Pastiche #23 online

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09/2013

n.23

friggi l’arte e la poesia

PASTICHE versicontroversi

mensile gratuito

Giacomo Clerici - The Worms


Pastiche

Pensai:

è perché ho scritto che ho resistito. ( Roberto Bolaño – Amuleto ) PASTICHE pensata e redatta da Paolo Battista. Grafica e impaginazione a cura di

Moodif www.facebook.com/pasticherivista http://issuu.com/pasticherivista

Siete inCasa con la vostra Lilja pieni di the worms-bacherozzi, chiusi nel vostro silenzio, schiacciati dai vostri segreti, cercando di resistere allo schifo che vi circonda tenendo un basso profilo che vi trascina sempre più verso il fondo, non abbiate paura: la via dell’amore e della poesia è dietro l’angolo, basta cercarla!!!

Collaboratori:

Chiara Fornesi, Fara Peluso. Per ricevere a casa Pastiche in abbonamento ( costo 12 euro ) scriveteci a: pasticherivista@gmail.com, indicando nome e recapito. Per inviare il vostro materiale ( poesie, racconti – lunghezza da concordare -, disegni, racconti per immagini, fotografie b/n, stencil e quant’altro ) scrivete a: pasticherivista@ gmail.com oppure all’indirizzo: Paolo Battista, via F. Laparelli n. 63 int.1 00176 Roma Chi collabora con Pastiche lo fa senza ricevere compensi. La proprietà intellettuale resta chiaramente agli autori.

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Pastiche

Di traverso mi va di traverso il pranzo di ferragosto se penso che in Egitto centinaia di persone gridano e lottano e muoiono e sparami in faccia perché vorrei che lo stesso vento battesse le nostre città al posto di gente vestita bene che passeggia per ore avanti e indietro, fanculo vi odio!

Istanbul

Istanbul siamo noi, e il vento caldo d’Oriente e la terra e gli alberi e le foglie che cercano di proteggere e le dolci onde del Mediterraneo; Istanbul siamo noi, e i nostri figli e gli occhi accecati dei nostri figli e tutte le rivoluzioni ancora da compiere e tutto ciò che c’è di giusto; Istanbul siamo noi, e i mille feriti degni di rispetto e il sangue sulle nostre mani e i crani fratturati e i cuori urlanti e il fuoco che arde come un grido nelle strade; Istanbul siamo noi, noi e la nostra indifferenza, noi e i nostri eccessi di violenza, noi e il coraggio che non abbiamo; Istanbul siamo noi, consegnati su un piatto d’argento all’ennesimo folle governo.

