PASTICHE 4 (febbraio 2012)

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mensile gratuito • Febbraio 2012

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Rossana Bossù - Uomo di Latta


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Cari amici e compagni, lasciatemelo dire, noi di PASTICHE siamo fieri di presentare su questo numero uno dei personaggi più controversi e malefici della Storia. Chi è? forse Charles Manson?… ma no, no! E allora chi? Hitler o magari Karl Brandt?… ma no, no! Sarà allora Norman Bates o Hannibal Lecter… ma no, no… Posso solo dirvi che questi sono tutti suoi figli prediletti. Sì perché il nostro ospite è uno che la sa lunga su come fare del male e il coraggioso Pierangelo Consoli ha rischiato la pellaccia per intervistarlo: sto parlando nientepopodimeno che del cattivissimo re degli Inferi: l’affascinante SATANA. E chiaramente non finisce qui, chi ci segue lo sa bene: potrete leggere infatti un bellissimo pezzo di antropologia narrativa di Alfonso Nannariello, poeta meridiano raffinato e profondo che proprio in questi giorni sta presentando il suo ultimo libro (Rosso Inverso, ed. Libria, 232 pgg, 14E); potrete gustare i disegni suggestivi di Rossana Bossù, illustratrice di libri che per questo lavoro s’è ispirata al Mago di Oz; si chiuderà l’avventura antisacrale de La lettera di Luca Antonini; e ancora, entreremo nel vecchio edificio grigio e magenta del Macello con la prosa elettrica della nostra scrittrice preferita S.H. Palmer; ammireremo [ELE]ABORAZIONI, l’interessantissimo progetto foto-grafico di Elena Cupisti e un nuovo e intenso racconto cronachistico di Luca Carelli; infine un’altra puntata, precisamente la quinta, del mio Siamo tutti figli di Caino. Un saluto e come al solito LEGGETE, CONDIVIDETE, SCARICATE, DIFFONDETE!

p.2 Editoriale p.3 Nero in campo bianco (Alfonso Nannariello) p.4 Sandra (Luca Carelli) p.6 Intervista a Satana sul Rock’n’Roll – I parte (Pierangelo Consoli) p.8 [ELE]ABORAZIONI (Elena Cupisti)

PASTICHE è pensata e redatta da Paolo Battista e Pierluca D’Antuono. Grafica e impaginazione a cura di Scuola Internazionale di Comics. Per ricevere a casa PASTICHE in abbonamento (costo 10 E) scriveteci a: pasticherivista@gmail.com indicando nome e recapito. Per inviare il vostro materiale (poesie, racconti - lunghezza da concordare disegni, foto b/n, contributi vari) scrivete a: pasticherivista@gmail.com oppure all’indirizzo: Paolo Battista Via F. Laparelli 63 - 00176 Roma www.facebook.com/pasticherivista 2

p.10 Giustizia Infame (Paolo Battista) p.13 Ich habe mir einen intramuskolären Traumblitz gegeben (S.H. Palmer) p.14 La lettera – III e ultima parte (Luca Antonini) p.15 BLITZRECENZION #4: Un gioco malvagio (S.H. Palmer)


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Nero in campo bianco di Alfonso Nannariello Sulle facciate delle case rivolte ad est, di giorno e di notte, il bianco parava le insegne dell’assoluto. Era il palio di quell’uomo che dentro si portava lampi e tuoni, macigni rotolati da fiumi ed eruttati da vulcani. Già all’alba annunciava che lì c’era un essere divino, un essere pieno di spazi pieni: dal fegato al cuore, dalle viscere ai reni. Di notte, in campo nero, non smetteva di spargere quella voce in giro. Quando venne Ungaretti, il paese era così, e l’uomo pure. Non per niente il primo titolo della poesia che Calitri gli suggerì fu Acquaforte. Già la registrazione, riportata nell’articolo per la «Gazzetta del Popolo» di Torino, il 9 settembre del ’34, delle case bianche in dissapore muto con il baratro e la frana, ha il carattere dell’acquaforte, fa capire la lotta fatta da quegli uomini per scoprire l’immagine di sé e conquistarsi quell’identità. Lì solo, perciò, tra tutti i paesi in quel viaggio visti, il poeta partorì «un’opera che sfida qualsiasi altra anche per bellezza». Così aveva riferito nell’articolo del 22 agosto di quello stesso anno, e questo ribadì a Giuseppe De Robertis quando nel ‘49 gli inviò Il povero nella città, la sua prima raccolta di poemi in prosa, raccolta in cui ancora oggi è confinata la poesia limata e rititolata Calitri; Deposto dal torrente c’è un macigno Ancora morso dalla furia Della sua nascita di fuoco. Non pecca in bilico sul baratro Se non con l’emigrare della luce Muovendo ombre alle case Sopra la frana ferme. Attinto il vivere segreto Col sonno della valle non si sperde; Da cicatrici ottenebrate Isola lo spavento, ingigantisce. Se fosse venuto d’inverno, con tutto il bianco aggiunto della neve e le giornate corte, il paese gli sarebbe potuto sembrare il vanto della morte, e un miserere la donna che passava avvolta nello scialle e nelle sue cose nere. Se fosse venuto d’inverno, non credo che Ungaretti avrebbe visto un’incisione diversa da quella che vide. Nonostante le tracce del corruttibile - le ombre, le cicatrici ottenebrate, il sonno della valle - e le minacce della natura - il baratro, la frana e il terremoto che aveva lasciato quelle cicatrici - attinto il vivere segreto, nella coscienza di quegli uomini era stabilizzata una «chiarezza spirituale». In loro tutto era diviso con punte d’acciaio, il falso dal vero. In loro non c’era equivoco, non c’erano tremori dell’identità. Anche col variare della luce e delle stagioni il bianco era bianco e nero il nero. D’inverno, sulle facciate delle case rivolte ad est, di giorno e di notte, il bianco sarebbe rimasto il manifesto intatto dell’autarchia, l’autotestimonianza di quegli uomini, della loro altèra autosufficienza. Il bianco della neve e il nero del vestito e dello scialle avrebbero solo inasprito ai sensi l’acquaforte di quell’uomo tatuata sulle spalle.

