AMMINISTRATIVO 1

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28-02-2001

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4/2000 ANNO XVIII - FASCICOLO IV - DICEMBRE 2000

Spedizione in a.p. - 45% - art. 2 comma 20/b legge 662/96 - Filiale di Varese

ANNO XXII

2004


indice generale dell’annata 2004

DOTTRINA pag. G. ABBAMONTE, Attualità e prospettive di riforma del processo amministrativo .............................................................................................................

315

R. CAVALLO PERIN, Il riparto di giurisdizione del concordato Romano- D’Amelio ...............................................................................................................

14

F. CINTIOLI, Tecnica e processo amministrativo ................................................

983

R. CHIEPPA, Il controllo giurisdizionale sugli atti delle autorità antitrust .......

1019

V. DOMENICHELLI, Regolazione e interpretazione nel cambiamento del diritto amministrativo: verso un nuovo feudalesimo giuridico? .........................

1

E. FOLLIERI, Il processo ......................................................................................

84

G. GUIDARELLI, I provvedimenti cautelari monocratici nel processo amministrativo .......................................................................................................

727

G. GUCCIONE, Il ricorso avverso il silenzio-inadempimento dell’amministrazione: breve ricostruzione storica dell’istituto ed applicazioni giurisprudenziali del rito ex art. 2 della legge 21 luglio 2000, n. 205 .................

1083

B. LOCORATOLO, Il sistema giurisdizionale comunitario. Novità e prospettive tra il Trattato di Nizza ed il progetto di trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa ..............................................................................

446

F. MERUSI, Variazioni su tecnica e processo .....................................................

973

G. MONTEDORO, La costituzionalità del nuovo assetto del riparto di giurisdizione dopo l’adunanza plenaria n. 4 del 2003 ........................................

94

L.V. MOSCARINI, Vizi del procedimento e invalidità o ineffıcacia del contratto .

597

A. PAJNO, Il giudice delle autorità amministrative indipendenti ......................

617

A. ROMANO, La giurisdizione amministrativa esclusiva dal 1865 al 1948 ......

417

G. ROMEO, L’effettività della giustizia amministrativa: principio o mito? .......

653

F. SAITTA, Esecuzione dei contratti ad evidenza pubblica e giudice amministrativo: la (persistente?) « specialità » della giurisdizione esclusiva alla ricerca di un’identità smarrita ..........................................................

29

L. STEVANATO, Arbitrato e deroga al giudizio amministrativo .........................

122


1274

INDICE GENERALE DELL’ANNATA 2004

D. VAIANO, L’onere dell’immediata impugnazione del bando e della successiva partecipazione alla gara tra legittimazione ad agire ed interesse a ricorrere .....................................................................................................

693

P. VIRGA, È sindacabile il mancato esercizio del potere di vigilanza edilizia? ..

443

GIURISPRUDENZA ANNOTATA Corte cost., 6 luglio 2004, n. 204, con note di V. CERULLI IRELLI, Giurisdizione esclusiva e azione risarcitoria nella sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 6 luglio 2004 (osservazioni a primissima lettura), e di R. VILLATA, Leggendo la sentenza n. 204 della Corte Costituzionale .........

799

Corte di giustizia CE, Sez. VI, 15 maggio 2003, Commissione c. Regno di Spagna, con nota di L. QUERZOLA, La Corte di giustizia ancora come il Benvenuto Cellini dei diritti processuali nazionali: tutela cautelare e processo amministrativo spagnolo (o europeo?) .....................................

266

Cass., Sez. un., 16 aprile 2004 n. 7265, con nota di M. DELSIGNORE, I rapporti individuali di utenza con soggetti privati secondo l’interpretazione della Corte di Cassazione ..................................................................................

1123

Cons. Stato, Ad. plen., 31 maggio 2002 n. 5, con nota di A. TRAVI, L’art. 23bis della l. n. 1034 del 1971 fra disciplina particolare e rito speciale ..

143

Cons. Stato, Ad. plen., 23 marzo 2004, n. 6, con nota di S. SPUNTARELLI, Perenzione e procedimento monocratico in Consiglio di Stato ...................

841

Cons. Stato, Sez. V, 14 luglio 2003 n. 4167, con nota di A. MARRA, Rinegoziazione del contratto dopo l’aggiudicazione e riparto di giurisdizione .

1156

Cons. Stato, Sez. V, 5 marzo 2003 n. 1218; Sez. VI, 5 maggio 2003 n. 2332; Sez. VI, 30 maggio 2003 n. 2992; Sez. IV, 27 ottobre 2003 n. 6666, con nota di F. GOISIS, In tema di conseguenze sul contratto dell’annullamento del provvedimento di aggiudicazione conclusivo di procedimento ad evidenza pubblica e di giudice competente a conoscerne ..................

177

Cons. Stato, Sez. IV, 18 novembre 2003 n. 5108, con nota di B. LUBRANO, Limiti e poteri dell’ordinanza cautelare nel processo amministrativo .......

1186

o

T.A.R. Veneto, Sez. III, 1 febbraio 2003 n. 914 e n. 916, con nota di M. FRACANZANI, Pronuncia sul rapporto: nuove ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo? ......................................................

486

T.A.R. Campania, Napoli. Sez. I, 20 maggio 2003, con nota di D. MARRAMA, L’organismo di diritto pubblico e gli appalti di servizi e di forniture sotto-soglia ................................................................................................

497

T.A.R. Lombardia, Sez. II, 2 ottobre 2003 n. 4503, con nota di F. CORTESE, Ancora sulla responsabilità della p.a.: prove tecniche di giudizio ed ipotesi ricostruttive ....................................................................................

527


INDICE GENERALE DELL’ANNATA 2004

Corte di Appello di Napoli, Decreto 25 novembre 2003, n. 31034, con nota di F. AULETTA, La trascrivibilità di domande giudiziali proposte al Tar .

1275

880

RASSEGNE - RECENSIONI - NOTIZIE L. BERTONAZZI, Il diffıcoltoso inquadramento del Regio Decreto 17 agosto 1907, n. 642, recante il « Regolamento per la procedura dinanzi al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale », tra le fonti del diritto primarie o secondarie ....................................................................................

906

F. GOISIS, La violazione dei termini previsti dall’art. 2 l. n. 241 del 1990: conseguenze sul provvedimento tardivo e funzione del giudizio ex art. 21-bis l. Tar ...............................................................................................

571

S. VALAGUZZA, Illegittimità della procedura pubblicistica e sue interferenze sulla validità del contratto ........................................................................

284

S. VALAGUZZA, La concretizzazione dell’interesse pubblico nella recente giurisprudenza amministrativa in tema di annullamento d’uffıcio ..................

1245



indice

DOTTRINA pag. V. DOMENICHELLI, Regolazione e interpretazione nel cambiamento del diritto amministrativo: verso un nuovo feudalesimo giuridico? ......................

1

R. CAVALLO PERIN, Il riparto di giurisdizione del concordato RomanoD’Amelio ................................................................................................

14

F. SAITTA, Esecuzione dei contratti ad evidenza pubblica e giudice amministrativo: la (persistente?) « specialità » della giurisdizione esclusiva alla ricerca di un’identità smarrita ......................................................

29

E. FOLLIERI, Il processo ..................................................................................

84

G. MONTEDORO, La costituzionalità del nuovo assetto del riparto di giurisdizione dopo l’adunanza plenaria n. 4 del 2003 .....................................

94

L. STEVANATO, Arbitrato e deroga al giudizio amministrativo ......................

122

GIURISPRUDENZA ANNOTATA Cons. Stato, Ad. plen., 31 maggio 2002 n. 5, con nota di A. TRAVI, L’art. 23-bis della l. n. 1034 del 1971 fra disciplina particolare e rito speciale .......................................................................................................

143

Cons. Stato, Sez. V, 5 marzo 2003 n. 1218; Sez. VI, 5 maggio 2003 n. 2332; Sez. VI, 30 maggio 2003 n. 2992; Sez. IV, 27 ottobre 2003 n. 6666, con nota di F. GOISIS, In tema di conseguenze sul contratto dell’annullamento del provvedimento di aggiudicazione conclusivo di procedimento ad evidenza pubblica e di giudice competente a conoscerne ....

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Corte di giustizia CE, Sez. VI, 15 maggio 2003, Commissione c. Regno di Spagna, con nota di L. QUERZOLA, La Corte di giustizia ancora come il Benvenuto Cellini dei diritti processuali nazionali: tutela cautelare e processo amministrativo spagnolo (o europeo?) ...............................

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RASSEGNE - RECENSIONI - NOTIZIE S. VALAGUZZA, Illegittimità della procedura pubblicistica e sue interferenze sulla validità del contratto ....................................................................

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Hanno collaborato a questo fascicolo ROBERTO CAVALLO PERIN professore ordinario di Diritto amministrativo nell’Università degli Studi di Torino VITTORIO DOMENICHELLI professore ordinario di Diritto amministrativo nell’Università degli Studi di Padova ENRICO FOLLIERI professore ordinario di Diritto amministrativo nell’Università di Foggia FRANCESCO GOISIS ricercatore di Diritto amministrativo nell’Università degli Studi di Milano GIANCARLO MONTEDORO consigliere di Stato LEA QUERZOLA dottore di ricerca in Diritto processuale civile nell’Università degli Studi di Bologna FABIO SAITTA professore ordinario di Diritto amministrativo nell’Università di Catanzaro LORENZO STEVANATO consigliere T.A.R. SARA VALAGUZZA dottore in giurisprudenza


dottrina

VITTORIO DOMENICHELLI

REGOLAZIONE E INTERPRETAZIONE NEL CAMBIAMENTO DEL DIRITTO AMMINISTRATIVO: VERSO UN NUOVO FEUDALESIMO GIURIDICO?

A dispetto dei proclami e delle buone intenzioni degli anni novanta, nessuno ancora crede che l’ordinamento amministrativo del nuovo secolo potrà essere più semplice, che la società potrà essere meno regolata. Il mito della « deregulation » si è dissolto nella marea montante dei nuovi interessi assurti a rilievo politico e giuridico, ancor prima di frantumarsi sugli scogli delle nuove burocrazie (europee, nazionali, regionali e locali) alimentate dalla necessità di governare quegli interessi. Fonti e prescrizioni europee incrociano massicciamente le discipline nazionali; organizzazioni amministrative di nuovo impianto (Autorità, Garanti, Agenzie) si sono affiancate, senza scalzarli, ai tradizionali apparati e aspirano tutte a crearsi un ruolo: soprattutto regolatore (1). Nessuno può negare che l’emersione di nuovi interessi socialmente rilevanti dal magma indistinto degli interessi anonimi possa legittimare la nascita di nuove strutture di regolazione e amministrazione, ma non è facile sottrarsi all’impressione che siano frequentemente le nuove strutture ad alimentare la crescita o la distinzione di nuovi interessi per regolarli e legittimare il proprio ruolo in una spirale patologica di accrescimento organiz(1) Sulla potestà normativa, come attributo naturale delle autorità indipendenti, cfr. MARZONA, Il potere normativo delle autorità indipendenti, in AA.VV., I garanti delle regole, a cura di CASSESE e FRANCHINI, Bologna, 1996, 87 ss.; con specifico riferimento all’Antitrust, cfr. ANTONIOLI, Mercato e regolazione, Milano, 2001, 151 ss.

Dir. Proc. Amm. - 1/2004


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VITTORIO DOMENICHELLI

zativo e normativo. Fenomeno che attraversa tutti i livelli di organizzazione pubblica. A fondamento della regolazione si invocano, del resto, valori cosı̀ superiori (ad esempio, su fronti spesso opposti, il mercato e l’ambiente) che giustificano a priori regolazioni talvolta imponenti, talvolta minuziose ed invasive, spesso ossimori giuridici perché giustificate dalla semplificazione che dovrebbe essere antitetica alla regolazione. Ne nascono discipline che nulla hanno a che vedere con la ottocentesca disciplina legislativa dei (pochi) interessi pubblici rilevanti affidati ad un’amministrazione monolitica e strutturalmente semplice. Nuovi interessi, nuove autorità, nuovi livelli di regolazione e nuove regole che si esprimono per lo più in atti non legislativi, ma che dispongono di una forza spesso superiore a quella della legge, o perché si affermano particolari tecniche di prevalenza che privilegiano la provenienza delle norme (ad esempio di quelle europee su quelle nazionali o regionali indipendentemente dal grado effettivo di legalità della prevalenza) o perché sfruttano la loro stessa posizione di nicchia, protetta nei confronti dell’efficacia della legge da una sorta di « riserva » normativa, lasciata dalla legge, che sottrae le norme (formalmente) inferiori alle regole formali della gerarchia delle fonti (2). Non ci si riferisce solo al proliferare dei regolamenti, ormai di svariatissimi livelli, natura e rilevanza: da quelli tradizionali del governo e degli enti locali territoriali a quelli delle nuove autorità, anch’esse di livello nazionale (i vari garanti) o locale, anche se di « ambito vasto » (ad es. le A.A.T.O. nel nuovo ser(2) Sulla crisi dello Stato e dunque della legge, fondamentali i lavori di BERTI: oltre al saggio già ricordato nella postfazione, naturale il rinvio al volume Diritto e Stato: riflessioni sul cambiamento, Padova, 1986. Il tema è trattato magistralmente anche da CASSESE in molti lavori; cfr. in particolare: L’erosione dello Stato: una vicenda irreversibile, in La crisi dello Stato, Roma-Bari, 45 ss., nonché Crisi e trasformazione del diritto amministrativo, in Gior. dir. amm., 1996, 869 ss. Sulla crisi della legge, v. DELLA CANANEA, I poteri pubblici nello spazio giuridico globale, in Riv. trim. dir. pubbl., 2003, 37 ss., e, più in generale, RUGGERI, Interessi, norme e criteri ordinatori, Torino, 2001; dello stesso autore Governo e sistema delle fonti, in Dir. soc., 2002, 33 ss.


REGOLAZIONE E INTERPRETAZIONE

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vizio idrico integrato); ma pensiamo anche agli atti variamente denominati (deliberazioni, determinazioni, segnalazioni, risoluzioni, decisioni, comunicati, ecc.) emanati dalle stesse autorità in applicazione dei poteri espliciti o impliciti loro assegnati dalle discipline legislative (3). Atti, questi ultimi, che non hanno valore normativo e neppure vogliono atteggiarsi a strumenti di regolazione, ma che fornendo indicazioni e indirizzi difficilmente eludibili dagli operatori del settore, finiscono per diventare strumenti reali di disciplina (4). Di una disciplina che spesso non trova alcun parametro legale cui confrontarsi pur incidendo sull’operare quotidiano di enti, imprese, famiglie e persone. In definitiva, una grande quantità (difficile stabilire anche quanto grande) degli atti che governano aree di enorme rilievo economico e sociale non hanno valore di legge, ma non hanno minore forza regolatrice, che, anzi, sfuggendo alle regole tradizionali del rapporto con la legge e dell’applicazione della legge, incidono ancor di più — e più liberamente — sull’azione concreta dei soggetti regolati e, cosı̀, sulla vita dell’ordinamento. Tali atti — tanto se configurabili come regolamenti, quanto se non riconducibili ad alcun tipo di fonte — sono in grado di dirigere serie importanti di interessi, più specifici di quelli che una disposizione legislativa avrebbe la possibilità di regolare: perché gli interessi da essi governati spesso non sono predeterminati, ma colti nel loro farsi all’interno di ordinamenti di settore, a loro volta definiti e regolati da atti delle autorità o degli (3) N. BASSI, Principio di legalità e poteri Amministrativi impliciti, Milano, 2001. (4) Gli esempi potrebbero essere molti, a partire dalle determinazioni dell’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici atti di incerta classificazione giuridica, ma con evidenti aspirazioni regolatrici. Fra le altre Autorità, da ultimo, particolarmente significativa appare la segnalazione dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato 30 gennaio-7 febbraio 2003, in ordine al contenuto dei bandi di gara CONSIP, che non costituisce un parere ex art. 21, l. n. 287 del 1990, né una segnalazione vera e propria ex art. 22, ma una direttiva sotto la forma di « auspicio ». Ma v. anche il ruolo di un’autorità di controllo come la Corte dei Conti, quando (cfr. delib. S.R. controllo 27 febbraio 2003 n. 7) pone principi di indirizzo e coordinamento che « integrano » il « disposto letterale del comma 5 dell’art. 24 » della l. fall. 2003 sugli obblighi di comunicazione agli organi della Corte stessa dei contratti stipulati a trattativa privata.


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apparati più che dalla legge, cosicché gli interessi sono individuati o svelati dalle stesse autorità regolatrici nell’ambito di specifici procedimenti, con un’attività creativa più che applicativa di norme. Non solo, ma è frequente che pur riferendosi ad un caso, l’autorità si rivolga, intenda rivolgersi, a tutti i casi eguali che si stanno svolgendo o si svolgeranno. Fonti, dunque, atipiche forse, ma più efficaci della legge, operanti nell’ambito di ordinamenti settoriali nei quali rischia di perdersi l’unità dell’ordinamento, inteso come sistema coerente di norme poste in un rapporto chiaro e razionale, non necessariamente gerarchico, fra di esse. Se la diminuzione del vincolo legislativo non attenua il vincolo normativo sulla società, sulle imprese e sulle amministrazioni, la perdita della centralità della legge nella regolazione degli interessi generali incide anche sulle tecniche di applicazione e di interpretazione. Chi non comprende, ad esempio, la forza della disapplicazione della norma inferiore per effetto dell’applicazione della norma superiore, tecnica che la Corte costituzionale ha introdotto per le norme europee, ma che rischia spesso di trasbordare nei rapporti fra fonti statali e regionali (non importa se, dopo la riforma del titolo V, a favore della più forte od esclusiva fonte regionale), cosı̀ come spesso viene applicata al rapporto fra fonti legislative e regolamentari, fra regolamenti di diversa natura e provenienza, fra atti regolamentari e non (5)? Cosı̀ che la tradizionale teoria della non disapplicabilità della legge e dei regolamenti ad opera del giudice e dell’amministrazione, lascerà (forse) il posto alla doverosa disapplicazione ove l’interprete ravvisi la prevalenza o la recessività di una fonte sull’altra, mescolando tecniche consuete di individuazione della (5) Sulla disapplicazione dei regolamenti un ampio spettro di opinioni è raccolto in Impugnazione e disapplicazione dei regolamenti, Torino, 1998 (Atti del Convegno organizzato dall’Ufficio studi e documentazione del Consiglio di Stato e dall’Associazione studiosi del processo amministrativo, Roma 16 maggio 1997, più recentemente, FRANCARIO, Inapplicabilità del provvedimento amministrativo e azione risarcitoria, in Dir. amm., 2002, 23 ss., con riferimenti particolari ai rapporti fra disapplicazione e risarcimento, ma con numerosi richiami dottrinali al tema più generale.


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norma regolatrice (legate a criteri temporali o di ampiezza della fattispecie: lex posterior, lex generalis, lex specialis, ecc.) con tecniche derivanti dalla sola logica dell’interpretazione, che spesso attinge però a più arbitrari criteri di prevalenza di valori. Sicuramente la disapplicazione è espressione di un certo ordine giuridico perché si fonda sulla prevalenza della fonte superiore su quella inferiore, o dell’atto legislativo su quello amministrativo, ma rimane il fatto che essa prolifera nel diffondersi di fonti non legislative, delle quali l’interprete può verificare la conformità alle norme « superiori », legislative, costituzionali o europee. E rimane il fatto che la babele delle norme si può trasformare in una sostanziale anomia, enfatizzata dal proliferare degli interpreti qualificati (talvolta perché essi stessi regolatori) di un « sistema » ormai gravemente scomposto. Se si è sempre dubitato che l’interprete, in specie il giudice, svolga un’attività creativa, a dispetto del ruolo meramente applicativo che il positivismo giuridico gli affida, nel nuovo mondo iper regolato degli interessi pubblici, non è dubbio che, anche attraverso le nuove tecniche interpretative favorite dalla complessità dei livelli di produzione normativa, l’attività interpretativa appaia sempre più frequentemente come scelta della norma per il caso, piuttosto che scelta fra diverse letture od opzioni consentite dalla norma del caso. Operazione creativa, ripeto, non applicativa; creativa anche di valori, non disvelatrice — al più — di valori inespressi, ma impliciti e prefissati dalla norma. L’individuazione degli interessi e dei valori perseguiti viene effettuata allora per lo più alla luce di principi superiori, di super-valori, talvolta indicati o ricavabili dalla legge, ma elevati al rango di principi dall’interprete, ma talvolta creati dallo stesso interprete estrapolandoli dalla varietà confusa delle fonti normative: per fare solo qualche esempio, il principio della gara, del confronto fra più offerte come regola delle scelte contrattuali, quali esse siano, dell’amministrazione pubblica; il principio della par condicio in tutte le procedure di gara o concorsuali; il principio della adeguatezza o proporzionalità dei requisiti richiesti per fornire prestazioni all’amministrazione. E se questi


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esempi, tratti dal mondo dei contratti, attingono comunque a principi ricavabili dall’ordinamento positivo, ben altri se ne potrebbero fare, ove i principi affermati sono rintracciati direttamente nel mondo dei valori giuridici di base, se non giusnaturalistici: quelli che, ovviamente, ogni interprete predilige (6). In questo quadro di trasformazione profonda del diritto positivo, al giudice — principe degli interpreti per la tipica forza delle sue decisioni — viene consegnato uno straordinario potere che potrebbe essere utilizzato anche per la ricomposizione dell’unità del sistema, assumendo la giurisdizione il ruolo di arbitro finale del catalogo delle fonti, convalidando quelle vere e sanzionando quelle false, rimettendole al loro posto insieme ai loro autori. Si ha l’impressione, invece, che i giudici — e soprattutto le inappellabili magistrature superiori — alimentino anch’essi l’asistematicità, sentendosi sempre più liberi non solo nella scelta della norma per il caso, ma anche nei confronti dei dettami del legislatore. Tale assunto è dimostrato da molti esempi, alcuni notissimi, altri meno, ma non meno significativi e vale tanto per il giudice amministrativo, quanto per il giudice civile, e soprattutto per la Cassazione. Tra le sentenze che riguardano i rapporti amministrativi, è noto a tutti che la sentenza delle Sez. un. n. 500 del 1999, epocale nell’affermazione della risarcibilità degli interessi legittimi, non dà applicazione ad alcuna novella legislativa (e nemmeno l’interpreta), ma supera la pietrificata giurisprudenza precedente (6) Sul tema è d’obbligo il rinvio a SALA, Potere amministrativo e principi dell’ordinamento, Milano, 993, che pur sottolineando il valore dei principi per il mantenimento della coerenza del sistema, non manca di rimarcare anche il rischio di valutazioni assiologiche lasciate alle preferenze soggettive dell’interprete (op. cit., 87 ss.). Sul punto, di recente, cfr. anche SPASIANO, Funzione amministrativa e legalità di risultato, Torino, 2003, secondo il quale di fronte all’impressionante proliferazione di fonti normative di vario rango, va accolta con « sollievo » la circostanza che i principi costituzionali e generali dell’ordinamento costituiscono il « primo fondamentale riferimento nell’esercizio della funzione amministrativa »: invero mentre « il sistema dei principi ancora in consistente misura regge... è il sistema delle fonti che mostra... un livello di contraddittorietà molte volte insormontabile se non mediante il ricorso, appunto, ai principi generali che... sempre più sono chiamati ad esprimere la rotta da seguire, la stella di riferimento » (op. cit., 268).


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di un sol balzo muovendo dalle « più elementari esigenze di giustizia », nonostante qualche critico potrebbe osservare che fino al giorno prima tali esigenze « elementari » fossero state sistematicamente disattese dalla giurisprudenza, nonostante esse salissero a gran voce dalla società e fossero raccolte dal coro pressoché unanime della dottrina. La nuova soluzione di un secolare problema, che cambia radicalmente i rapporti fra cittadino e amministrazione, non viene dunque fornita dal legislatore, ma creata dal giudice superiore, valorizzando il dissenso della dottrina, l’incremento giurisprudenziale dell’area della risarcibilità ex art. 2043 c.c., le perplessità della Corte Costituzionale, la spinta del diritto comunitario: elementi prevalentemente extra-legali, tutti illuminati dal principio di giustizia elementare. E anche là dove la Corte si riferisce a specifiche fonti di diritto (il codice civile o il d.lgs. n. 80 del 1998) le utilizza piuttosto come argomenti esplicativi del suo ragionamento, non come oggetto della sua interpretazione: non trae da essi la norma, ma ravvisa in essi giustificazioni per disporre che quella norma può essere introdotta nell’ordinamento. La sentenza della Cassazione rappresenta, in definitiva, un esempio paradigmatico di creazione pretoria di diritto, fenomeno non certo nuovo per la suprema Corte che non ha esitato a creare interi istituti (come quello della accessione c.d. invertita) sempre partendo non dal dato normativo, ma da esigenze « superiori » (quale sarebbe, nell’istituto ricordato, l’interesse pubblico al mantenimento dell’opera ormai realizzata); esigenze che superano l’illegalità, trasformando il divieto in obbligo risarcitorio. In siffatto ruolo pretorio anche il Consiglio di Stato si è sempre cimentato, dal tempo della creazione degli « atti paritetici » o dell’elaborazione delle figure sintomatiche dell’eccesso di potere; o, in tempi più recenti, abolendo la definitività amministrativa, approfittando di un oscuro passo della legge istitutiva dei Tar; ma anche introducendo senza alcuna base legislativa l’appello delle ordinanze cautelari dei Tribunali amministrativi regionali.


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Da tempo, tuttavia, l’elaborazione normativa del Consiglio di Stato sembra aver perduto capacità propulsiva e ricostruttiva, e trascurato — complice ancora una volta il profluvio delle norme del cambiamento — il proprio ruolo nomofilattico a vantaggio della libertà decisionale delle diverse sezioni e dei diversi collegi, libertà che rischia però di trasformare la creatività della giurisprudenza in anarchica casualità. Ma il Consiglio di Stato ha rivendicato consapevolmente la propria libertà, quando ha suggerito nella sua veste di consulente del legislatore (cfr. il parere 12 marzo 1998 sul testo del decreto che poi divenne il d.lgs. n. 80 del 1998) di evitare norme troppo nette, anche quando introducono principi assolutamente innovatori come il potere del giudice di condannare l’amministrazione al risarcimento del danno, cosı̀ da demandare alla giurisprudenza esperta del giudice amministrativo la messa a punto della materia. Nella partita, aperta dal Consiglio di Stato e dal legislatore delegato, è scesa in campo la Cassazione, come ricordavo sopra, con le aperture impensabili della sentenza 500, foriere però di uno scontro fra le magistrature superiori, spiegabile più nella logica dei rapporti di potere o della sociologia dei poteri pubblici (a quale giudice risponde l’amministrazione ovvero quale giudice controlla l’amministrazione pubblica?) che non nel sistema ordinamentale della giustizia amministrativa. E se il legislatore, di lı̀ a poco (con la l. n. 205 del 2000) è intervenuto, attribuendo al giudice amministrativo il ruolo dominante che la Cassazione aveva cercato di assumere (superando la pregiudizialità amministrativa e generalizzando la risarcibilità degli interessi legittimi), si è ben guardato dal frustrare le aspirazioni pretorie del Consiglio di Stato, omettendo pressoché del tutto di disciplinare le regole processuali delle azioni pur introdotte nel giudizio amministrativo. Cosı̀ gli snodi fondamentali del nuovo processo — i rapporti fra annullamento e risarcimento e il rapporto fra risarcimento per equivalente o in forma specifica — sono tutti ancora nelle mani del giudice (amministrativo) il quale ben potrà dettare tutte


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le regole che riterrà più congrue all’evolversi dei rapporti con l’amministrazione. Può dunque stupire, di fronte ad una simile abdicazione dello stesso legislatore nella disciplina dei cardini del processo, che i giudici amministrativi si sentano assolutamente liberi di dettare le regole che più ritengono utili in determinati settori anche prescindendo dal dettato legislativo? Non voglio riferirmi tanto alla (deprecabile) disapplicazione (rectius violazione) di norme, come quella sulla motivazione delle ordinanze cautelari, che pur il Consiglio di Stato pratica frequentemente, forte della sua insindacabilità; e neppure alla resistenza — politicamente più significativa — della Corte dei Conti nei confronti dell’aggravamento della colpa voluta dal legislatore del 1996 per configurare la responsabilità erariale (7); ma ai casi in cui il giudice prescinde dalla disposizione legislativa o perché essa manca e viene integrata (o meglio, rintracciata o costruita) o, addirittura, perché, pur esistendo, essa viene sterilizzata in quanto giudicata in contrasto con principi superiori: si vedano, ad esempio, le decisioni del Consiglio di Stato sull’assimilazione delle società collegate, o comunque riconducibili ad un medesimo centro decisionale, alle società controllate ex art. 2359 c.c., ai fini dell’esclusione dalla partecipazione alle gare (VI, 27 dicembre 2001 n. 6424; V, 5 marzo 2002 n. 1298); fattispecie che il legislatore aveva deliberatamente inteso tener distinte con disposizione (il comma 1-bis dell’art. 10, l. n. 109 del 1994 aggiunto dall’art. 3, l. n. 415 del 1998) dalla quale il giudice altrettanto deliberatamente ha inteso prescindere invocando il « sistema normativo » e i principi generali della correttezza, trasparenza e par condicio. Altro campo fervidissimo del potere creativo della giurisprudenza del Consiglio di Stato è quello dell’innesto del diritto privato nel diritto amministrativo: in specie il mondo delle società a partecipazione pubblica nel quale, come già ho ricordato in al(7) La lettura dell’ampia motivazione della sentenza delle S.R. 23 settembre 1997 n. 66/A rende manifesto l’intendimento di depotenziare la differenza fra colpa grave (qualificata « poco più che una metafora ») e colpa tout court, per depotenziare la portata della novella legislativa.


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tre occasioni, il Consiglio di Stato opera praeter legem, effettuando scelte fra culture e valori diversi, se non contrapposti — quali sono quelli delle società commerciali e delle pubbliche amministrazioni — attingendo a principi « superiori » per incrementare o razionalizzare le reticenti disposizioni del legislatore sui servizi pubblici locali, incapace di prendere posizione fra l’ente locale erogatore del servizio pubblico attraverso una società e l’ente locale-socio, evidentemente portatore di ben altri interessi. Cosı̀ il Consiglio di Stato stabilisce che il socio di minoranza debba essere scelto con gara, nonostante la legge riservi tale regola alla vendita della sola quota di maggioranza; oppure impedisce che la società possa operare extra-moenia, al di fuori dei confini del Comune socio del quale la società sarebbe ancora un « organo indiretto », salvo intese pubblicistiche fra le amministrazioni locali; oppure ancora esclude che la società erogatrice di servizi pubblici locali possa organizzarsi in holding con funzioni di mero controllo azionario delle società operative di settore (8). Non c’è chi non veda come il giudice non abbia tratto tali regole dalla legge, e nemmeno da norme di una qualche autorità regolatrice, ma direttamente dal proprio patrimonio di principi, dal diritto amministrativo generale che ha imposto alle attività delle società (commerciali), con inevitabili forzature e arbitrarietà: essendo evidentemente una scelta ideologica quella di anteporre le ragioni del diritto delle amministrazioni su quelle del diritto delle imprese, anche se (o anzi proprio perché) animata da nobili finalità di governare il difficile innesto delle forme organizzative del diritto commerciale nell’organizzazione dei servizi pubblici. Naturalmente, questioni come queste, rilevantissime nel loro settore, non sono paragonabili alla scelta fra valori primari dell’ordinamento che il giudice è chiamato e tenuto a compiere (8) Su tutto ciò, cfr. amplius, il mio Servizi pubblici locali fra diritto amministrativo e diritto privato, in Dir. amm., 2002, 311 ss., e le decisioni ivi citate sulle diverse fattispecie; più in generale, sul tema, NAPOLITANO, Pubblico e privato nel diritto amministrativo, Milano, 2003, al quale rimando per l’ampia bibliografia.


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perché attraversano, per cosı̀ dire, tutto il diritto positivo (9). Ad esempio, fra riservatezza e trasparenza, che può coinvolgere questioni etiche di grande rilevanza: quando il giudice debba decidere se tutelare il diritto di conoscere dati o nomi in possesso dell’amministrazione, o proteggere il diritto a scelte giustamente consentite dall’ordinamento ancorché appaiano inumane (come quella del genitore di non riconoscere il figlio); se consentire la conoscenza di dati, fra i più sensibili, come quelli sanitari di una persona, ai fini di tutela dei diritti (eguali) di un’altra; se ammettere la divulgazione di dati reddituali pur sapendo che ciò può compromettere la sicurezza delle persone e dei familiari. Dilemmi formidabili come questi, del resto, non potranno non esplodere sempre più frequentemente, in quanto la riservatezza individuale è coinvolta in modo esponenziale dal dominio cibernetico delle diverse amministrazioni alle quali ormai appartengono i dati di tutti e su tutto, compresi i dati personali e dunque, alla fine, le persone stesse. A nessuno sfugge che anche tali questioni coinvolgono valori fondamentali per i quali è inevitabile un’opzione soggettiva dell’interprete, ma si tratta pur sempre di scelte che comportano valutazioni di norme e valori esistenziali e costituzionali, per loro natura proprie del giudice. Voglio dire, insomma, che questioni fondamentali come quelle cui si è appena accennato — alle quali il legislatore ha dato alcune risposte normative — rimangono « naturalmente » nel campo della valutazione « rivelatrice » se non « creativa » del giudice, prima ancora che in quello più rigido del legislatore, perché le regole espressive di valori debbono potersi adattare, più facilmente delle altre, al mutevole e rapidissimo cammino della società e dell’ordinamento. Mentre diverse, assai diverse — credo — sono le pratiche normative, di innovazione o di resistenza, che giudici e interpreti di diversa autorità si sentono sempre più liberi di eserci(9) Sulle necessità che i principi quali espressioni di valori, siano ricavabili, « raccolti » dall’ordinamento positivo, insiste la dottrina francese, come ricorda SALA, op. cit., 80-89 nota 125 richiamando il pensiero di CHAPUS, Droit administratif général, Paris, 1985, spec. 63.


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tare, forti del loro ruolo e della loro posizione di sostanziale insindacabilità, in un ordinamento scomposto, complesso e confuso nel quale tutte le organizzazioni pubbliche marcano il proprio territorio: una sorta di nuovo feudalesimo giuridico nel quale ogni potere opera secondo la forza che ha e trae da questa la propria legittimazione senza neppure rendere omaggio formale alle autorità e ai poteri superiori. Tutto ciò fa rimpiangere il solido primato della legge, almeno quando esso riposi sull’autorevolezza del legislatore e non sulla prepotenza della politica.

Postfazione. — Quasi vent’anni fa, per iniziativa della rivista Ius, presso l’Università Cattolica si svolse un Convegno (Milano, 26-27 ottobre 1984) sul tema « Autorità, consenso e prassi nella creazione e nella attuazione delle norme giuridiche », al quale parteciparono giuristi di varia formazione con relazioni di altissimo livello, che si possono ancora leggere con grande profitto e godimento (in Ius, 1985 pp. 315 e ss.). La relazione di Giorgio BERTI (Normatività, leggi dello Stato e diritti della persona, ibidem pp. 319 e ss.), affrontava e sviluppava, con ben altra cifra, alcuni dei temi trattati nel presente lavoro: l’ipertrofia normativa; il rapporto fra norme e organizzazioni pubbliche; la settorializzazione dell’ordinamento; la delegificazione; l’appiattimento e detipizzazione delle fonti; la pretesa delle amministrazioni e delle giurisdizioni di « rifare » il sistema normativo per « appoggiarvi » la decisione del singolo caso; ecc. In queste pagine non intendo certo mettermi sullo stesso piano del Maestro, ma solo fornire vent’anni dopo alcuni riscontri, ricavati dall’osservazione empirica del « baratro normativo » denunziato allora da Berti, che confermano la decomposizione del sistema legislativo esploso in « brani di norme di diversa provenienza e senza riguardo alla fonte ». Il lavoro vuole dunque essere una testimonianza degli effetti ulteriori di quella « rottura dell’unità del sistema » che fatica a ritrovare una qual-


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che coerenza anche sul fronte della normatività « intrinseca » dei corpi sociali e degli individui, vivificata dai valori costituzionali, come invece auspicava Berti. L’appello finale al primato della legge non vuol essere un’invocazione nostalgica alla predominanza gerarchica della norma statale, né un rifiuto della normatività diffusa nelle istituzioni, ma soltanto un richiamo al persistente valore della sovranità popolare nella legittimazione delle fonti e, insieme, un avvertimento del pericolo rappresentato dalla confusa conflittualità regolatrice delle organizzazioni pubbliche, le quali — ponendosi in un rapporto di potere e di forza piuttosto che di interpretazione e attuazione degli interessi pubblici assegnati a ciascuna di esse — compromettono la « sicurezza dell’ordine giuridico » sulla quale riposano la libertà e i diritti delle persone.


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IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE DEL CONCORDATO ROMANO-D’AMELIO (*)

1. Nei quindici anni di presidenza di Santi Romano al Consiglio di Stato le decisioni di questo giudice e le sentenze delle sezioni unite della Cassazione in materia di giurisdizione sono numerose: solo quelle edite ammontano a circa quattrocento. Un’analisi di dettaglio rivela ciò che all’epoca sono i diritti soggettivi che in concreto si riconoscono nei confronti delle pubbliche amministrazioni, in particolare verso i poteri pubblici; analisi minuziosa che investe ogni settore della vita civile e che le classificazioni di sintesi possono mortificare a vantaggio di una chiarezza espositiva. Nel timore si è scelto di rinviare la disamina ad una successiva trattazione. 2. Il tema irrinunciabile del riparto di giurisdizione di quegli anni è offerto dalla vicenda che va sotto il nome di « Concordato Romano-D’Amelio », avvenuto nel 1930 e dai più conosciuta secondo le sintesi delle trattazioni di giustizia amministrativa che l’hanno resa nota (1). Già a fine ’800 — con le sentenze della Cassazione del 1891 (*) Relazione tenuta al convegno « Il consiglio di Stato sotto la presidenza di Santi Romano » (Roma Consiglio di Stato 6 febbraio 2003). Si ringrazia il presidente del Consiglio di Stato A. de Roberto per la pubblicazione anticipata. (1) Si precisa che un dissenso venne composto dal Consiglio di Stato e dalla Cassazione (rispettivamente Ad. plen. nn. 1 e 2 del 1930 e Sez. un. 15 luglio 1930) in E. GUICCIARDI, La Giustizia amministrativa, Padova, 1957, 448; M. NIGRO, Giustizia amministrativa, 1979, Bologna, 155, nonché ancora nell’ed. 2002 a cura di E. CARDI e A. NIGRO, 140; L. MAZZAROLLI, in Diritto amministrativo, a cura di MAZZAROLLI, PERICU, ROMANO, ROVERSI MONACO, SCOCA, Bologna, 2001, 1848 e nota 14; non indicano l’Ad. plen. n. 2 del 1930, ma solo la n. 1: V. CAIANIELLO, Lineamenti del pro-

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sul caso Laurens (2) relativa all’area dei provvedimenti e quella dello stesso giudice del 1897 sul caso Trezza (3) in materia di contratti — fu definito il criterio di riparto tra la giurisdizione ordinaria e la competenza della quarta sezione del Consiglio di Stato nel requisito (congiunto) della causa petendi e del petitum. Si racconta che la questione viene riaperta dalla V sezione del Consiglio di Stato, che alla fine degli anni venti, riprende la vecchia idea del petitum — che era stata adottata dalla Cassacesso amministrativo, Torino, 1979, 171-172 e E. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2002, 621-622; segnala semplicemente una concordia sul riparto di giurisdizione nella « giurisprudenza a partire dagli anni ’30 »: A. TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2002, 107; da ultimo: A. ZITO, in Giustizia amministrativa, a cura di F.G. SCOCA, Torino, 2003, 91. (2) Cass., Sez. un., 24 giugno 1891, Laurens, in Giur. it., 1891, I, 3, 181 e in Foro it., 1891, I, 961 che afferma la giurisdizione del giudice ordinario sull’impugnazione di un agente d’emigrazione, provvisto di patente, dell’atto governativo che vieta di procurare l’imbarco degli emigranti nei porti stranieri, poiché la patente ha creato un diritto soggettivo all’attività d’impresa. In punto si vedano L. MEUCCI, Il principio organico del contenzioso amministrativo nelle leggi recenti, in Giust. amm., 1891, IV, 1; V. E. ORLANDO, Rapporti tra la competenza della IV sezione del Consiglio di Stato e quella giudiziaria, in Arch. dir. pubbl., 1891, 66; ID., Ancora sui rapporti tra la competenza della IV sezione del Consiglio di Stato e quella giudiziaria, ivi, 1892, 370; V. SCIALOJA, Sui limiti della competenza della Sezione IV del Consiglio di Stato di fronte all’autorità giudiziaria, in Giust. amm., 1891, IV, 59, nonché cfr. Foro it., 1891, I, 117; O. RANELLETTI, A proposito di una questione di competenza della IV Sezione del Consiglio di Stato, 1892; ID., Ancora sui concetti discretivi e sui limiti della competenza dell’autorità giudiziaria e amministrativa, in Foro it., 1893, I, 470; L. MORTARA, Ancora sui limiti rispettivi delle attribuzioni dell’autorità giudiziaria e dell’autorità amministrativa, in Giur. it., 1897, I, 1, 1034; VITALE, in Foro it., 891, I, 961; PORRINI, La giurisdizione amministrativa di annullamento, in Arch. giur., 1892; LEPORINI, Di una teoria dei limiti della competenza della IV Sezione, in Studi senesi, 1892, 205. (3) Cass., Sez. un., 24 giugno 1897, Ditta Trezza c. Caterini, Ruocco e altri, in Foro it., 1897, I, 1363, nonché in Giur. it., 1897, I, 1, 744; che afferma la giurisdizione del giudice ordinario sul ricorso d’impugnazione del decreto prefettizio di esecutorietà di un contratto di appalto di dazio consumo, proposto al chiaro fine (causa petendi) di ottenere l’annullamento del contratto; ma si vedano sempre per la giurisdizione ordinaria: Cass., Sez. un., 12 luglio 1898, Schupfer c. Ministero dei lavori pubblici, in Giur. it., 1898, I, 1, 980, poiché la causa petendi è risolvere con l’impugnazione il vincolo contrattuale già intercorso tra l’amministrazione pubblica e l’aggiudicatario; Cass., Sez. un., 21 luglio 1898, Errante e Virgilio c. Comune di Marsala, in Giur. it., 1898, I, 1, 954, sulla domanda di annullamento del regio decreto di autorizzazione a concludere un appalto di dazio consumo, perché la controversia verte sulla validità ed efficacia del contratto.


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zione prima dei casi indicati — ed afferma perciò la giurisdizione amministrativa in ragione della sola domanda di annullamento dell’atto amministrativo. Il Concordato « RomanoD’Amelio » (4) avrebbe cosı̀ consentito al primo di ottenere la sanzione delle sezioni unite della Cassazione a favore del precedente criterio di riparto (petitum e causa petendi) e ricondurre — per cosı̀ dire — nei ranghi la propria V sezione. Il Concordato (5) è ricordato con le due decisioni dell’Adunanza plenaria n. 1 e n. 2 del Consiglio di Stato, entrambe del 14 giugno 1930 (la n. 2 tuttavia la si può trovare edita anche con la data del successivo 28 giugno). Il primo caso è fornito dalla Società anonima Terme stabiane, il secondo è invece noto per il ricorrente « Possenti » (6). Le due decisioni dell’Adunanza ple(4) È comunemente citato lo scritto M. D’AMELIO e SANTI ROMANO, I contatti giurisdizionali della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato, in Riv. dir. pubbl., 1929, 181, che tuttavia non tratta direttamente della questione in esame; di maggiore pertinenza appare invece il richiamo a M. D’AMELIO, Il caso Laurens dopo quarant’anni di giurisprudenza, in Studi per Cammeo, Padova, 1933, I, 319; nonché a Santi ROMANO (Pres.), Relazione al capo del Governo sull’attività del Consiglio di Stato nel biennio 1929-30, Roma, 1930-31, 100; L. MORTARA, La giurisdizione ordinaria e la giurisdizione amministrativa per il sindacato di legittimità degli atti amministrativi, in Riv. dir. pubbl., 1930, 389 e s., spec. 414-415, 419; ID., Un contrasto tra il Consiglio di Stato e la Core di Cassazione felicemente eliminato, in Giur. it., 1932, I, 1, 10; RUSSO, Sulla competenza del sindacato di legittimità dei provvedimenti amministrativi nei contratti dei Comuni, in Foro it., 1931, I, 1128; DE VALLES, Limite di competenza fra giurisdizione ordinaria e amministrativa, in Foro amm., 1931, I, 1, 18; O. RANELLETTI, L’impugnativa di un atto amministrativo nella competenza esclusiva della giurisdizione amministrativa, in Riv. dir. pubbl., 1931, I, 452; CARUSO INGHILLERI, Petitum, causa petendi ed oggetto del ricorso nella giurisdizione amministrativa di annullamento, in Riv. dir. pubbl., 1934, I, 18. Per dottrina anteriore si veda la nota 2 che precede, nonché F. CAMMEO, Criterio di separazione della competenza tra autorità giudiziaria e il Consiglio di Stato in sede di legittimità, in Giur. it., 1909, III, 161; ID., Ancora sul criterio distintivo della competenza del Consiglio di Stato da quella dell’autorità giudiziaria, ivi, III, 136; D’ALESSIO, Petitum e causa petendi come base della discriminazione della competenza giudiziaria o amministrativa, in Foro it., 1917, I, 11. (5) Conferma dell’identificazione delle due decisioni del Consiglio di Stato (Ad. plen. nn. 1 e 2 del 1930) è data direttamente da D’AMELIO, Il caso Laurens dopo quarant’anni, cit., 326-327. (6) Cons. Stato, Ad. plen., 14 giugno 1930, n. 1, Società anonima Terme Stabiane c. Comune di Castellammare di Stabia e a., in Giur. it., 1930, III, 149, e in Foro it., 1930, III, 169, nonché in Foro amm., 1930, I, 2, 249. Cons. Stato, Ad. plen., 28


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naria in materia di contratti della pubblica amministrazione riaffermano l’indirizzo del discrimine di giurisdizione in ragione del « petitum e della causa petendi ». Nella comune rappresentazione costituisce prova del « Concordato » ricordare due decisioni dell’Adunanza plenaria (n. 1 e 2 del 1930) confermate — con la pubblicazione a distanza di solo un mese — dalle sezioni unite della Cassazione (15 luglio del 1930, Società Nazionale Ferrovie e Tramvie) (7). Si tratta di una rappresentazione forte, sia perché le tre pronunce riaffermano tutte il criterio di riparto di giurisdizione sulla base della domanda (petitum) e della natura della controversia (causa petendi), sia perché la Cassazione censura proprio una decisione della « ribelle » V sezione del Consiglio di Stato, che aveva ritenuto la propria competenza in ragione della sola domanda di annullamento (8). Forse meno nota è la vicenda successiva delle due citate decisioni dell’Ad. plen. nn. 1 e 2 del 1930, le quali vengono entrambe annullate l’anno successivo dalle stesse Sezioni Unite della Corte di Cassazione, non per mettere in discussione il criterio enunciato dal « Concordato », ma per precisare — con tono indispettito — che quanto concordato non era stato rettamente giugno 1930, n. 2, Possenti c. Ministero dell’interno e amministrazione provinciale di Roma, in Foro it., 1931, III, 9, e in Riv. dir. pubb., 1930, II, 513. (7) Cass., Sez. un., 15 luglio 1930, n. 2680, Società Nazionale Ferrovie e Tramvie c. Ministero delle Comunicazioni, in Giur. it., 1930, I, 1, 964 e in Foro amm., 1930, II, 262, nonché in Foro it., 1930, I, 1146 (che in epigrafe indica erroneamente come denunciata la Sez. IV, 10 maggio 1929, che è invece rettamente indicata in nota come Sez. V, ma vedi nota infra). Il caso deciso proviene da un’impugnazione avanti alla IV Sezione del Consiglio di Stato (decisa da Cons. Stato, Sez. V, 10 maggio 1929, tra le stesse parti previa riunione di quattro ricorsi, in Giur. it., 1929, III, 136, ed ivi F. CAMMEO, Ancora sul criterio distintivo, cit.) dell’invito alla Società anonima nazionale ferrovie e tramvie del Ministero a presentare i conti d’esercizio (e deliberazioni relative a indagini sui conti stessi) per ottenere allo scadere del quindicesimo anno la partecipazione agli utili netti del concessionario di ferrovie, spettante al primo ove dalle indagini risulti che il prodotto netto sia eccedente i limiti spettanti dalla legge o dall’atto di concessione. La sentenza della Cassazione — annullando Cons. Stato, Sez. V, 10 maggio 1929, cit. — afferma la giurisdizione del giudice ordinario. (8) Cons. Stato, Sez. V, 10 maggio 1929, in Giur. it., 1929, III, 136, con nota di F. CAMMEO, Ancora sul criterio distintivo della competenza del consiglio di Stato (nella giurisdizione non esclusiva) e dell’autorità giudiziaria, ivi, 135.


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inteso proprio dalle due decisioni nn. 1 e 2 del 1930 dell’Ad. plen. L’Adunanza plenaria aveva ritenuto — in applicazione del criterio del petitum e della causa petendi — la propria competenza in entrambe le decisioni nn. 1 e 2 del 1930: le sezioni unite con sentenza 25 novembre 1931 (9) annullano la prima (n. 1) e con altra del 30 novembre del 1931 (10) la seconda; entrambe negando la competenza del giudice amministrativo ritenuta dall’Adunanza plenaria ed affermano invece la giurisdizione del giudice ordinario. Per comprendere il conflitto è necessario cercare di seguire le argomentazioni utilizzate in almeno uno dei due casi, per tentare di comprendere in cosa si distingue l’interpretazione del « Concordato » con riferimento ad uno stesso caso deciso in modo difforme dai due collegi, seppure dichiarando di dare applicazione ad uno stesso criterio di riparto di giurisdizione. 3. Il caso delle Terme Stabiane è semplice: si tratta dell’impugnazione di un annullamento governativo del visto di esecutorietà di un contratto, emanato con decreto reale ai sensi dell’allora vigente art. 114 del r.d. 30 dicembre 1923, n. 2839 (poi riformulato nel più noto r.d. 3 marzo 1934, n. 383, art. 6), poiché il Governo aveva accertato che il Comune di Castellammare di Stabia aveva stipulato un contratto a trattativa privata, senza previa autorizzazione prefettizia e addirittura modificando il capitolato delle opere senza la previa approvazione della G.P.A. e senza — ovviamente — il previo parere del Consiglio di Prefettura. L’Adunanza plenaria, nel ritenere di dare applicazione al principio del petitum sostanziale, afferma che, trattandosi di verificare la legittimità dell’atto amministrativo di annullamento (decreto governativo), vi è giurisdizione amministrativa di legittimità, quindi, ritenuta la propria « competenza », respinge il ri(9) Cass., Sez. un., 25 novembre 1931, Società anonima Terme stabiane c. Ministero dell’Interno, in Giur. it., 1932, I, 1, 33. (10) Cass., Sez. un., 30 novembre 1931, Possenti c. Provincia di Roma e Ministero dell’Interno, in Giur. it., 1932, I, 1, 33.


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corso nel merito per gli indicati vizi di violazione di legge (mancanza di autorizzazione prefettizia; modifica di capitolato senza approvazione G.P.A. e senza il parere del Consiglio di Prefettura). Il ricorso alle sezioni unite della Cassazione, presentato dalla Società Anonima Terme Stabiane, determina l’annullamento della decisione del Consiglio di Stato (Ad. plen., 14 giugno 1930, n. 1) e la devoluzione della controversia alla giurisdizione del giudice ordinario. Il ragionamento, si è detto un po’ seccato delle sezioni unite, è che a seguito della stipulazione di un contratto, già munito del visto di esecutorietà, la Società ricorrente diventa titolare di diritto soggettivo, con conseguente radicamento della giurisdizione del giudice ordinario (11). La circostanza che l’Adunanza plenaria ritenga la propria « competenza » poiché la controversia ha ad oggetto la legittimità dell’annullamento governativo diventa per la Cassazione una vera « petizione di principio », perché, in realtà, « valutare della legittimità del regio decreto di annullamento governativo significa andare a valutare della legittimità della manifestazione di volontà che ha portato alla conclusione del contratto », dunque della fondatezza di un diritto soggettivo sorto da tale contratto. Purtroppo non è stato possibile rintracciare l’esito finale della controversia avanti al giudice ordinario, né, provenendo dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, la Cassazione è andata oltre i motivi di giurisdizione, sicché non risulta enunciato il principio di diritto cui deve attenersi il giudice di merito. Nell’intorno è stato tuttavia facile trovare risolta la stessa questione in altra sentenza (12) avente ad oggetto una transazione tra un comune e una società privata, con contratto già stipulato e munito del visto di « esecutorietà », il quale ultimo è (11) Con soluzione che riprende la giurisprudenza impostasi sin dalla fine ottocento con il caso Trezza (Cass., Sez. un., 24 giugno 1897, Ditta Trezza c. Caterini, Ruocco e altri, cit.) e le altre sentenze dello stesso giudice citate supra alla nota 3. (12) Cass., Sez. un., 28 giugno 1932, Comune Caserta c. Ricciardi, in Foro amm., 1932, II, 279.


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stato poi annullato dal decreto governativo per « violazione di precise disposizioni di legge ». La Cassazione si trova a verificare il giudizio della Corte d’Appello di Napoli che aveva — per cosı̀ dire — seguito puntualmente quanto affermato dalla precedente sentenza della Cassazione sulle Terme Stabiane (Cass., Sez. un., 25 novembre 1931) (13), di cui si è sinora trattato. Il privato con atto di citazione si era rivolto al giudice ordinario chiedendo l’adempimento contrattuale della transazione. La Corte d’Appello, ritenuta in via incidentale l’illegittimità del decreto reale, aveva condannato la pubblica amministrazione al pagamento di una somma di denaro in esecuzione della transazione il cui oggetto era una revisione prezzi (non certo un facere infungibile). Ci si aspetta una conferma del precedente (25 e 30 novembre 1931) (14) ed invece la Cassazione annulla la sentenza della troppo diligente Corte d’Appello di Napoli, con rinvio ad altra sezione, enunciando il principio di diritto cui la stessa deve attenersi, che pare sorretto da argomentazioni di difficile lettura e da cui scaturisce l’inaspettata conclusione. Confermata la giurisdizione ordinaria, le sezioni unite (28 giugno 1932, cit.) ammettono la possibilità di una condanna al pagamento di una somma di danaro, ma negano che ciò possa avvenire a titolo contrattuale, poiché il decreto reale di annullamento del visto di esecutorietà è atto giuridico ineludibile e non tenerne conto significa violare l’art. 4, della l. 20 marzo 1865 n. (13) Vedi supra nota n. 8 e 9. (14) Si veda peraltro la precisazione posta nella precedente sentenza concordataria di Cass., Sez. un., 15 luglio 1930, n. 2680, Società Naz. Ferrovie e tramvie c. Ministero delle Comunicazioni, in Giur. it., 1930, I, 1, alla col. 968-9: « Soltanto se l’oggetto della domanda giudiziaria coincida talmente con l’esistenza dell’atto amministrativo che il suo accoglimento importerebbe il travolgimento nel nulla di quest’ultimo (come quando non si chiegga il risarcimento del diritto leso dall’amministrazione, ma l’esecuzione specifica — corsivo n.d.r. — di una pretesa contraria al provvedimento), il petitum benché lumeggiato dalla causa petendi, presenta ostacolo al corso dell’azione. La quale osservazione può rendere ragione di qualche giudicato di queste Sezioni unite, che apparentemente sembra contraddire alla loro costante dottrina ». Su cui D’AMELIO, Il caso Laurens dopo quarant’anni, cit., 326; ove cita L. MORTARA, La giurisdizione ordinaria e la giurisdizione amministrativa, cit., sull’uniformità della giurisprudenza della Cassazione.


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2248 all. E, poiché equivale, in quel caso, pervenire a « revocarlo o modificarlo » (15). Sennonché negare che dal contratto sorga l’azione di adempimento contrattuale, perché il decreto di annullamento governativo del visto di « esecutorietà » ha reso inefficace — ex tunc — la transazione già stipulata (a fortiori se avesse annullato la manifestazione di volontà dell’amministrazione volta a concludere il contratto), significa perdere altra volta la prospettazione del diritto soggettivo su cui si era fondata la giurisdizione ordinaria; più precisamente significa infirmare l’argomento con il quale la precedente sentenza della Cassazione (25 novembre 1931) (16) aveva annullato la sentenza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 1 del 1930. Negando il diritto soggettivo di credito di fonte contrattuale (perché la transazione è inefficace, perché è impossibile per il giudice ordinario non considerare l’annullamento governativo senza violare l’art. 4 della legge del 1865) si ripropone dunque la « questione » sulla giurisdizione, o più precisamente — volendosi mantenere fermo il dispositivo della sentenza — si riapre l’indagine intorno alle ragioni giuridiche che consentono di sorreggere la decisione assunta, poiché appare inevitabile chiedersi di quale « diritto civile o politico » si è stata « fatta questione » nel caso proposto con la domanda di adempimento della transazione. La Cassazione pare liberarsi agevolmente della questione: l’attore ha agito chiedendo il risarcimento dei danni per inadempimento (impedito dall’annullamento governativo), « ma poiché, una domanda di danni era stata proposta, la corte di appello avrebbe dovuto prenderla in considerazione sotto » il diverso profilo « di una asserita illegittimità dell’atto amministrativo di annullamento ». È richiamata la regola generale di risarcimento dei danni conseguenti all’emanazione di atti amministrativi illegittimi, che (15) L’autolimitazione del giudice ordinario è fatto noto; tra i più recenti manuali sintetizzano bene la questione C.E. GALLO, Manuale di giustizia amministrativa, Torino, 2001, 25. (16) Vedi supra nota 9.


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incidono su posizioni di diritto soggettivo, siano essi relativi (di credito) o assoluti (proprietà, ecc.), in tutti i casi con riferimento a diritti soggettivi preesistenti all’emanazione del provvedimento ritenuto illegittimo (17). Sennonché un diritto di credito può ritenersi sorto in quanto si ammetta che l’efficacia del contratto non è impedita nel caso in esame dall’annullamento governativo del visto di esecutorietà. Alternativamente una volta esclusa l’azione di risarcimento del danno per inadempimento contrattuale — e con ciò anche il diritto di credito che ne costituisce il fondamento di diritto sostanziale — appare difficile comprendere quale altro diritto soggettivo all’epoca sia stato preso in considerazione dalla Cassazione. Oggi si può essere indotti a pensare ad un’anticipazione, di molti anni, di quella che poi è seguita come responsabilità precontrattuale (18), come scorrettezza (19); ma se questa è l’idea, che a distanza di anni è possibile ipotizzare, permane di interesse comprendere se di tale argomentazione la Cassazione avrebbe potuto rintracciare al tempo un convincente fondamento. All’epoca non era stato ancora emanato il codice civile del

(17) Per tutte si vedano all’epoca: Cass., Sez. un., 6 maggio 1929, Cantone c. Min. Pubblica Istruzione, in Giur. it., 1929, I, 1, 760; Cass, Sez. un., 8 aprile 1929, Nicosia-Fallica c. Prov. di Catania, in Foro it., 1929, I, 487; Cass., Sez. un., 27 luglio 1929, Comune di Modena c. ditta Orsi, in Foro amm., 1929, II, 256; Cass., Sez. un., 24 aprile 1930, Prov. Di Bari c. Frisini e Comune di Casamassima, in Nuova riv. app., 1930, 390; Cons. Stato, Sez. IV, 17 maggio 1930, 169, Soc. an. Brioschi per imprese elettriche c. Prefetto di Milano e Azienda auton. della Strada, in Foro amm., 1930, I, 1, 168; Cass., Sez. un. 10 marzo 1930, Fulci c. Busala e Comune di Messina, in Sett. Cass., 1930, 518; Cass., Sez. un., 14 giugno 1930, Min. Guerra c. Papurello, in Giur. it., 1930, I, 1, 1207. (18) Si vedano inoltre Cons. Stato, Sez. V, 14 novembre 1931, Arnone c. Comune di Marineo, in Foro it., 1932, III, 205; Cass., Sez. un., 3 giugno 1935, Tinebra c. Franco, in Giur. it., 1935, I, 1, 827; Cons. Stato, Sez. V, 14 febbraio 1936, Faldrini c. Ministero dell’Interno e Prefetto di Sondrio, in Riv. amm., 1936, 347; Cons. Stato, Sez. V, 14 giugno 1938, Saladino c. Comune di Palermo, in Foro it., 1938, III, 276. (19) G.M. RACCA, La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione tra autonomia e correttezza, Napoli, 2000, 19 e 304 e s.


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1942 ed i suoi artt. 1337 e 1338 (20); l’applicazione degli stessi negli anni successivi è stata limitata anche nei rapporti tra privati, verso i quali la Cassazione è preoccupata di tutelare anzitutto l’autonomia privata, che è considerata espressione della « libertà » degli individui (21), le cui deroghe o eccezioni non possono non essere di stretta interpretazione (sul punto si veda anche l’art. 2932, c.c.). Appare difficile ipotizzare che nei confronti della pubblica amministrazione la Cassazione del Regno si mostri cosı̀ intraprendente e cerchi più o meno convenientemente di affermare una responsabilità per scorrettezza nelle trattative; certo l’ipotesi è suggestiva, ma di difficile riscontro storico. 4. La questione offre tuttavia l’occasione per tentare di comprendere il seguito della vicenda che, come tutti sanno, confluisce nell’entrata in vigore dell’art. 6 del r.d. n. 383 del 1934, cit., in ordine alla quale vi sono state differenti interpretazioni (22). Il decreto del ’34 modifica l’enunciato dell’art. 114, del precedente r.d. n. 2839 del 1923, cit. (contro il decreto reale è dato il ricorso di legittimità, salvi i casi in cui secondo le leggi vigenti vi sia l’azione giudiziaria), stabilendo che « Contro il decreto reale è sempre ammesso il ricorso per legittimità al Con(20) G. CHIRONI, Colpa contrattuale, Torino, 1897, 101. (21) L. MENGONI, Sulla natura della responsabilità precontrattuale, in Riv. dir. comm., 1956, II, 360 e s.; G. STOLFI, In tema di responsabilità precontrattuale, in Foro it., 1954, I, 1107; Salv. ROMANO, voce Buona fede (diritto privato), in Enc. dir., Milano, 1959, vol. V, 682; M. FRAGALI, Art. 1337, Commentario al codice civile diretto da M. D’AMELIO ed E. FINZI, Firenze, 1948, 369; R. SACCO, Culpa in contrahendo e culpa aquiliana; culpa in eligendo e apparenza, in Riv. dir. comm., 1961, II, 86. (22) E. TOSATO, L’impugnativa del decreto reale di annullamento, in Arch. dir. pubbl., 1938, 48 e s.; A.M. SANDULLI, Spunti sul regime dei contratti di diritto privato della pubblica amministrazione, in Foro it., 1953, I, 1585; R. SANDULLI, Sulla discriminazione delle competenze in tema di annullamento da parte del Governo di atti amministrativi, cui siano collegati diritti soggettivi, in Foro it., 1956, I, 573; G. MIELE, Questioni vecchie e nuove in materia di distinzione del diritto dall’interesse nella giustizia amministrativa, in Foro amm., 1940, IV, 67; ma anche seppure non specifico ID., In tema di annullamento d’uffıcio di atti amministrativi illegittimi, in Giur. compl. Cass., 1947, 1132; ID., In tema di giurisdizione su atti di annullamento, in Foro amm., 1956, II, 1, 89.


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siglio di Stato in sede giurisdizionale, ovvero il ricorso straordinario al Re » (r.d. n. 383 del 1934, cit., art. 6, comma 2). La riformulazione, sicuramente introdotta come progetto alla sede consultiva, è da alcuni attribuita all’opera del Consiglio di Stato che avrebbe cosı̀ influenzato una modificazione legislativa a favore della sua competenza. Ma quale operazione giuridica si sarebbe cercato di realizzare? Sicuramente spostare alla giurisdizione amministrativa quello che oggi consideriamo il sindacato sulla fase precontrattuale di scelta del contraente. Ma qual è l’effetto di sistema che oggettivamente si realizza? Il persistente rispetto dell’autonomia privata, che nei confronti dell’amministrazione pubblica si fonde con il principio della « tripartizione dei poteri » — sanzionato con l’art. 4 della l. n. 2248 del 1865, all. E — che si trova ripetuto nelle sentenze della Cassazione dell’epoca, induce a pensare che il tentativo di affermare una responsabilità per atto illegittimo nella conduzione della gara e nell’emanazione degli atti che precedono e legittimano la stipulazione del contratto (che oggi diremmo responsabilità precontrattuale) — nel caso in esame enunciata ed in altri rigettata — porti a una soluzione che è nel sistema del tempo ritenuta senza esito. Si afferma la giurisdizione ordinaria, ma sulla base di un diritto soggettivo che (nel merito) non c’è, perché nel conflitto degli interessi è preferita l’autonomia, cioè la libertà delle parti di sentirsi libere da ogni vincolo sino alla intervenuta stipulazione di un contratto (valido e produttivo di effetti). L’art. 6, del r. d. n. 383 del 1934, cit. appare in tale ricostruzione come il tentativo di offrire una tutela giurisdizionale (« è sempre ammesso il ricorso per legittimità al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale »), perché il rischio è l’assenza di ogni garanzia giurisdizionale, ove la soluzione della Cassazione — che cerca di enucleare un diritto soggettivo che non si identifica con il diritto di credito all’adempimento (sorto da un contratto ormai concluso) — si rivela un’argomentazione per il tempo assai debole, che non pare trovare sostegno nelle allora vigenti disposizioni di diritto sostanziale.


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Dire che è « sempre ammesso ricorso di legittimità al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale » significa offrire il rimedio della giurisdizione amministrativa, che è di annullamento, con la conseguenza nient’affatto trascurabile offerta dagli effetti costitutivi di tale dispositivo, che è al giudice ordinario precluso dall’art. 4 della l. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E. In tal senso l’art. 6 del r.d. n. 383 del 1934 si pone come la soluzione dello scontro-incontro tra Cassazione e Consiglio di Stato, l’esito ultimo del Concordato Romano-D’Amelio. Una chiusa del Concordato alla quale la Cassazione si adegua, forse consapevole della debolezza dell’argomentazione proposta, che appare una fuga in avanti nel « sistema » dell’ordinamento giuridico allora vigente. 5. Ancora una riflessione. L’analisi sulle pronunce del Concordato Romano-D’Amelio rivela infine una coda sul riparto di giurisdizione che occorre sciogliere. Una volta accertato che non c’è un diritto soggettivo (perché non c’è un contratto, o il contratto non è efficace) l’assenza della giurisdizione del giudice ordinario ne è l’ovvia conseguenza, mentre non cosı̀ immediato risulta radicare la giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo. È noto che quest’ultima si impone in ragione della denuncia dei vizi di legittimità di un provvedimento autoritativo dell’amministrazione pubblica, quindi di una posizione di interesse legittimo del ricorrente, che si distingue dalla posizione sostanziale di diritto soggettivo che invece fonda la tutela avanti al giudice ordinario. L’Adunanza plenaria (nn. 1 e 2 del 1930) tuttavia non utilizza affatto l’argomento della natura autoritativa del provvedimento emanato in esercizio del potere di annullamento governativo che avrebbe per cosı̀ dire « affievolito » o più precisamente estinto il diritto di credito sorto dal contratto. La sequenza logica dell’Adunanza plenaria non è riconducibile all’idea che una volta stipulato il contratto ed ottenuto il visto di esecutorietà è sorto dallo stesso un diritto di credito, sicché l’annullamento governativo si pone come manifestazione di


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un potere che — nell’interesse pubblico — va ad eliminare con effetto ex tunc la sua efficacia. Non si tratta infatti nei casi esaminati del potere governativo — o delegato — di diniego dell’approvazione dei contratti adottato per « gravi motivi di interesse pubblico o dello Stato... anche se riconosciuti regolari » (r.d. 23 maggio 1924, n. 827, art. 113; cfr. anche il previgente r.d. 4 settembre 1870, n. 5852, art. 122). Tutto il ragionamento dell’Adunanza plenaria è condotto sul filo della legittimità del procedimento con il quale l’amministrazione ha manifestato la sua volontà di conclusione del contratto: se è legittimo permane il contratto, se non è corretto difetta un contratto e non può dirsi da questo sorto il diritto di credito, con un sindacato, quindi, sulla validità del procedimento nel quale si è manifestata la volontà dell’amministrazione pubblica di addivenire alla stipulazione del contratto e al conseguente visto di esecutorietà. Se la controversia ha ad oggetto il sindacato di legittimità sull’osservanza del procedimento di scelta del contraente e sull’atto conclusivo di deliberazione-legittimazione alla stipulazione del contratto — sicché il sindacato ha ad oggetto atti che logicamente la precedono — correttamente l’Adunanza plenaria conclude che non si « fa questione di diritto civile o politico », dunque non c’è giurisdizione ordinaria. Non altrettanto evidente è tuttavia — da tali considerazioni — derivare senz’altro la giurisdizione amministrativa. Infatti l’Ad. plen. n. 1 del 1930 — dopo avere ritenuto indiscusso nel caso all’esame il criterio del petitum di annullamento (del decreto governativo) chiesto dal ricorrente — rivolge l’analisi alla causa petendi ed osserva che per « quanto riguarda la natura della controversia, la competenza dell’autorità giudiziaria è senz’altro da ammettersi nei casi in cui si faccia questione di un diritto civile o politico e tale questione non sia pregiudiziale o incidentale ai termini dell’art. 28 del testo unico 26 giugno 1924, n. 1054, delle leggi sul consiglio di Stato. Nel caso presente non si fa, però, alcuna questione relativa a diritti, e, quindi, è da ritenersi competente il consiglio di Stato ».


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« Ciò risulta chiaro ove si consideri che la Società ricorrente non afferma, né potrebbe affermare, alcun diritto relativo agli atti amministrativi (bando di concorso, deliberazioni del comune riflettenti un futuro contratto, visti ed apporovazioni di tali deliberazioni) che il provvedimento impugnato ha annullato. Le questioni che si fanno in ordine alla legittimità di tali atti e, conseguentemente, al loro annullamento, prescindono tutte dalla considerazione di qualsiasi diritto della Società ricorrente ». « Diverso sarebbe il caso in cui si sostenesse che il decreto di annullamento fosse illegittimo perché lesivo di un diritto derivante da altro titolo e preesistente agli atti cui il decreto si riferisce. In tale ipotesi, le questioni sulla legittimità di questi atti e del loro annullamento si risolverebbero in questioni sul diritto di cui essi avrebbero dovuto tener conto... ». L’affermazione di una competenza del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale pare dunque seguire naturalmente al disposto letterale dell’art. 26 del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato n. 1054 del 1924. In tale disposizione la giurisdizione amministrativa è configurata come residuale, cioè si afferma ogni qual volta « i ricorsi medesimi non siano di competenza dell’autorità giudiziaria, né si tratti di materia spettante alla giurisdizione od alle attribuzioni contenziose di corpi o collegi speciali » e sempreché — l’ha ricordato questa mattina il prof. Alberto Romano — i ricorsi medesimi abbiano ad oggetto un interesse individuale (« o di enti morali giuridici »), ove l’interesse individuale — detto interesse legittimo — non è inevitabilmente una posizione sostanziale che si distingue dal diritto soggettivo, ma una « situazione legittimante al processo » (23). (23) A. ROMANO, La situazione legittimante al processo amministrativo, in questa Rivista, 1989, 539, 514; ID., I caratteri originari della giustizia amministrativa e la loro evoluzione, in Atti del Convegno celebrativo « Cento anni di giurisdizione amministrativa », Torino, 10-12 novembre 1989, Napoli, 1996, 71 e s.; G. D. FALCON, Il giudice amministrativo tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di spettanza, in questa Rivista, 2000, 289; V. CAIANIELLO, Lineamenti, cit., 169 in nota; E. TOSATO, L’impugnativa del decreto reale di annullamento, in Arch. dir. pubbl., 1938, 48 e s.; E. GUICCIARDI, La giustizia amministrativa, Padova, 1954, 38 e s.


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Nel caso esaminato dall’Adunanza plenaria è l’interesse individuale dello stipulante al mantenimento dell’efficacia del contratto, il cui visto è stato annullato; nel caso dell’impugnazione di chi non è stato aggiudicatario si afferma l’interesse individuale del partecipe alla gara, o alla trattativa privata, che vuole vedere nei suoi confronti esperita una legittima procedura amministrativa avente ad oggetto la stipulazione del contratto. In tale configurazione diventa irrilevante pensare ad un provvedimento « autoritativo », perché è irrilevante pensare a una posizione di interesse legittimo come posizione sostanziale, di complemento al diritto soggettivo. Certo si tratta di un ordine di ragionamenti che paiono ora superati dall’affermazione, che settant’anni or sono apparve claudicante, di un vero e proprio diritto soggettivo che spetta al ricorrente nella fase che precede la conclusione del contratto (trattative), con soluzione che è agevolata dalla recente istituzione di una giurisdizione esclusiva in materia, avanti alla quale è ora sicuramente proponibile un’azione « di risarcimento dei danni conseguenti all’emanazione di atti amministrativi illegittimi » (24), con sindacato di legittimità su tali atti del giudice amministrativo, non importa ora se in via principale o incidentale.

(24)

Cass., Sez. un., 28 giugno 1932, Comune Caserta c. Ricciardi, cit.


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ESECUZIONE DEI CONTRATTI AD EVIDENZA PUBBLICA E GIUDICE AMMINISTRATIVO: LA (PERSISTENTE?) « SPECIALITÀ » DELLA GIURISDIZIONE ESCLUSIVA ALLA RICERCA DI UN’IDENTITÀ SMARRITA (*)

SOMMARIO: 1. L’oggetto della ricerca. — 2. Analisi del prevalente orientamento dottrinale e giurisprudenziale, secondo cui le controversie attinenti all’esecuzione dei contratti ad evidenza pubblica restano affidate al giudice ordinario. — 3. Analisi del minoritario orientamento giurisprudenziale che ritiene che, invece, debbano oggi ritenersi devolute al giudice amministrativo anche le controversie inerenti alla fase esecutiva dei contratti. — 4. Analisi dell’orientamento giurisprudenziale che distingue tra appalti di lavori e forniture ed appalti di servizi, ritenendo che soltanto questi ultimi siano stati interamente devoluti alla giurisdizione amministrativa esclusiva. — 5. Considerazioni critiche sull’orientamento minoritario. — 6. Il rilievo delle disposizioni sull’arbitrato ai fini dell’individuazione dell’ambito della « nuova » giurisdizione esclusiva. — 7. L’illogicità del sistema attuale. — 8. I limiti posti all’ampliamento della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo dall’art. 103 Cost. — 9. Spunti ricostruttivi: quale specificità per l’attuale giurisdizione esclusiva?

1. Osservava con la consueta acutezza Massimo Severo Giannini che, nel nostro ordinamento, « la materia dei contratti ad evidenza pubblica è oggi una delle più discusse e tormentate, ma anche afflitta da singolari confusioni d’idee » e che « la particolare complicazione della materia riceve un effetto di moltiplicatore per il sistema di giustizia amministrativa fondata sul riparto di giurisdizione » (1). Nel riportare il pensiero del compianto Maestro, la più recente dottrina che ha esaminato il tema del riparto della giuri(*) (1)

Questo saggio è destinato agli Scritti in memoria di F. Ledda. Diritto amministrativo, Milano, 1970, I, 734.

Dir. Proc. Amm. - 1/2004


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sdizione in materia di contratti ad evidenza pubblica prima delle riforme del 1998/2000 ha rammentato che, anteriormente alla legge abolitrice del contenzioso amministrativo, competenti a conoscere delle controversie tra amministrazione ed appaltatore relative ad appalti di opere pubbliche erano i cc.dd. tribunali del contenzioso amministrativo, il che — secondo la dottrina dell’epoca (2) — « costituiva una anomalia, trattandosi di controversie relative a rapporti posti in essere dall’amministrazione sotto il regime del diritto privato le quali si sarebbero dovute devolvere pertanto alla cognizione degli organi giurisdizionali ordinari. L’anomalia evidentemente si spiegava in considerazione dell’interesse pubblico indirettamente connesso a rapporti che, come quelli derivanti da appalti di opere pubbliche o di pubbliche forniture, hanno carattere strumentale rispetto alla soddisfazione di bisogni collettivi, pur essendo posti in essere con le forme proprie del diritto privato. Fu probabilmente in virtù di tale considerazione che la competenza degli organi della giurisdizione ordinaria fu limitata ai rapporti inerenti alla gestione dei beni posseduti iure privatorum (attività privata in senso stretto), escludendola invece per i rapporti aventi la natura sopradescritta » (3). Già prima delle più recenti innovazioni (d.lgs. n. 80 del 1998 e l. n. 205 del 2000) si notava una certa tendenza legislativa ad accentrare la giurisdizione presso il giudice amministrativo (4), in ciò vedendosi « un significativo ritorno alla disciplina preesistente alla l. 20 marzo 1865, n. 2248, All. E, abolitiva del contenzioso amministrativo » (5). Ritorno che, peraltro,

(2) G. MANTELLINI, Lo Stato e il codice civile, Firenze, 1880, II, 583 ss. (3) La ricostruzione storica è di S. BUSCEMA-A. BUSCEMA, I contratti della pubblica amministrazione, 2a ed., Padova, 1994, 638. (4) S. BUSCEMA-A. BUSCEMA, op. cit., 639, i quali portano l’esempio delle controversie relative ai rapporti di concessione. (5) P. VAIANO, I problemi attuali del contenzioso dei contratti della p.a., in Nuovi orientamenti in materia di contratti della pubblica amministrazione (Atti del XX Convegno di studi di scienza dell’amministrazione), Milano, 1977, 112.


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si è detto « non potrebbe oggi avvenire ignorando il sistema giurisdizionale delineato dalla Costituzione repubblicana » (6). In un contesto comunque caratterizzato, in virtù dell’accettazione della teoria dei contratti ad evidenza pubblica, dal tradizionale « doppio binario » (giudice amministrativo per le controversie avverso gli atti del procedimento amministrativo, giudice ordinario per le liti sugli adempimenti contrattuali), è sopraggiunto l’art. 33 del d.lgs. n. 80 del 1998, poi sostituito, per le note ragioni, dall’art. 7 della l. n. 205 del 2000, che ha devoluto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo « tutte le controversie in materia di pubblici servizi », tra cui, « in particolare, quelle: [...] d) aventi ad oggetto le procedure di affidamento di appalti pubblici di lavori, servizi e forniture, svolte da soggetti comunque tenuti alla applicazione delle norme comunitarie o della normativa nazionale o regionale », nonché quelle « e) riguardanti le attività e le prestazioni di ogni genere, anche di natura patrimoniale, rese nell’espletamento di pubblici servizi ». La profonda innovazione in materia di riparto di giurisdizione sulle controversie relative ai contratti ad evidenza pubblica apportata dalla citata modifica legislativa offre lo spunto per valutare, proprio dalla particolare visuale degli orientamenti giurisprudenziali e dottrinali sul tema del nuovo criterio di discrimine tra giudice ordinario e giudice amministrativo, fino a che punto certe soluzioni siano, per cosı̀ dire, imposte dall’art. 103, comma 1, Cost. e come questa disposizione debba (e possa) essere oggi interpretata (7). 2. Nel tentativo di schematizzare i diversi indirizzi emersi nell’ampio dibattito apertosi sull’argomento, possiamo prendere le mosse dall’orientamento, di gran lunga prevalente, secondo (6) S. BUSCEMA-A. BUSCEMA, ibidem. (7) Sui problemi di ordine costituzionale nascenti dall’ampliamento della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo v., da ultimo, I. ZINGALES, Considerazioni sulla costituzionalità del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo alla luce della l. 21 luglio 2000 n. 205, in Cons. St., 2003, II, 145 ss. ed ivi (spec. nota 1) ampi riferimenti bibliografici.


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cui, sostanzialmente, non sarebbe cambiato nulla, nel senso che risulterebbe confermato il tradizionale criterio di riparto. Con specifico riguardo ai contratti d’appalto di opere pubbliche, la giurisprudenza è, invero, pressoché unanime nell’affermare che le controversie attinenti alla fase esecutiva, successiva all’aggiudicazione (8), siano rimaste affidate al giudice ordinario, essendo l’attrazione nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo limitata alle controversie inerenti alla fase di scelta del contraente (9). Cosı̀, ad es., resterebbero devolute alla cognizione del giu(8) Era sinora pacifico che la linea di demarcazione fosse rappresentata, appunto, dal verbale di aggiudicazione definitiva, che, a norma dell’art. 16, comma 4, r.d. 18 novembre 1923, n. 2440, equivale « per ogni effetto legale al contratto » (in tal senso, tra le più recenti, Tar Basilicata, 2 ottobre 2002, n. 608, in Trib. amm. reg., 2002, I, 4466, che tuttavia distingue tra asta pubblica e licitazione privata, da un lato, ed appalto concorso, dall’altro). A seguito dell’entrata in vigore delle varie leggi Merloni — che rinviano ad un momento successivo all’aggiudicazione le necessarie verifiche sull’aggiudicatario ai fini della stipula del contratto (art. 10, comma 1-quater, l. n. 109 del 1994, e s.m.i.) — e del relativo regolamento di esecuzione — che disciplina analiticamente la fase del perfezionamento della volontà contrattuale (in part., art. 109, comma 1, d.P.R. n. 554 del 1999) —, è stato, tuttavia, sostenuto che il vincolo contrattuale tra le parti può oggi considerarsi instaurato soltanto con la stipulazione del contratto d’appalto, non essendo sufficiente il solo verbale di aggiudicazione (Autorità per la Vigilanza sui Lavori pubblici, determ. 2 ottobre 2002, n. 24, in Giust. amm., 2002, 1277 e in Riv. trim. app., 2003, 273). In argomento, da ultimo, D. STERRANTINO, I diversi momenti del sorgere del vincolo contrattuale negli appalti della pubblica amministrazione. tra gara e procedura negoziata (note a Cass., 14 maggio 2002, n. 6953), in Giust. civ., 2003, I, 493; M. GATTI, Aggiudicazione provvisoria e definitiva: una distinzione attuale?, in Riv. trim. app., 2003, 163 ss.; L. TOSI, Verbale di aggiudicazione e perfezionamento del contratto negli appalti pubblici, in http:// www.lexitalia.it, n. 1/2004. (9) In tal senso, senza pretese di completezza: Tar Campania, Sez. I, 30 giugno 2003, n. 7962, in Foro amm.-Tar, 2003, 2014; Tar Marche, 16 giugno 2003, n. 614 e 3 giugno 2003, n. 471, in Trib. amm. reg., 2003, I, 3356 e 3352; Tar Veneto, Sez. I, 3 giugno 2003, n. 3130, in Foro amm.-Tar, 2003, 1879; Tar Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, 26 marzo 2003, n. 307, in Trib. amm. reg., 2003, I, 2009; Tar Lazio, Sez. I-bis, 19 febbraio 2003, n. 1269, ivi, 2003, I, 1074; Sez. II-ter, 11 febbraio 2003, n. 923, ivi, 2003, I, 1060; Cons. St., Sez. V, 6 febbraio 2003, n. 628, in http://www.giust.it, n. 2/2003; Tar Calabria-Catanzaro, Sez. II, 21 gennaio 2003, n. 60, in Foro amm.-Tar, 2003, 284; Tar Molise, 18 novembre 2002, n. 912, in Trib. amm. reg., 2003, I, 349; Cons. Stato, Sez. VI, 10 ottobre 2002, n. 5428, in Cons. St., 2002, I, 2178; Tar Lazio, Sez. III-ter, 26 settembre 2002, n. 8199, in Trib. amm. reg., 2002, I, 3433; Cons. Stato, Sez. IV, 25 settembre 2002, n. 4895, in Foro amm.-Cons. Stato, 2002, 2011 e in Contr. St. e enti pubbl., 2003, 35, con nota di D. ROSSI, Sul confine


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dice ordinario le controversie aventi ad oggetto il recesso, la rescissione e la risoluzione del contratto (10) e quelle concernenti il pagamento di interessi e rivalutazione per ritardato pagamento tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa in tema di appalti di opere pubbliche; Tar Puglia-Bari, Sez. I, 18 settembre 2002, n. 4011, in Foro amm.-Tar, 2002, 2982; Tar Campania, Sez. I, 3 luglio 2002, n. 631, ivi, 2002, 2651; Tar Basilicata, 1 giugno 2002, n. 461, in Trib. amm. reg., 2002, I, 3182; Tar Veneto, Sez. I, 4 aprile 2002, n. 1243, ivi, 2002, I, 1906; Tar Basilicata, 27 marzo 2002, n. 273, ivi, 2002, I, 2107; Cass., Sez. un., 19 novembre 2001, n. 14539, in Cons. St., 2002, II, 189; Tar Abruzzo-L’Aquila, 2 ottobre 2001, n. 583, in Foro amm., 2001, 2988; Tar Molise, 21 settembre 2001, n. 297, in Trib. amm. reg., 2001, I, 3756; Tar CampaniaNapoli, Sez. I, 23 luglio 2001, n. 3474, ivi, 2001, I, 3393; Tar Piemonte, Sez. II, 18 luglio 2001, n. 1540, ivi, 2001, I, 3256; Tar Calabria-Catanzaro, 17 luglio 2001, n. 1137, ivi, 2001, I, 3487; Tar Sicilia-Palermo, Sez. II, 5 aprile 2001, n. 520, ivi, 2001, I, 2024; Tar Campania-Napoli, Sez. I, 12 marzo 2001, n. 1078, ivi, 2001, I, 1841; Tar Puglia-Bari, Sez. I, 23 febbraio 2001, n. 523, ivi, 2001, I, 1425; Tar Lombardia-Milano, Sez. III, 15 febbraio 2001, n. 1083, ivi, 2001, I, 53; Cons. Stato, Sez. IV, 29 novembre 2000, n. 6325, in Cons. St., 2000, I, 2536 e in Giust. amm., 2001, 162; Trib. Foggia, 13 aprile 2000, in Urb. e app., 2000, 764, con nota di R. GAROFOLI. (10) Cons. Stato, Sez. V, 30 giugno 2003, n. 3868, in Cons. St., 2003, I, 1443; Tar Campania-Napoli, Sez. I, 30 giugno 2003, n. 7962, in Trib. amm. reg., 2003, I, 3419; Tar Calabria-Catanzaro, Sez. II, 17 giugno 2003, n. 2051, ivi, 2003, I, 3526; Tar Abruzzo-L’Aquila, 20 maggio 2003, n. 297, ivi, 2003, I, 2690; T.R.G.A. Trentino Alto Adige-Bolzano, 28 aprile 2003, n. 159, ivi, 2003, I, 2600; Tar Lazio, Sez. III-ter, 15 aprile 2003, n. 3488, ivi, 2003, I, 1861; Tar Campania-Salerno, Sez. I, 11 aprile 2003, n. 264, ivi, 2003, I, 597 e in Giust. amm., 2003, 407; Tar Puglia-Bari, Sez. I, 2 aprile 2003, n. 1542, in Foro amm.-Tar, 2003, 1358 e in Trib. amm. reg., 2003, I, 612; Tar Calabria-Reggio Calabria, 28 marzo 2003, n. 279, ivi, 2003, I, 2273; Tar Calabria-Catanzaro, Sez. I, 24 marzo 2003, n. 844, ivi, 2003, I, 2256; Tar Lombardia-Brescia, 17 marzo 2003, n. 335, ivi, 2003, I, 1950; Tar Campania-Napoli, Sez. I, 26 febbraio 2003, n. 1809, in Foro amm.-Tar, 2003, 670; Sez. II, 22 febbraio 2003, n. 1350, ivi, 2003, 697; Cons. Stato, Sez. V, 6 febbraio 2003, n. 628, in Cons. St., 2003, I, 261; Tar Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, 27 gennaio 2003, n. 40, in Giust. amm., 2003, 174; Tar Puglia-Bari, Sez. I, 17 gennaio 2003, n. 242, ibidem; Tar Sicilia-Palermo, Sez. I, 17 ottobre 2002, n. 3099, ivi, 2002, 1346; Tar Sicilia-Catania, Sez. I, 1o ottobre 2002, n. 1650, in Foro amm.-Tar, 2002, I, 3410; Cons. Stato, Sez. IV, 25 settembre 2002, n. 4895, in Cons. St., 2002, I, 1961; Tar Puglia-Bari, Sez. I, 18 settembre 2002, n. 4011, in Trib. amm. reg., 2002, I, 4058; Tar Veneto, Sez. I, 1 agosto 2002, n. 3830, in Foro amm.-Tar, 2002, 2386; Tar Lombardia, 23 aprile 2002, n. 801, ivi, 2002, 1191; Cass., Sez. un., 18 aprile 2002, n. 5640, in Cons. St., 2002, II, 1181; Tar Sicilia-Palermo, Sez. I, 3 aprile 2002, n. 863, in Rass. amm. sic., 2002, 439; Tar Abruzzo-Pescara, 8 marzo 2002, n. 301, in Trib. amm. reg., 2002, I, 1988; Tar Lombardia-Brescia, 15 febbraio 2002, n. 187, ivi, 2002, I, 1429; Tar Piemonte, Sez. II, 9 febbraio 2002, n. 295, ivi, 2002, I, 1386; Cons. Stato, Sez. V, 30 gennaio 2002, n. 515, in Cons. St., 2002, I, 155; Tar Puglia-Lecce, Sez. II, 19 gennaio 2002, nn. 40 e 42, in Trib. amm. reg., 2002, I, 1217; Tar Puglia-Bari, Sez. I, 28 novembre 2001, n. 5199,


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del corrispettivo dell’appalto (11) e, in materia di revisione prezzi, continuerebbe ad applicarsi il tradizionale criterio di riparto, secondo cui le controversie attinenti all’an della pretesa revisionale appartengono alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo, mentre quelle attinenti al quanivi, 2002, I, 326; Tar Calabria-Catanzaro, Sez. I, 28 novembre 2001, n. 1770, ivi, 2002, I, 349; Tar Friuli-Venezia Giulia, 21 agosto 2001, n. 528, ivi, 2001, I, 3321; Tar Campania-Napoli, Sez. I, 17 luglio 2001, n. 3413, ivi, 2001, I, 3389; Cons. Stato, Sez. V, 11 giugno 2001, n. 3127, in Cons. St., 2001, I, 1273; Tar Marche, 26 maggio 2001, n. 630, in Trib. amm. reg. 2001, I, 2383; Tar Molise, 2 maggio 2001, n. 89, ivi, 2001, I, 2394; Tar Lombardia-Brescia, 26 marzo 2001, n. 150, ivi, 2001, I, 1685; Cass., Sez. un., 7 marzo 2001, n. 95, in Cons. St., 2001, II, 922; in Giust. civ. Mass. 2001, 352; in Urb. e app., 2001, 752; Tar Campania-Napoli, Sez. I, 21 febbraio 2001, n. 868, in Trib. amm. reg., 2001, I, 489; Tar Puglia-Bari, Sez. II, 5 febbraio 2001, n. 278, ivi, 2001, I, 1406; Tar Abruzzo-L’Aquila, 2 febbraio 2001 n. 27, ivi, 2001, I, 1331; Tar Marche, 11 dicembre 2000, n. 1558, ivi, 2001, I, 624; Tar Piemonte, Sez. II, 17 novembre 2000, n. 1193, ivi, 2001, I, 145 e in Foro amm., 2001, 923; Tar LombardiaMilano, Sez. III, 13 novembre 2000, n. 6327, ivi, 2001, 934; Tar Puglia-Bari, Sez. I, 10 novembre 2000, n. 4422, in Trib. amm. reg., 2000, I, 4301; Tar Basilicata, 8 novembre 2000, n. 673, ivi 2000, I, 4731; Cass., Sez. I, 4 febbraio 2000 n. 1217, in App. urb. edil., 2001, 269. È, peraltro, notorio — ma trattasi di questione che prescinde dalle innovazioni apportate dall’art. 33 d.lgs. n. 80 del 1998 (sia nella prima versione che in quella attuale) e che, pertanto, esula dall’oggetto del nostro studio — che certa giurisprudenza ravvisa anche in siffatte ipotesi ambiti di giurisdizione del giudice amministrativo, ritenendo che talvolta anche dopo il perfezionamento del vincolo contrattuale l’amministrazione possa far uso di poteri autoritativi: cfr., ad es., con riguardo all’adozione di atti che, in definitiva, incidono sull’aggiudicazione, ancorché successivi alla medesima, Cons. Stato, Sez. IV, 25 settembre 2002, n. 4895, in Guida al diritto, 2002, n. 43, 90, con commento di G. CARUSO, Ribadito lo spartiacque giurisdizionale tra diritti soggettivi e interessi legittimi; Sez. V, 9 novembre 2001, n. 5771, in Foro amm., 2001, 2832; Tar Lazio, Sez. I-ter, 25 luglio 2001, n. 6804, in Trib. amm. reg., 2001, I, 2727. In argomento v. amplius F. ANCORA, La “rescissione” del contratto di appalto di opere pubbliche, Milano, 1993, 142 ss., secondo cui la rescissione ex art. 340 l. n. 2248 del 1865 all. F è un atto negoziale di diritto privato assoggettato alla disciplina generale del codice civile, ma è preceduta da una sequenza di atti a tutti gli effetti amministrativi, per i quali non possono che valere le norme che disciplinano l’azione della p.a. (ivi, 156). Il primo tentativo di ricostruzione generale degli istituti derogatori alla disciplina privatistica che attengono all’attuazione del rapporto cittadino/p.a. si deve — com’è noto — a S. RAIMONDI, I poteri amministrativi nell’attività di diritto privato della pubblica amministrazione, Milano, 1970. (11) Tar Marche, 24 maggio 2002, n. 436, in Trib. amm. reg., 2002, I, 2555; in termini, con riguardo all’esecuzione della penale per ritardo nell’esecuzione dei lavori, Tar Calabria-Catanzaro, Sez. I, 20 giugno 2003, n. 2111, ivi, 2003, I, 3529; in generale, con riferimento all’adempimento economico della stazione appaltante, Tar Puglia-Lecce, Sez. I, 22 aprile 2003, n. 2562, ivi, 2003, I, 2811.


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tum del compenso revisionale sono devolute alla cognizione dell’autorità giudiziaria ordinaria (12). Ad analoghe conclusioni dovrebbe pervenirsi, secondo certa giurisprudenza, anche con riguardo agli appalti di servizi e di forniture, nel senso che anche in quest’ambito resterebbe esclusa dalla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ogni questione attinente all’esecuzione ed al corretto adempimento del contratto (13). Tanto per esemplificare, continuerebbero, quindi, ad essere devolute alla cognizione del giudice ordinario le controversie sugli atti con i quali, dopo la stipula del contratto, l’amministrazione provveda unilateralmente alla risoluzione del rapporto (14) e

(12) In tal senso, tra le più recenti, Cons. Giust. Amm. Reg. sic., 9 ottobre 2002, n. 587, in Cons. St., 2002, I, 2376; Cass., Sez. un., 24 aprile 2002, n. 6034 e 19 aprile 2002, n. 5731, in Corr. giur., 2003, 382 ss., con commento di S. SALVAGO, Revisione dei prezzi degli appalti e riconoscimento della p.a. (13) Anche in tal caso senza pretese di completezza, vanno segnalate: Cons. stato, Sez. V, 30 giugno 2003, n. 3868, in Foro amm.-Cons. Stato, 2003, 1919; Sez. VI, 26 giugno 2003, n. 3850, ivi, 2003, 1980; Tar Lazio-Latina, 30 maggio 2003, n. 592, in Trib. amm. reg., 2003, I, 2541 e in Foro amm.-Tar, 2003, 1699; Tar PugliaLecce, Sez. II, 13 marzo 2003, n. 766, in Trib. amm. reg., 2003, I, 2218; Tar PugliaBari, Sez. I, 17 gennaio 2003, n. 242, in Foro amm.-Tar, 2003, 264; Tar Lazio, Sez. I-bis, 6 novembre 2002, n. 9725, in Giust. amm., 2002, 1351; Tar Puglia, Sez. II, 7 settembre 2002, n. 4306, in Foro amm.-Tar, 2002, 2990; Cass., Sez. un., ord. 22 luglio 2002 n. 10726, in Giust. amm., 2002, 1105; Tar Lombardia, Sez. III, 4 aprile 2002, n. 1295, in Foro amm.-Tar, 2002, 1169; Tar Lombardia-Brescia, 28 gennaio 2002, n. 111, ivi, 2002, 36 e in Trib. amm. reg., 2002, I, 1062. La più recente giurisprudenza ha, peraltro, precisato che, per quanto attiene agli appalti di servizi sotto soglia comunitaria, anche le controversie relative alle procedure di affidamento rientrano nella giurisdizione ordinaria: Cass., Sez. un., 21 novembre 2003, n. 17635, in Guida al diritto, 2004, n. 3, 52, con commento di G. CARUSO, Disattesa l’interpretazione estensiva sostenuta dal Consiglio di Stato; Tar Toscana, Sez. II, 20 giugno 2003, n. 2434, in Trib. amm. reg., 2003, I, 3336. (14) Tar Puglia-Lecce, Sez. II, 6 settembre 2002, n. 4306, in Trib. amm. reg., 2002, I, 4062; Cons. Stato, Sez. V, 5 settembre 2002, n. 4458, in Foro amm.-Cons. St., 2002, 2056 e in Cons. St., 2002, I, 1878, secondo cui è indifferente che tale potestà sia esercitata sulla base di una norma attributiva del relativo potere ovvero che tale diritto potestativo risulti attribuito alla parte pubblica del rapporto da una specifica pattuizione contrattuale; Tar Lombardia-Brescia, 23 aprile 2002, n. 801, in Trib. amm. reg., 2002, I, 2437; Tar Campania-Napoli, Sez. I, 17 gennaio 2002, n. 335, ivi, 2002, I, 1169; Tar Sicilia-Palermo, Sez. I, 27 dicembre 2001, n. 2210, in Rass. amm.


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quelle aventi ad oggetto il pagamento del corrispettivo (15). In dottrina, a sostegno di tale orientamento, sono state addotte considerazioni di vario genere, talvolta peraltro rinvenibili nelle stesse sentenze sopra citate. Tralasciando le argomentazioni basate sulla portata della delega contenuta nell’art. 11, comma 4, lett. g), della l. n. 59 del 1997 (16), evidentemente superate dall’art. 33 del d.lgs. n. 80 del 1998, è stato, in primo luogo, attribuito rilievo decisivo alla formulazione letterale della lett. d) dell’anzidetto art. 33, laddove parla di « controversie [...] aventi ad oggetto le procedure di affidamento ». L’espressione utilizzata — si è detto — denota la netta volontà del legislatore di tenere ben distinta la fase, più strettamente legata alla procedura di evidenza pubblica, dell’affidamento dell’appalto dalla susseguente fase dell’esecuzione, di natura tipicamente privatistica e che, a differenza della precedente, presuppone un rapporto già in essere tra le parti (17). sic., 2002, 101; Tar Lombardia-Milano, Sez. III, 18 maggio 2001, n. 3883, in Trib. amm. reg., 2001, I, 1151. (15) Tar Campania-Napoli, Sez. I, 16 settembre 2002, n. 4999, in Trib. amm. reg., 2002, I, 4026; Tar Lazio-Latina, 8 marzo 2001, n. 277, ivi, 2001, I, 1215, con riguardo al pagamento di somme relative alla fornitura di materiale sanitario. (16) Sulle quali può comunque vedersi A. DE ROBERTO, La nuova giurisdizione del giudice amministrativo di cui agli artt. 33, 34 e 35 del decreto legislativo n. 80 del 1998, in Scritti giuridici in onore di S. Cassarino, Padova 2001, I, 535 ss., peraltro incline a ritenere sussistente la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nei casi in cui all’appalto (sia esso di lavori, di servizi o di forniture) « proceda un gestore di servizi pubblici in vista di soddisfare con il contratto esigenze relative all’esplicazione di pubblici servizi » (ivi, 544); F. DELLA VALLE, Primi chiarimenti sull’ambito applicativo della nuova tutela risarcitoria ex art. 35 d.lgs. 80/1998, in Urb. e app., 1999, 549 ss., parimenti convinta che la normativa del 1998 non toccasse gli appalti estranei alla gestione di un pubblico servizio (ivi, 551); più ampiamente, con un nutritissimo corredo di giurisprudenza e dottrina in argomento, A. FABRI, L’ambito della materia dei servizi pubblici nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in questa Rivista, 2000, 1033 ss. (17) Cosı̀ F. ROCCO, Esecuzione dei contratti ad evidenza pubblica e giurisdizione, in Urb. e app., 2002, 692, commentando adesivamente Cons. Stato, Sez. V, 28 dicembre 2001, n. 6443; R. DE NICTOLIS-F. CARINGELLA, Giurisdizione esclusiva e pubblici appalti. La legge 205/2000 al vaglio della giurisprudenza, in Il nuovo processo amministrativo dopo due anni di giurisprudenza, a cura di F. CARINGELLA e M. PROTTO, Milano, 2002, 545; V. POLI, La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo


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A sostegno dell’interpretazione restrittiva si adducono poi considerazioni che, a ben vedere, finiscono per applicare il tradizionale criterio di riparto della giurisdizione basato sulla distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi, criterio che invero non dovrebbe trovare spazio in presenza di una giurisdizione esclusiva ratione materiae quale quella qui ipotizzata (18). Si assume, cioè, che soltanto le questioni attinenti alla fase pubblicistica di affidamento dell’appalto, involgendo situazioni di interesse legittimo, potrebbero ritenersi assoggettate al sindacato del giudice amministrativo, mentre le controversie concernenti la successiva fase privatistica di esecuzione del contratto, incidendo sulle situazioni di diritto soggettivo sorte dal contratto stesso, non potrebbero che spettare alla giurisdizione del giudice ordinario (19). sulle procedure di affıdamento dei pubblici appalti, in Cons. St., 2002, II, 1284, il quale, peraltro, puntualizza che « l’uso, al plurale, dei sostantivi “procedure di affidamento” — in luogo di “procedure di appalto” come sancito dal novellato art. 33, lett. d) d.lgs. n. 80 del 1998 — semplifica di molto il sistema, perché anche le controversie inerenti la scelta del concessionario di lavori, servizi e forniture vengono attratte alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo »; F. SATTA, Giurisdizione esclusiva, in Enc. dir., Agg., V, Milano, 2001, 577, che, pur non approfondendo la questione, nel dare per scontato che dalla giurisdizione esclusiva sono escluse le controversie relative all’esecuzione del contratto, sembra basarsi proprio sull’elemento letterale; M. DE PALMA, Esecuzione dell’appalto e giurisdizione esclusiva del G.A. ex art. 33 d.lgs. 80/98, in Urb. e app., 2000, 738-739; F.G. SCOCA, Giurisdizione e riti processuali in materia di appalti di lavori pubblici, in L’appalto fra pubblico e privato, Milano, 2001, 9-10; D. DE CAROLIS, Prime esperienze giurisprudenziali nelle materie di giurisdizione esclusiva previste dal d.lgs. 80/98, in Urb. e app., 1999, 1166. (18) In tal senso, infatti, Tar Liguria, Sez. II, 22 novembre 2002, n. 1125, in Foro amm.-Tar, 2002, 3620, con nota di G. TACCOGNA, L’affıdamento degli appalti « privatizzati » delle nuove ASL: quali rimedi e quale giurisdizione? (19) M. DE PALMA, ibidem. In giurisprudenza, ex plurimis, Tar Marche, 12 marzo 1999, n. 260, in Urb. e app., 1999, 907, secondo cui il provvedimento di risoluzione per inadempimento del contratto d’appalto di opera pubblica « è inidoneo ad incidere sulle posizioni soggettive inerenti ad un contratto di natura privatistica quale è il contratto in questione »; contra, L. CARBONE-M. D’ADAMO-R. MAZZARO-C. SILVESTRO-R. VICARIO, D.lgs. 80/98: Osservatorio, ivi, 1999, 907, che riconducono, invece, alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo le questioni che, pur attinenti alle fasi successive alla stipulazione del contratto, riguardino l’esercizio del potere autoritativo incidente sul rapporto contrattuale. Si consideri, peraltro, che proprio muovendo dalla considerazione che la richiesta di una ditta intesa a solleci-


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In posizione, per cosı̀ dire, a sé stante si pone la giurisprudenza della Corte di cassazione, la quale pone a fondamento di tale soluzione interpretativa l’esigenza di conformarsi ai principi costituzionali. In sostanza, secondo la Cassazione, l’art. 103 Cost., riconoscendo la giurisdizione speciale del giudice amministrativo per le controversie che siano in ogni caso connesse all’interesse generale e quindi alla tutela di situazioni di interesse legittimo, non consentirebbe l’estensione della giurisdizione amministrativa esclusiva alle questioni relative all’esecuzione dei contratti d’appalto, che riguardano esclusivamente diritti patrimoniali e non sono correlate ad interessi generali (20). A ciò si aggiunga che — sempre secondo la Cassazione — un’interpretazione estensiva dell’art. 33, comma 2, lett. d), determinerebbe un’ingiustificata distribuzione di controversie identiche concernenti l’inadempimento di obbligazioni di diritto comune tra due diversi organi giurisdizionali, nonché la formazione di differenti orientamenti giurisprudenziali in riferimento alle stesse norme codicistiche (posto che le sentenze del giudice amministrativo non sono impugnabili per violazione di legge ex art. 360, n. 3, c.p.c. e che, quindi, la Cassazione non potrebbe svolgere la consueta funzione nomofilattica), in palese contrasto tare, da parte dell’ente appaltante, l’esercizio di una facoltà risolutoria in materia contrattuale « inerisce ad attività tipicamente privatistica, in ordine alla quale la giurisprudenza sia del giudice ordinario che di quello amministrativo ha sempre prevalentemente affermato la giurisdizione del giudice ordinario (cfr. Tar Napoli, I, 17 gennaio 2002, n. 335) », la più recente giurisprudenza ha escluso la giurisdizione amministrativa anche nella diversa ipotesi delle controversie concernenti l’istituzione, modificazione o estinzione di soggetti gestori di pubblici servizi, ivi comprese le aziende speciali, le istituzioni o le società di capitali anche di trasformazione urbana (art. 33, comma 2, lett. a), d.lgs. n. 80 del 1998), allorquando si controverta della fase esecutiva dei contratti stipulati a conclusione delle procedure di cessione a privati di pacchetti azionari delle società pubbliche di gestione, ribadendo che, anche alla luce dell’art. 6 l. n. 205 del 2000, « al di fuori delle procedure di gara e per quanto attiene, quindi, all’esecuzione del contratto, nulla è innovato in rapporto alla giurisdizione generale del giudice ordinario in materia di diritti soggettivi » (Tar Lazio, Sez. II, 28 gennaio 2003, n. 506, in Guida al diritto, 2003, n. 11, 104, con commento di G. CARUSO, Nel ricorso sul silenzio-rifiuto della « p.a. » inammissibile la domanda di risarcimento). (20) Cosı̀ Sez. un., 30 marzo 2000, n. 72, in Urb. e app., 2000, 728, con il citato commento di M. DE PALMA.


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con i principi di razionalità e di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. (21). Tali argomentazioni — ed in particolare quest’ultima, che direttamente involge l’interpretazione dell’art. 103 Cost., che rappresenta l’oggetto finale della presente indagine — verranno sottoposte ad un attento vaglio critico nel prosieguo della trattazione. 3. Proseguendo l’analisi dei vari orientamenti, va adesso segnalata quella giurisprudenza, sicuramente minoritaria, che ha, invece, optato per una lettura estensiva dell’art. 33, comma 2, lett. d), del d.lgs. n. 80 del 1998. Nell’ambito di tale filone, spicca innanzitutto — se non altro perché, a quanto è dato sapere, è la prima pronuncia in tal senso in ordine di tempo — una sentenza del Tar di Reggio Calabria, ormai nota a tutti coloro che hanno affrontato questi temi, che ha ritenuto rientrante nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo una controversia avente ad oggetto la risoluzione di un contratto d’appalto di lavori, disposta in virtù dell’art. 345 della legge sui lavori pubblici del 1865 (22). Tale sentenza, peraltro apertamente sconfessata pochi mesi dopo dal Consiglio di Stato (23), non è rimasta del tutto isolata, in quanto nello stesso senso si sono successivamente espressi, oltre allo stesso tribunale reggino (24), altri Tar (25) ed i Tribu(21) Sul ruolo nomofilattico del Consiglio di Stato v., da ultimo, A.L. TARASCO, Poteri del giudice amministrativo tra ottemperanza e risarcimento: è suffıciente l’annullamento nel « processo amministrativo del risultato »?, in Foro amm.-Cons. Stato, 2002, 2726 ss., con ampie indicazioni bibliografiche. (22) Sent. 27 gennaio 2000, n. 71, in Corr. giur., 2000, 602, con commento di V. CARBONE, Sezioni unite e adunanza plenaria a confronto sulla nuova giurisdizione esclusiva dopo il d.lgs. n. 80/1998; in Urb. e app., 2000, 729, con il citato commento di M. DE PALMA; in Trib. amm. reg., 2000, I, 1539. (23) Sez. IV, 29 novembre 2000, n. 6325 (in Giust. amm., 2001, 162 e in Urb. e app., 2001, 68, con commento di F. CARINGELLA), che ha annullato Tar CalabriaReggio Calabria, 25 febbraio 2000, n. 147, in Trib. amm. reg., 2000, I, 2148. (24) Oltre alla pronuncia citata nella nota precedente, va segnalata la sentenza 23 novembre 2000, n. 1957, in Trib. amm. reg. 2001, I, 396. (25) Tar Sicilia-Catania, Sez. II, 13 agosto 2003, n. 1287, in Trib. amm. reg., 2003, I, 2450 e in Rass. amm. sic., 2003, 921; Tar Marche, 3 giugno 2003, n. 470, in


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nali civili di Messina (26) e di Napoli (27). Trattasi di un orientamento la cui indubbia originalità ha affascinato peraltro anche parte della dottrina, che ha posto in rilievo la fondatezza di talune argomentazioni addotte a sostegno di tale opzione interpretativa. Ma è, appunto, dalle sentenze stesse che è opportuno muovere per indicare sinteticamente gli elementi utilizzati per pervenire ad una cosı̀ ampia esegesi dell’art. 33, comma 2, lett. d). Il Tar di Reggio Calabria ha, in sostanza, fondato l’affermazione della propria giurisdizione sul rilievo che la procedura di risoluzione unilaterale del contratto d’appalto contemplata dall’art. 345 della l. n. 2248 del 1865, all. F, rientrerebbe, sia pure in negativo, tra quelle di affidamento di appalti pubblici delle quali parla il citato art. 33. Tale ragionamento muove, ovviamente, dalla scontata considerazione che nella nuova giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ben possano essere ricomprese anche posizioni di diritto soggettivo, quali appunto quelle inerenti all’esecuzione del contratto d’appalto, di natura privatistica. Di tenore diverso le argomentazioni svolte dal Tar di Catania, il quale, innanzitutto, osserva come, per effetto del nuovo art. 33 del d.lgs. n. 80 del 1998 (come sostituito dall’art. 7 della l. n. 205 del 2000), tutta la materia dei pubblici servizi sia stata attribuita alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ratione materiae, sicché « tutte le controversie » che incidono direttamente sull’espletamento di un pubblico servizio rientreForo amm.-Tar, 2003, 1922 e in Trib. amm. reg., 2003, I, 3352; Tar Sicilia-Catania, Sez. II, 20 maggio 2003, n. 828, ivi, 2003, I, 2914; Tar Campania-Napoli, Sez. I, 20 maggio 2003, n. 5866, 16 aprile 2003, n. 3933 e 6 marzo 2003, n. 2221, ivi, 2003, I, 2763, 2729 e 2111; Tar Lombardia-Brescia, 26 febbraio 2003, n. 292, in Foro amm.Tar, 2003, 429; Tar Piemonte, Sez. II, 25 gennaio 2003, n. 108, ivi, 2003, 3; Tar Sicilia-Catania, Sez. III, 7 gennaio 2002, n. 7, in Trib. amm. reg., 2002, I, 1264 e in Guida al diritto, 2002, n. 6, 87, con commento di G. CARUSO, Nel concetto di servizio pubblico rientra l’acquisto dei beni necessari; Sez. II (ma, significativamente, stesso Presidente e stesso estensore della precedente sentenza), 26 settembre 2002, n. 1615, in Foro amm.-Tar, 2002, 3033 e in Trib. amm. reg., 2002, I, 4099. (26) Sez. III, Giud. Unico Minutoli, 11 novembre 2002, in Giust. amm., 2002, 1346. (27) Sent. 11 luglio 2000, in Giur. nap., 2000, 385.


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rebbero in tale giurisdizione, ivi comprese quelle riguardanti le obbligazioni pecuniarie e quelle relative alla fase successiva all’affidamento o alla stipula del contratto, ancorché attinenti a diritti soggettivi (28). Per altro verso, si sostiene che il legislatore, al concreto fine della determinazione del riparto della giurisdizione, avrebbe inteso la nozione di « servizio pubblico » in senso potenzialmente cosı̀ vasto da ricomprendervi tutto quanto attiene allo svolgimento dell’azione amministrativa (29). Un ulteriore argomento viene, infine, rinvenuto nell’art. 4 della l. n. 205 del 2000, nel senso che — secondo il tribunale catanese — « l’inclusione fra i riti abbreviati [...] anche delle controversie relative alla fase di esecuzione di cui trattasi è stata evidentemente disposta in quanto il successivo art. 7 ricomprende, nella sua estensione illimitata, anche le controversie relative alla fase di esecuzione nell’ambito della nuova giurisdizione esclusiva in materia di pubblici servizi ». Anche queste argomentazioni verranno analizzate criticamente nel prosieguo del lavoro. 4. In posizione in certo senso intermedia si collocano quelle pronunce che distinguono in maniera netta tra gli appalti di lavori e forniture e gli appalti di servizi, affermando che soltanto in relazione a questi ultimi la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo si estenderebbe alla fase dinamica del rapporto contrattuale (30). (28) Più in particolare, nelle numerose sentenze citate nella nota 25, il Tar osserva che l’elencazione di cui al comma 2 dell’art. 33 mira semplicemente ad individuare, « esemplificativamente e non già tassativamente, alcuni tipi di controversie che sicuramente rientrano tra quelle indicate al comma 1 ». (29) Si assume, in particolare, che la previsione della sola eccezione contemplata dall’inciso finale della lett. e) dell’art. 33 « depone inequivocabilmente per una competenza del g.a. a conoscere di ogni altro tipo di rapporto giuridico inerente ai pubblici servizi, anche se relativo alla fase esecutiva del contratto sulla base del quale il servizio pubblico viene svolto ». (30) Senza pretese di completezza: Tar Lazio, Sez. II-bis, 4 maggio 2002, n. 3866, in Trib. amm. reg., 2002, I, 1757; Tar Sicilia-Catania, Sez. II, 19 aprile 2002, n. 680, ivi, 2002, I, 2699 e in Foro amm.-Tar, 2002, 1421; Sez. I, 7 febbraio 2002, n.


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Trattasi di un orientamento in qualche misura aderente al dato letterale (l’art. 33 esordisce con la lapidaria affermazione che « sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie in materia di pubblici servizi ») e che ha perciò ottenuto l’avallo di autorevole dottrina, la quale non ha, però, mancato di osservare come tale opzione non risolva comunque il problema dell’individuazione dell’ambito dei cc.dd. « rapporti individuali di utenza », espressamente devoluti alla giurisdizione ordinaria, problema in ordine al quale la giurisprudenza appare tutt’ora incerta (31). Nel rinviare, ancora una volta, più approfonditi commenti ad una fase successiva, segnaliamo infine che la dottrina più recente ha precisato che l’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 190 del 2002 — che ha introdotto norme processuali speciali per le controversie inerenti ad alcuni appalti di lavori — non ha innovato in ambito di giurisdizione del giudice amministrativo, dovendo essere necessariamente collegato alle previgenti disposizioni del d.lgs. n. 80 del 1998 e della l. n. 205 del 2000 (32). Condividendo tale impostazione, ci asterremo dall’estendere l’indagine all’anzidetta disposizione. 5. Si rendono opportune, a questo punto, alcune considerazioni critiche, intese — per il momento — a dimostrare come l’adesione alla tesi estrema, secondo la quale la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo si estenderebbe oggi alla 173, in Rass. amm. sic., 2002, 225; Tar Campania-Napoli, Sez. I, 23 gennaio 2002, n. 431, in Trib. amm. reg., 2002, I, 1176; Tar Sicilia-Palermo, Sez. II, 18 dicembre 2001, n. 2113, in Rass. amm. sic., 2002, 97; Tar Piemonte, Sez. II, 26 ottobre 2001, n. 2019, in Foro amm., 2001, 2887; Tar Sicilia-Catania, Sez. II, 8 agosto 2001, n. 1456, in Trib. amm. reg., 2001, I, 3510 e in Rass. amm. sic., 2001, 716; Tar Sardegna, 13 febbraio 2001, n. 76 e 11 dicembre 2000, n. 1221, in Trib. amm. reg., 2001, I, 1514 e 720; Tar Campania-Napoli, Sez. I, 27 novembre 2000, n. 4422, ivi, 2001, I, 316. (31) V. CERULLI IRELLI, Il negozio come strumento di azione amministrativa, in Autorità e consenso nell’attività amministrativa (Relazione al XLVII Convegno di studi amministrativi - Varenna, 20-22 settembre 2001), in Giust, amm., 2002, 697. (32) C. VOLPE, Risoluzione delle controversie e norme processuali nella legge obiettivo. Alcune considerazioni sugli artt. 12 e 14 del d.lgs. 20 agosto 2002, n. 190, in Giust. amm., 2002, 1468.


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fase di esecuzione dei contratti ad evidenza pubblica, non appaia sorretta da argomentazioni del tutto esaustive e convincenti. E ciò — è bene dirlo subito — ancorché sia l’unica opzione interpretativa che darebbe un significato davvero innovativo alla riforma in punto di riparto della giurisdizione in materia di contratti della pubblica amministrazione (33). In dottrina, è stato sostenuto che la questione relativa alla possibilità di ricomprendere o meno nella giurisdizione del giudice amministrativo la fase dell’esecuzione dell’appalto, direttamente connessa e condizionata dall’accoglimento della soluzione riduttiva o ampliativa in ordine alla portata dell’art. 33, comma 2, lett. d), e cioè dalla circostanza che fossero ricompresi nella giurisdizione esclusiva unicamente gli appalti di servizi ovvero anche gli appalti di lavori e forniture, sarebbe stata superata dall’art. 6 della l. n. 205 del 2000, che, pur ricalcando quanto stabilito dal citato art. 33, comma 2, lett. d), prescinderebbe da ogni collegamento con i servizi pubblici, dimostrando la volontà del legislatore di propendere per la tesi ampliativa (34). Ci sembra, tuttavia, che tale affermazione urti ancora una volta con il dato letterale, trascurando di considerare che anche l’art. 6, pur non essendo « annegato » (35) nell’attribuzione al giudice amministrativo della giurisdizione esclusiva in materia di servizi, limita la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo alle « controversie relative a procedure di affıdamento di lavori, servizi o forniture » (36). V’è da chiedersi, allora, perché mai, se davvero avesse inteso ampliare la giurisdizione esclusiva sino « a ricomprendere (33) Di ciò, almeno, siamo convinti e — come si evidenzierà appresso — della stessa opinione sono diversi altri Autori. (34) A. FABRI, op. cit., 1072; S. GIACCHETTI, in L’appalto di opere pubbliche, a cura di R. VILLATA, Padova, 2001, 911, che evidenzia la ratio di semplificazione che presiederebbe alla volontà di devolvere alla giurisdizione esclusiva tutto il contenzioso sui lavori pubblici. (35) È questa la colorita espressione usata da A. FABRI, ibidem. (36) Evidenzia questo aspetto Tar Sicilia-Palermo, Sez. II, 23 giugno 2003, n. 1050, in Rass. amm. sic., 2003, 813.


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ogni aspetto del rapporto » (37), il legislatore avrebbe dovuto parlare di « procedure di affidamento », anziché, ad es., di appalti tout court. D’altra parte, è lo stesso tenore del precedente art. 4 della stessa l. n. 205 del 2000 — laddove, alle lett. b) e c), distingue nettamente tra « procedure di aggiudicazione, affidamento ed esecuzione » di opere pubbliche, servizi pubblici e forniture — a dimostrare che il legislatore ben conosce la distinzione tra affidamento ed esecuzione, inducendo ad escludere che se ne possa essere dimenticato allorquando, nei successivi artt. 6 e 7, dell’esecuzione non ha più fatto espressa menzione (38): ci pare che, in simili ipotesi, non si possa sfuggire all’applicazione del noto brocardo « ubi voluit, dixit ». Si badi bene, non si vuole qui sostenere che non sarebbe stata possibile e/o addirittura opportuna una siffatta scelta di politica legislativa (39), ma soltanto che non sembra — obiettivamente — che sia stata fatta. Altro è — com’evidente — affermare che, cosı̀ opinando, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo non sarebbe stata ampliata, bensı̀ mantenuta entro i limiti già propri del sistema, fondato sul tradizionale criterio di riparto che distingue tra diritti soggettivi ed interessi legittimi (40). In altri termini, non è che le controversie relative all’esecuzione del contratto dovessero « necessariamente » attribuirsi al giudice ordinario (41); semplicemente, la scelta diversa non è stata fatta e probabilmente non tanto — o non soltanto — in (37) Cosı̀ A. FABRI, op. cit., 1073, secondo la quale « l’obiettivo è quello di evitare che della stessa vicenda si debbano occupare il g.a. e il g.o. per dare una tutela esaustiva e completa ». (38) È la stessa A. FABRI, op. cit., 1077, a notarlo, salvo poi affermare che i dubbi interpretativi derivanti dalla diversa formulazione delle tre disposizioni vengono comunque risolti dall’art. 4, che fa riferimento espressamente ai giudizi riguardanti l’esecuzione. Come diremo più avanti, in realtà, quest’ultima disposizione non rileva ai fini della determinazione dell’ambito della giurisdizione esclusiva. (39) Si dirà appresso, nella parte conclusiva del lavoro, in che misura la stessa sarebbe risultata compatibile con l’art. 103 Cost. (40) A. FABRI, op. cit., 1075. (41) Questa è l’espressione utilizzata da A. FABRI, op. cit., 1076, nel criticare la tesi restrittiva.


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considerazione del fatto che nelle controversie, di carattere strettamente privatistico, che insorgono durante l’esecuzione dell’appalto si applicano principi e regole cui è maggiormente avvezzo il giudice ordinario (42), perché in altri ambiti anche il giudice amministrativo dovrà inevitabilmente cimentarsi con le categorie civilistiche: si pensi, a tacer d’altro, a tutte le questioni risarcitorie. Si consideri, peraltro, che, pur presentando indubbi limiti sotto il profilo della concreta portata innovativa della riforma, l’opzione interpretativa di tipo restrittivo che ci sembra inevitabilmente emergere dal dato letterale non farebbe comunque venir meno quei risultati che, in termini di economia processuale, certamente derivano dalla concentrazione, presso il solo giudice amministrativo, dell’intera vicenda dell’affidamento dell’appalto, ivi comprese le connesse questioni risarcitorie, che dapprima erano riservate al giudice ordinario. Esaminando, poi, le sentenze che hanno, invece, optato per un’interpretazione estensiva dell’art. 33 del d.lgs. n. 80 del 1998, come novellato dall’art. 7 della l. n. 205 del 2000, si ha la netta sensazione che il ragionamento seguito abbia una sua logica fino a quando si limita alla giurisdizione in materia di servizi pubblici, mentre sia un po’ troppo sbrigativo nel dare per scontato che anche l’esecuzione di un appalto di lavori, ove in qualche modo inerente ad un pubblico servizio, sia parimenti rientrante nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Come osservato in più occasioni dal Consiglio di Stato, una siffatta concezione di « servizio pubblico » è obiettivamente troppo estesa, sicché risulta per l’ennesima volta ignorato il dato normativo, ossia l’esplicito riferimento del legislatore alle « procedure di affidamento » (43). (42) Cosı̀ A. FABRI, ibidem. (43) Cfr., ex multis, Sez. IV, 27 giugno 2001, n. 3483, in Urb. e app., 2001, 1032, secondo cui « i rapporti negoziali aventi ad oggetto il collaudo di opere pubbliche si pongono al di fuori della pur ampia materia del servizio pubblico individuata dal comma 1, art. 33, cit., né possono ricondursi alle fattispecie di cui alle lett. d) o e) del comma 2 dello stesso articolo, non essendo in contestazione la procedura per


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In sostanza, pur non essendo facile stabilire dove inizia il servizio pubblico in sé e quindi la lesione al pubblico interesse e dove si tratta, invece, della mera esecuzione di un contratto in un rapporto paritario tra pubblica amministrazione ed appaltatore, stante il silenzio e la genericità del legislatore — che appare esplicito soltanto nel circoscrivere alle « procedure di affidamento » l’ambito della nuova giurisdizione esclusiva nelle materie diverse dai servizi pubblici —, è lecito dubitare della trasposizione al giudice amministrativo di tutte le controversie aventi comunque ad oggetto pubblici servizi, sembrando preferibile astrarre dal concetto di servizio pubblico tutto ciò che è meramente strumentale all’attività, ossia le controversie concernenti le prestazioni rese nell’espletamento del pubblico servizio, ed operare un chiaro distinguo tra strumentalità al pubblico servizio e strumentalità alle clausole contrattuali e loro violazione (44). l’affidamento di un appalto di lavori, servizi o forniture né venendo in considerazione l’attività resa dall’amministrazione in occasione dell’esercizio di pubblici servizi a cittadini fruitori del servizio medesimo ». Cfr., altresı̀, Tar Basilicata, 13 maggio 2003, n. 440, in Trib. amm. reg., 2003, I, 2838; Tar Sicilia-Palermo, Sez. II, 7 marzo 2003, n. 316, ivi, 2003, I, 2275; Tar Toscana, Sez. II, 20 dicembre 2002, n. 3440, ivi, 2003, I, 757; Tar Basilicata, 4 settembre 2002, n. 598, ivi, 2002, I, 4068, secondo cui, « se è vero che l’art. 33, d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80 ha recepito la nozione c.d. oggettiva del servizio pubblico, in considerazione del fatto che il servizio può essere svolto anche da soggetti privati, è pur vero che deve escludersi che alla detta nozione possa essere attribuita un’accezione cosı̀ ampia da comprendere qualsiasi attività privata soggetta a controllo, vigilanza o autorizzazione della Pubblica amministrazione, in quanto il servizio si qualifica come pubblico perché l’attività in cui esso consiste si indirizza istituzionalmente al pubblico, mirando a soddisfare direttamente esigenze della collettività in coerenza con i compiti dell’Amministrazione pubblica ». (44) In questi termini, A. PALOMBA, Sulla giurisdizione in tema di rescissionerisoluzione unilaterale da contratti d’appalto di pubblici servizi da parte delle Pubbliche Amministrazioni, in Giust. amm., 2001, 728-729, la quale evidenzia l’esigenza di « preservare al giudice ordinario quegli aspetti che non inciderebbero altrimenti sul pubblico interesse e quindi direttamente sul servizio pubblico », ossia « i fattori inerenti ai profili contrattuali e quindi gli accordi sulle modalità di svolgimento del contratto, tra la Pubblica Amministrazione ed i privati, in una posizione paritaria », che obiettivamente sembrano non avere effetti diretti sull’utilità collettiva della gestione del servizio pubblico, a cui l’art. 33 pare essere rivolto. In tal senso, di recente, Cons. Stato, Sez. V, 13 giugno 2003, n. 3346, in Cons. St., 2003, I, 1326. La giurisprudenza è, peraltro, assai rigorosa nel mantenere ferma quella distin-


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Un ulteriore ostacolo all’adesione ad un’interpretazione cosı̀ ampia della formula « servizi pubblici » è rappresentato dal fatto che, secondo la prevalente dottrina, il pubblico servizio si caratterizza per essere un’attività svolta, di regola, senza ricorrere a poteri autoritativi (45), mentre nell’ambito di una gara d’appalto l’amministrazione si pone rispetto ai partecipanti in un rapporto sicuramente non paritario, agendo in veste di autorità (46). A ciò si aggiunga che il pubblico servizio è caratterizzato dal fatto che la relativa attività consiste nel fornire una serie indefinita e ripetitiva di prestazioni in favore del pubblico degli utenti (47), mentre la procedura volta alla selezione del contraente viene espletata, in un’unica soluzione, a beneficio di una

zione tra appalti di lavori ed appalti di servizi che, optando per certe interpretazioni estensive dell’art. 33, d.lgs. n. 80 del 1998, finirebbe per venire meno: cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 4 maggio 2001, n. 2518 e 10 aprile 2000, n. 2078, in Foro amm., 2001, 1166 ed in App. urb. edil., 2001, 330. (45) V. per tutti R. VILLATA, Pubblici servizi. Discussioni e problemi, 3a ed., Milano, 2003, 3; B. MAMELI, Servizio pubblico e concessione. L’influenza del mercato unico sui regimi protezionistici e regolamentati, Milano, 1998, 333 ss., spec. 349. In giurisprudenza, v. per tutte Cons. Stato, Sez. V, 13 febbraio 1995, n. 240, in Cons. St., 1995, I, 218. La tendenza a propendere per un’interpretazione restrittiva della nozione di servizio pubblico si è, peraltro, sempre più diffusa, essendo stato da più parti osservato che la materia dei servizi pubblici proietterebbe sempre il sindacato del giudice sulle forme di esercizio di un potere regolato da norme pubblicistiche, nel presupposto indefettibile di una disciplina conformativa dei diritti dei singoli che ha origine negli obiettivi dello Stato sociale (C. VARRONE, Stato sociale e giurisdizione sui « diritti » del giudice amministrativo, Napoli, 2001). È anche vero, tuttavia, che è difficile individuare una disciplina di rango pubblicistico nelle controversie esemplificate dall’art. 33, specie ove si consideri che — com’è stato autorevolmente notato — l’apertura al mercato dei servizi pubblici potrebbe definitivamente estromettere dal diritto pubblico gran parte di tali controversie (cosı̀ F. MERUSI, La nuova disciplina dei servizi pubblici, in Rass. parl., 2002, 79; in parziale dissenso, però, F. CINTIOLI, La nuova giurisdizione esclusiva e le controversie risarcitorie, in V. CAIANIELLO, Manuale di diritto processuale amministrativo, 3a ed., Torino, 2003, 247, secondo cui « è difficile sostenere che l’interesse pubblico sia scomparso dai servizi pubblici ». (46) M. DE PALMA, op. cit., 734. In argomento, v. amplius A.M. ANGIULI, Consenso e autorità nell’evidenza pubblica, in Dir. amm., 1998, 167 ss. (47) Cfr. Cass., Sez. un., 30 marzo 2000, n. 71, in Urb. e app., 2000, 602, con commento di R. GAROFOLI, L’art. 33 del D. Lgs. n. 80/1998 al vaglio della Cassazione e del Consiglio di Stato.


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ristretta cerchia di soggetti, cioè degli imprenditori che aspirano a stipulare il contratto d’appalto (48). È vero che queste considerazioni potrebbero essere superate accogliendo l’esegesi della formula « servizi pubblici » operata dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (49), ma, a parte il fatto che tale lettura è stata criticata in dottrina sulla base di argomentazioni di un certo peso (che non possono essere qui riprese) (50), la tesi secondo cui il legislatore ordinario sarebbe facultato a disporre che il giudice amministrativo divenga il giudice delle controversie in cui sia parte una pubblica amministrazione è di dubbia compatibilità con i dettami costituzionali (51); ne deriva — a nostro avviso — che una svolta cosı̀ radicale avrebbe dovuto essere compiuta, se non altro, attraverso un’univocità di intenti che non traspare dall’art. 33 del d.lgs. n. 80 del 1998, il quale, anche dopo la reintroduzione operata dall’art. 7 della l. n. 205 del 2000, pare indurre l’interprete ad una certa cautela, attendendosi per simili riforme epocali del sistema un intervento legislativo più deciso e trasparente. Non va, poi, del tutto trascurata la circostanza che le controversie attinenti all’esecuzione del contratto sono oggettivamente assai diverse da quelle che possono insorgere nella precedente fase della procedura di affidamento. Come evidenziava, con la consueta acutezza, il compianto (48) Cosi M. DE PALMA, op. cit., 735, il quale giustamente osserva che non avrebbe pregio sostenere che anche l’espletamento delle pubbliche gara soddisfa, ancorché in via mediata, esigenze della collettività, in quanto, cosı̀ opinando, dovrebbe ricondursi alla nozione di servizio pubblico l’intera attività amministrativa. (49) Si allude alla nota ord. 30 marzo 2001, n. 1, in Urb. e app., 2000, 602, con commento di R. GAROFOLI, L’art. 33 del D.Lgs. n. 80/1998, cit. Nel senso che « la nozione di servizio pubblico va intesa in senso ampio, ossia ogniqualvolta il rapporto controverso investa direttamente una prestazione permeata da evidenti interessi pubblicistici, ancorché la relativa organizzazione possa presupporre un rapporto intersoggettivo tra Enti pubblici e non anche direttamente nei confronti degli utenti finali, ai quali, peraltro, il servizio risulta comunque concretamente assicurato grazie proprio al rapporto intersoggettivo intercorrente tra gli Enti pubblici interessati », Tar Sicilia-Palermo, Sez. II, 18 febbraio 2003, n. 216, in Trib. amm. reg., 2003, I, 1720. (50) Al riguardo, può quindi vedersi M. DE PALMA, op. cit., 735-736. (51) L’approfondimento di questi problemi è rinviato alla parte conclusiva di questo lavoro.


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Maestro a cui il presente scritto è dedicato, « nel contratto si esprime un potere giuridico di autonomia, al quale è inerente un momento insopprimibile di libertà » (52), sicché « con l’esercizio dei poteri di modificazione o risoluzione previsti dal contratto non si realizza affatto la prevalenza dell’interesse pubblico, ma si attua soltanto il regolamento contrattuale » (53); ne deriva che è solo « l’attività esplicata ai fini o in vista del contratto » che dev’essere pubblicizzata (54), mentre « lo svolgimento e le vicende del rapporto contrattuale debbono ritenersi regolati dalle norme del codice civile » (55). Se nella fase di esecuzione del contratto si applicano le regole di diritto privato (56) e l’amministrazione non agisce « come autorità, ma come parte contraente in materia relativa ad attività negoziale retta dal diritto privato » (57), non v’è ragione per affidare le relative controversie al giudice amministrativo, che, almeno di regola, è chiamato a decidere liti rette da un diritto pubblico derogatorio rispetto al diritto comune (58). Ci sembra poi superabile l’argomento basato sulla formulazione dell’art. 23-bis della l. n. 205 del 2000, che laddove, nel(52) F. LEDDA, Il problema del contratto di diritto pubblico, Torino, 1962, 60, ora in ID., Scritti giuridici, Padova, 2002, 47-48. (53) F. LEDDA, op. cit., 79, il quale aggiunge « che le clausole relative a quei poteri non alterano il rapporto di equivalenza degl’interessi in giuoco, ma anzi, appunto perché clausole, e quindi regole approvate dalle parti, concorrono ad individuare il punto d’equilibrio liberamente stabilito dalle stesse parti in base alla loro sovrana valutazione dei vantaggi e dei rischi inerenti alla natura dell’affare ». (54) F. LEDDA, op. cit., 129. (55) F. LEDDA, op. cit., 115. È evidente che se ciò vale per i contratti cc.dd. « ad oggetto pubblico », a cui erano dedicate queste riflessioni, a fortiori deve valere per quelli « di diritto comune ». (56) Da ultimo, Cass., Sez. I, 3 ottobre 2002, n. 14198, in Guida al diritto, 2002, n. 49, 71. (57) Tar Abruzzo-L’Aquila, 2 ottobre 2001, n. 583, in Foro amm., 2001, 2988; in termini, Tar Puglia, Sez. I, 18 settembre 2002, n. 4011, in Foro amm.-Tar, 2002, 2982. (58) È questa l’impostazione sulla ratio attuale della giurisdizione esclusiva seguita da F. FRACCHIA (La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, a cura di F. CARINGELLA e M. PROTTO, Milano, 2001, 595), alla quale già in passato abbiamo mostrato di aderire (F. SAITTA, Giurisdizione esclusiva ed occupazione acquisitiva, in Giust. civ., 2002, II, 45 ss.), e sulla quale si tornerà nella parte finale del lavoro.


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l’elencare l’oggetto dei giudizi nei quali si applicano le « disposizioni particolari sul processo », indica « i provvedimenti » relativi « alle procedure di aggiudicazione, affidamento ed esecuzione » di opere pubbliche, servizi pubblici e forniture, ha indotto taluno a rinvenire un’ulteriore conferma della bontà della tesi estensiva (59). Appare, infatti, preferibile l’opinione secondo cui tale norma « presuppone, senza fondarla, la giurisdizione del g.a. in base al criterio di riparto o ad altre disposizioni nella giurisdizione esclusiva » (60). In questa direzione sembra essersi definitivamente orientata la giurisprudenza, che ha recentemente affermato in modo inequivocabile che il succitato art. 4 « non ha nessuna portata ampliativa dell’ambito di giurisdizione esclusiva assegnato al giudice amministrativo, ma attiene a mere disposizioni processuali [...] in ragione di esigenze acceleratorie del rito per determinate materie ritenute dal legislatore di particolare interesse » (61). La più attenta dottrina ha, peraltro, notato che l’anzidetta disposizione, « riferendosi ai provvedimenti amministrativi, non può trovare applicazione a proposito delle attività e degli atti negoziali » (62). Anche quest’ultimo aspetto non è sfuggito ai giudici amministrativi, i quali hanno precisato che la nozione di « provvedi(59)

In tal senso, ad es., A. FABRI, op. cit., 1077; dubitativamente, anche M. LI-

PARI, I riti abbreviati: l’ambito della disciplina e il concreto funzionamento del giudi-

zio accelerato, in Il nuovo processo amministrativo, cit., 823. In giurisprudenza, ex multis, Tar Sicilia-Catania, Sez. III, n. 7 del 2002, cit. (60) R. DE NICTOLIS-F. CARINGELLA, op. cit., 545; nello stesso senso, V. POLI, op. cit., 1287; F. FRACCHIA, La giurisdizione esclusiva, in Il nuovo processo amministrativo, cit., 404-405, il quale nota che l’art. 4 « non parla di giurisdizione esclusiva ». (61) Cons. Stato, Sez. IV, 25 marzo 2003, n. 1544 e 25 settembre 2002, n. 4895, in Foro amm.-Cons. St., 2003, 924 e 2002, 2011. (62) F.G. SCOCA, op. cit., 17, nota 38, secondo cui « si tratta di un altro esempio di incongruenza nella formulazione delle disposizioni sul processo amministrativo »; adesivamente, R. DE NICTOLIS-F. CARINGELLA, ibidem, secondo i quali il riferimento esplicito ai « provvedimenti » è « sintomatico della volontà di non ricomprendere le controversie esecutive per cosı̀ dire paritetiche ma solo quelle innescate da provvedimenti amministrativi autoritativi al cospetto dei quali si stagliano solo posizioni di interesse legittimo ».


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menti » alla quale fa riferimento la disposizione in esame « va correttamente riferita alle sole fattispecie provvedimentali espressione di scelte discrezionali circa i modi ed i tempi per attuare servizi di interesse collettivo o per l’acquisizione dei beni necessari all’espletamento di funzioni pubbliche e non comprende la fase di stretto adempimento allo strumento negoziale stipulato in esito a procedure selettive di evidenza pubblica » (63). È verosimile, in realtà, che, con l’art. 4 della l. n. 205 del 2000, si sia voluto chiarire, una volta per tutte, che sono assoggettate al rito accelerato — ed in particolare, al dimezzamento dei termini processuali — anche le controversie concernenti i « provvedimenti [...] relativi alle procedure di occupazione e di espropriazione delle aree destinate alle predette opere », cosı̀ eliminando i dubbi insorti in relazione all’analoga disposizione contenuta nell’art. 19 del d.l. n. 67 del 1997, convertito nella l. n. 135 del 1997 (64). 6. Discorso a parte va fatto per l’arbitrato, ossia per quanto attiene al rilievo che assume, ai fini dell’individuazione dell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di contratti ad evidenza pubblica, l’art. 6, comma 2, della l. n. 205 del 2000, che consente di risolvere mediante arbitrato rituale di diritto « le controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo ». Com’è noto, muovendo dal convincimento che non possa ritenersi disponibile, dalla pubblica amministrazione o dal privato, la legittimità dell’esercizio della pubblica funzione, su cui l’interesse legittimo fonda la propria tutela, la giurisprudenza aveva, in passato, escluso il ricorso al giudizio arbitrale in materia di interessi legittimi. Dal punto di vista del riparto della giurisdizione, si riteneva (63) Tar Lazio, Sez. I-bis, 6 novembre 2002, n. 9725, in Giust. amm., 2002, 1351. (64) Sull’assoggettamento delle cause espropriative al rito speciale previsto dal citato art. 19, da ultimo, Cons. Stato, Sez. VI, 28 ottobre 2002, n. 5895, in Cons. St., 2002, I, 2333.


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poi che la devoluzione al giudice amministrativo delle controversie in cui la pubblica amministrazione si pone quale autorità, consacrata dalla Costituzione, non consentisse che, in tali controversie, si ricorresse al giudizio arbitrale, che confluisce, attraverso i mezzi di impugnazione del lodo, nell’alveo della giurisdizione ordinaria: « ammettere un tale giudizio, infatti, significherebbe alterare il riparto tra le giurisdizioni » (65). Ma ad analoghe conclusioni si perveniva anche con riguardo alle controversie concernenti diritti soggettivi rientranti nell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ritenendosi peraltro che la competenza arbitrale avrebbe comportato la frammentazione giurisdizionale della materia, in contrasto con il fondamento stesso della giurisdizione esclusiva (66). Tali conclusioni erano state contestate da gran parte della dottrina sotto svariati profili (67), sino a quando la l. n. 415 del 1998 ha previsto la generale possibilità di deferimento ad arbitri di tutte le controversie derivanti dall’esecuzione del contratto d’appalto d’opere pubbliche (art. 10, sostitutivo dell’art. 32, comma 1, della l. n. 109 del 1994) (68). Nel frattempo, l’art. 33 del d.lgs. n. 80 del 1998 aveva devoluto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo « tutte le controversie in materia di pubblici servizi » (comma 1), ed in particolare quelle « aventi ad oggetto le procedure di affidamento di appalti pubblici di lavori, servizi e forniture » (65) Cosı̀ P. DE LISE, in Commento alla legge quadro sui lavori pubblici sino alla “Merloni-ter”, a cura di L. GIAMPAOLINO, M.A. SANDULLI e G. STANCANELLI, Milano, 1999, 547, a cui si rinvia per una ricostruzione storica della vicenda. Per le relative indicazioni dottrinali e giurisprudenziali cfr. M. ANTONIOLI, Arbitrato e giurisdizione amministrativa dopo la legge n. 205 del 2000, in questa Rivista, 2002, 326 ss. (66) P. DE LISE, ibidem. Per un esame delle varie opinioni espresse dalla dottrina cfr. A. ROMANO TASSONE, Giurisdizione amministrativa e arbitrato, in Riv. arb., 2000, 247 ss. Da ultimo, sulla complessità e contraddizioni dell’arbitrato nelle controversie amministrative, A. BRIGUGLIO, Gli arbitrati obbligatori e gli arbitrati da legge, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2003, 81 ss. (67) Per maggiori approfondimenti, cfr. P. DE LISE, op. cit., 547-549. (68) In argomento, v. per tutti E. CANNADA BARTOLI, L’arbitrato nella legge quadro sui lavori pubblici, in Scritti in onore di G. Guarino, Padova, 1998, I, 437 ss.; F.G. SCOCA, Osservazioni sulla disciplina dell’arbitrato di lavori pubblici, in Riv. trim. app., 2002, 607 ss.


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(comma 2, lett. e), inducendo i primi commentatori a ritenere che sostanzialmente non fosse cambiato nulla, in quanto, nel settore dei lavori pubblici, restavano devolute al giudice amministrativo, ancorché con i più ampi poteri della giurisdizione esclusiva, le sole procedure di affidamento (69). Mentre ancora ci s’interrogava sui rapporti tra il succitato art. 33 e l’arbitrato (70), è intervenuta la l. n. 205 del 2000, che ha, da un lato, riformulato l’art. 33 in modo da non menzionare più, all’interno dei servizi pubblici, le controversie relative alle procedure di affidamento degli appalti di lavori, servizi e forniture (art. 7) e, dall’altro, devoluto queste ultime nella loro generalità, ossia senza limitazione alcuna quanto a settore di riferimento, alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (art. 6, comma 1), prevedendo che « le controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo possono essere risolte mediante arbitrato rituale di diritto » (art. 6, comma 2). A seguito dell’introduzione di quest’ultima disposizione (71), l’arbitrato deve ritenersi consentito « in relazione a tutte (69) In tal senso, A. CARULLO, in La legge quadro in materia di lavori pubblici, Padova, 2000, 990 e 997; P. DE LISE, op. cit., 551-552, il quale osservava che, stando cosı̀ le cose, poteva escludersi, in via di principio, qualsiasi possibilità d’interferenze tra le controversie attribuite al giudice amministrativo e quelle attribuite agli arbitri (in alternativa con il giudice ordinario) ai fini della giurisdizione. (70) V., ad es., F. BASSI, Giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e arbitrato, in Scritti in onore di E. Casetta, Napoli, 2001, 159 ss., peraltro convinto che « qualora si verta in tema di diritti patrimoniali disponibili nulla vieta che un rapporto litigioso possa essere fatto dirimere dalle parti, compresa la pubblica amministrazione, da un soggetto terzo sia esso arbitro rituale con funzione decisoria o arbitro libero con funzione negoziale ». (71) È stato recentemente affermato che, prima dell’entrata in vigore del citato art. 6, comma 2, « essendo pacifico che le questioni inerenti a interessi legittimi non sono mai compromettibili, per la natura indisponibile della funzione amministrativa, il ricorso all’arbitrato per le controversie appartenenti alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo era precluso » (Tar Lombardia-Milano, Sez. II, 6 novembre 2002, n. 4267, in Trib. amm. reg., 2002, I, 3317); in termini, succssivamente, Cons. Stato, Sez. V, 17 marzo 2003, n. 1362 e 31 gennaio 2003, n. 472, in Foro amm.-Cons. Stato, 2003, 1013 e 144; Tar Veneto, Sez. I, 1 marzo 2003, n. 1583, in Trib. amm. reg., 2003, I, 81). V’è da osservare, però, che anche oggi il ricorso all’arbitrato resta escluso per le questioni inerenti ad interessi legittimi, mentre la precedente preclu-


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le situazioni controverse di diritto soggettivo, indipendentemente dalla fase di loro insorgenza » (72). Ciò premesso, per quanto qui interessa va segnalato che dall’art. 6, comma 2, della l. n. 205 del 2000 sono stati tratti elementi a sostegno dell’interpretazione estensiva dell’art. 33, lett. d), del d.lgs. n. 80 del 1998, nel senso che non potrebbe più « costituire remora (neppure psicologica) l’attribuzione alla giurisdizione esclusiva del g.a. della fase di esecuzione dei contratti di appalto pubblico, perché è pur sempre possibile devolvere ad arbitri la soluzione delle controversie relative a diritti soggettivi e che abbracciano tutta la fase dell’esecuzione degli appalti » (73). A nostro avviso, l’assunto non può essere condiviso ed anzi il succitato art. 6, comma 2, semmai conferma — ammesso che ve ne fosse bisogno — che il legislatore ha inteso mantenere ferma la giurisdizione ordinaria relativamente alle controversie (concernenti diritti soggettivi) insorte nella fase dell’esecuzione del contratto. Ed infatti, com’è stato da più parti notato, l’anzidetta disposizione non fa altro che rilanciare il rilievo della distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi nell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, rendendola peraltro essenziale proprio « per un aspetto di non poco momento quale è quello di deferimento ad arbitri della soluzione della controversia » (74). Ora, tale scelta legislativa può forse risultare criticabile, sione del giudizio arbitrale (anche) per le liti patrimoniali relative a diritti disponibili concernenti materie deferite alla giurisdizione amministrativa esclusiva appariva ai più ingiustificata, stante la situazione di paritarietà tra i soggetti del rapporto, che dovrebbe consentire alla pubblica amministrazione di rinunciare al giudice togato. (72) M. CORSINI, L’arbitrato, in Manuale del diritto dei lavori pubblici, a cura di A. BARGONE e P. STELLA RICHTER, Milano, 2001, 581-582. Si vedrà appresso, tuttavia, come in concreto l’ampliamento sia limitato, viste le rare ipotesi in cui, prima dell’aggiudicazione e/o della stipula del contratto, sono ravvisabili diritti soggettivi. (73) Cosı̀ A. FABRI, op. cit., 1073. (74) E. FOLLIERI, La pianificazione territoriale e le situazioni giuridiche soggettive, in Riv. giur. urb., 2002, 532 ss.; A. ZITO, La compromettibilità per arbitri con la pubblica amministrazione dopo la legge n. 205 del 2000: problemi e prospettive, in


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nella misura in cui l’arbitrato ben avrebbe potuto essere ammesso in via generale con il solo limite della mancanza di disponibilità della res litigiosa (75), ma non può costituire il supporto per interpretazioni estensive dell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo che non trovano riscontro nel dato normativo. Si vuol dire, innanzitutto, che, stante il chiaro limite posto dal comma 2 dell’art. 6, la compromettibilità in arbitri può oggi ritenersi ammessa soltanto in relazione alle controversie concernenti diritti soggettivi, non potendo in detta disposizione leggersi « un riferimento al novero di tutte le situazioni giuridiche soggettive che il cittadino vanta nei confronti della pubblica amministrazione » (76): un siffatto allargamento delle materie compromettibili potrebbe essere forse auspicabile de iure condendo (77). Ma s’intende anche dire che la disposizione in parola non può nemmeno consentire un’interpretazione estensiva della locuzione « procedure di affidamento » contenuta nel precedente comma 1 e nell’art. 33, comma 2, lett. d), del d.lgs. n. 80 del 1998. Ci si riferisce alla tesi secondo cui, poiché nella fase di forDir. amm., 2001, 357; M. ANTONIOLI, op. cit., 339; R. DE NICTOLIS-F. CARINGELLA, op. cit., 544. (75) Cosı̀ A. ZITO, op. cit., 361, il quale, peraltro, subito dopo ammette che la norma ha comunque risolto un problema assai grave, in quanto, in sua assenza, tutte le questioni risarcitorie che si potevano porre nelle materie di giurisdizione esclusiva non avrebbero potuto essere risolte mediante arbitrato stante l’orientamento giurisprudenziale di cui si è detto (ivi, 362). (76) In tal senso, invece A. ZITO, op. cit., 372, secondo cui tale interpretazione non si porrebbe in contrasto con l’ispirazione complessiva che anima la riforma del processo e con le sue linee generali di tendenza. (77) Si consideri, d’altronde, che nello stesso progetto di legge costituzionale redatto nel 1997 dalla Commissione parlamentare per le riforme costituzionali, accanto alla generale affermazione che « le pubbliche amministrazioni, salvo i casi previsti dalla legge per ragioni di interesse pubblico, agiscono in base alle norme del diritto privato » (art. 106 Cost.), era previsto un correlato ampliamento della giurisdizione amministrativa, la quale tuttavia sarebbe rimasta limitata alle materie « riguardanti l’esercizio di pubblici poteri » (art. 119 Cost.). Su queste vicende v., amplius, G. CAIA, Materie compromettibili in arbitrato con la pubblica amministrazione, in Scritti giuridici in onore di S. Cassarino, cit., I, 223 ss., spec. 226.


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mazione del contratto non sussisterebbero altre posizioni giuridiche tutelabili se non quelle di interesse legittimo, il richiamo di cui al comma 2 dell’art. 6 o sarebbe inutiliter datum — non cogliendosi quali potrebbero essere i diritti soggettivi sorti nella fase di affidamento dell’appalto che potrebbero essere devoluti al giudice amministrativo in alternativa agli arbitri — oppure starebbe a dimostrare la volontà del legislatore di attribuire al giudice amministrativo tutta la materia degli appalti, con conseguente lata accezione dell’inciso « procedure di affidamento », che dovrebbe ricomprendere anche la fase di esecuzione dell’appalto (78). Ed infatti, come pure è stato notato, l’enunciazione contenuta nel comma 2 dell’art. 6 serve a rendere davvero « esclusiva » la giurisdizione del giudice amministrativo nell’ambito delle procedure di scelta del contraente, estendendola a quelle ipotesi di lesione di diritti soggettivi — allo stato, invero, limitate, ma suscettibili di futuri sviluppi (79) — ravvisabili (anche) in questa fase (80). (78) D. BEZZI, Esecuzione di appalti di lavori, Giudice ordinario e Giudice amministrativo: primi spunti di riflessione, in Riv. giur. edil., 2002, 741. (79) Trattasi, in primo luogo, dei casi di responsabilità procontrattuale rilevanti ai fini dell’art. 1337 c.c., che la giurisprudenza ordinaria ha ravvisato, ad es., in materia di affidamento di appalti mediante trattativa privata, sul presupposto dell’utilizzazione, da parte della p.a., di « schemi negoziali assolutamente liberi e svincolati da qualsiasi schema procedimentale » (Cass., Sez. un., 29 luglio 1995, n. 8298, in Giur. it., 1996, I, 1, 781), nonché in materia di affidamento di incarichi di progettazione di opere pubbliche, reputando produttiva di danno ingiusto la pretesa della p.a. di veder espletato l’incarico, al di fuori della speciale procedura di cui all’art. 337 l. n. 2248 del 1865, all. F, prima dell’approvazione del contratto (Cass., Sez. I, 23 maggio 1981, n. 3383, in Foro it., 1982, I, 2012). Riconoscono una responsabilità precontrattuale della p.a. per ingiustificata rottura delle trattative Tar Abruzzo, 6 luglio 2001, n. 609, in Trib. amm. reg., 2001, I, 1760; Tar Lombardia, Sez. III, 31 luglio 2000, n. 5130, ivi, 2000, I, 1656. Per l’individuazione delle numerose ipotesi che possono in concreto presentarsi v. G.M. RACCA, Giurisdizione esclusiva e affermazione della responsabilità precontrattuale della P.A., in Urb. e app., 2002, 200 ss.; per un più ampio inquadramento della tematica, ID., La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione tra autonomia e correttezza, Napoli, 2000. Nel senso che, prima del 30 giugno 1998, le azioni di risarcimento danni per responsabilità precontrattuale nei confronti della p.a. andavano esperite innanzi al G.O., Cass., Sez. un., 26 giugno 2003, n. 10160, in Cons. Stato, 2003, II, 1846 e in Foro amm.-Cons. Stato, 2003, 1834; 19 novembre 2002, n. 16319, in Cons. Stato, 2002, II, 246. (80) F. ROCCO, op. cit., 692.


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Una volta acclarato che il criterio di riparto basato sulle situazioni giuridiche soggettive non è stato abbandonato nemmeno « per profili di non poco momento, come è la deferibilità agli arbitri di una controversia », nessuna contraddizione è ravvisabile nel fatto che la medesima distinzione tra interessi legittimi e diritti soggettivi sia stata mantenuta nell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo attraverso la distinzione tra « le controversie relative a procedure di affidamento », rientranti in tale ambito, e quelle attinenti all’esecuzione del contratto, rimaste, invece, al giudice ordinario (81). 7. L’analisi sin qui svolta, pur nella sua incompletezza inevitabilmente dovuta a ragioni di spazio, dovrebbe essere sufficiente per dimostrare che, eccezion fatta per le controversie inerenti alla gestione di servizi pubblici (e con tutti i dubbi derivanti dall’indeterminatezza di tale nozione, recentemente definita « concetto-fisarmonica, estensibile o restringibile, a tutto detrimento degli utenti del servizio giustizia » (82)), il giudice amministrativo non conosce della fase dell’esecuzione del contratto ad evidenza pubblica, quantomeno laddove siano in gioco diritti soggettivi (83). Se è esatta questa lettura, che pare imposta dalla formulazione delle disposizioni della riforma del 1998/2000 in punto di giurisdizione, non v’è dubbio che ci troviamo in presenza di un sistema imperfetto, che presta il fianco a numerose critiche. (81) Si allude alle osservazioni critiche di A. FABRI, op. cit., 1084, che muovono appunto dalla consapevolezza del persistente rilievo della distinzione ai fini dell’individuazione delle controversie compromettibili in arbitri. (82) L’efficace espressione è di C. VOLPE, Affıdamento, esecuzione e giurisdizione alla luce della L. 205/2000: rigenerazione o omologazione del G.A.?, in Urb. e app., 2001, 832. Se può consolarci, pare che analoghe incertezze interpretative derivino, in Francia, dall’adozione, sempre ai fini del riparto di giurisdizione, del criterio del service public: cfr., da ultimo, alla luce della più recente giurisprudenza, F. MELLERAY, La notion judicaire de service public, in AIDA, 2003, 114 ss. (83) Com’è noto, persistono incertezze in ordine alla natura degli atti unilaterali della stazione appaltante successivi alla conclusione del contratto ed incidenti sulla sua esecuzione: si pensi alla rescissione ex art. 340 l. n. 2248 del 1865, all. F; alla risoluzione, di cui al successivo art. 345; all’annullamento d’ufficio dell’aggiudicazione (di cui si farà cenno più avanti).


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La prima attiene al fatto che soltanto attribuendo alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo anche tutte le questioni concernenti la fase dell’esecuzione dell’appalto si sarebbe determinato un effettivo ampliamento della giurisdizione stessa, atteso che le procedure di affidamento già appartenevano alla giurisdizione (di legittimità) del giudice amministrativo in quanto inerenti a situazioni di interesse legittimo (84). Cosı̀ com’è stato realizzato, l’ampliamento della giurisdizione esclusiva nella materia dei contratti della pubblica amministrazione ha condotto, invece, a risultati assai modesti, sostanzialmente limitati ai maggiori poteri istruttori e di tutela sommaria esercitabili nell’ambito della giurisdizione esclusiva (85): anche in materia di risarcimento dei danni, infatti, l’innovazione in senso ampliativo è solo apparente in quanto il potere di condanna, « anche attraverso la reintegrazione in forma specifica », è oggi attribuito al giudice amministrativo (dal novellato art. 35 del d.lgs. n. 80 del 1998) anche nella giurisdizione di legittimità (86). L’unica sostanziale innovazione — di cui è testimonianza la più recente giurisprudenza (87) — appare, in definitiva, il pas(84) A. FABRI, op. cit., 1066-1067; ID., Giurisdizione esclusiva: i modelli processuali, Torino, 2002, 308-309. (85) F. FRACCHIA, Giurisdizione esclusiva, cit., 376, ed ivi ulteriori indicazioni dottrinali. (86) A. FABRI, L’ambito della materia dei servizi pubblici, cit., 1075-1076, con rinnovate notazioni critiche. (87) A quanto consta, la prima pronuncia che ha chiaramente affermato che, « anche se esulano dalla giurisdizione esclusiva del g.a. in materia di appalti pubblici, pur dopo la l. n. 205 del 2000, le controversie relative alla esecuzione del contratto, deve riconoscersi la giurisdizione esclusiva dello stesso g.a. in materia di validità del contratto d’appalto per effetto e in conseguenza dell’intervenuto annullamento dell’aggiudicazione », si deve a Tar Campania-Napoli, Sez. I, 29 maggio 2002, n. 3177, in Giust. amm., 2002, 549; in Contr. St. e enti pubbl., 2002, 634, con nota di A. ZUCCOLO, In tema di incidenza dei vizi del provvedimento di aggiudicazione sul contratto e di individuazione del giudice che deve conoscerne; in Foro amm.-Tar, 2002, 2591, con nota di M. MONTEDURO, Illegittimità del procedimento ad evidenza pubblica e nullità del contratto d’appalto ex art. 1418 comma 1, c.c.: una radicale « svolta » della giurisprudenza tra luci ed ombre; successivamente, Cons. Stato, Sez. V, 13 novembre 2002, n. 6281 (in Guida al diritto, 2003, n. 2, 87, con commento di S. MEZZACAPO, La violazione delle norme imperative rende nullo l’intero procedimento), che ha dichia-


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saggio dal giudice ordinario al giudice amministrativo della cognizione sulla domanda di annullamento (e/o di declaratoria di nullità) del contratto conseguente all’annullamento dell’aggiudicazione (88). rato la nullità del contratto stipulato in esito alla gara; T.R.G.A. Trentino Alto AdigeTrento, 18 novembre 2002, n. 384, in Foro amm.-Tar, 2002, 3568; Tar Sicilia-Catania, Sez. I, 25 novembre 2002, n. 2261, in Giust. amm., 2002, 1313 ed in Rass. amm. sic., 2002, 1257, anche alla luce della disciplina derogatoria dettata dall’art. 14 d.lgs. n. 190 del 2002; Tar Calabria-Reggio Calabria, 18 dicembre 2002, n. 2030, in Guida al diritto, 2003, n. 3, 95, con commento di G. CARUSO, L’esistenza della nullità del negozio giuridico può essere rilevata d’uffıcio dal giudice. (88) Si è rilevata esatta, quindi, la previsione di F.G. SCOCA, op. cit., 16. La questione è ancora aperta, anche se la giurisprudenza è del tutto prevalente nel ritenere che l’annullamento dell’aggiudicazione travolga automaticamente il contratto: in tal senso, da ultimo, Cons. Stato, Sez. IV, 27 ottobre 2003, n. 6666, in Cons. St., 2003, I, 2304; in Giorn. dir. amm., 2004, 15, con commento di P. CARPENTIERI; in Guida al diritto, 2003, n. 44, 85, con commento di G. CARUSO, L’annullamento di aggiudicazione della gara rende ineffıcace l’atto stipulato in origine; in http://www.lexitalia.it, n. 12/2003, con nota di L. MAZZEI, Glossa minima a Cons. Stato, Sez. IV, 27 ottobre 2003, n. 6666; Tar Calabria-Catanzaro, Sez. II, 13 ottobre 2003, n. 2881, in Trib. amm. reg., 2003, I, 3111; Tar Basilicata, 18 luglio 2003, nn. 773 e 781, in Foro amm.-Tar, 2003, 2429 e 2431; Tar Campania-Napoli, Sez. I, 15 luglio 2003, n 8237, in Trib. amm. reg., 2003, I, 3428; Tar Sicilia-Palermo, Sez. II, 11 luglio 2003, n. 1103, ivi, 2003, I, 3562; Tar Lombardia-Milano, Sez. III, 26 giugno 2003, n. 3547, ivi, 2003, I, 3232; Tar Toscana, Sez. II, 29 maggio 2003, n. 2097, ivi, 2003, I, 2670; Tar PugliaLecce, Sez. II, 2 maggio 2003, n. 2857, ivi, 2003, I, 2813; Tar Toscana, Sez. II, 20 marzo 2003, n. 1051, ivi, 2003, I, 2036; Tar Puglia-Lecce, Sez. II, 17 marzo 2003, n. 784, in Giust. amm., 2003, 423; Tar Sicilia-Palermo, Sez. II, 7 marzo 2003, n. 316, in Rass. amm. sic., 2003, 413; Cons. Stato, Sez. V, 5 marzo 2003, n. 1218, in Giust. amm., 2003, 413 e in Foro amm.-Cons. Stato, 2003, 959, con nota di L. IEVA, Annullamento degli atti dell’evidenza pubblica e nullità del contratto di appalto; Tar Puglia-Bari, Sez. I, 28 gennaio 2003, n. 394, in Giust. amm., 2003, 155, con commento di V. FOX, Annullamento degli atti di gara ed invalidità del contratto d’appalto; Tar Puglia-Lecce, Sez. I, 6 agosto 2002, n. 4021, in Trib. amm. reg., 2002, I, 3611; T.R.G.A. Trentino Alto Adige-Trento, 16 luglio 2002, n. 349, ivi, 2002, I, 3479; nel senso che, invece, in tal caso il contratto deve ritenersi soltanto annullabile, Tar Basilicata, 21 giugno 2002, n. 476, ivi, 2002, I, 3185; Tar Lombardia-Brescia, 14 giugno 2002, n. 970, ivi, 2002, I, 2928, secondo cui, pertanto, il ricorso proposto al giudice amministrativo in sede di legittimità con riferimento ai vizi della procedura negoziale ad evidenza pubblica « è ammissibile solo per la parte relativa alla concorrente domanda di risarcimento del danno ». Per maggiori approfondimenti, si rinvia, quindi, alla dottrina citata nella nota precedente ed ai commenti citati in questa nota, cui adde P. VIRGA, Atti di ritiro della aggiudicazione e giurisdizione esclusiva, in Giust. amm., 2002, 686; G. GRECO, Accordi e contratti della pubblica amministrazione tra suggestioni interpretative e necessità di sistema, in questa Rivista, 2002, 413 ss.; S. FAN-


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Altra considerazione critica all’attuale sistema è quella che verte sulla persistente operatività, pur in ipotesi in cui dovrebbe applicarsi esclusivamente il criterio della materia, del criterio del riparto della giurisdizione basato sulla causa petendi (se n’è già parlato con toni critici a proposito dell’arbitrato), che determina soltanto incertezze ed una complessiva deminutio di tutela per il privato, che per conseguire piena soddisfazione deve continuare a rivolgersi a due giudici diversi (89). Com’è stato giustamente notato, una volta creata una materia di giurisdizione esclusiva, non v’era ragione per mantenerla suddivisa in due sottomaterie, continuando a distinguere tra formazione ed esecuzione del contratto d’appalto, sicché sarebbe stato assai più razionale concentrare l’intera materia nella giurisdizione di un solo giudice (90). Né tale persistente dualismo appare fondato su criteri univoci, atteso che — a tacer d’altro (91) — il giudice amministrativo ha giurisdizione esclusiva su controversie prive di specifico collegamento con l’interesse pubblico, come quelle in materia di servizi pubblici nelle quali si controverte in ordine all’adempimento di obbligazioni, mentre la fase dell’esecuzione degli apTINI, Gli effetti sul contratto dell’annullamento dell’aggiudicazione: profili d’effettività

della tutela giurisdizionale (Relazione al Convegno su: « L’effettività dell’ordinamento amministrativo. Esperienze di diritto interno e comunitario », Bari, 4-5 aprile 2003); F. BARBENSI, I rapporti tra l’individuazione o l’annullamento degli atti amministrativi ed evidenza pubblica e l’effıcacia del contratto, in Riv. trim. app., 2003, 145 ss.; S. VARONE, L’invalidità contrattuale nella dialettica fra atto e negozio nell’ambito delle procedure ed evidenza pubblica, in Foro amm.-Cons. Stato, 2003, 1648 ss.; A. GRAZIANO, L’ambito della giurisdizione esclusiva in materia di appalti e la sorte del contratto a seguito di annullamento della aggiudicazione, ivi, 2003, 1770 ss.; G. CORAGGIO, Effettività del giudicato e invalidità del contratto stipulato a seguito di aggiudicazione illegittima, in questa Rivista, 2003, 776 ss.; V. CERULLI IRELLI, Note critiche in tema di attività amministrativa secondo moduli negoziali, in Dir. amm., 2003, spec. 254 ss.; F. SATTA, L’annullamento dell’aggiudicazione ed i suoi effetti sul contratto, ivi, 2003, 645 ss.; E. FOLLIERI, La tutela del diritto privato nel nuovo riparto della Giurisdizione negli scritti minori del Prof. Lucio Valerio Moscarini, in Trib. amm. reg., 2003, II, 152-156. (89) A. FABRI, Giurisdizione esclusiva, cit., 309. (90) F.G. SCOCA, Giurisdizione, cit., 16-17. (91) L’analisi critica della ratio dell’attuale giurisdizione esclusiva verrà svolta nei successivi paragrafi.


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palti pubblici viene riservata al giudice ordinario ancorché la materia dell’adempimento e della violazione di obblighi contrattuali risponda a specifici interessi collettivi, quali l’esatta, pronta e sollecita esecuzione dell’opera pubblica, del servizio o della fornitura (92). Come si vedrà meglio nel prosieguo del lavoro, nemmeno ricercando la ratio complessiva del sistema nel diritto sostanziale applicabile alle singole fattispecie si risolve il problema, atteso che, ad es., resta inspiegabile perché rientrino nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie inerenti all’esecuzione dei contratti d’appalto di pubblici servizi e non anche quelle inerenti all’esecuzione dei contratti d’appalto di opere pubbliche, ancorché in entrambi i casi si applichi il diritto comune. Vivendo in un sistema cosı̀ incoerente, è inevitabile volgere lo sguardo agli ordinamenti giuridici di altri paesi — come la Francia, la Germania e la stessa Gran Bretagna —, che « hanno già risolto il problema della concentrazione delle domande di annullamento e di pagamento o risarcimento del danno in un’ottica, più attenta all’effettiva tutela del cittadino, piuttosto che ad un sottile gioco di competenze giurisdizionali » (93). 8. Constatata l’obiettiva illogicità del sistema attuale, occorre chiedersi come lo stesso potrebbe essere ricondotto ad un minimum di razionalità senza dovere necessariamente modificare la Costituzione. Ed infatti, avendo il legislatore del 1998/2000 profondamente inciso sul sistema di riparto della giurisdizione a Costituzione invariata, anziché interrogarsi sull’opportunità o meno di operare una riforma organica della seconda parte della Carta (come pure, di recente, si era tentato di fare) (94), sembra più (92) Cosı̀ C. VOLPE, op. ult. cit., 83. (93) V. CARBONE, op. cit., 613, al quale si rinvia per indicazioni più dettagliate. (94) Si allude ai lavori della Commissione bicamerale istituita con l. cost. n. 1 del 1997, che aveva predisposto un testo che prevedeva la devoluzione al giudice amministrativo della giurisdizione « sulla base di materie omogenee, indicate dalla legge, riguardanti l’esercizio di pubblici poteri ». Su tale progetto di riforma può vedersi V.


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produttivo indagare sui limiti che l’attuale sistema costituzionale pone ad ulteriori interventi del legislatore ordinario e, prim’ancora, ad interpretazioni « evolutive » delle recenti disposizioni in tema di riparto della giurisdizione delle quali ci siamo fin qui occupati. Quest’ultima indagine appare pregiudiziale rispetto al tentativo di individuare un criterio unificante delle materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo anche in considerazione del fatto che, secondo certa dottrina, le riforme legislative di cui si è detto avrebbero già determinato, a Costituzione invariata, il superamento del tradizionale criterio di riparto basato sulla distinzione tra diritto soggettivo ed interesse legittimo, a favore del criterio di riparto per materia, che avrebbe assunto carattere generale (95). Ciò premesso, è noto che la prevalente dottrina — pur scartando interpretazioni troppo rigorose che, qualificando in termini di eccezionalità l’attribuzione alla giurisdizione amministrativa « anche dei diritti soggettivi », renderebbero troppo angusta la delimitazione dei confini della giurisdizione esclusiva in un momento storico caratterizzato dall’insopprimibile esigenza di concentrazione della tutela innanzi ad un unico giudice — ritiene comunque che l’art. 103 Cost. sostanzialmente imponga, in via CAIANIELLO, Il giudice amministrativo ed i nuovi criteri di riparto delle giurisdizioni, in Scritti in onore di E. Casetta, cit., 227 ss., il quale, peraltro, riteneva che sarebbe stato sufficiente sostituire il comma 1 dell’art. 103 della vigente Costituzione con una norma intesa ad attribuire al giudice amministrativo « giurisdizione per tutte le controversie nei confronti della pubblica amministrazione riguardanti materie stabilite dalla legge ordinaria » (ivi, 244). (95) In tal senso, A. FABRI, Giurisdizione esclusiva, cit., 294-295, la quale, peraltro, non manca di sollevare dubbi sulla arbitrarietà di siffatto intervento del legislatore ordinario, ritenendo che, nel sistema, l’art. 103 Cost. appaia « come ipotesi non generale, ma eccezionale di esercizio della giurisdizione da parte del g.a. ». Con specifico riguardo al tema della giurisdizione in materia di esecuzione di contratti ad evidenza pubblica, è stato parimenti osservato che l’ampia nozione di « servizio pubblico » adottata da certa giurisprudenza, « se portata alle estreme conseguenze, finirebbe per invertire i “rapporti di forza” tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa, rendendo quest’ultima nettamente prevalente, quanto ad estensione, rispetto alla prima, con gli inevitabili dubbi d’ordine costituzionale che potrebbero sorgere »: M. VALENTE, Giurisdizione esclusiva del g.a. ed esecuzione di contratto d’appalto: cenni, in Foro amm.-Tar, 2002, 3002.


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di principio, il riparto delle giurisdizioni secondo il criterio delle situazioni soggettive (96), il quale assume, quindi, carattere di generalità (97). Conseguentemente, secondo questa impostazione, la giurisdizione esclusiva deve considerarsi quantomeno « speciale », rappresentando una « deroga costituzionalmente legittimata all’ordine costituzionale delle competenze » (98), e non può, pertanto, ricomprendere in sé tutta, indistintamente, la sfera dei diritti soggettivi che si presentano innanzi all’attività amministrativa, dovendo restare circoscritta a « particolari materie », da intendere non soltanto come materie specificamente indicate, bensı̀ anche come « materie espressamente individuate a causa della loro particolarità » (99). Impostazione analoga è, peraltro, seguita da recente giurisprudenza, secondo la quale « l’individuazione dell’ambito del contenzioso spettante al giudice amministrativo ratione materiae, in deroga al sistema di riparto della giurisdizione basato sulla natura della situazione giuridica soggettiva tutelata, deve trovare un saldo ancoraggio nella tassativa previsione di legge (in ossequio all’art. 103, comma 1, Cost.), rispetto alla quale

(96) Cosı̀ F.G. SCOCA, op. ult. cit., 9. (97) In questi termini, D. SORACE, Diritto delle amministrazioni pubbliche, 2a ed., Bologna, 2002, 59-61 e 375-376, il quale, peraltro, ritiene che, nell’attuale situazione storica, la rigida separazione tra più giurisdizioni sia ormai priva di giustificazioni, ergo da superare nell’interesse dei cittadini. (98) A. POLICE, Il ricorso di piena giurisdizione davanti al giudice amministrativo, I, Padova, 2000, 156; M.S. GIANNINI-A. PIRAS, Giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria nei confronti della pubblica amministrazione, in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, 229; E. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, 5a ed., Milano, 2002, 626, il quale afferma che la giurisdizione esclusiva è « una deroga, sicché il nostro legislatore non potrebbe generalizzare il sistema ». Sul concetto di « specialità » riferito alla giurisdizione esclusiva, amplius, F. FRACCHIA, La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (art. 7, prima parte), cit., 532 ss. Nel senso che la congiunzione « anche » è indicativa di un’attribuzione aggiuntiva rispetto a qualcos’altro che rappresenta il nucleo attrattivo e, quindi, decisivo, G. ABBAMONTE, Prospettive per l’ordinamento delle competenze giurisdizionali nelle controversie con la p.a., in Dir. e soc., 1983, 647 ss. (99) A. POLICE, op. cit., 157-158; E.M. BARBIERI, Giurisdizione esclusiva nel giudizio amministrativo, in Enc. giur., XV, Roma, 1989, 3.


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l’interprete è vincolato a canoni ermeneutici di stretta e rigorosa interpretazione » (100). Le dissonanti opinioni di certa dottrina (101) e, da ultimo, i divergenti commenti sulle opposte soluzioni prospettate dalla più autorevole giurisprudenza dimostrano, però, che non v’è concordia di opinioni al riguardo. Si allude in primo luogo, com’è evidente, al contrasto tra Consiglio di Stato e Corte di cassazione che ha preceduto l’entrata in vigore della l. n. 205 del 2000. Accogliendo un’interpretazione estensiva dell’art. 33 del d.lgs. n. 80 del 1998, l’Adunanza plenaria ha ritenuto pienamente legittima un’ampia devoluzione al giudice amministrativo delle controversie con la pubblica amministrazione relative ai diritti, sostenendo che la giurisdizione esclusiva sarebbe da preferire ogniqualvolta la disciplina sostanziale presenti caratteri di specialità rispetto al diritto comune e che l’art. 103 Cost. introdurrebbe una semplice riserva di legge, con la conseguenza che il legislatore ordinario potrebbe estendere liberamente l’ambito della giurisdizione esclusiva, senza incontrare particolari limiti, fatto salvo soltanto il riferimento alla « tutela nei confronti della pubblica amministrazione » (102). Le Sezioni unite hanno, invece, optato per una interpretazione più rigorosa dell’art. 103 Cost., secondo cui la nostra Carta non avrebbe recepito il modello francese di « un giudice per l’Amministrazione » e, tendenzialmente rigettando soluzioni che facciano dipendere la giurisdizione dalla natura pubblica o privata delle parti in causa, confermerebbe il ruolo centrale della (100) Tar Campania-Napoli, Sez. V, 4 luglio 2002, n. 3927, in Foro amm.-Tar, 2002, 2959, con osservazione di A. MAROTTA. (101) Cfr., ad es. P.M. VIPIANA, Giurisdizione amministrativa esclusiva, in Dig. disc. pubbl., VII, Torino, 1991, 384, la quale ritiene che la stessa Carta costituzionale non precluda l’ampliamento delle controversie devolute alla giurisdizione esclusiva. (102) Ord. n. 1 del 2000, cit., pubblicata anche in Giust. civ., 2000, I, 1291, con nota di B. SASSANI, Le alte Corti all’impatto delle questioni di giurisdizione dell’art. 33 d.lgs. 80/98: prime impressioni di lettura; in Giorn. dir. amm., 2000, 556, con commento di A. TRAVI, La giurisdizione amministrativa al bivio; in Foro it., 2000, III, 365, con nota di F. FRACCHIA, Giurisdizione esclusiva, servizio pubblico e specialità del diritto amministrativo.


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giurisdizione ordinaria per la tutela dei diritti soggettivi anche quando parte in causa sia una pubblica amministrazione; conseguentemente, la giurisdizione esclusiva avrebbe carattere di « specialità » rispetto alla giurisdizione ordinaria sui diritti e sarebbe ammessa soltanto in ambiti limitati, restando preclusa una sua estensione per settori generali (103). Sorvolando sulla « distanza culturale registrabile tra i due consessi giurisdizionali » (104) e sul nutrito dibattito al riguardo (105), prima di tentare una ricostruzione del sistema (sempre a Costituzione invariata), ci sembra utile volgere un attimo lo sguardo alle indicazioni che, al fine di interpretare il precetto costituzionale qui in esame, possono utilmente trarsi dal passato, più o meno recente. Si allude, in primo luogo, alle vicende che caratterizzarono l’elaborazione della Costituzione, in relazione alle quali è stato opportunamente ricordato che, fatte salve pochissime eccezioni, peraltro relative ad una maggiore elasticità nelle materie amministrative, nell’ambito del dibattito in sede costituente riscosse generale consenso la tendenza ad impedire la creazione di nuovi giudici e ad eliminare i troppi giudici speciali già esistenti, salvando solo quelli ritenuti necessari attraverso la trasformazione in sezioni specializzate inserite negli organi della magistratura ordinaria (106). (103) Sentenze nn. 71 del 2000 e 72 del 2000, citt., pubblicate con annotazioni anche nelle riviste indicate nella nota precedente. (104) Cosı̀ V. CARBONE, Sezioni unite ed adunanza plenaria a confronto, cit., 603. (105) I cui contenuti possono desumersi dalle numerose note di commento citate nelle precedenti note, alle quali, pertanto, si rimanda. (106) Cosı̀ riferisce B. DELFINO, Antiche e nuove tendenze in tema di cognizione su diritti da parte del giudice amministrativo, in Cons. St., 2002, II, 2092, riportando quanto affermato da C. Mortati nella seduta dell’Assemblea Costituente del 21 novembre 1947: « a me pare che questa concessione, fatta ai sostenitori del principio della unicità della giurisdizione, sia eccessiva, e cioè che sia poco opportuno escludere in questa sede la possibilità per le leggi avvenire di mantenere o di creare altre giurisdizioni speciali nelle materie in cui sia interessata la Pubblica amministrazione ». In argomento, da ultimo, E. PICOZZA, Il quadro normativo della giurisdizione esclusiva dall’avvento della Costituzione ad oggi (Relazione al XIL Convegno di studi amministrativi - Varenna, 18-20 settembre 2003).