b

Paolo

Battista


Pastiche lo ripeto tutte le mattine quando mi sveglio. vado in bagno e nella mia testa risuona un mantra “mantenere un basso profilo, mantenere un basso profilo, mantenere un basso profilo” sotto la doccia, davanti lo specchio a radermi, con l’armadio aperto mentre scelgo la camicia, in cucina tenendo un biscotto tra indice e pollice, quando entro in macchina, mentre guido, quando arrivo al parcheggio dell’ufficio, spengo il motore, esco, indosso la giacca, chiudo la portiera, faccio scattare l’allarme e mi dirigo verso l’ingresso. <<buongiorno sonia “basso profilo, basso profilo, basso profilo” <<ah sì, l’hanno esonerato hai visto? “basso profilo, basso profilo, basso profilo” <<io scendo al sesto, grazie “basso profilo, basso profilo, basso profilo” mi siedo alla mia scrivania. Ogni mattina di ogni giorno lavorativo, dal lunedì al venerdì, entro puntuale ma non troppo. Sembro attaccato all’azienda, ma non troppo. Sono simpatico, ma non troppo. Faccio la giusta pausa pranzo, ma non troppo. Parlo con i colleghi, ma non troppo. “basso profilo, basso profilo, basso profilo. Torno a casa percorrendo sempre la stessa strada. Anche in quei giorni in cui c’è un ingorgo, non cambio mai il mio percorso. Sono un tipo abitudinario. La gente lo sa. Questo mi aiuta a mantenere un basso profilo. Faccio la spesa sempre nello stesso supermercato, due o tre volte la settimana, sempre dopo le 18.15 e mai più tardi delle 19.45. Compro le stesse cose, ma a giorni alterni. Mai le uova con la carne nella stessa busta, mai le verdure insieme al riso, mai i detersivi con la carta assorbente. Compro sempre meno di otto articoli, così passo sempre alla cassa automatica. Non parlo con nessuno, un buonasera col banchista al reparto latticini e un ciao in quello del pane. Diverse età, diversi modi di salutare. Sono un bravo ragazzo e la gente lo sa, finché mantengo un basso profilo va bene. Guardo la tv, una volta a settimana vado al cinema. Tre strutture diverse a rotazione, così da non destare sguardi indiscreti. Una volta ogni dieci/dodici scelgo di andare a vedere un film con i colleghi, allora pizza, margherita o bianca con i funghi, una birra e poi seduto vicino al corridoio di uscita. Compro io i biglietti, decido io l’assegnazione dei posti. Sono silenzioso mentre guardiamo il film, ma scherzoso e appassionato durante i trailer. Vado a casa sempre solo. Parcheggio sempre sulla stessa strada. Entro nel letto sempre dalla stessa parte, dormo sempre nella stessa posizione. Anche nei miei sogni mi muovo con cautela, qualche volta un incubo, ma mai troppo spesso, e mi sveglio urlando, sudato, col fiato corto, poi bevo un bicchiere d’acqua e torno a dormire. “mantenere un basso profilo, mantenere un basso profilo, mantenere un basso profilo, mantenere un basso profilo, mantenere un basso profilo, mantenere un basso profilo...” la regola d’oro per la salvezza, il mio mantra, quello in cui credo. morirò da uomo comune, non verrò ricordato da nessuno, questo mi solleva da aver pensieri di responsabilità che mi fanno solo girare la testa. mi impegno a credere che non sarò mai in grado di raggiungere alte vette. oggi mi faccio esplodere in una banca, nessuna conseguenza perchè io, in fondo, non esisto.

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Pro file

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Pastiche Mi nascondo in un tombino, dietro un cassonetto della raccolta differenziata, all’ombra di un platano. Mi mescolo alle persone nel centro commerciale, fingo serenità e noncuranza davanti le vetrine. Al semaforo aspetto il mio turno ed in banca rispetto la fila. Mi guardo intorno con circospezione. Prima o poi potrebbe ritrovarmi. Ogni giorno mi sveglio e prego un qualche Dio che mi lasci in pace. Scrivo queste ultime righe dal palazzo più alto della città, guardo in giù e milioni di piccole figure camminano ignare di essere anche loro sotto lo scacco di una forza più grande di loro. Ho passato la mia vita cercando di sfuggirle ma ora non ce la faccio più. Sento il fiato sul collo e non so più dove nascondermi ed essere al sicuro. Con me porto un segreto troppo grande, quando l’ho visto la prima volta è stato per caso e poi mi sono trovato catapultato in una storia fantastica, avevo l’impressione di essere dentro un romanzo, protagonista ignaro di una penna d’altri tempi. All’inizio non credevo ai miei occhi, a quello che sentivo sulla pelle.

Il s r t

Come questo forte vento estivo che mi scompiglia i capelli e mi lacera le guance, invaso dall’emozione e dalla paura per un nuovo corso. Ho conosciuto quello che pochi sanno e che non tutti riescono a comprendere, un significato diverso ha travolto le mie emozioni e nulla è più tornato come prima. Ora, vorrei solo liberarmi da questo peso, tornare a vivere la mia vita, gridare all’umanità la verità per avvertire chi verrà dopo di me. Ma non posso, non ce la faccio, è un peso troppo grande, non voglio. Come non sperare che anche un’altra persona soltanto possa condividere con me questo segreto? Non sono solo, non voglio crederlo, ho bisogno di sentire che c’è qualcun altro. Allora scrivo a te, che raccoglierai questo foglio chissà dove, per dirti che non è tempo sprecato, non è uno sbaglio. Al mondo c’è qualcuno che sa come stanno le cose e sono io. Affido questo testamento a te per darti la forza che io non ho avuto nell’andare avanti. Non lasciare che altri ti ingannino con le loro parole e i loro gesti, segui quello che hai dentro. Dai retta al tuo istinto. Ti sentirai solo e vorrai morire per questo. Sarai messo in disparte e vorrai tornare indietro a quando eri ignaro e una persona comune. Tu non lo sei, accettalo e porta con te queste parole: non sei solo, io conosco come te il segreto dell’amore.