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SANDRA di Luca Carelli Cara Federica, come ogni mercoledì chiudo la tabaccheria alle sette e torno subito a casa per preparare la cena a mamma e metterla a letto prima che cominci la trasmissione. Anche stasera lei non ti vedrà perché come sai non vuole più avere a che fare con voi. Mamma è stanca e vecchia e non ci sta più con la testa. La forza e la fede che per tanti anni l’hanno sorretta stanno svanendo o così almeno mi sembra, ma in realtà irradiano la mia forza d’animo e il mio sentimento, sempre più solidi e presenti. Il tempo passa in fretta e crolla su di sé, si ribalta e si ripete, ma non torna mai indietro (è come vedersi). Mamma non si muove quasi più, sta tutto il giorno a letto, tranne la mattina, quando pulisce la stanza di Sandra e passa la lucidatrice per terra (allora era lei a farlo). Ogni mattina apre l’armadio e accarezza i suoi vestitini immacolati, e anche se chiude la porta sento la plastica protettiva crepitare sotto il tocco pesante delle sue mani rugose e callose e poi come una preghiera il silenzio s’impone fatale. Mamma ingoia la pastina fredda con il grana gommoso e il tonfo del cucchiaio che sbatte contro la dentiera mi procura un brivido che mi squarcia la schiena. Talvolta mi chiedo se questa è ancora vita e i pensieri d’odio mi tolgono il respiro e allora colpisco con più forza i suoi denti di plastica sporchi e graffiati perché so che non può lamentarsi (mamma non parla da un anno). Alle nove meno dieci rimbomba nella sua bocca l’ultimo colpo, è tardi ed è ora di accendere il televisore. Stasera, cara Federica, mi racconti la storia orrenda di Natasha, ma il lieto fine che questa terribile vicenda riserba ravviva il mio rancore nei confronti di mamma, che ha smesso di lottare per Sandra. Penso che registrerò la puntata per fargliela vedere domani ma poi decido che deve vederla immediatamente e allora vado a prenderla e la pianto sul divano affianco a me. Mamma mugola e si lamenta, chiude gli occhi e fa dei versi spaventosi, ai quali io rispondo alzando il volume e quel senso di speranza simile a torpore che trasuda da ogni vostra immagine e dalle tue parole, cara Federica, la raggiunge senza pietà, perché Sandra non venga dimenticata, perché Sandra è ancora viva, perché qualcuno ci aiuti, perché trionfi la giustizia. È per questo che ogni mercoledì notte, a fine puntata, spengo il televisore e riascolto ad alto volume la voce di Sandra, e sento mamma piangere nel suo letto, mentre la gioia del ricordo esplode dentro di me e la felicità del passato cancella gli incubi più oscuri e le parole di mia sorella, la mia sorellina di soli undici anni, muovono le mie mani sul mio corpo provocandomi un piacere che è la forza di una speranza inconfessabile, un desiderio che sono l’unico a coltivare ancora. Questa sera, cara Federica, mi racconti di come la piccola Natasha, rapita a soli dieci anni (uno in meno di Sandra), dopo otto infiniti anni di segregazione, sia riuscita a liberarsi e tornare a vivere, per la gioia dei suoi famigliari. Avrà anche Natasha un fratello che la ama quanto io amo mia sorella? Penso di si, ma mi rendo conto che non è essenziale saperlo o non mi interessa. Sul divano mamma ha chiuso gli occhi e fa finta di dormire (come se bastasse per non sentire), mentre io ti guardo intensamente, cara Federica, e ora siamo soli, io e te, in questa stanza, e allora posso dirti cos’è successo questa settimana. È già da un anno, come sai bene, che frequento il bar degli uomini che rapirono Sandra e proprio lì, qualche giorno fa, ho ritrovato l’uomo della registrazione, quello che un mese prima che la rapissero portò mia sorella a casa sua per interrogarla e registrare la sua voce su nastro. Quando l’anno scorso avete parlato di Sandra, mamma non voleva che trasmetteste quel nastro, ma io l’ho convinta perché, come dicevi tu, tutti devono sapere. Per me fu sconvolgente sentire per la prima volta quella registrazione e riascoltare dopo tanti anni la dolce e tenera voce di Sandra. Da allora non posso più farne a meno e tu, cara Federica, lo sai. All’inizio quell’uomo sembrava disponibile, pareva che volesse aiutarmi ed era l’unico a dirmi che si, anche lui è certo che Sandra è ancora viva. Ma presto ha cominciato a farmi tutte quelle domande e a dirmi che ero proprio uguale a Sandra e che lui la conosceva bene perché si sono visti tante volte e una volta si sono pure baciati e voleva farmi vedere come hanno fatto e allora ha allungato le mani. In quel momento, cara Federica, ho pensato a te, ma non ho avuto la tua forza,

