Pastiche #21 luglio 2013

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07/2013

n.21

fumati l’arte e la poesia

PASTICHE versicontroversi

mensile gratuito

Davide di Maggio

Dal seme dell’iniquità nasce l’albero della ribellione


Pastiche

Che confusione! Incontro’ un lupo, non una giraffa.

( Gianni Rodari – Favole al telefono ) Cari amici, un’altra estate sta per arrivare, e come l’estate anche Pastiche continuerà ad allietare ( si spera ) le vostre gite al mare o al lago, in montagna o giù in campagna. Da questo mese poi ha inizio un’altra splendida collaborazione; vi presentiamo in anteprima gli amici del Menocchio editore e con essi gli ebook di Pastiche, dove conosceremo più a fondo alcuni degli artisti gustati sulle nostre pagine. Il primo di questi ebook è: Cardiopatica, raccolta di racconti che preannuncia altre interessanti collaborazioni. Di prossima uscita lo Zibaldone dell’umana inesperienza di Daniele Casolino, e poi ancora tante altre sorprese. Tutte le informazioni che volete qui: http://www.ilmenocchio.it/portfolio/cardiopatica/ Ma torniamo a noi! Su questo numero ritroviamo il fumetto e avremo come ospiti un bel po’ di celebrità. Se avete voglia di scoprire chi, non dovete far altro che leggerci. Pastiche è dietro l’angolo, scendete a cercerla!

PASTICHE pensata e redatta da Paolo Battista. Grafica e impaginazione a cura di

Moodif www.facebook.com/pasticherivista http://issuu.com/pasticherivista

Collaboratori:

Chiara Fornesi, Fara Peluso. Per ricevere a casa Pastiche in abbonamento ( costo 12 euro ) scriveteci a: pasticherivista@gmail.com, indicando nome e recapito. Per inviare il vostro materiale ( poesie, racconti – lunghezza da concordare -, disegni, racconti per immagini, fotografie b/n, stencil e quant’altro ) scrivete a: pasticherivista@ gmail.com oppure all’indirizzo: Paolo Battista, via F. Laparelli n. 63 int.1 00176 Roma Chi collabora con Pastiche lo fa senza ricevere compensi. La proprietà intellettuale resta chiaramente agli autori.

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Pastiche

Storia di un ragazzo perbene

di Paolo Battista

Mi chiamo Piero Anarco, e tutto quello che voglio è un mondo diverso da questo. Sono un cazzuto guerrigliero vestito a lutto. E odio la vostra politica! E voglio spaccare bancomat e vetrine dei negozi, ma soprattutto voglio dare fuoco a questo schifo di città! Odio la città. Amo la città. Vivo a Roma, la città più antica e più corrotta del mondo. Voglio dare fuoco a questa fottuta schifa di città! Ho appena compiuto ventisei anni e non vedo una briciola di futuro. I miei genitori? Non se la passano per niente bene! Mia madre gira da dieci anni da un callcenter all’altro e mio padre è un cazzo d’operaio in cassa integrazione che quando lavora suda otto ore al giorno in una fabbrica di freni per auto. Cazzo, proprio una situazione disperata, e cioè senza uno straccio di lavoro all’orizzonte ed in più con un mutuo trentennale sulle spalle. Per quanto riguarda me la storia non è diversa, ho mollato gli studi dopo il diploma, ed eccomi qua…da quasi sei anni a cercare un lavoro che non arriva mai, in un mondo dimmerda che non è come vorrei. Quello che vorrei non è una roba aliena, ma solo la possibilità di sentirmi vivo, un po’ d’amore, divertirmi, viaggiare, e magari alla fine far star bene la mia famiglia, come desidera mio

