa e valoriale del pensiero complesso all'interno del curricolo della Philosophy for Children: uno studio di caso. Forme di sostegno nella dimensione inclusiva: il ruolo dell’insegnante per le attività di sostegno alla classe nella scuola secondaria di I grado. Costruire la capacità di valutare i progetti educativi sul verde.

Rossana Sicurello

Università di Palermo

La valorizzazione delle specificità di genere nel primo ciclo di istruzione

Emanuela Zappella

Università di Bergamo

A quattro mani: l’inclusione professionale nella prospettiva delle persone disabili e dei datori di lavoro.

Eleonora Zorzi

Università di Padova

L’insegnante improvvisatore. Una ricerca esplorativa tra l’insegnamento e le arti performative.

Gilberto Ferraro

Tab. 3: Presentazione dei poster di Dottorato

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