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né il coraggio di Fiore o l’astuzia di Gianloreto e allora sono andato via. Sandra è ancora viva, io lo so. Nel bar ci sono due porte sbarrate che nessuno apre mai e credo che forse è perché lei è lì da allora. Cara Federica, il tempo non fa il suo dovere e talvolta peggiora le cose. Ti fisso con amore mentre dici che Natasha ha scritto un libro in cui racconta i giorni della sua prigionia. Forse ora mamma dorme davvero e allora penso che un libro lo voglio scrivere pure io, un libro su Sandra che è ancora viva ma è prigioniera nel bar e pensa sempre a noi e forse ha anche dei figli. Se pensi, cara Federica, che sia una storia impossibile, io allora ti chiedo non sei stata forse tu a dirmi di Elizabeth, la donna che per venti anni è stata rapita dal padre dal quale ha avuto sei figli? Nel libro, Sandra è triste e disperata non perché sta morendo o perché qualcuno le ha fatto del male, ma perché ci pensa e sente la nostra mancanza. Lei vuole scappare e poi incendiare il bar così quelli che l’hanno rapita muoiono e lei può tornare da noi e insieme viviamo di nuovo felici e contenti e mamma guarisce e ricomincia a parlare e Sandra può usare di nuovo i suoi vestiti e io non devo più ascoltare la sua voce registrata e forse quel nastro posso anche buttarlo. Il libro, cara Federica, lo leggeranno tutti così diventiamo ricchi e famosi e andiamo alla tv, e torniamo pure da voi e alla fine Sandra può fare tutte quelle cose che mamma avrebbe voluto per lei: lasciare la scuola dopo la terza media, stare a casa ad aiutare per le pulizie e la lucidatrice, incontrare un ragazzo serio e sposarsi e avere dei figli. E se proprio non ci sono ragazzi seri e tranquilli, se tutti vengono dal bar degli uomini che l’hanno presa, alla fine la sposo io. Il tempo, Federica, si ribalta e si ripete, ma non torna mai indietro (è come vedersi). Ma alla fine noi ce la facciamo e viviamo tutti felici e contenti. Sandra Sandri scompare nel nulla a Bologna la mattina del 7 aprile 1975, all’età di 11 anni, mentre va a scuola in via Farini. Non è mai stata ritrovata. Un mese prima della sparizione viene “interrogata” dal vicino di casa Ignazio Parentela, noto pedofilo bolognese, al quale confessa di subire da tempo abusi sessuali da parte di almeno due uomini (compari del Parentela). L’interrogatorio viene registrato dall’uomo e oggi è l’unica traccia che resta della piccola Sandra. Recentemente una nota trasmissione televisiva si è occupata ripetutamente e inutilmente del caso, rinfocolando sadicamente il dolore dei famigliari. Luca Carelli nasce a Bologna nel 1960. Negli anni ’80 scrive alcuni romanzetti gialli che per un fortuito errore di stampa cromatico vengono accolti dalla critica come noir. Nel 1985 viene condannato per uno dei misteriosi delitti del DAMS che all’epoca insanguinano Bologna. È stato scarcerato nell’agosto del 2011 e affidato dal Tribunale di Sorveglianza di Bologna alla redazione romana di PASTICHE, per cui scrive brevi racconti ispirati a fatti recenti di cronaca nera. SUPERVISIONE ed EDITING Pierluca D’Antuono http://www.chilhavisto.rai.it/dl/clv/Misteri/ContentSet-71c9b1b9-7b6a-4003-8745-ce9c109f511d.html http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-1cf63f79-60b7-4528-96cc-78d9115f31f3.html

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I n t e rv i s ta a S ata n a s u l R o c k ’ n ’ R o l l di Pierangelo Consoli (Parte I) Sono riuscito a chiedere direttamente al Diavolo cosa ne pensa del Rock n’roll. E’ stato un mio amico a dirmi che se volevo poteva provare a sistemare la cosa. Si è preso un paio di giorni per decidersi, poi pare che abbia detto «è sempre pubblicità gratis, checcazzo!» Così il mio amico mi ha telefonato per dirmi che si poteva fare e che mi avrebbe fatto sapere lui dove e quando. «Ci vediamo al bar sotto casa mia che ti spiego un po’ questa cosa ok?» «Ok!» Seduti a un tavolino mi fa «ci sta mettendo un po’ perché non riesce proprio a decidersi su come si deve presentare. E’ un po’ una troia da questo punto di vista, sai com’è?» «No, non lo so com’è, com’è?» «È come quando uno non sa cosa indossare, solo che per lui è un po’ più complicato che indossare un vestito, deve decidere che forma assumere, capisci?» «Quindi è un lui.” «Certo, che pensavi che Satana fosse un nome da femmina? E poi, lui, lei, stiamo parlando del male assoluto, può essere un cane, una luce, una donna…» «Preferirei una donna particolarmente attraente, che dici si potrebbe fare?» «Perché non provi a prendere questa cosa un po’ più seriamente?» «Non lo so, non lo so proprio…» Alla fine ha deciso di venire a casa mia, non c’era bisogno di sbattersi troppo per trovare un posto adatto, è un periodaccio se ti occupi di certe cose, così deve aver pensato uno ne valeva un altro. Aveva scelto di presentarsi sotto le spoglie di un sosia di Jimmy Page da vecchio, con tanto di codino e capelli bianchi. Parlando di rock n’roll, considerando che c’è dentro da prima di chiunque altro, gli deve essere sembrato appropriato. Con un piccolo sforzo si era giusto tenuto gli occhi diversi, uno verde e uno blu, tipici del Diavolo, però un dubbio mi è venuto lo stesso, così gli faccio «aspetta un secondo, chi mi dice che non mi state facendo uno scherzo? Che tu non sei d’accordo con il mio amico e mi state prendendo per il culo?» Detto questo lui mi guarda e gira la testa di lato tipo cane malato e dice «non ti sto seguendo.» «Andiamo, potresti essere chiunque, chi mi dice che sei davvero il signore delle tenebre?» «Che cazzo ti aspettavi, un cane parlante? Cosa dovrei fare, mettermi a camminare sull’acqua della vasca, sputare fuoco, volare? Perché invece non cominci con le domande e la facciamo finita?» «Non mi aspettavo che dicessi tutte queste parolacce, nei libri ti appioppano sempre un modo di parlare compito e profetico.» «Parlo nel solo modo in cui tu puoi capirmi, potrei parlare in aramaico e citare le formule della relatività, ma non credo che andremmo troppo lontano mi segui? Non ti sopravvalutare!» «Ok, ok, forse è meglio se accendo il registratore e cominciamo va bene?» «Non credo che ti servirà quel coso.» «Perché?» «Perché la mia voce non viene su quei cosi, non è mica la prima volta che qualcuno ci prova, ma che credevi che fossi tanto stronzo? Il dubbio che io non esista fa parte del mio fascino, non mi faccio inculare dal primo che arriva, prova, dai, registra una frase qualsiasi, volevi una prova che fossi proprio io? Eccoti la prova.» «Dai allora, premo rec e parti, uno, due, tre!» «Io sono il signore dio tuo» e ride, all’inferno ci sono bar cabaret dove battute come questa