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La giurisprudenza costituzionale di un decennio dopo (107) dimostra, peraltro, che in quella sede non venne accolta un’idea troppo radicale di unicità della giurisdizione, essendo stata già allora tenuta nel debito conto la tipicità della tutela delle posizioni soggettive dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione (108). Facendo un salto in avanti di una decina d’anni, va anche rammentato che, in una delle proposte di legge di istituzione dei tribunali amministrativi regionali, era previsto l’affidamento al nuovo giudice amministrativo dei « ricorsi contro qualsiasi atto, di qualsiasi natura » della pubblica amministrazione, restando « salva la competenza del giudice ordinario per i rapporti nei quali la Pubblica amministrazione agisca come privato. La giurisdizione del tribunale amministrativo è piena e concerne tutti i rapporti nei quali la Pubblica amministrazione è parte necessaria » (109): in sostanza, con innovazione « probabilmente incostituzionale [...], ma risolutiva, in forma estremistica », dei problemi derivanti dalla crescente incertezza e dal conseguente inappagamento del criterio di riparto di giurisdizione basato sulla dicotomia diritto soggettivo-interesse legittimo, si pensava di creare una giurisdizione piena in tutte le materie, che avrebbe sostituito le giurisdizioni di legittimità, di merito ed esclusiva (110). Tralasciando l’evoluzione della giurisprudenza costituzio(107) Cfr. Corte cost., 15 luglio 1959, n. 48, in Giur. cost., 1959, 777, che afferma che « bisogna risalire all’art. 102 Cost. e al principio della unità della giurisdizione, che esso volle, almeno in via generale, affermare. Questo principio non fu condotto alle estreme conseguenze, e appunto l’art. 103 ne disciplina le principali eccezioni, consistenti nel mantenimento del Consiglio di Stato e degli altri organi di giustizia amministrativa (comma 1), della Corte dei conti (comma 2), e dei Tribunali militari di guerra e di pace (ult. comma) ». (108) B. DELFINO, op. cit., 2093. (109) Si tratta dell’art. 13 della proposta di legge n. 639 (on. Luzzatto ed altri). (110) B. DELFINO, op. cit., 2095, il quale non manca di segnalare che, nella relazione alla I Commissione della Camera, l’on. Lucifredi, pur definendo l’anzidetta proposta una « generosa aspirazione a concentrare in un unico organo tutte le forme di giustizia amministrativa lato sensu », aveva notato che la stessa « avrebbe richiesto una legge costituzionale per rivedere l’attuale art. 113 Cost. » e che dubbi sulla


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nale degli anni successivi (111), ci sembra di poter dire che tali evidenti oscillazioni, aggiunte al fatto che — come lo stesso Ledda non aveva mancato di ricordare (112) — la cognizione del giudice amministrativo sui diritti soggettivi risale addirittura all’istituzione della quarta sezione del Consiglio di Stato (113), inducono ad escludere che tale sindacato possa qualificarsi come « un’anomalia giuridica da limitare il più possibile » e, quindi, ad aderire all’opinione secondo cui il limite che il legislatore incontra nell’istituire nuove ipotesi di giurisdizione esclusiva — ancorché, a nostro avviso, in qualche misura sicuramente esistente e, quindi, invalicabile — non può fissarsi a priori enumerando in modo statico le materie assoggettabili alla giurisdizione medesima, ma deve rapportarsi al singolo momento storico di volta in volta in considerazione (114). Ferma restando, cioè, la necessità di individuare dei caratteri comuni la cui presenza soltanto possa giustificare l’istituzione della giurisdizione esclusiva in una determinata materia (115), ci sembra, quindi, corretto escludere la natura propriamente « eccezionale » della giurisdizione stessa (116) e parlare, più semplilegittimità costituzionale della proposta stessa erano stati sollevati anche dall’on. Murmura nella relazione al Senato. (111) Per una ricostruzione analitica di tale excursus v. A. POGGI, Il sistema giurisdizionale tra « attuazione » e « adeguamento » della Costituzione, Napoli, 1995, passim, part. 160 ss. (112) La giurisdizione esclusiva del Consiglio di Stato (Relazione al V Seminario della Sezione Umbria del C.I.S.A. — Perugia, 18-19 aprile 1970), in Nuova rass., 1971, 2717 ss., ora in ID., Scritti giuridici, cit., 131 ss. (113) In argomento, v. amplius L. MAZZAROLLI, Il Consiglio di Stato come giudice di diritti soggettivi, in Atti del Convegno celebrativo del 150o anniversario della istituzione del Consiglio di Stato, Milano, 1983, spec. 251 ss. (114) B. DELFINO, op. cit., 2099. (115) Diversamente opinando, ossia negando che tale giurisdizione debba avere quantomeno una specifica ratio giustificativa, la formula « particolari materie » contenuta nell’art. 113 Cost. finirebbe per essere sostanzialmente cancellata, nel senso che nessuna legge istitutiva di una giurisdizione esclusiva potrebbe essere, di fatto, dichiarata incostituzionale. Per un tentativo di ricerca di tale specificità, v. infra, § 9. (116) In tal senso, S. GIACCHETTI, La giurisdizione esclusiva tra l’essere e il divenire, in Studi per il centenario della Quarta Sezione, Roma, 1989, II, 661-662; più recentemente, B. SASSANI, La nuova giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (art. 33, 34 e 35 del d.lgs. n. 80 del 1998), in Riv. dir. proc., 1999, 1015-1016; da ul-


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cemente, di una giurisdizione « speciale » (rispetto a quella del giudice ordinario sugli altri diritti soggettivi) (117). Volgendo lo sguardo al passato più recente, si ha peraltro la netta sensazione che la tesi dell’eccezionalità della giurisdizione esclusiva sia divenuta ormai del tutto insostenibile, in quanto la stessa Corte costituzionale, mentre, da un lato, deludendo le aspettative, ha momentaneamente evitato di affrontare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998, nuovamente sottopostale a seguito dell’entrata in vigore della l. n. 205 del 2000 (118), dall’altro, sostanzialmente raccogliendo l’invito della dottrina a « guardare oltre » (119), ha chiatimo, B. DELFINO, op. cit., 2100-2101, il quale osserva che, poiché le materie in atto sottoposte alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ricomprendono più della metà del complessivo contenzioso di tale giudice, se la cognizione esclusiva di quest’ultimo fosse eccezionale, l’intero sistema di giustizia amministrativa dovrebbe ritenersi in contrasto con il dettato costituzionale. (117) In questi termini, A. POLICE, op. cit., 156; B. DELFINO, op. cit., 2101. (118) Si tratta della questione sollevata da Trib. Roma, ord. 16 novembre 2000, in Urb. e app., 2001, 161, con commento di G. CONTI, che Corte cost., ord. 16 aprile 2002, n. 122, in Giur. cost., 2002, 960, ha ritenuto manifestamente inammissibile in quanto il giudice remittente aveva denunciato genericamente l’art. 34 d.lgs. n. 80 del 1998 senza specificare se intendesse impugnare, quale norma applicabile al giudizio de quo, il testo originario della disposizione o il nuovo testo introdotto dall’art. 7 l. n. 205 del 2000, entrata in vigore il 10 agosto 2000: ciò si sarebbe risolto in un difetto di motivazione sulla rilevanza. È evidente la ritrosia del giudice delle leggi nel risolvere simili questioni e la tendenza a demandare al legislatore ordinario le scelte in materia di giurisdizione. Si tenga presente, peraltro, che Cass., Sez. un., ord. 21 ottobre 2002, n. 584 (in Giust. amm., 2003, 217), ha sollevato nuovamente la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34 d.lgs. n. 80 del 1998, per eccesso di delega, apertamente dissentendo dalla Corte cost., che, con ordinanze 16 aprile 2002, n. 123 e 12 luglio 2002, n. 340, le aveva restituito gli atti affinché riesaminasse la rilevanza della questione alla luce della sopravvenuta l. n. 205 del 2000. (119) Cosı̀ I.M. MARINO, La nuova giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nel quadro dell’evoluzione del rapporto fra pubblico e privato, in La scienza del diritto amministrativo nel pensiero di F. Benvenuti (Atti del Convegno di Venezia, 11 dicembre 1999), Padova, 2001, 172-173, secondo cui rivedere la partizione fra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa secondo il diverso criterio generale della materia « non può creare particolari turbamenti, neppure in coloro che nutrono serie perplessità sulla circostanza che la suddivisione della giurisdizione per materie costituisca un criterio generale di individuazione della giurisdizione, anzitutto per i margini d’incertezza che necessariamente circondano l’identificazione delle materie ». L’A., tuttavia, si guarda bene dall’affermare che una siffatta innovazione possa essere realizzata senza intervenire sulla Costituzione.


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ramente affermato che l’art. 103, comma 1, Cost. non pone limiti all’ampliamento della giurisdizione esclusiva, la quale, pur rimanendo una « speciale eccezione » alla giurisdizione ordinaria, può ritenersi sempre giustificata dalla « specialità di rapporti, di esigenze e di disciplina » del particolare settore affidato al giudice amministrativo (120). 9. È da queste ultime autorevoli indicazioni che occorre, pertanto, prendere le mosse per (tentare di) individuare quel valore di specificità che — si è detto — deve connotare l’assoggettamento di determinati rapporti al sindacato esclusivo del giudice amministrativo. Poniamo, innanzitutto, almeno due « paletti ». Il primo: le norme costituzionali tutt’ora vigenti caratterizzano il sistema italiano di giustizia amministrativa in senso dualistico (121), sicché, anche nelle controversie in cui è parte la pubblica amministrazione, la cognizione sui diritti soggettivi è, di regola, riservata al giudice ordinario (122). Essendo la nostra indagine dichiaratamente finalizzata ad un’analisi dell’attuale (120) Ordd. 7 maggio 2002, n. 161 e 7 novembre 2002, n. 439, in G.U., 1a s.s., 15 maggio 2002, n. 19 e 13 novembre 2002, n. 45. Si consideri, peraltro, che dottrina (C. MIGNONE, Arbitrato nelle controversie devolute al giudice amministrativo e riparto della giurisdizione, in Foro amm.-Tar, 2003, 2515, nota 1) e giurisprudenza sembrano concordare sul fatto che non occorre nemmeno « che la legge attesti espressamente che una determinata materia rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, per ritenere che sussiste tale tipo di giurisdizione; a tal fine occorre soltanto che sussistano i presupposti per il riconoscimento che la situazione giuridica soggettiva azionata ha natura e consistenza di diritto soggettivo » (Cons. Stato, Sez. VI, 27 maggio 2003, n. 2938, in Giust. amm., 2003, 707). (121) Cosı̀, da ultimo, F. FIGORILLI, Giurisdizione piena del giudice ordinario e attività della pubblica amministrazione, Torino, 2002, 3, al quale può rinviarsi per una completa disamina delle ragioni di tale opzione; F.G. SCOCA, in Giustizia amministrativa, a cura dello stesso, Torino 2003, 18; in argomento, anche A. PAJNO, Le norme costituzionali sulla giustizia amministrativa, in questa Rivista, 1994, 467 ss. È noto, peraltro, che non sono mancate autorevoli critiche al modello fatto proprio dal legislatore del 1948, descritto come un vero e proprio « parasistema », se non addirittura come « un disegno sistematico che perde la propria logica in vari suoi giunti, divenendo incoerente »: cosı̀ M.S. GIANNINI, Discorso generale sulla giustizia amministrativa, parte III, in Riv. dir. proc., 1964, 250. (122) V. per tutti M. NIGRO, Giustizia amministrativa, 6a ed., a cura di E. CARDI e A. NIGRO, Bologna, 2002, 192-193.


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dettato costituzionale, è con questo sistema — ancorché, forse, « barocco » (123) e « da rottamare » (124) — che, pertanto, dobbiamo confrontarci, reprimendo voli pindarici intesi ad immaginare futuri assetti costituzionali (125). Il secondo: la circostanza che anche la più recente giurisprudenza costituzionale escluda la natura eccezionale della giurisdizione esclusiva, pur denotando la tendenza ad un’interpretazione adeguatrice delle norme costituzionali, non consente di dimenticare che tale giurisdizione resta pur sempre « speciale » (nel senso anzidetto) e che — se non si vuole pervenire alla triste conclusione che la giurisdizione amministrativa (in generale) è ormai priva di qualsivoglia specificità, in quanto, avendo smarrito la propria matrice originaria, è divenuta una « struttura senza anima propria » e, specificandosi con le materie alla stessa assegnate, « non è intrinsecamente definibile » (126) — tale specialità dev’essere intesa in modo pregnante, individuando con il massimo rigore gli elementi che ne giustificano l’istituzione. Si dissente, quindi, dalla recente impostazione di certa dottrina, secondo cui, in mancanza di direttive costituzionali utilizzabili per costruire una categoria di controversie che, in quanto connotata da elementi speciali, sia attribuibile alla cognizione esclusiva del giudice amministrativo, la discrezionalità del legislatore ordinario non incontrerebbe limiti né qualitativi né quan(123) Cosı̀ S. CASSESE, Grandezza e insuccessi del giudice amministrativo italiano, in Scritti in onore di G. Guarino, cit., 549. (124) Cosı̀ S. GIACCHETTI, Processo amministrativo e interesse generale, in Cons. St., 2002, II, 1629, con riguardo alla tradizionale distinzione tra diritto pubblico e diritto privato che sta alla base del suddetto criterio di riparto. (125) Da ultimo, anche F. FIGORILLI, op. cit., 413-414, pur affermando che, al punto in cui è giunta l’evoluzione del sistema, sarebbe forse preferibile attribuire al giudice amministrativo in via esclusiva tutte le liti che vedano coinvolta la pubblica amministrazione, si mostra pienamente consapevole del fatto che per giungere a tale risultato « andrebbe fortemente ripensata e corretta l’intera intelaiatura della tutela giurisdizionale nei confronti dell’azione amministrativa prevista dalla Costituzione vigente ». (126) In questi termini, G. ROMEO, Il paradosso della giustizia amministrativa, in questa Rivista, 2001, 1048-1049, secondo cui « la sola cosa che importa sono le materie che il legislatore ha affidato alla giurisdizione dell’uno e dell’altro giudice, ognuna con gli ambiti che la legge determina ».


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titativi ed eventuali declaratorie di incostituzionalità risulterebbero, quindi, il frutto di valutazioni politiche e/o arbitrarie (127). Ed infatti, a prescindere dal fatto che non è del tutto esatto che direttive costituzionali manchino del tutto (non potendo ritenersi prive di rilievo le indicazioni provenienti dal Giudice delle leggi), l’interprete ha il dovere di ricostruire il sistema vigente tenendo conto del fatto che, nel momento in cui la disposizione costituzionale è stata elaborata, non era immaginabile che l’aumento quantitativo delle materie di giurisdizione esclusiva avrebbe via via indebolito il limite posto attraverso la formula delle « particolari materie » (128), ergo individuando a tutti i costi — e non già azzerando! — quel quid di particolare che deve connotare le controversie sui diritti soggettivi sottratte al loro giudice naturale. A ciò si aggiunga che una siffatta opzione interpretativa renderebbe inapplicabili dal giudice (anche costituzionale) i concetti giuridici indeterminati, il cui limite, in tal modo opinando, risulterebbe sempre introvabile a priori, in contrasto con la prassi giurisprudenziale, che simili concetti abitualmente utilizza (129). (127) Cosı̀ I. ZINGALES, op. cit., 148 ss., secondo il quale si potrebbe, tutt’al più, affermare che, stante la locuzione « particolari materie », l’allargamento della giurisdizione esclusiva non possa arrivare a ricomprendere tutte le controversie in cui si faccia questione di diritti soggettivi nei confronti della pubblica amministrazione; in termini analoghi, B. SASSANI, La giurisdizione esclusiva, in Trattato di diritto amministrativo, a cura di S. CASSESE, 2a ed., Milano, 2003, V, 4673, che parla di « discrezionalità sovrana del legislatore ordinario »; S. BACCARINI, La giurisdizione esclusiva e il nuovo riparto, in questa Rivista, 2003, 378-379; D. PALLOTTINO, Osservazioni sulla legittimità costituzionale del nuovo sistema di riparto delle giurisdizioni, in Foro amm.-Tar, 2003, spec. 1469. (128) Ciò di cui, d’altronde, si mostra consapevole lo stesso I. ZINGALES, op. cit., 154. (129) Sul punto, da ultimo, C. MIGNONE, I mezzi di prova in rapporto alle plurime giurisdizioni del giudice amministrativo, in questa Rivista, 2003, 3, nota 3. Sulla sindacabilità, in sede di legittimità, dell’interpretazione e dell’applicazione di concetti giuridici indeterminati, cfr., ex multis, Cass., Sez. un., 19 luglio 2000, n. 507, in Giust. civ. Mass., 2000, 1455; Sez. lav., 18 gennaio 1999, n. 434, in Foro it., 1999, I, 1891. In generale, sui concetti giuridici indeterminati e sul loro trattamento, cfr. S. BACCARINI, Giudice amministrativo e discrezionalità tecnica, in questa Rivista, 2001, 80 ss. Infine, sull’utilizzo di tali concetti da parte del giudice costituzionale, v. AA.VV., Il


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Ciò premesso, sembrerebbe (il condizionale è d’obbligo visto quanto si dirà appresso) da scartare subito l’idea che la deroga al principio costituzionale dell’attribuzione della giurisdizione sui diritti al giudice ordinario trovi giustificazione nell’effettiva difficoltà di individuare la natura della situazione giuridica soggettiva che s’intende far valere (130), in quanto, ammesso che fosse esatta con riguardo al momento in cui è stata per la prima volta introdotta la giurisdizione esclusiva (131), l’anzidetta tesi appare ormai superata (132). Ma non ci sembra convincente nemmeno l’opinione secondo la quale l’assoggettamento alla giurisdizione esclusiva sarebbe giustificato dal collegamento delle controversie con l’interesse generale, tesi sostenuta da coloro che ritengono che al riparto di parametro nel giudizio di costituzionalità (Atti del Seminario di Palermo, 28-29 maggio 1998), a cura di G. PITRUZZELLA, F. TERESI e G. VERDE, Torino, 2000. (130) In tal senso, ex plurimis, L. MAZZAROLLI, op. cit., 258, nota 46; negli stessi termini, più recentemente, F. BILE, Qualche dubbio sul nuovo riparto di giurisdizione, in Corr. giur., 1998, 1476. (131) Secondo F. FRACCHIA, La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (art. 7, prima parte), cit., 546, essa non appare convincente ove si consideri che la concreta applicazione giurisprudenziale mostrò ben presto che tale asserita agevolazione del cittadino nella ricerca del giudice dotato di giurisdizione era vanificata dalla difficoltà di individuare il rito da seguire per proporre l’azione. (132) In tal senso, di recente, I.F. CARAMAZZA, I limiti costituzionali della giurisdizione esclusiva, in Rass. Avv. Stato, 2001, II, I, 36, secondo cui « tale gordiana connessione nasce [...] da un impreciso ricordo storico e risponde ad una concezione dogmatica datata, al cui superamento non potrebbe essere opposta la letterale contrapposizione dei diritti agli interessi legittimi ». Si consideri, peraltro, che, in epoca più recente, lo stesso L. MAZZAROLLI (La vendita dei beni delle imprese sottoposte ad amministrazione straordinaria tra problemi di giurisdizione e problemi di costituzionalità, in questa Rivista, 1999, 208) ha affermato che « l’obiezione della non estensibilità della giurisdizione esclusiva se non ai casi in cui sia “estremamente difficile” distinguere tra diritto soggettivo e interesse legittimo non trova riscontro in quanto stabilito nell’art. 103, comma 1 Cost., che si limita a disporre l’attribuibilità alla giurisdizione del Consiglio di Stato e degli altri organi di giustizia amministrativa della tutela dei diritti soggettivi nei confronti della p.a. “per particolari materie indicate dalla legge” ». Nello stesso senso, N.A. CALVANI, La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, Bari, 1992, 119-120. Del resto, anche la rigida distinzione giudice ordinario-diritti soggettivi e giudice amministrativo-interessi legittimi sembra ormai da tempo destinata a subire una lettura profondamente diversa rispetto a quella prevalente: cfr. per tutti A. CORPACI, Riparto di giurisdizione e tutela del lavoro nella pubblica amministrazione, Milano, 1985, 150 ss. e 305 ss.


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giurisdizione per situazioni giuridiche soggettive si sia sostituito un riparto « volto ad individuare la funzione di interesse pubblico », della quale il giudice amministrativo sarebbe diventato, appunto, giudice esclusivo (133). Ed infatti, la circostanza che il diritto amministrativo non sia più « il diritto degli atti amministrativi ma — più generalmente — il diritto degli atti dell’amministrazione » e che dalla funzionalizzazione all’interesse pubblico si sia passati alla funzionalizzazione all’interesse collettivo — che « comprende non solo interessi facenti capo a soggetti predeterminati di rilievo pubblico e da questi doverosamente tutelati ma anche interessi che nessun soggetto di rilievo pubblico è formalmente incaricato di tutelare » — non consente, a nostro avviso, di ritenere costituzionalmente legittima l’indiscriminata attribuzione al giudice amministrativo di vaste aree di diritti soggettivi (134). Ci sembra, in altri termini, eccessiva l’affermazione che, poiché determinate aree che già furono della giurisdizione esclusiva hanno oggi assunto maggiore rilievo per la società civile, esse dovrebbero essere sottratte all’autonomia privata delle parti e subordinate all’interesse generale, con conseguente « processualamministrativizzazione » degli istituti del processo civile, che verrebbero utilizzati dal giudice amministrativo « nel segno dell’interesse generale » (135). Gli stessi sostenitori di questa tesi sono consapevoli del fatto (133) Cosı̀ A. SANDULLI, La tutela giurisdizionale nelle « controversie in materia di pubblici servizi », in Riv. it. dir. pubbl. com., 2001, 798-799 e 801-802; nel senso che le mateire devono essere « particolari » nel senso di essere « correlate all’interesse generale » anche D. PALLOTTINO, op. cit., 1469. In termini analoghi sembrano esprimersi F. CINTIOLI, op. cit., 248, che invita la giurisdizione amministrativa a seguire « la strada dell’interesse pubblico », ritenendo che tale concetto possa giovare ad una corretta selezione del numero delle controversie attribuibili alla giurisdizione amministrativa esclusiva (ivi, 269-270). (134) In tal senso, invece, S. GIACCHETTI, Processo amministrativo, cit., 16301631, che reputa siffatte limitazioni all’introduzione di nuove ipotesi di giurisdizione esclusiva « fuori dalla realtà storica », « culturalmente ancorate alla situazione del 1948 ». (135) S. GIACCHETTI, op. ult. cit., 1636-1637. Sulla distinzione tra interesse pubblico ed interesse generale v. per tutti D. SORACE, op. cit., 24, il quale osserva che « non necessariamente tutti gli interessi di carattere generale finiscono per esere con-


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che l’intera attività amministrativa costituisce esercizio di una pubblica funzione e che, quindi, anche gli atti di esercizio di questa funzione aventi natura privatistica non sono mai del tutto liberi ed insindacabili come gli atti dei privati (136). Essi, tuttavia, anziché considerare che, in tal modo opinando, il giudice amministrativo dovrebbe allora divenire il giudice dell’intera attività amministrativa (sol perché, appunto, funzionalizzata), perdendo del tutto la sua specificità, finiscono per trascurare, sino a renderla del tutto evanescente, l’importanza che, ai fini dell’assoggettamento di una determinata controversia all’una o all’altra giurisdizione, assumono le norme — di diritto pubblico ovvero di diritto privato — preposte alla tutela dell’interesse pubblico da realizzare. È evidente, di contro, che, avulso da qualsiasi collegamento con le norme sostanziali che regolano la fattispecie, il cui rispetto il giudice è chiamato ad accertare, il criterio di riparto fondato « sul requisito “elastico” della funzione di interesse pubblico » (137) diviene del tutto aleatorio, ergo inidoneo a connotare la giurisdizione esclusiva di quel minimum di specificità che appare, invece, indispensabile. Se è vero, in altri termini, che « l’attività amministrativa, anche quando si avvale di strumenti privatistici, resta comunque attività funzionalizzata » (138), sicché « l’interesse pubblico siderati interessi pubblici », mentre, « al contrario, possono venir considerati interessi pubblici degli interessi che non sono sempre sentiti come generali ». (136) Cosı̀, chiaramente, S. GIACCHETTI, op. ult. cit., 1635. Sul punto v. amplius V. CERULLI IRELLI, Dir. amm. e diritto comune: principi e problemi, in Scritti in onore di G. Guarino, cit., 574; da ultimo, S. CIVITARESE MATTEUCCI, Regime giuridico dell’attività amministrativa e diritto privato, in Dir. pubbl., 2003, 405 ss.; già prima, C. MARZUOLI, Principio di legalità e attività di diritto privato della pubblica amministrazione, Milano, 1982, 184, secondo cui l’attività di diritto privato è soggetta ad un vincolo di scopo. In giurisprudenza, v. Cons. Stato, Sez. VI, 13 maggio 2003, n. 2549, in Cons. Stato, 2003, I, 1118. (137) In questi termini si esprime lo stesso A. SANDULLI, op. cit., 802. (138) F.G. SCOCA, Autorità e consenso (Relazione al citato XLVII Convegno di studi amministrativi), in Dir. amm., 2002, 452 ss.; 29; ID., La discrezionalità nel pensiero di Giannini e nella dottrina successiva, in Riv. trim. dir. pubbl., 2000, 1059; ID., Attività amministrativa, in Enc. dir., Aggiorn., VI, Milano, 2002, 95 ss., ed ivi (spec. 96, nota 95) ampi riferimenti bibliografici; M. SPASIANO, Funzione amministrativa e


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sussiste non solo nell’ambito dell’attività tipicamente provvedimentale nell’esercizio di poteri, e quindi in sede di funzione pubblica, ma anche dell’attività negoziale e prestazionale svolta dall’amministrazione » (139), ciò non significa che l’intera attività amministrativa debba intendersi oggi ricompresa sotto l’ombrello(ne) della giurisdizione esclusiva (140). Tanto per restare ai contratti ad evidenza pubblica, infatti, ci sembra ancor oggi innegabile che, una volta determinatasi la volontà amministrativa nella scelta del contraente, questa si riversa nel negozio, che, cosı̀ come resta soggetto alle regole del codice civile sul versante sostanziale, deve restare tale anche su quello della tutela, nel senso che l’esecuzione del contratto, consistendo nell’adempimento delle reciproche prestazioni ivi previste secondo le regole privatistiche, non può che restare assoggettata alla cognizione del giudice ordinario (141). Affermare che il giudice amministrativo è il giudice della funzione amministrativa non vuol dire, quindi, estendere la sua giurisdizione, in modo del tutto generalizzato, a controversie che con tale funzione « hanno un nesso solo indiretto », non essendovi alcuna valida ragione per sottoporre ad un giudice particolare un’amministrazione pubblica che faccia fondamentalmente uso della propria capacità di diritto comune (142). Paradigmatico dell’attuale tendenza appare l’atteggiamento legalità di risultato, Torino, 2003, 26; già prima, G. MARONGIU, Funzione, in Enc. giur., XIV, Roma, 1988. Sul c.d. principio di funzionalità come principio dominante la disciplina dell’esercizio dei poteri dell’amministrazione, A. ROMANO, I caratteri originari della giurisdizione amministrativa e la loro evoluzione, in questa Rivista, 1994, 654 ss. (139) C. VOLPE, Affıdamento, esecuzione e giurisdizione, cit., 83. (140) Ciò sembrerebbe desumersi da F. LIGUORI, La reintegrazione in forma specifica nel processo amministrativo, Napoli, 2002, 150-151, allorquando afferma che l’affidamento di determinate materie in via esclusiva al giudice amministrativo è giustificato dal fatto che si ritiene comunque in gioco la funzione pubblica. (141) V. CERULLI IRELLI, op. ult. cit., 576-577. Già prima, A. CROSETTI, L’attività contrattuale della pubblica amministrazione. Aspetti evolutivi, Torino, 1984, 148 ss. (142) A. ROMANO, Giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa dopo la legge n. 205 del 2000 (Epitaffıo per un sistema), in questa Rivista, 2001, 622 e 628. Tra i critici più severi di tale innegabile tendenza legislativa anche A. TRAVI, Giurisdizione esclusiva e legittimità costituzionale, in Foro it., 2000, I, 2401 ss.; N. PAOLANTONIO, Giurisdizione esclusiva e tutela giudiziaria, in Foro amm., 2000, 2445 ss;


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che sta alla base della nota ordinanza dell’Adunanza plenaria n. 1 del 2000, che — com’è stato acutamente osservato — denota « l’impulso a trasformare l’attività privata in attività pubblica » (143), facendo « del cittadino un individuo interamente pubblico, e di ogni attività privata (gelateria, panetteria o salumeria, che sia) che abbia un contatto (ad esempio, controllo igienico-sanitario) con la pubblica amministrazione, un servizio pubblico », omettendo, peraltro, totalmente di considerare che l’erogazione di servizi pubblici tende sempre più ad essere regolata dal diritto privato e dal diritto commerciale, per cui, se proprio si doveva ritoccare il tradizionale riparto di giurisdizione, sarebbe stato, semmai, più conforme ai principi devolvere l’intera materia dei servizi pubblici alla cognizione del giudice ordinario, considerando appunto che è sempre più raro che all’interno di essa si esercitino poteri pubblicistici (144). Alla luce di quanto sin qui osservato, ci sembra doveroso S. MURGIA, Giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e garanzia dei diritti del cittadino, ivi, 1560 ss. A tal proposito, non può che convenirsi, dunque, con G. NAPOLITANO, Pubblico e privato nel diritto amministrativo, Milano, 2003, 170-171, allorquando — dopo aver osservato che il concetto di « funzionalizzazione » dell’attività amministrativa si presta ad usi diversi (ivi, 160 ss.) — evidenzia le incongruenze delle opzioni dirette ad un’applicazione automatica del regime amministrativo all’attività di diritto privato. Ed infatti — com’è stato acutamente notato — in siffatte ipotesi si verifica in realtà il fenomeno esattamente opposto, nel senso che i rapporti amministrativi diventano, dal punto di vista sociale, affari privati, la cui definizione in un senso o nell’altro è sostanzialmente indifferente per la collettività, e, come tali, anche quando coinvolgono l’amministrazione autoritativa, non sono di rilievo pubblico e, quindi, possono essere regolati da una disciplina fondamentamente privatistica (A. ROMANO TASSONE, Il controllo del cittadino sulla nuova amministrazione, in Dir. amm., 2002, 279). (143) G. ROMEO, op. cit., 1056-1057. (144) È questa l’opinione di G. CORSO, La « nuova » giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Profili costituzionali, in Nuove autonomie, 1998, 640-642, il quale ammonisce ad operare con estrema cautela sottrazioni al giudice ordinario della giurisdizione sui diritti; in termini analoghi, G. VERDE, L’unità della giurisdizione e la diversa scelta del Costituente, in questa Rivista, 2003, 351-352. Muovendo da premesse analoghe, A.L. TARASCO, op. cit., 2729-2731, invoca l’unificazione delle due giurisdizioni. Sull’incidenza della c.d. lex mercatoria sul diritto amministrativo v. le interessanti riflessioni di R. FERRARA, Introduzione al diritto amministrativo, RomaBari, 2002, 240 ss., il quale peraltro evidenzia la « capacità di resistenza agli eventi » del diritto amministrativo, che continua a svolgere la sua « funzione obiettiva di garanzia ».


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escludere che il criterio di riparto di giurisdizione scaturente dalle recenti riforme legislative, frutto di un’interpretazione adeguatrice dell’art. 103 Cost., possa fondarsi sulla natura della funzione esercitata dalla pubblica amministrazione, atteso che, cosı̀ opinando, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo risulterebbe giustificata dalla semplice presenza, tra le parti in causa, di una pubblica amministrazione, che istituzionalmente non può che svolgere attività funzionalizzata al perseguimento dell’interesse pubblico. Divenendo, ad es., il giudice dei rapporti contrattuali in cui è parte la pubblica amministrazione (145), il giudice amministrativo sarebbe chiamato ad applicare (anche) le regole di diritto comune, perdendo quella specialità che, nel tempo, ne ha giustificato la stessa presenza nell’ordinamento, quale controllore dell’esatta applicazione di un corpus di regole particolari e diverse rispetto a quelle concernenti gli altri soggetti dell’ordinamento (146). Più attendibile risulta, allora, il criterio di riparto che mira a « valorizzare » piuttosto la natura della disciplina applicabile alla singola controversia, ossia a far esclusivo riferimento alla presenza o meno, nel rapporto giuridico tra le parti in causa, di norme derogatorie rispetto al diritto comune; norme, cioè, di diritto pubblico (147). Tale soluzione consente sicuramente di espungere dall’am(145) Questa — secondo E. FOLLIERI, La tutela nei contratti della pubblica amministrazione nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in questa Rivista, 1999, 310 — sarebbe la sua vocazione. (146) Di « giurisdizione deputata al controllo della funzione » parla A. BIAGINI, La legge 21 luglio 2000, n. 205: prime considerazioni sulla giurisdizione esclusiva in materia di appalti, in Contr. St. e enti pubblici, 2001, 369. Sul tema, amplius, V. PARISIO, Pubblici servizi e funzione di garanzia del giudice amministrativo, Milano, 2003; ID., Carta costituzionale, giurisdizione esclusiva e pubblici servizi, in Dir. e soc., 2003, 75 ss.; ID., Giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, appalti e natura delle posizioni giuridiche soggettive, in Giust. civ., 2003, II, 93 ss. (147) Si tratta della già menzionata impostazione di F. FRACCHIA, alla quale ha recentemente aderito anche D. VAIANO, Pretesa di provvedimento e processo amministrativo, Milano, 2002, 469. Del resto, anche gli storici sono concordi nell’affermare che la specialità del giudice amministrativo è correlata alla specialità del diritto amministrativo: L. MANNORI-B. SORDI, Storia del diritto amministrativo, Roma-Bari, 2001, 279 ss.


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bito della « speciale » giurisdizione esclusiva l’attività delle amministrazioni pubbliche retta interamente dal diritto comune, ergo del tutto esente dall’applicazione del diritto amministrativo (148), mantenendo salda la distinzione tra il giudice dei rapporti tra privati — che, agendo nei confronti di interessi « dominati dal principio di autonomia », deve semplicemente farsi « garante del rispetto delle regole » — ed il giudice dei rapporti in cui è parte la pubblica amministrazione (intesa quale potere) — che, dovendo controllare l’operato di un soggetto governato dal principio di legalità, « deve anche dettare i principi secondo i quali l’amministrazione deve agire » (149) —. Essa, inoltre, permette quantomeno di sostituire al tradizionale criterio di riparto fondato su un elemento di carattere generale qual è quello della situazione giuridica soggettiva un criterio basato su un elemento parimenti generale qual è quello della natura delle norme da applicare, evitando il ricorso ad un elemento di carattere speciale quale sarebbe quello delle materie, che renderebbe « speciale », e non più « generale », il giudice amministrativo, stravolgendo del tutto l’originario disegno costituzionale, che vuole, appunto, che il giudice amministrativo sia il giudice ordinario degli interessi legittimi (150). Nemmeno questa tesi, tuttavia, appare risolutiva di tutti i problemi, in quanto, se si vuole mantenere un certo rigore interpretativo, ricordando quanto detto poc’anzi in ordine all’applicabilità di alcune regole generali di diritto pubblico (buon andamento, imparzialità, proporzionalità, ecc.) all’intera attività amministrativa (in quanto funzionalizzata), non si può reputare sufficiente, ai fini dell’assoggettamento alla giurisdizione esclusiva, una qualsivoglia presenza di elementi pubblicistici all’interno del rapporto controverso. In altri termini, l’applicazione di regole sostanziali esorbitanti dal diritto privato dev’essere ampia, di gran lunga preva(148) Cosı̀, da ultimo, Cass., Sez. un., 17 aprile 2003, n. 6189, in Giur. it., 2003, 2165, con nota di C. ROSSI, ... ma è davvero possibile parlare di riparto di giurisdizione per « blocchi di materie »? Sul punto, amplius, D. SORACE, op. cit., 61-63. (149) Cosı̀ S. CASSESE, op. cit., 550-551. (150) Spunti da F.G. SCOCA, in Giustizia amministrativa, cit., 30-31.


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lente rispetto a quella del diritto privato stesso (151), risultando conseguentemente insufficiente la sussistenza di tenui profili di « specialità », come quelli discendenti dall’applicazione dei cc.dd. « principi del diritto pubblico » (152). Ecco allora che anche questo criterio di riparto appare meno chiaro, almeno nelle ipotesi — invero assai frequenti, specie nell’ambito dell’attività contrattuale della pubblica amministrazione — in cui la prevalenza della disciplina sostanziale pubblicistica rispetto al diritto comune risulta meno netta ed evidente. In questi casi, sembra dunque inevitabile affidarsi alla discrezionalità del legislatore ordinario (153), al quale va posto l’unico invalicabile limite — il cui rispetto, evidentemente, può essere garantito soltanto dalla Corte costituzionale — consistente nel divieto di devolvere alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo rapporti interamente disciplinati dal diritto comune. Limite, quest’ultimo, sulla cui concreta consistenza ci si dovrebbe, peraltro, intendere, atteso che in determinati rapporti — è il caso, ancora una volta, dell’attività contrattuale — vi sono fasi interamente a regime pubblicistico e fasi interamente a regime privatistico, sicché, avendo riguardo al rapporto nel suo complesso, ben potrebbe giustificarsi, anche per ragioni di concentrazione della tutela, l’affidamento dell’intera materia ad un giudice esclusivo (154). Nel qual caso, potrebbe davvero dirsi (151) In questi termini, D. VAIANO, op. cit., 473-474, che parla di « regole sostanziali ampiamente diverse rispetto a quelle cui risultano assoggettati i rapporti giuridici di diritto comune » (il corsivo è nostro), notando che « un momento “pubblicistico” si potrebbe altrimenti ritrovare in tutte le controversie in cui sia parte una pubblica amministrazione ». (152) Di questo sembra invece accontentarsi S. GIACCHETTI, op. ult. cit., passim. Espressioni analoghe in Tar Sicilia-Catania, Sez. II, n. 1456 del 2001, cit. (153) De iure condendo, F. FIGORILLI, op. cit., 415, suggerisce addirittura di eliminare del tutto il precetto costituzionale in punto di riparto di giurisdizione tra i diversi ordini, demandando tale specifico compito al legislatore ordinario e rendendo cosı̀ il sistema più flessibile e suscettibile di correzioni e ripensamenti. (154) Non a caso, d’altronde, con riguardo all’attività contrattuale, è stato autorevolmente affermato che « sarebbe stato assai più razionale concentrare l’intera materia nella giurisdizione di un solo giudice »: F.G. SCOCA, Giurisdizione e riti processuali, cit., 17; ID., Autorità e consenso, cit., 37.


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che nulla è cambiato, nel senso che, dopo lunghe discettazioni, si finirebbe per tornare all’antica idea secondo cui è l’intima compenetrazione tra pubblico e privato a rendere opportuna l’attribuzione della giurisdizione ad un solo giudice ratione materiae (155). Non si tratta, peraltro, dell’unica perplessità nei riguardi della concreta utilizzabilità di quello che — si badi bene — resta comunque, a nostro avviso, il criterio più attendibile. Ulteriori dubbi — che, a ben guardare, attengono in realtà alla razionalità delle scelte legislative, più che ai risultati del meritorio lavoro degli interpreti delle stesse — discendono, infatti, dalla soluzione adottata per gli accordi ex art. 11 della l. n. 241 del 1990, laddove la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo è espressamente estesa alle controversie « in materia [...] di esecuzione », sicché, ad es., le controversie sul recesso unilaterale vengono decise dal giudice amministrativo e non, come per i contratti ad evidenza pubblica, dal giudice ordinario (156). Com’è stato da più parti notato, tale attribuzione alla giurisdizione esclusiva è stata disposta ancorché la disciplina sostanziale sia dettata, ove non diversamente previsto, dai « principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili » (art. 11, comma 2) (157). Ed allora, se non si vuole pervenire alla conclusione che il giudice amministrativo è stato davvero « “eletto”, ormai, a giu(155) È appena il caso di ricordare che, nella Relazione al Re al r.d. 3 dicembre 1923, n. 2840, in Collezione Celerifera, 1924, 97, nell’illustrare il meccanismo dell’istituenda giurisdizione esclusiva, si precisava che la riforma riguardava « taluna determinata materia nella quale è cosı̀ connaturato col diritto l’interesse pubblico, che è impossibile o assai difficile separare l’uno dall’altro, mentre l’interesse suddetto è cosı̀ prevalente ed assorbente da far scomparire o affievolire la portata effettiva della questione patrimoniale o di diritto privato ». (156) Tar Lombardia-Brescia, 21 maggio 1997, n. 575, in Foro amm., 1998, 478. Secondo F.G. SCOCA, Autorità e consenso, cit., 37, ciò avviene solo « perché lo stabilisce una legge specifica e non perché sono qualificabili come contratti di diritto pubblico ». (157) E. FOLLIERI, La tutela nei contratti, cit., 301; G. GRECO, op. cit., 414 e 417, laddove si sottolinea che tali accordi sono espressione di autonomia privata ex art. 1322 c.c.


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dice nelle controversie di natura contrattuale della pubblica amministrazione » (158) — soluzione che ci è già parsa contraria al vigente art. 103 Cost. —, occorre individuare una ratio giustificativa del diverso trattamento processuale di tale materia rispetto a quella dei contratti ad evidenza pubblica, laddove parimenti si assiste ad una commistione tra regole pubblicistiche e disciplina privatistica, ma persiste il riparto della giurisdizione fondato sulla natura delle posizioni giuridiche soggettive di volta in volta azionate. Una spiegazione della scelta fatta dal legislatore con riguardo agli accordi potrebbe essere rinvenuta nel fatto che si tratta di un istituto comunque collocato in « una ambientazione tipicamente pubblicistica », ossia in un contesto nel quale « l’Amministrazione fa valere ed esercita potestà amministrative », sicché « la forma dell’atto non trasforma la posizione giuridica dell’Amministrazione, né fa venir meno il relativo regime: consente solo di arricchire tale regime, aggiungendo ad esso (senza sostituirlo) la disciplina privatistica » (159). Si tratterebbe, in altri termini, di « un fenomeno sostanzialmente pubblicistico », nel quale si innesta una « componente privatistica »: in particolare, nella fase dell’esecuzione, la « necessaria o, quanto meno, possibile presenza di provvedimenti amministrativi » rende il regime degli accordi notevolmente diverso da quello dei contratti ad evidenza pubblica, giustificando la differente sede di tutela giurisdizionale (160). Se questa impostazione è esatta, può allora sostenersi che (158) In tal senso, E. FOLLIERI, op. ult. cit., 301-302, anche alla luce dell’art. 44 l. n. 724 del 1994. (159) G. GRECO, op. cit., 414 e 428. In argomento, v. amplius F. CANGELLI, Riflessioni sul potere discrezionale della Pubblica Amministrazione negli accordi con i privati, in Dir. amm., 2000, 277 ss. (160) G. GRECO, op. cit., 429; già prima F. FRACCHIA, L’accordo sostitutivo, Padova, 1998, 167, aveva sostenuto che la funzionalizzazione dell’attività amministrativa traspare anche nell’accordo sostitutivo di provvedimento, « pur segnato da una fase di negoziazione ». Ovviamente, non è questa la sede per analizzare la questione attinente all’ammissibilità dell’assunzione, da parte della p.a., dell’obbligo all’esercizio di un potere funzionalizzato, in quanto tale, in via di principio, indisponibile: sul punto si rinvia, quindi, a F. LEDDA, Dell’autorità e del consenso nel diritto dell’Amministrazione pubblica, in Itinerari e vicende del diritto pubblico in Italia, a cura di


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nei contratti ad evidenza pubblica non v’è — a differenza, appunto, che negli accordi ex art. 11 — quella « stretta connessione tra le regole di diritto comune e quelle che regolano l’azione amministrativa » che — secondo la più volte richiamata ordinanza dell’Adunanza plenaria n. 1 del 2000 — giustifica, se non addirittura rende opportuna, l’attribuzione di un’intera materia alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. In sostanza, nei contratti ad evidenza pubblica vi sarebbe un netto discrimine tra regime pubblicistico (nella procedura di evidenza pubblica, esterna o meno che sia alla formazione del contratto) (161) e regime privatistico (nella fase di esecuzione del rapporto contrattuale) che consentirebbe di mantenere il tradizionale criterio di riparto. Va da sé, tuttavia, che, optando per una siffatta lettura — che riconosce valenza decisiva all’« intreccio », più o meno fitto e/o indissolubile, tra discipline pubblicistica e privatistica (162) —, si torna ancora una volta all’idea che la giurisdizione esclusiva si giustifica ogniqualvolta v’è l’esigenza di eliminare i problemi attinenti alla giurisdizione che possono derivare dalla stretta intimità nella quale sono chiamati a convivere, in una determinata materia, pubblico e privato, interessi legittimi e diritti soggettivi (163). E l’unico limite all’amplissima discrezionalità del legislatore ordinario, sempre ammesso che vi sia, resta quello del divieto di sottrarre al giudice civile rapporti interamente disciplinati dal diritto comune, in relazione ai quali il giudice amministrativo, R. FERRARA e S. SICARDI, Padova, 1998, 30 ss. ed in Foro amm., 1997, 1273 ss., ora in ID., Scritti giuridici, cit., 403 ss. (161) Sorvoliamo sulla problematica, in relazione alla quale può vedersi la sintesi di G. GRECO, op. cit., 419 ss. (162) Il riferimento è ancora una volta a F. FRACCHIA, Giurisdizione esclusiva, cit., 365 ss.; ID., La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (art. 7, prima parte), cit., 585 ss. Cfr., altresı̀, P. DE LISE, La nuova giurisdizione del giudice amministrativo, in Cons. St., 2000, II, 2339. (163) In tal senso, con specifico riguardo agli accordi ex art. 11, sembra orientata anche la dottrina privatistica: v. per tutti A. FEDERICO, Autonomia negoziale e discrezionalità amministrativa. Gli « accordi » tra privati e pubbliche amministrazioni, Napoli, 1999, 255-256.


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che « rimane ancora sempre il giudice della funzione amministrativa » (164), non dovrebbe svolgere alcun sindacato; in quest’ultima direzione, del resto sembra spingersi la più recente giurisprudenza costituzionale, che, pur non ponendo limiti all’ampliamento della giurisdizione esclusiva, continua a configurarla come una « speciale eccezione » alla giurisdizione ordinaria sui diritti, giustificata (deve ritenersi, esclusivamente) dalla « specialità di rapporti, di esigenze e di disciplina » della « particolare materia » (165). Ed allora, riportando il titolo di uno scritto di una decina d’anni fa riguardante tutt’altro argomento, sarebbe davvero il caso di concludere che, con riguardo alle più recenti vicende della giurisdizione esclusiva, « c’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico » (166).

(164) A. ROMANO, op. cit., 621-622. (165) Ordd. nn. 439 del 2002 e 161 del 2002, citt. In termini, da ultimo, Cons. Stato, Sez. VI, 1 dicembre 2003, n. 7857 (in Guida al diritto, 2003, n. 50, 83, con commento di S. MEZZACAPO, Valida la norma sulla speciale giurisdizione anche con le nuove regole del pubblico impiego), che giustifica la permanenza del contenzioso disciplinare degli autoferrotranvieri alla giurisdizione amministrativa esclusiva in considerazione del preminente interesse collettivo al regolare svolgimento del servizio pubblico di trasporto. (166) Si allude a S. BACCARINI, Disapplicazione dei regolamenti nel processo amministrativo: c’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico, in Foro amm., 1993, 466 ss.


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SOMMARIO: 1. Un giurista che soffre il limite della norma giuridica. — 2. La giurisdizione oggettiva e la giurisdizione a tutela dell’interesse legittimo, apriorismi non condizionanti. — 3. La teoria di Santi Romano e l’influenza nel processo amministrativo. — 4. Il controinteressato. — 5. Il giusnaturalista laico.

1. Franco Pugliese soffre il limite della norma giuridica. Egli la sente come una costrizione che impedisce il librarsi dell’ingegno e dell’inventiva, un ostacolo alla costruzione di un pensiero libero. L’affermazione sembra in contraddizione con la figura del giurista positivo, quale indubbiamente è Franco. Ma, ad una considerazione più attenta, essa appare in sintonia con un giurista permeato di cultura classica che non dimentica la sua formazione e che, anzi, sbandiera, facendola vivere e rendendola attuale. « L’occupazione “preliminare” nel procedimento di espropriazione » (1) è dedicato « A Virgilio, al quale “occuparono” il campo » e viene riportato, in proposito, un passo dell’ecloga nona. La « nozione di controinteressato e modelli di processo amministrativo » (2) è dedicato « ad Eschilo che iscrisse il contraddittorio nel giudizio degli dei », con il richiamo al secondo episodio de « Le Eumenidi », ove Pallade Atena stabilisce la (*) Intervento al Seminario di studio sull’opera di Francesco Pugliese, Roma 9 febbraio 2001. (1) F. PUGLIESE, L’occupazione « preliminare » nel procedimento di espropriazione, Napoli, 1984. (2) F. PUGLIESE, Nozione di controinteressato e modelli di processo amministrativo I: per la tutela cautelare, Napoli, 1989.

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prima regola del processo: « Qui ci sono due parti, finora non ne ho sentito che una sola ». Queste dediche rappresentano un bisogno insopprimibile per Franco che, nelle opere innanzi dette, avverte l’esigenza di giustificarsi con le persone che ha più care al mondo, confessando: « volgendo alla conclusione di questo impegno, capisco perché avrei dovuto farne dedica ad Ester, Rosanna e Giuseppe Valerio, vittime, sia pur indocili, del mio lavoro. Ma questo è un fatto privato, che interessa solo noi » (3). In un interessante articolo su « appello e contraddittorio » (4), scritto a quattro mani con Lucio Iannotta, Suo compagno di viaggio nell’Università, nella professione di avvocato e nella vita, Eschilo è iscritto nell’albo di onore dei processualisti, quale precursore del principio del contraddittorio; Aristofane viene additato come chi, dilectando, castigat mores nelle « Vespe », ove è stigmatizzato dal Coro il principio audiatur et altera pars, nelle « Rane », in un confronto tra Eschilo ed Euripide quando il Coro attribuisce ad uno chiarezza ed all’altro sapienza, ma senza che si riesca ad individuare a quale dei due sia attribuita la chiarezza o la sapienza e ne « Le Nuvole », quando il discorso ingiusto riesce, con abilità forense, a parlare per secondo, dopo il discorso giusto, riportando la vittoria in base al canone dell’impianto del teatro comico e tragico greco; e ancora Menandro e Sofocle, Diomede ed Ulisse (5)... Questi richiami non sono mere citazioni erudite perché il pensiero di questi Autori viene indicato come la radice di un (3) F. PUGLIESE, L’occupazione “preliminare”, 242, nota 449. Anche nella monografia sul controinteressato, al termine dell’opera afferma: « ... conosco l’anima vasta dei pochi presumibili lettori tra i quali certamente non annovero Ester, Rosanna e Giuseppe Valerio: ma, per tollerare tempi e modalità del mio lavoro, quell’anima devono anch’essi possedere » (F. PUGLIESE, Nozione di controinteressato, cit., 323, nota 161). (4) L. IANNOTTA-F. PUGLIESE, Appello e contraddittorio, in questa Rivista, 1997, 1 e ss. (5) Nella presentazione della Giustizia amministrativa di G. Abbamonte e R. Laschena a Napoli il 12 novembre 1997, F. PUGLIESE, Giuseppe Abbamonte e Renato Laschena per la giustizia nel processo amministrativo, paragona i due Autori a Diomede ed Ulisse, ma senza indicare chi impersoni Ulisse e chi Diomede (p. 24).


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principio immanente e, per cosı̀ dire, ontologico allo stesso processo, quello del contraddittorio, che il diritto codificato, gli ordinamenti di common law e la nostra Costituzione non possono non contenere anche se non lo enunciassero espressamente, quasi sostanza intangibile della Costituzione materiale (6). La base culturale classica induce il giurista a considerare l’essenza del principio e a non accettare la limitazione derivante dalla specifica e contingente regola normativa, alla ricerca di spazi per l’esercizio della logica e per il dispiegarsi della fantasia e della creatività. Ed è proprio la fantasia, componente rilevante dell’intelligenza e che costituisce connotato caratterizzante dell’animo partenopeo di Franco, l’altro elemento che, unitamente alla cultura classica, induce il Nostro ad evadere dalla specifica disposizione normativa che appiattisce e smorza ogni guizzo. Egli è, per natura e formazione, un creativo e la sua opera è un prodotto originale che rispecchia la personalità dell’Autore. 2. Il processo amministrativo rappresenta il campo di elezione per un giurista come Franco. Infatti, il paragone del processo amministrativo con il processo civile o con quello penale denunzia una evidente diversità, quantitativa e qualitativa, del rapporto con le regole poste dal legislatore. La vastità, il numero, la completezza, la puntualità della normativa codicistica dei processi che si celebrano innanzi al giudice ordinario è monumentale rispetto al timido accenno di (6) Franco Pugliese, in relazione ai temi processuali trattati nelle sue opere, fa perno principalmente sul contraddittorio, ritenuta regola preliminare alla stessa esistenza di un giudizio e ne ricerca l’origine prima nei classici greci. Va sottolineato che, quasi sulla stessa scia, il principio audi alteram partem è cosı̀ connaturato al sistema inglese da essere ritenuto natural justice e da valere anche in assenza di una espressa previsione e pure nelle procedure amministrative che incidono sui diritti dei cittadini. D’ALBERTI M., Diritto amministrativo comparato, Bologna, 1992, 81, richiama note pronunzie giurisprudenziali inglesi sui casi del ’600 e del ’700 che riconducono il principio del right to be heard alla Medea di Seneca (Bagg’s case 1615) o, addirittura alla eternal law scolpita nella Bibbia quando Dio, prima di punire Adamo ed Eva, volle sentirli (Bentley’s case 1723).


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poche e scarne regole procedurali dettate dal legislatore per il processo amministrativo. Qui i principi e le regole vengono elaborate dalla giurisprudenza che supera e pone la sintesi nel rapporto dialettico della dottrina che costruisce il processo divaricandolo in due idee di fondo, tutt’ora presenti nell’elaborazione teorica, nonostante le affermazioni di diritto positivo al più alto livello costituzionale. La dottrina continua a dividersi, infatti, tra chi sostiene la giurisdizione oggettiva, mirata ad affermare l’interesse pubblico alla legittimità dell’azione amministrativa, e chi afferma l’istituzione del rimedio giurisdizionale per la tutela dell’interesse del ricorrente al bene pur in presenza dell’ineludibile disposto degli artt. 24, 103 e 113 Cost. che pongono la situazione giuridica soggettiva al centro della tutela. A seconda della impostazione di fondo, gli istituti processuali assumono una diversa colorazione in ordine alla tutela che involgono problemi di non poco momento. In questo agone nel quale vi è una cosı̀ importante contrapposizione dialettica, il giudice amministrativo cala soluzioni concrete per i singoli casi che, poi, vanno a costituire precedenti che, ripetuti nel tempo e nelle controversie, si consolidano e rappresentano, nella sostanza, ius positum, anche se, per la loro formazione e natura, sono soggetti, di per sé, ad adattamenti e mutamenti, a volte radicali. Il giurista ha ampie possibilità di manovra in un siffatto processo. È importante sottolineare che Franco Pugliese, pur evidenziando la dualità di impostazione in cui si dibatte il giudizio amministrativo, espressamente affermi, nella sua opera maggiore sul processo, di non prendere partito e di affrontare l’argomento, considerando ora l’uno ora l’altro presupposto e traendone le conseguenze, egli dice, senza apriorismi (7). La verità è che Egli non vuole sentirsi legato, intende affron(7) F. PUGLIESE, Nozione di controinteressato e modelli di processo amministrativo, cit., 1-19, ove pure si rinvia per la dottrina e le sue diverse posizioni sulla giurisdizione oggettiva e soggettiva, per gli ampi riferimenti nelle note.


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tare la ricerca, libero dal vincolo di dover seguire l’uno o l’altro filone, per non incontrare preclusioni di sorta nella soluzione da dare ai singoli problemi interpretativi e per sentirsi affrancato dal condizionamento che ha accompagnato la giurisdizione amministrativa sin dalla sua istituzione. Anche qui viene confermata l’idea di un giurista che soffre le limitazioni, non solo della norma, ma anche concettuali, considerate come una sorta di camicia di Nesso che non consente la libera espressione del pensiero e pone delle costrizioni che rendono anguste le prospettive di indagine e di studio. 3. Ciò, però, non deve indurre a ritenere che l’Autore si senta sciolto da ogni principio e sia, per cosı̀ dire, una meteora che vaghi nello spazio per un appuntamento con un corpo celeste su cui schiantarsi e disperdersi in un eclettico diffondersi di concetti. Egli stesso assume come ancoraggio irrinunziabile un determinato assetto di rapporti tra il diritto e lo Stato ove viene anteposta alla norma l’organizzazione, la struttura in cui l’individuo svolge la sua personalità. E, attraverso la nota teoria di Santi Romano, spiega che lo Stato è una soltanto delle possibili istituzioni e che la lex non coincide con il nomos, intendendosi quest’ultimo come « ciò che ha valore perché ritenuto valido, ciò che segue l’uso, la regola, il patrimonio di leggi non scritte; la “convenzione” che nasce dall’accordo fra gli uomini », animando un dibattito transtemporale tra Carl Schmitt, Santi Romano, Cicerone, Platone, Aristotele, Antifonte (8). Il pluralismo degli ordinamenti giuridici, il riconoscimento e la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo che nelle formazioni sociali, vengono coniugati con una lettura normativa attraverso l’art. 2 Cost., per trovare un sostegno positivo alla Sua impostazione. (8) F. PUGLIESE, op. ult. cit., 24, L’A. ritorna su nomos e lex in Per amministrare la felicità: dalla lex al nomos raccolto in Scritti recenti sull’Amministrazione « consensuale » nuove regole nuove responsabilità, Napoli, 1996, 91 e ss.


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È anche questa una scelta di libertà perché pone l’uomo e le organizzazioni sociali, nella loro diversità e varietà, come punto di riferimento che, coincidendo con l’esperienza e le possibili soluzioni diversificate che si possono determinare, non chiude alcun orizzonte, ma apre alla creatività ed alla flessibilità, secondo le esigenze proprie di un giurista che non accetta di essere costretto nei limiti della norma. Insomma, la soluzione adottata o, meglio, come Egli dice, l’« apriorismo » che coltiva, lo colloca, pur sempre, nella posizione dello studioso che non si preclude alcuna strada, ma persegue un obiettivo di libertà nella indagine, priva di condizionamenti, ed alla ricerca della sua verità. Ed alla Sua verità giunge, finendo per abbracciare senza riserve l’idea che il processo amministrativo debba assicurare il risultato di attribuire il bene giuridico al titolare dell’interesse legittimo in quanto spetti (9). Infatti, il porsi privo da condizionamenti e riserve nei confronti dell’oggetto del proprio studio, non significa, poi, non operare delle scelte di campo conseguenti alla ricerca ed alla propria libera elaborazione concettuale. Egli cala nel processo l’uomo, le organizzazioni sociali e la Sua esperienza di lavoro professionale e di vita, per cui è portato a dare risalto all’interesse materiale (quello al bene) ed all’ampliamento della tutela del ricorrente (10), come si coglie a (9) È chiara ed ormai acquisita la convinzione di F. PUGLIESE in Le nuove disposizioni in materia di giustizia rimodellano gli istituti processuali e l’attività amministrativa, in questa Rivista, 1999, 615 e ss. (10) F. PUGLIESE, L’occupazione preliminare, cit., spec. 227 e ss. Nella scia della considerazione dell’interesse sostanziale al bene, l’A. in Note minime in tema di « accertamento » e di effetti della decisione amministrativa di accoglimento del ricorso, in questa Rivista, 1993, 645 e ss. rileva che l’annullamento dell’atto deve conseguire all’accertamento che la regola del rapporto deve essere diversa nel confronto tra le posizioni dei due soggetti in contesa, ricorrente e controinteressato, per cui quando risultasse che la disciplina non cambierebbe, il giudice non deve pronunziare (un inutile) annullamento, perché rappresenterebbe un ingiustificato appesantimento dell’azione amministrativa la ripetizione di un atto dello stesso contenuto, ma purgato di vizi formali. È la posizione di chi dà rilievo all’illegittimità solo sostanziali dell’azione amministrativa che va estendendosi in dottrina; sia consentito un rinvio a E. FOLLIERI, La tutela risarcitoria degli interessi legittimi. Profili ricostruttivi con riferi-


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piene mani nella monografia su « L’occupazione preliminare nel procedimento di espropriazione ». Lı̀ si espongono soluzioni interessanti ed originali circa la proposizione di vizi da dedursi a seguito dell’effetto dell’occupazione acquisitiva, in caso di mancato previo deposito dell’indennità di esproprio non accettata (11), e si sottolinea come la tutela, piena ed efficace, si realizzi effettivamente solo nel processo cautelare, in conseguenza del principio dell’accessione invertita (12). 4. Proprio il rilievo dato all’uomo e all’interesse al bene lo spinge ad affrontare il tema del controinteressato in una ottica tesa a porre in evidenza come non vi sia sostanziale diversità tra l’interesse al bene del ricorrente e quello del controinteressato: tutti e due questi interessi sono coinvolti nell’azione amministrativa e vanno considerati, da parte dell’Amministrazione, alla pari di tutti gli altri interessi in contesa, senza pretermissioni ed esclusioni. Questa trama di interessi, transitata nel processo a seguito dell’impugnativa di chi vede leso il proprio interesse, non può portare ad ignorare l’omogeneo interesse del controinteressato (13). Deve valere pienamente il principio del contraddittorio, al punto che vengono proposti due modelli alternativi di processo amministrativo, quello dell’integrazione e quello della separazione. Il primo si conclude con una sentenza (se di accoglimento) che può dispiegare un effetto conformativo nei confronti della p.a., solo se i controinteressati — tutti i controinteressati — siano stati coinvolti nel processo, in modo che la successiva, mento al d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, in Trattato di diritto amministrativo, diretto da G. SANTANIELLO, vol. II, Padova, 1999, 188 e ss. e ivi i riferimenti di dottrina e giurisprudenza. (11) F. PUGLIESE, L’occupazione preliminare, cit., 227. (12) F. PUGLIESE, op. ult. cit., 228. (13) F. PUGLIESE, Nozione di controinteressato e modelli di processo amministrativo, cit., 65: l’interesse legittimo « esige effettiva e completa tutela giurisdizionale (tanto per il ricorrente, quanto per il controinteressato) ».


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obbligata azione amministrativa venga integrata con la sentenza dopo che sia stata data la possibilità, a tutte le parti, di far considerare gli interessi di cui sono portatrici. Il modello della separazione, invece, si conclude con una sentenza che lascia alla successiva competenza dell’Amministrazione la regolamentazione del rapporto, nel caso tutti i controinteressati sostanziali non siano stati parti (anche non costituite) nel processo. Il primo modello — quello dell’integrazione — non può essere seguito quando vi sia stata pretermissione di un controinteressato, dovendo prevalere il modello della separazione (14). Assume, quindi, rilevanza l’individuazione del controinteressato che non può essere rimesso al mero criterio formale suggerito dalla lettera della legge (15), per la quale è quello cui l’atto direttamente si riferisce, ma al criterio sostanziale di chi abbia, comunque, interesse alla contestazione, ivi compreso il c.d. controinteressato « occulto ». Interessante è la puntuale analisi sulla diversità « qualitativa », rispetto al ricorrente, della tutela del controinteressato che viene riscontrata nei momenti processuali più significativi (16), come pure l’acuta indagine sui macro fenomeni sociali e di aggregazione alla ricerca del controinteressato « forte » che, affrancandosi da una possibile verifica giurisdizionale, ottiene soddisfazione del suo interesse addirittura con legge, anziché con il provvedimento amministrativ (17). L’essenza della monografia sul controinteressato è nella ri(14) F. PUGLIESE, op. ult. cit., 64 e ss. (15) Art. 21 l. 6 dicembre 1971, n. 1034: « Il ricorso deve essere notificato tanto all’organo che ha emesso l’atto impugnato quanto ai controinteressati ai quali l’atto direttamente si riferisce... ». (16) F. PUGLIESE, op. ult. cit., 100 e ss. che sottolinea la diseguaglianza di tutela, a svantaggio del controinteressato: nel momento della legittimazione; nel riconoscimento delle « utilità strumentali »; nella necessità, per il controinteressato, di proporre ricorso incidentale, invece, di poter addurre solo eccezioni, nell’ipotesi in cui la p.a. non abbia rilevato alcuni vizi nei confronti della posizione del ricorrente; nel solo potere di contestazione dei motivi addotti dal ricorrente, senza possibilità, ad esempio, di integrare la motivazione dell’atto impugnato; ed in altri profili sino al giudizio di ottemperanza (cfr. p. 113 e ss.) (17) F. PUGLIESE, op. ult. cit., 146 e ss.


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cerca di una giustizia sostanziale che consenta tutela a tutti i controinteressati, in posizione di parità di armi processuali con il ricorrente, nel rispetto pieno del contraddittorio, principio primo di ogni processo la cui vigenza prescinde dalla stessa posizione normativa, essendo immanente all’ordinamento e affondando le radici sin nei classici dell’antica Grecia. 5. Nell’elaborazione, per cosı̀ dire, matura, l’idea del processo amministrativo è abbastanza definita negli aspetti più significativi. La situazione giuridica soggettiva propria della giurisdizione amministrativa, l’interesse legittimo, è eminentemente relazionale e tende all’attribuzione di un bene giuridico il cui risultato è proteso ad assicurare il giudizio amministrativo nella circolarità del processo cautelare, di cognizione e di ottemperanza. Il sindacato del giudice amministrativo supera l’atto ed il rapporto, per abbracciare la funzione amministrativa complessivamente considerata in una visione ampia in cui trovano necessaria collocazione anche gli interessi al bene giuridico del ricorrente e dei controinteressati e che prescinde dalla qualità, pubblica o privata, del soggetto che svolge la funzione, apprezzata nel suo significato di servizio (come ha ricordato prima il prof. Scoca). In questa visione ampia del sindacato del giudice, anche quello di mera legittimità, progredisce e si confonde con il sindacato di merito, fino alla sostituzione del giudice all’amministrazione, in un processo nel quale l’attività istruttoria è priva di condizionamenti (18). È un quadro del processo amministrativo che rappresenta ancora un obiettivo più che un traguardo raggiunto dalla giurisprudenza. In esso sono presenti una radicata convinzione di perseguire la giustizia sostanziale, di dare tutela alla effettiva si(18) Questi punti « fermi » sono indicati da F. PUGLIESE nell’ultima relazione — quasi un manifesto sul processo amministrativo — che ha tenuto al convegno svoltosi a Napoli, presso la sede del Tar Campania il 28 novembre 1998 e che dal titolo Le nuove disposizioni in materia di giustizia rimodellano gli istituti processuali e l’attività amministrativa è stata pubblicata in questa Rivista, 1999, 615 e ss.


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tuazione fatta valere dalle parti che è l’interesse al bene, di apprestare un processo efficace ed efficiente, di abbandonare la « timidezza » del giudice nei confronti della pubblica amministrazione, di dotare il nostro Paese di una giustizia amministrativa al passo dell’Europa. Questo insieme di elementi conducono al risultato di un processo giusto e celere i cui istituti sono influenzati da principi che prescindono dal diritto positivo e che si collegano: alla pluralità degli ordinamenti giuridici; ai diritti inviolabili dell’uomo, come singolo e nelle organizzazioni sociali; alla democraticità dell’amministrazione che fa spostare l’accento dal potere alla funzione; al conseguimento del bene giuridico, in quanto spettante; al contraddittorio; e alla terzietà del giudice. Principi che mi portano a qualificare Francesco Pugliese come un giusnaturalista laico (19), di grande capacità creativa.

(19) « Laico » è usato nel senso di « tecnico », non in contrapposizione a religioso perché, anzi, Franco Pugliese è profondamente cristiano.


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LA COSTITUZIONALITÀ DEL NUOVO ASSETTO DEL RIPARTO DI GIURISDIZIONE DOPO L’ADUNANZA PLENARIA N. 4 DEL 2003 SOMMARIO: 1. Un giudizio di G. Berti per iniziare. — 2. Un quadro d’insieme delle recenti trasformazioni del sistema di giustizia amministrativa. — 3. Attualità del dubbio di costituzionalità: la recente ordinanza di rimessione del Tribunale di Roma. — 4. Le posizioni della dottrina espresse dopo il d.lgs. n. 80 del 1998 ed in vista della l. n. 205 del 2000. — 5. La novità della decisione della Plenaria n. 4 del 2003. — 6. La difficile ricerca di un nuovo fondamento del sistema di riparto.

1. Per iniziare mi sembrano pertinenti e utili, tanto da poter costituire guida all’esposizione, le parole di G. Berti, che, nel commentare l’art. 103 Cost. ed il rapporto fra posizioni giuridiche soggettive della persona umana ed evoluzione del sistema di giustizia amministrativa, cosı̀ si esprimeva: « Di fronte al problema della responsabilità dello Stato che pure dovrebbe trovare un punto di appoggio conclusivo e finale negli artt. 103 e 113 Cost., si continua ad utilizzare l’interesse legittimo come figura di per se stessa assolutoria nei confronti dello Stato, quando l’attività di questo abbia prodotto danni di ordine economico e morale. Il fatto che si continui a negare la responsabilità per violazione di interessi legittimi, sta a significare che si attribuiscono a questa figura significati di soggezione, di non libertà, di non responsabilità, e ciò contro la valorizzazione della persona e dei diritti, che pure dovrebbe emergere da una lettura integrale della Costituzione. » (1). 2.

Occorre chiedersi se questo giudizio cosı̀ duro nei con-

(1) Cfr. G. BERTI, Norme sulla giurisdizione art. 113 in AA.VV., Commentario della Costituzione, a cura di G. BRANCA, La magistratura, t. IV, Bologna-Roma, 1987, 99.

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fronti della figura dell’interesse legittimo debba essere confermato, ora che si iniziano a diradare le nebbie che hanno circondato alcuni passaggi epocali del nostro sistema di giustizia, a tutti noti, sicché è possibile rammentarli con brevità: il d.lgs. n. 80 del 1998 (2), la sentenza della Cass., Sez. un., n. 500 del 1999 (3), la successiva sentenza della Corte cost. n. 292 del 2000 (4), la l. n. 205 del 2000 (5), gli interventi progressivi della Adunanza Plenaria e della Corte di Cassazione che, insieme, stanno costruendo i lineamenti del nuovo sistema di giustizia, fino alla recente sentenza dell’Ad. plen. n. 4 del 2003 (6), che ha (2) Cfr. AA.VV., La nuova giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (art. 33-35 d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80), commentario a cura di A. TRAVI, con la collaborazione di G. AVANZINI e L. BERTONAZZI in Le nuove leggi civili commentate, 1998, 207. (3) Cfr. Cass., Sez. un., 22 luglio 1999, n. 500, in Foro it., 1999, 3201, con nota di CARANTA, La pubblica amministrazione nell’età della responsabilità; ALB. ROMANO, Sono risarcibili ma perché devono essere interessi legittimi?, ivi, 3222 e ss.; SCODITTI, L’interesse legittimo ed il costituzionalismo. Conseguenze della svolta giurisprudenziale in materia risarcitoria, ivi, 3226 e ss. Cfr. altresı̀ CUGURRA, Risarcimento dell’interesse legittimo e riparto di giurisdizione, in questa Rivista, 2000, 1 e ss.; GRECO, Interesse legittimo e risarcimento danni: crollo di un pregiudizio sotto la pressione della normativa europea e dei contributi della dottrina, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1999, 1126; MOSCARINI, Risarcibilità degli interessi legittimi e termini di decadenza, in Giur. it., 2000, I, 20; LEDDA, Agonia e morte ingloriosa dell’interesse legittimo, in Foro amm., 1999, 2713; TORCHIA, La risarcibilità degli interessi legittimi: dalla foresta pietrificata al bosco di Birnam, in Giorn. dir. amm., 1999, 844; ORSI BATTAGLINI e MARZUOLI, La Cassazione sul risarcimento danno arrecato dalla pubblica amministrazione: trasfigurazione e morte dell’interesse legittimo, in Dir. pubbl., 1999, 487; DALFINO, La fine del dogma dell’irrisarcibilità degli interessi legittimi: luci ed ombre di una svolta storica, in Foro amm., 1999, 2007; PROTTO, È crollato il muro della irrisarcibilità degli interessi legittimi: una svolta epocale, in Urb. ed app., 1999, 1091, BERTI, La giustizia amministrativa dopo il d.lgs. n. 80/1998 e la sentenza n. 500/1999 della Cassazione, in Dir. pubbl., 2000, 1 e ss.; SCOCA, Risarcibilità ed interesse legittimo, ivi, 13 e ss.; LUMINOSO, Danno ingiusto e responsabilità della p.a. per lesione di interessi legittimi nella sentenza n. 500/1999 della Cassazione, ivi, 55 e ss.; MENCHINI, Il nuovo assetto delle tutele giurisdizionali avverso gli atti amministrativi illegittimi, ivi, 81 e ss.; ANGIOLINI, Risarcimento danni, pubblica amministrazione e costituzione, ivi, 133 e ss. (4) Cfr. Corte cost., 17 luglio 2000, n. 292, in Foro it., 2000, I, 2394 con nota di TRAVI, Giurisdizione esclusiva e legittimità costituzionale. (5) Cfr. AA.VV., Il nuovo processo amministrativo dopo due anni di giurisprudenza, a cura di F. CARINGELLA e M. PROTTO, Milano, 2002. (6) Cons. Stato, Ad. plen., 26 marzo 2003, n. 4, in Cons. St., 2003, I, 533 e ss.; che ha sancito l’inammissibilità di un giudizio incidenter tantum di illegittimità di un


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sancito la regola della pregiudizialità dell’annullamento dell’atto amministrativo rispetto all’azione di risarcimento. Cosa risulta dal quadro d’insieme? In primo luogo vi è l’allargarsi delle ipotesi di giurisdizione esclusiva ben oltre l’attribuzione di semplici blocchi di materie (7) al giudice amministrativo, configurato — secondo una lettura organicistica — dalla l. n. 205 del 2000 come il giudice della funzione amministrativa intesa in senso oggettivo (8), anche quando svolta da soggetti privati, il giudice tutore dei valori sottesi all’art. 97 Cost., il garante dell’imparzialità e del buon andamento amministrativo. Poi va considerata la caduta del dogma dell’irrisarcibilità dell’interesse legittimo, evento che ha aperto un nuovo quadro di indagine e di evoluzione al diritto amministrativo, dall’atto alla responsabilità, dall’illegittimità all’illecito, dalla tutela ripristinatorio-conformativa alla tutela risarcitoria. provvedimento amministrativo ai soli fini del giudizio risarcitorio nel vigente sistema di giustizia amministrativa nel quale sono previsti rigidi termini di impugnazione e non è consentita la disapplicazione da parte del giudice di atti di natura non regolamentare. Ne consegue che l’azione di risarcimento danni proposta unitamente all’azione di annullamento od in via autonoma, è ammissibile e resta procedibile solo a condizione che il provvedimento lesivo sia stato tempestivamente impugnato e sia coltivato con successo il relativo giudizio di annullamento. L’accertamento dell’illegittimità dell’atto necessario ai fini della valutazione della fattispecie di illecito è possibile solo nel giudizio di annullamento, in presenza del sistema di giustizia amministrativa e dell’attitudine dell’atto a divenire inoppugnabile. (7) Sulla nozione di « blocchi di materie » cfr. R. GAROFOLI, Sviluppi in tema di giurisdizione amministrativa e regole costituzionali: organo indiretto, nozione comunitaria di amministrazione aggiudicatrice, riparto per blocchi di materie (d.lgs. n. 80 del 1998) (Nota a Cons. Stato, Sez. VI, 28 ottobre 1998, n. 1478, Soc. A & I Della Morte c. Soc. Interporto toscano Vespucci), in Foro it., 1999, III, 180. (8) Cfr. per tale lettura Cons. Stato, Ad. plen., 30 marzo 2000, n. 1, in Foro it., 2000, III, 365, con nota di FRACCHIA; Cons. St., 2000, I, 767; Giorn. dir. amm., 2000, 499 (m), con nota di TRAVI; Corr. giur., 2000, 594, con nota di CARBONE; Giust. civ., 2000, I, 1292, con nota di SASSANI; Giorn. dir. amm., 2000, 556; Urb. e app., 2000, 617, con nota di PROTTO; Contr. St. e enti pubbl., 2000, 471, con nota di ZUCCOLO; Rass. dir. farmaceutico, 2000, 525; Foro amm., 2000, 768; Giust. civ., 2000, I, 2163 (m), con nota di ANTONIOLI; Riv. amm., 2000, 179, con nota di CERASI; Ammin. it., 2000, 1147; Giur. it., 2000, 2177; Finanza loc., 2000, 1585; Riv. it. dir. pubbl. com., 2000, 518, con nota di ANTONIOLI; Ascotributi, 2000, 123; Rass. giur. en. el., 2000, 160, con nota di MANZI; Guida al dir., 2000, fasc. 15, 92, con nota di CARUSO, VOLPE, Rass. amm. sanità, 2000, 78.


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La tensione avvertita nel momento di passaggio, ma saggiamente governata (9), fra le giurisdizioni, i dubbi di costituzionalità del nuovo assetto, il richiamo al diritto comune ed alla funzione del giudice ordinario come giudice naturale dei diritti soggettivi da un lato ed alle esigenze di specializzazione concentra(9) Va considerato infatti che all’affermazione della regola della pregiudizialità da parte dell’Adunanza Plenaria, ha fatto seguito, con singolare immediata consonanza la Cassazione, che si è attestata, con motivazione ancor più diffusa, sullo stesso principio. Cfr. Cass., Sez. II, 1 aprile 2003, n. 4538, in D&G Diritto e Giustizia, rivista informatica del 15 aprile 2003. Sulla questione della pregiudizialità il dibattito dottrinale è stato ed è vivacissimo, senza pretese di esaustività solo per citare le opinioni consonanti con le soluzioni offerte dal diritto vivente cfr. A. SCOGNAMIGLIO, Giurisdizione esclusiva e risarcimento del danno, in questa Rivista, 2001, 1090, che sostiene l’irrisarcibilità del danno nei confronti della p.a. se non si è prima provveduto a rimuovere l’atto illegittimo, ma motiva sulla base dell’art. 1227, comma 1, c.c.; CIRILLO, Il danno da illegittimità dell’azione amministrativa ed il giudizio risarcitorio — Profili sostanziali e processuali, Padova, 2001, 313 e ss., che sostiene che il giudizio amministrativo è sostanzialmente un giudizio di annullamento e che la tutela risarcitoria andrebbe collocata nella sua struttura impugnatoria; FALCON, Il giudice amministrativo tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di spettanza, in questa Rivista, 2001, 287, che sostiene che un danno da provvedimento non rimosso non può mai essere considerato ingiusto; MOSCARINI, Risarcibilità degli interessi legittimi e termini di decadenza, in Giur. it., 2000, I, 1 e ss., e in questa Rivista, 2001, 7 e ss., che rimarca la necessità di impugnare l’atto, a fini di salvaguardia del pubblico interesse, la cui certezza e definitività sarebbero vulnerate da una prospettiva contraria; MONTESANO, I giudizi sulle responsabilità per danni e sulle illegittimità della pubblica amministrazione, in questa Rivista, 2001, 583, che sottolinea la natura accessoria della domanda di risarcimento danni rispetto alla domanda di annullamento (con questa prospettiva — che lo scrivente sente persuasiva — si apre il tema della tutela risarcitoria come mera tutela di completamento e chiusura del sistema di giustizia amministrativa). All’opposto si colloca chi ritiene che l’interesse pubblico sarebbe comunque preservato dal potere di autotutela e che i diritti soggettivi perfetti al risarcimento danni non possono essere sacrificati sull’altare del pubblico interesse cfr. INTERLANDI, Azione di annullamento ed azione risarcitoria: la regola della pregiudizialità esiste ancora ? Alcune riflessioni su una sentenza a passo di gambero, in questa Rivista, 2002, 128. Nello stesso senso R. CARANTA, Il ritorno dell’irresponsabilità, in Urb. e app., 2001, 675. F. CARINGELLA, Il nuovo processo amministrativo dopo la legge n. 205-2000, Milano, 2001, 2002, I e II ed., cit., ampiamente motiva la tesi dell’autonomia delle due azioni. L’aggiramento del termine decadenziale non si avrebbe perché la condanna al risarcimento, previo accertamento dell’illegittimità incidentale dell’atto, non inciderebbe sull’assetto di interessi realizzato dal provvedimento ma si muoverebbe su un altro piano. In tal senso V. LOPILATO, Pregiudiziale amministrativa e risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi: unione perfetta o intollerabile convivenza?, in Urb. e app., 2001, 1134.


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zione, ed effettività della giustizia dall’altro, sono i momenti caratterizzanti questa temperie storica. In ultimo v’è l’arricchimento dei poteri processuali del giudice amministrativo, con l’introduzione della consulenza tecnica (10), dei riti speciali (11), di varie figure di condanna (12), di nuovi inediti poteri di ottemperanza (13), di una più ampia strumentazione cautelare (14) che hanno fatto parlare di giurisdizione piena del giudice amministrativo (15). Va anche tenuto presente il dipanarsi lento dei problemi, (10) In tema cfr. D. PALLOTTINO, Cenni sulla fase istruttoria nel processo amministrativo tra esigenze di celerità e ambiguità del risultato nella legge n. 205 con particolare riferimento alla consulenza tecnica d’uffıcio, in Cons. St., 2001, II, 1029. F. CINTIOLI, Consulenza tecnica d’uffıcio e sindacato giurisdizionale della discrezionalità tecnica, in Cons. St., 2000, II, 2371. L. IEVA, La consulenza tecnica nel nuovo processo amministrativo, in Trib. amm. reg., 2001, II, 241. A. ROTA, Valutazioni tecniche e consulenza tecnica nel giudizio amministrativo di legittimità, in Studium iuris, 1999,676. Sia consentito il rinvio anche a G. MONTEDORO, La stipula del contratto e la cognizione del giudice amministrativo sulla discrezionalità tecnica mediante consulenza ove si analizzano insieme le questioni dell’incidenza dell’annullamento dell’aggiudicazione sul contratto e quella della sindacabilità della discrezionalità tecnica delle stazioni appaltanti (Nota a Tar Friuli-Venezia Giulia, 10 febbraio 2001, n. 44, Soc. Mobile service c. Az. serv. sanitari 2, Isontina e Tar Lombardia, sez. III, 11 dicembre 2000, n. 7702, Soc. Promelit c. Com. Cernusco sul Naviglio) in Urb. e app., 2001, 552. In generale sull’istruzione probatoria cfr. da ult. G. PESCE, Poteri istruttori e mezzi di prova nel processo amministrativo, Milano, 2003. (11) Cfr. ex multis F. CARINGELLA e F. DELLA VALLE, I processi amministrativi speciali, Milano, 1999 e N. SAITTA, I provvedimenti monocratici nel processo amministrativo, Milano, 2002, nonché I giudizi in camera di consiglio nella giustizia amministrativa, Milano, 2003. (12) Cfr. R. GAROFOLI e M. PROTTO, Tutela cautelare, monitoria e sommaria nel nuovo processo amministrativo. Provvedimenti di urgenza, tutela possessoria, decreti ingiuntivi e ordinanze ex artt. 186-bis e 186-ter c.p.c., Milano, 2002. (13) Cfr. G. MONTEDORO, Ottemperanza speciale contra silentium ed ottemperanza anomala nel processo amministrativo (Nota a Cons. Stato, Sez. IV, 1 febbraio 2001, n. 396, Soc. Saturnia c. Com. Udine). Di recente sul tema del processo di esecuzione cfr. R. TARULLO, L’esecuzione immediata della sentenza amministrativa, Torino, 2003; L. FERRARA, Dal giudizio di ottemperanza al processo di esecuzione. La dissoluzione del concetto di interesse legittimo nel nuovo assetto della giurisdizione amministrativa, Milano, 2003. (14) Cfr. G. MONTEDORO, La tutela cautelare nel processo amministrativo, in www.lexfor.it, rivista informatica, Arch. dir. amm. - opinioni. (15) A. POLICE, Il ricorso di piena giurisdizione davanti al giudice amministrativo - II: Contributo alla teoria dell’azione nella giurisdizione esclusiva, Padova, 2001 In precedenza A. POLICE, Il ricorso di piena giurisdizione davanti al giudice am-


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nella costante tensione della dottrina e nell’operare della pratica giudiziaria, nella saggezza dell’Adunanza Plenaria, che, per quanto si evince dai suoi prudenti non liquet su alcune scottanti questioni, forse troppo repentinamente rimesse al giudice della nomifilachia, legge evidentemente la sua funzione, in questa fase storica, come più incline all’ascolto delle voci dell’intenso dibattito giurisprudenziale e dottrinale che all’imposizione illuministica di una soluzione ermeneutica al posto di un’altra. Il risultato sembra un inedito sviluppo, dal corpo e dai sedimenti della storia della giustizia amministrativa, di nuove linee di indirizzo giurisprudenziale che non devono essere svalutate, criticate con quell’« astratto (illuministico) furore » di miglioramento riformatore che è talvolta nemico del bene. In particolare di fronte all’approdo della affermata pregiudizialità dell’annullamento rispetto al risarcimento, prima motivato dalle note sentenze del Cons Stato, Sez. IV, n. 952 del 2002 e Sez. VI, n. 3338 del 2002, non ha senso prospettare un idilliaco mondo nel quale, dopo la sentenza n. 500 del 1999, il giudice ordinario avrebbe offerto tutela con immediatezza, paragonandolo alle odierne asperità del giudizio amministrativo che passa dalle forche caudine dell’annullamento, dimenticando che, per secoli, quella tutela risarcitoria è stata negata proprio dal giudice ordinario, e che, evolutosi l’ordinamento in forme tali da doverla ammettere, le regole della sua equilibrata somministrazione sono ancora tutte da costruire. Sul tema — e non dirò di più, proponendomi altro scopo con questo breve scritto — mi sembrano ormai in campo opzioni ideologiche, che vengono a dividere processualcivilisti e studiosi del processo amministrativo, giudici ordinari ed amministrativi, scomodandosi ora la forza della ragione ora le ragioni della storia, a sostegno delle possibili diverse ricostruzioni del moderno assetto della tutela risarcitoria nei confronti della pubblica amministrazione. ministrativo, Padova, 2000 e S. CASSESE, Verso la piena giurisdizione del giudice amministrativo: il nuovo corso della giustizia amministrativa italiana, in Giorn. dir. amm., 1999, 1221.


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Vi sono anche innumerevoli eleganti analisi, che raggiungono solo il risultato di aumentare la complessità del nodo proponendosi le classiche finalità esegetiche, difficilmente componibili perché sottese a diverse preferenze culturali ed ideali. Sembra utile invece fermarsi a constatare un embrione di formazione del prossimo diritto vivente, un frammento di diritto certo, dopo Cons. Stato, Ad. plen., n. 4 del 2003 e Cass., Sez. II, n. 4538 del 2003. Il diritto certo o meglio la certezza del diritto è sempre un vantaggio, almeno per chi di certezze, nella vita, non sente di poterne raggiungere molte. Ora sappiamo che, a fronte del potere amministrativo autoritativo, specie se discrezionale, illegittimamente esercitato, per essere risarciti bisogna avere eliminato il provvedimento dal mondo giuridico, la presenza dell’atto è elemento costitutivo dell’illecito, ma la ragione risarcitoria in punto di « ingiustizia » del danno è valutabile solo se l’atto, imperativo, avente attitudine a divenire inoppugnabile a tutti gli effetti, legittimo per presunzione, sia stato contestato nei termini e nelle forme previste dall’azione di annullamento. Il risarcimento diviene cosı̀, sul piano processuale dell’ammissibilità dell’actio, consequenziale all’annullamento, mentre nessun dubbio sussiste sul fatto che esso, sul piano del diritto sostanziale, è consequenziale, in presenza di altre condizioni, alla violazione dell’interesse legittimo, che, tuttavia, può essere fatta constare, nel nostro ordinamento, solo con l’azione di annullamento. Né le cose mutano in giurisdizione esclusiva: il problema è sempre l’eventuale sussistenza, in quell’ambito, di un potere autoritativo, con la sua attitudine a consolidare in breve tempo assetti di interesse, fatti oggetto di un precetto posto unilateralmente dalla p.a. con il provvedimento. Questo è lo Stato a diritto amministrativo e di qui non si passa sembra dire il giudice amministrativo, l’interesse legittimo, peraltro, nonostante la affermata pregiudizialità dell’annullamento rispetto al risarcimento, si è definitivamente aperto


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alla spettanza del bene, come ha notato G. Falcon, sicché, sia pure mediante l’annullamento pregiudiziale, sia pure a mezzo del classico processo amministrativo che accompagna l’azione amministrativa, si pone il problema della tutela dell’aspirazione del cittadino al bene della vita, superandosi quella sensazione di Berti che legava interesse legittimo e soggezione (16). L’esito, che appare a chi scrive persuasivo sul piano ermeneutico, va nondimeno verificato sul piano della legittimità costituzionale, poiché qui abbiamo un’azione di risarcimento danni che si atteggia in modo diverso rispetto alle regole di diritto comune e, soprattutto abbiamo la devoluzione dell’azione ad un giudice diverso dal giudice ordinario, mediante una norma, l’art. 7, che lega giurisdizione generale di legittimità e giurisdizione consequenziale sul risarcimento danni in modo inedito, quasi tale da configurare un tertium genus fra giurisdizione di legittimità e giurisdizione esclusiva (17). Il tema appare attuale in considerazione della recente ordinanza del Giudice unico del Trib. Roma, sez. II, 11 ottobre 2002, recentemente pubblicata sulla Gazzetta Uffıciale del 7 maggio 2003, che ha dubitato della conformità a Costituzione della norma di cui all’art. 34, comma 1 del d.lgs. n. 80 del 1998, come sostituito dall’art. 7 della l. n. 205 del 2000, nella parte in cui devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto gli atti, i provvedimenti ed i comportamenti delle amministrazioni pubbliche e dei sog(16) Sul peculiare rapporto fra soggezione e potere cfr. S. ROMANO, Frammenti di un dizionario giuridico Poteri Potestà, Milano, 1983. Tale rapporto, va « riletto » in chiave di spettanza, dopo la vicenda della risarcibilità dell’interesse legittimo, ma la spettanza del bene da parte del titolare dell’interesse legittimo è sempre una conseguenza dell’esercizio del potere mai una situazione giuridica indipendente da esso, come avviene nelle figure del diritto soggettivo e del correlativo obbligo. (17) In realtà la Carta Costituzionale non consente, ai fini del riparto secondo situazioni giuridiche soggettive, un tertium genus fra diritti soggettivi ed interessi legittimi, per cui o vi è interesse legittimo o vi è diritto soggettivo; ma il riparto per blocchi di materie può avvenire proprio nei campi in cui è difficile distinguere l’una posizione dall’altra. In tema di risarcimento danni da provvedimento illegittimo distinguere è difficile poiché se si guarda alla situazione giuridica lesa essa è un interesse legittimo, se si guarda alla situazione giuridica azionata essa è un diritto soggettivo.


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getti alle stesse equiparati, in materia urbanistica ed edilizia (18). Il caso che ha dato origine all’ordinanza di rimessione è quello di una consueta azione risarcitoria esperita in relazione al danno da occupazione appropriativa (19), realizzata in assenza del decreto di esproprio ma in presenza di dichiarazione di pubblica utilità (20). Gli argomenti utilizzati dal giudice rimettente sono interessanti anche ai fini dell’esame della tematica della costituzionalità della devoluzione del risarcimento danni da violazione di interessi legittimi, poiché sono formulati in via generale, tale da contestare l’impianto della l. n. 205 del 2000 per intero, costituendo un precedente che potrebbe essere fatto valere anche nel caso di azioni risarcitorie consequenziali all’annullamento dell’atto amministrativo. I parametri di costituzionalità invocati sono quelli di cui agli artt. 3, 24, 102, 103, 11 e 113 della Carta fondamentale. Il giudice rimettente — trattando della sospetta violazione dell’art. 103 Cost. — non dubita intanto sull’ampiezza della giurisdizione esclusiva, non esclude che il giudice amministrativo debba giudicare anche sulla materia degli espropri di fatto, rientrando nell’urbanistica ogni aspetto dell’uso del territorio, anche sul piano gestionale della attuazione delle scelte pianificate (invero cosı̀ è con l’unica eccezione delle c.d. occupazioni usurpative) (21). Ritiene che il fondamento della giurisdizione esclusiva sia (18) Cfr. Trib. Roma, sez. II civ., ord. 11 ottobre 2002, in D&G, Diritto e giustizia, del 7 giugno 2003 che dubita che la nuova giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia urbanistica ed edilizia si sia risolta nell’istituzione di un nuovo giudice speciale. (19) L’occupazione appropriativa è la ragione d’innesco della controversia su cui si è pronunciata anche l’Adunanza Plenaria n. 4 del 2003. Questo controverso istituto è un punto cruciale del rapporto fra diritto pubblico e diritto privato. In tema, per nostre considerazioni cfr. G. MONTEDORO, L’occupazione appropriativa dopo il d.p.r. 8 giugno 2001 n. 327, in Urb. e app., 2001, 1171. (20) Altrimenti avendosi — come è noto — il diverso fenomeno dell’« occupazione usurpativa », su cui non v’è giurisdizione del giudice amministrativo. (21) Per Cass., Sez. I, 28 marzo 2001, n. 4451, in Foro it. Rep., Espropriazione per p.u. n. 328 in tema di espropriazione, l’occupazione c.d. « appropriativa » va di-


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l’intreccio inestricabile fra situazioni di diritto soggettivo e di interesse legittimo, intreccio che fa ritenere preferibile affidare la materia ad un solo giudice piuttosto che segmentarla (22). Rileva tuttavia che l’art. 7 della novella non è connotato dall’attribuzione al giudice amministrativo di posizioni aventi quali caratteristica tale intreccio (23). La giurisdizione su meri comportamenti causativi di danno nella materia urbanistica — al pari di quella sul risarcimento dei danni da provvedimento illegittimo — riguarda posizioni giuridiche del cittadino di diritto soggettivo, e precisamente il diritto soggettivo all’integrità del patrimonio (24). stinta dalla c.d. « occupazione usurpativa », configurabile, a differenza della prima, soltanto in assenza (originaria o sopravvenuta) di una dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, cosı̀ che l’acquisizione del bene alla mano pubblica non consegue automaticamente (come nell’occupazione appropriativa) all’irreversibile trasformazione di esso, ma è logicamente e temporalmente successiva, e dipende da una scelta del proprietario usurpato che, rinunciando implicitamente al diritto dominicale, opta per una tutela (integralmente) risarcitoria in luogo della (pur possibile) tutela restitutoria; ne consegue che, a differenza dell’ipotesi di occupazione appropriativa, non è applicabile all’occupazione usurpativa, quanto alla liquidazione dei danni, lo ius superveniens di cui al comma 7-bis dell’art. 5-bis l. n. 359 del 1992, atteso che il riferimento legislativo alle « occupazioni illegittime di suoli per causa di p.u. » esprime pur sempre un collegamento teleologico con le finalità perseguite a mezzo della procedura espropriativa, collegamento legittimamente predicabile nel solo caso di occupazione appropriativa (nell’affermare il principio di diritto che precede la suprema corte ha, peraltro, nel caso di specie, ritenuto applicabile l’art. 5-bis, comma 7-bis cit. nella quantificazione del danno risarcibile, poiché, pur in assenza di qualsivoglia dichiarazione di p.u., il giudice di prime cure aveva qualificato come « appropriativa » l’occupazione de qua, e, ciononostante, non erano state sollevate doglianze dalle parti, sı̀ che la questione era divenuta irretrattabile per effetto del giudicato interno formatosi sul punto). Il Consiglio di Stato ha ritenuto esistente la propria giurisdizione esclusiva sull’azione risarcitoria da occupazione appropriativa, o accessione invertita in costanza di titolo, ma ha escluso la propria giurisdizione sull’occupazione sine titulo anche detta occupazione usurpativa (Cons. Stato, Sez. IV, 9 luglio 2002, n. 3819, in Cons. St., 2002, I, 1542). (22) In contrario potrebbe osservarsi che la dubbia qualificazione della situazione giuridica soggettiva tutelabile in caso di danno da provvedimento illegittimo sembra costituire un caso paradigmatico di situazione devolvibile alla giurisdizione esclusiva. (23) Eppure l’urbanistica e l’edilizia sono i campi di elezione del potere amministrativo di pianificazione, mentre il risarcimento danni da provvedimento illegittimo è una situazione ancipite par excellence. (24) Ma in contrario, va osservato che, ove si volesse utilizzare tale categoria


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Vi sarebbe malgoverno dell’art. 103 da parte del legislatore poiché sarebbe violata la ragione principale posta a base della costituzione di un settore di giurisdizione esclusiva ossia la difficoltà di individuazione del giudice ordinariamente dotato di giurisdizione. Sul piano del diritto di difesa e di azione in giudizio di cui all’art. 24 Cost. il Tribunale di Roma solleva questione con riguardo al rischio di orientamenti difformi delle due diverse giurisdizioni con riguardo al medesimo diritto all’integrità del patrimonio. Lo stesso diritto sarebbe difendibile secondo moduli differenti senza alcuna giustificazione a seconda della sussistenza o meno del rilievo di una funzione amministrativa (25). Poi il nuovo riparto avrebbe fatto sorgere un giudice speciale in violazione del divieto di cui all’art. 102 Cost. Si parte dalla sostenibilità del principio di unità della giurisdizione a fronte del quale la ragione della sopravvivenza del giudice risiede solo nella possibilità intravista dai costituenti di potere continuare ad usufruire di una specializzazione già acquisita dai giudici amministrativi (26). — il diritto soggettivo all’integrità del patrimonio — per dissolvere l’interesse legittimo, occorrerebbe osservare che essa, in campo privatistico, è nozione ancor più vaga di quella, formatasi nel campo pubblicistico, di interesse legittimo, poiché, è stato notato, il patrimonio è un insieme, un complesso, un fascio di situazioni giuridiche soggettive spettanti ad un soggetto, sicché il diritto all’integrità del patrimonio si risolverebbe nel diritto di essere lasciati in pace, di non essere lesi, o si dovrebbe specificare nelle singole situazioni giuridiche che del patrimonio fanno parte. In tema, al fine di valutare l’origine « pretoria » della nozione cfr. A. THIENE, Uso giurisprudenziale del diritto all’integrità del patrimonio, in Nuova giur. civ. comm., 2000, II, 34 e ss. (25) Invero il diritto vivente dimostra una certa stabilità degli orientamenti giurisprudenziali della giurisprudenza amministrativa, che elabora le proprie categorie proprio a partire dalla giurisprudenza civile e si pensi alla tematica del danno da perdita di chanches. È poi tutta da dimostrare l’identità delle situazioni risarcibili (nessuna esclusa) che derivino o meno da provvedimento illegittimo. (26) In tema cfr. R. GAROFOLI, Unicità della giurisdizione e indipendenza del giudice: principi costituzionali ed effettivo sviluppo del sistema giurisdizionale in questa Rivista, 1998, 121, ove riferimenti. Cfr. anche R. CARANTA, Tutela dei diritti nei confronti della p.a. ed interesse legittimo. Prospettive di unità della giurisdizione, in Dem. e dir., 1997, 133. Si tratta di scritti maturati successivamente al convegno su « Unità della giurisdizione fra mito e realtà: dal riparto per materie al pubblico mini-


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Si ravvisa nella l. n. 205 del 2000 una normativa che istituisce un giudice naturale della pubblica amministrazione prescindendo dalle situazioni giuridiche soggettive azionate, configurando quindi il giudice amministrativo come il giudice dell’amministrazione e non l’organo di tutela della giustizia nell’amministrazione (27). Si delinea la natura di giudice speciale del giudice amministrativo anche con riferimento alle sue peculiarità ordinamentali: l’esistenza di consiglieri di Stato di nomina politica; la nomina del Presidente del Consiglio di Stato da parte del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio, su delibera del Consiglio dei Ministri, sentito il parere del Consiglio di Presidenza; le modalità di nomina del Segretario Generale del Consiglio di Stato, con decreto del Presidente del Consiglio, su proposta del Presidente del Consiglio di Stato, sentito il Consiglio di Presidenza; la speciale competenza del Presidente del Consiglio sulle azioni disciplinari avverso i magistrati amministrativi; l’avvicendamento dei consiglieri di Stato fra Sezioni consultive e giurisdizionali; l’ampia possibilità per i magistrati amministrativi di svolgimento di funzioni giuridico amministrative presso le amministrazioni dello Stato. Sono temi conosciuti e, se è consentito, anche un po’ frusti (28). stero universale » tenutosi a Bari il 13-15 giugno 1996, i cui atti purtroppo non sono stati editati. (27) Il giudice amministrativo, anche dopo la l. n. 205 del 2000 continua ad essere essenzialmente il giudice dell’interesse legittimo, tutelato anche in forma risarcitoria, mentre giudica in giurisdizione esclusiva sulle controversie relative ai pubblici servizi ed all’urbanistica ed edilizia, intese quali materie nelle quali si rivelano nuove forme, connesse alle trasformazioni dello Stato amministrativo, di commistione ed intreccio fra diritto pubblico e diritto privato. In questo quadro non vi è eccessiva latitudine della giurisdizione esclusiva, ma proporzionalità della stessa alle vicende di ridefinizione della « sfera pubblica ». Tale proporzionalità va costantemente vagliata per evitare il rischio denunciato dall’ordinanza romana, ma essa attualmente non sussiste, poiché è nell’ambito delle riforme intervenute a partire dalla l. n. 241 del 1990 che va inquadrata la nuova giurisdizione del giudice amministrativo, non giudice naturale della pubblica amministrazione, ma giudice naturale della « sfera pubblica » intesa come ambito nel quale opera il pubblico interesse, comprensivo delle forme ibridanti il diritto pubblico ed il diritto privato. (28) Va considerato infatti che la peculiare organizzazione della giurisdizione


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Si lamenta poi — su un piano più tecnico — la scelta di un giudice per le controversie attribuite dalla l. n. 205 del 2000 che amministrativa è costituzionalizzata — con un autonoma collocazione del giudice al di fuori dell’ordinamento giudiziario ma con analoghe guarentigie — a salvaguardia del principio di divisione dei poteri. Non a caso un critico attento dell’attuale sistema di riparto come A. PROTO PISANI, Intervento breve per il superamento della giurisdizione amministrativa (sulla sentenza 500/99 delle S.U.), in Riv. civ., 2000, I, 775, ritiene perduta la giustificazione costituzionale della giurisdizione amministrativa soprattutto con riferimento all’impossibilità dell’esercizio della funzione nomofilattica della Cassazione. In argomento spesso si ricorda la commistione di funzioni consultive e giurisdizionali (oggetto anche di polemiche interne alla giurisdizione amministrativa) e si esprimono perplessità sulla figura dei giudici di nomina politica. Per le perplessità sull’istituto della nomina governativa, ante l. n. 205 del 2000 cfr. L. PACCIONE, Sulla nomina governativa dei consiglieri di stato, in Riv. trim. dir. pubbl., 1994, 1095. Gli argomenti della pretesa minorità del giudice amministrativo sono stati affrontati funditus da C. CALABRÒ, A proposito di indipendenza del Consiglio di Stato, in Foro it., 2001, III, 555, nota ad ord. Cons. Stato, Sez. IV, 30 gennaio 2001, n. 709, che ha osservato che la nomina governativa è riservata a soggetti particolarmente qualificati (professori universitari, avvocati di lunga esperienza, dirigenti generali e magistrati) è preceduta dal parere dell’organo di autogoverno, cui spetta di valutare la piena idoneità all’esercizio delle funzioni di Consigliere di Stato sulla base dell’attività e degli studi giuridico-amministrativi compiuti e delle doti attitudinali e di carattere. In Cassazione — d’altra parte — hanno accesso professori universitari ed avvocati che apportano un contributo professionale, un contributo di esperienze e percorsi culturali diversi, che arricchisce la magistratura professionale. La funzione consultiva poi non è mai esercitata con riferimento a determinate future controversie (per la consulenza pre-contenziosa vi è il ruolo istituzionale svolto dall’Avvocatura dello Stato), ma si svolge a garanzia dell’ordinamento, in modo obiettivo, o nell’ambito dell’istituto giustiziale del ricorso straordinario, per cui non pone particolari problemi l’avvicendamento dei consiglieri nelle diverse funzioni (giurisdizionali e consultive) che è anzi fattore di arricchimento nella vita istituzionale del Consiglio. Hanno risposto a C. Calabrò, nello stesso numero del Foro it., A. PROTO PISANI, R. ROMBOLI, G. SCARSELLI, Ancora sull’indipendenza dei giudici del Consiglio di Stato, ivi, 556, soprattutto criticando l’istituto della nomina politica ed auspicando che esso scompaia nell’attuazione del riordino della giustizia amministrativa prevista dall’art. 18 della l. n. 205 del 2000. Ciò dimostra l’astrattezza (e la politicità) dell’argomento che critica l’indipendenza del giudice amministrativo a partire dall’istituto della nomina politica, senza alcuna considerazione dell’effettività della giustizia amministrativa e della peculiarissima collocazione costituzionale del Consiglio di Stato. Per la Corte costituzionale tale nomina non determina alcuna anomalia rispetto ai principi costituzionali cfr. Corte cost., 6-19 dicembre 1973, n. 177, in Foro it., 1974, I, 1 e ss., e la successiva Corte n. 1 del 1978, in Foro it., 1978, I, 282 e ss. Il


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porterà con sé il rischio dell’affermazione di un diritto speciale della pubblica amministrazione, conformato secondo valutazioni dell’interesse pubblico del tutto incompatibili con la natura squisitamente civilistica del rapporto controverso (29). Si prospetta altresı̀ una violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., stante la non giustificata disparità dubbio di costituzionalità poteva riguardare la disciplina antecedente la l. n. 186 del 1982, non certo la situazione attuale nella quale vi sono regole vincolanti per i requisiti soggettivi ed un limite invalicabile per l’accesso che garantisce un equilibrata composizione del Consiglio di Stato: in sostanza il rispetto del principio di proporzionalità. Basta dare una scorsa alla dottrina dell’epoca per cogliere tale dibattito cfr. C. MORTATI, La nomina dei consiglieri di Stato secondo la Corte costituzionale, in Giur. cost., 1973, 2626; E. CHELI, La diffıcile indipendenza del Consiglio di Stato, in Giur. cost., 1973, I, 1051 e ss.; A.M. SANDULLI, Giudici amministrativi, concorsi, indipendenza, in Giur. it., 1973, III, 129 e ss. Il tema, ovviamente, è strettamente influenzato dalle « ideologie » del giudiziario — ovvero dalle diverse concezioni che si hanno del ruolo e della deontologia del giudice — e quindi è di quelli ad alto tasso di tensione. Non sembra tuttavia che alla magistratura giovi la turris eburnea, ma piuttosto un rapporto osmotico con la società civile (e questo sia che si tratti di magistratura ordinaria sia che si tratti di magistratura amministrativa).Tanto riguarda il rapporto fra magistratura e società ed è condizionato dal rapporto fra magistratura e politica (con conseguente incandescenza delle posizioni). L’« universalità » dei problemi posti dalla giustizia amministrativa — ossia il rapporto fra autorità e libertà — è sottolineata da P. AIMO, La giustizia nell’amministrazione dall’Ottocento ad oggi, Bari, 2000, in prospettiva storica, scevra dai condizionamenti del dibattito politico-culturale dettato dall’attualità. In ordine alla funzione politico-costituzionale svolta dal giudice amministrativo in rapporto ai diversi regimi politici succedutisi nella storia d’Italia, quale funzione di « governo della complessità », a partire dall’epoca dello sviluppo industriale del Paese, nella quale l’intreccio di diritto pubblico e diritto privato ha reso (come tuttora rende) problematica la stessa definizione (ed accettazione) dell’interesse pubblico cfr. M.S. RIGHETTINI, Il giudice amministratore, Bologna, 1998. Sui rapporti fra Consiglio di Stato e Costituzione, anche in prospettiva di riforma cfr. G. MELIS, G. CORSO, S. CASSESE, C. MALINCONICO, G. FALCON, S. RAIMONDI, I.M. MARINO, M. CLARICH, P.G. LIGNANI, F. PATRONI GRIFFI, G. BARBAGALLO, A. PAJNO e R. CARANTA, Il consiglio di stato e la riforma costituzionale, a cura di S. CASSESE, Milano, 1997. (29) La nascita di un diritto speciale della pubblica amministrazione è legata alla ridefinizione del rapporto fra sfera pubblica e sfera privata. Interesse pubblico e disciplina civilistica convivono nella disciplina degli accordi ex art. 11 della l. n. 241 del 1990, affidati, ragionevolmente alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo anche prima della l. n. 205 del 2000. In tema da ult. G. GRECO, Accordi e contratti della pubblica amministrazione, tra suggestioni interpretative e necessità di sistema, in Dir. amm., 2002, 413.


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di trattamento riservata ai cittadini di fronte alla giurisdizione, dipendente dalla qualità di una delle parti e non dalla consistenza delle situazioni giuridiche soggettive. Si prospettano ulteriori profili di irragionevolezza della scelta, con riguardo ai parametri di cui agli artt. 3, 111, comma 7 e 8, e 24, comma 1, Cost., sostenendo che si è creato un doppione del giudice ordinario, con dispersione del patrimonio delle conoscenze del giudice ordinario nella risoluzione delle controversie ora attribuite al giudice amministrativo, per giunta in un momento in cui le trasformazioni del potere amministrativo hanno condotto la p.a. ad evolversi da un modello autoritativo ad un modello negoziale (30). In ultimo si ipotizza una violazione dell’art. 111, comma 7 e 8 Cost., con riguardo alla nota limitazione delle impugnative delle decisioni del giudice amministrativo alle questioni di sola giurisdizione, con conseguente venir meno della funzione nomofilattica costituzionalmente garantita dalla Cassazione e rischio di conflitti giurisprudenziali insanabili (31). Tutte le questioni sollevate, pur se riferite concretamente solo alla giurisdizione esclusiva di cui all’art. 34, in materia urbanistica possono, senza mutare sostanzialmente argomentazioni, spendersi per contestare la giurisdizione in materia di risarcimento danni da provvedimento illegittimo. C’è da chiedersi se la scelta effettuata dall’Adunanza plenaria non rischierà — creando un certo innegabile divario fra il di(30) Su autorità e consenso, da ult., F.G. SCOCA, Autorità e consenso, in Dir. amm., 2002, 431, ove riferimenti e la notazione, conclusiva ed importantissima, secondo la quale « il potere autoritativo si esprime di norma in atti (precettivi) unilaterali; ma può esprimersi anche in atti bilaterali (consensuali) restando beninteso potere autoritativo ». Potere che — secondo Scoca — ha dimesso da tempo le vesti delle funzioni sovrane per acquisire il più dimesso (ma aggiornato con l’idea della sovranità popolare) ruolo di (attività di) servizio. (31) La funzione nomofilattica nell’ambito della giurisdizione amministrativa è svolta, tuttavia, dal Consiglio di Stato. Cfr. sul punto A. PAJNO, Appello nel processo amministrativo e funzioni di nomofilachia, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1990, 54. La presenza dell’interesse pubblico, quale ragione di obiettiva differenziazione del diritto privato speciale, rende meno drammatica l’evenienza di orientamenti difformi fra Cassazione e Consiglio di Stato. Il dialogo fra le Corti comporta poi la continua ridefinizione dei confini fra Stato e mercato, fra diritto pubblico e diritto privato.


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ritto comune della responsabilità civile e la responsabilità dell’amministrazione, costruita fortemente intorno al nesso con il provvedimento — di rinfocolare i dubbi di costituzionalità sin qui esposti, con prossima rimessione al giudice delle leggi di ulteriori questioni su altri aspetti della l. n. 205 del 2000 e segnatamente su profili che attengono alla nuova tutela risarcitoria. Da parte nostra si opina il contrario e cercheremo di spiegare perché. Veniamo alle posizioni della dottrina sul tema della costituzionalità del nuovo riparto. Va dato conto — in primo luogo — dell’opinione di Aldo Travi, una delle più limpide espresse sul tema: nel commentare Corte cost., 17 luglio 2000, n. 292, come è noto, egli ha espresso una ben precisa critica a quell’impostazione dottrinale, accolta dall’Adunanza Generale del Consiglio di Stato con il proprio parere 12 marzo 1998, n. 30 del 1998 sullo schema di decreto legislativo che portò poi all’adozione del d.lgs. n. 80 del 1998, secondo la quale sarebbe rimessa alla valutazione discrezionale del giudice ordinario la scelta circa la determinazione delle materie da devolvere alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (32). Secondo Travi il legislatore non potrebbe agire sulla giurisdizione esclusiva in guisa tale da marginalizzare l’ordinario criterio di riparto per diritti ed interessi: la riserva di legge prevista dall’art. 103 Cost. non si risolve in una riserva solo formale, poiché è precisato che i giudici amministrativi hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi. L’elasticità del riparto non sarebbe cosı̀ illimitata da ammettere l’estensione della giurisdizione esclusiva sulla base del solo rilievo dell’interesse pubblico. La norma costituzionale vuole la giurisdizione determinata (32) Cfr. A. TRAVI, Giurisdizione esclusiva e legittimità costituzionale, nota a Corte cost., 17 luglio 2000, n. 292, in Foro it., 2000, 2394 e ss., e Cons. Stato, Ad. gen., 12 marzo 1998, n. 30 del 1998, in Foro it., 1998, III, 350.


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indipendentemente dalla parte e dalle sue qualità, vuole il giudice ordinario come giudice naturale dei diritti soggettivi, e tanto esclude la piena discrezionalità del legislatore nell’attribuzione delle materie al giudice amministrativo. Ne deriva — secondo Travi — più di un dubbio sulla costituzionalità dell’assetto disegnato per il riparto di giurisdizione dalla l. n. 205 del 2000; va precisato che Travi ha affrontato il tema con riguardo alla nozione di pubblico servizio — quale delineata da Cons. Stato, Ad. plen., n. 1 del 2000 — ma il grado di generalità ed astrattezza delle sue argomentazioni consentono di riferire i sospetti d’incostituzionalità anche alla norma che devolve al giudice amministrativo l’azione risarcitoria per violazione di interessi legittimi. All’opposto rispetto all’opinione di Travi si colloca il pensiero di A. Pajno, che ritiene che la Costituzione, nel mentre ha fatto proprio il tradizionale criterio di riparto, ha tuttavia espressamente previsto la possibilità, per il sistema, di svilupparsi secondo una direzione specifica, che riunendo, con riferimento a materie determinate, la tutela dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi, nell’ambito della competenza giurisdizionale di un unico giudice, postula un oggettivo incremento della giurisdizione amministrativa ed, in particolare, che il giudice amministrativo divenga progressivamente il giudice naturale, e tendenzialmente unico, della pubblica amministrazione (33). La Costituzione, nella visione di Pajno, ha fatto proprio il tradizionale assetto della giustizia amministrativa ma ha fornito anche la chiave di volta per il superamento di tale assetto, nella giurisdizione esclusiva, che ormai è divenuta regola centrale della definizione del sistema di riparto. Le due opinioni cosı̀ chiaramente formulate sono ispirate ad un dato chiaramente inteso a privilegiare una lettura della Carta costituzionale tesa a valorizzare il tendenziale equilibrio fra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa, storicamente (33) Cfr. A. PAJNO, Il riparto della giurisdizione, in AA.VV., Trattato di diritto amministrativo - Diritto amministrativo speciale, t. IV, Il processo amministrativo, a cura di S. CASSESE.


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dato, perché assunto come un valore, alla luce della concezione del giudice ordinario quale giudice « naturale » dei diritti e del giudice amministrativo quale giudice degli interessi, o, all’opposto, la possibilità di evoluzione del sistema, verso un più funzionale criterio di riparto, che superando la dicotomia diritto-interesse, e le tortuosità della teoria della degradazione, delinei un nuovo ambito di giurisdizione piena, connesso ad un diritto amministrativo trasformato. Anche lo scritto di Pajno è antecedente la l. n. 205 del 2000 ma contiene argomenti riferibili alla nuova giurisdizione sul risarcimento dei danni, ravvisando nel nuovo assetto delle giurisdizioni, un assetto nel quale i giudici non sono più monopolisti di alcune tecniche di tutela in luogo di altre, ma possono assicurare tutti una tutela piena. Le riflessioni della dottrina che colgono l’evoluzione del sistema, non possono sol per questo far ritenere superati i dubbi di conformità del nuovo assetto del riparto rispetto al tenore della Grundnorm se è vero, come è vero, che gli artt. 102 e 103 della Carta fondamentale esprimono la regola per cui ai giudici ordinari è data la tutela dei diritti soggettivi mentre costituisce un’eccezione l’attribuzione di questi, in particolari materie, al giudice amministrativo (34). In tal modo sono possibili modifiche del sistema di riparto, che utilizzino la tecnica del conferimento dei c.d. blocchi di materie all’uno o all’altro giudice, ma questo deve avvenire senza mai comportare uno stravolgimento o un superamento del basilare criterio che ispira il fondamento della giurisdizione amministrativa ossia il criterio incentrato sull’esistenza di un potere amministrativo autoritativo o discrezionale che trascenda l’interesse privato o individuale (35). In tale quadro si innesta l’intervento della Plenaria che è destinato ad incidere sulla conformazione dei caratteri della giuri(34) In tal senso con efficacia A. ROMANO, Giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa dopo la legge n. 205 del 2000 (Epitaffıo per un sistema) in questa Rivista, 2001, 602 e ss. (35) Sulla individuazione dell’effettivo fondamento del riparto nell’esistenza e natura del potere cfr. A. ROMANO, op. ult. cit., 619 e ss.


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sdizione amministrativa in tema di risarcimento dei danni, e quindi, non può non riflettersi sull’agitarsi dei dubbi di costituzionalità posti dalla dottrina e regolarmente recepiti dalle ordinanze di rimessione dei giudici civili. Ci si deve chiedere — a questo punto — in che senso la soluzione del rapporto fra azione di annullamento ed azione risarcitoria sia in grado di incidere sulle valutazioni inerenti la legittimità costituzionale del sistema in via di lenta edificazione, rilevando poi che tale incidenza si ha sotto il profilo del consolidamento del diritto vivente del risarcimento dei danni da violazione dell’interesse legittimo. Il « diritto vivente », non imposto dalla Plenaria, ma semplicemente registrato da essa, con la saggezza di un giudice che esercita funzione nomofilattica più segnalando gli approdi raggiunti dall’evoluzione giurisprudenziale che illuministicamente sovrapponendosi ad essa, recita ormai la regola della previa necessità della rimozione dell’atto ai fini dell’esperibilità dell’azione risarcitoria, regola che chiarisce il carattere accessorio e di completamento della tutela risarcitoria rispetto alla tutela di annullamento, e, quindi, come corollario necessario la limitazione della giurisdizione amministrativa in tema di danni, al di fuori dei casi di giurisdizione esclusiva, alle sole ipotesi in cui sia intervenuto l’annullamento del provvedimento amministrativo. Rimangono al giudice ordinario, salvo che non rientrino in ipotesi di giurisdizione esclusiva, le azioni ex lege ed ex contractu, ossia le azioni esperibili contro la p.a. per effetto di situazioni giuridiche già acquisite dall’attore, all’opposto, l’interesse legittimo è situazione strumentale volta alla tutela di un interesse sostanziale (36), essa quindi non vive nel diritto se non attraverso l’intermediazione dell’attività amministrativa o giudiziaria che la realizza e non può dar luogo a pretese risarcitorie se non dopo essere stata riconosciuta dal giudice amministrativo attraverso l’azione appositamente prevista per lo scrutinio del (36) In tal senso F.G. SCOCA, Contributo sulla figura dell’interesse legittimo, Milano, 1990.


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potere amministrativo che è l’azione di annullamento (cui è consequenziale come nel comma 2 dell’art. 30 del t.u. sul Consiglio di Stato). In tal senso non è immaginabile un’azione risarcitoria ex provvedimento, poiché se il provvedimento è favorevole non c’è danno, mentre se è sfavorevole deve essere impugnato con le regole sue proprie: questo ha voluto affermare il legislatore con la riscrittura del primo periodo del comma 3 dell’art. 7 della legge sui Tar e questo sembra essere conforme a Costituzione, poiché la Costituzione non confina il giudice amministrativo a somministrare tutele solo con lo strumento — pure assai incidente e sempre centrale — dell’annullamento ma consente (ed anzi impone) che esso completi la tutela fornita esaminando le utilità perse per il trascorrere del tempo necessario per ottenere il riconoscimento delle proprie ragioni. Il tempo poi appare una variabile decisiva che ispira la riforma processuale: sul tema sono state svolte interessanti considerazioni da G. Romeo (37) che mi sentirei di sintetizzare nella formula — mutuata da Jacques Le Goff (38) — per cui il nuovo processo cerca di far rispondere i tempi della chiesa (la moderna sfera pubblica) ai tempi del mercante (i privati che agiscono sul mercato). Questo è ovviamente un terreno sul quale molto ci sarebbe da fare, ma la sua trattazione eccede i limiti di questo scritto. Altro corollario tecnico, inespresso ma derivabile dalla sentenza, sembra essere quello relativo alla natura aquiliana della responsabilità dell’amministrazione per la violazione dell’interesse legittimo (poiché se l’azione non è autonoma allora non vi è altro diritto che la fondi prima dell’accertamento dell’illegitti(37) Cfr. G. ROMEO, Il paradosso della giustizia amministrativa, in questa Rivista, 2001, 1042. (38) Cfr. J. LE GOFF, Tempo della chiesa e tempo del mercante, Torino, 1956. Secondo Le Goff « al tempo del mercante — che è occasione prima di guadagno... — si oppone il tempo della Chiesa che appartiene solo a Dio e non può essere oggetto di lucro ». La secolarizzazione lascia il potere senza fondamento divino, ma padrone del tempo (retaggio dell’età del potere sacrale). La privatizzazione del mondo e della vita impone al potere pubblico i tempi del mercato, cosı̀ ultimando la secolarizzazione del tempo della vita e del lavoro iniziata nell’epoca dei comuni medievali.


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mità dell’atto nell’ambito dell’actio diretta al suo annullamento, salvo quello, di natura secondaria, nascente dall’art. 2043 c.c., inteso come precetto riassuntivo di tutti i doveri dell’ordinamento, ivi compreso quello della p.a. di rispettare le proprie norme di azione) (39); natura aquiliana che non esclude ovviamente la necessità di una riflessione de iure condendo su altri modelli, di tipo indennitario (40), che potrebbero introdursi efficamente per la tutela di interessi strumentali, ma che incontrano limiti e preoccupazioni di carattere finanziario e timori di sovracompensazione del danno. Alla luce di tale natura aquiliana, che è limitata ai soli danni da provvedimento non può considerarsi esatta la notazione per la quale al giudice amministrativo sarebbe attribuita la giurisdizione in tema di azioni risarcitorie per danni derivanti da mere condotte o da violazioni del principio di affidamento, poiché ciò è possibile solo in presenza di un campo di giurisdizione esclusiva. Ancora: dalle notazioni svolte può desumersi che l’interpretazione, pure sostenuta con dovizia di argomenti, che vuole autonoma l’azione risarcitoria rispetto a quella di annullamento sicuramente espone la l. n. 205 del 2000 a più fondati sospetti di incostituzionalità, poiché se l’azione risarcitoria si considerasse davvero fondata, nel nostro ordinamento, direttamente sull’art. 2043 c.c. ed in particolare su un connotato di ingiustizia del danno, valutabile, in presenza di un atto amministrativo autoritativo, senza ostacoli nonostante la sua inoppugnabilità, non si vedrebbe allora la ragione della devoluzione di tale azione al (39) Cfr. G. RUOPPOLO, La tutela aquiliana dell’interesse, in questa Rivista, 2001, 716 e ss. (40) Paradigma del modello indennitario è la norma di cui all’art. 11 del d.lgs. 30 luglio 1999, n. 286 che prevede che: « i servizi pubblici nazionali e locali sono erogati con modalità che promuovono il miglioramento della qualità e assicurano la tutela dei cittadini e degli utenti e la loro partecipazione, nelle forme, anche associative, riconosciute dalla legge, alle inerenti procedure di valutazione e definizione degli standard qualitativi. Le modalità di definizione, adozione e pubblicizzazione degli standard di qualità, i casi e le modalità di adozione delle carte dei servizi, i criteri di misurazione della qualità dei servizi, le condizioni di tutela degli utenti, nonché i casi e le modalità di indennizzo automatico e forfetario all’utenza per mancato rispetto degli standard di qualità sono stabilite con direttive del Presidente del Consiglio dei Ministri... ».


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giudice amministrativo, poiché — al di là della scarsa compatibilità di tale soluzione con i caratteri del nostro Stato di diritto amministrativo, quanto a regole sostanziali che reggono la titolarità e l’esercizio del potere ed i rapporti con le magistrature — si tratterebbe di un diritto che trova il suo fondamento in una norma operante prima ed indipendentemente dall’annullamento dell’atto (equivoco in cui è incorsa la sentenza n. 500 del 1999 al fine di evitare la separazione dei giudizi e superare la doppia tutela) (41), e quindi applicabile dal giudice naturale dei diritti. I lineamenti del sistema si stanno progressivamente chiarendo, anche se il problema principale, specie dall’ottica costituzionale rimane quello del fondamento dell’attuale assetto del riparto fra giudici civili ed amministrativi, assetto che è stato valutato, « del tutto asistematico, privo di un’idea, di una pro-

(41) In proposito le parole più chiare sono state da ultimo quelle di F. SATTA, Responsabilità della p.a., in Enc. dir., XXXIX, Milano, 1988, secondo cui degli atti amministrativi molte cose si possono dire, ma forse una sola cosa certa e comune a tutti: gli atti amministrativi, in cui si esprima un potere discrezionale dell’amministrazione, godono di un regime processuale privilegiato, perché devono essere impugnati di fronte ad un giudice speciale, ed entro un termine perentorio a pena di decadenza e quindi di inoppugnabilità... Se un danno insomma dipende da un provvedimento amministrativo quale rapporto corre — e in realtà deve correre — tra giudizio sull’atto e giudizio sull’ingiustizia del danno? E quindi, ad esempio, il giudizio che afferma la legittimità dell’atto costituisce o non costituisce preclusione per un giudizio di risarcimento che ha come suo necessario presupposto l’ingiustizia del danno? Ovvero l’acquisita inoppugnabilità dell’atto costituisce o non costituisce preclusione rispetto ad un giudizio sul solo danno? La risposta a queste domande — secondo F. Satta — dipende da un punto di vista sostanziale dalla definizione del rapporto fra illegittimità ed illiceità e, dal punto di vista processuale, dalla corretta collocazione della tutela giurisdizionale amministrativa nei confronti della pubblica amministrazione. Più oltre: « Ogni atto amministrativo capace di incidere in situazioni giuridiche di terzi acquista inoppugnabilità con il decorso di un breve termine. Questa inoppugnabilità non può che avere valore assoluto; con la piana conseguenza che della legittimità di un dato atto, sia pure sotto il profilo del suo contrasto con specifiche regole che presiedono all’esercizio della funzione amministrativa non può parlarsi, se la sua inoppugnabilità, non sia stata superata, e dunque, la sua illegittimità dichiarata dal giudice amministrativo » (notiamo che la regola, posta a presidio del potere amministrativo e della sua discrezionalità, non è venuta meno con la concentrazione dei giudizi presso il giudice amministrativo).


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spettiva concettuale, di uno spessore culturale che lo fondi e lo giustifichi » (42). Si è anche detto, efficacemente, che l’attuale sistema, a differenza del precedente sembra essere senza anima, a causa dell’affastellarsi di materie attribuite alla nuova giurisdizione, slegate da una unitaria logica di attribuzione, che si cerca di ravvisare nel legame con le nuove forme giuridiche legate all’emersione di un diritto flessibile, connesso alla globalizzazione dei mercati (43). Una risposta semplificatrice come quella offerta da Cons. Stato, Ad. plen., ord. n. 1 del 2000, che tende ad ampliare la giurisdizione del giudice amministrativo a tutte le funzioni pubbliche ed a tutti i pubblici servizi da chiunque gestiti perché (42) Sono parole di A. ROMANO, op. ult. cit., 611. (43) Cosı̀ G. ROMEO con il quale ho avuto spesso il piacere di conversare su questo argomento, da lui compiutamente sviluppato ne Il Paradosso della giustizia amministrativa prima cit. L’emergere di un’epoca nella quale il diritto si deformalizza, si scompone, si frantuma, in analogia con quanto accaduto nell’evo medio, è uno dei fenomeni che connotano la moderna (o post moderna) globalizzazione, intesa sotto l’aspetto giuridico. Gli ordinamenti si stratificano in più livelli, sopranazionale, nazionale, locale; la mediazione giuridica statuale entra in crisi o si relativizza, nascono i grandi tribunali internazionali, si diffondono le corti arbitrali che giudicano su controversie civili e fiscali transanzionali, si assiste al rinascere di un’articolazione del giudiziario simile a quella dei c.d. grandi tribunali del tardo evo medio, ma ciò non fonda il nuovo assetto del riparto ne è la cornice, con la quale occorre fare i conti, consapevoli che resisteranno solo i giudici che sapranno fornire una risposta di giustizia, in termini qualitativi, all’altezza delle sfide della postmodernità e del carattere internazionalmente aperto del diritto globalizzato, mentre rischiano di deperire le istituzioni di giustizia (ma non solo di giustizia) che non avranno il passo ed i tempi del « mercante », ossia dei soggetti che forgiano la lex mercatoria. Ciò premesso il fondamento del riparto è un problema più specifico, pure connesso con questo: è il tema della logica (unitaria o storicamente contingente) che porta ad attribuire alcune materie ad un giudice amministrativo ed altre ai giudici civili. È il tema della coerenza del sistema. A partire dai suoi tratti di diritto sostanziale. Perché il processo ed il sistema di riparto è leggibile solo in funzione del diritto sostanziale. Si tratta di verificare se le nuove materie attribuite al giudice amministrativo costituiscono un riflesso delle trasformazioni subite dal potere amministrativo nel mutare delle forme di Stato e di Governo, o se invece si tratti semplicemente di un nebuloso « rimpasto », di un tentativo di ricerca del nuovo ancora provvisorio e non definito e suscettibile dei più diversi sviluppi. Cfr. sul tema del diritto nell’età della globalizzazione M.R. FERRARESE, Il diritto al presente. Globalizzazione e tempo delle istituzioni, Bologna, 2002, nonché della stessa autrice, Le istituzioni della globalizzazione. Diritto e diritti nella società transnazionale, Bologna, 2000.


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svolti per il pubblico, rischia di risolvere le tendenze di lungo periodo che hanno determinato le trasformazioni del diritto amministrativo (dal superamento dell’unilateralità dell’azione amministrativa, al venir meno del segreto, dal frangersi delle soggettività pubbliche nella realtà del polimorfismo amministrativo, dalla responsabilità per risultati alle logiche di efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa) in una paradossale dilatazione dello spazio pubblico che fagocita, sul versante giurisdizionale, quanto realizzato sul versante del diritto sostanziale (44). L’Ad. plen. n. 4 del 2003 ha posto il primo passo per la riconduzione del sistema in lineamenti costituzionalmente accettabili. L’azione risarcitoria è accessoria, e, quindi è attribuita al giudice amministrativo solo a fini di completamento del sistema di tutela dell’interesse legittimo che non si snatura per effetto di una riforma processuale, poiché non si snatura il potere amministrativo e la sua relazione (costituzionale), nell’ambito del principio di separazione dei poteri, con il giudice. In questa prospettiva il risarcimento dei danni è solo un’altra tecnica di tutela dell’interesse legittimo devoluta al giudice amministrativo ex artt. 103 e 113 Cost. Cosa può dirsi poi degli altri ambiti di giurisdizione esclusiva? Esiste una logica giuridica unitaria che consenta di individuare un nuovo fondamento del riparto? O l’attuale riparto è il frutto (senz’anima) di scelte del legislatore come tali sempre reversibili? Occorre indagare il potere pubblico modernamente inteso per risolvere il problema. Il processo non è autonomo rispetto al diritto sostanziale e le risposte risiedono nelle caratteristiche del potere moderno. Ed allora sembra necessario percorrere una strada opposta a quella delineata da Cons. Stato, Ad. plen., n. 1 del 2000, perve(44) È necessario invece che la regolamentazione dei confini fra sfera pubblica e privata sia continuamente verificata ed « arbitrata » giudiziariamente, anche, quando occorra, dal giudice delle leggi, ma fisiologicamente dal dialogo fra la giurisprudenza civile ed amministrativa, inteso quale elemento di feconda ricchezza della vita istituzionale e costituzionale.


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nendo all’interpretazione della norma di cui all’art. 7 della l. n. 205 del 2000, che ne rispetti l’esigenza di fondo quella di individuare, a completamento del sistema di giustizia amministrativa che rimane pur sempre imperniato sull’esistenza e la natura del potere amministrativo come potere discrezionale, partecipato, aperto alle acquisizione del procedimento, ma sempre in grado di incidere su situazioni giuridiche soggettive dei privati, l’esistenza di materie nelle quali si configura un ampio intreccio di posizioni giuridiche soggettive di diritti ed interessi ma nel quadro non di un’ampia ed indiscriminata operatività del diritto comune ma piuttosto un diritto speciale della pubblica amministrazione, conformato secondo valutazioni dell’interesse pubblico del tutto incompatibili con la natura squisitamente civilistica del rapporto controverso. Solo se nei campi attribuiti al giudice amministrativo in giurisdizione esclusiva, le norme di azione prevalgono sulle norme di relazione, per qualità e/o quantità, potrà dirsi rispettato il parametro di costituzionalità. Non è difficile ammettere che la materia dei servizi pubblici e quella dell’urbanistica e dell’edilizia sono materie connotate da un’ampia congerie di norme derogatorie rispetto alle norme del diritto comune, basta por mente alla complessa disciplina delle società di servizi pubblici locali, o alle intense attività amministrative di pianificazione del territorio. Non è difficile individuare il fondamento francese e comunitario della nozione di servizio pubblico, espressiva di quelle forme organizzative delle moderne pubbliche amministrazioni che la Comunità denomina servizi di interesse generale e che esamina costantemente come zone franche rispetto ai principi del diritto della concorrenza perché destinate a perseguire una missione di interesse generale (art. 86, comma 2 del Trattato), costruita in modo proporzionale rispetto all’esigenza di tutela della concorrenza e del mercato, ed in modo aperto al mercato quanto al rapporto fra amministrazioni e soggetti privati. Analogo sembra il rilievo del diritto comunitario degli appalti nel fondare la giurisdizione esclusiva in tema di gare.


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Si tratta allora, volendo rintracciare un fondamento comune alle regole della giurisdizione esclusiva in tema di servizi pubblici, della giurisdizione basata sull’esigenza di assicurare il rispetto del principio della concorrenza per il mercato dei pubblici servizi, autonomamente organizzato e conformato dai pubblici poteri, garantito dall’evidenza pubblica e dalle norme che regolano l’organizzazione dei servizi, esclusi i rapporti privati di utenza. In materia di urbanistica ed edilizia, si tratta invece pacificamente del più classico ambito di intervento pubblico dirigistico, delle regole pubblicistiche di uso del territorio sicché, volendo interpretare la giurisdizione in modo costituzionalmente conforme all’art. 103 Cost. sarà estranea alla giurisdizione del giudice amministrativo la materia dell’« occupazione usurpativa » ed il danno relativo, derivante da pura condotta dell’amministrazione non correlata ad alcun atto, ma non si vede quale scandalo debba essere menato per l’attribuzione al giudice amministrativo dell’azione sull’occupazione acquisitiva o espropriazione di fatto, preceduta da dichiarazione di pubblica utilità, ossia da un atto amministrativo che accerta l’esistenza nella fattispecie del pubblico interesse. Ciò risolve il dubbio di costituzionalità su un piano formale. Ma sul piano del fondamento razionale del sistema di riparto, non ci restituisce ad un modello di razionalità forte, ma ci lascia in preda ad una ragione « debole », al pensiero debole, poiché non appare ancora una evidenza unificante, un mito fondativo del sistema (45), analogo all’interesse legittimo. La nostra ragione collettiva, (figurarsi quella individuale) non è forse ancora all’altezza del problema. Allora a chi deve traghettare la nave in queste perigliose condizioni un solo suggerimento: si stia al certo, si parta ancora dall’interesse legittimo non per amore dell’antico ma perché non abbiamo altro a questo stadio dello sviluppo storico, ma si parta da lı̀ per cogliere da quella dimensione il nuovo che appare nelle forme di esercizio consensuale del potere il cui esame viene (45)

L’espressione è di G. ROMEO.


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consegnato al giudice amministrativo in giurisdizione esclusiva, ciò fino a quando non sia maturato un nuovo concetto giuridico avente valore unificante, in grado di esprimere sinteticamente i tratti caratteristici del nuovo esercizio del potere secondo moduli consensuali. Se si tratta di tenere nell’incubatrice questo embrione di strumentario giuridico nuovo, non è affatto irragionevole né incostituzionale che sia il giudice amministrativo a farlo, essendo il giudice, per la sua collocazione costituzionale, deputato a sindacare sul potere amministrativo, anche quando esso sta mutando di forma, nell’alveo di un diritto speciale che, se importa categorie dal diritto privato, poi le piega a finalità pubblicistiche (e si pensi all’art. 11 della l. n. 241 del 1990). Ancora: alcuni argomenti talvolta proposti da coloro che dubitano della costituzionalità della l. n. 205 del 2000 appaiono recisamente da respingere e sono quelli che attengono alla supposta specialità del giudice amministrativo: di ciò ha fatto già giustizia la Corte di Cassazione escludendo che la giurisdizione amministrativa sia una giurisdizione speciale, poiché essa, per volontà dei costituenti si pone accanto ai giudici ordinari nell’esercizio normale della funzione giurisdizionale (unitaria) (Cass., Sez. un., 20 luglio 1968, n. 2616) (46). A. Romano ha osservato, in modo equilibrato, circa le notazioni polemiche di Proto Pisani (47) che avanzavano più che fondati sospetti sull’effettiva terzietà ed imparzialità dei giudici soprattutto del Consiglio di Stato, che, in un mondo dominato dal predominio dei poteri privati se anche si sospettasse che un giudice fosse sensibile alle ragioni dell’amministrazione ciò non sarebbe poi un gran male. Non credo che il Consiglio di Stato sia sospettabile di parzialità in favore della p.a., né ovviamente lo crede Alberto Romano, come chiunque conosca la realtà del Consiglio di Stato; né credo, a riprova di questo, che ci sarebbe (46) Vedila in G. PESCATORE, F. FELICETTI, G. MARZIALE, C. SGROI, Costituzione e leggi sul processo costituzionale e sui referendum annotate con la giurisprudenza della Corte costituzionale e delle magistrature superiori, Milano, 1992, sub art. 103 Cost. (47) Cfr. A. ROMANO, op. ult. cit., 629 e 630.


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da temere nulla circa un ricorso ex 111 Cost. alla Cassazione, per rispetto dei canoni costituzionali del giusto processo. Sono parole, quelle di A. Romano, sulle quali meditare molto, perché pongono comunque al centro dell’analisi le ragioni dell’amministrazione, quindi le ragioni del servizio di interesse generale (per esprimere lo stesso concetto in termini comunitari), le stesse ragioni tenute confusamente in considerazione dal legislatore quando ha ampliato la giurisdizione esclusiva, percependo che ai nuovi moduli dell’azione amministrativa (ex art. 11 della l. n. 241 del 1990), ed alle crescenti privatizzazioni e liberalizzazioni e deregolazioni, doveva accompagnarsi un arricchimento dei sistemi di tutela, che andasse oltre l’interesse legittimo, senza abbandonarlo. In attesa del compiuto assestamento del riparto, con l’emersione di una logica unificante di esercizio del pubblico potere, al giudice ordinario spetteranno le situazioni giuridiche incomprimibili, mentre al giudice amministrativo sarà dato di interpretare l’interesse legittimo ormai risarcibile coma una figura che realizza pienamente la libertà dei privati, anche sotto il profilo del loro uso del tempo. Una figura che, una volta ammessa la sua tutelabilità sotto il profilo risarcitorio, non è più di « non libertà » — per l’aspetto che è stato magistralmente sottolineato da G. Berti — ma, ancora una volta, se possibile, di modernizzazione dell’amministrazione.


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ARBITRATO E DEROGA AL GIUDIZIO AMMINISTRATIVO

SOMMARIO: 1. L’interessante innovazione recata dall’art. 6 l. n. 205 del 2000. — 2. Finalità. — 3. Compromettibilità in arbitri di controversie aventi ad oggetto il risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi. — 4. Compromettibilità in arbitri di controversie aventi ad oggetto diritti nascenti da attività negoziata (in particolare, da accordi di programma e da accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento). — 5. Problemi dell’impugnazione del lodo. — 6. Conclusioni.

1. L’art. 6, comma 2, della l. n. 205 del 2000 prevede che le controversie concernenti diritti soggettivi, devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo, possono essere risolte mediante arbitrato rituale di diritto. L’arbitrato costituisce un procedimento previsto e disciplinato dal codice di procedura civile (art. 806 ss.) per l’applicazione obiettiva delle norme di diritto (eccezionalmente, con pronuncia secondo equità) ad un caso concreto. La pronuncia, affidata ad arbitri anziché ai giudici civili, è finalizzata alla risoluzione di una controversia con le garanzie di contraddittorio e di imparzialità tipiche della giurisdizione civile ordinaria. L’arbitrato può essere rituale o irrituale (1). La decisione arbitrale, anche nell’arbitrato rituale, è un atto (1) Nell’arbitrato rituale, le parti vogliono che si pervenga ad un lodo suscettibile di essere reso esecutivo e di produrre gli effetti di cui all’art. 825 c.p.c., con l’osservanza del regime formale del procedimento arbitrale; nell’arbitrato irrituale esse intendono affidare all’arbitro la soluzione di controversie solo attraverso lo strumento negoziale, mediante una composizione amichevole o un negozio di accertamento riconducibili alla volontà delle parti stesse, le quali si impegnano a considerare la decisione degli arbitri come espressione della loro volontà (cosı̀: Cass. civ., Sez. I, 13 aprile 2001 n. 5527, in Giust. civ. Mass., 2001, 786).

Dir. Proc. Amm. - 1/2004


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di autonomia privata, non esercitando gli arbitri funzioni giurisdizionali (2). Tuttavia, per quanto riguarda la ricerca e l’interpretazione delle norme applicabili, il giudizio nell’arbitrato rituale non si differenzia da quello che si svolge davanti agli organi statali della giurisdizione. Tant’è vero che gli arbitri rituali possono sollevare questione incidentale di legittimità costituzionale delle norme di legge che sono chiamati ad applicare, quando risulti impossibile superare un dubbio di legittimità costituzionale attraverso l’interpretazione (3). Oltre alle norme del codice di procedura civile, esistono norme speciali che disciplinano l’arbitrato per la risoluzione di particolari controversie (4), fermo restando il carattere facoltativo dell’impiego di questo strumento di risoluzione delle controversie (5). Le norme speciali interessano, in particolare, la materia dei lavori pubblici: esse sono recate dall’art. 32 della legge quadro in materia di lavori pubblici 11 febbraio 1994 n. 109 (secondo cui « tutte le controversie derivanti dall’esecuzione del contratto possono essere deferite ad arbitri »), dagli artt. 150 e 151 del relativo regolamento di attuazione, approvato con d.P.R. 21 dicembre 1999 n. 554 e dal d.m. 2 dicembre 2000 n. 398 che ha introdotto le norme di procedura del giudizio arbitrale da seguirsi per tutte le controversie demandate al giudizio arbitrale. Tali norme hanno, tra l’altro, istituito e disciplinato la Camera arbitrale per i lavori pubblici che cura la formazione e la (2) V., ad es.: Cass. civ., Sez. un., 11 giugno 2001, n. 7858, in Giust. civ. Mass., 2001, 1167. (3) Cosı̀: Corte cost. 28 novembre 2001 ord. n. 376, in Giust. civ., 2001, I, 2883. (4) Sul tema, v.: DE NICTOLIS, L’arbitrato delle pubbliche amministrazioni, dalla legge Merloni alla legge n. 166 del 2002, in Urb. e app., 2002, 1004 ss. (5) Cosı̀: Corte cost. 27 febbraio 1996 n. 54, in Giur. cost., 1996, 379, secondo cui la legittimità dell’istituto dell’arbitrato presuppone necessariamente il suo carattere facoltativo, con la conseguenza che l’eventuale previsione di un’ipotesi di arbitrato obbligatorio ex lege rappresenta un’inammissibile compressione del diritto di azione e di difesa (art. 24, comma 1, Cost.) ed una negazione della tutela giurisdizionale (art. 102, comma 1, Cost.).


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tenuta del relativo albo degli arbitri camerali, dal quale è attinto il terzo arbitro con funzioni di presidente del collegio arbitrale (gli altri due vengono nominati da ciascuna parte contendente), cura gli adempimenti per la costituzione del collegio, le attività di segreteria, incamera i corrispettivi, cura le rilevazioni statistiche (6). Recentemente, il d.lgs. 20 agosto 2002 n. 190, che ha introdotto procedimenti semplificati per la realizzazione delle infrastrutture strategiche di preminente interesse nazionale, all’art. 12 prevede anch’esso la possibilità della risoluzione delle controversie mediante arbitrato rituale di diritto, eliminando però, di norma, l’intervento della camera arbitrale (il presidente del collegio arbitrale è nominato, tra magistrati amministrativi e contabili ed avvocati dello Stato, dai due arbitri nominati dalle parti o dalle parti stesse. Solo in caso di disaccordo provvede la Camera arbitrale). In tale recente disposizione sembra evidente un ripensamento (forse anche una certa sfiducia) sulla funzione della Camera arbitrale come fonte autoritativa che sovrintende alla scelta del presidente del collegio arbitrale, con la sottrazione di tale scelta alla volontà delle parti, in contrasto col carattere consensuale dell’istituto (7). Fino alla l. n. 205 del 2000, l’arbitrato costituiva un procedimento derogatorio rispetto alla sola giurisdizione del giudice civile, come si dirà nel paragrafo che segue. La previsione dell’art. 6, comma 2, della l. n. 205 del 2000, secondo cui le controversie concernenti diritti soggettivi devo(6) Si tenga presente, però, che il Consiglio di Stato, con decisione Sez. IV, 17 ottobre 2003 n. 6335 (in Cons. St., 2003, I, 2242 ss.) ha recentemente annullato l’art. 150, comma 3, del d.P.R. 554/99 facendo venir meno le attribuzioni della Camera arbitrale in ordine alla nomina del terzo arbitro, con funzioni di presidente, e le corrispondenti attribuzioni in ordine alla tenuta dell’albo, alla durata dell’iscrizione ed alle incompatibilità. Secondo tale pronuncia, la norma è illegittima perché sottrae alla libera determinazione delle parti la scelta del terzo arbitro con funzioni di presidente. (7) Su tale profilo critico, e sulle limitazioni all’autonomia delle parti che derivano dalla regolamentazione del procedimento governato dalla Camera arbitrale, v.: CARDI, Modelli processuali arbitrali nella giustizia amministrativa, in questa Rivista, 2002, 314 ss.


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lute alla giurisdizione del giudice amministrativo possono essere risolte mediante arbitrato rituale di diritto, estende tale deroga alla giurisdizione del giudice amministrativo. L’estensione era stata suggerita dalla dottrina (8) che aveva negato l’esistenza di un’incompatibilità tra giudizio amministrativo ed arbitrato, quando il potere esercitato non fosse indisponibile (cioè, quando pubblica amministrazione e privato controvertono su un piano paritario relativamente a diritti soggettivi e non ad interessi legittimi). 2. Come già detto, fino all’introduzione dell’art. 6, comma 2, della l. n. 205 del 2000, l’arbitrato era ammesso nelle controversie in cui fosse parte l’amministrazione soltanto se la giurisdizione fosse spettata al giudice ordinario (com’è noto, il caso più frequente è rappresentato dalle controversie in materia di esecuzione dei contratti di appalto). Restava perciò esclusa la possibilità di compromettere in arbitri vertenze che, pur riguardando diritti soggettivi, fossero appartenute alla giurisdizione (esclusiva) del giudice amministrativo (9). Questa preclusione era affermata dalla Cassazione (10) sulla base della considerazione che, altrimenti, sarebbe stata introdotta una deroga, non prevista dalla legge, alla giurisdizione del giudice civile. Infatti, l’arbitrato è costruito dal codice di procedura civile come strumento di deroga convenzionale alla competenza del giudice civile, e non di altri giudici. Dunque, fino alla l. n. 205 del 2000, non potevano essere deferite ad arbitri controversie che appartenevano alla giurisdi(8) In particolare, da: DOMENICHELLI, Le prospettive dell’arbitrato nei rapporti amministrativi (tra marginalità, obbligatorietà e consensualità), in questa Rivista,1998, 241 ss.; DI MARTINO, Arbitrato e pubblica amministrazione: brevi cenni sulla problematica inerente la compromettibilità delle controversie in cui è parte una p.a., in Riv. trim. app., 2001, 99 ss.; CRISCI, Arbitrato e giurisdizione ordinaria e amministrativa, in Riv. trim. app., 2000, 231 ss. (9) V., ad es.: Cass. civ., Sez. un., 11 novembre 1998 n. 11357, in Giust. civ. Mass., 1998, 2325. (10) V., ad es.: Cass. civ., Sez. un., 12 luglio 1995 n. 7643, in Giust.. civ. Mass., 1995, 1363; id., 11 aprile 1990 n. 3075, in Riv. arb., 1991, 275; vd. anche: Cons. Stato, Sez. V, 31 gennaio 2001 n. 1353, in Riv. giur. edil., 2001, I, 421.


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zione del giudice amministrativo, sia come giurisdizione generale di legittimità, sia come giurisdizione esclusiva, essendo altrimenti nulli il compromesso o la clausola compromissoria che ciò avessero previsto (11). Infatti, la contestazione della deferibilità di una controversia al giudizio degli arbitri determina l’insorgere di una questione inerente alla validità del compromesso o della clausola compromissoria e del patto di rinuncia alla giurisdizione in essi contenuto (12) Ma quid juris per le clausole compromissorie inserite in convenzioni o contratti anteriori all’entrata in vigore della l. n. 205 del 2000, in deroga alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo? Sono ancora nulle? Al quesito ha recentemente risposto il Tar Veneto (13), affermando che l’art. 6, comma 2, della l. n. 205 del 2000 è applicabile anche alle clausole compromissorie anteriori in quanto la norma ha carattere interpretativo (e, dunque, efficacia retroattiva) ed in quanto la nullità della clausola compromissoria dovrebbe ritenersi sanata ex tunc dalla nuova disposizione. Dopo la l. n. 205 del 2000, dunque, sarà possibile deferire ad,arbitri controversie di competenza del giudice amministrativo. Va precisato, al riguardo, seguendo il più recente orientamento giurisprudenziale della Cassazione, che l’eccezione con la quale si dovesse dedurre nel processo amministrativo, in base all’art. 6, comma 2, della l. n. 205 del 2000, l’esistenza di un compromesso o di una clausola compromissoria per arbitrato rituale, non attiene alla competenza del g.a. ma alla proponibilità della domanda giudiziale, essendo diretta a far valere non l’incompetenza del giudice amministrativo adito, ma la rinunzia (11) V., ad es.: Cass. civ., Sez. un., 1o dicembre 2000 n. 1240, in Giust. civ. Mass., 2000, 2479. (12) V., ad es.: Cass. civ., Sez. un., 11 giugno 2001, n. 7858, in Giust. civ. Mass., 2001, 1167, cit. (13) Con sent. 1o marzo 2003 n. 1583, in Giust. it. — Rivista Internet, n. 3-2003. Di contrario avviso il Cons. Stato, Sez. VI, 8 aprile 2002 n. 1902, in Cons. St., 2002, I, 756.


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convenzionale delle parti all’azione giudiziaria ed alla giurisdizione dello Stato (14). Tale eccezione di improponibilità della domanda è riservata esclusivamente alla parte, che potrebbe anche rinunciare ad avvalersene, tenuto conto della natura disponibile e della derogabilità della competenza arbitrale. Essa va proposta in limine litis con la prima difesa e non è, perciò, rilevabile d’ufficio (15). Ciò premesso, lo scopo principale della possibilità, offerta dall’art. 6, comma 2, della l. n. 205 del 2000, di compromettere in arbitri controversie spettanti al giudice amministrativo, sembra essere quella di introdurre un ulteriore strumento alternativo al ricorso alla giustizia amministrativa. Cioè, si tratta di un rimedio deflattivo per la riduzione del carico giudiziario. La novità può essere ricompresa, perciò; tra quelle finalità della l. n. 205 del 2000 intese ad ottenere una maggiore produttività, oppure un minore congestionamento del sistema di giustizia amministrativa (16). Oltre a ciò, la norma rivela una certa fiducia del legislatore (14) Cosı̀, dopo la riforma all’istituto arbitrale introdotta con la l. 5 gennaio 1994 n. 25, nell’assunto che l’arbitrato rituale è un istituto estraneo alla giurisdizione, avendo natura puramente contrattuale: Cass. civ., Sez. I, 1o febbraio 2001 n. 1403, in Giust. civ. Mass., 2001, 186; id., 8 agosto 2001 n. 10925, in Giust. civ., 2002, I, 71. In precedenza, era sempre stato ritenuto che l’eccezione di compromesso per arbitrato rituale, sollevata dinanzi al giudice ordinario, dà luogo ad una questione di competenza e non di giurisdizione, mentre solo nel caso dell’arbitrato irrituale l’eccezione dà luogo ad una questione di proponibilità della domanda (v., ad es.: Cass. civ., Sez. un., 23 febbraio 2000 n. 15, in Foro pad., 2001, I, 35). (15) Cosı̀, ad es.: Cass. civ., Sez. II, 26 gennaio 2000 n. 870, in Giust. civ. Mass., 2000, 153. (16) Tali finalità possono ricondursi, principalmente, ai seguenti nuovi istituti processuali: a) l’impugnazione con motivi aggiunti di provvedimenti connessi, in pendenza del ricorso tra le stesse parti, con cui è soddisfatta l’esigenza di concentrazione dei giudizi (art. 1); b) la sostituzione del ricorso per la tutela del diritto di accesso ex art. 25 l. n. 241 del 2000, in pendenza di un ricorso, con un’istanza che è decisa con un’ordinanza istruttoria (art. 1); c) il rito speciale con cui sono decisi i ricorsi contro il silenzio dell’amministrazione, che dà luogo ad una sentenza succintamente motivata (art. 2); d) il rito abbreviato in alcune materie nelle quali una pronuncia tempestiva è


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in questo strumento di risoluzione delle controversie per la sua obiettiva snellezza e la sua celerità (ed in ciò si può intravedere un’altra finalità), anche quando una delle parti sia una pubblica amministrazione ed anche quando si tratti di derogare alla giurisdizione del giudice amministrativo. C’è però un limite: le controversie devono concernere esclusivamente diritti soggettivi, restando escluse dall’arbitrato tutte le posizioni giuridiche qualificabili in termini di interesse legittimo. In altri termini, le situazioni giuridiche soggettive compromettibili in arbitri debbono avere carattere paritetico e disponibile, cioè non devono attenere direttamente alla funzione di cura degli interessi pubblici. Tale limite, peraltro, è già presente nell’art. 806 c.p.c. e nell’art. 1966 c.c., che non ammettono la possibilità che le situazioni giuridiche soggettive aventi natura indisponibile siano compromesse in arbitri. 3. L’art. 6, comma 2, della l. n. 205 del 2000 riguarda le controversie in cui emergano diritti la cui cognizione spetterebbe al giudice amministrativo, senza alcun esplicito riferimento alla giurisdizione esclusiva, anche se questo è, naturalmente, il campo si applicazione della norma. Ma si può pensare, stante l’anzidetta formulazione dell’art. 6, che tra le controversie compromettibili in arbitri rientrino anche quelle aventi ad oggetto il risarcimento dei danni ingiusti derivanti da lesione di interessi legittimi, pur se in materie nelle quali il giudice amministrativo non ha giurisdizione esclusiva (17). Com’è noto, infatti, l’art. 7, comma 3, della l. n. 1034 del particolarmente auspicabile (tra cui, principalmente: procedimenti di aggiudicazione di opere pubbliche, di servizi pubblici e forniture; procedimenti di espropriazione) (art. 4); e) le decisioni in forma semplificata (con sentenza succintamente motivata) che possono essere assunte nella stessa camera di consiglio in cui è esaminata l’istanza cautelare. (17) V. sull’argomento: ZITO, La compromettibilità per arbitri con la pubblica amministrazione dopo la l. n. 205 del 2000: problemi e prospettive, in Dir. amm., 2001, 343 ss.


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1971, come modificato dall’art. 7 della l. n. 205 del 2000, estende a tutta la giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo la competenza in ordine alle questioni risarcitorie. E tali questioni attengono a diritti, non ad interessi legittimi. L’argomento solleva due interrogativi. Il primo riguarda il rapporto processuale tra l’azione di annullamento e la domanda di risarcimento del danno, che i giudici amministrativi sono orientati a risolvere nel senso che la tempestiva domanda di annullamento del provvedimento amministrativo, che si assume lesivo per l’interessato, costituisce presupposto di ammissibilità della domanda risarcitoria (c.d. pregiudiziale amministrativa) e l’accertamento dell’illegittimità del provvedimento col suo annullamento giurisdizionale costituisce elemento necessario ai fini dell’accoglimento della domanda di risarcimento del danno ingiusto (18). Se, tuttavia, venisse seguita la tesi opposta, l’azione risarcitoria resterebbe autonoma rispetto alla domanda di annullamento e non vi sarebbe l’onere di tempestiva impugnazione del provvedimento lesivo, perché l’interessato potrebbe accontentarsi della sola tutela risarcitoria. In questa ipotesi, non vi sarebbero ostacoli a compromettere in arbitri le relative controversie. Invece, seguendo la tesi della « pregiudiziale amministrativa », gli arbitri non potrebbero intervenire se il provvedimento (18) Cosı̀, recentemente: Cons. Stato, Ad. plen., 26 marzo 2003 n. 4, in giust.it — Rivista Internet, n. 3-2003 e Cons. Stato, Ad. plen., 29 gennaio 2003 n. 1, in giust.it — Rivista Internet, n. 1 - 2003. La questione era stata rimessa all’Adunanza plenaria anche in precedenza, da Cons. Stato, Sez. V, 6 maggio 2002, ord. n. 2406, in Cons. St., 2002, I, 1029, ma era stata ritenuta irrilevante in quello specifico giudizio, che non è quindi sfociato in una pronunci di merito, da Cons. Stato, Ad. plen., 20 dicembre 2002 n. 8, in giust.it — Rivista Internet, n. 12-2002. In precedenza, a favore della pregiudizialità amministrativa si erano pronunciati: Cons. Stato, Sez. VI, 5 novembre 2002 n. 6027, in Cons. St., 2002, I, 2438; id., 25 giugno 2002 n. 3483, in Cons. St., I, 1380; id., 18 giugno 2002 n. 3338, in Cons. St., 2002, I, 1328, id., Sez. IV, 15 febbraio 2002 n. 952, in Cons. St., I, 367; Tar Puglia-Lecce, Sez. II, 6 novembre 1999, n. 769, in Trib. amm. reg., 2000, I, 395; Tar Friuli Venezia Giulia 26 luglio 1999 n. 903, in Trib. amm. reg., 1999, I, 3943; Tar Calabria-Reggio Calabria, 27 maggio 1999 n. 705, in Trib. amm. reg., 1999, I, 2948; Tar Piemonte, Sez. I, 18 gennaio 2001 n. 116, in Trib. amm. reg., 2001, I, 839.


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non sia stato tempestivamente impugnato ed, in tal caso, solo dopo che sia stato definito il giudizio con l’annullamento dell’atto. Infatti, si dovrebbe applicare l’art. 819 c.p.c. sulla sospensione del procedimento arbitrale fino alla definizione di una questione incidentale sottratta al giudizio arbitrale. Ma è evidente che, in tal caso, l’arbitrato non avrebbe senso in quanto la soluzione arbitrale è, per sua natura, funzionale ad una definizione rapida delle controversie. La seconda questione riguarda la stessa essenza della posizione giuridica soggettiva. Se la domanda risarcitoria nei confronti dell’amministrazione, anche relativamente alla lesione di un interesse legittimo, ha per oggetto un diritto soggettivo patrimoniale e non l’interesse legittimo stesso, è stato avvertito in dottrina (19) che potrebbero sorgere dubbi di costituzionalità. Questi dubbi investirebbero la previsione legislativa che affida al giudice amministrativo la cognizione del risarcimento del danno in tutti i giudizi di legittimità, per contrasto con l’art. 103 Cost. che prevede la giurisdizione del giudice amministrativo per la tutela di diritti soggettivi solo « in particolari materie indicate dalla legge ». Infatti, come già detto, l’azione tendente ad ottenere il risarcimento del danno derivante da una lesione di interessi legittimi non ha per oggetto un interesse legittimo, ma un vero e proprio diritto soggettivo di contenuto patrimoniale. L’incostituzionalità, secondo quanto avvertito dalla dottrina appena menzionata, emergerebbe con maggior evidenza in presenza di una norma (l’art. 6 l. n. 205 del 2000) che consente di compromettere in arbitri controversie aventi ad oggetto il risarcimento dei danni ingiusti derivanti da lesione di interessi legittimi, in materie nelle quali il giudice amministrativo non ha giurisdizione esclusiva. Gli stessi dubbi, poi, sarebbero amplificati accedendo alla tesi (peraltro recessiva in giurisprudenza, come (19) Questo problema è stato sollevato da ZITO, La compromettibilità per arbitri con la pubblica amministrazione dopo la l. n. 205 del 2000: problemi e prospettive, cit.


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accennato sopra) secondo cui l’accertamento dell’illegittimità del provvedimento, col suo annullamento giurisdizionale, non costituirebbe un elemento necessario ai fini dell’accoglimento della domanda di risarcimento del danno ingiusto. Questi dubbi (20), però, diminuiscono se la tutela risarcitoria viene vista in funzione esclusivamente sussidiaria rispetto alla tutela giurisdizionale che si concreta nell’annullamento dell’atto impugnato, secondo l’orientamento che si sta affermando in giurisprudenza. In questa prospettiva, l’interesse legittimo resta protagonista del giudizio amministrativo anche quando si avvantaggia della protezione ulteriore che gli deriva dall’azione risarcitoria, apprestata spesso, se non addirittura elettivamente (21), con la reintegrazione in forma specifica espressamente prevista dall’art. 35, comma 1, della l. n. 80 del 1998, come modificato dall’art. 7 della l. n. 205 del 2000. Non si deve dimenticare, poi, che la tutela risarcitoria accessoria all’azione di impugnazione è stata affidata al giudice amministrativo per l’evidente esigenza di concentrare davanti ad un unico giudice ogni forma di tutela nei confronti della pubblica amministrazione, quando si tratta di riparare, in tutti i modi possibili, le lesioni agli interessi legittimi (22). 4. Un campo di applicazione dell’arbitrato in deroga alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo è l’attività negoziata della pubblica amministrazione. Dal modello consensuale delineato dall’art. 11 della l. n. 241 (20) Per i quali, comunque, si è in attesa di una pronuncia ella Corte costituzionale, cui è già stata rimessa la questione. (21) Cosı̀: Tar Friuli Venezia Giulia, 27 aprile 1999 n. 537, in Trib. amm. reg., 1999, I, 2523; Tar Veneto, Sez. I, 9 febbraio 1999 n. 119, in Trib. amm. reg., I, 1351. (22) Le « particolari materie » di cui all’art. 103 Cost., nelle quali può essere affidata con legge ai giudici amministrativi la tutela giurisdizionale dei diritti soggettivi, non significano « casi eccezionali », come lucidamente osserva BACCARINI, La giurisdizione esclusiva e il nuovo riparto, in questa Rivista, 2003, 365 ss., e vi può essere ricondotto anche il risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi, in base ad un criterio enumerativo. È comunque attesa ed imminente la pronuncia sulla questione da parte della Corte costituzionale.


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del 1990 (23), attraverso il quale gli interessi pubblici e privati emergenti nel procedimento possono trovare una composizione equa ed efficace, scaturiscono accordi integrativi del provvedimento (dove l’accordo tra il privato e l’amministrazione determina il contenuto discrezionale del provvedimento, che comunque viene emanato) oppure accordi sostitutivi del provvedimento (dove il provvedimento non viene affatto emanato, perché l’accordo stesso è destinato a regolare la fattispecie ed a soddisfare l’interesse pubblico, nell’esercizio consensuale della potestà amministrativa). Com’è noto, la prima possibilità (accordo integrativo) è di applicazione generale mentre la seconda (accordo sostitutivo) dev’essere tassativamente prevista dalla legge. La giurisdizione in materia è affidata ai giudice amministrativo ed ha carattere esclusivo. L’art. 15 della l. n. 241 del 1990 reca una norma di carattere generale che abilita le amministrazioni a concludere accordi tra loro per lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune. La disciplina di questi accordi è modellata sulla falsariga degli accordi tra p.a. e privati: infatti, si rinvia all’art. 11, commi 2, 3 e 5. Cioè, tra l’altro, viene fatto rinvio alla disciplina del codice civile, peraltro limitatamente ai « principi in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili », come già ricordato. Anche in questo caso le controversie sono affidate alla giurisdizione esclusiva del g.a. Tra le forme in cui può realizzarsi l’attività consensuale, disciplinate specificamente, vanno ricordate le convenzioni tra enti locali (art. 30 d.lgs. n. 267 del 2000) e gli accordi di programma tra diversi enti pubblici, tra cui (ma non solo) gli enti locali (art. 34 d.lgs. n. 267 del 2000) (24). (23) Sugli accordi ex art. 11 l. n. 241 del 1990, v., in giurisprudenza: Cons. Stato, Sez. VI, 20 gennaio 2000 n. 264, in Riv. trim. app., 2000, 523 ss., con nota di ZANETTI. (24) Sull’accordo di programma v., recentemente: DAMONTE, L’accordo di programma in generale e suoi effetti sui procedimenti urbanistici, in Riv. giur. edil., 2002, II, 41 ss.


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Va sottolineato che il comma 2 del citato art. 34 del d.lgs. n. 267 del 2000 stabilisce espressamente che « l’accordo può prevedere altresı̀ procedimenti di arbitrato ». La natura, pubblicistica o privatistica, degli accordi è controversa, ma non è questa la sede per affrontare funditus il problema. Basterà dire che gli elementi a sostegno della concezione pubblicistica poggiano soprattutto sulla causa del rapporto, che è l’interesse pubblico, e sulla possibilità di recesso dall’accordo offerta dall’art. 11, comma 4, della l. n. 241 del 1990, salvo indennizzo. Questa sarebbe, in realtà, una forma di autotutela, talché l’amministrazione rimarrebbe comunque titolare di un potere autoritativo che farebbe degradare la posizione del privato ad interesse legittimo. In effetti, la previsione legislativa di un potere discrezionale, pur sempre esercitabile, insito nel possibilità del recesso che rende instabile il vincolo negoziale derivante dall’accordo e consente all’amministrazione di recuperare comunque i propri poteri autoritativi, rappresenta un forte elemento di sostegno alla tesi pubblicistica (25). I sostenitori di quest’ultima, poi, non trascurano di rilevare che la norma impiega il termine « accordo » anziché « contratto » e che il rinvio alle norme codicistiche è operato solo per i principi in materia di obbligazioni e contratti « in quanto compatibili ». Nella concezione privatistica, invece, si valorizza la circostanza che l’accordo è pur sempre riconducibile al contratto, tant’è vero che viene richiamata la disciplina del codice civile, cosicché l’amministrazione resta soggetta alle regole del codice civile e non può sottrarsi agli obblighi che le derivano, con l’esercizio di poteri autoritativi. Il diritto di recesso dall’accordo, previsto dall’art. 11, comma 4, della l. n. 241 del 1990, sarebbe in realtà riconducibile ad un diritto potestativo di derivazione privatistica. (25) Sul punto, v. CANGELLI, Riflessioni sul potere discrezionale della pubblica amministrazione negli accordi con i privati, in Dir. amm., 2000, 278 ss.


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Il rapporto giuridico che nasce da accordi di diritto pubblico è piuttosto complesso: da esso derivano diritti ed obblighi reciproci, restando però sullo sfondo anche interessi legittimi perché l’ente pubblico è soggetto agli obblighi che nascono dall’accordo ma resta pur sempre titolare di poteri di tipo autoritativo. Questi poteri si esplicheranno più facilmente nella fase genetica ed in quella finale. È la regolamentazione negoziale della fase funzionale, nell’esecuzione del rapporto, che sembra più facilmente utilizzabile l’arbitrato. Ciò premesso, se si aderisce alla tesi della natura pubblicistica, sarà esclusa o comunque limitata la possibilità che dagli accordi (sia tra privati e p.a., sia tra amministrazioni) sorgano diritti soggettivi insuscettibili di affievolimento, compromettibili in arbitri. Diversamente, se si aderisce alla tesi della natura privatistica, si ammetterà senz’altro la possibilità di compromettere in arbitri le relative controversie. La natura negoziale permette di considerare, infatti, le situazioni in termini di diritto soggettivo non esposto all’affievolimento. Altre forme in cui può realizzarsi l’attività consensuale, disciplinate da fonti legislative speciali, sono i sei moduli negoziali introdotti dall’art 2, comma 203, della l. n. 662 del 1996: programmazione negoziata; intesa istituzionale di programma; accordi di programma quadro; patto territoriale; contratto di programma; contratto di area (26). Questi modelli sono altresı̀ riconducibili all’urbanistica, che è un’altra materia attribuita alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo dall’art. 34 della l. n. 80 del 1998, modificato dall’art. 7 della l. n. 205 del 2000. Ancora, si possono ricordare i contratti relativi a concessione o appalto di pubblici servizi, devoluti anch’essi alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art. 33 della l. n. 80 del 1998, modificato dall’art. 7 della l. n. 205 del 2000. (26) Sul tema degli accordi tra amministrazioni a privati o tra sole amministrazioni, v.: CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo, Milano, 2001, 1707 ss.; DI BENEDETTO, Diritto amministrativo, giurisprudenza e casi pratici, Rimini, 1999, 473 ss.


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Ci sono, infine, le convenzioni urbanistiche (27) che rappresentano un campo piuttosto esteso in cui può misurarsi il rimedio dell’arbitrato. Nel convenzionamento attuativo di scelte e destinazioni, già stabilite nello strumento urbanistico, possono emergere situazioni giuridiche disponibili compromettibili in arbitri, non riconducibili alla pianificazione autoritativa ma al carattere sinallagmatico dell’accordo (28), in cui, sostanzialmente, il privato si assume l’obbligo di cessione di terreni e/o di realizzazione di opere di urbanizzazione e l’amministrazione si assume anch’essa l’obbligo di realizzare determinate opere infrastrutturali o di scomputare tutti o parte dei contributi dovuti dal privato, all’atto del rilascio della concessione edilizia. Anche nel caso delle convenzioni urbanistiche, però, non va dimenticato che, in presenza di esigenze sopravvenute di pubblico interesse, l’amministrazione potrà sempre introdurre nuove previsioni urbanistiche, in quanto lo ius variandi alle prescrizioni del piano regolatore generale include anche uno ius poenitendi relativo ai vincoli precedentemente assunti, rispetto ai quali l’amministrazione non è permanentemente vincolata nemmeno da una preesistente convenzione. La giurisprudenza, infatti, è unanime nel ritenere che le convenzioni urbanistiche debbono sempre considerarsi rebus sic stantibus (cioè, esposte a interventi autoritativi) sicché l’amministrazione, in presenza di un interesse pubblico sopravvenuto, ha la facoltà di introdurre nuove previsioni con il solo onere di motivare le esigenze che le determinano (29). In tal caso, verrebbe meno la possibilità di compromettere le controversie in arbitri. Un’ultima osservazione si impone: dopo più di dieci anni (27) V. sul tema: CHIERICHETTI, Moduli consensuali nella concertazione urbanistica, in Riv. giur. edil., 2002, II, 281 ss. (28) Sulla natura contrattuale delle convenzioni urbanistiche v., ad es.: Cass. civ., Sez. I, 29 aprile 1999 n. 4301, in Giust. civ., 2000, I, 855; Cass. civ., Sez. un., 5 marzo 1993 n. 266, in Foro it., 1993, I, 3308; Cons. Stato, Sez. V, 4 gennaio 1993 n. 14, in Foro amm., 1993, 989. (29) Cosı̀, ad es.: Cons. Stato, Sez. IV, 25 luglio 2001 n. 4073, in Foro amm., 2001, f. 7-8.


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dall’entrata in vigore della l. n. 241 del 1990, non si può dire che, nella pratica, l’accordo tra amministrazione e privati sia un istituto di frequente applicazione. 5. Le impugnazioni del lodo arbitrale sono quelle disciplinate dagli artt. 827 ss. c.p.c. e, cioè, l’impugnazione per nullità (30), per revocazione (straordinaria) (31) e per opposizione di terzo (32). Le prime due sono irrinunciabili, e quindi sarebbe irrilevante la preventiva dichiarazione di inopponibilità del lodo contenuta nel compromesso o nella clausola compromissoria. La competenza a decidere sulle impugnazioni spetta al giudice ordinario e precisamente alla Corte d’appello, ex art. 828 c.p.c. (30) L’impugnazione per nullità è ammessa dall’art. 829 c.p.c. nei casi seguenti: 1) se il compromesso è nullo; 2) se gli arbitri non sono stati nominati con le forme e nei modi prescritti, purché la nullità sia stata dedotta nel giudizio arbitrale; 3) se il lodo è stato pronunciato da chi non poteva essere nominato arbitro a norma dell’art. 812 c.p.c.; 4) se il lodo ha pronunciato fuori dei limiti del compromesso o non ha pronunciato su alcuno degli oggetti del compromesso o contiene disposizioni contraddittorie, salva la disposizione dell’art. 817 c.p.c.; 5) se il lodo non contiene i requisiti indicati nei numeri 3), 4), 5) e 6) del comma 2 dell’art. 823 c.p.c., salvo il disposto del terzo comma di tale articolo; 6) se il lodo è stato pronunciato dopo la scadenza del termine indicato nell’art. 820 c.p.c., salvo il disposto del successivo art. 821; 7) se nel procedimento non sono state osservate le forme prescritte per i giudizi sotto pena di nullità, quando le parti ne avevano stabilita l’osservanza a norma dell’art. 816 c.p.c. e la nullità non è stata sanata; 8) se il lodo è contrario ad altro precedente lodo non più impugnabile o a precedente sentenza passata in giudicato tra le parti, purché la relativa eccezione sia stata dedotta nel giudizio arbitrale; 9) se non è stato osservato nel procedimento arbitrale il principio del contraddittorio. L’impugnazione per nullità è altresı̀ ammessa se gli arbitri nel giudicare non hanno osservato le regole di diritto, salvo che le parti li avessero autorizzati a decidere secondo equità o avessero dichiarato il lodo non impugnabile. (31) Il lodo, ex art. 831 c.p.c., è soggetto a revocazione nei casi indicati nei numeri 1), 2), 3) e 6) dell’art. 395 c.p.c. (32) Il lodo, ex art. 831 c.p.c., è soggetto ad opposizione di terzo nei casi indicati nell’art. 404 c.p.c.


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In particolare, il giudizio di impugnazione per nullità è un giudizio di secondo grado che comprende necessariamente la fase rescindente (demolitoria) ed eventualmente (nell’ipotesi che il giudizio rescindente si concluda con l’accertamento della nullità del lodo) la fase rescissoria (sostitutiva). L’impugnazione per nullità, infatti, non è un giudizio di appello e, pertanto, non consiste in un riesame nel merito della decisione del collegio arbitrale, ma dà luogo ad un giudizio rescindente, diretto all’accertamento della sussistenza o meno di taluna delle nullità tassativamente previste dall’art. 829 c.p.c., come conseguenza di errori in procedendo o in iudicando (33). Solo se la Corte d’appello riconosce la sussistenza di qualcuno dei vizi di nullità dedotti, essa procede al riesame nel merito della pronuncia arbitrale (34). Il nuovo giudizio rescissorio, conseguente all’annullamento del lodo arbitrale, può essere evitato dalle parti ex art. 830, comma 2, c.p.c., se esse abbiano stabilito concordemente di derogare alla competenza del giudice statale in favore di un arbitro. Inoltre, il giudizio di impugnazione per nullità è un mezzo d’impugnazione vincolato nell’effetto devolutivo, sia in astratto per la tassatività dei vizi deducibili, sia in concreto, per la delimitazione di quelli specificamente dedotti (35). La pronuncia sull’impugnazione è soggetta al ricorso per cassazione. Ciò premesso, l’inconveniente più grave derivante dalla nuova disposizione dell’art. 6, comma 2, della l. n. 205 del 2000 è costituito dalla mancata indicazione del giudice competente a decidere sulle impugnazioni del lodo, quando l’arbitrato deroga alla giurisdizione amministrativa. (33) L’unica ipotesi di errore in judicando è l’inosservanza, da parte degli arbitri, delle regole di diritto ex art. 829, comma 2, c.p.c.; tutte le altre ipotesi elencate nel comma 1 costituiscono altrettanti errori in procedendo: v. ad es.: Cass. civ., Sez. I, 4 aprile 2001 n. 4943, in Giust. civ. Mass., 2001, 688. (34) V., ad es: Cass. civ., Sez. I, 23 novembre 2000, n. 15126, in Giur. it., 2001, 1846, con nota di PAOLINI. (35) V.: Cass. civ., Sez. I, 2 marzo 2000, n. 2307, in Giust. civ. Mass., 2000, 515.


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Gli autori che per primi hanno commentato la disposizione, dopo averne rimarcato la difficoltà interpretativa derivante dalla citata lacuna, si sono divisi prospettando tre diverse soluzioni: a) secondo una prima tesi (36), più lineare, dovrebbero necessariamente applicarsi gli artt. 827 ss. c.p.c., cioè l’impugnazione dovrebbe essere proposta davanti alla Corte d’appello, nel silenzio della norma che non reca alcuna diversa previsione; b) secondo un’altra tesi (37), competente a decidere sull’impugnazione dovrebbe essere il giudice amministrativo, in particolare l’organo di secondo grado (cioè, il Consiglio di Stato), in analogia con quanto dispone l’art. 828 c.p.c., che affida tale competenza alla Corte d’appello. Si osserva, infatti, che ciò è in linea con gli effetti legali derivanti dal compromesso o dalla clausola compromissoria, che attribuendo agli arbitri la risoluzione della controversia, affidano loro quella stessa competenza a decidere che sarebbe spettata all’organo di primo grado della giustizia amministrativa (cioè, al Tar) (38). c) secondo una terza tesi (39), si dovrebbe distinguere il giudizio rescindente da quello rescissorio. Competente a pronunciarsi nella fase rescindente continuerebbe ad essere la Corte d’appello, mentre il giudizio rescissorio spetterebbe al giudice amministrativo. Si può tranquillamente scartare la terza soluzione, che oltre a non trovare alcun appiglio nel diritto positivo, si porrebbe ad(36) Sostenuta in particolare da: CARDI, Modelli processuali arbitrali nella giustizia amministrativa, in questa Rivista, 2002, 314 ss., cit., CARINGELLA, Arbitrato e diritti soggettivi, in CARINGELLA-PROTTO (a cura di), Il nuovo processo amministrativo dopo la l. 21 luglio 2000 n. 205, Milano, 2001, 509; PAJNO, La nuova giurisdizione del giudice amministrativo, in Giorn. dir. amm., 2000, 1109; VENEZIANO, Arbitrato e giurisdizione amministrativa, in Trib. amm. reg., 2001, 407. (37) Sostenuta in particolare da: DE LISE, Verso il nuovo processo amministrativo, commento alla l. 21 luglio 2000 n. 205, Torino, 2000, 192; ANTONIOLI, Arbitrato e giurisdizione amministrativa dopo la l. n. 205 del 2000, in questa Rivista, 2002, 326 ss. (38) Cosı̀: ANTONIOLI, Arbitrato e giurisdizione amministrativa dopo la l. n. 205 del 2000, cit. (39) Questa soluzione è astrattamente prospettata da ANTONIOLI, Arbitrato e giurisdizione amministrativa dopo la l. n. 205 del 2000, cit., ma dallo stesso autore ritenuta piena di anomalie, divergente dai principi e difficilmente sostenibile.


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dirittura in contrasto con le norme del codice di procedura civile e creerebbe più problemi di quelli che intende risolvere, con la dispersione della tutela processuale relativa alla stessa controversia tra giurisdizioni diverse. Peraltro, nessuna delle altre due soluzioni può convincere del tutto. Entrambe presentano seri inconvenienti. Infatti, ci troviamo di fronte ad una vera e propria aporia normativa in cui (purtroppo) è incorso il legislatore e che si auspica venga presto eliminata. La difficoltà sta soprattutto in ciò: che, attraverso l’impugnazione del lodo, la controversia verrebbe spostata dalla giurisdizione amministrativa a quella ordinaria in contrasto, tra l’altro, con l’art. 25 Cost., che fissa il principio del giudice naturale precostituito per legge. In altri termini, la deroga alla giurisdizione mediante l’arbitrato che è insita nel patto implicito di rinuncia alla giurisdizione si tradurrebbe, in caso di impugnazione del lodo, in una ulteriore e più problematica deroga anche al criterio legale del riparto tra le giurisdizioni ordinaria ed amministrativa, tale che ci sarebbe da dubitare della costituzionalità della norma per contrasto con gli artt. 25 e 103 Cost. (per la sottrazione delle relative controversie al giudice naturale amministrativo). In attesa che il legislatore completi la disciplina, sembra preferibile la tesi sub b), cioè competente a decidere sulle impugnazioni dovrebbe ritenersi il giudice amministrativo, e precisamente il Consiglio di Stato (40). Un primo argomento a sostegno della tesi è quello dell’obbligo, se possibile, di interpretazione adeguatrice ai principi costituzionali (41). Un secondo argomento, interno allo stesso codice di proce(40) Una prima, recente pronuncia in questo senso è del Consiglio di Stato, Sez. V, 19 giugno 2003 n. 3655 (in Cons. St., 2003, I, 1368 ss.) secondo cui il lodo arbitrale previsto dall’art. 6, comma 2, l. 205/00 è alternativo ad una pronuncia del giudice amministrativo di primo grado e perciò il suo appello non può che spettare al giudice naturale, vale a dire al giudice amministrativo di secondo grado. (41) V., ad es.: Corte cost., 18 luglio 1997, n. 244, in Cons. St., 1997, II, 110.