padre, anche se non ci riesce. Sono stanco di tutto questo, sono stanco di subire e restare immobile. Sono stanco di vedere mio padre sempre così devastato. È ora di mettersi in gioco e scacciare i nemici. È ora di farlo perché adesso è il momento, e i nemici sono tanti e pericolosi. Il papa è il mio peggior nemico. Le forze dell’ordine sono il mio peggior nemico.Lo Stato che protegge le forze dell’ordine è il mio peggior nemico. Il ‘tacito consenso’ urlato dai Linea 77 è il mio peggior nemico, la gente…cazzo, odio la gente! La musica è invece mia amica. Gli alberi. La luna. Francesca. I romanzi di Kerouac e quelli di Salinger. La pittura di Pollock. Quella di Schiele. L’oceano, si l’oceano è mio amico. La birra e la vita. Sì, la vita è mia amica, anche se a poco a poco ce la stanno succhiando via…la vita. Sento, come una rotella schizzata fuori dal suo ingranaggio, che il mondo non gira come dovrebbe; sento che è il momento di muoversi, di ribellarsi, di vomitare fuori tutta la rabbia che per anni mi si è accumulata dentro; ed io voglio muovermi, voglio ribellarmi, voglio risolvere i problemi a modo mio, voglio spaccare vetrine cazzo, voglio dare fuoco alla città. Odio la città. Amo la città. Si, voglio dare fuoco alla città! b


Pastiche L’unica cosa che mio padre mi ha detto è: “ non farti ammazzare! “. Quando avevo cinque anni mio padre ha perso il suo primo lavoro e da quel momento è andata sempre peggio. Ci siamo trasferiti in un buco d’appartamento dalle parti di via del Grano e ho perso tutti i miei vecchi amici, stronzi fighetti con la puzza sotto al naso. Ma meglio così! Almeno con Fede e Carlo ci si capisce, loro la pensano come me: inCulo ai poliziotti, inCulo alla Chiesa, inCulo allo Stato! Dice bene Fede sfoderando quella sua voce decisa: “ ma cosa m’hanno dato mai ‘sti qua? Te lo dico io, un cazzo…dove vivo io lo Stato arriva solo quando muore qualcuno per omicidio, e la Polizia, ci tratta come feccia… dove vivo io non abbiamo macchine costose e vestiti firmati ma solo zingari che chiedono l’elemosina e merda sui marciapiedi ”. L’altro giorno Carlo mi ha fatto vedere come preparare una molotov e come ripararsi dai lacrimogeni, anche se dice lui: “ è quasi impossibile ripararsi dai CS “. Carlo è più grande di me, ha quasi trentanni, mentre Fede è il più piccolo e ne ha ventidue, ma entrambi hanno già fatto le loro belle esperienze in cortei, scontri e manifestazioni. Anche la loro vita è un inferno e ora come ora l’unico desiderio che abbiamo tutti è di dar fuoco alla città. Odio la città. Amo la città. Sì, voglio dare fuoco alla città! E non proverò vergogna perchè la realtà che viviamo è corrotta, razzista, antidemocratica. E non sarò solo perché questa è una condizione comune a tante persone. E fra qualche giorno ci sarà una manifestazione AntiTav con presidio a S. Lorenzo. E allora cosa dovrei fare? Sono stanco di non concludere mai un cazzo! Niente di niente. Ora basta! Dice bene Fede: “ questa volta gli facciamo il culo ai quei burattini…se solo si mettono in mezzo… “, ed ha ragione, siamo sempre state noi le vittime sacrificali da bruciare in piazza, e cazzo questa storia deve finire… È tempo di spegnere i televisori.

È tempo di picchiare duro. C’è bisogno di alzare il culo dalla poltrona e lanciare pugni in aria. Dice bene Carlo: “ questa volta saremo preparati! “. Così tiro fuori anfibi, sciarpa, casco e vaffanculo, scendo a comprare due litri di benzina per bruciare qualche bancomat. Sì, perché a chi ci diffama puntandoci addosso siglette da rivista come violenti, drogati, delinquenti, bamboccioni, rivoltosi, black blok… io dico noi non siamo come voi, non picchiamo chi non la pensa come noi, non massacriamo le persone, non uccidiamo come fate voi, non spariamo ai ragazzi. Brutti stronzi voi la guerra ce l’avete in testa! Ma è sul vostro culo che sfogheremo la nostra rabbia, la nostra delusione, la nostra poesia. È arrivato il tempo di dar vita a qualcosa di nuovo, qualcosa di nostro, qualcosa che appartiene soltanto a noi, qualcosa che ci rappresenti, qualcosa che ci capisca, qualcosa che ci unisca; dice bene Fede: “ basta fottuti porci, se la situazione è questa la colpa è solo vostra, delle vostre banche, delle vostre caste, dei vostri teatrini, delle vostre multinazionali, dei vostri aerei personali, delle vostre auto blu, insomma di tutta la vostra merdosa propaganda “. Vi odio! Odio la vostra politica! Ora basta, la vita è un’altra. La politica è un’altra. La gente ha bisogno d’altro. Io ho bisogno d’altro e voglio bruciare tutto ciò che è marcio.