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ti stendono, ma qui, nel mio soggiorno, mi stupisce solo che no, il registratore non le tiene strette. Gli chiedo di riprovare, «uno, due e tre, vai!» «I’m wait the hell…», canticchia con una voce strozzata. Ancora una volta riprovo, la mia voce si sente, la sua per niente. «Ok, ho capito, lo metto via.» Finalmente siamo pronti, ci mettiamo comodi sul divano, inutile dire che a questo punto se ne va a puttane anche l’idea di un servizio fotografico, e penso, cazzo come farò a far capire alla gente che non mi sto inventando niente? Mi prenderanno tutti per il culo. «Bene, la prima domanda, si, volevo sapere come è cominciato tutto?» «Vuoi che cominci dal principio? Non mi dirai che vuoi sul serio tutta la stronzata dal principio? Devo cominciare dal paradiso o vuoi che mi soffermi sulla terra?» «No, no, io dicevo come è cominciata con il rock’n’roll?» «Ah, bene, ok, mi sa che tutto è cominciato negli anni cinquanta, con il blues, sai, ci fu questo nero che trovò il modo di contattarmi e mi propose questo affare.» «Che tipo di affare?» «Ma sai, le solite cose, tu mi dai una mano a sfondare e io ti do la mia anima. All’inizio non ero convinto, vedi, la gente pensa che me ne fotta di prendere singole anime, come se fossi un fruttivendolo al dettaglio, mi offendono certe cose, per chi mi avete preso? Per un bottegaio? Io lavoro all’ingrosso e che cazzo, sono il solo sulla piazza, ho un budget illimitato e lavoro in tutto il mondo, così lo mandai semplicemente a fare in culo.» «E quindi non se ne fece niente?» «Mi presi qualche giorno, io mi prendo sempre qualche giorno per pensarci, poi ho capito. Non ci stavo nello spettacolo prima di allora, non sapevo bene come funzionasse, che margini di guadagno effettivi potessero esserci, a quel tempo mi occupavo d’altro, sai, le solite cose, genocidi, Klux Klux Klan, avevo le mani in pasta in un sacco di cose, guerra fredda, mi sa che avevo bisogno di stimoli, gli anni cinquanta erano un po’ molli anche per me, non è che la mia vita sia una pacchia, ho i miei cazzo di problemi anch’io, e alla fine mi resi conto che questa storia della musica poteva funzionare, aveva del potenziale. In sostanza capii che con quella roba potevo portare un bel po’ di gente dalla mia, so come siete fatti voi esseri umani, vi piacciono le idee, vi piace innamorarvi dell’idea di qualcuno o l’idea di qualcosa, vi ispirano e se potevo veicolare questa ispirazione senza che voi ve ne accorgeste allora si poteva fare il botto, così tornai da lui e gli dissi facciamolo!» «E come andò?» «Lo vedi da te, va bene, ci avevo visto giusto no? Da allora sono cambiate molte cose, ma sono riuscito ad accaparrarmi alcuni tra i migliori musicisti sulla piazza, sono stato bravo come talent scout, tu che dici?» «Penso di si, ma io intendevo con il primo, le cose andarono subito per il meglio?» «Non proprio per il meglio, ero alle prime armi e lui non era certo un genio della chitarra, altrimenti non sarebbe venuto da me. Ci ho messo un pochino a carburare ma col tempo sono migliorato e non erano tutti dei brocchi quelli che sono passati da queste parti, molti di loro ce l’avrebbero potuta fare comunque, ma il mondo è beffardo, certe volte finisce che non ce la fai per una serie di coincidenze sbagliate, io invece sono una garanzia, ti metto a disposizione la gente giusta e faccio in modo che tutti siano soddisfatti, è il mio lavoro.» «Quindi tutto è partito dal blues?» «Dal blues, certo, il rock’n’roll è partito dal blues, questo lo sanno tutti, bianchi che cercano di fare la musica dei neri. Sam Phillips, fu lui a fare tutto, a trovare Elvis, Jerry Lee Lewis e tutti gli altri. Un vero e proprio strumento del demonio, ah ah ah. Ma fu con gli anni sessanta e settanta che ho cominciato a carburare sul serio, a fare le cifre grosse, se sai cosa intendo…» «Fammi capire, sei tu che gli dici cosa devono dire, scrivi i testi o cosa?» «Oh no, no, io non ci capisco un cazzo di arte, altrimenti me le scriverei da solo le canzoni ti pare?» (CONTINUA)

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[ELE]ABORAZIONI IL FOTOGRAFO ORMAI È UN CRIMINALE CHETORNA PIÙ VOLTE SUL LUOGO DEL MISFATTO TRAMITE LA FOTO APERTA SUL PROPRIO MONITOR PC. IL DELITTO VIENE CONSUMATO SULL’IMMAGINE. RIDISEGNARE ALCUNE FORME,ALCUNI CONTORNI PER RIDEFINIRE LO SPAZIO, REINTERPRETARE LE VITE ALTRUI E INVENTARSI ALTRE REALTÀ.