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dura civile, può ricavarsi dall’art. 1 c.p.c. (42), secondo cui « la giurisdizione civile, salvo speciali disposizioni di legge, è esercitata dai giudici ordinari secondo le norme del presente codice ». Se si ammettesse che nel giudizio rescissorio dopo l’annullamento del lodo arbitrale la Corte d’appello fosse competente a decidere una controversia, la cui giurisdizione spetta al giudice amministrativo, si contravverrebbe alla stessa ninna generale del diritto processuale che riserva ai giudici ordinari la (sola) giurisdizione civile, secondo le norme del codice di procedura civile. L’inciso « salvo speciali disposizioni di legge » non può consentire al giudice della giurisdizione civile di decidere questioni appartenenti ad un giudice diverso (il giudice amministrativo), le quali, nonostante riguardino veri e propri diritti, devono essere decise secondo le norme del processo amministrativo. 6. Una riflessione conclusiva può tradursi nella seguente domanda: le parti del rapporto, e soprattutto le amministrazioni, nella pratica intenderanno avvalersi di questo strumento? Un primo ostacolo potrebbe emergere ogni qual volta sia difficile distinguere fra diritti soggettivi ed interessi legittimi, nelle materie in cui il giudice amministrativo ha giurisdizione esclusiva: l’individuazione problematica di posizioni giuridiche qualificabili come diritti intrecciate ad interessi legittimi può mettere in crisi il ricorso allo strumento arbitrale. C’è poi un altro ostacolo, ricollegabile a quello appena illustrato. Nel c.d. esercizio consensuale dell’azione amministrativa, tradotto in accordi tra amministrazioni e privati, è sempre possibile il recesso unilaterale dell’amministrazione ex art. 11, comma 4, della l. n. 241 del 1990: ciò potrebbe costituire, in molti casi, un commodus discessus che, tra l’altro, farebbe venir meno la natura disponibile delle situazioni giuridiche soggettive coinvolte dagli accordi e, dunque, la possibilità di risoluzione arbitrale delle controversie. In tal caso, infatti, il diritto nascente (42) Che va ricollegato all’art. 2907 c.c., secondo cui « alla tela giurisdizionale dei diritti provvede l’autorità giudiziaria... ».


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dall’accordo sarebbe esposto all’affievolimento, come si è detto sopra. Un altro elemento ostativo potrebbe derivare dalla probabile riluttanza delle pubbliche amministrazioni ad affidarsi ad un atto di autonomia privata, e non ad un giudice, per la risoluzione di controversie che le vede protagoniste, pur se relativamente a rapporti paritetici, ma da cui potrebbero sorgere problemi di responsabilità amministrativa a carico degli amministratori e/o dei dirigenti, in caso di danno conseguente ad un lodo arbitrale sfavorevole. Molto, comunque, dipenderà dai tempi della giustizia amministrativa, che sembra avviata (secondo recenti statistiche) (43) verso un’aumentata produttività e conseguentemente verso una riduzione dei tempi occorrenti per ottenere una sentenza, anche se permane il problema dell’imponente arretrato (44), difficilmente eliminabile con le attuali strutture organiche. Se questa tendenza dovesse consolidarsi, il ricorso all’arbitrato diventerebbe scarsamente interessante. A ciò si aggiunga che la fase cautelare del processo amministrativo, dopo le innovazioni introdotte dalla l. n. 205 del 2000, è caratterizzata da una particolare effettività (oltre che dalla consueta rapidità) mentre gli arbitri non possono concedere provvedimenti cautelari (ex art. 818 c.p.c.), cosicché potrebbe, in molti casi, ritenersi preferibile all’arbitrato il ricorso al giudice amministrativo, in vista della tutela cautelare da questo ottenibile, anche se resta comunque possibile, in applicazione degli artt. 669-quinquies ss. c.p.c., la proposizione della domanda cautelare al giudice amministrativo in presenza di clausola compromissoria o di compromesso o in pendenza di giudizio arbitrale. Conclusivamente, non è difficile prevedere che l’arbitrato in deroga alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, pur apprezzabile in sé e come strumento deflattivo del carico (43) V.: TALICE, Analisi dell’attività della giustizia amministrativa nel 2001, in Cons. St., 2002, II, 1417 ss. (44) I ricorsi pendenti al 31 dicembre 2001 erano 905.444: v. TALICE, Analisi dell’attività della giustizia amministrativa nel 2001, cit.


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giudiziario, sconterà nella pratica qualche resistenza e non avrà, almeno all’inizio, un impiego frequente, specie finché non si saranno consolidati i modelli dell’attività negoziata della pubblica amministrazione.


giurisprudenza annotata

Cons. Stato, Ad. plen., 31 maggio 2002, n. 5 — Pres. De Roberto — Est. Pajno — Regione Umbria (avv. St.) c. B.M. (avv.ti Baldassare e Rampini) e altri. Giustizia amministrativa - Dimezzamento dei termini processuali ex art. 21-bis l. n. 1034 del 1971 - Deposito del ricorso in appello - Si applica. Il dimezzamento dei termini processuali nello speciale procedimento ex art. 23-bis l. 6 dicembre 1971, n. 1034 si applica al deposito del ricorso in appello (1). (Omissis). Può, pertanto, passarsi all’esame della questione prospettata dall’ordinanza di rimessione della Sezione IV, consistente nello stabilire se, nello speciale rito introdotto dall’art. 23-bis della l. n. 1034 del 1971, come novellata dalla l. n. 205 del 2000, dell’appello debba ritenersi dimidiato (e cioè ridotto a quindici giorni) in forza della disposizione di cui al medesimo art. 23-bis, comma 2, il termine per il deposito del ricorso in appello al Consiglio di Stato. L’Adunanza plenaria ritiene che a tale quesito debba essere data risposta positiva e che, di conseguenza, relativamente ai giudizi di cui all’art. 23-bis, comma 1, della l. n. 1034 del 1971, il termine per il deposito dell’appello debba ritenersi ridotto a quindici giorni. Va, in proposito, ricordato che l’art. 23-bis della l. n. 1034 del 1971, introdotto dall’art. 4 della l. n. 205 del 2000, riprendendo in parte l’esperienza legata alla normativa di cui all’art. 19 del d.l. 25 marzo 1997 n. 67 ed all’art. 1 comma 27 della l. 31 luglio 1997 n. 249, ha introdotto una disciplina processuale speciale, volta a conseguire obiettivi di accelerazione della definizione delle controversie in determinate materie, per le quali, appunto, l’esigenza di una pronta ed immediata definizione è considerata di particolare interesse pubblico. L’introduzione di una speciale disciplina del genere, con riferimento a materie limitate e puntualmente identificate, o volte a conseguire obiettivi di celerità processuale, è stata, infatti, considerata legittima e non irragionevole dalla Corte Costituzionale (Corte Cost., sentenza 10 novembre 1999 n. 427). In particolare, l’art. 23-bis cennato, dopo aver indicato al comma 1 gli « oggetti » a cui si applicano, « nei giudizi davanti agli organi di giustizia amministrativa », le nuove disposizioni, pone, nei commi succes-


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sivi, tale disciplina. La regola fondamentale di tale (speciale) disciplina è indicata nell’art. 23-bis, comma 2, secondo cui « i termini processuali previsti sono ridotti alla metà, salvo quelli per la proposizione del ricorso ». L’altro nucleo fondamentale della nuova normativa è costituito dalla possibilità del giudice, chiamato a pronunciarsi sulla domanda cautelare, di anticipare la discussione nel merito del ricorso, ove ritenga, ad un primo esame, l’illegittimità del provvedimento impugnato o la sussistenza di un danno grave ed irreparabile. I commi 3, 4 e 5 dell’art. 23-bis dettano, appunto, la relativa disciplina. L’art. 23-bis, comma 6, pone, poi, una ulteriore disposizione di carattere generale, sulla pubblicazione del dispositivo della decisione (da effettuarsi entro sette giorni dall’udienza), mentre il successivo comma 7 indica una specifica disciplina con riferimento ai termini per la « proposizione dell’appello » avverso la sentenza del Tar, identificando tali termini in quelli di trenta giorni dalla notificazione e di centoventi dalla pubblicazione, e prevedendo la possibilità della proposizione del gravame nei trenta giorni dalla pubblicazione del dispositivo. L’ultimo comma dell’art. 23-bis precisa, infine, che le relative disposizioni « si applicano anche davanti al Consiglio di Stato, in caso di domanda di sospensione della sentenza appellata ». Poiché l’applicabilità delle disposizioni di cui all’art. 23-bis dinanzi a tutti gli organi di giustizia amministrativa — e, quindi, anche dinanzi al Consiglio di Stato — discende dalla disposizione del medesimo art. 23-bis, comma 1, il senso del successivo comma 8 è, pertanto, quello di precisare che la speciale disciplina di cui al precedente comma 3 — formalmente dettata per il primo grado dal giudizio — trova applicazione anche nel giudizio dinanzi al Consiglio di Stato, in caso di domanda di sospensione della sentenza impugnata. Tale essendo la speciale disciplina processuale dettata dall’art. 23-bis della l. n. 1034 del 1971, con riferimento alle « materie » indicate nel comma 1, appare evidente che la norma di cui al comma 2 — che dispone la riduzione alla metà dei termini processuali — riguarda sia il primo che il secondo grado del giudizio, dal momento che essa si applica, « nei giudizi davanti agli organi di giustizia amministrativa » (art. 24-bis, comma 1), e quindi, sia dinanzi ai Tribunali Amministrativi Regionali che al Consiglio di Stato. Quella di cui al comma 2, costituisce, pertanto, la regola generale sui termini processuali della disciplina introdotta dall’art. 23-bis, e che meglio di ogni altra esprime la ratio acceleratoria che la caratterizza, in relazione ai peculiari interessi pubblici connessi con la particolare rilevanza economica e sociale dei diversi « oggetti » indicati dalla stessa norma al comma 1. Consegue da ciò che, nell’ambito della disciplina processuale dell’art. 23-bis, l’applicabilità della regola del dimidiamento dei termini — generale perché riferita sia a tutti i termini che a tutti i gradi del giudizio — può essere esclusa soltanto dalla presenza nella stessa disciplina, di una disposizione derogatoria o che introduca, comunque, per determinati


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atti o adempimenti, un diverso specifico termine per il relativo compimento. È quanto avviene, nel processo accelerato previsto dall’art. 23-bis della l. n. 1034 del 1971, a seguito dell’inciso di cui allo stesso comma 2, secondo cui i termini processuali sono ridotti alla metà, « salvo quelli per la proposizione del ricorso », ed a seguito della disciplina di cui al comma 7, che introduce uno specifico termine « per la proposizione dell’appello » avverso la sentenza del Tar, (trenta giorni dalla notificazione e centoventi giorni dalla pubblicazione). Né l’inciso dell’art. 23-bis, comma 2, né la disciplina di cui al successivo comma 7, si riferiscono, peraltro al termine per il deposito del ricorso in appello, il cui mancato rispetto è stato, nella fattispecie eccepito. Quanto all’art. 23-bis, comma 2, della l. n. 1034 del 1971, la sua formulazione risente, come è evidente, del dibattito scientifico e giurisprudenziale che ha, a suo tempo accompagnato l’art. 19, comma 3, del d.l. 25 marzo 1997 n. 67 (e l’art. 1, comma 27, della legge 31 luglio 1997 n. 27) il quale, nell’introdurre un rito accelerato per i giudizi relativi a procedure di affidamento di incarichi di progettazione ed a provvedimenti di aggiudicazione, affidamento ed esecuzione di opere pubbliche, disponeva che « tutti i termini processuali sono ridotti della metà ». In particolare, pur avendo la Corte Costituzionale ritenuto che « la previsione di un termine di trenta giorni per notificare il ricorso » — discendente, appunto dal dimezzamento dei termini disposto dal cennato art. 19 del d.l. n. 67 del 1997 — « non comprime, oltre i limiti di ragionevolezza ed effettività, il diritto di cui all’art. 24 della Costituzione, poiché non riduce i tempi di preparazione delle necessarie difese al punto da pregiudicarne l’efficacia e la completezza, lasciando al ricorrente un congruo margine di valutazione » (Corte cost., 10 novembre 1999 n. 427), appare evidente che il legislatore, nel formulare la nuova disciplina contenuta nell’art. 4 della l. n. 205 del 2000, si è dato carico delle difficoltà che erano state prospettate a proposito della precedente disciplina speciale, ed in particolare di quelle connesse alla fase, prodromica alla instaurazione del giudizio, nella quale la parte, sfornita di un difensore, deve reperirlo ed affidare al medesimo le proprie difese. Nella formulazione della regola di cui all’art. 23, comma 2, il legislatore ha ritenuto di tenere ragionevolmente conto di tali esigenze, ed ha pertanto escluso dal dimezzamento, previsto per tutti i termini, il dimezzamento dei termini « per la proposizione del ricorso »; termini, questi ultimi, che per le ragioni sopra esposte e per la ratio che accompagna l’esclusione disposta, non possono che riguardare esclusivamente il ricorso di primo grado, e cioè l’atto introduttivo del giudizio dinanzi al Tar. L’art. 23-bis, comma 2, della l. n. 1034 del 1971, nel porre la regola generale del dimezzamento dei termini con riferimento a tutti i giudizi davanti agli organi di giustizia amministrativa (art. 23-bis, comma 1), e quindi anche davanti al Consiglio di Stato, pone una eccezione che si riferisce esclusivamente al ricorso ed al processo di primo grado. A prescindere quindi, dal problema (su cui si tornerà più avanti) se con il termine « proposi-


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zione del ricorso » si intenda far riferimento anche al deposito del medesimo, l’eccezione posta dall’art. 23-bis comma 2, riferendosi al giudizio di primo grado, non può, in ogni caso, riguardare la questione rilevante nel caso in esame, che attiene al termine per il deposito del ricorso in appello. La presenza di una esplicita disciplina per il termine di proposizione dell’appello, contenuta nell’art. 23-bis, comma 7, esclude, peraltro, che l’inciso « salvo quelli per la proposizione del ricorso » contenuto nel comma 2, si riferisca al giudizio di appello. Sempre a proposito dell’art. 23-bis, comma 2, della l. n. 1034 del 1971, deve infine, essere precisato che nessun elemento positivo, al fine di dedurne il mancato dimezzamento del termine del deposito dell’atto di appello, può essere dedotto dalla circostanza che l’originaria previsione contenuta nel disegno di legge governativo, (poi divenuto la l. n. 205 del 2000) esonerava dalla riduzione dei termini « ... quello per la proposizione del ricorso », e che nel successivo iter legislativo il singolare « quello » sia stato sostituito con il plurale « quelli ». La norma di cui all’art. 23-bis, comma 2, non riguarda, infatti, come si è visto, il giudizio di appello; mentre l’uso del plurale « quelli » appare dovuto al fatto che il legislatore ha inteso riferirsi anche al ricorso incidentale nel processo di primo grado, per il quale sovvengono le stesse esigenze che hanno condotto alla esclusione dalla regola del dimezzamento del ricorso principale. 4. Nessuna indicazione può poi, essere tratta dalla disciplina contenuta nell’art. 23-bis, comma 7, della l. n. 1034 del 1971, per dedurne che il termine per il deposito del ricorso in appello non debba ritenersi dimezzato. Come si è detto, il cennato art. 23-bis comma 7 pone una specifica autonoma disciplina riguardante i termini per la proposizione del ricorso in appello, e cioè per la sua notificazione (trenta giorni dal deposito della sentenza impugnata o centoventi giorni dalla sua pubblicazione). Consegue da ciò che, al di fuori della specifica autonoma disciplina introdotta dall’art. 23, comma 7, della legge, trova applicazione la disciplina comune prevista dall’art. 23-bis per i giudizi previsti dal comma 1: disciplina comune che è quella prevista dal comma 2 e che si esprime nella generale regola del dimezzamento dei termini processuali. Risulta, cosı̀, evidente, l’erroneità della tesi sostenuta dal Sindacato unitario farmacisti rurali, che pur esattamente affermando che l’art, 23bis, comma 7, introduce una autonoma disciplina per la notificazione dell’atto di appello, identifica poi la disciplina ulteriore per i termini del giudizio di appello delle controversie di cui all’art. 23-bis comma 1, non in quella posta dall’art. 23-bis, comma 2, ma in quella, generale, del processo amministrativo di appello. Un tal modo di pensare si risolve in una erronea interpretazione dello stesso art. 23-bis della l. n. 1034 del 1971, dal momento che le di-


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sposizioni da esso poste — tra cui anche quelle concernenti il dimezzamento dei termini processuali — si applicano, in via generale, « nei giudizi davanti agli organi di giustizia amministrativa » (art. 23-bis, comma 1). Non appare, poi, possibile pervenire all’affermazione secondo cui, nella fattispecie, il termine per il deposito dell’appello dovrebbe essere considerato di trenta giorni (e non di quindici), valorizzando la disposizione contenuta nell’art. 23-bis, comma 7, secondo cui il termine per la proposizione dell’appello è di trenta giorni. In questa prospettiva, l’espressione « proposizione dell’appello », andrebbe riferita non soltanto alla sua notificazione, ma anche al deposito dell’atto di appello notificato, dovendosi l’appello ritenere « proposto » non solo con la notificazione del relativo atto, ma anche con il deposito. A tacer d’altro, tale tesi è positivamente smentita dallo stesso art. 23-bis, comma 7, che fa espresso riferimento, ai fini della proposizione dell’appello, ad un termine che è di « trenta giorni dalla notificazione e di centoventi giorni dalla pubblicazione della sentenza ». Si tratta, con ogni evidenza, del termine breve e del termine lungo per la notificazione dell’impugnazione, ridotti rispettivamente a trenta ed a centoventi giorni; sicchè appare palese che, con la locuzione « termine per la proposizione dell’appello », l’art. 23-bis, comma 7, cennato, abbia inteso riferirsi esclusivamente al termine per la notificazione del gravame, e non invece, al diverso termine per il deposito dell’appello notificato (decorrente non dalla notificazione o pubblicazione della sentenza, ma dalla notificazione del gravame). L’art. 23-bis, comma 7, utilizza, pertanto, il termine « proposizione » nel senso che esso è volto ad indicare la fase relativa alla manifestazione della volontà di impugnare la sentenza di primo grado, e cioè la notificazione dell’atto di appello, secondo un uso che è frequente da parte del legislatore (si veda, ad esempio, l’art. 28, comma 2, della l. n. 1034 del 1971, secondo il quale contro le sentenze dei Tar è ammesso ricorso al Consiglio di Stato, « da proporre nel termine di sessanta giorni dalla ricevuta notificazione »). L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha d’altra parte, da tempo precisato la differenza tra il momento della notificazione del ricorso giurisdizionale amministrativo e quello del deposito del medesimo, sottolineando come il primo manifesti esclusivamente la volontà di agire in giudizio, e come il secondo, invece, realizzi concretamente la presa di contatto tra il ricorrente e l’organo giurisdizionale e generi, cosı̀, la costituzione del rapporto processuale (Cons. Stato, Ad. plen., 28 luglio 1980 n. 35). 5. Gli esiti interpretativi sopra esposti, appaiono, peraltro, integralmente confermati dall’analisi della giurisprudenza formatasi attorno all’interpretazione dell’art. 19 del decreto l. n. 67 del 1997 che (insieme all’art. 1, comma 27 della l. n. 249 del 1997) costituisce l’antecedente storico della disciplina contenuta nell’art. 23-bis della l. n. 1034 del 1971.


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Non a caso, infatti, l’art. 4 della l. n. 205 del 2000, recante « disposizioni particolari sul processo in determinate materie », nell’introdurre, con il comma 1, il cennato art. 23-bis della l. n. 1034 del 1971, ha contemporaneamente previsto l’abrogazione, al comma 2, dell’art. 19 del d.l. n. 67 del 1997 e dell’art. 1, comma 27, della l. n. 249 del 1997. Ora, come ha esattamente osservato la difesa dell’appellato, alcuni dei principali problemi interpretativi postisi a proposito dell’art. 19, del d.l. n. 67 del 1997 hanno riguardato la portata del comma 3 (« tutti i termini processuali sono ridotti della metà ») ed in particolare, la necessità di stabilire se, in forza di esso, dovessero ritenersi dimezzati anche i termini processuali del ricorso in appello. In proposito, la risposta della giurisprudenza è stata nel senso di considerare la riduzione alla metà disposta dall’art. 19, comma 3, del d.l. n. 67 del 1997 come riferita a tutti i termini processuali, e quindi anche a quelli relativi al deposito del ricorso in appello, con la conseguente inammissibilità dell’appello depositato dopo la scadenza del termine di quindici giorni fissato dal cennato art. 19 del d.l. n. 67 del 1997 (Cons. Stato, Sez. V, 25 maggio 1998 n. 695; Sez. IV, 31 maggio 1999 n. 935; 6 aprile 2000 n. 1989). Appare, pertanto, del tutto ragionevole ritenere che la nuova disciplina introdotta con l’art. 4 della l. n. 205 del 2000, nel sostituire, mettendola a regime, nell’ambito delle nuove disposizioni in materia di giustizia amministrativa, la speciale disciplina a suo tempo dettata limitatamente ai giudizi in materia di opere pubbliche e di pubblica utilità e con riferimento ai provvedimenti dell’Autorità delle telecomunicazioni, abbia mantenuto la portata generale della regola del dimezzamento di tutti i termini processuali (riferibile, quindi, anche al termine per il deposito del ricorso in appello), salvo le eccezioni a tale regola generale espressamente indicate. 6. Si deve pertanto ritenere che, nel presente giudizio, il termine per il deposito del ricorso in appello, in virtù della regola enunciata dall’art. 23-bis, comma 2, della l. n. 1034 del 1971, per tutti i giudizi indicati dal comma 1 dello stesso articolo, sia di quindici giorni dalla data della notificazione dell’atto di impugnazione. Da tale esito non deriva, peraltro, la possibilità, di dichiarare, come richiesto dall’appellato, l’inammissibilità del gravame. Deve infatti, nella presente fattispecie, essere riconosciuto alla Regione appellante il beneficio dell’errore scusabile, con conseguente ammissibilità del gravame dalla medesima proposto, depositato dopo diciannove giorni dalla sua notificazione. È noto, infatti, che il giudice amministrativo, in virtù del principio generale già affermato nell’art. 34 del t.u. n. 1054 del 1924 e richiamato nell’art. 34 l. n. 1034 del 1971, può temperare il rigore della previsione di un termine di decadenza ove ritenga che l’errore in cui sia incorso il ricorrente possa essere ritenuto scusabile; è noto, altresı̀, che l’istituto dell’errore scusabile deve ritenersi applicabile ad ogni tipo di possibile invalidità o irregolarità degli atti processuali, collegata al mutare della disciplina legislativa, alla


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difficoltà obiettiva di interpretazione, od alle innovazioni nella giurisprudenza amministrativa. Nel caso in esame si verifica, appunto la situazione che giustifica il riconoscimento del sopra richiamato beneficio, dovendosi ritenere scusabile l’errore in cui è incorso l’amministrazione appellante, in quanto collegato all’entrata in vigore della nuova disciplina contenuta nell’art. 4 della l. n. 205 del 2000, che ha introdotto l’art. 23-bis della l. n. 1034 del 1971, ed alle obiettive difficoltà interpretative ed ambiguità con essa connesse, sotolineate dalla IV Sezione con l’ordinanza di rimessione all’Adunanza plenaria. (Omissis).

(1)

L’art. 23-bis della l. n. 1034 del 1971 fra disciplina particolare e rito speciale.

SOMMARIO: 1. La riduzione a metà dei termini processuali. — 2. L’inapplicabilità della riduzione al deposito del ricorso. — 3. I termini per la notifica degli atti processuali diversi dal ricorso. — 4. La portata dell’art. 23-bis fra interpretazioni restrittive ed estensive. — 5. La disciplina della connessione.

1. L’art. 23-bis della l. n. 1034 del 1971, introdotto dall’art. 4 della l. n. 205 del 2000, solleva vari interrogativi. Dal punto di vista pratico i più importanti riguardano l’individuazione degli atti processuali esclusi dal dimezzamento dei termini disposto dal comma 2, l’ambito di applicazione della nuova disciplina, il regime per il caso di connessione. Questi interrogativi, però, rispecchiano un problema più generale, rappresentato dalla qualificazione della disciplina dell’art. 23-bis: se e in quale senso si possa parlare di « rito speciale » e, soprattutto, come l’identificazione di un rito speciale possa incidere sull’interpretazione delle disposizioni che lo riguardano. Prima di esporre alcune considerazioni su questi temi mi sembra opportuno, però, sgomberare il campo da un equivoco. L’art. 23-bis è indirizzato ad assicurare una maggiore celerità nella definizione del processo amministrativo, per evitare che il protrarsi del giudizio nel tempo, soprattutto quando sia intervenuta una misura cautelare, possa compromettere interessi di notevole importanza. In questo contesto la riduzione a metà dei termini processuali, disposta nel comma 2, non rappresenta un elemento decisivo: nella fase introduttiva del giudizio di primo


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grado e per la trattazione dell’istanza cautelare, consente al massimo di risparmiare una ventina di giorni (1), che poi si riducono a molto meno, se si ipotizza una ragionevole sollecitudine del ricorrente. Non sono tempi di questo ordine quelli che determinano la celerità o meno del processo amministrativo: la dilatazione dei tempi del processo amministrativo, come è noto, si riscontra soprattutto nella fase decisionale e dipende principalmente da ragioni organizzative, legate alle sproporzione fra risorse e carichi di lavoro, e non da ragioni legate alla normativa sui termini. Lo stesso art. 23-bis rispecchia questa consapevolezza perché introduce altri strumenti che accelerano la definizione del giudizio o che comunque intendono attenuare alcuni effetti pregiudizievoli del protrarsi del giudizio: si pensi alle previsioni sulla fase cautelare, in particolare per quanto riguarda l’anticipazione della decisione nel caso di accoglimento della istanza cautelare, o alla disciplina dell’appello. La generica riduzione a metà dei termini processuali, invece, non offre, in termini di utilità, un’accelerazione importante (2) e comunque, sul piano pratico, ogni vantaggio è superato dalle incertezze e dagli interrogativi che hanno accompagnato la riduzione stessa. Insomma, la riduzione a metà dei termini nel processo amministrativo, per i profili di politica legislativa, non sembra un’operazione produttiva: i costi sopravanzano ampiamente i vantaggi. Di ciò si trae conferma dalla frequenza con cui i giudici amministrativi, dopo la l. n. 205 del 2000, hanno dovuto farsi carico di questioni inerenti alla riduzione dei termini processuali, o hanno dovuto affrontare questioni diverse che trovavano però nella riduzione a metà il loro momento di emergenza concreta (come il profilo della connessione, ecc.). La riduzione a metà dei termini crea problemi nuovi. E testimonia l’incapacità culturale di chi non capisce che ogni innovazione che com(1) L’accelerazione nei tempi (fatta salva la riduzione del termine dilatorio per la trattazione dell’istanza cautelare) è di questa entità solo ipotizzando che il ricorrente attenda l’ultimo giorno per gli adempimenti di sua competenza. (2) Fra l’altro, ai giudizi previsti dall’art. 23-bis continua ad applicarsi la sospensione feriale dei termini processuali: cfr. Cons. Stato, Sez. V, 28 febbraio 2001, n. 1089, in Cons. St., 2001, I, 397.


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plichi la disciplina processuale va, in ultima analisi, proprio a danno della giustizia amministrativa, perché rende più difficile l’accesso del cittadino al giudice amministrativo. Queste considerazioni sono svolte su un piano di politica legislativa e perciò non comportano alcuna opzione per l’applicazione dell’art. 23-bis, specie per quanto concerne l’identificazione dei casi in cui, in base al comma 2 di tale articolo, opera (o non opera) la riduzione dei termini. Inducono però a una certa diffidenza verso la tesi, piuttosto diffusa, secondo cui il comma 2 dell’art. 23-bis dovrebbe essere letto e applicato alla luce dell’interesse alla massima accelerazione processuale e per questa ragione si dovrebbe assegnare la maggiore portata possibile alla riduzione dei termini (3). Allo stesso modo mi lascia perplesso la tesi che giustifica le anomalie e le distorsioni che provoca in molti casi la riduzione dei termini (4) come un costo inevitabile per attuare l’esigenza costituzionale della ragionevole durata del processo (art. 111, comma 2, Cost.). Entrambe le tesi sembrano dare per acquisito che i termini processuali siano una causa della durata « non ragionevole » del processo amministrativo; inoltre la seconda tesi sembra ignorare che la « ragionevole durata », nel nuovo art. 111 Cost., non è un valore assoluto, ma si deve attuare in modo equilibrato con altri corollari del « giusto processo », come è, innanzi tutto, quello della « parità » delle parti nel giudizio (5). (3) In questo senso cfr. invece Cons. Stato, Sez. V, 15 febbraio 2002, n. 919, in Cons. St., 2002, I, 335, che solo dal riconoscimento della volontà del legislatore di accelerare il giudizio trae la conclusione che il dimezzamento dei termini vale anche per il deposito del ricorso (la decisione sostiene, infatti, che anche il deposito inerisce alla « proposizione del ricorso »). (4) Si pensi alla diversità di incidenza della riduzione sulle parti, se si accoglie la tesi che esclude dal dimezzamento solo la notifica del ricorso principale. (5) Il principio della parità delle parti nel giudizio, alla luce del nuovo art. 111 Cost., non può essere mai recessivo. Si tenga presente che, anche senza far riferimento al nuovo art. 111 Cost., la stessa soluzione era stata accolta da una parte della giurisprudenza, sulla base del principio di uguaglianza, da Cons. Stato, Sez. VI, 27 marzo 2001 n. 1807, in Urb. e ap., 2001, 1105 (su questo tema mi permetto di rinviare al mio contributo Giusto processo e procedimenti amministrativi speciali, in Atti del Convegno dell’Accademia nazionale dei Lincei su Il giusto processo (Roma 28-29 marzo 2002), Roma, 2003, 67 ss.) In argomento v. anche G. CALDERONI, Rito speciale


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2. L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, nella decisione in esame, si è espressa su alcuni profili particolari dell’art. 23-bis. L’ordinanza di rinvio aveva sollevato la questione del termine per il deposito del ricorso (in grado d’appello) (6). Come è noto, la riduzione a metà dei termini processuali prevista dall’art. 23-bis non vale per « quelli » concernenti la « proposizione del ricorso ». L’espressione « proposizione del ricorso » è stata riferita da alcuni alla sola notifica del ricorso, da altri anche al successivo deposito, dato che tradizionalmente si afferma che solo col deposito del ricorso si instaura il rapporto processuale e si perfeziona l’iniziativa del ricorrente (7). La decisione diventa però l’occasione per affrontare anche alcuni interrogativi più ampi. L’Adunanza plenaria risolve la questione sulla base di due argomenti principali (8). Il primo è rappresentato dal significato attribuito all’espresper le opere pubbliche e « giusto processo » amministrativo, in Riv. trim. app., 1999, 722 ss., con osservazioni critiche a Corte cost. 10 novembre 1999, n. 427 (che aveva ritenuto infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 19 del d.l. 25 marzo 1997, n. 67, a proposito della riduzione dei termini per i ricorsi in materia di opere pubbliche). (6) Cons. Stato, Sez. IV, ord. 10 gennaio 2002, n. 122, in Urb. app., 2002, 283 ss., con nota di M. LIPARI, Il rito speciale previsto dall’art. 23-bis: il termine per il deposito del ricorso. (7) A favore dell’interpretazione che escludeva il deposito del ricorso dal dimezzamento dei termini si erano espressi Cons. giust. amm. reg. sic. 5 aprile 2002, n. 183, in Cons. St., 2002, I, 924; Tar Campania, Sez. I, 27 marzo 2002, n. 1651, in Foro amm. — Tar, 2002, 1014; Tar Lombardia, Sez. III, 18 marzo 2002, n. 183, in Foro amm. — Tar, 2002, 828; Tar Lombardia, Sez. II, 9 ottobre 2001, n. 6697, in Urb. app., 2002, 209, con nota di M. ANDREIS, Rito speciale ex art. 23-bis e termine per il deposito del ricorso. (8) Si tratta di argomenti già invocati dalla giurisprudenza precedente. Cfr. Cons. giust. amm. reg. sic. 15 ottobre 2001, n. 548, che, a favore della soluzione poi accolta dall’Adunanza plenaria, rilevava: « Depongono in tal senso, fra l’altro, i lavori preparatori della legge n. 205, dai quali risulta che il problema fu espressamente posto e risolto nel senso che i termini per il deposito non rientrano tra quelli per la proposizione del ricorso, avendo il legislatore prestato adesione all’orientamento dottrinale che, già nel vigore del d.l. n. 67 del 1997, riconosceva natura sostanziale, e non processuale, al termine previsto dalla legge per far valere il proprio diritto dinanzi al giudice. In ogni caso, se anche potesse residuare un qualche dubbio interpretativo in ordine all’esatta portata della formula ad excludendum contenuta nel comma 2, tale dubbio non potrebbe riferirsi che al termine per il deposito del ricorso di primo grado,


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sione « proposizione del ricorso » nelle leggi sul processo amministrativo e nella stessa l. n. 205 del 2000. Come era già stato segnalato da una parte della dottrina (9) e dalla giurisprudenza maggioritaria (10), il legislatore con espressioni del genere ha fatto riferimento di regola (11) alla sola notifica dell’atto introduttivo (cfr. art. 28, comma 2, l. n. 1034 del 1971; cfr., nello stesso art. 23-bis, il comma 7). È con la notifica che l’iniziativa laddove per l’appello la specifica ed innovativa previsione contenuta nel comma 7, che contempla un termine breve di notificazione, decorrente dalla notificazione della sentenza (trenta giorni) o dalla sua pubblicazione (centoventi giorni), senza prevedere alcunché con riguardo alla successiva fase processuale del deposito, implica logicamente e necessariamente l’applicabilità della regola generale del dimezzamento del termine ordinario ». Rispetto a questi argomenti è significativo che l’Adunanza plenaria non abbia fatto proprio quello, molto discutibile, della natura « sostanziale » (e non processuale) del termine per il ricorso. Per ulteriori argomenti a sostegno di questa lettura (con riferimento anche alla genesi della disposizione), cfr. G. GIOVANNINI, I procedimenti speciali, in Verso il nuovo processo amministrativo, a cura di V. CERULLI IRELLI, Torino, 2000, p. 310. (9) Cfr. D. VAIANO, L’accelerazione dei tempi processuali, in Giornale di diritto amm.vo, 2000, 1080. In termini critici v. invece M. ANDREIS, Rito speciale ex art. 23bis, cit. (in nota a Tar Lombardia, Sez. II, 9 ottobre 2001, n. 6697 cit.). (10) Cfr. Cons. giust. amm. reg. 16 ottobre 2002 n. 591, in Cons. St., 2002, I, 2377; Cons. Stato, Sez. V, 31 maggio 2002 n. 3043, in Cons. St., 2002, I, 1241; Cons. Stato, Sez. V, 18 marzo 2002, n. 1559, in Foro amm. — CdS, 2002, 690; Cons. Stato, Sez. V, 13 marzo 2002, n. 1496; Tar Sicilia, Sez. II, 4 marzo 2002, n. 673; Cons. Stato, Sez. IV, 28 agosto 2001 n. 4562, in Cons. St., 2001, I, 1829; Cons. giust. amm. reg. sic. 12 giugno 2001, n. 287, in Cons. St., 2001, I, 1497. Dopo la decisione dell’Adunanza plenaria questo argomento è stato richiamato da Cons. Stato, Sez. IV, 26 maggio 2003 n. 2823, in Giust. amm., 2003, 676. In senso contrario cfr. invece Cons. Stato, Sez. V, 15 febbraio 2002, n. 919, cit., secondo cui anche il deposito inerirebbe alla fase della « presentazione » del ricorso. Cons. Stato, Sez. IV, ord. 10 gennaio 2002, n. 122 cit., nel rimettere la questione all’Adunanza plenaria, si era riferito specificamente al deposito dell’appello. Ma le ragioni accolte per ritenere che il dimezzamento dei termini per il deposito del ricorso valgono, a mio giudizio, indifferentemente per il deposito del ricorso di primo grado e per il deposito dell’appello (cosı̀ anche Cons. Stato, Sez. IV, 26 maggio 2003 n. 2823 cit.). In senso difforme M. LIPARI, L’Adunanza plenaria e il rito speciale previsto dall’articolo 23-bis, in Urb. app., 2002, 912, secondo cui pertanto, anche dopo la decisione dell’Adunanza plenaria, la questione del termine per il deposito del ricorso di primo grado resterebbe impregiudicata. (11) M. ANDREIS, Rito speciale ex art. 23-bis, cit., 211-212, segnala che in alcune disposizioni l’espressione « proporre il ricorso » è stata identificata dalla giurisprudenza con la costituzione del rapporto processuale, che si attua con il deposito successivo alla notifica (es. art. 45, comma 17, d.lgs. 80 del 1998). Si tratta però di disposizioni minori e isolate.


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del ricorrente acquista rilevanza esterna e pone in essere « una vicenda destinata a concludersi con una pronuncia giurisdizionale » (12). Il secondo argomento è rappresentato dalla formulazione del comma 2 dell’art. 23-bis. Il comma, escludendo dalla riduzione a metà solo i termini « per la proposizione del ricorso », identificherebbe un’eccezione non suscettibile di interpretazioni estensive o analogiche. Secondo l’Adunanza plenaria gli adempimenti che sfuggono alla riduzione sono pertanto solo quelli « espressamente » esclusi dalla legge e quelli assoggettati dallo stesso art. 23-bis a termini specifici (13). L’esclusione dal dimezzamento dei termini non può valere per adempimenti diversi, neppure se connessi ai primi (14). Mentre il primo argomento appare esclusivo del deposito del ricorso (15), il secondo criterio assume un rilievo più ampio, perché coinvolge le scadenze da osservare per quegli atti processuali che, pur essendo diversi dal ricorso introduttivo al Tar o dal ricorso in appello, riflettono logiche analoghe ad esso (16). La questione riguarda, in particolare: a) la notifica del ricorso incidentale, dei motivi aggiunti, dell’appello incidentale, b) la notifica dell’appello contro ordinanze cautelari, c) la notifica del ricorso per revocazione. Nella sua decisione l’Adunanza plenaria riconosce portata (12) A. CERINO CANOVA, L’introduzione della causa, in Commentario Allorio, vol. III, Torino, 1980, 247. (13) È il caso dell’appello, i cui termini sono fissati nel comma 7 (su questo comma cfr. Cons. Stato, Sez. V, 15 febbraio 2002, n. 919, cit., che fra l’altro precisa che il dimezzamento dei termini vale anche per il deposito dell’appello, ancorché proposto con riserva dei motivi). (14) Cfr. già Cons. Stato, Sez. V, 31 maggio 2002, n. 3043 cit. (15) Non interessa qui se si tratti del deposito del ricorso proposto in primo grado o in appello (cfr. nota 10). Nel senso che il dimezzamento dei termini valga anche per il deposito dell’appello, v. già Cons. Stato, Sez. V, ord. 23 gennaio 2001, n. 496, in Cons. St., 2001, I, 125. (16) Su questo punto cfr. già le osservazioni di P. MICOZZI, Ragioni ed ambito dell’esclusione dalla dimidiazione ex art. 23-bis, comma 2, l. 6 dicembre 1971, n. 1034, come modificata dall’art. 4, l. 21 luglio 2000, n. 205, dei termini per la proposizione del ricorso e cumulo progressivo di domande nel processo amministrativo, in questa Rivista, 2003, I, 270.


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generale alla regola della riduzione a metà dei termini processuali e sostiene pertanto che le deroghe a tale regola devono essere di stretta interpretazione e vanno identificate con quelle disposte « espressamente » dalla legge; la portata di questa affermazione è però temperata dal riconoscimento, in altro punto della decisione, che la riduzione a metà non opera per la notifica del ricorso incidentale. Sennonché per la notifica del ricorso incidentale la l. n. 205 del 2000 non dispone nulla. Di conseguenza, si deve concludere che l’argomento basato sulla formulazione letterale della norma non sia realmente decisivo, neppure per l’Adunanza plenaria che lo ha invocato. 3. Come ho accennato, una volta chiarita la scadenza per il deposito del ricorso, il primo ordine di interrogativi di maggiore rilievo pratico sollevati dal comma 2 dell’art. 23-bis riguarda l’identificazione dei termini per: a) la notifica del ricorso incidentale, dei motivi aggiunti, dell’appello incidentale, b) la notifica dell’appello contro ordinanze cautelari, c) la notifica del ricorso per revocazione. a.1) Per quanto concerne il ricorso incidentale (nel giudizio di primo grado) va ricordato che il comma 1 dell’art. 37 t.u. del Consiglio di Stato (applicabile, secondo la giurisprudenza prevalente, anche al giudizio avanti al Tar) (17) stabilisce che vada notificato « nel termine di trenta giorni successivi a quello assegnato per il deposito del ricorso ». Una parte della giurisprudenza sull’art. 23-bis si è espressa nel senso che anche il termine per notificare il ricorso incidentale sarebbe dimezzato e sarebbe, perciò, ridotto a quindici (17) Cosı̀ Cons. Stato, Sez. V, 15 febbraio 2002, n. 904, in Foro amm. — CdS, 2002, 411; Cons. Stato, Sez. VI, 5 luglio 2001, n. 3686, in Cons. St., 2001, I, 1595; Cons. Stato, Sez. IV, 24 febbraio 2000, n. 1004, in Foro amm., 2000, 411; Cons. Stato, Sez. IV, 12 febbraio 1997, n. 105, in Cons. St., 1997, I, 187; Cons. Stato, Sez. VI, 13 febbraio 1987, n. 43, in Foro amm., 1987, I, 177, che invocano il rinvio operato nel secondo periodo dell’art. 22, comma 1, della l. n. 1034 del 1971 all’art. 37 t.u. Cons. Stato. In senso contrario, Tar Marche 24 ottobre 1997, n. 1024, in Trib. amm. reg., 1997, I, 4460, e Cons. giust. amm. reg. sic. 30 giugno 1995, n. 249, in Cons. St., 1995, I, 959, ritengono applicabile il termine di venti giorni indicato nel primo periodo dell’art. 22, comma 1, della l. n. 1034 del 1971.


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giorni dalla scadenza del termine « assegnato per il deposito del ricorso » (principale); a sua volta, però, anche tale termine assegnato per il deposito dovrebbe essere dimezzato. Pertanto il ricorso incidentale dovrebbe essere notificato entro trenta giorni dalla notifica del ricorso principale. All’obiezione che in questo modo si attuerebbe una netta divaricazione rispetto alla disciplina dei termini per il ricorso principale, è stato replicato che i casi di esclusione dal dimezzamento del termine sono tassativi e che d’altra parte la stessa esistenza di disposizioni distinte per l’uno e per l’altro genere di ricorso renderebbe impossibile assimilare i rispettivi termini (18). Altra giurisprudenza si è espressa invece nel senso che il dimezzamento dei termini non varrebbe per la notifica del ricorso incidentale (19). In questo senso sono state invocate sia le analogie col ricorso principale (20), sia la formulazione letterale del comma 2 dell’art. 23-bis (21), che esclude dal dimezzamento dei termini « quelli » per la proposizione del ricorso: l’uso del (18) Cfr. Tar Veneto, Sez. I, 19 dicembre 2001, n. 4305, in Foro amm., 2001, 3237, che pertanto dichiara inammissibile un ricorso incidentale notificato oltre trenta giorni dopo la notifica del ricorso principale. (19) Cfr. Tar Sicilia, II, 4 marzo 2002, n. 673; Tar Toscana, Sez. I, 25 febbraio 2002, n. 375; Tar Lazio, Sez. III, 30 ottobre 2001 n. 8902, in Trib. amm. reg., 2001, I, 3680. Nello stesso senso si è espresso in alcune occasioni il Consiglio di Stato: cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 9 ottobre 2002, n. 5363, in Cons. St., 2002, I, 2157, Cons. Stato, Sez. VI, 27 marzo 2001, n. 1807, in Cons. St., 2001, I, 779 (in quest’ultima decisione il Consiglio di Stato fa riferimento indistintamente al ricorso incidentale in primo grado e all’appello incidentale c.d. « autonomo », cui si farà cenno infra nel testo). Invece, in termini perplessi sul dimezzamento del termine per il ricorso incidentale, Cons. Stato, Sez. VI, 26 aprile 2002, n. 2234, in Foro amm. — CSt, 2002, 1014. (20) Questa tesi è esposta con vigore da Cons. Stato, Sez. VI, 27 marzo 2001 n. 1807 cit., che giunge a prospettare l’illegittimità costituzionale di una disciplina deteriore per il ricorrente incidentale rispetto al ricorrente principale. (21) Tar Sicilia, II, 4 marzo 2002, n. 673 cit., osserva: « Né, di contro, può farsi leva sul fatto che il legislatore abbia adoperato la dizione “termini per proporre ricorso” e non quella “termine per proporre ricorso”. Infatti, l’uso del plurale deve ritenersi giustificato, ove si consideri che oltre ai termini per la proposizione del ricorso principale sono previsti termini per la proposizione del ricorso incidentale nonché quelli per la proposizione di motivi aggiunti, con i quali possono dedursi ulteriori vizi tanto dell’atto impugnato quanto di provvedimenti o di atti connessi; talché la sussistenza per essi della stessa « ratio legis » che esclude per la loro proposizione la dimidazione del termine ». Conforme Tar Lazio, Sez. III, 30 ottobre 2001, n. 8902 cit.


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plurale, frutto di uno specifico emendamento parlamentare, starebbe a significare che l’esclusione dal dimezzamento non varrebbe solo per il termine per proporre il ricorso « principale » (22). Nello stesso senso ha preso posizione, in un passaggio della motivazione, anche l’Adunanza plenaria nella decisione in esame. Questa giurisprudenza non ha chiarito, però, se l’esclusione dal dimezzamento del termine previsto per il ricorso incidentale riguardi solo il termine specifico di trenta giorni previsto dall’art. 37, comma 1, del t.u. Cons. Stato (23), o riguardi anche la sommatoria di tale termine con quello (ordinariamente di trenta giorni) « assegnato » per il deposito del ricorso. Nel primo caso il ricorso incidentale dovrebbe essere proposto entro quarantacinque giorni dalla notifica del ricorso principale; nel secondo caso invece entro sessanta giorni, con l’effetto che al controinteressato sarebbe garantito un periodo di tempo identico a quello riconosciuto al ricorrente per proporre il ricorso principale (24). Si ricostituirebbe, in questo modo, la corrispondenza, quanto ai termini, fra ricorso principale e ricorso incidentale, fermo restando che per il ricorso incidentale il termine dovrebbe decorrere dalla notifica del ricorso principale. Il limite maggiore di quest’ultima soluzione è rappresentato dalla difficoltà di conciliarla con le altre previsioni dell’art. 37, comma 1, del t.u. Cons. Stato (25). Essa presuppone, inoltre, che (22) In proposito cfr. N. PAOLANTONIO, Tutela differenziata e processo amministrativo, in questa Rivista, 2001, 991; A. BARTOLINI, Il rito speciale per i settori sensibili, in Il processo davanti al giudice amministrativo, a cura di SASSANI e VILLATA, Torino, 2001, 180 ss. (specialmente 211 ss.). (23) Cosı̀ sembra ammettere Cons. Stato, Sez. VI, 26 aprile 2002, n. 2234 cit., per il quale il dubbio può riguardare solo il termine successivo a quello « assegnato » per il deposito del ricorso principale. (24) Cosı̀ M.A. SANDULLI, I termini del processo amministrativo nella legge 205 del 2000, in Foro amm. — T.a.r., 2002, 304, che invoca l’esigenza di evitare una disparità di trattamento fra ricorrente incidentale e ricorrente principale, e M. LIPARI, L’Adunanza plenaria e il rito speciale, cit., p. 913, che sostiene questa conclusione in coerenza con la sua tesi secondo cui anche il termine per il deposito del ricorso di primo grado non sarebbe mai ridotto a metà. (25) In particolare, l’art. 37 t.u. Cons. Stato fa decorrere dalla scadenza del « termine assegnato per il deposito del ricorso » un identico termine di trenta giorni


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si identifichi per il ricorso incidentale un unico termine di sessanta giorni decorrente dalla notifica del ricorso principale, superando la formulazione dell’art. 37 del t.u. Cons. Stato (e, prima ancora, dell’art. 31 del t.u. Cons. Stato del 1907), che prevede invece la sommatoria di due termini diversi (quello assegnato per il deposito del ricorso e quello successivo per il ricorso incidentale). Per quest’ultimo aspetto, però, la soluzione positiva troverebbe un sostegno nelle origini e nelle ragioni dell’istituto (26). a.2) Per quanto concerne i motivi aggiunti va ricordato che l’istituto, privo di una disciplina positiva, è stato modellato dalla giurisprudenza sul ricorso principale. Anche le modalità e i termini per proporre motivi aggiunti sono stati definiti dalla giurisprudenza applicando le regole sul ricorso principale. Di conseguenza una parte della giurisprudenza sostiene che dal dimezzamento del termine sia esclusa la notifica dei motivi aggiunti, sia per le difese dell’amministrazione e dei controinteressati, sia per il ricorso incidentale. Anche ammesso che per effetto dell’art. 23-bis della l. n. 205 del 2000 tale termine finisca con l’avere una durata diversa (ossia trenta giorni per il ricorso incidentale e quindici giorni per le altre difese), appare difficile che esso tolleri due decorrenze diverse. (26) Il ricorso incidentale era stato ammesso fin dalle origini dalla Quarta sezione, quale strumento di tutela dei controinteressati « analogo e contrario » al ricorso principale (cfr. già Cons. Stato, Sez. IV, 27 giugno 1890, n. 47, in Giust. amm., 1890, 89). La stessa Quarta sezione si era chiesta poi se tale atto dovesse essere notificato (per analogia col ricorso principale) e, pur ravvisando l’opportunità della notifica, aveva dovuto prendere atto che essa non risultava prescritta dalla legge (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 28 agosto 1890, in Codice della giustizia amministrativa, Roma, 1891, 102). Alla lacuna pose rimedio l’art. 5 della l. 7 marzo 1907, n. 62, che riformulò la disposizione sulla costituzione dell’amministrazione e dei controinteressati, nel testo recepito poi dall’art. 37, comma 1, t.u. Cons. Stato. Fin dai primi commenti (cfr. G. LUÈ, La giustizia amministrativa, in Enc. giur. it, vol. VII, 2, Milano, 1914, 456 ss.) fu riconosciuto che la legge aveva riconosciuto al controinteressato un termine di « sessanta giorni » per proporre le proprie difese e l’eventuale ricorso incidentale, ossia un tempo pari a quello riconosciuto al ricorrente per il ricorso principale. Che si configurasse un termine effettivo e unitario di sessanta giorni era confermato anche dal fatto che la legge, facendo riferimento al termine « assegnato » per il deposito del ricorso principale, astraeva dalla data del concreto adempimento del deposito (cfr. già V.E. ORLANDO, La giustizia amministrativa, in Trattato Orlando, vol. III, 1a ediz., Milano, 1901, 986).


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esattamente come è esclusa la notifica del ricorso principale (27). Anche in questo caso, però, non si riscontrano indirizzi consolidati. Altra giurisprudenza ritiene infatti che anche il termine per la notifica dei motivi aggiunti, nei giudizi previsti dall’art. 23-bis, cit., vada dimezzato, sull’argomento che solo il termine per il ricorso principale resterebbe intatto (28). L’analogia col ricorso principale non potrebbe essere tale da evitare il dimezzamento dei termini, tanto più che per il profilo in esame, secondo alcune pronunce, ricorso principale e motivi aggiunti rispecchierebbero esigenze diverse, legate al fatto che i motivi aggiunti sono proposti quando il giudizio è già stato iniziato e, perciò, quando il ricorrente dispone già dell’assistenza di un legale (29). a.3) Per quanto concerne i termini per la notifica dell’appello incidentale si ripropongono alcuni problemi già rilevati per il ricorso incidentale, ma con ulteriori particolarità (30). D’altra (27) Cosı̀ Cons. Stato, Sez. VI, 17 luglio 2001, n. 3962, in Foro amm., 2001, 2061; Cons. giust. amm. reg. sic. 12 giugno 2001, n. 287, in Cons. St., 2001, I, 1497; Tar Sicilia, Sez. II, 4 marzo 2002, n. 673 cit.; Tar Lombardia 29 gennaio 2002, n. 379, in Trib. amm. reg., 2002, I, 1052. Per la dottrina v. M.A. SANDULLI, I termini, cit., 304. (28) Cosı̀ Tar Puglia, Lecce, II, 2 dicembre 2002, n. 7102; Cons. Stato, Sez. VI, 6 luglio 2002, n. 3717, in questa Rivista, 2003, I, 260, con nota di P. MICOZZI, Ragioni ed ambito dell’esclusione dalla dimidiazione ex art. 23-bis, comma 2, l. 6 dicembre 1971, n. 1034, cit., e in Urb. app., 2002, 1179, con nota di M. LIPARI, I termini per la proposizione dei motivi aggiunti nel rito speciale disciplinato dall’art. 23-bis. (29) Cons. Stato, Sez. VI, 6 luglio 2002, n. 3717, cit.; per riferimenti v. anche Cons. Stato, Sez. IV, 29 agosto 2001, n. 4570, in Cons. St., 2001, I, 1835. L’argomento utilizzato dal Consiglio di Stato non mi sembra, però, decisivo, neppure in linea di fatto: fra l’altro, l’esclusione del termine per il ricorso dalla riduzione a metà non sembra essere stata determinata dalla circostanza che il ricorrente normalmente incarichi un legale solo dopo il provvedimento lesivo. La debolezza dell’argomento è segnalata, per altri aspetti, anche da M. LIPARI, I termini per la proposizione dei motivi aggiunti, cit., 1186. (30) È invece pacifico che il dimezzamento del termine vale per il deposito dell’appello incidentale. Cosı̀, prima della pronuncia dell’Adunanza plenaria in esame, Cons. Stato, sez. IV, 11 aprile 2002, n. 1987; Cons. Stato, Sez. VI, 9 gennaio 2002, n. 97. Successivamente alla pronuncia dell’Adunanza plenaria in esame, la stessa conclusione è stata accolta da Cons. Stato, Sez. VI, 22 ottobre 2002, n. 5812, massimata in modo impreciso in Cons. St., 2002, I, 2310 (la decisione richiama, in proposito, anche il comma 8 dell’art. 23-bis, comma che però non sembra riferibile al tema


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parte la possibilità di soluzioni diverse rispetto al ricorso incidentale appare avvalorata dal confronto con l’appello principale: il termine breve per il ricorso principale in appello, nei casi previsti dall’art. 23-bis, è ora di trenta giorni (cfr. comma 7 dell’art. 23-bis). Se l’interpretazione dell’art. 37 del t.u. Cons. Stato più sensibile al principio della parità delle parti, nel giudizio di primo grado, rivendica un termine di sessanta giorni per il ricorso incidentale, viceversa, nel giudizio d’appello lo stesso principio dovrebbe indirizzare verso un termine di trenta giorni per l’appello incidentale. Dato che, però, il termine per entrambi gli atti si ricava sempre dalla medesima disposizione (l’art. 37 t.u. Cons. Stato), una conclusione del genere comporterebbe che un’identica disposizione venga interpretata ora in un modo, ora in quello opposto. In effetti, con riferimento all’art. 37 del t.u. Cons. Stato, in alcune decisioni è sostenuta la tesi del dimezzamento del termine per l’appello incidentale, sulla base dell’argomento ricorrente che le esclusioni dal dimezzamento sono tassative e devono essere espressamente dichiarate dalla legge (31). In altre decisioni, invece, è sostenuta con vigore la tesi secondo cui non si applicherebbe alcun dimezzamento, perché la parità delle parti esige che per l’appello incidentale valga lo stesso termine previsto per l’appello principale (32). Resta però da chiarire se, in base a questo indirizzo, il termine di trenta giorni per l’appello incidentale debba computarsi dalla notifica dell’appello (come sembra più ragionevole, se è decisiva la garanzia della parità processuale) (33), o se debba invece computarsi dalla scadenza in esame). Quando si ritenga applicabile all’appello incidentale l’art. 37 t.u. Cons. Stato (cfr. infra nel testo), il deposito va effettuato pertanto entro cinque giorni dall’ultima notifica (Cons. Stato, Sez. IV, 4 dicembre 2000, n. 6487, in Cons. St., 2000, I, 2607). (31) Cons. Stato, Sez. V, 3 giugno 2002, n. 3071. (32) Cons. Stato sez. IV, 9 ottobre 2002, n. 5363, cit. (33) Cosı̀ M.A. SANDULLI, I termini del processo amministrativo, cit., 314. Se però il termine di trenta giorni viene computato dalla notifica dell’appello principale, allora si riconosce anche che operi il dimezzamento del termine ordinario (che è di sessanta giorni, se si computa dalla notifica dell’appello principale, anziché dalla scadenza del termine assegnato per il deposito dell’appello principale).


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del termine « assegnato » per il deposito dell’appello principale (come suggerisce la formulazione dell’art. 37 t.u. del Cons. Stato) (34). Infine, un filone cospicuo della giurisprudenza, adotta una soluzione differenziata, richiamando la controversa distinzione fra appello incidentale proprio e appello incidentale improprio. Secondo questa distinzione, come è noto (35), col primo gravame la sentenza del Tar sarebbe impugnata per gli stessi capi (o per capi connessi o dipendenti) censurati dall’appello principale, sarebbe fatto valere un interesse dipendente dalla presentazione dell’appello principale e l’obiettivo sarebbe semplicemente quello di paralizzare l’appello principale, mentre l’appello incidentale improprio (o autonomo) investirebbe capi indipendenti e ulteriori rispetto a quelli censurati dall’appello principale ed esprimerebbe un interesse autonomo della parte (la forma dell’appello incidentale sarebbe utilizzata solo per soddisfare un principio di concentrazione delle impugnazioni, secondo cui gli appelli successivi al primo vanno proposti come appelli incidentali) (36). Nonostante la critiche della dottri(34)

Cosı̀ Cons. Stato, Sez. VI, 27 marzo 2001, n. 1807, in Cons. St., 2001, I,

779. (35) Per l’analisi critica di questa distinzione, alla luce dei più recenti sviluppi giurisprudenziali, si rinvia a G. SIGISMONDI, Appello incidentale, consumazione del potere d’impugnazione e onere di specificazione dei motivi d’appello: il Consiglio di Stato diviso tra soluzioni interpretative autonome e codice di procedura civile, in questa Rivista, 2002, 387 ss. (36) Cfr. art. 333 c.p.c. Sull’applicabilità di tale disposizione al processo amministrativo, v. Cons. Stato, Ad. plen., 18 luglio 1983, n. 20, in Foro it., 1984, III, 26, e, più di recente, Cons. Stato, Sez. VI, 20 gennaio 2003, n. 200, in Cons. St., 2003, I, 61. Rimane controverso se la violazione dell’art. 333 comporti, nel processo amministrativo, l’inammissibilità del gravame (cosı̀ Cons. Stato, Sez. VI, 20 febbraio 1998, n. 185, in Cons. St., 1998, I, 275), o se comporti invece una mera irregolarità, del tutto irrilevante anche sul piano pratico quando sia disposta la riunione dei gravami (cosı̀ la tesi maggioritaria: cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 16 marzo 2001, n. 1571, in Cons. St., 2001, I, 703; Cons. Stato, Sez. V, 15 marzo 2001, n. 1520, in Cons. St., 2001, I, 684; Cons. Stato, Sez. V, 31 luglio 1998, n. 1146, in Cons. St., 1998, I, 1159). Inoltre dall’applicazione dell’art. 333 c.p.c. al processo amministrativo la giurisprudenza in esame non deduce l’onere per la parte appellata di proporre la propria impugnativa, a pena di decadenza, nel termine fissato per l’appello incidentale: cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 16 marzo 2001, n. 1571, in Cons. St., 2001, I, 703.


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na (37) e l’indirizzo contrario ormai consolidato della giurisprudenza civile (38), la distinzione viene tuttora frequentemente accolta dal Consiglio di Stato (39), con riflessi importanti sui termini per la notifica. Infatti nel caso dell’appello incidentale « improprio » (o « autonomo ») le analogie con l’appello principale comporterebbero l’applicazione degli stessi termini previsti per l’appello principale (40), mentre l’art. 37 t.u. del Cons. Stato dovrebbe trovare applicazione solo nel caso dell’appello incidentale « proprio ». Questa conclusione incide sull’ammissibilità (37) Cfr. R. VILLATA, L’appello incidentale innanzi all’Adunanza plenaria, in questa Rivista, 1989, 315; R. VILLATA, Ancora in tema di appello incidentale, in questa Rivista, 1986, 143; G. SIGISMONDI, Appello incidentale, consumazione del potere d’impugnazione e onere di specificazione dei motivi d’appello, cit. (38) Si tratta dell’indirizzo avviato da Cass., Sez. I, 24 novembre 1988, n. 6311, in Foro it., 1989, I, 1142, con osservazione adesiva di A. PROTO PISANI, e costante a partire da Cass., Sez. un., 7 novembre 1989, n. 4640, in Foro it., 1989, I, 3405 (cfr. Cass. civ., Sez. I, 12 dicembre 2001, n. 15687, in Cons. St., 2002, II, 227). Come è noto, la prospettiva che il nuovo indirizzo della giurisprudenza civile fosse pienamente recepito dalla giurisprudenza amministrativa fu frustrata da Cons. Stato, Ad. plen., 15 marzo 1989, n. 5, in Foro it., 1990, III, 303, che in sostanza evitò di prendere posizione a favore di tale indirizzo, limitandosi a proporre una nozione più ampia della « dipendenza » fra capi di sentenza, ai fini dell’ammissibilità dell’appello incidentale « proprio » (l’Adunanza plenaria riconobbe tale relazione anche nel caso che i capi di sentenza si riferissero ad atti amministrativi diversi, ma connessi: la vertenza concerneva un diniego di concessione fondato su una variante a un piano regolatore, oggetto anch’essa di impugnazione). Sulla decisione dell’Adunanza plenaria v. R. VILLATA, L’Adunanza plenaria perde un’occasione per chiarire i problemi dell’appello incidentale, ma poi (forse) ripara, in questa Rivista, 1989, 747. (39) In senso contrario si è espressa una giurisprudenza minoritaria, che si richiama invece all’indirizzo della Cassazione menzionato nella nota precedente. Cfr.: Cons. Stato, Sez. V, 9 dicembre 2002, n. 6736, in Cons. St., 2002, I, 2701; Cons. Stato, Sez. IV, 20 dicembre 2000, n. 6848, in Cons. St., 2000, I, 2679; Cons. giust. amm. reg. sic. 22 marzo 2000, n. 123, in Cons. St., 2000, I, 763; Cons. Stato, Sez. V, 10 marzo 1997, n. 242, in Cons. St., 1997, I, 363. Queste pronunce affrontano soprattutto il tema dell’appello incidentale c.d. tardivo (cfr. infra), sostenendo che le parti contro le quali è stato proposto appello possono proporre impugnazione tardiva nei confronti di qualsiasi capo della decisione, senza alcun limite di ordine oggettivo, e solo con l’onere di rispettare i termini stabiliti dall’art. 37 t.u. Cons. Stato per la notifica e per il deposito del gravame. (40) Pertanto, in via generale, per l’appello incidentale « improprio » varrebbero il termine « breve » di sessanta giorni, decorrenti dalla notifica della sentenza (art. 28, comma 2, l. n. 1034 del 1971), e il termine « lungo » di un anno dalla pubblicazione della sentenza, se non sia intervenuta la notifica (art. 327 c.p.c.).


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dell’impugnazione incidentale c.d. tardiva (41) (l’impugnazione tardiva viene ammessa solo nel caso dell’appello incidentale « proprio », non invece nel caso dell’appello incidentale « improprio » o « autonomo ») (42) e consente l’appello incidentale « autonomo » anche quando sia scaduto il termine fissato dall’art. 37 t.u. del Cons. Stato, ma non ancora il termine fissato dalla legge per l’appello principale (43). La stessa distinzione è stata invocata in varie decisioni (44) per affrontare la questione dei termini per la notifica dell’appello incidentale nei giudizi contemplati dall’art. 23-bis: nel caso dell’appello incidentale « proprio » il termine sarebbe quello dimezzato di quindici giorni decorrenti dalla scadenza del termine (a sua volta dimezzato) « assegnato » per il deposito dell’appello principale, mentre nel caso dell’appello incidentale « improprio » sarebbe quello previsto dal comma 7 dell’art. 23-bis per l’appello principale. Si sostiene, infatti, che per l’appello incidentale « improprio » (proposto dalla parte soccombente in primo grado, e non semplicemente diretto a paralizzare l’appello principale) debba valere lo stesso termine previsto per l’appello principale, perché la forma incidentale dell’appello è dovuta (41) L’impugnazione incidentale tardiva è quella proponibile ai sensi dell’art. 334 c.p.c., con termine decorrente dalla notifica dell’appello principale, ancorché siano scaduti i termini per una impugnazione autonoma. (42) Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 18 febbraio 2003, n. 865, in Cons. St., 2003, I, 341; Cons. Stato, Sez. V, 24 ottobre 2002, n. 5847, in Cons. St., 2002, I, 2321; Cons. Stato, Sez. VI, 7 agosto 2002, n. 4140, in Cons. St., 2002, I, 1646; Cons. Stato, Sez. VI, 13 maggio 2002, n. 2565, in Cons. St., 2002, I, 1118; Cons. Stato, Sez. VI, 22 gennaio 2002, n. 366, in Cons. St., 2002, I, 102; Cons. Stato, Sez. IV, 25 luglio 2001, n. 4077, in questa Rivista, 2002, 384, con nota di G. SIGISMONDI, Appello incidentale, consumazione del potere d’impugnazione e onere di specificazione dei motivi d’appello, cit.; ecc. (43) Cosı̀ Cons. Stato, Sez. VI, 13 maggio 2002, n. 2565, in Cons. St., 2002, I, 1118; Cons. Stato, Sez. IV, 16 marzo 2001, n. 1571 cit. Questa ipotesi concretamente può verificarsi solo se la sentenza di primo grado non sia stata notificata e pertanto per l’appello valga il termine « lungo ». (44) Cosı̀ Cons. Stato, Sez. IV, 18 ottobre 2002, n. 5725; Cons. Stato, Sez. V, 15 maggio 2002, n. 2597; Cons. Stato, Sez. V, 13 marzo 2002, n. 1496; Cons. Stato, Sez. V, 15 febbraio 2002, n. 946; Cons. Stato, Sez. VI, 27 marzo 2001, n. 1807 cit. (che esclude che il dimezzamento dei termini possa applicarsi all’appello incidentale, « almeno per quello autonomo »).


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solo a una ragione contingente, rappresentata dal fatto che altri ha già impugnato quella sentenza, mentre per l’appello incidentale « proprio » l’analogia con l’appello principale sarebbe recessiva e si applicherebbe pertanto il comma 2 dell’art. 23-bis: di conseguenza l’appello incidentale « proprio » dovrebbe essere notificato entro il termine stabilito dall’art. 37 del t.u. Cons. Stato, ridotto però a metà. L’art. 23-bis, in questa prospettiva, dovrebbe trovare un’applicazione modulare, sulla falsariga della distinzione fra i due ordini di gravame incidentale. b) Per quanto concerne l’appello contro ordinanze cautelari, il Consiglio di Stato ritiene che, in mancanza di disposizioni contrarie, nei giudizi previsti dall’art. 23-bis operi il dimezzamento del termine fissato per gli appelli cautelari dall’art. 28 della l. n. 1034 del 1971, come modif. dall’art. 3 della l. n. 205 del 2000. Pertanto il termine per la notifica dell’appello è rispettivamente di trenta giorni (termine breve) e di sessanta giorni (termine lungo, decorrente dalla comunicazione del deposito dell’ordinanza) (45). Al giudizio cautelare non sono applicabili, invece, i termini per l’appello contro le sentenze previsti dal comma 7 dell’art. 23-bis, cit.. Ciò appare coerente col fatto che la l. n. 205 del 2000, fissando termini specifici per gli appelli contro le ordinanze pronunciate in sede cautelare, ha superato l’indirizzo giurisprudenziale che, per l’appello cautelare, faceva rinvio ai termini per l’appello contro le sentenze. c) Per quanto concerne il ricorso per revocazione contro le sentenze dei giudici amministrativi, è noto come la giurisprudenza si sia indirizzata nel senso di ritenere che, di regola, vada proposto entro un termine breve di sessanta giorni, per analogia con quanto previsto per il ricorso in primo grado e, soprattutto, per l’appello al Consiglio di Stato (46); in senso contrario non è (45) Cosı̀ Cons. Stato, Sez. VI, ord.za 14 gennaio 2003, n. 91, in Cons. St., 2003, I, 173; Cons. Stato, Sez. VI, ord.za 8 maggio 2001, n. 2691, in Cons. St., 2001, I, 1507. Per la dottrina cfr. G. GIOVANNINI, I procedimenti speciali, cit., p. 310, e M. LIPARI, L’Adunanza plenaria e il rito speciale, cit., 915. (46) Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 31 maggio 1999 n. 918, in Cons. St., 1999, I, 814; Cons. Stato, Sez. IV, 22 dicembre 1998, n. 1609 cit.; Cons. Stato, Ad. plen., 9


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stata ritenuta decisiva neppure la formulazione dell’art. 28 della l. n. 1034 del 1971, che invece richiama il codice di procedura civile (47). Le analogie col termine dell’appello sono state sviluppate anche dalla giurisprudenza successiva alla l. n. 205 del 2000. In particolare con riferimento alla revocazione delle ordinanze cautelari (in casi diversi da quelli contemplati dall’art. 23-bis), è stato ritenuto che, in mancanza di notifica, valga il termine di centoventi giorni introdotto dall’art. 3 della l. n. 205 del 2000 per l’appello in sede cautelare (48). Nonostante tutto ciò, con riferimento specifico ai casi contemplati dall’art. 23-bis, cit.. la possibilità di utilizzare per la revocazione la disciplina sui termini del ricorso o dell’appello sembra negata. Ancora una volta viene utilizzato l’argomento secondo cui solo il termine per notificare il ricorso al Tar sfuggirebbe al dimezzamento; di conseguenza anche il termine per notificare il ricorso per revocazione dovrebbe essere ridotto a metà (49). In conclusione, da un esame della prima giurisprudenza sulmaggio 1996, n. 3, in Foro amm., 1996, 1464; Cons. Stato, Ad. plen., 22 gennaio 1997, n. 3, in Foro it., 1997, III, 38. L’art. 82 r.d. 17 agosto 1907, n. 642 aveva previsto che il termine decorresse dalla data di pubblicazione della sentenza; come è ricordato da Cons. Stato, Sez. IV, 25 luglio 2001, n. 4080, in Foro it., 2002, III, 35, con puntuali osservazioni di A. SORGATO, la giurisprudenza amministrativa è però orientata nel senso che per la revocazione ordinaria il termine lungo sia quello annuale previsto dall’art. 327 c.p.c., che il termine breve sia quello di sessanta giorni desunto dall’art. 28 della l. n. 1034 del 1971 per l’appello, e che il termine per il deposito sia quello di venti giorni stabilito dall’art. 399 c.p.c. (47) L’art. 28 cit., rinviando ai « termini » previsti per la revocazione dal codice di procedura civile, suggeriva piuttosto un termine di trenta giorni (cfr. art. 325 c.p.c.). (48) Cosı̀ Cons. Stato VI ord.za 23 gennaio 2001, n. 566, in Cons. St., 2001, I, 127, che richiama a fondamento della soluzione i « principi generali dell’ordinamento processuale ». (49) Cosı̀ Cons. Stato, Sez. IV, 25 luglio 2001, n. 4080 cit. A proposito dei giudizi considerati dall’art. 23-bis, cfr. anche Cons. Stato, Sez. V, 8 luglio 2002 n. 3785, in Cons. St., 2002, I, 1531, che esclude che possa proporsi ricorso per revocazione nei confronti del dispositivo di una sentenza, « con riserva dei motivi » (come invece è ammesso per l’appello nel comma 7 dell’art. 23-bis), perché la revocazione presuppone l’esaurimento del grado di giudizio. Sull’argomento, in termini perplessi, M. LIPARI, L’Adunanza plenaria e il rito speciale, cit., 913.


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l’art. 23-bis, con riferimento ai termini per la notifica degli atti processuali si profilano oggi due letture contrastanti. La prima privilegia le ragioni dell’equilibrio fra i diversi atti e ne rivendica il valore alla luce anche di principi importanti come quello della parità delle parti nel giudizio (50); la seconda privilegia invece il dato letterale della disposizione e da ciò desume il carattere eccezionale e tassativo della esclusione del ricorso di primo grado dal dimezzamento dei termini. In questo modo, al di là del valore degli argomenti invocati per l’una o per l’altra lettura, si profila con evidenza l’alternativa fra una lettura più attenta alle ragioni di fondo del processo amministrativo e una più coerente col dato positivo. A ben vedere, il solo fatto che si ponga un’alternativa del genere dimostra come sia delicata la materia dei termini per gli adempimenti processuali e come sia inopportuno un intervento legislativo che la colpisca indiscriminatamente: anche ciò conferma che la riduzione dei termini disposta dal comma 2 dell’art. 23-bis della l. n. 205 del 2000 non va a vantaggio del processo amministrativo. 4. Il secondo ordine di interrogativi riguarda l’ambito cui è applicabile il rito previsto dall’art. 23-bis: anche su questo punto la pronuncia dell’Adunanza plenaria offre alcuni spunti di riflessione. Nella decisione, infatti, si sostiene che il riferimento, in tale articolo, ai giudizi sulle « procedure di affidamento... di servizi pubblici » (cfr. art. 23-bis, comma 1, lett. c) ricomprenderebbe anche i giudizi concernenti l’assegnazione di sedi farmaceutiche (51). Infatti l’art. 23-bis, nel considerare le « procedure di aggiudicazione, affidamento ed esecuzione di servizi (50) In dottrina, a favore di questa lettura, con riferimento a tutti i termini processuali esaminati nel presente paragrafo, N. PAOLANTONIO, in Giustizia amministrativa (a cura di F.G. SCOCA), Torino, 2003, p. 238. (51) A questo proposito, ovviamente, non importa che nel giudizio sia controverso se spetti o meno al ricorrente l’assegnazione di una sede farmaceutica, perché questo è un aspetto diverso, che riguarda il merito, ossia la fondatezza o meno della domanda. Come in sostanza era già stato riconosciuto dalla Quarta sezione nella sua ordinanza di rinvio (Cons. Stato, Sez. IV, ord. 10 gennaio 2002, n. 122 cit.) e come viene ribadito dall’Adunanza plenaria, ai fini della identificazione del rito applicabile deve farsi riferimento solo al contenuto oggettivo della domanda.


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pubblici [e forniture] », non dovrebbe essere circoscritto alle più comuni procedure ad evidenza pubblica previste per l’assegnazione della titolarità o della gestione di un servizio pubblico (cfr. art. 113 e 113-bis t.u. n. 267 del 2000), ma dovrebbe valere per qualsiasi procedura prevista per l’assegnazione della titolarità o della gestione di un servizio pubblico. Inoltre l’Adunanza plenaria dimostra di dare peso, per l’interpretazione dell’art. 23-bis, alla nozione di servizio pubblico enunciata nell’art. 7 della l. n. 205 del 2000, dove infatti sono espressamente ricomprese, fra « le controversie in materia di pubblici servizi », anche quelle concernenti il « servizio farmaceutico ». Quest’ultimo argomento merita subito alcune precisazioni. Nella giurisprudenza amministrativa, specie con riferimento alle vertenze sulle c.d. privatizzazioni di beni o imprese pubbliche, si riscontra talvolta il richiamo all’art. 23-bis per affrontare questioni di giurisdizione (52). L’art. 23-bis, nel dettare le regole particolari di rito, postula sempre che le relative controversie siano di competenza del giudice amministrativo: « Ogni diversa interpretazione andrebbe, in particolare, rifiutata, in quanto contraria al canone ermeneutico che impone di assegnare ad una norma un significato che le consenta di produrre effetti e che impedisce, al contempo, ogni lettura che precluda alla disposizione qualsiasi utilità e che la privi di senso. Resterebbe, infatti, inammissibilmente sprovvista di alcun significato e dell’idoneità a produrre qualsiasi effetto una disposizione (quale quella in esame) che, regolando l’applicazione di un rito speciale ad un tipo di controversie, non venisse letta come contestualmente attributiva al giudice amministrativo della capacità e del potere di conoscere di quel giudizio, nella più ampia latitudine della possibile configurazione del suo contenuto » (53). Di conseguenza si finisce con l’assegnare all’art. 23-bis il valore di norma anche sulla giurisdizione. Questa conclusione risulta però contraddetta da altra giuri(52) Cons. Stato, Sez. V, 14 luglio 2003, n. 4167; Cons. Stato, Sez. VI, 5 marzo 2002, n. 1308, in Cons. St., 2002, I, 507. (53) Cons. Stato, Sez. V, 14 luglio 2003, n. 4167, cit.


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sprudenza, che in materia di appalti pubblici di opere ha escluso che dall’art. 23-bis possano trarsi argomenti per estendere la giurisdizione amministrativa alle controversie su diritti inerenti all’esecuzione dell’appalto. L’art. 23-bis, a mio giudizio, è solo norma sul rito e non incide mai sulla giurisdizione, come appare confermato, fra l’altro, dal costante e preciso riferimento nel comma 1, per definire la portata della nuova disciplina, ai « provvedimenti » amministrativi. Il legislatore, nell’art. 23-bis, ha inteso muoversi nell’ambito di una giurisdizione amministrativa già radicata (54). Un ragionamento in apparenza simmetrico a quello della giurisprudenza appena criticata si riscontra in altre pronunce che, come l’Adunanza plenaria in esame, invocano le disposizioni sulla giurisdizione esclusiva in materia di pubblici servizi, per interpretare la portata del comma 1, lett. c, dell’art. 23-bis riguardo alle « procedure di affidamento... di servizi pubblici ». In particolare questo ragionamento è stato accolto da un Tar per sostenere la tesi secondo cui ogni giudizio su atti dell’amministrazione che incidano su servizi pubblici dovrebbe essere assoggettato alla procedura dell’art. 23-bis, perché altrimenti si profilerebbero « ingiustificate differenziazioni di trattamento processuale » e verrebbe frustrata l’esigenza di ricondurre ad unità le controversie in tema di servizi pubblici. Il Tar aveva perciò concluso che anche le vertenze sulle modalità di distribuzione dei farmaci da parte del servizio sanitario nazionale dovrebbero ritenersi regolate dall’art. 23-bis (55). A me non pare che l’art. 23-bis abbia introdotto un unico rito per tutte le vertenze che incidano comunque su un servizio pubblico: la lett. c del comma 1 si riferisce infatti a un profilo ben preciso delle vicende dei servizi pubblici, quello delle procedure di identificazione del gestore o del titolare. Un’estensione ulteriore non appare giustificata. (54) Cosı̀ anche Cass., Sez. un. 22 luglio 2002, n. 10726, in Urb. e app., 2002, 1426, con nota di V. MARTELLI. Conforme, per la dottrina, N. PAOLANTONIO, in Giustizia amministrativa, cit., p. 242. (55) Tar Puglia, Sez. II Lecce, 27 novembre 2002, n. 1759. Il Tar ha negato, in questo caso, il beneficio dell’errore scusabile.


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Neppure mi sembra del tutto convincente l’interpretazione dell’Adunanza plenaria, che tuttavia esprime un indirizzo ben più prudente di quello accolto dal Tar appena richiamato e, in particolare, non instaura nessuna corrispondenza necessaria fra le norme sul rito e quelle sulla giurisdizione, limitandosi ad invocare l’art. 7 della l. n. 205 del 2000 per dare significato dell’espressione « pubblici servizi » nell’art. 4 della stessa legge. A mio giudizio la legge, richiamando, alla lett. c) del comma 1 del nuovo art. 23-bis, le « procedure di aggiudicazione, affidamento ed esecuzione di servizi pubblici e forniture, ivi compresi i bandi di gara e gli atti di esclusione dei concorrenti », ha inteso riferirsi a procedure omogenee a quelle contemplate alla lett. b) del medesimo comma, ossia alle « procedure di aggiudicazione, affidamento ed esecuzione di opere pubbliche o di pubblica utilità ». Si tratta di procedure caratterizzate da uno svolgimento tipico delle regole dell’« evidenza pubblica » e soggette a discipline che rispecchiano un identico modello: questi elementi di stretta affinità hanno suggerito al legislatore di prevedere un identico rito, superando la distinzione instaurata dall’art. 19 del d.l. 25 marzo 1997, n. 67 (56). Invece l’assegnazione della gestione delle farmacie, pur presentando i caratteri delle procedure di concorso, ha caratteri specifici, che riflettono la particolarità della attività del farmacista nel nostro ordinamento e la sua qualificazione come « professione ». Si tratta di una vicenda eterogenea rispetto a quelle aggiudicazioni di servizi pubblici e forniture che, per le analogie sostanziali e procedimentali con gli (56) L’art. 19 del d.l. 25 marzo 1997, n. 67, prevedeva regole processuali particolari solo per i giudizi sugli appalti di « opere pubbliche o di pubblica utilità ». Rimane invece inspiegabile, nell’art. 23-bis, la dimenticanza per gli appalti di servizi (contemplati nella lett. a) del comma 1 solo limitatamente agli incarichi di progettazione): secondo N. PAOLANTONIO, in Giustizia amministrativa, cit., p. 247, sarebbe evidente un errore materiale e la disposizione in esame dovrebbe intendersi riferita agli appalti di servizi, e non ai servizi pubblici (con la conseguenza che a maggior ragione non sarebbe condivisibile l’assoggettamento all’art. 23-bis delle vertenze sull’assegnazione di una sede farmaceutica); secondo M. LIPARI, I riti abbreviati, in Il nuovo processo amministrativo (a cura di F. CARINGELLA e M. PROTTO), Milano, 2001, p. 303, la disposizione dovrebbe essere riferita anche alle vertenze sull’affidamento dei « servizi » ai sensi del d.lgs. n. 157 del 1997.


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appalti di lavori pubblici, sono state assoggettate alla medesima disciplina processuale (57). Ma, fatta salva questa precisazione, il ragionamento svolto dall’Adunanza plenaria merita di essere segnalato soprattutto per un’altra ragione. La decisione presuppone che l’art. 23-bis non vada interpretato secondo canoni restrittivi, come se si trattasse di disposizione eccezionale rispetto a una disciplina processuale « generale ». La concezione dell’Adunanza plenaria richiama, piuttosto, quella espressa anche da alcuni studiosi del processo civile (58), che contrappongono istituti « speciali » ad istituti « eccezionali », cogliendo nei primi l’affermazione di un « principio », seppur con una portata limitata rispetto alla disciplina generale, e nei secondi l’affermazione di deroghe, tendenzialmente ben circoscritte e frammentarie. Di conseguenza le disposizioni relative agli istituti processuali « speciali », in quanto espressione anch’esse di un « principio », sono passibili di un’interpretazione estensiva. L’art. 23-bis identificherebbe, pertanto, non disposizioni eccezionali, ma disposizioni speciali. Ciò comporta che per stabilire la portata della nuova disciplina l’argomento letterale è recessivo rispetto a quelli logici (59). Questa conclusione, però, non fa venir meno l’esigenza di una verifica rigorosa dell’ambito di applicazione della nuova disciplina. Proprio l’importanza dell’argomento logico deve indurre ad esaminare con cautela ogni trasferimento all’art. 23-bis di valori diversi, come sono quelli espressi nell’art. 7 della l. n. 205 del 2000 per la definizione della giurisdizione esclusiva. L’argomento logico deve indirizzare, invece, verso l’analisi delle (57) Insomma, alla stregua di quanto afferma l’Adunanza plenaria, si potrebbe profilare l’assoggettamento al rito previsto dall’art. 23-bis anche per vertenze molto diverse: si pensi a quelle per il concorso notarile. (58) Cfr. E. ALLORIO, La cosa giudicata rispetto ai terzi, Milano, 1935 (ristampa Milano, 1992), p. 125. (59) Già Cons. Stato, Ad. plen., 14 febbraio 2001, n. 2, aveva escluso che l’art. 19 del d.l. 25 marzo 1997, n. 67, sui ricorsi contro l’aggiudicazione di appalti di opere pubbliche, fosse da interpretare restrittivamente: pertanto l’art. 19 cit. era stato applicato anche a un ricorso proposto contro l’annullamento d’ufficio di una aggiudicazione (la decisione si legge in Urb. app., 2001, 521, con nota di M. LIPARI).


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discipline sostanziali cui ineriscono le vertenze e consiglia di escludere ogni estensione a discipline eterogenee (60). 5. Il terzo ordine di interrogativi riguarda la disciplina della connessione nel caso di ricorsi contro provvedimenti contemplati nell’art. 23-bis e contro altri provvedimenti (61). Si tratta di capire se in questi casi possa ammettersi un unico giudizio e se tale giudizio sia soggetto alle regole dell’art. 23-bis o alle regole generali. Il Consiglio di Stato di recente ha sostenuto che il rito previsto dall’art. 23-bis si applicherebbe anche quando unitamente a un provvedimento assoggettato a tale rito sia impugnato un altro provvedimento (62). La decisione ha ritenuto inapplicabile l’art. 40, comma 3, c.p.c. il quale stabilisce che, nel caso di più cause proposte in un medesimo giudizio e assoggettate in astratto a riti diversi, prevale il rito ordinario, a meno che non siano proposte anche cause soggette al rito del lavoro e a quello previdenziale, per le quali prevale sempre il rito speciale (63). Il Consiglio di Stato ha sostenuto che le disposizioni particolari contenute nell’art. 23-bis sono volte ad assicurare una sollecita decisione dei giudizi aventi ad oggetto i provvedimenti indicati nello stesso articolo e che questo obiettivo sarebbe frustrato se (60) Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 4 febbraio 2003, n. 565, in Cons. St., 2003, I, 249, che ha escluso che alle vertenze sui dinieghi di iscrizione negli appositi « elenchi » regionali dei Centri di servizio di volontariato si applichi il rito speciale previsto dall’art. 6, comma 5, della l. 11 agosto 1991, n. 266, per i ricorsi contro i dinieghi di iscrizione negli appositi « registri » regionali delle organizzazioni di volontariato. L’esclusione del rito speciale si fonda sulla distinzione fra i Centri di servizio e le organizzazioni di volontariato (si tenga presente che in quel caso l’estensione del rito speciale era stata ammessa anche dal regolamento di attuazione della legge-quadro: art. 3 d.m. 8 ottobre 1997). (61) Sulla connessione nel processo amministrativo si segnala il recente contributo di M. RAMAJOLI, La connessione nel processo amministrativo, Milano, 2002. (62) Cons. Stato, Sez. VI, 27 marzo 2003, n. 1605. (63) Sul comma 3 dell’art. 40 c.p.c. cfr. E. MERLIN, Connessione di cause e pluralità dei « riti » nel nuovo art. 40 c.p.c., in Riv. dir. proc., 1993, 1021 ss. Il richiamo a tale disposizione per affrontare, nel processo amministrativo, il rapporto fra disciplina ordinaria e disciplina dettata dall’art. 23-bis, era stato prospettato da V. MORLACCHI, Commento all’art. 4 della legge 21 luglio 2000, n. 205, in Le nuove leggi civili, 2001, 622.


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la contestazione di altri provvedimenti, nel medesimo giudizio, precludesse l’applicazione di tali disposizioni. In altre occasioni, con riferimento ad altre disposizioni particolari, il Consiglio di Stato sembrerebbe aver accolto soluzioni differenti. In particolare con riferimento al giudizio sul silenzio, previsto dall’art. 21-bis della l. n. 1034 del 1971, ha sostenuto che tale giudizio non può valere per sindacare atti assunti tardivamente dall’Amministrazione, ancorché impugnati con motivi aggiunti (64). La connessione fra le cause non giustificherebbe, in questo caso, l’assoggettamento al medesimo rito. A me pare che le situazioni affrontate in queste pronunce siano fra loro diverse. Innanzi tutto l’art. 23-bis e l’art. 21-bis della l. n. 1034 del 1971 sono « speciali » in un modo diverso. In entrambi i casi sono introdotte disposizioni particolari rispetto a quelle che valgono per la generalità dei giudizi amministrativi, ma le particolarità sono di grado differente. Nel caso dell’art. 23-bis al giudice non sono attribuiti poteri di cognizione o di decisione diversi da quelli ordinari: il giudizio subisce una particolare accelerazione, ma rispetto ad esso le regole generali non cambiano. (64) Cosı̀ Cons. Stato, Sez. VI, 27 marzo 2003, n. 1605 cit.; Cons. Stato, Sez. V, 11 febbraio 2002, n. 144, in questa Rivista, 2002, 1005, con nota di L. BERTONAZZI, Il cumulo di domande assoggettate a riti diversi nel processo amministrativo: una regula iuris da individuare in via interpretativa; Cons. Stato, Sez. IV, 11 giugno 2002, n. 3256, in Foro amm. — CdS, 2002, 1413; Cons. Stato, Sez. V, 3 gennaio 2002, n. 12, in Cons. St., 2002, I, 7. In senso contrario v. però Cons. Stato, Sez. V, 10 aprile 2002, n. 1974, in questa Rivista, 2002, 1005, che ammette l’impugnazione con motivi aggiunti del provvedimento sopravvenuto nel corso del giudizio sul silenzio, precisando che alla presentazione di tali motivi aggiunti si applicano le regole ordinarie (e non i termini desumibili dall’art. 21-bis, cit.). Per la dottrina, in argomento, cfr. B. TONOLETTI, Commento all’art. 2 della legge 21 luglio 2000, n. 205, in Le nuove leggi civili, 2001, 585, secondo cui la presentazione di motivi aggiunti contro il provvedimento sopravvenuto dovrebbe comportare il trasferimento dal rito speciale al rito ordinario, e M.P. CHITI, Le procedure giurisdizionali speciali, in Trattato Cassese, 2a ediz., Milano, 2003, vol. V, p. 4777 ss. Cfr. anche F.G. SCOCA, Il silenzio della pubblica amministrazione alla luce del nuovo trattamento processuale, in questa Rivista, 2002, 257, sulla improponibilità, in un giudizio promosso ex art. 21-bis, cit.., di una domanda di risarcimento dei danni subiti per effetto del « silenzio ».


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Cambiano i tempi per la decisione, non i « modi » (65). Invece nel caso dell’art. 21-bis e negli altri giudizi, come quello sull’accesso, che rispecchiano un modello analogo, cambiano anche i « modi » della decisione: il giudice, se accoglie il ricorso sul silenzio, ordina all’Amministrazione di provvedere e, perdurando l’inerzia, nomina un commissario che provveda in via sostitutiva; se accoglie il ricorso sull’accesso, ordina all’Amministrazione di esibire il documento al cittadino; ecc. In questi casi sono previste dalla legge procedure e pronunce tipiche, che sono specifiche di determinati ricorsi. Nel caso dell’art. 23-bis, non sussistono elementi di specificità di questo genere. La « specialità » delle disposizioni non implica l’impossibilità o anche solo l’inopportunità pratica di applicarle ad altri casi, ma esprime solo l’importanza riconosciuta a certi interessi particolari ai fini di una più sollecita definizione del giudizio. Inoltre nel caso dell’impugnazione di un provvedimento sopravvenuto, quando sia stato promosso il giudizio sul silenzio, all’identità della vicenda materiale non corrisponde una relazione cosı̀ stretta fra le cause tale che il giudicato sull’una possa interferire con il giudicato sulla seconda. Sulla base dell’indirizzo accolto dall’Adunanza plenaria nel 2002 (66) e oggi divenuto prevalente nella giurisprudenza, il giudice che decide il ricorso sul silenzio deve verificare solo la sussistenza di una pretesa a un provvedimento e la lesione di tale pretesa, senza poter estendere il suo sindacato al contenuto del provvedimento che l’Amministrazione avrebbe dovuto assumere. La sopravvenienza di un provvedimento, quando sia pendente il giudizio sul silen(65) In questo senso mi sembra corretta la qualificazione del rito previsto dall’art. 23-bis come « rito accelerato » o « abbreviato », e non come « rito speciale », accolta per esempio da M. LIPARI, I riti abbreviati, cit., 264 ss., e da N. PAOLANTONIO, in Giustizia amministrativa, cit., 240. In generale, l’esigenza di una maggiore attenzione nella identificazione dei « riti speciali » è sottolineata da M. RAMAJOLI, La connessione nel processo amministrativo, cit., 220, che sottolinea la necessità di non confondere con essi le « semplici varianti dei riti principali ». (66) Cons. Stato, Ad. plen., 9 gennaio 2002, n. 1, in questa Rivista, 2002, 932, con nota di F. GIGLIONI.


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zio, è sı̀ rilevante per la pronuncia sul silenzio (67), ma solo su un piano di rito, e non sono comunque rilevanti l’impugnazione del provvedimento sopravvenuto e la decisione su tale impugnazione. Una decisione separata delle due cause è possibile, come testimonia la giurisprudenza amministrativa che oggi procede con sentenze parziali quando nel giudizio sul silenzio siano impugnati con motivi aggiunti i provvedimenti sopravvenuti (68). Invece, nel caso deciso dal Consiglio di Stato per la connessione rispetto all’art. 23-bis, il provvedimento soggetto alle disposizioni particolari e quello non soggetto erano strettamente connessi, perché si configurava la relazione procedimentale fra atto presupposto e atto conseguente e il ricorso risultava diretto contro entrambi. Pertanto non sarebbe stato possibile decidere l’impugnativa di un atto senza prendere in considerazione anche l’altro o comunque senza interferire sulla decisione per l’altro. In questa situazione non è appagante ricercare la soluzione al problema della diversità dei riti nella separazione delle cause, o nell’utilizzo da parte del giudice dell’istituto della sospensione per rinviare la trattazione della causa pregiudicata all’esito della causa pregiudiziale (69). La soluzione va ricercata garantendo l’unità del giudizio, quando le impugnative riguardano le stesse questioni (70). Resta, allora, da capire quali disposizioni debbano essere (67) La sopravvenienza di un provvedimento preclude che sia ordinato all’Amministrazione di provvedere e, ove sia già stato emanato un ordine di provvedere, preclude la nomina del Commissario (cfr. art. 21-bis, cit.); secondo Cons. Stato, Sez. IV, 11 giugno 2002, n. 3256 cit., il giudice amministrativo dovrebbe dichiarare improcedibile il ricorso, per sopravvenuta carenza d’interesse. (68) Cosı̀ Tar Lombardia, Sez. II, 10 gennaio 2003, n. 15. A favore di questa soluzione, argomentando sulla base del principio di « economia processuale », si era espresso L. BERTONAZZI, Il cumulo di domande assoggettate a riti diversi, cit., 1018. Questa soluzione appare coerente anche con alcune affermazioni di Cons. Stato, Sez. V, 10 aprile 2002, n. 1974, cit. (69) Soluzione che invece appare senz’altro praticabile (o addirittura doverosa, secondo Cons. Stato, Sez. VI, 4 settembre 2002, n. 4454 cit.), quando la trattazione delle due cause possa procedere distintamente. (70) Si tenga presente, però, che secondo Cons. Stato, Sez. VI, 27 marzo 2003, n. 1605 cit. la soluzione rappresentata da un unico giudizio va accolta sia nel caso di impugnazione con uno stesso ricorso di atti diversi, sia nel caso di impugnazione di


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applicate in quest’unico giudizio nel quale venga impugnato sia uno dei provvedimenti elencati nel comma 1 dell’art. 23-bis, sia un provvedimento diverso. Risulta scarsamente significativo il richiamo al comma 3 dell’art. 40 c.p.c., perché questa disposizione riflette nelle sue varie regole i rapporti fra rito ordinario e riti speciali nel processo civile e si ambienta perciò nel contesto specifico di tale processo. (71) Il rapporto fra l’art. 23-bis e la disciplina generale del processo amministrativo non trova alcuna corrispondenza nell’art. 40 c.p.c. (72). Invece, una volta riconosciuta l’esigenza di una maggiore celerità della decisione nelle vertenze elencate nel comma 1 dell’art. 23-bis, appare plausibile che, come ha sostenuto il Consiglio di Stato, l’interesse sotteso a questa esigenza non debba passare in secondo piano se l’impugnativa coinvolge necessariamente anche altri atti. Si può quindi prospettare la prevalenza delle disposizioni contenute nell’art. 23bis, rispetto a quelle generali, quando il cumulo delle domande determini la concorrenza fra le due discipline (73). Questa soluzione rende ancora più pesante il « costo », per atti successivi con motivi aggiunti (ai sensi dell’art. 1 della l. n. 205 del 2000), sia nel caso di estensione del giudizio ad altri atti per effetto di un ricorso incidentale. (71) Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 4 settembre 2002, n. 4454, in Foro it., 2003, III, 74. Nello stesso senso, anche se sulla base di argomenti parzialmente diversi, L. BERTONAZZI, Il cumulo di domande assoggettate a riti diversi, cit., 1014. (72) D’altra parte, che la soluzione accolta dall’art. 40 c.p.c. sia frutto di una scelta legislativa, più che il riflesso di principi più generali, emerge bene dalla lettura di alcuni interventi in materia, precedenti alla novella del 1990 al c.p.c., nei quali erano prospettate soluzioni ben differenti. Cfr. A. PROTO PISANI, Problemi della c.d. tutela giurisdizionale differenziata, in Appunti sulla giustizia civile, Bari, 1982, 231241, tendenzialmente a favore della prevalenza del rito speciale. (73) In argomento M. RAMAJOLI, La connessione nel processo amministrativo, cit., 220 ss., conclude invece a favore della prevalenza del rito ordinario. In realtà, la diversità di conclusioni non sembra radicale. Le considerazioni di M. Ramajoli si fondano sulla distinzione fra connessione « necessaria » e connessione « semplice », la prima delle quali caratterizzata dalla configurabilità di un nesso di pregiudizialità-dipendenza fra gli atti impugnati: in presenza di impugnative riferibili in astratto a riti diversi, nel caso di connessione necessaria prevale l’esigenza di un processo unitario, mentre nel caso di connessione semplice si imporrebbe la separazione delle vertenze. Il ragionamento da me svolto sopra nel testo riguarda la connessione « necessaria »; resta da capire se la connessione « necessaria » nel processo amministrativo vada riconosciuta solo in presenza di una relazione di pregiudizialità-di-


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la giustizia amministrativa, di previsioni come il comma 2 dell’art. 23-bis. Infatti l’incidenza indiscriminata e contestabile sui termini essenziali per l’esercizio dell’azione produce risultati ancora più gravi e meno tollerabili, quando la norma processuale particolare si applichi in forza di regole non scritte. L’ampio utilizzo, da parte del Consiglio di Stato, del beneficio dell’errore scusabile (74) attenua le conseguenze più negative sul piano pratico, ma rappresenta anche un riconoscimento ufficiale delle carenze del legislatore (75). ALDO TRAVI

pendenza fra gli atti impugnati, ovvero anche in ipotesi in cui l’inserimento dell’impugnativa successiva in quel giudizio sia imposto dalla legge (cfr. la disciplina dei motivi aggiunti nell’art. 1 della l. n. 205 del 2000) o sia imposto da ragioni di effettività della difesa (cfr. il caso del ricorso incidentale, mentre appare meno significativo, in questo contesto, che riguarda l’impugnazione di atti inseriti in una medesima sequenza procedimentale o in più sequenze correlate, il caso della riconvenzionale). Per quanto poi riguarda il tema della disciplina processuale applicabile, nel caso di connessione « necessaria », M. Ramajoli concentra la sua attenzione particolarmente sul giudizio per il silenzio, che viene giustamente identificato come un vero « rito speciale ». Se però la disciplina dell’art. 23-bis viene considerata, anziché come un rito « speciale », come una semplice « variante » del rito generale, allora il tema della concorrenza con la disciplina generale può risolversi assegnando la prevalenza alla disciplina particolare, atteso che in quest’ultima gli elementi di differenziazione non sono tali da renderla praticamente inapplicabile (o difficilmente applicabile) ad altre impugnative. (74) Cons. Stato, Sez. VI, 27 marzo 2003, n. 1605 cit., ha concesso il beneficio dell’errore scusabile nel caso di un appello proposto nei termini ordinari, quando per connessione avrebbe dovuto essere applicato l’art. 23-bis. (75) Ciò nonostante, nella legislazione « agostana » sul campionato di calcio, l’art. 3 del d.l. 19 agosto 2003, n. 220, ha esteso l’art. 23-bis anche ai ricorsi al giudice amministrativo contro gli atti del CONI e delle Federazioni sportive, richiamandone in particolare il comma 2, sulla riduzione a metà dei termini processuali.


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I Cons. Stato, Sez. V, 5 marzo 2003, n. 1218 — Pres. Quaranta — Est. Marchitiello — Full Service S.r.l. (avv. Sticchi Damiani) c. Datel S.p.a. (avv. Gualtieri) e altri. Contratti stipulati in seguito a procedura ad evidenza pubblica - Annullamento della procedura - Conseguenze sul contratto già stipulato Caducazione del contratto in quanto nullo per violazione di norme imperative. La violazione delle norme attinenti alla fase di scelta dei contraenti nei procedimenti di formazione di contratti ad evidenza pubblica, con conseguente annullamento della procedura di gara, determina la nullità del contratto di appalto ex art. 1418, comma 1, c.c., e non già la sua annullabilità (1). II Cons. Stato, Sez. VI, 5 maggio 2003, n. 2332 — Pres. Schinaia — Est. Caringella — Medusa Scarl. (avv. Quinto) c. Università degli studi di Lecce (avv. Spalo) e altri. Contratti stipulati in seguito a procedura ad evidenza pubblica - Annullamento della procedura - Conseguenze sul contratto già stipulato Caducazione del contratto per carenza retroattiva di un presupposto pubblicistico di efficacia - Giurisdizione amministrativa esclusiva sull’accertamento della caducazione del contratto - Sussiste. La violazione delle norme attinenti alla fase di scelta dei contraenti nei procedimenti di formazione di contratti ad evidenza pubblica, con conseguente annullamento della procedura di gara, determina la caducazione del contratto di appalto, per sopravvenuta carenza retroattiva di un presupposto pubblicistico di effıcacia, e non già la sua annullabilità (2). Il giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva ex art. 6, comma 1, della l. n. 205 del 2000, è competente ad accertare tale caducazione, con pronuncia idonea a divenire cosa giudicata, trattandosi di effetti automaticamente prodottisi sul contratto, in seguito all’annullamento della procedura amministrativa (3). III Cons. Stato, Sez. VI, 30 maggio 2003, n. 2992 — Pres. Giovannini — Est. Montedoro — Lasa Marmo S.p.a. (avv.ti Zambelli e Verino) c. Amm. Beni Uso Civico di Lasa (avv.ti Pingrı̀erra e Luponi).


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Contratti stipulati in seguito a procedura ad evidenza pubblica - Annullamento della procedura - Conseguenze sul contratto già stipulato Caducazione del contratto per carenza retroattiva di un presupposto pubblicistico di efficacia - Sua inopponibilità ai terzi in buona fede Giurisdizione amministrativa esclusiva sull’accertamento della caducazione del contratto - Sussiste. La violazione delle norme attinenti alla fase di scelta dei contraenti nei procedimenti di formazione di contratti ad evidenza pubblica, con conseguente annullamento del provvedimento di aggiudicazione, determina la ineffıcacia del contratto stipulato (nella specie, contratto accessivo a concessione di bene pubblico), per sopravvenuta carenza retroattiva di un presupposto pubblicistico di effıcacia, e non già la sua annullabilità (4). Tale caducazione trova però temperamento nella salvezza dei diritti acquistati dai terzi in buona fede (5). Il giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva ex art. 5, comma 1, della l. n. 1034 del 1971, è competente ad accertare tale caducazione, con pronuncia idonea a divenire cosa giudicata (6). IV Cons. Stato, Sez. IV, 27 ottobre 2003, n. 6666 — Pres. Trotta — Est. Russo — Tor di Valle Costruzioni S.p.a. (avv. Piselli) c. Ministero dei lavori pubblici (avv. Stato) e altri. Contratti stipulati in seguito a procedura ad evidenza pubblica - Annullamento della procedura di gara - Conseguenze sul contratto già stipulato - Inefficacia sopravvenuta del contratto per carenza retroattiva di legittimazione a contrarre - Sua inopponibilità ai terzi in buona fede - Giurisdizione amministrativa esclusiva sull’accertamento della inefficacia del contratto - Sussiste. La violazione delle norme attinenti alla fase di scelta dei contraenti nei procedimenti di formazione di contratti ad evidenza pubblica, con conseguente annullamento della procedura di gara, determina la ineffıcacia del contratto di appalto, per sopravvenuta carenza di legittimazione a contrarre in capo all’Amministrazione (7). Tale ineffıcacia non può però essere opposta ai terzi in buona fede (8). Il giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva ex art. 6, comma 1, della l. n. 205 del 2000, è competente ad accertare tale ineffıcacia, con pronuncia idonea a divenire cosa giudicata, specie in considerazione della potestà di condanna alla reintegrazione in forma specifica assegnatagli dal legislatore (9).


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I DIRITTO. — (Omissis). L’ultimo rilievo è diretto a contestare che l’annullamento della procedura di gara possa determinare l’effetto di porre nel nulla anche il contratto stipulato con il soggetto aggiudicatario della gara. La questione è stata prospettata dalla società appellante già nel ricorso esaminato al precedente punto 3 e in parte è stata già confutata. Deve solo aggiungersi che l’argomento tratto dalla Full International dall’art. 2909 c.c., secondo cui il giudicato formatosi sull’annullamento della procedura di gara e i conseguenti effetti di tale annullamento non le sarebbero opponibili per non avere partecipato al relativo giudizio, non è pertinente, giacché la caducazione del contratto, nel caso in esame, è conseguente al suo stato di nullità — e non di annullabilità — essendosi violate le norme attinenti alla fase di scelta del contraente che nei procedimenti di formazione dei contratti ad evidenza pubblica è regolata da norme di diritto pubblico e, pertanto, imperative, con la conseguente attrazione del contratto nell’ambito di operatività dell’art. 1418, comma 1, c.c. (Omissis). II FATTO e DIRITTO. — (Omissis). 2. Chiari motivi di pregiudizialità impongono il preventivo esame della censura con la quale la parte appellate contesta in radice la sussistenza, in capo alla p.a., del potere di rinnovare la procedura di gara nonostante la persistente efficacia del contratto stipulato, per l’espletamento del medesimo servizio, all’esito della pregressa procedura competitiva coronata dall’aggiudicazione in favore della società Medusa. Sostiene in particolare parte ricorrente che la premessa dalla quale ha preso le mosse l’amministrazione, ossia l’assunto dello spirare automatico degli effetti del contratto siglato a valle a seguito dell’azzeramento dell’aggiudicazione a monte, sarebbe contraddetto dall’orientamento pretorio a tenore del quale la vita della stipulazione contrattuale non sarebbe illico et imediate recisa dalla demolizione della procedura di affidamento funzionalizzata alla selezione del contraente. A sostegno di detto approccio, propenso a valorizzare la relativa autonomia della fattispecie privatistica rispetto all’iter pubblicistico che la prepara e la giustifica si porrebbe, infatti, la decisiva considerazione che la stipulazione del contatto dà la stura ad una fattispecie di diritto privato (generatrice di posizioni di diritto soggettivo perfetto) le cui vicende, sul duplice profilo della validità e dell’efficacia, devono essere rette dalla disposizioni del diritto comune. Di qui il duplice corollario, tratto dalla riqualificazione in termini privatistici del vizio della procedura di evidenza pubblica colto nella sen-


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tenza del giudice amministrativo, dell’emersione di un vizio procedurale della volontà della p.a. per la violazione di norme di evidenza poste nell’interesse del pubblico contraente, che dà luogo ad una causa di annullamento della pattuizione; e dell’ascrizione, in capo al GO, della giurisdizione sulla controversia relativa alla validità del contratto, esulante dal perimetro della giurisdizione esclusiva del GA ex lege limitata alla sola fase della procedura di affidamento (vedi da ultimo Cons Stato, sez. IV, decisione 25 marzo 2003 n. 1544; Sez. V, 6 febbraio 2003 n. 628, ove si chiarisce che, anche alla luce degli artt. 4 e 6 della l. 21 luglio 2000, n. 205, la giurisdizione esclusiva del GA è limitata alla sola fase della procedura di affidamento e non tocca le vicende relative all’esecuzione del contratto, soggette al criterio ordinario di riparto imperniato sulla consistenza della posizione soggettiva). Si soggiunge infine che, in conformità a quieti principi normativi e giurisprudenziali, l’azione di annullamento — al pari della formulazione della relativa eccezione — salva diversa disposizione derogatoria nella specie non ravvisabile, è esperibile esclusivamente dal contraente la cui volontà o capacità è stata deformata dal vizio genetico (Cass., Sez. II, 8 maggio 1996, n. 4269), ossia la pubblica amministrazione; e che il contratto annullabile spiega medio tempore piena efficacia fino all’intervento della pronuncia costitutiva del GO. È allora precluso alla p.a. il potere, sulla scorta di una forma di autotutela privata sconosciuta all’ordinamento, di avviare una nuova procedura sulla base dell’unilaterale considerazione dell’improduttività di effetti della pattuizione pregressa. 3. La costruzione svolta dall’appellante, non risulta persuasiva. Alla tesi esposta, che finisce per rimettere all’iniziativa dell’amministrazione risultata soccombente nel giudizio amministrativo di annullamento la decisione sulle sorti del contratto, devono infatti essere mosse le seguenti obiezioni. 3.1. In prima battuta non risulta convincente l’assunto che relega la rilevanza delle norme di evidenza pubblica al piano della tutela dell’interesse particolare del contraente pubblico. Al contrario una cospicua fetta di prescrizioni in tema di procedure di evidenza, specie di derivazione comunitaria, esprimono, nell’ottica della tutela dell’interesse generale e della sfera giuridica dei soggetti partecipanti alla procedura, i principi fondamentali della concorrenza e del mercato e danno sfogo ai valori dell’imparzialità e del buon andamento enunciati dalla Costituzione in stretto collegamento con canoni fondamentali di ordine pubblico. Tale prospettiva è decisivamente irrobustita dalle regole comunitarie, per tali intendendo sia le disposizioni specifiche che reggono le procedure soprasoglia che i principi del Trattato in materia di concorrenza estesi anche alle fattispecie sottosoglia (Corte Giustizia, ord. 3 dicembre 2001, in C-59/00; Circolare Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento


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per le Politiche Comunitarie 6 giugno 2002, in G.U. 31 luglio 2002, n. 178), finalizzate non certo alla tutela dell’interesse egoistico del paciscente pubblico ma alla salvaguardia dei valori della concorrenza e, quindi, della libertà competitiva delle singole imprese di giocare le proprie chances in seno ad una procedura all’uopo calibrata. Nella sostanza i precetti comunitari danno vita ad una gara europea in attuazione di inderogabili principi del Trattato, tra i quali vengono in particolare in rilievo, senza pretesa di esaustività, le norme di stampo imperativo, anche alla luce della primautè del diritto comunitario ora costituzionalizzata nel nuovo testo dell’art. 117, comma 1, della Costituzione, che vietano qualsiasi discriminazione fondata sulla nazionalità (art. 12, paragrafo 1, ex art. 6, par. 1); nonché le norme relative alla libera circolazione delle merci (artt. 28 — ex 30 ss.), alla libertà di stabilimento (artt. 43 — ex 52 ss.), ed alla libera prestazione di servizi (artt. 49 — ex 59 ss.). Le norme sull’evidenza pubblica, interna e comunitaria, plasmano allora un complesso rapporto amministrativo in seno al quale l’amministrazione aggiudicatrice è soggetto in certa misura passivo, obbligato all’osservanza di norme poste a tutela di un interesse anche trascendente quello specifico del singolo contraente pubblico in quanto collegato al valore imperativo della concorrenza e, quindi, anche all’interesse particolare delle imprese che sono tutelate dalle prescrizioni volte alla tutela ed alla stimolazione della dinamica competitiva. Non è allora corretto, nella sua perentorietà, l’assunto secondo il quale il procedimento amministrativo di evidenza pubblica andrebbe qualificato, sul piano civilistico, come manifestazione complessa della volontà negoziale della parte pubblica sı̀ da dare luogo ad un contratto annullabile su iniziativa del solo contraente pubblico. La caratterizzazione imperativa delle prescrizioni violate e la funzionalizzazione di queste alla tutela dell’interesse delle imprese rende invece più plausibile, salve le precisazioni che verranno in seguito svolte, la ricostruzione che configura una causa di nullità virtuale del contratto per violazione di norme imperative ai sensi dell’art. 1418, comma 1 c.c., con conseguente legittimazione aperta ai sensi dell’art. 1421 c.c. (Conf Consiglio di Stato, Sez. V 5 marzo 2003, n. 1218); ovvero, quella, parimenti capace di soddisfare le esigenze sopra prospettate, che, prendendo spunto dal rilievo che l’aggiudicazione costituisce il presupposto determinante della stipulazione, conclude, secondo la logica dell’effetto caducante automatico, nel senso che l’inefficacia dell’atto amministrativo ex tunc travolto dall’annullamento giurisdizionale comporta anche la caducazione immediata, non necessitante di pronunce costitutive, degli effetti del negozio. 3.2. La costruzione basata sulla logica dell’annullamento conduce vieppiù ad una chiara elusione del principio di effettività della tutela giu-


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risdizionale, resa evidente dall’ascrizione in testa alla p.a. del potere di dare luogo, anche in pendenza di giudizio e nonostante la caratterizzazione cogente delle norme violate, ad un fatto compiuto (i.e.:la stipulazione del contratto) che strangola l’aspirazione del ricorrente ad una tutela sostanziale. Infatti, nella prospettiva qui non condivisa, il contratto (impugnabile innanzi al giudice ordinario su iniziativa della sola amministrazione soccombente nel giudizio amministrativo) avrebbe una sua vita autonoma, preclusiva di ogni utilità dell’annullamento della procedura di gara in sede giurisdizionale amministrativa, che non sia quella legata alla possibilità di richiedere un risarcimento per equivalente (cfr., Cons Stato, Ad. plen., dec. n. 4/2003). Sul piano dell’equità sostanziale e, soprattutto, dell’effettività della tutela giurisdizionale appare addirittura originale che l’amministrazione sia l’unico soggetto legittimato a lamentare la violazione delle norme di evidenza pubblica per ottenere la caducazione del contratto quando le illegittimità accertate nel procedimento di evidenza pubblica, ben diversamente da quanto accade nella logica civilistica dei vizi della volontà causativi dell’annullabilità del negozio, di regola non sono subite dall’amministrazione, ma sono da questa provocate. Non meno illogica appare una soluzione per effetto della quale spetterebbe al soggetto soccombente nel giudizio di annullamento dell’aggiudicazione (la pubblica amministrazione) decidere se promuovere l’annullamento del contratto ovvero vanificare con l’inerzia l’effetto utile sul piano specifico della pronuncia giudiziaria. 3.3. Inoltre, sempre sul versante della tutela giurisdizionale, l’interpretazione offerta dalla parte ricorrente, si risolve nella vanificazione della possibilità, invece riconosciuta al g.a. in termini generali dall’art. 7, comma 3, della l. n. 1034 del 1971, come modificato dall’art. 7 della l. n. 205 del 2000, di condannare l’amministrazione al risarcimento del danno, anche mediante la reintegrazione in forma specifica. Risulta in sostanza frustrata la ratio di un’innovazione rivelatrice della volontà legislativa di affiancare alla tradizionale tutela annullatoria una protezione più intensa e finale della situazione giuridica fatta valere, realizzata attraverso il ripristino della situazione giuridica e materiale turbata dall’attività illegittima dell’amministrazione. La tesi qui contrastata scorge infatti nel fatto storico della stipulazione un fattore preclusivo della tutela specifica e limitativo della stessa portata della sentenza di annullamento, che relega la tutela perseguibile dal privato al solo piano, non semplice sul piano probatorio, della tutela risarcitoria per equivalente. Donde una surrettizia generalizzazione dei limiti posti alla tutela a seguito della stipulazione del contratto ai sensi dell’art. 14 del d.lgs. 20 agosto 2002, n. 190, in tema di infrastrutture strategiche, in attuazione della delega conferita dalla l. 21 dicembre 2001, n. 4443, senza peraltro il correttivo di cui all’ultimo comma dell’art. 14 medesimo, sub specie di necessaria interposizione di


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uno spazio temporale minimo di trenta giorni che deve separare la comunicazione dell’esito della gara e la stipula del contratto. Il depotenziamento dell’effettività della tutela è ancora più drastico se si considera che la previsione di tecniche puramente patrimoniali di ristoro fa sı̀ che la stipula del contratto precluda anche la strada della tutela cautelare. 3.4. Infine, la prospettiva qui non condivisa contrasta con il principio di concentrazione della tutela, evidentemente sotteso all’opzione legislativa in favore della giurisdizione esclusiva in capo al GA per le procedure di affidamento (art. 6, comma 1, l. n. 205 del 2000 cit.), nella misura in cui postula che la caducazione del contratto debba passare attraverso le forche caudine del preventivo giudizio amministrativo di annullamento dell’aggiudicazione e del successivo giudizio civile di annullamento del contratto. Di qui l’emersione di una doppia tutela in perfetta antitesi con la semplificazione delle tecniche di tutela giurisdizionale condensate nella creazione di un modello di giurisdizione amministrativa piena ai sensi del già citato art. 7 della l. n. 205 del 2000, nella parte modificativa dell’art. 7, comma 3, prima parte, della l. n. 1034 del 1971. 4. Venendo alla pars costruens del discorso, si deve ancora sciogliere l’alternativa se la violazione della normativa di gara configuri una causa di nullità del contratto ovvero ponga un problema non di patologia propria ma di caducazione automatica degli effetti della stipulazione. È d’uopo peraltro puntualizzare che entrambe le soluzioni dimostrerebbero la legittimità dei provvedimenti qui impugnati, posto che la nullità del contratto dà la stura ad un’inefficacia originaria della stipulazione idonea, al pari del suo travolgimento secondo il meccanismo caducante, a legittimare la p.a. a bandire una nuova procedura finalizzata ad una stipula sostitutiva di quella in ogni caso priva di effetti. 4.1. La Sezione ritiene che a sostegno della tesi dell’efficacia caducante, nel caso di annullamento giurisdizionale, come in quello dell’eliminazione a seguito di autotutela o di ricorso giustiziale, degli atti della procedura amministrativa, deponga la valorizzazione del rapporto di consequenzialità necessaria tra la procedura di evidenza pubblica ed il contratto successivamente stipulato. Il previo esperimento delle fasi di evidenza pubblica, laddove mira a tutelare interessi obiettivi dell’ordinamento anche nella ricordata prospettiva comunitaria, assume la fisionomia propria di un presupposto o di una condizione legale di efficacia del contratto, qualificazione pacificamente riconosciuta all’approvazione. Ne deriva che, cosı̀ come è pacifico che l’approvazione del contratto mira ad operare un accurato controllo sul procedimento di evidenza pubblica con l’effetto che il relativo annullamento travolge gli effetti della stipulazione, non si vede perché lo stesso


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effetto condizionante non debba essere riconosciuto anche alla fase sostanziale di aggiudicazione; di qui il corollario che anche l’annullamento dell’aggiudicazione fa venir meno retroattivamente detto presupposto condizionante del contratto e ne determina, con effetto caducante, la perdita di efficacia. La mancanza del procedimento di evidenza pubblica deve in ultima analisi essere equiparata all’ipotesi di mancanza legale del procedimento, derivante dall’annullamento del provvedimento di aggiudicazione. Al pari della radicale mancanza dell’intera fase di evidenza pubblica, o di una sua parte essenziale (quale la procedura di gara), l’annullamento segna infatti, in via retroattiva, la carenza di uno dei presupposti di efficacia del contratto, che, pertanto, resta definitivamente privato dei suoi effetti giuridici. L’assunto è corroborato dalla considerazione che mentre la nullità civilistica configura una patologia propria del contratto, in relazione ad un vizio genetico che lo inficia ab origine, nella specie il contratto subisce gli effetti del vizio che affligge la procedura amministrativa a monte. Ne deriva che il vizio della procedura di evidenza pubblica non rappresenta, di per sé, causa di invalidità del contratto eventualmente stipulato, come dimostrato dalla non contestatabile considerazione che, vita la ratio del termine di decadenza nel giudizio amministrativo, non sarebbe possibile la proposizione di azione dichiarativa della nullità del contratto, ai sensi degli artt. 1418 c.c., se non previa rituale e tempestiva impugnativa dell’atto amministrativo viziato. È allora concettualmente chiara l’atecnicità del richiamo della categoria della nullità del contratto, che di per sé evocherebbe una sua inefficacia originaria stigmatizzabile da subito con un’azione dichiarativa, mentre nella specie è pacifico che l’inefficacia del contratto è una vicenda sopravvenuta al necessario annullamento giurisdizionale della procedura amministrativa. Non osta, poi, al meccanismo dell’efficacia caducante la circostanza che il rapporto di presupposizione riguardi una fattispecie mista di collegamento tra provvedimento amministrativo e contratto di diritto privato piuttosto che l’ipotesi paradigmatica di correlazione tra atti amministrativi. Si deve osservare infatti che anche nel diritto civile, in virtù del nesso inscindibile di connessione che avvince contratti (e, più in generale, negozi) collegati in via necessaria, la perdita di efficacia di uno dei contratti, per effetto di una patologia ovvero di una causa originaria o sopravvenuta che ne recida gli effetti, non ingenera una ipotesi di invalidità degli altri contratti (o dell’altro contratto) ma innesca un fenomeno di perdita di efficacia di una fattispecie pattizia che non può sopravvivere orfana delle altre tessere del mosaico negoziale; fenomeno scolpito dal brocardo simul stabunt simul cadent. Si può allora convenire che il meccanismo dell’effetto caducante costituisce espressione di un principio generale che coglie il nesso di con-


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nessione inscindibile tra una pluralità di atti iscritti nell’ambito di una vicenda sostanzialmente unitaria. 4.2. Un argomento sistematico favorevole alla tesi proposta può essere da ultimo tratto dalla l. 21 dicembre 2001, n. 443 (Delega al Governo in materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici ed altri interventi per il rilancio delle attività produttive), la quale ha conferito, all’art. 1, comma 2, una delega ad emanare, nel rispetto delle attribuzioni costituzionali delle regioni, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della legge, uno o più decreti legislativi volti a definire un quadro normativo finalizzato alla celere realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti individuati ai sensi del comma 1. Fra i criteri previsti dalla disposizione, si segnala quello contenuto nella lettera n): « previsione, dopo la stipula dei contratti di progettazione, appalto, concessione o affidamento a contraente generale, di forme di tutela risarcitoria per equivalente, con esclusione della reintegrazione in forma specifica; restrizione, per tutti gli interessi patrimoniali, della tutela cautelare al pagamento di una provvisionale ». La delega è stata quindi attuata con il d.lgs. n. 190 del 2002 prima citato. Ebbene, la tesi dell’efficacia caducante è avvalorata dalla circostanza che l’art. 14 del decreto delegato, laddove esclude per le opere strategiche che la caducazione dell’aggiudicazione risolva il contratto, presuppone che l’annullamento dell’esito della gara, sulla base di una logica chiaramente indifferente alla tipologia dell’appalto, produca di norma la risoluzione automatica e non l’invalidità del contratto (cosı̀ Cons. Stato, Sez. VI, dec. n. 1518 del 2003). 5. Sul piano della giurisdizione la soluzione esposta, che annette carattere automaticamente caducante all’annullamento dell’aggiudicazione da parte del giudice amministrativo, non consente di dubitare che la relativa controversia debba essere devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. È infatti evidente che non si dibatte di una vicenda propria del contratto, ossia di una sua patologia, ma degli effetti automaticamente prodottisi sulla fattispecie pattizia per effetto dell’azzeramento della procedura amministrativa. Di qui il corollario, coerente con le esigenze di concentrazione e pienezza della tutela prima rammentate, che il giudice amministrativo, dotato di giurisdizione esclusiva sulla procedura di affidamento, indaghi anche sugli effetti prodotti dall’annullamento della procedura, ossia signoreggi la fase dell’esecuzione del suo decisum. (Omissis). III DIRITTO. — (Omissis). 3. Va poi affrontato il primo motivo di appello, con il quale è stata riproposta l’eccezione di difetto di giurisdizione del


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giudice amministrativo. Ritengono gli appellanti che essendo stata contestata la stipula di un mero contratto di affitto fra Lasa Marmo ed Amministrazione separata dei beni di uso civico la delibera impugnata sarebbe un atto paritetico di mera esternazione formale della volontà dell’amministrazione di stipulare un contratto di affitto, di valutazione, sul piano privatistico, della convenienza della bozza di contratto, senza intendimento di porre in essere una procedura di evidenza pubblica, peraltro non richiesta dalla normativa, né dalla concreta situazione contrattuale, secondo la quale, anche a tenore della originaria concessione sarebbe stato possibile il rinnovo del contratto con lo stesso concessionario. 3.1. La conseguenza di tale argomentare è la esistenza esclusiva di posizioni di diritto soggettivo, relative ad un rapporto paritetico, con conseguente appartenenza delle domande spiegate in relazione a detto rapporto alla giurisdizione del giudice ordinario. 3.2. Il giudice di primo grado ha ricordato che le procedure di scelta del contraente da parte di soggetti comunque tenuti all’applicazione delle regole di evidenza pubblica, ricadono nella giurisdizione del giudice amministrativo. 3.3. La decisione del T.R.G.A. in punto di giurisdizione è senz’altro esatta, anche se non del tutto esauriente. Ciò che conta, ai fini della giurisdizione, non è tanto la effettiva fondatezza della pretesa azionata, ma l’astratta configurabilità della stessa come pretesa all’esercizio legittimo di un potere amministrativo, ossia l’esistenza di una pretesa o domanda relativa ad una posizione configurabile in astratto come interesse legittimo; orbene la domanda della società ricorrente in primo grado lamenta il mancato esperimento di una procedura comparativa di valutazione, ossia, in astratto, il mancato rispetto di regole di evidenza pubblica, la cui applicazione non può che essere devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo. 3.4. Ma v’è di più: il contratto di affitto stipulato dall’Amministrazione separata dei beni di uso civico si rivela un contratto di concessione di un bene pubblico, devoluto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 5 della legge sui Tar a tenore del quale « sono devoluti alla competenza dei tribunali amministrativi regionali i ricorsi contro atti o provvedimenti relativi a rapporti di concessione di beni pubblici », salvo le controversie concernenti « indennità, canoni ed altri corrispettivi ». Nella giurisprudenza del Consiglio di Stato si è ritenuta la giurisdizione del giudice amministrativo nel caso in cui una p.a. proceda all’affidamento della concessione di sfruttamento di una cava, e ciò indipendentemente dal nomen del contratto usato dall’amministrazione, che abbia ritenuto di qualificare il rapporto come rapporto contrat-


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tuale di affitto, anche se poi si è ritenuta irrilevante la qualificazione del rapporto ai fini della giurisdizione ove si controverta sulla scelta del contraente (Con. Stato, Sez. VI, 8 ottobre 1998, n. 1363 Com. Selva Val Gardena e altro c. Goller). (Omissis). 8. Va, in ultimo, esaminato il motivo di appello proposto avverso il capo della sentenza che pronuncia la declaratoria di illegittimità del contratto di affitto, in accoglimento di uno specifico motivo del ricorso di primo grado (il quinto). 8.1. Essendosi qualificato il rapporto come concessorio, sul punto sussiste, ex art. 5 della legge sui Tar la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, e si pone quindi il problema della valutazione dell’incidenza dell’annullamento dell’atto relativo alla serie procedimentale di evidenza pubblica sul contratto già stipulato dall’amministrazione. 8.2. Il tema è — in sostanza — quello delle conseguenze giuridiche determinate dall’annullamento giurisdizionale del provvedimento di aggiudicazione di un contratto stipulato dall’amministrazione, poiché, nella specie, l’atto n. 72 del 2000, di approvazione dello schema di contratto, svolge la stessa funzione di un atto di aggiudicazione. 8.3. La questione può essere sintetizzata nel dubbio circa la sorte del contratto se debba considerarsi legata a quella dell’atto presupposto oppure da essa indipendente ed autonoma, ed, in caso positivo, ossia nel caso in cui si ritenga che l’annullamento dell’atto amministrativo non possa non avere incidenza sul contratto, se debba ritenersi che il contratto sia invalido nel senso della nullità, dell’annullabilità o semplicemente inefficace. 8.4. La tesi tradizionale della Corte di Cassazione è sufficientemente consolidata nel senso che l’annullamento dell’aggiudicazione non comporti la nullità del contratto ma solo la sua annullabilità (v., tra le altre, Corte Cass., sent. 14 febbraio 1964, n. 337; 11 marzo 1976, n. 855; 10 aprile 1978, n. 1668; 24 maggio 1979, n. 2996; più di recente 8 maggio 1996, n. 4269; 28 marzo 1996, n. 2842; 21 febbraio 1995, n. 1885; 7 aprile 1989, n. 1682). 8.5. Un non risalente orientamento della Cassazione maturato in merito all’attività amministrativa di controllo fornisce argomenti alla tesi per cui l’incidenza dell’annullamento dell’aggiudicazione sul contratto deve riportarsi all’inefficacia: il riferimento è ad una sentenza della Corte regolatrice (n. 7529 dell’8 luglio 1991), — rilevante nel caso di specie in cui si deve valutare l’incidenza dell’annullamento di un atto di approva-


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zione del contratto sul contratto medesimo — la quale ha affermato il principio che l’approvazione, da parte dell’organo di controllo a ciò preposto, di un contratto concluso jure privato della p.a. non riguarda l’iter formativo del contratto stesso, ma opera unicamente secondo la disciplina delle condizioni (condicio juris), di guisa che, in sua mancanza, il contratto diviene inefficace ex tunc; dal che il corollario che, mentre i vizi concernenti l’attività negoziale dell’ente pubblico, sia che si riferiscano al processo di formazione della volontà, sia che si riferiscano alla fase preparatoria precedente, sono deducibili, traducendosi in un difetto di capacità dell’ente, esclusivamente da quest’ultimo al fine di ottenere l’annullamento del contratto ex art. 1441 e 1442, comma 4, c.c., l’operatività o meno del contratto per effetto dell’intervenuta o mancata approvazione tutoria può essere, al contrario, dedotta da entrambe le parti contraenti. 8.6. Da tale precedente giurisprudenziale si potrebbe desumere oltre che la fondatezza della domanda di caducazione del contratto avanzata in prime cure dalla ditta appellata, un’ulteriore conseguenza di carattere più generale. Infatti come l’approvazione non è stata ritenuta un vizio concernente il processo di formazione della volontà dell’ente o della fase preparatoria di tale volontà, bensı̀ una « condizione impropria, in quanto rispondente ad esigenze che hanno fondamento nell’ordinamento giuridico, quindi non eliminabile o inseribile per volontà dei contraenti »; cosı̀, a maggior ragione, deve essere nel caso in cui la giurisdizione amministrativa abbia accertato la contrarietà all’ordinamento giuridico delle deliberazioni dell’ente preordinate alla conclusione del contratto. 8.7. Dalla decisione in punto di annullamento dell’atto di approvazione sorgerebbe un vero e proprio diritto all’esecuzione del giudicato, esecuzione non degradabile ad interesse legittimo rimesso a valutazioni discrezionali da parte, oltretutto, dell’ente soccombente. 8.8. Deve osservarsi che le argomentazioni desumibili da Cass. n. 7529 del 1991 non consentono di ritenere superato l’indirizzo giurisprudenziale più volte espresso dalla stessa Corte di Cassazione, secondo cui, in tema di vizi concernenti l’attività negoziale degli enti pubblici, sia che questi si riferiscano al processo di formazione della volontà dell’ente, sia che si riferiscano alla fase preparatoria ad essa precedente, il negozio comunque stipulato (salvo particolari ipotesi di straripamento di potere che qui non ricorrono) è annullabile ad iniziativa esclusiva di detto ente. Tale indirizzo trova il suo fondamento razionale nel fatto che gli atti amministrativi i quali devono precedere la stipulazione dei contratti jure privatorum della p.a. non sono altro che mezzi di integrazione della capacità e della volontà dell’ente pubblico, sicché i loro vizi, traducendosi in vizi attinenti a tale capacità e a tale volontà, non possono che compor-


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tare l’annullabilità del contratto, deducibile, in via di azione o di eccezione, soltanto da detto ente. Né si vede in qual modo su tale principio possa influire la circostanza che i vizi siano stati accertati con forza di giudicato in sede giurisdizionale amministrativa ed abbiano portato all’annullamento di quegli atti. In realtà non è l’accertamento giudiziale a poter essere decisivo ai fini della caducazione del contratto, ma la evidenziazione del nesso fra approvazione del contratto e serie pubblicistica degli atti di evidenza pubblica, evidenziazione che non si coglie in Cass. n. 7529 del 1991. 8.9. La sentenza 8 luglio 1991, n. 7529 della Corte di Cassazione appare solo parzialmente utile a suffragare l’assunto della inefficacia del contratto stipulato in base ad atti amministrativi presupposti annullati ma non risulta decisiva a superare l’orientamento tradizionale poiché differenzia ancora nettamente i vizi concernenti l’attività negoziale dell’ente pubblico e la mancanza dell’approvazione tutoria del contratto di diritto privato della p.a., ribadendo che i primi, sia che si riferiscano al processo di formazione della volontà, sia che si riferiscano alla fase preparatoria precedente, sono deducibili esclusivamente dallo stesso ente pubblico e affermando che la seconda, invece, trattandosi di condicio juris dell’operatività del contratto, può essere dedotta da entrambe le parti contraenti. 8.10. Come è stato notato in dottrina l’orientamento della Cassazione appare ispirato da una netta distinzione fra fase amministrativa di selezione del contraente e momento strettamente negoziale della vicenda, la scelta del contraente sarebbe un atto essenzialmente amministrativo, ancorché collocato all’interno del procedimento civilistico di formazione del contratto. In senso analogo la giurisprudenza amministrativa ritiene che la parte vittoriosa nel giudizio contro l’aggiudicazione, non potrebbe ottenere la reintegrazione in forma specifica, mediante l’annullamento del contratto ed il rinnovo degli atti invalidi del procedimento amministrativo (Tar Lombardia, Sez. III, 23 dicembre 1999, n. 5049) mentre rimarrebbe possibile il risarcimento da perdita di chance. 8.11. Non si può tuttavia negare — in prospettiva che tenga conto delle più recenti riflessioni dottrinali in argomento — che la scelta del contraente non è atto nettamente separabile dalla vicenda civilistica, tanto che l’aggiudicazione potrebbe anche essere riguardata come manifestazione di volontà negoziale della pubblica amministrazione in ordine al contratto da stipulare ed al soggetto con il quale concludere il contratto. Di qui una varietà di orientamenti che hanno cercato di superare la giurisprudenza tradizionale, tenuto conto delle novità introdotte dalla nuova giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, sulle controversie in materia di aggiudicazione, espressiva, sintomaticamente, di un’esigenza di controllo più pieno e incisivo, sui rapporti giuridici, anche contrattuali


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e paritetici, originati da atti provvedimentali contestati in via giurisdizionale e connotata dal potere di reintegrazione in forma specifica, a protezione più intensa ed effettiva delle situazioni giuridiche fatte valere. 8.12. In dottrina — iniziando a dubitare del granitico orientamento che si ferma al contratto nel somministrare tutela in forma specifica — si è rilevato che, ove si pongano esigenze di certezza dipendenti dal fatto che il contratto ha avuto un principio di esecuzione, il contratto sarebbe viziato da annullabilità relativa, mentre, ove il contratto non abbia avuto alcuna esecuzione nemmeno parziale, potrebbe ritenersi viziato da nullità. In giurisprudenza si è considerata espressione del potere di reintegrazione in forma specifica la possibilità di sostituzione del contraente (Tar Friuli Venezia Giulia, 28 maggio 2001, n. 291). 8.13. In particolare criticabile è apparsa la conseguenza dell’orientamento tradizionale di riduzione, a fronte della stipula del contratto, della tutela dei concorrenti non aggiudicatari i quali, dopo essere risultati vittoriosi nel giudizio di annullamento dell’atto amministrativo, non potrebbero, di fronte al contratto stipulato con il controinteressato soccombente, vantare alcuna forma di tutela, non essendo legittimati a chiedere l’annullamento del contratto ed a far altro che sollecitare l’esercizio dei poteri di autotutela dell’amministrazione, ma senza che ciò comporti, in capo a detti soggetti, alcuna situazione giuridica soggettiva tutelata. 8.14. Si deve inoltre rilevare che le norme che regolano l’evidenza pubblica non sono poste solo a tutela dell’interesse dell’amministrazione, del soggetto aggiudicatore, e non hanno solo lo scopo di procedimentalizzare la volontà negoziale. Al contrario, anche per l’influsso crescente del diritto comunitario, le regole di evidenza pubblica esprimono esigenze di tutela dei principi fondamentali della concorrenza e del mercato, e concretizzano i valori dell’imparzialità e del buon andamento enunciati dalla Costituzione, strettamente correlati ai canoni fondamentali del rispetto dell’ordine pubblico. 8.15. Le norme sull’evidenza pubblica, i principi che reggono la materia, anche nel campo delle concessioni (Commissione CE comunicazione 29 aprile 2000), delineano un complesso rapporto amministrativo, non connotato da poteri privatistici dell’amministrazione, ma dal dovere di rispettare norme sempre più cogenti e vincolate, a tutela del mercato e degli imprenditori, difficilmente conciliabili con la costruzione che poi, in presenza della stipula del contratto, riduca l’incidenza dell’annullamento degli atti amministrativi presupposti alla mera annullabilità, cosı̀ facendo recedere le posizioni di tutela delle imprese. 8.16.

Si è anche evidenziato che la tesi dell’annullabilità evidenzia


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un limite piuttosto consistente della nuova giurisdizione esclusiva in materia di contratti ed una facile elusione dell’effettività della tutela da parte dell’amministrazione, mediante la stipula del contratto pur in presenza di violazioni e della par condicio e di illegittimità degli atti di gara. Il contratto non può avere, a pena di una vanificazione delle tutele giurisdizionali innanzi al giudice amministrativo, una sua vita autonoma, preclusiva di ogni utilità dell’annullamento in sede giurisdizionale, che non sia quello legato alla possibilità di richiedere un risarcimento per equivalente. Si deve considerare che ove i vizi del procedimento di evidenza pubblica si traducessero in vizi di annullabilità sarebbe l’amministrazione che ha difeso il suo operato nel giudizio di annullamento a dover chiedere l’invalidazione del contratto, a dispetto del fatto che le illegittimità accertate siano state non subite ma provocate dalla stessa amministrazione. 8.17. In particolare i vizi della delibera a contrarre, relativi alla motivazione sulla scelta del metodo di gara, sono incidenti sugli interessi dei soggetti privati tanto che il giudice amministrativo ha talvolta dato per scontato che l’annullamento dell’aggiudicazione faccia venir meno il vincolo negoziale determinatosi con l’adozione del provvedimento rimosso (Cons. Stato VI 14 gennaio 2000, n. 244) e che il giudice ordinario ha ritenuto che gli atti della serie procedimentale pubblicistica si pongono come premessa logico-giuridica degli atti della serie privatistica determinando l’inefficacia del contratto ex tunc nel caso di annullamento degli atti pubblicistici (Cass., 5 aprile 1976, n. 1197). 8.18. Ed allora appare chiaro che proprio l’inquadramento della fattispecie dei vizi della procedura di evidenza pubblica all’interno dell’istituto dell’annullabilità è effetto di una scelta interpretativa criticabile costituita dall’omologazione dell’annullamento dell’aggiudicazione o di altro atto della serie procedimentale di evidenza pubblica, ad ipotesi normative (i vizi del consenso per errore, violenza e dolo; l’incapacità) caratterizzate da diversa essenza normativa. 8.19. Invero, una tesi ulteriore — avanzata in dottrina — sostiene la nullità del contratto, rilevando che l’annullamento fra venir meno integralmente il consenso della p.a. con la conseguenza che il contratto sarebbe nullo ai sensi dell’art. 1418 comma 2 c.c. in relazione all’art. 1325 n. 1 c.c. Ma la prospettiva non convince poiché l’annullamento giurisdizionale dell’atto di aggiudicazione-approvazione del contratto rimane un fatto giuridico sopravvenuto, mentre il difetto del consenso è un fatto giuridico originario che deve essere semplicemente constatato dal giudice, non esistendo ipotesi di nullità sopravvenuta. Né la nullità può esser quella relativa alla contrarietà del contratto a norme imperative, poiché il vizio della procedura di evidenza pubblica non rappresenta di per sé una causa di invalidità del contratto eventualmente stipulato e nessuna


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azione dichiarativa o costitutiva può essere proposta per accertare l’invalidità del contratto, se non previa rituale e tempestiva impugnativa dell’atto amministrativo viziato. 8.20. Deve ritenersi invece che l’amministrazione, per i vizi della procedura di evidenza pubblica accertati mediante il giudizio di annullamento della delibera di approvazione-aggiudicazione del contratto, non abbia concluso il contratto in possesso della legittimazione a contrarre richiesta dalla legge e nel rispetto delle norme di diritto pubblico applicabili alla fattispecie quali norme imperative, per cui il contratto è semplicemente inefficace. La radicale mancanza dell’intera fase di evidenza pubblica o di una sua parte essenziale, segna la carenza di uno dei presupposti di efficacia del contratto che resta privato dei suoi effetti giuridici. A tale mancanza deve essere equiparato l’annullamento dei provvedimenti di aggiudicazione-approvazione del contratto in sede giurisdizionale o amministrativa (in via contenziosa o di autotutela). 8.21. Volendo delineare un quadro d’insieme, va ricordato che sono state prospettate le seguenti tesi in materia di rapporti fra annullamento dell’aggiudicazione e contratto: 1) Tesi dell’annullabilità relativa per la quale la serie degli atti di evidenza pubblica non si sostituisce al procedimento privatistico di formazione della volontà, si affianca ad esso, sicché il consenso espresso dall’amministrazione, nonostante il vizio della procedura di evidenza pubblica, sussiste e continua a produrre i suoi effetti fino a quando non venga travolto da una specifica azione di annullamento alla quale è legittimata solo l’amministrazione o non venga travolto perché l’annullabilità viene dedotta in via di eccezione dalla stessa p.a. (si tratta della tesi prevalente nella giurisprudenza della Cassazione, ma presente anche nella giurisprudenza amministrativa di primo grado e che individua quale funzione della procedura di evidenza pubblica la scelta del miglior contraente nell’interesse dell’amministrazione): questa tesi ha delle sue variabili interne considerandosi talvolta il vizio incidente sulla capacità generale di agire (1425 c.c.), talaltra sul consenso alla stregua di errore di diritto o sull’identità o qualità dell’altro contraente (1427 c.c.), e, per un ultima variante, sulla legittimazione a contrarre ove si consideri l’evidenza pubblica una condicio sine qua non per stipulare il contratto (la legittimazione è considerata la concreta possibilità di porre in essere negozi, mentre la capacità opererebbe su un piano astratto e non verrebbe meno per effetto dei vizi del procedimento di evidenza pubblica); 2) Tesi del difetto di potere rappresentativo ex art. 1398 c.c. — formulata solo in sede dottrinale — secondo la quale i vizi della procedura di evidenza pubblica si rifletterebbero in difetto di potere rappresentativo, con conseguente inefficacia del negozio in quanto l’organo della p.a. sarebbe assimilabile ad un falsus procurator con possibilità di ratifica re-


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troattiva da parte della p.a. come avverrebbe ad es. nell’ipotesi di riadozione dell’atto di aggiudicazione da parte dell’organo incompetente; 3) Tesi della nullità assoluta — (accolta in una risalente sentenza del Cons. Stato Sez. VI 17 dicembre 1934 n. 413 ma anche da una recente Cass. Sez. III 9 gennaio 2002 n. 193) — sostenuta sul presupposto della natura costitutiva degli atti di evidenza pubblica e della natura superindividuale e non disponibile degli interessi tutelati dalla serie procedimentale degli atti di gara, distinguendosi poi fra chi ritiene che la nullità sia per difetto assoluto del consenso (artt. 1418 comma 2 c.c. e 1325 n. 1 c.c.), chi per mancanza della causa con riguardo al venir meno della ragione del negozio a seguito dell’annullamento della delibera a contrarre (1418 e 1325 n. 2 c.c.) chi per contrarietà del contratto a norme imperative (1418 comma 1 c.c.); 4) Tesi della caducazione automatica (proposta dalla giurisprudenza maggioritaria del Consiglio di Stato) per la quale la vicenda viene ricostruita tutta in chiave giuspubblicistica, tenendo conto della stretta presupposizione esistente fra annullamento degli atti di gara e contratto (Cons. Stato Sez. VI 14 gennaio 2000 n. 244; Cons. Stato Sez. V 25 maggio 1998 n. 677; Cons. Stato Sez. V 30 marzo 1993 n. 435; Cons. Stato Sez. IV 8 ottobre 1985 n. 830); 5) Tesi del travolgimento del contratto con salvezza dei diritti dei terzi di buona fede in applicazione analogica degli artt. 23 comma 2 e 25 comma 2 del c.c. ponendosi — per quest’ultimo orientamento — il problema dell’incidenza delle tecniche di annullamento caducanti e determinanti inefficacia sopravvenuta del contratto in chiave giuspubblicistica, sulla sicurezza del traffico giuridico e sul principio di buona fede (seguita dalla dottrina e dal Tar Lecce, Sez. II 7 febbraio 2001 n. 28). È su quest’ultima strada che sembra possibile trovare un punto di equilibrio fra le varie esigenze che si confrontano nell’ambito della complessa problematica in esame. La tesi sub 1 non sembra soddisfacente poiché oblitera la natura e la funzione delle norme di evidenza pubblica, che esprimono nell’ottica dell’interesse generale e della sfera giuridica dei soggetti partecipanti alla procedura, i principi fondamentali della concorrenza e del mercato, la cui tutela è connessa al buon andamento ed all’imparzialità amministrativa. In sostanza le norme comunitarie e nazionali sull’evidenza pubblica danno luogo ad un complesso di inderogabili principi posti a tutela non dell’amministrazione e neanche del singolo paciscente ma della concorrenza e del mercato. La tesi sub 2 non appare accettabile poiché ammette una generalizzata sanatoria o ratifica degli atti, possibile in taluni casi, nel riesercizio del potere amministrativo, ma sempre che le norme pubblicistiche consentano tale sanatoria e non invece ammettendo un principio generale, tratto dal diritto privato, di sanabilità del negozio inefficace. La tesi sub 3 non sembra accettabile per effetto della natura origina-


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ria della patologia contrattuale della nullità, della difficile costruzione di un vizio di nullità sopravvenuta per effetto del sopravvenuto annullamento della serie degli atti di evidenza pubblica, della distonia fra l’inoppugnabilità dell’atto di aggiudicazione pur viziato ma non impugnato nel termine decadenziale e la generale inammissibilità — nel silenzio legislativo — della convalida del contratto nullo. La Sezione ritiene che siano accoglibili le impostazioni tradizionali nella giurisprudenza del Consiglio, relative alla normale efficacia caducante dell’annullamento dell’aggiudicazione sul contratto conseguente. Con un temperamento tuttavia che va accolto a tutela della stessa logica di mercato e di favor della concorrenza che ispira le regole in tema di gare pubbliche. Il temperamento consistente nel riconoscimento della tutela della buona fede (e della salvezza dei diritti acquisiti in buona fede; sarebbe infatti incongruo che l’annullamento di un atto amministrativo potesse intervenire con efficacia caducante su una serie di atti giuridici privatistici senza apprezzamento alcuno delle posizioni soggettive che i paciscenti hanno tenuto nel contrarre; ciò determinerebbe un ostacolo alla sicurezza del traffico giuridico, atteso che le vicende circolatorie dei beni non rispondono solo al principio consensualistico ma anche ai diversi principi della tutela dei terzi, dell’apparenza del diritto, della rilevanza della buona fede, del formalismo giuridico, della certezza del diritto pure essenziali per il corretto funzionamento del mercato). 8.22. Va allora sottolineato che l’amministrazione pubblica in forza dell’art. 11 del c.c. è pur sempre una persona giuridica, e pertanto soggetta alle norme civilistiche essenziali che disciplinano le persone giuridiche, oltre alle norme di diritto pubblico. Ciò comporta l’inefficacia del contratto a seguito dell’annullamento della delibera di approvazione per difetto di un presupposto o di una condizione di efficacia del contratto medesimo; l’annullamento della delibera deve operare — per principio generale — senza pregiudizio dei diritti acquistati dai terzi di buona fede in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione medesima (art. 23 comma 2 c.c.), circostanza questa che consente di contemperare l’esigenza del rispetto delle norme di diritto pubblico che disciplinano l’evidenza pubblica con il rispetto dei diritti dei terzi. Terzi di buona fede peraltro di norma non potranno essere i soggetti che hanno partecipato al giudizio amministrativo di annullamento, (salvo i casi — come quello in discussione — in cui il contratto sia stato stipulato prima dell’innesco del giudizio di annullamento) poiché in tal caso i soggetti coinvolti nel giudizio non potevano confidare nel consolidamento della loro posizione contrattuale. 8. 23. Il principio nella specie comporta l’inefficacia sopravvenuta del contratto (poiché il contratto ha già avuto un’attuazione interinale in forza di atti provvisori la cui efficacia subordinata a quella dell’appello


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non può essere travolta ora per allora), la salvezza degli atti compiuti medio tempore in esecuzione dei contratti stipulati fra l’Amministrazione e la Lasa Marmo, ma non impedisce la rinnovazione dell’attività amministrativa ed il rinnovo della stipula poiché il contratto è inopponibile nei confronti della ricorrente Tiroler Marmorwerke. 8.24. Non può essere riconosciuta alla Lasa Marmo S.p.a. la buona fede, stante la tempestiva impugnazione da parte della originaria ricorrente, odierna appellata, della delibera di approvazione del contratto, lo svolgimento di lunghe trattative che hanno preceduto la delibera impugnata in presenza di una disdetta della precedente concessione, e la presenza di ulteriori elementi specifici idonei a far presumere una consapevolezza nel terzo contraente — odierno appellante — della dubbia legittimità della procedura adottata, stante l’assoluto difetto di un atto di delibera a contrarre (altri elementi indiziari dai quali è presumibile desumere che non potesse essere sfuggito il coinvolgimento della Tiroler Marmorwerke nelle trattative come comprovato dalla copiosa corrispondenza in atti: lettera all. 4 della Tiroler (Tiroler Marmorwerke Gmbh) al Presidente della Giunta Provinciale e ai Sindaci di Lasa (Laas) e Silandro (Schlanders). La Tiroler si duole che i tentativi di iniziare delle trattative per l’acquisto delle cave in questione non hanno avuto alcun esito. Comunica di avere fatto elaborare dal Professore universitario Tappeiner un piano per la migliore utilizzazione e chiede di discuterne; lettera all. 5 della Tiroler ai medesimi. La Tiroler invia il parere con piano di finanziamento e di gestione; lettera all. 6 della Tiroler ai sindaci. Ulteriore richiesta di colloquio; lettera all. 7 della Tiroler ai medesimi sindaci con ulteriore richiesta di incontro; lettera all. 8 della Tiroler all’Amministrazione separata usi civici con richiesta di un incontro ai fini della presentazione del programma; lettera all. 9 della Tiroler all’Amm. Sep. e per conoscenza al Sindaco di Lasa. Sollecita incontro per presentare programma ed offerta; lettera all. 10 della Tiroler all’Amm.sep. e al Comune di Lasa. Si sottolinea l’interesse di prendere in affitto le cave « Weisswasser », « Tarnellerbruecke » e « Nesselwand » precisando quanto segue: « Inoltre la Tiroler... provvederà ad indennizzare nei modi più opportuni le maestranze operanti a Lasa delle perdite salariali derivanti dal collocamento in cassa di integrazione o da licenziamento. Questo impegno chiaramente vale soltanto alla condizione che alla Tiroler... venga assegnata non soltanto la cava di Lasa bensı̀ anche quella di Goeflan ed è limitato alle perdite durante il periodo delle trattative selettive ed ha una durata massima di sei mesi. » Si impegna altresı̀ di pagare l’indennizzo di competenza della Lasa Marmo. Sollecita trattativa; lettera all. 11 della Tiroler all’Amm. sep. e al Sindaco di Lasa esprime stupore per avere appreso che sarebbe stato stipulato nuovo contratto con la Lasa Marmo nonostante tutte le richieste di incontro e chiede chiarimenti; lettera all. 12 dell’Amm. Sep. alla Tiroler asserisce che si è rinunciato all’indizione di una


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gara fra gli altri motivi perché: « La Lasa Marmo è stato l’unica pretendente che si è rivolta tempestivamente a noi presentando un piano di gestione ed una offerta come base per le trattative. » Asserisce inoltre di aver ricevuto solo le lettere 21 novembre 2000, 30 novembre 2000 e 9 dicembre 2000 e di non avere mai ricevuto né letto le altre lettere. Aggiunge di non avere comunque la disponibilità della cava « Goeflan »; lettera all. 13 dell’avv. Schullian all’Amm. Sep. contesta la lettera all. 12 e richiede tutta la documentazione; lettera all. 14 dell’Amm. Sep. invia parte della documentazione richiesta precisando di avere richiesto l’autorizzazione alla Lasa Marmo per l’invio del contratto 23 dicembre 2000). (Omissis). IV DIRITTO. (Omissis). Prima di passare ad esaminare funditus l’odierna materia del contendere, appare, tuttavia, necessario fare qualche breve cenno alla problematica, di notevole rilevanza pratica, relativa alle conseguenze giuridiche determinate dall’annullamento giurisdizionale del provvedimento di aggiudicazione sulla sorte del contratto stipulato dall’Amministrazione. Com’è noto, sussiste al riguardo un acceso contrasto giurisprudenziale. La giurisprudenza del giudice ordinario ritiene che l’annullamento con effetti ex tunc degli atti amministrativi emanati in vista della conclusione del contratto — deliberazione di contrattare, bando, aggiudicazione — incida sulla sua validità, in quanto priva l’Amministrazione della legittimazione e della capacità stessa (art. 1425 c.c.) a contrattare, determinando l’annullabilità del contratto; siffatto annullamento, però, può essere pronunciato solo su richiesta dell’Amministrazione contraente, la quale sarebbe l’unica parte interessata ai sensi dell’art. 1441 c.c., secondo cui « l’annullamento del contratto può essere domandato solo dalla parte nel cui interesse è stabilito dalla legge » (cfr. Cass., Sez. II, 8 maggio 1996, n. 4269; Cass., Sez. I, 28 marzo 1996, n. 2842; Cass., Sez. II, 21 febbraio 1995, n, 1885). Altro orientamento del giudice ordinario propende, invece, per la tesi della nullità per mancanza del consenso (cfr. Cass., Sez. III, 9 gennaio 2002, n. 193). Viene, poi, riconosciuta la nullità del contratto nel caso di incompetenza assoluta dell’organo stipulante (cfr. Cass., 9 ottobre 1961, n. 2058; Cass., 10 aprile 1978, n. 1668). La posizione del giudice amministrativo non coincide con quella del giudice ordinario. L’orientamento prevalente del giudice amministrativo, infatti, afferma la tesi della caducazione automatica (cosı̀ Cons. Stato, Sez. V, 25


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maggio 1998, n. 677, in un caso di annullamento in autotutela dell’aggiudicazione; id., 30 marzo 1993, n. 435, che afferma il travolgimento automatico del contratto per effetto dell’annullamento giurisdizionale dell’aggiudicazione; Cons. Stato, Sez. VI, 14 gennaio 2000, n. 244, muovendo dal principio di conservazione degli atti, per cui la graduatoria della gara conserva i suoi effetti per il caso in cui venga meno la prima aggiudicazione, afferma che l’annullamento dell’aggiudicazione in favore del primo graduato comporta l’aggiudicazione automatica in favore del secondo graduato; di recente, Cons. Stato, Sez. V, 5 marzo 2003, n. 1218; Cons. Stato, Sez. VI, 14 marzo 2003, n. 1518). Il profilo della caducazione automatica è stato, poi, di recente approfondito dalla VI Sezione di questo Consiglio (cfr. dec. 5 maggio 2003, n. 2332), che ha ripreso la tesi, di matrice dottrinaria, della inefficacia del contratto per mancanza legale del procedimento, vale a dire per carenza del presupposto legale di efficacia del contratto costituito dalla fase di evidenza pubblica mancanza legale del procedimento), riconducendone l’effetto al principio generale, proprio anche dei negozi giuridici privati collegati in via necessaria, secondo cui simul stabunt, simul cadent. Altro orientamento della VI Sezione di questo Consiglio ritiene accoglibile l’impostazione tradizionale relativa alla normale efficacia caducante dell’annullamento dell’aggiudicazione sul contratto conseguente, ma con il temperamento costituito dalla salvezza dei diritti dei terzi in buona fede in applicazione analogica degli artt. 23, comma 2 e 25, comma 2, c.c., applicabili alla Pubblica amministrazione in quanto persona giuridica ex art. 11 dello stesso codice (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 30 maggio 2003, n. 2992). Secondo un orientamento dei giudici amministrativi di primo grado, invece, nella fattispecie si sarebbe in presenza di un’ipotesi di nullità per violazione di norme imperative ex artt. 1418, comma 1 c.c. (c.d. nullità virtuale o extratestuale: cfr. Tar Campania, Napoli, Sez. I, 29 maggio 2002, n. 3177; Trga Bolzano, 12 febbraio 2003, n. 48; Tar Puglia, Bari, Sez. I, 28 gennaio 2003, n. 394; Tar Sicilia, Catania, Sez. II, 7 maggio 2002, n. 802). Per la tesi della nullità si è, poi, di recente pronunciata la V Sezione di questo Consiglio (cfr. dec. 13 novembre 2002, n. 6281), che, però, ha esaminato il caso particolare della carenza di potere della p.a. (rinegoziazione, dopo la gara, delle condizioni economiche previste in sede di aggiudicazione). Ad avviso del Collegio, la tesi tradizionale dell’annullabilità relativa del contratto, a ben vedere, finisce col vanificare la tutela del soggetto controinteressato, il quale, pur avendo ottenuto ragione davanti al giudice amministrativo, ove il contratto sia stato già concluso, resta privo di alcun risultato praticamente utile, non essendo in grado di soddisfare la propria aspirazione finale ad essere il contraente; il contratto, infatti, sarebbe impugnabile dinanzi al giudice ordinario su iniziativa della sola


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Amministrazione soccombente nel giudizio amministrativo ed avrebbe una sua vita autonoma, preclusiva di ogni utilità dell’annullamento dell’aggiudicazione in sede giurisdizionale amministrativa, che non sia quella legata alla possibilità di richiedere il risarcimento del danno per equivalente. Sul piano del buon senso, poi, appare iniquo che l’Amministrazione sia l’unico soggetto legittimato a lamentare la violazione delle norme ad evidenza pubblica per ottenere l’annullamento del contratto quando le illegittimità accertate in tale procedimento di regola non sono subite da essa Amministrazione, ma sono da questa provocate. Senza dire che tale opzione ermeneutica potrebbe finire per risolversi in una facile elusione del principio di effettività della tutela giurisdizionale da parte dell’Amministrazione, mediante l’immediata stipula del contratto pur in presenza di violazioni della par condicio e di illegittimità degli atti di gara, se si considera che il più delle volte ben difficilmente l’annullamento dell’aggiudicazione può essere pronunciato prima della stipulazione del contratto. La tesi della nullità del contratto, del pari, non convince, in quanto la nullità configura una patologia del contratto consistente in un vizio genetico che lo inficia ab origine, mentre nella specie trattasi di una vicenda sopravvenuta all’annullamento giurisdizionale dell’atto conclusivo della procedura di gara. Accogliere la tesi della nullità del contratto, poi, significherebbe consentire la proposizione della relativa azione dichiarativa in ogni tempo — stante l’imprescrittibilità della medesima (art. 1422 c.c.) — da parte di chiunque vi abbia interesse e anche la rilevabilità ex offıcio (art. 1421 c.c.), a prescindere, quindi, da una previa rituale e tempestiva impugnazione, da parte dei soli soggetti legittimati a ricorrere, dell’atto amministrativo viziato (deliberazione di contrattare, bando, aggiudicazione) nel termine di decadenza proprio del giudizio amministrativo. Ma ciò, a ben considerare, finirebbe per pregiudicare alquanto la certezza dei rapporti giuridici, atteso che esporrebbe il contratto, magari a distanza di molto tempo dalla sua conclusione ed in corso di avanzata esecuzione, al rischio di venire travolto con effetto retroattivo ad iniziativa di chiunque vi abbia interesse. Per gli stessi motivi non convince la tesi della caducazione automatica dell’intero contratto a seguito dell’annullamento dell’aggiudicazione (o di altri atti della serie procedimentale) da parte del giudice amministrativo, caducazione automatica che, del resto, non trova appigli nella lettera della legge e contrasta con il principio della soggezione del contratto alla disciplina del diritto comune. La tesi che appare preferibile, ad avviso del Collegio, è quella della mancanza del requisito della legittimazione a contrarre. E, invero, la caducazione, in sede giurisdizionale o amministrativa, di atti della fase della formazione, attraverso i quali si è formata in con-


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creto la volontà contrattuale dell’Amministrazione, dà luogo alla conseguenza di privare l’Amministrazione stessa, con efficacia ex tunc, della legittimazione a negoziare; in sostanza, l’organo amministrativo che ha stipulato il contratto, una volta che viene a cadere, con effetto ex tunc, uno degli atti del procedimento costitutivo della volontà dell’Amministrazione, come la deliberazione di contrattare, il bando o l’aggiudicazione, si trova nella condizione di aver stipulato in jure, privo della legittimazione che gli è stata conferita dai precedenti atti amministrativi (cfr. Cass., 20 novembre 1985, n. 5712). La categoria che viene in gioco in tal caso non è l’annullabilità, ma l’inefficacia. E, infatti, nei contratti ad evidenza pubblica gli atti della serie pubblicistica e quelli della serie privatistica sono indipendenti quanto alla validità; i primi condizionano, però, l’efficacia dei secondi, di modo che il contratto diviene ab origine inefficace se uno degli atti del procedimento viene meno per una qualsiasi causa (cfr. Cass., 5 aprile 1976, n. 1197). Di mancanza del presupposto o della condizione legale di efficacia, invece, deve parlarsi a proposito della fattispecie della mancata approvazione del contratto, che afferisce sostanzialmente alla fase dell’integrazione dell’efficacia del procedimento contrattuale e non incide sulla perfezione del contratto; l’approvazione, infatti, opera quale condicio juris e consiste in un atto amministrativo esterno al contratto ed alla sua struttura, condizionante l’efficacia giuridica di questo e non la sua esistenza. La mancata approvazione rende il contratto non più eseguibile, cosı̀ da liberare il privato contraente, come ovviamente l’Amministrazione, da ogni obbligo (cfr. Cass., 12 novembre 1992, n. 12182). E, invece, l’inefficacia sopravvenuta derivante dall’annullamento degli atti di gara ovvero del provvedimento di aggiudicazione, sia in sede giurisdizionale, che amministrativa o in via di autotutela (sempre che, in tal caso ne ricorrano tutti i presupposti sostanziali) è relativa e può essere fatta valere solo dalla parte che abbia ottenuto l’annullamento dell’aggiudicazione. Più problematica appare, invece, la posizione dell’Amministrazione. Di regola il contratto rimane vincolante inter partes, nonostante l’intervenuto annullamento dell’aggiudicazione in sede giurisdizionale, fino all’adozione di apposite iniziative da parte degli interessati. Tuttavia, appare meritevole di protezione anche l’interesse dell’Amministrazione a rimuovere gli effetti di situazioni ormai riconosciute illegittime. In tale eventualità, tuttavia, la p.a. può determinare l’inefficacia del contratto, ma attraverso il procedimento di annullamento degli atti di gara in via di autotutela, applicando i principi garantistici in materia (avviso di avvio del procedimento; congrua motivazione; adeguata valutazione dell’interesse pubblico e dell’affidamento del contraente). Per quanto, più in particolare, riguarda la tutela dei soggetti che abbiano ottenuto ragione dinanzi al giudice amministrativo tramite l’annul-


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lamento dell’atto di aggiudicazione, nei casi in cui il contratto sia già stato concluso, ritiene il Collegio preferibile la posizione dottrinale orientata nel senso dell’applicazione della normativa dettata dal codice civile a proposito delle associazioni e fondazioni, in quanto esprimente principi generali, applicabili anche alla Pubblica amministrazione, quale persona giuridica ex art. 11 c.c., soggetta, quindi, oltre che alle norme di diritto pubblico, anche alle norme civilistiche essenziali che disciplinano le persone giuridiche (cfr., in tal senso, anche se nell’ambito della teoria della inefficacia del contratto per difetto di un presupposto o di una condizione di efficacia del contratto, Cons. Stato, Sez. VI, n. 2992 del 2003 cit.). Secondo tali principi, l’annullamento della deliberazione formativa della volontà contrattuale dell’ente « non pregiudica i diritti acquistati dai terzi di buona fede in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione medesima » (artt. 23 e 25 c.c.). Questo criterio, invero, consente di tutelare la posizione del contraente di buona fede, ma allo stesso tempo consente di dare pieno riconoscimento alle ragioni di colui che abbia ottenuto l’annullamento di atti della fase di formazione (e segnatamente, dell’aggiudicazione) laddove possa essere esclusa la buona fede del contraente, travolgendo in tal caso detto annullamento la fattispecie contrattuale nella sua interezza. Ciò detto, un argomento sistematico in favore della tesi della inefficacia sopravvenuta può, a ben vedere, trarsi dalla l. 21 dicembre 2001 n. 443 (« Delega al Governo in materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici ed altri interventi per il rilancio delle attività produttive », c.d. legge obiettivo), la quale, all’art. 1, comma 2, contiene una delega al Governo ad emanare disposizioni volte a definire un quadro normativo finalizzato alla celere realizzazione di infrastrutture pubbliche e private e insediamenti produttivi strategici e di preminente interesse nazionale da realizzare per la modernizzazione e lo sviluppo del Paese, indicando, tra gli altri, il seguente principio e criterio direttivo (lett. n): « previsione, dopo la stipula dei contratti di progettazione, appalto, concessione o affidamento a contraente generale, di forme di tutela risarcitoria per equivalente, con esclusione della reintegrazione in forma specifica; ... ». La delega, com’è noto, è stata attuata con l’art. 14 del d.lgs. n. 190 del 2002, con cui, appunto, si esclude che l’annullamento dell’aggiudicazione comporti la caducazione (si parla espressamente di « risoluzione ») del contratto nelle more stipulato dalla p.a. Ora, se il legislatore, in applicazione di una facoltà riconosciuta dalla direttiva 89/665 (art. 2, par. 5 e 6) — che postula il principio in forza del quale, di regola, la stipulazione del contratto non preclude affatto la reintegrazione in forma specifica, anche se gli Stati membri potrebbero introdurre norme interne con tale contenuto — ha avvertito la necessità di stabilire una apposita norma derogatoria di tale principio in un particolare settore, allora significa che, in linea generale, la stipulazione del contratto


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non è di ostacolo alla tutela in forma specifica della parte interessata, assicurata attraverso la verificazione del contratto e la conseguente possibilità di subentro. D’altronde, il riferimento del legislatore delegato (anche se per escluderla) alla risoluzione del contratto conseguente all’annullamento della procedura sembra far propendere per il rifiuto della categoria della invalidità e per l’adesione a quella della perdita di efficacia del contratto. Tanto premesso, deve osservarsi che, secondo una massima che si iscrive nel filone della caducazione automatica « l’annullamento dell’aggiudicazione di una gara pubblica elide il vincolo negoziale sorto con l’adozione del provvedimento rimosso, con la conseguenza che restituisce in pieno alla potestà di diritto pubblico della stazione appaltante la scelta fra l’avvalersi della procedura espletata, ovvero procedere ad una nuova gara previa revoca degli atti che vi hanno dato luogo, a fronte della quale non sono rinvenibili posizioni di diritto soggettivo in capo agli altri partecipanti alla gara, ancorché costoro si trovino in posizione utile per subentrare all’aggiudicatario rimosso » (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 14 gennaio 2000, n. 244; id., 19 dicembre 2000, n. 6838). Ora, appare poco condivisibile una soluzione che lasci alla piena discrezionalità del soggetto soccombente nel giudizio di annullamento dell’aggiudicazione (la Pubblica amministrazione) la decisione sulle sorti del contratto. Preferibile, invece, appare quell’indirizzo che, pur ritenendo che il prius nella materia in esame (appalti) sia sempre costituito dalla reintegrazione in forma specifica, anche mediante l’adempimento parziale, ammette, tuttavia, che il debitore (l’Amministrazione) possa denunciarne la gravosità — o anche l’impossibilità — rimettendosi comunque sul punto all’apprezzamento del giudice (cfr. Cons. Stato, V, 6 marzo 2002, n. 1373). Ed è nel solco di tale orientamento che pare iscriversi la pronuncia in esame, n. 5363 del 2002 — della quale la presente costituisce il seguito — che ha sı̀ devoluto prioritariamente all’Amministrazione un accertamento obiettivo sull’effettivo andamento dei lavori affidati all’originaria aggiudicataria Tecnis e sulla praticabilità operativa del subentro di Tor di Valle, ma poi si è riferita alle determinazioni della stessa Amministrazione come presupposto della valutazione, riservata, invece, all’esclusiva competenza del Collegio giudicante, della domanda risarcitoria avanzata dalla Tor di Valle medesima. E, del resto, il carattere esclusivo della giurisdizione amministrativa sulle controversie in materia di procedure di aggiudicazione, espressamente sancito dall’art. 6 della l. n. 205 del 2000 e dall’art. 33 del d.lgs. n. 80 del 1998, è sintomatico di una tendenza ad un controllo giurisdizionale più incisivo e pieno sui rapporti giuridici, anche di tipo contrattuale o paritetico, originati da atti a contenuto provvedimentale contestati innanzi al G.A.


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In tale contesto, il potere del G.A. di condannare l’Amministrazione al risarcimento del danno, anche mediante la reintegrazione in forma specifica, appare indicativo della volontà legislativa di collegare alla tradizionale tutela di annullamento una tutela più intensa ed effettiva della situazione giuridica fatta valere, realizzata attraverso il ripristino, ove possibile, della situazione giuridica e materiale alterata dall’attività illegittima dell’Amministrazione. Da tale punto di vista, ad avviso di questo Collegio, deve, anzi, in via assolutamente pregiudiziale, affermarsi che la giurisdizione esclusiva e la tutela reintegratoria specifica (considerata non come eventuale o eccezionale, essendo, invece, sussidiaria, rispetto ad essa, quella risarcitoria per equivalente, praticabile solo quando quella restitutoria non possa essere conseguita con successo: cfr., in tal senso, Cons. Stato, Sez. IV, 29 aprile 2002, n. 2280, in tema di danni da occupazione illegittima e da irreversibile trasformazione del fondo), previste dalla normativa poc’anzi citata determinano, in punto di giurisdizione, che anche il giudizio sulla sorte del contratto a seguito di vizi del procedimento di scelta del contraente debba spettare al giudice amministrativo (cosı̀ anche Cons. Stato, Sez. VI, dec. n. 2332 del 2003 cit.); in tale prospettiva, la rimozione del contratto si connette non tanto ad un giudizio civilistico sul rapporto negoziale, bensı̀ ad una forma di tutela reintegratoria in forma specifica, la quale, in sede di giurisdizione esclusiva, deve necessariamente comprendere anche statuizioni dichiarative o costitutive concernenti la sorte (validità o efficacia) del contratto stipulato. (Omissis).

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In tema di conseguenze sul contratto dell’annullamento del provvedimento di aggiudicazione conclusivo di procedimento ad evidenza pubblica e di giudice competente a conoscerne.

SOMMARIO: 1. Le decisioni 5 marzo 2003, n. 1218, 5 maggio 2003, n. 2332, 30 maggio 2003, n. 2992 e 27 ottobre 2003, n. 6666, del Consiglio di Stato. — 2. Quadro della precedente giurisprudenza civile e amministrativa in tema di nullità, o annullabilità, del contratto a seguito all’annullamento dell’atto di aggiudicazione. Le sentenze della Cassazione nel senso della nullità. — 3. Riflessioni critiche sulle posizioni giurisprudenziali. — 4. Un’ipotesi di lettura della posizione giurisprudenziale nel senso della annullabilità relativa. — 5. Il riparto di giurisdizione. — 6. Conclusioni: nullità per violazione di norme imperative e possibile giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

1. Le decisioni in commento affrontano un tema di sicura attualità. Quale sorte subisca il contratto, una volta annullato il


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provvedimento di aggiudicazione. La seconda, terza e quarta decisione approfondiscono altresı̀ la relativa questione di riparto di giurisdizione. Nella prima pronuncia (n. 1218 del 2003) (1), nell’ambito di una vicenda processualmente piuttosto complessa (2), il Consiglio di Stato propone la tesi della nullità, per violazione di norme imperative, del contratto di appalto. Le norme dell’evidenza pubblica, infatti, in quanto di diritto pubblico, sarebbero, in una prospettiva civilistica, imperative. Ciò basterebbe a spiegare perché il contratto di appalto risulterebbe travolto automaticamente dalla eliminazione del procedimento amministrativo di scelta del contraente. Più estesamente argomentata la dec. n. 2332 del 2003 (3). Non è fondato il ricorso proposto contro provvedimenti di ripetizione di una gara di appalto, in seguito all’annullamento della precedente aggiudicazione; ricorso motivato dalla società aggiudicataria della prima gara, sulla base della pretesa inconfigurabilità di un travolgimento automatico del contratto di appalto, in seguito all’annullamento della relativa aggiudicazione. In particolare, dalla tesi della mera annullabilità del contratto di appalto, per vizio di volontà dell’amministrazione, era derivabile, nella prospettazione della parte ricorrente, un onere, per l’amministrazione intenzionata a ripetere la gara, di previamente ottenere, da parte dell’AGO, la sentenza costitutiva di annullamento del contratto. (1) Vedila (adesivamente) commentata anche da IEVA, Annullamento degli atti dell’evidenza pubblica e nullità del contratto di appalto, in Foro amm (C.S.), 2003, 964 ss. (2) Vengono decisi due ricorsi, previa loro riunione: uno in opposizione di terzo e l’altro in appello, contro decisioni, rispettivamente, di secondo e primo grado, che avevano, la prima, annullato un provvedimento di esclusione di impresa partecipante alla gara di appalto, di cui la società ricorrente era risultata aggiudicataria, e la seconda respinto un ricorso contro l’atto con cui l’amministrazione si adeguava alla prima pronuncia. (3) Vedila (adesivamente) commentata anche da AGNINO, Rapporti tra annullamento dell’aggiudicazione e sorte del contratto: il Consiglio di Stato segue la via dell’effetto caducante, in Diritto e formazione, 2003, 1044 ss. Si segnala altresı̀ il commento di VARONE, L’invalidità contrattuale nella dialettica fra atto e negozio nell’ambito delle procedure ad evidenza pubblica, in Foro amm (C.S.)., 2003, 1648 ss.


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Secondo i giudici di appello, al contrario, la tesi dell’annullabilità relativa del contratto contrasterebbe con la direzione verso la tutela di importanti valori obiettivi dell’ordinamento delle norme sulla evidenza pubblica, e, specialmente, di quelle di fonte comunitaria. Tali norme potrebbero dunque, almeno in astratto, aspirare, in una visione civilistica, ad una qualificazione come norme imperative. D’altro canto, una costruzione in termini di annullabilità non si concilierebbe con i principi di effettività e di concentrazione della tutela giurisdizionale, sottesi alle più recenti riforme legislative del processo amministrativo (l. n. 205 del 2000); in particolare, si risolverebbe nella « vanificazione » del potere del giudice amministrativo di condannare l’amministrazione al risarcimento del danno in forma specifica. Tuttavia, la caducazione del contratto non si spiegherebbe con un fenomeno civilistico di nullità, ma semmai con un meccanismo — pubblicistico o comunque esclusivamente proprio di questa particolare fattispecie — di caducazione per venir meno di un presupposto condizionante, ossia di un presupposto pubblicistico di efficacia, del contratto. Tale ricostruzione da un lato sarebbe imposta dalla difficoltà di concepire una nullità sopravvenuta (e cioè apprezzabile solo in seguito all’annullamento del provvedimento di aggiudicazione), e dall’altro troverebbe riscontro nel dettato dell’art. 14 del d.lgs. n. 190 del 2002, laddove esso parla di risoluzione, e non di invalidità, del contratto, una volta annullata l’aggiudicazione. Specialmente il carattere pubblicistico e comunque automatico del travolgimento del contratto indirizzerebbe, poi, verso la competenza esclusiva del giudice amministrativo, ex art. 6, comma 1, l. n. 205 del 2000. Nella pronuncia n. 2992 del 2003 (4), nell’affrontare una fattispecie (peraltro) non priva di sue particolarità (si trattava di capire quali effetti sul contratto derivassero dall’annullamento del provvedimento di scelta, a trattativa privata, di un concessionario di bene pubblico. Secondo le tradizionali categorie, dunque, (4) Di essa si segnala il commento di CINTIOLI, Annullamento dell’aggiudicazione, buona fede e metodo giuridico, consultabile in www.giustizia-amministrativa.it.


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un’ipotesi di contratto accessivo a provvedimento) (5), la posizione dei giudici amministrativi appare in massima parte coincidente con quella espressa nella pronuncia appena citata. Difatti, nel solco delle « impostazioni tradizionali nella giurisprudenza del Consiglio, relative alla normale efficacia caducante dell’annullamento dell’aggiudicazione sul contratto conseguente », l’avvenuto annullamento di quella che viene definita « delibera di approvazione-aggiudicazione del contratto », determinerebbe il retroattivo venir meno « della legittimazione a contrarre richiesta dalla legge ». Il contratto dunque — anche in ragione della difficoltà di ipotizzare una nullità sopravvenuta e delle indicazioni derivabili dall’art. 14 del d.lgs. n. 190 del 2002 — sarebbe « semplicemente inefficace ». In particolare, la mancanza dell’intera fase di evidenza pubblica o di una sua parte essenziale (mancanza sia originaria, sia conseguente alla retroattività degli effetti eliminatori dell’annullamento) segnerebbe « la carenza di uno dei presupposti di efficacia del contratto che resta privato dei suoi effetti giuridici ». In adesione ad una nota proposta dottrinale (6), in applicazione degli artt. 23, comma 2 e 25 c.c., comma 2, tuttavia, tale caducazione non potrebbe pregiudicare i diritti di terzi (ed in particolare, dell’originario aggiudicatario) di buona fede. Trattandosi di una fattispecie concessoria, di tali conseguenze sul contratto conoscerebbe poi, in via principale, il giudice amministrativo, ex art. 5, comma 1, della l. n. 1034 del 1971. Parzialmente diverso, invece, l’orientamento da ultimo proposto da Cons. Stato, n. 6666 del 2003 (7). (5) Su questa categoria, per tutti, GIANNINI, Diritto amministrativo, II, Milano, 1993, 431 ss. e GULLO, Provvedimento e contratto nelle concessioni amministrative, Padova, 1965, specialmente 525 ss. (6) GRECO, I contratti dell’amministrazione tra diritto pubblico e privato, Milano, 1986, 132 ss. (7) Vedila anche in LexItalia, riv. on line, con commento pienamente adesivo di VIRGA, Le conseguenze dell’annullamento in s.g. dell’aggiudicazione (il G.A. alle prese con le categorie civilistiche della nullità, dell’annullabilità e dell’ineffıcacia), e in Giorn. dir. amm., 2004, 15 ss., con commento parzialmente critico di CARPENTIERI, Annullamento dell’aggiudicazione e contratto.


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L’annullamento in sede giudiziale del provvedimento di aggiudicazione di un contratto di appalto di lavori, conclusivo di un procedimento di gara a licitazione privata, comporterebbe non la nullità (di cui ancora una volta si ricorda la difficile ipotizzabilità, perché, secondo i giudici, di carattere sopravvenuto), ma piuttosto, come sarebbe anche suggerito dal solito art. 14 del d.lgs. n. 190 del 2002, la inefficacia sopravvenuta del contratto; e ciò, per carenza di legittimazione a contrarre e non per un fenomeno di caducazione automatica per venire meno di un presupposto d’efficacia (quest’ultima spiegazione, infatti, contrasterebbe con il principio della certezza dei rapporti giuridici e, comunque, non troverebbe « appigli nella lettera della legge » e contrasterebbe « con il principio della soggezione del contratto alla disciplina di diritto comune »). Difatti, non potendo gli atti della serie pubblicistica influire sulla validità, ma bensı̀ sull’efficacia del contratto (viene, sul punto, citata, adesivamente, Cass., 5 aprile 1976, n. 1197) (8) « ... la caducazione, in sede giurisdizionale o amministrativa, di atti della fase della formazione, attraverso i quali si è formata in concreto la volontà contrattuale dell’Amministrazione », darebbe luogo « alla conseguenza di privare l’Amministrazione stessa, con efficacia ex tunc, della legittimazione a negoziare; in sostanza, l’organo amministrativo che ha stipulato il contratto, una volta che viene a cadere, con effetto ex tunc, uno degli atti del procedimento costitutivo della volontà dell’Amministrazione, come la deliberazione di contrattare, il bando o l’aggiudicazione, si trova nella condizione di aver stipulato in jure, privo della legittimazione che gli è stata conferita dai precedenti atti (8) In Arb. ed app., 1975, 386 ss. Posizioni simili erano state del resto espresse anche da autorevole dottrina, ossia da GIANNINI, Diritto amministrativo, II, cit., 365-366: « Gli atti delle due serie [pubblicistica e privatistica] sono indipendenti tra loro quanto alla validità... È evidente però che un raccordo tra gli atti delle due serie non può non esserci, ed esso ha come cerniera l’efficacia degli atti della serie negoziale: alcuni atti della serie procedimentale condizionano l’efficacia di atti della serie negoziale, agendo come fatti permissivi o impeditivi, e pertanto attribuendo efficacia ad atti dell’altra serie, o impedendo che l’acquistino, o creando presupposti che legittimano l’esercizio di situazioni soggettive delle parti del rapporto negoziale ».