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”CAPPUCCETTO CARMINIO ” «Cappuccetto, calamità! Consuocera convalescente! Compi cortesia: cogli cestino contenente carote... Confortandola, consegnagliele. Cautela: campo circostante casa, colmo carogne! Capito?» Camminando, Cappuccetto Carminio conquista coraggiosamente cerreto. Compare cane cortese, chiede: «Creatura, cosa combini?» «Consegno cibo, cristiana coccolerà!» Coyote congettura cena. «Che cara... Come chiamo codesto capo chiacchierone?» «Cappuccetto Carminio.» «Carino! Comunque, confidenza... casomai consiglio cerchi, Cappottino Corallo, cambia corso.» «Cioè?» «Continua corretto, considera classico, ché corto! Così congiungerai celermente chicchessia!» «Certo! Ciao!» Celandosi, carogna conduce cammino conciso. Considerando carne, corre. Corrotta, Cappuccio colorato comincia cammino complesso, calma consegue compito. Coglie colonna cinerea: comignolo, camino! Circumnavigando culla, capta cucitrice, connotati cambiati. Constata crucciata:

«Cribbio, ciglione!» «Carina, cornee cieche cercano carezze!» «Caspita, confuse callosità!» «Capelli celati, concernono carestia...» «Corbezzoli, corposa cavità!» «Cisterna contiene Cappuccino!» Corpo canino consuma crucciata, come capitato con catarrina compagna. Canticchia cacciatore circostante. Clamore! Comprende crimine. «Chi commette colpa?» Concentrandosi, canna colpisce colpevole, cava colma caverna, così compaiono consorti contente. Conclusione: Cave canem.

Maria Matteacci d


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Eravamo

io,

Bukowski,

John

Lennon, noi sembrava dargli eccessivo peso e continuava a rilanciare. Bukowski fu il primo a uscire dal gioco, eliminato da un tris di donne da parte di Lennon. Quando al River uscì la terza dama, John urlò in direziono della Ono: “I Love you Baby… So much!”. Bukowski non la prese bene, accennò a una rissa ma ven­ne fermato dagli uomini della Security che lo portarono via di peso. Poco dopo ci fu un all-in da parte di Lennon di fronte al quale io foldai e Cristo esclamò: “Attento a ciò che fai, potresti pentirtene!”. Lennon con un gesto della mano snobbò le parole del messia. Al che Gesù tolse gli occhiali rosa dal viso di Lennon e li sistemò sul proprio volto. Poi sussurrò: “La frase che hai detto nel ’66 non te l’ho mai perdonata John… Call!”. Il full d’assi di Cristo batté il full di jack di Lennon. Yoko Ono, in tribuna, cominciò a imprecare in giapponese mentre Lennon con un gesto stizzito strappò gli occhiali dal volto di Gesù, riappropriandosene. Poi si alzò e se ne andò via urlando: “Sono molto più famoso di te, sono molto più famoso di te!”. Cristo sorrise, si fece il segno della croce e sistemò le fiches. Poi mi guardò, scrutò le mie poche fiches e disse:

Era la finale mondiale del torneo di Texas Hold’em. Bukowski, in perfetto assetto alcolico, aveva preteso ac­canto a sé un’enorme bottiglia di Jack Daniel’s con annessa una lunghissima cannuccia dalla quale suggeva infinite quan­tità di whiskey. Non parlava con nessuno di noi, spizzava le carte, quasi sempre foldava e appuntava frasi sopra un taccuino sulla cui copertina era inciso: “HEMINGWAY MI FA UNA PIPPA!”. John Lennon portava dei vistosi occhiali tondeggianti con lenti rosate e indossava una maglietta bianca con la scritta: “I DON’T BELIEVE IN JESUS, I JUST BELIEVE IN ME”. A ogni mano vincente l’ex baronetto si girava verso il pubblico in sala, lanciando baci in direzione di Yoko Ono che, imperturbabile, si limitava ad annuire con il capo. Gesù era il più riflessivo di tutti e contemplava le sue carte toccandosi la folta barba castana e sgranocchiando pistacchi. Ogni tanto apparivano dei colibrì che gli volteggiavano attorno alla testa e poi volavano via, scomparendo nel nulla, non si sa dove. Lui li guardava, sorrideva e poi si riconcentrava sulle carte. Ogni volta che qualcuno di noi effettuava un rilancio Lui esclamava: “Attento a ciò che fai, potresti pentirtene!”.Ma nessuno di

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Pastiche “Hai poche speranze fratello, ma non scoraggiarti, quei pochi talenti che ti rimangono non sotterrarli, giocateli”. Rise con fare sarcastico. Io toccai ferro per scaramanzia ma Gesù, ahimè, aveva ragione e vinse. Un poker d’assi non bastò a sconfiggere la sua scala reale… La cosa più sbalorditiva fu però il Moonwalking che Cri­sto mise in scena dopo avermi eliminato. Il pubblico era in tripudio e lui con un semplice schiocco delle dita fece partire la base musicale di Smooth Criminal di Michael Jackson, riproducendo alla perfezione tutta la core­ografia del brano. Sbalorditivo: Cristo che balla Michael Jackson non ha prezzo. Me ne tornai a casa con un secondo posto e con bel gruz­zolo in tasca. Prima di andare a dormire decisi di passare a farmi un bicchiere in un bar di un amico. Appena entrai, seduto a un tavolo, vidi Gesù in compagnia dello Spirito Santo, che per l’occasione si era rivelato sotto­forma di Bruce Springsteen. I due mi salutarono invitandomi a sedere con loro. Gli dissi che ero stanco, che avrei salutato il mio amico, avrei bevuto uno short e sarei andato a dormire. Cristo, col dito, mi fece cenno di avvicinarmi. Mi accostai e all’orecchio mi sussurrò: “Sapevo le carte che sarebbero uscite, ho barato!”.

Esplose in una grassa risata e alzò il bicchiere, brindando insieme a Springsteen”. Poi tirò fuori un mazzo di carte ed esclamò: “C’è qualcuno in questo maledetto bar che vuole perdere un po’ di soldi a poker?”. Due tizi, dall’aria ubriaca, si sedettero al tavolo e Gesù iniziò a mescolare le carte con destrezza. Poi, rivolgendosi a loro, esclamò: “Attenti a quello che fate… potreste pentirvene!”. Improvvisamente mi passò la voglia di bere e senza nem­meno salutare il mio amico, andai direttamente verso l’uscita del bar. Quella fu l’ultima notte della mia vita in cui giocai a Poker.

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Gesù.

Jacopo Ratini f


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Dario Balletta /\/ Il grande sasso grigio g

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TRAINS Cosa vedi dalla tua finestra? Io vedo macerie. Terra e cemento e alberi. E pioggia. Tanta tanta pioggia. E pioggia su macerie, terra, cemento e alberi. E pioggia sui treni fermi. Sulle rotaie. Sulla stazione. Pioggia su altra pioggia che rende i treni brillanti e incantati. Pioggia sulle macchine che sfrecciano e sugli abitanti della notte. È il momento perfetto per uscire. Voglio uscire. So che se uscissi ora tutto andrebbe per il verso giusto. Ma ora chiuderò il libro, mi leverò i calzini, mi stenderò sul letto, spegnerò la luce, abbraccerò il cuscino e mi addormenterò.

RECKONER

Sognerò pioggia sui treni fermi alla stazione.

E ci si dimentica. Ci si dimentica di continuo. Di continuo, cazzo. Ci si dimentica di fatti, momenti e persone. E ci si dimentica delle cose. Piccole. Grandi. Ci si dimentica di continuo. È così che gli errori si ripetono. Sempre. E chi dimentica annulla e uccide e invecchia e muore.