So fare di tutto. Lavoro sempre; a casa, la sera, i miei vestiti odorano di vernice, di verdura e di benzina. La luce dell’alba è l’odore del mattino. (Sto lavorando)

Perché un muro è circondato da cancelli? Perché un pisciatoio pubblico è così protetto? Perché una trappola senza via d’uscita in piena luce? Ogni volta che torno a casa e passo da lì, non mi domando più niente. Vedo solo l’impossibilità d’uscita della mia vita materializzata in quel posto assurdo. (No way out)


“Affanculo il 105, affanculo il trenino, affanculo le diagonali perfette” ... KAAAAbooooom! “È tanto che lo volevo fare!!!” disse il vecchio cannone coperto d’erbacce Coca Cola e Peroni. (Kabooom)

Squalo 3-Tuffatrici 0. Avanti Signori sta per arrivare un altro trenino! (Guardoni)

Gli uccelli possono posarsi sul filo della corrente perché le zampe toccano contemporaneamente il cavo. Chissà se l’uomo ci riesce? (Uccelli)


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GIUSTIZIA INFAME di Paolo Battista Me ne sto tutto solo sullo scalino del China a fissare un ragno orribile che con le sue lunghe zampette cerca di scavalcare un pezzo di muco rancido quando passa un ragazzo dai capelli spettinati e due occhiaie da brivido. Mi guarda come se fossi io il ragno e mi passa un foglio con su scritto: A DUE ANNI DALLA MORTE DI STEFANO CUCCHI IL PROCESSO E’ FERMO… Porca puttana, penso tornando con la mente a due anni prima, povero Stefano, e poi: che cazzo di giustizia è questa che uccide in modo così atroce? E come Stefano penso a tutti quei ragazzi e amici massacrati da poliziotti infami che alla fine comunque se la cavano ricevendo a stento un’ammonizione: eroi del cazzo! Intanto inizia ad arrivare gente, e ognuno di noi ne potrebbe raccontare di storie simili, pestati a sangue da sbirri che si fanno di troppa televisione e trattano la gente come plebaglia: tossici, stranieri, studenti, zingari, trans, puttane, per loro non abbiamo nessun valore, ma un giorno, se è vero che l’universo non perdona, tutta questa cattiveria gli tornerà in faccia con la forza di un pugno ben assestato: sbirri del cazzo! Mentre stiamo discutendo non mi accorgo che è arrivato pure Gigetto, con la faccia simile a qualche strano pesce del mar Morto, mi strappa dalle mani il foglio che sto fissando da venti minuti, e spara che lui Stefano lo conosceva bene, dice che era uno der quartiere, che nun se meritava de finì come ‘n cane. Poeraccio!, esclama curvando gli occhi verso il basso, ma che voi fà, continua agitando le dita rinsecchite, se te pijano de mira è la fine! Giustizia infame, sbotto io, sempre la stessa storia, manco la morte ormai c’ha un po’ di dignità, mentre il foglio gira tra le mani degli ultimi arrivati tutti solidali e tristi per questo anniversario dimenticato dalla maggior parte delle persone. Poi tiro su il colletto della giacca nera e alzo la testa e vedo una lastra grigia pronta a spezzarsi in mille pezzi, inizia a fare freddo e per strada c’è più traffico del solito. Gianni strizzando gli occhi velocemente dice che prima de Natale dovrebbe da pijà li sordi dell’incidente, ma ormai sono quasi quattro anni che ripete lo stesso ritornello e nessuno ci crede più. Allora si siede sullo scalino tirandosi il jeans verdognolo sotto l’inguine, allenta la cintura di cuoio per non schiattare e sogna che je piacerebbe da pijalli sti sordi così armeno se farebbe la festa de Capodanno co li controcazzi: quest’anno me vojo sfonnà la capoccia!, esclama come se in passato non avesse avuto lo stesso pensiero. Poi Lisa s’intromette e bela: ‘na vorta ce so’ passata pure io, ‘na vorta che pischella m’ero rotta er braccio dopo ‘na caduta! Sei anni c’avevo messo pe famme dà ‘na miseria d’assegno. Minchia, spara il Calabrese muovendo quelle labbra spigolose e sottili. È ‘na vergogna lo so, bela Lisa, ma che dovevo fa, era così ch’annava prima ed è così che va pure oggi, giustizia ‘nfame! E’ vero, esclamo io riinfilandomi nel mucchio come una formica, quando ho fatto l’incidente con la moto c’hanno messo dodici anni per darmi i pochi spiccioli che avevo chiesto, e pure m’ero spaccato tibia perone e femore!, alzando il jeans e mostrando le mie cazzute cicatrici. Insomma qua va tutto a focu, chiude Rocco che poi si accende una Diana e come fa di solito senza dire niente a nessuno si allontana con Giancarlo, e visti da dietro sembrano fratelli tanto che si assomigliano: c’hanno lo stesso