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amministrativi (cfr. Cass., 20 novembre 1985, n. 5712) ». In particolare, poi, tale inefficacia sopravvenuta potrebbe essere fatta valere solo dalla parte che abbia ottenuto l’annullamento dell’aggiudicazione. A tal scopo, all’Amministrazione, sarebbe consentito procedere, in via di autotutela, all’annullamento degli atti di gara illegittimi; ma essa non potrebbe basarsi, per far valere l’inefficacia, su di un annullamento altrimenti verificatosi (e cioè, in particolare, sull’annullamento prodottosi in sede giudiziale). Comunque, tale inefficacia, in adesione a quanto già precisato nella pronuncia appena precedente, non pregiudicherebbe i diritti acquistati dai terzi di buona fede in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione medesima. Il giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva ex art. 6, comma 1, della l. n. 205 del 2000, sarebbe, infine, competente ad accertare in via principale questo fenomeno di inefficacia; altrimenti, si nota, non potrebbe esercitare la potestà di condanna alla reintegrazione in forma specifica, di cui all’art. 7, comma 3, della l. Tar, come novellato dall’art. 7 della l. n. 205 del 2000. La valutazione delle conclusioni e degli argomenti proposti con le decisioni in esame sembra richiedere una riflessione più ampia sullo sviluppo che le due questioni, di diritto sostanziale (regime del contratto) e processuale (giudice competente), hanno avuto, in particolare negli orientamenti giurisprudenziali. 2. Si legge comunemente che in punto di conseguenze sulla validità del contratto dell’annullamento dell’atto di aggiudicazione sarebbe da registrare una contrapposizione tra giudici civili, a favore dell’annullabilità relativa (per difetto o vizio di legittimazione, capacità o volontà) e giudici amministrativi, a favore di una ricostruzione in termini di nullità o comunque di caducazione automatica del contratto. In effetti, il giudice amministrativo, come bene dimostrano le pronunce che si annotano, dichiara, ormai diffusamente, la


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nullità o comunque caducazione automatica dei contratti, una volta annullata, dallo stesso giudice, l’aggiudicazione (9). Tale caducazione ha ricevuto, invero, diverse spiegazioni nella giurisprudenza amministrativa diversa da quella in commento: nullità per violazione di norme imperative (10), nullità per venir meno, retroattivamente, del consenso espresso dal sog(9) Per una visione di insieme di recente giurisprudenza amministrativa in tema di attività contrattuale della amministrazione, si veda BENEDETTI, La giurisprudenza sui contratti delle pubbliche amministrazioni (maggio 2001 — maggio 2002), in Giorn. dir. amm., 2002, 851 ss., ove l’orientamento giurisprudenziale nel senso della nullità del contratto, una volta annullato il provvedimento di aggiudicazione, è ricollegata ad una più generale tendenza alla « (iper) protezione degli interessi degli aspiranti contraenti privati », sicché « il tempo in cui la specialità si traduceva nel privilegio per il contraente pubblico » sembrerebbe « ormai decisamente (e fortunatamente) tramontato » (858). (10) Tra le altre, Cons. Stato, 13 novembre 2002, n. 6281, in Dir. e Formazione, 2003, 66 ss. (peraltro si trattava qui di un’ipotesi di modificazione delle condizioni contrattuali in sede di approvazione degli atti di gara da parte del direttore generale di un’ASL); Tar Campania, 29 maggio 2002, n. 3177, in Foro amm. Tar, 2002, 2579 ss., con nota di MONTEDURO, Illegittimità del procedimento ad evidenza pubblica e nullità del contratto d’appalto ex art. 1418 comma 1 c.c.: una radicale « svolta » della giurisprudenza tra luci ed ombre: « La legittimità degli atti amministrativi attraverso i quali si dipana il procedimento di evidenza pubblica per la scelta del privato contraente della p.a. è imposta a protezione di interessi pubblici di rilievo primario, in quanto essa mira — attraverso la salvaguardia della par condicio tra i concorrenti — ad assicurare i fondamentali valori di imparzialità e di efficienza — efficacia dell’azione amministrativa (art. 97 cost.) nonché di tutela dell’effettività della concorrenza (art. 2, 3 par. 1 lett. g) e 4, trattato CE), i quali assurgono ormai a veri e propri principi del diritto pubblico dell’economia vivente nell’ambito dell’ordinamento interno e comunitario. Alla stregua di tale canone di giudizio, l’invalidità da cui è affetto il contratto stipulato dalla p.a. nel caso di illegittimità dell’aggiudicazione assume la connotazione della nullità, per contrasto con le norme imperative di disciplina del procedimento di evidenza pubblica, e non della sola annullabilità su azione giurisdizionale della p.a. appaltante ». In tema di nullità dell’atto costitutivo di una società mista locale, Tar Puglia, 19 gennaio 2000, n. 108, in Foro amm., 2000, 2389 ss.: « Gli atti relativi all’individuazione del socio privato di una società comunale mista, qualora non adottati con l’intermediazione di una procedura ad evidenza pubblica non solo violano le norme imperative di legge ma sono, di conseguenza, nulli in base agli artt. 324 e 1418 c.c.; detta nullità affligge anche l’atto costitutivo — da ritenere compreso nella contestazione, in quanto il gravame investe tutti gli atti relativi alla costituzione della società — e non trova ostacolo nell’intervenuto provvedimento del tribunale che abbia ordinato, ai sensi dell’art. 2230 c.c., l’iscrizione di essa nel relativo registro ». In dottrina, in questo senso, INGROSSO, Vizi dei contratti di enti pubblici: nullità o annullabilità?, in Riv. amm., 1954, I, 457 ss.; CERULLI IRELLI, L’annullamento del-


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getto pubblico con l’atto conclusivo del procedimento amministrativo di scelta del contraente (11); caducazione del contratto, l’aggiudicazione e la sorte del contratto, in Giorn. dir. amm., 2002, 1195 ss., in particolare 1198 e, dello stesso Studioso, Note critiche in tema di attività amministrativa secondo moduli negoziali, in Dir. amm., 2003, 217 ss., 262; SCICOLONE, Annullamento dell’aggiudicazione ed effetti sul contratto stipulato e in corso di esecuzione. Prospettive future alla luce dell’art. 14 d.lgs. 20 agosto 2002 n. 190, in Riv. giur. quadr. serv. pubbl., 2-3/2002, 181 ss.; IEVA, op. cit., in particolare 985 ss., il quale Studioso ritiene altresı̀ di ritrovare sostegno a questa ricostruzione in due fonti legislative: l’art. 14 del d.lgs. n. 190 del 2002 e l’art. 24 della l. n. 289 del 2002. In particolare, quest’ultimo articolo, nell’infliggere espressamente la sanzione della nullità a contratti di appalto stipulati dalla pubblica amministrazione in violazione di talune regole procedurali, sarebbe espressivo di un principio più generale. Da ultimo, C ARPENTIERI , Aggiudicazione e contratto, in www.giustiziaamministrativa.it, secondo cui « la tesi più adeguata alle esigenze della giustizia amministrativa » sarebbe « quella che configura la patologia del contratto — a seguito e per effetto dell’annullamento dell’aggiudicazione — in termini di nullità speciale relativa, azionabile dal soggetto legittimato all’impugnativa giurisdizionale dell’aggiudicazione medesima, determinata dalla violazione della normativa imperativa posta a tutela del mercato e dell’imparzialità e del buon andamento della p.a., nonché dal difetto (sopravvenuto) del titolo a contrattare in capo al soggetto illegittimamente selezionato ». (11) Cosı̀ Tar Puglia, 28 gennaio 2003 n. 394, in Giust. it., riv. on line, con commento di FOX, Annullamento degli atti di gara ed invalidità del contratto di appalto: « Nel settore degli appalti pubblici, la procedimentalizzazione della scelta del contraente ed il suo coordinamento a profili di interesse pubblico in ordine all’acquisizione della migliore offerta contrattuale configurano una fattispecie complessa, nella quale convergono meri atti, operazioni materiali, provvedimenti, dichiarazioni di volontà del privato, e del quale la stipulazione del contratto rappresenta l’effetto finale, con la conseguenza che l’invalidità degli atti della procedura di gara che incidono sulla legittimità dell’aggiudicazione non consente alla suddetta fattispecie di conseguire il proprio perfezionamento giuridico, ed in primo luogo di determinare l’idem consensus (ovvero l’accordo) che costituisce elemento essenziale di ogni contratto » Ne conseguirebbe allora, in caso di annullamento dell’aggiudicazione, una nullità « per vizio genetico del consenso ai sensi dell’art. 1428 comma 2 del codice civile »; Tar Veneto, 20 novembre 2003, n. 5800, in Diritto dei servizi pubblici riv. on-line; Tar Lombardia, 4 giugno 2002, n. 2293, in Foro amm. Tar, 2002, 1915. In dottrina, BENEDETTI, I contratti della pubblica amministrazione tra specialità e diritto comune, Torino, 2000, 164, ove si ipotizza la nullità del contratto, nel caso dell’annullamento dell’aggiudicazione, per venir meno del consenso. Precisa però la Studiosa che, laddove si voglia invece valorizzare l’efficacia di accertamento dell’aggiudicazione — in adesione a TRIMARCHI BANFI, Questioni in tema di contratto di diritto privato dell’amministrazione pubblica, in Studi in onore di Feliciano Benvenuti, IV, Venezia, 1996, 1675 ss., 1685 — si potrebbe ipotizzare una nullità per impossibilità giuridica dell’oggetto.


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presumibilmente secondo schemi propri del rapporto di presupposizione tra atti amministrativi (12). Peraltro, anche la Cassazione, nel 2002, ha parlato di nullità del contratto, per venir meno del consenso, una volta annullato l’atto conclusivo di un procedimento amministrativo ad evidenza pubblica. A differenza di quanto in genere si ritiene, una ricostruzione in termini di nullità da parte della suprema Corte non costituisce tuttavia una novità. Non poche sono state le pronunce, più o meno recenti, in cui la Cassazione ha sostenuto la tesi della nullità (ovviamente assoluta) del contratto, in seguito all’annullamento dell’atto finale della procedura contrattuale pubblicistica. Di queste soprattutto vogliamo più analiticamente parlare, perché la loro esistenza è stata troppo spesso « rimossa »; mentre, come si cercherà poi di dimostrare, è forse proprio il loro insegnamento a poter guidare verso la più convincente soluzione da dare alla questione di diritto sostanziale oggetto di queste note, nonché a poter orientare verso la risposta da dare alla questione di diritto processuale. Non è certamente facile ricostruire la giurisprudenza civile Secondo PERICU, L’attività consensuale dell’amministrazione pubblica, in Diritto amministrativo, a cura di MAZZAROLLI e altri, Bologna, 2000, 1628, la posizione del Consiglio di Stato a favore della nullità assoluta si spiegherebbe, in via generale, proprio sulla base dell’idea che, venuto meno il provvedimento, venga meno un elemento essenziale (del contratto): il consenso tra le parti, con conseguente nullità. Questo Studioso, sulla base della opportunità di dare un’equilibrata soluzione ai conflitti di interesse in gioco, sostiene invece l’ipotesi dell’annullabilità relativa nel caso di contratti già eseguiti e della nullità assoluta nel caso di contratti non ancora eseguiti (e pertanto non presentanti particolari esigenze di tutela dell’affidamento del privato contraente). (12) Cosı̀, Cons. Stato, 19 dicembre 2000, n. 6838, in Giur. it., 2001, 840 ss.: « l’annullamento (giurisdizionale o in via di autotutela) dell’aggiudicazione fa in ogni caso venir meno il vincolo negoziale determinatosi con l’adozione del provvedimento rimosso »; Cons. Stato, 14 gennaio 2000, n. 244, in Foro amm., 2000, 108 ss. e Cons. Stato, 30 marzo 1993, n. 435, in Giur. it., 1993, 18 ss.; nonché Tar Sicilia, 25 novembre 2002 n. 2261, in Giust. it., riv. on line, ove si legge che il contratto non sarebbe « annullabile per vizio del consenso ovvero per incapacità della p.a. », bensı̀ sarebbe « travolto automaticamente dall’annullamento giudiziale dell’aggiudicazione. In dottrina, LIPARI, in L’appalto di opera pubblica, a cura di VILLATA, Padova, 2001, 456 ss., 480-482.


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più remota. Ma vale la pena di farlo, perché le massime della Cassazione che affermano la tesi dell’annullabilità relativa hanno un sapore chiaramente « tralaticio », ed è quindi importante capire come e perché ad esse si sia giunti. Certo è che in sentenze ritenute storiche per il progressivo affermarsi dell’attuale assetto del riparto tra le giurisdizioni, la regola individuata dalle Sez. un. Cassazione era quella della nullità, o comunque, della invalidità assoluta del contratto, una volta riconosciuta viziata la procedura ad evidenza pubblica. Cosı̀ nel noto caso Trezza (13) del 1897, nel cassare una pronuncia del Consiglio di Stato che, su ricorso di due aspiranti contraenti pretermessi, si era ritenuto competente a sindacare la legittimità di tutti gli atti amministrativi di un procedimento diretto alla conclusione di un contratto comunale, la Cassazione romana afferma la giurisdizione ordinaria. In particolare, in applicazione del principio per cui « la materia controversa è, veramente, guardata nella sua sostanza, quello che è, non già quello che per avventura si faccia apparire con fogge studiate, ingannevoli ed artificiose », si nota che « la sostanza vera del giudizio... era lo annullamento di un rapporto contrattuale, diritto eminentemente civile, da sottoporsi esclusivamente allo esame del magistrato ordinario ». Ma ciò presuppone, evidentemente, l’idea che alla illegittimità degli atti amministrativi consegua una invalidità assoluta. Questo si desume non solo dalla logica stessa della decisione (se una tale invalidità non fosse necessariamente ed immediatamente derivata dalla dichiarata illegittimità degli atti amministrativi, non si sarebbe certo potuto sostenere che i ricorrenti, aspiranti contraenti pretermessi, miravano, nella sostanza, a veder dichiarata l’invalidità del contratto), ma anche da espresse affermazioni dei giudici di legittimità: « nella specie Ruocco e Caterini chiesero l’annullamento del decreto prefettizio, delle due deliberazioni municipali... affinché, annullati tali atti, venisse di necessità a cadere nel nulla il contratto già stipulato tra (13)

Cass., Sez. un., sent. 24 giugno 1897, in Foro it., 1897, I, 1363 ss.


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la ditta Trezza e il Comune, perocchè questo avrebbe agito senza l’autorizzazione necessaria a renderne valido il consenso ». Egualmente, in una meno nota pronuncia del 1898, il medesimo giudice (14) afferma la giurisdizione ordinaria in punto di legittimità di un decreto di annullamento governativo degli atti amministrativi diretti alla conclusione di un contratto di appalto comunale, sulla base della ritenuta natura sostanzialmente civile della controversia, in realtà (considerata) diretta all’accertamento della validità del contratto (ricorrenti avanti al Consiglio di Stato, infatti, erano gli appaltatori). Nel 1918, le Sez. un. Cassazione (15) riaffermano — seppur più a livello di obiter dictum che di effettiva regola di decisione — la tesi della nullità-inesistenza del contratto amministrativo, per mancanza del consenso, laddove non siano state seguite le forme di contrattazione pubblicisticamente imposte alle amministrazioni (nella specie, una IPAB): « gli enti pubblici possono creare rapporti giuridici e stipulare contratti, ma il loro consenso deve essere manifestato nelle forme stabilite dal diritto pubblico, e non altrimenti ». Ne conseguirebbe che « senza il rispetto di tali forme non v’è consenso, e quindi il contratto non esiste, e non è neppure ammissibile un atto di ratifica (art. 1310 c.c.) ». Nel 1931, poi, le Sez. un. Cassazione, nella nota pronuncia Società Anonima Terme Stabbiane c. Ministero dell’Interno (16), non hanno dubbi nel condividere la tesi della nullità, come sostenuta dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (17) (la cui decisione veniva peraltro cassata per vizio di giurisdizione). Ancora una volta, le Sez. un. affermano la giurisdizione ordinaria sulla controversia (formalmente) relativa alla validità di un decreto reale di annullamento governativo di deliberazioni comunali dirette alla formazione di un contratto (tra di esse, lo stesso atto conclusivo della procedura pubblicistica). Sostiene infatti il giudice della giurisdizione che la controversia, pur nominalmente relativa a un provvedimento ammini(14) (15) (16) (17)

Cass., Sez. un., sent. 21 luglio 1898, in Foro it., 1898, I, 1379 ss. Cass., Sez. un., sent. 11 maggio 1918, in Foro it., 1918, I, 673 ss. Cass., Sez. un., sent. 25 novembre 1931, in Foro it., 1932, I, 13 ss. Cons. Stato, 14 giugno 1930, in Foro it., 1930, III, 169 ss.


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strativo, nella sostanza (si trattava di applicare il criterio ormai definito, dopo il concordato giurisprudenziale, del petitum sostanziale) (18) verteva invece sulla validità del contratto: quindi era una controversia la cui vera causa petendi era costituita da diritti soggettivi. In particolare, per giungere a questa conclusione, il Collegio osserva che: « non sembra possibile... che l’esame della legittimità di tali atti potesse svolgersi senza una diretta ed intima relazione con la validità stessa del contratto ». E questo perché « il regio decreto annullava innanzi tutto la manifestazione di volontà contrattuale di una delle parti stipulanti. Se i contratti si formano col consenso (art. 1104 c.c.) annullare questo significa far cadere il contratto », cosı̀ da doversi negare che « la nullità del contratto possa considerarsi una semplice conseguenza indiretta dell’annullamento degli atti amministrativi ». Insomma, nullità-inesistenza per mancanza dell’elemento essenziale consenso, per effetto del venir meno dell’atto conclusivo del procedimento amministrativo di scelta del contraente. Nel 1935, al contrario, fa (per quanto ci consta) il suo (primo) ingresso in Cassazione l’opposta tesi dell’annullabilità relativa (19). Nel giudicare sulla validità di un contratto relativo ai rapporti tra un comune ed una società di esazione delle imposte, la mancanza di ogni necessaria formalità e approvazione da parte di superiori autorità, rispetto alla scelta del podestà di procedere alla conclusione del contratto a trattativa privata, è ritenuta rilevabile solo da parte dell’ente pubblico « a tutela del quale le stesse formalità sono dettate ». Viene cosı̀ presumibilmente valorizzato (ma, come subito vedremo, piuttosto impropriamente o almeno strumentalmente) un insegnamento del Consiglio di Stato di quello stesso anno, in cui, è vero, si affermava che: « Le norme sulle pubbliche gare sono stabilite nell’interesse dell’amministrazione », ma subito si (18) Sul punto si vedano, naturalmente, D’AMELIO e ROMANO S., I contatti giurisdizionali della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato, in Riv. dir. pubbl., 1929, 181 ss. (19) Cass., sent. 4 aprile 1935, n. 1242, in Foro amm., 1935, II, 154 ss.


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aggiungeva, secondo ben noti schemi, che « ... questo interesse si concreta in una garanzia per l’interesse dei concorrenti, raggiungendosi l’interesse dell’amministrazione appunto attraverso la garanzia data all’interesse dei concorrenti » (20). Il modello codicistico a cui la Cassazione del 1935 ritiene di poter far riferimento, per rimuovere il dubbio che si trattasse di ricostruzione « ripugnante al nostro ordinamento giuridico » è quello del regime degli « atti compiuti da rappresentanti di persone incapaci od aventi capacità limitata ». In questi casi, si nota, « sussistono nullità, che non possono farsi valere dalla parte che nei confronti di tali persone è obbligata, ma solo da coloro, nel cui interesse le autorizzazioni ed altre formalità sono dalla legge richieste ». Risulta cosı̀ cristallizzata una massima destinata per anni, fino ai giorni nostri, ad essere ripetuta, con limitate variazioni, dal giudice civile: quella per cui, dal momento che le norme della fase pubblicistica sono dirette a tutelare la sola amministrazione, solo quest’ultima può eccepirne la violazione avanti all’AGO, cosı̀ da giungere a caducare (annullare) il contratto. Tale insegnamento, per esempio, è stato recentemente ribadito, tra le più note pronunce, da Cass., 8 maggio 1996, n. 4269, secondo cui: « In tema di vizi concernenti l’attività negoziale degli enti pubblici, sia che si riferiscano al processo di formazione della volontà dell’ente, sia che si riferiscano alla fase preparatoria ad essa precedente, il negozio comunque stipulato è annullabile ad iniziativa esclusiva dell’ente pubblico, salvo che non sia ravvisabile un vizio di straripamento di potere, nel qual caso il contratto è nullo » (21). Trattasi di pronuncia ai nostri fini particolarmente significativa, perché, in questa ipotesi concreta, (20) Cons. Stato, parere 27 giugno 1935, in Riv. amm., 1935, 935. (21) In Nuova giur. civ., 1997, I, 518, con commento di SALANITRO. Deve tuttavia segnalarsi come la domanda di accertamento della nullità per violazione di norme imperative non sia stata espressamente valutata dai giudici né di merito né di legittimità, perché ritenuta tardiva e cosı̀ inammissibile. È peraltro lecito ritenere, alla luce delle motivazioni che si leggono nella pronuncia, che una tale ricostruzione della invalidità sarebbe stata respinta anche nel merito. Da ultimo si veda Cass., 30 luglio 2002, n. 11247, cosı̀ massimata: « Nei contratti di diritto privato stipulati da un ente pubblico... gli eventuali vizi relativi al pro-


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era stato annullato, da parte del giudice amministrativo, un provvedimento di aggiudicazione (per la conclusione di un contratto di alienazione di un immobile di proprietà pubblica). La fattispecie è dunque proprio quella oggetto di nostra più diretta attenzione. Ma la Cassazione non smetterà mai di parlare di nullità, anche se, indubbiamente, si tratterà di pronunce minoritarie. Cosı̀ nel 1953, la nullità di un contratto concluso a trattativa privata in mancanza della necessaria autorizzazione prefettizia è fatta derivare da un difetto di forma ad substantiam. L’autorizzazione, infatti, non varrebbe esclusivamente a « rimuovere...il limite posto in genere alla conclusione del contratto », ma a « svincolare altresı̀ e soprattutto la pubblica Amministrazione dall’osservanza della forma prescritta a pena di nullità per la stipulazione del contratto stesso, consentendo la stipulazione a trattativa privata anziché per asta pubblica » (22) (si noti che, nel caso di specie, il contratto era stato comunque rivestito della forma di atto pubblico, in quanto rogitato). Nel 1954, le Sez. un. (23) spiegano la nullità del contratto (conseguente ad un provvedimento governativo di annullamento della delibera del consiglio comunale con cui si disponeva la conclusione di contratti di compravendita) con la sopravvenuta (ma retroattiva) mancanza del consenso. La tesi, sostenuta dai ricorrenti, dell’annullabilità relativa sarebbe infatti inaccettabile perché « la volontà contrattuale del Comune è espressa dal consiglio comunale nella sua deliberazione e non dal sindaco che tale volontà attua mediante la stipulazione del contratto ». Ne conseguirebbe che « l’annullamento... della deliberazione di contrarre presa dal consiglio comunale, prima ancora dell’annulcesso di formazione della volontà dell’ente pubblico comportano l’annullabilità del contratto, la quale può essere fatta valere, in via di azione o di eccezione ai sensi degli artt. 1441 e 1442 c.c., esclusivamente dall’ente stesso e non può essere dedotta per la prima volta in sede di legittimità ». (22) Cass. sent. 18 luglio 1953, n. 2390, in Foro it., 1953, I, 1585 ss., con nota di SANDULLI A.M., Spunti sul regime dei contratti di diritto privato della pubblica Amministrazione. (23) Cass., Sez. un., sent. 13 maggio 1954, n. 1511, in Giur. it., I, 1954, 58 ss.


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lamento della deliberazione di approvazione emessa dalla giunta provinciale amministrativa e del visto di esecutorietà, travolge tutto il processo formativo della volontà dell’ente, fa venir meno la manifestazione di volontà di una delle parti stipulanti. E poiché il contratto si forma col consenso, annullar questo ha come conseguenza automatica l’annullamento del contratto ». In questa come in altre pronunce, dunque, si assume una nozione di nullità per carenza del consenso piuttosto singolare: il consenso espresso dal sindaco con la stipulazione del contratto sarebbe irrilevante, mentre tutta la manifestazione del consenso della amministrazione si « concentrerebbe » nella delibera a contrarre. Ciò che però non viene spiegato (e sembrerebbe, invero, difficile spiegare) è sulla base di quali meccanismi giuridici, in questa ipotesi, il consenso verrebbe manifestato in modo tanto inusuale, ossia attraverso un atto del cui carattere recettizio è perfino lecito dubitare (delibera a contrarre); mentre un atto che sembrerebbe proprio diretto alla manifestazione del consenso, ossia la sottoscrizione del contratto da parte del sindaco, risulterebbe privo di ogni efficacia sul piano civilistico (la divergenza tra delibera a contrarre e successivo contratto potrebbe considerarsi vizio del processo di formazione della volontà contrattuale, ma non è chiaro perché dovrebbe significare mancanza della stessa volontà negoziale) (24). Non pare un caso, allora, che, ben più recentemente, la stessa Cassazione abbia offerto una lettura del meccanismo di manifestazione della volontà contrattuale da parte di enti locali diametralmente opposta: come sembra più corretto, alle delibere a contrarre viene ora riconosciuto il ruolo di « atti interni, di natura meramente pre-

(24) E ciò specialmente in considerazione dell’orientamento della suprema Corte, secondo cui « L’accordo delle parti, ai fini della conclusione del contratto, può considerarsi inesistente solo quando sia impossibile la giuridica identificazione di una espressione della volontà comune che, sorretta da comune intenzione, abbia forza di legge tra le parti, e non anche nei casi in cui il consenso sia solo viziato o minato da errore » (cosı̀, da ultimo, Cass., sent. 22 marzo 1993, n. 3378, in Giust. civ., 1994, I, 1997 ss.).


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paratoria della successiva manifestazione esterna di volontà negoziale » (25). Una spiegazione in termini di nullità per difetto di consenso è ribadita dalle Sez. un. nel 1956 (26), in occasione di una controversia in tema di conseguenze sul contratto di provvedimento di annullamento in sede di riesame. Da questo provvedimento sarebbe derivato il venir meno di « quello che del contratto è il primo e fondamentale requisito, ossia il consenso dei contraenti... ». La sentenza, inoltre, è (soprattutto) importante perché segna il definitivo superamento della giurisprudenza del 1931 che affermava la giurisdizione ordinaria a conoscere della illegittimità del provvedimento di annullamento in sede di riesame di atti di procedura diretta alla conclusione di un contratto pubblico. Del provvedimento di riesame, infatti, viene valorizzato il carattere discrezionale, che darebbe luogo, conseguentemente, a controversie necessariamente di interesse legittimo. Si tratta, al di là delle specifiche motivazioni che ritroviamo in sentenza, del frutto dell’avvenuta affermazione nel diritto vivente della teorica della degradazione: a fronte del provvedimento imperativo (e tale, in questa visione, è, sicuramente, quello discrezionale), non vi può essere diritto soggettivo. Sicché sarebbe da respingere l’idea, come si è visto assai viva fino almeno agli anni 30, della giurisdizione ordinaria sui provvedimenti amministrativi lesivi di diritti soggettivi: tra di essi, come (25) Cass., sent. 24 giugno 1997, n. 5642, cosı̀ massimata: « Per il perfezionamento dei contratti stipulati dalle amministrazioni comunali è necessaria una manifestazione documentale della volontà negoziale da parte del sindaco, organo rappresentativo abilitato a concludere, in nome e per conto dell’ente territoriale, negozi giuridici, mentre devono ritenersi, all’uopo, inidonee le deliberazioni adottate dalla giunta o dal consiglio municipale, attesane la caratteristica di atti interni, di natura meramente preparatoria della successiva manifestazione esterna di volontà negoziale. Ne consegue che un contratto non potrà dirsi legittimamente perfezionato ove la volontà di addivenire alla sua stipula non sia, nei confronti della controparte, esternata, in nome e per conto dell’ente pubblico, dal quell’unico organo autorizzato a rappresentarlo. ». (26) Cass., Sez. un., 5 giugno 1956, n. 1907, in Giust. civ., I, 1956, 1029 ss., con nota di ARIENZO, Competenza in materia di impugnazioni contro provvedimenti amministrativi, emanati in virtù dell’art. 6 della legge comunale e provinciale o del potere di autotutela, che annullano contratti di enti pubblici.


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sappiamo, gli atti del procedimento ad evidenza pubblica. O perlomeno (tra di essi), a voler accedere alle precisazioni del Cammeo (27) (che riprende l’insegnamento del Consiglio di Stato), gli atti del procedimento di gara, successivi alla sua completa conclusione, e all’apposizione del visto di esecutorietà al contratto, ove richiesto. Insomma, secondo gli orientamenti dominanti precedentemente all’affermazione della teoria della degradazione, vi poteva essere giurisdizione ordinaria sugli atti di gara solo una volta sorto, in capo al contraente, un diritto contrattuale efficace ed azionabile. La tesi della nullità del contratto di alienazione di un immobile senza gara, in mancanza di autorizzazione prefettizia alla trattativa privata, ritorna nel 1957 con una pronuncia (28) che, in una (invero poco profetica) nota redazionale, viene considerata la definitiva conferma delle posizione della suprema Corte in tema di invalidità dei contratti di enti locali. La nullità non viene meglio spiegata, ma sembra chiaro il richiamo alle motivazioni in termini di difetto di forma, di cui alla pronuncia n. 2390 del 1953. Nel 1969, la Cassazione (29) dimostra un maggiore approfondimento nello spiegare perché il contratto, una volta annullata (questa volta dal giudice amministrativo) l’aggiudicazione (atto conclusivo di un procedimento di appalto-concorso) doveva ritenersi nullo. Alla tradizionale considerazione secondo cui « con l’annullamento degli atti di gara è stato annullato l’intero rapporto negoziale che aveva in questi il suo indispensabile (27) Le guarentigie della giustizia nella pubblica amministrazione, Milano, 1914, 419, nota 1: « E poiché diritti soggettivi possono nascere dal contratto, solo quando esso sia perfetto ed esecutorio (efficace), la competenza dell’autorità giudiziaria può esservi solo per impugnativa di questi atti posteriori all’esecutorietà del contratto ». (28) Sent. 11 luglio 1957, n. 2780, in Giur. it., I, 1957, 572 ss. Con sent. 22 novembre 1967, n. 2798, viene ribadita dalla Cassazione la tesi della nullità del contratto di alienazione di bene immobile comunale a trattativa privata in difetto di autorizzazione prefettizia nonché di visto di esecutività da parte del prefetto. Tale pronuncia, tuttavia, non è pubblicata per esteso, sicché non è dato sapere con quali argomenti tale nullità sia stata affermata. (29) Sent. 16 luglio 1969, n. 2611, in Rass. Avv. Stato, I, 1969, 758 ss.


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presupposto giuridico, con la conseguenza che, venuta meno l’aggiudicazione, ..., è venuto irrimediabilmente meno altresı̀ il vincolo contrattuale da tale aggiudicazione derivante... » (in sostanza si tratta della tesi della nullità-inesistenza per carenza di consenso) si aggiunge, finalmente, l’ipotesi ricostruttiva della nullità per violazione di norme imperative. Osserva infatti la suprema Corte che, anche a voler riconoscere autonoma esistenza giuridica al contratto stipulato successivamente all’aggiudicazione (che il collegio ritiene, peraltro, nella specie, meramente riproduttivo del vincolo contrattuale già creato dall’aggiudicazione, e quindi insieme ad essa automaticamente caducato), questo stesso contratto sarebbe comunque nullo, perché « affetto da un vizio radicale inerente al suo processo formativo e non dipendente dalla volontà o dal consenso delle parti — (tale essendo quello costituito dall’essere un atto in contrasto con una norma imperativa...) ». La violazione di norme imperative come ragione di nullità del contratto della amministrazione il cui atto amministrativo presupposto di selezione del contraente, per illegittimità del procedimento formativo, era stato annullato (questa volta in sede di ricorso straordinario), è ripreso dalla Cassazione nel 1985 (30): è nullo, per violazione di norme imperative relative alla scelta del beneficiario, il contratto di assegnazione-vendita di abitazioni concluso dalla GESCAL. Al di là della soluzione data al caso specifico (del resto non privo di sue peculiarità, perché — a differenza di quanto generalmente avviene negli appalti e nella gran parte degli altri contratti amministrativi, oggetto della normativa sulla contabilità pubblica — il contratto qui in questione realizzava direttamente le finalità di interesse pubblico dell’ente che lo poneva in essere), ciò che colpisce è la lucidità della motivazione. Viene respinta la tesi, sostenuta dal ricorrente, della mera annullabilità relativa del contratto, per difetto di legittimazione. Il concetto di legittimazione, infatti, è considerato perplesso: (30) Sent. 17 giugno 1985, in Giur. civ. comm., 1986, I, 283 ss., con commento di MINEO.


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esso « non è generalmente accolto e... presenta nella elaborazione dottrinale significati molteplici, essendo riferito alle più diverse situazioni giuridiche che hanno in comune solo la rilevanza di una specifica posizione di un soggetto rispetto a dati beni o interessi ». Ed infatti, a tale carenza di legittimazione, « il diritto positivo vi connette talora la nullità e tal’altra la annullabilità (cfr., ad esempio, le ipotesi di cui agli artt. 378, comma 3 [rubricato « atti vietati al tutore e al protutore »], e 1471, ult. comma [rubricato « divieti speciali di comprare »], c.c.), sı̀ che, al di fuori dei casi di invalidità testualmente sanciti e qualificati, — se non si voglia senz’altro accedere al principio comunemente accolto per cui l’invalidità virtuale è sempre e soltanto nullità e non annullabilità — spetta all’interprete accertare il grado dell’invalidità in questione, basandosi sulla ratio della norma violata e sulla natura dell’interesse tutelato ». Non richiede certo un grande sforzo, alla Cassazione, riconoscere che la disciplina in specie violata mirasse a preservare degli interessi pubblici collettivi. Essa, secondo i giudici di legittimità, è diretta ad impedire che l’ente in questione « possa disporre arbitrariamente, in maniera difforme dai suoi fini istituzionali » degli immobili posseduti. Ma se ciò è vero (e cioè se è vero che si tratta di norme imperative chiamate alla tutela di interessi superindividuali) alla loro violazione deve conseguire, ai sensi dell’art. 1418, comma 1, c.c., la nullità, « indipendentemente da un’espressa comminatoria contenuta nella norma violata » e « salvo che la legge disponga altrimenti ». Da ultimo, l’orientamento nel senso della nullità del contratto trova ancora più intensa espressione. Nel 1999, la Cassazione (31) afferma la nullità per viola(31) Sent., 3 settembre 1999, n. 9283, cosı̀ massimata: « Le disposizioni di cui agli artt. 67 e 70 della legge regione Piemonte n. 2 del 1981 (che consentono alle unità sanitarie locali — oggi Asl — di stipulare contratti a trattativa privata solo in presenza di particolari circostanze, tassativamente indicate in modo specifico, con assoluto ed inderogabile divieto di procedere con tale sistema fuori dai detti casi) hanno ad oggetto norme di carattere imperativo, con la conseguenza che deve ritenersi affetto da nullità, ai senso dell’art. 1418 c.c., il contratto stipulato in violazione di esse ».


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zione di norme imperative di un contratto di appalto concluso a trattativa privata in mancanza dei presupposti che, ai sensi delle legge regionale piemontese ritenuta applicabile alla fattispecie (l. n. 2 del 1981), consentivano, alle aziende sanitarie locali, l’uso di questo sistema di selezione del contraente. In particolare, il precetto contenuto in tali norme è ritenuto imperativo ed inderogabile perché « posto a tutela di un interesse pubblico generale: l’imparzialità e la legittimità dell’azione amministrativa, nonché il buon andamento di questa e l’oculata gestione del denaro pubblico; ossia dei valori che trascendono gli interessi dei contraenti e che possono essere pregiudicati dalla stipula dei contratti a trattative private, stante l’estrema discrezionalità che, in questa ipotesi, è attribuita alla Pubblica Amministrazione ». Nel 2000, norma imperativa inderogabile, a pena di nullità del contratto (nella specie, contratto di progettazione), è considerata la mancata attribuzione della competenza a concluderlo in capo al comune di Palermo. Nell’ambito di un determinato programma di interventi, tale competenza era infatti stata eccezionalmente concentrata, dal legislatore, in capo alla Presidenza del Consiglio dei Ministri (32). Va detto tuttavia come nella sentenza si parli di una « incompetenza assoluta » in capo al Comune: l’insegnamento non è dunque totalmente nuovo, atteso che la giurisprudenza ordinaria già aveva manifestato una (astratta) disponibilità a riconoscere la nullità del contratto in caso di carenza assoluta di potere in capo all’organo che aveva stipulato il contratto; in particolare, si ricorderà come nella già (32) Cass., sent. 21 aprile 2000, n. 5234, in Dir. e giust., 2000, f. 18, cosı̀ massimata: « La capacità di diritto privato delle persone giuridiche è potenzialmente generale, ma per gli enti pubblici incontra il limite della “competenza” attribuita all’ente, che è delimitata da norme qualificabili come imperative ai sensi dell’art. 1418 c.c., sicché la loro violazione comporta la radicale invalidità dell’atto compiuto dall’ente, in quanto affetto da incapacità negoziale; ne consegue che deve ritenersi in tal senso viziato il contratto col quale il comune abbia affidato ad un professionista l’incarico di aggiornare il progetto relativo ad un’opera pubblica, da realizzarsi nella città di Palermo e rientrante tra quelle considerate di preminente interesse nazionale dal d.l. n. 19 del 1988 conv. con modificazioni in l. n. 99 del 1988, giacché tale normativa ha trasferito ogni competenza in materia al Presidente del Consiglio dei ministri ».


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citata sent. n. 4269 del 1996, si leggesse che solo quello che veniva definito « straripamento di potere » avrebbe potuto rendere un contratto stipulato dalla pubblica amministrazione radicalmente nullo (33). Infine, come già ricordato, il 9 gennaio 2002, la Cassazione, con sent. n. 193, ha dichiarato nullo un contratto di locazione concluso sulla base della delibera di una giunta provinciale, poi annullata dal CORECO: si ritorna qui alla tesi della nullità, per carenza dell’elemento essenziale del consenso, retroattivamente venuto meno, in seguito all’annullamento della delibera in sede di controllo di legittimità (34). 3. A questo punto, si può passare a valutare il merito delle diverse ricostruzioni che è dato ritrovare nella giurisprudenza, in particolare, della Cassazione (35). Come il lettore non avrà mancato di notare, solo una parte minoritaria delle citate pronunce riguarda esattamente la vicenda oggetto di nostro particolare interesse: ossia l’annullamento del(33) Ma nello stesso senso, in precedenza, anche Cas., Sez. un., 16 aprile 1952, n. 953, in Foro it., 1952, I, 1664 ss.; Cass., 9 ottobre 1961, n. 2058, in Giust. civ., 1961, 1992 ss.; Cass., 10 febbraio 1971, n. 348; Cass., 10 aprile 1978, n. 1668; Cass., 24 maggio 1979, n. 2996. (34) La sentenza è cosı̀ massimata: « La delibera con la quale il competente organo della p.a. (nella specie, giunta provinciale) autorizzi la stipula di un contratto (nella specie, di locazione) con un privato deve dirsi giuridicamente inesistente qualora venga successivamente annullata in sede di controllo di legittimità (nella specie, dal Co.re.co.), con conseguente nullità — e non semplice annullabilità — del contratto de quo per assenza del requisito dell’accordo delle parti (artt. 1325 n. 1 e 1418 c.c.) ». (35) Chi scrive ritiene invero possibile ipotizzare ricostruzioni del meccanismo (civilistico) dell’evidenza pubblica assai diverse da quelle dominanti in giurisprudenza e dottrina. Come si è esposto in GOISIS, Interessi pretensivi ed esecutività della sentenza di primo grado, in questa Rivista, 1999, 1126 ss., 1147-1149, alla gara di appalto potrebbe per esempio assegnarsi il ruolo di luogo di avveramento di una condizione sospensiva del diritto alla stipulazione del contratto, in capo all’impresa partecipante. È parso tuttavia utile confrontarsi con il diritto vivente che, secondo un’ormai radicata tradizione, preferisce diverse ricostruzioni, secondo le quali il procedimento amministrativo è in grado di condizionare non tanto l’efficacia, quanto la validità del contratto.


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l’atto di aggiudicazione in un procedimento ad evidenza pubblica. D’altro canto, quelle in cui si arriva ad affermare la nullità, e molte (del resto talvolta del tutto coincidenti quanto al tipo di vicenda su cui si pronunciano) in cui si opta per la annullabilità, riguardano ipotesi in cui ad essere stato annullato (dal giudice o dalla stessa amministrazione), o comunque ad essere oggetto della cognizione del giudice civile, è (o è anche) l’atto conclusivo del procedimento amministrativo di scelta del contraente. Quindi un atto amministrativo, almeno parzialmente assimilabile, funzionalmente, a quello di aggiudicazione in una pubblica gara. Si tratta quindi di una giurisprudenza a cui può riconoscersi rilevanza (pur con qualche approssimazione) rispetto al problema del collegamento tra validità del provvedimento amministrativo e quella del contratto. Anzitutto, qualche considerazione con riguardo alla tesi dell’annullabilità relativa (36). Rispetto ad essa — e premesso che qui si ragiona sulla base del prevalente insegnamento giurisprudenziale, secondo cui il regime di invalidità del contratto va ricercato nella disciplina civilistica (37), sicché, una volta assunto tale presupposto, non può comunque accettarsi la proposta dottrinale di fondare l’annullabilità sul regime proprio dell’atto amministrativo, in seguito all’annullamento di un atto precedente della serie procedimentale (38) (né del resto, come meglio vedremo, convincono le (36) Da ultimo, tale tesi è stata difesa da VARONE, op. cit., 1657-1658, il quale ritiene le contrapposte opinioni nel senso della nullità o della caducazione automatica inidonee a fornire una equilibrata tutela agli interessi in gioco, diversi da quello del ricorrente vittorioso. In particolare rischierebbero di risultare sacrificati l’interesse pubblico alla realizzazione dell’opera, nonché gli interessi dei terzi aggiudicatari di buona fede. (37) Cosı̀, fra le altre, Cass., sent. 20 novembre 1985, n. 5712, in Giust. civ., 1986, I, 3175 ss., nella cui massima si legge che: « Quando si controverte della validità di un contratto, anche se parte ne sia l’autorità amministrativa, le cause di invalidità vanno individuate in base al codice civile... ». (38) SANDULLI A.M., Spunti, cit., 1586, « L’aver seguito l’uno piuttosto che l’altro procedimento potrà quindi importare una invalidità dell’atto per vizio nei pre-


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tendenze del giudice amministrativo a rinunciare a fornire esaurienti spiegazioni civilistiche della caducazione o inefficacia del contratto) — la critica, in una prospettiva civilistica, è fin troppo semplice: l’annullabilità è forma di invalidità che, nel nostro sistema codicistico, riveste carattere di tipicità. Sicché, o si ritrova una precisa ipotesi legale in cui far ricadere la fattispecie del contratto stipulato in seguito alla aggiudicazione annullata (dalla amministrazione stessa, come dal giudice amministrativo) nella sanzione dell’annullabilità, o si deve rinunciare a questa forma di invalidità. Ciò che colpisce nella lettura delle varie e numerose cassazioni che si sono succedute sul punto è proprio la loro scarsa fedeltà al sistema codicistico. La spiegazione data al perché si tratterebbe di annullabilità sono di tale genericità (difetto o vizio di consenso, di capacità o di legittimazione: ma quale è la norma che nello specifico viene applicata?) da lasciare francamente perplessi. Non è del resto un caso che, come è stato da altri notato, i giudici di legittimità si guardino bene dal ragionare in termini analoghi laddove provvedimenti amministrativi intervengano a condizionare l’attività contrattuale di soggetti privati (per esempio l’autorizzazione agli acquisiti, un tempo prevista dall’art. 17 c.c. in tema di persone giuridiche private con finalità ideali) (39). Il nucleo della motivazione si riduce in sostanza a questo: supposti, non un’invalidità per vizio di forma. E, siccome i vizi inerenti alla mancanza di atti presupposti non ingenerano nullità ma soltanto annullabilità (SANDULLI, Il procedimento, cit., 320), è da sostenere che sul punto fosse più giusta di quella adottata dalla Cassazione, la tesi accolta dalla sentenza della Corte d’appello ». Peraltro, il medesimo Autore, in Deliberazione di negoziare e negozio di diritto privato della pubblica Amministrazione, originariamente in Riv. trim. dir. proc. civ., 1965, 1 ss., ora in Scritti giuridici, III, Napoli, 1990, 349 ss., mostra di aver recepito l’insegnamento giurisprudenziale nel senso della necessaria traduzione dei vizi pubblicistici in vizi privatistici, tanto da affermare che « è nel diritto privato e non nel diritto amministrativo che va cercata...la disciplina dei negozi di diritto privato dell’amministrazione » (350). (39) Sul punto, CANNADA BARTOLI, Attività amministrativa ed attività privata in tema di autorizzazione agli acquisti di contratti di diritto privato della pubblica amministrazione, nota a Cass., 3 novembre 1959, in Foro amm., 1960, II, 53 ss.


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visto che le norme violate tutelano solo un interesse pubblico particolare, è coerente con ciò che esclusivamente chi è portatore di questo interesse, ossia l’amministrazione, possa far valere la loro violazione. L’opzione in termini di annullabilità si spiega cioè soprattutto con il fatto che solo in tal modo si può agevolmente garantire la relatività del vizio di validità. Peraltro, è piuttosto facile opporre a tale ricostruzione che la disciplina della evidenza pubblica non può certo ritenersi perseguire un interesse pubblico inteso, un po’ sorprendentemente, come quello in concreto valutato da quella singola amministrazione (peraltro autrice della illegittimità), anche se in contrasto con il risultato a cui l’esatta applicazione di questa stessa disciplina avrebbe dovuto portare: quasi che il dettato legislativo contenesse in sé l’implicita autorizzazione a derogare alla norma, nella misura in cui la legittimità non coincidesse con l’opportunità (economica). Una disciplina, cioè, che conterrebbe in sé l’invito alla sua disapplicazione, a fronte di una (per di più assai opinabile) valutazione (da parte dell’Amministrazione) nel senso dell’opportunità (convenienza) di un risultato illegittimo (il contratto invalido). Al contrario, come già ben chiaro nel parere cit. del 1935 del Consiglio di Stato, l’interesse pubblico alla cui realizzazione è diretta la disciplina di evidenza pubblica è, ed è sempre stato riferito — anche a volerne valorizzare al massimo il carattere di solo « soggettivamente » pubblico, ossia di esclusivamente o almeno prioritariamente rivolto alla convenienza, nella esclusiva prospettiva dell’Amministrazione, del contratto — sı̀ ad una maggior convenienza dell’attività contrattuale pubblica, ma necessariamente da perseguire attraverso procedimenti formalizzati, basati sulla massima imparzialità e trasparenza. Una convenienza, cioè, necessariamente coincidente con la legittimità della procedura. Sostenere che, alla luce di tale prevalente (e, per ipotesi, esclusivamente tutelato dalla normativa sull’evidenza pubblica) interesse pubblico si possa giustificare la relatività dell’invalidità del contratto in seguito all’accertata illegittimità del proce-


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dimento — oltre a contrastare, come è stato da altri notato, con il carattere vincolato del provvedimento di aggiudicazione (40) — appare, quindi, persino paradossale: semmai questo interesse pubblico è meglio tutelato attraverso la possibilità, da parte di chiunque vi abbia di interesse, di far valere l’invalidità del contratto. Contratto che, in quanto non è stato stipulato secondo le regole legalmente date, deve presumersi non solo non conforme alle regole pubblicistiche, ma anche (e perciò) non conveniente. Ma poi — e sul punto non sembra certo necessario insistere, visto che si tratta di affermazione ormai autorevolmente quanto diffusamente sostenuta (41), da ultimo dalle stesse decisioni in commento — tutta la disciplina appalti di fonte comunitaria guarda, prima ancora che all’interesse dell’Amministrazione, ovvero prima ancora che alla realizzazione di valori obiettivi dell’ordinamento interno (concorrenza, trasparenza, imparzialità), alla tutela degli operatori economici europei. In particolare, essa disciplina, dichiaratamente, nasce per dare attuazione concreta ad alcune delle libertà economiche codificate nel trattato CE: sicché la tesi dell’annullabilità relativa difficilmente può dirsi in armonia con le finalità primarie della disciplina appalti comunitaria (42). Una visione della disciplina sull’evidenza pubblica di fonte comunitaria come posta a tutela esclusivamente di un interesse particolare dell’Amministrazione pare, d’altro canto, incompatibile con noti sviluppi che hanno portato all’estensione del suo ambito soggettivo di applicazione anche a soggetti privati: non sfugge che, in queste ipotesi, il privato si vede imposto il rispetto di procedure spesso gravose e costose (e comunque limitative della propria autonomia contrattuale) non certo nel suo (40) TRIMARCHI BANFI, op. cit., 1685. (41) Incisivamente, ALB. ROMANO, Sulla pretesa risarcibilità degli interessi legittimi: se sono risarcibili sono diritti soggettivi, in Dir. amm., 1998, 1 ss., in particolare 12 ss. Sul punto anche CINTIOLI, op. cit., 3. (42) Secondo IEVA, op. cit., 986, la tesi della annullabilità relativa, impedendo di far valere l’invalidità a chi ha ottenuto l’annullamento del provvedimento di aggiudicazione, si porrebbe altresı̀ in contrasto con diversi principi costituzionali, ed in specie con gli artt. 24, 113, 111 e 41 della legge fondamentale.


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particolare interesse, ma, semmai, nell’interesse (delle libertà economiche) dei terzi aspiranti contraenti. Dobbiamo allora guardare ad una ricostruzione in termini di nullità, visto che essa sola può agevolmente garantire il carattere assoluto (della rilevabilità) del vizio di validità del contratto. Una ricostruzione in termini di annullabilità assoluta, d’altro canto, dovrebbe fare i conti con i caratteri di eccezionalità, nel nostro ordinamento, di una tale categoria di invalidità. E comunque, l’annullabilità assoluta si distinguerebbe dalla nullità solo per il termine prescrizionale stabilito per farla valere in via di azione: non pare questa una differenza sufficientemente significativa, per motivare uno sforzo ricostruttivo cosı̀ impegnativo e singolare rispetto al consueto sistema civilistico. Ancor più gravoso (se non impossibile) appare il compito di ricavare, secondo quanto pure è stato proposto (43), in via interpretativa, una singolare ipotesi di annullabilità, sı̀ relativa, ma nel senso di poter essere fatta valere, oltre che dalle parti contrattuali, solo dai legittimati all’azione di annullamento (dell’aggiudicazione) avanti al giudice amministrativo. Anche in questo caso, da un punto di vista pratico, l’esito non sarebbe molto diverso da quello conseguibile con una ricostruzione in termini di nullità: la legittimazione anche in capo al terzo aggiudicatario pretermesso. Da un punto di vista teorico, invece, si tratterebbe di una (complessa) opera di (pesante) « ibridazione » di istituti codicistici con principi propri del diritto amministrativo. Ma di essa, a tacer d’altro, non si riesce a cogliere la necessità. Nell’accingersi a parlare di nullità, sembra utile premettere una considerazione (forse ovvia): il contratto potrebbe risultare nullo per più ragioni, anche contemporaneamente riscontrabili in determinate vicende. Per esempio, secondo quanto si è osservato in giurisprudenza, per venir meno del consenso; oppure, per difetto di forma; ovvero ancora, per violazione di norme imperative. L’una ragione non esclude, necessariamente, le altre. Si ricercherà qui (tra le tre principali presenti in giurispru(43) Cosı̀ SALANITRO, op. cit., 524, sulla base di una « esigenza di coordinare la disciplina civilistica con i modelli di tutela adottati dal diritto amministrativo »..


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denza) una ricostruzione che possa aspirare a risultare confermata nella generalità delle possibili ipotesi di lettura e di concreta manifestazione della disciplina sulla evidenza pubblica. Ma senza con ciò voler negare che anche le altre ricostruzioni potrebbero, in determinate concrete fattispecie, utilmente (e contemporaneamente) richiamarsi. Ciò detto, parlare di nullità per difetto di forma non sembrerebbe (mai) poter risultare una spiegazione soddisfacente. Difatti, non appare accettabile la tesi, che sappiamo talvolta proposta in giurisprudenza, per cui la stessa aggiudicazione (atto che, come noto, può rivestire valore contrattuale pieno, creando esso stesso il vincolo negoziale) potrebbe costituire una forma ad substantiam del contratto; sicché, una volta che l’aggiudicazione sia stata posta nel nulla, verrebbe meno la forma necessaria del negozio: a prescindere dal fatto che sia condivisibile (o meno) una tale lata interpretazione del concetto di forma (ché, come si è da parte di altri notato, si rischia di confondere tra forma necessaria del procedimento — fase precontrattuale — e quella del contratto) (44), l’amministrazione, secondo la giurisprudenza (da ultimo le Sez. un. Cassazione) (45), può sempre decidere di non riconoscere all’aggiudicazione valore contrat(44) SANDULLI A.M., Spunti, cit., 1586. (45) Cass., Sez. un., 11 giugno 1998, n. 5807, in App. urb. edil., 1999, 478 ss.: « Il verbale di aggiudicazione definitiva a seguito di incanto pubblico o licitazione privata non necessariamente equivale, ad ogni effetto di legge, al contratto, perché l’art. 16 comma 4, r.d. 18 novembre 1923 n. 2440, ha natura dispositiva — com’è confermato dall’art. 89 r.d. 23 maggio 1924 n. 827, che prevede l’invio agli interessati, prima dell’aggiudicazione, di uno schema negoziale contenente le condizioni generali e speciali, non escluse quelle relative al quando — e pertanto la p.a., alla quale spetta valutare discrezionalmente l’interesse pubblico, può rinviare, anche implicitamente, la costituzione del vincolo al momento della stipulazione del contratto, fino al quale non sussiste un diritto soggettivo dell’aggiudicatario all’esecuzione di esso ». In precedenza, fra le altre, Cass., 29 ottobre 1981, n. 5702, in Arch. Giur. oo. pp., 1981, II, 473: « Nei contratti conclusi con la p. a. il processo verbale di aggiudicazione definitiva dell’appalto di lavori equivale per ogni effetto legale ad un contratto vincolante per le parti, salvo che il giudice del merito, interpretando il contenuto del verbale di aggiudicazione, abbia accertato, con motivazione logicamente adeguata e giuridicamente corretta, la volontà della p.a. di rinviare la costituzione del vincolo contrattuale al momento successivo della stipula del contratto, il quale, altrimenti, rappresenta una mera formalità non influente sul vinculum iuris già posto in essere


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tuale, preferendo rimandare il prodursi del vincolo negoziale al contratto successivamente stipulato. Ma se ciò è vero, l’aggiudicazione non è, evidentemente, forma necessaria del contratto, il quale, almeno secondo il diritto vivente, può acquistare forma di atto pubblico in altro modo (ossia tramite un successivo rogito). Sarà semmai questa (più generica) forma di atto pubblico (non necessariamente coincidente con quella dell’aggiudicazione) ad essere richiesta a pena di nullità, nei procedimenti di scelta diversi da quello a trattativa privata. Del resto, è ben noto come l’art. 1325 c.c. ricolleghi la nullità per difetto di forma solo ad ipotesi tassativamente date (« quando risulta che è prescritta dalla legge a pena di nullità »), mentre non è dato sapere quale previsione legislativa o comunque normativa potrebbe davvero fondare una nullità per difetto di una ipotetica forma necessaria, coincidente con il provvedimento di aggiudicazione. Quanto alla tesi, che pure ha goduto, fin dal passato, di dicon il verbale di aggiudicazione, che costituisce atto conclusivo sia del procedimento di appalto di opere sia dell’accordo delle parti ». In giurisprudenza amministrativa, Cons, Stato, 2 gennaio 1996, n. 16: « Nel caso di gare esperite con il metodo della licitazione privata, il possesso verbale di aggiudicazione segna, ai sensi dell’art. 16 comma 4 r.d. 18 novembre 1923 n. 2440, la conclusione del contratto con efficacia vincolante per entrambe le parti, salvo che l’amministrazione manifesti espressamente di non vincolarsi giuridicamente fino al momento successivo alla formale stipulazione del contratto; ne consegue che con l’aggiudicazione sorge il rapporto giuridico che è fin da allora perfetto, anche se non ancora efficace, in attesa dell’approvazione del contratto, costituendo quest’ultimo atto espressione di una potestà di controllo che fa capo all’organo competente ad esprimere la volontà dell’ente (nel caso di specie, è stato escluso che la normativa antimafia, prescrivendo la necessità di prodursi la certificazione antimafia prima della conclusione del contratto, abbia inciso sull’art. 16 r.d. n. 2440 cit.) », nonché Cons. Stato, 21 maggio 1982, n. 419 in Giur. it., 1983, III,1, 17 ss.: « In tema di contratti della p. a., se è vero che il processo verbale di aggiudicazione definitiva equivale al contratto, in modo da obbligare immediatamente l’amministrazione appaltante, tuttavia è possibile che tale vincolo sia rinnovato al momento successivo alla stipulazione del contratto qualora la stessa p.a. abbia inteso rinviare la costituzione del vincolo alla data della stipulazione; pertanto perché l’aggiudicazione possa costituire essa stessa la conclusione del contratto, occorre che l’amministrazione abbia espressamente voluto tale effetto disponendo nel verbale di aggiudicazione o negli atti precedenti che l’aggiudicazione è definitiva ».


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versi sostenitori (46), della nullità per difetto dell’elemento essenziale consenso, essa non pare in grado di fornire una spiegazione generalmente verificabile. Se è vero che l’amministrazione può riconoscere valore negoziale autonomo al contratto stipulato successivamente all’aggiudicazione, evidentemente, almeno in questi casi, il consenso viene nuovamente (rectius, per la prima volta) manifestato dopo l’aggiudicazione. Sicché non sempre l’aggiudicazione costituisce anche manifestazione del consenso, e non sempre, conseguentemente, l’annullamento di quest’ultima può farlo (automaticamente) venire meno. E del resto, è stato da altri notato come, anche laddove l’aggiudicazione valga a costituire il vincolo contrattuale, l’effetto di creare il rapporto negoziale potrebbe ritenersi logicamente e giuridicamente distinguibile dalla efficacia nella sfera pubblicistica: non necessariamente, dunque, l’annullamento dell’aggiudicazione nella sua veste provvedimentale potrebbe travolgere anche i suoi effetti negoziali (47). La giurisprudenza comunitaria, d’altra parte, sembra indirizzare verso la tesi di una (necessaria) autonomia tra fase pubblicistica e fase civilistico-contrattuale nelle procedure di interesse comunitario. In particolare, nel caso Alcatel (48), si è chiesto ai giudici comunitari se fosse possibile, prima della stipulazione del contratto, escludere la potestà di annullamento dell’atto di aggiudicazione, (assicurando solo quella di risarcimento del danno per equivalente). Facevano notare i giudici austriaci, nel proporre il quesito, (46)

Oltre alle pronunce citate della suprema corte, in dottrina, per tutti, CAM-

MEO C., I contratti della pubblica amministrazione, Capacità e legittimazione a con-

trarre, Firenze, 1937, 87: « è chiaro che dall’annullamento degli atti in cui si manifesta e completa il consenso della p.a., viene ad essere annullato il contratto. Questo non può sussistere se risulti che ab origine il consenso di una parte era invalido ». (47) TRIMARCHI BANFI, op. cit., 1685. (48) Alcatel Austria AG e Siemens AG Österreich, Sag-Schrack Anlagent echnik Age c. Bundesministerium für Wissenschaft und Verkehr, causa C-81/98, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2000, 479 ss., con nota redazionale di LEONE. Vedila altresı̀ commentata da GUTKNECHT, in Publ. proc. Law Rev., 2000, CS14.


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che la distanza, logica e cronologica, tra provvedimento di aggiudicazione e stipulazione del contratto era talmente minima e labile, che non sembrava contrario ad un’interpretazione fedele alla ratio della direttiva (che consente, a determinate condizioni, di escludere la potestà di annullamento, una volta stipulato il contratto) la mancata garanzia della possibilità di annullamento dell’atto di aggiudicazione. La notifica dell’atto di aggiudicazione e l’inizio della relazione contrattuale infatti, come spesso succede in Italia, secondo il diritto austriaco, coincidevano (49). La Corte, accogliendo in pieno le conclusioni dell’Avvocato Generale, non è d’accordo con l’orientamento privilegiato dai giudici austriaci: non è pensabile che sistematicamente si escluda un’effettiva potestà di annullamento e di tutela cautelare nei confronti del provvedimento di aggiudicazione, che peraltro è il più rilevante, fra quelli che compongono il procedimento di aggiudicazione. Dunque, « gli Stati membri sono tenuti a prevedere in ogni caso una procedura di ricorso che consenta al ricorrente di ottenere l’annullamento di tale decisione in presenza delle relative condizioni, malgrado la possibilità di ottenere un risarcimento dei danni dopo la conclusione del contratto » (50). Una completa parificazione non solo tra effetti provvedimentali della aggiudicazione e suoi effetti negoziali, ma anche — esclusivamente sul piano cronologico — tra aggiudicazione e contratto, (sulla base della nota considerazione per cui aggiudicazione vale accettazione dell’offerta del partecipante alla gara e quindi determina il sorgere del vincolo contrattuale) rischia, (49) Ricorda a tal proposito GUTKNECHT, cit., che « As soon as the selected tender is informed of the decision... this usually marks the beginning of a contractual relationship », anche se « On a closer examination...the decision of the contracting authority as to the party with whom it wishes to contract is normally made before it is incorporated in writing, and the decision on its own is not sufficient to create the contract, since the tenderer must at the very least receive notice of that decision ». (50) Secondo LEONE, op. cit., 480, la Corte avrebbe voluto affermare un « riparto netto » tra fase precedente e fase successiva alla stipulazione del contratto. La prima pretenderebbe una tutela anzitutto di annullamento, perché « le violazioni possono ancora essere sanate attraverso l’annullamento della decisione viziata »; la seconda, invece, sarebbe destinata ad una tutela essenzialmente risarcitoria per equivalente.


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pertanto, di sollevare dubbi di compatibilità con il diritto comunitario: almeno negli ordinamenti in cui l’annullamento dell’aggiudicazione non costituisce presupposto necessario della tutela risarcitoria, essa infatti avrebbe l’effetto di (consentire al diritto nazionale di) impedire una tutela (nei confronti dell’atto di aggiudicazione) diversa da quella risarcitoria per equivalente. Rischierebbe cioè di (consentire di) precludere la tutela di annullamento nei confronti dell’atto conclusivo (e più importante) della fase pubblicistica; atto che, invece, il diritto comunitario pretende sempre soggetto ad una effettiva tutela eliminatoria. E del resto, il legislatore delegato dell’art. 14, comma 3, del d.lgs. n. 190 del 2002, mostra di ben comprendere ed accogliere l’invito comunitario a tener distinti aggiudicazione e contratto: tanto da aver imposto alle amministrazioni di far trascorrere almeno trenta giorni tra comunicazione ai c.d. « controinteressati » (concorrenti non aggiudicatari) dell’aggiudicazione e firma del contratto con l’aggiudicatorio. Parrebbe evidente come, almeno in questi casi, il vincolo negoziale non possa che nascere dalla successiva firma; ché, altrimenti, la norma parrebbe incomprensibile, visto che già l’aggiudicazione avrebbe creato un vincolo negoziale, tale da impedire comunque, in ipotesi, la tutela in forma specifica (51). Resta allora la tesi della nullità per violazione di norme imperative. Essa — capace di spiegare la nullità anche nelle ipotesi in cui l’aggiudicazione effettivamente costituisce il contratto (ciò non impedisce, infatti, di riconoscere altresı̀ la violazione di norme imperative da parte del contratto, almeno finché non caducato dalla mancanza stessa del consenso) — sembrerebbe richiedere, però, per poter davvero convincere, il superamento di due possibili obiezioni. La prima, già parzialmente affrontata, verte sul carattere realmente imperativo, per il diritto civile, della disciplina pubblicistica sull’attività contrattuale delle pubbliche amministra(51) Per ulteriori considerazioni sulla norma, sia consentito rimandare, per brevità, a GOISIS, Note in tema di legittimità comunitaria dell’art. 14, comma 2, del d.lgs. 20 agosto 2002, n. 190, in questa Rivista, 2003, 607 ss.


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zioni; carattere di cui non sembrano dubitare, seppur con livelli diversi di approfondimento, le prime tre fra le pronunce in commento, anche se poi solo la prima di esse ne ricava la conseguenza della nullità ex art. 1418, comma 1, c.c., del contratto d’appalto. Ora, non si ignora l’esistenza, nella dottrina e giurisprudenza civilistiche, di un nutrito ed autorevole orientamento che mira a ridurre l’ambito di applicazione dell’art. 1418, comma 1, ossia della c.d nullità virtuale. Si osserva, in particolare, che se è vero che, come sostiene la giurisprudenza e come emerge dalla lettera dell’art. 1418, comma 1, « L’ipotesi di nullità del contratto per contrasto con norme imperative prevista dall’art. 1418 c.c., è configurabile indipendentemente da un’espressa comminatoria di legge, integrando tale disposizione un principio generale del diritto rivolto a regolare i casi in cui alla violazione di precetti imperativi non consegua una sanzione espressa di nullità del negozio » (52), nondimeno non tutte le norme che si impongono alla autonomia negoziale debbono comportare la nullità dell’atto privatistico, particolarmente ove esse riguardino la fase della formazione del contratto, e non direttamente il suo contenuto (53). (52) Cosı̀, Cass., sent. 13 settembre 2000, n. 12067, in Giur. it., 2002, 69, con nota di FONTANA, Brevi note su potestà legislativa regionale e disciplina dei rapporti di diritto privato a margine di una sentenza della Cassazione. (53) Vanno ricordati in particolare DE NOVA, Il contratto contrario a norme imperative, in Riv. critic. dir. priv., 1985, 435 ss., che, tra l’altro, suggerisce di guardare all’interesse del soggetto tutelato dalla norma imperativa, per determinare la sanzione che, secondo una prospettiva di « minimo mezzo », appaia più adeguata e VILLA, Contratto e violazione di norme imperative, Milano, 1993. Questo secondo Studioso cosı̀ ritiene di sintetizzare il suo pensiero: « la nullità virtuale rappresenta la conseguenza normale nel caso di contrasto tra imperativo e contenuto negoziale, pur ammettendo eccezioni anche in questa ipotesi; viceversa, se la violazione della proibizione ha luogo durante la formazione del contratto pare valere la regola opposta. Negli altri casi, l’art. 1418, comma 1, assume il ruolo di referente normativo su cui fondare le nullità non espresse; tuttavia ciò può avvenire solo dopo aver accertato nel concreto contratto in esame il ricorrere di una circostanza di fatto, e cioè che il risultato vietato rappresenti lo scopo unico o principale dei contraenti » (p. 205). Una impostazione prudenziale, alla luce dei principi di certezza del diritto, di conservazione degli atti giuridici e di tutela dell’affidamento, è fatta propria anche da FONTANA, op. cit., che suggerisce di limitare il riconoscimento dell’imperatività alle


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In particolare — secondo uno spunto già presente nella Relazione al codice civile e valorizzato in giurisprudenza (54) — non sempre la reazione più idonea rispetto alla violazione di una norma che si impone all’autonomia privata è la nullità del negozio. Allorquando, ad esempio, sia possibile individuare un più specifico interesse soggettivo alla cui tutela la norma sia diretta, e, allo stesso tempo, esista un mezzo meno « radicale » (rispetto alla nullità) per garantire questo particolare interesse, è a quest’ultimo mezzo che dovrà farsi ricorso. Ci ricorda cosı̀ la Cassazione che: « Per l’art. 1418 c. c. la violazione di una norma imperativa, anche se penalmente sanzionata, può determinare l’invalidità del contratto solo se il divieto è posto a tutela di un interesse di natura pubblica e generale... » (55). O, ancora — e ci confrontiamo qui proprio con un’ipotesi in cui la violazione di una norma amministrativa veniva invocata per affermare la nullità di un contratto, concluso tra un privato sole norme poste a tutela « dell’interesse pubblico e dei valori giuridici fondamentali ed essenziali dell’ordinamento » (p. 71). (54) Relazione del Ministro Guardasigilli, Roma, 1943, n. 649, 422-423: « La precisazione [ossia la espressa previsione della nullità virtuale] risolve altresı̀ la dibattuta questione circa gli effetti della violazione di una norma imperativa in cui non sia espressamente comminata la sanzione di nullità del vincolo: è normale l’effetto dirimente, ma sempre quando la volontà di legge non possa indirizzare a conseguenze diverse ». (55) Cass., sent. 4 dicembre 1982, n. 6601, in Giust. civ., 1983, I, 1172 ss., con riguardo allo « art. 4 comma 2, l. 13 maggio 1966, n. 356 che vieta alle imprese produttrici di uova da cova di mettere in commercio uova prodotte in Italia prive dell’apposita stampigliatura ». Cosı̀, ad ulteriore esempio, secondo Cass., sent. 27 luglio 1990, n. 7579, in Vita not., 1990, 494 ss.: « La predisposizione, in occasione della alienazione di un fondo rustico, di artifizi al solo scopo di eliminare il requisito della contiguità fisica con altro fondo confinante e quindi di precludere al proprietario coltivatore di detto fondo l’esercizio del diritto di prelazione (come la riserva, da parte dell’alienante, della proprietà di una striscia di terreno a confine, inidonea a qualsiasi autonomo sfruttamento produttivo e remunerativo) non importa la nullità della vendita ai sensi degli artt. 1344 e 1418 c.c., in quanto il tentativo fraudolento di eludere l’applicabilità delle norme imperative sulla prelazione trova adeguata sanzione nelle disposizioni sul retratto agrario, restando improduttiva di effetti la artificiosa condizione di distacco tra i due fondi ».


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ed un ente pubblico — la suprema corte ha affermato la validità del contratto d’opera intellettuale stipulato da un pubblico dipendente con un ente pubblico, in violazione del divieto di attività professionale esterna. Il divieto contenuto nella norma in questione (art. 92 d.P.R. 31 maggio 1974 n. 417) è stato ritenuto, infatti, operare « essenzialmente a tutela dell’interesse particolare della p.a. (non di un interesse della collettività) »; e, d’altro canto, la decadenza dall’impiego, comminata dalla norma pubblicistica a sanzione della persistente violazione del divieto, è stata giudicata capace di soddisfare pienamente tale particolare interesse pubblico. Insomma, se è vero che « In mancanza di una norma che commini la nullità, è ... sempre compito dell’interprete stabilire se il legislatore abbia voluto tale misura giuridica, ovvero abbia previsto la validità del contratto e predisposto un diverso rimedio per il perseguimento dei suoi scopi », laddove il dipendente pubblico non ottemperi all’invito a cessare le sue attività professionali, l’interesse pubblico ad ottenere un « proficuo rendimento dei propri dipendenti, mediante il rispetto, da parte dei medesimi, del fondamentale e indefettibile dovere di porre al suo servizio esclusivo tutte le loro energie e capacità, senza disperderle in compiti estranei e diversi », troverebbe già, secondo i giudici di legittimità, efficace tutela nella sanzione disciplinare della decadenza, mentre non sarebbe necessario rendere invalido il contratto attraverso cui l’attività vietata ha trovato forma giuridica (56). Ma, anche a voler pienamente valorizzare (e generalizzare) tale insegnamento, non sembrano incontrarsi particolari problemi nel riconoscimento del carattere compiutamente imperativo della disciplina amministrativa dell’evidenza pubblica, capace, come tale, di rendere nullo il contratto con essa in contrasto. E ciò non solo perché — quanto alla prospettiva della ricerca del minimo mezzo di reazione — non è dato sapere quale diversa sanzione pubblicistica potrebbe efficacemente sostituirsi a quella civilistica della nullità del negozio. Ma altresı̀ — quanto (56)

Cass., sent. 12 dicembre 1991, n. 13393, in Giust. civ., 1992, I,1503 ss.


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alla questione dell’interesse tutelato dalla norma — in ragione di diversi contributi giurisprudenziali che illuminano sul carattere (davvero) collettivo ed essenziale degli interessi pubblici salvaguardati dalla disciplina sulla scelta del contraente da parte dei soggetti pubblici. Tra gli interessi pubblici, ritenuti capaci di far scattare il meccanismo della nullità virtuale, la giurisprudenza civile ci ricorda infatti quelli di tutela della concorrenza (57). E sappiamo come il diritto degli appalti, specialmente nella prospettiva comunitaria, costituisca, tra l’altro, una parte speciale del diritto della concorrenza. Ma non basta: ancor più diretto può risultare il richiamo della giurisprudenza della Cassazione in tema di nullità del contratto di vendita a trattativa privata di immobile della massa fallimentare, in mancanza (o successiva dichiarazione di invalidità) della prescritta autorizzazione del giudice delegato. Nell’affrontare il problema nella prospettiva della legittimazione a ricorrere, i giudici di legittimità hanno, da ultimo, affermato « ... la nullità di negozi giuridici conclusi dal curatore in attuazione di provvedimenti autorizzativi viziati, come la vendita di immobili del fallimento a trattativa privata senza l’osservanza della norma imperativa dell’art. 108 l. fall. » (58). Insomma, nei procedimenti fallimentari, le disposizioni nor(57) « I comportamenti aventi carattere negoziale che concretano un abuso di posizione dominante si pongono in contrasto con il divieto sancito dall’art. 3 della legge antitrust. Trattandosi di violazione di norma imperativa, la conseguenza è la nullità » (App. Roma, 16 gennaio 2001, in Giur. comm., 2002, II, 362 ss.); « Posto che i principi della libera concorrenza e della libertà di mercato costituiscono un corpus organico di norme imperative, la nullità dell’intesa anticoncorrenziale comporta nullità derivata del contratto che impedisca al consumatore, attraverso patti atti a rendere antieconomica la risoluzione, di rivolgersi ad imprese concorrenti » (App. Brescia, 29 gennaio 2000, in Foro it., 2000, I, 2679); « È nullo, per insanabile contrasto con norme imperative, il contratto stipulato da un’impresa che abusa della propria posizione dominante sul mercato delle telecomunicazioni » (Trib. Milano, 7 agosto 2000, in Cass. pen., 2001, 57). (58) Cass., 16 marzo 1994, n. 2510, in Giust. civ., 1994, I, 2224 ss., con nota di LO CASCIO, Sull’interesse ad impugnare la vendita immobiliare fallimentare a trattativa privata. In precedenza, in senso conforme, Cass., 6 gennaio 1979, n. 58, in Fall., 1979, 98 ss.: « La nullità del decreto di autorizzazione di una vendita immobiliare a trattative private si estende, in forza dell’art. 1418 c.c., allo stesso contratto di


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mative dirette ad assicurare (gli interessi collettivi alla) trasparenza e concorrenzialità dei negozi di alienazione sono imperative, e la loro violazione, ex art. 1418 c.c., comporta la nullità dell’alienazione. Ma, del resto, le stesse normative sugli appalti pubblici sono state considerate imperative, per i rapporti interni tra imprese aggiudicatarie (oltre che, come si è visto in precedenza in alcune significative pronunce, per i rapporti tra contraente privato ed amministrazione aggiudicatrice). Cosı̀, nel caso di aggiudicazione ad una riunione di imprese c.d. orizzontale di un appalto di opera pubblica, è stato dichiarato nullo l’accordo interno, sulla base del quale una delle imprese veniva esclusa dalla realizzazione dei lavori appaltati, con possibile compromissione dell’adeguatezza della riunione di imprese a realizzare l’opera, e comunque della stessa fondatezza della valutazione compiuta dall’amministrazione nella scelta del contraente (59). D’altro canto, pare criticabile la pretesa di valutare caso per caso, tra le norme ed i principi pubblicistici disciplinanti le gare d’appalto, quali ritenere davvero imperativi, sulla base di opinabili considerazioni sulla loro capacità di influire realmente sul contenuto del contratto (60). vendita, posto in essere in violazione delle norme imperative (art. 108 legge fallimentare e 570 c.p.c.) che disciplinano il procedimento di liquidazione dell’attivo fallimentare... ». (59) Cosı̀ Cass., 7 agosto 1997, n. 7287, in Urb. e app., 1998, 268 ss.: « In caso di aggiudicazione di un appalto di opera pubblica, ai sensi degli artt. 20 ss. l. 8 agosto 1977 n. 584, ad una riunione di imprese cosiddetta orizzontale (cioè senza parti dell’opera assegnate a determinate imprese riunite), è affetto da nullità l’accordo interno fra le singole imprese in forza del quale taluna di esse viene esclusa dall’esecuzione dei lavori appaltati ». (60) Ad esempio, CAPUTO, Nullità del contratto d’appalto, risarcimento in forma specifica e pregiudiziale amministrativa. Un’impossibile conciliazione, nota a Tar Campania, n. 3177 del 2002, in Urb. e app., 2002, 1212 ss., ove, in critica alla sentenza commentata, si dubita del carattere davvero imperativo della disciplina sulla cauzione provvisoria, ritenuta « una prescrizione circoscritta al procedimento di gara ininfluente sull’assetto negoziale divisato con il contratto » (p. 1221). Si veda anche la « risposta » di CARPENTIERI, op. cit., a tale specifica critica. Ivi si ricorda che « nella sentenza n. 3177 del 2002 si è scritto che l’aggiudicazione all’impresa Alfa contrastava con la norma di divieto di contrattare con chi non fosse il legittimo aggiudicatario. Non è, dunque, l’infrazione della norma procedurale precet-


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Compito dell’interprete è, semmai, — come (lo si ripete) emerge dalla giurisprudenza civile — quello di valutare la direzione della norma: se essa tuteli o meno un interesse pubblicocollettivo. Riguardo poi alla capacità di influire sul contenuto del contratto, non sembra necessario spendere molte parole per ricordare come qualsiasi patologia del procedimento di gara sia potenzialmente in grado di condizionare l’esito del procedimento, quanto al destinatario dell’aggiudicazione e ad altri elementi non certo irrilevanti del contratto, quali il corrispettivo (61). Quindi, o si ritiene di escludere dal carattere di norma imperativa ogni disciplina (solo in quanto) inerente alla fase formativa del contratto (62) — ma ciò, lo sappiamo, non corrisponde allo stato del tiva che determina la nullità del contratto, ma è la violazione del divieto di contrattare con chi non sia il legittimo aggiudicatario a provocare tale effetto. La violazione della procedura di evidenza pubblica che ha condotto all’annullamento dell’aggiudicazione opera come causa indiretta della nullità del contratto, poiché è mediata dalla caducazione dell’aggiudicazione, che è essa la vera causa efficiente della nullità ». In altri termini, la nullità per violazione di norme imperative non deriverebbe tanto dalla violazione di specifiche regole di gara, quanto dalla violazione di quella che potremmo definire una « macronorma », che proibisce di contrarre con chi non sia legittimo aggiudicatario. Resta peraltro innegabile che, per capire se la « macronorma » (non contrarre con un aggiudicatario illegittimamente selezionato) sia stata violata, si dovrà ancora far riferimento alle norme procedurali, che, alla luce di ciò, finiscono egualmente per apparire le vere norme (imperative) violate. (61) Sulla rilevante incidenza della procedura ad evidenza pubblica (e quindi, si potrebbe aggiungere, delle violazioni delle relativa normativa), sulla determinazione del futuro contenuto del contratto si rimanda a GRECO, I contratti ad « evidenza pubblica », in Argomenti di diritto amministrativo, Milano, 2000, 155 ss., 161 ss., ove in sintesi si nota come « il ruolo degli atti amministrativi in cui si articola l’evidenza pubblica, seppur può risultare vario — a seconda del sistema adottato —, è sempre di notevole rilevanza nella formazione della volontà contrattuale o negoziale dell’Amministrazione » (p. 163). (62) Cosı̀ SALANITRO, op. cit., 522-523, sulla base di una corrispondente ricostruzione del dato letterale dell’art. 1418, comma 1, c.c., di cui si valorizza il riferimento al contratto e non alla fase formativa dello stesso, nonché della considerazione per cui « le norme che prescrivono regole procedimentali finalizzate alla conclusione di un contratto non escludono, né impongono a priori assetti negoziali determinati. Ne deriva che non si può valutare in astratto se il risultato realizzato dal contratto è conforme a quello consentito dalle prescrizioni normative... ».


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diritto vivente — oppure appare arbitraria la pretesa di negare ad alcune prescrizione il carattere dell’imperatività. Che poi alcune norme (imperativamente) disciplinanti la procedura di gara possano apparire talvolta eccessivamente invasive e persino sovrabbondanti rispetto agli obiettivi stessi (di interesse collettivo) della disciplina sugli appalti, potrà anche essere vero: ma ciò tocca scelte del legislatore comunitario e nazionale che è possibile, naturalmente, criticamente discutere; ma non, parrebbe, per negare loro applicazione, quanto piuttosto in una prospettiva di jure condendo. Non sembra del resto un caso che quella stessa dottrina civilistica che ha argomentato nel senso della eccezionalità dei casi in cui norme relative (non al contenuto, ma) alla formazione del contratto possano dar luogo a nullità virtuale, proprio con riguardo all’evidenza pubblica abbia ritenuto di ritrovare le ragioni di un’eccezione: in questa ipotesi, si nota, la disciplina non mira a garantire (esclusivamente) « ad una delle parti una corretta determinazione del contenuto negoziale ». L’obiettivo è invece quello di « garantire una corretta determinazione del contenuto negoziale a tutela del pubblico rimasto estraneo al negozio » (63), ossia a tutela di una « pluralità indeterminata di soggetti, rimasta estranea al negozio, ma interessata alla sua corretta formazione » (64). Alla luce di tutto ciò, non può, ancora, convincere la tesi di chi — nell’ambito di una recente complessiva ricostruzione della categoria della nullità virtuale nel senso della sua configurabilità solo laddove la norma violata (anche quando dettata a tutela di una delle parti del negozio e non di finalità pubblichecollettive) miri alla garanzia di « un interesse che, in considerazione del rilievo ad esso accordato dall’ordinamento, è sottratto al potere di disposizione dei contraenti » (65) — critica una qualificazione in termini di nullità virtuale del contratto stipulato dall’amministrazione in violazione della normativa sull’evidenza (63) VILLA, op. cit., 169. (64) VILLA, op. cit., 171. (65) ALBANESE, Violazione di norme imperative e nullità del contratto, Napoli, 2003, 45.


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pubblica. In particolare, si nota, tali norme « non vietano né impongono un determinato regolamento di interessi, ma prescrivono soltanto le modalità di formazione e conclusione del contratto, funzionali a realizzare l’interesse pubblico specificamente affidato alla singola Amministrazione, in conformità con il principio di imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 della Costituzione » (66). Di nullità potrebbe invece parlarsi laddove « la violazione delle disposizioni che disciplinano l’attività contrattuale della p.a. non riguardi profili meramente procedimentali, diretti in astratto a garantire che il contenuto dell’accordo sia conforme all’interesse pubblico, ma si concretizzi nell’adozione di un regolamento negoziale contrario ad una norma imperativa, che specificamente imponga o escluda un determinato assetto di interessi » (67). È il caso, secondo la dottrina in questione, della stipulazione di contratti espressamente vietati, ovvero della scelta del contraente o della determinazione del prezzo « in violazione di un criterio rigidamente stabilito dalla legge e vincolante per la p.a. » (68). La pronuncia n. 3642 del 1985 cit. della Cassazione in tema di nullità virtuale del contratto di assegnazione di alloggio ad edilizia convenzionata — che viene citata come (solo) isolata ipotesi giurisprudenziale di discostamento rispetto le tradizionali posizioni nel senso della invalidità relativa, come sanzione della violazione di norme sulla scelta del contraente — non smentirebbe la lettura cosı̀ proposta della nullità virtuale: si sarebbe, infatti, trattato proprio di un caso di violazione di norme puntuali, capaci di vincolare, senza possibilità di scelta, verso un determinato assetto di interessi (69). Non rientra certo nelle ambizioni delle presenti note una complessiva valutazione nel merito di questa ultima interpretazione dell’art. 1418 c.c., comma 1. Qui ci si è limitati a riferire come la norma codicistica sia applicata nel diritto giurispruden(66) (67) (68) (69)

ALBANESE, op. cit., 212. ALBANESE, op. cit., 218. ALBANESE, op. cit., 218. ALBANESE, op. cit., 218-219.


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ziale, senza la pretesa di affrontare la complessa questione della fondatezza delle posizioni in giurisprudenza riscontrabili. Nel far questo, tuttavia, si è mostrato come diverse siano le decisioni della Cassazione nel senso della nullità (anche spiegata in ragione della violazione di norme imperative) del contratto stipulato in spregio alla disciplina sull’evidenza pubblica. Del resto, come vedremo, non è dato capire la effettiva particolarità delle norme imperative riscontrate violate nella sentenza n. 3642 del 1985. Può dunque dubitarsi della reale corrispondenza della tesi dottrinale in questione con gli attuali orientamenti giurisprudenziali in tema di invalidità del contratto concluso secondo procedimenti ad evidenza pubblica. Inoltre, e soprattutto, non può che ribadirsi che lascia perplessi la pretesa di discriminare tra le varie norme della complessiva disciplina dell’evidenza pubblica, in ragione di una loro pretesa diversa capacità di influire sull’assetto di interessi: tutte le norme dell’evidenza pubblica sono capaci di influire sull’assetto di interessi contrattuali, visto che tutte incidono sulla determinazione di elementi essenziali del negozio, non lasciati alla disponibilità dell’amministrazione, o del privato obbligato all’evidenza pubblica (entrambi legislativamente espropriati di una normale componente dell’autonomia privata: la libertà di scegliere il contraente, e, persino, di determinare le modalità della relativa selezione). Si tratterà, certo, quanto agli interessi relativi al contratto infine stipulato (ma non quanto agli interessi indisponibili legati alla fase, strumentale, della selezione), il più delle volte, di un’influenza non esattamente prevedibile a priori (ossia prima della conclusione della gara). Ma ciò non esclude che un’influenza sull’assetto finale di interessi vi sia. In conclusione, come è stato, fra gli altri, espressamente riconosciuto, in un caso, dai giudici contabili (70), pare difficile (70) C. Conti, Sez. contr., 24 novembre 1995, n. 150, in Foro amm., 1996, 2089 ss.: « Allorché l’amministrazione debba provvedere a far costruire un immobile da adibire a sede di pubblico ufficio, è prescritto, ai sensi della normativa comunitaria e nazionale in materia, il ricorso ad un contratto di appalto di opere pubbliche secondo le note procedure dell’evidenza pubblica; costituisce allora elusione del suddetto obbligo, posto da norme imperative, ed è quindi nullo per illiceità della causa e


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negare che le norme sull’evidenza pubblica siano imperative, nel senso dell’idoneità a determinare nullità nei negozi con esse contrastanti (71). Resta allora da confrontarsi con una seconda possibile obiezione. Ossia l’apparente dato per cui la nullità del contratto per violazione di norme imperative potrebbe acquistare rilevanza solo in seguito all’annullamento dell’aggiudicazione (pur non essendone il portato) (72). Il contratto, cioè, sarebbe apprezzabile come nullo solo post annullamento dell’aggiudicazione, nonostante la violazione della norma imperativa sia avvenuta nella sua fase formativa: quasi un (singolare) caso di nullità sopravvenuta. Di un’obiezione di tal genere si servono, come già notato, tre delle pronunce in commento (Cons. Stato, n. 2332 del 2003, e poi, con argomenti analoghi, anche Cons. Stato, n. 2992 del 2003 e Cons. Stato, n. 6666 del 2003) (73), per sostenere una per simulazione relativa volta ad eludere precisi obblighi legislativi (art. 1414 e 1344 c.c.), un contratto di acquisto di cosa futura attraverso il quale l’amministrazione persegue il medesimo scopo del contratto di appalto, senza però verificare le procedure relative ». (71) Contra, GRECO, Accordi e contratti della pubblica amministrazione tra suggestioni interpretative e necessità di sistema, in Dir. amm., 2002, 413 ss., secondo cui, nel nostro ordinamento, non sarebbe « consentito confondere le norme sulla legittimità dell’azione amministrativa, con norme imperative dei contratti di diritto comune, né operare un’indebita trasformazione delle prime nelle seconde ». Altrimenti, il contratto dovrebbe apprezzarsi invalido anche indipendentemente dall’annullamento del provvedimento di aggiudicazione, ma ciò in contrasto con il principio per cui « Nel nostro sistema dell’evidenza pubblica » il contratto potrebbe esclusivamente venir meno « per l’annullamento della relativa procedura (operato in sede giudiziaria o in via di autotutela) » (p. 422). (72) In tal senso, potrebbe non bastare, per superare l’obiezione, l’osservazione (pur condivisibile) di VARONE, op. cit., 1653, secondo cui non è corretto parlare di nullità sopravvenuta, in quanto « l’annullamento di uno degli atti della serie dell’evidenza pubblica produce la sua rimozione ex tunc, sı̀ che lo stesso deve considerarsi ab origine tamquam non esset (e in tal senso nessuna preclusione sarebbe ravvisabile ad individuare ipotesi di nullità) ». (73) In Cons. Stato, n. 2992 del 2003 si legge che la tesi della nullità assoluta non sarebbe accettabile in ragione della necessaria « natura originaria della patologia contrattuale della nullità, della difficile costruzione di un vizio di nullità sopravvenuta per effetto del sopravvenuto annullamento della serie degli atti di evidenza pubblica », nonché, ancora, « della distonia fra l’inoppugnabilità dell’atto di aggiudicazione pur


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qualificazione nel senso della inefficiacia, come contrapposta alla nullità civilistica. In particolare, ricorda Cons. Stato, n. 2332 del 2003 che: « L’assunto è corroborato dalla considerazione che mentre la nullità civilistica configura una patologia propria del contratto, in relazione ad un vizio genetico che lo inficia ab origine, nella specie il contratto subisce gli effetti del vizio che affligge la procedura amministrativa a monte ». Ne deriverebbe che il vizio della procedura di evidenza pubblica non potrebbe considerarsi « di per sé, causa di invalidità del contratto eventualmente stipulato, come dimostrato dalla non contestabile considerazione che, vista la ratio del termine di decadenza nel giudizio amministrativo, non sarebbe possibile la proposizione di azione dichiarativa della nullità del contratto, ai sensi degli artt. 1418 c.c., se non previa rituale e tempestiva impugnativa dell’atto amministrativo viziato ». Sicché, secondo i giudici di Palazzo Spada, sarebbe « concettualmente chiara l’atecnicità del richiamo della categoria della nullità del contratto, che di per sé evocherebbe una sua inefficacia originaria stigmatizzabile da subito con un’azione dichiarativa, mentre nella specie è pacifico che l’inefficacia del contratto è una vicenda sopravvenuta al necessario annullamento giurisdizionale della procedura amministrativa ». Tuttavia, una tale « sopravvenienza » della nullità — a cui, si noti, i giudici amministrativi di appello sembrano assegnare un’importanza centrale nello sforzo di motivare una ricostruzione in termini di inefficacia, invece che di nullità — è tutta da dimostrare: il contratto è fin dall’origine nullo per violazione di norme imperative, solo che ben conosciuti meccanismi processuali, propri del nostro sistema di giustizia, e in particolare dei viziato ma non impugnato nel termine decadenziale e la generale inammissibilità — nel silenzio legislativo — della convalida del contratto nullo ». In Cons. Stato, 6666/2003 si legge che: « La tesi della nullità del contratto, del pari, non convince, in quanto la nullità configura una patologia del contratto consistente in un vizio genetico che lo inficia ab origine, mentre nella specie trattasi di una vicenda sopravvenuta all’annullamento giurisdizionale dell’atto conclusivo della procedura di gara ». Sembra condividere tali critiche CINTIOLI, op. cit., 7.


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rapporti tra giurisdizione ordinaria ed amministrativa, probabilmente impediscono (o comunque cosı̀ si ritiene in giurisprudenza, anche se in dottrina taluno ne dubita) (74) al giudice di apprezzare tale contrarietà a norme imperative, prima dell’annullamento della aggiudicazione. È il caso di ricordare come la Cassazione (75), dopo le incertezze create dalla nota sentenza n. 500 del 1999 delle Sez. un., abbia recentemente confermato (in accordo con la giurisprudenza amministrativa) come non sia possibile esperire l’azione risarcitoria per lesione di interessi legittimi, finché non sia stato annullato il provvedimento illegittimo: « Sul piano dei principi propri dell’ordinamento amministrativo, è affidata, nei casi di attribuzione di potere provvedimentale, alla potestà disciplinatrice e ordinatrice dell’amministrazione la creazione della regola del caso concreto. All’atto programmatico che la esprime, tutti, compresa l’amministrazione, devono adeguare la propria condotta, indipendentemente dalla sua conformità alla legge (cosiddetto principio di dissociazione tra validità ed efficacia dell’atto), fino a quando l’invalidità non sia accertata secondo le procedure previste ». In particolare, secondo i giudici di legittimità, seppure sarebbe « vero che l’inoppugnabiliità dell’atto è nozione solo processuale in quanto esclude l’annullamento giurisdizionale, senza incidere sulla condizione giuridica dell’atto stesso, il quale, permanendo la sua non conformità alla legge, può essere per tale ragione rimosso dal suo autore ad ogni effetto (autotutela decisoria della pubblica amministrazione), ovvero rimosso dal giudice ai fini della decisione di una controversia, con valutazione incidentale, senza effetti di giudicato, della sua illegittimità (disapplicazione ex art. 5 l. n. 2248 del 1865, all. E). », altrettanto certamente potrebbe affermarsi che « in assenza della rimozione dell’atto, il permanere della produzione degli effetti è conforme alla volontà della legge, e la necessaria coerenza dell’ordina(74) (75)

MONTEDURO, op. cit., 2601. Cass., sent. 27 marzo 2003, n. 4538, in Giust. it., riv. on line.


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mento impedisce di valutare in termini di danno ingiusto gli effetti medesimi ». Se si accetta tale impostazione, ben si capisce come, finché non sia annullata l’aggiudicazione, il giudice non possa riconoscere la violazione delle norme imperative da parte del contratto, visto che queste stesse violazioni (come e, forse, più che nel caso dell’illecito civile) implicano (e coincidono con) una valutazione in via principale della illegittimità della aggiudicazione. Seguendo la (peraltro piuttosto debole) spiegazione offerta dai giudici di legittimità, si potrebbe dire che non sarebbe coerente che un provvedimento ancora efficace sia considerato fonte di invalidità in un contratto, di cui costituisce l’antecedente pubblicistico. Non costituisce certo ambizione di queste note capire da cosa derivi (o possa derivare) questo schermo alla cognizione della illegittimità dell’atto ancora efficace: se da quella presunzione di legittimità che, per anni, si è detto caratterizzare il provvedimento imperativo e di cui la giurisprudenza ancora talvolta, espressamente, parla (76). Oppure, più semplicemente, da un rifiuto giurisprudenziale (non importa qui stabilire se fondato o meno) ad esercitare poteri di cognizione astrattamente ipotizzabili. Ciò che interessa è che a questo risultato (forse criticabile, anche perché, come meglio vedremo, un tale limite non viene opposto, laddove sia l’amministrazione a chiedere l’accertamento della illegittimità della serie pubblicistica) la giurisprudenza giunge: cosı̀ come l’illecito aquiliano per lesione di interessi legittimi dei partecipanti alla gara c’è fin dall’origine, epperò, con tutta probabilità, né il giudice amministrativo né quello ordinario (laddove avesse giurisdizione) offrirebbero tutela risarcitoria prima dell’annullamento della aggiudicazione, (76) Ex multis, si confronti Cons. Stato, 9 maggio 2000, n. 2652, in Foro amm., 2000, 1726 ss. Secondo AGNINO, op. cit., 1048, invece, proprio l’operare della presunzione di legittimità, tra l’altro, impedirebbe di accedere ad una ricostruzione in termini di nullità per violazione di norme imperative dello stato del contratto d’appalto, post annullamento dell’aggiudicazione.


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cosı̀ la contrarietà a norme imperative (con conseguente nullità del contratto) c’è fin dall’origine, solo che il giudice non può (o comunque ritiene di non poter) dichiararla, finché l’aggiudicazione non venga annullata. Va poi notato come ambedue le obiezioni appena esaminate (e, si spera, superate) possano altresı̀ essere accantonate sulla base di una più radicale considerazione. L’annullamento dell’aggiudicazione (e degli atti della serie procedimentale che la precedono) comporta, retroattivamente, la caducazione di tutti gli atti attraverso cui l’amministrazione aveva (seppur, si deve ritenere, in modo, almeno parzialmente, inesatto) ottemperato ai comandi contenuti nelle norme imperative della evidenza pubblica. Insomma, comporta una totale, retroattiva, inottemperanza alla disciplina suddetta, con conseguente (ulteriore ragione di) nullità del contratto rimasto in vita. Nullità, a questo punto, derivante non solo dalla violazione delle norme imperative che hanno motivato in specie l’annullamento della aggiudicazione; ma, altresı̀, dalla violazione di tutti i restanti comandi imperativi a cui ci si era conformati (anche se, in ipotesi, del tutto esattamente) attraverso gli atti procedimentali annullati con l’aggiudicazione. Ma se ciò è vero, preoccuparsi di valutare se la norma che ha determinato nello specifico l’annullamento dell’aggiudicazione sia davvero imperativa (sia nel senso di essere rivolta al perseguimento di un interesse davvero pubblico-collettivo, sia, in adesione ad una più recente proposta dottrinale di cui si è detto, nel senso di essere capace di imporre un determinato assetto di interessi sottratto alla disponibilità delle parti) appare di scarso interesse pratico: sarà ben difficile, anche per i più convinti assertori di visioni prudenziali del carattere imperativo di norme amministrative, negare che almeno alcune delle norme sull’evidenza pubblica siano imperative nel senso (non solo pubblicistico, ma altresı̀) civilistico del termine. Sarà, in altri termini, difficile negare che la radicale mancanza di ogni procedura ad evidenza pubblica comporti la conclusione di un contratto nullo per violazione di norme imperative.


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Del resto, della centralità di tale ultima considerazione ci fornisce (migliore) riprova la citata dottrina che nega carattere imperativo alle norme dell’evidenza pubblica, in ragione della loro pretesa incapacità di influire effettivamente e precisamente su interessi indisponibili per i contraenti. Come sappiamo, la sentenza n. 3642 del 1985 della Cassazione viene, nel contesto di questo orientamento, ritenuta condivisibile negli esiti e quindi solo apparente eccezione alla ipotizzata inapplicabilità del principio della nullità virtuale alla violazione della disciplina sull’evidenza pubblica; peraltro, nel caso oggetto di questa pronuncia, la nullità per violazione di norme imperative del contratto di assegnazione era stata dichiarata non in ragione della violazione di una specifica determinata norma pubblicistica, ma della (potremmo dire) « macronorma » (definita dai giudici di legittimità « norma che impone all’amministrazione di contrarre con il soggetto cosı̀ individuato », ossia selezionato attraverso « un procedimento amministrativo volto ad accertare i requisiti di carattere soggettivo del futuro acquirente ed alla cui base è l’interesse pubblico di individuare la esistenza del bisogno abitativo e di graduarlo nell’ambito degli aspiranti all’assegnazione ») che vieta l’alienazione, in mancanza di un conforme provvedimento della competente autorità amministrativa (nello specifico Ufficio provinciale del lavoro). Alla mancanza originaria del provvedimento, era stato parificato, nella pronuncia, il suo (sopravvenuto) annullamento (nella specie, in sede di ricorso straordinario, conclusosi successivamente alla stipulazione di quel contratto preliminare di vendita-assegnazione, di cui, assieme a quella del contratto definitivo, era stata chiesta — ed ottenuta — la dichiarazione di nullità ex art. 1418, comma 1). È facile capire, peraltro, come la violazione di tale « macronorma » (non contrarre in mancanza di conforme, legittimo, provvedimento di individuazione del contraente) non rappresenti (in questa come in simili fattispecie, in cui sia stato annullato il provvedimento di scelta del contraente) che la sintesi della violazione delle diverse norme regolatrici del procedimento amministrativo; e, fra queste, di quella norma (o di quelle norme),


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l’accertamento della cui violazione, in sede giurisdizionale (o di autotutela giustiziale o decisoria), abbia, nella specie, determinato l’annullamento del provvedimento. Anche il preteso problema della « sopravvenienza » della nullità risulta, in questa prospettiva, radicalmente superato: difficile negare che tale « sopravvenienza » non sia che il portato della retroattività dell’annullamento degli atti della serie procedimentale, tra cui l’aggiudicazione. Sicché il contratto solo in seguito all’annullamento dell’aggiudicazione, risulterebbe — retroattivamente — nullo, per violazione di (ulteriori) norme imperative. Non convince, infine, l’idea che dalle direttive comunitarie ricorsi possano derivare ostacoli alla affermazione della tesi della nullità. Se è vero che l’ordinamento nazionale ha facoltà di scegliere quali conseguenze possa subire il contratto in seguito alla caducazione del provvedimento amministrativo, non si capisce perché, tra le possibili opzioni, non sia comunitariamente conforme quella della nullità: che anzi, meglio di ogni altra, è in grado di ristabilire la legittimità comunitaria, risultando quindi la scelta del legislatore nazionale più aderente allo spirito della disciplina comunitaria degli appalti. Non si può, insomma, far derivare dal fatto che il legislatore comunitario riconosca al legislatore nazionale alcune facoltà di scelta quanto alle conseguenze sul contratto della violazione delle norme di selezione del contraente, l’impossibilità per le dette norme, una volta attuate dal legislatore nazionale, di risultare imperative e quindi produttive di nullità. Se non altro perché, se questa fosse stata davvero la sua volontà, il legislatore comunitario ben avrebbe potuto direttamente vietare la sanzione della nullità (77). Parimenti, non è chiaro perché renderebbe logicamente contraddittoria la tesi della nullità per violazione di norme imperative il fatto che l’ordinamento sanzioni con l’annullabilità gli atti (77) Sul punto, si rimanda però ancora, per brevità, a GOISIS, Note, cit. Secondo MONTEDURO, op. cit., 2604-2605, invece, il fatto che il legislatore comunitario non imponga la necessaria nullità del contratto post annullamento dell’aggiudicazione basterebbe a dimostrare come la normativa appalti attuativa del diritto comunitario derivato non presenti carattere imperativo.


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amministrativi che precedono il contratto, ed invece con la nullità il contratto, per la violazione delle medesime norme (78). Basta intendersi: o si dubita che vi sia differenza di natura tra atti del procedimento amministrativo e contratto (insomma, si nega che gli uni siano atti amministrativi, ed il secondo un negozio disciplinato dal diritto civile), ma una tale dimostrazione richiederebbe uno sforzo argomentativo non irrilevante, visto che si porrebbe in contrasto con una lunga tradizione, oppure questa pretesa contraddizione risulta, in realtà, in perfetta coerenza con il normale ed indiscusso regime di invalidità delle rispettive categorie di atti. 4. Ma se la tesi dell’annullabilità relativa ha basi tanto fragili, perché è stata cosı̀ diffusamente sostenuta e ancora oggi non è priva di riscontro nel diritto giurisprudenziale? Chi scrive è consapevole della estrema difficoltà ed arbitrarietà della ricostruzione dei motivi non dichiarati delle scelte giurisprudenziali. Non sembra tuttavia privo di ogni interesse notare come questa tesi della annullabilità relativa si sia affermata in un’epoca in cui stava entrando in crisi la opinione, propria, fino ad allora, della giurisprudenza della Sez. un. Cass., della sussistenza della giurisdizione ordinaria su atti amministrativi emanati in violazione di diritti soggettivi. E, tra questi, sugli atti di gara, o comunque su atti che direttamente incidevano sul procedimento di gara, quali quelli di annullamento governativo dell’intera serie procedimentale di un procedimento ad evidenza pubblica (79). (78) Cosı̀ MONTEDURO, op. cit., 2601. (79) Su queste vicende, SANDULLI R., Sulla discriminazione delle competenza in tema di annullamento da parte del Governo di atti amministrativi cui siano collegati diritti soggettivi, nota a Cass., Sez. un., 10 giugno 1955, n. 1785, in Foro it., 1956, I, 561 ss. La tesi non mancava di trovare conforto nella opinione di autorevole dottrina. In particolare, CAMMEO F., La dichiarazione di nullità dei contratti degli enti locali e la competenza giudiziaria, in Foro it., 1932, IV, 1 ss.; MORTARA, Giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa, nota a Cass., Sez. un., sent. 25 e 30 novembre 1931, in Foro it., 1932, I, 33 ss.; GIAQUINTO, voce Contratti amministrativi, in Nuovo dig.


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Ma una volta affermatasi, a partire appunto dagli anni 30, la contraria teorica dell’efficacia degradatoria del provvedimento (anche di gara), e quindi dell’impossibilità di coesistenza tra provvedimento e diritto soggettivo (prima pacificamente ammessa, con conseguente sussistenza della giurisdizione ordinaria, ai sensi del criterio della causa petendi o petitum sostanziale) (80) si comprende come l’assetto del riparto di giurisdizione in tema di atti di gara — con la diffusa cognizione dell’invalidità di atti imperativi da parte dell’AGO che consentiva — sia stato, progressivamente, percepito come una situazione di estrema e singolare « riduzione » degli ambiti di potere amministrativo estranei all’intervento del giudice ordinario. Non sembra allora inverosimile che sia stato ricercato (e infine trovato) un efficace correttivo, capace di ribilanciare il sistema: il giudice ordinario può ancora conoscere della illegittimità degli atti di gara, cosı̀ da decidere in merito alla validità del contratto, ma solo laddove lo richieda l’amministrazione. Annullabilità relativa, dunque. E, si noti, in tal modo l’attacco agli ambiti riservati dell’amministrazione si riassorbiva quasi completamente: ché tale accertamento dell’annullabilità, e cioè della illegittimità procedimentale, su azione o eccezione esclusivamente dell’amministrazione, avrebbe potuto ben assimilarsi, almeno negli effetti, ad un (implicito e contemporaneo) esercizio di una potestà amministrativa di autoannullamento (seppur in possibile mancanza, come è stato da altri notato, del presupposto dell’interesse pubblico concreto ed attuale all’esercizio della potestà di riesait., Roma, 1938, 92 ss., 96-97; VITTA, L’impugnazione dei decreti reali che annullano contratti di enti pubblici, in Riv. amm., 1936, 297 ss. Ricorda tale giurisprudenza anche CERULLI IRELLI, Note, cit., 257, sintetizzandola nel senso della affermazione della giurisdizione ordinaria sulla tutela del rapporto contrattuale « anche se oggetto delle controversie fossero le modalità seguite dall’Amministrazione nel procedimento di scelta del contraente, procedimento concepito come di natura amministrativa ». (80) Si veda sul punto SCOCA, Riflessioni sul criterio di riparto delle giurisdizioni (ordinaria ed amministrativa), in questa Rivista, 1989, 549 ss., in particolare 557 ss.


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me) (81). In tal modo, l’esercizio stesso del potere amministrativo, e con ciò l’imperatività, sarebbero venuti meno, con pieno recupero dell’ormai consueto equilibrio tra amministrazione e giurisdizione ordinaria (82). Giunti a questo esito, peraltro, la possibilità, per il giudice ordinario, di dichiarare l’invalidità del contratto per vizi della fase pubblicistica, poteva sopravvivere, ed infatti sopravvisse al definitivo superamento della giurisprudenza della Corte regolativa della giurisdizione in punto di competenza ordinaria a conoscere della legittimità di atti violativi di diritti soggettivi. Ma v’è da dire come la stessa Cassazione abbia faticato — quando espressamente interrogata sul punto — a chiarire come conciliare tale sindacato sulla validità di provvedimenti amministrativi (ancora) imperativi con i limiti ormai riconosciuti ai poteri dell’AGO. Ad esempio nella già citata pronuncia n. 5712 del 1985, si nega che l’accertamento dell’annullabilità del contratto per vizio di un atto procedimentale (in particolare, si trattava di un parere reso in conflitto di interessi di uno dei membri del collegio amministrativo consultato) implichi l’esercizio del potere di disapplicazione, in quanto « non è in questione un diritto che si pretende leso da un atto amministrativo, ma il diritto di credito azionato dal ricorrente trova la sua fonte in un contratto, mentre le eccezioni dell’ANAS tendono ad ottenere una pronuncia di invalidità del suddetto contratto ». Ma se non viene in gioco la disapplicazione, epperò, come riconosce il Collegio, non può escludersi « la incidenza della (eventuale) illegittimità del parere sul contratto », resta da capire sulla base di quale potere il giudice ordinario avrebbe accertato la illegittimità provvedimentale (in mancanza di un suo previo annullamento in (81) ESPOSITO, La traduzione dei vizi del procedimento amministrativo in vizi del negozio nelle controversie contrattuali della p.a.: la mediazione del giudice ordinario, nota a Cass., sent. 20 novembre 1985, n. 5712, in Riv. trim. app., 1987, 85 ss., 103-104, che parla, a tal proposito, di « risultato elusivo ». (82) Ricorda significativamente SANDULLI A.M., Spunti, cit., 1587, che « ... non ostante la stipulazione del contratto, l’Amministrazione conserva pur sempre il potere di far luogo all’annullamento d’ufficio degli atti amministrativi preordinati, nonché il potere di sollecitare dal giudice la disapplicazione di tali atti »


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qualsiasi sede), per farne discendere l’invalidità del contratto (83). Comunque sia, la posizione dei giudici ordinari in tema di annullabilità relativa parrebbe fondata su ragioni più significative rispetto a quelle della mera volontà di riconoscere particolari privilegi alla amministrazione: ossia su (la percezione di) un’esigenza di riequilibrio nei rapporti tra amministrazione ed AGO, a fronte di una (altrimenti) inconsueta (seppur in astratto probabilmente ipotizzabile) cognizione da parte del giudice civile della legittimità degli atti di gara; cognizione che, alla luce della teoria della normale efficacia degradatoria degli atti amministrativi e quindi anche di quelli di gara, non pareva più comprensibile. È per un effetto di « trascinamento », si può ipotizzare, che poi tale ricostruzione ha finito per coinvolgere anche gli (invero più rari) casi in cui la serie pubblicistica era già stata annullata dall’amministrazione ovvero dal giudice amministrativo, e quindi esigenze di riequilibrio non avrebbero dovuto, in realtà, percepirsi. Colpisce, del resto, il fatto che, nell’ambito di tale insegnamento, si sia sempre affermato che la carenza di potere alla conclusione del contratto da parte dell’amministrazione avrebbe determinato non già la annullabilità relativa, ma una radicale (ed « assoluta ») nullità: un sintomo, sembrerebbe, della consapevolezza giurisprudenziale di sindacare — insieme ed in modo tale da almeno parzialmente assimilarli — atto imperativo e contratto (84). Insomma, sembrerebbe dire la Cassazione, laddove (83) Nel senso che si tratterebbe dell’esercizio di un potere di disapplicazione, seppur relativa, ossia invocabile solo dalla amministrazione che farebbe cosı̀ valere la carenza di potere rappresentativo in capo al suo organo che ha stipulato il contratto, SANDULLI A.M., Deliberazione, cit., 356-357. (84) E del resto, che tale orientamento presupponga un’assimilazione tra contratto e provvedimento talvolta emerge espressamente in giurisprudenza. Cosı̀ Cass., 28 marzo 1996, n. 2842, cit., ricorda come « secondo un indirizzo l’ipotesi andrebbe inquadrata nella problematica dell’incompetenza, nella quale dovrebbe distinguersi tra ipotesi di vero e proprio straripamento di potere (determinate dall’invasione dell’attività di un organo nella sfera di poteri esclusivi di un altro) o di esercizio di poteri che non sarebbero nemmeno configurabili in relazione all’organo che ha effettivamente agito, che darebbe luogo alla nullità del contratto e ipotesi di incompetenza meno


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l’atto, in quanto nullo-inesistente, non sia imperativo, la limitazione della legittimazione a far valere l’invalidità del contratto alla sola amministrazione, non ha senso di esistere. Non c’è una sfera riservata di potere amministrativo da preservare dall’intervento dell’AGO, e, in particolare, non c’è spazio per un’efficacia degradatoria. 5. Si è visto come in giurisprudenza amministrativa, ed in particolare nelle decc. nn. 2332 del 2003, 2992 del 2003 e 6666 del 2003 in commento, si ritrovi ormai — anche esplicitamente (85) — l’affermazione della propria giurisdizione sulla invaligravi, come quella che si verifica allorché, violando le regole procedimentali dettate per la regolare formazione della volontà dell’ente, l’organo che è pur sempre legittimato ad esprimere la volontà dell’amministrazione verso i terzi, stipula senza la previa delibera dell’organo competente a formare la volontà negoziale ». (85) Nel senso della giurisdizione amministrativa esclusiva ex art. 6 della l. n. 205 del 2000, in considerazione della sostanziale equivalenza tra controversia sulla validità del contratto e, rispettivamente, sulla legittimità delle procedure di affidamento, nonché in ragione del principio di concentrazione della tutela giurisdizionale, oltre alle pronunce in commento, anche T.R.G.A., Sez.. Bolzano, 12 febbraio 2003 n. 48, in Giust. it., riv. on line, secondo cui l’affidamento al giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva, delle controversie relative « alle procedure di aggiudicazione, affidamento ed esecuzione di servizi pubblici e forniture », di cui all’art. 4 della citata l. n. 205 del 2000, implicherebbe che « questo possa e debba valutare la validità del contratto successivo all’aggiudicazione, quando quest’ultimo venga annullato » E questo perché « il contratto non è altro che l’atto conclusivo di un procedimento ad evidenza pubblica inteso alla scelta e all’identificazione del concorrente legittimato alla sua stipulazione » e dato che « il giudice amministrativo è competente a giudicare tutti gli atti del procedimento, nel quale appunto si viene gradualmente formando il consenso dell’Amministrazione alla conclusione del contratto con un determinato partecipante alla gara », sarebbe da ricomprendere in giurisdizione amministrativa « anche l’esame della sorte di detto contratto, sotto il profilo del controllo della validità del consenso dell’Amministrazione, posto che questo è il risultato di una procedura viziata ». Tale ricostruzione del riparto tra giurisdizioni risulterebbe inoltre « logica e coerente col principio voluto dal legislatore di determinare una giurisdizione esclusiva nella materia trattata; principio che si traduce e costituisce, ad un tempo, esplicazione dell’esigenza di tutela delle parti attuata da un unico organo giudicante, evitando la proliferazione di controversie attinenti allo stesso procedimento amministrativo, avanti a giudici diversi »; Tar Sicilia, 25 novembre 2002 n. 2261, cit., secondo cui, dal già ricordato nell’art. 14 del d.lgs. n. 190 del 2002, sarebbe ricavabile un’interpretazione autentica di precedenti interventi legislativi da esso derogati, ed in particolare de: « ... l’art. 6, comma 1, della l. 21 luglio 2000 n. 205, nella parte in cui attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le con-


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dità del contratto, laddove, quest’ultima, sia conseguente all’annullamento dell’aggiudicazione. Tale giurisdizione, nelle pronunce in commento (diverse troversie relative a procedure di affidamento di lavori, servizi o forniture svolte da soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente o del socio, all’applicazione della normativa comunitaria ovvero al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale, e dell’art. 35, comma 1, del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80 nella parte in cui attribuisce al giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva, il potere di disporre il risarcimento del danno anche mediante reintegrazione in forma specifica ». Tale interpretazione autentica consentirebbe di affermare che: « a) il giudice amministrativo, munito in materia di giurisdizione esclusiva, conosce anche della sorte del contratto stipulato in seguito ad aggiudicazione illegittima; b) tale contratto non è annullabile per vizio del consenso ovvero per incapacità della pubblica amministrazione, bensı̀ è travolto automaticamente dall’annullamento giudiziale dell’aggiudicazione (in tal senso muove il riferimento testuale ad una vicenda risolutiva, che, nonostante l’atecnicismo della terminologia legislativa, è certamente compatibile con quell’effetto caducante già sostenuto da parte giurisprudenza amministrativa); c) dal normale effetto caducante del contratto conseguente all’annullamento dell’aggiudicazione discende il diritto del ricorrente, ove ne sussistano tutti i presupposti, alla reintegrazione in forma specifica, coincidente con la condanna dell’amministrazione ad un facere specifico consistente nella stipula del contratto di appalto con la parte vittoriosa in giudizio; d) l’avvenuta conclusione del contratto di appalto in seguito all’aggiudicazione illegittima non è normalmente circostanza ostativa alla reintegrazione in forma specifica »; Tar Campania, 29 maggio 2002, n. 3177, cit., che ragiona sulla base del medesimo principio di concentrazione della tutela, nonché sulla base della considerazione per cui in tale tutela deve necessariamente rientrare la reintegrazione in forma specifica: « È noto che la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo obbedisce (storicamente e nella ratio legis dell’intervento normativo del 1998-2000, come ricavabile anche dall’esame dei lavori parlamentari) — tra l’altro — all’esigenza di concentrazione dinanzi a un unico giudice di tutte le controversie appartenenti ad una determinata materia, a prescindere (almeno agli effetti del riparto di giurisdizione) dalla natura (di diritto soggettivo o di interesse legittimo) della situazione soggettiva protetta azionata dalla parte. Il giudice “unico” delle controversie relative a procedure di affidamento di lavori, servizi o forniture è dunque quello amministrativo, il quale, nell’ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali (art. 7, comma 3, della l. n. 1034 del 1971 dapprima sostituito dall’art. 35 del d.l. n. 80, poi dall’art. 7 ella l. n. 205) ». Alla luce di tale contesto normativo, in cui sarebbe delineata una « giurisdizione esclusiva del g.a. come giurisdizione unica e piena, naturalmente destinata a fornire all’attore tutta la tutela di cui egli ha diritto, con esclusione della necessità di una duplicazione di giudizi innanzi a giudici diversi » potrebbe allora « affermarsi l’estensione della giurisdizione esclusiva introdotta dalle sopra trascritte norme fino a ricomprendere nel suo ambito anche la cognizione della invalidità del contratto per vizi derivati dalla (già accertata) illegittimità della procedura di evidenza pubblica ».


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dalla n. 2992 del 2003) (86), come nelle altre di primo grado che si possono leggere, viene fondata ratione materiae, ed in specie come giurisdizione esclusiva in tema di controversie « relative a procedure di affidamento di lavori, servizi o forniture » (art. 6, comma 1, l. n. 205 del 2000). La formula legislativa non è particolarmente eloquente: se è vero che parlare di « procedure di affidamento » significa escludere (le controversie su) la fase di esecuzione del contratto di appalto, è altrettanto vero che eventuali vizi genetici del contratto direttamente conseguenti a vizi del procedimento ad evidenza pubblica sono (forse non solo, ma certamente anche) controversie sulle procedure di affidamento. L’esperienza del combattuto insegnamento giurisprudenziale in tema di giurisdizione sugli atti di gara ritenuti sostanzialmente (ossia al di là della prospettazione dell’attore) elementi di validità del contratto, è del resto assai istruttiva. Nel diritto vivente si è sempre manifestata una (seppur variabile) disponibilità a riconoscere la sostanziale equivalenza tra controversia di diritto civile relativa alla validità del contratto e controversia (di diritto amministrativo) relativa alla legittimità della fase pubblicistica di affidamento del contratto. In fin dei conti, la stessa attuale possibilità per l’amministrazione di chiedere l’annullamento del contratto per vizi della procedura di affidamento avanti al giudice ordinario, senza che alcun annullamento degli atti della serie pubblicistica sia mai stato pronunciato, né dal giudice amministrativo né dalla ammiSul punto, in dottrina, nettamente, CERULLI IRELLI, Note, cit, 261, ove si ritiene che « laddove le controversie riguardino profili di illegittimità di dette procedure [quelle ad evidenza pubblica], è pacifico che il giudice amministrativo conosca anche delle invalidità del contratto stipulato a seguito della aggiudicazione (annullata l’aggiudicazione, annulla o dichiara nullo il contratto, a seconda della specie di invalidità che in questo ordine di casi si ritiene prodotta) »; DE PALMA, Riparto di giurisdizione: esecuzione e invalidità del contratto d’appalto, in Urb. e app., 2003, 318 ss., in particolare 322-323; VARONE, op. cit., 1660-1661, che ritiene l’ipotesi della sussistenza di questa fattispecie di giurisdizione esclusiva coerente con le finalità di concentrazione della tutela, attribuibili al legislatore dell’art. 6 della l. n. 205 del 2000. (86) Si ricorderà, infatti, come, nella pronuncia n. 2992 del 2003, si sia fatto riferimento, data la particolarità del rapporto, alla giurisdizione esclusiva in tema di concessioni di bene pubblico.


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nistrazione stessa, non è che l’ultima e residua manifestazione di questo riconoscimento della sostanziale identità delle controversie. Si tratta d’altro canto di controversie in cui — come specialmente e più chiaramente emerge laddove si accolga la tesi della nullità del contratto per violazione di norme imperative — il giudice è chiamato ad applicare le medesime norme imperative pubblicistiche, per accertare la illegittimità del procedimento come l’invalidità del contratto. Tutto ciò per dire che la formula legislativa — se non è in grado di suggerire con certezza la giurisdizione esclusiva — non è però nemmeno tale da escluderla. Ossia può ben essere interpretata nel senso di comprendere le controversie sulla validità del contratto. La devoluzione in giurisdizione esclusiva di controversie in tema di invalidità contrattuale, laddove strettamente derivanti dalla violazione di discipline pubblicistiche imperative, non sarebbe, d’altro canto, scelta del tutto innovativa e singolare. L’art. 6 della l. n. 537 del 1993 stabilisce, al comma 2, che « è vietato il rinnovo tacito dei contratti delle pubbliche amministrazioni per la fornitura di beni e servizi, ivi compresi quelli affidati in concessione a soggetti iscritti in appositi albi. I contratti stipulati in violazione del predetto divieto sono nulli » (87). Al comma 19 si prevede che « le controversie derivanti dall’applicazione del presente articolo sono devolute alla giurisdizione, in via esclusiva, del giudice amministrativo ». (87)

Per un’analisi monografica della disposizione, si vedano GALANTI, GUC-

CIONE e LEGGIADRO, La nuova disciplina del corrispettivo nei contratti delle pubbliche

amministrazioni, Roma, 1994. In materia si segnalano inoltre LANCIA, Circa il rinnovo tacito di contratto della pubblica amministrazione, nota a Trib. Catania, 30 settembre 1998, in Foro it., 1999, 1, 2105 ss.; MINNEI, Sul divieto di rinnovo tacito del contratto e sulla sua operatività, nota a Cons. Stato, 20 ottobre 1998, in I contratti dello Stato e degli enti pubblici; BANDINI, Note sull’applicabilità dell’art. 6 della legge 24 dicembre 1993, n. 537 e successive modificazioni ed integrazioni, in Dir. econ., 1994, 643 ss. Per un intervento giurisprudenziale, si confronti Tar Lombardia, 14 luglio 1997, in Foro amm., 1998, 1509 ss.


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Non sfugge la particolare ratio di questa scelta di riparto della giurisdizione: il legislatore ha voluto (o meglio, dovuto) spostare il momento della sanzione di una norma imperativa pubblicistica (divieto di rinnovo tacito) dalla più consueta fase pubblicistica (che nel fenomeno del rinnovo tacito per definizione non dovrebbe esistere) a quella del contratto già concluso. Sicché la controversia su questa particolare ipotesi di nullità è in realtà funzionalmente corrispondente ad una controversia sulla validità del provvedimento che avrebbe, altrimenti, preceduto il contratto. Se ne può capire, cosı̀, il corrispondente destino, quanto al giudice competente. Risulta insomma, in questo caso (come, invero, per ragioni simili, in quello della invalidità contrattuale apprezzabile in seguito all’annullamento dell’aggiudicazione per vizi procedimentali), ben apprezzabile la particolarità pubblicistica della materia oggetto di giurisdizione esclusiva. Non convince, invece, un tentativo di fondare la giurisdizione amministrativa esclusiva sul potere del giudice amministrativo, ex art. 7 della l. Tar, come novellato dalla l. n. 205 del 2000, di disporre il risarcimento del danno anche attraverso la « reintegrazione in forma specifica », come pure, parrebbe, proposto, tra le altre prese di posizione (88), da Cons. Stato n. 6666 del 2003 in commento. Non tanto (o non solo) perché si può dubitare che la norma sia attributiva di giurisdizione (visto che semmai sembrerebbe già presupporla esistente: « nell’ambito della sua giurisdizione »; e a poco vale ricordare l’astratta esistenza di un potere in capo ad un giudice, se poi quest’ultimo non ha, ratione materiae, giurisdizione per esercitarlo in concreto, in determinate fattispecie). Ma anche, e soprattutto, perché la reintegrazione in (88) Sul punto, valorizzando prospettive presenti in Tar Campania n. 3177 del 2002, si confronti, pur problematicamente, CERULLI IRELLI, L’annullamento, cit., 1198. Più netta la presa di posizione dello stesso Studioso in Note, cit., 262, ove si osserva « come l’attribuzione al giudice amministrativo del potere di reintegrazione in forma specifica, sembra presumere una scelta del legislatore di concentrare sul giudice amministrativo l’intera cognizione della materia controversa relativa alla formazione e alla stipulazione di questo tipo di contratti con le pubbliche Amministrazioni ».


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forma specifica non sarebbe data dalla dichiarazione di nullità del contratto (momento di mero accertamento), ma semmai dall’ordine all’amministrazione a costituire il vincolo con l’aggiudicatario pretermesso. D’altra parte, che questa condanna presupponga necessariamente una valutazione in termini di nullità (o comunque caducazione) del contratto originariamente stipulato è dubbio: sarà gravoso per le finanze pubbliche, ma non certo astrattamente impossibile, immaginare la coesistenza di due contratti aventi il medesimo oggetto tra le stesse parti. Ma anche ad ammettere una necessaria cognizione della invalidità del contratto da parte del GA, essa ben potrebbe avvenire in via incidentale, senza possibilità di divenire accertamento incontestabile, ossia cosa giudicata (89). 6. Sembra utile fornire al lettore un breve riepilogo delle conclusioni a cui si è ritenuto di giungere. Fra le spiegazioni giurisprudenziali del regime sostanziale del contratto una volta annullata (in sede giurisdizionale o amministrativa) l’aggiudicazione, la più convincente sembra quella della nullità, per violazione di norme imperative. Questa, parrebbe, l’unica ricostruzione della nullità, tra quelle riscontrabili in giurisprudenza, capace di spiegare tale forma di invalidità, (89) Sul punto LIPARI, L’appalto, cit., 481, secondo cui « il giudice amministrativo ha solo da accertare incidenter tantum la sopravvenuta inefficacia del vicolo contrattuale, mentre la pronuncia dichiarativa, con forza di giudicato, della nullità o inefficacia del contratto, spetta al giudice ordinario ». V’è però da precisare come lo stesso Autore abbia successivamente ritenuto, in LIPARI, La tutela speciale, in CARINGELLA, Corso di diritto processuale amministrativo, Milano, 2003, 1236 ss., che « Argomento a favore della tesi della giurisdizione amministrativa [sulla caducazione del contratto] deriva dalla citata previsione contenuta nella l. n. 443 del 2001 e nel d.lgs. n. 190 del 2002. La stipulazione del contratto viene considerata come possibile interferenza alla reintegrazione in forma specifica conseguente alla vittoriosa proposizione del ricorso contro l’aggiudicazione. Ne deriva, quindi, che nella prospettiva del legislatore, la cognizione sulla validità e sull’efficacia del contratto stipulato spetta al giudice amministrativo » (p. 1378). Nel senso della necessità di una cognizione solo incidentale della sorte del contratto per giungere al risarcimento del danno ingiusto in forma specifica, da ultimo, IEVA, op. cit., 974. In giurisprudenza, nel medesimo senso, Tar Veneto, 5800/2003, cit.


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quale che sia il ruolo in astratto ed in concreto attribuito all’atto di aggiudicazione. Le ragioni della tesi della annullabilità relativa paiono, invece, poco persuasive sul piano civilistico: l’annullabilità è nel nostro sistema ipotesi tipica, mentre i giudici civili non hanno mai saputo fornire una qualche chiara spiegazione in ordine alla norma codicistica che potrebbe qui venire a fondamento della pretesa annullabilità; né, d’altro canto, hanno saputo convincere sulle ragioni di un’eventuale applicazione analogica o estensiva di determinate previsioni civilistiche sui vizi del consenso, della legittimazione, ovvero della rappresentanza. Sembra inoltre francamente inaccettabile, specialmente laddove la gara sia « comunitaria », l’argomento principale usato a sostegno dell’annullabilità relativa: una pretesa direzione verso una tutela solo « soggettiva » dell’amministrazione delle norme sull’evidenza pubblica, per di più ridotte a discipline, che — fatto singolare nel diritto amministrativo — privilegerebbero una sempre opinabile opportunità-convenienza del contratto, rispetto al valore della legittimità amministrativa. Più complessa ed incerta la questione processuale del riparto tra le giurisdizioni. Non si pretende certo, in mancanza di chiare indicazioni legislative, di fornire qui una precisa risposta. Si è solo notato come la sostanziale equivalenza tra controversia sulla validità della fase pubblicistica di affidamento e di quella sulla (conseguente) validità o invalidità del contratto (equivalenza in passato utilizzata dalla Cassazione per affermare la giurisdizione ordinaria) richiami, a fronte di un dato normativo non univoco, (non certo la necessità, epperò) l’opportunità della giurisdizione esclusiva. Se infatti delle controversie sono sostanzialmente equivalenti e, quindi, può essere razionale devolverle alla giurisdizione di un unico giudice, la più naturale risposta potrebbe essere rinvenuta proprio in una ipotesi di giurisdizione esclusiva. Piace ricordare, a tal proposito, come non si tratterebbe di esito del tutto nuovo e mai fino ad ora suggerito (quello della giurisdizione amministrativa): già nel 1911, il Forti, nel com-


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mentare (sul punto) criticamente una pronuncia del Consiglio di Stato (90) in cui, da un lato, si riconosceva che « ... può ammettersi che la IV Sezione si occupi di dubbi di nullità od annullabilità di contratti in quanto privi di talune delle forme e condizioni essenziali a cui le norme di pubblico diritto li sottopongono », ma, dall’altro, si negava che la giurisdizione amministrativa potesse spingersi « fino al punto di discutere se un contratto [in specie comunale] stipulato dall’autorità competente con le solennità prescritte, sia pervenuto o pur non al momento di acquistare qualità esecutoria », notava, tra l’altro, come — a sostegno della giurisdizione amministrativa — potesse addursi il fatto che « la controversia sulla validità ed efficacia era esclusivamente imperniata sull’osservanza di norme di diritto pubblico, quali indubbiamente son quelle che costituiscono speciali forme, procedimento ecc. per i contratti (ed atti affini) dei Comuni ». Ciò detto e ricordato, sul punto, come sempre, deciderà la giurisprudenza e, in ultima sede, quella delle Sez. un. Cassazione. Certo è che la definitiva acquisizione in giurisdizione amministrativa esclusiva delle controversie sulla validità del contratto contribuirebbe a togliere significato alla tesi dell’annullabilità: ché, se è vero, come si è ipotizzato, che essa tra l’altro serve ad evitare una eccessiva invadenza del giudice ordinario in un’attività provvedimentale della cui piena imperatività più non si dubita, tale esigenza non si porrebbe laddove giudice competente fosse quello amministrativo, da sempre chiamato ad una diretta cognizione della illegittimità dell’esercizio del potere amministrativo. Alla luce delle sopraesposte considerazioni, la decisione n. 1218 del 2003 pare condivisibile ed apprezzabile quanto all’affermazione della nullità per violazione di norme imperative del contratto di appalto, post annullamento dell’aggiudicazione. Semmai, di essa, può criticarsi la forse eccessiva facilità con cui dalla natura pubblicistica di una norma sembra derivare, senz’al(90) FORTI.

Cons. Stato, 2 giugno 1911, in Foro it., III, 1911, 387 ss., con nota di


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tro, il suo carattere imperativo. Un tale automatismo, lo si è visto, non si concilia con l’attuale stato della giurisprudenza e dottrina civilistiche. Insomma, le norme sull’evidenza pubblica sono sı̀ imperative, ma per ragioni ulteriori e più « solide » dal mero fatto di essere norme di diritto pubblico. Invece, le decc. nn. 2332 del 2003 e 2992 del 2003, non significativamente diverse, parrebbe, sul piano della ricostruzione delle fattispecie di diritto sostanziale (anche se il fenomeno della caducazione è maggiormente sottolineato nella seconda delle decisioni), non convincono nel loro pur ampio tentativo di spiegare l’eliminazione del contratto in seguito all’annullamento dell’aggiudicazione come un fenomeno, particolare, di caducazione del contratto; fenomeno, tuttavia, non riconducibile ad una categoria civilistica di invalidità, ma semmai ad un meccanismo di inefficacia, di difficile (e comunque non sufficientemente argomentato) inquadramento civilistico (91). Non a torto, dunque, la successiva pronuncia n. 6666 del 2003 ha ritenuto di non poter far proprie le loro conclusioni, in ragione, fra l’altro, del contrasto « con il principio della soggezione del contratto alla disciplina di diritto comune ». Tale ultima decisione, tuttavia, nell’ipotizzare una inefficacia relativa per difetto di legittimazione (ma il richiamo ad una tale categoria, per risultare convincente, avrebbe dovuto essere accompagnato, quantomeno, dall’indicazione della norma codicistica di riferimento), che, oltretutto, potrebbe essere fatta va(91) Sul punto si confronti GRECO, Accordi, cit., 422, secondo cui la tesi della caducazione automatica finirebbe « per concepire una nuova ipotesi di annullamento del contratto, da giustapporre a quelle ben note del codice civile ». Inoltre, VARONE, op. cit., 1656, che critica l’attrazione di « una realtà tipicamente civilistica in un humus prettamente pubblicistico », cosı̀ dimenticandosi che « ogni qualvolta viene in questione l’utilizzo di uno schema esclusivamente contrattuale...il paradigma di riferimento, in primis per l’aspetto patologico del negozio, dovrebbe rinvenirsi prioritariamente nella disciplina codicistica » e CINTIOLI, op. cit., 12, che, a fronte della sul punto simile presa di posizione da parte della pronuncia n. 2992 del 2002 del Consiglio di Stato, pone, fra le altre, la domanda se si possa « pervenire ad una qualificazione di inefficacia del contratto senza porsi il problema di un inquadramento nell’ambito delle categorie civilistiche dell’invalidità o di quelle che, come la condicio iuris o la risoluzione per impossibilità sopravvenuta o eccessiva onerosità, comunque all’inefficacia conducono ».


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lere solo dalla parte che abbia ottenuto (in via giudiziale) o realizzato (in via di autotutela) l’annullamento del provvedimento di aggiudicazione, arriva ad esiti, magari ragionevoli e condivisibili sul piano equitativo, ma estranei alle categorie codicistiche. E quindi, per ciò solo — in mancanza, come meglio vedremo, di un qualche conforto legislativo — difficilmente accettabili. A meno, naturalmente — ma si tratterebbe di conclusione assai impegnativa, di cui parrebbe arduo ipotizzare il possibile fondamento e che, del resto, gli stessi giudici amministrativi affermano di non condividere — di non ritenere che, allorquando in un rapporto contrattuale sia coinvolta l’Amministrazione, le categorie comuni debbano cedere a fronte di esigenze equitative, di cui si faccia interprete la giurisprudenza. Del resto, parrebbe sintomatica della difficoltà di offrire spiegazioni civilistiche adeguate, la citazione adesiva, che, in motivazione, si legge, contemporaneamente, alle sentenze della Cass., n. 5712 del 1985 e n. 1197 del 1976. La prima pronuncia è nel senso della annullabilità relativa — per difetto di una non meglio specificata legittimazione a contrarre — di un negozio di conferimento di incarico professionale, una volta che il giudice ordinario abbia accertato, su richiesta della Amministrazione, l’illegittimità del parere di un organo collegiale, ritenuto presupposto necessario del contratto; nella seconda pronuncia, invece, la Cassazione ha fatto discendere, dal preteso difetto di legittimazione inficiante un appalto di servizio di riscossione delle imposte di consumo in conseguenza del venir meno dell’atto finale della serie pubblicistica presupposta, (questa volta) l’inefficacia del negozio: tuttavia, è intuitivo come non possa apparire soddisfacente, in vista della spiegazione civilistica delle proprie scelte ricostruttive, il contemporaneo rinvio a due (inevitabilmente) inconciliabili prese di posizione della suprema corte (la quale, da un medesimo vizio di « legittimazione », ha fatto discendere due diverse condizioni patologiche). Apprezzabile, invece, è la limpida consapevolezza, che nella giurisprudenza amministrativa in commento emerge, del


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carattere obiettivo e fondamentale degli interessi che la disciplina dell’evidenza pubblica mira a tutelare. Carattere, quest’ultimo, capace, da solo, di sbarrare la strada a ricostruzioni in termini di annullabilità (o comunque invalidità) relativa. Non pare, invece, di particolare utilità invocare, come nelle pronunce n. 1218 del 2003, n. 2992 del 2003 e n. 6666 del 2003 in commento, l’art. 14 del d.lgs. n. 190 del 2002, a sostegno della tesi della inefficacia, come contrapposta alla nullità: se non altro perché, anche a voler ammettere che dalla norma processuale sia dato desumere la convinzione in capo al legislatore delegato della normale caducazione automatica, ovvero inefficacia per difetto di legittimazione, del contratto in seguito all’annullamento dell’aggiudicazione, ciò non significa, evidentemente, che la norma, in quanto processuale, abbia inteso disciplinare la fattispecie sostanziale. Sicché, volendo ritrovare un effettivo fondamento della necessaria caducazione del contratto o comunque della inefficacia, esso andrebbe ricercato, semmai, in una ulteriore norma: la questione, dunque, non potrebbe comunque dirsi risolta in via legislativa (92). Quanto alla tesi, rinvenibile nelle medesime decisioni, della giurisdizione amministrativa esclusiva sull’accertamento della eliminazione o inefficacia del contratto, essa, come si è detto, oltre che non priva di una sua opportunità, sembra conciliabile con il dato letterale dell’art. 6, comma 1, della l. n. 205 del 2000. Come si è tentato di dimostrare, tuttavia, a tale esito si sarebbe potuto arrivare anche nel quadro di una maggiore fedeltà al sistema codicistico, nella ricostruzione delle fattispecie sostanziali. Infine, il tema della opponibilità della caducazione del contratto al terzo in buona fede. Non è possibile qui trattare in modo anche minimamente esauriente dell’effettiva rilevanza degli artt. 23, comma 2 e 25, comma 2, c.c. (o, visto che sempre più numerose sono le società per azioni chiamate alla doverosa appli(92) A differenza di quanto ritenuto da LIPARI, La tutela, cit., 1374, non pare pertanto che la norma possa realmente offrire una « determinante indicazione interpretativa ».


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cazione della evidenza pubblica, art. 2377, comma 3, c.c.) (93) in tema di incapacità dell’annullamento delle delibere di pregiudicare i diritti acquistati dai terzi di buona fede, in base ad atti compiuti in esecuzione delle delibere. Quel che, invece, importa, conclusivamente, notare, è come tali norme codicistiche, per poter, astrattamente, trovare applicazione alla fattispecie dell’annullamento dell’atto finale del procedimento ad evidenza pubblica, non richiedano alcuna particolare opzione in punto di regime sostanziale dell’atto altrimenti travolto dall’annullamento dell’atto. Infatti, o si accede alla tesi tradizionale, in effetti maggiormente fedele al dato letterale delle norme (« diritti acquistati... in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione medesima »), per cui gli articoli codicistici in questione siano applicabili esclusivamente alle vicende in cui la delibera annullata — a fronte della dissociazione tra potere rappresentativo e potere decisorio — avesse la funzione di autorizzare il rappresentante a contrarre, senza però direttamente costituire il vincolo contrattuale. Ed allora (a non voler qui considerare il carattere eventualmente imperativo della disciplina violata), la sorte del negozio sarà, secondo le visioni prevalenti nella dottrina civilistica, quella della inefficacia (94). Ma una tale interpretazione difficilmente si armonizzerebbe con la fattispecie dei procedimenti ad evidenza pubblica, quantomeno perché, come noto, il provvedimento di aggiudicazione può anche fungere da manifestazione di volontà contrattuale, e cosı̀ costituire il vincolo negoziale (95). (93) Sul punto, lo stesso GRECO, Accordi, cit., 423-424, nota 24. (94) RAGUSA, Vizi del processo decisorio nelle formazioni organizzate e diretti dei terzi, Milano, 1992, 189-190. (95) Questa lettura, già accennata in CANDIAN, Nullità e annullabilità di delibere di assemblea delle società per azioni, Milano, 1942, in particolare 198, è stata autorevolmente e compiutamente formulata da ROMANO-PAVONI, Le deliberazioni delle assemblee delle società, Milano, 1951, il quale ritiene applicabile il disposto dell’art. 2377, comma 3, alle (sole) deliberazioni di autorizzazione che « attribuendo agli amministratori un certo potere, costituiscono esercizio di funzione deliberante in senso stretto, non essendo rivolte a porre in essere rapporti con i terzi, rapporti che sorgeranno solo in conseguenza di successivi autonomi atti degli amministratori » (p. 65). Esclusivamente questo rapporto indiretto, infatti, consentirebbe al terzo di buona fede di acquistare il diritto, ma non in base


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Oppure, si fa propria una più recente lettura degli artt. 23, comma 2, 25, comma 2 e 2377, comma 3, c.c., e si ritiene che essi tutelino il terzo di buona fede anche rispetto l’annullamento di un atto direttamente costitutivo di diritti, ossia direttamente rilevante nei rapporti negoziali (96). Ma, almeno in tal caso, la conseguenza per il contratto non può che essere (nei confronti dei terzi di mala fede) la nullità (oltre che, secondo la tesi esposta nelle presenti note, per violazione di norme imperative, anche) per difetto, retroattivo, del consenso tra le parti. In sostanza, non sarebbe coerente invocare gli artt. 23, comma 2, 25, comma 2 e 2377, comma 3, c.c. per dare tutela ai terzi di buona fede nella fattispecie oggetto di queste note, e poi, allo stesso tempo, ritenere che, perché questi articoli possano trovare applicazione, la disciplina sostanziale del contratto d’appalto in seguito all’annullamento della procedura pubblicistica debba essere diversa da quella della nullità. Anche una ricostruzione in questi ultimi termini, dunque, non impedirebbe, in ipotesi, di proseguire nella (sul piano equitativo, ben comprensibile) strada della tutela del contraente in buona fede. FRANCESCO GOISIS alla delibera invalida, ma in base al suo atto di esecuzione « intrinsecamente valido » (p. 395). Questa visione, prevalente, è stata ripresa da ZANARONE, in Trattato delle società per azioni, III, diretto da COLOMBO e PORTALE, Torino, 1993, 364. (96) Cosı̀ dapprima MIGNOLI, Invalidità di deliberazioni assembleari di società per azioni e diritti dei terzi, in Riv. dir. comm., 1951, I, 305 ss., 314-315, secondo cui, per l’applicazione degli artt. 23, 25 e 2377 c.c., non occorrerebbe « che si tratti di atti di esecuzione nel senso tecnico del termine », ma basterebbe « che l’atto trovi il suo fondamento nella deliberazione: ed è, quest’ultimo il caso più frequente, perché, come già osservava il De Gregorio, i terzi non sono generalmente gli immediati destinatari della dichiarazione di volontà (sociale) nulla o annullata, ma stringono, sulla base della deliberazione assembleare, rapporti con la società » e poi, estesamente e con considerazioni riguardanti anche le persone giuridiche diverse dalle società di capitali, RAGUSA, op. cit., specialmente 256-258, che ritiene di poter superare l’argomento di Romano-Pavoni secondo cui l’ordinamento non ammetterebbe la tutela della buona fede in situazioni di diretto contatto con una dichiarazione viziata, in particolare sulla base dell’esistenza nel codice civile di diverse norme di tutela del terzo di buona fede pur in presenza di questo rapporto diretto.


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C. giust. CE, Sez. VI - 15 maggio 2003 (in causa C. n. 214/00) - Commissione contro Regno di Spagna - Pres. R. Schintgen, - Rel. V. Skouris - Avv. Gen. P. Leger. Unione europea - Comunità Europea - Inadempimento di uno Stato Direttiva 89/665/CEE - Procedure di ricorso in materia di appalti pubblici - Trasposizione - Nozione di amministrazione aggiudicatrice - Organismo di diritto privato. Unione europea - Comunità Europea - Inadempimento di uno Stato Direttiva 89/665/CEE - Procedure di ricorso in materia di appalti pubblici - Atti impugnabili - Provvedimenti provvisori. Il carattere privatistico di un organismo non costituisce motivo per escludere la qualificazione dello stesso come amministrazione aggiudicatrice ai sensi dell’art. 1, lett. b), delle direttive 92/50, 93/36 e 93/37 e, pertanto, dell’art. 1, n. 1, della direttiva 89/665. L’effetto utile della direttiva 89/665, non sarebbe preservato qualora l’applicazione della relativa disciplina potesse essere esclusa con riferimento a quegli organismi che, in base alla disciplina nazionale, sono costituiti e regolati nelle forme e secondo il regime del diritto privato (1). La normativa spagnola, che impone, come regola generale, la previa proposizione di un ricorso di merito quale condizione per adottare un provvedimento provvisorio contro una decisione dell’amministrazione aggiudicatrice, non può essere considerata adeguata al fine di porre rimedio in modo effıcace alle violazioni commesse dalle amministrazioni aggiudicatrici (2). Il testo integrale della sentenza è stato pubblicato sul n. 4/2003 della Rivista.

(1-2)

La Corte di giustizia ancora come il Benvenuto Cellini dei diritti processuali nazionali: tutela cautelare e processo amministrativo spagnolo (o europeo?).

SOMMARIO: 1. Il problema della tutela cautelare amministrativa ante causam ed il caso di specie. — 2. Il ragionamento seguito dalla Corte di giustizia per giungere ad affermare la non ottemperanza del regno di Spagna ai principi della direttiva ricorsi in tema di tutela cautelare. — 3. Riflessione sulla normativa di diritto interno alla luce della pronuncia in commento. — 4. Valutazione prognostica sull’esito del procedimento di pronuncia pregiudiziale avente ad oggetto l’art. 21 l. Tar come novellato dalla l. n. 205 del 2000. — 5. La sentenza in commento come una tappa ulteriore verso la costruzione di un diritto processuale europeo della tutela cautelare? — 6. Epi-


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taffio della tutela cautelare amministrativa dipendente dall’instaurazione del giudizio principale.

1. È ai più noto come sia tuttora dibattuto, nell’alternarsi di voci contrastanti, il tema della congruità di un processo amministrativo di diritto interno privo di una tutela cautelare amministrativa ottenibile indipendentemente dalla proposizione di un ricorso principale. Una recente pronuncia della Corte di giustizia delle Comunità europee offre l’occasione di tornare sull’argomento per svolgere qualche considerazione e, forse, tentare di intravedere l’epilogo della vicenda (1). Prima, tuttavia, di correre con la fantasia e prospettare possibili ricadute sul diritto processuale amministrativo interno, è preferibile restare aderenti al caso di specie e ricostruire, seppur brevemente, la vicenda. Dopo la condanna della Grecia (2), è questa la volta di un analogo provvedimento nei confronti del regno di Spagna. La Commissione conviene in giudizio quest’ultimo, proponendo un ricorso diretto a farne dichiarare l’inadempimento rispetto al recepimento della direttiva ricorsi 89/665 in materia di appalti pubblici. In particolare, sono tre le omissioni fatte valere contro la parte convenuta, ovvero: la mancata estensione del sistema di ricorsi garantiti dalla direttiva in oggetto alle decisioni adottate da tutte le amministrazioni aggiudicatrici; la possibilità di proporre ricorso non solo contro gli atti conclusivi della procedura, ma anche contro i singoli atti procedurali che la precedono e preparano; la mancata previsione della possibilità di adottare qualsiasi tipo di misura cautelare utile in relazione alle decisioni prese dalle amministrazioni aggiudicatrici, eliminando a questo (1) La pronuncia qui in commento è Corte giust., sent. 15 maggio 2003, c. 214/2000, Commissione c. Spagna, sez. VI, in Guida al dir., n. 26 del 2003, 93 ss. Pronosticava che la questione si sarebbe riproposta proprio per effetto dell’imminente sopraggiungere di questa pronuncia R. VILLATA, Due anni dopo, in questa Rivista, 2003, 333 ss., spec. 335. (2) Il riferimento è a Corte giust., sent. 19 settembre 1996, c. 236/1995, Commissione c. Repubblica ellenica, sez. V, in Racc., 1996, I, 4459 ss.


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fine, in specie, la previa necessità di proporre un ricorso di merito contro le stesse. La sentenza, come si vede, è ricca di spunti. Le prime due questioni, in particolare, consentiranno agli studiosi del diritto amministrativo sostanziale ulteriori riflessioni e approfondimenti sulle nozioni di organismo di diritto pubblico e di atto procedurale impugnabile. Per quanto mi riguarda, vorrei invece soffermarmi sul terzo dei motivi di ricorso, relativo alla compatibilità con i principi emergenti dalla direttiva ricorsi e, più in generale, con l’ordinamento comunitario, della normativa spagnola in tema di processo amministrativo. 2. Semplificando i termini della questione, è possibile limitarsi a dire che la normativa spagnola di recepimento della disciplina comunitaria in materia di appalti pubblici dettata con la direttiva 89/665, non contempla la possibilità di proporre domanda di tutela cautelare indipendentemente dalla previa proposizione di un ricorso principale (in verità, vi sono tre limitatissime eccezioni a questa regola generale, relative l’una all’ipotesi in cui l’amministrazione è tenuta, in forza di una disposizione, di un contratto o di un atto, ad effettuare una prestazione concreta in favore di una o più persone determinate, l’altra ai casi in cui l’amministrazione non dà esecuzione a propri atti definitivi, e, l’ultima, alle vie di fatto; cosı̀ gli artt. 29 e 30 della legge spagnola n. 29 del 1998, sulla giurisdizione del contenzioso amministrativo). La Commissione inviava quindi una lettera di diffida al governo spagnolo, denunciando la non coincidenza tra la normativa interna di recepimento delle direttive ricorsi e queste ultime, ma la replica non fu ritenuta adeguata alle richieste di modifica suggerite dalla Commissione che, infine, propose il ricorso per inadempimento che ha portato alla pronuncia in commento. In particolare, la Commissione rileva che la normativa spagnola non prevede alcuna possibilità di adottare provvedimenti provvisori in mancanza di un ricorso nel merito, circostanza questa non negata dal governo spagnolo, che ribatte tuttavia di


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ritenere insensata la previsione di una cautela ante causam, data la provvisorietà di questi provvedimenti e, quindi, la loro accessorietà rispetto ad un altro provvedimento comunque necessario e principale. Inoltre, il governo spagnolo si richiama agli artt. 242-243 tratt. CE e all’art. 83 reg. proc. Corte, dai quali emerge inconfutabilmente che nell’ordinamento comunitario la domanda di provvedimenti provvisori è sempre accessoria ad un ricorso in annullamento (3). In appena cinque punti di motivazione (4), la Corte di giustizia, secondo quell’argomentare sintetico che le è proprio, accoglie il motivo di ricorso della Commissione relativo alla materia dei provvedimenti provvisori. A giudizio del supremo giudice comunitario, infatti, occorre partire dal quinto considerando alla direttiva 89/665, in base al quale la brevità delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici richiede un trattamento urgente delle violazioni delle pertinenti norme del diritto comunitario o nazionale che inficino tali procedure; l’art. 2, n. 1, lett. a), della direttiva, poi, obbliga gli Stati membri ad abilitare gli organi di ricorso a prendere, con la massima sollecitudine e con procedura d’urgenza, i provvedimenti tesi a riparare o a impedire la violazione denunciata. Del resto, prosegue la Corte, già essa aveva avuto modo di pronunciare sul punto, nella sentenza Commissione c. Grecia, nella quale, in applicazione proprio del summenzionato art. 2, aveva affermato che gli Stati membri sono tenuti a conferire ai loro organi competenti a conoscere dei ricorsi la facoltà di adottare, indipendentemente da ogni azione previa, qualsiasi provvedimento provvisorio, compresi quelli volti a sospendere o a far sospendere la procedura di aggiudicazione di un appalto. La normativa spagnola, caratterizzata dagli elementi sopra ricordati, non può essere considerata un sistema di tutela giurisdizionale provvisorio adeguato, in quanto impone, come regola generale, la previa proposizione di un ricorso di merito quale condizione per adottare un provvedimento provvi(3) V. Corte giust., sent. 15 maggio 2003, cit., punti 82-85 e 89-91 della motivazione. (4) V. Corte giust., sent. 15 maggio 2003, cit., punti 95-101 della motivazione.


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sorio contro una decisione dell’amministrazione aggiudicatrice; pertanto, il regno di Spagna è venuto meno agli obblighi ad esso incombenti in forza della direttiva 89/665 (5). 3. La pronuncia qui in commento si presta ad almeno due ordini di considerazioni. Il primo potrebbe riguardare, a mio avviso, una valutazione della disciplina normativa di diritto interno, esaminata sotto la luce della prospettiva emergente dall’impostazione del giudice comunitario. Il secondo, poi, potrebbe considerare la lenta e tuttavia progressiva opera di rifinitura, sconfinante talvolta in un sottile ed autorevole stravolgimento, che la giurisprudenza comunitaria va compiendo da almeno un ventennio sui diritti processuali nazionali, con particolare riferimento all’ambito della tutela cautelare, giungendo a sistemare progressivamente, uno sull’altro, principi che si potrebbero considerare di diritto processuale generale europeo. Iniziamo dal primo degli argomenti prospettati. La considerazione della normativa interna, a seguito di questa pronuncia, non è mero esercizio a scopo di diletto interpretativo. Il nostro paese, infatti, si trova in una posizione molto simile a quella del soccombente regno di Spagna: il quadro non è, precisamente, quello di un’azione per inadempimento ma quello forse più ameno di un ricorso in via di interpretazione pregiudiziale ai sensi dell’art. 234 tratt. CE. Ripercorro sinteticamente le tappe della storia, che a questo punto azzarderei di aggettivare non infinita. Il giudice amministrativo italiano, sia in materia di giurisdizione di legittimità che esclusiva, può accordare al ricorrente in via urgente le « misure cautelari più idonee » alla tutela in via provvisoria della posizione giuridica soggettiva affermata abbisognevole di tutela, cosı̀ rendendo possibile non solo la fruizione del tradizionale potere di sospensione dell’esecuzione dell’atto (5) La direttiva del Consiglio è la n. 665 del 21 dicembre 1989 ed è pubblicata in G.U.C.E., serie L/395 del 30 dicembre 1989, sul coordinamento delle disposizioni relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori.


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amministrativo impugnato, ma altresı̀ di qualsivoglia misura cautelare, anche a contenuto positivo, data l’atipicità della clausola generale introdotta dall’art. 3 della l. n. 205 del 2000 (6). All’evidenza dell’ispirazione al modello processualcivilistico di cui all’art. 700 c.p.c., tuttavia, non è corrisposto il recepimento, nella riformata tutela cautelare amministrativa, della facoltà di richiederla anteriormente all’instaurazione del giudizio principale; tale mancato coordinamento ha suscitato più di una critica autorevole (7). Nel volgere di breve tempo, la questione approdò alla Corte costituzionale (8) la quale, con una serie di argomentazioni più (6) V. la l. 21 luglio 2000, n. 205, in G.U., 26 luglio 2000, n. 173, ed in Guida al dir., n. 30 del 2000, p. 8 ss. Per alcuni commenti rinvio a B. SASSANI-R. VILLATA (a cura di), Il processo davanti al giudice amministrativo, commento sistematico alla legge n. 205 del 2000, Torino, 2001, 19 ss.; G. LEONE, Brevi note a margine della legge n. 205 del 2000. Un passo avanti verso il « giusto processo amministrativo? », in questa Rivista, 2001, 645 ss.; F. CARINGELLA-M. PROTTO (a cura di), Il nuovo processo amministrativo dopo la legge 21 luglio 2000 n. 205, Milano, 2001, 181 ss.; M. ROSSI SANCHINI, La nuova tutela cautelare, in Gior. dir. amm., 2000, 1090 ss.; A. AUSILI, La tutela cautelare e sommaria del giudice amministrativo nel quadro della nuova giurisdizione delineata dalla legge 21 luglio 2000 n. 205: profili problematici ed una prima ipotesi ricostruttiva, in Trib. amm. reg., 2000, II, 415 ss.; C. CACCIAVILLANI, Giudizio amministrativo di legittimità e tutele cautelari, Padova, 2002, 131 ss.; L. QUERZOLA, La tutela cautelare nella riforma del processo amministrativo: avvicinamento o allontanamento dal processo civile?, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2001, 173 ss. (7) Per tutti, v. E.F. RICCI, Profili della nuova tutela cautelare del privato nei confronti della p.a., in questa Rivista, 2002, 276 ss., spec. 304 ove l’a., a proposito della mancata previsione della cautela ante litem nel processo amministrativo, afferma di non comprendere la scelta del legislatore che « (...) ha preferito il modello più arcaico a modelli più avanzati (...) la prudenza è stata forse più forte di quanto meritasse, mentre il coraggio è stato forse inferiore allo sperato (...) ». Afferma l’inesistenza di settori « off limits ai poteri cautelari del giudice amministrativo », non solo per ciò che attiene ai profili contenutistici ma anche per quanto ne riguarda gli aspetti formali e procedurali, M. MONTANARI, Giurisdizione amministrativa e misure cautelari tipiche del processo civile, in questa Rivista, 2003, 35 ss., spec. 50. Prima ancora dell’entrata in vigore della l. n. 205 del 2000, avvertiva l’esigenza ed auspicava l’adeguamento della cautela amministrativa a quella civilistica L. MONTESANO, Provvedimenti d’urgenza ante causam nei giudizi amministrativi, in Riv. dir. proc., 1998, 1192 ss. (8) V. Tar Lombardia, terza sezione, ord. n. 1 del 15 febbraio 2001, sul n. 2 del 2001 della rivista telematica giust.it. Per un commento all’ordinanza di rimessione, mi permetto un rinvio a L. QUERZOLA, La nuova tutela cautelare amministrativa è già davanti alla Consulta: una ipotesi di responso, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2001, 821 ss.


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o meno condivisibili, respinse la questione (9). Ad avviso di voci autorevoli, tuttavia, il problema non poteva considerarsi risolto (10). Ed infatti la Corte di giustizia riapre i giochi. Anzi, è curioso notare come proprio uno degli argomenti su cui aveva fatto leva il giudice remittente, ovvero la compatibilità del sistema di diritto interno con il quadro di principi emergente dalla direttiva ricorsi, argomento liquidato dalla Consulta in appena un rigo in cui detto richiamo è qualificato, senza motivare, come non pertinente, sia l’architrave su cui poggia tutto il ragionamento seguito dalla Corte di giustizia nella pronuncia in commento. È indubbio che dall’art. 2 della direttiva comunitaria in parola possa trarsi una suggestione inconfutabile nel senso dell’ammissibilità, per non dire della necessarietà, di una tutela cautelare sciolta da vincoli temporali rispetto al merito. La Corte di giustizia, secondo il modus motivandi che le appartiene, tutto all’insegna della semplicità e della limpidezza del ragionamento, ha ben presente questo punto, che sviluppa senza peraltro spendersi in eccessivo zelo argomentativo. Non può non soccorrere alla memoria la parimenti scarna motivazione resa nel caso Factortame (11): con quest’ultima si sradicava un albero secoV. anche E. DI PALMA, Tutela cautelare ante causam e giudice amministrativo: un problema che sembrava risolto, in questa Rivista, 2002, 148 ss. (9) V. Corte cost., ord. 10 maggio 2002, n. 179, sul n. 5 del 2002 della rivista telematica giust.it. Per un commento, mi permetto di rinviare a L. QUERZOLA, L’atteso responso della Consulta: lascino ogni speranza i sostenitori della tutela cautelare amministrativa ante causam ?, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2002, 1431 ss. (10) V. R. VILLATA, op. cit., 334-335; M. MONTANARI, op. cit., 51. (11) V. Corte giust., sent. 19 giugno 1990, The Queen c. Secretary of State for transport (ex parte Factortame), in Racc., 1990, I, 2433 ss. La letteratura di commento a questa pronuncia è sterminata, mi limito pertanto alla dottrina italiana, rinviando per tutti a C. CONSOLO, L’ordinamento comunitario quale fondamento per la tutela cautelare del giudice nazionale (in via di disapplicazione di norme legislative interne), in questa Rivista, 1991, 261 ss.; ID., Fondamento « comunitario » della giurisdizione cautelare, in Giur. it., 1991, I, 1, 1123 ss.; A. TESAURO, Tutela cautelare e diritto comunitario, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1992, 131 ss.; R. CARANTA, Effettività della garanzia giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione e diritto comunitario: il problema della tutela cautelare, in Foro amm., 1991, 18 ss.; M. SICA, Diritto comunitario e giustizia amministrativa: prime riflessioni a margini di una recente sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee, in Riv. dir. proc., 1991, 1119


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lare dal giardino dell’ordinamento giuridico anglosassone, oggi lo si è fatto, con la stessa pacata fermezza, rispetto ad un principio generale ed acquisito dell’ordinamento spagnolo. Ma su queste considerazioni, per spingermi forse un po’ oltre, tornerò in seguito. Ora vorrei prendere in considerazione, rimanendo sempre in ambito comunitario, un ulteriore argomento sviluppato dal governo spagnolo, al fine di sostenere la compatibilità con la normativa dell’Unione della propria legislazione, e precisamente quello relativo alla sola proponibilità in causa della domanda cautelare nel processo comunitario in senso stretto (12), come dispongono gli artt. 83, § 1, reg. proc. Corte e 104, § 1, reg. proc. Trib. (13). La Corte di giustizia non si (pre)occupa affatto dell’argomento sollevato, tanto da non prenderlo in considerazione neppure per un minimo accenno di confutazione. Questo atteggiamento della Corte è mio avviso parzialmente criticabile, perché, anziché far pensare quello che a parer mio si deve ritenere per le ragioni che spiegherò brevemente, ovvero che l’argomentazione è inconferente e dunque non meritevole di ragionamenti persuasivi della sua infondatezza, potrebbe invece sollecitare l’attenzione di alcuni a volerlo sottolineare come argomento a sostegno della compatibilità con la normativa comunitaria delle legislazioni nazionali che non contemplano una tutela cautelare ante causam. Il paragone tra direttiva ricorsi e processo comunitario in senso stretto non regge alla prova del tema « cautela solo in causa o anche ante causam » perché, mentre l’art. 2 della diretss.; F. DE LEONARDIS, La tutela cautelare: principi comunitari ed evoluzione della giurisprudenza amministrativa europea, in questa Rivista, 1993, 670 ss.; M. MUSCARDINI, Potere cautelare dei giudici nazionali in materie disciplinate dal diritto comunitario, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1991, 1057 ss. (12) V. Corte giust., sent. 15 maggio 2003, cit., punto 91 della motivazione. (13) In argomento v. P. BIAVATI-F. CARPI, Diritto processuale comunitario, 2a ed., a cura di BIAVATI, Milano, 2000, 288. Mi permetto di rinviare anche a L. QUERZOLA, Appunti sulle condizioni per la concessione della tutela cautelare nell’ordinamento comunitario, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2001, 501 ss., spec. 503, e alla bibliografia ivi citata su questo aspetto alla nota 8.


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tiva 89/665 appartiene al livello comunitario inteso in senso ampio, e dunque comprensivo di norme destinate a trovare un’applicazione più o meno diretta, a seconda che siano contenute in regolamenti o direttive, nel diritto interno degli Stati membri, il processo comunitario in senso stretto è rito che regola solo ed esclusivamente le azioni esperibili in quell’ordinamento sui generis ed autonomo che è l’ordinamento comunitario. 4. Come noto ai più, la dibattuta questione dell’ammissibilità, anche nel processo amministrativo di diritto interno, della tutela cautelare ante causam, liquidata negativamente dalla Consulta, è approdata davanti ai supremi giudici comunitari per iniziativa del Tar Lombardia; la materia oggetto del contendere è, ancora una volta, quella degli appalti (14). Le argomentazioni addotte dal giudice del rinvio pregiudiziale, che ritiene di disapplicare nel caso sottopostogli l’art. 21 legge Tar in quanto preclusivo della concessione della tutela cautelare ante causam, fanno perno, essenzialmente, sulla direttiva ricorsi e sulle pronunce rese dalla Corte di giustizia nei casi Factortame e Commissione c. Grecia. Altrove avevo già preso in considerazione i termini del problema (15). Per la serie « il lupo perde il pelo ma non il vizio », va da sé che l’ulteriore riproposizione della questione, se pur in termini leggermente diversi, ma non tanto da mutare la sostanza del problema, abbia sollecitato la mia attenzione, portandomi, (14) V. Tar Lombardia-Brescia, d. pres. 10 marzo 2003 n. 266, sul n. 3 del 2003 della rivista telematica giust.it. Per la ricostruzione della vicenda, mi permetto di rinviare a L. QUERZOLA, La parola alla Corte di giustizia sulla tutela cautelare amministrativa ante causam, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2003, 701 ss. La spinta europeistica dei giudici lombardi era viva da tempo, sempre da là proveniva l’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale. Sul punto v. G. SPADEA, La terza sezione del Tar Lombardia apre ad una giustizia cautelare amministrativa più effettiva ed europea, in Foro amm., 1998, 1160 ss.; A. PULEO, Nuovi orientamenti della giustizia amministrativa in tema di tutela cautelare, ivi, 1997, 2144 ss. (15) Mi sembra corretto dire, per quel che può rilevare, che avevo espresso parere nettamente favorevole all’accoglimento da parte della Consulta della questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 21 legge Tar, cosa poi non verificatasi, vicenda per cui rinvio a L. QUERZOLA, L’atteso responso della Consulta, cit., 1431 ss.


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attraverso una serie di argomenti che per la ragione di cui sopra ritengo di non richiamare, a sbilanciarmi nel senso di prevedere che la Corte di giustizia ritenga l’incompatibilità della tutela cautelare amministrativa di diritto interno con il livello dello standard minimo di tutela affermatosi a livello comunitario (16). Qui vorrei solo limitarmi ad aggiungere qualche altra considerazione. Il pericolo da evitare è quello di leggere la sentenza qui in commento come risolutiva di ogni questione al riguardo e già declaratoria del tramonto definitivo della tutela cautelare amministrativa di diritto interno come ottenibile solo a giudizio principale già instaurato. Certo è che, tuttavia, la Corte di giustizia apre uno spiraglio più che consistente, tanto da far ritenere, almeno a mio avviso, che la soluzione che verrà data alla questione pregiudiziale oggetto del procedimento coinvolgente il diritto processuale cautelare amministrativo italiano spazzerà via, con la forza della persuasività dei venti provenienti dal plateau Kirchberg, ogni voce dissonante sull’argomento. Basti pensare, a questo proposito, che la soluzione adottata nei confronti del regno di Spagna nella pronuncia qui in commento, poggia fondamentalmente sull’unico pilastro dell’art. 2 della direttiva ricorsi, rispetto alla quale il riferimento alla sentenza resa in Commissione c. Grecia è posto come mero richiamo ad un precedente giurisprudenziale sulla stessa materia. La Corte avrebbe potuto sviluppare ben altri argomenti, cosa che probabilmente farà nella sentenza di interpretazione pregiudiziale, avendogliene fra l’altro offerto il destro il giudice del rinvio: il principio di effettività della tutela giurisdizionale, affermato in modo costante dalla giurisprudenza e dalle fonti normative comunitarie (17); le pronunce che, in applicazione di (16) V. L. QUERZOLA, La parola alla Corte di giustizia, cit., 704 ss. (17) La prima affermazione giurisprudenziale del principio di effettività, e precisamente del diritto ad un ricorso effettivo, è rinvenibile in Corte giust., sent. 15 maggio 1986, Johnston c. Chief constable of the Royal Vester Constabulary, in Racc., 1986, 1651 ss., spec. 1682, punto 19 della motivazione. Il principio è stato poi sviluppato nei suoi logici corollari, ovvero, sinteticamente, nell’affermazione dell’obbligo di motivazione del provvedimento giurisdizionale (v. Corte giust., sent. 15 otto-


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detto principio, sono seguite a Factortame, incidendo sui diritti processuali nazionali di più di uno Stato membro (18); l’affermazione del principio dello standard minimo di tutela; l’efficacia cogente ed inderogabile delle disposizioni comunitarie, idonee a far svanire norme interne incompatibili (19); il panorama comparatistico rinvenibile nella legislazione di alcuni, e non certo i meno importanti dal punto di vista della tradizione giuridica, dei paesi membri (20). 5. Venendo al secondo ordine di considerazioni sopra prospettato, mi pare si possa dire che la sentenza qui in commento potrebbe essere considerata, come rapidamente accennato, una sorta di anticipazione, di fausto presagio, sulla soluzione che la bre 1987, Unectef c. Heylens, in Racc., 1987, 4097 ss.); del principio di parità ed uguaglianza delle parti e di non discriminazione (v. Corte giust., sent. 10 febbraio 1994, Mund & Fester c. Hatrex, in Racc., 1994, I, 467 ss.). Sull’assicurazione del principio di effettività come perno su cui ruota tutta l’elaborazione giurisprudenziale resa dalla Corte in materia di tutela cautelare, tornerò in seguito. Fin d’ora, tuttavia, rimando in argomento, diffusamente, a P. BIAVATI, Giurisdizione civile, territorio e ordinamento aperto, Milano, 1997, 78 ss.; P. BIAVATI-F. CARPI, op. cit., 38 ss. e 300 ss. (18) Il riferimento alle pronunce rese nei casi Zuckerfabrik, Atlanta e Krüger è evidente, ma su esse tornerò oltre nel testo. (19) La Corte di giustizia ha più volte affermato che le disposizioni di una direttiva devono essere attuate « (...) con efficacia cogente incontestabile (....) uno Stato membro non può eccepire disposizioni, prassi o situazioni del proprio ordinamento giuridico interno per giustificare l’inosservanza degli obblighi e dei termini prescritti da una direttiva (...) ». Cosı̀ la Corte, e all’unisono l’avvocato generale Léger, in Corte giust., sent. 19 settembre 1996, Commissione c. Grecia, cit., punti 18-24 della motivazione, 4465-4472. (20) L’auspicio a che la Corte proceda ad un’analisi comparatistica dei vari sistemi interni agli Stati aderenti, onde rilevare tratti comuni e divergenze, è espresso da W. DÄNZER-VANOTTI, Der Gerichtshof des Europäischen Gemeinschaften beschränkt vorläufigen Rechtsschutz, in Betriebs-Berater, 1991, 1015 ss., spec. 1018. Non è qui possibile aprire una parentesi organica sul panorama comparatistico, del quale mi limiterei a sottolineare la tendenza verso l’assicurazione di una cautela tanto successiva quanto preventiva rispetto all’instaurazione della causa di merito. In argomento, rinvio a S. CASSESE, Il problema della convergenza dei diritti amministrativi: verso un modello amministrativo europeo?, in Riv. trim. dir. pubbl. com., 1992, 23 ss.; M. FROMONT, La convergence des systémes de justice administrative en Europe, in Riv. trim. dir. pubbl., 2001, 125 ss.; A. MASUCCI, La riforma francese dei procedimenti di urgenza davanti al giudice amministrativo, in Gior. dir. amm., 2001, 444 ss.; L. PASSANANTE, La riforma del processo civile inglese: principi generali e fase introduttiva, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2000, 1353 ss.


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Corte è stata chiamata ad adottare in via di interpretazione pregiudiziale in materia di tutela cautelare amministrativa di diritto interno. Esulando per un momento dal panorama solo italiano, e collocando la pronuncia attesa nel quadro più ampio che è configurabile scorrendo le pronunce rese dalla Corte di giustizia ex art. 234 (allora 177) tratt. CE in materia di tutela cautelare prevista dai diritti interni degli Stati membri, si potrebbe immaginare, a mio avviso con un ragionevole margine di prossimità al vero, che la pronuncia, purtroppo non imminente, sull’art. 21 legge Tar nazionale, andrà a porsi come la naturale evoluzione del percorso lento, ma implacabile, che vede ad oggi i suoi punti fermi e fondanti in materia di tutela cautelare in Factortame, Zuckerfabrik, Atlanta e Krüger. I passaggi sono noti agli appassionati dell’argomento, ma è opportuna una sintetica ricostruzione al fine di trarre qualche ulteriore conclusione. L’influenza che il diritto comunitario, massimamente attraverso l’opera della giurisprudenza, è andata progressivamente esercitando sui diritti processuali nazionali degli Stati membri è tema pacifico e pur in continuo sviluppo (21). Non fu cosı̀ fin (21)

Sul tema del ruolo della giurisprudenza dei giudici comunitari, v. P. BIA-

VATI, La funzione unificatrice della Corte di giustizia delle Comunità europee, in Riv.

trim. dir. proc. civ., 1995, 273 ss.; A. BRIGUGLIO, Pregiudiziale comunitaria e processo civile, Padova, 1996, 849 ss. Sull’avvicinamento dei diritti processuali nazionali alle persuasive e « cogenti » suggestioni derivanti dal livello comunitario, v. per tutti P. BIAVATI, Diritto comunitario e diritto processuale civile italiano fra attrazione, autonomia e resistenze, in Dir. un. eur., 2000, 717 ss., spec. 722, ove l’a., dimostrato che è possibile parlare di un diritto giudiziario europeo, afferma la necessità che l’interprete, e in specie il giudice nazionale prenda atto che non si può « (...) non tenere conto dei riflessi del diritto comunitario (...) al momento di leggere ed applicare il diritto processuale civile interno (...) »; nulla di diverso può valere, a mio avviso ed evidentemente, per il diritto processuale amministrativo interno. Ancora C. CONSOLO, L’ordinamento comunitario quale fondamento per la tutela cautelare del giudice nazionale, cit., 271, ove si legge come non si possa negare che si sia in cammino nella direzione della « (...) costruzione del nuovo diritto europeo, che tocca infine appieno la dimensione processuale (...) »; D. DE CAROLIS, Atti negativi e misure cautelari del giudice amministrativo, Milano, 2001, spec. 125, ove l’a. si sofferma sull’ipotesi dell’enucleazione di « un modello cautelare comunitario costituzionalizzato », e 187 per la anormalità, nel quadro suddetto, dell’assenza di una cautela ante causam, specie nelle ipotesi di interessi pretensivi e di inerzie amministrative, nonché in quelle sem-


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dall’inizio; nei suoi primi anni di attività, la Corte di giustizia, quale giudice dell’interpretazione pregiudiziale, ha affrontato questioni di ordine generale e, solo successivamente, in modo corrispondente e proporzionale all’accrescersi dell’importanza della tutela cautelare nei sistemi nazionali, è stata investita di questioni riguardanti quest’ultima (22). Ponendo a fondamento del suo percorso logico e creativo il principio di effettività della tutela giurisdizionale, al quale sopra accennavo, e sviluppandolo al massimo grado proprio in quell’ambito del diritto processuale che più di ogni altro, e talvolta solo, lo può custodire, e cioè la tutela cautelare ed urgente, la Corte di giustizia ha fissato una serie di principi che, riferiti in prima battuta al singolo diritto processuale nazionale di volta in volta « sotto esame », esprimono, ad una lettura più liberale e scevra da inutili confini preclusivi, uno scheletro, costituito da clausole generali, atti ad orientare interpreti e legislatori. I punti fermi posti fino ad ora potrebbero, sinteticamente, pre più numerose in cui la p.a. agisce nelle forme del diritto comune; S. KADELBACH, Diritto comunitario e giustizia cautelare amministrativa, in Riv. trim. dir. pubbl., 2000, 343 ss., spec. 345; R. CARANTA, Diritto comunitario e tutela giuridica di fronte al giudice amministrativo italiano, ivi, 2000, 81 ss., spec. 107 per il rilievo secondo cui la giurisprudenza della Corte di giustizia evidenzia « (...) la formazione di un sistema di giustizia amministrativa comune ai paesi membri (...) »; A. AUSILI, op. cit., spec. 423 ove, in ordine all’eventuale introduzione di una cautela amministrativa ante causam, l’a. saluta positivamente l’allineamento del nostro ordinamento alle regole vigenti in sede comunitaria; M. MARESCA, Principi generali di diritto comunitario sulla disciplina del processo, in Dir. un. eur., 1997, 341 ss.; M.P. CHITI, L’effettività della tutela giurisdizionale tra riforme nazionali e influenza del diritto comunitario, in questa Rivista, 1998, 499 ss., spec. 501 ove l’a. afferma che nelle riforme in corso « (...) non considerare adeguatamente l’influenza comunitaria appare un errore capitale (...) », e 521 ove, accertata la rilevanza dell’influenza del diritto comunitario sulla giustizia nazionale, ed amministrativa in particolare, l’a. denuncia la scarsa consapevolezza diffusa di questa situazione (e mi pare che la pronuncia della Consulta qui in commento ne sia ulteriore conferma); F.F. TUCCARI, Considerazioni sulla tutela preventiva nel processo amministrativo, in questa Rivista, 1999, 869 ss., spec. 895 per il rilievo secondo cui le fonti comunitarie « contengono più elementi favorevoli che neutrali all’ammissibilità della tutela cautelare preventiva nel processo amministrativo e, comunque, non vi ostano in alcun modo. (22) V. A. ARNULL, The European Union and its Court of Justice, Oxford, 1999, 143, sull’iniziale ritrosia della Corte ad intervenire in modo deciso sui diritti nazionali e sui loro processi.


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individuarsi nelle tappe sopra elencate, e precisamente: inidoneità di qualsivoglia soggetto a sottrarsi alla tutela urgente in virtù di uno status particolare, ovvero, volgendolo in positivo, assoggettabilità di qualunque persona fisica o giuridica alla pronuncia di provvedimenti cautelari (23); analogamente a quanto accade nel processo comunitario in senso stretto, al quale la Corte espressamente si richiama, il contenuto della misura cautelare idonea a soddisfare il bisogno di tutela urgente dell’istante deve potersi concretizzare sia in un provvedimento a mero contenuto sospensivo, sia in uno che abbia contenuto positivo e accordi misure anticipatorie (24); infine, quanto al momento di proposizione della domanda, si può immaginare che l’emananda sentenza propiziata dal rinvio pregiudiziale del giudice amministrativo italiano, proseguendo il cammino iniziato dalla Corte di giustizia in Commissione c. Grecia e ribadito ora in Commissione c. Regno di Spagna, affermerà, ancora una volta sulla base del supremo valore dell’effettività della tutela giurisdizionale, che la domanda di tutela urgente deve potersi proporre anche anteriormente all’instaurazione del giudizio principale. (23) Cosı̀ si può argomentare dalla soluzione adottata nel caso Factortame, per cui rimando sopra alla nota 11. (24) Cosı̀, rispettivamente, in Corte giust., sent. 21 febbraio 1991, Zuckerfabrik c. Hauptzollamt Itzehoe, in Racc., 1991, I, 415 ss., punti 17-32 della motivazione, e in Corte giust., sent. 9 novembre 1995, Atlanta c. Bundesamt für Ernärung und Fortwirtshaft, in Racc., 1995, I, 3761 ss., punti 20-30 della motivazione. Il principio espresso in Atlanta è poi ribadito in termini pressochè identici da Corte giust., sent. 17 luglio 1997, Krüger c. Hauptzollamt Hamburg-Jonas, in Racc., 1997, I, 4517 ss. La bibliografia sulle pronunce ora menzionata è vastissima, ex multis rinvio a G. TESAURO, Tutela cautelare e diritto comunitario, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1992, 135 ss.; A. ARNULL, op. cit., 167 ss.; W. VAN GERVEN, Bridging the gap between community and national law: towards a principle of homogeneity in the field of legal remedies?, in Comm. mark. law rev., 1995, 679 ss., spec. 684 ss.; W. DÄNZER-VANOTTI, op. cit., 1015 ss.; L. LIMBERTI, Principio di effettività della tutela giurisdizionale e diritto comunitario: a proposito del potere del giudice nazionale di concedere provvedimenti cautelari « positivi », in Riv. it. dir. pubbl. com., 1996, 991 ss., spec. 997; M.P. CHITI, Misure cautelari positive ed effettività del diritto comunitario, in Gior. dir. amm., 1996, 338 ss.; A. MASUCCI, La lunga marcia della Corte di Lussemburgo verso una « tutela cautelare europea », in Riv. it. dir. pubbl. com., 1996, 1155 ss.; R. CARANTA, L’ampliamento degli strumenti di tutela cautelare e la progressiva « comunitarizzazione » delle regole processuali nazionali, in Foro amm., 1996, 2554 ss.