FIRST OF THE YEAR (EQUINOX) Alla fine, dopo tutti i discorsi, dopo tutta la filosofia, dopo tutte le altre mille verità, l’unica verità è che non importa quanto tu sia illuminato. Avrai sempre bisogno di mangiare e ubriacarti, scopare e cagare. E non ci sono santi. La merda puzza sempre allo stesso modo. i


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Fuori e Dentro /\/ Sofia Rondelli

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‘La conta estratto da

delle lentiggini’

E Lui disse: “Ti darò ciò di cui hai bisogno”. E lei, da Cappuccetto Rosso, si trasformò in lupo. Corri Cappuccetto Rosso, corri, lungo il sentiero, sotto il temporale, mentre il mantello si attacca addosso, si scioglie, e la casa di marzapane al limitare del bosco ormai è una poltiglia. Si scioglie, cola tra le gambe, stinge, non va più via, per quanto potrai strofinare e strofinare, non andrà più via. Cola, stinge sulle dita di Barbablù e della Sposa Bambina. Corri Cappuccetto Rosso, corri, mentre il mantello lentamente si scioglie e il Cacciatore, sotto le tre grosse querce, è un lupo che ha nostalgia della luna. “Togliti i pantaloni”. “…” “Togliteli”. “No”, sussurri, poi ti volti su un fianco, gli dai le spalle, la faccia tra i cuscini. Respiri l’odore acre che trasuda dalle lenzuola. È un odore che non ti piace e pensi che è più forte dell’ultima volta e che ogni volta è sempre più forte. E che non andrà più via, per quanto potrai strofinare e strofinare, non andrà più via. Respiri e pensi che non ti piace e che è l’unico odore che vorresti avere sempre addosso. Ti volti. L’interruttore finalmente scatta e sembra che la luce ci metta un tempo infinito a svanire da te, da lui, da ogni più piccolo angolo. Ti volti e ti volti. Dalle imposte socchiuse tutto quanto ciò che è fuori entra ed esce dalla stanza - luna di lupo immensa, grande, fuori dalla finestra. Ti guardi, guardi i tuoi e i suoi vestiti lasciati ovunque - sembrano altre persone di cui non è rimasto quasi più niente. Guardi la sua ombra che va e che viene sopra di te. Si ingigantisce sul soffitto ed è sempre più vicina, addosso - ti cola addosso, tra le gambe, cola insieme all’odore, alla maglia. Chiudi gli occhi. Lasciami qui, lasciami tornare, pensi e sai che vorresti soltanto smettere di tremare in quel modo ogni volta e che ogni volta ti senti così brutta e così bella. Si sdraia, ti tira a sé. “Togliteli”, sussurra, “Togliti i pantaloni”, dice. Ti divincoli, resisti, ma solo quel tanto perché sia più dolce essere tenuta ferma. “No”, continui a ripetere, “No”, mentre gli afferri le mani – che mani grandi che hai - e le stringi. Ti tira a sé, ti solleva il mento, sorride. La sua barba scintilla alla luce della luna - luna immensa, grande, che fa paura, di lupo, che ti rincorre, spalanca la bocca, che bocca grande che hai, e poi ti mangia in un sol boccon. Non guardare, non guardarla, tieni gli occhi bassi, alzati e corri via di là, corri, più veloce che puoi, non parlare con nessuno, non voltarti, sputa tutti i semi della mela, corri, fino in fondo, fino alle tre grosse querce, corri, corri, corri, tre, due, uno: TANALIBERATUTTI!