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Emanuele Cerone


Pastiche

Sile

Lo stato sovrano non deve esistere. Macché stato sovrano qua ce ‘sta er Vaticano! E non è la stessa cosa? Remo passava con la sua carretta da stracciarolo e tutte le mattine sentiva il Principe Mario e Sor Mario er fruttarolo che discutevano delle magagne di questa grande città: capitale d’Italia e capitale di tutto quel mondo che Remo chiamava casa. A lui non interessavano queste cose, pensava che la politica fosse per chi non ha niente da fare ed il Principe, vecchio benestante di Piazza Vittorio, poteva permettersi il lusso di spendere il suo tempo in chiacchiere con chi ne cerca altrettanto e Sor Mario di tempo anche lui ne aveva in abbondanza, mentre al negozio lavoravano Augusto e Rosa, rispettivamente figlio e moglie. Remo il tempo lo passava a tirare il carretto tra la piazza e la stazione Termini, via Giolitti e San Lorenzo ricostruito dopo la grande guerra, fino alla Tiburtina che s’andava ripulendo pian piano dall’altra parte del Verano. Remo era un grande lavoratore di giorno, ma quando scattava il tramonto col sole che scemava dietro Santa Maria Maggiore lui non era più lo stracciarolo, diventava Il Poeta. Tutti lo conoscevano così fino a Monti e ai Fori Imperiali. Trascorreva le notti in giro, in cerca di parole da scambiare con qualcuno. Frasi vere, piene di armonia e filosofia, dette in quel romano aulico che era la sua appartenenza e la sua lingua. Saltava da una conversazione all’altra, da un froscio che lo guardava innamorato a una coppia che lo ascoltava estasiata. Ma era con le donne che dava il meglio. Era bravo Remo, a raccontar storie e a inventare amori e dispiaceri, liti e zuffe, vite intere di passione e sospiri. Non la smetteva mai di dar fiato a quello che riempiva la sua mente e la sua pancia. E ne aveva fatte di conquiste, tante, milioni dicevano i suoi amici, solo quelle che contano, diceva lui. Nessuno immaginava che Remo, a cui tanto piaceva par-

nzi Emanuele Cerone

e

lare, fosse un amante del silenzio. Di quella Roma ammutolita nelle notti primaverili che si ascoltano sui tetti dei palazzi, con i gatti che scorrazzano liberi e i gabbiani che fanno il giro. Il silenzio dell’amore, di quello che faceva la notte tra le lenzuola stese della Sora Antonietta che se lo sapeva le sarebbe preso un accidente a pensare a quegli atti impuri, fuori dal matrimonio, tra due ragazzi che potevano esse figli suoi. In effetti una era figlia sua, Clara, la segretaria del Notaio Giuliani che lui tanto rispettava e che la Sora Antonietta sperava se la potesse un giorno prendere e sposare, in una bella chiesa con un bel vestito bianco e tanti fiori. Ma a Clara piaceva il silenzio, quello delle notti che sgattaiolava dalla sua stanza, con la piccola sorella Lorenza che dormiva e faceva finta di non sapere. Quel silenzio fatto di sguardi appoggiati al parapetto, quel silenzio delle mani che carezzano la pelle di cotone, quel silenzio di Remo che le entrava dentro ghermendo la sua schiena color della luna. Quel silenzio del suo ventre che si apriva a lui e solo a lui, il suo Remo dalle braccia abbronzate, dai capelli cenere e gli occhi profondi. Quel silenzio di baci sui seni, sulla pancia, e poi sul collo. Quel silenzio delle gocce di sudore che le scendevano lungo la schiena. Quel silenzio che era un’esplosione di odori e sospiri che riempivano le notti di tutta Roma, coi pollini che si staccavano dagli alberi e sembrava quasi neve dall’alto del terrazzo tra le lenzuola stese e il cielo stellato.