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Certamente, da qui a poter parlare di configurazione di un’autonoma nozione comunitaria di provvedimento cautelare, la strada è lunga ed irta di difficoltà (25). Tuttavia, mi pare innegabile che le pronunce ricordate, e quella che attendiamo, consentano di evidenziare una costante tensione dei giudici di Lussemburgo verso la creazione di un sistema processuale europeo omogeneo, funzionale non solo al ristretto ordinamento comunitario, ma anche al potenziamento dello spazio giudiziario integrato fra paesi membri. In quest’ottica non si deve dimenticare il potente effetto attrattivo di cui il diritto comunitario si è automunito, non solo attraverso la funzione giurisprudenziale di interpretazione pregiudiziale, bensı̀ per mezzo dello strumento di cui all’art. 65 (già 73 M) tratt. CE, il cui punto c) prevede, espressamente, la cooperazione degli Stati nell’eliminazione degli ostacoli al corretto svolgimento dei procedimenti civili, « se necessario promuovendo la compatibilità delle norme di procedura civile applicabili negli Stati membri » (26). Il percorso qui abbozzato richiederebbe ben altra ponderazione, che, risalendo dalle origini al presente della produzione (25) Contrario a tale configurazione è C. CONSOLO, Van Uden e Mietz: un’evitabile Babele, in Int’l Lis, n. 1/2002, 30 ss., spec. 33. (26) Sulle ricadute del trattato di Amsterdam ed i possibili scenari da esso aperti, v. P. BIAVATI, Le prospettive di riforma della convenzione di Bruxelles, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1999, 1201 ss., spec. 1205 cui rimando anche per la bibliografia ivi citata. Sulla formazione di un diritto processuale comune europeo, v. G. WALTER, L’influenza del diritto europeo sul diritto processuale nazionale, in Atti del XXIII convegno nazionale dell’Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile, Perugia, 28-29 settembre 2001, LIV quaderno, Milano, 2002, 335 ss.; G.C. RODRIGUEZ IGLESIAS, Sui limiti all’autonomia procedimentale e processuale degli Stati membri nell’applicazione del diritto comunitario, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2001, 5 ss., spec. 23 ss. sulla circostanza che la materia della tutela cautelare sia quella in cui più rilevanti sono stati gli effetti del diritto comunitario sugli ordinamenti nazionali; A. MASUCCI, op. cit., 1165 ss., per il rilievo secondo cui la Corte di giustizia ha dettato « un vero e proprio diritto processuale comunitario della tutela cautelare », cosı̀ che gli effetti delle sue pronunce consentono di intravedere « un processo di armonizzazione spontaneo delle diverse discipline nazionali »; A. SAGGIO, Incidenza della giurisprudenza della Corte di giustizia sulle norme processuali nazionali, in Corr. giur., 2001, 114 ss.; M. DOUGAN, Minimum harmonization and the internal market, in Comm. mark. law rev., 2000, 853 ss.; M. HOSKINS, Tilting the balance: supremacy and national procedural rules, in Eur. law rev., 1996, 365 ss.


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giurisprudenziale dei giudici comunitari in tema di cautela, passando attraverso l’applicazione e l’elaborazione della più recente produzione regolamentare comunitaria, per giungere ad un esame serio del panorama comparatistico dei paesi membri, consentisse di avanzare ben più consapevoli e ponderate ricostruzioni. Per ora, tuttavia, mi è parso che un accenno alla « europeizzazione » della materia cautelare non fosse del tutto privo di fondamento. 6. Vorrei concludere tornando al processo amministrativo di diritto interno. A mio avviso, esso può essere considerato come l’ambito nel quale più evidente si è manifestata la forza attrattiva promanante dal livello comunitario: l’interesse legittimo, posto che di esso si possa ancora parlare con un qualche fondamento, non preferendogli invece la più appropriata e generica figura della posizione giuridica soggettiva vantata dall’istante, è tutelabile in via d’urgenza sia attraverso misure a contenuto sospensivo che a carattere positivo ed anticipatorio, come accade nel processo comunitario in senso stretto e come la Corte ha avuto modo di sottolineare in veste di giudice dell’interpretazione pregiudiziale ex art. 234 tratt. CE in Zuckerfabrik e Atlanta (27). Tale percorso è stato senza dubbio facilitato, per non dire indotto, dall’acquisizione di una concezione unitaria delle posizioni giuridiche appartenenti al patrimonio del soggetto di diritto (28); il passaggio dall’equazione « diritto uguale ad interesse » al riconoscimento della parità di armi, e quindi di (27) Colgo qui l’occasione per rammentare come nel processo comunitario in senso stretto siano previste tre diverse tipologie di misure che possiamo chiamare, senza ulteriori precisazioni, cautelari. Esse sono, in particolare, la sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato, prevista dagli artt. 242 tratt. CE, 157 tratt. CEEA, 39, comma 2, tr. Ceca; « i provvedimenti provvisori necessari », ex artt. 243 tratt. CE, 158 tratt. CEEA, 39, comma 3, tratt. CECA; infine, la sospensione dell’esecuzione forzata di un titolo esecutivo, prevista dagli artt. 244 e 256 tratt. CE, 164 e 159 tratt. CEEA, 92 e 44 tratt. CECA. A queste tre misure si può poi aggiungere la previsione della facoltà, in capo alla Corte di giustizia, di sospendere l’esecutorietà delle decisioni del Tribunale di primo grado impugnate davanti alla prima. In dottrina, v. P. BIAVATI-F. CARPI, op. cit., 287; K.P.E. LASOK, The European Court of Justice, practice and procedure, Londra, 1994, 230. (28) È inevitabile su questo spunto un riferimento a Cass., sez. un., 22 luglio


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tutela, ha fatto sı̀ che anche nel diritto amministrativo interno, in adeguamento ai parametri comunitari ove la distinzione tra posizioni giuridiche soggettive è sconosciuta, si dovesse riconoscere all’istanza del ricorrente uguaglianza di tutela, definitiva o provvisoria, e quindi si sia aperto al contenuto atipico della misura uno strumento cautelare che pareva ormai inadeguato a funzionare efficacemente per il solo tramite della sospensiva, funzionale al modello cassatorio del processo amministrativo, entrato in crisi (29). Dopo un trentennio di onorata carriera, l’art. 21, ult. comma, legge Tar, veniva seppellito, senza troppi clamori, e sostituito da una clausola generale alla quale molti paiono faticare ad affezionarsi. Sempre con riferimento al contenuto della misura, analogamente a quanto è avvenuto nel processo amministrativo di diritto interno per mano del legislatore, anche nel processo amministrativo spagnolo, in seguito alle pronunce rese dalla Corte di giustizia e ricordate in precedenza, si è espressamente riconosciuto 1999, n. 500, in Foro it., 1999, I, c. 2487 ss., ivi commentata dalla migliore dottrina, e in Guida al dir., n. 31/1999, p. 36 ss. Per ulteriori commenti alla pronuncia, rimando a E. FAZZALARI, Responsabilità aquiliana e compiti dei giudici, civile ed amministrativo, in Riv. dir. proc., 2000, 289 ss.; S. MEZZACAPO, I rapporti tra giudizio amministrativo e civile devono trovare un nuovo punto di equilibrio, ivi, 48 ss., e in Foro it., 1999, I, 2487 ss.; A. DI MAJO, Il risarcimento degli interessi « non più solo legittimi », in Corr. giur., 1999, 1376 ss.; V. MARICONDA, « Si fa questione d’un diritto civile.... », ivi, 1381 ss.; G. GRECO, Interesse legittimo e risarcimento dei danni: crollo di un pregiudizio sotto la pressione della normativa europea e dei contributi della dottrina, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1999, 1126 ss.; A. LEDDA, Agonia e morte ingloriosa dell’interesse legittimo, in Foro amm., 1999, 2713 ss.; L. TORCHIA, La risarcibilità degli interessi legittimi: dalla foresta pietrificata al bosco di Birman, in Gior. dir. amm., 1999, 844 ss.; A. ORSI BATTAGLINI-P. MARZUOLI, La Cassazione sul risarcimento del danno arrecato dalla pubblica amministrazione: trasfigurazione e morte dell’interesse legittimo, in Dir. pubbl., 1999, 487 ss.; D. DALFINO, La fine del dogma dell’irrisarcibilità dei danni per lesione di interessi legittimi: luci ed ombre di una svolta storica, in Foro amm., 1999, p. 2007 ss. In generale, sulle principali correnti innovatrici che hanno riguardato negli ultimi anni la giustizia amministrativa, rimando a E. CASETTA, Le trasformazioni del processo amministrativo, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1999, 689 ss.; E. FOLLIERI, Lo stato dell’arte della tutela risarcitoria degli interessi legittimi. Possibili profili ricostruttivi, in questa Rivista, 1998, 253 ss. (29) V. V. DOMENICHELLI, La parità delle parti nel processo amministrativo, in questa Rivista, 2001, 859 ss., spec. 861 ss.; E. CASETTA, op. cit., 689 ss.; A. PULEO, op. cit., 2144 ss.


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il principio per cui provvedimenti cautelari a contenuto anticipatorio devono poter essere adottati anche nei confronti della pubblica amministrazione (30). Rimaneva in sospeso il dubbio concernente il momento in cui la parte potesse fare istanza per ottenere le misure in questione, se solo una volta che fosse stato instaurato il giudizio principale o anche prima di questo. La Corte di giustizia ha tolto il cruccio all’operatore del diritto spagnolo. Immagino, e personalmente mi auguro, che sorte migliore non possa toccare anche al processo amministrativo di diritto interno. E forse, accanto a quella della sospensiva, andrà tra poco a stagliarsi la lapide che annuncia il tramonto della tutela cautelare amministrativa necessariamente legata alla previa pendenza del giudizio principale (ovvero, seconda clausola di chiusura di questo commento ad hoc per coloro, forse i più, che non amano sentir parlare di epitaffi, vedremo il nastro rosa che annuncia l’ingresso a pieno titolo, nel nostro ordinamento, della tutela cautelare amministrativa ante causam) (31). LEA QUERZOLA

(30) Cosı̀ ha riconosciuto il Tribunal Superior de Justicia, sala del contenzioso amministrativo, per un commento alla quale rinvio a E. GARCIA DE ENTERRIA, La batalla por las medidas cautelares, Madrid, 1995, 225 ss., spec. 229. (31) Non è fra questi A. ROMANO, Giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa dopo la legge n. 205 del 2000 (epitaffıo per un sistema), in questa Rivista, 2001, 602 ss., il quale affronta il tema a monte, ed ancor più spinoso, dell’opportunità, o forse a questo punto della necessità per ragioni di coerenza sistematica, dell’abolizione della separazione fra le due giurisdizioni, sostenuto in questa posizione da autorevoli voci, ovvero A. PROTO PISANI, Verso il superamento della giurisdizione amministrativa?, in Foro it., 2001, V, 21 ss.; C. CONSOLO, Il processo amministrativo fra snellezza e « civilizzazione », in Corr. giur., 2000, 1265 ss. Di questa non si può dire che sia tutta un’altra storia, ma è certamente abbastanza complessa da poter essere lasciata ad altre pagine.


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recensioni

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ILLEGITTIMITÀ DELLA PROCEDURA PUBBLICISTICA E SUE INTERFERENZE SULLA VALIDITÀ DEL CONTRATTO

SOMMARIO: 1. Impostazione della problematica. — 2. La tesi della Cassazione. — 3. La tesi dei giudici amministrativi. — 4. Le norme di diritto pubblico come norme imperative. — 5. Aggiudicazione e contratto: natura e nessi. — 6. La trasmissibilità delle invalidità provvedimentali sull’accordo: l’errore di diritto.

1. La tematica delle possibili interferenze tra illegittimità della procedura pubblicistica ed invalidità del contratto costituisce un aspetto fondamentale, ma a tutt’oggi problematico, nella disciplina dei contratti ad evidenza pubblica, cioè di quegli accordi della pubblica amministrazione in cui l’operazione negoziale è anticipata da un sistema procedimentale che ne condiziona le più importanti vicende. L’eventualità che uno o più degli atti amministrativi inseriti nella fase pubblicistica sia viziato pone di fronte all’interrogativo di come eventuali anormalità procedimentali possano incidere sulla validità del contratto. L’illegittimità potrebbe interessare ciascuno degli atti o delle sottofasi di cui si compone la sequenza pubblicistica: dal bando di gara alla deliberazione di contrarre; dal provvedimento di aggiudicazione alla fase del controllo. Il regime dei vizi che possono inficiare gli atti della sequenza procedimentale è quello della triade ordinaria propria del diritto amministrativo: violazione di legge, incompetenza, eccesso di potere; anche ammettendo un’automatica ripercussione di tali profili di illegittimità sull’accordo, occorre accertare se e come tali vizi possano trasformarsi in patologie del contratto. In assenza di indicazioni normative ad hoc, la giurispruDir. Proc. Amm. - 1/2004


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denza, per qualificare le ripercussioni delle illegittimità procedimentali sul contratto ad evidenza pubblica, ha impiegato categorie civilistiche: in sostanza, l’alternativa vagliata dai giudici è stata quella di considerare il contratto nullo, annullabile o inefficace. Prima di considerare i principali orientamenti compresenti nella giurisprudenza di merito e di legittimità sulla tematica che si è cosı̀ delineata, ponendo le premesse al ragionamento che si andrà a svolgere, pare opportuno menzionare qualche elemento di teoria generale del contratto, ben noto ma essenziale. Tralasciando per un momento la categoria dell’inefficacia, ricordiamo le caratteristiche essenziali delle restanti due specie di invalidità. Una ricostruzione che opti per reputare nullo il contratto dovrà, nel rispetto della tassatività dei casi di invalidità, riferirsi ad una delle cause di nullità previste all’art. 1418 c.c., ossia, la violazione di norme imperative, la mancanza di uno degli elementi essenziali del contratto, l’illiceità della causa o, talvolta, dei motivi, nonché la mancanza dei requisiti stabiliti per l’oggetto dell’accordo. Diversamente, il contratto potrà essere ritenuto annullabile, qualora taluno degli elementi essenziali sia viziato nei termini di quanto disposto dall’art. 428 c.c., a proposito del contratto concluso dall’incapace, e dagli artt. 1427 c.c. ss. riguardanti il contratto stipulato per errore, violenza e dolo. Deve però essere precisato da subito che il richiamo all’annullabilità, cosı̀ come elaborato dalla giurisprudenza della Cassazione, non si è svolto nell’ambito dei vizi tipici previsti dal codice civile, non potendosi riscontrare, nei casi di illegittimità provvedimentale, errore, violenza o dolo, a danno della controparte pubblica, ma si è basato sul riscontro di un vizio atipico, genericamente ricondotto ad un difetto di volontà dell’amministrazione. Invero, l’individuazione di un vizio atipico ascrivibile alla categoria dell’annullabilità è parsa il risultato dell’intento di evitare l’operare delle conseguenze di una qualificazione del


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DIRITTO PROCESSUALE AMMINISTRATIVO

contratto in termini di nullità, piuttosto che di un qualsivoglia ragionamento analogico (1). 2. L’opzione tra annullabilità e nullità del contratto ha visto assestarsi su posizioni differenti, da un lato, la giurisdizione ordinaria e, dall’altro, la giurisdizione amministrativa (2). Ripercorrendo le massime della giurisprudenza della Cassazione, quest’ultima pare propendere nettamente per la tesi dell’annullabilità del contratto concluso in seguito ad un procedimento ad evidenza pubblica in qualche modo viziato. Le decisioni della Suprema Corte dal 1985 ad oggi (ma l’orientamento si è consolidato in epoca precedente) affermano pianamente che i vizi della fase pubblicistica riguardano il processo di formazione della volontà dell’ente e la sua capacità, dunque comportano l’annullabilità del contratto deducibile, in via d’azione o di eccezione, dalla sola amministrazione (3). Questa argomentazione non distingue tra le ipotesi patologiche relative all’esternazione della volontà e quelle in cui l’invalidità riguardi la fase ad essa precedente: ciò per far rientrare nella ricostruzione fornita sia le illegittimità relative al bando di gara ed alla deliberazione a contrarre sia quelle relative al provvedimento di aggiudicazione. La qualificazione del vizio non è univoca: talvolta, specie (1) Si ritiene, in contrasto con la tendenza segnalata, che la scelta tra le due opzioni, cioè la qualificazione del contratto come annullabile o nullo, debba essere un prius logico, debba cioè avvenire sulla base di considerazioni attente a rispettare la natura giuridica del tipo di invalidità e la sua qualificazione normativa, più che a valutare il trattamento previsto per quel particolare stato viziato, che risulta una semplice conseguenza. (2) La contemporanea presenza degli orientamenti dei due ordini di giurisdizioni si spiega con l’assenza sul punto di una giurisdizione esclusiva per i contratti delle pubbliche amministrazioni. Di conseguenza, nel nostro ordinamento l’organizzazione bifasica del contratto ad evidenza pubblica implica, specularmente, un dualismo di giurisdizioni: il giudice amministrativo, in quanto giudice dei provvedimenti amministrativi è dotato della cognizione sulle controversie aventi ad oggetto gli atti della fase pubblicistica, il giudice civile, invece, conosce delle questioni relative ai diritti derivanti dal contratto e, in particolare, di quelle relative all’esecuzione del medesimo. (3) Cass., Sez. II, 8 maggio 1996, n. 4269, in Giust. civ. Mass., 1996, 689.


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nella giurisprudenza dei primi anni ’90, l’applicazione degli artt. 1441, 1442, comma 4 c.c. viene spiegata in riferimento ad un difetto di capacità dell’ente in cui si tradurrebbero le irregolarità concernenti il processo di formazione della volontà dell’amministrazione (4). In altre decisioni si è parlato di « difetto di presupposti del contratto che dà luogo a difetto di legittimazione » (5), quasi individuando un’ipotesi di incapacità di agire dell’ente pubblico. L’annullamento viene disposto sia nei casi di illegittimità formali che inficino gli atti della fase dell’evidenza pubblica sia nei casi in cui si riscontri un vizio di eccesso di potere « con rilevanza esterna » (6), che porti cioè alla stipulazione di un contratto in tutto o in parte diverso da quanto deliberato dall’organo competente. Anche in tale evenienza, poiché l’eccesso di potere provocherebbe un difetto relativo al consenso dell’ente, lo stato viziato ricorrente è qualificabile come annullabilità. L’orientamento volto ad individuare l’annullabilità del contratto non pare ad oggi messo in discussione dal giudice civile (7). Invero, di recente la Cassazione (8) ha riformato una decisione di merito che aveva ritenuto annullabile un contratto di locazione concluso dall’ente pubblico nonostante la delibera di (4) Cass., Sez. III, 8 luglio 1999, n. 7529, in Giust. civ. Mass., 1999, f. 7. (5) Cass., Sez., I, 20 novembre 1985, n. 5712, in Rass. avv. Stato, 1986, I, 208. (6) Cass., Sez., III, 17 aprile 1989, n. 1682, in Giust. civ. Mass., 1989, 89. (7) Cass., Sez. II, 8 maggio 1996, n. 4269, cit.:« Tale indirizzo trova il suo fondamento razionale nel fatto che gli atti amministrativi i quali devono precedere la stipulazione dei contratti iure privatorum della p.a. non sono altro che mezzi di integrazione della capacità e della volontà dell’ente pubblico, sicché i loro vizi, traducendosi in vizi attinenti a tale capacità e a tale volontà, non possono che comportare l’annullabilità del contratto, deducibile, in via d’azione o d’eccezione, soltanto da detto ente ». Conforme, ex multis, Cass., Sez. I, 10 aprile 1978, n. 1668, in Giust. civ., I, 1248. Tra i giudici amministrativi: Tar Lombardia, Milano, Sez. III, 23 dicembre 1999, n. 5049, in Corr. giur., 2000, 391, con nota di A. DI MAJO, Danno ingiusto e danno risarcibile nella lesione di interessi legittimi; in Giust. civ., 2000, I, 1573 con nota di C. CACCIAVILLANI, Il risarcimento del danno da atto amministrativo illegittimo; in Foro it., 2000, III, 198, con nota di L. CARROZZA, F. FRACCHIA, Art. 35 d.lgs. n. 80 del 1998 e risarcibilità degli « interessi meritevoli di tutela ». Prime applicazioni giurisprudenziali. (8) Cass., Sez. III, 9 gennaio 2002, n. 193, in Giust. civ. Mass., 2002, 35.


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stipulazione fosse stata annullata dal Co. re. Co. In proposito la Corte ha ritenuto che il contratto avrebbe dovuto essere dichiarato nullo e non semplicemente annullabile, ai sensi del combinato operare degli artt. 1418, comma 2 e 1325 n. 1 c.c., in quanto l’annullamento della delibera di giunta da parte dell’organo di controllo avrebbe reso totalmente assente, e non solo viziata, la volontà contrattuale del soggetto pubblico. Questa decisione è parsa segnalare una modificazione importante nell’orientamento della Cassazione, tuttavia, la portata dell’innovazione andrebbe forse ridimensionata. Tale pronuncia, infatti, se letta nel contesto della casistica giurisprudenziale relativa ai vizi che possono invalidare il contratto ad evidenza pubblica, sembrerebbe costituire un caso del tutto particolare. Infatti, i precedenti della Cassazione che rilevavano l’annullabilità del contratto hanno spesso riguardato vicende in cui mancava una pronuncia demolitoria dell’atto amministrativo controverso; viceversa, nella fattispecie decisa con la sentenza in questione, la manifestazione di volontà dell’amministrazione era stata annullata in sede di controllo. Inoltre, nel caso di specie, l’opposizione dell’organo tutorio rendeva la volontà non solo viziata, ma del tutto assente: perciò il Collegio ha ritenuto che non si facesse questione di validità del contratto, ma di efficacia del medesimo. Sul punto, la Cassazione pare aver accavallato due concetti: la nullità, come sanzione del contratto di locazione, e l’inefficacia, derivante dall’annullamento avvenuto in sede di controllo preventivo di legittimità. Infine, non pare trascurabile il fatto che alla base del giudizio ci fosse un provvedimento di diniego espresso nell’esercizio dei poteri di approvazione tutoria, area in cui il giudice civile ha ragionato spesso applicando categorie diverse da quelle impiegate qualora il profilo di illegittimità riguardasse la scelta del contraente privato o le fasi precedenti all’aggiudicazione. La casistica giurisprudenziale offre anche diverse declaratorie di inefficacia del contratto concluso dall’amministrazione e, anche di recente, pronunce di nullità del contratto. L’inefficacia


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ex tunc, deducibile da entrambi i contraenti (9), ha riguardato tutte quelle ipotesi in cui il negozio difettasse dell’approvazione dell’organo competente, intesa come condicio iuris sospensiva dell’efficacia. Talvolta, infine, stando alle pronunce della Cassazione, il contratto sarebbe nullo qualora sia ravvisabile un elemento di straripamento di potere (10). 3. Passando a considerare la giurisprudenza amministrativa, le numerose decisioni in tema inquadrano la problematica dei rapporti tra illegittimità della procedura pubblicistica e vizi del contratto avendo riguardo alle peculiarità dei contratti ad evidenza pubblica rispetto ai negozi « ordinari » del diritto privato e, in particolare, all’attitudine della serie procedimentale a condizionare l’efficacia degli atti della serie negoziale (11). L’orientamento dei giudici amministrativi a proposito del vizio inficiante il contratto non pare cosı̀ univoco come quello descritto in punto di giurisdizione civile. In molte pronunce non è risultato chiaro, in assenza di richiami espliciti, se l’invalidità dichiarata dal giudice amministrativo ripercorresse i canoni delle norme civilistiche sui contratti: anche laddove si parli di nullità, si avverte contestualmente che « la nozione di nullità (c.d. strutturale) per difetto del consenso mal si addice ad un effetto caducatorio sopravvenuto quale è quello derivante dall’annullamento dell’aggiudicazione » (12). Talvolta la giurisprudenza amministrativa ha utilizzato for(9) Cass., Sez. II, 8 maggio 1996, n. 4269, cit.; Cass., Sez. III, 24 aprile 2001, n. 6032, in Giur. it., 2002, 2251; Cass., Sez. I, 1o dicembre 2000, n. 15344, in Giust. civ., 2001, I, 1285; Cass., Sez. I, 5 maggio 1999, n. 4490, in Giust. civ. Mass., 1999, 1015; Cass., Sez., III, 8 luglio 1991, n. 7529, in Rass. avv. Stato, 1991, 490; Cass., Sez. I, 11 maggio 1990, n. 4051, ivi, 1990, I, 235. (10) Tale ipotesi, non riscontrabile nella giurisprudenza recente, è ipotizzata da Cass., Sez. II, 8 maggio 1996, n. 4269, cit. (11) Ribadisce tali approdi Cons. Stato, Sez. V, 24 ottobre 2000, n. 5710, in Foro amm., 2000, 3191; Cons. Stato, Sez. VI, 14 gennaio 2000, n. 2444, in Cons. St., 2000, 65. (12) Cosı̀ Tar Sicilia, Catania, Sez. I, 25 novembre 2002, n. 2261, in www.LexItalia.it.


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mule atecniche, senza richiamare, almeno non esplicitamente, le invalidità del codice civile. Cosı̀ sono state spesso impiegate espressioni quali « caducazione degli effetti del contratto » (13), « impossibilità di esplicazione di effetti giuridici », « travolgimento del contratto » (14), « automatica rimozione dell’atto consequenziale » (15) « conseguente caducazione del contratto » (16) a significare che l’annullamento degli atti della fase pubblicistica importa, quasi come conseguenza automatica, l’invalidità del contratto stipulato successivamente. L’impiego di tali locuzioni lascerebbe arguire che i giudici amministrativi hanno inteso ricorrere alla teorica pubblicistica dell’atto presupposto-atto derivato, tuttavia, salvo i casi che si segnalano di seguito, sovente è mancata una adeguata giustificazione delle scelte operate in relazione alla sorte del contratto. Invero, un certo filone della giurisprudenza amministrativa (17) aveva aderito anche alla tesi della Cassazione, negando al giudice la possibilità di condannare l’amministrazione appaltante al risarcimento in forma specifica in favore della ditta non aggiudicataria qualora il contratto di appalto fosse già stato stipulato, ciò in quanto il contratto avrebbe dovuto considerarsi annullabile e non automaticamente caducato. Tale tendenza è rimasta espressione di un orientamento isolato e non è riuscita ad affermarsi come indirizzo dominante. A precisare l’orientamento della giurisprudenza amministrativa favorevole ad invalidare il contratto sono intervenute, progressivamente, alcune decisioni particolarmente significative. Con un primo filone giurisprudenziale, risalente ai primi anni ’70 (fino ad alcune decisioni più recenti specie nel primo (13) Cons. Stato, Sez. V, 25 maggio 1998, n. 677, in Giur. it., 1998, 2416 « l’annullamento dell’aggiudicazione di un appalto pubblico implica la caducazione degli effetti del contratto già eventualmente concluso con detta impresa la quale è titolare di un interesse legittimo al riguardo ». (14) Cons. Stato, Sez. V, 30 maggio 1993, n. 435, in Giur. it., 1994, III, 1, 18 « L’annullamento giurisdizionale dell’originaria aggiudicazione della gara travolge il conseguente contratto successivamente stipulato nonché l’approvazione di questo ». (15) Cons. Stato, Sez. V, 30 maggio 1993, n. 435, cit. (16) Cons. Stato, Sez. IV, 8 ottobre 1985, n. 430, in Foro amm., 1985, 1841. (17) Tar Lombardia-Milano, Sez. I, 23 dicembre 1999, n. 5049, cit.


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quinquennio degli anni ’90), il Consiglio di Stato (18) ha inquadrato la problematica dei rapporti tra illegittimità pubblicistiche e contratto ad evidenza pubblica nella sistematica delle invalidità derivate (19). Quest’ottica portava a concludere che l’annullamento, giurisdizionale o amministrativo, dell’atto di aggiudicazione di una gara pubblica, nella sua qualità di atto presupposto e come tale necessario ed indefettibile per la conclusione del contratto stipulato tra l’amministrazione ed il privato, producesse un effetto caducatorio sul contratto medesimo. Sicché, senza ricorrere alla categoria civilistica della nullità del contratto, il giudice amministrativo ha ritenuto che « l’annullamento dell’atto presupposto (nella specie l’aggiudicazione) determini ex se l’automatica rimozione dell’atto consequenziale, senza bisogno che quest’ultimo formi oggetto di autonoma o separata impugnativa » (20). Un diverso filone giurisprudenziale ha poi optato per l’invalidazione del contratto facendola discendere dal giudicato amministrativo e dal dovere, incombente sull’amministrazione che vedeva annullarsi un atto della fase preparatoria al contratto, di ottemperare alla decisione pronunciata (21). A partire dalla metà del 2002, il giudice amministrativo ha approfondito il tema del rapporto tra tutela riparatoria, derivante dall’annullamento dell’atto illegittimo, e tutela risarcitoria, in forma specifica e per equivalente, propendendo per la nullità del contratto ai sensi dell’art. 1418 c.c. Si è trattato di casi in cui l’impresa ricorrente agiva per ot(18) Cons. Stato, Sez. V, 12 dicembre 1972, n. 1047, in Cons. St., 1972, I, 2181; Cons. Stato, Sez. V, 25 ottobre 1974, n. 430, ivi, 1974, 1233; Cons. Stato, Sez. V, 18 ottobre 1984, n. 761, in Foro amm., 1984, 1759; Cons. Stato, Sez. V, 30 marzo 1993, n. 435, in Giur. it.,1994, III, 1, 18. (19) Ancora di recente il Consiglio di Stato, pur in un inquadramento della nullità contrattuale nell’ambito dell’art. 1418 c.c., ha enfatizzato il rapporto di consequenzialità necessaria tra procedura pubblica e contratto successivamente stipulato, Cons. Stato, Sez. VI, 5 maggio 2003, n. 2332, in Urb. e app., 2003, 918, con nota di G. MONTEDURO; ivi si segnala anche l’analisi di S. FANTINI, Gli effetti sul contratto dell’annullamento dell’aggiudicazione: profili di effettività della tutela giurisdizionale, ivi, 2003, 751. (20) Cons. Stato, Sez. V, 30 maggio 1993, n. 435, cit. (21) Cons. Stato, Sez. V, 30 maggio 1993, n. 435, in Giur. it., 1994, III, 1, 18.


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tenere l’annullamento dell’aggiudicazione avvenuta in favore di un’avversaria e, in più, chiedeva al giudice l’aggiudicazione dell’appalto oggetto della lite. Con l’intento di dotare la sentenza di annullamento di effetti satisfattivi per il ricorrente che lamentasse delle illegittimità intercorse nella fase pubblicistica, la giurisprudenza amministrativa ha ritenuto di dover dichiarare la nullità del contratto concluso tra l’amministrazione e l’aggiudicatario. Secondo tale nuovo indirizzo (22), in seguito alla declaratoria di nullità del contratto il giudice avrebbe avuto anche il potere di procedere ad aggiudicare direttamente il contratto alla ricorrente, ordinando all’amministrazione un facere. Questo sarebbe potuto accadere soltanto qualora vi fossero, oltre alla domanda di parte, tutti i presupposti della reintegrazione in forma specifica: ossia la perdurante possibilità materiale di effettuare la reintegrazione (nella specie occorrerà che l’appalto non sia già stato eseguito) e la non eccessiva onerosità di tale forma di reintegrazione per l’assetto degli interessi pubblici. Considerando in termini più generali la tesi favorevole alla nullità del contratto ad evidenza pubblica, procediamo ad enucleare alcune delle ragioni di questa presa di posizione, cercandole sia nelle decisioni recenti che nei limiti individuabili dall’applicazione della tesi dell’annullabilità. Tra le pronunce che optano per la nullità, taluna (23) richiama espressamente l’art. 1418 c.c., soffermandosi sul concetto di imperatività per ritenere che la violazione delle norme sull’evidenza pubblica integri una violazione di legge in grado (22) Cfr. Tar Campania, Sez. I, 29 maggio 2002, n. 3177, in Foro amm. Tar, 2002, 2579, con nota di M. MONTEDURO, Illegittimità del procedimento ad evidenza pubblica e nullità del contratto d’appalto ex art. 1418 comma 1 c.c.; in Gior. dir. amm., 2002, 1195, con nota di V. CERULLI IRELLI, L’annullamento dell’aggiudicazione e la sorte del contratto; in Urb. e app., 2002, 1212, con nota di O.M. CAPUTO, Nullità del contratto di appalto, risarcimento in forma specifica e pregiudiziale amministrativa. Un’impossibile conciliazione; Tar Sicilia, Catania, Sez. I, 25 novembre 2002, n. 2261, in www.LexItalia.it; Trga Bolzano, 12 febbraio 2003, n. 48, in www.LexItalia.it. (23) Tar Campania, Sez. I, 29 maggio 2002, n. 3177, cit.; da ultimo sulla nullità virtuale si veda Cons. Stato, Sez. V, 5 marzo 2003, n. 1218.


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di comminare la nullità ai sensi del comma 1 di detto articolo. Ciò perché le norme che prescrivono il modo di scelta del contraente, volte a salvaguardare la par condicio tra i concorrenti alla gara, ad assicurare l’imparzialità e l’efficienza dell’azione amministrativa, nonché il principio comunitario della concorrenza, sarebbero poste a tutela di imprescindibili interessi della collettività e dovrebbero essere intese come norme imperative, come tali protette dalla previsione dell’art. 1418, comma 1 c.c. Tale orientamento, sviluppato ed approfondito da alcuni giudici di primo grado, pare essere condiviso anche dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (24) che, in relazione al rapporto tra l’annullamento degli atti di gara ed il contratto di appalto nelle more stipulato tra l’amministrazione e l’aggiudicatario, ha rivalutato la tesi della nullità individuandola, peraltro, in nuce in una recente decisione della Cassazione (25). Anche ragionando intorno agli effetti del giudicato (26) si è pervenuti alle medesime conclusioni ed è stato sostenuto che la nullità del contratto deriverebbe dall’operare dell’effetto ripristinatorio della sentenza di annullamento pronunciata dal giudice amministrativo sugli atti dell’evidenza pubblica (27). Per non vanificare l’effetto ripristinatorio-conformativo della sentenza di annullamento dell’aggiudicazione, nelle ipotesi in cui l’istanza di parte comprenda anche una domanda risarcitoria in forma specifica, questa dovrebbe poter comportare, qualora le circostanze del caso lo permettano (si pensi al caso in cui nella procedura selettiva oggetto del giudizio si siano avute solo due of(24) Cons. Stato, Ad. plen., 29 gennaio 2003, n. 1 in www.giustiziaamministrativa. (25) Il Consiglio di Stato fa riferimento a Cass., Sez. III, 9 gennaio 2002, n. 193, cit. (26) Tar Campania, Sez. I, 29 maggio 2002, n. 3177, cit. (27) Alla base di questa interpretazione giurisprudenziale pare si rinvengano anche delle preoccupazioni in ordine al profilo della giurisdizione del giudice amministrativo. Infatti, ammettere che la nullità del contratto derivi automaticamente dall’operare dell’effetto ripristinatorio consentirebbe di concentrare le questioni di validità del contratto davanti al giudice amministrativo, a prescindere dall’esistenza o meno della giurisdizione esclusiva del medesimo. In quest’ottica la caducazione del contratto configurerebbe quasi una sorta di diritto consequenziale all’annullamento dell’atto presupposto.


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ferte ammesse) anche l’accertamento della spettanza dell’aggiudicazione a favore della ricorrente (28). Proprio la valorizzazione delle previsioni in tema di risarcimento del danno relative alla reintegrazione in forma specifica ha portato taluni Collegi (29) a ritenere che in quell’ambito si trovasse conferma della configurazione come nullità dell’invalidità del contratto conseguente all’annullamento dell’aggiudicazione. Infatti, la possibilità di condannare l’amministrazione alla reintegrazione in forma specifica, pure in sede di giurisdizione di legittimità, avrebbe dovuto importare la demolizione del vincolo contrattuale formatosi su presupposti illegittimi e la sostituzione del ricorrente all’aggiudicatario laddove questi provasse che avrebbe avuto titolo all’aggiudicazione se lo svolgimento della gara fosse avvenuto in modo conforme alla legge, secondo i canoni della giurisprudenza sulla perdita di chances. Salva ovviamente la possibilità di risarcimento in forma equitativa qualora la prestazione oggetto della gara fosse già stata in tutto o in parte eseguita (30). Inoltre, da più parti è stato segnalato che la tesi della nullità (28) L’attenzione rivolta all’operare concreto degli effetti dell’annullamento con il timore che la tesi dell’annullamento del contratto provochi « un’eccessiva espansione di fatto della scelta discrezionale della stazione appaltante in ordine alla prosecuzione del rapporto contrattuale instaurato con l’impresa illegittimamente prescelta » e, conseguentemente, una « sostanziale vanificazione dell’effetto ripristinatorio della sentenza pronunciata dal giudice amministrativo » parrebbe inserirsi coerentemente in un certo filone della giurisprudenza amministrativa, specie dell’ultimo biennio, finalizzato a valorizzare, ampliandolo, il contenuto del giudicato amministrativo di modo che la tutela giurisdizionale fornita giunga a procurare un soddisfacimento sostanziale della posizione soggettiva lesa, cfr., Tar Campania, Napoli, Sez. I, 29 maggio 2002, n. 3177, cit. Sulla scorta di tale orientamento una certa giurisprudenza di merito è stata addirittura portata ad ammettere che il risarcimento per equivalente potrebbe essere disposto dal giudice dell’ottemperanza a completamento della tutela giurisdizionale di annullamento, nei casi in cui il rimedio ripristinatorio non avrebbe potuto conseguire risultati satisfattivi, allo scopo di garantire una tutela giurisdizionale effettiva, cfr. Tar Campania, Napoli, Sez. I, 4 ottobre 2001, n. 4485, in questa Rivista, 2002, 663. (29) Cfr. Trga Bolzano, 12 febbraio 2003, n. 48, cit. (30) Tar Molise, 11 febbraio 2003, n. 188, in www.LexItalia.it; si veda anche Cons. Stato, Sez. V, 13 marzo 2002, n, 1495, in Arch. giur. oo. pp., 2002, 424; Cons. Stato, Sez. VI, 30 gennaio 2002, n. 542, ivi, 365.


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realizzerebbe gli intenti legislativi di riforma del processo amministrativo e si coordinerebbe meglio con le disposizioni normative in tema di giurisdizione esclusiva (31). Cosı̀ si otterrebbe la concentrazione di tutti i rimedi innanzi allo stesso giudice con la concentrazione della tutela riconosciuta al ricorrente. Anche talune recenti modificazioni normative farebbero optare per la ricostruzione favorevole alla nullità del contratto. In particolare, tale interpretazione troverebbe conferma (32) nel d.lgs. n. 190 del 2002, laddove, all’art. 14, è previsto che l’annullamento dell’aggiudicazione di prestazioni pertinenti alle infrastrutture non determini la risoluzione del contratto e non sia ammessa la reintegrazione in forma specifica. Con ciò si intende che, nel caso si accertino delle illegittimità relative alla fase dell’evidenza pubblica, il contratto potrà essere annullato per esclusiva volontà dell’amministrazione, mentre al privato, escludendosi espressamente la reintegrazione in forma specifica, resterebbe unicamente il ristoro monetario per equivalente. Ebbene, considerando la previsione in questione come norma derogatoria al regime comune, espressamente prevista per non intralciare le tempistiche della realizzazione delle infrastrutture essenziali, è stato facile ritenere, a contrario, che l’esclusione della reintegrazione in forma specifica e con essa della caducazione del contratto, si giustificherebbe solo in presenza di un regime ordinario in cui, altrimenti, in caso di annullamento dell’aggiudicazione, verrebbe dichiarata la nullità del contratto medesimo. Infine, per certi aspetti, il ricorso alla nullità eviterebbe di lasciare all’amministrazione, soggetto responsabile dell’illegitti(31) Anche Cons. Stato, Ad. plen., 29 gennaio 2003, n. 1, cit.; Tar Campania, Sez. I, 29 maggio 2002, n. 3177, cit.; Tar Sicilia, Catania, Sez. I, 25 novembre 2002, n. 2261, in www.LexItalia.it; Trga Bolzano, 12 febbraio 2003, n. 48, in www.LexItalia.it (32) Trga Bolzano, 12 febbraio 2003, n. 48, cit.; Tar Sicilia, Catania, Sez. I, 25 novembre 2002, n. 2261, cit.; anche Cons. Stato, Ad. plen., 29 gennaio 2003, cit., secondo cui dette norme sono destiate a rivestire un ruolo di primaria importanza, anche in relazione al diritto comunitario; una ricostruzione della ratio sottesa a tale normativa si rinviene nel recente scritto di S. VARONE, L’invalidità contrattuale nella dialettica tra atto e negozio nell’ambito delle procedure dell’evidenza pubblica, in Foro amm. CdS, 2003, 1656.


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mità, il potere di scegliere sulla sorte del contratto (33). La legittimazione attiva dell’azione di nullità a chiunque vi abbia interesse consentirebbe a tutti i partecipanti alla gara di agire per ottenere la declaratoria di nullità. Certo è che l’incertezza di soluzioni e le divaricazioni tra giustizia ordinaria ed amministrativa paiono destinate a sparire nel settore degli appalti di lavori relativi alle infrastrutture strategiche di preminente interesse nazionale, laddove il legislatore è intervenuto con apposite disposizioni di legge. Tali argomentazioni sono in gran parte riprese da alcune recenti decisioni del Consiglio di Stato del maggio 2003 (34) che, pur richiamando la nullità virtuale del contratto sancita dall’art. 1418 c.c., comma 1, sembrano aderire piuttosto ad un’impostazione che si rinviene in alcune decisioni risalenti del Consiglio di Stato, che teorizzavano l’efficacia caducante dell’annullamento dell’aggiudicazione sul contratto ragionando in termini di atto presupposto-atto derivato. In concreto, la suddetta impostazione finisce per dichiarare la caducazione automatica del contratto tutte le volte in cui si pronunci l’annullamento di un qualsiasi atto precedente alla stipulazione, dato che la fase dell’evidenza pubblica « assume la fisionomia propria di un presupposto o di una condizione legale di efficacia del contratto ». Detto in altri termini, il contratto stipulato tra l’amministrazione ed il privato perde di efficacia qualora l’aggiudicazione, intesa come presupposto condizionante il contratto, venga annullata dal giudice con effetto retroattivo. (33) « Sono finanche evidenti le conseguenze negative sul piano sostanziale derivanti dall’orientamento favorevole all’annullabilità, in quanto l’impresa avente titolo per vincere la gara che agisca vittoriosamente per l’annullamento dell’aggiudicazione alla controinteressata, laddove sia stato medio tempore concluso il contratto, non avrà strumenti per rimuovere quest’ultimo e dovrà accontentarsi di una tutela risarcitoria laddove ne sussistano i presupposti », Tar Sicilia, Catania, Sez. I, 25 novembre 2002, n. 2261, cit. (34) Cons. Stato, Sez. VI, 5 maggio 2003, n. 2332, cit.; Cons. Stato, Sez. VI, 30 maggio 2003, n. 2992, in www.giustizia-amministrativa.it, con commento di F. CINTIOLI, Annullamento dell’aggiudicazione, buona fede e metodo giuridico, ivi l’annullamento non riguardava l’aggiudicazione bensı̀ la determinazione a contrarre in via diretta con un soggetto, omettendo del tutto il ricorso ad una procedura selettiva.


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Per evitare che l’operare retroattivo dell’inefficacia del contratto contrasti col principio di buona fede, è stato introdotto un importante temperamento che consiste nel riconoscimento della tutela del terzo in buona fede, analogamente a quanto prevede per le persone giuridiche private l’art. 23, comma 2, c.c. Ciò significa che l’invalidità del contratto non può spiegare i suoi effetti nei confronti dei diritti di terzi acquisiti in buona fede in esecuzione dell’atto poi dichiarato illegittimo. L’innesto del principio civilistico di buona fede nell’area dei contratti della pubblica amministrazione pare pienamente coerente con la duplice natura dei contratti ad evidenza pubblica che si segnalava all’inizio di questa riflessione (35). Tale recente filone giurisprudenziale parrebbe motivato anche da ragioni di giurisdizione: il meccanismo dell’effetto caducante e, dunque, l’inscindibile connessione tra illegittimità dell’atto e invalidità-inefficacia del contratto consente, di fatto, un’estensione della giurisdizione del giudice amministrativo ben oltre la procedura di affidamento della gara, come vorrebbe l’art. 6 della l. n. 205 del 2000. Si segnala cioè che la ricostruzione che qualifica la patologia del contratto come invalidità derivata, più che modificare le conseguenze derivanti dalle diverse impostazioni adottate dai giudici amministrativi sul piano del diritto sostanziale, porta con sé un notevole ampliamento sul piano della giurisdizione del giudice amministrativo. Da ultimo, la IV Sezione del Consiglio di Stato (36) ha preferito optare per la mancanza del requisito della legittimazione a contrarre, respingendo sia la tesi dell’annullabilità — per ragioni di iniquità sostanziale —, sia quella della nullità — per ragioni di certezza dei rapporti giuridici —, sia quella della caducazione automatica — perché non trova appiglio in norme di legge —. Il ragionamento svolto si basa sulla considerazione che il venir (35) Tale prospettiva interpretativa riprende la ricostruzione proposta in dottrina da G. GRECO, I contratti dell’amministrazione tra diritto pubblico e diritto privato. I contratti ad evidenza pubblica, Milano, 1986, 138 ss. (36) Cons. Stato, Sez. IV, 27 ottobre 2003, n. 6666, in www.LexItalia.it, con commento di G. VIRGA, Le conseguenze dell’annullamento in seguito dell’aggiudicazione.


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meno degli atti attraverso i quali si è formata la volontà contrattuale dell’Amministrazione la priva, conseguentemente, della legittimazione a negoziare. Si tratterebbe di un’inefficacia relativa, che può essere fatta valere da chi abbia ottenuto l’annullamento del provvedimento di aggiudicazione, in sede giurisdizionale, o dall’amministrazione, in via di autotutela, fatti salvi i diritti acquisiti dai terzi in buona fede. 4. Come si è anticipato al paragrafo precedente, il filone giurisprudenziale volto a ricostruire l’invalidità del contratto concluso in seguito ad una procedura pubblicistica illegittima nei termini della nullità ha, da ultimo (37), invocato l’applicazione del comma 1 dell’art. 1418 c.c., sostenendo che le norme relative alle procedura di scelta del contraente privato siano da qualificarsi come norme imperative. L’imperatività delle disposizioni relative all’evidenza pubblica è stata desunta dai valori sottesi alla normativa de qua; specificamente, la fase pubblicistica sarebbe volta a garantire la concorrenza ed il mercato (38), il principio di imparzialità ed efficienza-efficacia dell’azione amministrativa, nonché la par condicio tra tutti i potenziali aggiudicatari del contratto che il soggetto pubblico intende stipulare (39). In quest’ottica, la sanzione della nullità del contratto ver(37) Cfr. Tar Campania, Sez. I, 29 maggio 2002, n. 3177, cit.; Cons. Stato, Ad. plen., 29 gennaio 2003, n. 1, cit.; in questo senso anche Cons. Stato, Sez. V, 13 novembre 2002, in Foro amm. CdS, 2002, 2898. (38) Spec. Cons. Stato, Ad. plen., 29 gennaio 2003, n. 1, cit. (39) Sulla posizione giuridica dei diversi concorrenti nel procedimento di gara in relazione alla legittimità dell’azione amministrativa V. Cons. Stato, Sez. V, 28 febbraio 2002, n. 1224, in Arch. giur. oo. pp., 2002, 414; Trga Trentino Alto Adige, Trento, 18 agosto 2001, n. 484, ivi, 753; interessante l’argomentazione svolta da Cons. Stato, Sez. V, 13 novembre 2002, cit., secondo cui le norme sull’evidenza pubblica « corrispondono in primo luogo all’esigenza di consentire alle amministrazioni di provvedere nel modo più economico e conveniente alla provvista di beni e servizi ed alla realizzazione di opere, ma assolvono anche alla essenziale funzione di consentire a tutti i soggetti dell’ordinamento, a parità di condizioni, alla redistribuzione delle risorse pubbliche che attraverso il sistema degli affidamenti pubblici viene effettuata (...). In tali casi l’esercizio della funzione amministrativa in contrasto con norme imperative, non dà luogo alla semplice annullabilità del provvedimento, prevista espressamente dalla legge per i soli casi di atto e/o provvedimento di tipo autoritativo, bensı̀


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rebbe imposta, quindi, dall’esigenza di salvaguardare taluni interessi pubblici di rango primario che otterrebbero tutela insufficiente dalla tesi tradizionale che propende per l’annullabilità, lasciando l’amministrazione libera di optare se permanere o meno nello stato di illegittimità da essa medesima procurato. Il filone giurisprudenziale (40) che ha optato per la ricostruzione favorevole alla caducazione automatica, piuttosto che alla nullità virtuale, non ha mancato di sottolineare che l’affermarsi della tesi della nullità implicherebbe degli inconveniente non trascurabili dal punto di vista pratico: ciò è ovvio se si considera che l’applicazione dei principi civilistici potrebbe ad ammettere una sentenza dichiarativa della nullità del contratto in ogni tempo, stante l’imprescrittibilità della medesima. Di contro, siffatta ipotesi ricostruttiva è stata avvalorata da numerosi richiami alla giurisprudenza civile che, nell’individuare la nozione di nullità, riferisce che tale tipo di invalidità « diventa uno strumento di controllo normativo utile a non ammettere alla tutela giuridica interessi in contrasto con i valori fondamentali del sistema e si differenzia dall’annullabilità, non solo perché l’atto è difforme dallo schema legale e pregiudica gli interesse del suo autore, ma perché mette a rischio i valori preminenti della comunità » (41). Questa interpretazione della giurisprudenza amministrativa suggerisce di approfondire la disciplina del contratto contrario a norme imperative, in particolare allo scopo di indagare se le norme sull’evidenza pubblica possano rientrare o meno nel concetto di norme imperative cosı̀ come elaborato in applicazione dell’art. 1418 c.c. alla nullità dell’assetto di interessi posto in essere con l’assenso del privato interessato ». (40) Cosı̀, ad esempio, Cons. Stato, Sez. VI, 5 maggio 2003, n. 2332, cit.; Cons. Stato, Sez. VI, 30 maggio 2003, n. 2992, cit.; in dottrina tale argomentazione è sviluppata da S. VARONE, L’invalidità contrattuale nella dialettica tra atto e negozio nell’ambito delle procedure dell’evidenza pubblica, cit., 1648: ivi l’Autore evidenzia acutamente le « aporie pratiche » cui la tesi della nullità potrebbe condurre. (41) Cass., Sez. I, 6 aprile 2001, n. 5114, in Corr. giur., 2001, 1062 con nota di V. MARICONDA, Intermediario finanziario non autorizzato e nullità del contratto di swap.


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A questo proposito non varrebbe argomentare che la portata precettiva di tale disposizione non opera in assenza di una espressa comminatoria di nullità, infatti è dato per pacifico in giurisprudenza che un contratto può essere nullo anche se la norma imperativa violata non prevede espressamente tale sanzione (42). Purché la legge non disponga diversamente, il contratto che violi norme imperative è nullo. Con ciò la questione cruciale resta quella di capire cosa debba intendersi per imperatività ai sensi dell’art. 1418 c.c. (43). Innanzitutto, secondo la dottrina e la giurisprudenza civilistica è pacifica l’esclusione dal novero della previsione del comma 1 di tutte quelle disposizioni che provocano, se violate, un’illiceità della causa, o un’illiceità dell’oggetto, in quanto esse rientrerebbero per certo nel disposto del comma 2 del medesimo art. 1418 c.c. Dunque, nel cercare le norme imperative capaci di generare, salva previsione di legge in senso opposto, la nullità dell’accordo, non bisogna riferirsi alle disposizioni che riguardino la funzione economica del contratto, queste ultime rientranti nel concetto di causa, né a quelle riguardanti propriamente il contenuto dell’accordo, attratte dalla nozione di oggetto del contratto. Premessa tale restrizione al campo da indagare, occorre domandarsi quando si realizzi un contrasto tra norme imperative e contratto e, nella specie, se la violazione delle regole sull’evidenza pubblica integri un’ipotesi di tale genere di invalidità. Se si considerassero norme imperative quelle dotate della caratteristica di essere tendenzialmente inderogabili ad opera (42) Cfr. Cass., Sez. III, 20 settembre 1979, n. 4824, in Giust. civ., 1980, I, 943; Cass, Sez. lav., 11 ottobre 1979, n. 5311, in Riv. not., 1980, 134. (43) Particolarmente interessanti per approfondire il tema delle norme imperative, specialmente per l’acuta rielaborazione della giurisprudenza citata, risultano i contributi di G. VILLA, Contratto e violazione di norme imperative, Milano, 1993; G. DE NOVA, Il contratto contrario a norme imperative, in Riv. crit. dir. priv., 1985, 435; più in generale sul tema delle invalidità nel diritto privato si veda l’ampia ricostruzione di R. SACCO, voce Nullità e annullabilità, in Dig. disc. priv., sez. civ., Torino, 1995, XII, 293; R. TOMMASINI, voce Invalidità (diritto privato), in Enc. dir., Milano, 1964, XXII, 575.


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delle parti allora le norme di diritto pubblico, nella maggior parte dei casi, dovrebbero considerarsi tali. Tuttavia dall’analisi delle massime elaborate dalla giurisprudenza civile si trae l’impressione che si evitino affermazioni tautologiche (come dire che le norme imperative sono norme inderogabili): seguendo un metodo prettamente casistico, l’imperatività della norma viene dichiarata in seguito ad una valutazione caso per caso sullo scopo della legge. Spesso sono state « ragioni di pubblico interesse » (44), o « motivi di ordine pubblico » (45) o « principi fondamentali e di interesse generale » (46) sottese alla normativa analizzata a svelare l’imperatività della norma. In sostanza, il contratto è stato dichiarato nullo ai sensi dell’art. 1418, comma 1 quando la trasgressione abbia riguardato norme poste a tutela di interessi superindividuali. Come regola generale possiamo affermare, quindi, che il giudice civile ha inteso come imperative e, in quanto tali, assolutamente inderogabili, quelle disposizioni poste a tutela di interessi generali, diversi ed ulteriori a quelli delle parti contraenti (47). (44) Cass., Sez. un., 21 agosto 1972, n. 2697, cit. (45) Cass., 27 novembre 1975, n. 3974, in Foro it., 1976, I, 309. (46) Cass., 4 dicembre 1982, n. 6601, in Giust. civ., 1983, I, 1172. (47) Tale regola generale si evince anche dalla casistica relativa alla violazione di norme amministrative: nella materia dell’edilizia economica e popolare la violazione di prescrizioni di legge determina la nullità del contratto per violazione di norme imperative; ad esempio la pattuizione di un prezzo più alto o più basso di quello della legge cagiona la nullità del contratto cfr. Cass., Sez. un., 11 febbraio 1982, n. 835, in Foro it., 1983, I, 1081; Cass., Sez. un., 25 maggio 1965, n. 1026, ivi, 1965, I, 1696. In tale area la nullità del contratto ai sensi dell’art. 1418, comma 1 c.c. è disposta anche qualora vengano violate le regole di designazione del soggetto a favore del quale deve avvenire il trasferimento di proprietà, cfr. Cass., Sez. I, 17 giugno 1985, n. 3642, in Nuova giur. civ. comm., 1986, I, 282; tale ipotesi, riguardando il meccanismo di scelta del contraente privato, parrebbe facilmente assimilabile alle anormalità concernenti l’evidenza pubblica. Contra si è di recente espresso A. ALBANESE, Violazione di norme imperative e nullità del contratto, Napoli, 2003: ivi l’Autore in contrasto con la ricostruzione appena riferita ritiene che il minimo comune denominatore che consente di ricondurre ad unità le ipotesi di nullità per violazione a norme imperative non possa consistere nella finalità di interesse generale della normativa violata, in quanto « l’elemento distintivo che caratterizza tutte le norme che prevedono la nullità del contratto (...) non sta nel carattere generale dell’interesse


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Tuttavia, la stessa giurisprudenza civile ha conosciuto situazioni in cui la presenza di un interesse pubblico sotteso alla normativa violata non è stata considerata sufficiente a provocare la nullità del contratto (48). L’incertezza ingenerata dall’applicazione del criterio dell’interesse pubblico appare ictu oculis; l’applicazione del comma 1 art. 1418 c.c. sembra rientrare nell’esclusivo dominio delle scelte giurisprudenziali: l’imperatività di una norma difficilmente parrebbe essere determinabile astrattamente ed a priori. D’altronde, la corrispondenza tra imperatività e protezione di interessi generali, coerentemente, potrebbe portare ad affermare la nullità del contratto stipulato in violazione dei principi sull’evidenza pubblica, trattandosi di disposizioni certamente ispirate alla tutela di interessi pubblici. Tanto più che parte della giurisprudenza civile (49) ha assegnato carattere pubblico alla libertà di concorrenza ed alla trasparenza del mercato, riconoscendo alle norme che disciplinano la scelta del contraente privato la finalità pubblicistica di garantire l’accesso a tutti i potenziali interessati che risultino meritevoli in base ai parametri di legge. Invero, uscendo dal generico riferimento alle norme sull’evidenza pubblica, non tutte le disposizioni a riguardo paiono destinate alla protezione di interessi giuridicamente rilevanti per i terzi (50). protetto, ma nelle modalità con le quali tale tutela è attuata dall’ordinamento », quindi « l’imperatività non dipende da elementi estrinseci e preesistenti alla norma stessa, ma è una qualificazione che questa riceve proprio in considerazione della nullità e delle altre conseguenze che dispone in caso di sua violazione, ponendosi come limite invalicabile per l’autonomia privata. » 21 ss. (48) G. VILLA, Contratto e violazione di norme imperative, cit., 90: ivi si evidenzia come contraddittoria la compresenza nell’orientamento segnalato di ipotesi in cui, pur in presenza di un indiscusso interesse pubblico, la giurisprudenza civile non ha optato per la nullità del contratto: « risponde ad un interesse pubblico che i cittadini paghino le imposte, ma poi si insegna in giurisprudenza che il contratto contrario alla legge fiscale è valido ». (49) Per esempio, Trib. Milano, 13 marzo 1985, in Dir. com. sc. int., 1987, 439. (50) Una distinzione all’interno degli atti della serie pubblicistica è stata acutamente svolta da F. TRIMARCHI BANFI, Questioni in tema di contratti di diritto privato dell’amministrazione pubblica, in Studi in onore di Feliciano Benvenuti, Mucchi edi-


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Esistono anche delle previsioni di carattere puramente ordinatorio, inerenti semplicemente alla distribuzione organizzativa delle competenze interne ad ogni singola amministrazione; si tratta di quelle disposizioni che taluno ha inquadrato come « discrezionalità organizzativa » (51), caratterizzate dal fatto che non dovrebbero incidere sugli interessi riguardati dalle attività amministrative finali. Le fasi dell’evidenza pubblica ascrivibili all’area della discrezionalità organizzativa, quali quelle che si concretano nella deliberazione a contrarre, relative ad esempio all’individuazione dell’organo munito del potere di guidare il procedimento amministrativo volto alla stipulazione del contratto, non parrebbero dirette a tutelare alcun interesse generale della collettività, risolvendosi in mere norme organizzative dotate esclusivamente di effetti endogeni alla struttura amministrativa di riferimento. Ne segue che, qualora il vizio del procedimento ad evidenza pubblica riguardi una violazione di dette disposizioni la sanzione della nullità del contratto non parrebbe giustificabile nei termini del comma 1 dell’art. 1418 c.c., in quanto, in assenza di un interesse generale alla base del dettato normativo, non si potrebbe invocare il concetto di norme imperative. Tuttavia, dato l’impiego di concetti cosı̀ generici, la scelta odierna dalla giurisprudenza amministrativa di ascrivere le disposizioni sull’evidenza pubblica alle norme imperative non pare eccessivamente ardita, nel rispetto della giurisprudenza citore, 1996, 1675; secondo l’Autrice occorrerebbe distinguere tra due categorie: « atti che, comunque li si voglia qualificare nel loro rapporto con il contratto (di legittimazione, di integrazione della capacità) non hanno attitudine a costituire o ledere posizioni giuridiche dei terzi, ed atti che sono manifestazione di potere pubblico, al corretto esercizio del quale sono giuridicamente interessati gli aspiranti concorrenti. (...)Poiché gli atti del primo tipo non hanno attitudine a costituire né a ledere posizioni giuridiche, tale attitudine manca altresı̀ agli atti che ne dispongono l’annullamento. (...) Discende da queste premesse che, come non sussistono interessi protetti dei terzi in relazione alla deliberazione di contrarre ed agli atti da questa collegati, cosı̀ non vi è luogo per interessi protetti in relazione all’annullamento degli stessi », 1680-81-82. (51) Tale terminologia viene impiegata nel manuale di D. SORACE, Diritto delle pubbliche amministrazioni, Bologna, 2002, 261-62.


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vile sull’art. 1418 c.c. ma è chiaro che si tratterebbe di mere valutazioni interpretative, come tali facilmente opinabili. Di recente, in uno studio sulla nullità come violazione di norme imperative, una parte della dottrina civilista (52), con specifico riferimento al tema dei contratti stipulati dalla pubblica amministrazione, ha proposto di distinguere tra violazioni cosiddette ordinatorie, relative a profili meramente procedurali, in grado di determinare la sola annullabilità del contratto, e violazioni di norme che impongono o escludono un determinato assetto di interessi, che provocano la nullità del negozio concluso dal soggetto pubblico ex art. 1418, comma 1 c.c. Tra queste ultime vengono ricomprese le illegittimità relative alla scelta del contraente privato. Si introduce, par di capire, una sorta di distinzione tra la fase della contrattazione, preordinata alla tutela di interessi interni all’organizzazione pubblica, e quella del contratto, inteso come regolamento negoziale capace di incidere sugli interessi della collettività. Tale impostazione porta con sé numerose contraddizioni ed antinomie e non sembra reggere ad una critica che consideri a fondo i principi cardine del diritto pubblico: essa dimostrerebbe, ad esempio, che anche le norme relative alla procedura di individuazione della controparte privata afferiscono alla fase pubblicistica dell’evidenza pubblica, più che a quella privatistica del rapporto contrattuale e dovrebbero, al limite, seguendo le premesse del ragionamento proposto dalla dottrina citata, portare all’annullamento del contratto piuttosto che, come prospettato, alla nullità. Inoltre, la ricostruzione in esame, nel ritenere che tra gli effetti giuridici dell’annullamento di uno dei provvedimenti dell’evidenza pubblica debba essere inclusa anche l’invalidazione del contratto, non tiene sufficientemente conto della distinzione bifasica dell’evidenza pubblica e fa discendere con automatismo, quasi si trattasse di un rapporto causa-effetto, conseguenze invalidanti per il contratto dall’esito di un giudizio avente ad oggetto il provvedimento amministrativo. (52) Ci si riferisce nel testo allo studio di A. ALBANESE, Violazione di norme imperative e nullità del contratto, cit., 212 ss.


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Risulta, inoltre, poco fondata l’idea di ritenere che il vizio relativo al vincolo di scopo (53) non si traduca mai nella violazione di una norma imperativa, in quanto la finalità indicata costituirebbe « una direttiva di massima alla quale la p.a. deve attenersi nell’esercizio della sua finalità » (54). Tale impostazione trascura che il vizio di eccesso di potere è un vizio particolarmente grave in cui può incorrere la pubblica amministrazione, in quanto sostanziandosi nello sviamento dal fine che la legge attribuisce ad una determinata autorità amministrativa, minaccia alle basi la sua stessa legittimazione e costituisce una violazione del fondamentale principio di legalità sostanziale dell’azione amministrativa. 5. La trasformazione dei vizi dell’evidenza pubblica in vizi della volontà è parsa scarsamente soddisfacente dal punto di vista teorico ed inadatta a risolvere il problema del rapporto tra procedura pubblicistica ed invalidità del contratto. Anche il ricorso alla categoria della nullità ha fatto sorgere alcune perplessità, sia a proposito del concetto di imperatività sia in merito alle conseguenze pratiche di tale qualificazione. I limiti delle teorie esposte suggeriscono di districare altrimenti il tema delle interferenze tra illegittimità provvedimentali ed invalidità del contratto. Si ritiene necessario, preliminarmente, considerare la natura giuridica degli atti in analisi, per indagare poi il nesso che li lega. In relazione alla sequenza procedimentale si farà riferimento all’aggiudicazione, in quanto eventuali illegittimità afferenti le fasi ad essa precedenti, relative ad esempio al bando di gara, potranno, di regola, essere denunciate tramite l’impugnativa dell’aggiudicazione medesima. (53) Si presume che con tale espressione ci si volesse riferire all’annullamento del provvedimento dovuto all’accertamento del vizio di eccesso di potere per sviamento. (54) A. ALBANESE, Violazione di norme imperative e nullità del contratto, cit., 222.


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Secondo una definizione costante in dottrina (55) per aggiudicazione s’intende l’atto amministrativo con natura di accertamento costitutivo attraverso cui la stazione appaltante accetta e rende nota l’offerta più vantaggiosa, attribuendo l’appalto al miglior offerente. Tale provvedimento conclude un complesso iter procedimentale volto a guidare la scelta del contraente privato nel rispetto dei principi di trasparenza, imparzialità e par condicio dei concorrenti. Si tratta, dunque, di un atto amministrativo di natura provvedimentale, dotato tuttavia di caratteristiche peculiari: infatti, contenendo la dichiarazione negoziale della stazione appaltante, esso realizza altresı̀ effetti negoziali. Conseguentemente, dal momento dell’aggiudicazione il privato deve ritenersi definitivamente obbligato (56) a quanto stabilito nell’accordo raggiunto con il soggetto pubblico. Anche l’amministrazione, da parte sua, è tenuta alla stipulazione del successivo contratto, salvo che sia necessario agire con poteri di autotutela decisoria intervenendo sul provvedimento di aggiudicazione per ragioni di interesse pubblico (57). Il contratto che viene concluso tra l’ente banditore ed il privato aggiudicatario è tendenzialmente riproduttivo di caratteri già delineati: l’accordo formale che segue l’aggiudicazione non può modificare gli elementi essenziali del rapporto cosı̀ come ri(55) A. CIANFLONE-G. GIOVANNINI, L’appalto di opere pubbliche, Milano, 1999, 492; in giurisprudenza cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 12 settembre 2000, n. 4822, in Foro amm., 2000, 3009: « l’aggiudicazione è il provvedimento amministrativo con il quale termina il procedimento di scelta del contraente da parte della p.a.: si tratta di un atto unilaterale e autoritativo con il quale la p.a. manifesta la volontà di contrarre con un determinato soggetto ». (56) A proposito dell’obbligo che incombe sull’aggiudicatario di pervenire alla stipulazione del contratto è particolarmente interessante quanto disposto in relazione alla cauzione che deve essere versata al momento della presentazione dell’offerta: cfr. Cons. Stato, Sez. V, 15 novembre 2001, n. 5843, in Giur. it., 2002, 1082; Cons. Stato, Sez. V, 9 ottobre 2000, n. 5368, in Foro amm., 2000, 3164; Cons. Stato, Sez. V, 11 aprile 1991, n. 525, ivi, 1991, 1112. (57) « Pertanto è illegittimo l’atto di revoca dell’aggiudicazione di un appalto pubblico che non sia motivato in base ad un pubblico interesse idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto diritto dell’aggiudicatario nei confronti dell’aggiudicazione », quindi il potere di revoca dell’aggiudicazione può trovare fondamento in specifiche ragioni di pubblico interesse, purché sia adeguatamente motivato, Cons. Stato, Sez. V, 30 novembre 2000, n. 6365, in Ra. giu. san., 1990, 95.


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sultano dall’espletamento della fase pubblicistica e, in particolare, dall’aggiudicazione; resta tuttavia la possibilità che, al momento della sottoscrizione del contratto, vengano corretti o introdotti alcuni elementi accessori, purché questi non incidano sulla natura e sul contenuto primario del negozio. Tutto ciò dimostra che l’aggiudicazione costituisce il baricentro dell’accordo e che da essa scaturiscono gli obblighi che legano le parti, pubblica e privata. In merito al nesso che lega l’aggiudicazione al contratto che segue, occorre tenere conto, innanzitutto, di quanto previsto dalla legge di contabilità dello Stato: l’art. 16, comma 4 prevede espressamente che « i processi verbali di aggiudicazione definitiva, in seguito ad incanti pubblici o a private licitazioni, equivalgano per ogni effetto legale al contratto ». Tale disposizione è stata interpretata nel senso di ritenere che il vincolo contrattuale sorgesse al momento dell’aggiudicazione, con la conseguenza che la stipulazione del contratto rappresentava una mera formalità, risolvendosi in una pedissequa riproduzione di una volontà negoziale già manifestatasi altrove (58). Tuttavia, sul tema del perfezionamento del contratto d’appalto si è di recente espressa, anche con riferimento alla norma succitata, l’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici, assestandosi su di una posizione diversa da quella propria dell’orientamento appena ricordato (59). Segnalando la natura dispositiva del suddetto art. 16, la disciplina contenuta nel regolamento attuativo della l. n. 109 del 1994, e le disposizioni antimafia, (58) Cass., Sez. I, 3 gennaio 2001, n. 59, in Arch. giur. oo. pp., 2001, 224; Tar Sicilia, Catania, 7 aprile 2000, n. 552, ivi, 2001, 630; Tar Puglia, Sez. II, 12 marzo 1997, n, 238, in T.a.r., 1997, I, 2065; Cons. Stato, Sez. IV, 2 gennaio 1996, n. 16, in Giur. it., 1996, III, 1, 282; Cass., Sez. I, 13 giugno 1990, n. 5771, in Arch. giur. oo. pp., 1990, 564; Cons. Stato, Sez.V, 12 giugno 1987, n. 380, in Foro amm., 1987, 1415; Cass., Sez. I, 4 marzo 1987, n. 2255, ivi, 1987, 761; Cass., Sez. I, 15 maggio 1984, n. 2938, in Rass. trib., 1984, II, 370; Cass., Sez. I, 15 ottobre 1981, n. 5404, in Giust. civ. Mass., f. 10; Cass., Sez. I, 16 luglio 1969, n. 2611, in Rass. avv. Stato, 1969, 758 (59) Determazione, 2 ottobre 2002, n. 24, Verbale di aggiudicazione e perfezionamento del contratto, in Urb. e app., 2002, 1389, con nota di F. BUONANNO, Perfezionamento del contratto di appalto: il punto di vista dell’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici.


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l’Autorità ha precisato che il contratto d’appalto di lavori pubblici si intende perfezionato solo con la formale sottoscrizione e non con l’aggiudicazione definiva della gara. La convinzione dell’Autorità si è basata specialmente sulla considerazione di quelle norme che attualmente integrano la disciplina generale degli appalti pubblici; in primo luogo, la normativa antimafia impone alla stazione appaltante di effettuare dei controlli anteriormente alla stipulazione del contratto tali da « indebolire » l’assunto che il verbale di aggiudicazione abbia valore di contratto e, secondariamente, il d.P.R. n. 554 del 1999, art. 109, ha previsto che l’amministrazione debba definire il contratto entro 60 giorni dall’aggiudicazione, separando, dal punto di vista temporale ma anche giuridico, i due atti di cui si discute. Anche il diritto comunitario parrebbe propendere per una differenziazione concettuale tra l’aggiudicazione, atto conclusivo del procedimento di scelta del contraente privato, e il successivo contratto d’appalto. Nulla viene imposto agli Stati membri a proposito del regime di validità del contratto innestato su di un procedimento illegittimo; tuttavia, dalla lettura delle direttive in tema di appalti pubblici si trae l’impressione che la nozione di contratto e le sue vicende restino ben distinte dal concetto di aggiudicazione e dalla sua sorte (60). L’adesione a tale impostazione trasparirebbe, ad esempio, dalla dir. 92/13/CEE, la quale, quanto ai mezzi di ricorso che occorre prevedere a livello nazionale per garantire un adeguato sistema di tutela giurisdizionale, distingue la decisione di aggiudicazione dal contratto formalmente redatto. In accordo a quanto stabilito dalla direttiva, contro il primo atto è necessario consentire una procedura di ricorso che permetta al ricorrente di ottenerne l’annullamento; al(60) Art. 2, par. 6 dir. 92/13/CEE, « Gli effetti dei poteri di cui al paragrafo 1 sul contratto stipulato in seguito all’aggiudicazione dell’appalto sono determinati dal diritto nazionale. (...) uno Stato membro può prevedere che, dopo la stipulazione di un contratto in seguito all’aggiudicazione dell’appalto, i poteri dell’organo responsabile delle procedura di ricorso si limitino alla concessione di un risarcimento danni alla persona lesa da una violazione » nello stesso senso si veda dir. 89/665/CEE art. 2, par. 6.


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trimenti, dal momento in cui il contratto è stipulato, la tutela specifica può essere sostituita da un risarcimento danni per equivalente (61). Una tale modulazione del meccanismo di tutela giurisdizionale troverebbe una giustificazione solo ammettendo la diversità sostanziale, oltre che formale, degli atti che possono essere oggetto di contestazione. Dunque, l’argomento normativo basato sull’interpretazione dell’art. 16 della legge di contabilità dello Stato parrebbe superato dalle riflessioni sulla natura dell’aggiudicazione e del contratto che ne evidenziano la rispettiva autonomia concettuale. Si preferisce perciò concludere inquadrando tali strumenti giuridici come due momenti distinti del procedimento ad evidenza pubblica, pur funzionalmente collegati dall’obbligo di contrarre che lega la stazione appaltante al contraente privato. 6. Il tentativo di definire la natura del provvedimento di aggiudicazione e del contratto ad essa consecutivo nonché l’individuazione del nesso che lega questi due episodi dell’evidenza pubblica ci portano ora ad affrontare il problema delle interferenze tra i due atti e, in particolare, della trasmissibilità delle invalidità provvedimentali sull’accordo. Il punto di partenza del ragionamento che si intende svolgere è rappresentato dal collegamento di tipo funzionale tra aggiudicazione e contratto, che si sostanzia nella previsione di un obbligo a contrarre scaturente dall’aggiudicazione, soddisfatto nel momento della sottoscrizione dell’accordo. Si è già accennato che l’aggiudicazione vincola il privato al rispetto dei contenuti del negozio, cosı̀ come risultano delineati dall’espletamento della procedura di gara. Anche sull’amministrazione, in seguito all’aggiudicazione, incombe un obbligo a stipulare: il fatto che essa possa evitarlo, attivando poteri di autotutela (62), non ne nega, perciò solo, l’esistenza. Si pensi, ad esempio, al caso in cui l’amministrazione, per (61) Cfr. Corte di Giust., Sez. VI, Sent. 28 ottobre 1999, C-81/98, Alcatel, in www.curia.eu.int; V. anche conclusioni dell’avvocato generale Mischo. (62) A proposito dell’esercizio dei poteri di autotutela nella materia dei con-


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motivi di interesse pubblico, decida di revocare il provvedimento conclusivo della gara: tale possibilità non sta a significare che il soggetto pubblico non è tenuto a stipulare, ma che tale vincolo può essere superato esercitando poteri autoritativi, in deroga al diritto dei privati. Venendo alle ipotesi di anomalie del procedimento ad evidenza pubblica, sembra lecito ritenere che siffatto obbligo non paia più essere validamente fondato laddove l’aggiudicazione sia illegittima, almeno nei casi in cui essa sia annullata dall’amministrazione, in sede di autotutela, o dal giudice. In simili ipotesi il venir meno del provvedimento di aggiudicazione comporta la caduta della fonte dell’obbligo giuridico che ha vincolato le parti alla conclusione del contratto. Viceversa, qualora l’aggiudicazione sia illegittima ma non venga impugnata nei termini e non sia caducata in sede di autotutela, la presunzione di legittimità degli atti amministrativi divenuti inoppugnabili basterà a fondare l’obbligo a contrarre. La dipendenza funzionale del contratto dall’aggiudicazione, nei termini sopra descritti, suggerisce di far derivare dall’illegittimità dell’aggiudicazione l’annullabilità del contratto per errore di diritto, secondo quanto disposto dall’art. 1429, n. 4 c.c. In altre parole, ritenendo che l’aggiudicazione sia l’atto causativo del contratto stipulato tra l’amministrazione ed il privato, si potrebbe ipotizzare che la demolizione del provvedimento, facendo venir meno l’obbligo a stipulare, renda il contratto viziato da errore. Ciò poiché le parti si sarebbero indotte a contrarre appunto basandosi sull’erronea convinzione della sussistenza di un obbligo immanente nell’aggiudicazione, ma svanito con l’annullamento della medesima. Questa ricostruzione si basa su quell’interpretazione che intende l’errore di diritto come una sorta di errore sulla causa giuridica del contratto (63). Tale lettura è stata sviluppata da un’autratti pubblici V., di recente, Cons. Stato, Sez. V, 30 novembre 2000, n. 6365, cit.; Cons. Stato, Sez. IV, 12 settembre 2000, n. 4822, in Giust. civ., 2000, I, 3348. (63) In questo senso R. SACCO, G. DE NOVA, Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, Torino, 1995, II, Obbligazioni e contratti, 180 ss., ivi l’errore di di-


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torevole dottrina civilista (64) intorno a studi sull’invalidità del contratto preliminare e sulle conseguenze di detta invalidità sul definitivo (65): il contratto definitivo sarebbe munito di una causa duplice (66), una, la causa del negozio tipico, l’altra, la causa solutoria dell’obbligo istaurato col preliminare; tale causa solutoria verrebbe a mancare qualora il preliminare sia annullato, con la conseguenza che anche il definitivo potrà essere annullato per errore di diritto qualora le parti siano pervenute alla conclusione di detto contratto esclusivamente in ragione del preliminare. Un discorso simile può essere condotto con riguardo alla trasmissibilità dell’annullamento dell’aggiudicazione sul contratto che ne segue. Non pare privo di fondamento, infatti, soritto viene identificato come errore sulla causa in quanto esso è quell’errore « capace di dar vita da solo alla contrattazione nell’errore su quello che un tempo si chiamava motivo ultimo, ossia nell’errore sulla causa ». (64) R. SACCO, G. DE NOVA, Trattato di diritto privato, cit., II, 392, l’errore di diritto inteso come errore sulla causa avrebbe rilevanza solo nell’ambito dei contratti muniti di causa duplice, nelle restanti ipotesi, infatti, l’errore sulla causa determinerebbe la nullità ipso iure del contratto. Quindi il rimedio dell’annullamento verrebbe disposto, ad esempio, nel caso di un contratto di compravendita solvendi causa, quando una delle parti ritenga di essere vincolata da un preliminare, cioè nell’ipotesi di contratto definitivo concluso in base all’erroneo convincimento di essere obbligato; nello stesso senso si è espresso M. BIANCA, Il contratto, in Dir. civ., Milano, 2000, III, 655. (65) In tema di contratto preliminare si segnalano i contributi di F. GAZZONI, Il contratto preliminare, Torino, 2002; E. SERRAO, Il contratto preliminare, Padova, 2002; A. GIUSTI, M. PALADINI, Il contratto preliminare, Milano, 1992; G. GABRIELLI, Il contratto preliminare, Milano, 1970; si consulti anche R. SACCO, G. DE NOVA, Trattato di diritto privato, cit., 476; M. BIANCA, Il contratto, in Dir. civ., cit., III, 655; M. CANNIZZO, Il contratto preliminare, in Il diritto privato nella giurisprudenza. I contratti in generale, a cura di P. CENDON, Torino, 2000, III, 351; in giurisprudenza, tra le decisioni più significative si segnalano Cass., Sez. IV, 16 ottobre 2001, n. 12608, in Giust. civ. Mass., 2001, 1754; Cass. Sez. II, 11 luglio 2000, n. 9176, in Contr., 2001, 5; Cass. Sez. II, 19 aprile 2000, n. 5121, in Rass. giur. edil., 2001, I, 577; Cass. Sez. II, 3 novembre 2000, n. 14346, in Corr. giur., 2001, 771; Cass., Sez. un., 8 luglio 1993, n. 7481, in Riv. not., 1995, 1308; Cass., Sez. un., 15 luglio 1994, n. 6938, in Giust. civ. Mass., 1994, 1005; Cass., Sez. II, 29 luglio 1992, n. 9086, in Vita not., 1993, 212; Cass., Sez. un., 25 febbraio 1985, n. 1720, in Giur. it., 1997, I, 1, 173; Cass., Sez. II, 6 luglio 1984, n. 3963, ivi, 1985, I, 1, 1592; Cass., Sez. II, 24 gennaio 1980, n. 593, ivi, 1981, I, 1, 268. (66) Sulla tematica della causa duplice si veda, ex multis, F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2001, 787 ss.


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stenere che il contratto stipulato tra l’amministrazione e l’aggiudicatario abbia una doppia causa: la causa tipica sarebbe affiancata da una causa solutoria degli obblighi derivanti dall’aggiudicazione. Certo il rapporto sussistente tra contratto preliminare e contratto definitivo non può essere equiparato in toto a quello intercorrente tra aggiudicazione e contratto successivo, specie in quanto il contratto definitivo non è, diversamente dal contratto che accompagna l’aggiudicazione, meramente riproduttivo del precedente accordo; d’altro canto le analogie che si riscontrano nel meccanismo sequenziale sono decisamente rilevanti. Tuttavia, se, nella convinzione della doverosità della prestazione, l’annullamento dell’aggiudicazione accede ad una vicenda di fatto in cui si riscontri un principio di esecuzione o un’esecuzione integrale della prestazione dell’aggiudicatario, allora la retroattività del consequenziale annullamento del contratto dovrà essere contemperata con i principi civilistici dell’apparenza del diritto, della tutela del terzo e della rilevanza della buona fede. In ordine alla legittimazione ad agire per l’azione di annullamento, la ricostruzione proposta, che riconduce l’invalidità del contratto all’operatività dell’art. 1429 c.c., n. 4, meriterebbe alcuni adattamenti. Come noto, l’art. 1441 c.c., comma 1, riserva la legittimazione alla « parte » nel cui interesse è disposto l’annullamento del contratto. Applicando tale regola, non avrebbe nessuna tutela civilistica il terzo, aspirante aggiudicatario, che intenda far valere l’invalidità del contratto stipulato in seguito ad un’aggiudicazione illegittima, cioè resterebbe preclusa la tutela civile a colui che risulta concretamente leso dall’aggiudicazione illegittima. Per evitare tale risultato, evidentemente poco soddisfacente, occorrerebbe ripensare alle fattispecie in cui il legislatore estende la legittimazione a soggetti diversi dalle parti (per esempio cfr. art. 184 c.c. a proposito degli atti compiuti dal coniuge senza il consenso dell’altro coniuge): si tratta di allargamenti pensati allo scopo di consentire di agire in giudizio, nella stessa


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logica dell’art. 1441 c.c., a chi, seppure sia terzo rispetto alle parti contraenti, abbisogna della dichiarazione di annullabilità del contratto. Ragionando analogicamente in questa prospettiva, quando l’invalidità del contratto derivi dall’annullamento dell’aggiudicazione, cioè dalla caducazione di un atto amministrativo legato all’accordo da un nesso funzionale, l’ampliamento della legittimazione in favore del soggetto che ha ottenuto la sentenza di annullamento troverebbe fondamento nella necessità di coordinare i rimedi propri del processo amministrativo con quelli del processo civile: in tale modo si consentirebbe di esercitare l’azione civile ad un soggetto il cui interesse è già stata altrove verificato, in relazione all’impugnazione del provvedimento amministrativo, ma che necessita della pronuncia di invalidità del contratto perché la propria posizione soggettiva, in relazione al medesimo bene della vita, sia interamente tutelata di fronte all’illegittimità dell’azione dell’amministrazione. SARA VALAGUZZA



indice

DOTTRINA pag. G. ABBAMONTE, Attualità e prospettive di riforma del processo amministrativo .............................................................................................................

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A. ROMANO, La giurisdizione amministrativa esclusiva dal 1865 al 1948 ......

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P. VIRGA, È sindacabile il mancato esercizio del potere di vigilanza edilizia? ..

443

B. LOCORATOLO, Il sistema giurisdizionale comunitario. Novità e prospettive tra il Trattato di Nizza ed il progetto di trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa ..............................................................................

446

GIURISPRUDENZA ANNOTATA T.A.R. Veneto, Sez. III, 1o febbraio 2003 n. 914 e n. 916, con nota di M. FRACANZANI, Pronuncia sul rapporto: nuove ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo? ......................................................

486

T.A.R. Campania, Napoli. Sez. I, 20 maggio 2003, con nota di D. MARRAMA, L’organismo di diritto pubblico e gli appalti di servizi e di forniture sotto-soglia ................................................................................................

497

T.A.R. Lombardia, Sez. II, 2 ottobre 2003 n. 4503, con nota di F. CORTESE, Ancora sulla responsabilità della p.a.: prove tecniche di giudizio ed ipotesi ricostruttive ....................................................................................

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RASSEGNE - RECENSIONI - NOTIZIE F. GOISIS, La violazione dei termini previsti dall’art. 2 l. n. 241 del 1990: conseguenze sul provvedimento tardivo e funzione del giudizio ex art. 21-bis l. Tar ...............................................................................................

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Hanno collaborato a questo fascicolo GIUSEPPE ABBAMONTE professore emerito nell’Università di Napoli Federico II FULVIO CORTESE dottore in giurisprudenza MARCELLO M. FRACANZANI professore associato di Dottrina dello Stato nell’Università degli sudi di Bari FRANCESCO GOISIS ricercatore di Diritto amministrativo nell’Università degli studi di Milano BEATRICE LOCORATOLO dottore in giurisprudenza DANIELE MARRAMA professore associato di Diritto amministrativo ALBERTO ROMANO professore ordinario di Diritto amministrativo nell’Università di Roma - La Sapienza PIETRO VIRGA professore emerito nell’Università degli studi di Palermo


dottrina

GIUSEPPE ABBAMONTE

ATTUALITÀ E PROSPETTIVE DI RIFORMA DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO (*)

SOMMARIO: 1. La riforma del processo amministrativo e l’istanza di giustizia nell’amministrazione recepita nell’art. 100 Cost.. La sfida composita degli avvocati per qualità, legalità e giustizia. — 2. Si accenna allo stato delle cose ed alla possibilità di evoluzioni, considerando specialmente l’ampliamento della giurisdizione esclusiva e la disposizione dell’art. 113 ult. comma Cost. che rinvia alla legge per la delimitazione delle giurisdizioni - Esigenze di certezza nella determinazione del giudice competente. — 3.1. La parificazione nella tutela degli interessi giuridicamente protetti nei rapporti tra cittadino ed amministrazione pubblica sulla base del principio di giustizia dell’amministrazione e, più di recente, sulla base delle esigenze di giustizia (Cass., Sez. un. n. 500 del 1999) e della crisi del principio di autorità, anche secondo la Cassazione (Sez. I, n. 157 del 2003). La delimitazione dell’area della giustizia amministrativa calibrata sull’area delle controversie che si determinano nel corso dell’esercizio della funzione amministrativa, ora denominata anche funzione pubblica, con dizione poco specifica ma comprensiva. — 3.2. Prospettive e limiti derivanti dal disposto dell’art. 103 Cost.: il riferimento alla funzione amministrativa per delimitare l’area della giurisdizione amministrativa. Alcuni orientamenti dottrinari. — 3.3. (Segue): interesse legittimo, dinamica della funzione e diritto soggettivo: l’interesse legittimo come utilizzazione a difesa del singolo delle regole che disciplinano l’esercizio della funzione amministrativa; questa è limitata solo ab externo dalle norme che attribuiscono i diritti soggettivi. — 4.1. La sottoposizione dell’amministrazione alla legge, da riaffermare secondo il principio dell’eguaglianza di trattamento. — 4.2. La sfida dell’avvocatura e l’effettività della resa di giustizia per ogni tipo di interesse giuridicamente rilevante. — 4.3. Le difficoltà derivanti dalla natura dinamica delle controversie che vengono sottoposte ai giudici amministrativi. I vizi vanno rilevati riferendosi alle norme che regolano la gestione di interessi ultraindividuali da parte di soggetti investiti del potere e, quindi, sia alle norme che delimitano il diritto soggettivo sia alle norme sulla titolarità e l’esercizio della funzione pubblica. — 4.4. La legittimazione di ogni soggetto di diritto a tutelare giudiziariamente ogni proprio interesse giuridicamente rilevante. — 5. La giustizia amministrativa, il controllo di costituzionalità e le responsabilità del ceto forense quanto all’iniziativa nel processo amministrativo e nella prospettazione delle controversie e delle connesse questioni di costitu(*) Relazione al XXVII Congresso Nazionale Forense svoltosi a Palermo dal 2 al 5 ottobre 2003 sul tema: Le sfide dell’Avvocatura tra qualità, legalità e giustizia. Le riforme della giustizia.

Dir. Proc. Amm. - 2/2004


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zionalità. — 6. Svolgendo il tema del congresso ci si sofferma sull’istanza di giustizia e sul coordinamento tra le riforme degli ordinamenti forense, giudiziario e processuale. La risposta all’istanza di giustizia e l’interposizione del processo amministrativo tra pubblico e privato: la correzione delle deviazioni attraverso il controllo sull’eccesso di potere, che è da rinverdire, essendone emersa la necessità fin dagli albori della giustizia amministrativa che, individuando detto vizio, ha delimitato storicamente la sua area. — 7. La compresenza di istituti di varia provenienza nell’ordinamento del processo amministrativo, conforma questo processo come polistrutturato, essendosi addizionati alla normativa iniziale istituti del processo civile ed essendosi ritrovate come linee di guida principi del processo penale, specialmente per quel che riguarda l’istruttoria, che può essere disposta di ufficio ex art. 44 t.u. n. 1054 del 1924. Principi del processo penale che sono validi specialmente quanto alla valutazione della prova e riscontri. — 8. (Segue): la partecipazione diretta al processo dell’autore e del destinatario dell’atto, debitamente assistiti, farebbe utilmente rivivere nel processo la vicenda che ha dato luogo alla controversia e le chiarificazioni che ne deriverebbero e che possono richiedersi, senza limiti di contenuto e di forma, a norma dell’art. 44 t.u. n. 1054 del 1924, contribuirebbero all’imparzialità ed al buon andamento della p.a., che sono le caratterizzazioni costituzionali delle funzioni pubbliche di ogni tipo e, perciò, ottimo supporto per le istanze di qualità, legalità e giustizia, formulate dagli avvocati riuniti in congresso nazionale. — 9. Partecipazione diretta ed assistenza del difensore: la partecipazione diretta migliora l’emersione della realtà degli interessi controversi, riferibili, sul piano dell’effettività, non solo alle parti litiganti ma anche e, soprattutto, alle comunità amministrate: sicché la fase istruttoria del processo deve essere la più ampia possibile. — 10. Data la dimensione normalmente comunitaria degli interessi controversi nel processo amministrativo, la contrapposizione tra mio e tuo è insuffıciente, essendo in discussione il nostro che appartiene alle comunità gestite. Il deficit di partecipazione dei gruppi socio-economici interessati al buon andamento dell’amministrazione, ma difficilmente organizzabili, deve essere compensato dalla più ampia possibile acquisizione dei fatti controversi, con relative occasioni, circostanze ed effetti, senza limitazioni nell’acquisizione delle prove; acquisizione da estendere fino alla formazione, anche attraverso opportuni riscontri, di un ragionevole convincimento del giudice. — 11. (Segue): la necessità dell’iniziativa del ricorrente per poter svolgere il giudizio di legittimità, non condiziona lo svolgimento del giudizio, regolato dalle leggi sul processo amministrativo, che consentono, tra l’altro, ed anche attualmente, di assimilare l’istruttoria nel giudizio amministrativo all’istruttoria penale. La facoltà di rinunzia si collega direttamente al potere di iniziativa di cui costituisce la manifestazione in negativo, ma non riguarda il modus procedendi né, tanto meno, l’acquisizione delle prove. — 12. L’appartenenza al ricorrente dell’iniziativa per impugnare l’atto illegittimo con possibilità di rinunciare al ricorso, non è in contrasto con l’acquisizione anche di uffıcio degli elementi di prova, che attengono al modo di formazione del convincimento del giudice, mentre l’iniziativa del ricorrente è uno strumento di tutela, costituzionalmente garantito ai singoli, nei confronti del potere. La sfida dell’avvocatura ed il potenziamento dei mezzi della giustizia amministrativa in funzione di una migliore acquisizione dei fatti e dell’accelerazione delle procedure. — 13. La delimitazione dell’oggetto del giudizio amministrativo va operata riferendosi alle questioni proposte dal ricorrente ed all’incidenza del provvedimento impugnato sugli interessi che si assumono lesi. Alcune indicazioni sull’annullamento come pronuncia conclusiva e sull’evoluzione in corso per l’esecuzione del giudi-


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cato. — 14. Tracciato a grandi linee lo stato attuale della regolamentazione del processo amministrativo in relazione al tema del congresso, si passa all’abnormità dei tempi ed all’insuffıcienza dei mezzi disponibili. — 15. Ribadito che il problema fondamentale della giustizia amministrativa è quello dei tempi mentre i ritardi peggiorano la funzione amministrativa, danneggiando individui, comunità e gli stessi apparati, si passa alla prospettazione di possibili miglioramenti di mezzi e procedure, iniziando, per cosı̀ dire, ab externo: il problema delle video-conferenze ed opportunità della relativa sperimentazione; si accenna anche al deficit di giustizia che può derivare dalla mancata previsione delle repliche scritte, che agevolerebbero l’uso della video-conferenza ed attenuerebbero l’ingiustizia del premio alla prontezza anziché alla ragione migliore. — 16. L’esigenza di rafforzare l’organizzazione della giustizia amministrativa, dovendosi proporzionare il numero dei giudici al carico di lavoro esistente ed attuare la nuova disciplina processuale, posta nella l. n. 205, specie per quel che concerne l’ordinamento probatorio e le domande di risarcimento. — 17. Il potenziamento dell’organico dei giudici è, in realtà, l’indispensabile premessa per migliorare la situazione, mentre per l’ordinamento normativo del processo amministrativo, già in notevole parte riformato, dovrebbe progredirsi nel senso dell’assimilazione alle regole della procedura civile, conservando però nelle norme e diffondendo nella realtà delle cose, il potere del giudice per la libera ricerca delle prove e la coerente formazione del suo motivato convincimento perché, mentre nel processo civile esistono le contrapposizioni tra due diretti interessati, non altrettanto avviene nel processo amministrativo. — 18. La connessione dei procedimenti. — 19. Il contraddittorio e la notifica ai controinteressati. — 20. L’istruttoria. Si rinvia a quando esposto nei §§ 10.1.-10.2. e ss. e si accenna ad alcuni problemi particolari specialmente alla giurisdizione di legittimità ed al risarcimento del danno: si conclude nel senso della generalizzazione delle regole processuali civilistiche con le salvezze già dette al n. 17. — 21.1. Il problema del risarcimento del danno derivante dall’esercizio della funzione amministrativa secondo la giurisprudenza della Cassazione. — 21.2. Orientamenti restrittivi del Consiglio di Stato. — 21.3. Una possibile soluzione di riequilibrio. — 22.1. Il giudicato e l’ottemperanza: qualche prospettiva. — 22.2. Involuzioni da evitare. In particolare i ritardi della giustizia amministrativa deviano il controllo verso il giudice penale che opera secondo elastiche figure di reato (cfr. abuso di ufficio, ricettazione ecc.). — 22.3. Si conferma l’indilazionabile necessità di potenziare gli organici. — 22.4. (Segue): sui contenuti della sentenza di annullamento e sui limiti del giudicato anche in relazione alla sopravvenienza, tenendo conto del principio secondo il quale il giudicato copre il dedotto e il deducibile anche in relazione al potere della p.a. di provvedere, pendente judicio. Verso la concentrazione del regolamento definitivo della controversia in un solo processo in funzione del’economia dei giudizi e della definitività del risultato finale. Alcune indicazioni sulla sopravvenienza, sul giudicato implicito e sul residuo potere della p.a. — 23. Alcune indicazioni sullo schema di disegno di legge governativo contenente la delega per la formazione del codice sul processo amministrativo. — 24. Considerazioni riassuntive e finali.

1. Il tema del Congresso sulle sfide all’Avvocatura tra qualità, legalità e giustizia è in perfetta sintonia con le norme costituzionali sul buon andamento delle pubbliche funzioni e sull’amministrazione della giustizia.


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Per quanto interessa il processo amministrativo e le possibili riforme delle quali qui ci si deve occupare, l’art. 100 Cost. attribuisce agli organi di giustizia amministrativa il compito di garantire la giustizia nell’amministrazione, recependo l’istanza formulata da Silvio Spaventa già nel 1880 e che, riaffermata nella norma costituzionale, non può qualificarsi come sola dichiarazione costituzionale ma, essendo stata storicamente espressa ed interpretata come limite al potere, assurge a principio del sistema. L’avvocatura, a 55 anni dall’entrata in vigore della Costituzione, avverte l’esigenza di riformulare l’istanza giustiziale in termini di « sfida »; termini che, certo, non esprimono soddisfazione per lo stato attuale delle cose: sfida articolata nel trinomio « qualità-legalità-giustizia » che pone il problema, reale, della riqualificazione della effettiva resa di giustizia, assumendo la legalità come mezzo e limite e la qualità in connessione, razionalmente innegabile, con l’effettività e tempestività della resa di giustizia che, a sua volta, realizza uno dei più significativi collegamenti costituzionali tra singoli, comunità ed apparati; giustizia di qualità, da rendere, cioè, in modi adeguati alle istanze dirette ad ottenerla e, soprattutto, in tempi ragionevoli: esigenza per la quale non esistono concrete ed adeguate premesse neppure nei progetti di riforma come appresso si dirà (par. 23). Tematica, dunque, politico-costituzionale, avvertita per la giustizia amministrativa da coloro che ne vollero l’istituzione, come limite al potere a tutela del singolo, impegnata ad accertare la verità dei fatti e delle istanze comunitarie assunte dal potere a giustificazioni dei sacrifici imposti. Tuttavia il fondamentale art. 100 Cost. e l’istanza di giustizia nell’amministrazione non sono stati considerati punti di partenza nella ricostruzione sistematica degli istituti di giustizia amministrativa, perché gli schemi di riferimento, anche in sede costituzionale, sono le situazioni di diritto soggettivo e di interesse legittimo dei singoli, utilizzate tradizionalmente anche per delimitare le sfere di giurisdizione del giudice ordinario e del giudice amministrativo nel nostro sistema: sistema nato come bipartito e riaffermato come tale dal Costituente (artt. 100 ss.), attribuendo al


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giudice ordinario, salvo eccezioni, la competenza a conoscere delle controversie sui diritti soggettivi ed al giudice amministrativo la cognizione delle controversie sugli interessi legittimi. Né i cent’anni e più decorsi dall’istituzione della giustizia amministrativa, né le perduranti incertezze sulla delimitazione degli interessi legittimi, hanno indotto ad adottare correttivi dei principi e si è fatto ricorso al rimedio della giurisdizione esclusiva nelle materie in cui risultava più incerta la qualificazione delle situazioni soggettive. Rimedio evidentemente empirico e che, molto di recente (v. l. n. 205 del 2000, art. 7), ha portato ad estendere la giurisdizione esclusiva a materie, talvolta, piuttosto indicate che definite, come può dirsi specialmente per i « servizi pubblici (art. 7 comma 1 e 2 l. n. 205 del 2000, che sostanzialmente incorpora l’art. 33 d.lgs. n. 80 del 1998). In presenza di questa situazione e dovendo rispondere ad una sfida della categoria cui appartengo, articolata tra qualità, legalità e giustizia, cercherò di delineare sinteticamente la via sin qui seguita nella ricostruzione degli istituti, alla ricerca di qualche apertura che risponda all’esigenza di fondo, che è quella di rendere giustizia nell’amministrazione, riferendosi ai contenuti ed ai limiti propri della funzione amministrativa, in modo da studiare l’attuale ordinamento della giurisdizione amministrativa in relazione alla materia oggetto della funzione giurisdizionale e specialmente alla tutela degli interessi dei destinatari delle pubbliche funzioni. 2. In proposito ci si deve domandare, anzitutto, e fino a qual punto ancora oggi, si è obbligati a qualificare come di diritto soggettivo o di interesse legittimo la situazione di chi deve assumere una iniziativa giudiziaria per chiedere la tutela che l’ordinamento giuridico accorda agli interessi umani, ritenuti giuridicamente rilevanti in relazione alle pubbliche funzioni, esercitando il diritto fondamentale di ricorrere ai giudici costituiti secondo legge (già in questi termini, il vecchio G. Jellinek nell’800 ed ora l’art. 24 Cost.). Interrogativo che si pone perché il sistema giudiziario rimane


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bipartito, sicché dovrebbe possibilmente pervenirsi a criteri dotati di sufficiente certezza per individuare la giurisdizione competente a conoscere di un determinato conflitto di interessi, ora che non aiuta più il riferimento alle misure giuridiche adottabili dal giudice — finora distinte in annullamento e risarcimento, secondo che si agisse davanti ai Tar o all’AGO — visto che anche il giudice amministrativo può accordare il risarcimento del danno (art. 7 pen. comma l. n. 205 del 2000). Inoltre, l’ampliamento delle materie di giurisdizione esclusiva, se risolve il problema per la tutela dei settori di interessi considerati nelle norme che la delimitano, non aiuta per le materie non considerate ed il riferimento al petitum non aiuta più a qualificare l’incerta causa petendi, a meno che non si configuri in via generale come prevalente l’istanza di annullamento. Allo stato delle cose, sia per delimitare l’area della giurisdizione esclusiva, per la quale l’elenco delle materie dell’art. 7 l. n. 205 del 2000 non è certo preciso, sia per aver una guida per confermare la giurisdizione generale, almeno nei casi dubbi, si può tentare di elaborare una configurazione organica delle singole materie attribuite al giudice amministrativo, nel senso che si sono voluti sottoporre al giudice amministrativo settori organici di materie (1), tanto estesi quanto lo richieda la gestione produttiva degli interessi che vi fanno capo; criterio del settore organico ex l. n. 382 del 1975 in certo modo condiviso dal M. Nigro che parla di « blocchi di materie ». Per di più, la diffusione delle materie di giurisdizione esclusiva lascia intendere l’accoglimento, da parte del legislatore, di istanze di certezza e di gestione produttiva della stessa funzione giudiziaria, non più interposta bensı̀ inserita, materia per materia, in modo da consentire ed esprimere essa stessa, momenti di riflessione, contribuendo alla chiarificazione, prima, ed alla giusta composizione, poi, degli interessi entrati in conflitto, in occasione dell’esercizio della funzione amministrativa: in tal senso si (1) Il criterio della riorganizzazione dell’amministrazione per settori di materie è affermato nella l. 22 luglio 1975 n. 382 ed è stato da me studiato nel volume Programmazione e amministrazione per settori organici nel trattato di diritto amministrativo diretto da G. SANTANIELLO, Padova, 1990, vol. VIII.


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esprime qualche regola sul risarcimento (artt. 35 d.lgs. n. 80 del 1998, ora 7 l. n. 205 del 2000) ed, oserei aggiungere, che la funzione di giusta composizione delle liti tra cittadino ed amministratore potrebbe rappresentare la motivazione più valida, sul piano politico costituzionale, dell’esistenza stessa della giurisdizione amministrativa. Ma se questi indirizzi sono tutt’altro che latenti per le materie di giurisdizione esclusiva, non si vede perché dovrebbe farsi una condizione complessivamente peggiore agli interessi non inclusi nelle materie di giurisdizione esclusiva, le quali ultime, in verità, comprendono gli interessi di maggiore consistenza socioeconomica: ma è ovvio che la indefettibilità e certezza nell’accesso alla tutela giudiziaria non può dipendere dalla consistenza economica degli interessi non menzionati, per di più sulla base di incontrollabili valutazioni del legislatore. Problemi del genere non erano stati ignorati, ad es., nel regolamento per la giustizia amministrativa dello stato borbonico, che, già nel 1817, elencava tutte le materie di competenza del giudice amministrativo che operava in quel Regno e che fu, improvvidamente, soppresso dallo Stato unitario nel 1865 e ripristinato solo nel 1889-90. In breve, è davvero legittimo ampliare solo, per cosı̀ dire, parzialmente, le materie di giurisdizione esclusiva, quando esiste l’esperienza negativa di settimanali udienze delle Sezioni Unite della Cassazione per stabilire a quale delle giurisdizioni debbano essere sottoposti i vari tipi di controversie di incerta qualificazione? Interrogativi soltanto attenuati dalla riforma iniziata nel 1998 con il d.lgs. n. 80, tra l’altro annullato per eccesso di delega dalla Corte costituzionale con la sent. n. 292 del 2000, proprio laddove determina la giurisdizione esclusiva; articolo poi riprodotto nell’art. 7 della l. n. 205 del 2000. E può accreditare questo stato di cose l’art. 103 Cost., laddove stabilisce che il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa giudicano in via generale sugli interessi legittimi, nonché, per le materie indicate dalla legge, anche sui diritti soggettivi?


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Non sarebbe stato più corretto ricercare il vero significato della norma costituzionale che, in realtà, prendeva atto dello stato delle cose esistenti ai tempi della sua formazione, senza vincolare l’avvenire, verso il quale, anzi, lasciava l’ampia apertura del rinvio alla legge, rinvio ripetuto nell’art. 113 ult. comma Cost.? Può considerarsi legittima la diversità nella garanzia di certezza ed effettività di contenuti della giustizia, nel delicato momento dell’accesso alla tutela giudiziaria? Dove va a finire il noto binomio, più volte azionato innanzi alla Corte costituzionale, formato dagli artt. 3 e 24 Cost? Come è appagata l’istanza, realisticamente congiunta da buona dottrina ed informata esperienza (C. Esposito), di eguaglianza e giustizia nella Costituzione italiana? Come si fa a scindere il diritto di tutti ad ottenere giustizia, affermato nell’art. 24 Cost. dal diritto all’eguale trattamento anche di fatto? Eguaglianza di fatto che non c’è, se le materie di maggior rilievo economico vengono nominativamente indicate come rientranti ad ogni effetto nella giurisdizione amministrativa, mentre per tutte le altre materie si usa il criterio residuale, implicito nella ricomprensione di esse nella giurisdizione generale di legittimità, sulla base del riferimento all’interesse legittimo di più che incerta delimitazione, sicché non vi è certezza per chi deve sapere a quale giudice rivolgere la sua istanza diretta ad ottenere giustizia. 3.1. Espressi gli interrogativi che precedono, poiché compito dell’interprete non è soltanto quello di evidenziare i problemi, ma anche, e soprattutto, di indicare le possibili soluzioni allo stato del diritto vigente, si possono qui svolgere alcune considerazioni prendendo spunto proprio dalle domande poste. Sul piano costituzionale può essere utile anzitutto ritornare sul testo dell’art. 103, coordinandone le regole con i precedenti artt. 3 e 24, nonché con il successivo art. 113, specialmente, quanto a quest’ultimo, per la delimitazione del rinvio alla legge, che è scritto tanto nell’art. 103 che nell’art. 113, oltre che in altre norme Cost. Gli artt. 3 e 24 non consentono limitazioni nella effettività della tutela giudiziaria, che è garantita indistintamente a tutti


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come diritto fondamentale per qualsiasi interesse protetto dall’ordinamento giuridico. Una diversa o più attenuata lettura che ancor oggi volesse giustificare qualche diversità sulla base del distinto riferimento dell’art. 24 ai diritti soggettivi e, rispettivamente, agli interessi legittimi, non terrebbe conto del fatto che anche le Costituzioni, come ogni altra manifestazione di attività umana, sono condizionate dai tempi e dai luoghi in cui vengono in essere e che specialmente l’interpretazione costituzionale deve tener conto degli eventi successivi, se si vuole conservare la credibilità della stessa Costituzione e della sua attuazione. Ed, inteso secondo i tempi della sua nascita, l’art. 24 Cost. — con il doppio e congiunto riferimento ai diritti soggettivi ed agli interessi legittimi — e, cioè, alle situazioni soggettive che da oltre un secolo danno alternativamente forma giuridica ad ogni interesse tutelabile davanti ai giudici — vuol significare soltanto che ogni interesse giuridicamente rilevante è tutelabile davanti ai giudici. Significato evidente perché il Costituente ha scelto la locuzione più comprensiva possibile per i tempi in cui statuiva; intento onnicomprensivo e condizionamento dei tempi che devono illuminare anche l’interpretazione degli artt. 103 e 113, senza, ovviamente mai trascurare l’art. 3 che, con i suoi riferimenti all’eguaglianza di fatto, apre la Costituzione alle esperienze successive, percepibili secondo il comune buon senso: buon senso che guida persino nel determinare il significato e l’incidenza delle regole tecniche. Concludendo, nessuna limitazione alla tutela giudiziaria degli interessi giuridicamente rilevanti, secondo le vicende dell’ordinamento giuridico nel suo complesso, può derivarsi dal riferimento alla bipartizione diritti soggettivi — interessi legittimi, che si legge nel testo costituzionale del 1948 e nella normazione successiva, coerentemente ad un sistema che soltanto ora è in via di superamento. Occorre, invece, ricostruire il sistema secondo gli orientamenti legislativi e giurisprudenziali ultimamente emersi che rappresentano la rottura determinata da esigenze di giustizia — di


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esigenze di giustizia parlano testualmente le S.U. nella sent. n. 500 del 1999 — con un plurisecolare sistema di privilegi che i Costituenti del ’48 riuscirono a modificare solo in parte, recependo ed ampliando, per quanto allora possibile, i risultati conseguiti da Silvio Spaventa tra il 1880 ed il 1890-91; gli stessi Costituenti, però, espressero nell’art. 100 Cost. l’istanza fondamentale di giustizia nell’Amministrazione. Ma la strada era lunga e solo nel 1990 si è avuta la cosiddetta costituzione del cittadino — l. n. 241 del 1990 — che ha codificato istanze costituzionali di trasparenza e partecipazione, mentre sono occorsi altri dieci anni e la forzatura di una legge di delegazione (l. n. 59 del 1997) — sanzionata come detto dalla Corte costituzionale con la sent. n. 292 del 2000 cit. e riconfermata dal legislatore con la l. n. 205 del 2000 cit. — per vedere accolta dalla l. n. 205, dopo l’intervento della Cassazione (Sez. un. n. 500 del 1999 cit.), l’istanza di risarcibilità dei danni da cosiddetta lesione di interessi legittimi — rectius da illegittimo esercizio della funzione pubblica (cfr. artt. 28 e 113 Cost.). Sono poi passati altri quattro anni perché la Cassazione riprendesse più ampiamente il problema, in termini di adeguata sistemazione costituzionale attuale, rilevando la diffıcoltà di pervenire alla soluzione dei conflitti tra singoli ed Amministrazione pubblica sulla base del principio di autorità (Sez. I, n. 157 del 2003). Conclusione positiva che può confermarsi ricordando ancora una volta che l’istanza fondamentale accolta dal Costituente all’art. 100, è quella della giustizia nell’Amministrazione, che non è certo a favore di indebite sovrapposizioni. E qualche sviluppo può ancora derivarsi da detto art. 100 che esplicita il principio di giustizia, fondamento della credibilità ed effıcacia dell’intero ordinamento giuridico e che, proprio nella formulazione dello stesso art. 100, appartiene alla nostra tradizione, affermando che giustizia deve esservi nell’amministrazione, nonché aggiungendo, con il riferimento al Consiglio di Stato, supremo giudice amministrativo, che l’area della giurisdizione amministrativa coincide con quella della funzione ammini-


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strativa, nel senso che il giudice amministrativo deve conoscere delle controversie che si determinano nel corso dell’esercizio della funzione amministrativa che non siano dalla legge attribuite alla giurisdizione di altro giudice, cosı̀ come si esprime testualmente l’art. 113 ult. comma Cost. 3.2. In sostanza, pur essendo positiva l’evoluzione nel senso dell’ampliamento delle materie di giurisdizione esclusiva, non può dirsi che esso realizzi compiutamente quella giustizia nell’amministrazione cui spetta la tutela degli interessi giuridicamente rilevanti che si assumono lesi nell’esercizio della funzione amministrativa, essendo sostanzialmente riduttiva la stessa distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi, specialmente per quanto sia stata e sia tuttora determinante per distinguere giurisdizione generale di legittimità e giurisdizione esclusiva e per quanto generi incertezze nella delimitazione della giurisdizione ordinaria e, rispettivamente, amministrativa, da individuare in corrispondenza delle due distinte situazioni soggettive, secondo l’art. 103 Cost. Ma l’art. 103 può essere letto riferendosi, come già accennato, al tempo in cui è stato scritto ed, in questa chiave, essere via via chiarificato con il riferimento ai settori di materie, mentre, in un’auspicabile riforma dello stesso art. 103 Cost., ci si dovrà muovere nel senso di affidare ai giudici amministrativi l’intera giurisdizione intesa a rendere giustizia sulle controversie che si verificano nel corso dell’esercizio della funzione amministrativa. Se, cioè, la funzione della giurisdizione amministrativa (ora detta anche, e con qualche imprecisione, giurisdizione sulla funzione pubblica) è quella di rendere giustizia nell’amministrazione, come prevede l’art. 100 Cost., bisognerà, sempre più, riferirsi all’area dell’amministrazione ed alle materie delle controversie che si determinano nel corso del relativo esercizio. Allo stato della normativa costituzionale non può andarsi oltre l’accrescimento con legge delle materie di giurisdizione esclusiva, perché, pur assegnando l’art. 100 al Consiglio di Stato ed, implicitamente, ai giudici di primo grado previsti dal successivo


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art. 125, il compito di assicurare la giustizia nell’amministrazione, l’art. 103 ne afferma la giurisdizione generale sugli interessi legittimi ed, in particolari materie indicate dalla legge, anche sui diritti soggettivi. In sostanza, l’ampliamento della giurisdizione esclusiva, per la certezza che ne deriva circa la competenza del giudice amministrativo, è esso stesso strumento che migliora la giustizia nell’amministrazione; tenendo poi presente che le attività pubbliche vengono esercitate in varie forme, l’obbiettivo riferimento alle materie semplifica il problema della delimitazione delle sfere di giurisdizione, contribuendo, non poco, anche alla riduzione dei tempi. In vista di una auspicabile riforma deve, comunque, ammettersi che le difficoltà dell’identificazione delle situazioni soggettive usate a parametro per la delimitazione delle sfere di giurisdizione nell’art. 103 Cost. non dovrebbero riproporsi per l’identificazione della funzione amministrativa nell’esercizio della quale si determina la controversia, perché la funzione è delimitata ed identificata dalla legge nella competenza, nella forma, nel procedimento e negli effetti, secondo il principio di tipicità, diretta espressione del principio di legalità, sicché — per l’identificazione della funzione pubblica che ha determinato la controversia per effetto della sua negativa incidenza su interessi particolari, rilevanti per l’ordinamento giuridico — ci si deve riferire alle norme legislative e regolamentari relative all’attribuzione ed all’esercizio della funzione stessa ed ai relativi limiti: norme che, specialmente nella parte in cui identificano, sia pure per tipi, i presupposti per l’applicazione delle rispettive disposizioni, fungono anche da idonei riferimenti per individuarne e reprimerne le deviazioni. Ed a miglior fondamento della validità del riferimento alla funzione amministrativa (e/o pubblica che dir si voglia) come criterio di individuazione dell’area della giurisdizione amministrativa, va richiamata la diffusa elaborazione dottrinale sulle interazioni tra diritto soggettivo e interesse legittimo sulle quali, da ultimo il B. DELFINO, in Il Consiglio di Stato 2002, spec. p. 2102 si


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esprime nei seguenti termini: « Il rafforzamento delle posizioni soggettive del privato nei confronti della p.a. in veste autoritativa, la consacrazione costituzionale dei principali diritti soggettivi patrimoniali (segnatamente, il diritto di proprietà ed il diritto di impresa), con contestuale sottolineatura della loro funzione o utilità sociale e il conseguente fenomeno di scissione tra il momento della titolarità e quello dell’esercizio di siffatti diritti, posto che l’esercizio di talune facoltà ad essi connesse soggiace alla preventiva valutazione di opportunità dei pubblici poteri, inducono a sostenere che, nell’attuale contesto storico, l’interesse legittimo rappresenti molto spesso la misura della rilevanza che il diritto soggettivo a contenuto patrimoniale è in grado di assumere rispetto al potere conformato della p.a. (2). Sia che si voglia, in termini pretensivi, acquistare una o più facoltà, sia che si voglia in termini oppositivi, reagire al sacrificio di facoltà in precedenza godute, la pretesa del privato “trova la sua ragione di essere nel diritto soggettivo protetto in via diretta dalla norma, ma compresso in tutto o in parte nella sua possibilità di esercizio” (3). Ne consegue che dinanzi al giudice amministrativo, il privato non difende la titolarità del diritto, bensı̀ agisce contro le determinazioni conformatrici della p.a. che impediscono di acquisire la possibilità di esercitare tale diritto o ne comprimono l’esercizio già in atto oppure incidono cosı̀ fortemente su esso da estinguerlo... » (cosı̀ DELFINO, cit.). In sintesi, ad avviso di chi qui scrive, è necessaria una revisione dei criteri attuali di ripartizione della giurisdizione che, a (2) È da molto tempo che la dottrina si interroga sul nesso che può intercorrere tra posizioni di diritto soggettivo e di interesse legittimo quando l’attenzione di essa si concentra sulla realtà giuridica in una prospettiva dinamica (cfr. per tutti: M. NIGRO, Ma che cos’è questo interesse legittimo? Interrogativi vecchi e nuovi spunti di riflessione, in Foro it., 1987, V, 469 ss., con particolare riferimento al § 8). Il Palma rileva a tal proposito che « si è soliti, a fini meramente sistematici, configurare distintamente, con nettezza di tratti, le due posizioni soggettive: interesse legittimo e diritto soggettivo, ma se queste vengono immerse nella realtà della vita giuridica, si può scoprire come possano reciprocamente interagire » (G. PALMA, Le posizioni giuridiche soggettive dell’ordinamento italiano, in Trattato di diritto amministrativo (diretto da G. SANTANIELLO), vol. II, 109). (3) Cfr. C. VARRONE, Stato sociale e giurisdizione sui « diritti » del giudice amministrativo.


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ben considerare, non sono conformi alla funzione costituzionalmente attribuita alla giurisdizione amministrativa, di rendere, cioè, giustizia nell’amministrazione (art. 100 Cost.). L’attuale rimedio dell’allargamento delle materie è una delle manifestazioni più significative dell’elasticità dell’art. 103 Cost. ma da chiarire in duplice connessione con gli artt. 100 e 113 ult. comma Cost., nel senso che il Costituente, rinviando al legislatore per l’individuazione delle speciali materie di giurisdizione esclusiva (art. 103) e, ancor più in generale, per l’individuazione del giudice competente a provvedere sui ricorsi avverso gli atti della p.a., ha colto una essenziale verità e, cioè, della variabilità dell’area della funzione pubblica e della relativa incidenza sugli interessi singoli giuridicamente tutelati ed ha riaffermato, nello stesso tempo, il principio di legalità, lasciando arbitro il legislatore nel delimitare le sfere di giurisdizione sulla funzione pubblica, attraendo nella giurisdizione amministrativa le aree della funzione pubblica individuate secondo il criterio tradizionale che, purtroppo, comporta scarsa distinguibilità dei vari gradi di tutela attribuiti al singolo, per l’incertezza dei limiti specialmente dell’interesse legittimo. Criterio che, però, va a sua volta integrato secondo la più razionale e meno empirica delimitazione della coerenza e corrispondenza delle aree di competenza di chi deve rendere giustizia nell’amministrazione e, rispettivamente, di chi deve amministrare. Coerenza e, sotto certi profili, interazione, che individua un sistema che svolge il principio della giustizia nell’amministrazione e che vuole il giudice sulla funzione pubblica per il ripristino del diritto violato dall’abuso del potere, eliminando illegittimità ed accordando, ove il danno sussista nella sua obiettiva consistenza di diminuzione personale o patrimoniale, il relativo ristoro, se possibile in forma specifica. Giustizia nell’amministrazione che ha anche rappresentato il primo avvio per attenuare l’onnipotenza delle autorità e che ora ha trovato eco nella Cassazione, che ha ravvisato e dato voce alle odierne difficoltà di applicazione del principio di autorità (Cass. n. 157 del 2003). Giustizia nell’amministrazione verso la giusta composizione delle controversie e la ricostituzione del tessuto sociale, tanto più necessaria se è il soggetto pubblico ad aver errato.


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In realtà, la norma fondamentale che rimane tuttora da attuare nell’interesse del cittadino è l’art. 100 che attribuisce agli organi di giustizia amministrativa la funzione di rendere giustizia nell’amministrazione: sicché, secondo l’art. 100 Cost., è piuttosto l’area della funzione pubblica che delimita l’area della giustizia amministrativa per tutte le controversie che si verificano nell’esercizio della funzione stessa, tra gli apparati che la esprimono ed i soggetti sui quali essa incide, sacrificandone gli interessi giuridicamente rilevanti. 3.3. Ma nonostante quanto sin qui detto e richiamando quanto si dirà, è pur vero che il concetto di interesse legittimo intrecciato come è con la dinamica del potere, è difficile da precisare e lo studioso può tutt’al più cercare di contribuire ad attenuare le difficoltà della fase operativa. Ed il tema del limiti al potere, che non è certo nuovo, è stato già impostato con esattezza nel passato quando esisteva il monarca assoluto, forse meglio che nel presente, per le più forti contrapposizioni esistenti nei regimi assoluti rispetto ai conflitti che si riscontrano negli ordinamenti democratici dove, però, ad ogni concessione che i singoli e/o le comunità riescono a ottenere o a strappare, seguono tentativi di recupero degli apparati, aiutati magari dagli stessi rappresentanti elettivi, che l’apparato via via assimila, favorendoli secondo le circostanze. Nel XIII secolo il Bracton aveva sinteticamente impostato, e risolto, il problema affermando che il re è soggetto alla legge perché è la legge che crea il re: « rex subditus legi, ipsa enim lex facit regem ». Legge che è fonte comune di poteri e doveri, regola comune a chi comanda e a chi obbedisce, legittimazione per le disposizioni che ne concretano e specificano i precetti soddisfacendo bisogni comuni, risolvendo controversie e imponendo sacrifici. Sovraordinazione generale della legge, perché per tutti necessariamente vincolante, in funzione di una ordinata convivenza e della coerenza del sistema. L’unità della fonte del potere e dei suoi limiti motiva la con-


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cezione del Bracton e si riferisce al momento della funzione e vede sinergicamente il funzionario ed i suoi atti come espressione della legge che, nello stesso tempo, è la principale fonte dell’ordinamento normativo e governa istituzioni e comunità: legge che è fonte e limite del potere e garanzia della libertà e dei beni degli individui che possono essere oggetto di limitazioni del potere laddove la legge lo consenta. D’altronde i contenuti della legge sono sempre espressioni di volontà sovrane, rappresentative o non delle comunità, ma formulate da individui o apparati che, per la posizione attribuita o conquistata nell’ambito dell’ordinamento generale, si qualificano come idonei a volere per tutti, ad esprimere la c.d. volontà generale (Thon) che, una volta formalmente manifestata, costituisce l’ordinamento giuridico. Notazioni queste sin qui espresse che vogliono essere l’inizio di un tentativo di semplificazione del nostro sistema di giustizia amministrativa, nel senso di ricollegarne la vicenda, in primo luogo, alla legge che è regola comune, soprattutto per quel che riguarda la funzione amministrativa, la quale costituisce la manifestazione del potere nella quotidianità. Negli ordinamenti democratici si è assimilata la vicenda del principio di legalità e nel nostro ordinamento è stata costituzionalmente garantita l’eguaglianza di trattamento anche di fatto, codificando l’istanza polemica contro il privilegio, che neppure il legislatore può sancire, stante la coeva istituzione del sindacato di costituzionalità. Ma è sempre la legge che deve risultare, anche di fatto, eguale per tutti, nell’esercizio di tutte le funzioni pubbliche e gli organi competenti a rendere la giustizia amministrativa devono assicurare la giustizia nell’amministrazione. In queste condizioni il problema costituzionale si risolve nel senso che la legge, conforme a Costituzione, fornisce i parametri per la convivenza, secondo regole valide egualmente per tutti — apparati e comunità — ed, in caso di deviazioni, esiste, come principio generalissimo, il ricorso al giudice, che deve rendere giustizia in nome del popolo ed è soggetto soltanto alla legge (art.


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101 Cost.): in particolare, deve essere garantita dal giudice competente la giustizia nell’amministrazione e cioè nell’amministrazione avendo riguardo al momento in cui concretamente si è svolta e negli effetti che ha prodotto, che interessano in ogni caso e sia pure con vario grado di incidenza, secondo le circostanze, singoli e comunità: sottolineando che mentre i singoli determinano non di rado le occasioni per l’esercizio della funzione, sono le comunità che forniscono i mezzi e comunque, più o meno immediatamente, risentono gli effetti. Esigenza di legalità e giustizia intrinseca alla funzione pubblica, per la quale la funzione di giustizia nell’amministrazione, in quanto viene effettivamente resa, svolge altresı̀ la funzione di prevenzione generale dell’illegittimità, sicché nemmeno deve schematizzarsi in determinate situazioni, dovendo, piuttosto, accertarsi, secondo l’ordinamento nel suo complesso, l’interesse a ricorrere, come si dirà anche in seguito. Ed appartiene, alla dinamica dell’ordinamento giuridico reprimere le deviazioni, attraverso il ricorso al giudice da parte di chi, per le condizioni in cui viene a trovarsi in un determinato momento, possa vantare un interesse comunque rilevante per l’ordinamento stesso, che può essere dimostrato provando che il provvedimento richiesto al giudice potrà comportare, per chi ricorre, un miglioramento apprezzabile secondo lo stesso ordinamento giuridico ed il sistema delle fonti in cui esso si esprime. Indagine dunque da condurre caso per caso, secondo le circostanze, senza necessità di rispondenza a parametri generali ma solo individuando elementi di riconduzione dell’interesse che ha sollecitato l’azione, all’ordinamento giuridico. Questo del resto è il modello espresso nel fondamentale art. 26 t.u. 26 giugno 1924 n. 1054 che, nel delineare gli elementi che possono fondare il ricorso al giudice amministrativo, si riferisce a violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere, come ai vizi denunciabili a fondamento della richiesta di annullamento del provvedimento impugnato: vizi che attengono al provvedimento, anche esso espressamente menzionato nello stesso art. 26; provvedimento che è, a sua volta, la manifestazione della funzione e


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che, in quella fase storica dell’evoluzione verso il rendimento di giustizia nell’amministrazione, delimitava l’area del giudizio, mentre, quanto alla posizione di chi ricorreva, lo stesso art. 26, si limita a parlare di « interesse ». Interesse che, per l’esigenza di intrinseca coerenza dell’ordinamento giuridico, deve esser riconducibile all’ordinamento stesso, nel cui ambito, in definitiva, si chiede la tutela giudiziaria, senza che però sia necessario pervenire ad una determinata qualificazione, essendo sufficiente la rilevanza dell’interesse per l’ordinamento stesso in termini di interpretazione delle norme applicabili alla luce del caso concreto. Rilevanza che può sinteticamente delinearsi prospettando un miglioramento della situazione del ricorrente che, secondo l’ordinamento, derivi dalla eliminazione del provvedimento impugnato. In questa prospettiva può spiegarsi l’ellittica affermazione di pregressa dottrina (Forti), che ravvisava come unica condizione del ricorso al giudice amministrativo l’interesse a ricorrere. In realtà si tratta di una indagine empirica, nel senso che deve essere condotta avendo riguardo alla ricostruzione degli elementi di fatto e della disciplina giuridica del caso controverso, che consente di individuare il soggetto legittimato a chiedere annullamento e/o risarcimento e che in ogni caso deve dimostrare che dall’annullamento può derivare, secondo l’ordinamento giuridico, una modificazione in senso favorevole rispetto alla situazione che è seguita alla emanazione dell’atto impugnato. È il potere nel suo manifestarsi, quanto alla dinamica degli svolgimenti ed agli effetti prodotti, che viene all’esame del giudice per quanto ha inciso sugli interessi riferibili al singolo ricorrente e per gli effetti che ancora potranno derivarne, tenendo ben presente che il potere è attribuito per produrre modificazioni nella regolamentazione giuridica degli interessi che, per quanto riferibili al singolo, consentono una localizzazione spazio-temporale, mentre per quanto riguarda le comunità, vanno specialmente considerati in fase dinamica: con la conseguenza che il conflitto deve essere composto con il ricorso al sistema, che consente la formazione della regola adatta ad eliminare il contrasto tra interessi che,


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magari, hanno in comune solo i mezzi di appagamento ma sono diversi per dimensione, imputazione, finalità perseguite. Occorre prospettarsi la dinamica del potere e dei corrispondenti interessi comunitari nella sfera individuale più o meno definita ma che deve essere tutelata perché le singole personalità devono potersi svolgere e partecipare alla vita comunitaria (artt. 2 e 3 Cost.). Quanto al problema della titolarità dei diritti soggettivi esso attiene — salvo che per la giurisdizione esclusiva — alla delimitazione ab externo dell’area della giustizia amministrativa in quanto non si riferisce immediatamente alla legittimità della funzione amministrativa, da valutare secondo le norme che la regolano a richiesta di chi possa avvantaggiarsi dell’annullamento, bensı̀ riguarda la liceità della funzione stessa, che non può incidere sugli interessi garantiti al singolo come diritti soggettivi, a meno che la legge a tanto non la abiliti, sacrificando, a certe condizioni, lo stesso diritto soggettivo e rientrandosi cosı̀ nella tematica delle condizioni di legittimità dell’esercizio della funzione amministrativa. Ma va ancora sottolineato che, mentre impugnando un provvedimento per violazione di legge, incompetenza o eccesso di potere si fa valere una violazione di limiti intrinseci alla funzione stessa ed alle norme che la istituiscono e la regolano, la violazione del diritto soggettivo è sostanzialmente un eccesso dall’area propria della funzione pubblica, con violazione dei limiti posti a garanzia del singolo (arg. ex art. 28 Cost.), sicché si tratta di una realtà diversa dal controllo sulla legittimità della funzione, che riguarda l’attività stessa dell’amministrazione e non una determinata situazione soggettiva, che, significativamente, per gli interessi legittimi viene indicata come protetta occasionalmente o di riflesso, mentre si tratta di utilizzare le regole imposte all’essere ed all’agire dell’amministrazione per migliorare la posizione del soggetto che abbia risentito effetti sfavorevoli dell’attività amministrativa: effetti non riconducibili al metro comune della legge. Legge che forma l’ordinamento giuridico in cui operano ed interagiscono singoli ed apparati, avvalendosi spesso di beni della


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stessa natura e di varia appartenenza, svolgendo, singoli ed apparati, attività indirizzate ad altri singoli e comunità, con effetti spesso diffusi e conseguenti esigenze di coordinamento, per attenuare le interferenze, che generano prima o poi controversie per conflitti tra interessi di varie dimensioni che la legge imputa, per la relativa gestione, taluni ai singoli, tal’altri agli apparati; con le conseguenti necessità di ricostruirne la disciplina, specialmente in caso di dissenso o di invasione di aree. In questo senso si è innanzi prospettata la esigenza di ricostruire discipline particolari; esigenza tanto vera che i legislatori più avvertiti avevano elencato le materie di competenza dei giudici amministrativi, rispondendo ad esigenze di certezza e speditezza, non raggiungibili postulando l’esistenza della situazione di interesse legittimo i cui contorni non si riesce a definire, appunto per il polimorfismo degli interessi concretamente implicati, per la natura essenzialmente dinamica della funzione amministrativa e per il divenire delle vicende comunitarie, via via variamente apprezzate dal legislatore. 4.1. La ricostruzione che precede comporta una sostanziale rivalutazione, istituzionale e funzionale, dei principi fondamentali della sottoposizione dell’Amministrazione alla legge e della giustizia nell’Amministrazione che, ancora oggi, trovano le loro profonde e vitali radici nel ricordato discorso di Spaventa del 1880 all’associazione costituzionale di Bergamo e la loro rinnovata espressione negli artt. 24, 28, 100 103 e 113 Cost. La sottoposizione dell’Amministrazione alla legge procede ora verso un regime di parificazione, nel senso dell’eguale sottoposizione dell’Amministrazione e del singolo alle leggi civili, penali ed amministrative (art. 28 Cost.), anche perché, con la affermata risarcibilità dei danni da lesione di interessi legittimi, è caduta la più grave discriminazione a carico dell’individuo, non solo nel senso che la responsabilità degli enti pubblici e dei funzionari non è più limitata alla sola violazione dei diritti, ma anche nel senso che, ormai, funzionari ed enti sono pienamente responsabili per la violazione delle regole che ne indirizzano e vincolano


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l’azione, quanto alla competenza, alla procedura, ai fini ed agli interessi dei singoli, sia in positivo che in negativo, salva, per la responsabilità personale dei funzionari, la limitazione alla colpa grave quanto al risarcimento del danno, al pari di ogni altro prestatore d’opera, libero professionista o dipendente che sia, non potendo gravare sul funzionario il rischio connesso all’esercizio della funzione. Da notare che gli artt. 33-35 del d.lgs. n. 80 del 1998 e l’art. 7 della l. n. 205 del 2000 attuano finalmente l’art. 113 Cost. ultima parte, nel senso che abilitano il giudice amministrativo ad un ristoro pieno della lesione subita dall’individuo, prevedendo sia l’annullamento che il risarcimento. È il sistema di legalità che viene finalmente dichiarato nella pienezza dei suoi significati che derivano dalle norme costituzionali ed, in particolare, dagli artt. 24, comma 1, 100, comma 1 e 113, ult. comma Cost.. Ed anche sotto questo profilo deve riconoscersi al giudice amministrativo la qualità di giudice sulla funzione pubblica, nel senso di ricondurne a legge le varie forme di manifestazione attraverso l’annullamento ed il risarcimento. Giudice della funzione pubblica che attualmente dispone di mezzi per realizzare la giustizia nell’Amministrazione, nel senso della eliminazione del torto. L’interesse dell’individuo e l’atto o comportamento della p.a. sono cosı̀ egualmente sottoposti al vaglio del giudice amministrativo completandosi la tutela secondo legge, poiché all’annullamento previsto nel sistema del t.u. n. 1054 del 1924 e della l. n. 1034 del 1971, si aggiunge il risarcimento, anche in forma specifica; risarcimento in forma specifica che, va detto subito, può essere in non pochi casi una forma di risarcimento a costo zero o quasi, perché la riconduzione a legittimità del regolamento di interessi che ha dato luogo al ricorso può eliminare o fortemente attenuare il danno. 4.2. Per meglio configurare la sfida dell’avvocatura verso l’effettività della resa di giustizia, nella prospettiva propria di ogni sfida — che è per sua natura una istanza polemica di rinnova-


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mento e, nello stesso tempo, propositiva, specialmente se articolata in legalità, qualità e giustizia — deve partirsi, per quel che riguarda il processo amministrativo, sempre dal principio fondamentale della giustizia nell’amministrazione che, a sua volta, è l’istanza fondamentale accolta dal Costituente che ha riconosciuto nell’art. 100 del testo costituzionale, nella parte relativa alla giurisdizione, il diritto del singolo e delle comunità ad ottenere una gestione giusta degli interessi oggetto della funzione amministrativa: gestione giusta garantita da apposita giurisdizione, indicata nel Consiglio di Stato e negli altri organi di giustizia amministrativa decentrati in sede regionale (artt. 100 e 125 Cost.). E mentre la funzione amministrativa, curando gli interessi delle comunità di varia dimensione, si esprime di regola, in soluzioni che incidono su beni e attività facenti capo a singoli individui, la legge prevede, allo stesso tempo, un sistema di limiti che contemplano posizioni individuali e collettive: sistema del quale il giudice amministrativo garantisce l’osservanza. Ed è in attuazione del principio della giustizia nell’amministrazione che il giudice amministrativo adempie una funzione di garanzia giudiziale, continua, ad istanza di chiunque si ritenga leso dall’indebito esercizio della funzione affidata all’apparato amministrativo (artt. 24 e 113 Cost.), per qualsiasi tipo di interesse tutelato dall’ordinamento giuridico; ordinamento che i pubblici funzionari devono osservare per non incorrere in responsabilità. Non a caso l’art. 28 Cost. enuncia la significativa trilogia delle fonti della responsabilità dei funzionari, individuate nelle leggi civili, penali e amministrative: trilogia che richiama l’ordinamento giuridico nella sua unità e coerenza. Giustizia nell’amministrazione da rendere, perciò secondo legge, a richiesta del soggetto che assuma di essere stato leso negli interessi garantiti dalla legge, che nella Costituzione vengono indicati come diritti soggettivi e/o interessi legittimi, delimitando, nel contempo e correlativamente, le due giurisdizioni, ordinaria ed amministrativa, salvo diversa disposizione di legge (artt. 24, 103 e113 ult. comma Cost.).


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Ma va subito ribadito che, come è noto, questa bipartizione delle sfere di giurisdizione, benché tradizionale del nostro sistema, è tutt’altro che priva di ombre perché, sostanzialmente, essa risente della variabilità dei limiti dell’attività pubblica e, rispettivamente, privata; infatti è stato evidenziato che di tanto si restringe l’area del diritto soggettivo e si accresce l’area dell’interesse legittimo, di quanto si accresce, secondo il divenire della legislazione, l’area dell’attività pubblica e viceversa, secondo i rilievi della dottrina richiamati al precedente § 3.1. Variazioni dell’area del pubblico e, rispettivamente, del privato, incidono, secondo l’interpretazione che viene data del nostro sistema, sulla delimitazione delle sfere di giurisdizione, con grave danno per la certezza della stessa tutela giudiziaria, dato che, secondo le nozioni dominanti, l’area del pubblico non si estende senza limitare corrispondentemente la sfera dei diritti soggettivi ed allargare il campo degli interessi legittimi. Senza dimenticare che l’esercizio degli stessi diritti soggettivi, può, secondo legge, essere condizionato da atti di pianificazione del territorio (art. 869 c.c. per lo jus aedificandi) o dell’economia (da ultimo d.P.R. n. 112 del 1998 passim). Pertanto, la ricerca deve continuare se si vogliono chiarire, per quanto possibile, gli elementi di riferimento per la prestazione di una effettiva tutela giudiziaria nei rapporti tra cittadino e pubbliche amministrazioni, rispondendo alla sfida per la giustizia e ribadendo che, secondo l’art. 100 Cost., una costante va comunque rivendicata ed è quella della giustizia nell’amministrazione e che l’art. 100 affida il rendimento di detta giustizia al Consiglio di Stato e gli artt. 24 e 113 garantiscono la tutela giudiziaria nei confronti di chicchessia, non solo agli interessi legittimi che, secondo gli artt. 100 e 103 rientrano nella giurisdizione del Consiglio di Stato e degli altri giudici amministrativi (art. 125 Cost.), ma anche dei diritti soggettivi che l’art. 113, 1o e ult. comma dichiara espressamente tutelabili nei confronti della pubblica amministrazione innanzi ai giudici ordinari e amministrativi. E ciò significa che la resa di giustizia nell’amministrazione deve essere garantita per ogni tipo di interesse giuridicamente ri-


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levante innanzi al giudice competente secondo legge (artt. 103 e 113 ult. comma Cost.). Ora questa resa di giustizia che la Costituzione non limita nei suoi contenuti per qualsiasi interesse giuridicamente rilevante, è la tematica del fondamentale art. 100 Cost. e deve costituire oggetto della sfida dell’avvocatura nel senso della legalità e della qualità della giustizia nell’amministrazione. Resa di giustizia che si riferisce ai conflitti di interesse che si determinano nell’esercizio della funzione amministrativa tra singoli e p.a. e che ha ad oggetto interessi che attingono la dimensione ultraindividuale. La gestione di tali interessi ultraindividuali è oggetto che viene alla cognizione del giudice amministrativo su istanza dei singoli che lamentino di essere stati danneggiati in un proprio interesse giuridicamente tutelato, per effetto della soluzione adottata con l’atto espresso nell’esercizio della funzione amministrativa; atto che, secondo il principio di legalità, deve essere verificato in tutti i suoi elementi per assicurare appunto la giustizia nell’amministrazione: per come essa si è manifestata nel suo farsi e negli effetti che ha prodotto. Segue che, coerentemente al testo dell’art. 100 Cost., l’oggetto del processo che si svolge tra amministrazione e singolo, è la funzione svolta dall’amministrazione; ed è questa funzione l’oggetto dell’accertamento e, ove ne sia il caso, della correzione giudiziale, mentre la situazione giuridicamente tutelata dal ricorrente, per effetto del sistema giurisdizionale bipartito, è elemento che anzitutto va considerato per individuare il giudice competente secondo legge ex art. 103 e 113 ult. comma Cost.; in secondo luogo, l’interesse giuridicamente tutelato e che si assume leso, individua il soggetto legittimato a ricorrere: indagine quest’ultima che può essere verificata anche paragonando, al metro dell’apprezzamento medio e secondo l’ordinamento giuridico nel suo complesso, la situazione di chi ricorre nel momento rispettivamente anteriore e posteriore all’emanazione del provvedimento impugnato. Sotto questo profilo, le indagini sulla legittimazione e sull’interesse a ricorrere si illuminano vicendevolmente, proprio per


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l’indefinizione della situazione di interesse legittimo, che può essere precisata con l’apporto empirico degli effetti prodotti dall’esercizio del potere e sul quale si ritornerà. Ma deve essere chiaro che la resa di giustizia nell’amministrazione — specialmente dopo il riconoscimento della risarcibilità dei danni da lesione di interessi legittimi sulla quale anche si ritornerà — non dipende dal tipo di situazione lesa ma dall’esame del modo di esercizio della funzione; esame che deve essere tanto approfondito da raggiungere una istruzione completa dell’affare, cosı̀ come si esprime l’art. 44 t.u. n. 1054 del 1924. Esame approfondito che concerne la funzione, fattispecie dinamica che, essendo tale, per poter essere adeguatamente conosciuta, deve essere acquisita nei presupposti di partenza, nell’incidenza, nelle reali finalità e nei risultati, sulla base dei fatti esposti e delle questioni proposte dal ricorrente innanzi al giudice amministrativo e dall’attore innanzi all’AGO; e ciò tanto più ora che si è manifestata la tendenza alla parificazione, anche in sede legislativa, degli strumenti dell’istruzione probatoria nei due ordini di giurisdizione, rendendosi finalmente conto della naturale tematica del processo, che è il fatto, che ha la testa dura ed al quale, una volta acquisitine gli elementi qualificanti, deve essere adattato il diritto, scritto e non, per elaborare una sentenza aderente ai fatti e coerente con l’ordinamento nel suo complesso e nell’ambito del quale la sentenza stessa dovrà essere eseguita, ricordando che nella fase dell’esecuzione ancor più riemergono i fatti. 4.3. Giustizia nell’amministrazione che deve essere particolarmente attenta, perché considera naturalmente una realtà in continuo divenire quale quella degli interessi ultraindividuali e dell’esercizio delle funzioni che li gestiscono per quanto incidono sugli interessi individuali. Fattispecie dinamiche non solo in perenne divenire ma in continuo, reciproco dimensionamento tra gli interessi comunitari e/o ultraindividuali, che via via si enucleano e i poteri che li gestiscono, che trovano presupposti, finalità e limiti in realtà divenienti e condizionanti secondo il principio di legalità, che, come suo es-


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senziale effetto, dimensiona il potere secondo l’interesse cui provvedere ed i limiti in cui si può incidere sugli interessi individuali secondo i principi costituzionali. Precisazioni che si sono espresse per affermare che la legittimità o meno degli atti in cui si è concretato l’esercizio della funzione, va accertata secondo le norme che immediatamente regolano detto esercizio, nella competenza, nel procedimento, nelle forme e nei fini e che sono norme di organizzazione, procedimentali, descrittive di particolari forme di atti intra ed interprocedimentali e, per quanto possibile, dei relativi contenuti, nonché dei tipi di interessi sui quali si può incidere e dei fini che possono essere perseguiti. Norme che vengono singolarmente in rilievo per valutare gli elementi che specificamente considerano, nonché nel contesto dei fatti in cui si è operato, per accertare le deviazioni dai fini di legge, secondo regole e metodi da elaborare in modo coerente ai principi dell’ordinamento, amministrativo e generale. In questo senso va qui ricordata la teoria di F. Benvenuti che configura l’eccesso di potere come vizio della funzione, per quanto espressa in uno o più atti viziati nel loro insieme, per i presupposti da cui partono ed i fini che perseguono. Ciò significa che nella valutazione della legittimità dei provvedimenti, i parametri sono quelli immediatamente riferibili alla funzione pubblica che valgono per come e per quanto sono previsti dal sistema e che non subiscono nè attenuazioni né potenziamenti per la situazione in cui si trova il singolo, dovendosi solo accertare se, secondo le leggi che regolano la titolarità e l’esercizio della funzione pubblica, il funzionario, che della funzione è titolare, può sacrificare interessi riferibili al singolo. L’eccesso di potere deve essere perseguito appunto perché si verifica quando l’esercizio della funzione avviene in punto di fatto al di fuori dei fini fissati dalla legge. Le situazioni di interesse legittimo o di diritto soggettivo non valgono di per se stesse a rafforzare o attenuare il potere che il funzionario esercita; potere che, negli ordinamenti retti dal principio di legalità, è certamente condizionato direttamente dalla


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legge ogni volta che tende a modificare coattivamente situazioni singole, o comunitarie, che sono anch’esse nel contesto ordinamentale e, quindi, risentono dell’esercizio del potere secondo le norme dalle quali il potere stesso trae origine ed assume le forme delle sue manifestazioni. Segue che il giudice amministrativo, quando viene investito del problema dell’attività amministrativa per giudicare in ordine alle questioni di legittimità e, se previsto, di merito, ha come parametri di valutazione i principi e le norme sulla titolarità e sull’esercizio della funzione amministrativa, a cominciare dal principio costituzionale della giustizia nell’amministrazione, non disgiunta dall’imparzialità e dal buon andamento, che sono principi costituzionali sull’essere e sull’agire degli apparati amministrativi. Una volta individuato nella titolarità e nell’esercizio della funzione amministrativa l’oggetto del sindacato del giudice amministrativo, giova ritornare sotto altri profili sul rilievo che assumono le situazioni di diritto soggettivo ed interesse legittimo che, secondo il testo costituzionale, sarebbero le situazioni di cui si può chiedere la tutela giudiziaria, rispettivamente al giudice ordinario ed al giudice amministrativo. Ora nella nostra tradizione giudiziaria, certamente presente al Costituente, mentre il giudice ordinario emette sentenze dichiarative, costitutive o di condanna, regolando la situazione controversa, il processo amministrativo si conclude di regola con una sentenza di annullamento del provvedimento, che risulti illegittimo, o di rigetto del ricorso, se infondato: sicché nella sentenza del giudice amministrativo non vengono espressamente dettate le disposizioni specifiche per il regolamento della situazione dedotta quanto, piuttosto, eliminata la manifestazione illegittima della funzione amministrativa, anche se la motivazione vale certamente come direttiva (4). Ma non è a questa constatazione che ci si può arrestare per(4) V. pure per le ordinanze cautelari l’art. 3 l. n. 205 del 2000 che consente provvisorie valutazioni ed anche misure corrispondenti. Vanno ricordati i rilievi del Nigro circa la necessità di esaminare tutti i motivi dedotti dal ricorrente proprio in fun-


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ché occorre trattenersi ancora sulla diversità essenziale delle due figure richiamate nel testo costituzionale, del diritto soggettivo e dell’interesse legittimo, partendo da quest’ultimo e soffermandosi ancora sulle note connessioni con la funzione amministrativa sulle quali ci si è già trattenuti, utilizzando i chiarimenti che si cercherà di raggiungere sull’interesse legittimo per precisare il rilievo che assume, a sua volta, il diritto soggettivo ai fini della delimitazione, per cosı̀ dire ab externo dell’area della giustizia amministrativa. Come già accennato ai §§ 3.1. e 3.3. l’interesse legittimo è nient’altro che la forma per utilizzare a difesa del singolo le regole imposte dalla legge alla titolarità ed all’esercizio della funzione amministrativa, svolgendo il principio di legalità dell’azione, secondo le indicazioni della Costituzione (artt. 13 ss., 41 ss., 97), in modo da garantire la giustizia nell’amministrazione da parte del giudice di legittimità. La Costituzione, in particolare nell’art. 113, parla di tutela giurisdizionale degli interessi legittimi (oltre che dei diritti soggettivi) contro gli atti dell’amministrazione e, guardando proprio all’esperienza giudiziaria, si rileva, già a prima vista, che il giudice degli interessi legittimi perviene alla repressione delle illegittimità sulla base dei principi e delle norme che regolano la funzione amministrativa. Constatazione empirica confortata dai già richiamati elementi evidenziati dal fondamentale art. 26 t.u. n. 1054 del 1924, in cui la trilogia delle forme di illegittimità è riferita al provvedimento impugnato ed il fondamento dell’iniziativa del ricorrente è laconicamente indicato nell’interesse inciso dall’atto. Di qui è breve il passo nel configurare l’interesse legittimo come fictio juris nel senso di ricostruire come situazione soggettiva del ricorrente il potere di iniziativa accordato allo stesso per far valere la violazione delle norme e dei principi che direttamente regolano la funzione amministrativa. In questo senso si è già evidenziato che anteriore dottrina ha zione di risposte del giudice, non solo adeguate alle istanze del ricorrente, ma anche intese ad individuare la disciplina per l’avvenire del rapporto già controverso.


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riferito l’allargamento dell’area dell’interesse legittimo alla crescita dell’area della funzione amministrativa: corrispondenza che prova ulteriormente l’unità della base normativa di cui il ricorrente chiede l’attuazione impugnando l’atto illegittimo e per lui lesivo, che è appunto la normativa sull’azione della p.a. (F. D’Alessio ed E. Guicciardi). Fictio juris che non va oltre il conferimento del potere di iniziativa per far valere le violazioni delle norme sulla funzione amministrativa e con esse i vizi propri dell’atto, ma resta il problema di individuare il soggetto a tanto legittimato; problema cui accenna soltanto l’art. 26 del t.u. n. 1054 cit. parlando di atti di autorità o corpi amministrativi « che abbiano per oggetto un interesse di individui o di enti morali giuridici » e che va meglio precisato dicendo che la legittimazione va affermata per chi sia titolare di un interesse rilevante per l’ordinamento giuridico in base alle norme che tutelano detto interesse. In questo senso va ampliata l’affermazione del Cannada Bartoli che ravvisava il diritto soggettivo alla base dell’interesse legittimo, mentre anche una aspettativa giuridicamente rilevante nell’ambito di un procedimento può legittimare all’impugnazione del diniego. Può esservi cioè la riconduzione a legalità della funzione pubblica in sede giudiziale, su istanza di chi consegua un miglioramento sostanziale del regime dei propri interessi rilevanti per l’ordinamento giuridico: miglioramento che però è l’effetto dell’osservanza delle norme poste a disciplinare la funzione amministrativa o comunque ad essa riferibili. Miglioramento di situazione che viene in rilievo per la prospettazione dell’interesse a ricorrere, come accade in vista dell’annullamento del provvedimento impugnato per l’eliminazione di un vincolo urbanistico o paesistico arbitrariamente imposto, su ricorso del proprietario del bene gravato dal vincolo. Ulteriori chiarimenti sono invece necessari in ordine al diritto soggettivo per quanto sottoposto alla giurisdizione ordinaria e, rispettivamente, alla giurisdizione amministrativa esclusiva, affermandosi però sin d’ora che sia per il diritto soggettivo che per l’interesse legittimo, nei rapporti tra singolo e potere, la tutela è


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quella che la legge accorda secondo il principio di legalità e che non esistono graduazioni di tutela derivabili da riconduzione alle rispettive categorie per gli interessi compresi nell’una e/o nell’altra delle due situazioni soggettive tipiche, ma la tutela è quella che può ricostruirsi per ogni interesse giuridicamente rilevante nella vicenda che si determina nei rapporti con altri soggetti, avendo riguardo alle leggi applicabili o, in carenza, ai principi del sistema. Ferma restando la realizzazione della giustizia nell’amministrazione e dell’eguaglianza anche di fatto, che sono alla base della nostra Costituzione come patto fondamentale tra cittadino e potere: garanzie queste ultime, entrambe da non trascurare nella sfida dell’avvocatura per la legalità e qualità della giustizia. Ciò premesso, quanto al problema della tutela dei diritti soggettivi innanzi agli organi della giustizia amministrativa, vengono in rilievo due ordini di norme, cioè quelle che individuano il diritto soggettivo e quelle che regolano la funzione amministrativa. È noto, infatti, che la legge può prevedere che nell’esercizio della funzione amministrativa vengano, con determinate garanzie, sostanziali e procedimentali, sacrificati diritti soggettivi o ne venga variamente condizionato l’esercizio. Qui l’imputazione della tutela è facilitata dalla titolarità del diritto che viene sacrificato dall’esercizio del potere e la verifica del giudice amministrativo è anzitutto diretta ad accertare la ricorrenza dei presupposti ed elementi stabiliti dalla legge per l’esercizio del potere cui consegue il sacrificio del diritto soggettivo nonché il procedimento seguito, che la legge determina per garantire specialmente l’acquisizione della situazione di fatto che, ricorrendo certi presupposti ed elementi, può giustificare il sacrificio del diritto. Da sottolineare che l’indagine sulla ricorrenza in concreto dei presupposti ed elementi, va condotta riferendosi sia alle norme che configurano il diritto soggettivo che alle norme che attribuiscono il potere e ne regolano l’esercizio, dovendosi stabilire, da un lato, il grado di cedevolezza del diritto che ad es. quanto allo jus aedificandi è previsto nella stessa norma che ne riconosce l’esistenza contestualmente conformata dalle norme dei piani re-


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golatori (art. 869 c.c.) e, dall’altro, se la disposizione dell’amministrazione pubblica che sacrifica il diritto, sia stata adottata sulla base dei presupposti, secondo il procedimento e verso i fini che consentono il sacrificio del diritto, come avviene per l’espropriazione dei beni immobili che può essere disposta secondo le norme, ora raccolte in apposito testo unico (cfr. d.P.R. 8 giugno 2001 n. 327 mod. con d.lgs. n. 27 dicembre 2002 n. 302), e già nella l. n. 2359 del 1865 e succ. mod. In queste condizioni l’identificazione dell’area della giurisdizione sui diritti appare in tutta la sua complessità: complessità che poi è l’elemento che spiega l’istituzione della giurisdizione esclusiva, perché, da un lato, sarebbe improprio andare alla ricerca della tutela esclusiva dell’interesse del titolare del diritto soggettivo, che nasce e vive nel sistema — come l’iniziativa economica e la proprietà, limitate già nel testo degli artt. 41 e 42 Cost. — e, dall’altro, per gli interessi garantiti dalla legge come diritti dei singoli, il potere di gestire il diritto appartiene di regola al suo titolare, ma esiste un sistema di limiti derivante da elementi esterni al diritto come la pubblica utilità e lo stato di necessità che fondano il potere della p.a. di imporre sacrifici o limitazioni secondo legge. Chiarendosi che queste analisi restano assorbite nell’apprezzamento fatto dal legislatore all’atto della statuizione della giurisdizione esclusiva quanto alla delimitazione della competenza del giudice amministrativo, il quale, però, giudicando nel merito, accerta la legittimità o meno del sacrificio imposto, verificando appunto i limiti previsti dalla legge al potere di sacrificare il diritto: verifica che va fatta avendo riguardo sia al regime del diritto sacrificato che al regime del potere che ha imposto il sacrificio: disciplina quindi di accertamento che investe la funzione amministrativa e la situazione individuale; e deve essere accordata la tutela derivante dalla conformazione del diritto soggettivo e dal riferimento alle norme sull’esercizio della funzione amministrativa per quanto indirizzate al sacrificio del diritto soggettivo. 4.4. A questo punto si ripropone il problema della legittimazione a chiedere la giustizia sulla funzione pubblica perché, se


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l’area della giustizia nell’amministrazione si estende coerentemente fin dove può arrivare l’esercizio dell’amministrazione stessa, deve precisarsi chi ed in quali circostanze può chiedere giustizia. Ed a questo interrogativo deve rispondersi secondo il dettato della Costituzione e delle leggi che vi danno attuazione, che hanno codificato il diritto di ogni soggetto di rivolgersi al giudice: diritto, peraltro riconosciuto non soltanto nell’ambito dello stato di diritto, ma di ogni organizzazione statale anche di tipo autoritario. Nel nostro sistema la risposta non sta soltanto del noto e già citato art. 24 Cost. che, con dizione omnicomprensiva, riconosce che tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti o interessi legittimi, ma anche nel riconoscimento delle formazioni sociali in cui si svolge la personalità umana (art. 2 Cost.), nonché delle istituzioni che possono tutelare la propria sfera di attribuzioni (art. 134 Cost.) e gli stessi interessi che impersonano (cfr. artt. 2 e 24 Cost.). Ma deve in ogni caso trattarsi di interessi rilevanti per l’ordinamento giuridico non solo perché l’art. 24 ammette l’azione in giudizio per la tutela dei propri diritti soggettivi ed interessi legittimi, che insieme puntualizzano, sia pure con vari riferimenti e forme, gli interessi rilevanti per l’ordinamento giuridico, ma perché lo stesso ordinamento è la misura comune per gli individui, le istituzioni e le comunità, quali che ne siano i motivi di aggregazione o contrapposizione. Fin dove arriva la funzione pubblica il giudice amministrativo deve assicurare la giustizia dell’amministrazione, ma l’individuo o il gruppo può farvi ricorso se ed in quanto l’ordinamento giuridico dia fondamento alle sue pretese. Ed a proposito della giurisdizione esclusiva l’individuazione del soggetto legittimato è facilitata dalle norme giuridiche che riconoscono ai soggetti che si trovino in determinate condizioni i diritti azionati in giudizio e, sempre ribadendo che ai giudici può chiedersi la tutela dei soli interessi tutelati dall’ordinamento giuridico, può aggiungersi che la controversia comunque originata dall’esercizio della funzione


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amministrativa va, anche soggettivamente, delimitata riferendosi alle situazioni garantite ed ai poteri attribuiti, da ricostruire caso per caso, secondo legge, per l’amministrazione e per il singolo. 5. La natura della controversie oggetto della giurisdizione amministrativa, per le contrapposizioni che esse esprimono tra singolo e potere, offre significative occasioni per il controllo di costituzionalità delle leggi, sia per quanto concerne l’attribuzione stessa della potestà amministrativa sia per l’incidenza di essa su interessi costituzionalmente protetti e, sotto questo profilo, si pone come la migliore occasione di controllo sul funzionamento del sistema nel suo complesso. In questo senso esiste un sinergismo tra giustizia sulla funzione amministrativa e giustizia costituzionale, che debbono operare in leale collaborazione tra loro; e non lieve responsabilità grava sul ceto forense cui spetta l’iniziativa in via esclusiva nella prospettazione delle questioni al giudice amministrativo e l’iniziativa, concorrente con quella dei giudici, nel proporre le questioni di legittimità costituzionale delle leggi. E tutti questi sono idonei strumenti dell’avvocatura per agire nel senso della legalità e della qualità della resa di giustizia e dell’esercizio delle altre funzioni pubbliche, compresa la funzione legislativa: e non si dice tutto ciò solo per memoria, anche se in questo congresso i temi sono molti ed impegnativi, perché riunirsi e discutere può risultare di qualche utilità solo se le cose dette si riporteranno nell’agire quotidiano e se i principi costituzionali saranno presenti con la necessaria continuità alle menti degli operatori che dovranno penetrarne e farne valere i contenuti, confrontandoli con le emergenze dei casi concreti, che illuminano, sia pure nelle tensioni e nelle contraddizioni dei processi, il significato delle regole generali. 6. Si è già accennato alle motivazioni costituzionali delle sfide dell’avvocatura tra qualità, legalità e giustizia: esse esprimono una diffusa insoddisfazione che l’avvocatura ha avvertito in chiave ricostruttiva, sfidando se stessa e le istituzioni in cui opera, ad un miglioramento qualitativo per rispondere all’istanza di giu-


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stizia nella legalità, spesso impantanata nei tempi lunghi di risposta e nei formalismi che sacrificano le realtà confliggenti senza pervenire alla dovuta composizione. È in questa prospettiva che, a mio avviso, va colto il sinergismo tra i due temi fondamentali del congresso e cioè la riforma dell’ordinamento della professione forense e la riforma della giustizia: riforma opportunamente articolata in sottotemi; e, per quanto interessa la riforma della giustizia, in cui è compresa la presente relazione sul processo amministrativo, nei sottotemi dell’ordinamento giudiziario, inclusa la magistratura onoraria, e degli ordinamenti processuali. Sembra di ascoltare l’eco delle parole di Carnelutti quando, alla fine degli anni trenta, avvertiva il guardasigilli del tempo del necessario coordinamento tra ordinamento giudiziario e ordinamenti processuali, sicché il procedere alle riforme processuali indipendentemente dalla riforma dell’ordinamento giudiziario poteva ricondursi al classico esempio di chi pone il carro davanti ai buoi. Sono principi noti, quasi idee di uomini semplici, cui basta accennare, ma che pur rimangono inattuati, perché nonostante Filangieri, la scienza della legislazione è la meno praticata delle discipline, forse proprio perché intesa a produrre l’ordinato svolgimento delle funzioni pubbliche e delle attività individuali, mentre anche quando si preparano le riforme sotto l’impulso di istanze reali, nel corso dei lavori interferiscono elementi occasionali, che guastano il disegno e spesso ispirano la fretta verso la conclusione, pur di esprimere un prodotto che abbia un nome e, magari, una bandiera. Ma la funzione giudiziaria è fatta di iniziative, processi e decisioni ed ogni fase ha i suoi operatori e tutti insieme debbono rispondere all’istanza fondamentale di giustizia che viene dall’uomo al quale tutti i regimi hanno più o meno dichiarato di corrispondere, specialmente per quelli che sono interessi fondamentali del singolo e delle comunità, sia pure incorrendo in errori, deviazioni e ritardi e pagando un non lieve scotto di sfiducia e separazione tra apparati pubblici, gruppi sociali ed individui.


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D’altronde, la resa di giustizia è condizione di pace (5) mentre l’instabilità dei rapporti sociali, la sfiducia e l’abbassamento di produttività, laddove giustizia e pace difettano, sono incentivi per mettere ordine negli apparati giustiziali in modo da migliorare, specialmente per quanto interessa il processo amministrativo, l’osmosi tra pubblico e privato: osmosi che si va configurando — senza estremizzazioni — sempre più come integrazione; sicché c’è da domandarsi quali forme debba assumere l’ordinamento processuale amministrativo, per i divenienti contenuti conflittuali, che nell’ambito di esso devono trovare composizione. E nel tentativo di trovare le risposte alle complesse istanze rivolte ai giudici amministrativi, c’è da mettere in conto la diffıcoltà innegabile di inquadrare i rapporti tra singoli ed apparati in termini di autorità, come di recente ha, sensibilmente, evidenziato la Cassazione nella ricordata sent. n. 157 del 2003. Ed a questo punto va riaffermata l’importanza del vizio di eccesso di potere che, nelle sue varie forme, tende a contenere la potestà amministrativa in limiti di funzionalità e giustizia, nonché a razionalizzare l’attività svolta ed i sacrifici che possono derivarne per i singoli. Conformazione del vizio di eccesso di potere storicamente nata agli albori della giustizia amministrativa, per valutare secondo lo spirito della legge l’esercizio della funzione amministrativa (cfr tra le altre Cons. Stato, Sez. IV, 25 maggio e 6 luglio 1894 in Giust. amm., 1894 I, 364 e 630) e tutt’altro che da archiviare perché caratterizza la giustizia amministrativa ed invita difensori e giudici ad approfondire le fattispecie, per correggerne, con adeguate motivazioni, le deviazioni, che, ad un primo esame, possono sfuggire, dovendosi operare ai margini della normativa e piuttosto secondo i principi e le finalità: il che significa che l’impegno degli operatori di giustizia, data la configurazione elastica delle censure possibili, deve precedere lo stesso miglioramento delle norme, che però è indispensabile sul piano del rafforzamento dell’organizzazione e del miglioramento delle procedure. (5)

Il motto di Giovanni XXIII era « Justitia et pax ».


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7. La situazione attuale dell’ordinamento del processo amministrativo è del tipo per cosı̀ dire polistrutturato, anche se è rimasto in vigore l’originario impianto e, cioè, giudizio su ricorso per motivi specifici, acquisizione di prove anche di ufficio e pronuncia di annullamento, mentre non mancano evoluzioni verso le pronunce di condanna, coerentemente all’allargamento dell’area della giurisdizione esclusiva ed all’azione per risarcimento di danni (art. 7 l. n. 205 del 2000). Senza dire, poi, dell’estensione che va assumendo la fase dell’esecuzione del giudicato in cui la pronuncia decisoria assume forme e contenuti definiti anche in positivo. Quanto al regime delle prove, il processo amministrativo va sempre più assimilando le regole dell’istruzione del processo civile ed in certo senso risulta più elasticamente regolato, non essendo venuto meno il potere di disporre l’istruttoria di uffıcio (art. 44 t.u. n. 1054 del 1924). Senza dire che proprio i poteri del giudice amministrativo, esercitabili di ufficio, avvicinano il processo amministrativo anche al processo penale, come già nel 1950 affermava il F. Benvenuti, specialmente sotto il profilo dell’acquisizione degli elementi, secondo il procedere della formazione del convincimento del giudice. Questo avvicinamento è significativamente espresso nel già ricordato art. 44 t.u. 26 giugno 1924, n. 1054 dove è detto sic et simpliciter, che se la sezione del Consiglio di Stato « riconosce che l’istruzione dell’affare è incompleta o che i fatti affermati nell’atto o provvedimento impugnato sono in contraddizione con i documenti, (si noti l’ampiezza delle formule), richiede all’amministrazione interessata nuovi schiarimenti o documenti: ovvero ordina all’amministrazione medesima di fare nuove verificazioni autorizzando le parti ad assistervi, ecc. ». Avvicinamento al processo penale che però è davvero produttivo se ed in quanto comporti che il giudice amministrativo, valutando le prove liberamente acquisite, rispetti i metodi adottati nel processo penale, specie in ordine ai riscontri degli elementi indiziari, il che non sempre accade, specie quando si tratta di elementi


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provenienti da autorità governative per cui entrano in gioco problemi di riservatezza, difficilmente componibili con le esigenze di verità, peraltro ben evidenziate nel riportato art. 44, laddove prevede approfondimenti dell’istruttoria in caso di contraddizione tra le affermazioni contenute nell’atto ed i documenti acquisiti nonché di istruzione incompleta dell’affare. In più espliciti termini l’assimilazione dei poteri istruttori del giudice amministrativo ai poteri istruttori del giudice penale va fecondata nel senso che le prove liberamente acquisite vanno approfonditamente verificate nella concordanza degli elementi di cui constano ed in questo senso si è fatto riferimento ai riscontri come ad indicazione di metodo di valutazione, diretto ad accertare, attraverso la rilevazione o meno della concordanza testualmente voluta dall’art. 44 cit., l’utilizzabilità o meno dei singoli elementi disponibili. Ed in questo senso resta confermato che, data la poliedricità delle norme e dei principi che disciplinano il processo amministrativo, molti miglioramenti sarebbero realizzabili nella fase applicativa, se ed in quanto si disporrà finalmente di un congruo numero di giudici, senza sacrificarne la qualità, e se i patroni dei ricorrenti, cui spetta l’iniziativa, si impegneranno adeguatamente nello studio dei fatti ed opereranno con solerzia sugli elementi via via acquisiti anche con proposizione di motivi aggiunti; ricordando che chi ha la responsabilità dell’iniziativa non deve tralasciare le occasioni che le vicende processuali e fattuali via via evidenziano: l’avvocato non deve fermarsi mai, finché il processo glielo consente, allo stesso modo del medico, che deve utilizzare ogni ragionevole occasione di cura. Soprattutto nell’utilizzazione di ogni occasione per valide iniziative è la motivazione e la responsabilità della libera professione. 8. A questo punto, proprio perché si sta cercando di dare risposta a diffuse istanze di riordinamento e di riforme, che hanno indotto il ceto forense ad esprimersi in termini di sfida tra qualità, legalità e giustizia, si deve ritornare sull’affermazione innanzi


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espressa qualificando come « aperto » il processo amministrativo nella fase attuale della sua regolamentazione, ancorata al processo civile e penale, dicendo subito che questo collegamento, se esprime un miglioramento quanto alle possibilità di acquisire al processo i fatti nella loro obiettiva realtà, non è il rimedio per tutti i mali e ciò per varie ragioni. Anzitutto la vischiosità del sistema; storicamente consolidatosi nel senso del processo su documenti e non sempre adeguatamente arricchito nei suoi contenuti, nella direzione realisticamente segnata nel citato art. 44 t.u. n. 1054 del 1924, che ha testualmente escluso che i fatti fossero quelli affermati nell’atto impugnato ed ha istituito un salutare regime di colloquio tra giudice amministrativo ed amministrazione, purtroppo non potenziato fino al punto di avere innanzi al giudice l’autore dell’atto, magari in contraddittorio con l’interessato, in modo da far finalmente rivivere nel processo le tensioni che danno luogo alla controversia giudiziaria tra cittadino e p.a. Ora un discorso del genere non solo non incontra ostacoli nel dettato della legge perché nulla vieta che gli schiarimenti ex art. 44 vengano ascoltati direttamente dal giudice amministrativo in presenza delle parti — amministratori e privati debitamente assistiti-, ma si arricchirebbe non poco la funzione correttiva della giustizia amministrativa che, in una concezione moderna che va superando il principio di autorità (Cass. n. 157 del 2003 cit.), ne razionalizzerebbe la funzione, giustapponendo, in una fase dinamica, rispettivamente, le funzioni dell’amministratore pubblico e della giustizia amministrativa, realizzando nell’immediatezza e concentrazione del dibattito giudiziario, per sua natura paritetico, quella giustizia nell’amministrazione, che è la motivazione storica e costituzionale (art. 100 Cost.) delle istituzioni di giustizia amministrativa. Si concorrerebbe in tal modo a realizzare, da un lato, l’imparzialità, attraverso la garanzia di una reale e dinamica pariteticità nella fase giudiziaria, e, dall’altro, il buon andamento dell’amministrazione, attraverso l’apporto tecnico e chiarificatore del dibattito giudiziario. Imparzialità e buon andamento che sono, a loro


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volta, le caratterizzazioni costituzionali della funzione amministrativa (art. 97 Cost.). In sostanza per il processo amministrativo si pone un problema di maggiore e più diretta presenza della funzione pubblica, che non può ritenersi acquisita nella sua totalità né attraverso gli elementi risultanti dagli atti impugnati, come del resto si desume dallo stesso art. 44 t.u. n. 1054 del 1924, né attraverso la difesa tecnico-giuridica, sia del ricorrente sia della p.a. resistente, ma deve, il più che sia possibile, rivivere nel suo svolgimento davanti ai giudici, perché la giustizia nell’amministrazione non si realizza soltanto riconoscendo nel giudizio amministrativo le ragioni del ricorrente o della p.a. resistente. Infatti, in detti limiti, rimangono, troppo spesso, fuori del giudizio gli interessi delle comunità amministrate che, invece, verrebbero vagliati se la funzione, a suo tempo esercitata, rivivesse nel giudizio per come è stata esercitata, in vista degli scopi perseguibili secondo legge e nell’interesse degli amministrati, raggiungendo in tal modo la giustizia nell’amministrazione, accertando imparzialità e buon andamento della funzione pubblica, specialmente ora che si va attenuando il sistema del controllo amministrativo, in particolare per l’amministrazione locale di cui si vanno, per di più, ampliando le competenze. Ed anche questo profilo di partecipazione andrebbe attentamente valutato in un congresso forense sulle sfide dell’avvocatura, che sfiderebbe anche se stessa sul piano dell’effettività della partecipazione alle verifiche sull’esercizio della funzione pubblica che abbia dato luogo a contenzioso, contribuendo alla trasparenza per tutti. 9. A questo punto ci si deve domandare se in un riordinamento del processo non debba iniziarsi dalla posizione e, forse addirittura, dai modi di presenza delle parti, a cominciare dalla p.a. e se sia idonea l’attuale conformazione del contraddittorio e come debba risolversi il problema della difesa delle parti nel processo amministrativo, nonché se accanto ai controinteressati non ci si debba porre, come ci si va ponendo — vedi la partecipazione


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delle associazioni ambientalistiche — il problema dei gruppi di base interessati, meglio si direbbe, incisi dalle vicende del giudizio, non meno che dall’esercizio delle funzioni di amministrazione attiva. Ora nel nostro ordinamento, sostanziale e processuale, legalità e giustizia sono strettamente collegate e la giustizia non può efficacemente chiederla se non chi sa chiederla. Cosa vale allora il discorso sulla più diretta partecipazione della funzione pubblica nella fase giustiziale? Non significa certamente, come già accennato, eliminazione della difesa dell’avvocato bensı̀ partecipazione assistita, nel senso che l’autore dell’atto, che, non va dimenticato, è anche il tecnico della funzione contestata, ove occorra, possa essere presente in giudizio e rispondere alle richieste del giudice e della controparte con l’assistenza del suo difensore ed altrettanto faccia chi ricorre o il controinteressato, tutti debitamente assistiti, in modo che la controversia emerga nei suoi termini reali, in eguaglianza di posizioni processuali, mettendo il giudice in grado di acquisirne gli elementi e le parti di discuterne, con gli apporti di cui ciascuna di esse è capace, in modo che possa assicurarsi giustizia nell’amministrazione, sul modello di quanto accade nel libero interrogatorio delle parti nel processo civile o dell’imputato e della parte lesa nel processo penale, dove per nessuna delle parti manca l’assistenza del difensore che, sotto il controllo del giudice, interviene chiedendo chiarimenti o ponendo domande. Se deve rendersi giustizia nell’amministrazione (art. 100 Cost.) non vi sono seri ostacoli alla partecipazione dell’autore e del destinatario dell’atto, assistiti in modo da assicurarne la parità delle posizioni; ma l’acquisizione della vicenda controversa deve andare in profondità, anzitutto perché essa non ha ad oggetto interessi imputabili ai soli soggetti immediatamente contrapposti nel processo, bensı̀ gli interessi giuridicamente impersonati dal funzionario competente che appartengono alle comunità interessate, oltre che al destinatario dell’atto e ad eventuali controinteressati, a loro volta difficilmente delimitabili. E che si tratti di interessi appartenenti alle comunità amministrate appare chiaramente, ad


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esempio, allorché si dibatte dei criteri di scelta tra gli aspiranti alla titolarità di una pubblica funzione, per la realizzazione della scelta del migliore o dei migliori: oppure delle scelte relative alla pianificazione del territorio, della sanità, ecc. Sono tutti questi interessi riferibili, in realtà, a coloro che sono gli amministrati, prima che ai soggetti presenti in giudizio. 10. Si suol dire che nei processi si discute del mio e del tuo ma se questa proposizione è vera normalmente nel processo civile, non lo è altrettanto nel processo amministrativo, dove, piuttosto, si discute del mio del ricorrente, del tuo dei controinteressati e del nostro, formalmente imputato all’Amministrazione e sostanzialmente alle comunità di volta in volta amministrate, come è evidentissimo nei processi in cui si discute degli atti, già menzionati, di pianificazione territoriale e/o economica o delle procedure di scelta dei pubblici impiegati, ecc. Con la conseguenza che, normalmente, il contraddittorio nel processo amministrativo è solo formalmente completo e per ritenerlo completo ci si avvale dell’imputazione giuridica degli interessi comunitari alle istituzioni pubbliche, spesso neppure rappresentative. Ma se non si vogliono chiudere gli occhi sulla realtà dei rapporti socio-economici dibattuti nel giudizio amministrativo e sulle reali dimensioni degli interessi controversi, questo deficit di presenza dei diretti interessati — non agevolmente integrabile, essendo connesso al problema dei gruppi diffıcilmente organizzabili — deve almeno essere compensato dalla più ampia possibile acquisizione dei fatti controversi, delle relative motivazioni, delle occasioni in cui i dissensi hanno avuto origine, degli effetti che ne sono derivati e che via via ne derivano e ne deriveranno. Ed allora non possono esservi preclusioni di sorta nel regime probatorio, dovendo valere il contrario principio dell’inesistenza di limiti all’acquisizione delle prove, coerente alla dimensione degli interessi dibattuti che appartengono alle comunità amministrate, cui le istituzioni danno voce, in forza dell’ordinamento giuridico, dal quale, però, specie per la fase giustiziale, non possono derivarsi limitazioni di tutela, se il principio è quello della


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giustizia nell’amministrazione e della sindacabilità di ogni atto amministrativo. La sfida tra qualità, legalità e giustizia è, pertanto, anzitutto, quella dell’assenza di limiti nell’acquisizione dei fatti al processo amministrativo, perché l’esigenza di verità va oltre gli interessi delle parti presenti e si allarga alle comunità amministrate, venendo in rilievo situazioni di interesse comunitario al buon andamento oltre che all’imparzialità dell’amministrazione, che devono trovare rispondenza nel più completo ingresso possibile dei fatti nel processo amministrativo, in modo che ne risulti non solo una soluzione vera ma utile per tutti. In questo senso si può anche dire che la giurisdizione amministrativa è una continuazione della funzione amministrativa che ne risolve i punti controversi e ne aiuta il produttivo svolgimento. 11. I rilievi sin qui espressi sono coerenti con la dottrina che assimila l’istruttoria del processo amministrativo all’istruttoria penale, che non recepisce i limiti posti dalle leggi civili all’acquisizione delle prove (art. 193 c.p.p.) e dove esiste un interesse diffuso a conoscere il vero del reato che mette in pericolo la sicurezza degli individui e delle società. Ma non è tutto perché si può procedere oltre, sempre partendo dalla natura e dalle dimensioni degli interessi controversi nel processo amministrativo, cercando di precisarne aspetti soggettivi e oggettivi, cominciando dalle parti. Si è già accennato alla nota diversità tra chi propone l’impugnazione e l’amministrazione che resiste. L’interessato all’eliminazione del provvedimento che lo danneggia, ne assume l’illegittimità indicando i motivi addotti a fondamento della sua istanza, ma la funzione che il giudice esercita è sostanzialmente quella di controllare lo svolgimento della funzione che si assume sia avvenuto contro legge e con conseguenze dannose per chi ricorre. In un sistema come il nostro che, salvo eccezioni, richiede che i provvedimenti siano motivati, il testo dell’atto dovrebbe indicare le ragioni che lo giustificano e l’amministrazione chiamata in giu-


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dizio non dovrebbe che ribadire dette ragioni, non essendo ammesse integrazioni successive. Riassumendo, si è in presenza dell’interesse azionato dal ricorrente che pretende un regolamento di interessi diverso da quello disposto dall’amministrazione per lui dannoso, assumendone il contrasto con la legge o con i principi derivabili dal sistema o perché la disposizione adottata non si adatta alla situazione di fatto. Segue che, mentre l’indagine sull’interesse del ricorrente alla eliminazione del provvedimento impugnato può essere circoscritta nella sfera giuridica del ricorrente, non può esserlo altrettanto l’indagine sulla conservazione o meno del provvedimento impugnato che, provenendo dall’amministrazione pubblica, incide, per definizione, in una sfera di interessi ultraindividuali, in cui è implicato, sı̀, l’interesse del ricorrente, ma spesso in modo tutt’altro che assorbente, venendo in rilievo interessi ultraindividuali, quali quelli relativi alla gestione del territorio, della sicurezza, della sanità, dello scambio dei beni ecc., che devono, tutti, essere regolati secondo le norme speciali di volta in volta applicabili e specialmente, secondo le relative pianificazioni. Ciò non significa che la situazione azionata dal ricorrente non sia distinguibile, ma che le connessioni tra interessi pubblici ed individuali sono tali che non consentono di limitare le acquisizioni di fatto alle sole situazioni azionate dal ricorrente, perché, proprio per stabilire se il ricorrente ha ragione o ha torto, sono anche quelle connessioni che vanno chiarite; e per conoscere situazioni tra loro connesse le acquisizioni possibili vanno allargate, per la indispensabile chiarificazione della materia controversa, a tutte le situazioni tra loro connesse e/o interferenti. E non soltanto, ma è la funzione svolta che deve emergere nella sua interezza, per stabilire se essa è stata svolta nel senso dell’imparzialità e del buon andamento, secondo legge e Costituzione, a tutela degli interessi impersonati dall’Amministrazione, sia pur nei limiti oggettivi delle prospettazioni del ricorrente. Da sottolineare a questo punto che l’istruttoria di uffıcio è prevista nell’ambito dello stesso sistema di giustizia amministra-


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tiva che pur prevede un ricorso articolato per specifici motivi di censura che, però, aprono il discorso sulla legittimità del regolamento di interessi adottato nel provvedimento impugnato, che esterna una funzione, da acquisire nei modi e nei tempi in cui si è effettivamente svolta, proprio per poter adeguatamente stabilire la fondatezza o meno delle censure proposte. D’altronde c’è da domandarsi, per meglio conoscere l’estensione oggettiva del giudizio amministrativo, fino a qual punto valga il principio dell’utile per inutile non vitiatur, visto che gli atti dell’Amministrazione sono rinnovabili e vige il principio della comunicazione delle cause di invalidità che si verificano nel corso del procedimento di formazione degli atti, sicché un vizio della fase iniziale porta alla rinnovazione dell’intero procedimento. Vero è che al ricorso si può rinunciare, con l’effetto di far estinguere il processo, visto che il giudice amministrativo si limita a prendere atto della rinuncia; ma il non poter prescindere dall’iniziativa del ricorrente per poter svolgere il giudizio di legittimità, non significa che questo controllo dipenda, nei suoi modi di essere da detta iniziativa, che può segnarne i limiti oggettivi, la proseguibilità, ma non i modi, che sono quelli che la legge stabilisce e si è già detto quale sia la latitudine dei poteri istruttori e la libertà del giudice nella formazione del suo convincimento. 12. Riemerge, giunti a questo punto, la complessità delle motivazioni sottese alla disciplina del processo amministrativo, che può essere iniziato solo da chi si ritenga danneggiato da atti della p.a., ma che si svolge sulla base di prove acquisite anche di ufficio e che è deciso secondo il convincimento che il giudice viene liberamente formandosi, sulla base degli elementi proposti dalle parti o acquisiti di ufficio. La verità è che il processo amministrativo ha a suo fondamento una rivendicazione di tutela del cittadino nei confronti del potere e si è evoluto sulla base dell’esperienza che ha visto per lungo tempo una insuffıcienza del regime delle prove nei confronti della p.a.