di Flavia Ganzenua m


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Cappuccetto

Rosso

Una favola dark per adulti

In quella fotografia c’era tutto: il fine delle sue indagini e quello dei suoi impulsi. Era la locandina del suo miglior spettacolo. Per il cabaret che aveva visto spie e travestiti, ufficiali in divisa che si baciavano, i soldati, sotto i tavoli, facevano il resto, la musica suonava e le bambine senza mutande, il trucco pesante sul volto morbido, come i bambini, cantavano canzoncine dai doppi sensi intrattenendo i gerarchi. Lui, a volte, saliva sul palco e cantava con una di quelle ragazzine – mai con i maschietti, anche se conciati da femminucce. Truccato come loro. Il viso, però, era duro. Duro il suo membro nei pantaloni. Gli occhi, tracciati dal mascara, sempre tristi. Malgrado il sorriso col rossetto. La foto, adesso, è il ritratto più bello dell’album dei ricordi dolci e strazianti. Non riesce a smettere di guardarla. C’è raffigurata una bambina in sottoveste e mantellina. La fotografia è in bianco e nero. La mantellina, però, con il cappuccio alzato sulla testa, mettendo così il volto in ombra, è colorata: di rosso. Come la macchia di sangue colato dal corpo nudo, a parte un maglioncino parzialmente infilato, della donna sul pavimento davanti a lui. Lui che ora solleva lo sguardo verso la finestra: fuori il bosco al mattino presto di aria rarefatta. “Prima o poi, tutti attraversiamo il bosco. Lì, tra le ombre degli alberi, calpestando il muschio umido, tra creature che non riusciamo a vedere, ne avvertiamo solo il furtivo abitare, perdiamo la nostra innocenza.” Cappuccetto Rosso cammina veloce, il fiato corto, quasi corresse. Sa che non può far tardi e poi… Si guarda indietro, sentendosi inseguita. Il suo respiro è sempre più affannato. Si ferma all’improvviso, interrompendo quel respirare convulso che fa male alla gola e a un fianco, perché sfinita. Ma, soprattutto, perché le pare di avvertire un altro respiro, che è addosso a lei. Nessuno la insegue: eppure è proprio vicino a lei. Un respiro profondo, basso: un respiro che sembra un sussurro. Non capisce cosa stia mormorando. Però è spaventoso. Non vede a chi appartiene. Ma c’è. L’appartamento di città è ricco. Non propriamente ricco, per essere più precisi, appartiene a un’alta borghesia che ha perso il proprio benessere dopo l’avvento del nuovo governo, ma che mostra, proprio nella grandezza di quella casa dalle alte pareti e il pavimento a scacchi, nei suoi arredi, l’ultimo ricordo della passata condizione. La donna, non più giovane, ma neanche vecchia, l’età è indefinibile, trentacinque, cinquant’anni, chi lo sa, finisce di scrivere un messaggio. Lo piega e lo mette in una busta. La sigilla con la saliva. La bambina poco più in là gioca con una bambola e un lupo di pezza. La bambina è quasi un’adolescente. I due pupazzi si toccano. Anche la ragazzina si tocca: il pube sopra le mutandine, mentre il lupo scivola tra le gambe aperte e rigide della bambola di plastica. La donna le si avvicina e la bambina nasconde dietro di sé il lupo, togliendolo di scatto dalla bambola. Si leva anche la mano da pube. La donna, la madre, forse, le porge la busta con il messaggio: «Portalo dove sai.» Poi si accorge che la bimba ha dietro di sé il pupazzo del lupo. Lo prende. Lo guarda. Guarda la ragazzina e le dà uno schiaffo in faccia. La bambina trattiene a stento le

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Pastiche lacrime. Il suo pube piange di nascosto. «Ora vai» dice la donna con un ordine perentorio. La bambina si lega i lunghi capelli biondo-castani con un elastico, mette la mantellina rossa e lascia l’appartamento, mentre la donna guarda fuori dalla finestra. In fondo, niente era cambiato in quella sua città: solo la gente. Quella sì. Non riconosceva più la sua città in quelle persone. Solo l’inquadratura della sua finestra, immutabile nel tempo, le faceva dire che era la sua città.

Per poi gelarla ancora di più tra le cosce esili e indurite dal cammino. Nella casa del bosco, la donna poggia sul tavolo del cibo per l’uomo appena arrivato. Pane spezzato in una minestra. Lui si toglie il cappello e posa la pistola sul tavolo, sopra la foto della bambina col cappuccio rosso. Si avvicina per baciare la donna. Lei volta il viso: «Non è il momento» gli dice. «Il Cacciatore è sulle tue tracce.» Lui scrolla le spalle. Poi lei sfila la fotografia da sotto il revolver. Lui invece le sfila il golfino. La donna resiste appena pochi secondi. Qundi toglie da sé la sottoveste. Seduta nuda sul tavolo, apre le gambe. In ginocchio davanti al suo pube dalla folta peluria nera, l’uomo le lecca il sesso aprendolo con le dita, con esse le scava dentro, le pareti della vagina sudano. Il suo membro è indurito fuori dai pantaloni. Lo masturba. Lui non può spogliarsi – «Non è il momento.»