Pastiche

Non abbiate paura /\/ Maura Esposito f


Pastiche Soho Street - London

Luca Carlino

Soho Street - London

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Pastiche

liberty island-New York

Moma Inside Museum - New York

S.Pietro- Roma

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RESISTENZA Is your secret safe tonight and are we out of sight Will our world come tumbling down Will they find our hiding place Is this our last embrace Or will the world stop caving in Muse – The Resistance The Resistance dei Muse nello stereo. Piedi nudi sul legno. Luce fioca, senza sole e senza lampade. I rami degli ulivi attraverso la finestra. Una maglietta rosa slabbrata e trasparente. Ti piace dimenarti a occhi chiusi. Senti la pelle dei fianchi stringersi e tirarsi. Le mani afferrare parti di pelle, modellarla, sembra farina. I capelli sconvolti. La fronte sudata. Le labbra semichiuse. Lo fai ogni santo giorno. Ti lasci scivolare a terra feroce graffiandoti le ginocchia. Ti capovolgi, piroetti, sfidi l’affanno. Percepisci il gusto della saliva che si secca nel palato. Ridi, sola, convinta che nessuno possa vederti. Sono gli unici momenti in cui ridi, quelli. Da bambina a scuola di danza non ridevi mai. Camminavi in punta e non chiudevi mai gli occhi. Le gemelline ridevano di te. Sapevi di non dover staccare i piedi dal pavimento. Le unghie si spezzavano, i piedi cedevano. Avresti voluto smettere di tremare. Ora ti sleghi i capelli e sbatti le mani alle pareti, ti liberi di tutta la morale che ti ha incatenato il corpo. Ieri sera a cena eri così rigida. Ti sembrava di avere ancora l’insegnante a punzecchiarti i glutei con un bastone per farteli stringere, le risate delle ballerine, eco nelle pareti. E invece eri solo in un pub con amiche. Ti sarebbe piaciuto prenderle la mano. Dai, facci vedere la tua piroetta, diMa lei si era alzata troppo in fretta. ceva una delle gemelle. Secondo me non Mentre il tuo corpo rabbrividiva eri è in grado, cade, diceva l’altra. Le distante da tutto e ti consumavi nel mani alle tempie, gli occhi che guardano riverbero di te. Ti stavo guardando ma attraverso i gomiti. E le loro mani su tu non potevi vedermi. di te erano tentacoli. Gli occhi lucidi Accarezzi il pavimento, è il corpo di in preda a un attacco di pianto che non un amante e poi ci strisci sopra come sbocciava mai. Ti avevano portato con un serpente. I capelli sparsi sono fili forza in palestra. Con forza, ti avevano di seta. La testa che preme contro il strappato la calzamaglia. Erano pezzi parquet. Gli occhi chiusi. I piedi condi pelle che venivano via. tro il muro. Quel vuoto ancestrale si Avanti, facci vedere come fai la pirofa largo nella pancia e nel petto, sale etta! alle tempie. Quel vuoto da cui non vorOra sei senza pelle e puoi ballare solresti uscire più. tanto chiusa nella tua mansarda. Le tue Mi fai vedere la tua piroetta? Nello gambe fendono il vuoto. Le dita accaspogliatoio ti avevano incastrata. E ti rezzano i seni, i fianchi ondeggiano sentivi costretta, eri il corpo di un spasmodici. E io sto qui a guardarti, cadavere in una bara. Ridevano, cagne sono sempre stata qui. affamate.