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D’altronde, fin dagli inizi, i giudici amministrativi sono andati alla ricerca di soluzioni aderenti alla realtà della controversia, rapportandone gli elementi allo spirito della legge, aprendo cosı̀ la strada alla decisione secondo il libero convincimento del giudice. Nello stesso tempo ha pesato l’origine storica consistente nell’apprestamento di uno strumento giudiziario per rispondere all’istanza di tutela nei confronti del potere, con la conseguente attribuzione dell’iniziativa al soggetto leso che poteva liberamente disporre dell’iniziativa stessa, una volta esercitata. D’altronde, gli strumenti per ottenere giustizia nei confronti del potere, nascono e vivono secondo le circostanze in cui vengono in essere e via via si affermano, ampliandosi e talora restringendosi: esiste per essi una vicenda storica più che un disegno sistematico e la formazione dell’ultima legge di riforma — n. 205 del 2000 — reca evidenti i segni del travaglio attraverso il quale è venuta in essere, essendosi riusciti a superare la pronuncia di invalidità degli artt. 33 a 35 d.lgs. n. 90 del 1998 per eccesso di delega solo attraverso l’incorporazione di detti articoli nella citata l. n. 205 del 2000. Bisogna, quindi, tenersi paghi sol che si riesca ad intendere la motivazione delle varie disposizioni e di talune insufficienze, più o meno evidenti, sforzandosi di ricostruire un sistema plausibile: e non è senza significato la non infrequente associazione dello studio del diritto amministrativo allo studio del diritto costituzionale. Va comunque ribadito che la disponibilità dell’iniziativa del ricorrente, che può anche rinunciare al ricorso con effetti estintivi, non è logicamente incompatibile con il potere del giudice di valutare liberamente le prove per la formazione della decisione, perché la rinuncia, mentre fa venire meno il potere-dovere di decidere sul ricorso, non incide sui modi di formazione del convincimento del giudice mentre, finora, non esiste nel nostro sistema una iniziativa pubblica e dovuta per ottenere l’annullamento per illegittimità degli atti della p.a. in sede giudiziaria. Ma se tutto ciò è esatto, la proposta sfida dell’avvocatura tra


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qualità, legalità e giustizia può trovare maggiore forza proprio sulla base delle motivazioni storiche degli istituti di giustizia amministrativa che, nell’accresciuta dinamica dei rapporti socio-economici, inclusi i rapporti tra singolo e potere, vanno adeguatamente potenziati nell’organizzazione di persone e di mezzi nonché nel concreto svolgimento della loro attività, sempre più arricchita da un’ampia e approfondita acquisizione dei fatti e dall’accelerazione delle procedure. 13. Le cose sin qui dette abbreviano il discorso sugli aspetti oggettivi del processo amministrativo che certo non può essere limitato ai contenuti del provvedimento ma va calibrato sulla pretesa azionata dal ricorrente, valutata secondo l’ordinamento giuridico del quale, in definitiva, il giudice deve garantire l’attuazione nel risolvere la controversia. Le questioni proposte nei motivi di ricorso a fondamento della richiesta di annullamento segnano l’area della decisione del giudice cui l’impugnativa dell’atto ha dato occasione. Questioni da delimitare secondo il loro contenuto fattuale e giuridico, con gli accertamenti che comportano, per fondare il convincimento del giudice. Segue che la cognizione del giudice amministrativo non è affatto formalmente delimitata dall’atto ma, come per ogni altro giudice, esamina i contenuti sostanziali e, ove occorra, processuali, della controversia e risponde alle questioni proposte dagli interessati, sostanzialmente determinate e delimitate dai modi di incidenza della funzione pubblica nella sfera degli interessi individuali, per quanto interferiscano con gli interessi gestiti dall’amministrazione pubblica e che sono riferibili alle comunità amministrate. E se ci si domanda perché la funzione del giudice amministrativo si arresti all’annullamento dell’atto illegittimo, al fondo delle cose si ritrovano i limiti imposti ai giudici nei confronti del potere, se si pensa che nell’art. 88 del regolamento di procedura n. 642 del 1907, tuttora in vigore, si precisò che l’esecuzione delle decisioni avveniva in via amministrativa, tanto che il precedente


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art. 65 comprende tra i capi del dispositivo della decisione l’ordine di eseguirla impartito all’autorità amministrativa. Senza trascurare tuttavia che per la riserva dell’esecuzione all’amministrazione valgono anche diffıcoltà tecniche per la formazione dei provvedimenti, sempre da raccordare ai precedenti, spesso non acquisiti agli atti del giudizio. Ma anche sotto questo aspetto è interessante vedere come cambino i tempi e come si vada estendendo l’area dei giudizi di ottemperanza, che si allarga sempre più verso la sostituzione alla p.a. inadempiente alle sentenze di accoglimento dei ricorsi, specialmente attraverso la nomina di commissari che curano l’esecuzione delle sentenze di annullamento, tutelando gli interessi del ricorrente vittorioso e della stessa p.a., che una corretta esecuzione può esimere dall’obbligo di risarcimento o, almeno, limitarne l’onere. 14. Dopo aver cercato di tracciare a grandi linee lo stato delle cose nella realtà attuale del processo amministrativo, specialmente in relazione al tema congressuale, si deve ora passare alla parte propositiva prendendo lo spunto da due elementi fortemente negativi e cioè i tempi e i mezzi attualmente disponibili. Il problema dei tempi della giustizia è di notevole gravità ed è strettamente legato alla insufficienza numerica del personale: i magistrati amministrativi di I e II grado sono 506 e non pochi sono distaccati presso altri uffici, mentre i ricorsi pendenti si aggirano sul milione: precisandosi ancora che le procedure sono abbastanza semplici, sicché il vero problema sta nell’insufficiente numero degli operatori di giustizia (6). Situazione grave sul piano della effettività delle garanzie di (6) Il collega Dragogna ha evidenziato che i Tribunali amministrativi regionali italiani hanno un organico di soli 380 Magistrati per uno Stato di quasi 60 milioni di abitanti e residenti, mentre la Germania (circa 80 milioni di abitanti) può contare su ben 2800 Magistrati amministrativi e la Francia (circa 60 milioni di abitanti) può contare su 750 Magistrati amministrativi oltre quelli del Consiglio di Stato. Sono dati che non possono non preoccupare perché, come detto più volte nel testo, e qui si precisa meglio, la certezza della resa di giustizia in tempi utili è il vero strumento di prevenzione della illegittimità nonché del corretto e produttivo esercizio del potere, che può derivare, come spesso deriva, da chiarificative indicazioni del giudice.


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legalità di cui giustamente si preoccupa questo congresso, perché il miglior riparo per le illegittimità che si commettono consiste proprio nei tempi lunghi della giustizia, in attesa dei quali molte illegittimità si perpetuano e finiscono per essere la legge del caso in cui sono state compiute. E mentre per la giustizia ordinaria parecchio è stato fatto, istituendo i giudici di pace e i giudici aggregati, nulla è stato fatto — tranne un progetto di cui si dirà al § 23 — per la giustizia amministrativa, indebolendo fortemente la posizione del cittadino nei confronti del potere, che avrebbe dovuto, esso stesso, fornire i mezzi di garanzia della legalità! D’altronde, non è nemmeno vero che sussistano particolari difficoltà perché può provvedersi attraverso opportuni criteri selettivi che non hanno dato cattiva prova per l’integrazione degli organi della giustizia ordinaria; ed attualmente esiste sufficiente diffusione della cultura amministrativistica, almeno per consentire una selezione su basi abbastanza ampie, come prova già l’elevatissimo numero dei ricorsi pendenti. Comunque, la sproporzione tra domanda e operatori di giustizia è troppo forte per poter garantire una risposta in tempi ragionevoli e procrastinando i rimedi si deteriorano i rapporti tra apparati pubblici e individui, che si vedono sempre meno protetti. Con l’aggravante che i ritardi della giustizia non solo incentivano la disfunzione amministrativa, ma fanno crescere altresı̀ il numero dei ricorsi, cui è sempre più difficile dare risposta, mettendo lo Stato in situazione di inadempienza e responsabilità, anche in sede comunitaria e danneggiando in ultima analisi gli stessi apparati. Del resto, la progettazione per potenziare gli organi di giustizia amministrativa non manca, tanto che nel 2001 si era provveduto con il d.l. 18 maggio 2001 n. 179 che aveva istituito sezioni stralcio presso i Tar e il Cons. Stato, ma il rimedio non ha avuto l’improcrastinabile seguito perché il d.l. non è stato convertito, come non di rado accade quando si tratta di garantire la tutela giudiziaria nei confronti del potere. Né i ritardi nell’attuazione della legge istitutiva dei Tar possono essere dimenticati, perché


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essa entrò in vigore alla fine del ’71, mentre tra il 62 ed il 68 le G.P.A. erano state dichiarate costituzionalmente illegittime (7), e si provvide per l’entrata in funzione dei Tar solo nel 1974. Ma tutto ciò non deve ripetersi perché si pregiudicano non solo i diritti dei ricorrenti ma anche delle comunità, che sono gestite con provvedimenti non di rado illegittimi, che non vengono rimossi e le disfunzioni si perpetuano. Ora qui non si pongono problemi giuridici di particolare difficoltà perché si tratta di garantire l’effettivo funzionamento della giustizia amministrativa cui tutti hanno diritto secondo l’inequivoco disposto dell’art. 24 Cost., che, con dizione omnicomprensiva, garantisce a tutti i cittadini il diritto alla tutela giudiziaria dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi. In queste condizioni davvero non si comprende come e perché si sia provveduto a potenziare l’organizzazione giudiziaria dei giudici ordinari istituendo giudici di pace e giudici aggregati e nulla di effettivamente incisivo sia stato fatto finora per la giustizia amministrativa dove il prolungamento dei tempi incentiva le illegittimità dei funzionari pubblici, locali e nazionali, che operano appunto al riparo dei ritardi della giustizia, anche soltanto con l’omissione del provvedimento, spesso al solo scopo di non assumerne la responsabilità. E quello che più importa è che si rallenta la funzione correttiva del giudice amministrativo, spesso esercitata attraverso elaborate motivazioni delle sentenze, che, ovviamente, richiedono tempo e sono effıcaci se non intempestive. E per concludere va ribadito che è intuitivo il collegamento tra ritardi della giustizia ed insufficienza numerica degli operatori, che nella giustizia amministrativa è reso ancora più evidente dalla semplicità delle procedure in atto, certamente migliorabili come tra poco si dirà, ma non certo responsabili dei ritardi della resa di giustizia. La sfida dell’avvocatura tra qualità, legalità e giustizia va pre(7) Cfr le sentenze della Corte costituzionale che dichiarano illegittime le norme attributive di potestà giurisdizionali al Ministro della Marina Mercantile, alle G.P.A. ed alla Giunta Giurisdizionale della Val d’Aosta; Corte cost. 4 luglio 1962 n. 133, 3 giugno 1966 n. 55, 22 marzo 1967 n. 30 e 20 aprile 1968 n. 33


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cisata a questo punto come impegno verso una tempestiva resa di giustizia nell’amministrazione, ora del tutto svuotata dai ritardi. 15. Può sembrare strano che studiando il tema della sfida degli avvocati sui temi della qualità, legalità e giustizia, riferiti alle riforme dell’ordinamento forense ed alle riforme della giustizia, si inizi con un problema di carattere tecnico, ovviamente non privo di implicazioni funzionali e politiche, quale quello delle modalità di accesso all’udienza, domandandosi se lo strumento già in uso per colloqui di ogni tipo — quello delle video conferenze — sia adatto a facilitare l’accesso alla giustizia ed, in particolare, ad un produttivo colloquio tra le parti e con il giudice. Certo, la tradizione della partecipazione personale dei difensori all’udienza ha il suo peso e non sarà facile evolvere verso le attuali forme in cui può realizzarsi la presenza. Ma molte esperienze sono già disponibili e potrebbe iniziarsi con opportune sperimentazioni, considerando che il processo amministrativo è essenzialmente un processo scritto e l’oralità è uno strumento di chiarificazione, non certo superfluo, ma conducibile sulla base delle acquisizioni già in atti e, perciò, non necessariamente diffuso, specialmente se alle memorie difensive potranno seguire finalmente le repliche scritte, inspiegabilmente non previste, a differenza di quanto accade nel processo civile: mancata previsione di repliche che non di rado premia, indebitamente, la prontezza nell’oralità, anziché la ragione migliore, che può emergere dalle riflessioni che lo scritto consente a chi lo redige e a chi lo legge. E sarebbe altresı̀ opportuno che venisse codificata la facoltà del giudice di rivolgere domande ai difensori e in modo che il colloquio potrebbe svolgersi sui punti effettivamente rimasti non chiariti: ciò del resto ampliando il dettato già significativo dell’art. 58 reg. proc. n. 642/1907. Ovviamente rimarrebbe ferma la facoltà delle parti di rinunciare, anche preventivamente, alla discussione: facoltà che troverebbe anch’essa più diffusa applicazione ove si ammettessero le repliche alle memorie. Anche per la fase cautelare potrebbero seguirsi le stesse re-


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gole, magari ponendo opportuni termini per memorie e repliche; il che oggi sarebbe coerente con la riconosciuta possibilità di provvedere con decreto nei casi di particolare urgenza. Ovviamente la sperimentazione consentirà il giudizio definitivo e/o eventuali altre regole. 16. Rimanendo sul piano sostanzialmente organizzativo e prima di passare al procedimento in senso stretto, si deve ribadire che lo stato attuale dei ritardi della giustizia amministrativa è dovuto alla scarsezza del numero dei magistrati, non solo in relazione al numero dei ricorsi pendenti, ma anche al nuovo ordinamento processuale, che va ben oltre il processo su documenti ed ha visto accrescere, in misura più che notevole, l’area della giurisdizione esclusiva, per il numero di materie e l’importanza delle stesse. D’altronde, non è nemmeno vero che sia stata una buona soluzione il trasferimento al giudice ordinario delle controversie del pubblico impiego perché laddove opera un soggetto pubblico bisogna indagare non tanto sull’azione svolta, quanto sui motivi reali dell’azione, dove si annidano le deviazioni del funzionario dall’interesse generale e le propensioni verso interessi particolari, non immediatamente reprimibili attraverso il confronto della disposizione deviata con il parametro normativo. L’esercizio della funzione pubblica — e tale è anche la gestione del personale dipendente da enti pubblici affidata non all’imprenditore, che paga in proprio, ma ad altro funzionario — va valutato a cominciare dalle circostanze e dai motivi dell’azione, secondo l’esperienza secolare della giustizia amministrativa ad evitare che i dipendenti perdano la tutela contro le deviazioni, non sempre rapportabili alla violazione di legge, ma che spesso vengono poste in essere al riparo della legge: è utile ricordare la definizione dell’eccesso di potere come applicazione ipocrita della legge (Hauriou). Segue che non può pensarsi di risolvere adeguatamente il problema della sproporzione tra il carico di lavoro ed il numero dei magistrati amministrativi, trasferendo competenze, perché il


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controllo giudiziario sulla funzione pubblica è complessivamente conformato in modo da assimilare nel senso più lato possibile gli elementi che hanno accompagnato e determinato in punto di fatto l’esercizio del potere, in sinergismo con le norme che fondano il potere stesso e ne regolano i modi in cui esso si specifica e si esterna. E se stanno venendo meno quelle limitazioni di ordine probatorio che il potere a sua difesa era riuscito a conservare e se l’acquisizione delle prove ora consentite richiede maggiore impegno di lavoro, non c’è che migliorare ed accrescere l’organizzazione dei giudici amministrativi, perché è in essa che esistono le premesse per recepire l’evoluzione dell’ordinamento processuale, bene o male codificato nella l. n. 205 del 2000, e da migliorare, partendo dalle esperienze già acquisite. Riassumendo, le ragioni per un indifferibile rafforzamento dell’organizzazione della giustizia amministrativa sono soprattutto due: il carico di lavoro esistente, sproporzionato al numero dei giudici e l’innegabile, ulteriore aggravamento del lavoro che deriva dalla progressiva assimilazione al processo civile del processo amministrativo, nel corso del quale può essere chiesto anche il risarcimento dei danni: senza trascurare l’ampliamento della giurisdizione esclusiva. 17. Non è certo possibile, in una relazione congressuale passare in rassegna l’intero ordinamento del processo amministrativo; e, d’altronde, l’occasione del congresso va piuttosto utilizzata per evidenziare disfunzioni, proporre soluzioni e dar notizia anche di risultati positivi, se vi sono. Si è già detto al par. 14 della necessità dell’ampliamento dell’organico dei giudici, manifesta essendo la sproporzione che si è determinata rispetto al carico di lavoro. Pure il discorso in proposito è tutt’altro che agevole essendo il potere sempre preoccupato, allorquando si tratta di rafforzare gli organi di giustizia amministrativa, e le testimonianze sono evidenti, bastando aggiungere a quanto già detto (retro § 14) che tra l’entrata in vigore della Costituzione (1948) che all’art. 125 prevede i giudici amministrativi


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di primo grado nelle singole regioni, e l’istituzione dei Tar (1971), sono passati 23 anni. Vi è in realtà un deficit di volontà politica che, stante la gravità della situazione e, specialmente, l’entità dei ritardi, non è certo dovuta a difficoltà di percezione del problema ma, piuttosto, alla preoccupazione di far crescere l’organico della giustizia amministrativa, con conseguente limitazione del potere. E questa è una responsabilità che concerne sostanzialmente l’attuazione della Costituzione sul piano dell’effettività della resa di giustizia, cui tutti hanno egualmente diritto (artt. 3 e 24); sicché la classe forense dovrebbe, per quanto può, far sentire la sua voce, ribadendo a questo punto che quanto si è detto e si dirà, avrà un significato se e per quanto si provvederà a migliorare gli organici. Solo per completezza si passa ad esaminare alcuni possibili sviluppi dell’evoluzione in atto del processo amministrativo nel senso del miglioramento della resa di giustizia nell’amministrazione attraverso la recezione dei moduli del processo civile. 18. Un primo problema riguarda la connessione dei procedimenti che in parte è stato risolto nell’art. 1 della l. n. 205 del 2000 nel senso della proponibilità di motivi aggiunti avverso gli atti sopravvenuti nel corso del giudizio che siano adottati tra le stesse parti e siano connessi all’oggetto del ricorso. Ma bisogna procedere oltre nel senso di regolare la connessione soggettiva ed oggettiva già all’atto della proposizione del ricorso, rendendo certa la possibilità non solo del ricorso di più soggetti contro lo stesso provvedimento, ma anche di un unico ricorso contro provvedimenti connessi, senza limitazioni dovute ai contenuti dei motivi, secondo il principio civilistico della proponibilità di più domande contro la stessa parte, provvedendo con esplicito richiamo alle norme civilistiche sulla connessione e sul litisconsorzio: richiamo che tuttora manca e che potrebbe essere espresso senza particolari difficoltà con il vantaggio di alleggerire i ruoli, visto che, tra l’altro, i giudici si avvalgono senza troppe preoccupazioni e con motivazioni succinte del potere di riunire i ricorsi all’atto della decisione.


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In breve, una volta conformato il ricorso come domanda di pronuncia su determinate questioni, il problema è quello della connessione soggettiva ed oggettiva tra le questioni proposte e già l’art. 1 l. n. 205 del 2000 segna la strada per procedere oltre nella direzione della riunione delle impugnazioni in un unico ricorso e dei ricorsi in unico processo, quando si ravvisi la connessione, adottando il sistema dei motivi aggiunti avverso gli atti sopravvenuti alla proposizione del ricorso. Da sottolineare che la connessione già viene attuata nella pratica, ma occorre eliminare le incertezze, evitando tuziorismi che appesantiscono i ruoli e aggravano le spese. In sostanza, la connessione è ragione generalmente accettata di riunione delle istanze in unico ricorso e di riunione di più ricorsi in un unico processo ed ha una funzione di alleggerimento delle procedure, sicché non si vede perché nel processo amministrativo non debba essere dato pieno e dichiarato ingresso alle norme della procedura civile che contengono una più completa regolamentazione della connessione ed hanno dato luogo ad adeguate esperienze con aggiustamenti specialmente per la competenza territoriale dei giudici, che è, salvo eccezioni, il criterio di ripartizione della competenza tra i Tar. 19. Di ben diverso peso è il problema del contraddittorio dove, a differenza del processo civile, la mancata notifica del ricorso ad almeno uno dei controinteressati ne produce l’inammissibilità salvo — a discrezione del giudice — il riconoscimento dell’errore scusabile. Sarebbe logico, piuttosto, che il giudice potesse ordinare in ogni caso ed entro termini sperabilmente ragionevoli, la notificazione ai controinteressati, quando il ricorrente non vi avesse già provveduto, comminando la sanzione dell’improcedibilità soltanto successivamente, qualora nessuna delle parti avesse eseguito, nel termine prescritto, la disposta notificazione, come del resto avviene nel processo civile (artt. 102 ss., 267 ss. c.p.c.; cfr., peraltro, Sez. IV, 15 maggio 2000 n. 2725, in Cons. Stato, 2000, I, 1212) e come la legge dispone in sede di impugnazione ex art.


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331 c.p.c., applicato anche nel processo amministrativo. Né si ravvisano ragioni particolari al processo amministrativo, che giustifichino la sanzione dell’inammissibilità, che incide definitivamente sul diritto alla tutela giudiziaria nei confronti della p.a.: diritto incondizionatamente garantito dagli artt. 3, 24, 103 e 113 Cost. Ed anche qui basterebbe il rinvio delle norme del c.p.c. sulla costituzione del contraddittorio. Per una disciplina organica andrebbero richiamate sia le norme sul litisconsorzio che sulla chiamata in causa, tanto elastiche da facultare il giudice alla chiamata del terzo quando lo ritenga opportuno (art. 107 c.p.c.): facoltà quanto mai provvida ed in pratica già esercitata nel processo amministrativo, di incerta delimitazione soggettiva per la natura e la dimensione ultraindividuale degli interessi controversi. 20. L’istruttoria deve acquisire agli atti del processo la funzione amministrativa, cosı̀ come è stata esercitata ed è pervenuta, spesso con la partecipazione degli interessati, al provvedimento impugnato: sicché nel processo debbono rivivere le premesse, la dinamica ed i risultati della funzione, per verificarne legalità e giustizia. Ed in questo senso richiamo quanto ho affermato ai §§ 10.1. ss., sulla giustizia nell’amministrazione, inscindibilmente legata a quanto oggettivamente percepito e voluto dall’amministrazione stessa. Sul piano del diritto positivo le norme sull’istruttoria si sono stratificate in un lungo arco di tempo: a partire dagli artt. da 26 a 35 del Regolamento di procedura 17 agosto 1907, n. 642 e dalla norma fondamentale dell’art. 44 del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato del 26 giugno 1924, n. 1054, nonché da alcune disposizioni degli artt. 21 e 33 della l. 6 dicembre 1971, n. 1034. Dopo questa data il legislatore è intervenuto dapprima solo con alcune leggi speciali per regolare particolari mezzi istruttori, come ad es. dispone l’art. 16 della c.d. legge Bucalossi 28 gennaio 1977, n. 10. Attualmente ci si deve riferire alla l. 21 luglio 2000


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n. 205 che ha apportato notevoli innovazioni in materia, prevedendo per l’ammissione dei mezzi istruttori la competenza presidenziale, delegabile, oltre che, ovviamente, la competenza collegiale, ed il provvedimento ammissivo in forma di ordinanza art. 1 n. 2 e 15 l. cit.); la consulenza tecnica è stata ammessa in via generale (artt. 1 e 16 l. cit.) e per la giurisdizione esclusiva sono ammesse le prove previste dal c.p.c, esclusi interrogatorio e giuramento (art. 7 lett. c n. 3). Le difficoltà dell’acquisizione dei fatti dipendono tutt’ora sia dalla tradizione del processo amministrativo su documenti, sia dallo scarso numero dei giudici, in relazione al numero elevatissimo dei processi pendenti: fermo restando che si potrebbero rispolverare, almeno per alleggerimento, le vecchie norme del regolamento n. 642/1907 che prevedevano la delegabilità delle istruttorie alle allora prefetture: senza dire della possibilità di delega da prevedere con legge dal Cons. Stato ai Tar e dei Tar tra di loro. Riassumendo quanto altrove ho scritto, ribadisco che la disciplina delle prove va coordinata adeguatamente con le norme del c.p.c., specie per le domande di risarcimento del danno e questioni conseguenziali, per le quali, attualmente, possono ritenersi ammessi i mezzi di prova previsti dal c.p.c. solo in quanto si accerti che la giurisdizione attribuita in proposito al Tar abbia natura di giurisdizione esclusiva. Infatti soltanto per la giurisdizione esclusiva la l. n. 205 del 2000 rinvia per il regime delle prove al c.p.c. (cfr. l. n. 205 cit. art. 7 lett. c n. 3, adde artt. 1 n. 2 e 16 stessa legge). Si aggiunga che nelle materie demandate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, già la Corte costituzionale (sent. 10 aprile 1987 n. 146, Cons. Stato, 1987, II, 653) aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 44, comma 1, t.u. 26 giugno 1924 n. 1054, 26 r.d. 17 agosto 1907 n. 642 e 7, l. 6 dicembre 1971 n. 1034, nelle parti in cui, nelle controversie di impiego di dipendenti dello Stato e di enti pubblici, allora riservate alla giurisdizione esclusiva, non consentivano l’esperimento dei mezzi istruttori previsti negli artt. 421, comma 2, 3, 4, 424 ss.


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c.p.c., novellati in virtù della l. 11 agosto 1973 n. 533. Attualmente, sia per la giurisdizione generale di legittimità che per la giurisdizione sulle domande di risarcimento e diritti conseguenziali, permangono dubbi circa la conformità dell’attuale sistema istruttorio ai principi costituzionali, pur tenendosi conto dei limiti in proposito segnati dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza 16 maggio 1989 n. 251 (ivi, 1989, II, 729). Ciò in quanto la tutela giudiziaria, anche per gli interessi legittimi, si presenta come un diritto effettivamente garantito dagli artt. 3, 24 e 113 Cost.. Quindi si pone il problema, oltre che di assicurare sostanzialmente la tutela, anche di non fare una condizione diversa al cittadino dinanzi al giudice ordinario e, rispettivamente, al giudice amministrativo: esigenza cui la l. n. 205 del 2000 ha dato risposta positiva, almeno stando al testo degli artt. 1 n. 2, 7 lett. c) n. 3 solo per la consulenza tecnica, che è stata ammessa in via generale inserendola nel testo degli artt. 1 e 16 l. n. 205 del 2000, norme valide per tutti i tipi di giudizi. Va osservato ancora che neppure la tradizionale concezione della giustizia amministrativa come sistema di impugnazione di atti, consentirebbe di giustificare particolari limitazioni di carattere probatorio, dal momento che l’art. 113 Cost. riafferma la portata generale della tutela giurisdizionale proprio in relazione agli atti amministrativi; al riguardo non è riduttivo il rinvio alla legge contenuto nell’art. 103 Cost. per la tutela, in determinati casi, anche dei diritti soggettivi; tale rinvio infatti comporta soltanto che, in determinati casi, la tutela dei diritti soggettivi è affidata al giudice amministrativo, in deroga alla regola della giurisdizione del giudice ordinario, ma non autorizza limiti di sorta circa la effettività della tutela stessa. In definitiva, sia per l’affidamento al giudice amministrativo della tutela risarcitoria sia per il già avvenuto ampliamento dei mezzi istruttori in tema di giurisdizione esclusiva, sono maturi i tempi per la generalizzazione del regime probatorio previsto dal c.p.c., secondo il principio di eguaglianza di trattamento, più che mai valido nella materia processuale, dove si ha l’attuazione della tutela attribuita dalla legge. Ed in tal senso si è del resto già pro-


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nunciata la Corte costituzionale, sia pure con riferimento alla materia del pubblico impiego (sent. n. 146 del 1987 cit.). La proposta è pertanto nel senso della generalizzazione dei mezzi di prova previsti dal c.p.c., fermo restando il potere del giudice di indagare di ufficio nel senso ritenuto opportuno, avvalendosi dei poteri ex art. 44 t.u. 26 giugno 1924 n. 1054 e della C.T.U. Quanto all’interrogatorio e al giuramento, le cose dette in premessa valgono a spiegare perché l’interrogazione diretta dell’autore dell’atto non incontri particolari difficoltà, sempre che l’autore sia rintracciabile, ed in proposito potranno servire le indagini opportune. Rimangono, invece, le riserve per il giuramento, stante l’indisponibilità da parte del funzionario degli interessi oggetto della funzione pubblica. 21.1. A questo punto va richiamata ancora una volta la recente evoluzione della giurisprudenza della Cassazione nel senso del riconoscimento della risarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi (Sez. un. n. 500 del 1999), adeguatamente progredita, molto di recente (Cass., Sez. I n. 157 del 2003), nel senso di collegare la responsabilità degli enti pubblici alla diffıcoltà di impostare adeguatamente il rapporto individuo-apparato pubblico in termini di autorità (v. però infra sub 21.2. nota 2). Per lo studio della vicenda delle situazioni del singolo e delle tutele che ne derivano, rinvio al volume scritto in collaborazione tra l’allora presidente del Consiglio di Stato Renato Laschena e me stesso, La Giustizia Amministrativa, II ed., Padova, 2001, passim. In realtà l’evoluzione degli ultimi quattro anni ha riguardato sia i toni che gli oggetti dell’indagine: infatti la sent. n. 500 del 1999 è impegnata nello studio dei limiti delle situazioni soggettive e del potere pubblico mentre la sent. n. 157 del 2003, pur partendo da impostazioni giuridiche, ad un certo punto, da atto della difficoltà storico-costituzionale del permanere del rapporto autoritario tra singolo e apparato, anche tenendo conto dei mutamenti del sistema normativo.


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Ed è forse questa l’evoluzione più significativa nel senso di evidenziare la natura essenzialmente costituzionale del problema della risarcibilità del danno derivato al singolo dell’illegittimo esercizio di attività svolta dal pubblico funzionario esercitando poteri coercitivi. In partenza, deve darsi atto che nessun limite alla risarcibilità deriva dal testo costituzionale, che non contiene alcuna esenzione di responsabilità per i pubblici funzionari i quali, anzi, a norma dell’art. 28 Cost., sono dichiarati responsabili secondo le leggi civili, penali e amministrative per gli atti compiuti in violazione dei diritti, mentre l’art. 113 Cost. ammette in via generale il ricorso alla giurisdizione ordinaria o amministrativa per la tutela giurisdizionale dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi, rimettendo alla legge la determinazione del giudice competente a conoscere delle istanze di tutela di ciascuna delle situazioni soggettive. Ed ancora è la legge che secondo lo stesso art. 113 ult. comma stabilisce quali organi possono annullare e con quali effetti gli atti delle p.a. Per nessun tipo di provvedimento è prevista alcuna esenzione di responsabilità e per le modalità dell’annullamento ed i relativi effetti è prevista soltanto la riserva di legge, trattandosi appunto di prodotti della legge. D’altronde, il diritto ad agire in giudizio per la tutela dei diritti soggettivi ed interessi legittimi affermato nel’art. 24 Cost. non incontra limiti nei confronti di chicchessia, specialmente se letto come più volte è stato letto, in stretta connessione con l’art. 3 Cost., che garantisce l’eguaglianza anche sul piano del fatto. Fermo restando che la Costituzione non fissa alcun limite all’azionabilità in sede giudiziaria delle situazioni soggettive che possano ricondursi all’ordinamento giuridico, come appare specialmente dalle omnicomprensive espressioni usate negli artt. 3, 24 e 113. Principi e norme costituzionali che, a dir poco, consentono di ricostruire come principio il diritto al risarcimento del danno derivante dall’esercizio di attività pubblica, con ampio rinvio alla legge per la delimitazione delle sfere di giurisdizione e degli ef-


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fetti delle relative pronunce; ed è agevole constatare che nessuna limitazione particolare deriva dalla legislazione vigente, trattandosi, piuttosto, di individuare il nesso di causalità e l’effettività del danno, come ritenuto dalla Cassazione con la sent. n. 500 del 1999 cit. Né l’art. 7 della l. n. 205 del 2000 — che attribuisce al giudice amministrativo la giurisdizione sulle istanze risarcitorie nei confronti della p.a. — menziona limitazioni o condizionamenti di sorta ma, addirittura, faculta il giudice amministrativo ad attribuire il risarcimento anche in forma specifica. Tuttavia ci si trova attualmente di fronte ad un indirizzo restrittivo dei giudici amministrativi, che tendono anche ad affermare la risarcibilità previo annullamento del provvedimento lesivo; orientamento che, tra l’altro, costringe l’azione risarcitoria entro il termine di decadenza di 60 giorni fissato per l’impugnazione degli atti amministrativi, nonostante il termine quinquennale per la risarcibilità del danno da fatto illecito (art. 2947 c.c.), senza dire del termine decennale per la responsabilità contrattuale (art. 2946 c.c.). 21.2. A questo punto occorre sottolineare ancora una volta che mentre la Cassazione ha riconosciuto sia il principio della risarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi (sent. n. 500 del 1999) sia il sostanziale superamento dell’impostazione del rapporto tra singolo ed apparato in termini di autorità, il Cons. Stato, Ad plen. 26 marzo 2003 n. 4, è rimasto sostanzialmente ancorato alla tradizione della vincolatività del provvedimento, fin quando non viene annullato: vincolatività e, può aggiungersi, efficacia qualificante per gli interessi regolati, al punto di impedire il ristoro del danno che sia derivato da regolamento autoritativo, anche se illegittimo, degli interessi implicati (8). (8) Soluzione che non manca di lasciare perplessi sia sul piano generale sia e più ancora quando vengono sacrificati gli interessi c.d. oppositivi per i quali l’individuo tende a conservare i beni che già sono di sua pertinenza secondo legge, sicché il trasferimento coattivo disposto dalla p.a. non può non ricollegarsi direttamente alla legge nei limiti in cui la legge stessa ne consente il sacrificio, mentre il provvedimento praeter o contra legem non ha base giuridica di giustificazione, non potendo riconoscersi tale ef-


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A questo punto ci si trova in presenza di due posizioni che non esprimono soltanto elementi giuridici ma complesse componenti che attengono alla tradizione ed ispirano giudizi che implicano la posizione complessiva delle istituzioni da cui provengono, in relazione all’ordinamento giuridico nel suo complesso, perché la Cassazione si è sforzata di cogliere la portata della responsabilità della p.a. secondo la posizione costituzionale che il cittadino può rivendicare nei confronti dell’apparato nel suo complesso (9), mentre il Consiglio di Stato ha inteso conservare, anche oltre il limite del danno, l’efficacia dell’atto di autorità non annullato. Non devono meravigliare queste contrapposte posizioni sul problema che poi è in definitiva quello dell’attribuzione del rischio che presenta l’esercizio del potere che, come accennato e si dirà, è un problema politico costituzionale sul quale prima o poi il Parlamento dovrà dire la sua parola, utilizzando le esperienze giudiziarie secondo i principi costituzionali, tanto più che il fondamentale art. 28 afferma la responsabilità dei funzionari e degli enti pubblici rinviando alla legislazione per la specificazione della relativa disciplina. E non va dimenticato che l’ordinamento pre e post-fascista aveva risolto in vario modo il problema con alcune barriere quali la garanzia amministrativa per prefetti e sindaci, l’autorizzazione a procedere contro le forze di polizia, il ministro giudice, l’esenzione da responsabilità per danni da azioni di polizia ecc. Problema dunque di sempre cui erano state date soluzioni fortunatamente superate (cfr. par. 14 nota 1), ma che ora si è riproposto, con alterna vicenda, sotto il profilo della responsabilità patrimoniale e che, come si è detto e si dirà, la Costituzione ha avviato a soluzione specialmente nella sua prima parte, che non è da modificare, per le esperienze positive finora registrate nella vita quotidiana e nelle pronunce chiarificatrici della giurisprudenza, supportate dalla dottrina unanime. fetto al mero esercizio del potere in cui non siano presenti gli elementi che consentono di ravvisarvi l’esercizio di una potestà legittima (arg. ex art. 51 c.p.). (9) Tuttavia V. in senso contrario Cass., Sez. II, 27 marzo 2003 n. 4538 in Foro it., 2003 nn. 7 e 8 col. 2073 e ss. con nota critica di A. TRAVI.


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Spetta al legislatore dare una sistemazione definitiva per la quale vengono date alcune indicazioni al § 21.3. che segue. 21.3. La soluzione di riequilibrio che la classe forense potrebbe forse proporre — anche per le implicazioni di finanza pubblica che derivano dal principio della risarcibilità del danno derivante da attività pubblica — potrebbe consistere in un intervento del legislatore in duplice direzione; nel senso, cioè, di: 1) affermare espressamente l’indipendenza dell’azione di risarcimento dal previo annullamento e 2) nel senso di dettare realisticamente anche la regolamentazione finanziaria per la effettiva corresponsione del risarcimento nei tempi ragionevoli, con avvertita ricerca delle fonti di finanziamento che già vanno delineandosi attraverso alcune esperienze di polizze assicurative o altro idoneo mezzo (10). 22.1. Avviandoci verso la conclusione di questa rassegna, in cui si è cercato di toccare i punti più sensibili dell’ordinamento processuale amministrativo, occorre soffermarsi sul problema dell’atto conclusivo, la sentenza che conduce alla formazione del giudicato, che dovrebbe porre la parola fine alla controversia, dettandone una regolamentazione non più discutibile. Ebbene non sempre si perviene a questo risultato per varie ragioni che val la pena ripercorrere almeno nei tratti essenziali. In caso di rigetto del ricorso la vicenda controversa rimane disciplinata dal provvedimento impugnato salvo che l’amministrazione non ritenga, di sua iniziativa o per gli elementi emersi in corso di giudizio, di apportarvi modifiche. Ovviamente i problemi si pongono in caso di accoglimento del ricorso, trattandosi di modificare un regolamento di interessi già a suo tempo disposto e (10) In analogo ordine di problemi giuridici e finanziari è stato regolato specificamente il problema dell’estensione del giudicato amministrativo ai dipendenti che non avevano proposto ricorso in tema di carriera, con conseguenze economiche o di stato perciò negative, e che si erano visti sfavoriti nel trattamento giuridico ed economico rispetto ai colleghi ricorrenti. Infatti l’art. 66 d.lgs. n. 29 del 1993 e succ. mod. ha istituito apposita procedura per accertare i presupposti per l’estensione e le possibilità di finanziamento.


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spesso eseguito dalla p.a.. Infatti, in primo luogo la formula decisoria di carattere generale è, in caso di accoglimento del ricorso, l’annullamento del provvedimento impugnato mentre l’esecuzione delle decisioni di annullamento è riservata (artt. 65 e 88 reg. proc. n. 642/1907) alla stessa amministrazione che ha emanato l’atto annullato o all’amministrazione competente, nel caso in cui l’annullamento sia stato pronunziato per incompetenza. Le sentenze di condanna sono praticamente limitate all’attribuzione di somme di danaro (art. 26 l. n. 1034 del 1972) e solo per l’ordinanza cautelare è prevista la possibilità per il giudice di adottare, in via provvisoria, misure idonee in relazione alle esigenze cautelari (art. 3 l. n. 205 del 2000) mentre sul silenzio si prevede di regolamentare la vicenda attraverso il commissario (art. 2 l. n. 205 del 2000). È perciò necessario seguire la formazione della sentenza che decide il merito nei suoi elementi caratterizzanti, che vanno identificati nelle questioni proposte dalle parti nei motivi di ricorso, principale, incidentale o motivi aggiunti che siano; ricordando poi che la motivazione è elemento caratterizzante dell’atto giurisdizionale secondo la testuale dizione dell’art. 111 Cost. e che la motivazione è un ragionamento, bisogna seguire il ragionamento del giudice nel pervenire alla decisione, gli istituti ravvisati nel materiale proposto e le conclusioni raggiunte; bisogna ancora porsi il problema della validità del principio secondo il quale il giudicato copre il dedotto e il deducibile e, più generalmente, del giudicato implicito. In realtà poiché il dispositivo della sentenza è di regola limitato all’annullamento, si manifesta anche per il ricorrente vittorioso, la difficoltà di indirizzare il potere della p.a. nel senso di seguire la strada segnata dal giudice nella motivazione dell’accoglimento, non avendo ancora, le istituzioni giudiziarie e processuali amministrative, acquisito il potere sostitutivo nella sede della decisione della controversia, ma riuscendo solo, attraverso la successiva procedura di esecuzione del giudicato — che Giannini chiama di ottemperanza — ad elaborare, tenendo conto delle circostanze, una soluzione satisfattiva; per quanto, contro l’inesecu-


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zione del giudicato, non dovrebbe dimenticarsi che essa comporta l’inesecuzione dell’ordine di eseguire la sentenza in via amministrativa, che dovrebbe essere sempre espresso, almeno nelle decisioni di accoglimento, ai sensi dell’art. 65 reg. proc. n. 642/1907 cit. È tuttavia evidente che un problema del genere non ha carattere soltanto procedurale ma attiene al modo di essere della giustizia di fronte all’amministrazione; ed appare chiaramente che la giustizia nell’amministrazione non è una meta agevole, involgendo problemi che sono costituzionali e tecnici, che il legislatore ha certamente affrontato e cosı̀ pure ha fatto il giudice amministrativo, ma che richiedono una più diffusa presa di coscienza con riforme che vanno dal potenziamento degli organici all’approfondimento delle istruttorie, nonché al miglioramento delle regole processuali, specialmente in executivis dove ha gran parte l’iniziativa di chi chiede ed il potere ricettivo-ricostruttivo del giudice, limitandosi le norme sul processo amministrativo di esecuzione a poco più dell’attribuzione della iniziativa a chi chiede e della competenza a rispondere al giudice che ha emesso la sentenza (cfr. artt. 27 n. 4 t.u. n. 1054 del 1924, e 37 l. n. 1034 del 1971, 90-91 r.d. n. 642 del 1907). Realtà quella appena delineata nient’affatto agevole a svolgersi, anche perché le stesse forze politiche, preoccupate anche da esperienze recenti, non sembrano disponibili alle svolte che sarebbero necessarie per ricostruire, con l’apporto giudiziario, un’amministrazione imparziale e condotta secondo legge nel senso del buon andamento, senza sovrapposizioni autoritarie, ma con soluzioni nascenti dalle istanze lealmente rilevate nonché dallo stato delle cose adeguatamente accertato. Esigenze non certo dilazionabili ma che il potere sottace mentre, la Cassazione, supremo organo di collegamento tra ordinamenti normativi, apparati pubblici, individui e comunità amministrate, sensibilmente comincia ad avvertire l’insufficienza dei metodi autoritari. 22.2.

Tra l’altro, gli squilibri che, attraverso i vari settori


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dell’ordinamento giuridico, non si riesce a compensare — e specialmente ciò è a ribadirsi per i rapporti di diritto pubblico — vanno a riversarsi nell’alveo della magistratura competente ad elaborare misure a tutela di interessi per i quali altri rimedi si siano dimostrati inefficaci e cioè verso il giudice penale. Tendenza da correggere, considerando, tra le altre, le seguenti tre ragioni: a) l’elasticità delle ipotesi di reato formulate dalla legge penale per captare al massimo possibile le deviazioni non altrimenti reprimibili; b) l’elasticità delle norme che delimitano, si fa per dire, l’area delle persone che concorrono nel reato (artt. 110 ss. c.p.), c) la particolare comprensività delle norme penali che reprimono l’abuso (art. 323 c.p.) e l’omissione di atti di uffıcio (art. 328 c.p.) e la contestuale norma sulla costituzione in mora, agli effetti dell’accertamento dell’omissione (art. 328, comma 2 u.p.). Ora basterà una breve riflessione per intendere che, quanto più sono deboli le istituzioni giudiziarie amministrative, tanto più si rafforza la giurisdizione penale, che tanto pesa alla politica. Né si rafforza la funzione pubblica ritardando la giustizia amministrativa e osteggiandone l’esecuzione delle decisioni cui magari si è pervenuti dopo decenni. Si è già accennato alla attenuazione, a dir poco, del sistema dei controlli cui non può certo fare da contrappeso una giustizia che, troppo spesso, interviene solo nella fase cautelare, e non sempre appropriatamente, data la ristrettezza dei tempi e le conseguenti manchevolezze del contraddittorio che nei tempi ristretti può effettivamente svolgersi. Ne è sufficiente guardare agli effetti a breve termine perché non c’è attività più condizionata nei suoi vari elementi che l’attività pubblica, dove i precedenti pesano e le negatività si diffondono. 22.3. Già l’analisi sin qui condotta evidenzia la necessità di intervenire sull’organizzazione e sul funzionamento della giustizia amministrativa che deve essere messa in condizione di raggiungere operativamente la meta della giustizia nell’amministrazione,


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che si dimostra sempre più necessaria anche perché le recenti riforme hanno espresso un ordinamento pluralistico e fortemente articolato sul territorio, con istituzioni spesso di diversa estrazione politica, anche se governano lo stesso territorio e lo stesso settore di materie, sia pure alle varie dimensioni. Situazione tanto incidente nella realtà, che, secondo la Corte costituzionale, l’esercizio delle varie competenze, più che secondo la tradizionale separazione di attribuzioni per materia, territorio ecc., deve avvenire in leale collaborazione: collaborazione tuttavia non sempre agevole specie in caso di istituzioni di diverso colore politico. In queste condizioni il problema della giustizia nell’amministrazione diviene ancora più complesso e richiede continuità e coerenza di azione e di regole, che vanno dall’organizzazione degli uffıci e dei procedimenti fino all’esecuzione del giudicato, assicurando tempestive presenze del correttivo giudiziario, che tende alla specificazione imparziale dell’ordinamento giuridico e, se non è un toccasana, è tuttavia indispensabile rimedio contro la confusione ed il perdurare di paralizzanti proteste. Ma si tratta di collaborare da parte di tutti gli operatori considerando il problema nella sua interezza, a cominciare dalla riorganizzazione dell’apparato giudiziario che deve essere proporzionato alla domanda di giustizia. Ed in tal senso si devono studiare rimedi idonei a fronteggiare la paralizzante carenza di personale, con opportune procedure selettive ed avendo presente che il primo interessato alla qualità della giustizia, menzionata nelle tematiche del congresso, è il ceto forense, essendo l’interlocutore dei giudici, dei quali si dovranno rafforzare gli organici senza sacrificarne la qualificazione. Lo studio dei criteri di selezione dovrà essere affidato ad apposite commissioni, a loro volta accortamente composte, in modo che siano presenti gli interessi dell’utenza perché, come è noto e si è venuto esponendo, l’amministrazione che si va costruendo, non può essere lasciata senza la garanzia della fase giustiziale, che va vista non solo in funzione di riparazione dei torti ma anche, e non meno, di miglioramento della funzione di amministrazione pubblica. Funzione amministrativa che deve gestire interessi, sic-


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ché deve garantirsi il giusto collegamento tra le circostanze in cui si opera, i motivi dell’agire e le decisioni che si adottano, con possibilità concrete dei successivi interventi del giudice ove occorra. Nella giustizia amministrativa, come e più che in ogni altro ordinamento, tout se tient, interposta come essa è tra individuo e potere, tra apparati e comunità, tra mezzi e bisogni: ed i delicati equilibri devono essere mantenuti partendo degli elementi del fatto, andando oltre le evidenze, ricercando nei particolari, andando verso un’informata comparazione tra dissensi, circostanze, mezzi e fini, secondo i parametri di valutazione che l’ordinamento predispone; il tutto maneggiato da operatori ai quali adeguate esperienze abbiano dato la necessaria formazione. In questo senso, il momento dell’organizzazione, e meglio si direbbe della riorganizzazione, è l’essenza del problema, come prova la circostanza che esso sia riemerso lungo l’intero corso del processo, dall’istruttoria all’esecuzione delle decisioni, dove si accumulano le tensioni che non sempre la pronuncia conclusiva è riuscita a sistemare, magari perché interviene con ritardo o non esprime acquisizioni adeguate. 22.4. A questo punto bisognerebbe approfondire il discorso sulla funzione giurisdizionale amministrativa, giuridicamente tale perché tende alla formazione del giudicato, utilizzando, per poter realisticamente proseguire su quest’ultimo tema, quanto innanzi detto circa la poliedricità della giustizia amministrativa, come del resto è reso evidente dall’ampia dizione dell’art. 100 Cost. che tende a garantire la giustizia nell’amministrazione. Resta fermo che, salvo interventi del giudice che puntualizzino particolari elementi in motivazione, la sentenza di rigetto lascia intatto il potere della p.a. di proseguire nel senso stabilito nell’atto non annullato dal giudice o di scegliere vie diverse, consentite dalla legge, anche alla stregua della motivazione della sentenza di rigetto: motivazione che, come già evidenziato e non sarà ricordato mai abbastanza, è la forma che secondo Costituzione caratterizza essenzialmente il contenuto dell’atto giurisdizionale


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come esplicitazione del ragionamento che conduce alla sentenza: che è poi l’atto finale del giudice, vincolante per legge (cfr. art. 111 Cost.). Motivazione che, nella concatenazione logica degli elementi fattuali e giuridici di cui consta, non è soltanto garanzia di legalità e trasparenza della funzione giudiziaria ma esprime l’essenziale caratteristica dell’atto giurisdizionale che conforma al sistema nella sua razionalità e logicità, il caso controverso. In particolare, è la sentenza che accoglie il ricorso che determina gli obblighi nascenti per l’Amministrazione dall’annullamento: obblighi che possono ricondursi al ripristino della situazione di fatto e di diritto antecedente all’atto annullato ed allo svolgimento della eventuale attività amministrativa conseguenziale, compresa l’eventuale rinnovazione dell’atto annullato e la corresponsione del risarcimento. Ed anzitutto non dovrebbe dubitarsi che la sentenza di annullamento vincoli l’Amministrazione a ricostituire integralmente in via di massima, la situazione precedente all’atto annullato, il che comporta la eliminazione degli atti intervenuti medio tempore sul presupposto dell’atto annullato e l’emanazione degli atti o il compimento delle attività necessarie al superamento degli effetti lesivi nel frattempo prodotti dall’atto annullato. Quanto poi agli effetti della sentenza di annullamento attinenti all’ulteriore attività dell’Amministrazione, in primo luogo alla eventuale rinnovazione dell’atto annullato, tali effetti vanno calibrati secondo fattispecie assai diverse: né sussiste unanimità di orientamenti circa il vincolo che per l’attività conseguente all’annullamento deriva dalla sentenza, particolarmente nel caso in cui l’atto amministrativo sia stato annullato per vizio dei motivi che hanno condotto alla sua emanazione. In sintesi, l’orientamento prevalente è nel senso che: a) se l’annullamento è pronunciato per il vizio di violazione di legge, l’Amministrazione è, su tale punto, vincolata dalla pronuncia del giudice; b) se l’annullamento è pronunciato per un vizio cosiddetto formale, l’Amministrazione può riprodurre l’atto eliminando il vizio; c) se l’annullamento è pronunciato per il vizio di eccesso


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di potere, l’Amministrazione deve attenersi ai criteri fissati dal giudice. I detti effetti di ripristino e di rinnovamento vanno riguardati non come effetti esterni all’annullamento, ma come propri e diretti di esso. Quanto agli elementi sopravvenuti al provvedimento annullato si tratta anzitutto di interpretare la motivazione della sentenza, in coordinamento con i fatti sopravvenuti, per stabilire se, avendo riguardo alle questioni proposte dal ricorrente, la sentenza precisi elementi di diritto vincolanti per l’avvenire nei rapporti tra p.a. e ricorrenti: vanno cioè ricercati i limiti oggettivi e soggettivi della soluzione elaborata per concludere la controversia che, però, va vista alla luce della sopravvenienza, oggetto, a sua volta, della funzione della p.a. È in questa prospettiva che specialmente si colgono i limiti del contenzioso di annullamento che, peraltro, non sono i soli stante la limitazione dell’oggetto della controversia ai motivi dedotti dal ricorrente, nonostante la dimensione ultraindividuale dei conflitti di interessi di cui conosce il giudice amministrativo, sia pure in sede di contenzioso di annullamento e con salvezza degli ulteriori provvedimenti dell’autorità amministrativa (artt. 65 e 88 reg. proc. Cons. Stato). Realtà che dà spesso luogo ad una diffusa rinnovazione di prospettazioni in sede di giudizio di ottemperanza e conseguenti soluzioni. Ed allora ci si deve domandare se ci si trovi in presenza di una realtà storica da lasciare ai correttivi dell’evoluzione da elaborare in leale collaborazione tra tutti gli operatori, amministrazione compresa o se, almeno, si possa elaborare qualche criterio. In questa prospettiva di elaborazione di criteri, può essere utile soffermarsi sul problema della sopravvenienza che si pone, specialmente per la situazione in cui è posta istituzionalmente la p.a. di dover agire per i fini stabiliti dalla legge, che è una situazione di potere-dovere, essenzialmente di natura dinamica, correlata al divenire della vita comunitaria, sicché, sostanzialmente, ci si trova, da un lato, di fronte ad una controversia definita secondo


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l’atto giurisdizionale, divenuto non più discutibile e, dall’altro, di fronte al soggetto obbligato ad eseguirlo che è portatore di poteri-doveri nella materia regolata dal giudicato che pronuncia secondo le richieste del singolo interessato e, di regola, non copre l’area della funzione pubblica nel suo divenire. Ora, anzitutto, vi sono nel giudicato delle questioni risolte e che non possono essere più discusse, sicché gli interessi che ne formano oggetto, hanno trovato definitiva regolamentazione, tenendo conto anche del fatto che gli effetti della pronuncia non sono estranei alla considerazione del giudice amministrativo. Il problema riguarda tuttavia i rapporti destinati a durare nel tempo e non soltanto dal punto di vista delle vicende che possono intercorrere nel relativo svolgimento, perché può accadere che la regolamentazione giuridica di un rapporto sia di natura complessa e, tanto per esemplificare, se per un concorso si sia deciso con giudicato il punteggio spettante ad un candidato ma nulla sia stato deciso circa il titolo necessario per accedere al concorso, può porsi il problema del giudicato implicito sull’avvenuta ammissione per effetto del riconoscimento del punteggio di merito. Si tratta in realtà dell’accertamento dei limiti oggettivi del giudicato che, si afferma, copre il dedotto e il deducibile: problema che riguarda il giudicato in generale e che, peraltro, ha in un certo senso il suo limite nel tantum judicatum quantum disputatum, specie per un tipo di processo che, come il processo amministrativo, si svolge nell’area dei motivi dedotti. Ma, andando ancora più a fondo, il problema, come appare anche dall’esempio or ora addotto, concerne i limiti del potere della p.a. di ritornare nuovamente sulla regolamentazione del rapporto già controverso, quando il regolamento adottato a suo tempo ha formato oggetto di giudicato e che, per stare all’esempio or ora addotto, ne ha rivisitato la soluzione inizialmente data, correggendo il punteggio e fissando la posizione del candidato a suo tempo ammesso. Ora qui sembra che i limiti del potere di riesame della p.a. vadano ricercati nei limiti propri della funzione amministrativa che, però, non è detto non debbano essere individuati conside-


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rando la condotta della p.a., pre, durante e post processo concluso con giudicato. In più chiari termini non si può presumere che le potestà della p.a. conservino efficacia, indipendentemente dai contenuti e dai modi di svolgimento del processo e, nemmeno, può negarsi l’esigenza di concentrare in un solo processo le questioni relative alla disciplina di un determinato rapporto. Con la conseguenza che, non essendo vietato alla p.a. di intervenire con altro provvedimento nel corso del processo, con possibilità del ricorrente principale di dedurre motivi aggiunti, la mancata emissione di altro tempestivo provvedimento che completi la regolamentazione del rapporto controverso, può fondare la teoria del giudicato implicito, non dovendo presumersi l’inidoneità della giustizia amministrativa a mettere parola fine alla controversia avente ad oggetto un determinato rapporto, senza successive aperture. Ed è proprio in riferimento all’efficacia vincolante del giudicato che si pone l’ulteriore problema di politica legislativa, trattandosi di stabilire se tuttora ha un suo significato politico-costituzionale la ripartizione della coazione della p.a. all’adempimento dell’atto giurisdizionale, tra fase dell’annullamento e fase dell’ottemperanza, durante la quale per verità, emergono e vengono risolti i problemi dell’elaborazione della disciplina adatta al caso, per conformarlo agli accertamenti espressi nel giudizio di annullamento. Ora, in prospettiva, tenuto conto della possibilità della p.a. di provvedere anche pendente judicio, dovrebbe andarsi verso la concentrazione del regolamento del rapporto controverso nel giudizio conclusosi con sentenza non più impugnabile, alla quale non può non riconoscersi l’efficacia del giudicato formale, segnandone i limiti con riguardo al dedotto e deducibile, sul piano oggettivo, mentre, sul piano soggettivo i partecipanti al giudizio devono riconoscersi portatori del diritto nascente dal giudicato ex artt. 24 Cost. e 2909 c.c.. Per i terzi, invece, è la legge che deve regolarne la vicenda, secondo il rinvio alla legge contenuto nell’art. 113 ult. comma Cost., anche per la determinazione degli effetti delle sen-


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tenze nei confronti della p.a. ed è nota la recente affermazione del diritto all’opposizione di terzo (Corte cost. 15-17 maggio 1995 n. 177). Diversamente andrebbero le cose se nell’ambito degli orientamenti verso la privatizzazione delle funzioni e dei servizi, e almeno nei limiti di questi ultimi, il legislatore si orientasse verso una giurisdizione sostitutiva, che cambierebbe il volto del processo amministrativo, già a partire dall’inizio e lungo il suo corso, specialmente per l’acquisizione degli elementi necessari per pervenire, in sede di decisione, alla diretta regolamentazione del caso controverso. 23. Prima di concludere può essere utile dare notizie sullo schema del d.d.l. di iniziativa governativa sul processo amministrativo e sull’organizzazione della Corte dei conti e dell’Avvocatura dello Stato limitandosi, coerentemente al tema proposto, alla parte sul processo amministrativo ed avvertendo che dal testo edito dal Poligrafico dello Stato, cui potrà essere richiesto, non risulta che detto schema sia stato ancora deliberato dal Consiglio dei Ministri e del resto l’intitolazione è quella dello schema di disegno di legge. I primi 22 articoli costituiscono il capo I che reca disposizioni sulla giustizia amministrativa e per darne una idea sintetica riporto in nota i titoli dei singoli articoli (11), considerando subito (11) Si riportano i titoli dei singoli articoli. Art. 1 — Delega per il codice del processo amministrativo. Art. 2 — Istituzione del giudice monocratico presso i tribunali amministrativi regionali. Art. 3 — Misure per la ricognizione dei procedimenti pendenti. Art. 4 — Assegnazione alle funzioni di giudice monocratico e carichi di lavoro. Art. 5 — Magistrati amministrativi onorari. Art. 6 — Requisiti generali e professionali per la nomina a magistrato amministrativo onorario. Art. 7 — Nomina dei magistrati amministrativi onorari e assegnazione agli uffici giudiziari. Art. 8 — Trattamento indennitario per i magistati assegnati alle funzioni monocratiche. Art. 9 — Assegnazione dei procedimenti ai giudici monocratici. Art. 10 — Norme processuali speciali.


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il testo dell’art. 1 che delimita la delega al Governo per la formazione del codice del processo amministrativo e confermando, anzitutto, che per tradizione storica e per esigenze tecniche i codici, tendendo, perché tali, ad un riordinamento sistematico della materia, vengono formati attraverso la delega legislativa, perché il riordinamento non è lavoro di assemblee politiche che, piuttosto, assumono atti in cui prevale il momento politico a cominciare dalla fiducia nei rappresentanti al governo, con controllo e condizionamento della relativa azione. È pur vero che la formazione dei codici tocca interessi fondamentali dei cittadini, non meno rilevanti nella regolamentazione dei processi — che ha forti implicazioni politico-costituzionali — sicché torna quanto mai opportuno ricordare le condizioni ed i limiti posti alla delegazione legislativa che, secondo il disposto dell’art. 76 Cost., conforme alla nota dottrina del Tosato, deve Art. 11 — Accertamento dell’interesse delle parti alla trattazione del ricorso. Art. 12 — Impugnazione delle decisioni del giudice monocratico. Art. 13 — Collegi per la definizione dei giudizi pendenti davanti al Consiglio di Stato. Art. 14 — Assegnazione ai collegi del Consiglio di Stato. Art. 15 — Magistrati amministrativi onorari presso il Consiglio di Stato. Art. 16 — Norme speciali di procedura per i giudizi di appello. Art. 17 — Giudizi pendenti davanti al Consiglio di giustizia amministrativa della Regione Siciliana. Art. 18 — Incentivi economici per i dirigenti e per il personale. Art. 19 — Istituzione di nuove sezioni presso il Consiglio di Stato. Art. 20 — Potenziamento degli organici della magistratura amministativa. Art. 21 — Personale amministrativo del Consiglio di Stato e dei Tribunali amministrativi regionali. Art. 22 — Strutture amministrative degli organi di giustizia amministrativa. Art. 23 — Delega per la organizzazione e la razionalizzazione dell’Avvocatura dello Stato. Art. 24 — Disposizioni in materia di competenza. Art. 25 — Modifiche al regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611. Art. 26 — Dotazioni organiche e funzionali dell’Avvocatura dello Stato. Art. 27 — Delega per il codice di procedura per i giudizi innanzi alla Corte dei conti. Art. 28 — Giudice monocratico aggiunto. Art. 29 — Personale di magistratura della Corte dei conti. Art. 30 — Poteri presidenziali nei giudizi pensionistici. Art. 31 — Copertura finanziaria.


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contenere principi e criteri direttivi e determinazione di oggetto e tempo. Ciò detto, una prima definizione di oggetti è nel comma 1 art. 1, dove si dice che: « Entro 18 mesi dall’entrata in vigore della presente legge, il Governo è delegato ad adottare un decreto legislativo, per la codificazione, il riassetto, la semplificazione e l’adeguamento delle norme che disciplinano il processo amministrativo davanti ai tribunali amministrativi regionali, al Consiglio di Stato ed agli altri organi di giustizia amministrativa ». Al secondo comma in cui si precisa che « il decreto legislativo di cui al comma 1 assume la denominazione di codice del processo amministrativo e contiene distintamente: 1) le norme vigenti, con le modifiche e le integrazioni necessarie per il loro coordinamento formale e sostanziale, tenendo anche presenti gli indirizzi consolidati della giurisprudenza, nonché per l’attuazione dei principi e dei criteri contenuti nel presente articolo; 2) le norme di attuazione, di coordinamento e transitorie ». Dunque, coordinando il primo ed il secondo comma, segue che il codice del processo amministrativo dovrà disciplinare le funzioni e le procedure degli organi di giustizia amministrativa, cosı̀ come individuati negli artt. 100 e 125 Cost., senza dimenticare che l’art. 100 Cost. accoglie l’istanza fondamentale di giustizia nell’amministrazione che sarebbe bene menzionare nell’art. 1 del codice. È bene anche sottolineare che ci si avvia ad una visione unitaria della giustizia sulla funzione pubblica che, del resto, si percepisce considerando che il capo II dello schema governativo comprende le disposizioni sul riordinamento dell’avvocatura dello Stato ed il capo III quelle sul riordinamento della Corte dei conti, per le quali, però, i successivi artt. 23 e 27 prevedono distinti decreti legislativi, secondo la realtà della vigente legislazione; ed il decreto per la corte dei conti viene denominato « codice di procedura per i giudizi innanzi alla Corte dei conti », in coerenza, non solo con la normativa speciale esistente in materia, ma anche in conformità di una tradizione plurisecolare. Da sottolineare, tuttavia, dal punto di vista sostanziale, che lo


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schema governativo provvede, in modo che presenta come sinergico, al rafforzamento dell’organizzazione ed al riordinamento dei processi; ed, inoltre, contiene opportunamente la monocratizzazione del giudice nei limiti che suggeriscono le esigenze di alleggerimento (artt. 2 e 28), come innanzi si è prospettato. Per il codice del processo amministrativo il terzo comma dell’art. 1 stabilisce che « il codice di cui al comma 2 attua compiutamente e sistematicamente i principi costituzionali riguardanti il giusto processo, la durata ragionevole del processo e la tutela del cittadino, singolo o associato, nei confronti della pubblica amministrazione ». Da segnalare a questo punto che il principio del giusto processo, per effetto di detta norma deve ritenersi applicabile al processo amministrativo nonostante la mancanza di uno specifico riferimento nell’art. 111 t.m. Cost., spettando al legislatore la disciplina dei processi in modo coerente, ma non soltanto esecutivo, del testo costituzionale. Principio del giusto processo ricco di implicazioni, come dimostra lo sviluppo che ha avuto nell’ordinamento anglosassone, in una visione sinergica di svolgimento dei processi, acquisizione delle prove e concreta regolamentazione degli interessi di singoli e comunità. Ciò tanto più che il giusto processo viene richiamato in sinergia con la durata ragionevole dei processi e la tutela del cittadino, singolo o associato, nei confronti della pubblica amministrazione, In questo riferimento è chiara la compresenza degli artt. 2, 3, 24, 100 oltre che 111 e 113 Cost. In realtà i primi tre commi dell’art. 1 non contengono soltanto la definizione dell’oggetto della delega ma ne determinano anche importanti principi e criteri come è inevitabile in qualsiasi testo normativo, dove tout se tient. E proprio perciò, via via che si procederà nello studio dei principi e criteri direttivi, bisognerà verificare la coerenza dell’intero contesto; avvertenza che si premette al prosieguo dello studio che si sta conducendo e che vuole essere solo una analisi illuminata più dall’esperienza che dall’amor di sistema, senza peraltro sacrificare né l’una né l’altro, per quanto


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utili alla produttività dei risultati, perché la situazione attuale altro non consente. Ebbene, già la lett. a) del comma 4 risponde ad una improrogabile istanza di certezza prevedendo la « ricognizione e precisa indicazione dei criteri di riparto della giurisdizione, con puntuale delimitazione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ». E qui sia consentito di insistere per un elenco di materie, magari precisate con riferimento alla provenienza degli atti e comportamenti e supportato da una norma di chiusura nella quale il Parlamento, svolgendo la riserva di legge ex art. 113 ult. comma Cost.), scelga, per le materie non previste, a quale giudice appartenga la giurisdizione. Ferme restando le perplessità espresse fin dall’inizio sulla figura dell’interesse legittimo che tutte qui si richiamano. Nella lett. b) principi e criteri sono articolati disponendosi la « specifica individuazione delle norme applicabili ai giudizi concernenti le materie di giurisdizione esclusiva e, nell’intero ambito della giurisdizione del giudice amministrativo, le domande di risarcimento del danno, con particolare riferimento al rapporto con l’azione di annullamento del provvedimento amministrativo, assicurando la certezza del diritto nei rapporti tra cittadino e amministrazione ». Ora, mentre va apprezzato lo sforzo di regolare puntualmente l’esercizio della giurisdizione amministrativa, incluse le domande di risarcimento del danno derivante dall’esercizio della funzione amministrativa, problema sul quale ci si è ampiamente trattenuti nelle pagine che precedono, si rimane perplessi sulla mancata disciplina in sede di delega legislativa del rapporto tra azione di annullamento e domanda di risarcimento: che è sostanzialmente un problema di limiti della potestà e della responsabilità degli enti pubblici che, secondo gli artt. 28 e 113 ult. comma Cost., deve essere risolto con legge. In proposito, mentre non si nega che la riserva di legge possa essere svolta con atti legislativi delegati, si ricorda però che, secondo l’art. 76 Cost. i principi e criteri devono essere definiti. Ora


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non può ritenersi definito il principio limitato alla formulazione del problema, dibattuto in giurisprudenza, come innanzi si è riferito, nel senso che si discute se il previo annullamento del provvedimento amministrativo sia pregiudiziale rispetto alla proponibilità dell’azione di risarcimento. Si tratta, tout court, di stabilire se un atto divenuto non più annullabile possa funzionare anche come causa di giustificazione del danno che può esserne derivato per il cittadino, che rimarrebbe non risarcito in caso di mancata impugnativa. È necessario, pertanto, da un lato, delimitare gli effetti dell’attività pubblica nella sfera individuale e, dall’altro, pronunciarsi sul principio dell’intangibilità dei patrimoni, che può essere limitato solo dalla legge perché è la legge che tutela libertà, proprietà, impresa e risparmio (artt. 13 ss., 41, 42, 47 Cost.). Su queste richiamate premesse il principio-criterio ex art. 1, comma 4 lett. b) non può ritenersi sufficientemente definito per quanto riguarda la disciplina del rapporto tra azione di annullamento e domanda di risarcimento, che va precisato dal Parlamento, con adeguata presa di posizione anche per i conseguenti problemi di finanza pubblica di cui si è già detto. Senza dire che il Governo, come legislatore delegato ed organo vertice della Pubblica amministrazione è, sostanzialmente, in situazione di incompatibilità nel fissare i limiti della responsabilità dell’Amministrazione nei confronti dei cittadini, da lasciare, invece, alla decisione del Parlamento. E ciò, anche per quanto riguarda la disapplicazione dei regolamenti e, dovrebbe aggiungersi, degli atti amministrativi generali nonché di quelli che pongono questioni pregiudiziali all’annullamento, perché si tratta, sostanzialmente, di limiti alla potestà della p.a., sicché dovrebbe provvedere il Parlamento, almeno nel senso della posizione di criteri molto specifici. Nulla da dire sulla lett. d), in cui si prevede « massima semplificazione nello svolgimento del processo, con eliminazione di ogni atto o attività non essenziale del giudice, delle parti e degli uffici di segreteria, anche in rapporto al regime delle preclusioni e delle decadenze non rispondenti ad apprezzabili interessi ».


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Egualmente per la lett. e) che prevede « adeguamento della disciplina processuale e del sistema delle notificazioni ai nuovi strumenti informatici e di comunicazione ». Provvida la lett. f) in cui si dispone il « riordino della disciplina della competenza territoriale ed eventuale previsione di particolari regole per la connessione, anche al fine di stabilire eventuali ipotesi di competenza inderogabile ». Bene è stata collegata competenza territoriale e connessione (artt. 31-36 c.p.c.) e c’è solo da augurarsi che si colga l’occasione per generalizzare, già in sede di delegazione, la regola del trasferimento di ufficio del processo dal giudice incompetente e/o privo di giurisdizione, al giudice competente od avente giurisdizione, sia per evitare ingiustificati dinieghi di giustizia sia per eliminare un’ulteriore causa di proliferazione dei processi, consistente nel tuziorismo di chi investe due o più giudici, temendo l’inammissibilità per incompetenza o difetto di giurisdizione. Nella lett. g) si prevede « disciplina degli istituti della successione nel processo, della chiamata in causa e della opposizione di terzo, in conformità ai principi espressi dalla Corte costituzionale ». Qui vi sarebbe da rinviare, per completezza, oltre che ai principi espressi dalla Corte costituzionale, alle norme del c.p.c., in quanto applicabili. Alla lett. h) si prevede la « riduzione e uniformità dei termini complessivi per lo svolgimento dei giudizi, salvaguardando il diritto di difesa delle parti e la razionale successione delle diverse fasi processuali ». Qui lascerei solo l’uniformità dei termini, togliendo la « riduzione » che falsa le vere cause dei ritardi, non certo dovuti ai termini processuali, nonché il termine « complessivo », in se stesso equivoco. Alla lett. i) si prevede la « disciplina del termine di decadenza per la proposizione del ricorso, anche in relazione alle regole concernenti l’accesso ai documenti amministrativi, prevedendo, salve particolari ragioni, un unico termine ». E qui lascia perplessi l’unicità del termine per la proposizione


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del ricorso e l’accesso ai documenti perché l’accesso ai documenti non è nella disponibilità del ricorrente, dovendosi piuttosto richiamare la positiva e consolidata esperienza dei motivi aggiunti, ormai codificata. Alla lett. l) si prevede l’« adeguamento o omogeneizzazione della disciplina dei processi soggetti a riti speciali e dei giudizi in camera di consiglio, definendo le regole comuni ed il rapporto con la normativa generale del processo, anche in relazione alla connessione tra giudizi soggetti a riti diversi ». Più che di omogeneizzazione parlerei di coordinamento, perché la specializzazione, fin dove ha motivazioni specifiche, non può essere soppressa mentre il coordinamento consente l’unificazione laddove non esistono ragioni in contrario. La lett. m) prevede la « revisione del processo speciale in materia di silenzio, con definizione dei poteri di cognizione del giudice e del contenuto delle pronunce adottabili, stabilendo che il giudice ove l’originaria istanza abbia ad oggetto provvedimenti di carattere vincolato, ne indichi il contenuto in modo vincolante per l’amministrazione, se lo chiede la parte interessata e se non sono necessarie particolari valutazioni o accertamenti tecnici riservati all’amministrazione ». Qui non sarei tanto rispettoso della riserva di provvedimento a favore dell’amministrazione specie laddove la discrezionalità è tecnica. Piuttosto acquisirei gli elementi necessari con C.T.U. ed, in via soltanto completiva, prevederei la nomina di Commissari. Alla lett. n) si prevede la « razionalizzazione del contenzioso elettorale, prevedendo regole uniformi in relazione ai diversi tipi di giudizi ». Secondo i precedenti bisognerebbe parlare di « contenzioso sul procedimento elettorale » anche ad evitare l’illegittimità della delega per scarsa definizione del suo oggetto né mi sembra sufficiente come determinazione di principi e criteri, la razionalizzazione e l’uniformità tra i vari tipi di giudizi, dovendosi estendere i criteri allo svolgimento di adeguate istruttorie, magari avvalendosi di deleghe ad organi di amministrazione e ciò secondo espe-


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rienze che vanno corrette, evitando decisioni con scarse acquisizioni, anche se giustificate da carenze di organico, delle quali non si dirà mai abbastanza. Sub o) ci si riferisce al « riordino della disciplina delle controversie in materia di opposizione alle sanzioni amministrative punitive affidate alla giurisdizione esclusiva amministrativa in conformità ai principi processuali della legge 24 novembre 1981 n. 689 ». Qui si dovrebbe chiarire che le opposizioni sono tutte di competenza del giudice amministrativo perché non possono esservi incertezze in materia di sanzioni. Sub p) si prevede la « revisione ed eventuale eliminazione delle ipotesi di giurisdizione estesa al merito, con esclusione del giudizio di ottemperanza al giudicato ». Lascerei le cose come sono che non danno fastidio a nessuno. Sub q) si prevede la « ricognizione delle norme generali del processo amministrativo e raccordo con le disposizioni del codice di procedura civile, stabilendo quali tra esse possono essere estese alle azioni proposte davanti al giudice amministrativo ». Bene la ricognizione delle norme del c.p.c., chiarendo che resta all’interprete individuare possibilità di allargare il rinvio secondo le fattispecie, anche oltre le norme che per ragioni di certezza sono state dichiarate applicabili, perché l’ordinamento del processo amministrativo non può irrigidirsi, per il polimorfismo delle materie che ne forma oggetto. Bene la lett. r) sul « riordino e adeguamento della disciplina concernente l’istruzione probatoria e la consulenza tecnica d’ufficio, anche in riferimento alla eventuale istituzione di appositi albi di consulenti ed alla individuazione delle funzioni affidate al giudice delegato per l’istruttoria e al collegio ». Egualmente per la lett. s) in cui si dispone il « riordino e compiuta disciplina del processo esecutivo, prevedendo la competenza del tribunale amministrativo regionale per l’esecuzione delle sentenze passate in giudicato e definendo il regime di impugnazione delle determinazioni del commissario ad acta ». Sub t) si prevede la « razionalizzazione e completamento della


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disciplina del giudizio arbitrale, con eventuale ampliamento delle ipotesi previste, avendo specifico riguardo alle controversie in materia di accordi sostitutivi di provvedimenti, concessioni di beni, servizi pubblici, espropriazione, edilizia e urbanistica ». Qui i problemi sono di notevole portata perché la disciplina del processo arbitrale, che ha origine da un patto tra gli interessati e dal mandato agli arbitri, è contenuta nel c.p.c. e coordinata in certo senso con le norme ed i principi del processo civile. D’altronde, nei rapporti tra privato e p.a. è stato storicamente, oltre che giuridicamente, acquisito che la p.a. può compromettere in arbitri determinati tipi di controversie e bisognerebbe anzitutto decidere se, una volta compromesse in arbitri le controversie derivanti da un determinato rapporto o tipo di rapporto, agli arbitri è affidata una competenza per materia che prescinde dalla tipologia delle situazioni soggettive, anche considerando che attualmente si dubita sempre più circa la situazione di interesse legittimo ed i relativi limiti, come esposto in vari passi della relazione che precede. Ed occorrerebbe regolare anche il problema della disapplicazione degli atti amministrativi da parte degli arbitri, considerando che la stessa compromettibilità in arbitri può essere accettata dalla p.a. se ed in quanto la legge a tanto la abilita. In proposito sarebbe utile la formazione di un comitato di studi con esperti del processo sia civile sia amministrativo sia arbitrale; processo arbitrale che interessa p.a., imprese e privati, sicché una realistica e moderna regolamentazione è necessariamente interdisciplinare ed i problemi iniziano già dalla determinazione del codice in cui collocarla. Ferma restando l’attualità del problema di un riordinamento della materia. Alla lettera u) si prevede: « introduzione di forme di definizione della controversia in ambito precontenzioso e in sede di conciliazione giudiziale e stragiudiziale, anche mediante il potenziamento delle funzioni del difensore civico, delle autorità indipendenti e di altri organi dotati di particolari competenze tecniche e mediante la razionalizzazione di adeguati strumenti di ricorsi


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amministrativi, eventualmente pregiudiziali, entro un termine massimo non superiore ai novanta giorni, alla proposizione del ricorso giurisdizionale ». In proposito lascia perplessi la natura eventualmente pregiudiziale di eventuali ricorsi amministrativi, che farebbe sorgere nuovamente le eterne e difficilissime questioni sulla definitività e non definitività degli atti, risolte a suo tempo dalla legge dei TT.aa.rr. che ha ammesso il ricorso giudisdizionale indipendentemente dalla definitività degli atti impugnati. Più che la pregiudizialità del ricorso amministrativo rispetto al ricorso giurisdizionale, stabilirei che il ricorso giurisdizionale proposto indipendentemente dal previo esperimento del ricorso amministrativo comporta la condanna alle spese in caso di soccombenza, senza possibilità di compensazione. La lettera v) prevede: la « individuazione di ipotesi in cui il tribunale amministrativo regionale giudica in composizione monocratica, con specifico riferimento ai ricorsi per l’esecuzione del giudicato e agli altri giudizi in camera di consiglio, con esclusione dei giudizi cautelari ». Si tratta di un chiaro provvedimento di alleggerimento che sacrifica la collegialità che altrimenti andrebbe conservata. Alla lettera z) si prevede: « razionalizzazione del contenuto e della forma delle decisioni del giudice, con esplicita indicazione della loro tipologia, con eliminazione delle modalità superflue, e con ampliamento delle ipotesi di pronunce succintamente motivate ». In proposito occorre agire con cautela in sede di disposizioni di legge delegata perché non bisogna dimenticare che la motivazione, secondo la Costituzione, caratterizza l’atto giurisdizionale, che è frutto anzitutto di ragionamento e non di scelta soltanto volontaria. Alle lettera « aa) » si prevede: « semplificazione delle regole concernenti la rappresentanza in giudizio delle parti private e delle amministrazioni pubbliche, consentendo il ricorso alla procura generale alle liti ». È qui aggiungerei che nel dubbio occorrerebbe ispirarsi al


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principio della presunzione di mandato come prospettato da M. Acone quando, allo stato degli atti, siano presenti elementi tali da lasciare ragionevolmente presumere l’esistenza del mandato, salvo specifica contestazione del mandante. Alla lettera « bb) » è previsto: « riordino della disciplina del giudizio di appello, con particolare riguardo alla previsione del divieto delle domande nuove ». Va ricordato che il divieto di domande nuove va circondato da debite cautele, specie per quelle domande che scaturiscono dallo svolgimento del giudizio di primo grado o, ovviamente, dalle valutazioni del giudice di primo grado. Quanto al n. 5, che elenca i criteri da seguire nell’esercizio della delega, alla lettera « a) » si prevede: « puntuale individuazione del testo vigente delle norme, aggiornato e rivisto secondo i criteri di cui al comma 4 e alla lettera c) del presente comma, anche al fine di assicurare l’omogeneità e la chiarezza delle disposizioni ». Nulla da dire in proposito, tranne che rilevare che la sistematica dello schema di legge, la delimitazione del suo oggetto e dei principi e criteri direttivi, sono in implicazione ed in integrazione reciproca ed insieme si pongono nel tempo. Egualmente nulla da dire sub b) dove si prevede l’esplicita indicazione delle norme abrogate, anche implicitamente, da successive disposizioni. La lettera « c) » prevede il coordinamento, formale e sostanziale, del testo delle disposizioni vigenti con tutte le modifiche necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica della normativa, anche al fine della semplificazione del linguaggio; e fin qui nulla da dire perché il diritto può ben funzionare solo se espresso in un sistema logicamente coerente di regole, non dovendosi dimenticare che la coerenza è elemento intrinseco all’ordinamento giuridico, proprio perché è giuridico e cioè contenente regole vincolanti. Qualche perplessità, invece, può esservi solo laddove si prevede l’attribuzione di forza di legge alle disposizioni regolamentari che disciplinano il processo e qui, forse, da un lato, si po-


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trebbe ricordare che il regolamento n. 642/1907 viene ritenuto una legge delegata e, dall’altro, che le disposizioni regolamentari, esecutive delle norme processuali, hanno per lo più natura tecnica; sicché l’efficacia di regolamento può agevolare gli adeguamenti tecnici. Si rimane perplessi, invece, in ordine alla lettera « d) » che prevede l’esplicita indicazione delle disposizioni, non inserite nel testo unico, che restano comunque in vigore, perché, anzitutto, si sta preparando il codice del processo amministrativo come detto nella titolazione dello schema del disegno di legge e nel corso del n. 1 dell’art. 1 che parla di codificazione: e il codice pone un sistema processuale sicché è caratterizzato da completezza e coerenza, molto più che non lo sia un testo unico, inteso piuttosto ad unificare lo strumento di informazione, tanto che esistono anche testi unici di sola compilazione. Inoltre, anche un testo unico, proprio perché unico, deve tendere a comprendere tutte le disposizioni applicabili nella materia regolata. Quanto poi alla lettera « e) » essa prevede l’esplicita abrogazione di tutte le rimanenti disposizioni, non richiamate, che regolano il processo amministrativo, con espressa indicazione delle stesse in apposito allegato al codice. È certamente questa una regola di ordine e di chiarificazione che però esige grande attenzione nell’esame delle norme che si abrogano, nel senso di riscontrarne la superfluità o l’avvenuta sostituzione con altre norme. Ovviamente indispensabile il parere del Consiglio di Stato e del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa sul testo preparato dal Governo (comma 6, art. 1), nonché la relazione accompagnatoria dello schema del disegno di legge all’atto della relativa trasmissione alla commissione parlamentare (comma 7). E sarebbe stata desiderabile la consultazione delle università e degli ordini professionali interessati. Sembra poi proprio breve il termine di soli sessanta giorni concessi alle Commissioni parlamentari le quali incontrano maggiori difficoltà nell’operare in materia rispetto agli organi di giustizia amministrativa cui sono stati concessi centoventi giorni.


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Il comma 9 prevede la possibilità di apportare modifiche entro 12 mesi dalla scadenza del termine per l’emanazione del decreto delegato e il comma 10 prevede il regolamento per gli aspetti organizzativi ed esecutivi: e qui valgono le osservazioni che si sono fatte sopra, nel senso di mantenere l’efficacia regolamentare delle norme esecutive ed attuative. Quanto all’art. 2, che istituisce il giudice monocratico, si è già detto che si tratta ovviamente di legge di alleggerimento e cosı̀ pure sembrano opportune le misure per la regolamentazione dei processi pendenti, affidate alla competenza dei Presidenti dei TT.aa.rr. che operano attraverso appositi uffici, per i quali si potrebbe prevedere l’ausilio dei mezzi informatici, specie per la rilevazione dell’esistente, nonché l’elaborazione dei programmi di distribuzione del lavoro, ora da ripartire tra giudici monocratici e collegiali, onorari e non. Non può, invece, non ritenersi insuffıciente il numero complessivo di 100 unità per i posti di giudici monocratici e di magistrati onorari previsti nel successivo art. 5; magistrati onorari cui possono essere affidati le funzioni di giudice monocratico di primo grado. Nelle pagine che precedono si è ampiamente detto che il numero dei ricorsi pendenti si aggira intorno al milione, sicché aggiungere 100 magistrati ai 506 previsti dal ruolo e non sembra rimedio sufficiente. Le altre disposizioni hanno riguardo, in particolare, alla nomina, funzioni e trattamento dei magistrati onorari e monocratici (artt. 6 a 9); i magistrati onorari possono svolgere anche le funzioni di giudici monocratici (art. 5), laddove si sarebbe dovuto prevedere un periodo di inserimento nei collegi, tanto più che l’art. 10 chiarisce che il giudice monocratico riassume in sé le funzioni spettanti al Presidente del Collegio ed al collegio stesso fino alla definizione dei procedimenti. Seguono poi le disposizioni relative all’accertamento dell’interesse delle parti alla trattazione del ricorso, alle quali il giudice monocratico può chiedere informazioni, mentre possono essere cancellate le cause per le quali non viene dichiarato l’interesse


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alla trattazione del merito; invece, se viene dichiarato l’interesse, la causa è rinviata ad udienza fissa, come del resto si pratica per i ruoli aggiunti; con la sola abbreviazione a 6 mesi del termine per la nuova domanda di fissazione nel caso in cui non sia stato dichiarato l’interesse alla trattazione della causa. D’ora innanzi bisognerà stare attenti ai calendari delle udienze pubblicate presso l’Ufficio Giudiziario perché il Presidente può disporre che l’avviso di udienza sia sostituito o integrato da detta pubblicazione: disposizione che in verità lascia più che perplessi (art. 11 ult. comma). L’art. 12 invece riduce a metà i termini per l’impugnazione della decisione del giudice monocratico ed è previsto che il Consiglio di Stato decida nel merito la controversia se non annulla la pronunzia senza rinvio. L’art. 13 riduce a 3 i componenti del Collegio del Consiglio di Stato per le controversie in materie di lavoro e per le controversie introdotte con ricorso depositato anteriormente all’1o gennaio 1995, con esclusione delle controversie ex art. 23-bis l. 6 dicembre 1971 n. 1034 e delle controversie in materia urbanistica ed altre. Anche per gli appelli contro le sentenze del giudice monocratico i collegi vengono ridotti a 3 componenti. Secondo il successivo art. 14, al Consiglio di Stato in composizione ridotta è assegnato un numero di magistrati non superiore a 25 di cui 15 possono essere magistrati amministrativi che ne facciano richiesta, con precedenza per i consiglieri di Stato in servizio presso le sezioni giurisdizionali ed i consiglieri fuori ruolo. I magistrati onorari presso il Consiglio di Stato non possono superare 25 unità ai sensi del successivo art. 15, con possibilità di chiamare all’incarico di magistrati onorari i magistrati amministrativi e gli avvocati dello Stato a riposo. Norme speciali sono poi dettate per i giudizi di appello innanzi al Consiglio di Stato nell’art. 16 e nell’art. 17 per i giudizi innanzi al Consiglio di giustizia amministrativa siciliana, mentre norme organizzative e sul trattamento economico (art. 18 a 23) concludono la delega per il codice del processo amministrativo che conterrà cosı̀ anche norme sull’ordinamento degli organi di


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giustizia amministrativa come appare tra l’altro dall’art. 19 che aumenta a nove il numero delle sezioni del Consiglio di Stato: quattro consultive e cinque giurisdizionali dettando regole particolari sulle competenze della sezione per gli atti normativi. 24. Ciò detto in ordine allo schema di legge delega per il codice sul processo amministrativo, si riassume l’intera relazione nelle seguenti considerazioni finali cui si rinvia per le valutazioni conclusive. 1) L’istanza costituzionale di giustizia nell’amministrazione comporta un ordinamento della magistratura e del processo amministrativo adeguato a rispondere tempestivamente alle domande di giustizia sulle controversie aventi origine dall’esercizio della funzione amministrativa e, più in generale, pubblica: dizione quest’ultima che si è menzionata non solo come alternativa ad « amministrativa », ma considerando anche il problema sostanziale dell’integrazione tra giustizia costituzionale ed amministrativa, sia per il controllo sulle leggi che regolano l’amministrazione sia per la delimitazione delle sfere dei singoli poteri; 2) La domanda di giustizia amministrativa va crescendo nel Paese, assumendo dimensioni incompatibili con l’attuale apparato giudiziario, nonostante i tentativi di semplificazione delle procedure, favorendo il fatto compiuto, che significa in molti casi conservare atti illegittimi ed amministrare contro legge; 3) Comparando il numero dei ricorsi pendenti, che arriva all’incirca ad un milione (12), con il numero dei magistrati dei Tar e del Cons. Stato che, in tutto, è di 506, si ha l’idea chiara della sproporzione in atto — poco meno di duemila (2000) ricorsi in media per ciascun magistrato — sproporzione che esige indilazionabili rimedi; né può ignorarsi ulteriormente la dimensione assunta dalla domanda di giustizia senza aggravare la crisi dal principio di autorità ed allargare il vallo tra comunità ed apparati, che dovrebbero reciprocamente integrarsi: integrazione che purtroppo tarda, nonostante il miglioramento sul piano legislativo del proce(12) Cfr. Consiglio di Stato parte II, vol. III, 2002 p. 1417 ss. dove al 31 dicembre 2001 si registrano 905444 pendenze.


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dimento amministrativo, orientato verso la semplificazione ed il colloquio. In questa prospettiva l’aumento di 100 unità di giudici amministrativi previsto nello schema del disegno di legge di cui si è detto al § 23 non può ritenersi suffıciente; 3.a) Le carenze organizzative dell’apparato giudiziario non si traducono soltanto in implausibili ritardi ma anche nella paralisi di quella salutare evoluzione del processo amministrativo, che dal giudizio sull’atto e sul documento va verso l’assimilazione più completa possibile del fatto, cosı̀ come si è effettivamente svolto; acquisizione giuridicamente possibile dopo l’estensione delle norme sull’istruzione del processo civile al processo amministrativo, ma praticamente impossibile per il limitatissimo ed insuffıciente numero di giudici; acquisizione del fatto che è indispensabile per dare, anche sul piano giudiziario, una congrua risposta alla crisi del principio di autorità, raccordando sempre più, attraverso le preziose esperienze della giurisprudenza, specialmente sull’eccesso di potere, i contenuti delle sentenze alla realtà fattuale delle controversie e prevenendo le disfunzioni; 3.b) Il principio del giusto processo è nato, come è noto, nell’ordinamento anglosassone ed è tanto esteso da fondare il diritto del cittadino ad un giusto svolgimento delle funzioni pubbliche che da noi ha trovato adeguata affermazione nella l. n. 241 del 1990 e successive modificazioni. Ebbene, detto principio, agevolmente collegabile alla resa di giustizia nell’amministrazione, può trovare ricchi svolgimenti nell’ordinamento della giustizia amministrativa considerando: 3.c) che la collegialità è notevole garanzia di corretto esercizio della giurisdizione che migliora la percezione delle questioni proposte attraverso la discussione tra soggetti imparziali e che può essere derogata come ricordava Carnelutti, solo per esigenze di alleggerimento e di tempestiva resa di giustizia: con la conseguenza che le norme sui giudici monocratici dovrebbero avere carattere temporaneo; 3.d) che la localizzazione degli organi di giustizia amministrativa ha consentito l’emersione di corrispondenti istanze locali, che hanno arricchito motivazioni ed oggetti del giudizio ammini-


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strativo con relative esigenze probatorie, che hanno trovato rispondenza nelle riforme ex l. n. 205 del 2000 di cui si è ampiamente detto e che devono trovare completa applicazione specie nel giudizio di risarcimento del danno, che deve avere svolgimento indipendente dal giudizio sul provvedimento impugnato; 3.e) che conseguentemente deve essere migliorato il contraddittorio ripristinando, magari con legge, il controricorso o una qualsiasi forma di risposta scritta al ricorso, sia da parte della p.a. che dei controinteressati, eliminando il privilegio delle parti diverse dal ricorrente, di esplicitare le difese nell’immediatezza dell’udienza di discussione; il che tra l’altro porta ad abusare della domanda di sospensione per costringere le controparti ad esprimersi tempestivamente; 3.f) non è conforme al giusto procedimento l’attuale regolamento della perenzione decennale specie laddove richiede la sottoscrizione della parte all’istanza di fissazione, perché spesso dopo dieci anni la parte non è agevolmente reperibile e si sarebbe dovuto lasciare al difensore, che è munito di mandato, la valutazione della persistenza dell’interesse; 3.g) del resto una generalizzazione con adeguata frequenza della prassi del ruolo aggiunto risolverebbe agevolmente il problema della sopravvenuta carenza di interesse; 3.h) per converso, la proposizione delle domande di prelievo, ormai entrata nella prassi, dovrebbe essere regolamentata opportunamente, in occasione della formazione del codice sul processo amministrativo o anche prima, prevedendo la risposta entro tempi ragionevoli, compatibilmente con la situazione dei ruoli e considerando che le domande di prelievo sono la vera spia, come dice il collega Dragogna, dell’interesse alla decisione; 3.i) l’esposizione dei problemi sin qui condotta evidenzia che per la rilevazione delle questioni che sorgono nella quotidiana attività giudiziaria, è necessaria la collaborazione di tutti gli operatori, in particolare in questo momento in cui occorre studiare lo schema di disegno di legge di iniziativa governativa pubblicato dal poligrafico dello Stato e distribuito insieme alla nuova edizione del codice delle leggi sulla giustizia amministrativa pubbli-


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cata dallo stesso poligrafico con prefazione del presidente del Consiglio di Stato, S.E. Alberto de Roberto, in cui si prevede la delega al Governo per l’emanazione del codice del processo amministrativo: schema che si è riassunto nel precedente par. 23. 4) I rimedi alla situazione tratteggiata richiedono, altresı̀ impegno politico e finanziario, trattandosi di far crescere in tempi ragionevoli, ma tendenzialmente brevi, l’organico dei giudici amministrativi e delle segreterie, nonché i mezzi tecnici, studiando opportuni metodi di selezione: senza trascurare corrette collocazioni e dimensionamenti di personale ed uffici, tenendo conto dell’andamento delle amministrazioni e della litigiosità e ricordando che i giudici ordinari tra giudici di pace e aggregati sono raddoppiati; 5) La riforma del 2000 ha lasciato pressocché immutato lo stato delle cose, oltre che per la naturale lentezza delle evoluzioni di ogni tipo, anche, se non soprattutto, per la materiale impossibilità di affrontare i nuovi impegni, di carattere specialmente istruttorio, con l’attuale numero di giudici, tanto più che è decaduto il d.l. 18 maggio 2001 n. 179 sulle sezioni stralcio; 6) Il completamento della tutela del singolo, che si è avuto attraverso il binomio annullamento-risarcimento, rappresenta un sostanziale progresso nel senso dell’accoglimento, da parte della Cassazione e del legislatore, dell’istanza di giustizia nell’amministrazione, che è il principio fondamentale affermato nell’art. 100 Cost. e che ha trovato specificazione nelle altre norme costituzionali (artt, 24, 103, 113) e nelle leggi sulla giustizia amministrativa, ma che attende tuttora concreta attuazione, attraverso un apparato giudiziario finalmente adeguato alla situazione esistente, nonché un coordinamento delle norme processuali esistenti con opportune integrazioni: fermo restando che, come più volte detto nel corso della relazione ed illustrando lo schema di disegno di legge delega per la formazione del codice del processo amministrativo, è nella legge delega che va risolto il problema del rapporto tra annullamento del provvedimento lesivo ed istanza risarcitoria: problema che, ad avviso di chi scrive, andrebbe regolato nel senso della indipendenza delle due azioni, anche tenendo pre-


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sente la nostra tradizione che ammette la disapplicazione dell’atto illegittimo da parte del giudice (art. 5 L. 20/3/1865 n. 2248 all. E). 7) In particolare, dovrà considerarsi che la riduzione dell’area dei controlli amministrativi — per asserite esigenze di autonomie locali di carattere costituzionale — che, peraltro, non sarebbero state incompatibili con diffusi controlli di legittimità — comporta la necessità di approfonditi controlli giudiziari, a tutela del cittadino; tutela particolarmente necessaria nei confronti delle autorità locali, dove più pericolose sono le deviazioni con motivazioni personalistiche; 8) A tal fine va ribadita l’esigenza di rinverdire il controllo sull’eccesso di potere, menzionandone in sede legislativa, ben si intende in modo soltanto indicativo, le fattispecie più frequenti, non a finalità prescrittive quanto per prevenire le deviazioni ed incentivarne il controllo con l’acquisizione del fatto nel suo complesso, inducendo, nel contempo, l’estensore del ricorso ad adeguati approfondimenti, attraverso quella istruttoria anteriore al giudizio, che non sarà mai abbastanza raccomandata: Aiutati che Dio ti aiuta! E qui va ricordato che è il buon senso che può guidare nella configurazione dei rapporti tra il singolo, le comunità e le istituzioni con le quali convive (già in tal senso è tutta l’opera oraziana); 9) Istruttoria ante judicium che servirà anche a meglio fondare le richieste istruttorie da indirizzare al giudice che, tuttora, si ispira alla necessità di un principio di prova già esistente agli atti, per poter ammettere altri mezzi istruttori; 10) In realtà, nel processo amministrativo, accanto alla prova documentale e sulla base del principio del libero convincimento del giudice, si è consolidato un metodo di valutazione presuntivo, che ha certamente il suo valore ma che occorre fecondare, svolgendolo verso acquisizioni ulteriori fino a far rivivere il fatto nel processo amministrativo, anche con opportuni, obbiettivi riscontri, specialmente ora che il privato ricorrente è agevolato nella sua opera collaborativa attraverso la partecipazione al procedimento in fase amministrativa e l’accesso ai documenti; 11) Deve negarsi definitivamente l’adagio che fondava il po-


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tere discrezionale della p.a. sull’insuffıcienza del regime delle prove nel processo amministrativo, mentre la discrezionalità, che è connaturata ad un’adeguata gestione degli interessi delle comunità, deve trovare appropriata base in scelte responsabili e trasparenti per tutti, come già spiegava Guido Carli. La stessa dimensione, normalmente ultraindividuale degli interessi oggetto del processo amministrativo, esige adeguata acquisizione degli elementi di fatto della controversia: elementi che ne costituiscono la tematica essenziale e rendono possibile la funzione propria della resa di giustizia nell’amministrazione, che è forte elemento di bilanciamento ed equilibrio politico costituzionale tra apparati di potere ed interessi di individui e, più in genere, tra interessi individuali ed ultraindividuali, i quali ultimi sono, in definitiva, interessi delle comunità amministrate, sia pure impersonate in giudizio dai soggetti pubblici autori dell’atto, soggetti che, in realtà, svolgono funzioni e cioè operano per altri: altri che sono i gruppi o tutti i cittadini; 12) L’evoluzione in atto delle normative processuali ed extraprocessuali, nel senso dell’acquisizione delle fattualità al procedimento ed al processo amministrativo, deve essere favorita dal ceto forense che detiene per legge l’iniziativa nel processo amministrativo, ricordando, contro ogni contrario pregiudizio di anguste visioni strettamente tecniche, che gli ordinamenti processuali sono fortemente propulsivi dell’evoluzione politico-costituzionale dell’ordinamento giuridico nel suo complesso, nonché del modo di essere dei rapporti tra autorità di ogni tipo e singoli individui: l’indirizzo fondamentale per la evoluzione democratica di tali rapporti è già segnato nell’art. 100 Cost., laddove costituzionalizza la plurisecolare istanza di giustizia nell’amministrazione, supportata, sul piano organizzativo e funzionale, dal precedente art. 97, che preordina la fase organizzativa alla imparzialità ed al buon andamento dell’amministrazione: istanza che essendo stata solennemente accolta dal Costituente dovrà trovare adeguati svolgimenti nel testo del codice del processo amministrativo per cui è in preparazione la legge delega; 13) In questa prospettiva deve ancora una volta raccomandarsi


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il potenziamento dell’indagine sull’eccesso di potere per captare le deviazioni della funzione pubblica, talora ingenue talaltra maligne, e che, perché deviazioni, sono tutte da individuare con i mezzi istruttori, ormai rafforzati nel nuovo ordinamento ex l. n. 205 ma già significativamente elencati nell’art. 44 t.u. n. 1054 del 1924, specie laddove, in partenza, detto articolo dispone che il giudice può riconoscere l’incompletezza dell’istruttoria e provvedere di uffıcio alle integrazioni; 14) La funzione giudiziale, che è giustiziale, deve tendere, laddove sorga controversia, ad acquisire al processo gli elementi che hanno formato oggetto della funzione amministrativa, perché il controllo di legittimità, per essere vero, deve svolgersi sulla base delle componenti reali della fattispecie controversa, accertando non solo l’osservanza della legge nelle sue disposizioni, ma anche se, nel caso concreto, ricorrevano gli elementi assunti nella previsione del legislatore a presupposto delle disposizioni adottate, che la p.a. afferma di eseguire. Ed è, in questo senso, del tutto da respingere l’attenuazione del controllo sull’eccesso di potere che, al contrario, deve essere condotto utilizzando anzitutto l’esposizione dei fatti contenuta nel ricorso, da comparare agli elementi di fatto assunti nel provvedimento impugnato, nonché alle violazioni di legge che sono state denunciate, anche nei casi in cui occorra un lavoro ricostruttivo, in modo che si raggiunga quella illuminazione reciproca tra disposizione di legge e fatto concreto in sede di applicazione della legge (E. Betti), che sono entrambe esperienze umane che si integrano reciprocamente, forniscono la materia al processo e fondano la sentenza (in quest’ordine di idee, molto recentemente: S. RUOPPOLO); 14.a) In particolare deve evitarsi che la sentenza concorra a conservare l’esercizio di un potere attribuito dalla legge quando non ricorrano in concreto gli elementi che la legge ha prefigurato per il concreto esercizio del potere stesso; infatti la presunzione di verità del giudicato, presupposto storico-costituzionale della indiscutibilità delle soluzioni cui esso perviene, non può essere scissa dalla conformazione del processo nel senso che debbano essere assunti, durante il processo ed al massimo grado possibile, i con-


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tenuti reali della lite, che debbono essere acquisiti, coordinando gli elementi disponibili e ricercandone, come già accennato, obbiettivi riscontri, in particolare quando viene opposto il carattere c.d. riservato di determinate informazioni perché, già secondo l’art. 44 t.u. n. 1054 del 1924, non sono previsti limiti al completamento dell’istruttoria, pur non esistendo, nel 1924, un regime democratico, mentre la tendenza attuale è verso la compenetrazione tra ordinamento costituzionale e amministrativo (cfr. il diffuso Manuale del BRADLEY and EWING, Costitutional and Administrative Law, 13th ed., 2003, Harlow, London, 2003); 15) Non deve evitarsi ed, anzi, deve realizzarsi, fin dove possibile, la partecipazione diretta dell’autore dell’atto e dell’interessato, debitamente assistiti, non essendovi alcun limite di forma nell’acquisizione degli schiarimenti ex art. 44 t.u. n. 1054 del 1924, se è vero, come rilevato dalla Cassazione (sent. n. 157 del 2003), che sempre più si trova diffıcoltà ad impostare in termini di autorità, i rapporti tra apparati ed individui, e se è vero che tutti sono uguali di fronte alla legge, compresi i funzionari ed i giudici. Senza dire che la dimensione e la natura essenzialmente comunitaria degli interessi che si dibattono nel giudizio amministrativo esige che innanzi ai giudici rivivano uomini e cose, le quali ultime sono, in definitiva, di noi tutti; sicché la vicenda controversa deve rivivere nella dinamica della potestà amministrativa e del contrapposto interesse individuale da cui ha avuto origine; 16) Svolgimento legale o effetto, se si vuole, delle iniziative del ricorrente, istruttorie e di merito, è il potere del giudice di condurre il processo, acquisendo ogni elemento ritenuto utile, interponendosi tra ricorrente, apparato e comunità, ricercando la soluzione che, come evidenziava già Augusto Thon (1878), appaia alla sua coscienza conforme a legge, realizzando l’equilibrio tra gli interessi controversi e ricomponendo gli elementi che è riuscito a recepire, verso una definizione che, nonostante l’angustia delle formule terminative — accoglimento con annullamento totale o parziale oppure rigetto — rispecchi il fatto nella dinamica dei suoi elementi, coerentemente al sistema nell’ambito del quale la sentenza dovrà essere eseguita;


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17) In questa ricostruzione può essere di ausilio l’indicazione dell’art. 7 l. n. 205 del 2000 laddove riporta il comma 2 dell’art. 35 del d.lgs. n. 80 del 1998, per cui, in sede di condanna della p.a. al risarcimento del danno ingiusto, il giudice amministrativo può stabilire i criteri secondo i quali l’ente debitore deve proporre il pagamento di una somma entro un congruo termine, ed, in mancanza di accordo, può chiedersi allo stesso giudice la determinazione della somma dovuta. Con una disposizione del genere sembra qui bene avviato il discorso sulla concezione della giurisdizione amministrativa come giusta composizione della controversia, tra il mio del ricorrente, il tuo del controinteressato ed, in certo senso, dell’apparato come espresso dal funzionario, ed il nostro delle comunità, cui gli interessi controversi, in definitiva, fanno capo; giurisdizione, cioè, verso il giusto e legale compimento della funzione pubblica (art. 100 Cost.). Discorso avviato in sede giudiziaria ma da completare in sede legislativa, con opportune previsioni di mezzi assicurativi e/o finanziari per quel che riguarda il risarcimento del danno, secondo i concetti di necessaria aderenza alla realtà degli interessi che si sta cercando di ricostruire via via, superando atteggiamenti, ormai datati, di insostenibili chiusure: discorso che deve essere affrontato nella legge delega per la formazione del codice sul processo amministrativo, come detto nel precedente par. 23. 18) Giurisdizione amministrativa che conosce di controversie di contenuto complesso ed anzi, non sempre delimitabile, cui mal si adattano le classificazioni tradizionali, elaborate sul modello del processo civile, nato per dire il diritto tra due litiganti; giurisdizione amministrativa che deve essere ricondotta a configurazioni meglio rispondenti alla dinamica dei rapporti tra cittadino ed istituzioni ed, ove occorra, tra istituzioni, considerate in relazione ai vari tipi di comunità che devono gestire, per gli interessi di rispettiva competenza. Senza dimenticare che tra interessi dell’individuo ed interessi delle comunità, si interpongono gi interessi propri degli apparati come corpi che esercitano il potere e sono formati di uomini, con proprie convinzioni, interessi e possibili deviazioni: in tal senso può essere rivelatrice l’articolata formula


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dell’art. 26 t.u. n. 1054 del 1924, specie per l’esteso e polimorfo riferimento ai soggetti di potestà amministrativa, da un lato, ed ai destinatari dei provvedimenti, dall’altro; 19) Nella prospettiva or ora delineata appare ancor più angusta, non tanto l’area del processo amministrativo, quanto delle formule in cui si esprime e, peggio ancora, delle prassi che lo costringono e che non danno conveniente spazio alle soluzioni che pur sarebbero individuabili in relazione alle questioni proposte e ai fatti accertati, sicché non si traducono in sufficienti disposizioni destinate a fare stato per l’avvenire. Infatti si verifica che ellittiche motivazioni di sentenze vengano a più riprese invocate nelle procedure di esecuzione del giudicato, dove, in realtà, con alterna vicenda e dispendio di tempi e di energie, nonché attraverso intuizioni, talora dallo scarso ancoraggio fattuale, si continua, in sede naturalmente angusta, nella ricerca di una regolamentazione adeguata al caso, ancora, sostanzialmente, controverso; 20) Limiti di formule e di determinazione di effetti che, in realtà, si spiegano riferendosi alle origini delle istituzioni di giustizia amministrativa, pensate per un non gran numero di controversie piuttosto nel senso del controllo — Piccardi parlava di classe dirigente che controllava se stessa — destinato più a prevenire che a reprimere; istituzioni, tuttavia, dimostratesi indispensabili e da diffondere ed, attualmente, da rendere funzionanti al massimo possibile, essendosi creato un ordinamento pluralistico e depotenziato il sistema dei controlli amministrativi, sicché, come più volte si è affermato, è anche la dinamica della funzione che occorre regolare per quanto possibile, utilizzando ogni acquisizione della fase cognitoria, da estendere alla intera vicenda controversa ed utilizzare come precedente; 21) Ritorna cosı̀ il problema organizzativo e, soprattutto, il rafforzamento degli organici, condizione prima per ridurre gli attuali tempi, inaccettabili; 22) Perplessità desta altresı̀ l’attuale procedura del regolamento di competenza che, con la fase preliminare rimessa al Tar, rende praticamente quest’ultimo solo arbitro della propria competenza, specialmente per l’incidente cautelare. Sembra invece che


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la domanda di regolamento dovrebbe essere sottoposta immediatamente, salva solo l’adesione delle controparti, al Consiglio di Stato al quale dovrebbero potersi presentare soltanto memorie scritte entro breve termine, con decisione da emettere anch’essa entro breve termine e facoltà di provvedere provvisoriamente, in caso di eccezionale urgenza, sulla domanda cautelare; 23) Ancora le cose potrebbero migliorarsi nel senso di evitare inutile dispendio di attività estendendo ed applicando i principi civilistici sulla connessione e richiamandoli con legge, per evitare che malintesi intenti tuzioristici moltiplichino i ricorsi, specialmente in primo grado; 24) Egualmente dovrebbero estendersi le norme del processo civile sull’integrazione del contraddittorio, essendo inaccettabile la sanzione della inammissibilità per omessa citazione del controinteressato, spesso irreperibile, e, comunque, potendo il giudice, attraverso l’esame degli atti dell’amministrazione, cogliere la dimensione della controversia e disporre circa l’integrazione del contraddittorio; 25) Dovrebbe poi sanzionarsi la frequente omissione delle amministrazioni, consistenti nel mancato deposito degli atti del procedimento che, in ogni caso, si traduce in ulteriore ritardo. A parte che, trattandosi di omissione di atto dovuto ex art. 21 l. n. 1034 del 1971, la sanzione disciplinare a carico del responsabile del procedimento non dovrebbe mancare, sia pure nel solo caso di colpa grave, trattandosi, in definitiva, di indebita resistenza alla resa di giustizia, particolarmente rilevante in sede cautelare; 26) Nella stessa prospettiva della trasparenza e del buon andamento dell’amministrazione, l’istruttoria dei processi con i mezzi ora consentiti, specie per effetto dell’ampio allargamento dell’area della giurisdizione esclusiva, dovrebbe entrare nel costume, opportunamente facilitato da una adeguata preparazione dei ricorsi, con dovuto corredo della documentazione disponibile e tempestiva nomina del magistrato relatore; 27) Dovrebbero pure ammettersi, e su questo deve insistersi particolarmente, le repliche scritte, con legge ed entro termini stabiliti, sia per la fase cautelare che per il merito, tanto più ora


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che vi è la possibilità delle sospensive con decreto nei casi di estrema urgenza. Repliche scritte che, si ripete, evitano l’inconveniente di premiare, nella fase della discussione orale, non adeguatamente preparata, la prontezza del difensore più dotato, sulla ragione migliore della controparte; 28) Dovrebbero raccogliersi e memorizzarsi le esperienze circa gli inconvenienti procedurali nonché gli elementi affidati all’apprezzamento del giudice nei provvedimenti discrezionali, con le proposte che possono emergere dalla rilevazione di casi limite e di orientamenti medi, perché le regole processuali servono al buon andamento del processo e della giustizia e le esperienze forniscono indispensabili indicazioni; 29) Dovrebbe sperimentarsi la validità delle conferenze attraverso i mezzi audiovisivi, per agevolare la partecipazione alle udienze, specialmente presso le giurisdizioni superiori, salvo a vagliarne i risultati e le possibilità di inserirne lo svolgimento in una tradizione di ceti ed ambienti di non facile evoluzione; 30) In proposito le norme del d.P.R. 13 febbraio 2000 n. 123 sull’uso degli strumenti telematici ed informatici nel processo civile e amministrativo, emanate sulla base dell’art. 15, comma 2 l. 15 marzo 1997 n. 59 possono essere un elemento di riferimento e si potrà indagare sulla forza espansiva di esse; 31) Ribadendo che il problema principale è quello dei tempi e che, per i ritardi accumulati e le dimensioni dell’arretrato, l’intervento deve essere sinergico e riguardare il rafforzamento del personale — giudici, segretari e ausiliari— nonché la rilevazione con mezzi informatici dell’esistente, il potenziamento delle procedure abbreviate, l’adeguato svolgimento dell’istruttoria ove necessario, il tutto per poter arrivare ad una giustizia tempestiva e resa su fatti adeguatamente acquisiti; 32) Intervento, deve sottolinearsi, indilazionabile perché, a dir poco, si va verso la paralisi della giustizia amministrativa, specie nei grandi tribunali e se ne giova quella che può eufemisticamente chiamarsi la disfunzione amministrativa e, più in genere, il fatto compiuto; 33) Quanto poi al risarcimento dei danni esso è un diritto di


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colui che dimostra di aver subito diminuzioni personali o patrimoniali collegabili con nesso di casualità all’esercizio della funzione amministrativa; e non può essere ritenuto insindacabile dal giudice del risarcimento il provvedimento divenuto non più impugnabile per decorrenza del termine per ricorrere; termine che è previsto dalla legge per la proposizione del ricorso diretto ad ottenere l’annullamento: la domanda di risarcimento non solo ha un petitum diverso dall’annullamento ma anche la causa petendi è diversa, fondandosi sull’ingiustizia del danno (arg. ex art. 2043 e ss. c.c.) mentre i fatti di giustificazione dei sacrifici, che l’esercizio delle funzioni pubbliche può comportare, derivano dalla legge, perché solo la legge, che fonda i diritti, può consentirne il sacrificio (cfr. anche art. 51 c.p.) e non i provvedimenti amministrativi, per di più provenienti dallo stesso autore del danno; 34) D’altronde, il problema finanziario va ridimensionato perché, non di rado, la correzione del provvedimento può eliminare o ridurre il danno ed, in ogni caso, occorre, senza dilazione, una regolamentazione ad hoc per attuare il precetto ex art. 7 l. n. 205 che accorda il risarcimento, dovendosi anche costruire una previdenza contro i rischi che l’esercizio della funzione amministrativa presenta; vanno anche via via registrati gli eventi dannosi verificatisi, nonché la relativa entità e frequenza, raccogliendo esperienze di deviazioni, con accertamenti tempestivi sull’andamento delle cose. Tutte indagini da fare, sia in funzione di prevenzione e programmazione, tecnica ed economica, sia perché la razionalizzazione in atto dei modi di essere dei rapporti tra individui e apparati e la crisi del principio di autorità privano di base ogni pretesa diretta ad evitare il riequilibrio dei patrimoni a torto incisi dalla funzione pubblica: patrimoni in via di principio intangibili, come già evidenziava Renato Alessi nei suoi noti scritti sulla responsabilità dell’amministrazione che poi il Casetta ha francamente esplicitato come illecito degli enti pubblici; 35) E va ribadito che il primo problema è, e resta, quello di adeguare l’organico della giurisdizione amministrativa alla pendenza esistente ed alla domanda di giustizia, poiché non esiste alcuna proporzione plausibile tra il milione dei ricorsi pendenti ed


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i cinquecento giudici: sproporzione da correggere al più presto perché incide, oltre che sulla qualità della giustizia, sulla stessa legalità, impedendo, in pratica, lo svolgimento dell’istruttoria, quando pur sarebbe necessaria, svuotando il rapporto tra fatto e processo, che è condizione prima di effettiva resa di giustizia, di credibilità delle istituzioni e, soprattutto, prevenzione generale delle illegittimità della funzione amministrativa; 36) La diffusione delle esperienze del processo amministrativo non impedisce ed, anzi, evidenzia, la possibilità di oculate scelte per adeguare gradualmente gli organici, ma è indispensabile iniziare ed è sorprendente la mancata conversione del d.l. 18 maggio 2001 n. 179 sulle sezioni stralcio dei Tar e del Cons. Stato, perché la giurisdizione amministrativa non può essere una camera di raffreddamento delle controversie tra singolo e p.a. ma è la sede di rilievo costituzionale dove si esercita il diritto del singolo, dei gruppi sociali, delle municipalità e dell’intero Paese alla giustizia nell’amministrazione che, nella situazione attuale dei rapporti socio-economici, significa diritto alla chiarificazione ed alla trasparenza di tutte le funzioni pubbliche, quale che sia l’ente di provenienza e tenuto conto delle occasioni che innanzi al giudice amministrativo si presentano, in relazione al quotidiano esercizio del potere, anche per promuovere il controllo di costituzionalità sulle leggi, statali e regionali, nonché per la corretta delimitazione delle sfere di attribuzione di organi ed ordinamenti statali, autonomi e, anche se con qualche riserva, privati. In questa direzione peraltro si muove lo schema di disegno di legge governativo che contiene la delega per la formazione del codice del processo amministrativo che innanzi è stato riassunto (par. 23); 37) L’ordinato svolgimento delle funzioni giurisdizionali esige tempestività ed adeguatezza di decisioni della giurisdizione amministrativa, ad evitare che si emigri verso il giudice penale, utilizzando l’elasticità dell’ipotesi di reato e creando pericolose concentrazioni di potere; 38) E si è già notato, e va a questo punto ribadito, che la chiarificazione che può derivare da tempestivi ed approfonditi interventi del giudice amministrativo, riduce anche il problema


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delle responsabilità, spesso risolvibile con tempestive e opportune correzioni degli atti che le hanno determinate; 39) E se la giurisdizione amministrativa va sempre più configurandosi come giurisdizione sulla funzione pubblica a tutela di qualsiasi interesse giuridicamente protetto secondo le leggi deliberate dalle rappresentanze elette dalle comunità, se ne evidenzia, altresı̀, una essenziale funzione di cerniera (F. Carbone) tra la c.d. volontà generale, più o meno espressa dalla legge, e la gestione quotidiana degli interessi comunitari che spetta agli apparati di potere: cerniera nel senso di strumento dinamico di collegamento, evidenziato nel testo costituzionale che attribuisce ai giudici amministrativi la resa di giustizia nell’amministrazione in conseguente, necessaria connessione spazio-temporale, secondo la Costituzione e le leggi che regolano la funzione pubblica; 40) Considerazioni tutte quelle sin qui esposte che possono avviare il colloquio con i soggetti della politica cui spetta, in definitiva, di riconsiderare il problema costituzionale della giustizia nell’amministrazione, nell’interezza della sua portata e negli effetti che adeguate soluzioni possono produrre, per migliorare la funzione pubblica, storicamente non più riconducibile ad unità, ma da indirizzare e da poter continuamente correggere, proprio perché pubblica, nel senso della trasparenza per tutti, nonché dell’imparzialità e del buon andamento; 41) L’occasione per questa riconsiderazione è attualmente fornita dalla legge delega per la formazione del codice del processo amministrativo che, sulla base delle esperienze sin qui maturate anche nella giustizia civile e penale, dovrebbe conformare il processo amministrativo ed i provvedimenti in cui esso si esprime in modo da rendere giustizia al cittadino che la chiede, dettando regole idonee a risolvere la controversia dopo adeguata istruttoria e correggendo gli squilibri anche sul piano patrimoniale, perché i sacrifici possono derivare solo dall’esercizio legittimamente condotto delle potestà pubbliche, nei limiti consentiti dalla Costituzione e dalla legge, secondo il principio fondamentale della giustizia nell’amministrazione (art. 100 Cost.) che è anche trasparenza ed eguaglianza di fatto per tutti: riferimento al fatto che a


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sua volta dimensiona anche la soluzione secondo il giusto, conformemente non solo alla legge, ma anche alla scienza del diritto che è arte del giusto (cosı̀ testualmente Biondi e per vari aspetti Carnelutti).


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SOMMARIO: 1. Le prime tracce della giurisdizione del Consiglio di Stato su diritti soggettivi: l’art. 10 dell’Allegato D alla legge del 1865. — 2. Il Consiglio di Stato giudice dei diritti soggettivi dal 1865 al 1923: la giurisdizione di legittimità. — 3. Il Consiglio di Stato giudice dei diritti soggettivi dal 1865 al 1923: la giurisdizione di merito; il periodo anteriore alla istituzione della Quarta Sezione. — 4. Il Consiglio di Stato giudice dei diritti soggettivi dal 1865 al 1923: la giurisdizione di merito; il periodo successivo alla istituzione della Quarta Sezione. — 5. L’istituzione della Commissione per lo studio delle riforme da apportare alle leggi sulla giustizia amministrativa (1910-16). — 6. (Segue): le sue discussioni e le sue proposte. — 7. L’istituzione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nella legislazione del 1923-24.

1. La storia della giurisdizione amministrativa esclusiva, cosı̀ come oggi la conosciamo, sembra cominciare dalla legislazione del 1923-24. E, se la intendiamo come una giurisdizione avente una propria identità specifica, caratterizzata dalla contrapposizione con la giurisdizione di (sola) legittimità, perché estesa ai diritti soggettivi, questa ricostruzione è largamente fondata. Ma le cose non sono cosı̀ semplici. Vi è un dato che dovrebbe metterci sull’avviso, o, quanto meno, incuriosirci, che è relativo a « le controversie tra lo Stato e i suoi creditori », ecc.: a controversie, cioè, che, forse, sono le più tipiche tra quelle aventi ad oggetto diritti soggettivi. Ebbene, esse sono sı̀ elencate oggi al n. 4 dell’art. 29 dell’ancor almeno residualmente vigente t.u. delle leggi sul Consiglio di Stato, tra quelle devolute alla sua giurisdizione esclusiva; ma le troviamo indicate nel primo testo legislativo del Consiglio di Stato del Regno d’Italia: al n. 2 dell’art. 10, della Legge sul Consiglio di Stato, che, della legge 20 marzo 1865, n. 2248, costituı̀ il meno noto Allegato D. E ve le troviamo Dir. Proc. Amm. - 2/2004


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indicate, come un caso nel quale esso esercitava funzioni giurisdizionali: « ... giurisdizione propria » dice la disposizione. Dunque, perché il giudice amministrativo avesse giurisdizione, appunto, su diritti soggettivi, non si è dovuto attendere il r.d. 30 dicembre 1923, n. 2840, Modificazioni all’ordinamento del Consiglio di Stato e della giunta provinciale amministrativa in sede giurisdizionale. Pare che quel dimenticato dato storico di quasi un secolo e mezzo fa, suggerisca in modo stimolante una ricerca: spinga a seguire il filo di Arianna di cui costituisce il primo capo, e che dovrebbe continuare almeno fino ai primi anni ’20 del ’900, ma in realtà anche oltre E percorrere questo percorso, recuperare le origini della giurisdizione amministrativa esclusiva, dovrebbe aiutarci a capire meglio quali siano i suoi caratteri: almeno, cosı̀ come li trovò già legislativamente conformati l’Assemblea Costituente; ma con i quali essa è pure rimasta abbastanza stabilizzata anche secondo la dottrina e la giurisprudenza, per lo meno per i tre decenni successivi. 2. Per la ricostruzione della storia della giurisdizione amministrativa esclusiva, dagli albori fino ai giorni nostri, e, almeno, fino alla Costituzione del 1948, il primo periodo da considerare è quello delle origini: un lungo periodo, che va dall’Allegato D della legge del 1865, fino alla legislazione del 1923-24. Il fatto di gran lunga più saliente avvenuto nella evoluzione del nostro sistema di giustizia amministrativa in quel periodo, è, ovviamente, l’istituzione della Quarta Sezione del Consiglio di Stato, disposta dalla l. 31 marzo 1889, n. 5992, la quale, Costituendo una nuova Sezione del Consiglio di Stato per la giustizia amministrativa, modifica alcuni articoli della l. 20 marzo 1865, n. 2248, allegato D, artt. 1 e 3, trasfusa con una sollecitudine più di allora che di ora, nel Testo Unico della legge sul Consiglio di Stato, approvato col r.d. 2 giugno 1889, n. 6166. Di questo, rilevano soprattutto l’art. 5, dove tale Sezione prese il numero 4, dopo quella dell’interno, quella di grazia e giustizia e quella delle finanze, e ne furono definite sinteticamente le funzioni: « per la


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giustizia amministrativa ». E l’art. 24, che ne definisce le attribuzioni con la medesima formula che troviamo nell’art. 26 del t.u. del 1924, ma con una vistosa e significativa omissione: senza l’espressa qualifica di esse come giurisdizionali; tuttavia, senza neppure definirle esplicitamente come amministrative: nel senso, peraltro, che la sua citata collocazione insieme con le Sezioni consultive suggerirebbe nel modo più diretto e immediato. Cosı̀ nacque la giurisdizione amministrativa generale di legittimità: con un inizio incerto, non apprezzato da tutti, e che certo non faceva presagire il grande avvenire che poi ebbe. E, dunque, la prima domanda che ci si deve porre in tale prospettiva storica, è se la Quarta Sezione del Consiglio di Stato, come giudice dell’incompetenza, dell’eccesso di potere e della violazione di legge, potesse essere almeno in qualche misura, anche il giudice dei diritti soggettivi. Effettivamente, questa apertura poteva essere delineata; e, a tal fine, erano percorribili almeno due strade. Secondo una prima direttrice, appunto, se le funzioni di tale Sezione venissero considerate come amministrative: tesi di Vittorio Emanuele Orlando e di Santi Romano, tra gli altri. E questi autori la sostenevano, anche in vista del risultato che sarebbe stato cosı̀ ottenuto, e che consideravano auspicabile: le sue decisioni, se cosı̀ qualificate, avrebbero potuto avere per oggetto anche tali diritti; in questa ricostruzione, qualsiasi tribunale ordinario avrebbe potuto sindacarle, ai sensi degli artt. 2 e 5 della legge abolitrice del contenzioso amministrativo, e sia pure entro i limiti di cui all’art. 4. Ricostruzione che la mancata aggettivazione di tali funzioni nelle norme del 1889 avrebbe reso sostenibile; ed anzi, come già rilevato, immediatamente suggerita dalla indistinta collocazione della medesima Sezione IV, accanto alle prime tre, sicuramente esplicanti funzioni amministrative. Ma questa possibile evoluzione del nostro sistema di giustizia amministrativa, come si sa, fu subito bloccata dalla giurisprudenza della Cassazione romana come giudice delle giurisdizioni in base all’art. 3 della l. 31 marzo 1877, n. 3761, Conflitti di attribuzione: ovviamente, in vista del conseguente accentramento del sindacato sulle decisioni della nuova Sezione, che avrebbe


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cosı̀ ottenuto, e che, per di più, avrebbe potuto esercitare mantenendo pienamente il proprio potere cassatorio. E, successivamente, e si direbbe sulle orme della giurisprudenza della medesima Cassazione romana, fu scartata dal legislatore della prima riforma della legge del 1889: della l. 7 marzo 1907, n. 62, Modificazioni alle disposizioni della legge sul Consiglio di Stato, il cui art. 1, attribuı̀ esplicitamente alle funzioni tanto della Quarta Sezione, che della Quinta che esso stesso istituı̀, quella qualificazione come giurisdizionali che era assente nella legislazione del 1889; e che poi fu recepita nel successivo testo unico, anch’esso subito redatto: art. 5 del r.d. 17 agosto 1907, n. 638. L’altra soluzione futuribile era quella sostenuta da Vittorio Scialoja, secondo la quale il titolare dei diritti soggettivi che ne poteva chiedere tutela al giudice civile, avrebbe potuto farli valere anche davanti al giudice amministrativo, configurandoli come interessi legittimi. Ma, come si sa, anche questa strada fu chiusa dalla Cassazione romana, che cosı̀ perfezionò la « sua » costruzione del sistema di giustizia amministrativa, secondo la « sua » visione del dualismo che lo caratterizza dal 1889: una duplicità di organi, giudiziari gli uni, almeno titolari pure di funzioni giurisdizionali gli altri, davanti ai quali il cittadino si poteva presentare chiedendo tutela dei propri diritti ed interessi; ma che gli veniva concessa in modo assolutamente alternativo. E per un’alternativa che doveva essere sciolta dal giudice, e, in ultima istanza, dalla Cassazione come giudice della giurisdizione, in base a criteri rigidamente oggettivi, ossia indipendentemente dalle prospettazioni di parte (cfr. l’art. 4 della l. n. 3761 del 1877: La decisione sulla competenza è determinata dall’oggetto della domanda...): in base a quei parametri secondo i quali, sempre secondo l’insegnamento della Cassazione, l’interesse legittimo andrebbe distinto dal diritto soggettivo. 3. Questa delimitazione della giurisdizione generale di legittimità che cosı̀ il legislatore, e ancor prima e ancor più la Cassazione romana imposero al Consiglio di Stato, precludendogli di prenderla come base per arrivare a partire da essa alla tutela dei


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diritti soggettivi, ci farebbe ritenere che, a parte la richiamata disposizione dell’Allegato D del 1865, il Consiglio di Stato medesimo, prima del 1923, non avesse alcuna giurisdizione al riguardo. È vero che gli apparteneva anche una giurisdizione estesa al merito. Ma, oggi, in questa estensione, peraltro assai recessiva, tendiamo a vedere in primo luogo solo l’ampliamento dei parametri alla stregua dei quali deve essere esercitato il sindacato giurisdizionale sul provvedimento: l’estensione a quelli attinenti alla sua opportunità, oltre quelli, strettamente giuridici, relativi alla sua legittimità; come, del resto, sostenevano già vari autori di fine ’800 (tra gli altri, Meucci, Porrini); e, solo conseguentemente, un correlato ampliamento dei poteri decisori del giudice, oltre l’annullamento della scelta amministrativa, fino alla sua riforma. E, del resto, sempre oggi, tendiamo a considerare sul piano sistematico, questo ampliamento del tutto incompatibile dogmaticamente con la nozione di diritto soggettivo: inteso come un interesse che l’ordinamento tutela in modo assoluto, nel senso che lo rende intangibile da parte dei poteri dell’amministrazione. Da un lato, questo modo della sua tutela richiede che questa sia garantita da norme ad un tempo giuridiche e rigide; e, certo, non potrebbe essere attuabile con parametri di mera opportunità e convenienza, per di più eminentemente flessibili. Dall’altro, un sindacato condotto alla stregua di questi parametri, è pur sempre un sindacato su un provvedimento: sul provvedimento che vi si deve conformare. E chi ritenga che l’adozione di questo elida il diritto su cui incide, e ancor più chi ritenga che questo effetto consegua già dalla sola attribuzione all’amministrazione del potere di cui il provvedimento medesimo è esercizio, non può che arrivare alla medesima conclusione: nella giurisdizione amministrativa estesa al merito, i diritti soggettivi non hanno spazio. Non possono averlo: non solo come non lo hanno in quella di legittimità; ma, anzi, possono averlo ancor meno: per queste ulteriori ragioni. Eppure, è proprio in quella che nel 1907 fu legislativamente qualificata come giurisdizione di merito (art. 3, in relazione all’art. 1, della l. n. 62 del 1907; art. 23, in relazione all’art. 5, del conseguente t.u. approvato dal r.d. n. 638 del 1907), che dopo la


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legislazione del 1889 venivano cercati, e trovati, casi nei quali il Consiglio di Stato si atteggiava come giudice di diritti soggettivi. Soprattutto, è molto rilevante in questo senso, la tesi sostenuta da Mortara (le citazioni che seguono della sua opera, sono tratte dalla seconda edizione del Commentario del Codice e delle Leggi di Procedura Civile, vol. I, ed. Vallardi, Milano, s.a., ma, comunque, in riferimento alla legislazione del 1889, e non ancora a quella, successiva, del 1907); che la argomentò, con tutta la sua autorità, non in quella chiave sistematico-dogmatica che oggi, al riguardo, ci è più usuale, ma in una prospettiva prettamente storica. In una prospettiva, cioè, della storia del Consiglio di Stato come giudice, la quale comincia ancor prima della istituzione della sua Quarta Sezione, e, quindi, della stessa origine della sua giurisdizione di mera legittimità. Infatti, già in base al già più volte richiamato art. 10 dell’Allegato D del 1865, esso esercitava in quattro casi quel che il legislatore di allora (ma non quello del 1889), definiva « giurisdizione propria »; ossia: 1) sui conflitti tra autorità amministrativa e giudiziaria (in convergenza con l’art. 13 dell’Allegato E); 2) sulle controversie tra lo Stato e i suoi creditori; 3) sui sequestri di temporalità e su altri istituti dei rapporti tra potestà civili e ecclesiastiche; 4) sulle ulteriori materie indicate da altre leggi. Si noti, che questa funzione giurisdizionale non veniva attribuita specificamente ad una delle tre sezioni all’epoca esistenti e sopra elencate (che oggi la legge dice consultive, con una qualificazione allora superflua, e, comunque, mancante): si deve ritenere, quindi, che venisse esercitata da quella tra di esse che di volta in volta fosse risultata competente per materia a livello amministrativo. Nulla la legge diceva sulla situazione soggettiva tutelata; solo, precisava che, in tali casi, « Il Consiglio di Stato esercita giurisdizione propria pronunciando definitivamente con decreti motivati ». « Propria » e « definitivamente »: con una aggettivazione di tale giurisdizione e con questo avverbio che, oggi, siamo portati a ritenere che significassero l’esclusione della conclusione del procedimento mediante ulteriori decreti reali o ministeriali. Ma profondamente diversa fu l’interpretazione che ne diede


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Mortara (op. cit., p. 395 ss.); il quale parte della esplicita definizione come giurisdizione di questo sindacato attribuito al Consiglio di Stato, per arrivare alla conclusione che esso consistesse in una sopravvissuta giurisdizione speciale amministrativa. È vero che il coevo, e, anzi, il contestuale Allegato E, artt. 1 e 2, avevano abolito il contenzioso amministrativo, devolvendo al giudice ordinario le controversie nelle quali si facesse questione di un diritto soggettivo; ma, appunto, i testi erano sincroni. E, in ogni caso, il successivo art. 12 aveva escluso ogni innovazione non solo « ... alla giurisdizione della Corte dei conti e del Consiglio di Stato in materia di contabilità e di pensioni... », ma anche « ... alle attribuzioni contenziose di altri corpi o collegi derivanti da leggi speciali e diverse da quelle fin qui esercitate dai giudici ordinari del contenzioso amministrativo »; quindi, la « ... giurisdizione propria... » del Consiglio di Stato, avrebbe dovuto ritenersi comunque salvaguardata da questa formula. Con la conseguenza che a questa locuzione, e all’altra « ... pronunciando definitivamente... », non avrebbe potuto essere dato che un significato: l’esclusione della giurisdizione al riguardo del giudice ordinario. E, ulteriormente, poiché la giurisdizione di questo ha come oggetto precipuo i diritti soggettivi, la giurisdizione del Consiglio di Stato di cui costituiva quella che doveva considerarsi come un’alternativa, non poteva che avere il medesimo oggetto: come è particolarmente evidente almeno nel secondo dei casi elencati dalla norma, concernente le controversie tra lo Stato e i suoi creditori. Insomma, e conclusivamente: secondo questa ricostruzione del Mortara, si dovrebbe individuare nell’art. 10 dell’Allegato D, il più chiaro precedente storico della giurisdizione amministrativa esclusiva istituita nel 1923. 4. Quindi, vi fu l’istituzione della Quarta Sezione del Consiglio di Stato, con la l. n. 5992 del 1889, il cui art. 4 recita: « La Sezione IV decide pronunciando anche in merito:... », elencando, poi, sei casi nei quali ha questo potere; nulla è detto, nella nuove norme, circa i poteri decisori che essa può esercitare in questi, se non, laconicamente, e lapalissianamente, che « ... decide nel me-


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rito » (art. 17, comma 2, trasfuso nel r.d. n. 6166 del 1889, art. 38, comma 3). C’è stato un collegamento tra i vecchi termini « ... giurisdizione propria... », e « ... pronunciando definitivamente... », e gli un po’ meno vecchi « ... pronunciando anche in merito... »? Possono queste espressioni essere considerate equivalenti? C’è un nesso, per il quale i nuovi sei casi di sindacato esteso al merito della Quarta Sezione, possono essere assimilati ai quattro casi dell’Allegato D, divenuti nel frattempo tre (la norma che attribuiva al Consiglio di Stato la giurisdizione sui conflitti tra l’autorità amministrativa e la giudiziaria era stata abrogata, come si sa, dalla l. n. 3761 del 1877, per incompatibilità con l’art. 3 che la trasferı̀ alla Cassazione romana, e espressamente da parte dell’art. 6)? Sulla base della formulazione letterale della nuova disposizione, parrebbe di no. L’espressione che ora questa usa, almeno secondo il significato che oggi le attribuiamo, appare abbastanza eterogeneo rispetto alle precedenti. E, per di più, in essa, come in tutta la nuova legge, non vi sono più riferimenti al carattere giurisdizionale della funzione, esercitata dalla Quarta Sezione. Ma il nesso fu disposto, o, quanto meno, rinvenuto dal r.d. n. 6166 del 1889, che fuse la nuova legge col vecchio Allegato D; comunque, vi emerse. Il nuovo art. 25 del conseguente testo unico, infatti, elencò 9 casi nei quali « La Quarta Sezione del Consiglio di Stato decide, pronunciando anche in merito » (sempre senza specificare se avesse al riguardo peculiari poteri decisori, e quali), mescolando i nuovi ai tre superstiti (nn. 1, 2 e 9). Sempre per seguire il filo di Arianna che ci guida, dovremmo ricordare, per completezza, che il n. 3 dell’art. 10 dell’Allegato D della legge del 1865 (relativo ai sequestri di temporalità, ecc.), non solo fu recepito nel n. 2 del t.u. approvato col r.d. n. 6166 del 1889, ma passò anche, come un caso di giurisdizione estesa al merito, nel n. 2 dell’art. 23 del t.u. approvato col r.d. n. 638 del 1907, e, poi, nel n. 1 dell’art. 27 del vigente t.u. approvato col r.d. n. 1054 del 1924, rimanendo superato solo dalla stipulazione dei Patti Lateranensi del 1929.


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E, quindi, Mortara, che aveva interpretato nel modo che si è visto, l’espressione « giurisdizione propria » delle funzioni attribuite al Consiglio di Stato dall’art. 4 dell’Allegato D, e che affermò essere sostanzialmente irrilevante la diversità delle espressioni usate dal legislatore del 1865 e del 1889, intese allo stesso modo anche quelle, più numerose, di cui a tale art. 25 del testo unico che coordinò i due gruppi di norme (op. loc. ult. cit.). Con due ulteriori notazioni. Mortara, dunque, vede diritti soggettivi anche nei sei nuovi casi di giurisdizione estesa al merito, sia pure sulla base di un loro concetto più ampio di quello che, secondo la Cassazione, delimitò tra la fine dell’800 e i primi del ’900, la giurisdizione civile nei confronti dell’amministrazione. E contesta che tali nuovi casi implichino una sottrazione a questa giurisdizione del giudice ordinario: precedentemente, le posizioni individuali che vi sono rilevabili, erano meri interessi, la cui cura era devoluta all’amministrazione medesima, in base all’art. 3 della legge abolitrice del contenzioso. E la loro elevazione a diritti (perfettissimi, li aggettiva), e la loro devoluzione a quella giurisdizione estesa al merito, non concreterebbe, perciò, alcuna diminuzione di quel che il precedente articolo 2 aveva attribuito all’Autorità Giudiziaria Ordinaria. Che poi questo articolo non le avesse riservato la tutela di tutti i diritti soggettivi (quelli rilevabili nell’ordinamento del 1865, ma anche quelli che emergessero successivamente, si dovrebbe dire), sempre secondo Mortara, andrebbe inquadrato nel principio secondo il quale il nostro sistema di giustizia amministrativa conoscerebbe una pluralità di giurisdizioni civili (intese come su diritti soggettivi). Più articolata fu la posizione di Vittorio Emanuele Orlando, che sottolineò l’eterogeneità dei nove casi del nuovo art. 25 (La Giustizia amministrativa, nel vol. III del Trattato di diritto amministrativo da lui diretto, pp. 815 ss.); egli dissentı̀ dal Mortara proprio su uno snodo cruciale: negò, cioè, che in tutti tali nove casi, fossero rintracciabili veri e propri diritti soggettivi della parte privata. In altre parole, affermò la loro disomogeneità; e la sottolineò, proprio dal punto di vista che egli considerava scrimi-


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nante per stabilire se una data competenza decisoria abbia o no carattere giurisdizionale: se l’interesse di cui il ricorrente chieda tutela, sia o no protetto sostanzialmente dall’ordinamento come un vero e proprio diritto soggettivo. Si ricorderà, infatti, che tale autore, quando ricostruı̀ la natura del sindacato della IV Sezione sul provvedimento impugnato, sotto il profilo dei suoi vizi di legittimità optò per la soluzione del carattere solo amministrativo, proprio per l’impossibilità di configurare come tale, l’interesse che il ricorrente fa valere, secondo la formula dell’art. 3 della legge istitutiva della IV Sezione (e dell’art. 26 del vigente t.u. del 1924). Ora, Orlando vide una tutela su diritti soggettivi in alcuni dei casi dell’art. 25 del t.u. del 1889: sicuramente nel n. 1 (controversie tra lo Stato e i suoi creditori); anche sul n. 2 (sequestri di temporalità e su altri istituti dei rapporti tra potestà civili e ecclesiastiche); e nel n. 5 (contestazione sui confini di comuni e province « ... posto che si riconosca in quegli enti una personalità di diritto pubblico di cui è primo e precipuo elemento il territorio, determinato da confini »). In altri casi, la sussistenza di diritti è esclusa. In altri ancora, è dubbia; e va notato che nel giudizio di ottemperanza ai giudicati ordinari (n. 4 dell’art. 4 della l. n. 5992 del 1889; n. 6 dell’art. 25 del r.d. n. 6166 del 1889), egli vedesse coesistenti sia profili di diritto soggettivo che profili di interesse. Comunque, quel che è saliente in questa impostazione, è che nei nove casi di tale art. 25, l’autore ammettesse il carattere giurisdizionale del sindacato esteso al merito della Quarta Sezione, almeno, anche se solo, là dove si potesse individuare la natura di diritto soggettivo dell’interesse individuale tutelato: confermando, cosı̀, il collegamento storico tra la vecchia giurisdizione di merito del Consiglio di Stato, e quella esclusiva, che gli attribuı̀ la legislazione del 1923-24. E il suo allievo di allora, Santi Romano, che, ovviamente, ne seguiva (ancora?), l’impostazione generale, nella sua monografia su Le giurisdizioni speciali amministrative, comparsa nel medesimo vol. III del Trattato diretto dal suo maestro (pp. 503 ss.), e ripubblicata (ed. Giuffrè, 2003), nel volume che raccoglie Gli scritti di Santi Romano nel Trattato Orlando (pp. 137 ss.), pun-


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tualmente configurò come tali alcuni casi sui quali il Consiglio di Stato esercitava il sindacato esteso al merito. In particolare, e in significativa convergenza con gli esiti dell’analisi dell’Orlando: le contestazioni dei confini comunali e provinciali, di cui all’art. 25, n. 5 (Trattato Orlando, vol. III, 564; Gli scritti, ..., cit., 206); le controversie tra lo Stato e i suoi creditori in materia di debito pubblico, di cui all’art. 25, n. 1 (rispettivamente, p. 579 e p. 225); e quelle sui sequestri di temporalità, e su altri istituti dei rapporti tra potestà civili ed ecclesiastiche, di cui all’art. 25, n. 2 (rispettivamente, p. 581, e p. 227). In realtà, i tratti della giurisdizione del Consiglio di Stato estesa al merito erano ancora più complicati. Infatti, oltre ai nove casi previsti nei testi legislativi dedicatigli specificamente, si dovevano già annoverare gli altri dieci previsti dell’art. 21 della l. 1 maggio 1990, n. 6837 relativa alle giunte provinciali amministrative, sui quali esso giudicava in appello; e, soprattutto, ancora altri, numerosissimi, previsti da una miriade di leggi speciali (per un elenco di essi, si rinvia a MORTARA, op. cit., pp. 329 ss.; cfr. anche SANTI ROMANO, op. cit., passim). E, poi, sopraggiunse la prima legge di riforma della legislazione del 1889: la l. n. 62 del 1907, che, avendo qualificato come giurisdizionale il sindacato di legittimità che riservò alla Sezione Quarta, non poteva non qualificare allo stesso modo il sindacato esteso al merito (che, viceversa, attribuı̀ alla neo-istituita Sezione Quinta, e destinata a questa specifica competenza: artt. 1 e 3, poi trasfusi negli artt. 5 e 23 del conseguente t.u. approvato col r.d. n. 639 del 1907). Va da sé che, per il sindacato di legittimità, la sua nuova definizione dovrebbe essere considerata innovativa, se non altro perché chiudeva d’autorità la disputa tra Cassazione e Consiglio di Stato allora in atto, vivacissima anche in dottrina; mentre per il sindacato esteso al merito, la medesima definizione, in una prospettiva storica, acquistava il sapore di un recupero di quanto disposto esplicitamente dall’art. 10 dell’originario Allegato D alla legge del 1865. L’art. 3 della l. n. 62 del 1907, soprattutto, ampliò il numero dei casi di questa giurisdizione del Consiglio di Stato: richiamò


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esplicitamente i dieci di competenza delle Giunte provinciali amministrative, e ne aggiunse altri tre. Di qui, l’elenco di cui all’art. 23 del t.u., peraltro circoscritto a ventuno numeri per qualche accorpamento. Non sembra opportuno qui sviluppare una analisi tesa a individuare in quali di questi ventuno casi la controversia avesse per oggetto veri e propri diritti soggettivi, e in quali di essi, almeno in per una connessione sostenuta da cospicua parte della dottrina, il sindacato del Consiglio di Stato avesse, perciò, carattere giurisdizionale. Perché, comunque, appaiono sicuri alcuni rilievi conclusivi che da questa evoluzione storica si devono trarre: il Consiglio di Stato, anche prima del 1923, giudicava talvolta di diritti soggettivi; e giudicava nell’esercizio di una vera e propria funzione giurisdizionale. Inoltre, è sicuro anche che questi antecedenti storici di questa sua funzione avente questo oggetto, vanno rintracciati nella sua giurisdizione estesa al merito, e non in quella di pura legittimità. D’altra parte, non si può sottacere che il quadro che emerge da questo punto di vista al termine di questo excursus è piuttosto caotico: le materie coacervate confusamente nell’art. 23 del r.d. n. 638 del 1907, oggetto di tale suo sindacato, appaiono eterogenee, e non solo secondo la scriminante della configurabilità o no in esse di veri e propri diritti soggettivi; come corrispondentemente disomogenea appare la natura del sindacato stesso: talvolta sicuramente giurisdizionale, talaltra, almeno secondo alcune opinioni dottrinali, solo amministrativo. Di più: queste incertezze non si potevano non riflettere immediatamente sulla ricostruzione dei suoi poteri decisori. Non pare che si possa qui approfondire anche questo aspetto. Ma è ovvio un rilievo generale. Sotto questo profilo, è molto diverso se la giurisdizione di merito viene delineata come un sindacato sul provvedimento al pari di quella di legittimità, con l’unica differenza che i parametri di giudizio da utilizzare possono superare quelli strettamente giuridici, per comprendere anche quelli di opportunità, convenienza e simili; oppure, la si prospetti come a tutela di diritti soggettivi. Perché, nella prima ipotesi, le decisioni di accogli-


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mento non possono che avere quasi esclusivamente un uguale effetto annullatorio del provvedimento impugnato; salva la possibilità che dispongano la sua riforma, la quale di per sé non è legata ai caratteri della situazione giuridica sostanziale come di diritto o di interesse. Mentre, nella seconda, è inevitabile concludere che le medesime decisioni debbano avere dispositivi più adeguati a tal fine, e meno lontani da quelli delle sentenze del giudice civile. 5. Prima della legislazione del 1923-24, si è avuto un importante momento di riflessione sul sistema della giustizia amministrativa che avevano costruito le leggi del 1865 e del 1889. L’unico, forse, dopo i dibattiti che portarono all’abolizione del contenzioso amministrativo col conseguente ampliamento della giurisdizione del giudice ordinario, e alla istituzione della Quarta Sezione del Consiglio di Stato; e, comunque, quello che precedette con maggiore immediatezza l’istituzione della giurisdizione amministrativa esclusiva, cosı̀ come fu delineata dal legislatore degli anni venti. Su proposta e relazione del ministro segretario di Stato agli affari dell’interno Luzzatti, il r.d. 13 luglio 1910, n. 500, istituı̀ una commissione di studio. Il suo oggetto era amplissimo: le « ... riforme da apportare alle leggi sulla giustizia amministrativa ». E la relazione ministeriale specificava meglio di che cosa si trattasse: ci si chiedeva, tra l’altro, « ... se non fosse giunto il momento di staccare dal Consiglio di Stato le due sezioni giurisdizionali per farne un supremo tribunale amministrativo ». E di proporre che « ... la suprema disciplina delle competenze tra le varie autorità giurisdizionali si affidasse ad un tribunale misto, nel quale fossero rappresentati i due elementi e i due punti di vista che, per questo argomento, possono venire in contrasto ». Non solo. La medesima relazione spiegava anche la ragione della istituzione della commissione di studio: « Alla corrente d’opinioni che invoca un nuovo, sollecito e radicale intervento della legislazione in questo campo, si contrappone quella di coloro che reputano opportuno attendere dal progresso della dottrina


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e della giurisprudenza la direttiva per l’ulteriore svolgimento di istituti da breve tempo costituiti e recentemente riformati ». Bella contrapposizione, si direbbe, tra i fautori dell’interventismo del legislatore, e quelli che preferirebbero vedere la sua opera soprattutto come di recepimento dei risultati della evoluzione naturale degli istituti. « Di fronte a questo contrasto di tendenze tecnico-giuridiche, entrambe miranti alle guarentigie della libertà civile, giova, pria che il dissenso possa divenire politico, sentire l’avviso e provocare la discussione dei competenti, sulla questione fondamentale dell’opportunità di una riforma, e su quelle subordinate intorno all’indirizzo, l’estensione e le modalità delle modificazioni da apportare ai fondamenti del nostro giure amministrativo ». La conclusione è ancor più sorprendente: « In nessuna sfera più che in questa, conviene far precedere da una serena preparazione scientifica le risoluzioni parlamentari ». Ogni paragone con la estemporaneità delle riforme del 19982000, ovviamente è improponibile, perché sarebbe troppo ingeneroso. Ma, d’altra parte, anche chi le critica deve ammettere per debito di obiettività, che esse, sia pure sbrigativamente, sono state fatte. Per contro, è da osservare che le parole del Ministro Luzzatti possono essere anche significative di altro: possono essere anche rilevatrici che egli, istituendo la sua commissione, avrebbe potuto anche mirare ad uno scopo dilatorio, che poi è quello per il quale si istituiscono moltissime commissioni di studio: lo scopo di rallentare almeno una iniziativa di riforma, se non di arrivare addirittura al suo insabbiamento. In ogni caso, e senza pretendere di fare il processo alle intenzioni del Luzzatti, questo è l’effetto che raggiunse: la relazione che depositò la commissione che istituı̀, stilata da Codacci Pisanelli, fu presentata nel 1916. In piena guerra, cioè, ossia nel periodo meno propizio alla realizzazione di riforme civili. Che, del resto, la commissione stessa suggerı̀ assai limitatamente. La più importante innovazione che propose, comunque, pur prospettandola cautamente, fu, appunto, l’istituzione della giurisdizione amministrativa esclusiva; che fu attuata successivamente, ma dopo


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non pochissimi anni, e per tutt’altre ragioni, in un quadro politico ormai fortemente mutato. Un dato assai rilevante era costituito dalla composizione della commissione stessa, presieduta dal senatore « Bonasi conte Adeodato »: erano presenti i più bei nomi della cultura pubblicistica dell’epoca: oltre Codacci Pisanelli, Mortara, Scialoja, Orlando, Salandra; poi, alti magistrati, e Pironti, direttore generale dell’amministrazione civile, nonché figura assai nota,. Come si sa, la relazione conclusiva fu pubblicata sulla Riv. dir. pubbl., 1916, I, 290 (per sorridere: subito prima di un articolo dedicato a Il problema penitenziario e la colonizzazione della Libia). In calce, un commento anonimo (ma l’autore doveva essere ben facilmente identificabile all’epoca), assai agro-dolce: « Ci permettiamo, però, di rilevare che da una Commissione di cosı̀ autorevoli studiosi, e dopo sei anni di meditazioni, era lecito attendere una proposta di riforma più organica e più rispondente alla coscienza giuridica del paese, che da tempo reclama un’azione di controllo più energica e fattiva su gli atti della pubblica amministrazione. Unico proposito adottato, e che soddisfa a tale generale sentito bisogno, è quello relativo alla giurisdizione esclusiva di giustizia amministrativa per i ricorsi degli impiegati; ma anch’esso è manifestato timidamente,... ». L’anonimo chiosatore, dunque vedeva positivamente il rafforzamento della giurisdizione e dei poteri del giudice amministrativo; ma non illimitatamente. Subito dopo, infatti, dava notizia di voci secondo le quali, ad iniziativa del Ministero dei lavori pubblici, « ... sarebbe in elaborazione un progetto di legge per sottrarre alla competenza giudiziaria tutto il contenzioso delle opere pubbliche, abolendo il sistema degli arbitrati, per sostituirvi una giurisdizione amministrativa specialissima, soggetta alla sola potestà di annullamento per eccesso di potere da parte delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione di Roma » (nihil novi sub soli, si potrebbe oggi notare?). E, quindi, criticava: « Non è concepibile, e non è — quindi — credibile, che, nel sistema odierno della nostra giurisdizione civile, si possa sul serio pensare ad una simile svalutazione del sindacato dei tribunali ordinari nel riguardo al diritto privato degli enti pubblici attinente alle opere pubbliche ».


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6. Comunque, la Commissione Luzzatti, col mandato cosı̀ ampio che ebbe, e con la sua composizione, poteva rimettere in discussione tutto. E, in realtà, di tutto effettivamente si discusse, indipendentemente dalla limitatezza e frammentarietà delle sue proposte finali; e sia pure sulla base di una esposizione e di una valutazione complessivamente positiva della riforma del 1907 (anche se lascia perplessi la considerazione come di un efficace rimedio per la deflazione dei ricorsi, la prescrizione riguardante « ... come condizione per la validità del gravame, il preventivo deposito della carta bollata necessaria per la decisione... »: loc. cit., p. 291). Certo, può apparire non esaltante che il primo argomento che la Commissione affrontò (loc. cit., pp. 298 ss.), del resto per pressante sollecitazione ministeriale, fu la proposta di aumentare da 35 a 40 il numero dei consiglieri di Stato; sulla quale si astenne, rinviandola all’iniziativa e alla responsabilità del Governo con l’osservazione (della cui attualità ciascuno può giudicare), secondo la quale « ... il numero attuale riuscirebbe sufficiente, se le nuove nomine cadessero tutte su persone ancora valide e idonee a sostenere il grave ufficio; il quale non dovrebbe esser mai considerato come un posto di quiescenza da assegnarsi a funzionari che l’amministrazione attiva senta il bisogno di sostituire »; però, e questo è più importante, con la richiesta che ai referendari « ... provenienti da un’ardua, faticosa e fida prova di concorso... », fosse riservato almeno un terzo dei posti disponibili, con promozione dopo cinque anni di servizio, restando « ... al Governo la libertà di scegliere due terzi dei consiglieri fuori dal Consiglio di Stato » (più oltre, p. 303, la Commissione respinse la proposta di circoscrivere le categorie entro le quali il Governo avrebbe potuto scegliere, con una motivazione di un certo buon senso: la determinazione di queste categorie « ... avrebbe impedito forse qualche buona nomina, ma non avrebbe reso impossibile la scelta di persone anche men che mediocri di ciascuna categoria »). Ma poi si entrò nel vivo. E venne affrontata subito la questione fondamentale (loc. cit., pp. 300 ss.): se convenisse qualificare il sindacato di legittimità sul provvedimento, allora ancora


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riservato alla sola Quarta Sezione, come avente natura amministrativa; con le implicazioni a tutti note, e già prima ricordate: le decisioni, in quanto aventi questa natura, potevano anche avere per oggetto diritti soggettivi, ma sarebbero state a loro volta sindacabili da qualsiasi tribunale civile, anche se non annullabili da questo. Insomma, fu dibattuta l’opportunità di tradurre legislativamente l’impostazione di Orlando (la cui presenza in commissione, evidentemente, non è stata senza rilievo), e di Santi Romano. Ma la proposta fu respinta dalla maggioranza « ... non solo per gli inconvenienti derivabili da una doppia revisione dell’atto amministrativo, ma soprattutto per l’accentuazione già data al carattere giurisdizionale delle decisioni anche in materia di legittimità... »: insomma, indietro non si torna. Di conseguenza, fu esclusa ogni modifica all’art. 22 del t.u. allora vigente (r.d. n. 628 del 1907). Viceversa (loc. cit., pp. 301, 302), fu maggioritaria la proposta di profonde modifiche alla giurisdizione di merito di cui al successivo art. 23: « Si ritenne opportuno di determinare le controversie per le quali la giurisdizione del Consiglio di Stato deve intendersi piena ed esclusiva, ... » (la frase continua, in riferimento alle questioni pregiudiziali); « Mediante un’accurata disamina fatta tenendo presente anche i numeri nei quali l’art. 23 del vigente testo unico specifica la competenza della V Sezione del Consiglio di Stato, furono scelte le materie sulle quali si doveva affermare piena ed esclusiva la giurisdizione delle sezioni contenziose del Consiglio di Stato ». Segue un elenco di nove numeri, in parte coincidenti con quelli di tale art. 23, in parte nuovi; e, tra questi, il contenzioso sul pubblico impiego, che compare subito, al n. 1. E vi è una convergenza quasi perfetta, con le nove materie che l’art. 8 del r.d. n. 2840 del 1923, attribuı̀ poi alla giurisdizione esclusiva del Consiglio di Stato. Che dire di questa proposta? È l’ennesima conferma che i precedenti storici di questa giurisdizione vanno ricercati in quella di merito. Ma rimasero confusi i rapporti tra l’una e l’altra. In particolare, rimase irrisolta l’alternativa tra una giurisdizione sul provvedimento estesa fino all’applicazione di parametri non solo giuridici, ma anche di opportunità, di convenienza, come oggi


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siamo portati a ritenere per quella di merito; e quella anche su diritti soggettivi, che ci pare la tipica la giurisdizione esclusiva. La Commissione prese come caso esemplare di questa, le controversie in materia di debito pubblico: cioè, la tipica ipotesi nella quale si disputa su « diritti soggettivi »; ma è notevole che questo termine non comparı̀ mai nell’articolato che propose, dove si parlò solo di « giurisdizione esclusiva » (art. 7 del testo proposto, riportato in Riv. dir. pubbl., 1916, I, 290, in calce alla relazione di Codacci Pisanelli, dopo la chiosa ricordata); come mancò ogni accenno all’intreccio tra interessi individuali e interessi pubblici, come ragione della concentrazione della giurisdizione in proposito nel giudice amministrativo. Però, la Commissione stessa si preoccupò di « ... evitare le lungaggini e gli attriti connessi alla duplicità della competenza nelle stesse materie... ». Perciò, propose, già in tale articolato, all’art. 8. questi due commi: « Nelle materie deferite alla esclusiva giurisdizione delle sezioni contenziose del Consiglio di Stato, queste giudicano anche delle questioni relative a diritti, e del risarcimento dei danni che sia chiesto accessoriamente » (corsivo, ovviamente, è mio); « Restano, comunque, sempre riservate all’autorità giudiziaria le questioni pregiudiziali concernenti lo stato e la capacità dei privati individui, salvoché si tratti della capacità di stare in giudizio, e la risoluzione dell’incidente di falso ». Si è sentito il bisogno di riportare integralmente queste formule, non tanto per i profili relativi alle questioni pregiudiziali su diritti, benché coincidenti con le norme in proposito del testo unico del 1924; ma, soprattutto, per la soluzione prospettata per evitare una duplicazione di giudizi sulle domande risarcitorie. Soluzione, evidentemente, in anticipo sui tempi: come si sa, l’istituzione della giurisdizione esclusiva del Consiglio di Stato attuata nel 1923, dispose la riserva al giudice civile di tutti i diritti patrimoniali consequenziali, ivi comprese tali domande; riserva che, poi, rimase fino al 1998. Ma soluzione la quale, vorrei permettermi di dire, era anche più raffinata di quella legislativamente adottata nel 1998 e confermata nel 2000: da un lato, sufficiente ad evitare tale duplicazione di giudizi; ma, dall’altro, prevedendo una sorta di in-


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serzione di un’azione civile nel giudizio amministrativo, ben più rispettosa della giurisdizione ordinaria su diritti soggettivi: purché, ben s’intende, si consideri questa giurisdizione come un valore da conservare. 7. Dalla relazione di Codacci Pisanelli risulta quanto siano stati ampi i dibattiti che si svilupparono nella Commissione Luzzatti. E si spera che non appaia inopportuno indugiare su qualche altro richiamo di essi, non solo per rievocare l’atmosfera dell’epoca, ma anche perché, forse, sono stati troppo dimenticati. Cosı̀, si ricorderà che tale Commissione suggeriva di limitare alla sola legittimità, la giurisdizione esclusiva sul rapporto di impiego dei dipendenti dello Stato (pp. 312 ss.): il che conferma come fossero ancora relativamente indistinti i caratteri della istituenda giurisdizione esclusiva; non solo nei suoi rapporti con quella di merito, ma anche con quella di legittimità: che oggi consideriamo antitetica rispetto ad essa, in quanto, per definizione, ne è esclusa la cognizione dei diritti soggettivi. La Commissione, tuttavia, propose l’estensione al merito della giurisdizione esclusiva sui dipendenti degli enti locali (ibid.): tratto anche questo significativo, perché sottolinea la nettissima primazia che, rispetto a questi, allora era data allo Stato. E ancora. La proposta di imporre al Governo l’obbligatorietà delle designazioni fatte dalla Presidenza del Consiglio di Stato, dei consiglieri da assegnare alle sezioni giurisdizionali, per rafforzarne l’indipendenza. L’analisi dei rapporti tra ciascuna delle due sezioni e « l’assemblea generale ». La proposta, poi accolta dal legislatore, di abolire il riparto di competenze tra la Sezione Quarta e la Sezione Quinta. La conferma della perdurante validità nell’istituto del ricorso straordinario. L’esame dei problemi relativi alle giunte provinciali amministrative (pp. 306 ss.), con un profilo che pare interessante ancor oggi: il rifiuto di allora, di proporne il raggruppamento in tribunale amministrativi regionali. Soprattutto, le ipotesi già presenti nella relazione del Ministro Luzzatti. Quella di staccare dal Consiglio di Stato le due sezioni giurisdizionali, per farne un tribunale supremo amministrativo:


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respinta (pp. 302 ss.). E quella di istituire un supremo tribunale dei conflitti, soprattutto per la risoluzione delle questioni di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo: per la quale prevalse la tesi dell’opportunità di un suo rinvio, in attesa della maturazione dell’esperienza conseguente alla proposta istituzione della giurisdizione amministrativa esclusiva (p. 305). Le impressioni che si ricavano dalla lettura di quelle vecchie carte sono varie, e di vario segno: che le principali questioni di giustizia amministrativa sono più o meno da sempre più o meno le stesse; che talvolta ad esse non viene data risposta, tanto che a chi le esamini e le riesamini, potrebbe anche venire in mente l’immagine dell’acqua rimestata in un mortaio; che talaltra viene loro data una soluzione in armonia con una ordinata evoluzione del sistema; che talaltra ancora, viceversa, vengono tagliate con uno strappo secco, più o meno meditato, e spesso meno che più: come sembra che sia avvenuto nel 1998-2000; e, in fondo, anche con l’ingresso esplicito nel nostro ordinamento, nel 1923-24, della giurisdizione amministrativa esclusiva del giudice amministrativo. Certo, questa aveva già quei precedenti storici, peraltro frammentari e contraddittori, che si è cercato di far emergere. Certo, la sua istituzione era già preconizzata dalla Commissione Luzzatti: soprattutto in chiave di una più efficiente tutela delle posizioni individuali. Ma essa, poi, avvenne, del resto non immediatamente, per ragioni ampiamente diverse da quelle che questa aveva considerato: perché apprezzate come predominanti, in un quadro più generale dei rapporti tra amministrazione e singolo, tanto sul piano sostanziale che in quello delle tutele giurisdizionali; e in quadro che era profondamente cambiato, perché ne era cambiata anzitutto la visione politica che prevalse. Nella ben più sbrigativa relazione ministeriale al Re, infatti, che accompagnò la presentazione del progetto di quello che poi divenne il r.d. 30 dicembre 1923, n. 2840, emerse con forza proprio quel fattore che la Commissione Luzzatti non considerò; perché vi si può leggere, a proposito delle materie da devolvere alla giurisdizione amministrativa esclusiva: « ... è in esse cosı̀ connaturato col diritto l’interesse pubblico, che è impossibile, o assai


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difficile, separare l’uno dall’altro, mentre l’interesse suddetto è cosı̀ prevalente ed assorbente da far scomparire o affievolire la portata effettiva della questione patrimoniale o di diritto privato »; e ancora: « Esempio tipico di tali materie è dato dal rapporto di pubblico impiego, in cui l’intreccio tra diritto e interesse protetto è cosı̀ intimo da rendere le controversie relative assai complesse, ed incapaci spesso di un giudizio nettamente definito col sistema vigente ». Di qui, l’istituzione per cosı̀ dire formale, della giurisdizione esclusiva del Consiglio di Stato, operata dall’art. 8 del r.d. n. 2840 del 1923, e recepita nel conseguente art. 29 del r.d. n. 1054 del 1924. Va sottolineato che neppure in questi testi, come nell’articolato proposto dalla Commissione Luzzatti, emerge il termine « diritto soggettivo »; e, quindi, neppure compare un esplicito suo nesso con la giurisdizione amministrativa esclusiva: che si ricava solo indirettamente, ossia a partire dell’assorbimento nelle materie elencate, della misura di giurisdizione precedentemente affidata al giudice civile, al giudice per eccellenza dei diritti soggettivi. Come, del resto, nello stesso art. 26 del medesimo r.d. n. 1054 del 1924, non emerge quello di « interesse legittimo »; e, quindi, neppure compare un esplicito suo nesso con la giurisdizione di (sola) legittimità. Come si sa, è solo nella Costituzione del 1948 che viene esplicitamente formulato con questi termini l’oggetto delle tutele giurisdizionali ordinaria e amministrativa (specialmente negli artt. 103, comma 1, e 113, comma 1). Ma, va ancor più sottolineato, in modo abbastanza effimero: nel senso che tali termini, e l’impostazione che ne deriva, non sono stati ripresi nella legge del 1971, istitutiva dei tribunali amministrativi regionali, pur di diretta attuazione dell’art. 125 Cost., e più precisamente dell’allora secondo comma; e ciò, malgrado che ormai il dibattito dottrinale (molto più che il quadro concettuale utilizzato dalla giurisprudenza della Cassazione come giudice delle giurisdizioni), ruotasse tutto sulla distinzione tra quelle due figure. Forse, si passa sotto troppo silenzio questo iato, tra il linguaggio del legislatore, e quello della dottrina; ed è probabile che la rinuncia a


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coglierne il significato, non ci faccia capire qualcosa di importante. Comunque, effettivamente la legislazione del 1923-24, è una tappa davvero fondamentale del cammino della giurisdizione amministrativa esclusiva: di quel lungo cammino che ha dovuto percorrere, per acquisire i connotati con i quali oggi la conosciamo. E la riconosciamo come specificamente caratterizzata rispetto a quella di (sola) legittimità: del resto, da ritenersi ormai recessiva, a causa del grande sviluppo che quella più piena giurisdizione ha avuto. 8. Non sembra opportuno prolungare ancora questa già troppo lunga relazione, per considerare come dottrina e giurisprudenza abbiano interpretato i testi del 1923-24, ricostruendone il significato: modellando la giurisdizione amministrativa esclusiva, cosı̀ come si atteggiava al tempo dei lavori dell’Assemblea Costituente. Del resto, si tratta di una evoluzione già nota a tutti, fin dal suo episodio più saliente (anche se non primo cronologicamente): la svolta giurisprudenziale del 1939-40, che spezzò la nozione fino ad allora unitaria dei « diritti patrimoniali » riservati alla giurisdizione civile, per enuclearne la categoria più ristretta di quelli concettualmente veramente « consequenziali », solo rispetto ai quali tale riserva veniva mantenuta. Sembra opportuno concludere la rievocazione di questa evoluzione, richiamando vari passi che scrisse Franco Ledda, in uno dei maggiori contributi dottrinari alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (La giurisdizione esclusiva del Consiglio di Stato, Nuova Rassegna, 1971, 2717). Egli, dopo aver notato come una delle maggiori incongruenze della riforma del 1923 fosse quella di aver lasciato, nelle materie di giurisdizione esclusiva non di merito, il modello di giudizio impugnatorio, senza gli adattamenti e varianti che avrebbe richiesto un processo su diritti, e dopo aver duramente criticati altri aspetti di quella riforma dei primi anni ’20, concluse che, comunque, i suoi vantaggi superano i suoi svantaggi; e ciò, perché « ... l’istituto che lentamente prese corpo per opera della giurisprudenza merita indubbiamente un più


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benevolo giudizio ». « L’idea d’una necessaria subordinazione dei diritti soggettivi agli interessi pubblici, chiaramente enunciata nella Relazione al Re, non venne recepita dal Consiglio di Stato: per questo riguardo le aspettative del legislatore andarono deluse, e nell’assolvere i suoi nuovi compiti l’alto Consesso diede ulteriore prova della sua indipendenza ». E quanto all’auspicio che il giudizio amministrativo su diritti soggettivi assuma caratteri più adeguati a questo suo particolare oggetto, distaccandosi dal classico giudizio conseguente alla impugnazione di un provvedimento, egli, nel 1971 appunto, osservava che « Al livello del Consiglio di Stato, la possibilità di una cosı̀ profonda revisione mi sembra assai remota: il pieno adeguamento della struttura del giudizio a quella dei rapporti importerebbe una “tribunalizzazione” vera e propria di quest’organo; e penso che una prospettiva simile non possa essere considerata con favore negli ambienti di Palazzo Spada ». Si rinuncia qui a valutare in quali limiti si sia rivelato buon profeta; ma egli, del resto, se non previde gli attuali sforzi di adattamento che la giurisprudenza amministrativa sviluppa, ancora più difficilmente avrebbe potuto prevedere le audacie del legislatore del 1998 e del 2000. Tuttavia, non si può concludere questa relazione, senza qualche cenno sulla sorte che la giurisdizione amministrativa esclusiva ebbe nella Costituzione: se non altro, perché anche questo aspetto fa parte della intitolazione. Cenno che per certi aspetti può essere assai fugace, perché in Assemblea Costituente, di tale giurisdizione si parlò pochissimo: quel che si discusse accanitamente, quel che era veramente in giuoco era la sopravvivenza stessa del Consiglio di Stato come giudice speciale, distinto, e separato anche strutturalmente dalla giurisdizione ordinaria. Come si sa, fu soprattutto Calamandrei a sostenere l’ideale — o, forse, il mito — della giurisdizione unica: l’attribuzione di funzioni giurisdizionali al Consiglio di Stato avrebbe ormai perso la sua ragione storica; d’altra parte, non solo al Consiglio di Stato si è affidata, talvolta, anche la tutela dei diritti soggettivi, ma anche la differenza di questi dagli interessi legittimi si sarebbe venuta


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gradatamente assottigliando; sarebbe ormai matura la trasformazione delle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato (che rimarrebbe solo come organo consultivo), in Sezioni specializzate della giurisdizione ordinaria, della quale godrebbero anche le maggiori garanzie di indipendenza: « I consiglieri di Stato (si dovrebbe intendere: solo quelli appartenenti alle Sezioni giurisdizionali), diverrebbero consiglieri di Cassazione, e anche nelle Corti di appello; potrebbero, per le cause tra cittadini e pubblica amministrazione, crearsi delle sezioni specializzate, i cui membri sarebbero scelti tra i consiglieri di Stato delle sezioni consultive, da trasferire nell’ordine giudiziario » [le citazioni di questo dibattito sono tratte dai verbali della Seconda Sottocommissione per la Costituzione (Sezione II), soprattutto pp. 1889 ss., e 1983 ss.]. Chi conoscendo questo dibattito medesimo, abbia seguito quello che si svolse sugli stessi problemi in seno alla peraltro abortita Commissione bicamerale per la riforma della Costituzione, non ha potuto non avere una sensazione di déjà-vu. Anche in questa occasione non si raggiunse alcun risultato concreto: anzi, non si arrivò neppure all’approvazione di un progetto. Ma, ciò nonostante, questi più recenti dibattiti sono stati tutt’altro che privi di effetti. La legislazione del 1998 e del 2000, ampliando la giurisdizione amministrativa esclusiva, e facendo rientrare le domande risarcitorie non solo in quella esclusiva, ha costituito un notevolissimo passo avanti verso quella “tribunalizzazione” del giudice amministrativo che Franco Ledda aveva ritenuto necessaria, sia pure entro certi limiti. Le chiavi di lettura di quella legislazione possono essere molte; e, di sicuro, la prevalente, non infondatamente, è quella per la quale con essa si è voluto date più completa e immediata tutela giurisdizionale al ricorrente, non importa se titolare di soli interessi legittimi o addirittura di diritti soggettivi. Però, se si tenesse conto di quale contributo vi abbiano dato, diretto e indiretto, oltre ai politici e a qualche dottrinario, numerosi consiglieri di Stato, potrebbe emergere come non improbabile pure una diversa lettura delle sue ragioni. Si può supporre che questa “tribunalizzazione” del giudice amministrativo sia stata sostenuta non solo da chi la riteneva auspicabile, ma an-


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che da chi la considerava in ogni caso inevitabile. E, allora, per questi, passare addirittura a promuoverla nei limiti nei quali è stata realizzata, potrebbe essere sembrato il mezzo per seguire questa evoluzione sentita come inarrestabile, salvando l’essenziale: la sopravvivenza dell’Istituto. Comunque, nell’Assemblea Costituente, fu soprattutto Aldo Bozzi che, per contro, affermò la persistenza delle ragioni storiche del Consiglio di Stato come Istituto autonomo ed estraneo rispetto alla Magistratura ordinaria; e trovò vari alleati, tra i quali il comunista Laconi. Bozzi rivendicò l’indipendenza che il Consiglio di Stato dimostrò durante il Fascismo, del resto riconosciuta anche da Calammandrei, e un po’ da tutti gli intervenuti nel dibattito, anche nello stesso suo senso: « Nel periodo fascista, su 16.000 ricorsi decisi nel merito — quindi, esclusi quelli respinti per incompetenza (rectius: per difetto di giurisdizione?), abbandonati, perenti, ecc. ne sono stati accolti circa 10.000 e respinti 6.000. Questo significa che per diecimila volte il Consiglio di Stato ha annullato atti dell’amministrazione... ». Bozzi arrivò a sostenere addirittura l’inscindibile unicità delle sue funzioni consultive con quelle giurisdizionali. In questa sua difesa, tuttavia, dovette accentuare molto i profili di tutela dell’interesse pubblico del suo ruolo, soprattutto di controllo « ... come rappresentate del popolo, e quindi dell’interesse collettivo alla legalità dell’azione amministrativa... », fino ad avanzare la proposta (fortunatamente non accolta), che « I consiglieri, i Presidenti di Sezione e il Presidente, anche se formalmente nominati dal Presidente della Repubblica, dovrebbero essere designati dalle Camere » (p. 1987). Sembra inutile insistere nel rievocare una vicenda di cui tutti conosciamo l’esito: il Consiglio di Stato si salvò. Resta da dire qualche parola sulla sua giurisdizione amministrativa esclusiva. Se ne parlò pochissimo, perché, come si vede, il dibattito era concentrato sulla maggiore questione della sua sopravvivenza come Istituto. Fu Ruini, peraltro, che, a risultato acquisito, e comunque ulteriormente difeso (« ... la tutela degli interessi legittimi verso la pubblica amministrazione... è stata la vera conquista, che soltanto un organo come il Consiglio di Stato po-


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teva conseguire »), in piena Assemblea Costituente, e in una delle sue ultime sedute (quella del 27 novembre 1947), sostenne la necessità di mantenere anche la giurisdizione amministrativa esclusiva: « Ma limitarsi ai soli interessi legittimi non è possibile; vi sono materie di competenza esclusiva, residuate da vecchie leggi, come in tema di debito pubblico, che debbono, a mio avviso, sottrarsi al Consiglio di Stato; ma vi è un gruppo di controversie, quelle di pubblico impiego, che per la inscindibilità delle questioni di interesse legittimo e di diritto soggettivo, e per la prevalenza delle prime, debbono restare al Consiglio di Stato... » (Atti dell’Assemblea Costituente, vol. IX, pp. 3987-88). E di qui, e anche da questo guizzo finale di Ruini, la formula del tutt’ora vigente art. 103 Cost., comma 1: il Consiglio di Stato (e quelli che poi sono divenuti i Tribunali amministrativi regionali), trovano nella tutela degli interessi legittimi la loro funzione istituzionale, insostituibile da parte dei giudici ordinari; tuttavia, talvolta hanno giurisdizione anche su diritti soggettivi, ma solo su « ... in particolari materie indicate dalla legge... »: la locuzione ne segnala la (relativa) eccezionalità, perché derogatoria alla generale giurisdizione su di essi, che ancor più istituzionalmente, appartiene al giudice ordinario (art. 102, comma 1). Ci pare non inappropriato definire l’art. 103, comma 1, come la fotografia dell’esistente. Dell’allora esistente, ben s’intende. Quanto poi la sua formulazione (non) abbia condizionato l’evoluzione del sistema, è a tutti noto. Ma questa è un’altra storia: che comincia là dove termina quella che era mio compito sintetizzare.


PIETRO VIRGA

È SINDACABILE IL MANCATO ESERCIZIO DEL POTERE DI VIGILANZA EDILIZIA?

La giurisprudenza e la dottrina erano finora unanimi nel ritenere che il terzo interessato non fosse legittimato nel caso di inerzia dell’amministrazione per la repressione degli abusi edilizi ad impugnare la mancata adozione di misure ripristinatorie e pertanto che non potesse configurarsi la impugnazione del silenzio-rifiuto in relazione al comportamento dell’amministrazione che abbia omesso di infliggere la sanzione prevista per l’abuso. L’esercizio del potere sanzionatorio in materia edilizia ha infatti carattere discrezionale come è dimostrato dal fatto che si riscontrano in tale potere una facoltà di scelta sia in relazione all’accertamento dell’illecito, che in relazione alla individuazione e commisurazione della misura repressiva (1). Conseguentemente è stato ritenuto che il privato non potesse attivare contro l’inerzia lo speciale eccezionale strumento previsto dall’art. 21-bis della l. Tar introdotto dall’art. 2 della l. n. 205 del 2000. Tale orientamento consolidato è stato profondamente modificato dalla più recente giurisprudenza, che ha ritenuto che lo speciale rito previsto dall’art. 21-bis può essere attivato nel caso di inerzia nell’esercizio del potere di vigilanza edilizia. L’amministrazione avrebbe il dovere di dare seguito alla istanza con la (1) Cons. giust. amm., 9 giugno 1999, n. 245, in Rep. giur. it., voce Giust. amm., 113; Cons. Stato, Sez. V, 27 marzo 2000, n. 1765, ivi, 453; Cons. giust. amm., 25 maggio 2000, n. 264, ivi, 2000, n. 1136 e in dottrina, da ult. ANDREIS, Oggetto del giudizio sul silenzio e limiti alla tutela giurisdizionale, in Urb. e app., 2003, 1339; CARINGELLA, Diritto processuale amministrativo, Milano 2003, 863.

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quale il privato interessato abbia chiesto la repressione di un abuso edilizio, che sia stato compiuto in un fondo limitrofo e, in caso di inerzia, sarebbe impugnabile il silenzio-rifiuto (2). Tale nuovo indirizzo giurisprudenziale non può essere condiviso, perché si basa su una « doverosità » dell’esercizio del potere sanzionatorio edilizio analoga rispetto alla « obbligatorietà » dell’esercizio dell’azione penale. Ma la Corte costituzionale, con orientamento costante (3), ha affermato che il potere sanzionatorio amministrativo è dotato di una spiccata specificità e di una netta autonomia rispetto al sistema sanzionatorio penale. La diversa natura dei due sistemi sanzionatori è comprovata dal fatto che il legislatore ha ritenuto di dovere fissare, per l’applicazione delle sanzioni amministrative con la l. 24 novembre 1981, n. 689, parametri diversi da quelli risultanti dagli artt. 23 e 97 cost. che disciplinano l’azione penale. A differenza di quanto è stabilito per l’esercizio del potere punitivo penale, il potere sanzionatorio amministrativo offre spazi di discrezionalità sia nel momento dell’accertamento, sia nel momento della applicazione e commisurazione della sanzione. In presenza di un illecito amministrativo, non esiste sempre un preciso provvedimento da adottarsi da parte dell’amministrazione, la quale, ai fini della emanazione e della commisurazione della sanzione, gode di una certa discrezionalità. (2) Cons. Stato, Sez. V, 14 febbraio 2003, n. 808, in Giorn. dir. amm., 2003, 522, Sez. V, 21 ottobre 2003, n. 6831, in www.Lex Italia 2003. A sostegno di tale nuovo indirizzo si legge nella motivazione della sentenza della Sez. V del Cons. Stato n. 7132 del 2003: « poiché la pubblica amministrazione ha il dovere di provvedere sugli abusi accertati, anche se talora ha la facoltà di scegliere le sanzioni da applicare e deve valutare situazioni particolari di fatto specie in relazione al tempo trascorso, sussiste un interesse de! privato leso da opere abusive alla adozione delle sanzioni di legge. Conseguentemente il privato può pretendere, quanto meno, un provvedimento espresso sull’abuso circostanziatamente denunciato, in difetto può ottenere di costituire nei modi ordinari un silenzio-rifiuto di provvedere che è impugnabile fino a costringere l’amministrazione comunale alla emissione di un provvedimento espresso che, a sua volta, sarà impugnabile ove ritenuto illegittimo ». (3) Corte cost., 21 aprile 1994, n. 159, in Giur. cost., 1994, 1214 e in dottrina ANGIOLINI, Principi costituzionali e sanzioni amministrative, Milano, 1995, 237; PALIERO-TRAVI, La sanzione amministrativa. Profili sistematici, Milano, 1988, 394; CASETTA, Sanzione amministrativa, in Dig. disc. pubbl., XIII, 600.