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taglio sudaticcio di capelli, a spazzola e brizzolato, lo stesso giubbotto di jeans, lo stesso passo strambo con l’unica differenza che Giancarlo è molto più alto e c’ha una piccola gobba sulla parte destra della schiena come Igor in Frankestein junior. Dice Gianni che hanno chiamato n’artro negro, chè da quarche giorno er solito nun se vede più e dice che questo fa li pezzi da trenta e la robba dentro è abbondante come farina pe la pasta. Ma pecché nun lo sapete, imbrocca Orazio grattandosi il mento barbuto, a Simon, sì lo spaccia che avemo cercato de menà l’artra vorta, ‘nsomma l’hanno preso e pure menato e me sa che stavorta lo rispedischeno ‘n Africa co ‘n ber carcio ner culo. Poi zoppicando entra dal cinese e compra la solita Peroni che stappa e tracanna tutta d’un fiato. Anvedi questo, sbotta Gianni, facce fa du’ schioppi a fijo de ‘na mignotta! Ma vattela a pija ‘n saccoccia, sbuffa Orazio mostrando i denti gialli di tabacco, famme beve ‘n santa pace che questa è la prima bira de la giornata. M’anvedi che taccagno!, risfodera Gianni che poi scolletta un po’ di spicci continuando a bestemmiare e urlare contro Orazio che a sua volta impreca e urla contro Gianni come un cane rabbioso. Poi mi squilla il telefono e sento Silvia tutta preoccupata. Frigna che ha chiamato sua sorella ma anche un po’ di sue amiche ed è un casino da pazzi, dice che addirittura si parla di sette morti per tutta l’acqua che ha invaso le strade della ‘Superba’, e quindi cerco di distrarla rivelandole che ho comprato i biglietti per il concerto romano dei 99 Posse. Che bello, spara lei, ti amo! Anch’io ti amo, le rispondo, ci sentiamo più tardi, ma percepisco comunque la sua agitazione: Genova è la sua città ed è giusto che sia preoccupata, e allora strappo la boccia dalle mani di Gianni per dissetarmi l’ugola e allentare l’agitazione che Silvia mi ha mischiato come un raffredore. Poi si presenta anche Piotta col suo solito marsupio nero e un Corriere dello sport sotto l’ascella pezzata. Spara che ormai è tutta ‘na finzione, co sti giocatori dopati che se sentono male e pe poco nun moreno ‘n mezzo ar campo. E poi dicheno che semo noi li tossici!, esclama con un latrato acido ma ragionevole. Hai visto Cassano, continua ficcando la testa in mezzo al giornale, j’è presa ‘na cosa ar core e ha finito de giocà. Pecchè a quell’artro, s’attacca Gianni, come se chiama?...quello co la faccia da mastino, daje sì, Gattuso, dice che ne vedeva quattro de ‘braimovic mezz’ar campo, ha capito come! È tutta ‘na vergogna, squittisce er Piotta che poi vomita, ormai questi s’abbottano de dopping, so’ peggio de li drogati veri: guarda Aquilani pe la madonna, era ‘na stecca de bijardo e mò ‘nvece è grosso quanto n’armadio.

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A me però quello che m’ha fatto più ‘mpressione è stato er negro der Cammerun, quello che è morto mentre stava a giocà, sbuffa Gigetto spremendosi il cervello debilitato, come se chiamava: Foe, e comunque ce ne stanno tanti che hanno fatto sta fine, ve ricordate pure Manfredonia de la Roma? Armeno lui s’è sarvato, sbotta er Piotta che poi legge ad alta voce un articolo su Simoncelli, quello del MotoGp morto dopo una caduta al gran premio della Malesia, e per qualche secondo cala un silenzio più esplosivo di una bomba. Insomma, ringhia Orazio scolandosi l’ultimo sorso di birra, s’è arivata la tua ora nun ce sta gnente da fà, ce devi sta e basta! Nun se vince contro la signora cor cappuccio! Anvedi er filosofo, sbotta Gianni. Poi Lisa bela che ha parlato co Anna, la tipa dell’Unità di strada, e dice che j’hanno levato li fondi e quinni arrivederci e grazie! Tanto semo solo quattro tossici demmerda, ringhia Lisa spostandosi una lunga ciocca castana dietro l’orecchio piccolo. ‘Nsomma, esclama Orazio, semo proprio l’ultima rota der caro! E sai la novità!, sbotto io che poi scorgo Silvia con una gonnellina nera a pieghe, stivali consumati sotto al ginocchio e una maglietta scura a righe orizzontali sotto una giacca color cenere. Belin, mi dice, non ce la facevo più a stare a casa, volevo prendere un po’ d’aria. Hai fatto bene, le dico, avevo voglia di vederti, però qua stamattina tira ‘na aria da funerale che manco a un funerale è così da funerale, baciandola sulla bocca insaporita di Alpenlibe. Dopo un po’ anche Orazio si allontana, di sicuro c’ha la punta col negro e mentre lui sparisce, Rocco e Giancarlo ritornano tutti fatti e ciondolanti come scimmie sotto esperimento. Alla prossima, se vedemo, grida Orazio che accanna tutti e schizza via strascicando la sua gamba di legno. Così mi sposto con Silvia dal Baffo, ci beviamo un bel caffè e restiamo seduti a fumarci io il mio cannino e lei la sua Camel. Davanti al bar ci sono tre marocchini che sghignazzano a bocca aperta e tre vecchiette senza denti che spettegolano a bocca stretta. Via di Porta furba è come al solito incasinata, tre semafori e due vigili provocano un ingorgo esagerato e la gente spreme i clacson come fossero arance frullate. Le foglie dei grandi platani ai lati della strada iniziano ad ingiallirsi e vederle svolazzare nell’aria mi da una bella sensazione, molto vicina alla libertà. Anche Silvia si fissa sulle giravolte di una foglia a cinque punte e con la bocca sapida di caffè e sigaretta mi bacia infilandomi la lingua in gola come un trapano. Quando torniamo verso il Ser.T è rimasto solo Gianni che dice sta aspettando Olimpia pecché c’hanno la punta cor tipo de la cocaina. M’andò cazzo stà?, sbarella Gianni sempre più isterico perché dalla pera della mattina sono passate parecchie ore e la rota nevrotica inizia a farsi sentire. Poi guardo il telefono, è quasi ora di pranzo, salutiamo Gianni che ancora aspetta la sua donna e con Silvia ci avviamo al supermercato che a casa come al solito il frigo piange. Mentre stiamo per attraversare vediamo la testa giallognola di Olimpia fare gestacci dall’autobus, rispondiamo al suo saluto schizofrenico e guardiamo Gianni raggiungerla alla fermata. Lei scende imprecando prima contro un negro che a detta sua la stava a spigne de sotto e poi contro un vecchio zozzone che sempre a detta sua je stava a parpà er culo flaccido. La prossima vorta te strizzo le palle, s’infiamma e insieme a Gianni si dirige al parcheggio del supermercato in via Filarete dove di solito tutti noi ci facciamo in completa tranquillità. (CONTINUA)


TRAUMBLITZ GEGEBEN

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ICH HABE MIR EINEN INTRAMUSKöLAREN di S. H. Palmer