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Pastiche Dietro di te, un’ombra. Avanti, facci questa piroetta. Eri nuda, senza vestiti e senza epidermide. Ti si accapponava quella pelle che non avevi più. E provavi e riprovavi a girare ma non ti riusciva mai. Ti volti, piroettando ora due, tre, quattro volte, con il piede nudo in una punta impeccabile. E mentre piroetti incontri i miei occhi dietro le grate, tra le foglie di ulivo. I miei occhi ti spogliano ancora, fino a lasciarti senza muscoli e poi s’infilano nelle ossa. Fanno tremare i pavimenti. Con le lacrime che non volevano uscire. Nuda e spezzata avevi volteggiato su te stessa. Ti avevano presa a spinte fino a farti perdere l’equilibrio. Sei una sega! Una sega! Aveva detto una delle gemelle. Perdendo l’equilibrio, il polso storto sul pavimento. La botta aveva spezzato qualcosa in fondo. Le loro risa si erano trasformate in grida vedendoti lì, con il polso che penzolava fuori dai confini del braccio. Provi a chiudere la serranda ma non puoi. E poi accosti il viso alla carta da parati. Ti asciughi il sudore con le mani. Io sono ancora qui a guardare dentro. Vorrei che la porta si spalancasse, vorrei stringerti forte fino a toglierti ogni respiro. Io sono il tuo caleidoscopio. E mi disseto di ogni tuo corpo. Allunghi una mano contro il vetro e io anche. Sei in bagno. Un buco nelle grate mi tempo sia trascorso dall’ultima volta. lascia entrare nel tuo appartamento. C’ero anch’io, te lo ricordi? Eri corsa Quando esci sono di fronte a te ma non via fino alla fine della strada. Auto e puoi gridare, ti ho serrato le labbra insegne di negozi e poi campi di ulivi e con le mie. Ti chiedo dove tu sia adesgrano si sgretolavano nella corsa forso, mi rispondi nel silenzio. sennata che ti mangiava i respiri. Ti Avevano riso anche quando eri tornata rincorrevo ma tu non mi vedevi, non ti a scuola con il gesso. I loro occhi voltavi mai. entravano nei muscoli e attraversavano E mentre la benda sui tuoi occhi offusca i nervi. Fu l’ultima volta per te lì ogni cosa, nelle tue membra ha inizio dentro. l’abbandono, il nero assoluto. Io spinSiamo distese sul tappeto. Le tue gamgo la mia lingua tra le tue labbra, le be a cavalcioni con le mie. Cerchi di mie dita sul monte di venere, liscio e sfuggirmi, ma non puoi. Sono la tua rado. Le mie dita dentro di te fino a pelle. Quella che ti hanno strappato sentirti pulsare. I nostri corpi che si tutte quelle mani. Ora fuori è notte. mangiano voraci e lasciano al mattino Gli alberi non si vedono. Il vento uluchiazze bianche sui tappeti. Poi vado la. Bussa per entrare. Ho tra le labvia mentre dormi e sei ancora umida di bra il sapore del tuo sudore. Tra le me. Mi nascondo tra le foglie per guarmani stringo i tuoi seni. E ti chiedo darti. So che uscirai a cercarmi e mi di danzare. Ora, solo per me. Non lo nasconderò dietro i tuoi passi per ilfai. Ma io ti lego a me con un foulard ludermi che la notte sia eterna. nero e il tuo bacino aderisce al mio, il mare alla terra. Il foulard stringe i tuoi fianchi e gli occhi te li bendo con un altro foulard. Ora sei costretta a danzare tra le mie mani. Che saranno solo le mie. Muovi i fianchi lentamente facendoli ondeggiare sui miei. Strisciami dentro. Vorrei mangiarti. Trangugiare ogni tuo desiderio. Iniettarmi in vena il tuo odore. Starti dentro, senza uscire mai. E mentre stiamo qui a dondolare, ti accarezzo il torace con mani che sono bisturi. Bacio i tuoi capezzoli, sono bocche. E seziono il tuo ventre con le unghie. Mi metti una mano sulla fronte. Mi allontani. Non capisci come io abbia fatto a entrare. Quanto

ILARIA l

PALOMBA


Pastiche

Lilja ( tratto da La settima morte – incontri e dialoghi )

La borsetta di Lilja Brik oscillava pericolosamente. E ad ogni passo oscillava di più e in maniera sempre più pericolosa. Furiosa, stava attraversando le strade della città alta, mentre un’alba precoce tentava di squarciare le dense nubi del cielo moscovita. La bocca serrata, il volto dipinto di una smorfia indecifrabile, entrò in un vicolo. Eccolo, svoltato l’angolo, il punto d’arrivo. Eccolo, svoltato l’angolo, Vladimir Majakovskij, il cuore pulsante. Una mano in tasca, spalle appoggiate al muro, il volto tormentato da chissà quale demone interiore. Aveva una sigaretta in mano, un broncio bambinesco e capelli scarmigliati. Era lì, esattamente l’immagine di Majakovskij che tutti ricordano. Quel suo sguardo, che gli appartiene più d’ogni parola. Lilja gli si avvicinò, brandendo qualcosa a mo’ di spada, era un foglio di carta. Tentando di parlare le uscì solo fiato sporco. Una sorta di rantolo. Lui osservava da lontano. -Che… Provò la donna con tutto il coraggio che aveva, ma eruppe in un pianto profondo, una nota bassa, degna di una cantante d’opera. Un peana privo di parole, rivolto a tutta la città. Vladimir continuò ad osservarla dalla sua distanza siderale, impassibile. Spense la sigaretta, gettandola fra la neve. La superficialità di chi si ritiene al di sopra delle parti, di qualunque parte. Una superficialità tale da trasudare anche solo