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Ad esempio, in relazione alla maggiore o minore gravità di un abuso edilizio, può essere disposta, indipendentemente dal provvedimento cautelare della sospensione dei lavori, l’applicazione della sanzione pecuniaria in luogo dell’ordine di demolizione e di riduzione in pristino (4). È significativo anche il fatto che, in tema di abusi edilizi, il potere sanzionatorio dell’amministrazione non è soggetto a termine di prescrizione e quindi non esistono tempi prestabiliti per l’applicazione della sanzione edilizia (5). Concludendo, è da ritenere che l’adozione dei provvedimenti repressivi contemplati dalla legge per le infrazioni amministrative non costituisce un vero e proprio « dovere » per l’amministrazione, di guisa che l’eventuale atto di diffida del privato danneggiato per la inerzia dell’amministrazione non può considerarsi idoneo a legittimare l’azione prevista per l’attivazione del rito speciale, ex art. 21-bis, per la impugnativa del silenzio-rifiuto.

(4) MAZZAROLLI, Sul regime delle sanzioni amministrative in materia urbanisticoedilizia, in Riv. giur. urb., 1985, III, 422. (5) Sez. V, 1 marzo 1993, n. 308, in Cons. Stato, I, 396 e in dottrina MEZZABARBA-TRAVI, Sanzioni amministrative, in Foro it., 1994, I, 775.


BEATRICE LOCORATOLO

IL SISTEMA GIURISDIZIONALE COMUNITARIO. NOVITÀ E PROSPETTIVE TRA IL TRATTATO DI NIZZA ED IL PROGETTO DI TRATTATO CHE ISTITUISCE UNA COSTITUZIONE PER L’EUROPA

SOMMARIO: 1. Premessa introduttiva. — 2. Il Trattato di Nizza ed il sistema giurisdizionale comunitario: i perché della riforma. — 2.1. Le modifiche alla luce dell’art. 7 Trattato CE. — 3. Modifiche alla organizzazione della giustizia comunitaria introdotte dal Trattato di Nizza. Il ruolo della Corte di giustizia. — 3.1. Le modifiche concernenti la composizione: giudici ed avvocati generali. — 3.2. La disciplina di dettaglio: lo Statuto della Corte ed il regolamento di procedura. — 4. Organizzazione e posizione del Tribunale. — 5. Il sistema di ripartizione delle competenze risultante dalle modifiche. — 6. Le Camere giurisdizionali. — 7. Il sistema giurisdizionale comunitario delineato nel progetto di costituzione europea.

1. Il « Progetto di Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa », licenziato dalla Convenzione sull’avvenire dell’Europa (1) nel luglio 2003 e successivamente oggetto di discussione nell’ambito dei lavori della Conferenza intergovernativa avviati a Roma nel seguente mese di ottobre, ha posto un nuovo importante tassello nella definizione di un vero e proprio « sistema » giudiziario europeo. Riprendendo sostanzialmente quanto disposto a Nizza, i membri della Convenzione hanno messo ordine in quanto già stabilito dal legislatore comunitario ed hanno ipotizzato, per il futuro, un (1) Sui lavori della Convenzione e per un commento al progetto adottato, si rinvia a F. BASSANINI e G. TIBERI (a cura di), Una Costituzione per l’Europa. Dalla Convenzione europea alla Conferenza Intergovernativa, Bologna, 2003. Inoltre, un’analisi di alcuni aspetti legati alla Costituzione europea è contenuta nel testo Verso la Costituzione europea. Atti dell’incontro di studio, Urbino, 17 giugno 2002, Milano, 2003. Si veda anche: P. COSTA, A. MAJOCCHI, G. MONTANI, A. PAPISCA, R. PRODI, Più Europa, meno Europa. La Convenzione e il processo costituzionale europeo, Venezia, 2002.

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assetto giurisdizionale complesso basato su vari organi che, insieme, costituiscono l’istituzione « Corte di giustizia » (cfr. art. 18 Progetto) (2). In tal senso, infatti, e superando gli effettivi problemi interpretativi legati all’attuale formulazione dell’art. 7 del Trattato CE, l’art. 28 del Progetto dispone che la Corte di giustizia comprende « la Corte di giustizia europea, il Tribunale e i Tribunali specializzati ». Rispetto alle attuali disposizioni del Trattato CE, quindi, la Corte di giustizia diviene la Corte di giustizia europea, il Tribunale di primo grado viene identificato con una nomenclatura più semplice — Tribunale — ed i Tribunali specializzati sostituiscono le camere giurisdizionali. Questa trasformazione, apparentemente solo terminologica, in realtà è la manifestazione della volontà di riorganizzare la funzione giurisdizionale, superando definitivamente quel rapporto gerarchico che da sempre lega gli organismi deputati alla stessa, e di delineare una nuova struttura in grado di assicurare un’effettiva tutela dei diritti. Al di là di questa importante disposizione organizzativa il Progetto non contiene altre previsioni effettivamente innovative ma si limita a riprendere, con qualche marginale rielaborazione, quanto disposto dai redattori del Trattato di Nizza. È questo, dunque, il testo normativo di partenza per condurre un’analisi finalizzata alla comprensione del nuovo sistema giurisdizionale che si sta delineando e che sarà operativo nell’ambito dell’Europa allargata. 2.

Con l’entrata in vigore del Trattato di Nizza, avvenuta il

(2) La formulazione dell’art. 18 del Progetto, in realtà, porge il fianco ad una critica di non lieve conto. Come è stato osservato si tratta di una disposizione redatta in termini imprecisi e che risulta « necessariamente da emendare ». Ed invero, « L’elencazione della “Corte di giustizia” tra le istituzioni comunitarie aveva un senso quando cosı̀ si alludeva ad uno specifico organo giurisdizionale, mentre appare del tutto incongrua una volta che la Corte diviene sinonimo di una complessiva entità giurisdizionale, asimmetrica rispetto alle altre “istituzioni dell’Unione” che rimangono specifici organi costituzionali, senza mutarsi in plessi di organi o “poteri” ». In questi termini: M.P. CHITI, Le norme sulla giurisdizione, in F. BASSANINI e G. TIBERI, Una Costituzione per l’Europa. Dalla Convenzione europea alla Conferenza Intergovernativa, Bologna, 2003, 140-141.


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1o febbraio 2003, è stato dato, senza ombra di dubbio, un forte « scossone » all’intero impianto istituzionale della Comunità europea, anche se l’impatto maggiore è stato sicuramente avvertito nell’ambito dell’organizzazione del sistema giudiziario comunitario. Indipendentemente da una valutazione generale, positiva o negativa, che si voglia esprimere sulle diverse modifiche apportate ai Trattati, non si può non riconoscere che a Nizza sono state indubbiamente poste le basi per una riforma del sistema giurisdizionale europeo senza precedenti che va ben oltre la mera ridistribuzione delle competenze fra le varie corti adibite all’esercizio di tale funzione. La possibilità che vangano istituite delle camere giurisdizionali competenti in primo grado rappresenta, sia pure in una prospettiva futura, una svolta nell’attuale sistema di protezione giuridica assicurato dall’ordinamento comunitario. Pur circoscrivendo l’analisi agli articoli del Trattato CE relativi al sistema giurisdizionale (3), apparirà chiaro che con il Consiglio europeo di Nizza sono state introdotte non poche novità riprese e confermate dalla Convenzione europea che, come detto, ha concluso i suoi lavori con la redazione di un progetto di costituzione dell’Unione europea, allo stato attuale, non ancora approvato. Da queste brevi premesse, risulta ovvio che, al momento, non è possibile esprimere un giudizio definitivo sulla portata di tale riforma, essendo la stessa legata al realizzarsi di almeno due fattori, futuri ed incerti, quali l’esercizio effettivo, da parte del Consiglio, del potere di istituire camere giurisdizionali e l’approvazione di modifiche da apportate allo Statuto della Corte, per definire ciò che è stato individuato, solo a grandi linee, nelle norme del trattato. Essendo un processo in itinere, sarà solo con il trascorrere del tempo che si potrà valutare l’efficacia di questa riforma e la possibilità di apportare le modifiche necessarie a col(3) La motivazione di tale scelta è semplice. Relativamente al trattato CECA, questo è scaduto nel luglio 2002, e quindi le relative norme conservano solo un valore storico, mentre per quanto riguarda le disposizioni del Trattato CEEA queste seguono quanto stabilito nel Trattato CE.


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mare quelle lacune e quelle inefficienze che emergeranno dall’applicazione delle norme. Alla revisione del sistema giurisdizionale comunitario si è stati spinti dal carico di lavoro, cui oggi fanno fronte la Corte di giustizia ed il Tribunale di primo grado, tenendosi conto anche dell’ampliamento dell’Unione che ha imposto, necessariamente, al fine di assicurare in futuro il buon andamento della funzione giurisdizionale, un grado di flessibilità nella determinazione delle disposizioni relative ai detti organismi comunitari, affinché questi possano adattarsi alle nuove circostanze che si verranno a determinare. Ed infatti, posto che l’adesione di nuovi Stati (4) cambierà la fisionomia dell’Unione e che ciò avrà luogo progressivamente ed in un arco di tempo piuttosto ampio, è necessario che questa trasformazione sia accompagnata da un adeguato e graduale rinnovamento delle istituzioni, pena la paralisi di ogni processo decisionale, politico e giurisdizionale. In particolare, in quest’ottica basta considerare che solo nel 2002 sono state promosse innanzi alla Corte 477 nuove cause, mentre per il Tribunale tale numero scende a 411; la Corte ha definito 513 giudizi (434 nel 2001) ed il Tribunale 331 (340 nel 2001) con 1779 cause pendenti, di cui 907 dinanzi alla Corte e 872 dinanzi al Tribunale (5). Questi dati danno conto del non lieve carico di lavoro gravante sugli organi giurisdizionali della Comunità (6) e lasciano immaginare le ripercussioni sia sui tempi (4) È necessario ricordare che il 1o maggio 2004 è stata costituita la nuova Europa a 25 Stati, con l’adesione di Polonia, Slovenia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Estonia, Lituania, Lettonia, Malta e Cipro. (5) Tali statistiche sono state presentate nell’ambito della relazione annuale 2002, rinvenibile all’indirizzo internet: www.curia.eu.int/it/actu/activites/index.htm. (6) L’incremento del numero delle cause avvenuto nel corso degli anni — si pensi che nel 1975 le cause promosse dinanzi alla Corte erano 130, mentre il picco più alto è stato raggiunto nel 1999 con la proposizione di 543 nuovi giudizi, mentre per quanto riguarda il Tribunale si è passati dalle 253 del 1995 alle 398 del 2000 ed alle 411 del 2002 — è da attribuirsi a diversi fattori: « l’aumento del numero degli Stati membri derivante dai vari ampliamenti dell’Unione e, in misura maggiore, l’importanza crescente, in termini qualitativi e quantitativi, dell’attività legislativa delle Istituzioni dell’Unione europea, nonché una migliore conoscenza del diritto comunitario da parte sia dei professionisti del diritto sia dei cittadini ». In tal senso G.C. RODRIGUEZ IGLESIAS, La Corte di giustizia e la riforma istituzionale dell’Unione europea, dell’aprile 2000,


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dei processi — solo i procedimenti pregiudiziali durano in media circa due anni — sia sulla garanzia di effettività della tutela giurisdizionale. Per quanto attiene all’esigenza di procedere, nella redazione delle norme, secondo il criterio della flessibilità è da valutare positivamente la decisione, accolta a Nizza, di porre al centro del nuovo sistema lo Statuto della Corte, contenuto in un protocollo allegato al Trattato — di cui costituisce parte integrante ai sensi dell’art. 311 Trattato CE —, rendendolo modificabile con una procedura molto più snella (che, tra l’altro, avrebbe potuto essere ulteriormente semplificata) che permette di evitare le lunghe attese dovute alle procedure nazionali di ratifica di un trattato (7). E se è fuori di dubbio che l’allargamento dell’Unione ai paesi dell’est ha fatto optare per l’adozione di un criterio flessibile nella redazione degli articoli, essa ha inciso su molte delle scelte operate dai redattori del Trattato di Nizza. Il riferimento è ad es. alle decisioni necessarie per modificare la struttura istituzionale dell’UE e, quindi, a quelle relative alla composizione della Corte e del Tribunale, oppure alle nuove competenze del Tribunale, in particolare quella di decidere alcune questioni pregiudiziali sollevate dai giudici nazionali, o, ancora, alla nuova formulazione dell’art. 245 Trattato CE, relativo alla procedura di modifica dello Statuto della Corte, che attribuisce il potere di iniziativa, nella vecchia formulazione spettante solo alla Corte, anche alla Commissione. 2.1. Le novità introdotte avranno una notevole ripercussione nei rapporti fra gli organi — vecchi e nuovi — deputati alla funzione giurisdizionale comunitaria. La parificazione, non solo formale, del Tribunale di primo grado alla Corte di giustizia, quali organi che, insieme, « assicurano, nell’ambito delle rispettive competenze, il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione del presente Trattato » (art. 220 Trattato CE), e l’attribureperibile sul sito internet della Comunità, all’indirizzo www.curia.eu.int/it/instit/txtdocfr/autrestxts/rod.pdf. (7) Sulla centralità dello Statuto della Corte nel sistema che si va delineando e sulla procedura di modifica dello stesso, si rimanda a quanto si dirà successivamente.


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zione anche al Tribunale della competenza a conoscere le questioni pregiudiziali (art. 225, comma 3 Trattato CE) — sia pure nelle materie determinate dallo Statuto — privano di contenuto quel ruolo di « secondo piano » attribuito al Tribunale fin dalla sua istituzione (8), per arricchirlo di nuovi e ben più pregnanti significati. Tali primissime considerazioni fanno sorgere dei dubbi sulla effettiva portata dell’art. 7 Trattato CE (non modificato a Nizza), relativo all’individuazione delle istituzioni comunitarie, e sulla possibilità — mancata — di riformare tale disposizione includendo tra queste anche il Tribunale (9). Un’omissione difficilmente conciliabile con l’accresciuta autonomia dello stesso e con le nuove competenze di cui esso è destinatario. Ciò non vuol dire che nel nuovo sistema delineato a Nizza la Corte abbia perso valore o importanza: in ogni caso, essa rimane al vertice, con una serie ben delineata di prerogative, della complessa struttura giurisdizionale che risulta ora composta oltre che dalla Corte e dal Tribunale anche dalle camere giurisdizionali. In merito, è da rilevare che anche la nuova ridistribuzione delle competenze si pone in linea con un ben preciso ruolo della Corte, che, pian piano, sta assumendo contorni sempre più definiti: la Corte di giustizia quale organo deputato a risolvere conflitti interistitu(8) Il Tribunale di Primo Grado è stato istituito con decisione del Consiglio n. 88/591 del 24 ottobre 1988, sulla base di un articolo (il 168 A) dell’Atto Unico europeo che aveva previsto la creazione di una « giurisdizione competente a conoscere in primo grado, con riserva di impugnazione dinanzi alla Corte di giustizia per i soli motivi di diritto e alle condizioni stabilite dallo Statuto, talune categorie di ricorsi di persone fisiche o giuridiche ». La finalità di tale istituzione era da rinvenire, per lo più, « nella necessità di alleviare la Corte del carico di procedimenti e forse anche nell’esigenza di garantire, per le controversie riguardanti i singoli, un doppio grado di giurisdizione ». Cosı̀ V. GUIZZI, Manuale di diritto e politica dell’Unione europea, Napoli, III ed., 2003, 213; ed ancora, in tal senso, G. GAJA, Introduzione al diritto comunitario, Roma-Bari, 2003, 48. (9) Di diverso avviso sembra essere l’opinione di chi, nel riferirsi alla nuova formulazione dell’art. 220 Trattato CE, ha considerato che detto articolo attribuisce la funzione di assicurare « il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione del Trattato alla Corte di giustizia e al Tribunale di primo grado entrambi facenti oggetto del “Protocollo sullo Statuto della Corte di giustizia” e quindi facenti parte di quella che in senso lato è l’istituzione Corte di Giustizia » (P. MENGOZZI, Istituzioni di diritto comunitario e dell’Unione europea, Padova, 2003, 54).


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zionali, accentuando quell’aspetto « costituzionale » insito nel proprio ruolo (10). A conferma della centralità del ruolo della Corte anche nel nuovo assetto di competenze, basti ricordare che la stessa, oltre ad essere giudice di secondo grado avverso le decisioni del Tribunale (art. 225, par. 1 Trattato CE), è anche, sia pur nei limiti di cui si dirà tra breve, giudice del riesame avverso le decisioni emesse dal Tribunale, sia in sede di impugnazione contro le decisioni delle camere giurisdizionali, sia in sede di decisione di questioni pregiudiziali, nonché giudice unico laddove il Tribunale, investito di una questione pregiudiziale, decida di rinviarle la causa per l’adozione di una « decisione di principio » necessaria per assicurare l’unità e la coerenza del diritto comunitario ovvero nel caso di giudizi per i quali conserva ancora una competenza esclusiva. Sicuramente la novità più interessante introdotta a Nizza, riguarda proprio la possibilità, riconosciuta al Consiglio, di istituire delle camere giurisdizionali « incaricate di conoscere in primo grado di talune categorie di ricorsi proposti in materie specifiche » (art. 225 A Trattato CE). Si è davvero in presenza di una svolta storica per il diritto comunitario: è stata aperta la strada alla possibilità — in realtà, remota — di avere tre gradi di giudizio per una controversia; le decisioni delle camere giurisdizionali, infatti, possono essere oggetto di impugnazione avanti al Tribunale e queste ultime possono (10) Tale orientamento trova una conferma nel parere della Commissione giuridica e per il mercato interno del Parlamento europeo dell’11 ottobre 2001, nelle cui conclusioni si legge — dopo aver sottolineato i miglioramenti apportati dal Trattato di Nizza al funzionamento del sistema giurisdizionale — che la Commissione « ritiene che la Corte di giustizia delle Comunità europee debba assumere, in futuro, il ruolo di una vera e propria Corte costituzionale dell’Unione europea, incaricata di garantire il rispetto dei diritti fondamentali » (tale parere è reperibile sul sito internet www.europarl.eu.int). Inoltre, in quest’ottica, il Protocollo sullo Statuto della Corte di giustizia, allegato allo stesso trattato di Nizza, prevede, all’art. 51, che, in deroga alle disposizioni di cui agli artt. 225, par. 1 Trattato CE e 140 A, par. 1, Trattato CEEA, restino di competenza esclusiva della Corte i ricorsi proposti dagli Stati membri, dalle istituzioni delle Comunità e dalla Banca centrale europea. Cfr., inoltre, R. MASTROIANNI, Il Trattato di Nizza ed il riparto di competenze tra le istituzioni giudiziarie comunitarie, in A. TIZZANO (a cura di), Il Trattato di Nizza, Quaderni della Rivista il Diritto dell’Unione Europea, Milano, 2003, 139.


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« eccezionalmente essere oggetto di riesame da parte della Corte di giustizia, alle condizioni ed entro i limiti previsti dallo Statuto, ove sussistano gravi rischi che l’unità o la coerenza del diritto comunitario siano compromesse ». Prima di entrare nello specifico delle novità introdotte, c’è da fare una considerazione preliminare. La portata delle stesse avrebbe forse consigliato una risposta più incisiva alle esigenze di semplificazione e celerità dei procedimenti decisionali relativi al sistema giurisdizionale. E cosı̀ sembrano inspiegabili sia l’ingerenza della Corte nelle scelte procedurali del Tribunale e delle camere giurisdizionali (i rispettivi regolamenti di procedura sono stabiliti « di concerto » con la Corte di giustizia ed adottati dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata) (11) sia la richiesta unanimità per quelle deliberazioni del Consiglio necessarie a modificare lo Statuto della Corte o per istituire le camere giurisdizionali. Come è facile intuire da queste brevi considerazioni, la svolta operata a Nizza è sicuramente importante e decisiva per delineare un vero e proprio sistema giudiziario europeo, attento sia a controllare l’applicazione del diritto comunitario all’interno degli Stati membri che ad assicurare una tutela effettiva dei cittadini comunitari. 3. La Corte di giustizia, quale risulta dalle modifiche del 2001, se da un lato ha perso quel ruolo « accentratore », che l’ha fino ad oggi contraddistinta permettendole di essere determinante (11) Il sistema di deliberazione dei regolamenti di procedura del Tribunale e delle camere giurisdizionali che, come detto, deve avvenire « di concerto » con la Corte (mentre quest’ultima gode di assoluta autonomia nella determinazione del proprio regolamento) crea una situazione tale per cui la suprema corte incide, anche se indirettamente, sulle scelte dei giudici inferiori, mentre non è stabilito alcun collegamento tra il Tribunale di primo grado e le camere giurisdizionali. Questa « soluzione appare incongrua. È, infatti, soprattutto nei rapporti con il Tribunale che si imporranno, per i nuovi giudici, esigenze di coordinamento, sia sul piano amministrativo, sia su quello giurisdizionale (rappresentando il Tribunale organo d’appello avverso le decisioni delle camere), la cui soddisfazione avrebbe potuto essere, appunto, trovata nel concerto dei due organi giudiziari ». In tal senso M. CONDINANZI, Le innovazioni organizzative al sistema giudiziario comunitario, in B. NASCIMBENE (a cura di), Il processo comunitario dopo Nizza, Milano, 2003, 62.


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nel processo di integrazione europea, dall’altro, rimane al vertice del sistema giudiziario comunitario (12). Questa nuova condizione le consentirà, comunque, di continuare ad esercitare la sua funzione di garante dell’uniformità, nell’interpretazione e nell’applicazione del diritto comunitario, mediante un’attività di sviluppo giurisprudenziale del relativo ordinamento giuridico. D’altra parte a rafforzare detta funzione interviene la circostanza che la Corte di giustizia ha fatto da collante fra i diritti nazionali degli Stati membri ed il diritto comunitario, consentendo ai primi di uniformarsi al secondo: è in quest’ottica che, soprattutto con il sistema del rinvio pregiudiziale, che crea una forte collaborazione tra i giudici nazionali e comunitari, essa ha contribuito, al pari delle istituzioni politiche, al processo di integrazione europea. Ciò che in futuro cambierà saranno solo le modalità di esercizio di tale funzione, che sarà, entro certi limiti, decentrata ed esercitata congiuntamente con il Tribunale. 3.1. Come si è accennato, l’adesione dei Paesi dell’est, avvenuta il 1o maggio 2004, ha avuto delle ripercussioni sulle scelte relative all’organizzazione di tutte le istituzioni comunitarie (13) (12) Cfr. G. PASQUALI, Il diritto d’Europa, Napoli, 2003, 112, nonché, L. FERRARI BRAVO e E. MOAVERO MILANESI, Lezioni di diritto comunitario, Napoli, 2002, 125 ss. Ancora sul ruolo della Corte di giustizia nella determinazione dell’ordinamento comunitario: C. DE ROSE, Il sistema di giustizia dell’Unione europea: linee evolutive e prospettive di riforma, in Cons. Stato, 2001, 637 ss.; S. BARIATTI, Il ruolo del giudice nella costruzione dell’ordinamento comunitario, in Jus, 1999, 119 ss.; M. FILIPPONI, La Corte di Giustizia Europea: Evoluzione storica, struttura e composizione, in Il nuovo diritto, 1998, 663 ss.; M.L. FERNANDEZ ESTEBAN, La Corte di Giustizia quale elemento essenziale nella definizione di Costituzione europea, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1996, 221 ss.; M.P. CHITI, The role of the European Court of Justice in the development of general principles and their possible certification, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1995, 661 ss.; A. TIZZANO, Il ruolo della Corte di giustizia nella prospettiva dell’Unione europea, in Riv. dir. internaz., 1994, 922. Per una disamina dell’evoluzione della giurisdizione comunitaria, si veda inoltre: M. AIROLDI, La tutela dinanzi alla giurisdizione amministrativa europea, Torino, 1999. (13) Per un’analisi dell’incidenza dell’allargamento sulle istituzioni comunitarie, si rinvia a S. GUERRIERI, A. MANZELLA e F. SDOGATI (a cura di), Dall’Europa a Quindici alla Grande Europa. La sfida istituzionale, Bologna, 2001.


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e, quindi, inevitabilmente, anche della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado. La prima importante novità prevista riguarda proprio la loro composizione. Per quanto riguarda la Corte, nel Trattato non è previsto il numero esatto dei giudici che la compongono, come nella vecchia formulazione, ma è stabilito che la Corte « è composta di un giudice per Stato membro » (art. 221 Trattato CE). Questa semplice formula, che fino ad oggi ha costituito una prassi della Corte, in realtà, è la risposta ad un delicato problema politico, sollevato dagli stessi organi giurisdizionali nel documento di riflessione « Il futuro del sistema giurisdizionale dell’Unione Europea » del maggio 1999. In tale documento si osserva che se da un lato un numero limitato di giudici consente « una partecipazione intensa e continua di tutti i giudici nelle udienze e nelle deliberazioni della Corte plenaria », dall’altro, un numero elevato degli stessi, pur garantendo la coesistenza di tutti i sistemi giuridici nazionali, creerebbe sia il problema di individuare il confine, in ipotesi di udienza plenaria, fra « una giurisdizione collegiale » e « un’assemblea deliberante » sia quello di individuare modelli organizzativi tali da garantire la coerenza e l’omogeneità della giurisprudenza della Corte (14). D’altronde, la scelta di consentire ad ogni Stato membro di avere, in seno all’organo giudicante comunitario, un esponente del proprio sistema giudiziario sicuramente incide anche sull’autorevolezza delle decisioni emesse: è cosa ovvia, infatti, che alcune pronunce, si pensi ad esempio a quelle in materia di infrazione, (14) Nel documento si legge « Per un verso, un aumento rilevante del numero dei giudici potrebbe far varcare alla formazione plenaria della Corte la linea invisibile che separa una giurisdizione collegiale da un’assemblea deliberante; inoltre, se la maggior parte delle cause fosse assegnata alle sezioni, la coerenza della giurisprudenza potrebbe venire compromessa. Per altro verso, la coesistenza di tutti i sistemi giuridici nazionali in seno alla Corte è certamente utile a uno sviluppo armonioso della giurisprudenza comunitaria, che tenga conto delle concezioni fondamentali accolte nei diversi Stati e agevoli in tal modo l’accettazione delle soluzioni a cui la Corte perviene. È poi lecito supporre che la presenza di un giudice per ciascuno Stato membro nell’organico della Corte contribuisca a rafforzare la sua legittimità ». CORTE DI GIUSTIZIA E TRIBUNALE DI PRIMO GRADO, Il futuro del sistema giurisdizionale dell’Unione Europea, maggio 1999, 22.


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possano essere considerate come un’imposizione difficile da accettare da parte degli Stati, ma alle quali è più agevole assecondare laddove si ha la garanzia che all’interno di quello stesso organo giudicante vi opera un membro, per nazionalità, rappresentativo di ogni singolo Stato. Tutto ciò è sicuramente un dato di fatto incontestabile, e giustifica le opportune garanzie di indipendenza richieste per la nomina dei giudici. La decisione di mantenere la correlazione tra il numero di giudici ed il numero di Stati membri ha comportato l’adozione di più agili modalità di funzionamento della Corte: questa, infatti, si riunisce in sezioni o in grande sezione e, laddove sia previsto dallo Statuto, anche in seduta plenaria. Quella che prima era la regola — seduta plenaria (art. 221 Trattato CE vecchia formulazione) — diviene ora l’eccezione. L’art. 16, ult. comma, dello Statuto, poi, individua le ipotesi nelle quali la Corte si riunisce in seduta plenaria: sostanzialmente, quando si tratta di dichiarare dimissionario il Mediatore, di pronunciare le dimissioni d’ufficio dei membri della Commissione e della Corte dei conti ovvero quando è la stessa Corte a decidere, sentito l’avvocato generale, di rinviare la causa alla seduta plenaria in considerazione del carattere eccezionale del giudizio innanzi ad essa pendente. Di norma, quindi, al di fuori di queste ipotesi, la Corte decide riunita in sezioni, di tre o cinque membri, oppure in grande sezione, composta di undici membri e presieduta dal presidente della Corte, « quando lo richieda uno Stato membro o un’istituzione delle Comunità che è parte in causa » (15). Nel suo operato la Corte è assistita da otto avvocati generali, anche se tale numero è solo indicativo, essendo riconosciuta al Consiglio, su richiesta della Corte e deliberando all’unanimità, la possibilità di aumentarlo. Il ruolo dell’avvocato generale è quello di presentare, in modo imparziale ed indipendente, conclusioni motivate « sulle cause che, conformemente allo Statuto, richiedono il suo intervento », illustrando ai giudici, negli esatti termini, (15) Nella vecchia formulazione dell’art. 221 Trattato CE, tale potestà delle istituzioni e degli Stati membri era ugualmente prevista ma obbligava la Corte a riunirsi in seduta plenaria.


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le problematiche giuridiche che vengono in rilievo e quella che potrebbe essere la migliore soluzione della controversia. Anche per gli avvocati generali — che come i giudici devono essere scelti tra personalità che offrano tutte le garanzie di indipendenza e che soddisfino le condizioni richieste per l’esercizio, nei rispettivi paesi, delle più alte funzioni giurisdizionali, ovvero che siano giureconsulti di notoria competenza — il Trattato di Nizza ha introdotto delle rilevanti novità. Se da una parte sembra essere stato ridimensionato il loro ruolo, dall’altra, proprio in virtù dell’alto grado di indipendenza, viene affidato al primo avvocato generale un importante potere di iniziativa in materia di riesame delle sentenze dal Tribunale (16). Ancora una volta lo Statuto della Corte completa la previsione del Trattato. L’art. 20 dello Statuto, che disciplina la procedura da seguire nei giudizi proposti innanzi alla Corte di giustizia, seppur include le conclusioni dell’avvocato generale tra le componenti ordinarie della fase orale della procedura, rompe quel nesso esistente tra l’emananda sentenza e le conclusioni dell’avvocato generale, con la previsione che la Corte, laddove ritenga che la causa non sollevi nuove questioni di diritto, sentito l’avvocato generale, può decidere « che la causa sia giudicata senza conclusioni dell’avvocato generale ». Questa previsione sembra rispondere ad esigenze di semplificazione del procedimento giurisdizionale e costituisce sicuramente uno strumento utile per snellire i processi comunitari, pur riconoscendo, al tempo stesso, la necessità che le « nuove questioni di diritto » siano oggetto di un dovuto approfondimento e confronto tra giudici ed avvocati. Sempre sul piano organizzativo, si deve ricordare che sia i giudici che gli avvocati generali della Corte sono nominati di comune accordo, per sei anni, dai governi degli Stati membri, ed ogni tre anni si procede ad un rinnovo degli stessi secondo le modalità definite nello Statuto (l’art. 9 stabilisce che ogni tre anni ci sia un rinnovo parziale che riguardi alternativamente otto o sette (16) Sul ruolo dell’avvocato generale nell’ambito della procedura di riesame, si rimanda a quanto si dirà successivamente.


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giudici (17) e, ogni volta, quattro avvocati generali); i membri della Corte e gli avvocati uscenti possono essere nuovamente nominati, cosı̀ come è rinnovabile il mandato del presidente della Corte di giustizia, designato dai giudici tra di loro per una durata di tre anni. 3.2. Come si è visto, molte norme del Trattato rinviano, per la disciplina di dettaglio (18), allo Statuto della Corte, « stabilito con un protocollo separato », che costituisce un atto importantissimo per il buon funzionamento del sistema giudiziario comunitario (19). Proprio in relazione a tale ruolo, assume un rilievo del tutto peculiare la nuova procedura stabilita a Nizza per modificare tale Statuto, che sostituisce sia lo Statuto della Corte di giustizia della Comunità europea che lo Statuto della Corte di giustizia della Comunità europea dell’energia atomica. Preliminarmente, si deve osservare che la sua inclusione in un protocollo allegato al Trattato, che costituisce parte integrante dello stesso, avrebbe comportato per ogni eventuale modifica la necessità di ricorrere al lungo iter procedurale necessario per modificare un trattato comunitario. In realtà già la precedente disciplina stabiliva la possibilità per « il Consiglio, deliberando all’unanimità su richiesta della Corte e previa consultazione della Commissione e del Parlamento » — quindi con una procedura di revisione più semplice di quella che sarebbe stata necessaria — di modificare solo le disposizioni del titolo III dello Statuto, contenente le regole di procedura. La nuova formulazione dell’art. 245 Trattato CE (20), invece, ha una portata più ampia della precedente. (17) L’art. 9 dello Statuto è stato modificato, recentemente, dall’Atto relativo alle condizioni di adesione dei primi dieci paesi dell’est, pubblicato sulla GUCE L 236 del 23 settembre 2003. L’art. 13 di tale Atto, conformandosi a quella che sarà la nuova composizione della Corte, dispone che il rinnovo parziale riguardi « alternativamente tredici e dodici giudici ». (18) Bisogna riconoscere che non sempre si tratta di una disciplina di dettaglio — si pensi ad es. alla composizione numerica della Corte — e ciò può facilmente indurre a tacciare di ambiguità le norme del trattato. (19) Il protocollo sulo statuto della Corte di giustizia è pubblicato in GUCE C 325 del 24 dicembre 2002, pp. 167-181. (20) Per un’analisi più approfondita di tale disciplina, si rinvia a M. CONDINANZI,


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Accanto alla vecchia procedura, si aggiunge l’ipotesi in cui il potere di iniziativa sia esercitato dalla Commissione e la modifica sia adottata previa consultazione del Parlamento europeo e della Corte di giustizia. Anche dal punto di vista oggettivo, le modifiche sono di non poco conto. Il Consiglio, infatti, può modificare tutte le disposizioni dello Statuto « ad eccezione del titolo I dello stesso », relativo allo statuto dei giudici e degli avvocati generali. Ex adverso, risultano quindi più facilmente modificabili importanti disposizioni, determinanti per il buon funzionamento degli organi giurisdizionali: in particolare il titolo II, contenente tutte le regole relative all’organizzazione della Corte, il titolo III, relativo alla procedura da seguire nei giudizi davanti alla Corte, ed il titolo IV, che disciplina generalmente il Tribunale di primo grado delle Comunità europee. Ancora in tema di organizzazione interna dell’istituzione, bisogna ricordare che la Corte nomina il proprio cancelliere, di cui fissa lo statuto, e stabilisce, autonomamente, il proprio regolamento di procedura che deve essere, poi, approvato dal Consiglio con una delibera adottata a maggioranza qualificata. Per quanto attiene al regolamento di procedura (che contiene tutte le disposizioni per applicare e, ove necessario, completare i principi definiti nello Statuto), i redattori del Trattato di Nizza hanno accolto l’istanza della Corte, almeno per la parte relativa ad una nuova definizione del quorum necessario per l’approvazione in Consiglio dello stesso. Nella vecchia previsione, infatti, era previsto che tale regolamento venisse approvato sempre con delibera del Consiglio, ma adottata all’unanimità (21). La stessa Corte, già prima della Conferenza intergovernativa Le innovazioni organizzative al sistema giudiziario comunitario, cit., 59 ss. Ed ancora, è stato osservato che « l’art. 245 determina una decostituzionalizzazione ed una comunitarizzazione della questione », considerato che « mentre sinora il sistema giudiziario europeo era contenuto in larga parte nei Trattati, con le innovazioni del Trattato di Nizza si prevede un sistema articolato in vari atti non primari che sviluppano i principi dei Trattati »: in questi termini M.P. CHITI, L’architettura del giudiziario europeo dopo il Trattato di Nizza: la lenta evoluzione dall’eclettismo al razionalismo, in Dir. pubbl., 2001, 974. (21) La previgente disposizione che si occupava del regolamento di procedura


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che ha portato all’adozione del trattato di Nizza, aveva manifestato delle perplessità sul punto, evidenziando come « l’approvazione unanime del Consiglio per ogni modifica del regolamento di procedura della Corte di giustizia e di quello del Tribunale di primo grado può divenire, in una Unione ampliata, un elemento di rigidità pregiudiziale al necessario adeguamento degli organi giurisdizionali ai loro nuovi compiti » (22). Ancora una volta è evidente come esigenze legate al processo di allargamento abbiano inciso sul futuro assetto della Comunità, anche considerando che questa specifica decisione si inserisce in un contesto più ampio, approvato a Nizza, tendente a sostituire, per le decisioni del Consiglio, l’unanimità con la maggioranza qualificata (23). della Corte era l’art. 245, par. 3 che recitava: « La Corte di giustizia stabilisce il proprio regolamento di procedura. Tale regolamento è sottoposto all’approvazione unanime del Consiglio ». La stessa dicitura la si rinveniva nell’art. 225, par. 4, per l’approvazione del regolamento di procedura del Tribunale. (22) In tal senso la Corte si è espressa nel documento « Contributo della Corte e del Tribunale alla conferenza intergovernativa », reperibile sul sito internet della Comunità, all’indirizzo www.curia.eu.int/it/instit/txtdocfr/autrestxts/cig.pdf. La Corte, in realtà, sosteneva la necessità di una totale e completa autonomia degli organi giurisdizionali nella definizione del proprio regolamento, proponendo, tra le modifiche da apportare al trattato, la totale soppressione della previsione relativa all’approvazione da parte del Consiglio, e, solo in via subordinata, individuava la maggioranza qualificata quale quorum necessario affinché il Consiglio approvasse il regolamento. Inoltre, ad ulteriore sostegno delle sue conclusioni richiamava la circostanza che la maggior parte delle disposizioni procedurali che rivestono un’importanza particolare, di ordine istituzionale o politico, sono già contenute nello Statuto e ricordava come ad altri giudici, quali la Corte internazionale di giustizia e la Corte europea dei diritti dell’uomo, sia riconosciuta la possibilità di adottare direttamente il loro regolamento di procedura. (23) Sicuramente quello della determinazione del quorum per l’approvazione delle delibere del Consiglio è stato il tema più controverso fra quelli affrontati durante il Consiglio europeo di Nizza. Il voto unanime per le deliberazioni del Consiglio, in un’Europa allargata a 25 paesi, in considerazione del ruolo primario che riveste tale istituzione, rischiava di portare alla paralisi della Comunità. Una riforma del sistema di votazione era, pertanto, assolutamente necessaria. Dal contesto normativo approvato a Nizza risulta, in linea generale, che prevedono l’unanimità le disposizioni di carattere costituzionale ed istituzionale e le norme relative a materie di grande interesse politico, come la fiscalità o la sicurezza sociale. Fra le ipotesi in cui è prevista la maggioranza qualificata, si devono ricordare: l’adozione delle misure di incentivazione contro le discriminazioni (art. 13 Trattato CE), l’adozione delle disposizioni tese a facilitare la libera circolazione dei cittadini dell’Unione (art. 18 Trattato CE), l’adozione delle misure in materia di cooperazione giudiziaria civile, ad esclusione degli aspetti connessi al di-


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4. Quanto all’organizzazione ed al funzionamento del Tribunale di primo grado (anche se tale denominazione comincia ad essere un po’ anacronistica) queste ricalcano quasi completamente le previsioni relative alla Corte, salvo poche differenze. Il nuovo art. 224 Trattato CE stabilisce che il Tribunale è composto di « almeno un giudice per Stato membro », utilizzando una formula più ampia e meno categorica di quella stabilita per la Corte, e lo Statuto della Corte, chiamato a completare tale disposizione, ne fissa il numero attuale in quindici (24). Tale richiamo allo Statuto, al fine della determinazione dei componenti, è importante in quanto espressione della volontà del legislatore comunitario di non cristallizzare tale organismo ma di renderlo adattabile agli eventi futuri. La formula adoperata, infatti, lascia aperta la possibilità che uno Stato membro possa avere anche più di un giudice di propria appartenenza all’interno di tale organo giudiziario, previa modifica della disposizione statutaria, ed è presumibile che su tale preritto di famiglia (art. 65, richiamato dall’art. 67 Trattato CE), la concessione di un’assistenza finanziaria comunitaria in caso di grave difficoltà in cui venga a trovarsi uno Stato membro (art. 100 Trattato CE), la determinazione della rappresentanza della Comunità a livello internazionale nell’ambito dell’UEM (art. 111 Trattato CE), l’adozione di misure specifiche di supporto all’azione degli Stati membri nel settore industriale (art. 157 Trattato CE), le azioni specifiche necessarie al di fuori dei fondi strutturali (art. 159 TR. CE), l’adozione delle misure necessarie nell’ambito delle azioni che la Comunità conduce nel settore della cooperazione economica, finanziaria e tecnica con i paesi terzi (art. 181 A Trattato CE), l’approvazione dello Statuto dei membri del Parlamento europeo (art. 190 Trattato CE), la determinazione dello Statuto dei partiti politici a livello europeo (art. 191 Trattato CE), la nomina del Presidente e dei membri della Commissione (art. 214 Trattato CE), la sostituzione di un membro della Commissione dimissionario o deceduto (art. 215 Trattato CE), la nomina dei membri della Corte dei conti e l’approvazione del suo regolamento interno (artt. 247 e 248 Trattato CE), la conclusione di un accordo internazionale previsto per attuare un’azione comune o una posizione comune (art. 24 Trattato UE). Inoltre è necessaria una maggioranza speciale (dei 4/5 dei suoi membri) affinché il Consiglio constati l’esistenza di un evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro di uno o più principi su cui si fonda l’Unione, elencati all’art. 6 par. 1. (art. 7 Trattato UE). (24) In effetti, oggi, tale indicazione numerica non rispecchia più la realtà. Con l’allargamento del 1o maggio 2004 il numero dei gudici che compongono il Tribunale è pari a 25. L’art. 48 dello Statuto della Corte è, infatti, stato modificato in tal senso dall’Atto relativo alle condizioni di adesione dei nuovi paesi, unito al relativo trattato di adesione (cfr. GUCE L 236 del 23 settembre 2003, p. 33 ss.).


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visione abbia inciso non solo l’allargamento, ma, anche e soprattutto, la capacità del Tribunale di far fronte, con un organico « modificabile », alle nuove ed importanti competenze attribuitegli. È stata introdotta anche la possibilità che il Tribunale, al pari della Corte, si avvalga di avvocati generali. Lo Statuto della Corte, nel titolo IV specificamente dedicato al Tribunale, prevede che i suoi membri possano essere chiamati ad esercitare tali funzioni, rinviando al regolamento di procedura per la determinazione delle relative cause e delle modalità di designazione. Motivi di opportunità ispirano poi la previsione per la quale il membro del Tribunale chiamato ad esercitare le funzioni di avvocato generale non può partecipare alla decisione della causa (cfr. art. 49 dello Statuto). Anche per i giudici del Tribunale — che, come i componenti della Corte, sono nominati di comune accordo per sei anni dai governi degli Stati membri, con rinnovo parziale ogni tre anni e possibilità per i membri uscenti di essere nuovamente nominati — sono state individuate delle imprescindibili condizioni di nomina: essi, infatti, devono essere scelti tra persone « che offrano tutte le garanzie di indipendenza e possiedano la capacità per l’esercizio di alte funzioni giurisdizionali ». Come per la Corte, i giudici del Tribunale designano, tra loro, il Presidente con mandato, triennale, rinnovabile e nominano un cancelliere, fissandone lo statuto. Anche il Tribunale si dota di un proprio regolamento di procedura, per la cui determinazione è prevista una procedura — limitativa dell’autonomia di tale organismo — di concertazione con la Corte; tale regolamento, cosı̀ come quello della Corte, è sottoposto all’approvazione del Consiglio che delibera a maggioranza qualificata. Per quanto riguarda il suo funzionamento, le specifiche disposizioni contenute nello Statuto ricalcano quelle relative alla Corte di giustizia. E cosı̀, il Tribunale si riunisce in sezioni, di tre o cinque membri, per la cui composizione e per l’assegnazione ad esse delle cause da trattare viene fatto espresso rinvio al regolamento


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di procedura. Sempre il regolamento interno può prevedere le ipotesi in cui il Tribunale possa riunirsi in seduta plenaria, in grande sezione ovvero statuire nella persona di un giudice unico. 5. Sicuramente, però, l’aspetto più interessante delle modifiche apportate ai trattati è quello relativo alle competenze degli organi giurisdizionali. Come detto, il legislatore comunitario ha operato una ridistribuzione delle competenze che tiene conto sia dell’attuale che del futuro carico di lavoro, ponendo in primo piano il Tribunale. Ed infatti, per quanto riguarda le competenze della Corte, il Trattato di Nizza non ha apportato grandi modifiche a quelle che erano già le sue prerogative. L’unica novità rilevante è quella contenuta nel nuovo art. 229 A Trattato CE. Tale disposizione, infatti, fornisce al Consiglio, che delibera all’unanimità su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, la possibilità di attribuire alla Corte, nella misura da esso stabilita, « la competenza a pronunciarsi su controversie connesse con l’applicazione degli atti adottati in base al presente trattato che creano titoli comunitari di proprietà industriale ». Inoltre viene posto a carico degli Stati membri l’obbligo di adottare « siffatte disposizioni conformemente alle loro rispettive norme costituzionali ». Si tratta di una competenza solo eventuale, sia dal punto di vista dell’attribuzione che dei limiti della stessa, e a carattere residuale, considerato che vengono espressamente fatte salve le altre disposizioni del presente trattato e che, ai sensi della dichiarazione 17 adottata dalla Conferenza, la norma lascia del tutto « impregiudicata la scelta del quadro giurisdizionale eventualmente definito per la trattazione del contenzioso relativo all’applicazione degli atti adottati in base al Trattato che istituisce la Comunità europea che creano titoli comunitari di proprietà industriale ». Da quanto detto si evince che la norma è una di quelle di non facile lettura, ed è da condividere l’opinione secondo la quale essa apre la strada a non pochi dubbi interpretativi, sia relativamente


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al rapporto tra giudici nazionali e comunitari sia sulla stessa necessità di attribuire una materia « molto specialistica e fattuale » alla Corte (25), laddove sarebbe stato più opportuno individuare quale giudice competente il Tribunale, anche in considerazione del fatto che è già competente a decidere, in virtù del regolamento del Consiglio n. 40/94/CE sul marchio comunitario, dei ricorsi contro le decisioni adottate in materia dall’Ufficio dell’armonizzazione nel mercato interno (UAMI). In merito a tale previsione normativa, inoltre, bisogna ricordare che è allo studio degli organi comunitari un documento di lavoro, presentato dalla Commissione, in materia di brevetto comunitario (26), che, qualora approvato, darebbe attuazione sia alla previsione dell’art. 229 A Trattato CE che a quella dell’art. 225 A Trattato CE. Oltre tale disposizione, il quadro delle competenze della Corte resta sostanzialmente immutato, almeno per il momento. Le competenze della Corte, infatti, non essendo specificamente elencate in alcuna disposizione del Trattato, si ricavano per esclusione da quelle espressamente attribuite al Tribunale. In attesa di una precisa disposizione dello Statuto che individui specificamente le attribuzioni della Corte, si deve ritenere che la stessa continuerà ad esercitare le proprie competenze in materia di procedure per inadempimento (art. 226 Trattato CE), di ricorso di annullamento (art. 230 Trattato CE) — in merito al quale va ricordato l’inserimento del Parlamento europeo fra i soggetti, (cfr. art. 230 comma 2: Stato membro, Consiglio e Commissione) che possono adire la Corte senza previamente provare un interesse (25) Cfr. M.P. CHITI, L’architettura del giudiziario europeo dopo il trattato di Nizza: la lenta evoluzione dall’eclettismo al razionalismo, cit., 976. L’autore, oltre a tali problemi, osserva che tale disposizione introduce « una nuova singolarità del sistema giurisdizionale europeo, dato che il futuro contenzioso sui titoli di proprietà intellettuale si configura con caratteri civilistici, assai diversi da quelli costituzionali ed amministrativi della tradizionale competenza della Corte ». (26) Il riferimento è al documento COM (2002) 480, adottato dalla Commissione in data 30 agosto 2002, che prevede, dopo aver conferito la relativa competenza alla Corte, l’istituzione di un apposito organo giudiziario comunitario per la definizione delle relative controversie. Circa il contenuto di tale documento di lavoro si rinvia a quanto si dirà successivamente nel testo.


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ad agire —, di ricorso in carenza (art. 232 Trattato CE), di ricorso per risarcimento (artt. 235 e 288, par. 2, Trattato CE), di rinvio pregiudiziale (art. 234 Trattato CE), nonché di ricorsi presentati in virtù di una clausola compromissoria contenuta in un contratto di diritto pubblico o di diritto privato stipulato dalla Comunità o per conto di questa (art. 238 Trattato CE), di qualsiasi controversia tra Stati membri in connessione con l’oggetto del Trattato CE, quando tale controversia le è sottoposta in virtù di un compromesso (art. 239 Trattato CE). Ciò che, secondo le disposizioni di Nizza, cambierà è la circostanza che molte di tali competenze verranno in futuro esercitate anche dal Tribunale di primo grado. Per cogliere appieno la portata delle novità introdotte, bisogna ricordare che attualmente il Tribunale è competente relativamente ai ricorsi diretti presentati da singoli e non ha alcuna competenza in relazione alle questioni pregiudiziali — la cui cognizione è espressamente vietata dalla precedente versione dell’art. 225 Trattato CE — ed ai ricorsi diretti proposti dalle istituzioni o dagli Stati membri (27). La norma di riferimento per poter comprendere il cambiamento in atto, dovuto alle nuove competenze affidate al Tribunale, è l’art. 225 Trattato CE che deve, però, essere letta in combinato disposto con l’art. 51 dello Statuto della Corte. La formulazione del primo paragrafo dell’art. 225 contiene una prima importante novità rispetto alla versione precedente. Le tipologie di ricorsi per i quali è competente a conoscere il Tribunale sono individuate in modo specifico e definitivo nella stessa disposizione e non rimesse all’adozione di una decisione ad hoc del Consiglio (28). Tali categorie, per la precisione, sono: il ri(27) Per un’analisi delle competenze del Tribunale di primo grado si rinvia a G. GERIN, La Corte di giustizia delle comunità europee. Le procedure per il ricorso, Padova, 2000, 65 ss. (28) Come detto, attualmente il Tribunale è competente a conoscere di tutti i ricorsi diretti proposti da individui, persone fisiche o giuridiche. Cfr. G. TESAURO, Diritto comunitario, Padova, 2003, 52. In particolare, il Tribunale è competente, in attuazione della decisione del Consiglio n. 88/591/CEE, modificata prima dalla decisione n. 93/ 350/CE, e, dopo, dalla decisione n. 99/291/CE, ad esercitare in primo grado le attribu-


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corso di annullamento, il ricorso in carenza, il ricorso per risarcimento, le controversie del personale ed i ricorsi sollevati in virtù di una clausola compromissoria contenuta in un contratto di diritto pubblico o di diritto privato stipulato dalla Comunità o per conto di questa. Dalla lettera della norma, che non contiene alcuna discriminante basata sul soggetto proponente, la competenza del Tribunale sembra essere di carattere generale, fatta eccezione per quei ricorsi attribuiti ad una camera giurisdizionale o a quelli che lo Statuto riserva alla Corte di giustizia. In attuazione di tale ultima previsione l’attuale formulazione dell’art. 51 dello Statuto della Corte contiene una precisazione molto importante e limitativa dell’ambito di applicazione dell’art. 225, laddove riserva alla Corte la competenza a conoscere — in deroga al par. 1, dell’art. 225 e dell’art. 140 A Trattato CEEA — dei « ricorsi proposti dagli Stati membri, dalle istituzioni delle Comunità e dalla Banca centrale europea », indipendentemente dall’oggetto degli stessi. Inoltre, restano di competenza esclusiva della Corte, presumibilmente per la gravità delle questioni sollevate, i ricorsi per inadempimento, ex artt. 226 ss. Trattato CE, che sono diretti a verificare se uno Stato sia venuto meno agli obblighi imposti dal diritto comunitario. L’elencazione delle categorie di ricorsi attribuiti alla competenza del Tribunale non è né esaustiva né tassativa. Lo stesso legislatore comunitario, infatti, ha stabilito che nello Statuto possano essere previste altre categorie di ricorsi di competenza del zioni conferite alla Corte nelle controversie tra la Comunità ed i suoi agenti (art. 236 Trattato CE e 152 Trattato CEEA); per i ricorsi promossi da persone fisiche o giuridiche contro un’istituzione ai sensi degli artt. 33, 35, 40 e 42 del Trattato CECA — anche se bisogna ricordare che, in considerazione della scomparsa della Comunità europea del Carbone e dell’Acciaio, avvenuta il 23 luglio 2003, per la scadenza del relativo trattato, si tratta di una competenza che ha ormai una valenza esclusivamente storica —; per i ricorsi promossi da persone fisiche o giuridiche contro un’istituzione ai sensi degli artt. 230, comma 2; 232, comma 3; 235 e 238 Trattato CE; e per i ricorsi promossi da persone fisiche o giuridiche ai sensi degli artt. 146, 148, 151 e 153 del Trattato CEEA. In tal senso F. POCAR, Diritto dell’unione e delle comunità europee, VII ed., Milano, 2002, 180. Inoltre, per ulteriori specificazioni, si rinvia a M. CONDINANZI, Il Tribunale di primo grado e la giurisdizione comunitaria, Milano, 1996; U. LEANZA, P. PAONE e A. SAGGIO (a cura di), Il Tribunale di primo grado della Comunità europea, Napoli, 1995.


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Tribunale (cfr. art. 225, par. 1, comma 1, ultimo periodo Trattato CE). Similmente a quanto previsto per il passato ed accogliendo quanto proposto in merito dagli organismi giurisdizionali, le decisioni emesse dal Tribunale in virtù del par. 1 dell’art. 225 sono impugnabili dinanzi alla Corte « per i soli motivi di diritto ed alle condizioni ed entro i limiti previsti dallo Statuto » (29). L’art. 58 dello Statuto, poi, specifica le motivazioni che possono essere poste a fondamento di un valido atto di impugnazione, che deve avvenire nel termine di due mesi dalla notifica della stessa. Tale impugnazione può essere fondata su motivi relativi all’incompetenza del Tribunale, a vizi di procedura dinanzi al Tribunale recanti pregiudizio agli interessi della parte ricorrente, nonché alla violazione del diritto comunitario da parte del Tribunale. Il secondo paragrafo dell’art. 225 Trattato CE inquadra il Tribunale nella sua funzione di giudice di secondo grado e prevede le ipotesi in cui, avverso tali pronunce, è ammessa la procedura di riesame dinanzi alla Corte di giustizia. Il Tribunale, infatti, è competente a conoscere dei ricorsi proposti contro le decisioni delle camere giurisdizionali e le sue decisioni possono essere, sia pur « eccezionalmente », oggetto di una, non meglio individuata, procedura di riesame, sempre alle condizioni ed entro i limiti pre(29) Nella vecchia formulazione dell’art. 225 Trattato CE era previsto che l’impugnazione delle decisioni del Tribunale potesse aver luogo « per i soli motivi di diritto e alle condizioni stabilite dallo Statuto ». La previsione di eventuali limiti stabiliti nello stesso è finalizzata, secondo alcuni, ad attribuire per il futuro « la facoltà di introdurre, attraverso apposite modifiche dello Statuto secondo la procedura di cui all’art. 245, un filtraggio dei ricorsi avverso le decisioni del Tribunale, introducendo ulteriori limitazioni senza dover necessariamente procedere ad una modifica dei trattati ». Cosı̀, A. VERRILLI, Il Trattato di Nizza, Napoli, 2001, 119. In effetti non è improbabile che nel futuro si possa procedere in una simile direzione, considerato che anche gli stessi organismi giurisdizionali sembrano orientati in tal senso. La modica apportata, in affetti, è stata proposta da Corte e Tribunale che vorrebbero consentire alla prima di limitare in alcune ipotesi l’accesso alla sua giurisdizione avverso il ricorso contro le pronunce del Tribunale, qualora (come ad esempio nel caso del marchio comunitario o per le controversie in materia di pubblico impiego) la causa sia già stata esaminata da un organo di ricorso che decide in diritto e poi dal Tribunale. In tal senso, gli organi giurisdizionali nel documento Contributo della Corte e del Tribunale alla conferenza intergovernativa, cit.


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visti dallo Statuto, « ove sussistano gravi rischi che l’unità o la coerenza del diritto comunitario siano compromesse ». Il terzo ed ultimo paragrafo dell’art. 225 Trattato CE priva la Corte della sua più importante prerogativa e crea una rottura netta con la precedente disciplina stabilita nel Trattato CE. Se nella vecchia formulazione si escludeva categoricamente che il Tribunale fosse competente a conoscere delle questioni pregiudiziali sollevate ai sensi dell’art. 234, questo nuovo paragrafo di tale articolo da una parte prevede e disciplina tale nuova attribuzione dei giudici « di primo grado » e dall’altra fa salvo quel ruolo nomofilattico, cioè di garanzia dell’uniformità interpretativa delle disposizioni normative e dell’unità del diritto, che deve continuare ad essere affidato, sia pure solo per garantire una continuità ed una coerenza logica nell’interpretazione delle norme, all’unico soggetto posto al vertice della struttura giurisdizionale (30). È ovvio che tale nuova competenza del Tribunale è idonea a minare, sia pure solo potenzialmente, quell’unità di interpretazione del diritto fino ad oggi assicurata dalla Corte ed a tal fine sono da considerare positivamente tutte quelle precauzioni che, pur sollevando alcune perplessità, ne condizionano l’esercizio. Innanzitutto, per l’individuazione delle materie specifiche in relazione alle quali il Tribunale potrà decidere in via pregiudiziale, viene fatto espresso rinvio allo Statuto, con la conseguente possibilità di modificare le stesse in tempi accettabili e secondo le necessità che con la pratica emergeranno. In secondo luogo, la norma prevede la possibilità che il Tribunale, laddove « ritenga che la causa richieda una decisione di principio che potrebbe compromettere l’unità o la coerenza del diritto comunitario », possa rinviare la stessa alla Corte affinché si pronunci. Tale dispo(30) Questa attività di supervisione della Corte sull’attività interpretativa del Tribunale, infatti, troverebbe la sua ragion d’essere nella « preoccupazione che le trasformazioni introdotte non interrompano il processo di irradiazione contemporanea ed uniforme negli ordinamenti nazionali dei principi del diritto comunitario, che è allo stesso tempo una sorveglianza sul rispetto da parte delle istituzioni nazionali (giudici, amministrazioni, ma soprattutto legislatori), di quegli stessi principi ». In tal senso, R. CALVANO, Verso un sistema di garanzie costituzionali dell’UE? La giustizia costituzionale comunitaria dopo il trattato di Nizza, in Giur. cost., 2001, 241 ss.


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sizione presenta non pochi rischi. È vero che l’obiettivo ultimo è la tutela dell’unità e della coerenza del diritto comunitario, ma la stessa è affidata ad un — eccessivo? — potere discrezionale dei giudici del Tribunale: è rimessa ad un loro giudizio una valutazione relativa alla necessità sia di risolvere una questione con una decisione di principio che di rimettere la causa alla Corte (31). Il rimedio predisposto dal legislatore per rivedere una pronuncia emessa dal Tribunale ai sensi dell’art. 234 Trattato CE è fornito, anche in questo caso, dalla procedura del riesame. La lettera di tale paragrafo dell’art. 225, riprende pedissequamente la formulazione adoperata al comma 2 del par. 2, relativo alla procedura di riesame delle pronunce del Tribunale emesse in sede di appello avverso le decisioni delle camere giurisdizionali: è infatti stabilito che le decisioni del Tribunale su questioni pregiudiziali possono essere « eccezionalmente » oggetto di riesame da parte della Corte « alle condizioni ed entro i limiti previsti dallo Statuto, ove sussistano gravi rischi che l’unità o la coerenza del diritto comunitario siano compromesse ». Quanto alla procedura per avviare il sistema del riesame, lo Statuto, all’art. 62, attribuisce un ruolo fondamentale al primo avvocato generale che, in presenza dei rischi prospettati nella norma del trattato, può proporre alla Corte la detta procedura. L’avvocato generale ha un mese di tempo, a decorrere dalla pronuncia della decisione del Tribunale, per presentare la proposta e la Corte, entro il mese successivo dalla stessa, deve decidere circa l’opportunità o meno di procedere al riesame. Inoltre, ai sensi della dichiarazione n. 15, relativa all’art. 225, par. 3 Trattato CE, la Conferenza ipotizza che la Corte, nei casi eccezionali in cui ritenga di procedere al riesame di una decisione del Tribunale su una questione pregiudiziale, debba deliberare con una procedura d’urgenza. Come espresso dalla Corte e dal Tribunale (32), non essendo possibile configurare un diritto ad impugnare le pronunce del Tri(31) Come è stato notato, si tratta di una norma che, per la sua attuazione, prevede un « esercizio di autocontrollo » da parte del Tribunale. In tal senso, P. MENGOZZI, Istituzioni di diritto comunitario e dell’Unione europea, cit., 59. (32) Cfr. documento Contributo della Corte e del Tribunale alla conferenza intergovernativa, cit.


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bunale adottate nell’ambito di tale competenza, pena un eccessivo prolungamento dei tempi di giudizio, viene da chiedersi, soprattutto in considerazione delle ripercussioni che le interpretazioni fornite hanno all’interno degli Stati membri, se la procedura di riesame da parte della Corte sia uno strumento sufficiente a garantire l’unitarietà del diritto comunitario. Ed ancora più a monte viene da chiedersi in cosa effettivamente consista tale procedura. Si tratta forse della più grande lacuna delle norme del trattato e di tale manchevolezza sembra esserne consapevole lo stesso legislatore comunitario. Emblematiche, a tale riguardo, sono le dichiarazioni n. 13 e 14, relative ai par. 2 e 3 dell’art. 225 Trattato CE. Nella prima la Conferenza, dopo aver precisato che le disposizioni essenziali relative alla procedura di riesame dovranno essere definite nello Statuto, precisa che tali disposizioni dovrebbero precisare il ruolo delle parti nel procedimento dinanzi alla Corte, gli effetti di tale procedura sull’esecutività della decisione del Tribunale nonché l’effetto della decisione della Corte sulla controversia tra le parti; nella seconda, invece, si prevede, posto che il Consiglio dovrà adottare le disposizioni necessarie per dare attuazione alle norme comunitarie sul riesame, che la procedura individuata per assicurane il funzionamento concreto costituirà oggetto di una futura valutazione. Fin qui il sistema delle competenze della Corte e del Tribunale. Si tratta di una ripartizione solo teorica il cui corretto funzionamento dipenderà dalle scelte che saranno adottate, soprattutto nello Statuto della Corte, per dare attuazione alle disposizioni adottate a Nizza. Tale condizione era ben presente al legislatore comunitario che, con la dichiarazione n. 12, relativa all’art. 225, ha invitato la Corte e la Commissione « a procedere con la massima sollecitudine a un esame complessivo della ripartizione delle competenze tra la Corte di giustizia e il Tribunale di primo grado, in particolare in materia di ricorsi diretti, e a presentare adeguate proposte in modo che possano essere esaminate dalle istanze competenti fin dall’entrata in vigore del Trattato di Nizza ». Sempre in relazione alla ripartizione delle competenze tra


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Corte e Tribunale ed in attuazione della dichiarazione n. 12 allegata al Trattato di Nizza (33), è attualmente al vaglio delle istituzioni comunitarie un progetto di decisione del Consiglio che modifica il Protocollo dello Statuto della Corte di giustizia delle comunità europee con particolare riferimento agli artt. 51 e 54 dello stesso (34). In tale progetto, premesso che non si ritiene opportuno sfruttare la possibilità di ampliare ulteriormente le competenze del tribunale applicando quanto stabilito nell’art. 225, par. 1, comma 1, ultimo periodo, e che sembra necessario riservare alla competenza della Corte sia i ricorsi per inadempimento che quelli individuati agli artt. 237 e 239 Trattato CE, vengono specificate le competenze degli organi giurisdizionali in merito ai ricorsi diretti (33) Si ricorda che con tale dichiarazione la conferenza invita la Corte e la Commissione a procedere con una massima sollecitudine ad un esame della ripartizione delle competenze tra Corte e Tribunale ed a presentare, conseguentemente, le necessarie proposte. (34) Il progetto in questione è reperibile sul sito della Comunità all’indirizzo internet www.curia.eu.int/it/instit/txtdocfr/autrestxts/51_54.htm. Poiché nel testo ci si riferisce solo alle modifiche relative all’art. 51 dello Statuto, è opportuno, per completezza espositiva, menzionare anche le ipotizzate modifiche dell’art. 54 dello stesso. In tale articolo è disciplinata, tra l’altro, l’ipotesi in cui la Corte ed il Tribunale siano investiti di cause che abbiano lo stesso oggetto, sollevino lo stesso problema interpretativo ovvero mettano in questione la validità dello stesso atto. In particolare è stabilito che « laddove si tratti di ricorsi diretti all’annullamento dello stesso atto, il Tribunale può anche declinare la propria competenza, affınché la Corte di giustizia statuisca anche su tali ricorsi », ferma restando la possibilità della Corte di sospendere il procedimento innanzi ad essa proposto in modo da far proseguire quello pendente innanzi al Tribunale. Nella proposta viene ipotizzata la possibilità di modificare tale formulazione, non ritenendola esaustiva di tutte le ipotesi in cui il Tribunale possa dichiararsi incompetente a conoscere di un ricorso d’annullamento. Ad esempio, si riterrebbe opportuna, anche in termini di celerità del procedimento giurisdizionale, l’attribuzione ad un unico giudice tanto di un ricorso contro un regolamento di base del Consiglio e quanto di un ricorso contro il regolamento, adottato dalla Commissione, di applicazione del primo. In tal senso, viene proposta una nuova formulazione dell’art. 54, comma 3, dello Statuto della Corte nei seguenti termini: « Quando la Corte e il Tribunale siano investiti di cause che abbiano lo stesso oggetto, sollevino lo stesso problema d’interpretazione o mettano in questione la validità dello stesso atto, il Tribunale, dopo aver ascoltato le parti, può sospendere il procedimento sino alla pronunzia della sentenza della Corte o, laddove si tratti di ricorsi presentati a norma dell’art. 230 del trattato CE o dell’articolo 146 del trattato CEEA, declinare la propria competenza affınché la Corte di giustizia possa statuire sui ricorsi medesimi. In presenza degli stessi presupposti, la Corte può parimenti decidere il procedimento dinanzi ad essa proposto; in tal caso prosegue il procedimento dinanzi al Tribunale ».


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ex artt. 230 e 232 Trattato CE, nonché 146 e 148 Trattato CEEA. Nello specifico, viene proposto di affidare alla competenza della Corte tali ricorsi qualora vengano presentati da uno Stato membro e siano diretti: a) contro un atto o un’astensione dal pronunciarsi del Parlamento europeo o del Consiglio o di entrambe quando è stabilito che statuiscano congiuntamente, e b) contro un atto o un’astensione dal pronunciarsi della Commissione ai sensi dell’art. 11 A Trattato CE (35). Relativamente alla prima categoria di ricorsi, sono individuate delle eccezioni. Pertanto, esulano dalla competenza della Corte i ricorsi presentati da uno Stato membro contro un atto o un’astensione dal pronunciarsi del Parlamento europeo o del Consiglio o di entrambe quando è stabilito che statuiscano congiuntamente, qualora si tratti di decisioni adottate dal Consiglio ai sensi dell’art. 88, par. 2, comma 3 Trattato CE, in materia di compatibilità di un aiuto con il mercato comune; di atti emanati dal Consiglio in forza di un suo regolamento relativo a misure di difesa commerciale ai sensi dell’art. 133 Trattato CE; ovvero di atti con cui il Consiglio esercita direttamente competenze di esecuzione in virtù di quanto disposto dall’art. 202 Trattato CE. Inoltre, si ipotizza che restino di competenza della Corte altre due tipologie di ricorsi, sempre rientranti nelle previsioni degli artt. 230 e 232: i ricorsi proposti da un’istituzione della Comunità o dalla BCE contro un atto o un’astensione dal pronunciarsi del Parlamento europeo, del Consiglio, di entrambe quando è stabilito che statuiscano congiuntamente, o della Commissione, nonché i ricorsi proposti da un’istituzione della Comunità contro un atto o un’astensione dal pronunciarsi della BCE. Come si vede, l’orientamento che supporta tale proposta è quello secondo il quale la Corte dovrebbe conservare « la sua competenza di primo ed ultimo grado soltanto nel settore dell’at(35) L’art. 11 A è stato introdotto dal Trattato di Nizza e prevede l’ipotesi in cui uno Stato membro decida di partecipare ad una cooperazione rafforzata, instaurata ai sensi dell’art. 11 dello stesso trattato. In tal caso lo Stato notifica la sua volontà al Consiglio ed alla Commissione che, entro tre mesi dalla ricezione della notifica, esprime un parere. « Entro quattro mesi dalla data di ricezione della notifica, la Commissione decide sulla richiesta e sulle eventuali misure specifiche che può ritenere necessarie ».


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tività normativa di base delle istituzioni ». È chiaro che trattandosi solo di una proposta di decisione, allo stato attuale non vi è nulla di giuridicamente rilevante, ma si tratta solo di indicazioni di massima sulle quali ipotizzare il futuro assetto delle competenze giurisdizionali. 6. L’art. 225 A, inserito nel Trattato CE dai redattori del Trattato di Nizza, conferisce al Consiglio, che delibera all’unanimità, l’importante potere di istituire delle camere giurisdizionali competenti a conoscere « in primo grado di talune categorie di ricorsi proposte in materie specifiche ». Si tratta di organismi giurisdizionali specializzati, che contribuiranno ad alleggerire il carico di lavoro della Corte e del Tribunale, per la cui istituzione è stabilita una doppia procedura che coinvolge tutte le istituzioni comunitarie: la norma infatti prevede che l’istituzione di tali camere sia deliberata dal Consiglio su proposta della Commissione, previa consultazione del Parlamento e della Corte, ovvero su richiesta della Corte, previa consultazione del Parlamento e della Commissione. La norma traccia solo a grandi linee le peculiarità di questo nuovo elemento del sistema giurisdizionale comunitario, rimettendo alla decisione istitutiva il compito di individuare la disciplina di dettaglio. Sarà il Consiglio, quindi, di volta in volta a stabilire sia le regole relative alla composizione che la portata delle competenze da conferire alle stesse, essendosi il legislatore comunitario limitato a richiedere che i loro componenti siano scelti « tra persone che offrano tutte le garanzia di indipendenza e possiedano la capacità per l’esercizio di funzioni giurisdizionali ». Esattamente come il Tribunale, le camere si dotano di un proprio regolamento di procedura, sempre secondo la tecnica della concertazione con la Corte di giustizia, che è approvato dal Consiglio all’unanimità, e ad esse si applicano le disposizioni del Trattato CE relative alla Corte di giustizia nonché lo Statuto della Corte, salvo diversa disposizione contenuta nella decisione istitutiva. Come già esposto, giudice dell’impugnazione avverso le de-


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cisioni delle camere giurisdizionali è il Tribunale di primo grado che è competente a conoscere, in via ordinaria, per i soli motivi di diritto ed, in via straordinaria, per espressa previsione della decisione istitutiva, anche per motivi di fatto. La necessità di istituire « organi abilitati a definire controversie in forma giurisdizionale » era stata formalmente sollevata nel documento contenente il « contributo della Corte e del Tribunale alla conferenza intergovernativa » e portata all’attenzione dei redattori del trattato di Nizza. In tale scritto gli organismi giurisdizionali, pur riconoscendo che nel trattato manca una base giuridica per poter procedere in tal senso, riconoscono la necessità, già attuale, di istituire organi di questo tipo, in particolare in materia di diritto della proprietà industriale e commerciale. In tale ottica, veniva proposta una sostanziale modifica dell’art. 236 Trattato CE che contenesse, accanto alla previsione di un collegio di ricorso per le controversie tra la Comunità ed i suoi agenti, la possibilità di istituire ulteriori collegi in grado di esercitare, in primo grado, competenze giurisdizionali. La peculiarità di tale proposta era contenuta nel fatto che il giudice dell’impugnazione avverso le decisioni di tali collegi era individuato nella Corte di giustizia anziché nel Tribunale di primo grado (36). I redattori del Trattato di Nizza, come visto, hanno accolto solo in parte la proposta ed hanno individuato come ambito di riferimento per un’applicazione sperimentale dell’art. 225 A proprio quello relativo al pubblico impiego, cioè alle controversie tra (36) La proposta di modifica dell’art. 236 Trattato CE, era formulata nei seguenti termini: « 1. Un collegio di ricorso, la cui composizione e le cui modalità di funzionamento sono fissate dal Consiglio conformemente all’art. 283, è competente a pronunciarsi sulle controversie tra la Comunità ed i suoi agenti. Le decisioni del collegio possono essere oggetto di ricorso dinanzi alla Corte di giustizia alle condizioni determinate dallo Statuto dei funzionari o dal regime applicabile agli altri agenti. — 2. Conformemente all’art. 225, paragrafo 3, possono essere istituiti altri collegi di ricorso incaricati di esercitare in primo grado, in talune materie specifiche, competenze giurisdizionali in forza del presente Trattato o di atti per la sua esecuzione. Le decisioni di tali collegi possono essere oggetto di ricorso dinanzi alla Corte di giustizia alle condizioni determinate dallo Statuto della Corte di giustizia secondo la procedura prevista dall’art. 225, paragrafo 3 ».


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la Comunità ed i suoi agenti (cfr. dichiarazione n. 16 allegata al Trattato di Nizza) (37). Proprio in risposta alla sollecitazione della Conferenza, la Commissione ha presentato, in data 19 novembre 2003, una proposta di decisione del Consiglio [COM (2003) 705 def.] che da un lato apporta una modifica allo Statuto della Corte di giustizia e dall’altro istituisce un Tribunale della funzione pubblica. Quanto al primo aspetto, l’art. 2 di tale proposta contiene una modifica dello Statuto della Corte di non poco conto. In particolare, si propone l’aggiunta allo stesso di un titolo VI, dedicato specificamente alle Camere giurisdizionali, e di un articolo (art. 65) secondo il quale le disposizioni relative alle competenze, alla composizione, all’organizzazione ed alla procedure delle Camere giurisdizionali sono da allegarsi allo Statuto. Procedendo in tal senso, la Commissione ha predisposto un primo allegato contenente, appunto, la disciplina relativa all’istruzione ed all’attività del Tribunale della funzione pubblica. Si tratta di una camera giurisdizionale, con sede presso il Tribunale di primo grado, competente a pronunciarsi in merito alle controversie tra la Comunità ed i suoi agenti, ai sensi dell’art. 236 Tr. CE e dell’art. 152 Tr. CEEA, comprese le controversie tra gli organi o tra gli organismi ed il loro personale, previa attribuzione di tale competenza alla Corte di giustizia (art. 1). Il Tribunale è composto di sei giudici, scelti e nominati dal Consiglio tra i candidati presentati dagli Stati membri, previa consultazione di uno specifico comitato chiamato ad esprimere un parere sull’adeguatezza degli stessi a svolgere la funzione de quo. A tale Comitato — i cui membri, designati dal Consiglio, sono scelti tra ex giudici della Corte e del Tribunale e tra giuristi di notoria competenza — è attribuita la possibilità di integrare tale parere con la presentazione di una propria lista di candidati, che « posseggono un’esperienza di alto livello adeguata alla funzione ». Ovviamente, tale funzione giudicante deve essere svolta in piena indi(37) Con tale dichiarazione, la Conferenza espressamente invita la Corte di giustizia e la Commissione a preparare quanto prima « un progetto di decisione sull’istituzione di una camera giurisdizionale competente a deliberare in primo grado in materia di controversie tra la Comunità e i suoi agenti ».


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pendenza senza che i giudici possano ricevere alcun tipo di istruzione. Quanto al funzionamento, è previsto che di norma il Tribunale della funzione pubblica si riunisca in sezioni di tre giudici, salvo casi determinati, individuati nel regolamento di procedura, in cui può riunirsi in sezioni di cinque membri; il presidente è designato dai giudici per tre anni, con mandato rinnovabile, e presiede la sezione composta da cinque giudici ed una delle due sezioni di tre giudici. Detto Tribunale si avvale dei servizi della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado e, al fine di assicurarne l’operatività, i tre presidenti dei menzionati organi giurisdizionali concordano le condizioni alle quali i funzionari e gli altri agenti addetti alla Corte o al Tribunale possano prestare servizio presso il primo. Inoltre, nell’allegato allo statuto della Corte è stabilito che il Tribunale della funzione pubblica nomini un proprio cancelliere, fissandone lo statuto, e che la procedura per i giudizi dinanzi ad esso sia disciplinata — salvo qualche eccezione — dallo Statuto della Corte integrato, laddove necessario, dal proprio regolamento di procedura. In particolare, il comma 3 dell’art. 7 dell’allegato individua un importante potere del Tribunale, stabilendo che « in ogni stato del procedimento, compreso il deposito del ricorso, il Tribunale della funzione pubblica esamina le possibilità di una composizione della controversia e si adopera per agevolare tale soluzione ». Il giudice dell’impugnazione avverso le decisioni del Tribunale della funzione pubblica è il Tribunale di primo grado che, in caso di accoglimento dell’appello, annulla la decisione impugnata e si pronuncia sulla controversia. È fatta salva la possibilità eccezionale — qualora la causa non sia matura per la decisione — di rimettere gli atti al Tribunale della funzione pubblica affinché sia quest’ultimo a giudicare. L’impugnazione dinanzi al Tribunale di primo grado può essere limitata ai soli motivi di diritto — relativi all’incompetenza del Tribunale della funzione pubblica, ai vizi di procedura verificatasi in primo grado ed idonei a pregiudicare la parte interessata,


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ovvero alla violazione del diritto comunitario da parte dei giudici di prime cure — e non ha alcun effetto sospensivo. In realtà, ancor prima di tale momento la Commissione si era attivata nel senso di rendere operativa la previsione di istituire camere giurisdizionali, adottando, in data 30 agosto 2002 un documento di lavoro [COM (2002) 480] relativo alla « prossima istituzione di un organo giudiziario per il brevetto comunitario ». Si tratta di un atto complesso ed al contempo dettagliato che, individuando negli artt. 229 A Trattato CE e 225 A Trattato CE la relativa base giuridica, configura un possibile sistema giudiziario per il brevetto comunitario e che, non costituendo ancora un atto formale dell’istituzione comunitaria, allo stato rappresenta un documento finalizzato ad ottenere un accordo di massima sui principali aspetti di tale sistema. Il documento merita di essere esaminato nelle sue linee generali per le interessanti novità che presenta. Innanzi tutto, per poter procedere alla realizzazione di tale sistema, si prospetta la necessità di attribuire espressamente alla Corte di giustizia — in quanto allo stato non vi rientra — la giurisdizione circa il relativo contenzioso, che investirà essenzialmente controversie tra privati, e si evidenzia l’opportunità di individuare un procedimento uniforme davanti ad un unico organo giudiziario comunitario, per fornire certezza alle imprese europee ed al fine di eliminare « dispendiosi procedimenti paralleli in più Stati membri ». Nell’allegato al documento, l’istituzione comunitaria prevede dettagliati suggerimenti sulle possibili disposizioni giurisdizionali da adottare, ed, in particolare, il punto di partenza è quello della necessità di avere, almeno inizialmente, un organo giurisdizionale comunitario centralizzato al fine di « garantire l’unità del diritto e la coerenza giurisprudenziale riguardo al brevetto comunitario » che costituisce un titolo unitario (38). In tale ottica, la Commissione prevede l’istituzione di una camera giurisdizionale cen(38) Il brevetto comunitario non deve essere confuso con il « brevetto europeo », che esiste fin dal 1973, quando, oggetto della Convenzione di Monaco, fu stabilita una procedura unica per il suo rilascio. Questo tipo di brevetto presenta, però, un grosso limite: esso non produce gli stessi effetti nell’intero territorio della comunità, ma garan-


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trale, denominata Tribunale del brevetto comunitario che verrà ad affiancare il Tribunale di primo grado, e che avrà sede presso lo stesso. Il Tribunale del brevetto comunitario dovrà essere composto di sette giudici, quattro « giuristi » e tre « esperti ». I giuristi dovranno dimostrare una sufficiente esperienza nel campo dei brevetti, e gli esperti dovranno essere scelti tra persone specializzate nei tre principali rami della tecnologia — chimica, fisica e meccanica — e la loro presenza consentirà al Tribunale di capire e di risolvere rapidamente quegli aspetti tecnici insiti in tali tipologie di controversie che rappresentano l’aspetto più problematico delle stesse. Proprio questa peculiarità della sua natura giuridica consentirà a tale Tribunale di emettere decisioni di alta qualità che potranno essere oggetto di impugnazione innanzi al Tribunale di primo grado. Quanto alla sua struttura, il Tribunale inizialmente sarà composto di un’unica camera giurisdizionale centralizzata — che potrà celebrare procedimenti anche direttamente negli Stati membri qualora lo richieda la natura di un determinato caso — per poi decentrarsi in ulteriori camere regionali, da istituirsi in funzione dell’aumento del volume del contenzioso. Quanto alle competenze di tale camera giurisdizionale, nel progetto di articolato elaborato dalla Commissione si legge che « il Tribunale del brevetto comunitario avrà giurisdizione esclusiva di primo grado tisce una tutela solo nei paesi individuati dal depositante ed ogni Stato membro conserva una propria giurisdizione in ipotesi di controversie. Proprio per colmare queste lacune, la Commissione ha presentato, nell’agosto 2000, una proposta di regolamento del Consiglio [COM (2000) 412] sul brevetto comunitario. Dopo un lungo periodo di empasse e lunghe discussioni, in Consiglio competitività, nel marzo 2003, l’idea di fondo del brevetto comunitario — cioè quella di istituire un brevetto che presenti i caratteri dell’unità e dell’autonomia e che sia in grado di fornire al depositante, mediante un sistema giurisdizionale accentrato, una tutela più efficace delle proprie ragioni — è finalmente stata oggetto di intesa da parte dei ministri europei. La differenza principale rispetto al brevetto europeo è data proprio dalla circostanza che il nuovo brevetto costituirà un titolo unico valido in tutto il territorio dell’Unione europea e conseguentemente permetterà la riduzione dei costi per la brevettazione delle invenzioni in Europa. Sul concetto di brevetto comunitario e per un’analisi della proposta di regolamento della Commissione si rinvia a: M. BERTUZZI, Il nuovo brevetto comunitario, in Europa e diritto privato, 2001, 191 ss.; G. DRAGOTTI, Alcune osservazioni sulla Proposta di Regolamento del Consiglio relativa al Brevetto comunitario, in Riv. dir. ind., 2001, 28 ss.; P. GELATO, Brevi note sul brevetto comunitario, in Contratto e Impresa/Europa, 2000, 835 ss.


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nelle controversie relative all’applicazione del regolamento sul brevetto comunitario, nella misura in cui tale giurisdizione è conferita alla Corte di giustizia dall’articolo 1 » della relativa decisione. La giurisdizione attribuita al Tribunale avrà ambito di applicazione piuttosto ampio ed è stabilito che conosca sia della validità che delle infrazioni ai brevetti: come si legge nella nota di commento all’articolo, è previsto che essa comprenderà i provvedimenti temporanei relativi alla validità ed alla violazione di un brevetto comunitario, all’uso dell’invenzione successivamente alla pubblicazione della domanda di brevetto comunitario, ai diritti basati sull’uso precedente dell’invenzione nonché alle richieste di limitazione del brevetto comunitario e la dichiarazione di scadenza di tale brevetto. Le decisioni dell’Ufficio europeo dei brevetti, invece, in quanto soggette a specifici meccanismi di revisione all’interno della Convenzione sul brevetto europeo, non dovrebbero rientrare nella giurisdizione di tale organo speciale, cosı̀ come le decisioni della Commissione sulle licenze obbligatorie ai sensi del regolamento sul brevetto comunitario. Entrambe impugnabili dinanzi al Tribunale di primo grado. Come detto allo stato attuale tale documento di lavoro non possiede formalmente alcun valore giuridico essendosi ogni discussione arenata in sede di Consiglio competitività. Nelle more del dibattito politico sulle modalità di attuazione di un nuovo sistema giudiziario relativo al brevetto comunitario, in data 3 marzo 2003 all’interno di tale consesso è stato, però, raggiunto un importante « accordo politico comune » (39) che contiene delle indicazioni di massima relative all’istituendo sistema giurisdizionale, che solo in parte riprendono quanto stabilito nel citato documento di lavoro della Commissione. In tale accordo vengono dapprima stabiliti i principi generali sui quali deve essere basato il sistema giurisdizionale del brevetto comunitario — un Tribunale unitario, (39) I termini precisi dell’accordo politico raggiunto durante la riunione n. 2490 del Consiglio competitività del 3 marzo 2003, sono recuperabili sul sito internet della Comunità all’indirizzo www.consilium.eu.int/pressData/it/intm.74836.pdf. Si ricordi che tale accordo si inserisce nell’iter di approvazione della proposta di regolamento del Consiglio [COM (2000) 412], sul brevetto comunitario, predisposta dalla Commissione.


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l’alta qualità dei lavori, la prossimità agli utenti ed ai potenziali utenti ed una riduzione dei costi operativi — e successivamente è concordata l’attribuzione della giurisdizione esclusiva alla Corte di giustizia « sui ricorsi per invalidità e sui procedimenti per infrazione, sui ricorsi per una dichiarazione di non infrazione, sui ricorsi relativi all’uso del brevetto e al diritto basato sul precedente impiego del brevetto, e sulle richieste di limitazione, sulle controrivendicazioni per invalidità e le domande di dichiarazione di decadenza, ivi comprese le richieste di provvedimenti provvisori ». A tutto ciò vanno aggiunti i procedimenti e le azioni volti a reclamare i danni. Anche in tale accordo è stabilita la costituzione, con decisione del Consiglio da adottare ai sensi dell’art. 225 A Trattato CE, di una camera giurisdizionale, il Tribunale del brevetto comunitario, competente a conoscere in primo grado di tali controversie, da affiancare al Tribunale di primo grado e con sede presso lo stesso. Viene ripresa la possibilità per il Tribunale di tenere udienze nei diversi Stati membri, scomparendo ogni richiamo alla possibilità di decentramento dello stesso, mentre qualche novità riguarda la sua composizione. Nell’accordo si parla di giudici — che devono essere scelti tra persone che possiedono « un elevato livello consolidato d’esperienza di legislazione brevettuale » — assistiti da esperti tecnici durante la trattazione della causa, scomparendo ogni riferimento ad una composizione mista del collegio giudicante. Il Tribunale di primo grado è il giudice dell’impugnazione avverso le decisioni del Tribunale del brevetto comunitario, che delibera in sezioni di tre giudici e che deve essere istituito entro il 2010. Nelle more di tale istituzione è stabilito, inoltre, che ciascuno Stato membro possa designare un numero ristretto di tribunali nazionali investiti della giurisdizione sui ricorsi in materia di brevetto comunitario. Tale accordo, pur non rivestendo i crismi della formalità, è una chiara manifestazione della volontà di dare attuazione alla previsione dell’art. 225 A Trattato CE e rappresenta un significativo passo in avanti in tale direzione. L’aver posto le basi per una riforma della materia non è però sufficiente. È necessario che il


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Consiglio adotti in un atto normativo formale in cui trasfondere tale accordo. Da quanto detto si può evincere che questo primo ambito di applicazione delle camere giurisdizionali pone in rilievo una questione che con il tempo diverrà di fondamentale importanza nel processo di riforma avviato. Le camere giurisdizionali, infatti, secondo l’orientamento delineato, interverranno in rapporti di natura privatistica e ciò consentirà un accostamento con la figura del giudice civile, laddove inizialmente il magistrato europeo era orientato ad agire piuttosto come un giudice amministrativo, di legittimità, nei giudizi in cui una parte era un soggetto rappresentativo del « potere » comunitario (40). 7. Per completezza espositiva è necessario soffermarsi brevemente, prima di concludere la disamina, sulle novità, invero poche, introdotte nel recente il progetto di Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa. Anche in tal caso è chiaro che qualsiasi valutazione definitiva dovrà essere posticipata al momento in cui tale atto sarà formalmente adottato e qualsiasi giudizio sulla versione attuale deve tener conto del fatto che si tratta di una stesura provvisoria, non ancora approvata per il mancato accordo fra tutti gli Stati membri durante i lavori della Conferenza intergovernativa di Roma. Già con il Consiglio europeo di Nizza, il problema del futuro dell’Unione europea si è imposto come oggetto, in virtù dell’allargamento della Comunità, di un dibattito istituzionale che ha indotto i quindici capi di Stato e di Governo, riuniti a Laeken nel dicembre 2001, a convocare una Convenzione sull’avvenire dell’Europa al fine di far redigere un testo che avrebbe costituito la base di discussione per la successiva Conferenza intergovernativa (40) Per un’analisi del sistema europeo di tutela giurisdizionale amministrativa e dei principi che reggono il processo amministrativo europeo, con espresso richiamo ad importanti decisioni delle corti comunitarie, si rimanda a D. DE PRETIS, La tutela giurisdizionale amministrativa europea e i principi del processo, in Riv. trim. dir. pubbl., 2002, 683 ss.


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che avrà il compito di elaborare le riforme istituzionali della nuova Europa (41). In data 12 giugno 2003 la Convenzione ha adottato il documento finale contenente una bozza della futura costituzione dell’Unione europea, che è stata presentata nel corso del Consiglio europeo di Salonicco del 20 giugno 2003. La redazione di un trattato costituzionale unico, che sostituisse i vari trattati comunitari, era senza dubbio un compito arduo da realizzare, soprattutto tenendo presente il mandato conferito ai membri della Convenzione (42). Come si legge nella relazione del presidente della Convenzione, Giscard d’Estaing, di presentazione del testo ai membri del Consiglio europeo di Salonicco, il progetto soddisfa « la richiesta di chiarimento e semplificazione del sistema europeo e il varo degli strumenti nuovi che consentiranno di andare nella direzione di “più Europa” (...) e di soddisfare le esigenze di sicurezza e giustizia, e di una politica estera e di sicurezza comune, fino ad oggi espresse dai tre pilastri di Maastricht e di Amsterdam » (43). In altre parole, si trattava di mettere ordine in un sistema che cominciava ad apparire « vecchio » se rapportato all’incalzante succedersi degli avvenimenti. Il progetto è costituito da quattro parti, introdotte da un preambolo. La prima è la parte « costituzionale » vera e propria, contenente disposizioni relative all’Unione che spaziano dalla identificazione dei suoi valori e dei suoi obiettivi, alle istituzioni, nonché alla ripartizione delle competenze fra la Comunità europea e gli Stati membri; la parte seconda contiene la Carta dei diritti fondamentali (44), che acquista cosı̀ valore giuridico; la parte (41) Per una disamina delle questioni affrontate durante il Consiglio europeo di Laeken e del mandato conferito alla Convenzione, si rimanda a G.P. ORSELLO, Ordinamento comunitario e Unione europea, Milano, 2003, 217 ss. (42) Per un approfondimento dell’argomento si vada: F. CLEMENTI, La Convenzione sull’avvenire dell’Europa: il mandato, l’organizzazione, i lavori, in F. BASSANINI e G. TIBERI, Una Costituzione per l’Europa. Dalla Convenzione europea alla Conferenza Intergovernativa, Bologna, 2003, 23 ss. (43) Tale relazione è reperibile sul sito della Convenzione, all’indirizzo intrenet www.european-convention.eu.int/docs/Treaty/VGE_it.pdf. (44) Per un’analisi della Carta dei diritti fondamentali che, si ricorda, fu proclamata a Nizza, si rinvia a: R. BIFULCO, M. CARTABIA e A. CELOTTO (a cura di), L’Europa


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terza stabilisce le disposizioni relative alle politiche dell’Unione mentre la parte quarta individua le clausole finali. Per quanto riguarda il sistema giurisdizionale europeo, l’architettura definita nel progetto di costituzione riprende essenzialmente le novità di Nizza, salvo qualche piccola modifica. Come si è detto in precedenza, la prima constatazione da fare è che tra le istituzioni dell’Unione, non è menzionato il Tribunale — tra l’altro non più definito di Primo grado — ma la sola Corte di giustizia. Il mancato riferimento al Tribunale nell’elenco delle istituzioni trova però una giustificazione nel fatto che il richiamo alla Corte non deve essere inteso come un richiamo all’istituzione dei diritti. Commento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Bologna, 2001; A. MANZELLA, P. MELOGRANI, E. PALIOTTI, S. RODOTÀ, Riscrivere i diritti in Europa, Bologna, 2001; L. FERRARI BRAVO, F. M. DI MAJO, A. RIZZO, Carta dei diritti fondamenta dell’Unione europea, Milano, 2001; M. PANEBIANCO, Repertorio della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, Milano, 2001; A. PACE, A che serve la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea? Appunti preliminari, in Giur. cost., 2001, I, 193 ss.. Inoltre, si rimanda a: G. ZAGREBELSKY, Diritti e Costituzione nell’Unione europea, Roma-Bari, 2003, P. COSTANZO (a cura di), La Carta Europea dei diritti, Atti del convegno di Genova del 16-17 marzo 2001, Genova, 2002 e A. PIZZORUSSO, Il patrimonio costituzionale europeo, Bologna, 2002. In particolare, poi, sul tema della Giustizia nella Carta: R. ROMBOLI, La Giustizia nella Carta dei diritti di Nizza. Osservazioni sull’art. 47, in Rass. dir. pubbl., 2003, n. 1, 9 ss. Per quanto riguarda i rapporti tra la giustizia nella Carta dei diritti fondamentali ed il Progetto di Trattato di Costituzione, si veda M.P. CHITI, Le norme sulla giurisdizione, in F. BASSANINI e G. TIBERI, Una Costituzione per l’Europa. Dalla Convenzione europea alla Conferenza Intergovernativa, Bologna, 2003, 139. Nello specifico, parlando della proposta di Costituzione elaborata dalla Convenzione, l’Autore nota che « la spiegazione apparente della scelta di non inserire nella parte I una disposizione generale sul diritto di ciascun soggetto ad agire per la tutela dei propri diritti sta nella circostanza che la Carta dei diritti fondamentali un titolo sulla giustizia (il VI) ed uno specifico articolo (art. II-47) sul diritto ad un ricorso effettivo e ad un giudice imparziale. Il fatto è che per evitare una defatigante e rischiosa discussione sulla riscrittura della Carta, questa è stata inserita quasi tal quale nella parte II ». Partendo da questa premessa, l’Autore constata che, invece, « un testo opportunamente articolato avrebbe dovuto evidenziare nella parte I i principi sulla “giustizia”, eventualmente poi articolati nella più dettagliata parte II, per fare si che in Costituzione fosse chiaramente riconosciuto il ruolo dei singoli quali soggetti dell’ordinamento giuridico europeo ». Questa riflessione induce poi a ritenere che nel testo del progetto di Costituzione è stata determinata una situazione tale per cui « mentre la parte II ha la tradizionale configurazione sui diritti, la parte I tratta della Corte di giustizia in termini eminentemente istituzionali quale organismo dedicato in principio a garantire l’assetto dell’Unione nella prospettiva dell’integrazione più che in quella della garanzia dei diritti ».


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tout court, ma all’intero sistema giurisdizionale. Ed invero, laddove si procede all’esame delle varie istituzioni si legge espressamente che « La Corte di giustizia comprende la Corte di giustizia europea, il Tribunale e i tribunali specializzati ». Quanto alla composizione, sia della Corte che del Tribunale, vengono riprese le formule adottate a Nizza, per cui la prima sarà composta da un giudice per Stato membro ed il secondo da almeno un giudice per Stato membro, con rinvio allo Statuto della Corte per l’individuazione del numero esatto. La Corte, che si riunisce in sezioni, in grande sezione o in seduta plenaria, è assistita da otto avvocati generali con facoltà per il Consiglio, deliberando all’unanimità, di aumentare tale numero. Lo Statuto della Corte determina le cause che richiedono l’intervento dell’avvocato generale che, nelle stesse, deve presentare pubblicamente, con assoluta imparzialità e piena indipendenza le conclusioni motivate. Sempre nello Statuto, inoltre, può essere prevista la possibilità che anche il Tribunale si avvalga di avvocati generali. Per quanto riguarda la nomina, nel progetto viene stabilito che i giudici e gli avvocati generali della Corte nonché i giudici del Tribunale siano scelti tra coloro che offrano tutte le garanzie di indipendenza e che possiedano tutti i requisiti richiesti, e che siano nominati per sei anni di comune accordo dai governi degli Stati membri, previa consultazione di uno specifico comitato. La novità prevista nel progetto è rappresentata proprio da questo comitato consultivo che ha il compito di fornire un parere « sull’adeguatezza dei candidati all’esercizio delle funzioni di giudice e di avvocato generale della Corte di giustizia europea e del Tribunale ». Tale comitato è costituito da sette componenti scelti tra ex membri della Corte e del Tribunale, membri dei massimi organi giurisdizionali nazionali e giuristi di notoria competenza, nominati dal Consiglio. Sia la Corte che il Tribunale — quest’ultimo sempre secondo la procedura della concertazione con la prima — si dotano di un proprio regolamento di procedura, che deve essere sottoposto all’approvazione del Consiglio: la peculiarità della formula utiliz-


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zata consiste nel fatto che, diversamente da quanto deciso a Nizza, non vi è più alcun riferimento alla maggioranza necessaria per procedere a tale approvazione. Quanto alle competenze del Tribunale, l’art. 260 del progetto di costituzione riporta pedissequamente la formulazione dell’art. 225 introdotta a Nizza, non apportando alcun tipo di innovazione. Le camere giurisdizionali saranno istituite presso il Tribunale con legge europea — adottata su proposta della Commissione previa consultazione della Corte o su richiesta della Corte previa consultazione della Commissione — ed il progetto ne modifica la denominazione indicandole come « tribunali specializzati ». Per il resto l’articolo del progetto ricalca la disposizione dell’art. 225 A Trattato CE, introdotta a Nizza.


giurisprudenza annotata

I o

T.A.R. VENETO, Sez. III, 1 febbraio 2003, n. 914 - Pres. ed Est. Zuballi - N.H.B.M. (avv. Panella) c. Ministero dell’interno. Giustizia amministrativa - Oggetto del processo - Vizi del provvedimento impugnato di natura formale - Interesse al ricorso - Non sussiste. Poiché il giudizio amministrativo si sta evolvendo a giudizio sul rapporto non può essere pronunciato l’annullamento di un provvedimento per ragioni meramente formali qualora l’interessato non possa ottenere alcun vantaggio per l’acclarata mancanza dei requisiti per ottenere il bene della vita sperato (1). II o

T.A.R. VENETO, Sez. III, 1 febbraio 2003, n. 916 - Pres. ed Est. Zuballi - T.G. (avv. Guida) c. Ministero dell’interno. Giustizia amministrativa - Oggetto del processo - Vizi formali del provvedimento impugnato - Non sussistono - Meritevolezza della situazione sostanziale dedotta in giudizio - Accoglimento del ricorso. Poiché il giudizio amministrativo si sta evolvendo a giudizio sul rapporto può essere pronunciato l’annullamento di un provvedimento pure immune dei vizi formali lamentati in ricorso qualora ciò consenta al ricorrente di ottenere il bene della vita sperato (2). I DIRITTO. — In via preliminare questo collegio ritiene che, sulla base dei principi costituzionali nonché per evidenti ragioni di economicità del sistema, il giudizio amministrativo si stia evolvendo da un’attività ancorata esclusivamente alla natura impugnatoria e demolitoria dell’atto, a un giudizio sul rapporto, con una concreta incidenza quindi sull’assetto della rela-


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zione intercorrente tra l’interessato e l’amministrazione. Su questo punto si veda la recente sentenza del Cons. Stato, Sez. VI del 10 luglio 2001 n. 3803. In questo quadro evolutivo della giustizia amministrativa, la pronuncia del giudice non deve limitarsi all’annullamento dell’atto, ma deve estendere la verifica alla sussistenza dei presupposti necessari per il soddisfacimento concreto del bene della vita cui mira il ricorrente. Se tale innovativo modus decidendi si risolve spesso a favore del ricorrente, talvolta è vero il contrario, per cui risulta superfluo l’annullamento di un provvedimento per mere ragioni formali, qualora l’interessato non possa ottenere alcun vantaggio da detto annullamento per la acclarata mancanza dei requisiti per ottenere il bene della vita sperato. Nel caso in discussione ci troviamo proprio in questa fattispecie, perché l’annullamento del diniego di permesso di soggiorno non potrebbe giovare in alcun modo al ricorrente, in capo al quale non potrebbe mai essere rilasciato un permesso di soggiorno, in quanto risulta depositato agli atti un precedente decreto di espulsione, mai revocato e non contestato se non genericamente dal ricorrente stesso. L’avviso di avvio del procedimento non potrebbe in sostanza giovare allo straniero né fargli ottenere il permesso cui aspira. Per tutte le succitate ragioni il ricorso va rigettato, anche se sussistono validi motivi per compensare tra le parti le spese di giudizio. II DIRITTO. — Va premesso che questo collegio ritiene che, sulla base dei principi costituzionali nonché per evidenti ragioni di economicità del sistema, il giudizio amministrativo si stia evolvendo da un’attività ancorata esclusivamente alla natura impugnatoria e demolitoria dell’atto, a un giudizio sul rapporto, con una concreta incidenza quindi sull’assetto della relazione intercorrente tra l’interessato e l’amministrazione. Su questo punto si veda la recente sentenza del Cons. Stato, Sez. VI del 10 luglio 2001 n. 3803. In questo quadro evolutivo della giustizia amministrativa, la pronuncia del giudice non deve limitarsi all’annullamento dell’atto, ma deve estendere la verifica alla sussistenza dei presupposti necessari per il soddisfacimento concreto del bene della vita cui mira il ricorrente. Se talvolta tale innovativo modus decidendi si risolve a sfavore del ricorrente, qualora l’eventuale rimozione di un vizio formale ovvero procedurale non farebbe in alcun modo conseguire all’interessato i beni della vita cui aspira, talaltra invece la piena sussistenza dei requisiti previsti dalla legge per ottenere il beneficio richiesto, può far superare eventuali carenze formali nelle domande formulate dall’interessato. Nel caso in discussione ci troviamo proprio in quest’ultima fattispe-


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cie, perché in capo al ricorrente sussistono pacificamente tutti i requisiti necessari per ottenere la richiesta regolarizzazione, vale a dire l’alloggio, il lavoro, la presenza in Italia alla data prevista, e soprattutto il pieno inserimento nel contesto sociale. Va poi rilevato come, correlativamente, non sussista alcuna causa ostativa alla concessione del permesso di soggiorno. L’unico ostacolo a tale concessione consiste nella circostanza che lo straniero, avendo ottenuto dal TAR per il Lazio un’istanza cautelare favorevole, non ha presentato domanda di regolarizzazione in attesa della pronuncia definitiva. L’istanza proposta quindi appare chiaramente tardiva, anche se giustificata dall’affidamento che si era ingenerato nell’interessato. Peraltro, sulla base proprio delle considerazioni generali sopra enunciate, per cui il presente giudizio amministrativo deve incentrarsi più sul rapporto che sull’atto amministrativo e considerato che il ricorrente gode di tutti i requisiti per ottenere la regolarizzazione, il presente ricorso può trovare accoglimento e il provvedimento impugnato va annullato, per cui l’amministrazione dovrà concedere all’interessato il permesso richiesto, beninteso ove nel frattempo non siano sorte ulteriori e allo stato non note cause impeditive. La parziale novità delle questioni trattate induce il collegio a compensare tra le parti le cause le spese di giudizio.

(1-2)

Pronuncia sul rapporto: nuove ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amminsitrativo?

« ... questo collegio ritiene che, sulla base dei principi costituzionali nonché per evidenti ragioni di economicità del sistema, il giudizio amministrativo si stia evolvendo da un’attività ancorata esclusivamente alla natura impugnatoria e demolitoria dell’atto, a un giudizio sul rapporto, con una concreta incidenza quindi sull’assetto della relazione intercorrente tra l’interessato e l’amministrazione [...]. In questo quadro evolutivo della giustizia amministrativa, la pronuncia del giudice non deve limitarsi all’annullamento dell’atto, ma deve estendere la verifica alla sussistenza dei presupposti necessari per il soddisfacimento concreto del bene della vita cui mira il ricorrente » (1). L’assunto — con cui programmaticamente si apre la parte in (1) Le sentenze annotate richiamano a sostegno della propria tesi la pronuncia del Cons. Stato, Sez. VI, 10 luglio 2001 n. 3803, che rimetteva all’Ad. plen. l’esatta portata dell’art. 21-bis l. n. 1034 del 1971. Com’è noto il massimo consesso giurisdizionale amministrativo era chiamato a pronunciarsi sulla questione se la cognizione del


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diritto di entrambe le sentenze qui annotate — ha sicuramente il potere di sorprendere di primo acchito la maggior parte dei cultori del diritto processuale amministrativo. Sennonché lo stato cui è giunta la dottrina in ordine al carattere sostanziale degli interessi legittimi, con l’oramai acquisita rinuncia a battaglie di retroguardia, impone di individuare tutte le possibili conseguenze — favorevoli e sfavorevoli — di una pronuncia del giudice amministrativo sul rapporto: dal valore del giudicato, al potere della p.a. di determinarsi nuovamente sullo stesso oggetto (rectius sullo stesso rapporto), sulla posizione dei terzi e, in particolar modo, del controinteressato, denunciando l’insufficienza degli attuali criteri per la sua individuazione ai fini dell’ammissibilità del ricorso, in un giudizio che definirà un rapporto di cui egli è parte in ogni senso. Sicché la sensazione che l’orientamento inaugurato dal Tar Veneto produca nuove ipotesi di giurisdizione esclusiva è solo una delle osservazioni possibili, ma ben altre ve ne sono — più o meno consapute — dai più immediati risvolti pratici e ricche di altrettali profili teorici. Per dar conto appieno delle due pronunce venete conviene richiamare sinteticamente la vicenda sottostante ciascuna sentenza, anche perché proprio quel rapporto è dichiaratamente fatto oggetto della cognizione del giudice amministrativo veneziano. Il primo caso riguardava un cittadino tunisino, già ricorrente giudice amministrativo adito con il « ricorso avverso il silenzio » sia limitata all’accertamento della illegittimità dell’inerzia dell’amministrazione, ovvero si estenda all’esame della fondatezza della pretesa sostanziale del privato. Con la pronuncia n. 1 del 2002 le sezioni giurisdizionali riunite hanno sposato la prima tesi, principalmente sulla considerazione che l’art. 21-bis identifica l’oggetto del ricorso nel « silenzio » (comma 1), senza fare alcun riferimento alla pretesa sostanziale del ricorrente. Poiché, in linea di principio, i poteri cognitori del giudice sono delimitati dal ricorso (art. 112 c.p.c.: « il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa »), se ne deve dedurre che il legislatore ha inteso circoscrivere il giudizio alla inattività dell’amministrazione. La decisione della plenaria, però, non entrava maggiormente nella questione della giurisdizione sul rapporto come l’ordinanza di remissione sembrava auspicare, quando concludeva che « il dovere di provvedere deve quindi essere verificato in concreto in relazione non ad una pronuncia qualsiasi, ma ad una pronuncia di contenuto positivo relativa al richiesto provvedimento satisfattorio per il privato, tenuto anche conto che, come già detto, non sarebbe utile imporre all’amministrazione l’obbligo di una decisione espressa in presenza di una pretesa manifestamente infondata ».


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vittorioso avverso un primo diniego di permesso di soggiorno, che avversa un nuovo diniego, adottato in seguito ad un provvedimento di espulsione della Questura di Agrigento. Afferma il ricorrente di non aver avuto comunicazione dell’avvio del procedimento, con lesione della sua posizione difensiva circa la validità o meno del provvedimento presupposto, cioè il decreto di espulsione emanato dalla Questura agrigentina. Il secondo caso riguardava un cittadino albanese che aveva ottenuto dal Tar Lazio la sospensione in via cautelare del provvedimento di espulsione. Nelle more del giudizio amministrativo egli non si era preoccupato di presentare alcuna istanza di sanatoria, sicché la reiezione nel merito del ricorso radicato a Roma, evidentemente inopinata, lo vedeva privo di un valido titolo per restare nel nostro Paese, pur se ricorrevano con tutta evidenza le condizioni per rimanervi. Il giudice amministrativo veneziano percepisce che nel primo caso l’annullamento per un vizio formale — la mancata comunicazione di avvio del procedimento — non consentirebbe comunque al ricorrente la permanenza in Italia, non sussistendo i requisiti; cosı̀ come percepisce che per il secondo, al contrario, solo un vizio formale — la mancata presentazione della sanatoria nei termini — non gli consente di far valere quei requisiti per la permanenza in Italia, che pure sussistono. E si aggiunga che la mancata presentazione della sanatoria è stata indotta dall’affidamento (seppur mal riposto) ingenerato dalla pronuncia cautelare favorevole del giudice amministrativo romano. Ecco allora che la cognizione viene spinta oltre la sussistenza o meno del vizio, per vedere se l’accoglimento del ricorso può portare o negare il bene della vita cui il privato, mediante il ricorso, aspira. L’effetto demolitorio viene quindi riconosciuto come strumentale per l’affermazione di un principio di diritto, per il riconoscimento di una situazione giuridica soggettiva. Un tanto significa la possibilità di sentenze del giudice amministrativo aventi anche natura dichiarativa, aspetto già acquisito dalla dottrina più attenta (2), ed ormai più o meno apertamente accolto (2)

Che la sentenza del giudice amministrativo abbia sempre natura dichiarativa


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dalla giurisprudenza che vi intravede un ampliamento del proprio margine di azione (3). Qui, però, si va ben oltre il generico riferimento ad una concezione sostanzialistica degli interessi legittimi. Le sentenze annotate, infatti, si interrogano rispettivamente sul vantaggio che riceverebbe il cittadino tunisino dall’annullamento di un diniego di soggiorno per mancata comunicazione di avvio del procedimento, quando comunque il provvedimento sarà reiterato, con le dovute formalità, e lo svantaggio del cittadino albanese per la conferma di un diniego di soggiorno, quando sussistono tutti i requisiti per la sua permanenza in Italia. In entrambi i casi, dunque, il collegio si spinge oltre il provvedimento impugnato, per guardare la situazione concretamente fatta valere. Questo, come si diceva, apre la riflessione su diversi punti. Il primo è proprio la nozione di interesse ad agire, di cui all’art. 100 c.p.c., con le sue specificità dell’importazione nel processo amministrativo. Viene da osservare che se il giudice ordinario guarda alla situazione giuridica sostanziale fatta valere, anche l’interesse al ricorso dovrebbe essere rapportato a quella, cioè all’utilità in concreto rappresentata dal privato con l’azione esperita. Si potrebbe dire, cioè, che la valutazione dell’interesse ad agire, ai fini della proponibilità del ricorso, non dovrebbe essere tanto commisurato alla demolizione del provvedimento fatto oggetto di impugnazione, quanto piuttosto all’utilità sottostante, alla situazione — di fatto o di diritto — fatta valere: se questa è commendevole di tutela per l’ordinamento, vi sarà l’interesse ad agire, altrimenti no. A ben guardare, tuttavia, questa costruzione, che è conseguente ad una prospettiva « sostanzialistica » dell’interesse e che l’effetto costitutivo (demolitorio) sia conseguenza dell’accertamento dell’illegittimità del provvedimento impugnato è sostenuto con il consueto vigore argomentativo da F. VOLPE, Le espropriazioni amministrative senza potere, Padova, 1996. cfr. altresı̀ I. FRANCO, L’oggetto del giudizio dopo la riforma della giurisdizione esclusiva ex d.lgs. n. 80/98. Tipologie di illegittimità e reintegrazione patrimoniale, con particolare riguardo agli atti di pianificazione del territorio, in questa Rivista, 2001, 407 che affronta la tematica, trattata anche da altri, della graduazione e dell’assorbimento dei motivi. (3) Sul punto cfr. L. MARUOTTI, Il giudicato, in S. CASSESE (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, IV, Milano, 2000, 3365, specialmente 3372. Più ampiamente, è caro ricordare F. BENVENUTI, Giudicato (dir. amm.), in Enc. dir., XVIII, Milano, 1969, 89.


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rappresentato, descrive esattamente quanto già accade: il giudice amministrativo non valuta l’interesse ad agire sul provvedimento in sé (che pure resta l’oggetto del giudizio), ma l’utilità derivante dalla rimozione del provvedimento. E fin qui si rimane nella concezione della giurisdizione amministrativa come rimedio indiretto (attraverso la rimozione di un atto viziato) della posizione del cittadino. Ben diverso la tutela diretta offerta dalla costruzione qui in esame, ove si è giunti al mantenimento di un atto viziato, giudicando inutile per il privato il suo annullamento. Seppure per conseguenza la pronuncia di rigetto avrebbe dovuto forse essere di rito e non di merito (4). Si può allora sottolineare come la concezione attuale scinde l’oggetto del giudizio, che resta il provvedimento (5), dall’interesse al ricorso, che è il vantaggio reclamato dal ricorrente e derivantegli dall’annullamento del provvedimento impugnato. L’orientamento inaugurato dal giudice veneziano ha l’effetto di riunire l’oggetto del giudizio all’interesse al ricorso. Si tratta della situazione giuridica soggettiva, del « bene della vita » di cui si chiede la tutela, anche con la demolizione dell’atto impugnato, ma anche attraverso l’enunciazione di un principio conformativo o anche col risarcimento del danno. Come si vede, il provvedimento impugnato, da oggetto del ricorso, si eclissa e quasi si astrae sempre più fino a divenire mera occasione per la statuizione e il riconoscimento della posizione giuridica del soggetto. (4) Nel senso di riconoscere l’assenza di un interesse attuale, concreto ed economicamente valutabile in capo allo straniero per l’annullamento di un provvedimento di espulsione in assenza dei requisiti per rimanere in Italia. (5) Per « l’impossibilità di eliminare l’atto dall’oggetto del giudizio », cfr. Le. MAZZAROLLI, Il processo amministrativo come processo di parti e l’oggetto del giudizio, in questa Rivista, 1997, 462, (relazione tenuta a Venezia presso l’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, il 12 aprile 1996 per l’ottantesimo compleanno di Feliciano Benvenuti), specialmente 465 e 466. Sul punto, altresı̀, cfr. altresı̀ le ancora attuali affermazioni di A. PIRAS, Interesse legittimo e giudizio amministrativo, Milano, 1962, vol. II, 581-582. Tuttavia cfr. già L. IANNOTTA, La considerazione del risultato nel processo amministrativo: dall’interesse legittimo al buon diritto, in questa Rivista, 1998, 327 e seg. il quale considera la « attribuzione (o conservazione e/o acquisizione) di un bene giuridico il normale e naturale petitum del ricorso, rispetto al quale appaiono momenti successivi, consequenziali e strumentali all’accoglimento, sia l’annullamento, sia — ancor prima — la stesa conoscenza del provvedimento » (340).


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In altri termini, il giudice amministrativo pronuncia pressoché incidentalmente sul provvedimento impugnato, guardando al « bene della vita » dedotto in giudizio, sia come vero oggetto del giudizio, sia come misura dell’interesse al ricorso, cioè come misura del vantaggio, attuale, concreto ed economicamente valutabile che il ricorrente dichiara di poter ottenere con l’auspicata pronuncia favorevole, dimostrandone l’utilità, cioè, appunto, l’interesse. Il giudice amministrativo, allora, come il giudice ordinario, conosce in primis delle situazioni giuridiche soggettive e solo incidentalmente del provvedimento, con l’unica differenza che il primo lo annulla e il secondo lo disapplica. Il secondo motivo di interesse per le pronunce annotate riguarda la (nuova) circoscrizione del potere della p.a. di statuire su materia coperta dal giudicato. Com’è noto, il tema è stato trattato approfonditamente alcuni anni oro sono (6), ma l’evoluzione del processo amministrativo impone ulteriori riflessioni. Se l’oggetto del giudizio è il rapporto, la definizione del giudizio non si limita alla pronuncia sulla legittimità o meno dell’atto, ma giunge a statuire sul rapporto. Più concretamente, la sentenza che conclude il processo non accerta se il provvedimento era bene o mal confezionato, se era stata rispettata o meno la comunicazione di avvio del procedimento, ma statuisce sul diritto del ricorrente a rimanere o meno in Italia. Anzi, si spinge fino a dire che a fronte di provvedimento palesemente viziato nella forma (mancato avviso ex art. 7 l. n. 241 del 1990), il ricorso non deve essere accolto perché non sussistono le condizioni per la permanenza del ricorrente nel nostro Paese. E, nell’altro, caso, annulla un provvedimento di espulsione, che pur riconosce legittimo, in ragione del riscontrato diritto del ricorrente a rimanere in Italia. Se l’impatto effettivo delle pronunce è attutito dalla scarsa rilevanza in concreto della fattispecie — il tunisino sarebbe stato comunque espulso mediante nuovo provvedimento ritualmente preceduto dall’avviso ex art. 7 l. n. 241 del (6) Ci si riferisce alla lucida e concisa monografia di M. CLARICH, Giudicato e potere amministrativo, Padova, 1989, che ricostruisce la teoria del giudicato amministrativo da Cammeo e Orlando, fino alle prime critiche di Sandulli e Benvenuti, per giungere ad individuare un punto di svolta nel contributo di Mario Nigro.


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1990 — non dev’essere sottaciuta la rilevanza del principio procedurale e metodologico ivi affermato. Il problema si pone infatti sulla sussistenza e l’ampiezza del potere dell’amministrazione in seguito alla sentenza. Con percorsi diversi si è passati da un potere pieno nel « rideterminarsi » adottando un nuovo provvedimento in luogo di quello annullato, transitando per l’affiancamento dell’effetto conformativo al tradizionale momento demolitorio, sancendo il dovere della p.a. di provvedere seguendo il punto di diritto esposto in motivazione, fino alle pronunce che stringono la p.a. in uno stretto percorso da seguire, indicandone i pedissequi passaggi. In ogni caso, anche nell’ipotesi di sentenze « autoesecutive », in cui l’effetto demolitorio soddisfa pienamente l’interesse del ricorrente, a seguito della sentenza residua un potere più o meno ampio della p.a. a provvedere in materia. Nel caso in esame, all’opposto, si fatica a scorgerlo. Infatti, se — come pare — il giudice veneziano ha inteso non giudicare di un atto, ma definire un rapporto, il passaggio in giudicato delle due sentenze annotate produce l’incontrovertibilità delle situazioni giuridiche soggettive dedotte e deducibili, secondo la tradizionale definizione della cosa giudicata materiale. Ne risulta che il giudice amministrativo assorbe in sé (anche) il potere della p.a. di provvedere sulla situazione materiale che è stata dedotta in giudizio e per il fatto che sia stata dedotta in giudizio. Per i noti principi, infatti, il potere amministrativo cede di fronte all’intangibilità della cosa giudicata. Con la sola eccezione del risorgere dei poteri della p.a. in ragione dei fatti sopravvenuti che, modificando la realtà, impongono di provvedervi nuovamente in merito. Se però il giudice amministrativo apertamente statuisce sui i rapporti tra privato e p.a., definendo l’intera situazione, non si può più accogliere l’attuale sistema di individuazione del controinteressato al fine dell’ammissibilità dell’azione, dovendosi per forza di cose, giungere ad un contraddittorio sostanzialmente completo in ragione del dichiarato mutamento dell’oggetto del giudizio. Quest’insufficienza dell’attuale sistema e l’esigenza di approfondimento è stata già percepita all’indomani della novella del 2000,


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laddove le parti convocate per la discussione della cautela si ritrovavano con la pronuncia sul merito del ricorso (7). A fronte della possibilità di una sentenza repentina e non solo sull’atto, ma sul rapporto, sottraendo (per quanto si è detto sopra) alla p.a. (se non tutto molto de) il potere di regolare la situazione giuridica soggettiva sottostante, deve porsi come giusto bilanciamento un sistema di individuazione e di evocazione in giudizio del controinteressato, cioè di completezza del contraddittorio, che non può più essere la somma di criteri empirici (ancorché raffinati nel corso dell’esperienza) fondati sulla sua nominatività o facile riconoscibilità. Ulteriore conseguenza, strettamente collegata a quest’ultimo punto riguarda l’opposizione di terzo, la cui introduzione normativa si rivela quanto mai salutare a fronte di un’evoluzione che vede il giudice non limitarsi ad una valutazione dell’atto, ma alla definizione del rapporto tra privato ed amministrazione, anche a prescindere dalla legittimità o meno dell’atto. In altre parole, il terzo opponente si determina ad agire a sentenza di accoglimento definitiva, laddove non aveva ritenuto di dover intervenire nel processo ad opponendum valutando (magari motivatamente) la piena legittimità dell’atto e, quindi, prevedendo l’esito negativo del ricorso. In altri termini, Tizio, controinteressato, può decidere di non costituirsi in ragione del prevedibile esito del processo, in base ad un esame prognostico dell’atto impugnato, che però si rivela fuorviante, poiché l’attenzione del collegio prende spunto dal provvedimento, ma non si esaurisce in esso. In conclusione, si può affermare che le sentenze annotate — sia che si voglia concordare sulla loro impostazione, sia che si voglia dissentire — hanno il merito di avvicinare la forma alla realtà giuridica di quanto viene quotidianamente applicato nelle corti, cioè pronunce che, muovendo dal pretesto dell’atto, statuiscono sui rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione. Ma (7) All’indomani della l. n. 205 del 2000 ci si chiese se la regolarità del contraddittorio necessaria per la definizione del ricorso si dovesse intendere come decorso del termine di 10 giorni tra l’ultima notifica e la camera di consiglio o il più lungo termine di 30 giorni dal deposito del ricorso. Com’è noto la prima tesi sembra ormai aver trovato pieno credito.


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qui vi è l’esplicita dichiarazione se non che l’atto può restare in vita ed il ricorso venire accolto, almeno che l’atto viziato resta in vita se il suo annullamento non porta utilità attuali e concrete al ricorrente. Si tratta in fondo di quanto i francesi da lunga pezza racchiudono nell’icastico adagio per cui juger de l’administration c’est administrer. MARCELLO M. FRACANZANI


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T.A.R. Campania Napoli Sez. I - 20 maggio 2003 - Pres. Coraggio - Est. De Felice - Schindler S.p.a. (Avv.ti Paolo Como e Sergio Como) c. Metronapoli S.p.a. (Avv. Soprano) e Paravia Elevators Service S.r.l. (n.c.). Giurisdizione amministrativa - Appalti pubblici di servizi sotto-soglia Società con partecipazione pubblica maggioritaria - Rispetto delle regole di evidenza pubblica. La necessità del rispetto delle regole di evidenza pubblica, per i soggetti tenuti ad applicare la normativa nazionale e comunitaria nella scelta dell’altro contraente, è da intendersi regola generale, che vale anche per gli appalti pubblici sotto soglia, come confermato sia dalla Corte di Giustizia della Unione Europea, secondo la quale anche gli appalti pubblici di scarso valore, seppure non espressamente ricompresi nell’ambito di applicazione delle procedure particolari e rigorose delle direttive, non sono esclusi dall’ambito di applicazione del diritto comunitario (in tal senso ordinanza 3 dicembre 2001, in C-59/00, punto 19), che dal Consiglio di Stato, che riconoscendo (ex art. 33 d.lgs. n. 80 del 1998 e art. 6 l. n. 205 del 2000) la giurisdizione del giudice amministrativo sulle controversie pertinenti a gare ad evidenza pubblica indette da società aventi i caratteri del sostanziali dell’organismo di diritto pubblico (Cons. Stato Sez. VI, sent. n. 1206 del 2 marzo 2001 relativa a Poste Italiane S.p.a.), ha ritenuto sussistere la giurisdizione del giudice amministrativo anche per gare di importo inferiore alla soglia comunitaria, in quanto, a prescindere dalla diretta applicazione della normativa comunitaria sugli appalti, vanno comunque rispettati i principi di non discriminazione, parità di trattamento e trasparenza (1). DIRITTO. — Il ricorso è fondato. Va infatti ribadito il principio che i soggetti formalmente privati, in quanto società di capitali, ma sostanzialmente a rilevanza pubblicistica, perché il capitale è in maggioranza in possesso di enti pubblici, come nella specie, sono tenuti a rispettate le regole della concorrenza, anche in caso di appalti di servizi al di sotto della soglia comunitaria. Non sono degne di considerazione positiva le eccezioni di merito formulate al riguardo dalla Metronapoli S.p.a., che è società partecipata dal comune di Napoli al 51%, dalle Ferrovie dello Stato S.p.a. al 30%, e dall’Azienda napoletana Mobilità al 19%. È noto che l’ordinamento comunitario ha reso necessaria nell’ambito dei diritti interni una rivisitazione del concetto di pubblica amministrazione. Nell’ordinamento italiano tradizionale, il concetto di Pubblica Amministrazione, non solo statale, ma pubblica, veniva definito da una serie di parametri, tra i quali assumeva particolare rilievo il solo dato formale, cioè il fatto che l’ente avesse una organizzazione e una struttura di carattere


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pubblicistico. Il diritto comunitario ha imposto una revisione della nozione di pubblica amministrazione, con particolare riferimento al settore degli appalti, imponendo alle autorità che indı̀cano gare, di seguire determinate regole e di rispettare le regole della concorrenza, al fine di consentire la partecipazione degli imprenditori interessati. L’utilizzo di un concetto formale di pubblica amministrazione consentirebbe ai soggetti pubblici la comoda elusione di dette regole attraverso la creazione di soggetti formalmente privati, ma posti sotto il controllo pubblico perché di mano pubblica, semmai maggioritaria, al fine del perseguimento di fini pubblici, ma il tutto senza vincoli di sorta. Da tali considerazioni nasce l’attenzione tutta comunitaria alla necessità di « snidare » la pubblicità reale che può nascondersi dietro il dato formale, ai fini di tutela della concorrenza, e trova il suo humus la categoria degli organismi di diritto pubblico, come tali tenuti a seguire le regole comunitarie in tema di appalti (per la definizione v. in tal senso le direttive 89/440, 93/97, l. n. 109 del 1994 art. 2 come modificato). La introduzione di tale nozione nell’ordinamento nazionale porta a ritenere compatibile la nozione di pubblica amministrazione con la veste societaria (come statuito dal Consiglio di Stato nei casi per esempio di FF.SS. S.p.a., Poste Italiane S.p.a., Agecontrol S.p.a., società miste di servizi pubblici locali), e, soprattutto, allarga la nozione di pubblica amministrazione e di atti amministrativi, o, se si preferisce, dilata il perimetro dei soggetti formalmente privati, ma tenuti a seguire le regole dell’amministrazione. Dopo l’art. 6 l. n. 205 del 2000, valevole sia dal punto di vista processuale che sostanziale, deve ritenersi che il legislatore abbia affidato all’adito giudice amministrativo in via esclusiva la cognizione delle controversie relative anche agli appalti indetti da soggetti privati equiparati a enti pubblici, con ciò intendendo che tali soggetti sono considerati come pubbliche amministrazione in senso pieno, e i relativi atti devono rispettare le regole dell’agere amministrativo. La necessità del rispetto delle regole di evidenza pubblica, per i soggetti tenuti ad applicare la normativa nazionale e comunitaria nella scelta dell’altro contraente, è da intendersi regola generale, che vale anche per gli appalti pubblici sotto soglia, come confermato sia dalla corte di giustizia della Unione Europea, secondo la quale anche gli appalti pubblici di scarso valore, seppure non espressamente ricompresi nell’ambito di applicazione delle procedure particolari e rigorose delle direttive, non sono esclusi dall’ambito di applicazione del diritto comunitario (in tal senso ordinanza 3 dicembre 2001, in C-59/00, punto 19), che dal Consiglio di Stato, che riconoscendo la giurisdizione del giudice amministrativo sulle controversie pertinenti a gare ad evidenza pubblica (ex artt. 33 d.lgs. n. 80 del 1998 e 6 l. n. 205 del 2000) alle società aventi i caratteri sostanziali dell’organismo di diritto pubblico (Cons. Stato, Sez. VI, 2 marzo 2001, n. 1206, relativa a Poste Italiane S.p.a.), ha ritenuto la giurisdizione anche per gare di importo inferiore alla soglia comunitaria, in quanto, a prescindere dalla diretta ap-


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plicazione della normativa comunitaria sugli appalti di servizi, vanno comunque rispettati i principi di non discriminazione, parità di trattamento, trasparenza. Ne deriva pertanto che anche per gli appalti sottosoglia, e più in generale per i contratti stipulati da soggetti pubblici in settori non regolamentati sul versante europeo, il diritto comunitario considera il ricorso alla scelta diretta (che nell’ordinamento nazionale tradizionalmente corrisponde come noto alla trattativa privata), in deroga ai principi di trasparenza e concorrenza, quale evenienza eccezionale, giustificabile solo in presenza di specifiche ragioni tecniche ed economiche, necessitanti di adeguata motivazione, che rendano impossibile in termini di razionalità l’individuazione di un soggetto diverso da quello prescelto, ovvero che evidenzino la non rilevanza di un’operazione sul piano della concorrenza del mercato unico europeo (in tal senso da ultimo la circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per le politiche comunitarie n. 8756 del 6 giugno 2002). Pertanto, va accolta la domanda di annullamento degli atti a mezzo dei quali la intimata Metronapoli S.p.a. ha scelto il suo contraente a mezzo di trattativa privata, cosı̀ come va accolta conseguenzialmente la domanda risarcitoria proposta espressamente nel ricorso introduttivo. Infatti, nel caso in esame si impone la evidenza della sussistenza dei presupposti costitutivi della fattispecie di responsabilità della p.a. che sono comuni nella sostanza a tutte le posizioni giurisprudenziali sin qui espresse, sintetizzabili nella evidente illegittimità degli atti (quale colpa grave dell’amministratore professionista analogamente al principio dell’art. 2236 c.c.) espressiva di un evidente comportamento negligente, generatore di un danno ingiusto, perché lesivo della legittima pretesa, in sé fondata, della impresa ricorrente a partecipare all’ipotetica gara che avrebbe dovuto tenersi per la stipula del contratto di appalto del servizio oggetto di lite. Nella specie, essendo il decorso del contratto in questione limitato fino al 30 aprile 2003, e pur essendo stata accolta la domanda cautelare in secondo grado il 21 gennaio 2003, deve ritenersi che non sussistano i presupposti di corrispondenza o comunque di non contrarietà (nel senso della non eccessiva onerosità di cui all’art. 2058 c.c.) all’interesse pubblico per la concessione della tutela ripristinatoria reale e del soddisfacimento della pretesa che consisterebbe, trattandosi di contestazione sul metodo di scelta dell’altro contraente prescelto, nel rifacimento e riedizione della gara con altro metodo di selezione. Essendo al ricorrente ormai preclusa la partecipazione ad una gara, quale è quella che in ipotesi avrebbe dovuto tenere ab initio la stazione appaltante, sicché non è possibile dimostrare ormai ex post né la certezza della vittoria, né la certezza della non vittoria, la situazione soggettiva tutelabile e risarcibile, è solo la chance, cioè l’astratta possibilità di un esito favorevole. A prescindere dalla distinzione relativa alla tutela in forma specifica


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della chance, e cioè se essa si possa concretare nella indizione di pubblica gara, a seguito di illegittimo affidamento di appalto mediante trattativa privata (cosı̀ ha ritenuto Cons. Stato, Sez. VI, 18 dicembre 2001, n. 553), oppure si tratti piuttosto di tutela in forma specifica di una situazione solo strumentale (al fine di partecipare alla legittima gara), come sembra preferibile ritenere, è certo che nella specie il c.d. danno da perdita di chance possa avvenire solo per equivalente, essendo l’accoglimento della domanda di annullamento inidoneo a ricomprendere la conseguenza necessitata del rifacimento della gara, poiché non interviene in tempo utile rispetto al decorso della durata del contratto. Pertanto, la domanda di risarcimento per equivalente, per c.d. perdita di chance, deve avere come base di calcolo l’importo complessivo del contratto come dalla stazione appaltante dedotto, e non contestato né contraddetto negli atti di causa, che corrisponde a € 30.000,00 (trentamila). Occorre procedere alla definizione del criterio da fornire alla Metronapoli S.p.a. per la quantificazione del danno risarcibile. In ordine al quantum del danno risarcibile, quando una gara non c’è mai stata, come nel caso di illegittimo affidamento a trattativa privata, il quantum del risarcimento per equivalente va determinato ipotizzando in via di medie e presunzioni quale sarebbe stato il numero di partecipanti alla gara, se gara vi fosse stata (sulla base dei dati relativi a gare simili indette dal medesimo ente), e dividendo l’utile d’impresa (quantificato in via forfetaria in misura pari al 10% del prezzo base dell’appalto, e quindi € 3.000) per il numero di partecipanti: il quoziente costituisce la misura del danno risarcibile. La Metronapoli S.p.a., ai sensi dell’art. 35 comma 2 d.lgs. n. 80 del 1998 dovrà proporre alla ricorrente, entro il termine di 30 (trenta) giorni dalla comunicazione in via amministrativa o notificazione a cura di parte, se anteriore, il pagamento di una somma stabilita in base al criterio sopra indicato, entro il successivo termine congruo di 30 (trenta) giorni, a titolo di risarcimento del danno per perdita della chance. Se le parti non dovessero giungere ad un accordo, si provvederà in sede di ottemperanza, ai sensi dell’art. 27, comma 1, n. 4 del testo unico di cui al r.d. 26 giugno 1924 n. 1054, alla determinazione della somma dovuta. Le considerazioni che precedono impongono l’accoglimento del ricorso nei sensi di cui in motivazione. La condanna al pagamento delle spese di giudizio segue la soccombenza; esse sono liquidate nell’importo in dispositivo fissato.

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L’organismo di diritto pubblico e gli appalti di servizi e di forniture sotto-soglia. 1.

Da poco più di dieci anni a questa parte, tra le varie fi-


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gure che compongono l’articolato sistema interno dei contratti della pubblica Amministrazione, vi è un protagonista nuovo: l’organismo di diritto pubblico (1). Con tale espressione non si fa riferimento ad un soggetto specifico, dotato di un’identità giuridica propria e distinta rispetto ad altri soggetti di diritto, ma si identifica una qualifica concettuale all’interno della quale possono rientrare (stabilmente ovvero in via occasionale e temporanea) diverse figure soggettive. Il concetto nasce in ambito comunitario (2) nel momento in cui gli organi della C.E.E. (l’attuale U.E.) — impegnati nell’arduo intento di determinare le condizioni per una reale apertura del Mercato Unico nel settore degli appalti pubblici — prendono atto (1) In tale periodo di tempo, la dottrina italiana si è ampiamente interessata al nuovo fenomeno; di tale interessamento vi è traccia sia nei principali manuali di diritto amministrativo che in alcune note e contributi monografici, ex multis (senza pretese di completezza), si vedano: VIRGILIO, La direttiva 440/1989 ed i soggetti destinatari, in Riv. trim. app., 1991, 657 e ss.; C. MALINCONICO, Commento alla Direttiva 89/440/CEE, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1991, 219 e ss.; D. SORACE, L’ente pubblico tra diritto comunitario e diritto interno, ivi, 1992, 357 e ss.; S. CASSESE, La nozione comunitaria di pubblica amministrazione, in Gior. dir. amm., 1996, 921 e ss.; L. RIGHI, La nozione di organismo di diritto pubblico nella disciplina comunitaria degli appalti: società in mano pubblica e appalti di servizi, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1996, 347 e ss.; D. SORACE, Pubblico e privato nella gestione dei servizi pubblici locali mediante società per azioni, in Riv. it. dir. pubbl. comp., 1997, 53 e ss. F. MERUSI, La natura delle cose come criterio di armonizzazione comunitaria nelle direttive appalti, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1997, 37 e ss.; G. GRECO, Appalti di lavori affıdati da S.p.a. in mano pubblica: un revirement giurisprudenziale non privo di qualche paradosso, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1995, 1056 e ss.; ID., Organismo di diritto pubblico atto primo, nota alla sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee del 15 gennaio 1998, nella causa C-44/96, ivi, 1998, 737 e ss.; V. CAPUTI JAMBRENGHI, L’organismo di diritto pubblico, in Dir. amm., 2000; G. GRECO, Ente pubblico, impresa pubblica, organismo di diritto pubblico, in Argomenti di diritto amministrativo, Milano, 2000; D. MARRAMA, Contributo sull’interpretazione della nozione di organismo di diritto pubblico, in Dir. amm., 2000, 585 e ss.; M. CHITI, L’organismo di diritto pubblico e la nozione comunitaria di pubblica amministrazione, Bologna, 2001 e, recentissimo e molto dettagliato, B. MAMELI, L’organismo di diritto pubblico: profili sostanziali e processuali, Milano, 2003. (2) In realtà, il Legislatore comunitario nell’introdurre il concetto di cui si discute ha ampiamente attinto alla realtà dell’ordinamento francese. A ben vedere, infatti, l’espressione « organismo di diritto pubblico » è stata coniata dal dott. Maleville, giudice del Consiglio di Stato d’oltralpe e, tra l’altro, la sua etimologia rimanda immediatamente (ed a contrario) al modo con il quale in Francia vengono definiti i soggetti pubblici che svolgono attività economica: « établissements publics industriels et commerciaux ».


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del fatto che il concetto di « persona giuridica di diritto pubblico » introdotto con la Direttiva 71/305/CEE risulta affatto inadeguato rispetto alla necessità di individuare con precisione tutti i soggetti che — in virtù di un particolare legame con l’interesse generale — debbono seguire i criteri dell’evidenza pubblica ogni qual volta si trovino a dover appaltare lavori, servizi e forniture di un certo importo. Nel periodo di vigenza della Direttiva appena citata (3), gli organi politici dei singoli Stati membri — pur dichiarando di condividere in toto le finalità di effettiva apertura del mercato delle commesse pubbliche — sfruttando la limitata valenza identificativa del concetto di persona giuridica di diritto pubblico, nel concreto, hanno dribblato gli impegni formalmente assunti. Nei singoli Stati membri, infatti, è sovente accaduto che, posti di fronte alla necessità di assegnare una qualsiasi commessa (di lavori, di servizi e/o di forniture), i destinatari diretti della normativa comunitaria — spinti dall’intento di favorire l’economia nazionale — invece di azionare le procedure dell’evidenza pubblica comunitaria, abbiano costituito nuove figure soggettive alle quali hanno affidato il compito di commissionare i singoli appalti. Tali neonate figure, in virtù della loro natura sostanzialmente pubblica (il potere decisionale e le risorse facevano capo a soggetti pubblici) ma formalmente privata (in quanto dotate di personalità giuridica di diritto privato), non rientravano nel novero delle persone giuridiche di diritto pubblico e, di conseguenza, risultavano svincolate dal rispetto della normativa di origine comunitaria. L’espressione organismo di diritto pubblico appare per la prima volta in un testo normativo ufficiale con l’emanazione della Direttiva 89/440/CEE in materia di appalti pubblici di lavori (4). (3) La Direttiva 71/305/CEE è stata recepita in Italia con la l. n. 584 del 1977 e, successivamente, è stata sostituita con la Direttiva 89/440/CEE che a sua volta è stata recepita il Italia con il d.lgs. n. 406 del 1991. (4) A onor del vero, nel progetto originario di Direttiva l’espressione « organismo di diritto pubblico » non compariva; essa, infatti ha fatto la sua « comparsa ufficiale » nel documento redatto dalla Commissione per i problemi economici e monetari in data 5 aprile 1988 e, successivamente, è stata inserita nel progetto di Direttiva.


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La fonte in questione, nel delimitare il suo ambito soggettivo di applicazione, cosı̀ definisce la nuova figura: « Per organismo di diritto pubblico si intende qualsiasi organismo istituito per soddisfare specificamente interessi generali non aventi carattere industriale o commerciale; dotato di personalità giuridica; e la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli Enti locali o da altro organismi di diritto pubblico, oppure la cui gestione sia soggetta ad un controllo da parte di questi ultimi oppure il cui organo di amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito dai membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli Enti locali o da altri organismi di diritto pubblico » (art. 1, lett. b Direttiva 89/440/CEE). Nel momento in cui ha dato attuazione al suo obbligo di recepimento della normativa comunitaria contenuta nella Direttiva appena richiamata, il nostro Legislatore — probabilmente disorientato dalla novità del tipo di definizione e dalla incontestabile incertezza di quest’ultima — ha mostrato un certo, comprensibile, imbarazzo. A testimonianza di ciò, si consideri che il decreto legislativo (n. 406 del 1991) che ha recepito in Italia la Direttiva 89/440/CEE — di fatto — non ha introdotto nel nostro ordinamento la neonata figura comunitaria dell’organismo di diritto pubblico ma si è laconicamente limitato ad affermare che doveva essere considerato ente pubblico qualsiasi organismo che avesse presentato i caratteri descritti dall’art. 1 lett. b della Direttiva 89/440/CEE (5). Per tutta risposta, nel 1993, i responsabili della politica comu(5) Al comma 1 dell’articolo dedicato agli enti pubblici (art. 2 d.lgs. n. 406 del 1991), il legislatore italiano ha sancito testualmente quanto segue: « Ai fini del presente decreto si considera ente pubblico qualsiasi organismo, dotato di personalità giuridica, istituito per soddisfare specificamente bisogni di interesse generale non aventi carattere industriale e commerciale e la cui attività è finanziata in misura maggioritaria dallo Stato, dalle regioni e dalle province autonome di Trento e Bolzano, dalle province, dagli enti locali o da altri enti pubblici oppure i cui organi di amministrazione, direzione o vigilanza sono costituiti per più della metà da componenti designati dei soggetti anzidetti. Si tenga presente che l’intero art. 2 del decreto parzialmente riportato è stato abrogato espressamente dall’art. 231 del d.P.R. n. 554 del 1999. Per un’analisi dettagliata del d.lgs. n. 406 del 1991 si veda: D. DE PRETIS, D.lgs. 19 dicembre 1991, n. 406, attuazione della direttiva 89/440/CEE in materia di procedure di aggiudicazione degli


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nitaria, nel delineare l’ambito soggettivo di applicazione della nuova Direttiva sull’aggiudicazione di appalti di lavori pubblici (93/37/CEE) — per nulla fiaccati dalle incertezze applicative originate in Italia ed in tutta la Comunità a seguito dello loro iniziativa innovativa del 1989 — hanno nuovamente fatto riferimento al concetto di organismo di diritto pubblico, fornendo per di più di quest’ultimo la stessa definizione che già in precedenza tanti dubbi aveva suscitato. In tal modo, il Legislatore italiano si è nuovamente trovato di fronte alla necessità di recepire una nozione dai contorni del tutto indefiniti; ma, in questa seconda circostanza — compulsato dalle prime pronunce della Corte di Giustizia delle Comunità Europee in tema di organismi di diritto pubblico e dalle iniziali riflessioni della dottrina interna — ha evitato « trasposizioni compromissorie » ed ha recepito pedissequamente il concetto di matrice comunitaria. Infatti, la legge che nel 1994 ha trasposto nell’ordinamento italiano la Direttiva 93/37/CEE (l. n. 109) — all’art. 2, comma 7, lett. a) — ha recepito testualmente le definizione di organismo di diritto pubblico cosı̀ come essa era stata disegnata dal Legislatore Comunitario (6). Tale circostanza — che ad un primo approccio potrebbe apparire sintomatica di una completa « metabolizzazione » degli elementi caratterizzanti della nuova categoria — in realtà (lo vedremo), cela la medesima forma di imbarazzo che in precedenza aveva indotto il nostro Legislatore ad omettere la definizione organismo di diritto pubblico dal testo del d.lgs. n. 406 del 1991. appalti pubblici », commentario a cura di MASTRAGOSTINO, in Nuove leggi civ. comm., 1994, 477 e ss. (6) Art. 2, comma 7, lett. a) l. n. 109 del 1994: « Ai sensi della presente legge si intendono: a) per organismi di diritto pubblico qualsiasi organismo con personalità giuridica, istituito per soddisfare specificamente bisogni di interesse generale non aventi carattere industriale o commerciale e la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dalle regioni, dalle province autonome di Trento e Bolzano dagli enti locali, da altri enti pubblici o da altri organismi di diritto pubblico, ovvero la cui gestione sia sottoposta al controllo di tali soggetti, ovvero i cui organismi di amministrazione, di direzione o di vigilanza siano costituiti in misura non inferiore alla metà da componenti designati dai medesimi soggetti. »


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2. In Italia, la storia dei primi anni di vita della categoria di cui si discute può essere sostanzialmente suddivisa in due distinte fasi; nella prima fase (iniziata con l’introduzione della nozione e conclusasi intorno alla fine del secolo appena terminato), dottrina e giurisprudenza si sono concentrate nel tentativo di risolvere i numerosi dubbi derivanti da una definizione (unanimemente giudicata) infelice ed, in tal modo, di chiarire con un minimo di precisione quali fossero effettivamente i soggetti rispondenti ai caratteri individuati dal Legislatore comunitario. Per fortuna, i protagonisti di tale non semplice attività ermeneutica sono stati supportati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee la quale, nel corso degli anni, ha fornito loro imbeccate decisive per la soluzione delle problematiche via via emergenti. In termini del tutto schematici ed approssimativi si può dire che tre sono state le questioni che più delle altre hanno catalizzato l’attenzione degli interpreti nella fase che si sta sinteticamente descrivendo: quella dell’individuazione del reale termine di riferimento del requisito della non industrialità e non commercialità, quella della differenza tra organismo di diritto pubblico ed impresa pubblica e quella della sufficienza per l’inserimento nella qualificazione della presenza di uno solo degli elementi della definizione ovvero della necessaria compresenza di tutti i tre requisiti. Un richiamo alle tematiche in questione — pur se rapido e sintetico — potrà certamente risultare utile per una migliore analisi delle sollecitazioni suscitate dalla pronuncia in commento. Le prime due problematiche sono intrinsecamente collegate tra loro; nel dibattito scientifico, infatti, la rilevanza della prima si è andata progressivamente stemperando in corrispondenza con la graduale emersione della seconda. Il confronto sulla prima delle due questioni ha avuto origine dalla semplice constatazione dell’inesistenza nel nostro ordinamento di interessi generali industriali e commerciali e si è sviluppato — come già anticipato — nella ricerca del termine di riferimento effettivo della prerogativa di non industrialità e non commercialità.


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La tesi che ha ottenuto il maggior seguito in seno a tale dibattito è stata quella che sosteneva la necessità di riferire il requisito della non industrialità e non commercialità alle finalità che erano state all’origine della creazione del soggetto di diritto (7). Con l’intento di definire la posizione di tutti quei soggetti essenzialmente pubblici ma — di fatto — operanti a vario titolo sul mercato, la teoria in questione asseriva che la natura formalmente privata di un soggetto di diritto ed il fatto che quest’ultimo svolgesse un’attività di carattere sostanzialmente imprenditoriale non doveva impedire di inserirlo nel novero degli organismi di diritto pubblico in tutti quei casi in cui lo svolgimento di tale attività costituiva solo lo strumento finalizzato alla miglior soddisfazione dell’interesse pubblico per la cui cura il soggetto stesso era stato costituito. La prospettata tesi è stata utilizzata come parametro di riferimento per la soluzione di alcune querelle che sono ormai entrate nella (pur breve) storia del concetto di organismo di diritto pubblico tanto in sede comunitaria (sent. della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, del 10.08.1998, nel procedimento C-360/96, Gemeente Arnhem, Gemeente Rheden c. BFI Holding BV) (8) (7) Il primo studioso che ha prospettato e sostenuto la tesi in questione è stato VIRGILIO, La direttiva 440/89 e i suoi destinatari, cit. (8) « L’art. 1, lett. b), secondo comma, della direttiva del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi, deve essere interpretato nel senso che il legislatore ha operato una distinzione tra i bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale, da un lato, e, dall’altro, i bisogni di interesse generale aventi carattere industriale o commerciale; la nozione di bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale non esclude quei bisogni che siano o possano essere parimenti soddisfatti da imprese private; lo status di organismo di diritto pubblico non dipende dalla rilevanza relativa, nell’ambito dell’attività dell’ente medesimo, del soddisfacimento di bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale; è parimenti irrilevante che attività commerciali siano svolte da una persona giuridica distinta appartenente allo stesso gruppo o consorzio (“concern”); l’art. 1, lett. b), secondo comma, della direttiva 92/50 dev’essere interpretato nel senso che l’esistenza o la mancanza di bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale dev’essere valutata oggettivamente, restando al riguardo irrilevante la forma giuridica delle disposizioni per mezzo delle quali tali bisogni sono espressi ». La sentenza della Corte è stata commentata da GRECO in Riv. it. dir. pubbl. com., 1999, 157 e ss.


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quanto in ambito interno (Siena Parcheggi S.p.a. (9); Ente Fiera di Milano (10)). A ben vedere, tale visione — ove applicata fino alle sue (9) Come tutti sanno, la Siena Parcheggi S.p.a. è stata al centro del serrato dibattito intercorso tra la Corte di Cassazione ed il Consiglio di Stato sul tema della giurisdizione sugli atti emanati in materia di appalti dalle società per azioni di diritto speciale costituite per la gestione dei servizi pubblici locali. Fino al 2000, le posizioni dei due massimi organi erano del tutto antitetiche; la Corte di Cassazione — basandosi sulla natura privata della personalità giuridica dei soggetti in questione — ha sempre sostenuto con forza la giurisdizione del giudice ordinario (si vedano Cass., Sez. Un., sent. n. 4989 del 1995 con note di commento di B. MAMELI in Giust. civ., 1995, I, 2985 e ss.; F. CARINGELLA in Foro it., 1996, I, 1363 e ss., G. GRECO in Riv. it. dir. pubbl. com., 1995, 1056 e ss. e PERINI in Dir. proc. amm., 1997, 81 e ss.; e Cass., Sez. Un. sent n. 4991 del 1995, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1996, 1056 e ss., con nota di BARBIERI; in Giust. civ., 1995, I, 2985 e ss., con nota di B. MAMELI; in Foro it., 1996, I, 1363 e ss., con nota di F. CARINGELLA e Cass., Sez. Un., sentt. n. 5085, n. 2738 e n. 6225 del 1997 e n. 7639 del 1998), il Consiglio di Stato — di contro — sin dal 1996 ha ritenuto che gli atti approvati in materia di procedure di appalto da soggetti che, pur avendo natura privata, rientrino nella categoria comunitaria delle amministrazioni aggiudicatrici sono impugnabili innanzi al giudice amministrativo (si vedano: Cons. Stato, Sez. VI, sent. n. 353 del 1995; Cons. Stato, Sez. V, sent. n. 1577 del 1996 con nota di E. CANNADA BARTOLI in Giur. it., 1997, III, 261 e ss.; e Cons. Stato, Sez. V, sent. n. 295 del 1999 con nota di V. CERULLI IRELLI in Giorn. dir. amm., 1999, 1061 e ss.). Nel 1998, il d.lgs. n. 80 — spostando il criterio per il riparto della giurisdizione dall’aspetto soggettivo all’aspetto oggettivo — ha risolto il conflitto in questione; con la sent. n. 40 del 2000, infatti, le Sez. Un. della Cass. Civ. hanno riconosciuto la giurisdizione del giudice amministrativo per tutti gli atti approvati in materia di appalti pubblici soggetti alla normativa comunitaria. (10) La necessità di inquadrare l’Ente Autonomo Fiera Internazionale di Milano nella categoria degli organismi di diritto pubblico ha diviso profondamente la giurisprudenza interna e quella comunitaria. Sin dal 1995, il Tar Lombardia ha sempre sostenuto che l’Ente Autonomo Fiera di Milano rispondesse alle caratteristiche della nuova figura di matrice comunitaria (si vedano: Tar Lombardia-Milano, Sez. III, sent. n. 1365 del 1995; Tar Lombardia-Milano, Sez. III, sent. n. 440 del 1998 e Tar Lombardia-Milano, Sez. III, sent. n. 674 del 1998). Dal canto suo, il Consiglio di Stato — dopo una prima pronuncia (Sez. VI, sent. n. 353 del 1995) in cui affermava la necessità di ricondurre l’Ente Autonomo Fiera di Milano tra le amministrazioni aggiudicatrici — con la sentenza Sez. VI n. 1267 del 1998 (note di R. GAROLFOLI in Foro it., 1999, I, 180 e ss.; CAPELLI in Dir. com. scamb. int., 1999, 101 e ss. e G. PASQUINI, Un revirement sull’organismo di diritto pubblico: il caso dell’Ente Fiera di Milano, in Giorn. dir. amm., 1999, 17) ha negato che l’Ente in questione configurasse un organismo di diritto pubblico. Sull’onda di tale pronuncia, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione — con la sent. n. 97 del 2000 (note di S. CASSESE, L’Ente Fiera di Milano ed il regime degli appalti, in Giorn. dir. amm., 2000, 552 e ss.; B. MAMELI, L’Ente Fiera di Milano estromesso dall’organismo di diritto pubblico, in Urb. e app., 2000, 699 e ss. e P. PERUGGIA, Le Sezioni Unite decidono sulla natura degli enti fieristici, in Foro it., 2001, 614 e ss.) — hanno negato la natura di organismo di diritto pubblico dell’Ente Autonomo Fiera di


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estreme conseguenze — avrebbe potuto allargare a dismisura le già indefinite maglie del concetto di organismo di diritto pubblico. Cosı̀ non è stato; in un determinato momento, infatti, un’attenta dottrina ha rilevato che la Direttiva 93/38/CEE (regolante gli appalti nei c.d. settori esclusi), nel delimitare il suo ambito soggettivo di applicazione — accanto ai soggetti menzionati nelle altre Direttive appalti (tra cui gli organismi di diritto pubblico) — aveva inserito anche le c.d. imprese pubbliche (11). Visto che l’impostazione teleologica alla quale si è più volte fatto riferimento — pur non affermandolo in maniera esplicita — nella sostanza, comportava una equiparazione di trattamento tra gli organismi di diritto pubblico e le imprese pubbliche, le semplice presa d’atto appena richiamata rimetteva tutto in discussione. Essa, infatti, testimoniava la volontà del Legislatore comunitario di tenere distinte le due figure che sino ad allora, di fatto, Milano e il Tar Lombardia — con la sent. n. 10 del 1999 (nota di B. MAMELI, All’attenzione della Corte di Giustizia la natura giuridica dell’Ente Fiera di Milano, in Urb. e app., 1999, 1336 e ss.) — ha ritenuto di dover investire della questione la Corte di Giustizia delle Comunità Europee. Nel 2001, quest’ultima con la sent. del 10 maggio nei procedimenti riuniti C-223/99 Agorà S.r.l. c. Ente Autonomo Fiera di Milano e C-260/99 Excelsior S.n.c. di Pedrotti Bruna & C. c. Ente Autonomo Fiera di Milano ha testualmente stabilito: « Un ente, quale l’Ente autonomo Fiera Internazionale di Milano, avente ad oggetto lo svolgimento di attività volte all’organizzazione di fiere, di esposizioni e di altre iniziative analoghe, che non persegue scopi lucrativi, ma la cui gestione si fonda su criteri di rendimento, di efficacia e di redditività, e che opera in un ambiente concorrenziale, non costituisce un organismo di diritto pubblico ai sensi dell’art. 1, lett. b), secondo comma, della Direttiva del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi. ». La pronuncia della Corte è stata commentata da E. CHITI, Cala il sipario sull’Ente Fiera di Milano, in Giorn. dir. amm., 2001, 899 e ss.; B. MAMELI, La Corte di giustizia conferma l’estraneità dell’Ente Fiera dalla nozione di organismo di diritto pubblico, in Urb. e app., 2001, 981 e ss. e da S. CAMPAILLA, Se l’ente opera in regime di concorrenza non è organismo di diritto pubblico, in Dir. pubbl. comp. ed eur., II, 2002, 1502 e ss.. Sugli orientamenti della Corte di Giustizia in relazione agli enti fieristici in generale, si veda Corte di Giustizia sent. 15 gennaio 2002, C-439/99 con nota di R. CARANTA, Diritto comunitario e diritto interno (vecchio e nuovo) in materia di fiere., in Dir. pubbl. comp. ed eur., II, 2002, 787 e ss. (11) Si vedano MARTELLI, Servizi pubblici locali e società per azioni, Milano, 1996 e POLICE, Dai concessionari di opere pubbliche alle società per azioni di « diritto speciale »: problemi di giurisdizione nota a Cons. Stato, Sez. VI, n. 498 del 1995, in questa Rivista, 1996, 147 e ss.


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erano state accomunate dagli interpreti e di sottomettere le imprese pubbliche al rispetto della sua normativa in tema di appalti esclusivamente nell’ambito dei c.d. settori esclusi. Da quel momento in poi, dottrina e giurisprudenza, tralasciando l’indagine (che sino ad allora le aveva impegnate) sul termine di riferimento soggettivo del requisito della non industrialità e non commercialità, si sono concentrate sulla ricerca delle differenze tra il concetto di organismo di diritto pubblico e quello di impresa pubblica (12). Nella pratica, il dibattito ha avuto ad oggetto la necessità di inserire gli enti pubblici economici, le S.p.a. nate in seguito alla privatizzazione dei primi e le altre società di diritto speciale nella prima ovvero nella seconda categoria (13). In tale fase del dibattito, una parte della dottrina ha suggerito di svincolare la valutazione sulla riferibilità del concetto di organismo di diritto pubblico ad un soggetto da un approccio per categorie (S.p.a. mista piuttosto che ente pubblico economico ecc.) e di ancorarla, invece, ad una verifica concreta che porti ad affermare di trovarsi di fronte alla figura in questione solo nel caso in cui un soggetto che svolge attività di impresa — in virtù di un particolare tipo di legame che lo collega con l’interesse pubblico — goda di una qualche forma di « sconto » rispetto alle più o meno rigide logiche del mercato di riferimento (14). Una conferma della validità del predetto suggerimento è stata, in seguito, fornita da una serie di pronunce con le quali — a partire dal 2000 — la Corte di Giustizia ha fatto presente che (12) Sull’impresa pubblica, G. PERICU-CAFAGNO, Impresa pubblica, in AA.VV. (a cura di GRECO e CHITI), Trattato di diritto amministrativo europeo, Milano, 1997 e G. GRECO, Ente pubblico, impresa pubblica e organismo di diritto pubblico, in Argomenti di diritto amministrativo, Milano, 2000. (13) Per un quadro interessante delle problematiche emerse in tale fase del dibattito, si veda: RENNA, Le società per azioni in mano pubblica. Il caso delle S.p.a. derivanti dalla trasformazione di enti pubblici economici ed aziende autonome statali, Torino, 1997. Per un’analisi più completa, invece, di tutte le questioni originate dal nuovo ruolo del privato nel contesto dell’attività amministrativa si vedano: F. DE LEONARDIS, Soggettività privata e azione amministrativa, Padova, 2000 e, più di recente, G. NAPOLITANO, Pubblico e privato nel diritto amministrativo, Milano, 2003. (14) Sia consentito il richiamo a D. MARRAMA, Contributo sull’interpretazione della nozione di organismo di diritto pubblico, cit..


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l’indice rivelatore più efficace per verificare la sussumibilità di un soggetto nella neonata categoria è quello che si fonda sull’analisi del rapporto intercorrente tra il soggetto in questione e le regole del mercato all’interno del quale quest’ultimo opera (15). (15) Si vedano le sentenze della V Sezione della Corte di Giustizia: 3 ottobre 2000 C-380/98 The Queen c. H.M. Treasury ex parte: The University of Cambridge: (L’espressione « finanziata (...) da [una o più amministrazioni aggiudicatrici] », contenuta nell’art. 1, lett. b), secondo comma, terzo trattino, delle direttive del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi, 14 giugno 1993, 93/36/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture, e 14 giugno 1993, 93/37/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, deve essere interpretata nel senso che essa comprende le sovvenzioni ed i finanziamenti concessi da una o più amministrazioni aggiudicatrici al fine di promuovere i lavori di ricerca, come pure i contributi per borse di studio destinate a studenti, corrisposti alle università dalle autorità locali competenti in materia di pubblica istruzione e finalizzati alla copertura delle spese di istruzione di studenti nominativamente designati. Non costituiscono invece finanziamento pubblico ai sensi delle dette direttive le somme versate da una o più amministrazioni aggiudicatrici nell’ambito di un contratto di prestazione di servizi comprendente lavori di ricerca, ovvero a titolo di corrispettivo per la prestazione di altri servizi, quali perizie od organizzazione di conferenze.); 10 maggio 2001 (procedimenti riuniti) C-223/99 e C-260/99 Agorà S.r.l. c. Ente autonomo Fiera Internazionale di Milano e Excelsior S.n.c. di Pedrotti Bruna c. Ente autonomo Fiera Internazionale di Milano: (Un ente 1) avente ad oggetto lo svolgimento di attività volte all’organizzazione di fiere, di esposizioni e di altre iniziative analoghe 2) che non persegue scopi lucrativi, ma la cui gestione si fonda su criteri di rendimento, di efficacia e di redditività e 3) che opera in un ambiente concorrenziale non costituisce un organismo di diritto pubblico ai sensi dell’art. 1, lett. b), secondo comma, della direttiva del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi.); ed infine 27 febbraio 2003 C-373/00 Adolf Truley GmbH c. Bestattung Wien GmbH: (I servizi mortuari e di pompe funebri possono rispondere a un bisogno di interesse generale. Il fatto che un ente locale abbia l’obbligo legale di provvedere ai funerali — e, all’occorrenza, di sostenerne i costi — qualora questi ultimi non siano stati organizzati entro un determinato termine dopo il rilascio del certificato di decesso rappresenta un indizio dell’esistenza di tale bisogno di interesse generale. L’esistenza di una concorrenza articolata non consente, di per sé, di concludere per la mancanza di un bisogno di interesse generale avente carattere non industriale o commerciale. Spetta al giudice a quo valutare l’esistenza o meno di tale bisogno tenendo conto di tutti gli elementi di diritto e di fatto pertinenti, quali i fatti che hanno presieduto alla creazione dell’organismo interessato e le condizioni in cui quest’ultimo esercita la sua attività. Un mero controllo a posteriori non soddisfa il criterio del controllo della gestione figurante all’art. 1, lett. b), secondo comma, terzo trattino, della direttiva 93/36. Soddisfa per contro detto criterio una situazione in cui, da un lato, le pubbliche autorità verificano non solo i conti annuali dell’organismo considerato, ma anche la sua amministrazione corrente sotto il profilo dell’esattezza, della regolarità, dell’economicità, della redditività


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L’ultima questione che ha animato quella che si è definita la prima fase della storia dell’organismo di diritto pubblico ha avuto ad oggetto i requisiti indicati dal Legislatore comunitario per definire la nuova figura. Il dibattito ha diviso coloro i quali (pochi) ritenevano che per poter qualificare un soggetto organismo di diritto pubblico fosse sufficiente la presenza di uno dei tre requisiti indicati dal Legislatore comunitario da coloro che, al contrario, ritenevano che il soggetto in questione dovesse cumulare in sé i tre elementi. La problematica è stata risolta con una chiara presa di posizione della Corte di Giustizia della Comunità Europea in favore del necessario cumulo delle tre prerogative (16). 3. All’alba del secolo appena incominciato è iniziata la seconda fase della storia dell’organismo di diritto pubblico; raggiunto un accordo di massima rispetto alle caratteristiche connotative del concetto, dottrina e giurisprudenza hanno incominciato a confrontarsi sulla eventuale doverosità di sottomettere gli organismi di diritto pubblico al rispetto delle regole dell’evidenza pubblica anche in caso di appalti di importo inferiore alla soglia comunitaria e sulla normativa da seguire nel caso in cui si dovesse riconoscere tale doverosità. La sentenza del Tar Campania in commento si inserisce a e della razionalità e, dall’altro, le stesse autorità sono autorizzate a visitare i locali e gli impianti aziendali del suddetto organismo e a riferire sul risultato di tali verifiche a un ente locale che detenga, tramite un’altra società, il capitale dell’organismo di cui trattasi.). (16) Sentenza Corte di Giustizia del 15 gennaio 1998, C-44/96 Mannesmann Anlagenbau Austria AG c. Strohal Rotationsdruck GesmbH: « Il giudice nazionale chiede, in sostanza, se un’impresa che esercita attività commerciali e le cui quote siano detenute per la maggior parte da un’amministrazione aggiudicatrice debba considerarsi anch’essa amministrazione aggiudicatrice ai sensi dell’art. 1, punto b), della Direttiva 93/37 qualora sia stata istituita dall’amministrazione aggiudicatrice per svolgere attività commerciali o qualora quest’ultima le trasferisca i mezzi finanziari derivanti dalle attività che essa esercita per soddisfare bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale e commerciale. Come è stato osservato dal testo dell’art. 1, punto b), secondo comma, della Direttiva 93/37 risulta che le tre condizioni ivi enunciate hanno carattere cumulativo. ». In relazione alla sentenza Mannesmann si veda: A. DI GIOVANNI, La Corte di Giustizia e i criteri necessari per la qualificazione dell’organismo di diritto pubblico, in Corr. giur., 2002, II, 193 e ss.


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pieno titolo nel dibattito in corso in tale seconda fase e ne costituisce sintesi efficace (17). A partire dal 2000, la Corte di Giustizia della Comunità Europea ha a più riprese manifestato l’opportunità che le amministrazioni aggiudicatrici applichino i principi comunitari di apertura e trasparenza del Mercato Unico propri del Trattato anche nel caso in cui debbano assegnare commesse (di lavori, servizi e forniture) di importo inferiore alle diverse soglie comunitarie di riferimento (18). Nei due anni successivi, le sollecitazioni comunitarie sono state ampiamente (forse anche troppo...) recepite dall’ordinamento italiano. Con il d.P.R. n. 384 del 2001 — dopo quasi ottant’anni di attesa — è stato approvato un regolamento che disciplina in maniera finalmente compiuta e puntuale l’acquisizione in economia di beni e servizi da parte delle Amministrazioni dello Stato e, in

(17) La pronuncia oggetto della presente nota è già stata in precedenza sinteticamente commentata D. SCALERA, Il ricorso alla trattativa privata in elusione alle norme sull’evidenza pubblica, in www.amministrazioneincammino.it. (18) Al punto 60 della sentenza del 7 dicembre 2000, C-324/98 Teleaustria Verlags e Telefonadress c. Telekom Austria, la VI Sezione della Corte ha statuito: « occorre rilevare come, nonostante il fatto che siffatti contratti (di importo inferiore alle soglie comunitarie ndr), allo stadio attuale del diritto comunitario, siano esclusi dalla sfera di applicazione della Direttiva 93/38/CEE, gli enti aggiudicatori che li stipulano siano cionondimeno tenuti a rispettare i principi fondamentali del Trattato, in generale, e il principio di non discriminazione in base alla nazionalità, in particolare. ». Successivamente, ai punti 19 e 20 dell’ordinanza 3 dicembre 2001, C-59/00 Bent Mousten Vestergaard c. Spottrup Boligselskab, la II Sezione della Corte statuiva: « le direttive comunitarie che coordinano le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici si applicano soltanto ai contratti il cui valore supera un determinato limite previsto espressamente in ciascuna delle dette direttive. Tuttavia, il solo fatto che il legislatore comunitario abbia considerato che le procedure particolari e rigorose previste in tali direttive non sono adeguate allorché si tratta di appalti pubblici di scarso valore non significa che questi ultimi siano esclusi dall’ambito di applicazione del diritto comunitario. Infatti, sebbene alcuni contratti siano esclusi dalla sfera di applicazione delle direttive comunitarie nel settore degli appalti pubblici, le amministrazioni aggiudicatrici che li stipulano sono cionondimeno tenute a rispettare i principi fondamentali del Trattato ». Sull’ordinanza riportata si veda G. BRANCACCIO, Il diritto comunitario si applica anche agli appalti sottosoglia, in Dir. pubbl. comp. ed eur., 2001, II, 777 e ss.


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tal modo, si è finalmente data adeguata attuazione a quanto previsto dall’art. 8 del r.d. n. 2440 del 1923 (19). Il nuovo regolamento disciplina l’acquisto di determinati beni e servizi (preventivamente individuati dalle stazioni appaltanti con appositi provvedimenti), fino ad un importo massimo di € 130.000,00 per le Amministrazioni statali e di € 200.000,00 per le altre Amministrazioni pubbliche non statali. Tra l’altro, in precedenza (e precisamente nel 1999), il Parlamento con l’art. 26 della l. n. 488 (Finanziaria 2000) aveva già approvato il sistema di acquisto di beni e servizi strutturato sulla convenzione con la Consip S.p.a. Nel 2002, inoltre, il Dipartimento per le Politiche Comunitarie presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha diramato una circolare (n. 8756 del 6 giugno 2002) con la quale ha esortato tutte le Amministrazioni dello Stato a rispettare i principi fondamentali del Trattato anche nell’affidamento di appalti pubblici di importo inferiore alla soglia comunitaria (20). Nel medesimo anno — con l’approvazione della Legge finanziaria per il 2003 (l. n. 289 del 2002) — il Parlamento, da un lato, ha vincolato le amministrazioni aggiudicatrici elencate nei decreti legislativi sugli appalti di servizi e forniture ad applicare le regole dell’evidenza pubblica per tutti gli appalti di importo superiore ad (19) L’art. 12 del regolamento estende la possibilità di applicare la nuova disciplina anche alle Amministrazioni pubbliche non statali che non abbiano aderito al sistema Consip (art. 26 legge n. 488 del 1999) e che dispongano in tal senso nell’ambito della loro autonomia. L’art. 14 del regolamento, inoltre, ha abrogato proprio l’art. 8 del r.d. n. 2440 del 1923 e gli artt. 61 e 121 del r.d. n. 827 del 1924, nelle parti di essi riferite agli acquisti in economia. (20) « ...le pubbliche amministrazioni, che intendono stipulare contratti non regolamentati sul piano europeo, pur non essendo vincolate da regole analitiche in punto di pubblicità e di procedura, siano (sono ndr) comunque tenute ad osservare criteri di condotta che, in proporzione alla rilevanza economica della fattispecie ed alla sua pregnanza sotto il profilo della concorrenza nel mercato comune, consentano senza discriminazione su base di nazionalità e di residenza, a tutte le imprese interessate di venire per tempo a conoscenza dell’intenzione amministrativa di stipulare il contratto e di giocare le proprie chances competitive attraverso la formulazione di un’offerta appropriata ». Sulla circolare in questione si veda L. MASI, Procedure di affıdamento degli appalti sottosoglia. Commento alla circolare del Ministro per le Politiche Comunitarie 6 giugno 2002 n. 8756, in Urb. e app., 2002, 1301 e ss.


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€ 50.000,00 (21) e, dall’altro, ha posto qualche elemento disincentivante rispetto alla scelta di affidare commesse a trattativa privata (22). Nel corso del 2003 — come era (a questo punto) prevedibile — il disordine ha regnato sovrano; proprio queste ultime scelte del Legislatore, infatti, hanno ingenerato spinose problematiche e decise critiche (23). In particolare, i primi commentatori delle nuove disposizioni normative hanno sottolineato in maniera energica come l’iniziativa normativa mal si conciliasse: con la circostanza che le diverse soglie dell’evidenza pubblica erano già state puntualmente definite dal Legislatore comunitario, con quanto disposto dal nostro Legislatore nel d.P.R. n. 384 del 2001 e con tutta la normativa sulla trattativa privata relativa a commesse di importo superiore ad € 50.000,00 (24). Procediamo con ordine. Se per risolvere la prima questione — a coloro i quali, a diverso titolo, sostenevano che l’art. 24 della finanziaria 2003

(21) Art. 24, comma 1 l. n. 289 del 2002: « Per ragioni di trasparenza e concorrenza, le amministrazioni aggiudicatrici quali individuate nell’art. 1 del Testo Unico di cui al decreto legislativo 24 luglio 1992, n. 358 e successiva modificazioni, e nell’art. 2 del decreto legislativo 17 marzo 1995, n. 157, e successive modificazioni, per l’aggiudicazione rispettivamente, delle pubbliche forniture e degli appalti pubblici di servizi disciplinati dalle predette disposizioni, espletano procedure aperte o ristrette, con le modalità previste dalla normativa nazionale di recepimento della normativa comunitaria, anche quando il valore del contratto è superiore a € 50.000,00 ... ». (22) Art. 24, comma 5 l. n. 289 del 2002: « Anche nelle ipotesi in cui la vigente normativa consente la trattativa privata, le pubbliche amministrazioni possono farvi ricorso solo in casi eccezionali e motivati, previo esperimento di una documentata indagine di mercato, dandone comunicazione alla sezione regionale della Corte dei conti ». (23) Le critiche in questione sono state all’origine dei reiterati interventi di modifica e parziale abrogazione del testo dell’art. 24 (d.l. 24 giugno 2003 conv. con modif. nella l. n. 212 del 1 agosto 2003 e, successivamente (li analizzeremo più avanti): d.l. n. 269 del 30 settembre 2003, conv. con modif. nella l. n. 326 del 24 novembre 2003 e legge n. 350 del 2003) e di alcuni lavori di approfondimento: A. SPATARO e A. NOBILE, Le forniture di beni e servizi nella pubblica amministrazione, Milano, 2003. (24) Per i commenti in questione, si veda: L. OLIVERI, Le procedure in economia non sono abrogate o intaccate dalla legge finanziaria per il 2003, in www.lexitalia.it, n. 1/2003.


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avesse in concreto abbassato le varie soglie comunitarie (25) — è stato sufficiente ribattere che le soglie in questione non potevano sicuramente essere modificate dal Legislatore nazionale e che quest’ultimo, con la sua iniziativa, evidentemente si era semplicemente limitato ad esercitare la sua facoltà di estendere la disciplina ideata per gli appalti sopra-soglia anche alle commesse di importo compreso tra i € 50.000,00 e le diverse soglie comunitarie. Per dipanare le altre due problematiche sono stati necessari un intervento delle Sezioni Unite della Corte dei Conti e alcune considerazioni leggermente più articolate. Rispetto alla posizione di coloro i quali ritenevano che l’entrata in vigore dell’art. 24 avesse determinato l’abrogazione implicita delle disposizioni del d.P.R. n. 384 del 2001, nella parte relativa alle commesse di importo superiore ad € 50.000,00 (26) e che la voluntas legis dell’art. 24 fosse proprio quella di limitare le spese in economia agli acquisti di importo inferiore a tale cifra (27), le Sezioni Unite — con la deliberazione del 27 febbraio 2003 — hanno puntualizzato che il disposto dell’art. 24 della l. n. 289 del 2002 non andava ad intaccare in alcun modo la normativa approvata con il d.P.R. n. 384 del 2001 (28). (25) Si vedano: la circolare del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 7 gennaio 2003: « Al primo comma (dell’art. 24 l. n. 289 del 2002 ndr), in particolare, viene prevista l’estensione delle procedure con le modalità previste dalla normativa nazionale di recepimento della normativa comunitaria, anche per i contratti superiori ad € 50.000,00. Ciò comporta che le procedure di acquisizioni di beni o servizi in economia sono consentite fino all’importo di € 50.000,00, limite al di sopra del quale è necessario il ricorso, per qualunque tipologia di bene o servizio, alla cosiddetta “gara europea” »; nonché M. FERRARA e G. PANASSIDI, Gli acquisti di beni e servizi nella legge finanziaria 2004, in www.lexitalia.it, n. 2/2004: « Com’è noto, l’art. 24 della l. n. 289 del 2002 aveva, infatti, abbassato a 50.000,00 euro la soglia comunitaria, ... ». (26) In particolare, M. GRECO, Gli acquisti di beni e servizi in economia, Milano, 2003. (27) P. MONNEA e E. IORIO, Commento all’art. 24 della legge finanziaria 2003, in www.lexitalia.it, n. 1/2003. (28) Deliberazione Corte dei Conti, Sez. un., del 27 febbraio 2003 n. 7/CONTR/ 03: « Sussistono, inoltre, molteplici elementi, anche di carattere testuale, che inducono a considerare il limite di valore di 50.000 euro, introdotto dall’art. 24, comma 1, come nuova soglia di carattere generale riguardante gli acquisti di beni e servizi indipendentemente dalla forma giuridica della loro acquisizione. Tale interpretazione è confortata,


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Sempre con riferimento alla posizione contraddetta dalla pronuncia appena richiamata, alcuni commentatori hanno fatto presente come l’interpretazione in virtù della quale l’art. 24 della finanziaria 2003 avrebbe modificato il disposto del d.P.R. n. 384 del 2001 mal si conciliasse con la natura « delegificatoria » di que-

innanzitutto, dalla circostanza che il ricordato comma 1 si riferisce soltanto alle procedure aperte o ristrette (asta pubblica, licitazione privata, appalto-concorso): ora — a meno di non voler ritenere che il legislatore abbia inteso abolire tout court le procedure negoziate (trattativa privata, con o senza pubblicazione di un bando di gara) per l’aggiudicazione di forniture e servizi di importo superiore a € 50.000 — appare evidente che la disposizione di cui al successivo comma 5 ha carattere integrativo della precedente, come testimoniato dall’uso della congiunzione “anche” che precede il richiamo alle “ipotesi in cui la vigente normativa consente la trattativa privata”. Le due disposizioni vanno quindi lette congiuntamente, come del resto conferma il successivo comma 9 dell’art. 24, il quale stabilisce che “le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 5 costituiscono, per le Regioni, norme di principio e di coordinamento”. Il riconosciuto carattere di generalità della soglia di 50.000 euro comporta, come ulteriore conseguenza, che l’obbligo di comunicazione ex art. 24, comma 5, non può non riguardare anche le procedure in economia per l’acquisizione di beni e servizi, da ultimo disciplinate con d.P.R. 20 agosto 2001, n. 384, il quale ne consente l’utilizzazione fino al limite di importo di € 130.000 (IVA esclusa). Pur considerando che tale comparto è stato tradizionalmente distinto dalla attività contrattuale propriamente detta della P.A. e disciplinato con apposite norme di natura regolamentare ad iniziativa delle singole Amministrazioni, appare incongruo ritenere che le innovazioni introdotte con il ripetuto art. 24 della legge finanziaria per il 2003 non si applichino al comparto medesimo. Oltre alle considerazioni relative alla gerarchia delle fonti ed alla successione delle leggi nel tempo, nel caso di specie si rinvengono ulteriori elementi a sostegno della tesi estensiva, quali la finalità, perseguita dall’art. 24, di generale contenimento delle spese per la salvaguardia degli equilibri di finanza pubblica, e la stessa rubricazione della norma che è manifestamente ispirata ad un criterio sostanziale (« Acquisto di beni e servizi ») a prescindere dalle diverse forme in cui le singole acquisizioni siano effettuate. Al riguardo giova sottolineare, altresı̀, che il citato d.P.R. n. 384/2001 aveva elevato i previgenti limiti di importo per le procedure in economia a € 130.000, prendendo manifestamente a riferimento proprio la soglia oltre la quale le Amministrazioni dello Stato (ed equiparate) erano tenute ad applicare la disciplina comunitaria: ciò posto, in presenza di una sopravvenuta disposizione di legge, finalizzata ad incentivare la trasparenza e la concorrenza nell’acquisto di beni e servizi, che abbassa la predetta soglia a € 50.000, sarebbe illogico escludere dal nuovo assetto normativo il settore delle spese in economia. Opinando diversamente si altererebbe la preesistente simmetria del sistema, creando un rilevante favor per le procedure in economia, che inevitabilmente potrebbero subire un artificioso incremento (in ragione della disciplina meno rigorosa rispetto alla ordinaria attività contrattuale) e dare luogo a comportamenti elusivi da parte delle Amministrazioni procedenti ».


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st’ultima fonte e con il conseguente, presunto carattere — per cosı̀ dire — « rilegificatorio » dell’art. 24 (29). Ad ogni modo, le dure critiche rivolte al testo dell’art. 24 dai più attenti analisti della normativa in tema di appalti, si sono evidentemente dimostrate fondate se è vero che, con l’approvazione della l. n. 326 del 2003 (« Diposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici »), il Legislatore ha abrogato i primi due commi dell’art. 24 della l. n. 289 del 2002 e, in tal modo, ha parzialmente ripristinato il quadro normativo di riferimento esistente prima dell’entrata in vigore delle disposizioni abrogate (30). L’intervento ripristinatorio è stato definitivamente completato nel momento in cui la legge finanziaria per il 2004 ha eliminato anche il quinto comma dell’art. 24 ed i limiti che la relativa disposizione aveva introdotto in tema di trattativa privata. 4. Nel medesimo periodo di tempo, il giudice amministrativo ha dimostrato una sensibilità verso gli stimoli comunitari ai quali si è fatto riferimento quantomeno non inferiore rispetto a quella palesata dal Legislatore. Con la sentenza n. 1206 del 2 marzo 2001, la Sezione VI del Consiglio di Stato ha sottolineato la necessità che le Amministrazioni aggiudicatrici (nel caso di specie un organismo di diritto pubblico, Poste italiane S.p.a.) applichino i principi comunitario di trasparenza, pubblicità e non discriminazione anche nel caso in cui l’importo dell’appalto che si trovano a dover aggiudicare risulti inferiore alle soglie comunitarie di riferimento (31). (29) L. OLIVERI, Le procedure in economia non sono abrogate o intaccate dalla legge finanziaria per il 2003, cit. (30) Un sintetico resoconto delle posizioni della dottrina e dell’Amministrazione in tale fase del dibattito è rinvenibile in F. PITOCCHI, Acquisti in economia di beni e servizi. Riflessioni sulla normativa anche alla luce dell’art. 15 del d.l. 30 settembre 2003 n. 269, in www.lexitalia.it, n. 12/2003. (31) « Poste Italiane S.p.a., pur avendo assunto la forma societaria, ha continuato ad essere sottoposta ad una disciplina derogatoria rispetto a quella codicistica e sintomatica della strumentalità rispetto al conseguimento di finalità pubblicistiche, al punto tale da essere qualificata organismo di diritto pubblico; e pertanto, in sede di appalto di forniture la Poste Italiane S.p.a. è astretta dall’osservanza della disciplina pubblicistica


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La sentenza del Tar Campania in commento si conforma perfettamente all’orientamento del Consiglio di Stato appena sintetizzato. Orbene, da un punto di vista astratto e concettuale, nulla questio (o quasi); la forza cogente del Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea impone, infatti, che i principi cardine di tale Comunità (tra i quali sicuramente figurano quelli di trasparenza, pubblicità e non discriminazione) diventino punti di riferimento costante nell’attività quotidiana delle Amministrazioni dei singoli Stati membri. Ciò nonostante, nel momento in cui dal piano delle idee e dei principi si passa a quello concreto qualche difficoltà purtroppo emerge. 5. Innanzi tutto, una considerazione di carattere generale e preliminare; l’orientamento del giudice amministrativo di vincolare gli organismi di diritto pubblico al rispetto dei principi fondanti del Mercato Unico anche in occasione di tutti gli acquisti di servizi e forniture di importo inferiore alle soglie comunitarie di riferimento sembra a chi scrive parzialmente eccessivo e forse, addirittura, azzardato per almeno tre diverse ragioni. In primo luogo, esso risulta difficilmente conciliabile con la circostanza che il Legislatore comunitario abbia menzionato e menzioni gli organismi di diritto pubblico solo in atti normativi che si riferiscono all’affidamento di commesse sopra-soglia e, di conseguenza, per ora, appare sfornito del necessario fondamento normativo. La considerazione potrebbe apparire scontata ma, probabilmente (lo si vedrà), non lo è del tutto. In secondo luogo, a ben vedere, esso fonda le sue radici in sentenze pronunciate dalla Corte di Giustizia nell’ambito di giudizi che vedevano coinvolti soggetti che — pur rientrando nel novero delle Amministrazioni aggiudicatrici — non erano organismi di settore, anche per gli appalti inferiori alla c.d. soglia comunitaria ». La sentenza richiamata è stata commentata da GIGANTE in Giust. civ., 2002, I, 2309 e ss. e da PAOLA in Foro it., 2002, III, 425 e ss.