In strada, un tale sta attaccando un manifesto al muro. Ma deve fuggire appena sente arrivare di corsa due uomini armati di manganello e tirapugni che cominciano a inseguirlo. Lo bloccano. Lo trascinano a terra. Lo massacrano di botte. Lo lasciano steso al suolo. Non serve portarlo in questura: è solo un attacchino. Ormai ne puniscono tanti così. Qualcuno rimane ucciso. I poveri, i miserabili tra i miserabili, prendono quello che trovano su queste vittime. Qualcuno è stato mangiato. La bambina li guarda andare via. Poi alza lo sguardo: la donna – forse la madre – le fa cenno di proseguire.

È invece un momento breve e intenso come un conflitto a fuoco. Lui la penetra con foga attraversata da ansia, quasi con irruente disperazione: la felicità nella più sconvolgente melanconia. Uguale a quella che prova lei, che tira su un piede sulla spalla di lui allontanandosi dalla sua bocca, poggia i gomiti sul tavolino. Lui le bacia il piede sotto la pianta sporca della polvere del pavimento trascurato, un po’ di polvere anche tra le dita dalle unghie con lo smalto scheggiato, le lecca sbiadendole quella sporcizia.

Cappuccetto Rosso lascia la città ed entra nel bosco: “Il bosco è appena fuori città. È il posto dove nascondersi. Dove perdersi. Il bosco non è di nessuno. Anche se lì ci aspetta qualcuno.” Nel bosco, gli alberi sono gli unici a respirare normalmente sopra il cielo pesante. Tra la vegetazione di un verde quasi nero, i raggi smorti del sole, ribelli al cielo plumbeo, s’insinuano tra i rami e i tronchi rischiarandole i capelli e gli occhi già chiari e trasparenti - quasi.

Poi l’allontana da sé spingendola indietro con le mani sui fianchi magri e tirando fuori il pene dalla sua fica fradicia, la clitoride tenuta turgida e scoperta dai peli, la vagina vomita lattiginosa sfinita soddisfazione ancora non soddisfatta completamente nell’evidente palpitare del suo interno e dell’ano; il cazzo sta per esaurire il suo piacere in un fiotto liberatorio che viene trattenuto dall’uomo contraendo i muscoli e fermando ogni pensiero giusto il tempo di far abbassare lei davanti a quel sesso che ora può finalmente eiaculare abbondante sulla sua bocca. Sperma diluito di saliva cola languido sul mento. «Non è il momento.» Non è il momento per venirle dentro. Non è il momento per pensare al futuro. Bosco. Di nuovo il respiro: profondo, inquietante, questa volta non sembra un sussurro, ma solo un respiro affannato di piacere e dolore che si perde in qualcosa che somiglia a un lamento di paura. La bambina comincia a correre più veloce che può. Il cappuccio le cade sul collo. I capelli si sciolgono. Ogni parte di lei pare perdere il controllo,

Nell’appartamento di città. Notizia alla radio: «Il ministro della propaganda è stato assassinato. Il Lupo ha ucciso ancora.» La donna spegne l’apparecchio. Sembra soddisfatta. Accenna un sorriso. Sì, è tanto soddisfatta. Ora Cappuccetto Rosso ha freddo, non che prima non lo avesse, ma adesso si sente gelare; si tira su il cappuccio e continua per la sua strada. Quindi il silenzio. Solo il silenzio del bosco. Nessuno. Eppure, l’inquietudine che si era impossessata di lei, non la lascia. Il silenzio è solo un respiro trattenuto. Un passo furtivo, col fiato sospeso. Potrebbe essere piacevole, e questo piacere lo sentirebbe colare dall’acerbo sesso, se non fosse spaventata. La paura d’un tratto la fa uscire a un po’ di pipì che le riscalda il giovane sesso.