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Pastiche da un gesto. Il pianto andò avanti qualche minuto. L’impotenza incarnata nel corpo di una donna. Eppure sembrava così forte, proprio come tutti. Poi, lui le chiese qualcosa. -Hai finito? Lei rimase in silenzio, rattrappita su se stessa. -Dobbiamo andare avanti per molto con questa lagna? Forse quel sasso, nei pressi della scarpa di Majakovskij, sarebbe stato più delicato. La donna lo guardò, spaesata. Infine chiese qualcosa. -Che cosa significano queste parole? Sventolò implorante il foglio di carta stropicciato, lo sventolò con la mano. Una bandiera bianca. -Cosa significa che sei morto, che non mi ami più? Tirò su con il naso, il suo fiato si condensava ad una velocità incredibile. Majakovskij fece schioccare la lingua nel palato, rigirò un piede nella neve. -Esattamente quello che c’è scritto su quel dannato foglio di carta. -Ma tu sei vivo! Disse lei. -E hai detto che eri certo di amarmi! Avevi detto che se c’era una certezza nella tua vita, quella era l’amore per me! Respiro, fitto respiro e sguardi. -Come puoi scrivere queste parole, come puoi rimangiarti quello che dicesti? Un lamento d’amore. L’uomo burbero si prese un po’ di tempo prima di rispondere. -Mi sbagliavo Lilja, non avevo ben inteso il senso delle parole. Abbozzò l’ombra di un sorriso, triste. Poi riprese. -Certezza è una parola errata, non ha motivo d’esistere. Il certo eccede il linguaggio, straborda dai suoi limiti. L’uomo con arroganza ha creato questa parola, illudendosi di poterla utilizzare. Rise con un solo verso, grottesco. -Che sciocco l’uomo. Lilja Brik ascoltò attentamente con due occhi spalancati, devoti all’incredulità. -Tu … Tu. Sembrava le mancasse aria, dolore misto a rabbia. -Ti rendi conto di cosa stai parlando? Sei un bugiardo! Parlare del linguaggio, dei tuoi giochetti da scrittore! Singhiozzava. -Io non lo so… Mostro, cane! E sentiamo, sentiamo. Perché saresti morto, perché non potresti più amarmi? Majakovskij strinse i denti, il muscolo della mandibola si delineò. Prese altro tempo, in debito con chissà quale dio. -Vladimir Majakovskij, lo scrittore ed il poeta della rivoluzione, è morto. Io non posso più scrivere, non ho più nulla. Il linguaggio mi ha abbandonato, la poesia mi ha tradito. Non ho più nulla Lilja, non sono più nulla, sono morto. -Ma no! Non dire così! Hai me, hai il mio amore… Lui fece una smorfia, un gesto di diniego. -No. -Sono morto, ed un uomo morto non può amare. -No. No, no no no! Non stai bene, hai bisogno di riposo. È la solitudine di queste ultime settimane che ti fa dire queste cose. Io avevo lo spettacolo, ed Osip era impegnato con il lavoro. Chissà quanto ti sarai sentito solo. Scosse ancora il capo, fra lo sconsolato

Simone Troja

ed il rassegnato. -Solitudine. Disse sprezzante. -Cosa ne sai tu della solitudine? Vorresti venire a parlare con me della solitudine, Lilja Brik? L’arroganza nelle parole era una pallida caricatura della sofferenza che nascondevano. - La grande donna di spettacolo, sposata, dai molteplici amanti, dalle innumerevoli amiche, e dalla famiglia numerosa. Vuole venire da me, Vladimir Majakovskij, a parlare di solitudine? Ah ah ah. Sollevò il mento in un gesto teatrale. L’altra se ne stava da una parte mentre veniva annientata. Lilja alzò una mano tremante verso l’uomo che amava. Una resa silenziosa. Ogni parola era come un coltello pianta-