Prima di arrivare lì dove avevamo deciso di scavare ci sarebbe toccato lasciare S** al suo appartamento pieghevole con la promessa di non far passare troppo per vedersi di nuovo. Una donna di cipria ci scruta da poco lontano, scruta e ci carica sollevando una nuvola di polvere con i rastrelli che aveva ai piedi. Si avvicina e lo spettacolo ha inizio: i movimenti risultano ovattati dal rumore degli scafandri che si porta dietro, è solo una percezione fuori fase. È lentissima. Sembra una scheggia. Agita i bracci nervosi e il corpo ovoidale mentre S** con la sua stoltissima genialità ci fa notare come l’unico problema con la donna di cipria – G** il suo nome, nubile il suo stato civile – possa essere il fatto che siamo ancora vivi: non solo le stiamo sulle palle per un motivo a caso, ma anche perché siamo ancora vivi. Frau G** si lamenta atona dei biondi maledetti che hanno fatto un gran casino sotto la finestra di S**. Frau G** da buona osservatrice e casaringhia non ha perso neanche un rutto di quei momenti e li riferisce con gran precisione e pathos. Bestemmiavano in cingalese e recitavano rime triviali...hanno devastato tutto quello che c’era… hanno dato fuoco a qualcosa gridando ‘brutta stronza imputridita’ al nulla. Questo ci viene riferito, mentre S** si accende un sigaro stanco e con lentezza liquida la polverosa interlocutrice: battuta, la megera, in 160 caratteri. Mentre la nuvola grigia si allontana ci guardiamo le facce, noi tre. Soli. Il fatto che i ragazzacci dell’altra sera sappiano dove abita, non scalfisce affatto S** nel suo sciocco splendore e transitivamente non tange me e probatoriamente Q** non si sforza di capire come non ce ne potesse fottere. Fatto sta – tra questi fatti – che anche se stavamo per morire e staccare un braccio allo sconosciuto, l’attimo in cui la polvere dai piedi-rastrello di Frau G** in un vortice silenzioso si accingeva a toccare il pavimento del mondo, avrebbe saputo esistere dieci minuti o una vita fa. E si sta pure facendo tardi per i fossi. Niente fossi, niente cose, niente cibo, niente bere al Macello e via dicendo. Trovare un posto da sfossare ancora vergine era ogni volta una scoperta che ci rendeva più leggeri di cuore, se non per il fatto di credere nell’esistenza di zone ignote in cui poter giocare ai pirati e mangiare ciliegie coralline di zucchero e baci. Eppure quel giorno il caldo era aberrante e noi troppo stanchi. Sul catorcio sporco scivoliamo ridendo e sentendo la musica in testa. Restare in silenzio per attimi enormi e cominciare a cantare lo stesso punto esatto della stessa dannata canzone. Viviamo insieme ormai da tanto e cerchiamo cose, scaviamo fossi, beviamo sciocchezze e tutto il resto. Tanto tempo fa sognavamo di andare lontano, ma la guerra i nostri desideri li ha distrutti insieme al resto. La memoria era parecchio dolorosa: non ricordavamo mai ad alta voce. Mai da quando la guerra era finita. O forse da quando si era sopita; non volevamo azzardarci a credere che fosse finita davvero per paura di svegliarci ancora una volta sotto cumuli di macerie roventi. Q** c’aveva perso due dita, durante un assalto. Il pianoforte si chiuse pesante mentre stava suonando. Quella bomba sembrava un terremoto: due dita spaventate il risultato. Solo due. Per fortuna. Riuscivamo a scavare mezza dozzina di fossi profondi sei metri e dal diametro di almeno altri sei. Tra cadaveri di elettrodomestici, scarpe sfuse e altro c’era una copia delle Wahlverwandtschaften 1 alla quale mancavano almeno trenta pagine. Ricordavo alla perfezione quel libro ed il quadrato amor-morboso dei personaggi. I randagi si sarebbero leccati i baffi. 1 J.W.Goethe, Le affinità elettive.