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Pastiche il proprio ordine: pare sciogliersi. Corre a perdifiato. Su un palo della luce della città, lampione ancora spento nel pomeriggio, c’è un manifestino con la foto di una bambina scomparsa. Lui la guarda. Il suo viso ha una strana espressione mentre lo osserva. Tocca i contorni del volto della ragazzina fotografata. Quasi in una carezza. Ambigua tenerezza: dunque mostruosità. Ancora un po’, incantato da quell’immagine d’innocenza – lui che conosce solo colpe; anche nelle anime innocenti. Quindi tira dritto. Un altro uomo lo saluta, impermeabile addosso e saluto militare: «Buongiorno commissario.» Lui fa un cenno di risposta e si dirige in direzione del confine della città. In direzione del bosco. Strana città questa, il bosco si presenta d’un tratto come una rigida linea di frontiera. Potrebbe essere l’incubo selvaggio del brutto sogno dell’ordine. Poi Cappuccetto Rosso si riferma all’improvviso, si guarda intorno, si assicura di non aver perso il messaggio. Il respiro intorno a lei è cessato ancora. Il gelo tra le cosce asciugato. Non c’è neppure la sensazione del ricordo di quel respiro che si riverbera tra gli alberi. Niente. Niente sussurro, nessun lamento. Più nessuna presenza. Le sembra però di sentire un urlo arrivare da lontano. Potrebbe essere di un uomo, o di una donna, un bambino, forse. Forse è solo il verso di un animale. Ma è orribile. Un brivido di terrore e angoscia la percorre; peggio di prima. Violento e senza alcun piacere. Abbassato a terra, lui toglie dalla mano della donna uccisa la fotografia della bambina col cappuccetto rosso. Poco più in là, pure l’uomo giace morto sul pavimento. Anch’egli riverso nel proprio sangue. I pantaloni chiusi. Lei invece è ancora nuda: solo il golfino le copre un braccio, una spalla e un seno. Il commissario tiene in mano la pistola dell’uomo assassinato. La pistola del Lupo. Quindi si affaccia sull’uscio. È vestito con gli abiti della donna. Il viso truccato maldestramente – non come nel cabaret. È grottesco. Terrificante. È il Cacciatore. Con un sorriso e un lieve movimento della mano, quasi in un inchino, fa cenno alla bambina di entrare. Lei appare tranquilla. Una canzone anni 30 del XX secolo avvolge la casa suonando da un giradischi. I due cadaveri sono stati occultati, non c’è voluto molto. Poco a pulire. Lui sa bene come fare. Niente lascia tradire ciò che è accaduto in quella casa. A parte il sorriso strano dell’uomo che si finge donna: non dichiara ciò che è avvenuto, certo, ma dice che qualcosa è avvenuto. Ed è irreversibile. Qualcosa che ha cambiato quell’interno per sempre. Accenna un passo di danza verso la bambina che lo/la guarda immobile. Lui/Lei si accuccia davanti alla piccola e le tira su il cappuccio. «Che bella bambina!» La ama. È un amore sincero. È un amore orrendo. L’amore assoluto per la bambina della foto a terra: la sola cosa rimasta sul pavimento. L’unica traccia di sangue è su quella fotografia. Come sullo smiley del Comico di Watchmen. Sulla foto della bambina dal cappuccetto rosso. Il Cacciatore la fissa. Negli occhi inespressivo, eppure pieno d’irrefrenabile gioia, nonostante l’insopprimibile tristezza. Il leggero sorriso è sempre lì, non muta, lì sulle sue labbra esageratamente truccate; ma è poca roba davanti a quello sguardo di rimmel privo di ogni stato d’animo e colmo di tristezza e vuota gioia. Un vuoto che inghiotte tutto. Anche il sorriso sinistro che si spegne quando la bambina si tira giù il cappuccio e gli sfiora con le dita gli occhi. Lui li chiude lentamente. Lei gli sbava il mascara con i polpastrelli ancora freddi. Va giù sul naso seguendone il profilo con un dito. Quindi le labbra, macchiando di rossetto col palmo della mano i lati della bocca.

Il Cacciatore la apre. Esterno giorno. Città. Su un muro, la foto di Cappuccetto Rosso con sotto la scritta: “Scomparsa”.

Sergio Gilles Lacavalla


Helbones Artist


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