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Pastiche to nel fianco. -Vlad… Tentò invano, lui stava di nuovo parlandole sopra, schiacciandola. -Lo sai chi è solo, Lilja? Chi è veramente solo? Lo sai chi potrebbe venire a parlarmi della solitudine? Eh, lo sai? Silenzio. -No, non lo sai. Silenzio -E non lo sai perché non lo usi quel cervello tanto carino. Bello come ogni tua parte. Ogni tuo luogo è quanto di più elegante sia mai stato creato in Russia. Ma non lo usi, il dannato cervello. Si fermò ancora, questa volta a riprendere fiato. -Dio potrebbe venire a parlarmi di solitudine, lui si. Dio. Silenzio. -Ti sei mai chiesta perché ci perdona sempre? Perché perdona tutti questi ipocriti bastardi che abitano il suo sporco mondo? Te lo sei mai chiesta Lilja? La guardò, trasfigurato, forse Vladimir Majakovskij era davvero morto. -Perdona sempre, non perché crede alle fasulle preghiere degli uomini, sa perfettamente che sbaglieranno ancora e ancora. Li perdona sempre Lilja, perché si sente solo. Silenzio. -Dio è l’essere più solo che sia mai esistito. Ed il pensare di fare qualcosa per gli altri, è estremamente prezioso. Ci morirebbe per fare qualcosa per gli altri. Ed ecco qua che abbiamo la fila ai cancelli del paradiso. La salma di Lilja Brik giaceva annientata nell’angolo del vicolo, appoggiata a dei secchioni di metallo grigio

con il ghiaccio cristallizzato nelle scanalature. Il sole, nel frattempo, aveva perduto la sua battaglia, ed un cielo bianco sovrastava la città. Lilja tentò di infliggersi il colpo di grazia. -Giù… Singhiozzava. -Al circolo, dicono che hai visto… Un’altra donna. Fece una pausa. Ma dall’altro non arrivò nessun segnale. - Tatiana Jakovleva dicono, è vero? Vladimir Majakovskij annuì. -Si è vero. Mentre la donna si muoveva irrequieta, frugando nella borsetta con il trucco ormai colato, lui aggiunse: -È vero Lilja, ma … Uno sparo si levò nell’aria, un rumore assordante. Lilja Brik stringeva in mano una rivoltella fumante. Vladimir Majakovskij barcollò qualche attimo, poi cadde a terra boccheggiando, con il metallo nel cuore. Il sangue iniziò ad uscire dal suo corpo, un’esondazione di vita. Il sangue sporcò il candido manto di neve. Poi il rumore dei passi di qualcuno che scappa e il rumore di qualcuno che muore. La neve iniziò a cadere, improvvisa, purificatrice. Scendeva fitta dal cielo. Cadeva sui tetti delle case, e sulla città in risveglio. La neve, silenzioso canto funebre, cadeva sul cuore insanguinato di Vladimir Majakovskij. http://fuliggine.altervista.org/La_settima_morte.pdf

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Pastiche

Skyline

Olivia Balzar

Sigarette alla vaniglia Ho visto l’infinito nel verde dei tuoi occhi, la redenzione tra le tua braccia, l’abisso nell’attesa di te, mentre perdevo lo sguardo oltre l’orizzonte. Sigarette alla vaniglia, profumo intenso di delizia, intrappolata nella tua gabbia d’argento intesso telai di zucchero filato.

Ci vogliono rubare anche il cielo! E io che pensavo ci sarebbe rimasto solo quello. Che sciocca! Ci sono le nuvole nel cielo pastello d’ottobre. Sembra disegnato da bambini intenti a dipingere un mondo in technicolor. Il mondo che vorrei. Non so più come si colora senza uscire dai bordi. Peccato! Era bello preoccuparsi delle matite spuntate, dei pastelli che ti lasciavano il colore sulla mano. Non capivo perché i bambini facevano la pelle rosa alle figure che disegnavano. Io usavo il beige. E facevo i capelli neri alle donne per farle assomigliare a mia madre. Frammenti di vissuto. Vedo mostri di cristallo all’orizzonte, lo chiamano skyline, ma a me sembra solo che mi abbiano rubato il cielo. Vorrei una grande gomma per cancellare i grattacieli e disegnare nuvole con lo zucchero a velo.


Nebel Eich Artist - Lover’s walk Helbones


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