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LA LETTERA di Luca Antonini (parte III) Pochi minuti dopo la porta si riaprì e apparve Martin. «E tu che ci fai qua? Ti hanno beccato con la roba?» disse Andrea. «Zitto, che di quella non sanno niente! Mi hanno incastrato!» «Eh? Hai mandato anche tu una Lettera al Vicariato di Roma?» «Macché! Sta’ a sentire che ti racconto!» Martin gli disse che una studentessa Erasmus inglese era appena stata ammazzata e lui era stato tirato in ballo da due clienti altolocati del suo pub: il figlio di un noto imprenditore del luogo e un’australiana di buona famiglia, ricca e potente. A sconvolgere Andrea era il modo in cui Martin viveva tutto questo. Era tranquillo e sicuro, e non perché si giurava innocente, ma perchè aveva «fede». Parlava rigirandosi tra le mani un grosso crocifisso d’avorio che gli pendeva dal collo, ed evocava il prete mozambiano che lo aveva salvato dalla sanguinosa guerra civile a cui aveva partecipato da bambino, assumendo droghe e commettendo omicidi, stupri e sevizie. «A’ Martin, ma me stai a’ cojona’? Se sei arrivato in Italia a 13 anni, quando l’hai fatta tutta sta roba?» Martin lo fissò negli occhi con sguardo calmo e sereno: «tu non hai fede, ragazzo mio. È stato molto tempo fa e ora grazie a Gesù quel bambino non c’è più. È stata la fede a salvarmi. Dio mi ha redento e sono sicuro che la verità su quella povera ragazza uscirà presto... e io sarò salvato, anche questa volta.» La mattina dopo Andrea venne scarcerato. Stancamente si diresse verso casa, gettando occhiatacce a tutti i passanti che lo incrociavano e lo fissavano confabulando tra loro. Si chiuse nella sua stanza e non uscì più di casa, finchè un lunedì una raccomandata annunciò il suo licenziamento. Il telefono squillava, ma lui non rispondeva. Un giorno finalmente sentì il bisogno di aprirsi con qualcuno. «Mamma è successo un casino!» «Che t’avevo detto? Non dovevi andare li! Dovevi rimanere qui da noi! E non dovevi metterti con una del Nord! Torna qui Andrea! Lo sai che l’assessore amico di tuo padre ti trova subito un lavoro al Comune, poi ti sposi una bella ragazza, una delle nostre, metti su famiglia e mi fai diventare nonna! Ti ricordi Antonio? La moglie aspetta già il terzo figlio!» «Mamma, cazzo, sempre le stesse puttanate mi devi dire? PER FAVORE!» «Andrea non parlare cosi con tua madre, NON TI PERMETTO, sai?» Come al solito litigarono e Andrea non disse niente e quando chiuse stava peggio di prima. Cercò su Internet il numero di un buon avvocato, ma rimase colpito da un trafiletto di cronaca su un quotidiano locale: Martin era stato scagionato e assolto da ogni accusa. Il titolo dell’articolo era «...E IO SARÒ SALVATO». Aprì la finestra per prendere una boccata d’aria. Erano cominciate le prime calde giornate di primavera, respirò a fondo il leggero vento che da Sud, come balsamo, rinfrescava la cappa di erba e fumo stantio che regnava nel suo appartamento. Aveva voglia di fare colazione quando sentì uno strano rumore, come un piccolo gridolino minaccioso, provenire dalla strada. Era il cane della sorella del parroco, fasciato come una mummia, che zampettava timidamente sotto gli occhi vigili della padrona. Allora non era morto! La vicina non faceva che urlare piena di gioia: «grazie Signore, GRAZIE! È un miracolo! Zenaide, Nannina, guardate, Ughino si è ripreso! È UN MIRACOLO!» Uscì di casa in pigiama e corse verso la chiesa. Bussò alla sagrestia con violenza e appena il parroco aprì annunciò con voce rotta e contrita: «Padre! Ho capito tutto! Da quando ho scritto quella dannata lettera la mia vita è cambiata! Mi sono allontanato dalla grazia di Dio! Mia madre aveva ragione, la mia vicina aveva ragione, tutti avevano ragione, Martin, Luciano, Martina (oh, Martina!), ora capisco Padre, la prego, mi perdoni per tutto il male che ho fatto! La prego si sieda e scriva al Vicariato di Roma!» «Mi scusi, ma lei chi è?» Il parroco non aveva capito una parola e ora fissava quel giovane e trasandato ragazzo, sicuramente drogato, che era di fronte a lui. «Come chi sono? Sono Andrea Apicella, l’autore di quell’ignobile lettera! Sono il peccatore, la Maria Maddalena! Ora capisco tutto, il pentimento, la divina provvidenza, il fuorigioco e tutto il resto! Voglio essere redento, Padre!» «Ma di che lettera parla?» «Io ho profanato il battesimo, uno dei sacramenti più santi! Mi sono allontanato da Santa Romana Chiesa e dalla grazia di Dio! Bruci quella lettera Padre, lo faccia ora, davanti a me!» Andrea non ascoltava più, aveva un fuoco dentro che ardeva e parlava per lui.

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Don Alfio stava per perdere la pazienza, prese un respiro e tentò di modulare il tono della voce. «Mi spiega chiaramente di che lettera parla?» Fu impossibile per il vecchio parroco non urlare. «Del modulo per sbattezzarsi!» rispose Andrea, in piena estasi mistica. «Ah, ora capisco», sorrise il parroco, «lei parla di questo» e tirò fuori dalla scrivania un modulo già compilato. Nel coprire i dati anagrafici non sfuggì ad Andrea parte del nome e del cognome: era il figlio del suo capoufficio, ora in prigione con l’accusa di omicidio, dopo aver tentato di incastrare Martin. Un altro pezzo del mosaico, pensò. «Sa, c’è la riservatezza, non posso dirle chi l’ha inviata, ma le assicuro che ormai di lettere come queste ne mando a Roma diverse l’anno», giurò Don Alfio. «Padre, io ho sbagliato e sono pentito, voglio tornare indietro, mi riaccolga nel suo gregge!» Don Alfio scoppiò a ridere. «Guardi che per noi il battesimo, come ogni sacramento, è indissolubile! È come il matrimonio; lei sa che chi si sposa contrae un vincolo sacro che solo la morte può sciogliere?» Andrea rimase immobile, con gli occhi di fuori, la bocca spalancata e lo sguardo perso. «Dunque la lettera non ha alcun valore?» «Non le si può nascondere proprio niente, ragazzo mio, eh?» Un attimo dopo era già corso via, verso la piazza. Doveva scoprire se davvero quel dannato modulo era soltanto carta straccia. Si fermò davanti al solito bar, dove tutto era cominciato. «Buongiorno signore». «Per favore, un pacchetto di Lucky Strike mordide. LA PREGO!». La ragazza sembrava confusa. «Blu o rosse?» Un grido di giubilo squarciò l’aria tranquilla del locale. Ora Andrea era davanti alla chiesa, dove, inveendo e dimenandosi, prese a spogliarsi urlando al cielo: «non mi avrete mai, brutti stronzi, NON MI AVRETE MAI!!!» Dal bancone, la ragazza lo guardava impaurita. «Papà, sta male?» Il gestore del bar scosse la testa. «È un drogato Mariella, quante volte devo dirtelo? Chiama la polizia.» FINE (le puntate precedenti sono state pubblicate nei numeri 2 e 3 di PASTICHE)

BLITZRECENZION # 4 di S. H. Palmer Un gioco malvagio

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http://www.youtube.com/watch?v=UAOxCqSxRD0&noredirect=1

«Smetti di suonare questa canzone, te lo sto chiedendo col cuore in mano!» «Col cuore di chi?» (shanduziopalmer.tumblr.com) 15


Rossana Boss첫 - Dorothy www.rossanabossu.blogspot.com - www.rossanabossu.carbonmade.com


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