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di diritto pubblico (Telekom Austria AG è un’impresa pubblica e lo Spottrup Boligselskab è un ente pubblico di edilizia popolare). Forse, allora, il nostro giudice amministrativo avrebbe agito in maniera più prudente se prima di affermare con determinazione che l’obbligo per gli organismi di diritto pubblico di adeguare il loro operato ai principi fondamentali del Trattato sussiste anche nel caso in cui gli importi dei servizi e delle forniture che devono affidare risultino inferiori alle soglie comunitarie, avesse atteso che la Corte di Giustizia emanasse una pronuncia che effettivamente sancisse quest’obbligo per gli organismi di diritto pubblico. La terza considerazione discende direttamente dalla seconda e va ad impattare con quello che sembra essere il vero fulcro del problema; l’orientamento del giudice amministrativo al quale si è appena fatto riferimento denota un’ingiustificata tendenza ad assimilare automaticamente ed a priori la posizione dell’organismo di diritto pubblico a quella delle altre Amministrazioni aggiudicatrici e a realizzare una « pubblicizzazione » parzialmente indiscriminata di ampi settori del mercato. Gli oggetti di tale propensione meritano qualche riflessione. Rispetto all’inclinazione ad assimilare automaticamente ed a priori la posizione dell’organismo di diritto pubblico a quella delle altre Amministrazioni aggiudicatrici viene spontaneo considerare coma sia ben possibile che i vertici dell’Unione — alla luce dell’ampia eterogeneità e delle peculiarità specifiche che caratterizzano in diverso modo i soggetti rientranti nella nozione di organismo di diritto pubblico — (abbiano inteso ed) intendano circoscrivere l’ambito di efficacia delle loro sollecitazioni in materia di appalti sottosoglia alle Amministrazioni aggiudicatrici per c.d. tradizionali ed alle imprese pubbliche. Certo non è detto che sia cosı̀. Quella prospettata è solo un’ipotesi; È altrettanto possibile, infatti, che i vertici dell’Unione non (abbiano inteso e non) intendano affatto « scorporare » la posizione degli organismi di diritto pubblico dal loro orientamento in materia di appalti pubblici sottosoglia. Ciò non di meno, ove quest’ultimo fosse effettivamente l’orientamento dei vertici dell’Unione qualche problema in effetti


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sorgerebbe. Se, infatti, si considera che la Corte di Giustizia ha da tempo sancito che gli organismi di diritto pubblico sono chiamati a rispettare la normativa comunitaria anche quando aggiudicano appalti in contesti che esulano dall’ambito che li connota come organismi di diritto pubblico, si capisce che — ove l’orientamento fosse quello prospettato — un soggetto, per il solo fatto di essere (o di essere stato) organismo di diritto pubblico sarebbe chiamato a rispettare i principi fondamentali del Trattato anche in occasione di acquisti di modico valore relativi a contesti del tutto diversi rispetto a quelli nei quali la sua connotazione di organismo di diritto pubblico emerge (o è emersa) propriamente. L’aspetto che tale possibilità lascerebbe colpevolmente in ombra è che (forse giova ricordarlo) gli organismi di diritto pubblico non sono tutti uguali. A parere di chi scrive, di fronte agli obblighi di rispetto dei principi del Trattato, sarebbe sicuramente errato omologare la posizione di una S.p.a. che deriva dalla privatizzazione di un importante ente pubblico economico e che — nonostante la nuova natura della sua personalità giuridica — continua ad essere legata al settore pubblico a quella, per esempio, di una società che — di regola — opera sul mercato in maniera del tutto ordinaria ma che, per un periodo (o in una circostanza), benefici di una qualche forma di finanziamento, sussidio, agevolazione o altro per portare a termine un progetto che abbia alla base il perseguimento di un bisogno di interesse generale non avente carattere industriale e commerciale. Se per il primo soggetto l’obbligo di rispettare i principi fondamentali del Trattato anche in occasione di acquisti di importo inferiore alla soglia comunitaria — ancorché (come si è detto) per nulla scontato — sembra in linea di massima coerente con un suo intenso collegamento con l’interesse pubblico, per il secondo tale obbligo risulterebbe ingiustificato e distruttivo. In tale ipotesi, infatti, alla luce di quanto sin qui detto, il soggetto in questione sarebbe tenuto a rispettare i principi di pubblicità, non discriminazione e trasparenza non solo in occasione di acquisti di importo inferiore alla soglia comunitaria ma obiettivamente connessi alla sua qualifica di organismo di diritto pubblico


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(circostanza già di per sé discutibile) ma anche in occasione di acquisti della medesima natura ma afferenti alla sua attività ordinaria e prevalente di operatore commerciale (circostanza questa del tutto inaccettabile). Una situazione del genere — oltre a destare non pochi sospetti in ordine alla sua compatibilità con il principio costituzionale della libertà dell’iniziativa economica privata (32) — provocherebbe senza dubbio un collasso del mercato da iperregolamentazione. Una riflessione al riguardo sarebbe sicuramente opportuna. Con riferimento, invece, alla tendenza del nostro giudice amministrativo a realizzare una « pubblicizzazione » parzialmente indiscriminata di ampi settori del mercato, le considerazioni acquistano un rilievo più generale. Nel recente passato, il giudice amministrativo ha — in più di un’occasione — manifestato una certa propensione ad assolutizzare il legame che unisce (più o meno intensamente e duraturamente) alcuni soggetti privati all’interesse pubblico e ad attribuirgli rilievo connotativo determinante e generalizzato (33). In altre parole, è sovente accaduto che il giudice amministrativo, generalizzando un aspetto specifico e parziale di alcuni soggetti, abbia ingiustificatamente attribuito a questi ultimi una natura pubblica che gli stessi non hanno e li abbia, di fatto, assoggettati al rispetto della normativa pensata per le pubbliche amministrazioni, anche in settori del tutto distinti da quelli nei quali il loro legame con l’interesse pubblico rileva propriamente. Tale orientamento sembra sintomatico di un retaggio che (forse in maniera inconscia) continua a vincolare il nostro giudice amministrativo alle sicurezze di un’impostazione per categorie probabilmente obsoleta e sicuramente incompatibile con la tendenza del Legislatore comunitario ad adottare qualificazioni per nulla cristallizanti. (32) Su tale principio e sui riflessi che da esso riverberano sul diritto pubblico, si veda il sempre attuale contributo del Maestro V. SPAGNUOLO VIGORITA, L’iniziativa economica privata nel diritto pubblico, Napoli, 1959. (33) La circostanza è stata di recente denunciata criticamente in G. NAPOLITANO, Soggetti privati [enti pubblici], in Dir. amm., 2003, 801 e ss.


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6. Ciò detto, passiamo a problematiche più concrete. In precedenza, si è constatato come — nel periodo compreso tra la fine del 1999 e la fine del 2002 — il Legislatore italiano si sia seriamente attivato per venire incontro alle sollecitazioni rivolte dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee agli Stati membri affinché si adoperassero per fare in modo che le Amministrazioni aggiudicatrici operassero in ossequio ai fondamenti del Trattato anche nel caso di commesse non rientranti nel campo di applicazione delle varie Direttive appalti. A ben vedere, però, la grande maggioranza degli atti normativi approvati in Italia nel predetto periodo (d.P.R. n. 384 del 2001) piuttosto che in precedenza (d.P.R. n. 573 del 1994) per venire incontro agli input comunitari non contempla tra i suoi destinatari gli organismi di diritto pubblico (34). (34) L’art. 1 del d.P.R. n. 384 del 2001 sancisce: « Il presente regolamento disciplina il sistema delle procedure di effettuazione delle spese per l’acquisizione in economia di beni e servizi da parte della amministrazioni statali, anche ad ordinamento autonomo, nonché degli istituti e scuole di cui all’art. 4 della legge 24 dicembre 1993 n. 537, e delle istituzioni di cui all’art. 2 della legge 21 dicembre 1999, n. 508 ». Il comma 4 dell’art. 1 del d.P.R. 573 del 1994 stabilisce: « Sono amministrazioni o enti aggiudicatari tutte le amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993 n. 29, nonché le istituzioni di cui all’art. 4, comma, 1, della legge 24 dicembre 1993, n. 537 ». Procedendo in ordine di citazione, si può rilevare che l’art. 4, comma 1 della l. n. 537 del 1993 si riferisce agli istituti, alle scuole di ogni ordine e grado, nonché alle istituzioni di alta cultura di cui all’art. 33 Cost., ed in particolare, alle Accademie di belle arti, alle Accademie nazionali di arte drammatica e di danza ed ai Conservatori di musica; l’art. 2 della l. n. 508 del 1999 fa riferimento esplicito: alla Accademie di belle arti, all’Accademia di arte drammatica, agli ISIA, ai Conservatori di musica, all’Accademia nazionale di danza e agli istituti musicali pareggiati (e trasforma gli ultimi tre soggetti indicati in Istituti Superiori di Studi Musicali e Coreutici). L’art. 1, comma 2 del d.lgs. n. 3 febbraio 1993 n. 29 (oggi inserito nell’art. 1 del d.lgs. n. 165 del 2001, come modificato dall’art. 1 della l. n. 145 del 2002) stabilisce che: « Per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, e loro consorzi e associazioni, le Istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale, l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e le Agenzie di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999 n. 300 » Come si è potuto constatare, non vi è nessun riferimento agli organismi di diritto pubblico.


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Di conseguenza, questi ultimi rientrano nell’ambito soggettivo di applicazione solo del sistema dei lavori pubblici (l. n. 109 del 1994 e d.P.R. n. 554 del 1999) e del sistema di acquisto Consip (art. 26 l. n. 488 del 1999). E, a parere di chi scrive, il rilievo che l’art. 12 del d.P.R. n. 384 del 2001 preveda la possibilità che anche altre Amministrazioni pubbliche diverse dallo Stato — nell’esercizio della loro autonomia — possano applicare la disciplina contenuta nel regolamento non vale a smentire la considerazione appena formulata, per almeno due ragioni. In primo luogo, perché — come si è verificato nella nota 26 — il più dettagliato elenco delle Amministrazioni pubbliche statali e non contenuto in un atto ufficiale dell’ordinamento (quello inserito nell’ex art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 29 del 1993) non contempla alcun riferimento, seppur velato, agli organismi di diritto pubblico. Ed in secondo luogo, perché un’operazione ermeneutica che — facendo leva sul dettato del citato art. 12 — conducesse a ritenere che la normativa contenuta nel regolamento approvato con d.P.R. n. 384 del 2001 sia applicabile anche dagli organismi di diritto pubblico risulterebbe sintomatica di un approccio per c.d. « iper-sostanzialista », il quale, se risulta accettabile in ambito comunitario, sembra certamente inadeguato ad un ordinamento che continua ad avere un elenco dettagliato delle Amministrazioni pubbliche. Quanto sin qui detto, in sostanza, significa che — fatto salvo il caso in cui gli organismi di diritto pubblico abbiano aderito al sistema Consip — questi ultimi, nel momento in cui hanno necessità di aggiudicare appalti di servizi e di forniture di importo inferiore alla soglia comunitaria, se vogliono (e devono!) operare in conformità alle sollecitazioni comunitarie, si trovano innanzi ad un bivio: o si adeguano alla normativa sugli appalti sopra-soglia contenuta nei dd.llgs. n. 157 del 1995 e 358 del 1992 ovvero, in alternativa, sono costretti a seguire la normativa contenuta nei rr.dd. n. 2440 del 1923 e n. 827 del 1924. Ora, se si considera che, allo stato, sono pochissimi gli orga-


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nismi di diritto pubblico che hanno aderito al sistema Consip, ci si rende conto che l’eventualità appena prospettata, in pratica, dovrebbe costituire la norma. Entrambe le soluzioni, invero, nascondono insidie e difficoltà: la prima appare eccessiva e zavorrante, la seconda, dal canto suo, sembra invece paradossale, contraddittoria e lacunosa; procediamo con ordine. Rispetto alla possibilità che gli organismi di diritto pubblico applichino i due decreti legislativi appena richiamati anche in occasione di acquisti di servizi e forniture di modico valore una considerazione viene spontanea: nell’emanare le varie Direttive appalti e nello stabilire le rispettive soglie, lo stesso Legislatore comunitario si è evidentemente reso conto di non poter vincolare le Amministrazioni aggiudicatrici al rispetto delle dettagliate prescrizioni che andava ad introdurre anche in caso di acquisti di modico valore. Se, ipoteticamente, avesse deciso in senso opposto, la sua scelta sarebbe risultata sicuramente irragionevole ed iniqua; le procedure disegnate dalle predette Direttive impongono, infatti, alle Amministrazioni aggiudicatrici costi non irrilevanti in termini di spesa e di tempo e vincolare i soggetti in questione a sopportare tali costi anche in occasione di acquisti di importo limitato sarebbe apparso obiettivamente eccessivo. Del resto, anche la Corte di Giustizia ha chiarito che le sue sollecitazioni in merito alla necessità che le Amministrazioni aggiudicatici agiscano nel rispetto del principi fondanti del Mercato Unico anche nelle ipotesi in cui debbano assegnare commesse di modico valore non possono essere tradotte sic et simpliciter in un richiamo ad applicare le direttive appalti anche in tali frangenti (si veda il punto 20 dell’ord. 3 dicembre 2001, C-59/00 Bent Mousten Vestergaard c. Spottrup Boligselskab: « le direttive comunitarie che coordinano le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici si applicano soltanto ai contratti il cui valore supera un determinato limite previsto espressamente in ciascuna delle dette direttive. Tuttavia, il solo fatto che il legislatore comunitario abbia considerato che le procedure particolari e rigorose previste in


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tali direttive non sono adeguate allorché si tratta di appalti pubblici di scarso valore non significa che questi ultimi siano esclusi dall’ambito di applicazione del diritto comunitario... »). Nulla di più. Con riferimento, invece, alla seconda possibilità, due spunti. Da un primo punto di vista, appare quantomeno contraddittorio il fatto che una categoria di soggetti (quella degli organismi di diritto pubblico) creata in ambito comunitario per fronteggiare le possibilità elusive dei principi fondamentali del Trattato insite nelle nuove forme di organizzazione pubblica, in determinate circostanze (appalti di servizi e forniture sotto-soglia) — per tenere fede ai predetti principi — debba seguire una normativa antiquata, lacunosa e (circostanza ancor più eclatante) entrata in vigore più di trent’anni prima dell’istituzione della U.E. Non meno contraddittorio sembra, inoltre, il fatto che gli organismi di diritto pubblico — nelle circostanze appena richiamate — pur essendo chiamati ad applicare la normativa contenuta nei rr.dd. n. 2440 del 1923 e n. 827 del 1924, di recente, non siano stati inseriti nell’ambito soggettivo di applicazione del regolamento (d.P.R. n. 384 del 2001) che, in attuazione del primo dei due regi decreti citati, disciplina gli acquisti in economia. La circostanza, poi, si complica ulteriormente nel momento in cui si prende atto del fatto che il regolamento n. 384 del 2001 ha esplicitamente eliminato dai due regi decreti più volti richiamati ogni riferimento agli acquisti in economia (art. 8, comma — del r.d. n. 2440 del 1923 e artt. 61 comma — e 121 comma — del r.d. n. 827 del 1924). Tale situazione — già foriera di gravi difficoltà ed incertezze per gli organismi di diritto pubblico che operano nei settori tradizionali — si aggrava notevolmente per gli organismi di diritto pubblico attivi nei settori (ex) esclusi. Se, infatti, si considera che la Direttiva che disciplina l’aggiudicazione degli appalti di lavori, servizi e forniture in tali settori (38/93/CEE) fissa per queste due ultime tipologie di appalto soglie comunitarie notevolmente più elevate rispetto a quelle previste nelle specifiche Direttive sui servizi (50/92/CEE) e sulle for-


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niture (36/93/CEE), si comprende come la mancanza di punti di riferimento che complica la vita agli organismi di diritto pubblico attivi nei settori tradizionali nel momento in cui devono aggiudicare appalti di servizi e di forniture di importo inferiore ad € 200.000,00, per gli organismi di diritto pubblico che operano nei settori esclusi e che devono affidare commesse di servizi e di forniture si estende fino agli appalti di importo pari ad € 400.000,00. Probabilmente è ora di intervenire. E la sensazione di chi scrive è che i vertici dell’Unione Europea siano del tutto consapevoli di tale urgenza; non sembra un caso, infatti, che in una delle pronunce già richiamate (sentenza del 7 dicembre 2000, C-324/98 Teleaustria Verlags e Telefonadress c. Telekom Austria) la Corte di Giustizia — nel chiarire che gli appalti di importo inferiore alla soglia comunitaria sono esclusi dall’ambito di applicazione delle direttive appalti — abbia introdotto l’inciso: »allo stadio attuale del diritto comunitario ». Non ci resta che... attendere. DANIELE MARRAMA


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T.A.R. Lombardia, Sez. II, 2 ottobre 2003, n. 4503 - Pres. Guerrieri - Est. di Nezza - Aries 2000 s.p.a. (Avv. Decio) c. Comune di Uboldo (Avv.ti Travi e Cerini), Regione Lombardia (n.c.), Provincia di Varese (n.c.), Comune di Saronno (n.c.), Comune di Origgio (n.c). Programmazione territoriale - Programma integrato d’intervento Contatto procedimentale - Affidamento del privato - Art. 1337 c.c. Applicabilità - Sussiste. Programmazione territoriale - Programma integrato d’intervento - Accordo di programma - Deliberazioni prodromiche della p.a. - Affidamento del privato - Esercizio legittimo dei poteri di autotutela - Responsabilità precontrattuale della p.a. - Sussiste. Responsabilità precontrattuale della p.a. - Art. 1337 c.c. - Buona fede Applicabilità alla parte privata - Sussiste. Poiché la sempre maggiore estensione del fenomeno dell’« urbanistica contrattata » comporta, sotto il profilo delle scansioni procedimentali, un indubbio (e correlativo) incremento dei momenti di concertazione tra i soggetti coinvolti nella programmazione territoriale, al punto che sembra venire in essere un’interlocuzione non dissimile da quella caratterizzante le trattative volte alla conclusione di un contratto, è possibile estendere le conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza in materia di tutela dell’affıdamento ingenerato nel privato che venga in contatto con la pubblica amministrazione anche con riguardo alle « trattative » che si svolgono nell’ambito della procedura finalizzata all’adozione di un programma integrato d’intervento, con conseguente applicazione dei principi espressi dall’art. 1337 c.c. in materia di responsabilità precontrattuale e con risarcimento del danno nei limiti del c.d. « interesse negativo » (1). Pur nell’ipotesi in cui la pubblica amministrazione revochi legittimamente, in via di autotutela, proprie precedenti determinazioni preordinate alla realizzazione di un accordo di programma per l’approvazione di un programma integrato d’intervento, ed anche nel caso in cui si debba certamente escludere sia la sussistenza di una responsabilità contrattuale, sia l’illegittimità di alcuno degli atti intervenuti nell’iter di cui è questione (con conseguente impossibilità, in forza del principio di pregiudizialità necessaria, di far valere a fini risarcitori la lesione dell’interesse legittimo), può nondimeno riconoscersi a carico dell’amministrazione medesima un’ipotesi di responsabilità precontrattuale allorché si accerti che, nel contesto del relativo procedimento, il contegno dell’amministrazione, complessivamente riguardato, abbia ingenerato nella parte privata un ragionevole affıdamento sul positivo esito della vicenda, successivamente infranto in seguito all’esercizio dei poteri di autotutela (2). Con riferimento alle fattispecie nelle quali sia possibile riscontrare la sussistenza della responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione, l’applicazione dei principi di cui all’art. 1337 c.c. comporta che


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vengano valutate anche la buona fede e la correttezza della parte privata e che pertanto la predetta responsabilità non possa essere dichiarata nella misura in cui, dall’esame delle concrete circostanze inerenti allo svolgimento delle « trattative », si possa riconoscere che, in un’ottica di buona fede, la parte privata avrebbe potuto e dovuto cominciare a dubitare sul buon esito della vicenda procedimentale (3). FATTO. — Con ricorso notificato in data 8 novembre 2002 alle amministrazioni indicate in epigrafe, ritualmente depositato, la società Aries 2000, premettendo di aver acquistato, con atto dell’1 agosto 2000, la proprietà del complesso immobiliare già sede degli stabilimenti Lazzaroni in territorio del Comune di Uboldo e di aver manifestato agli amministratori di detto ente l’intendimento di realizzare un investimento nel rispetto delle destinazioni ammesse dal p.r.g., esponeva: di aver presentato in data 22 dicembre 2000, in adesione all’invito dell’amministrazione a trovare una soluzione alternativa volta alla riqualificazione dell’area e alla eliminazione dei problemi viabilistici della zona (interessata dall’uscita del casello autostradale di Saronno sulla A9 e dalla confluenza tra la s.s. 233 e la s.s. 527), una proposta di programma integrato di intervento (p.i.i.), ai sensi della l. reg. n. 9 del 1999, per la realizzazione di un « Centro di intrattenimento relazionale », con presenza di collegate strutture di vendita per settori non alimentari, e di un connesso snodo viabilistico su un’area da acquistare in Comune di Saronno; che, a tal fine, l’amministrazione di Uboldo si era dotata del « Documento di inquadramento » previsto dall’art. 5 della l. reg. n. 9 del 1999 (delib. n. 54 del 10 luglio 2001) ed aveva espresso « parere favorevole » alla proposta di p.i.i., conferendo mandato al Sindaco di promuovere la procedura di accordo di programma ai sensi dell’art. 9 l. reg. n. cit. (delib. n. 65 del 25 luglio 2001); che la società Aries, sulla scorta dell’affidamento in tal modo ingenerato, aveva acquistato in data 25 gennaio 2002 l’area necessaria alla nuova viabilità, commissionando nel contempo uno studio specialistico — sottoposto ai competenti uffici regionali — sui flussi di traffico attuali e futuri; che, a seguito di svariati incontri avuti con alcuni esponenti degli enti interessati, la ricorrente aveva presentato in data 12 marzo 2002 una sostanziale innovazione del progetto viabilistico (era in particolare previsto un nuovo svincolo autostradale in Comune di Origgio e una bretella di collegamento con la s.s. 233, nel quadro di un complessivo riordino del sistema stradale già favorevolmente apprezzato dalla Regione e dai Comuni interessati in sede di preconferenza di servizi del 3 aprile 2001); che con la nota del 16 maggio 2002 il Sindaco di Uboldo aveva manifestato il proprio apprezzamento ed interesse per tale integrazione; che, nondimeno, successivamente alla tornata elettorale del maggio 2002 il nuovo Sindaco del Comune di Uboldo aveva omesso di avviare l’iter per la conclusione dell’accordo di programma; che, alla diffida da essa ricorrente inoltrata all’ente per sollecitare l’inizio della procedura, l’amministrazione aveva replicato con nota del 26 luglio 2002 recante co-


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municazione di avvio di un procedimento volto al « riesame » della documentazione » e alla « eventuale revoca » della deliberazione consiliare n. 65/2001; che, proposto nelle more ricorso giurisdizionale avverso il silenzio dell’amministrazione, al difensore della ricorrente era stata comunicata, nel pomeriggio del 20 settembre 2002, la convocazione in via d’urgenza, per il giorno successivo, del Consiglio comunale di Uboldo con all’ordine del giorno la revoca delle deliberazioni n. 54/2001 e n. 65/2001; che con la deliberazione consiliare n. 68/2002 l’ente aveva effettivamente revocato entrambi tali provvedimenti. Tanto premesso, la ricorrente chiedeva l’annullamento di detta deliberazione di revoca nonché, previa declaratoria dell’illegittimità del comportamento dell’amministrazione, la condanna della stessa al risarcimento dei danni nella misura di giustizia secondo una successiva quantificazione da eseguirsi, se del caso, mediante apposita consulenza tecnica. A sostegno del gravame l’istante deduceva: « 1. Violazione degli artt. 7 e segg. della l. n. 241 del 1990 in materia di partecipazione al procedimento amministrativo — Violazione degli artt. 49 e 50 dello Statuto del Comune di Uboldo in materia di procedimento amministrativo — Violazione dei principi di correttezza e buona amministrazione »: la comunicazione di avvio del procedimento inviata ad Aries 2000 avrebbe impedito a detta società di esercitare le inerenti facoltà partecipative, avendo l’amministrazione omesso sia di indicare le ragioni poste a base della decisione di riesaminare la proposta di p.i.i. sia di far menzione della deliberazione n. 54/2001, anch’essa revocata; « 2. Eccesso di potere sotto il profilo del difetto dei presupposti — Sviamento e abuso di potere — Difetto di motivazione »: la revoca sarebbe stata adottata in difetto di « fatti nuovi » negativi idonei a giustificare un diverso apprezzamento, da parte del Comune, di circostanze già valutate favorevolmente in sede di emanazione dell’atto rimosso. Con i motivi dal terzo al sesto la ricorrente contestava gli elementi specificamente considerati dal Comune di Uboldo per giungere alla gravata determinazione, e precisamente: a) la « relazione sulla rete distributiva commerciale », i cui estensori avrebbero, per un verso, erroneamente ritenuto la zona territoriale di riferimento (Uboldo e comuni contermini) « satura » dal punto di vista commerciale, non essendo state tenute presenti, alla luce dei principi costituzionali e legislativi in materia di libera iniziativa economica, le caratteristiche della zona o delle molteplici attività che l’Aries intenderebbe svolgere, e avrebbero, per altro verso, omesso di considerare il rinvio alla fase dell’accordo di programma e della conferenza di servizi ex d.lgs. n. 114 del 1998 (secondo quanto disposto dall’art. 1, comma 13, del regolamento regionale sul commercio n. 3/2000, come modificato dal reg. n. 9/2001) di ogni valutazione in ordine all’apertura di grandi strutture di vendita nell’ambito di strumenti di programmazione negoziata; b) l’« analisi assetto traffico ss. 527 in Comune di Uboldo », in cui non si sarebbe tenuto conto del progetto viabilistico presentato da Aries


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2000 in data 12 marzo 2002, favorevolmente valutato dalle amministrazioni interessate e sicuramente migliorativo della situazione esistente; c) i « monitoraggi sulla qualità dell’aria » compiuti dall’Arpa — Dipartimento di Varese, dal momento che la ritenuta, da parte del Comune, presenza in zona dei più alti valori di sostanze inquinanti, oltre ad appalesarsi quale circostanza del tutto irrilevante alla luce della necessità di sottoporre l’intervento a procedura di v.i.a. ex d.P.R. 12 aprile 1996, avrebbe al più dovuto convincere l’amministrazione ad adottare la nuova — e migliorativa — soluzione viabilistica; d) il « sondaggio telefonico » effettuato nel marzo 2002 su un campione di 800 persone residenti in Uboldo, attesa la scarsa attendibilità della rilevazione e comunque la sostanziale positività dei dati raccolti. Con il settimo motivo la società ricorrente evidenziava un altro profilo di difetto di motivazione, essendo stata, a suo dire, omessa qualsivoglia valutazione dell’interesse privato sacrificato dal provvedimento di autotutela, valutazione tanto più necessaria alla luce sia del lungo tempo trascorso tra l’atto revocato (delib. n. 65 del 25 luglio 2001) e l’atto di revoca (delib. n. 69 del 21 settembre 2002) sia del progressivo aumento del ragionevole affidamento riposto dal privato nella conclusione dell’operazione. Con l’ottavo motivo parte istante censurava anche la revoca della deliberazione consiliare n. 54/01, recante il « Documento di inquadramento ai sensi della l. reg. n. 12 aprile 1999 n. 9 », allegando che il provvedimento di autotutela era stato adottato in base all’erroneo assunto dell’esistenza di un rapporto di presupposizione necessaria tra detto « documento di inquadramento » e la deliberazione n. 65/01. Con l’ultima censura di legittimità (sub n. 9) la società Aries deduceva la violazione del principio di buona fede da parte dell’amministrazione comunale di Uboldo, che, nonostante l’avvenuta partecipazione a cinque incontri tra tutti gli enti interessati, non avrebbe mai espresso il parere conclusivo in ordine alla modifica viabilistica proposta. Si costituiva il Comune di Uboldo, il quale, con argomentate repliche — in cui segnalava, tra l’altro, come dopo la deliberazione del 25 luglio 2001 le perplessità dell’amministrazione sul progetto erano divenute più forti, al punto che prima ancora delle elezioni amministrative tenutesi nella primavera del 2002 il consiglio comunale aveva respinto la proposta di modificare il p.r.g. al fine di consentire la realizzazione dell’insediamento commerciale (delib. 9 aprile 2002 n. 28) —, instava per il rigetto del gravame. Respinta l’istanza cautelare, in vista dell’udienza di merito del 19 marzo 2003 la società istante depositava ulteriori memorie con le quali, precisato, tra l’altro, che la mancata adozione della variante al p.r.g. necessaria alla riqualificazione delle aree in questione non poteva certo essere intesa come ripensamento o disinteresse dell’amministrazione in ordine al progettato intervento, insisteva per l’accoglimento del ricorso e quantificava in dettaglio la richiesta di risarcimento dei danni.


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Disposta, con provvedimento presidenziale dell’8 marzo 2003, ed espletata, all’udienza del 18 marzo 2003, la prova testimoniale richiesta dalla ricorrente, all’udienza del 2 aprile 2003 la causa veniva infine discussa e trattenuta per la decisione. DIRITTO. — 1. Con il ricorso all’odierno esame la società Aries 2000, proprietaria di un esteso compendio immobiliare nel territorio del Comune di Uboldo, impugna, chiedendone l’annullamento e instando per il risarcimento di tutti i danni sofferti, il provvedimento con cui il Consiglio comunale di detto ente ha revocato le proprie deliberazioni, meglio indicate in epigrafe, preordinate all’adozione di un accordo di programma per la realizzazione di un « centro di intrattenimento relazionale con presenza di collegate strutture di vendita per settori non alimentari ». Rilevata preliminarmente l’inammissibilità sia dell’impugnazione spiegata avverso la Regione Lombardia, la Provincia di Varese, il Comune di Saronno ed il Comune di Origlio, amministrazioni delle quali non è gravato alcun atto o censurato alcun comportamento, sia di quella proposta avverso la nota del Comune di Uboldo n. 11307 del 26 luglio 2002, recante la comunicazione di avvio del procedimento conclusosi con l’adozione della deliberazione consiliare di revoca, in quanto atto non lesivo delle posizioni giuridiche soggettive dell’istante, il Collegio ritiene il ricorso fondato per quanto di ragione. Conviene anzitutto precisare che l’atto introduttivo contiene tre distinte pretese rivolte nei confronti dell’amministrazione di Uboldo: a) annullamento della revoca della deliberazione consiliare n. 65/01 (motivi dal n. 1 al n. 7 e motivo n. 9); b) annullamento della revoca della deliberazione consiliare n. 54/01 (motivo n. 8); c) risarcimento dei danni asseritamente patiti (motivo n. 19). La delibazione del thema decidendum può dunque avvenire nel rispetto di tale ordine. 2.1. Quanto alla domanda sub a), il Collegio ritiene di prescindere dalla preliminare delibazione sulla ammissibilità del gravame (alla luce della natura — provvedimentale o meno — dell’atto « revocato » e, conseguentemente, di quella della deliberazione di « revoca ») attesa la palese infondatezza dello stesso nel merito (del resto, è la stessa amministrazione a non contraddire l’impianto dell’atto introduttivo, replicando non in via subordinata ma in linea principale a ciascuna delle censure prospettate). 2.1.1. Con il primo motivo di ricorso l’istante si duole della violazione dei principi in materia di partecipazione procedimentale e, in particolare, delle disposizioni sulla comunicazione di avvio del procedimento: con la nota del 26 luglio 2002 l’amministrazione avrebbe infatti omesso sia di indicare le ragioni poste a base dell’intendimento di agire in autotutela sia di menzionare la deliberazione n. 54/01, anch’essa rimossa; carenze, peraltro, non sanate (ma anzi comprovate) dal tardivo « ravvedimento » che il


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Consiglio comunale avrebbe inteso operare attraverso la trasmissione alla ricorrente del provvedimento di revoca al fine di instaurare un (ormai inutile) contraddittorio. La doglianza è infondata. Ritiene infatti il Collegio che, attesa la natura ampiamente discrezionale dell’atto impugnato, la comunicazione di avvio del procedimento in concreto inoltrata alla società ricorrente non abbia leso alcun interesse partecipativo della stessa. L’art. 8, comma 2, della l. n. 241 del 1990 richiede che nella comunicazione vada indicato « l’oggetto del procedimento promosso », ma non anche, come correttamente rilevato dalla parte pubblica, le ragioni in base alle quali potrà essere assunto un provvedimento finale di un certo tenore, a meno di non voler ritenere che per atti altamente discrezionali già nella comunicazione di avvio debba essere illustrato l’esito della valutazione rimessa all’autorità amministrativa. In quest’ottica, appare del tutto ininfluente, ai fini del rilievo della censurata illegittimità (e non può pertanto essere intesa quale prova della insufficienza della comunicazione iniziale), la facoltà concessa alla parte privata dall’amministrazione di presentare controdeduzioni successive — con il conseguente impegno dell’ente di procedere all’esame delle stesse (cfr. punto 3 del dispositivo della deliberazione impugnata) —, potendo tale clausola essere apprezzata alla stregua di un autovincolo assunto ai fini della eventuale ulteriore ponderazione degli interessi in gioco. Né può sostenersi che l’intendimento di procedere alla revoca era stato già manifestato dal Comune — e avrebbe pertanto dovuto esser comunicato alla ricorrente — sin dalle deliberazioni consiliari nn. 49 e 52 del 5 luglio 2002 (cfr. lett. A, pag. 8, mem. Ric. 7 marzo 2003; docc. 5 e 6 res.), dal momento che — in disparte la questione dell’ammissibilità di tale profilo di doglianza, evidenziato soltanto nelle memorie conclusive — fino all’adozione del provvedimento impugnato esisteva soltanto una « proposta di deliberazione » promanante dalla Giunta comunale, ossia un atto da sottoporre al vaglio di un organo, il Consiglio, pur sempre libero di adottare una determinazione diversa da quella auspicata dall’esecutivo dell’ente. Quanto alla residua declinazione della censura in esame (mancata indicazione, tra gli atti da revocare, della deliberazione n. 54/01), il Collegio, considerate le allegazioni difensive del Comune miranti a sostenere l’esistenza di un vincolo di presupposizione tra gli atti rimossi, ritiene di rinviarne l’esame al momento della delibazione della doglianza precipuamente concernente la revoca della delibera n. 54/01 (motivo n. 8); la soluzione di entrambe le questioni richiede, infatti, l’accertamento della eventuale sussistenza proprio del dedotto nesso di presupposizione (v. punto 2.2). 2.1.2. Con il secondo motivo la società Aries segnala un preteso difetto di « fatti nuovi » legittimanti una diversa valutazione dell’interesse pubblico, con conseguente sviamento nell’esercizio dell’autotutela e vani-


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ficazione del ragionevole affidamento riposto dal privato nella conclusione dell’accordo di programma. La doglianza va disattesa. V’è da dire, infatti, che se, in linea generale, la revoca di un provvedimento amministrativo può avvenire anche all’esito di una rinnovata valutazione, rebus sic stantibus, dell’interesse pubblico, nel caso concreto comunque non sussisteva un affidamento del privato meritevole di una tutela estesa sino all’esclusione della possibilità di una nuova comparazione degli interessi in gioco. Nell’iter procedimentale stabilito dalla legge regionale n. 9 del 1999 non è, invero, prevista alcuna deliberazione consiliare prodromica alla adozione e approvazione dei programmi integrati di intervento. L’art. 9 sancisce, in particolare, che quando (come nella specie) il programma integrato di intervento « comporti variante agli strumenti urbanistici vigenti la cui approvazione sia di competenza regionale o provinciale » ovvero « richieda la partecipazione coordinata di più soggetti pubblici e privati per la rilevanza dell’intervento o la molteplicità dei soggetti coinvolti », il Sindaco possa « promuovere per la sua approvazione la procedura di accordo di programma ai sensi dell’art. 27 della legge 8 giugno 1990, n. 142 [oggi, art. 34 d.lgs. n. 267 del 2000], fatto salvo l’espletamento delle procedure di pubblicazione e osservazioni ». Nei casi appena enunciati la legge dunque richiede, perché si inizi la procedura, un atto di impulso del sindaco e rimette la complessiva valutazione della vicenda al consiglio comunale, organo deputato alla « ratifica » dell’accordo di programma comportante variazioni degli strumenti urbanistici (art. 34, comma 5, d.lgs. n. 267 del 2000). Orbene, non pare al Collegio che, in assenza della stipula di un accordo di programma o della adozione di un qualsivoglia provvedimento conclusivo della procedura, possa ravvisarsi quel limite all’esercizio dell’autotutela che la giurisprudenza riconosce, per vero, soltanto quando siano insorti diritti a favore di terzi ovvero quando (secondo alcuni arresti) si sia costituito un affidamento particolarmente intenso del destinatario (per principio generale, il potere della p.a. di procedere, in sede di autotutela, alla rimozione dei propri atti amministrativi trova un limite insuperabile nella irreversibilità dell’effetto spiegato, nella sfera giuridica del suo destinatario, dell’atto che si vuole rimuovere; cosı̀ Tar Campania-Napoli, 28 settembre 1998 n. 2998; v. anche Cons. Stato, Sez. V, 3 settembre 2001 n. 4669). Un affidamento cosı̀ rilevante, idoneo cioè — sotto il profilo della regolare esplicazione della funzione amministrativa — a viziare gli atti eventualmente assunti in contrasto con precedenti determinazioni discrezionali, non può infatti ritenersi ingenerato dalla deliberazione n. 65/01, che costituisce — come correttamente osservato dalla difesa comunale — un atto dal mero carattere prodromico (non può peraltro inferirsi, dalla rilevata natura di tale provvedimento, una sua assoluta ininfluenza in ordine al suc-


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cessivo sviluppo dell’azione amministrativa, come i vedrà in sede di trattazione della pretesa risarcitoria). 2.1.3. I motivi dal terzo al sesto concernono, come già anticipato nella parte in fatto, le ragioni specificamente addotte dal Comune di Uboldo a supporto della revoca. La resistente sostiene, al riguardo, che la specifica contestazione da parte di Aries dei punti all’uopo evidenziati dall’amministrazione costituisca una indebita trasposizione della vicenda dal piano complessivo e generale a un piano più particolare, inidoneo, in quanto tale, a consentire la corretta delibazione del’operato comunale (pagg. 14 e 15 mem. res.). Ritiene tuttavia il Collegio che l’analisi della fondatezza di dette ragioni rappresenti, al contrario, un passaggio necessario ai fini dell’accertamento della sussistenza del lamentato vizio di eccesso di potere, sicché l’indagine proposta dal libello introduttivo si appalesa doverosa. Orbene, mentre sono fondate le prospettazioni riguardanti la situazione viabilistica, la situazione ambientale e il sondaggio telefonico, è infondata la doglianza relativa alla rete distributiva commerciale del Comune di Uboldo. Quanto alla viabilità, la deliberazione di revoca assume, sulla scorta di una relazione predisposta dalla Errevia S.r.l., che l’assetto esistente, anche alla luce della soluzione proposta dalla società nel progetto iniziale, non sarebbe minimamente idoneo a sopportare gli ulteriori incrementi di traffico derivanti dall’auspicato insediamento, comportante un’intollerabile creazione di un « flusso veicolare di particolare intensità su uno snodo già gravemente compromesso » (cfr. pag. 4 delib. n. 68/02). Il tutto con pesanti conseguenza sulla qualità dell’aria, dal momento che i dati A.r.p.a. relativi al livello di inquinamento riscontrato nella zona dimostrerebbero il superamento attuale (senza cioè considerare l’aggravio inevitabilmente derivante dall’entrata in funzione del « centro relazionale ») dei valori massimi di legge. Tali argomentazioni, seppur condivisibili con riferimento al progetto originario, non paiono tuttavia meritevoli di ulteriore considerazione ove si tenga conto dell’avvenuta presentazione, in data 12 aprile 2002, dell’apposita integrazione al progetto viabilistico. Il Collegio non ritiene, invero, di poter aderire all’assunto della parte pubblica circa l’impossibilità di valutare tale integrazione in quanto elemento « nuovo » rispetto alle circostanze già ponderate nella delibera da revocare (il che spiegherebbe perché nella parte motiva del provvedimento il Consiglio comunale segnala di aver « visto » ma non « esaminato » la nuova documentazione; l’amministrazione ha altresı̀ affermato che il nuovo progetto di sistemazione viabilistica della zona avrebbe potuto al più « giustificare l’avvio di una nuova procedura »). Non può, invero, dubitarsi del fatto che il Consiglio comunale avrebbe dovuto tener conto del nuovo elaborato, non solo perché presentato dalla


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istante in dichiarata integrazione del progetto originario, ma anche — e soprattutto, in ottica di buona fede — perché predisposto a seguito di una riserva espressamente contenuta nella iniziale deliberazione n. 65/01 (circostanza riconosciuta anche dalla resistente; cfr. pagg. 15 e 16 mem.). Sono parimenti inidonee a supportare la revoca le risultanze del sondaggio telefonico commissionato dall’amministrazione, dal momento che, come correttamente osservato dall’istante, la situazione che emerge dall’indagine condotta tra la popolazione non sembra univocamente interpretabile nel senso opinato dal Comune (la ricorrente ha evidenziato la natura suggestiva o retorica di alcune domande e l’erronea valutazione data all’opinione di « poco entusiasmo » manifestata da parte del campione degli intervistati, e che, a differenza di quanto inteso dall’ente, non proverebbe in realtà un atteggiamento di chiusura verso l’iniziativa). Per i profili appena esaminati la gravata deliberazione appare quindi illegittima. Rimane da considerare l’aspetto concernente l’adeguatezza della rete commerciale. In merito il Collegio ritiene di dover disattendere le allegazioni della ricorrente volte a far constare lo scarso approfondimento dell’elaborato predisposto dallo « Studio di ricerca e pianificazione dott. Anziani » per non aver tenuto conto: a) dei principi ordinamentali in materia di libera iniziativa economica; b) di elementi quali la naturale vocazione al commercio e all’intrattenimento della zona o i generi merceologici presenti nel territorio in relazione ai « contenuti del mix merceologico proposto nel p.i.i., che vede la sinergica presenza di attività di intrattenimento, sportive e di servizio pubblico »; ed infine, c) del rinvio, operato dalle norme del regolamento regionale sul commercio, alla fase dell’accordo di programma e della conferenza di servizi ex d.lgs. n. 114 del 1998 per le valutazioni sull’opportunità di apertura di grandi strutture di vendita previste nell’ambito di strumenti di programmazione negoziata. Ora, in disparte la qualificazione dell’intervento di cui Aries ha ipotizzato la realizzazione (l’istante contesta la definizione, a suo giudizio imprecisa, di « centro commerciale » data dalla parte pubblica), non è in discussione, ed è pertanto elemento pacifico, la rilevante consistenza, ben presente all’amministrazione, delle strutture previste (la superficie catastale complessiva del compendio immobiliare è pari a mq. 75.000, di cui mq. 54.600 insistenti in Comune di Uboldo e la rimanente parte in Comune di Saronno, con una s.l.p. di mq. 41.851,42 ed un bacino d’utenza di 1.149.000 unità; trattasi di dati che si evincono dalla « scheda centro di intrattenimento relazionale », sub n. 2 all. ric., in cui sono altresı̀ dettagliatamente evidenziate le caratteristiche delle programmate destinazioni terziarie e commerciali; è incontestabilmente prevista, in particolare, l’apertura di una grande struttura di vendita). E l’elaborato tecnico, testualmente riportato (in parte) nel corpo della deliberazione n. 68/02, dopo aver dato compiutamente conto delle caratteristiche della rete di vendita comunale di


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Uboldo (il sistema degli esercizi commerciali, sia per il settore alimentare sia per quello non alimentare, avrebbe connotazioni tradizionali, considerata « l’abbondante presenza, negli altri comuni della conurbazione » formata dai comuni di Uboldo, Saronno, Gerenzano, Origlio e Rescaldina, « di medie e grandi strutture »), conclude nel senso della saturazione della medesima in relazione allle esigenze dell’utenza. Appaiono, in quest’ottica, inconferenti le deduzioni della ricorrente circa l’individuazione dell’esatto momento procedurale in cui valutare l’opportunità dell’apertura di grandi strutture di vendita: come correttamente osservato dalla resistente (cfr. pag. 13 mem. nov. 2002), l’amministrazione comunale è certamente legittimata a compiere — sotto il profilo urbanistico — valutazioni negative su un progetto non previsto nel piano regolatore generale e di cosı̀ grande rilievo per il territorio comunale. Da quanto detto segue che l’aspetto della motivazione in disamina è di per sé idoneo a sorreggere l’atto di autotutela, apparendo pertanto l’atto gravato immune dai denunziati vizi di legittimità. 2.1.4. Le esposte osservazioni consentono di disattendere anche il settimo motivo di ricorso, prospettante una asserita mancata considerazione, da parte del consiglio comunale di Uboldo, dell’interesse del privato sacrificato dal provvedimento di autotutela. Può in merito rinviarsi a quanto sopra affermato in punto di affidamento (v. sub 2.1.2.), dovendosi unicamente aggiungere in questa sede che il tempo trascorso tra l’adozione della deliberazione n. 65/01 (risalente al mese di luglio del 2001) e la successiva revoca della stessa (risalente al settembre dell’anno successivo) non sembra costituire, oggettivamente, una circostanza alla cui stregua Aries avrebbe potuto reputare consolidato il proprio affidamento sull’esito favorevole della procedura. 2.1.5. Il nono motivo concerne la violazione del principio di buona fede in relazione alla mancata valutazione dell’integrazione al progetto viabilistico e alla mancata espressione, da parte del Sindaco di Uboldo, del relativo parere nel corso di una riunione, tenutasi in data 18 giugno 2002, con i rappresentanti delle altre amministrazioni interessate. Sotto il primo profilo, va ribadito che l’omissione lamentata dalla Aries non è idonea, per le ragioni esposte al punto 2.1.3, a condurre all’annullamento dell’atto impugnato. È parimenti ininfluente il contegno assunto dal Sindaco di Uboldo in occasione degli incontri avvenuti presso la Regione Lombardia: la deliberazione di revoca prescinde, infatti, dalla mancata espressione del parere sul progetto viabilistico integrativo. 2.2. Va invece rilevato il difetto di interesse, secondo quanto segnalato dall’amministrazione resistente, con riferimento all’impugnazione della revoca dell’approvazione del « documento d’inquadramento » (delib. n. 54/ 01; motivo n. 8).


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Ai sensi dell’art. 5 della legge regionale n. 9 del 1999, « il consiglio comunale delibera, anche contestualmente all’adozione ai sensi della presente legge del primo programma integrato d’intervento, un documento d’inquadramento, allo scopo di definire gli obiettivi generali e gli indirizzi della propria azione amministrativa nell’ambito della programmazione integrata d’intervento sull’intero territorio comunale » (comma 1). « Tale documento », prosegue la disposizione, « non è comunque vincolante ai fini dell’approvazione dei singoli programmi di intervento » (comma 2), e « viene verificato ed eventualmente integrato o modificato contestualmente all’adozione dei successivi programmi integrati d’intervento da parte del consiglio comunale » (comma 3). Si tratta di uno strumento — facoltativo per il Comune di Uboldo, ai sensi del comma 4 dell’art. 5 (cfr. premesse della delib. n. 54/01) — mediante il quale l’ente locale definisce « un quadro di riferimento per le trasformazioni urbanistico-territoriali promuovibili attraverso la concertazione e la cooperazione con soggetti pubblici e privati », « individua gli obbiettivi generali e gli indirizzi dell’azione amministrativa » ed « evidenzia quali indicazioni della propria pianificazione urbanistica potrano essere oggetto di modificazione concertata con i diversi soggetti interessati (cfr. pagg. 45 e segg. Del documento di inquadramento approvato con la delib. n. 54/01, in atti). Dalla natura di mero strumento programmatico, per di più facoltativo ove adottato non contestualmente all’adozione del primo programma integrato d’intervento (art. 5, comma 5), modificabile — una volta approvato — in occasione dell’adozione di successivi p.i.i. (art. 5, comma 3) e in ogni caso derogabile (art. 8, comma 6, a mente del quale « qualora il programma integrato di intervento concerna iniziative non conformi ai criteri ed indirizzi contenuti nel documento di inquadramento di cui all’art. 5, la delibera di approvazione deve espressamente motivarne le ragioni) si evince che la società istante non vanta un interesse al mantenimento in vita del medesimo, dal momento che non risulta esserle inibita la possibilità di presentare nuove proposte di p.i.i. (per le quali il Consiglio comunale, in difetto di documento d’inquadramento altrimenti approvato, e ove intendesse procedere al recepimento delle stesse, sarà tenuto a dotarsi dello strumento in esame); tanto più che la ricorrente dà per scontata la necessità di « riqualificazione » della sua area — cfr. memorie 7 marzo 2003, pag. 10 —, pur avendo sempre sostenuto (in modo che sembra contraddire tale assunto) che il compendio si sarebbe potuto immediatamente utilizzare per finalità consentite dal p.r.g. vigente (logistica, ecc.). Non pare, in altri termini, che la revoca sia idonea a comportare una lesione, sia pure sotto il mero profilo dell’aggravamento del procedimento amministrativo, della posizione soggettiva vantata dalla ricorrente. Da quanto detto segue l’inammissibilità della pretesa di annullamento del provvedimento impugnato nella parte in cui dispone la revoca della deliberazione n. 54/01 e, a scioglimento della riserva sul punto, la conse-


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guente irrilevanza della mancata menzione di tale atto nella comunicazione di avvio procedimentale (v. supra sub 2.1.1). 2.3. Rimane da esaminare la domanda di risarcimento dei danni formulata nel ricorso (sotto forma di censura; cfr. n. 10 ric.) e successivamente specificata, con analitica quantificazione delle somme richieste, nelle memorie difensive depositate dalla ricorrente in vista dell’udienza del 19 marzo 2003 (non pare superfluo segnalare, sul piano processuale, che tale domanda si caratterizza — come subito si passa a vedere — per la sua autonomia rispetto al resto del thema decidendum: essa andrebbe cioè delibata anche in ipotesi di inammissibilità di entrambe le pretese impugnatorie già trattate). A tal fine occorre chiarire, sotto il profilo del titolo di responsabilità invocato, come la pretesa in concreto spiegata non possa essere qualificata (come vorrebbe l’amministrazione) alla stregua di risarcimento dei danni derivanti dalla illegittimità della deliberazione di revoca (cfr. pag. 21 mem. res.). L’atto introduttivo non prende, infatti, una precisa posizione al riguardo, giacché l’istante allega anche la violazione dei doveri di correttezza e di buona fede incombenti sull’ente pubblico allorquando agisce in rapporti intersoggettivi con privati (cfr. premesse del motivo n. 9; il tema è sviluppato nelle memorie del 7 marzo 2003, con le quali Aries 2000 prospetta alternativamente una responsabilità extracontrattuale, deducendo in tale ambito anche la sussistenza di un illecito precontrattuale del Comune, ovvero contrattuale, e qui verrebbe in rilievo, a suo dire, una responsabilità da « contatto amministrativo qualificato »). Osserva al riguardo il Collegio che la fattispecie all’odierno esame sembra trovare miglior inquadramento nell’ambito dell’illecito precontrattuale: se, da un lato, si deve certamente escludere la sussistenza di una responsabilità contrattuale, dal momento che tra le parti non si era ancora addivenuti alla stipula della convenzione attuativa del p.i.i., dall’altro non si ravvisa l’illegittimità di alcuno degli atti intervenuti nell’iter di cui è questione (né dell’originario atto di indirizzo, oggetto non di annullamento officioso ma di revoca in autotutela, né del provvedimento oggi gravato), con conseguente impossibilità, in forza del principio di pregiudizialità necessaria, di far valere a fini risarcitori la lesione dell’interesse legittimo. Nondimeno non può escludersi che il contegno dell’amministrazione, complessivamente riguardato, abbia ingenerato nella parte privata un ragionevole affidamento sul positivo esito della vicenda, successivamente infranto dal revirement dell’amministrazione comunale (cfr. Tar Campania-Napoli, Sez. II, 8 maggio 2001, n. 1985, che ha riconosciuto la responsabilità precontrattuale dell’amministrazione che abbia rimosso, in via di autotutela, gli effetti di una gara per la fornitura di apparecchiature a seguito di una nuova valutazione di opportunità). Ed invero, nel caso di disamina non si controverte di un’attività che trova il suo riferimento — e la sua chiave di lettura — unicamente nell’am-


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bito delle determinazioni costituenti esclusivo esercizio di discrezionalità amministrativa, potendo il senso del programma integrato di intervento essere colto, al contrario, nel contesto più generale di « gestione concordata » del territorio (nel « documento di inquadramento » è richiamata la sentenza del Tar Emilia-Romagna-Bologna n. 22 del 14 gennaio 1999, che, nel segnalare la recente introduzione, da parte del legislatore, di nuovi strumenti quali il « programma integrato di intervento », il « programma di riqualificazione urbana » e il « programma di recupero urbano », afferma come essi costituiscano un tentativo di ricomposizione — mediante moduli consensuali — della tradizionale dicotomia autorità-libertà, che si manifesta nell’attività di governo del territorio posta in essere dalla pubblica amministrazione). La sempre maggiore estensione del fenomeno dell’« urbanistica contrattata » comporta, cioè, sotto il profilo delle scansioni procedimentali, un indubbio (e correlativo) incremento dei momenti di concertazione tra i soggetti coinvolti nella programmazione territoriale, al punto che sembra venire in essere un’interlocuzione non dissimile da quella caratterizzante le trattative volte alla conclusione di un contratto (il caso di specie pare costituire un eloquente esempio di quanto detto: nel dibattito consiliare precedente all’approvazione della deliberazione n. 65/01 non solo si assiste a un frequente utilizzo del termine « trattativa », ma si dà per scontata un’interlocuzione, per cosı̀ dire, paritaria tra l’ente e il privato; v. la trascrizione del dibattito sub doc. n. 3 res.). Del resto, le circostanze che: a) la procedura di adozione del p.i.i. possa essere attivata ad iniziativa di soggetti privati « singolarmente o riuniti in consorzio o associati tra loro » (art. 7, comma 1, l. reg. n. 9 del 1999); b) l’attuazione dello strumento avvenga mediante una convenzione « tra i soggetti attuatori ed il comune », « avente i contenuti stabiliti dall’art. 12, comma 1, lett. a) e b) della l. reg. n. 60 del 1977 e successive modificazioni e dall’art. 8, nn. 3 e 4, della l. 6 agosto 1967, n. 765 » e che preveda altresı̀ « i reciproci diritti ed obblighi dei diversi operatori pubblici e privati, nonché i tempi, comunque non superiori a dieci anni, di realizzazione degli interventi contemplati nel programma integrato di intervento » (art. 10, comma 1, l. reg. n. 9 del 1999); c) la mancata stipulazione della convenzione « decorso un anno dalla definitiva approvazione del programma integrato di intervento », e decorso l’ulteriore termine assegnato all’amministrazione con apposita diffida, comporti la « decadenza del programma medesimo ad ogni effetto, compreso quello di variante alla vigente strumentazione urbanistica » (art. 10, comma 4, l. cit.); sono tutti elementi che segnalano la tendenziale unità di intenti che deve intercorrere tra privato ed ente pubblico per la realizzazione degli scopi prefissati nel programma. Ai fini che qui rilevano, la peculiarità del modulo consensuale in esame risiede, pertanto, proprio nelle modalità, sostanzialmente contrattuali, con cui può essere raggiunto un determinato assetto del territorio. Ciò consente di estendere al caso di specie le conclusioni raggiunte


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dalla giurisprudenza in materia di tutela dell’affidamento ingenerato nel privato che venga in contatto con la pubblica amministrazione (cfr. Tar Puglia-Bari 17 maggio 2001 n. 1761, in materia di responsabilità da « contatto », secondo cui « il principio dell’affidamento, che esprime l’obbligo di correttezza e di buona fede (in senso oggettivo) nei rapporti tra p.a. e cittadino, dalla sua prima connotazione nel senso del tendenziale « non venire contra factum proprium », si sviluppa cosı̀ fino a trovare applicazione all’interno del procedimento »; prosegue detta sentenza evidenziando coma la « responsabilità da contatto [...] sia funzionalmente omogenea alla responsabilità precontrattuale di cui all’art. 1337 c.c., finora ravvisata in giurisprudenza in ipotesi simili a quelle rientranti nella tipica casistica civilistica [...], e che comunque potrebbe utilmente essere invocata, per la sua specificità, solo in presenza di un’attività diretta alla stipulazione di un contratto »). Si tratta allora di capire se il contegno mantenuto dall’amministrazione comunale di Uboldo nella vicenda in esame abbia o meno ingenerato un ragionevole affidamento nella positiva conclusione del procedimento e, conseguentemente, nel raggiungimento degli obiettivi programmati (senza che ciò possa rilevare, come si è detto, in punto di regolare esercizio della funzione amministrativa). Il Collegio, considerato lo svolgimento degli eventi, il tenore delle deliberazioni adottate dal Consiglio comunale nonché le attività espletate dal privato, ritiene che il comportamento del Comune abbia, almeno sino a un certo momento, contribuito a convincere la proprietà, oltre che della bontà della scelta di realizzare un « centro di intrattenimento relazionale » sulle aree ex-Lazzaroni, anche della concreta fattibilità dell’intervento. Anzitutto, risulta accreditato al giudizio che l’idea di realizzare un insediamento diverso da quello, conforme alle prescrizioni urbanistiche di zona, in origine programmato (« logistica e magazzino merci destinate all’autotrasporto »), era partita dall’allora Sindaco di Uboldo — in quanto tale, e non uti civis — ed era stata prontamente recepita dalla proprietà, la quale, dopo l’incontro del gennaio 2000 presso gli uffici comunali, aveva ritenuto di predisporre il progetto di « centro di intrattenimento relazionale » (cfr. risultanze della prova testimoniale). Va poi considerato il tenore della deliberazione n. 65/01. Trattandosi di atto proveniente dal Consiglio comunale, non vi è dubbio che il Sindaco di Uboldo fosse impegnato ad esprimere un’azione conforme alla linea indicata dall’organo di indirizzo dell’ente (cfr. art. 42 d.lgs. n. 267 del 2000), con l’ulteriore effetto di fornire una « copertura » (politico-amministrativa) ai successivi sviluppi dell’operazione (cfr. premesse della delib. n. 65/01), né si può dubitare degli intendimenti dell’amministrazione di Uboldo (o meglio, di quella in carica prima della tornata elettorale del maggio 2001) di consentire la realizzazione del progetto Aries. Una preventiva pronuncia favorevole dell’organo deputato all’adozione della scelta definitiva (il Consiglio comunale ha espressamente deliberato


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« di esprimere parere favorevole all’intervento da attuarsi nell’area ex-Lazzaroni secondo la proposta preliminare consegnata in data 22 dicembre 2002 » — cfr. punto 1 del dispositivo della delib. n. 65/01 — e « di dare mandato al Sindaco di proporre l’« Accordo di Programma » — punto 4 dispositivo) non può non essere intesa dall’interessato come un forte segnale nel senso della positiva conclusione della vicenda; e tanto risulta anche dalla decisione del Consiglio di far proprie le riserve espresse dal consigliere Tognoni (accluse, quale « allegato B », alla deliberazione n. 65/01; cfr. punto 3 del dispositivo), dovendosi intendere dette riserve, secondo una lettura in buona fede, non alla stregua di questioni pretestuose, idonee a consentire in un secondo momento un completo revirement dell’amministrazione, ma come sottolineature di problemi in fatto sussistenti e necessari di ulteriori approfondimenti. Un altro argomento, che depone nel senso di considerare la deliberazione n. 65/01 non quale mera — e del tutto ininfluente — dichiarazione d’intenti, sembra peraltro risiedere proprio nella circostanza che lo stesso organo conciliare abbia avvertito la necessità di revocarla. Ora, pur ribadendosi la correttezza dell’assunto della difesa dell’amministrazione in ordine alla natura non definitiva degli incontri avvenuti tra gli esponenti dell’ente e della società ricorrente, non pare, nondimeno, che si possa escludere, in presenza degli elementi più innanzi richiamati e di altre conducenti circostanze (tra le quali va rimarcata la determinazione mostrata dagli organi comunali nel senso dell’approvazione del progetto, come comprovato dal puntuale superamento, in sede di votazione delle delibere consiliari rilevanti nella specie, di tutte le perplessità costantemente manifestate al riguardo dall’opposizione; v. le trascrizioni degli animati dibattiti preliminari al voto), che il privato avesse maturato se non la certezza quanto meno la ragionevole probabilità di un esito positivo dei contatti intrapresi con l’ente, al punto da effettuare ulteriori ingenti spese per rispondere ai desiderata dell’amministrazione (si pensi, ad es., all’integrazione al progetto viabilistico, secondo quanto espressamente richiesto dal deliberato comunale: una delle « riserve » specificamente apposte dal Consiglio all’atto di indirizzo consisteva, infatti, nella necessità che « ı̀l progetto per il rifacimento dell’incrocio » fosse preceduto da uno studio, effettuato da società specializzata, dei flussi di traffico attuali e futuri »). L’affı̀damento ingenerato nella ricorrente appare dunque idoneo a sorreggere la pretesa risarcitoria. Ciò se non altro per un primo periodo. In ottica di buona fede, infatti, la società Aries avrebbe dovuto iniziare a dubitare della positiva conclusione della vicenda quanto meno a partire dalla mancata approvazione della variante al p.r.g. (cfr. delib. n. 28 del 9 aprile 2002). Il continuo e serrato dibattito che ha animato i lavori del consiglio comunale sin dal momento della presentazione della proposta di p.i.i. ha trovato un punto fermo, nell’ambito della procedura di adozione della variante generale al p.r.g. di Uboldo, nell’approvazione — all’unanimità — di un emendamento volto


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ad « eliminare l’identificazione dell’area ex-Lazzaroni come zona C5 » e a ripristinare l’originaria destinazione di zona (cfr. trascrizioni del dibattito; all. 4 res.). L’approvazione di tale emendamento (irrilevante sotto il profilo giuridico, attesa la mancata adozione della variante per mancato raggiungimento della prevista maggioranza), valutato anche alla luce dell’imminente svolgimento delle elezioni amministrative, non può certo passare inosservata agli occhi di chi sia direttamente interessato a un intervento di tale rilevanza, sicché è da tale momento che non può più parlarsi di persistenza dı̀ un affidamento incolpevole in capo ad Aries 2000. In conclusione, ritiene il Collegio che il comportamento dell’amministrazione, quanto meno per il primo tratto di attività, abbia violato i richiamati canoni di correttezza e di buona fede (ex art. 1337 c.c.), sicché appare meritevole di considerazione — nei limiti detti — la pretesa risarcitoria dell’istante. Passando alla quantificazione del danno, va anzitutto chiarito che, in linea generale, nelle ipotesi di responsabilità precontrattuale il pregiudizio risarcibile va circoscritto nei limiti dell’interesse negativo, costituito dalle spese inutilmente sopportate nel corso delle trattative in vista della stipulazione del contratto e dalla perdita di ulteriori occasioni per la conclusione di un affare ugualmente o maggiormente vantaggioso. Vanno di contro esclusi dal novero del risarcimento i danni che si sarebbero evitati e i vantaggi che si sarebbero conseguiti con la stipulazione ed esecuzione del contratto. In applicazione di tali principi — estendibili, per quanto detto, al caso di specie —, spetta alla ricorrente anzitutto il ristoro dı̀ tutte le spese — conseguenza immediata e diretta del contegno mantenuto dall’ente — sostenute fino al momento del revirement dell’amministrazione (danno emergente). Trattasi, in sostanza, delle somme erogate per l’« approntamento » ed il « successivo affinamento » del p.i.i., specificamente indicate ai punti 1 e 2 della memoria del 7 marzo 2003, ammontantı̀ a complessive lire 92.928.880 (pari a € 47.993,76), dı̀ cui lire 75.008.880 (€ 38.738,85) per « spese per consulenze tecniche e di progettazione, studi viabilistici e di fattibilità », e lire 17.920.000 (€ 9.254,91) per spese di consulenza legale per l’approntamento del p.i.i. e la predisposizione della relativa convenzione (sono riportate sei fatture, versate in atti, emesse negli anni 2000 e 2001 dai soggetti incaricati della redazione della proposta di programma; cfr. doc. 28 ric.; l’effettuazione di tali spese non è peraltro contestata dall’amministrazione). Non vanno invece risarcite le spese sostenute per l’acquisto dell’area in Saronno necessaria all’attuazione del proposto snodo viabilistico (la ricorrente allega di aver speso lire 54.399.177 — cfr. punto 3, pag. 29, mem. 7 marzo 2003 — per pratiche notarili e per prestazioni professionali rese da un tecnico incaricato di approntare un piano attuativo su detta area): l’acquisto del terreno appare, infatti, prematuro (ricadendo pertanto i rela-


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tivi oneri nell’alveo del rischio ordinariamente gravante sulle intraprese private), sia in quanto la legge richiede la « disponibilità » delle aree al momento della « approvazione » del p.i.i. e non prima (v. art. 7, comma 1, 2o par., l. reg. n. 9 del 1999), sia perché all’epoca della compravendita (risalente al gennaio 2002) esistevano ancora forti dubbi sulla sistemazione da dare all’assetto viabilistico della più vasta zona comprendente le aree exLazzaroni. Nemmeno può essere concesso il risarcimento dei danni (per lucro cessante) correlati: a) alla mancata percezione di « canoni di locazione per destinazioni attività di deposito e logistica come da valutazione Studio Gambetti » (pari a lire 8.718.092.696; v. punto 4, pag. 29 mem. 7 marzo 2003); b) al mancato utile che la ricorrente avrebbe potuto ritrarre dalla positiva conclusione dell’operazione (pari a € 38.913.623,69; cfr. pag. 30 mem. 7 marzo 2003 e doc. 30 ric.). Quanto alla prima voce, rilevata anzitutto la genericità — e la conseguente ininfluenza — delle allegazioni di parte resistente (cfr. pag. 11, in fine, memorie del marzo 2003) miranti a ottenere una deduzione dell’aliunde perceptum dall’importo risarcibile (e in disparte la questione della giuridica possibilità di invocare nella specie il principio della compensatio lucri cum damno), il Collegio ritiene che sia effettivamente possibile il ristoro del danno derivante dai mancati guadagni verificatisi in conseguenza di altre occasioni contrattuali perdute. Nel caso concreto, tuttavia, la ricorrente non ha assolto all’onere, su di essa incombente, di allegare (e conseguentemente provare) la realizzazione almeno di alcuni dei presupposti per il raggı́ungimento del risultato sperato e impedito dalla condotta illecita, della quale il danno deve essere conseguenza immediata e diretta. Essa istante avrebbe cioè dovuto dedurre di aver intrapreso trattative, poi interrotte per effetto dell’ipotizzato mutamento di destinazione, per la locazione del bene a fini di attività di deposito e logistı̀ca ovvero di aver quanto meno predisposto il compendio (acquistato nell’agosto 2000) allo scopo della cessione in godimento per le dichiarate finalità. Quanto al mancato utile, si è detto della irrilevanza del c.d. interesse positivo, non rientrando nell’ambito dei pregiudizi risarcibili quelli correlati alla positiva conclusione dell’operazione. In definitiva, in parziale accoglimento della domanda risarcitoria, il Comune di Uboldo va condannato, per quanto detto, a corrispondere alla società istante la complessiva somma di € 47.993,76 (lire 92.928.880). 3. In ragione del parziale accoglimento del ricorso, sembra equo compensare per metà le spese di lite, rimanendo a carico del Comune di Uboldo la residua metà, secondo la liquidazione effettuata in dispositivo. (Omissis).


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Ancora sulla responsabilità precontrattuale della p.a.: prove tecniche di giudizio ed ipotesi ricostruttive.

SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. La fattispecie esaminata dal Tar Lombardia e la motivazione della pronuncia. — 3. Alcune osservazioni sulla responsabilità precontrattuale della p.a., sulla tesi prescelta dal Tar Lombardia e sui più recenti orientamenti giurisprudenziali. — 4. L’ambiguità quasi « congenita » dell’usuale richiamo all’art. 1337 c.c. e le ragioni di un auspicabile approfondimento.

1. Le seguenti osservazioni traggono spunto dai sentimenti contrastanti che si possono provare ad una prima lettura della sentenza surriprodotta, e che sono, nello specifico, dovuti alla rilevazione immediata di una sorta di bis in idem (non soltanto) concettuale. Si ha l’impressione, infatti, che, nella pronuncia in commento, l’esame condotto nel giudizio impugnatorio venga, per cosı̀ dire, rivisto e rinnovato nel momento successivo della cognizione del danno lamentato dal ricorrente: difatti, l’affermata ragione della pretesa risarcitoria è espressamente ancorata proprio all’accertamento di una situazione determinata della quale si era esclusa la sussistenza nell’ambito del precedente scrutinio di legittimità. Detta situazione, prima vistosamente assente e poi compiutamente rilevabile, non è altro che l’affıdamento del soggetto privato. In altre parole, mentre per un verso (e in un primo momento) se ne predica la mancanza, al fine di spiegare, anche sotto tale profilo, la legittimità sostanziale di un provvedimento di revoca la cui motivazione, a detta del ricorrente, non avrebbe attribuito alcun peso a precedenti e favorevoli deliberazioni della p.a., per altro verso (e in un secondo momento) se ne induce la progressiva maturazione allo scopo di riconoscere la violazione della buona fede e della correttezza precontrattuali da parte della stessa p.a., consentendo cosı̀ al medesimo ricorrente di ottenere, nonostante la dichiarata legittimità dell’atto impugnato, un ristoro adeguato all’ammontare delle spese inutilmente affrontate in attesa del perfezionamento positivo della vicenda. Quindi, a giudizio del Tar Lombardia, ciò che in sede d’annullamento non potrebbe costituire utile fondamento dell’impu-


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gnazione, in quanto inesistente, potrebbe viceversa risorgere, in quanto diversamente apprezzabile, in un connesso e, quanto ai fatti di causa, coerente giudizio di condanna, giustificando in tal modo la fondatezza di un’autonoma pretesa risarcitoria. La perplessità maggiore, peraltro, consiste nel fatto che i dubbi cosı̀ esposti sono destinati a convivere con sensazioni parzialmente positive: giova osservare, infatti, che l’intento concreto di offrire tutela alle aspettative legittime dei privati, dapprima ambiguamente ingenerate dalla parte pubblica e quindi frustrate da un complessivo e « contraddittorio » comportamento della medesima, risulta pienamente condivisibile. Né si può dimenticare, del resto, che un orientamento recente del Consiglio di Stato — espresso in materia di procedimenti ad evidenza pubblica — ha affermato l’applicazione dell’art. 1337 c.c. e del regime di responsabilità precontrattuale che ne deriva anche all’ipotesi in cui il provvedimento con il quale la p.a. abbia negato l’approvazione degli atti di una gara d’appalto di lavori (per aver accertato la mancanza dei fondi necessari alla realizzazione dell’opera) venga giudicato comunque legittimo (1). Dunque, la prospettiva di un’autonoma applicazione dell’art. 1337 c.c. anche a fronte di un’attività amministrativa giudicata concretamente conforme alle norme che la regolano non costituisce posizione episodica ed isolata. Resta tuttavia da comprendere quali siano le ipotesi nelle quali le aspettative dei privati possono definirsi veramente legittime e tali da meritare la tutela risarcitoria in esame, cosı̀ come resta da chiarire se tale meritevolezza vada riconosciuta nei soli casi in cui ad essere fondata è la pretesa tout court ad un certo provvedimento ovvero anche nelle fattispecie in cui si ammetta e si riscontri l’esistenza di una pretesa (invero diversa) ad un certo comportamento o, meglio, ad un certo contegno, indipendentemente dalle sorti finali della vicenda procedimentale e del « bene della vita » che ne costituisce il principale oggetto materiale. Il tema è assai complesso, poiché è chiaro che l’importante (1) Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 19 marzo 2003, n. 1457, reperibile al Sito Internet www.giustizia-amministrativa.it.


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questione che in tal modo si ripropone all’attenzione degli interpreti è rappresentata ancora una volta dall’individuazione dei limiti entro i quali applicare anche alla p.a. le regole civilistiche sul necessario rispetto dei generali doveri di buona fede e correttezza, nonché dalla conseguente risoluzione della questione se, ragionando tra disciplina sostanziale e tecnica processuale, l’affermazione di una tutela di questo tipo possa verosimilmente condurre alla parallela indicazione di strumenti e di azioni indipendenti dalla « centrale » e tradizionale finalizzazione « costitutiva » del ricorso giurisdizionale amministrativo (2). Poiché questa nota si pone l’obiettivo di indagare se la lettura adottata dal Tar Lombardia sia realmente equivoca ed irrazionale o se invece essa, a sua volta, si palesi come tale soltanto attraverso le lenti di un incompleto sguardo prospettico, può essere utile premettere un breve schema della vicenda sottoposta al concreto esame del giudice amministrativo, con successiva, e pur sempre rapida, esposizione del decisum cosı̀ formulato. 2.

Nel 2000 una società acquista un vasto complesso immo-

(2) Si noti, peraltro, che la natura controversa del tema è testimoniata dal fatto che sono altrettanto recenti anche arresti del tutto opposti e « perentori », qual è Cons. Stato, Sez. V, 18 novembre 2002, n. 6389, in questa Rivista, 2003, 1240 ss., con nota (parzialmente critica) di B. LUBRANO, Risarcimento del danno e violazione dei doveri di buona fede. Il rigetto della tesi favorevole all’applicazione dell’art. 1337 c.c. è cosı̀ motivato: « Buona fede e correttezza sono (...) parametri propri ed esclusivi della autonomia privata e risultano di per sé speculari al potere riconosciuto al solo giudice civile di intervenire sul regolamento di interessi posto in essere tra i contraenti o che gli stessi avrebbero dovuto porre in essere, al fine di valutare la misura entro cui la relativa disciplina è meritevole di protezione da parte dell’ordinamento positivo. (...) Un compito diverso spetta al giudice amministrativo che, come è noto, non impinge nel merito dell’attività amministrativa, ma si limita al solo controllo di legalità delle modalità con le quali essa è stata svolta in conformità ai principi costituzionali di imparzialità e di buon andamento. (...) Il risultato di tale verifica può sfociare nell’annullamento dell’atto o provvedimento, con la conseguente individuazione, ove ritenuta necessaria, di diversi parametri di giudizio alla cui stregua va esercitata dalla p.a. l’eventuale residua discrezionalità. L’eventuale illiceità della condotta della p.a., idonea a determinare il diritto al risarcimento del danno a favore del privato, presuppone dunque il preventivo accertamento da parte del giudice amministrativo dell’illegittimo esercizio della funzione amministrativa che può sostanziarsi sia nella emanazione di un atto contra legem, sia nella mancata, ingiustificata adozione di un provvedimento conforme alle aspettative giuridicamente tutelate del privato destinatario e non già nella considerazione di tali “comportamenti” alla stregua dei principi di buona fede e correttezza ».


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biliare, manifestando agli amministratori del Comune di riferimento il progetto di realizzare un investimento conforme al p.r.g. vigente. Su sollecitazione dello stesso Comune però, e per aderire all’esigenza — manifestata dall’ente medesimo — di procedere alla riqualificazione progressiva dell’area interessata, la società predispone e presenta, ai sensi della l. reg. Lombardia n. 9 del 1999 (3), una proposta di programma integrato d’intervento (p.i.i.) per la realizzazione di un « Centro di intrattenimento relazionale ». Il Comune, allora, preso atto di ciò, adotta il « Documento di inquadramento » di cui all’art. 5 della l. reg. cit. ed esprime « parere favorevole » alla proposta di piano inoltrata dalla società, incaricando il Sindaco di promuovere la procedura volta alla conclusione dell’accordo di programma previsto dalla l. reg. cit. quale modalità di approvazione del p.i.i. Sulla base di tali premesse, pertanto, la società dapprima procede all’acquisto di ulteriori aree, in quanto necessarie all’integrazione del progetto viabilistico connesso al p.i.i., quindi commissiona uno studio specialistico sui flussi di traffico, presentando cosı̀, in conformità alle risultanze dello stesso, un nuovo progetto, che viene positivamente apprezzato dal Sindaco. Nel frattempo, tuttavia, ed in seguito alla tornata elettorale del maggio 2002, il « nuovo » Sindaco non si attiva per avviare il procedimento di formazione del citato accordo di programma, dando cosı̀ origine al disappunto della società, che diffida formalmente l’amministrazione ad adottare in proposito determinazioni espresse. La p.a. non manifesta direttamente il proprio avviso, ma riscontra la diffida trasmettendo alla società la comunicazione di avvio del procedimento volto al « riesame » di tutta la documentazione e all’eventuale « revoca » della deliberazione con la quale il Comune aveva espresso il summenzionato parere favorevole. Nelle more del giudizio sul « silenzio », avviato dalla società (3) Recante « Disciplina dei Programmi Integrati di Intervento » (in B.U.R.L., serie ord., n. 15 del 16 aprile 1999). In generale, con riguardo a questo strumento pianificatorio, cfr. CH. FERRAZZI, I programmi integrati di intervento, in D. DE PRETIS (a cura di), La pianificazione urbanistica di attuazione: dal piano particolareggiato ai piani operativi, Università degli Studi di Trento, 2002, 241 ss.


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per ottenere un provvedimento espresso in ordine all’inerzia dell’amministrazione, la paventata « revoca » viene effettivamente adottata, e con essa vengono ritirati sia il provvedimento contenente il parere favorevole e il conseguente incarico al Sindaco precedente sia il « Documento di inquadramento » adottato dal « vecchio » Consiglio comunale. Su tali circostanze, quindi, si fonda il ricorso deciso con la sentenza in commento, promosso dalla società per ottenere: a) l’annullamento dei menzionati provvedimenti di revoca; b) la condanna dell’amministrazione al risarcimento dei danni subiti. L’azione costitutiva peraltro viene fondata anche sul difetto di motivazione circa l’omessa considerazione dell’affidamento formatosi (anche in conseguenza del lungo tempo decorso) (4) in capo alla società, nonché sulla violazione del principio di buona fede che a tale vizio sarebbe connessa (5). Il Tar Lombardia, quindi, procede ad una definizione preliminare del thema decidendum, rigettando, in primo luogo, l’azione costitutiva (6), e soffermandosi, a tal fine e per ciò che qui inte(4) Sulla considerazione del decorso del tempo quale significativo elemento di valutazione della legittimità delle determinazioni amministrative cfr., da ultimo, G. BARONE, Autotutela e decorso del tempo, in AA.VV., Tempo, spazio e certezza dell’azione amministrativa, Milano, 2003, 209 ss. (5) Gli ulteriori vizi dedotti sono l’incompletezza degli elementi risultanti nella comunicazione d’avvio del procedimento di secondo grado, il difetto di fatti « nuovi » (ed in quanto tali idonei a motivare un negativo apprezzamento di quanto già positivamente valutato), nonché l’erroneità delle valutazioni compiute dall’ente in ordine ad alcune circostanze considerate nei provvedimenti impugnati ed attinenti alla logicità e alla completezza delle motivazioni della p.a. (6) Anche se non costituiscono oggetto del presente commento, vanno segnalati (sia pur incidentalmente) due interessanti profili, affrontati dalla sentenza in sede di esame dell’azione di annullamento e dei motivi che la sorreggono: — In primo luogo, il Tar Lombardia rigetta l’argomentazione del ricorrente secondo la quale la comunicazione d’avvio del procedimento di revoca dovrebbe in ipotesi contenere anche « le ragioni poste a base dell’intendimento di agire in autotutela »: il rigetto viene fondato sia sull’argomento strettamente letterale (l’art. 8, comma 2, della l. n. 241 del 1990 « richiede soltanto che nella comunicazione vada indicato l’oggetto del procedimento promosso ») sia sulla considerazione che non sarebbe comunque possibile « ritenere che per atti altamente discrezionali già nella comunicazione di avvio debba essere illustrato l’esito della valutazione rimessa all’autorità amministrativa »; una simile argomentazione non sembra del tutto convincente, sia a mente dell’orientamento secondo il quale — anche a voler accettare la diffusa tesi c.d. « sostanzialistica » (che esclude l’applica-


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ressa, anche sull’insussistenza, nel caso concreto, di « un affidamento del privato meritevole di una tutela estesa sino all’esclubilità dell’obbligo ex art. 7 della l. n. 241 per i casi di attività vincolata e, in generale, per i casi nei quali la partecipazione del privato non avrebbe comunque determinato alcun apporto utile alle valutazioni della p.a.: cfr., per una sintesi, V. CERULLI IRELLI, Corso di diritto amministrativo, Torino, 2001, 400-401, e, per gli opportuni riferimenti, R. LEONARDI, La comunicazione di avvio del procedimento nelle pronunce giurisprudenziali, in Foro amm.-Tar, 2002, 785 ss.) — la comunicazione d’avvio sarebbe (tanto più) necessaria (soprattutto) in presenza di provvedimenti discrezionali (« risultando estremamente difficile per il giudice amministrativo valutare se l’apporto partecipativo avrebbe determinato una diversa ponderazione degli interessi da parte dell’amministrazione »: cosı̀ Cons. Stato, Sez. VI, 29 maggio 2002, nn. 2983 e 2984, rispettivamente in Cons. Stato, 2002, I, 1222, e in Guida dir., n. 27/2002, 84), sia constatando che per « oggetto » del procedimento non può ragionevolmente intendersi la sola indicazione tipologica del futuro provvedimento (qualificato, ad esempio, come revoca o come riesame), giacché, cosı̀ operando, si impedirebbe al soggetto potenzialmente pregiudicato da quel provvedimento di comprendere come partecipare e « controdedurre » efficacemente, con conseguente pratica frustrazione della ratio degli artt. 7 ss. della l. n. 241. Si osservi, tra l’altro, che l’indicazione, anche succinta, degli elementi che motivano l’apertura del procedimento di secondo grado non comporta, come sostiene il Collegio giudicante, l’espressione delle valutazioni sulle quali fondare la comparazione discrezionale degli interessi, poiché queste, a rigore, sono, in principio, sconosciute alla p.a., che forma il proprio avviso in seguito alle risultanze istruttorie del procedimento. — In secondo luogo, il Collegio, pur riconoscendo la fondatezza di alcuni motivi di ricorso, rigetta ugualmente l’azione costitutiva, applicando di fatto il noto principio a tenore del quale l’accoglimento di alcuni dei motivi illustrati dal ricorrente non determina tout court l’accoglimento del ricorso e la caducazione del provvedimento impugnato nei casi in cui la restante parte di quest’ultimo atto sia comunque idonea a reggerne l’adozione e a motivare il coerente rigetto del ricorso; ora, come recentemente ribadito anche dal Consiglio di Stato (cfr. Sez. VI, 24 novembre 2003, n. 7725, in Guida dir., n. 2/2004, 109), una volta seguita una simile soluzione, resterebbe aperto il problema di comprendere se « una motivazione di accoglimento di un motivo non decisivo ai fini dell’annullamento dell’atto impugnato (...) possa incidere sull’assetto sostanziale degli interessi disciplinato dal provvedimento » e se, di conseguenza, possa ipotizzarsi che, in caso di appello da parte del ricorrente sconfitto in primo grado, l’amministrazione resistente debba anch’essa « appellare la sentenza recante considerazioni favorevoli al ricorrente » (cosa che si verificherebbe se si pensasse che dette considerazioni siano « suscettibili di passare in cosa giudicata determinando un assetto di interessi in parte diverso da quello programmato nell’atto »). Il punto non è di poco momento, e potrebbe costituire un interessante « banco di prova » per la sperimentazione della validità delle argomentazioni recenti secondo le quali il giudizio amministrativo si sarebbe ormai trasformato in un giudizio « di risultato », volto cioè ad assicurare comunque la definizione sostanziale e finale della res litigiosa (cfr., ad esempio, le osservazioni di M. CLARICH, Il processo amministrativo a « rito ordinario », reperibile al sito internet www.giustiziaamministrativa.it, e pubblicato in Riv. dir. proc., n. 4/2002). Infatti, per confermare che


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sione della possibilità di una nuova comparazione degli interessi in gioco ». Secondo il giudice adito, infatti, la legge regionale che disciplina il procedimento relativo all’adozione dei programmi integrati di intervento (i.e. la l. reg. n. 9 del 1999 cit.) non prevede l’espressione preliminare di un parere favorevole e rimette esclusivamente al Sindaco l’iniziativa di promuovere un accordo di programma per approvare il p.i.i. che comporti variante agli strumenti urbanistici vigenti o richieda la partecipazione di più soggetti pubblici e privati. Pertanto, « in assenza della stipula di un accordo di programma o della adozione di un qualsivoglia provvedimento conclusivo della procedura », il Tar esclude che possa « ravvisarsi quel limite all’esercizio dell’autotutela che la giurisprudenza riconosce, per vero, soltanto quando siano insorti diritti a favore di terzi ovvero quando (secondo alcuni arresti) si sia costituito un affidamento particolarmente intenso del destinatario » (7). la p.a. non ha alcun onere d’appello (in quanto il tradizionale e condiviso insegnamento afferma che la sentenza di rigetto non ha alcuna attitudine ad innovare l’ordine giuridico: su tale aspetto v., per tutti, E. FERRARI, Sub art. 26 l. n. 1034/1971, in A. ROMANO (a cura di), Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, Padova, 2001, 899-900) deve condividersi (ancora, e con lo stesso avviso del Consiglio di Stato e dell’opinione prevalente) l’idea che l’oggetto del processo amministrativo sia l’impugnativa di un atto e non (invece) la cognizione (in senso stretto ed onnicomprensivo) di un rapporto: se viceversa fosse vera quest’ultima opzione, dovrebbe riconoscersi che l’accoglimento non decisivo (i.e. non caducante) di alcuni motivi di ricorso assuma il valore di sostanziale dichiarazione di vincolo per una successiva attività « conformativa » della p.a., e ciò (appunto) anche nel caso in cui questa fosse (parzialmente) soccombente sul piano (per ora e tradizionalmente) soltanto teorico. (7) Vengono richiamate, dall’estensore, due pronunce: Tar Campania-Napoli, 28 settembre 1998, n. 2998, in Foro amm., 1999, 493, e Cons. Stato, Sez. V, 3 settembre 2001, n. 4669, ibid., 2001, 2375. Su tale orientamento e sulla sua progressiva formazione v. A. CORPACI, Revoca e abrogazione del provvedimento amministrativo, in Dig. disc. pubbl., XIII, 1997, 331. Si ricorda, peraltro, che il dibattito sui limiti della revocabilità degli atti amministrativi è assai risalente, e che, per definirne in modo efficace gli estremi, la dottrina ha fatto ricorso ad argomenti tra loro diversi, specialmente al fine di criticare la tesi secondo la quale non sarebbero revocabili i provvedimenti costitutivi di diritti soggettivi: v., per tutti, M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, II, Milano, 1993, 601-602. Per un quadro del problema cfr. M. IMMORDINO, Revoca degli atti amministrativi e tutela dell’affıdamento, Torino, 1999, 2 ss., in part. 62 ss. Sulla revoca, in generale, cfr., tra gli altri, R. RESTA, La revoca degli atti amministrativi, Milano, 1935, R.


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Tuttavia, dopo aver precisato che dalla rilevata « natura » del provvedimento revocato « non può peraltro inferirsi (...) una sua assoluta ininfluenza in ordine al successivo sviluppo dell’azione amministrativa », il Tar passa all’esame della domanda risarcitoria, evidenziandone (testualmente) « la sua autonomia rispetto al resto del thema decidendum » e chiarendo, in proposito, che essa andrebbe « delibata anche in ipotesi di inammissibilità » delle già illustrate pretese impugnatorie, giacché la società ricorrente non ha soltanto esercitato un’azione finalizzata al risarcimento dei danni derivanti dall’illegittimità della revoca, ma ha allegato « anche la violazione dei doveri di correttezza e di buona fede incombenti sull’ente pubblico allorquando agisce in rapporti intersoggettivi con i privati ». Pertanto, inquadrata la fattispecie nell’ambito dell’illecito precontrattuale e censurato il contegno complessivo dell’ente in quanto causa, nella parte privata, di « un ragionevole affidamento sul positivo esito della vicenda, successivamente infranto dal revirement dell’amministrazione comunale », il giudice afferma: 1) che anche i fenomeni della c.d. « urbanistica contrattata » presentano interlocuzioni non dissimili da quelle caratterizzanti le trattative tipicamente precontrattuali; 2) che anche a simili contesti possono cosı̀ estendersi « le conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza in materia di tutela dell’affidamento ingenerato dal privato che venga in contatto con la pubblica amministrazione » (8); 3) ALESSI, La revoca degli atti amministrativi, Milano, 1956, F. PAPARELLA, Revoca (diritto amministrativo), in Enc. dir., XL, Milano, 1988, 204 ss., P. SALVATORE, Revoca degli atti, III) Revoca degli atti amministrativi, in Enc. giur., XXVII, Roma, 1991, ad vocem. (8) Sul punto la motivazione cita espressamente alcuni stralci della nota pronuncia del Tar Puglia-Bari, 17 maggio 2001, n. 1761, in Urb. e app., 2001, 1226 ss., con commento di S. CATTANEO, Responsabilità per « contatto » e risarcimento per lesione di interessi legittimi. Su questa sentenza e sull’orientamento cui essa ha dato l’avvio cfr., ex multis, T. GRECO, Lesione di interessi legittimi e responsabilità da contatto amministrativo qualificato, in Danno e responsabilità, 2003, 314 ss., nonché le sintetiche ma efficaci ricostruzioni critiche di D. VAIANO, Pretesa di provvedimento e processo amministrativo, Milano, 2002, 286 ss., F. ELEFANTE, La responsabilità della pubblica amministrazione da attività provvedimentale, Padova, 2002, 120 ss., e di L. CESARINI, Il risarcimento del danno e l’interesse legittimo: le nuove prospettive di una situazione soggettiva tradizionale, in B. CAVALLO (a cura di), Diritti e interessi nel sistema amministrativo del Terzo Millennio, Torino, 2002, in part. 470 ss. Per un ulteriore e significativo


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che, considerate le peculiarità del caso di specie, il comportamento globale del Comune ha, « almeno sino ad un certo momento », « contribuito a convincere la proprietà, oltre che della bontà della scelta di realizzare un “centro di intrattenimento relazionale” (...), anche della concreta fattibilità dell’intervento »; 4) che, quindi, un tale affidamento « appare idoneo a sorreggere la pretesa risarcitoria », in quanto la p.a. ha violato i principi della buona fede e della correttezza; 5) che, tuttavia, tali principi si applicano contemporaneamente anche alla parte privata, e ciò nel senso che il danno in questione non è risarcibile nella misura in cui la società avrebbe potuto e dovuto « iniziare a dubitare della positiva conclusione della vicenda » (9); 6) che, allora, il pregiudizio risarcibile ex art. 1337 c.c., nei tradizionali limiti del c.d. « interesse negativo » (spese sostenute inutilmente e perdita di ulteriori occasioni favorevoli) (10), va ristorato soltanto per quanto la società ha patito in un primo momento, ossia fino alla mancata approvazione della variante al p.r.g. (verificatasi, del resto, in data anteriore allo svolgimento delle elezioni del 2002 e all’insediamento dei nuovi amministratori). pronunciamento « in termini » cfr., ad esempio, anche Cons. Stato, Sez. V, 6 agosto 2001, n. 4239, in Urb. e app., 2001, 1211 ss., con nota di M. PASSONI, Responsabilità per contatto e risarcimento per lesione di interessi legittimi, in Danno e responsabilità, 2002, 183 ss., con nota di V. CARBONE, Il giudice amministrativo adotta la responsabilità da contatto procedimentale, e in Foro it., 2002, III, 1 ss., con note di V. MOLASCHI, Responsabilità extracontrattuale, responsabilità precontrattuale e responsabilità da contatto: la disgregazione dei modelli di responsabilità della pubblica amministrazione, e di E. CASETTA, F. FRACCHIA, Responsabilità da contatto: profili problematici. In argomento v. anche G. BACOSI, Dall’interesse legittimo al diritto condizionato, Torino, 2003, che prende le mosse del proprio ragionamento da un diffuso commento alla sentenza del Cons. Stato da ultimo menzionata. Sulla responsabilità c.d. « da contatto » si vedano inoltre G.P. CIRILLO, Il danno da illegittimità dell’azione amministrativa e il giudizio risarcitorio. Profili sostanziali e processuali, Padova, 2001, M. PROTTO, Responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi: alla ricerca del bene perduto, in Urb. e app., 2000, 985 ss., e C. CASTRONOVO, Responsabilità civile per la pubblica amministrazione, in Jus, 1998, 647 ss. (9) In tal modo il Tar traduce l’esigenza che la mancata diligenza del privato venga valutata sia con riguardo all’efficienza causale della « scorrettezza » della p.a., sia con riferimento alla quantificazione del danno in quanto cagionato anche in « concorso » di colpa del danneggiato (art. 1227 c.c.). Cfr., per un’applicazione conforme, Cass., Sez. III, 21 gennaio 1985, n. 226, in Resp. civ. prev., 1985, 757 ss. (10) Cfr., per tutti, C.M. BIANCA, Diritto civile, 3, Il contratto, Milano, 2000, 175.


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3. Ciò precisato, può subito ribadirsi che il paradosso inizialmente avvertito circa le potenziali contraddizioni di una simile decisione resta di difficile interpretazione, anche ad una seconda lettura e ad una più attenta meditazione. Viceversa, ed indipendentemente dalle riflessioni che può ingenerare la constatazione attuale di una diffusa tendenza all’applicazione e all’espansione del modello precontrattuale nel diritto amministrativo (11), non sarebbe affatto difficile riprendere le osservazioni critiche dell’autorevole dottrina che, nel sostenere la trasformazione di quel diritto verso un innovativo paradigma « paritario », evidenziava i pericoli e le ambiguità di una parallela trasposizione di canoni e principi privatistici nell’arena della dimensione pubblicistica, negando cosı̀ cittadinanza amministrativa proprio alle regole civilistiche sulla responsabilità in contrahendo (12). Il richiamo, all’evidenza, non sarebbe affatto difficile proprio perché il risultato che esso in ipotesi potrebbe garantire appare rapido ed univoco, con superamento radicale ed originario delle aporie cui l’arrêt lombardo sembra condurre: « Il ricorso ai princı́pi della buona fede contrattuale appare (...) del tutto inconfe(11) Per un quadro generale cfr. G.M. RACCA, La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione tra autonomia e correttezza, Napoli, 2000, e ID., Gli elementi della responsabilità della pubblica amministrazione e la sua natura giuridica, in R. GAROFOLI, G.M. RACCA, M. DE PALMA, Responsabilità della pubblica amministrazione e risarcimento del danno innanzi al giudice amministrativo, Milano, 2003, 4.ss., e, in part. 133 ss. Ma si vedanio anche G. CHINÈ, La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione nell’era della risarcibilità degli interessi legittimi, in Foro amm.-Tar, 2003, 797 ss., e A. SIMONATI, Responsabilità precontrattuale e risarcimento del danno da attività provvedimentale dell’amministrazione: lo « stato dell’arte » alla luce di una recente sentenza del Trga di Trento, ibid., 2003, 443 ss. (12) Si allude al celebre saggio di F. BENVENUTI, Per un diritto amministrativo paritario, in AA.VV., Studi in memoria di Enrico Guicciardi, Padova, 1975, in part. 845 ss., anche per una compiuta rassegna delle tesi che tradizionalmente escludevano la configurabilità di una responsabilità contrattuale. Con riferimento alle tesi che, invece, hanno sostenuto tale modello risarcitorio si vedano, per tutti, M. NIGRO, L’amministrazione tra diritto pubblico e diritto privato: a proposito di condizioni legali, in Foro it., 1961, I, 462 ss., e M.S. GIANNINI, La responsabilità precontrattuale dell’amministrazione pubblica, in AA.VV., Scritti in onore di Arturo Carlo Jemolo, Milano, 1963, 279 ss. Sull’applicabilità del principio di buona fede cfr. F. MANGANARO, Principio di buona fede e attività delle amministrazioni pubbliche, Napoli, 1995.


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rente: la realtà è che il privato può pretendere l’adempimento degli atti amministrativi — generali o speciali — che precedono il negozio e può far valere avanti le giurisdizioni amministrative la violazione di interessi legittimi collegati a tali pretese; tutto ciò avviene secondo l’usuale meccanismo della tutela giurisdizionale nei confronti dell’amministrazione. Risulta perciò comprovato che la soluzione accolta dalla giurisprudenza non costituisce altro che un modo di eludere la sostanza del problema, che, in breve, è quella della responsabilità di diritto pubblico dell’ente » (13). In questo senso, pertanto, ed attualizzando i riprodotti rilievi in armonia con alcuni dei più recenti sviluppi dottrinali (14), il rigetto della soluzione seguita nella sentenza in commento sarebbe automatico, potendosi in ipotesi constatare: 1) che il ricorso alle regole del diritto comune è soltanto un espediente (concettualmente scorretto) per aggirare i consolidati limiti strutturali dei rimedi meramente impugnatori; 2) che la vera ragione della progressiva affermazione della responsabilità precontrattuale anche nel campo delle relazioni tra cittadino e p.a. che siano contrassegnate e « mediate » dalla presenza di un’attività provvedimentale è sempre stata rappresentata dall’insuccesso dei tentativi con i quali ci si è proposti di dare ingresso nel sistema pubblicistico della tutela giurisdizionale a ciò che, sin dall’origine, e data la tradizionale configurazione del processo amministrativo, sembrava restarvi radicalmente escluso, e cioè alla diretta e positiva soddisfazione della pretesa ad un esito determinato del procedimento; 3) che, del resto, le conseguenze finali della tesi civilistica non sono comunque soddisfacenti, sia perché la garanzia dell’art. 1337 c.c. non è, per definizione, piena e completa, sia perché l’applicazione della stessa a vicende procedimentali può condurre (13) Cosı̀ sempre F. BENVENUTI, Per un diritto amministrativo paritario, cit., 850. Nel caso di specie, non essendo stato stipulato alcun accordo o contratto, la responsabilità in questione dovrebbe definirsi come « responsabilità assoluta », riscontrandosi un caso di « lesione di un diritto condizionato, e cioè che il negozio veda la luce secondo i criteri e princı́pi fissati nell’atto amministrativo » (ibid., 851). Cfr. anche ID., Appunti di diritto amministrativo, Padova, 1959, 282 ss., e ID., Disegno dell’Amministrazione Italiana. Linee positive e prospettive, Padova, 1996, 371 ss. (14) V., ad esempio, D. VAIANO, Pretesa di provvedimento, cit.


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a negare proprio la particolarità tipica dell’azione contrattuale della p.a., ossia la circostanza che il momento privatistico è generalmente « doppiato » e condizionato da una precedente fase pubblicistica che ne predetermina modalità e contenuti. Ora, se queste fossero le conclusioni più corrette, sarebbe naturale prendere atto della necessità di ammettere l’esistenza e la configurabilità, nell’ordinamento vigente, di una originale e peculiare « responsabilità di diritto pubblico ». Detta ammissione infatti non comporterebbe nulla di diverso che: 1) affermare che, accertata l’illegittimità del provvedimento amministrativo che pone nel nulla le « speranze » del privato, sia possibile accertare anche la « spettanza » (15) del bene finale cui egli aspira e condannare cosı̀ la p.a. all’emanazione di determinazioni satisfattive; 2) riconoscere, una volta per tutte, che la posizione del privato, specialmente quando si accinge a porre in essere un contratto con l’amministrazione, non costituisce una mera aspettativa, bensı̀, riprendendo, ma solo formalmente, le parole dell’autorevole dottrina già citata, « una aspettativa corrispondente ad una precisa situazione sostanziale » (16). Tuttavia, nel momento in cui si sostiene che l’eventuale correttezza di questa impostazione impedisce la trasposizione, sic et simpliciter, dei principi di cui all’art. 1337 c.c., allora è naturale evidenziare che è soltanto su questo piano che le osservazioni poc’anzi elencate sviluppano tutta la loro verosimiglianza, e che, quindi, la critica alla soluzione seguita dal Tar Lombardia risulta, in definitiva, valida e pertinente soltanto nella prospettiva dell’interesse del privato all’adempimento degli atti amministrativi strumentali alla realizzazione del progetto contrattuale. In altre parole, ove non venisse in gioco l’interesse al provvedimento specifico (17) rispetto al quale si sono formate le aspettative del privato, il problema dell’esistenza di un ulteriore e di(15) Cfr. G. FALCON, Il giudice amministrativo tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di spettanza, in ID. (a cura di), La tutela dell’interesse al provvedimento, Università degli Studi di Trento, 2001, 219 ss. (ma anche in questa Rivista, 2001, 287 ss.). (16) Cfr. F. BENVENUTI, Per un diritto amministrativo paritario, cit., 847. (17) Cfr., per tutti, D. VAIANO, Pretesa di provvedimento, cit.


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verso interesse alla correttezza della p.a. e al suo comportamento secondo buona fede resterebbe sempre aperto, soprattutto con riferimento a fattispecie nelle quali l’esercizio del potere risulti concretamente finalizzato alla stipulazione di un accordo o alla formalizzazione finale di un’attività negoziale precedentemente svolta. Una cosa, infatti, significa attribuire rilievo all’affidamento che il cittadino nutre rispetto alla definizione sostanziale e materiale della propria situazione soggettiva di interesse legittimo, altra cosa significa esigere che la p.a. persegua, sia pur legittimamente, ma non ad ogni costo, l’interesse pubblico ad essa di volta in volta attribuito. L’equivoco ingenerato dalla pronuncia qui riprodotta si sviluppa proprio tra questi due poli, e soltanto in questi termini può essere considerato ammissibile e comprensibile. Ciò equivale a dire che, per attribuire un significato verosimile e coerente all’impostazione seguita dal Tar Lombardia, è necessario ammettere che l’interesse (negativo) effettivamente risarcito non sia (come non può teoricamente e concretamente essere) quello stesso interesse (positivo) di cui si è negata l’esistenza allorché si è constatato che, in ipotesi, l’impresa ricorrente non poteva vantare alcun affidamento alla conclusione dell’accordo di programma. Quest’ultima aspettativa infatti attiene alla possibilità (invero discussa) (18) di invocare la menzionata versione della « responsabilità di diritto pubblico », mentre il primo interesseaffidamento presuppone proprio che detta possibilità non sia pra(18) La discussione attiene alla possibilità che sia effettivamente possibile, attraverso la previsione della reintegrazione in forma specifica, condannare la p.a. all’emanazione di un atto dal contenuto determinato. In argomento v. le osservazioni critiche di A. TRAVI, Processo amministrativo e azioni di risarcimento del danno: il risarcimento in forma specifica, in questa Rivista, 2003, 994 ss. Cfr. anche ID., La reintegrazione in forma specifica nel processo amministrativo fra azione di adempimento e azione risarcitoria, ibid., 222 ss., R. CHIEPPA, La reintegrazione in forma specifica nel processo amministrativo: natura, limiti e confronto con l’art. 2058 c.c., in Diritto&Formazione, 2003, 1661 ss., S. R. MASERA, La reintegrazione in forma specifica nel processo amministrativo, in questa Rivista, 2003, 236 ss., M. MONTANARI, Reintegrazione in forma specifica e risarcimento per equivalente davanti al giudice amministrativo nella dimensione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, ibid., 2003, 354 ss.


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ticamente accertabile e che, viceversa, sia riscontrabile, nella potenziale controparte « contrattuale », il potere di interrompere la « trattativa » e di sottrarsi alla necessità della stipulazione (19): in concreto, infatti, tale interruzione potrà essere anche consentita (nel nostro caso è definita come « legittima »), in quanto nessun vincolo è ancora sorto tra i soggetti; ciò che non sarà comunque permesso è che l’evento interruttivo venga posto in essere in violazione dei canoni di buona fede e correttezza, con « ingiusta » trasposizione di perdite patrimoniali (da provare ed accertare di volta in volta) in capo al contraente « fedele ». È probabile allora che in questi termini il ragionamento seguito dalla sentenza in commento possa finalmente considerarsi coerente, anche se non può dimenticarsi che ad esso si potrebbe opporre l’argomentazione, nuovamente « radicale » e teoricamente ineccepibile ed « insuperabile », che l’esistenza di un siffatto ed autonomo interesse alla correttezza e alla buona fede della p.a. costituisce una petizione di principio, tanto più inspiegabile in un ordinamento, come quello amministrativo, nel quale la p.a., in forza del principio di legalità (e dei corollari della nominatività e della tipicità) è tenuta ad osservare regole specifiche, che disciplinano nel dettaglio i « comportamenti » da osservare, sia nei confronti della collettività, sia con riguardo ai soggetti privati direttamente e concretamente coinvolti (20). Pertanto, se è (19) Come ricorda C.M. BIANCA, Diritto civile, 3, cit., 156, la responsabilità precontrattuale « non tutela l’interesse all’adempimento ma l’interesse del soggetto a non essere coinvolto in trattative inutili, a non stipulare contratti invalidi o inefficaci e a non subire coartazioni o inganni in ordine ad atti negoziali ». (20) Una siffatta argomentazione costituisce uno dei più ricorrenti rilievi in base a quali la configurabilità della responsabilità precontrattuale della p.a. veniva negata. Per una sintesi di tali rilievi, v. G. CHINÈ, La responsabilità, cit., 803 ss., il quale cosı̀ li riassume: a) presunzione di correttezza del comportamento tenuto dai soggetti pubblici; b) carattere collettivo degli interessi da questi perseguiti; c) inammissibilità del giudice ordinario sulle scelte discrezionali della p.a.; d) non ipotizzabilità di un affidamento meritevole di tutela del privato in ordine alla stipula del contratto, tenuto conto della disciplina marcatamente pubblicistica cui è sottoposta l’attività contrattuale dei soggetti pubblici. Per una rapida ma completa descrizione del superamento progressivo di tali obiezioni cfr. G. GRECO, La responsabilità civile dell’amministrazione e dei suoi agenti, in L. MAZZAROLLI, G. PERICU, A. ROMANO, F.A. ROVERSI MONACO, F.G. SCOCA, Diritto amministrativo, II, Bologna, 2001, 1733 ss. Si ricorda, peraltro, che la dottrina ci-


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vero che la buona fede e la correttezza sono già « tradotte » nell’ambito specifico delle singole norme che si riferiscono al perseguimento dell’interesse pubblico da parte dei soggetti espressamente investiti di questa finalità, allora può dirsi che l’osservanza di questi precetti « speciali » esaurisca l’obbligo che per i soggetti privati viene sancito in via generale (e tecnicamente « generica ») dall’art. 1337 c.c., e che, in definitiva, nessuna responsabilità precontrattuale possa essere invocata laddove l’azione amministrativa venga giudicata legittima. A questo riguardo non è inutile ricordare che una ricostruzione simile a quella da ultimo riportata è stata seguita anche da una recente sentenza della Corte di Cassazione, nella cui motivazione è stato, ad esempio, sostenuto che l’applicazione dell’art. 1337 c.c. all’attività giuridica che la p.a. svolge nel contesto di un procedimento di gara per l’affidamento di un pubblico appalto sarebbe del tutto « irrilevante », poiché in quel procedimento « relazioni e contatti rilevanti sono solo quelli normativamente tipizzati attraverso regole di comportamento che la pubblica amministrazione deve osservare » (21). A giudizio della Suprema Corte, per vero, tale irrilevanza non comporterebbe che la violazione di quelle regole sia del tutto indifferente, in quanto, allo stato attuale e dopo la sentenza n. 500 del 1999 (22), sarebbe viceversa acquisito che « la violazione vilistica ammette in senso pressoché unanime l’applicazione dell’art. 1337 c.c. alla p.a., anche se sono dibattuti i confini di tale estensione: v., ex plurimis, la trattazione di C.M. BIANCA, Diritto civile, 3, cit., 178 ss. (21) Cosı̀ Cass., Sez. I civile, sentenza 11 giugno 2003, n. 9366, in Foro it., 2003, I, 3359 ss., con nota di F. FRACCHIA, M. OCCHIENA, Responsabilità delle amministrazioni: divergenze e convergenze tra la Cassazione e il Consiglio di Stato, i quali, peraltro, concordano con l’argomentazione del Supremo Collegio, richiamando la conforme opinione di E. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2003, 580. (22) La notorietà ormai diffusa di tale sentenza rende impossibile riportare con completezza tutti i pertinenti riferimenti dottrinali (per i quali sia consentito rinviare a F. CORTESE, Momenti e luoghi salienti di una transizione: la tutela giurisdizionale amministrativa e i suoi sviluppi al cospetto delle amministrazioni indipendenti, in questa Rivista, 2001, 436, nt. 7). Si ricordino, tuttavia, i contributi di F.G. SCOCA, Risarcibilità e interesse legittimo, in Dir. pubbl., 2000, 13 ss., e A. ORSI BATTAGLINI, C. MARZUOLI, La Cassazione sul risarcimento del danno arrecato alla pubblica amministrazione: trasfigurazione e morte dell’interesse legittimo, ibid., 487 ss. Sul tema della risarcibilità del-


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delle regole di condotta che la stazione appaltante deve osservare per giungere all’aggiudicazione può dare luogo al risarcimento dei danni, trattandosi di norme poste a garanzia di interessi meritevoli di tutela, come quello all’esercizio dell’impresa, alla concorrenza effettiva tra le imprese e alla parità di trattamento tra loro, in rapporto al bene della vita costituito dall’esecuzione dei lavori e dal mancato guadagno che l’omessa aggiudicazione comporta per l’impresa ». Tuttavia, anche a prescindere dalla diversità del caso deciso, non v’è chi non possa a sua volta notare che, a fronte della lettura cosı̀ proposta, la soddisfazione della pretesa azionata dal privato viene appunto collocata, ancora una volta e pur sempre, nel cono d’ombra dell’interesse legittimo e dei principi, ancor’oggi dibattuti, che presiedono alla sua corretta definizione. In altre parole, ciò che di tale ricostruzione appare parzialmente disorientante è il tentativo di qualificare l’interesse alla correttezza e alla buona fede della p.a. nell’orbita dell’interesse legittimo e della sua principale (anche se non esclusiva) natura di interesse ad una specifica situazione sostanziale destinata a realizzarsi necessariamente attraverso la mediazione del potere. Il risultato che cosı̀ consegue la Corte è quello di moltiplicare i potenziali oggetti del celebre « giudizio di spettanza » di cui tanto si discute dopo la sentenza n. 500 del 1999, poiché è chiaro che, nel momento in cui si sostiene che la violazione delle regole della procedura di gara comporta violazione di interessi meritevoli di tutela e che tali interessi non coincidono con l’interesse al bene della vita (ossia, l’appalto) ma sono identificabili con i diversi interessi ad altrettanto diversi ed autonomi beni della vita (l’esercizio dell’impresa, la concorrenza effettiva tra le imprese e la parità di trattamento tra loro), si arriva a sostenere che questi ultimi sono, a loro volta e nel contesto dell’evidenza pubblica, interessi comunque e soltanto legittimi (23). Cosı̀ tuttavia non potrebbe ragionevolmente essere: difatti, gli l’interesse legittimo si veda, per un quadro generale delle tesi finora espresse, S. D’ANTONIO, Teoria e prassi nella tutela risarcitoria dell’interesse legittimo, Napoli, 2003. (23) Un’operazione simile, peraltro, è stata condotta anche nella sentenza con la quale la Cass. è tornata a decidere sulla medesima fattispecie di cui alla sentenza n.


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stessi Autori che hanno accolto con favore le precisazioni della Cassazione hanno contestualmente (ed efficacemente) aggiunto che, in verità, la materia degli appalti non coinvolge solo interessi legittimi, e che l’apparente pluralità di qualificazioni tra loro contraddittorie si spiega soltanto attraverso il principio di relatività delle situazioni giuridiche: « a fronte dello stesso bene/interesse materiale (meritevole di tutela) » il privato è « titolare di un “fascio di situazioni giuridiche” composto da diritti soggettivi, interessi legittimi e interessi procedimentali, tutti coesistenti » (24). Il fatto è che, se le cose stanno davvero in tal modo, non si comprende il motivo dell’applicazione onnicomprensiva del giudizio di spettanza anche a situazioni sostanziali che detta valutazione non tollerano e che, in verità, per definizione e per struttura essenziale di un procedimento quale quello ad evidenza pubblica, debbono riuscire sempre garantite, a prescindere dalla (diversa) garanzia del bene finale cui aspira il soggetto privato in quanto titolare di un vero interesse legittimo. Ecco perché, in definitiva, non si intravede la ragione per la quale la Cassazione si è, in quel caso, discostata dall’applicazione del canone precontrattuale: resta infatti ancor oggi valida l’osservazione secondo cui la « circostanza che il privato sia titolare di un interesse legittimo in ordine alla regolare effettuazione della gara pubblica, all’aggiudicazione, ecc., non implica che non sia contemporaneamente titolare di un diritto soggettivo, ai fini dell’art. 1337 c.c. » (25). Ciò che tuttavia non è ancora chiaro è il quesito circa l’appli500/1999: v. Sez. I, 10 gennaio 2003, n. 157, in Foro it., I, 2003, 78 ss., con nota di F. FRACCHIA, Risarcimento del danno da attività provvedimentale: la Cassazione effettua un’ulteriore (ultima?) puntualizzazione, il quale si sofferma anche su questo profilo (pp.81-82), in Corr. giur., 2003, 594 ss., con nota di A. LAMORGESE, Nuovi fermenti in Cassazione sulla responsabilità per attività provvedimentale della pubblica amministrazione, e in Foro amm.-Cons. Stato, 2003, 478 ss., con nota di P. SIRACUSANO, La nuova (e « vera ») svolta della Cassazione sulla c.d. risarcibilità dell’interesse legittimo: i doveri di comportamento della pubblica amministrazione verso la logica garantistica del rapporto. (24) Cfr. F. FRACCHIA, M. OCCHIENA, Responsabilità delle amministrazioni, cit., 3362, i quali cosı̀ motivano anche la ragione della previsione legislativa circa la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di affidamento di appalti. (25) Cosı̀ G. GRECO, I contratti dell’amministrazione tra diritto pubblico e diritto


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cabilità di una siffatta impostazione anche alla fattispecie decisa dal Tar Lombardia con la sentenza in esame. Si è già detto, del resto, che il caso deciso dalla Cassazione era parzialmente differente da quello affrontato nella pronuncia qui commentata, e ciò sia per la diversità della vicenda sia per il diverso modo attraverso il quale essa è giunta alla cognizione di un giudice. In quel caso, infatti, l’attore, aggiudicatario provvisorio di un pubblico appalto di lavori, aveva esercitato l’azione risarcitoria dopo aver ottenuto l’annullamento del provvedimento con il quale la p.a. aveva proceduto ad aggiudicare definitivamente il medesimo appalto ad un soggetto originariamente escluso ed in seguito riammesso. È anche vero però che, in quell’ipotesi, una volta sostenuto che la ragione del risarcimento era, come si è visto, la lesione di interessi meritevoli di tutela, ma pur sempre autonomi dall’interesse (ormai sfumato) al bene della vita (si noti, per inciso, che l’opera nel frattempo era stata integralmente eseguita), la Corte è stata costretta, nell’ordine, 1) a riconoscere in detta lesione un’illegittimità, 2) a prendere atto che tale illegittimità si presentava appunto lesiva di interessi diversi da quello all’aggiudicazione dell’appalto, 3) a constatare che tuttavia detta illegittimità non era stata ancora dichiarata con sentenza passata in giudicato (essendo ancora pendente il processo d’appello), 4) ad ammettere, infine, che, qualunque fosse l’esito del giudizio amministrativo di secondo grado, l’eventuale annullamento del provvedimento lesivo non sarebbe stato comunque pregiudiziale rispetto al soddisfacimento della domanda risarcitoria, poiché ciò che conta è l’« illecito » realizzatosi con il « concreto comportamento » della p.a. Si può notare, a questo punto, che un tale argomentare, di certo in apparente contrasto con le prevalenti convinzioni « processuali » (i.e. pregiudizialità) della giurisprudenza amministrati-

privato, Milano, 1986, 115 ss. Per simili sviluppi sia consentito rinviare a F. CORTESE, Storie « ordinarie » di nodi ancora irrisolti: lesione di interessi meritevoli di tutela e responsabilità civile della p.a., in I Contratti dello Stato e degli Enti pubblici, 2003, 688 ss. (a commento della succitata sentenza della Corte di Cassazione).


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va (26) e di altri orientamenti della stessa Cassazione (27), avrebbe potuto essere pacificamente evitato riconoscendo, come aveva effettivamente riconosciuto il giudice di primo grado, che la causa petendi dell’azione risarcitoria non era, di per sé, l’illegittimità di un provvedimento, che, piuttosto, la ragione della domanda si fondava sulla pratica impossibilità di eseguire l’opera e di ottenere una soddisfazione positiva del proprio interesse (28), e che, quindi, « anche nell’ipotesi in cui il comportamento in mala fede si desuma dalla violazione di una norma pubblicistica del procedimento di aggiudicazione, non sussiste alcuna necessità logica e giuridica che si debba procedere al preventivo annullamento dell’aggiudicazione stessa » (29): in una fattispecie siffatta non si discute dell’interesse legittimo e delle sue garanzie (soltanto formali per alcuni, anche sostanziali e specifiche per altri), bensı̀ dell’illecita privazione di utilità che per il privato non sarebbero andate perdute se la p.a. avesse conformato la propria intera attività a criteri di buona fede e correttezza (30). (26) Cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Ad. Plen., 26 marzo 2003, n. 4, e, con argomentazione più « ricca » ed articolata, Cons. Stato, Sez. VI, 18 giugno 2002, n. 3338 (sulla prima v. le osservazioni di A. TRAVI, in Foro it., 2003, III, 433 ss., e di G.P. CIRILLO, L’annullamento dell’atto amministrativo e il giudizio sull’antigiuridicità ingiusta dell’illecito derivante dall’illegittimo esercizio dell’azione amministrativa, in Foro amm.-Cons. Stato, 2003, 885 ss.; sulla seconda cfr. in questa Rivista, 2003, 223 ss., con nota di A. TRAVI, La reintegrazione in forma specifica ra azione di adempimento e azione risarcitoria, cit., e di R.S. MASERA, La reintegrazione in forma specifica, cit.). In argomento v., da ultimo, G. VERDE, La pregiudizialità dell’annullamento nel processo amministrativo per risarcimento del danno, in questa Rivista, 2003, 963 ss. (27) V. in proposito, Cass., Sez. II, 27 marzo 2003, n. 4538, sulla quale si veda A. TRAVI, in Foro it., 2003, I, 2073 ss. (28) Su questi aspetti v. F. CORTESE, Storie « ordinarie », cit., in part. 690. (29) Cosı̀ sempre G. GRECO, I contratti, cit. (30) L’attore di quel giudizio risarcitorio, infatti, lamentava che, pur essendo egli l’aggiudicatario provvisorio, l’opera fosse stata aggiudicata in via definitiva ad un soggetto originariamente escluso e quindi riammesso, senza però che tale provvedimento definitivo fosse stato preceduto dalla considerazione, in autotutela, dell’asserita illegittimità dell’esclusione e dell’aggiudicazione provvisoria. Vero è che lo stesso attore aveva ottenuto una pronuncia (poi impugnata) di annullamento dell’aggiudicazione definitiva, ma è altrettanto indiscutibile che tale pronuncia non gli garantiva comunque l’accertamento, in sede risarcitoria, della « spettanza », né gli assicurava di poter ancora sperare nell’esecuzione dei lavori (nelle more del giudizio ormai conclusi). Eppure, un danno meritevole di essere riparato sussisteva comunque, giacché l’attore aveva in


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Detto questo, però, non è ancora chiaro se ciò che si è da ultimo precisato con riguardo alle modalità e alle ragioni per le quali l’art. 1337 c.c. sarebbe applicabile anche ai procedimenti ad evidenza pubblica (in quanto volti alla conclusione di un rapporto contrattuale) sia in concreto estendibile anche alla diversa fenomenologia dell’urbanistica c.d. « contrattata » e delle potenziali lesioni dell’affidamento privato quali cagionate in conseguenza delle (spesso fisiologiche) vicende successive dell’interesse pubblico ad un ordinato assetto del territorio e delle libere iniziative che su di esso insistono. Se si legge, ancora una volta, la pronuncia surriprodotta, si può facilmente avvertire che il Collegio opta espressamente per l’applicazione della c.d. « responsabilità da contatto » procedimentale e che, pertanto, il richiamo all’art. 1337 c.c. e ai principi di buona fede e correttezza assume concreto valore nella specifica prospettiva che interpreta la partecipazione procedimentale non solo quale espressione precisa della vigente modalità di esercizio del potere, ma anche come scenario di relazioni costanti e reciproche tra cittadino e p.a., « alla stregua » di quanto accade nelle comuni trattative contrattuali. Vero è tuttavia che, come si è detto sin dal principio, si tratta proprio di vedere se è effettivamente possibile trattare la veste procedimentale attraverso la quale si manifesta il potere alla « stessa » stregua dei rapporti precontrattuali: si è pure accennato che il Consiglio di Stato ha, ancora di recente e, almeno in linea di principio, correttamente, osservato che il nesso che lega cittadino e p.a. non permette di applicare all’interesse legittimo e alla sua tutela la garanzia che nei rapporti interprivati viene assicurata mediante l’applicazione della buona fede e della correttezza. A fronte del potere, infatti, « l’esercizio della situazione soggettiva astrattamente riconosciuta al privato (...) dipende (...) dal conforme o meno esercizio della funzione e si ricollega per questo all’interesse legittimo, che nella vicenda procedimentale rappresenta e traduce la pretesa del titolare del diritto al pieno ed effetbuona fede (ma inutilmente) confidato nella possibilità che l’aggiudicazione provvisoria diventasse definitiva.


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tivo suo godimento, anche mediante quella modalità che la norma positiva fa dipendere dal potere conformativo della p.a. » (31). È altrettanto corretto, però, evidenziare, come si è fatto con riferimento alla pronuncia della Cassazione, che quest’ultima argomentazione non esclude che, accanto ed oltre l’interesse legittimo, il soggetto privato goda di posizioni soggettive che, pur essendo ad egli imputate anche e soprattutto in ragione della titolarità di detto interesse, non si esauriscono in esso, né pretendono che la loro pratica insoddisfazione comporti ex se la parallela e conseguentemente illegittima o ingiusta privazione dell’utilità finale. Si badi che con ciò non si allude all’autonomia degli interessi procedimentali, giacché, nell’impostazione attualmente vigente, la loro violazione comporta l’illegittimità dell’atto (32). Il fatto significativo, invero, è diverso, e riguarda la possibilità che il sacrificio imposto al privato possa essere, in fondo, pienamente legittimo (sia perché le regole del procedimento sono state osservate, sia perché a tale soggetto il bene finale comunque non spetterebbe) e che, ciò nonostante, sussista ugualmente un’ipotesi di responsabilità dell’amministrazione procedente. Il caso deciso dal Tar è proprio questo, ed il giudice amministrativo, del resto, ha già « sperimentato » soluzioni simili, laddove, con riferimento all’ipotesi già ricordata del (legittimo) diniego di un’aggiudicazione provvisoria, motivato per sopravvenuta carenza dei fondi disponibili, il Consiglio di Stato ha fatto comunque applicazione dell’art. 1337 c.c. (33), riconoscendo con ciò che la legittimità del provvedimento non esclude la responsabilità dell’amministrazione ogni qual volta essa adotti comporta(31) V., in questi termini, Cons. Stato, Sez. V, 18 novembre 2002, n. 6389, cit., supra nota 2. (32) Vero è che proprio attraverso il riferimento alla responsabilità da « contatto » un orientamento giurisprudenziale (sorretto da un parallelo avviso dottrinale) spiega la risarcibilità di questi interessi in quanto esprimenti prerogative procedimentali che sono diverse dalla pretesa all’ottenimento del bene finale: cfr., ad esempio, Cons. Stato, Sez. IV, 15 aprile 2003, n. 1945, reperibile al Sito Internet www.giustizia-amministrativa.it. (33) Si veda Cons. Stato, Sez. IV, 19 marzo 2003, n. 1457, cit.


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menti contraddittori ed ambigui violando, per l’appunto, l’affidamento precontrattuale alla correttezza del reciproco contegno. Non si tratterebbe, quindi, di interessi legittimi da risarcire, né di affidamenti-aspettative sostanziali da realizzare, né, ancora, di interessi formali da riparare, bensı̀ di autonomi diritti precontrattuali (34), la cui soddisfazione dev’essere ugualmente garantita (ma nella sola misura dell’interesse negativo) anche a prescindere dal necessario spazio definitorio del potere e delle scelte organizzative ed istituzionali di cui esso è, nel suo esercizio, diretta espressione. 4. Può allora ipotizzarsi che la vera « pietra dello scandalo » che rende la pronuncia in commento potenzialmente irrazionale si celi ancora nell’accettazione dell’idea che l’interesse legittimo sia davvero letto in chiave costituzionalmente soggettiva, poiché ciò comporterebbe, in ultima analisi, che alla pretesa che di tale situazione soggettiva costituisce il nucleo essenziale (e nella cui definizione amministrativa essa concettualmente e teoricamente si risolve) si aggiungano le ulteriori pretese di cui comunemente gode il diritto soggettivo e che sembrano parimenti autonome anche dalla definizione essenziale di quest’ultimo. Non è un caso, peraltro, che la pronuncia del Tar Lombardia distingua espressamente, come si è visto, l’interesse alla stipulazione dell’accordo di programma dall’interesse a rimanere comunque indenni dai pregiudizi che la violazione della buona fede e della correttezza può cagionare. Né è un caso che la motivazione in base alla quale il primo di questi due « interessi » (o « affidamenti ») viene negato sia l’attenta considerazione delle norme (procedimentali e specifiche) che la p.a. deve seguire per l’approvazione dell’accordo di programma. Sembra cioè che il Tar abbia indirettamente intuito che la potenziale (ed insuperabile) obiezione di cui si è detto sopra, ossia l’esistenza esclusiva di disposizioni che la p.a. deve comunque osservare in preferenza rispetto al diritto comune dell’art. 1337 (34) In questi termini, ossia parlando di « diritti precontrattuali », si esprime G.M. RACCA, Gli elementi della responsabilità, cit., 66.


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c.c., può essere valida soltanto con riferimento all’interesse legittimo e alla sua tutela, e non anche con riguardo alla tutela (esterna al potere) di quei diritti precontrattuali che a detto interesse si affiancano allorché il termine delle azioni (privata ed amministrativa al contempo) sia la stipulazione di un negozio. Da un lato, infatti, il giudice, prendendo atto di quanto prevede la l. reg. n. 9 del 1999, nega « che, in assenza della stipula di un accordo di programma o della adozione di un qualsivoglia provvedimento conclusivo della procedura, possa ravvisarsi quel limite all’esercizio dell’autotutela che la giurisprudenza riconosce, per vero, soltanto quando siano insorti diritti a favore di terzi ovvero quando (secondo alcuni arresti) si sia costituito un affidamento particolarmente intenso del destinatario »; dall’altro, tuttavia, viene chiaramente riconosciuto che « il principio dell’affidamento, che esprime l’obbligo di correttezza e di buona fede (in senso oggettivo) nei rapporti tra p.a. e cittadino, dalla sua prima connotazione nel senso del tendenziale “non venire contra factum proprium”, si sviluppa (...) fino a trovare applicazione all’interno del procedimento ». Se, in proposito, un’ambiguità ancora rimane, essa è individuabile in due profili distinti, ma tra loro intimamente connessi. Il primo profilo consiste nell’idea che la responsabilità da ultimo descritta (ex art. 1337 c.c.) sia veramente qualificabile come « responsabilità da contatto ». A ben vedere, l’utilità pratica di una simile lettura si avrebbe soltanto se l’art. 1337 c.c. non fosse direttamente applicabile; ma cosı̀ non è, ed il rinvio ad una siffatta teoria sarebbe veramente fuorviante, poiché con essa gli interpreti mirano tendenzialmente ad una complessiva rilettura dell’interesse legittimo e del rapporto tra cittadino e p.a., mentre, nel nostro caso, una lesione dell’interesse legittimo non sussiste proprio, né dal punto di vista formale, né dal punto di vista sostanziale: il provvedimento di revoca è legittimo a tutti gli effetti; i.e. il giudice ha accertato sia che non vi sono violazioni procedimentali che lo possano infirmare, sia che le aspettative finali del ricorrente non sono meritevoli di espressa e specifica considerazione. Il secondo profilo, invece, è più delicato e richiede riflessioni


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ulteriori, in quanto attiene alla configurazione (o, meglio, al progressivo « arretramento ») che, in generale, rischiano di assumere le manifestazioni dell’autotutela della p.a. laddove esse, pur sostanzialmente e formalmente legittime, si prestino a motivare l’esperimento di autonome azioni di responsabilità fondate sull’art. 1337 c.c. La contraddizione che ne risulterebbe è particolarmente significativa, in quanto l’amministrazione, nel timore di ledere i « diritti precontrattuali » del privato con il quale ha inopportunamente o illegittimamente avviato delle « trattative », potrebbe essere indotta a non rimuovere le ragioni dell’inopportunità o dell’illegittimità, con conseguente e grave frustrazione del necessario riallineamento del potere agli scopi e agli interessi per la cui realizzazione è stato conferito. Vi sono casi giurisprudenziali, del resto, che, almeno in apparenza, possono effettivamente ingenerare il timore di un tale « pericolo »: in una pronuncia recente, ad esempio, la p.a. è stata condannata per responsabilità precontrattuale dopo aver annullato, in autotutela, il bando di gara (originariamente illegittimo) e la conseguente aggiudicazione a favore di un’impresa che, in quanto aggiudicataria, aveva maturato un « legittimo affidamento » circa la concreta possibilità di poter svolgere l’appalto (35). Si osservi, tuttavia, che, anche in casi di questo genere, la violazione della buona fede e della correttezza è di per sé esterna allo spazio conformativo del potere, ossia allo stesso (e solo) spazio entro il quale si sviluppano anche i procedimenti di secondo grado, e che pertanto la vera ragione per la quale è possibile risarcire il danno ai diritti precontrattuali è che essi non vengono violati, in senso stretto, dall’illegittimità dell’azione amministrativa, bensı̀ dal concreto e contraddittorio contegno che abbia spinto il privato ad effettuare spese che, senza quel contegno, non avrebbe effettuato. Ciò consente di formulare una conclusiva osservazione sull’ambiguità quasi strutturale che il richiamo all’art. 1337 c.c. (35) Cfr. Tar Campania-Napoli, Sez. I, 26 agosto 2003, n. 11259, reperibile al Sito Internet www.giustizia-amministrativa.it. Ma v. anche Cons. Stato, Sez. IV, 19 marzo 2003, n. 1457, ibid.


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spesso sembra sortire in diffuse tesi dottrinali e giurisprudenziali. Ipotizzare che, accanto alla tutela dell’interesse legittimo, sia tutelabile, in fattispecie caratterizzate dalla finalizzazione contrattuale o lato sensu negoziale dell’attività pubblica e privata, anche il rispetto dei diritti precontrattuali (con applicazione biunivoca di buona fede e correttezza) significa pensare: 1) che l’interesse legittimo tout court coincida con l’interesse sostanziale e finale del soggetto privato in quanto indirettamente protetto (ossia in quanto tutelato dall’esatta osservanza della disciplina legislativa da parte della p.a.); 2) che tale posizione soggettiva abbia la pari dignità (i.e. pari tutela) delle posizioni di diritto soggettivo laddove il cittadino ed il potere, ciascuno nel rispetto dei principi che maxime li orientano (l’autonomia e la legalità), mirano a vincolare le proprie determinazioni ed il proprio agire a pattuizioni sinallagmatiche; 3) che, pertanto, al titolare dell’interesse legittimo si riconosca, in questi contesti, la parallela titolarità di autonome pretese precontrattuali, azionabili indipendentemente dalla sorte specifica delle proprie aspirazioni finali, nell’ipotesi in cui la p.a., pur rispettando i principi che ne regolano l’azione, coinvolga il privato in iniziative defatiganti, infruttuose ed improntate a criteri non trasparenti o scorretti. Tutto ciò, quindi, non significa affatto: 1) che l’art. 1337 c.c. sia il modello generale del rapporto tra cittadino e p.a.; 2) che esso pertanto sanzioni il rispetto di tutte le violazioni della buona fede e della correttezza da parte della p.a. (sia quelle intrinsecamente tali e cristallizzate nelle norme procedimentali che la stessa p.a. deve seguire, sia quelle generiche che derivano dal dovere di non frustrare iniziative private precedentemente assentite); 3) che esso, anzi, meglio di ogni altro schema interpretativo, sia idoneo a raffigurare con efficacia la natura dell’interesse legittimo quale situazione in fondo « non sostanzialmente garantita » (36). (36) Un’efficace critica al modello « generale » della responsabilità da contatto nonché all’idea che tale modello sia direttamente individuabile nell’art. 1337 c.c. è svolta da R. CHIEPPA, Viaggio di andata e ritorno dalle fattispecie di responsabilità della


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L’accoglimento di quest’ultima prospettiva, tra l’altro, comporterebbe l’accettazione dell’idea, un tempo diffusa ma, a ben vedere, parzialmente scorretta, secondo la quale l’interesse legittimo altro non è che l’interesse al rispetto della legge da parte della p.a.: cosı̀ tuttavia non è, poiché il privato che partecipa ad una gara d’appalto (o che, in casi diversi, aspira ad ottenere il permesso di costruire o a difendere la proprietà del proprio immobile a fronte di un provvedimento espropriativo) altro non desidera che raggiungere il proprio scopo (37), e la ragione per la quale egli si vede titolare di un interesse legittimo consiste nel riconoscimento che attribuirgli pretese maggiori (diritti soggettivi) frustrerebbe l’esercizio (necessario) del potere ed il conseguente raggiungimento degli obiettivi pubblici. Pertanto, nel momento in cui si nota l’emergere di nuove pretese e di nuove esigenze di tutela, si dovrebbe anche evidenziare come l’orizzonte d’indagine oggi praticabile si vada gradualmente spostando dalla definizione « centripeta » delle situazioni soggettive del cittadino innanzi alla p.a. (situazioni tutte originariamente comprese nell’alveo dell’interesse legittimo e della sua tutela costitutiva) all’individuazione « satellitare » di autonome prerogative, che, pur essendo imputate anche ai titolari dell’interesse legittimo in senso stretto, non ne condividono la sorte conpubblica amministrazione alla natura della responsabilità per i danni arrecati nell’esercizio dell’attività amministrativa, in questa Rivista, 2003, 683 ss., in part. 695 ss. (37) Cfr. le chiare osservazioni di G. FALCON, Lineamenti di diritto pubblico, Padova, 2003, 63: « sarebbe sbagliato credere che (come viene talvolta affermato) l’interesse tutelato sia un interesse alla legittimità del provvedimento. Infatti, il titolare dell’interesse legittimo ha un interesse a che il provvedimento non gli tolga o non gli neghi un bene che ha o al quale aspira, ha cioè interesse a non essere colpito dal provvedimento lesivo; ma a parte ciò non ha in realtà nessun interesse particolare alla legittimità di questo. Paradossalmente, si potrebbe persino dire che egli ha interesse alla illegittimità del provvedimento (che lo ha colpito), perché solo ciò gli consente di ottenere l’annullamento. Il fatto è che l’interesse del soggetto a non essere privato del bene cui il provvedimento si riferisce è tutelato nei limiti in cui lo protegge la repressione dell’illegittimità. Dunque, la legittimità del provvedimento costituisce la misura della protezione, e non affatto il suo oggetto ». Per rilievi ulteriori v. anche, e da ultimo, A. ZITO, Il danno da illegittimo esercizio della funzione amministrativa. Riflessioni sulla tutela dell’interesse legittimo, Napoli, 2003, 190, nota 169.


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dizionata, acquistando cosı̀ l’indipendenza che l’ordinamento oggi gli riconosce (38). FULVIO CORTESE

(38) Per un’illustrazione di una simile prospettiva, e per la descrizione degli ulteriori orientamenti, con riferimento ad un’ipotesi specifica, si rinvia a F. CORTESE, Il risarcimento del danno in materia edilizia: osservazioni in margine ad un orientamento giurisprudenziale, in D. DE PRETIS, A. MELCHIONDA (a cura di), La disciplina amministrativa e penale degli interventi edilizi. Un bilancio della normativa trentina alla luce del nuovo testo unico sull’edilizia (Atti del convegno tenuto nella Facoltà di Giurisprudenza di Trento l’8 maggio 2003), Università degli Studi di Trento, 2003, in part. 158 ss.


rassegne

recensioni

notizie

LA VIOLAZIONE DEI TERMINI PREVISTI DALL’ART. 2 L. N. 241 DEL 1990: CONSEGUENZE SUL PROVVEDIMENTO TARDIVO E FUNZIONE DEL GIUDIZIO EX ART. 21-BIS L. TAR.

SOMMARIO: 1. Introduzione. — 2. La posizione dei giudici amministrativi. Critica. — 3. La posizione della Cassazione e della Corte costituzionale. — 4. Un’ipotesi ricostruttiva alla luce degli orientamenti della Cassazione e della Corte costituzionale; in particolare, il ruolo del giudizio ex art. 21-bis l. Tar. — 5. Alcune conclusioni: la violazione del termine per provvedere in una prospettiva de jure condendo.

1. È ben noto come un’importante novità della legge sul procedimento sia costituita dalla espressa previsione, al suo art. 2, del dovere, in capo alla Amministrazione, di rispettare un termine acceleratorio per l’emanazione del provvedimento (« Le pubbliche amministrazioni determinano per ciascun tipo di procedimento, in quanto non sia già direttamente disposto per legge o per regolamento, il termine entro cui esso deve concludersi. Tale termine decorre dall’inizio di ufficio del procedimento o dal ricevimento della domanda se il procedimento è ad iniziativa di parte. Qualora le pubbliche amministrazioni non provvedano ai sensi del comma 2, il termine è di trenta giorni » - commi 2 e 3). Obiettivo di queste note è, anzitutto, dare conto di come la norma sia interpretata in giurisprudenza, e, in particolare, quale sanzione i giudici ricolleghino alla sua violazione. Non c’è chi non veda, infatti, come l’effettività di una prescrizione sia strettamente legata alla reazione che l’ordinamento, come concretamente interpretato, opponga alla sua violazione. Successivamente, sulla base delle critiche sviluppate nei confronti della opinione prevalente tra i giudici amministrativi, si Dir. Proc. Amm. - 2/2004


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prenderà posizione a favore degli orientamenti emersi nell’ambito della giurisprudenza ordinaria. Si tenterà inoltre un’interpretazione dell’art. 21-bis l. Tar coerente con le tesi esposte. 2. Nella giurisprudenza amministrativa è prevalsa una lettura assai « prudente » della possibile reazione ordinamentale a fronte della violazione dei termini acceleratori per l’emanazione del provvedimento. Anche recentemente, il Consiglio di Stato, con l’obiettivo di salvaguardare il potere dell’Amministrazione di provvedere allorquando un giudizio contro il silenzio inadempimento sia già stato instaurato, si è espresso nel senso che: « I termini divisati dall’art. 2 l. 7 agosto 1990 n. 241, hanno natura acceleratoria, non contenendo lo stesso alcuna prescrizione in ordine alla loro perentorietà, né alla decadenza della potestà amministrativa né all’illegittimità del provvedimento tardivamente adottato » (1). (1) Cons. Stato, 11 giugno 2002, n. 3256, in Foro amm.-Cons. Stato 2002, 2039 ss., con nota critica di LAMBERTI, Silenzio: sempre più impervia la via dell’innovazione, la quale Autrice sostiene il carattere generalmente perentorio dei termini ex art. 2 l. n. 241 del 1990, anche se non si esprime sulle conseguenze della violazione di tali termini in punto di validità del provvedimento (2053-2054). In termini analoghi alla pronuncia 3256/2002, Cons. Stato, 5 novembre 2002, n. 6036: « secondo consolidata giurisprudenza, anche successiva all’entrata in vigore dell’art. 2 della legge n. 241 del 1990, il mancato rispetto del termine previsto per l’inizio o la definizione del procedimento non comporta la consumazione o l’illegittimità del provvedimento tardivo laddove non venga in rilievo l’esplicita previsione della natura perentoria del termine ovvero dell’effetto invalidante del mancato rispetto »; Cons. Giust. Amm., 14 febbraio 2001, n. 77; Trib. Sup. Acque Pubbl., 24 aprile 2001, n. 46: « L’art. 2 L. 7 agosto 1990 n. 241 pone un termine acceleratorio per la definizione dei procedimenti amministrativi e non contiene alcuna prescrizione in ordine alla perentorietà del termine stesso, né alla decadenza dalla potestà amministrativa, ovvero all’illegittimità del provvedimento tardivamente adottato »; Cons. Stato, 16 ottobre 1996, n. 1154: « Il termine di cui all’art. 2 comma 3 l. 7 agosto 1990 n. 241 per l’adozione dell’atto (30 giorni) ha natura ordinatoria e non perentoria, non essendo comminata alcuna sanzione per il caso di inosservanza; pertanto, la sua inosservanza da parte della amministrazione non esaurisce il potere di provvedere spettante a quest’ultima »; Cons. Stato, 3 giugno 1996, n. 621, in Foro amm., 1996,1869 ss.: « L’art. 2, l. 7 agosto 1990 n. 241 pone un termine acceleratorio per la definizione dei procedimenti amministrativi e non contiene alcuna prescrizione in ordine alla perentorietà del termine stesso, né alla decadenza della potestà amministrativa, né tampoco all’illegittimità del provvedimento tardivamente adottato, conseguenze, queste, che si potrebbero verificare, pure senza una


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Talvolta, si rinvengono anche posizioni diverse. Ma si tratta di norma ad hoc, solo ove un effetto legale tipico fosse collegato all’inutile decorso del termine (p. es., come nel caso del silenzio-accoglimento), ma che non avrebbero senso nell’ipotesi generale, perché la cessazione della potestà, derivante dal protrarsi del procedimento, potrebbe nuocere all’interesse pubblico alla cui cura quest’ultimo è preordinato, con evidente pregiudizio della collettività ». In sede consultiva, conformemente, Cons. Stato, Sez. II, 3 novembre 1999, n. 1401. In questo senso, del resto, anche la importante pronuncia dell’Ad. plen. 4 dicembre 1989, n. 17, in Giur. it., III, 1989, 33 ss., in tema di silenzio rigetto, ove — in contrasto con la posizione espressa dalla stessa Adunanza nella nota pronuncia 7 febbraio 1978, n. 4, in Foro amm., 1978, II, 23 ss. secondo cui il provvedimento tardivo di decisione era illegittimo per violazione del principio del ne bis in idem — si è negato, cosı̀ riprendendo le posizioni della Ad. plen. del 3 maggio 1960, n. 8, in Cons. Stato, 1960 I, 822 ss., che tale provvedimento possa essere fondatamente impugnato dagli eventuali controinteressati esclusivamente in ragione della sua tardività: « La decisione di accoglimento, adottata e comunicata oltre il novantesimo giorno, non potrà peraltro considerarsi illegittima...unicamente per la sua tardività ». La tesi cosı̀ espressa — non smentita dalla « gemella » Ad. plen. 24 novembre 1989, n. 16, in Giur. it., III, 1989, 38 ss., ove si afferma sı̀ l’invalidità della decisione tardiva di accoglimento, ma solo se emanata successivamente all’instaurazione di procedimento giudiziale — è, con tutta probabilità, diretta a superare l’opinione dell’illegittimità per violazione del principio del ne bis in idem di cui alla pronuncia 4/1978. Tuttavia, essa presuppone ed esprime altresı̀ la convinzione della normale legittimità del provvedimento tardivo, emesso in violazione di termini legalmente dati. Sul punto, comunque, si confronti LIGNANI, voce Silenzio (dir. amm.), in Enc. dir., vol. XLII, Milano, 1990, 559 ss., 571-573. Originale appare la posizione di Cons. Stato 13 luglio 1973, n. 720, in Cons. Stato, 1973, I, 1007, ove si ipotizza che la violazione di un termine ordinatorio, pur non potendo tradursi in un vizio di violazione di legge, possa invece dare lugo ad un’ipotesi di eccesso di potere. Sul punto, comunque, si veda CLARICH, Termine del procedimento e potere amministrativo, Torino, 1995, 77, nota 43. Per un’analisi critica della giurisprudenza amministrativa, con ampli rilievi quanto alle contraddizioni che la attraversano, lo stesso CLARICH, cit., 72-77. In particolare, ivi si rileva come non sia nemmeno pacifico che la violazione di termine perentorio debba tradursi in decadenza dal potere, affermandosi al contrario, talvolta, in giurisprudenza, che la sanzione sia quella della illegittimità-annullabilità. La conclusione dell’Autore è dunque netta: « è sufficiente questa analisi a campione sullo stato della giurisprudenza per dimostrare come, al di là della generica distinzione tra termini ordinatori e termini perentori, sia impossibile trarre punti fermi, utili per una ricostruzione sistematica di questa delicata materia » (77). Inoltre, vedi SANDULLI, Il procedimento, in Tratt. dir. amm., Parte generale, II, a cura di CASSESE, Milano, 2003, 1035 ss., in particolare 1181-1182 e FONDERICO, Il termine e il responsabile del procedimento, la motivazione del provvedimento, in Riv. trim. dir. pubbl., 1999, 695 ss., 712-713, ambedue i quali ricollegano l’opinione giurisprudenziale nel senso della legittimità del provvedimento tardivo al principio della natura general-


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pronunce ove, in motivazione, emergono dei distinguo. In particolare, la massima per cui: « Il termine di sessanta giorni, previsto per la conclusione dei procedimenti amministrativi di competenza del Ministero della pubblica istruzione dal d.m. pubblica istruzione 11 luglio 1992 n. 212, attuativo dell’art. 2 l. 7 agosto 1990 n. 241, ha natura perentoria e la sua violazione comporta l’illegittimità del provvedimento emanato tardivamente » (2), pur apparentemente promettente, è accompagnata da una serie di precisazioni. Difatti, secondo i giudici di Palazzo Spada, « non può accettarsi la tesi che la violazione del termine legale, per la conclusione di un procedimento sia giuridicamente ininfluente, nel senso che l’assetto di interessi determinatosi a causa della ritardata adozione sia intangibile pur quando diverga da quello che sarebbe diversamente derivato da un’adozione tempestiva dell’atto, conforme alla volontà del legislatore ». In sostanza, secondo questa pronuncia, sembrerebbe necessario, per addivenire all’annullamento, che, al dato formale della violazione del termine, si accompagni altresı̀ il dato sostanziale della capacità del ritardo di influire sul merito della decisione amministrativa. Si possono poi citare degli obiter dicta in una serie di pronunce del tribunale amministrativo del Trentino Alto Adige, Sez. Bolzano. Cosı̀ nella motivazione alla sent. 10 giugno 2003, n. 240, si legge che « Tale termine [quello ex art. 2 l. n. 241 del 1990] si configura come perentorio nei soli casi in cui il procedimento deve sfociare in un provvedimento sanzionatorio, mentre assume carattere ordinatorio tutte le volte in cui il decorso del termine di trenta giorni non può comunque determinare la perdita del potere di provvedere da parte dell’Amministrazione... » (3). In queste ultime pronunce, dunque, se, in via generale, viene riaffermato il tradizionale insegnamento nel senso della ordinamente ordinatoria del termine, e alla necessità di preservare il potere dell’Amministrazione di cura dell’interesse pubblico. (2) Cosı̀, Cons. Stato, 19 dicembre 1997, n. 1869, in Foro amm., 1997, 3131 ss. (3) Negli stessi esatti termini lo stesso Tar Bolzano, sent. 28 maggio 2003, n. 218; sent. 28 maggio 2003, n. 219 e sent. 28 maggio 2003, n. 220.


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rietà dei termini ex art. 2 l. n. 241 del 1990, si ritrova altresı̀ la precisazione per cui la regola, nel caso dei procedimenti sanzionatori, sarebbe quella, opposta, della perentorietà, con conseguente decadenza dal potere o comunque suo illegittimo esercizio (4). Diverse le critiche ipotizzabili nei confronti di tali restrittivi orientamenti (5). (4)

Una tale posizione, d’altro canto, è rinvenibile anche in dottrina. Si veda GA-

LATERIA-STIPO, Manuale di diritto amministrativo, Torino, 1998, 375: « nel silenzio della

legge, si considerano ordinatori i termini per l’emanazione di atti favorevoli, mentre si considerano perentori quelli previsti per gli atti a carattere sanzionatorio, al fine di creare una situazione di favor per l’amministrato il quale si trova di fronte alla p.a. in una posizione più debole ». (5) Per una complessiva critica — vertente sulla inconferenza del richiamo all’art. 152 c.p.c. e della necessità di fare, piuttosto, riferimento alle categorie civilistiche — e la proposta di considerare decaduta dal potere la Amministrazione che non abbia emanato tempestivamente un provvedimento riduttivo della sfera giuridica del destinatario ed invece di riconoscere tutela risarcitoria a fronte del tardivo esercizio di un potere accrescitivo della sfera giuridica da esercitarsi su istanza di parte, si veda CLARICH, cit.. Lo Studioso, in particolare, non ritiene accettabile una ricostruzione in termini di illegittimità del provvedimento tardivo restrittivo della sfera giuridica del destinatario, perché questo significherebbe « abbandonare ancora una volta la logica delle situazioni giuridiche potestative sostanziali calata nell’esercizio del potere amministrativo e ritornare alla logica delle sequenze di tipo processuale e procedimentale » (177-178). Sulle sue riflessioni, si vedano però i commenti parzialmente critici di TRAVI, Recensione, in Dir. pubbl., 1996, 243 ss. Un’opinione difforme da quella giurisprudenziale si legge poi in CESARINI, I tempi del procedimento ed il silenzio, in Il procedimento amministrativo tra semplificazione partecipata e pubblica trasparenza, a cura di CAVALLO, Torino, 2001, 29 ss., 47, secondo cui la violazione del termine c.d. comminatorio [definito come quello il cui « ... superamento non impedisce l’esercizio della posizione soggettiva o del potere, ma comporta o può comportare una sanzione a carico di chi lo ha trasgredito », e cosı̀ distinto dal termine meramente ordinatorio, definito come quello in cui « il tempo fissato dalla norma ha valore indicativo, costituendo regola di buona amministrazione per l’autorità cui spetta la potestà di prorogarlo », op. cit., 35], e tale è, secondo lo Studioso, il termine finale del procedimento instaurato sia ad istanza di parte sia d’ufficio, si tradurrebbe in illegittimità-annullabilità: « ... il provvedimento tardivo lede un termine comminatorio fissato per legge o per regolamento, per cui non è difficile immaginare “il peccato originale” che ne inficia la validità sia nei procedimenti d’ufficio che su istanza di parte. Si tratta, infatti, di un atto intrinsecamente illegittimo, che può essere impugnato dal destinatario in quanto adottato fuori termine. In definitiva la sua sopravvivenza giuridica è lasciata la beneplacito di chi ha interesse o meno a mantenere l’assetto introdotto con il provvedimento, salvo il diritto al risarcimento del danno per il ritarso con cui si è adempiuto all’obbligo di provvedere ».


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Questi ultimi si basano, essenzialmente, sulla pretesa applicabilità dell’art. 152 c.p.c. a una fattispecie di diritto sostanziale, quale l’esercizio del potere amministrativo (6). Il relativo schema di reazione alla violazione della norma sul termine si sostituirebbe a quello di tradizionale reazione alla violazione della norma imperativa di diritto pubblico: invece che illegittimità-annullabilità del provvedimento tardivo, dunque, fumose quanto improbabili reazioni sul piano disciplinare, nei confronti del funzionario ritardatario (e non, invece, direttamente dell’atto). Ovvero, una volta superata la regola della irrisarcibilità degli interessi legittimi, una, in concreto difficile, tutela risarcitoria (7). Qualche elemento di critica nei confronti della posizione dei giudici amministrativi, condivisa negli esiti, ma non negli argomenti (è in particolare contestato il richiamo all’art. 152 c.p.c.), si legge in LIPARI, I tempi del procedimento amministrativo certezza dei rapporti, interesse pubblico e tutela del cittadino, in Dir. amm., 2003, 291 ss., in particolare 337 ss. Nella prospettiva dello Studioso la legittimità del provvedimento tardivo riduttivo della sfera giuridica del destinatario parrebbe discendere dalla necessaria coerenza con la analoga sorte del provvedimento tardivo accrescitivo della sfera giuridica. Tale ultima legittimità risulterebbe del resto legislativamente confermata dal disposto dell’art. 21-bis l. Tar (« Infatti, la lesione dell’interesse alla certezza del rapporto amministrativo presenta, sul piano ontologico, la stessa consistenza sia quando l’utilità sostanziale considerata dal provvedimento mira alla conservazione di un bene, sia quando essa riguarda l’acquisizione di un nuovo valore », op. cit., 343). Opinioni del tutto coincidenti in CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo, II, Milano, 2003, 1251 ss. Sembra inoltre concordare con le conclusioni a cui giunge la giurisprudenza, TRAVI, Commento all’art. 2, in Commentario alla legge 7 agosto 1990, n. 241, in Nuove leggi civili commentate, 1995, 1 ss., 8 ss., ove, negato che l’inutile spirare dei termini ex art. 2 possa determinare decadenza dal potere, si afferma che « Il termine per la conclusione del procedimento finisce perciò oggi con l’assumere rilievo pacifico principalmente per due ordini di situazioni »; ossia, in sintesi, una rilevanza sul piano disciplinare; come elemento indicativo della responsabilità penale e, infine, come criterio di verifica dell’efficienza delle diverse Amministrazioni (op. cit., 13). Simili conseguenze (a cui sarebbe da aggiungersi una responsabilità di tipo risarcitorio) sono ipotizzate anche da SORGE, Il tempo nel procedimento amministrativo. Teorie e prospettive, in Trib. amm. reg., II, 1997, 165 ss., ove pure il mancato rispetto dei termini è definito « quarta dimensione della illegittimità » (170). Nel senso di una possibile responsabilità risarcitoria, anche CRISCI, La legge n. 241 del 1990 sul procedimento amministrativo e l’inerzia della pubblica amministrazione, in Cons. Stato, II, 1993, 1117 ss., 1120. (6) Anche secondo LIPARI, cit., 338, questo (ossia il richiamo all’art. 152 c.p.c.) sarebbe « l’argomento “forte” della tesi dominante » in giurisprudenza. (7) Soprattutto nel caso di interessi oppositivi, poiché, da un lato, non è semplice, nemmeno in astratto, sostenere che il ritardo nell’emanazione di un provvedi-


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Il problema, però, è che un tale applicazione dell’art. 152 c.p.c. — tutt’altro che di intuitiva comprensione (visto che la fattispecie in questione è, appunto, di diritto sostanziale e non processuale, il che, come in un caso ammesso dallo stesso Consiglio di Stato, sembrerebbe sufficiente per escludere, almeno in linea di principio, la rilevanza dell’art. 152 c.p.c.) (8) — andrebbe dimostrata. Mentre essa si tramanda, tralaticiamente, a modo di postulato. Il che, se da un lato fa sı̀ che sia difficile sviluppare analitiche e puntuali critiche (mancano degli effettivi argomenti con i quali confrontarsi), rende però ancor più interessante (ed urgente) la lettura delle ben più motivate ed opposte tesi sviluppate dalla Cassazione, in sede di sindacato su sanzioni amministrative pecuniarie; di queste ultime, infatti, ampiamente si dirà. Comunque, a voler fermare ancora la nostra attenzione sulle posizioni dei giudici amministrativi, c’è da dire come esse non soddisfino neppure laddove mostrano di ritenere che l’applicazione dell’art. 152 c.p.c. al problema della violazione del termine del provvedimento basterebbe senz’altro ad escludere l’illegittimità-annullabilità del provvedimento tardivo: tale applicazione sarà sufficiente, forse, per escludere un fenomeno di decadenza dal potere, ma non è chiaro perché il provvedimento dovrebbe rimanere mento riduttivo della propria sfera giuridica rappresenti un effettivo danno; dall’altro, però, vi è un interesse alla certezza nei rapporti con l’Amministrazione difficilmente negabile, che trova la sua più naturale possibile tutela nell’invalidità del provvedimento tardivo. In punto di tutela risarcitoria del danno da ritardo, comunque, si rimanda a LIPARI, op. cit., 359 ss. e a CHIEPPA, Brevi riflessioni in tema di “danno da ritardo”, nota a Cons. Stato, 13 novembre 2002, n. 6291 e a Tar Emilia Romagna, 25 novembre 2002, n. 852, in Dir. & Formaz., 2003, 217 ss. (8) Si legge infatti in Cons. Stato, 27 luglio 1972, n. 759, in Cons. Stato, 1972, I, 1362 ss., la netta opinione per cui « la disposizione dell’art. 152 secondo comma c.p.c., secondo cui i termini stabili dalla legge sono ordinatori, tranne che la legge stessa li dichiari espressamente perentori, inserita come è nel contesto delle norme relative alla disciplina degli atti processuali, trova in tale specifico ordinamento giuridico la sua ragion d’essere e il suo precipuo ambito di applicazione, nel senso cioè che la norma in esame non può esplicare la sua efficacia in un ordinamento diverso da quello indicato, al quale è destinata, senza che ne resti alterata la sua peculiare natura, caratterizzata dalla necessità di assicurare una sollecita attuazione delle attività processuali; pertanto, la detta norma non può trovare applicazione nel caso di atti amministrativi ».


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perfettamente coincidente con la sua fattispecie legale, laddove sia emanato in violazione di una norma, fino a contraria dimostrazione, diretta proprio a disciplinare quest’ultima. Del resto, nello stesso diritto processuale civile, è ben rappresentata, sia in dottrina (9) che in giurisprudenza (10), la tesi della nullità dell’atto emanato in violazione di un termine (pur) ordinatorio. Come ovvio, tale invalidità è disciplinata secondo le particolari norme del Codice di rito, e, quindi, non sempre si traduce nella caducazione dell’efficacia dell’atto viziato. Ma a meno di non immaginare una totale sostituzione del principio illegittimità (9) In particolare, ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, I, Napoli, 1961, 409, « Si domanda, ora, quali siano gli effetti di un atto che sia compiuto dopo la scadenza, non prorogata, di un termine ordinatorio: sembra evidente che la parte che vi ha interesse, nei limiti indicati dall’ultimo comma dell’art. 156 e dell’art. 157, sia tenuta a rilevare nel termine preclusivo identificatesi con la prima istanza o difesa successiva all’atto o alla notizia di esso, la nullità dell’atto derivante dall’essere privo del requisito temporale... »; ZANZUCCHI, Diritto processuale civile, II, Milano, 1962, 415; ROCCO, Trattato di diritto processuale civile, II, Torino, 1957, 263; MORTARA, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, II, Milano, s.d., 793. Secondo SATTA-PUNZI, Diritto processuale civile, Padova, 2000, 239, si avrebbe nullità dell’atto compiuto fuori termine ordinatorio « solo quando il termine costituisca il limite di un potere assegnato per il compimento di un atto ». (10) Fra le altre massime di legittimità: « Il termine di cui all’art. 441 c.p.c., secondo il quale il C.T.U. nominato nella fase di appello deve depositare il proprio elaborato almeno 10 giorni prima della nuova udienza, non ha natura perentoria e può essere prorogato dal giudice anche in modo implicito con il rinvio dell’udienza di discussione. L’inosservanza di detto termine produce nullità della consulenza solo se ed in quanto, questa ultima sia stata depositata in epoca inferiore ai suddetti 10 giorni e la relativa eccezione sia stata sollevata nella prima istanza o difesa successiva all’atto o alla notizia di esso... » (Cass., 14 gennaio 1986 n. 166, in Informazione previd., 1986, 869); « Il termine indicato dall’art. 424 c.p.c. per la presentazione della relazione del consulente tecnico d’ufficio ha carattere ordinatorio, perché, pur assolvendo la funzione di accelerare i tempi di svolgimento del processo, non è comminata per la sua inosservanza alcuna sanzione. Pertanto, il suo mancato rispetto comporta una nullità di ordine relativo, che, ai sensi dell’art. 157 c.p.c., può essere pronunciata soltanto se la parte — nel cui interesse il requisito è stato stabilito — formula la relativa eccezione nella prima istanza o difesa successiva alla scadenza del termine per il deposito della relazione peritale oppure solleciti la sostituzione del consulente tecnico, ai sensi dell’art. 196 c.p.c. » (Cass., 4 aprile 1985 n. 2337, in Giur. it., 1987, I, 1, 1496 ss.); « L’inosservanza del termine previsto nell’art. 424 c.p.c. per il deposito in cancelleria della relazione del consulente tecnico determina una nullità relativa, sanabile se non è opposta all’atto della scadenza del termine stesso » (Cass., 3 settembre 1981 n. 5037, in Foro it., 1982, I,745 ss.).


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vale annullabilità vigente nel diritto pubblico-amministrativo con gli art. 156 ss. c.p.c., rimane arduo, anche data per scontata la rilevanza dell’art. 152 c.p.c. nel diritto sostanziale amministrativo, spiegare perché l’atto tardivo risulti comunque valido. Anzi, in giurisprudenza (11) ed in autorevole dottrina (12) è (11) Fra le massime di legittimità: « Per il disposto dell’art. 154 c.p.c. la proroga dei termini ordinatori può disporsi anche d’ufficio solo prima della scadenza di essi e perciò, quando siano decorsi interamente senza l’emanazione di alcun provvedimento che ne protragga la durata, si verificano gli stessi effetti preclusivi derivanti dall’inosservanza degli stessi termini perentori. Pertanto, se il ricorso per la riassunzione del processo sospeso, pur essendo ritualmente depositato nel termine di sei mesi, sia notificato alle controparti non nel termine ordinatorio fissato dal giudice, ma in quello prorogato illegittimamente dopo la sua scadenza, non si producono gli effetti conservativi della tempestiva prosecuzione del processo e le controparti possono eccepirne l’estinzione ai sensi dell’art. 307 c.p.c. costituendosi nell’udienza fissata con il provvedimento di proroga del termine già esaurito » (Cass., 29 gennaio 1999, n. 808, in Giur. it., 1999, 2257 ss.); « In tema di procedimento di appello avverso una sentenza di divorzio, la natura ordinatoria del termine presidenziale fissato, ex art. 154 c.p.c., per la notificazione del ricorso e del pedissequo decreto (sul presupposto del tempestivo deposito del ricorso in appello nella cancelleria del giudice ad quem, ex art. 8 l. n. 74 del 1987, 324 e 325 c.p.c.) non legittima la parte a disattenderlo tout court, con conseguente ingiustificata e pregiudizievole dilatazione dei tempi di instaurazione del contraddittorio e di definizione del giudizio. Ne consegue che la disposizione di cui all’art. 154 c.p.c. va interpretata nel senso che l’inutile decorso del termine fissato dal giudice ha gli stessi effetti preclusivi di un termine perentorio, e che risulta del tutto illegittima ogni eventuale proroga (richiesta e) concessa solo dopo la sua scadenza » (Cass., 21 novembre 1998, n. 11774); « Anche nell’ipotesi in cui non siano dichiarati espressamente perentori dalla legge, i termini processuali devono sottostare alla regola della prorogabilità dei medesimi, ad opera del giudice, solo prima della loro scadenza. Non può pertanto, considerarsi valida l’offerta in aumento di sesto, presentata oltre il termine di dieci giorni, previsto dall’art. 584, comma 4, c.p.c., e senza che alcuna tempestiva istanza di proroga di detto termine sia stata proposta dall’interessato » (Cass., 29 novembre 1995, n. 12400); « Il termine ordinatorio può essere prorogato solo prima della scadenza, a norma dell’art. 154 c.p.c., con la conseguenza che, lasciato inutilmente scadere, ha gli stessi effetti preclusivi del termine perentorio. Pertanto, il ricorso per la riassunzione del processo sospeso, depositato nel termine di 6 mesi, ma che non sia notificato alle controparti nel termine ordinatorio stabilito dal giudice, bensı̀ in quello illegittimamente prorogato dopo la sua scadenza, non produce gli effetti conservativi della tempestiva prosecuzione del processo e la controparte può eccepire l’estinzione del processo, ai sensi dell’art. 303 comma ultimo c.p.c., costituendosi nella udienza fissata con provvedimento di proroga del termine già scaduto ». (Cass., 26 novembre 1992 n. 12640); « Il decorso del termine ordinatorio previsto dall’art. 201 c.p.c. per la nomina del consulente tecnico di parte senza la previa presentazione dell’istanza di proroga ha gli stessi effetti preclusivi della scadenza del termine perentorio ed impedisce la concessione di un nuovo or-


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rinvenibile (anche se certamente non unanime) (13) la tesi della decadenza come conseguenza della violazione del termine ordinatorio lasciato inutilmente scadere, e, dunque, a ben vedere, come normale sanzione della violazione del termine ordinatorio. Chi, nella dottrina processualcivilistica, esclude una rilevanza dine per svolgere la medesima attività » (Cass., 25 luglio 1992, n. 8976, in Foro it., 1993, I, 1176 ss.); « Il termine ordinatorio può essere prorogato solo prima della scadenza, a norma dell’art. 154 c.p.c., con la conseguenza che, lasciato inutilmente scadere, ha gli stessi effetti preclusivi del termine perentorio. Pertanto, il ricorso per la riassunzione del processo sospeso, depositato nel termine di sei mesi, ma che non sia notificato alle controparti nel termine ordinatorio stabilito dal giudice, bensı̀ in quello illegittimamente prorogato dopo la sua scadenza, non produce gli effetti conservativi della tempestiva prosecuzione del processo e la controparte può eccepire l’estinzione del processo, ai sensi dell’art. 307 ultimo comma c.p.c., costituendosi nell’udienza fissata con provvedimento di proroga del termine già scaduto » (Cass., 23 giugno 1980, n. 3933, in Giust. civ., 1980, I,1461 ss.); « A norma dell’art. 154 c.p.c., il termine ancorché avente natura ordinatoria, non può essere prorogato che con l’osservanza dei limiti e delle condizioni di legge, prima della sua scadenza, con la conseguenza che, se la proroga è successiva, questa è irritualmente data e l’attività processuale non può più essere rituale » (Cass., 5 agosto 1964, n. 2219). (12) REDENTI, Atti processuali (diritto processuale civile), in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 105 ss., 139: « ordinatori prorogabili sono quei termini, di cui può essere chiesta e concessa una prima ed eventualmente anche una seconda proroga. In questi casi si ritiene che la scadenza del termine o della proroga non abbia effetti perentori rilevabili d’ufficio, ma che la decadenza debba esser pronunciata dal giudice, se vi sia istanza di parte » (peraltro questo ultimo Studioso ricorda altresı̀ la categoria dei termini comminatori semplici e di quelli definiti « meramente canzonatori », dalla cui violazione non conseguirebbe alcuna sanzione); MANDRIOLI, Diritto processuale civile, I, Torino, 2003, 410-411, che osserva come « la decadenza sia connaturata nella stessa nozione dei termini ai quali si riferisce la disciplina degli artt. 152-154 » (nota 38); BALBI, La decadenza nel processo civile, Milano, 1983, 47. (13) « L’atto processuale compiuto dopo la scadenza di un termine ordinatorio già prorogato non è di per sè invalido o inidoneo a dare impulso al giudizio, a meno che non si sia nel frattempo venuta a creare una situazione processuale incompatibile con il suo tardivo compimento (nella specie, l’attore in una controversia di lavoro aveva notificato il ricorso introduttivo ed il decreto di fissazione dell’udienza oltre il termine acceleratorio, già una volta prorogato, di cui al comma 4 dell’art. 415 c.p.c., ma comunque rispettando il termine dilatorio di comparizione di cui al comma successivo: la Corte ha ritenuto che non si fosse verificata alcuna ragione di estinzione del processo per inattività delle parti) (Cass., 19 gennaio 1998, n. 420, in Giur. it., 1998, 2044 ss.); « Il deposito del titolo esecutivo e del precetto, onde consentire al giudice di accertare la loro regolarità formale, al fine di procedere all’espropriazione immobiliare, non è soggetto a termine perentorio (art. 557, comma 2, c.p.c.), e pertanto non è nulla l’ordinanza di vendita, se tali atti sono allegati al fascicolo dell’esecuzione in un momento successivo a quello disposto dalla norma » (Cass., 16 dicembre 1997, n. 12722).


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invalidante della violazione del termine ordinatorio, afferma invece, in sintesi, che, altrimenti ragionando, si amplierebbe troppo l’ambito della fattispecie legale. Al contrario, la norma sul termine non riguarderebbe la fattispecie atto, sicché la sua violazione non potrebbe tradursi in una invalidità di quest’ultimo. In particolare, il tradizionale insegnamento per cui il termine (anche) ordinatorio costituisce requisito temporale dell’atto non sarebbe accettabile perché, in tal modo, si realizzerebbe una enorme dilatazione de « la nozione di fattispecie, privandola di utilità » (14). Pertanto, la « figura » del termine dovrebbe « essere considerata come un fatto giuridico strutturalmente autonomo caratterizzato da una propria efficacia » (15). Al di là del generico richiamo alla necessità di non dilatare troppo la fattispecie legale, non sembra peraltro che tale orientamento dottrinale fornisca alcun effettivo argomento idoneo a dimostrare perché, in particolare, la norma sui termini non potrebbe considerarsi diretta a disciplinare la fattispecie atto. Tuttavia, non interessa molto approfondire la questione, perché un’opinione analoga a quella in ultimo citata (le norme sui termini non disciplinano la fattispecie legale dell’atto) non sembra in realtà alla base della posizione dei giudici amministrativi. Basta leggere l’ampia giurisprudenza in tema di provvedimento ministeriale di annullamento di autorizzazione paesistica. In questa ipotesi, il termine di 60 giorni per l’annullamento mini(14) GROSSI, voce Termine (dir. proc. civ.), in Enc. dir., Milano, il quale aderisce cosı̀ a PICARDI-MARTINO, voce Termini, diritto processuale civile, in Enc. giur. Treccani, 1994, Roma, 4, ove si nota, con riguardo ai termini perentori, che « si potrebbe essere portati a ritenere che, nelle ipotesi di termini perentori, il decorso di un lasso di tempo a partire da un determinato atto (a quo) entri a far parte della fattispecie dell’atto cronologicamente successivo (ad quem), assumendovi il ruolo di elemento negativo, cioè, elemento la cui mancanza (i.e. non avvenuto decorso dell’intero tempo prescritto) sia conseguenza essenziale perché la fattispecie si integri). Ma siffatta impostazione dà luogo a complicazioni di carattere costruttivo perché, sviluppando coerentemente questa tesi, si perviene ad un particolare ampliamento della nozione di fattispecie, tale da privare la categoria di ogni utilità ». In precedenza, si veda lo stesso PICARDI, Per una sistemazione dei termini processuali, in Jus, 1963, 209 ss. (15) PICARDI-MARTINO, op. cit., con riguardo sia al termine perentorio (p. 4) che al termine ordinatorio (p. 5).


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steriale è considerato perentorio, nel senso di determinare la illegittimità-annullabilità nel provvedimento tardivo (16). Evidentemente, dunque, in questa serie di decisioni, ed in altre ancora (per esempio le numerose in materia di pubblico impiego, in tema di sanzioni disciplinari (17), ovvero di giudizio negativo in esito al periodo di prova) (18), il rispetto o meno dei termini è ritenuto rientrare nella fattispecie tipica, tanto da trovare la sua sanzione nella invalidità del provvedimento tardivo. Di dubbia coerenza, infine, appare la qualificazione come illegittimo del comportamento dell’Amministrazione che oppone al cittadino un silenzio inadempimento, ed invece come legittimo quella del provvedimento tardivo (19). La norma violata, in entrambi i casi, è la stessa: l’art. 2 della l. n. 241 del 1990. E parrebbe artificioso sezionare questo articolo di legge in due diverse norme: emana un provvedimento espresso ed emanalo tempestivamente. Come noto, la violazione della prima norma (con conseguente, illegittimo, silenzio inadempimento) può apprezzarsi solo scaduto il termine per provvedere (20). Sicché sembra trattarsi di due manifestazioni del medesimo comando (« provvedi tempestivamente »), apprezzato nelle due diverse vicende della mancanza di ogni risposta spirato il termine acceleratorio, e, sempre una volta spirato il termine, della presenza sı̀ di una risposta, epperò tardiva. Ridurre l’at. 2 cit. al mero comando: « provvedi espressamente, una volta scaduto il termine per provvedere » significa, insomma, riconoscere — non del tutto coerentemente o comunque senza sufficienti sforzi argomentativi — alla scadenza del termine una rilevanza in punto di (16) Fra le tante, Cons. Stato, 27 febbraio 2002, n. 4963; 3 maggio 2002 n. 2350; 13 febbraio 2001, n. 685, in Urb. e app., 2001, 1335 ss., con commento di CAMERLENGO, Autorizzazione paesistica e annullamento ministeriale. (17) Fra le tante, Cons. Stato, 30 settembre 2002, n. 5013 e Cons. Stato, 12 marzo 2001 n. 1386. (18) Fra le tante, Cons. Stato, 28 maggio 2001, n. 2905. (19) Si legge in Cons. Stato, 30 marzo 1998, n. 511, in Studium Juris 1998,1008 ss.: « Poiché ai sensi dell’art. 2 l. 7 agosto 1990 n. 241 il procedimento amministrativo deve comunque concludersi con un provvedimento espresso, il silenzio formatosi su diffida dei privati a concludere il procedimento è illegittimo ». (20) Sul punto, per esempio, Cons. Stato, 27 dicembre 2001, n. 6415.


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legittimità solo in un caso (silenzio) e non nell’altro (provvedimento tardivo) (21). 3. La Cassazione si è espressa ormai numerose volte nel senso della illegittimità dei provvedimenti di irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie, emessi in violazione dei termini ex art. 2 l. n. 241 del 1990, ovvero dei termini acceleratori specialmente stabiliti dal legislatore. A partire dalla sent. 23 luglio 1997, n. 6895 (22), il termine per la conclusione dei procedimenti sanzionatori per violazione del Codice della strada (termine non espressamente qualificato dal legislatore come inderogabile o perentorio) viene considerato come posto a pena di illegittimità dell’ordinanza-ingiunzione prefettizia tardiva: come si legge in motivazione, inaccettabile sarebbe infatti la tesi della perentorietà, nell’ambito del procedimento amministrativo in questione, dei soli termini a carico del cittadino, perché questo significherebbe « ritenere la p.a. estranea all’esigenza del corretto svolgimento di una procedura amministrativa, informata, come tale, al criterio del pubblico interesse ». I giudici di legittimità, invece, affermano la necessità di apprezzare un termine legale a carico dell’Amministrazione, « non in relazione alla sua possibile natura ordinatoria o perentoria, ma soltanto come elemento di regolarità, e quindi di validità, della procedura stessa ». Insomma, visto che i termini sono sempre stabiliti a tutela del pubblico interesse, la loro violazione da parte della Amministrazione, siano essi perentori o ordinatori, non può che riflettersi sulla validità dell’atto. Nella motivazione della sentenza 25 febbraio 1998, n. 2064, poi, la Corte di Cassazione, più radicalmente, osserva, anzitutto, (21) Trattasi di un modo di ragionare assai diffuso in giurisprudenza amministrativa. Fra le molte, Cons. Stato, Ad. plen., 9 gennaio 2002, n. 1, in Urb. e app., 2002, 420 ss., con commento di TARANTINO, L’epilogo del silenzio. O sancta simplicitas!, ove si legge che « sul piano sostanziale, il giudizio sul “silenzio” cosı̀ definito si collega al “dovere” delle amministrazioni pubbliche di concludere il provvedimento “mediante l’adozione di un provvedimento espresso” nei casi in cui esso “consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio”, come prescrive l’art. 2, comma 2, della l. 7 agosto 1990, n. 241 ». (22) In Arch. giur. circ. strad., 1998, 43 ss.


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che « deve immediatamente escludersi che a siffatto termine [quello finale di emanazione del provvedimento] si addicano le qualificazioni “perentorio” od “ordinatorio” sia, in generale, perché tali categorie si riferiscono al procedimento giurisdizionale e non a quello amministrativo, sia perché non potrebbe correttamente qualificarsi “ordinatorio, cioè prorogabile, un termine per il quale la legge non individua il soggetto cui è attribuito il relativo potere, sia perché la legge non dichiara espressamente “perentorio” il termine in questione (arg. ex art. 152 comma 2 c.p.c.) ». Al contrario, a fronte di termine procedimentale non immediatamente qualificabile in base alla legge che lo prevede, sarebbe « indispensabile », per qualificarlo, « fare riferimento ai “principi” contenuti nella surrichiamata l. n. 241 del 1990, posti in diretta attuazione del fine del “buon andamento” dell’amministrazione, sancito dall’art. 97 comma 1 Cost., ed a tutela dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi coinvolti dallo svolgimento dell’attività amministrativa ». Fra di essi « quello, desumibile dai primi tre commi dell’art. 2, secondo cui è dovere della pubblica amministrazione concludere ogni procedimento, iniziato per domanda di parte o d’ufficio, con un provvedimento espresso ed entro il termine di trenta giorni ovvero in quello maggiore, predeterminato dalla legge o da un atto normativo secondario per ogni tipo di procedimento, decorrente in ogni caso dall’inizio del procedimento stesso ». La conseguenza della violazione di tale termine sarebbe la mancanza di « un requisito di legittimità del provvedimento della fattispecie tipica prefigurata dalla legge, vale a dire del provvedimento espresso (avente ad oggetto l’ordinanza ingiunzione o l’archiviazione) che deve concludere, appunto entro il termine stabilito, il procedimento sanzionatorio amministrativo per violazioni al c.d.s. ». Sicché, continua la Corte, « Da ciò consegue, conformemente ai principi generali, che il provvedimento prefettizio intempestivamente emesso è “viziato” da violazione di legge e, pertanto, invalido e annullabile ». Si tratterebbe anzi, come ulteriormente segnalato da Cass., 7 gennaio 1999, n. 37, che cosı̀ valorizza l’espresso disposto dell’art. 29, comma 1, della l. n. 241 del


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1990, di « un principio generale dell’ordinamento », con la conseguenza che anche la pronuncia del Giudice di Pace resa secondo equità, laddove abbia omesso di annullare il provvedimento sanzionatorio emanato in ritardo, rimarrebbe suscettibile di ricorso in Cassazione. Questo insegnamento in punto di invalidità dei provvedimenti emessi in violazione dei termini ex art. 2 l. n. 241 del 1990 è stato più volte ribadito, con conforme motivazione, dalla Suprema Corte, con riguardo a sanzioni pecuniarie irrogate per violazione del Codice della Strada, secondo il particolare procedimento ivi disciplinato (23), nonché, pur con alcune incertezze, con riguardo a procedimenti sanzionatori diversamente regolati (24). (23) Cass. 8 maggio 2003, n. 6967; 20 dicembre 2002, n. 18150; Cass.; 6 dicembre 2002, n. 17350; 9 settembre 2002, n. 13078, in Giust. civ. Mass., 2002, 1649; Cass., 25 gennaio 2002, n. 874, in Giust. Civ., 2002, I, 595 ss.; Cass. 9 agosto 2000, n. 10541, in Giur. it., 2001, 702; Cass. 27 luglio 2000, n. 9889, in Giur. it., 2001, 381 ss. Di tale univoco orientamento ha preso atto la stessa Corte cost., che, con ordinanza 16 maggio 2002, n. 201, in Giur. cost., 2002, 1596, ha ritenuto « manifestamente inammissibile la q.l.c. dell’art. 204 d.lg. 30 aprile 1992 n. 285, sollevata in riferimento agli art. 24, 97, 111 e 113 cost., nella parte in cui non prevede un termine entro il quale deve essere notificato il provvedimento prefettizio che intima il pagamento di una somma a titolo di sanzione amministrativa per violazione di norme del codice della strada », in quanto « il rimettente omette qualsiasi motivazione su decisivi elementi di fatto e di diritto: in particolare, sulla circostanza che la violazione, eccepita dall’opponente, da parte dell’autorità amministrativa del termine in vigore, in base alla normativa succedutasi in materia per l’emanazione dell’ordinanza-ingiunzione prefettizia rende — secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale — illegittimo il provvedimento sanzionatorio ». (24) La Suprema Corte, infatti, insegna che sono illegittimi i provvedimenti sanzionatori emessi tardivamente, in violazione dell’art. 2 l. n. 241 del 1990, nell’intero ambito di applicazione della l. 689/1981 sulle sanzioni amministrative pecuniarie (e quindi ben al di là del solo settore delle sanzioni previste dal Codice della Strada). Cosı̀, Cass., 21 marzo 2001, n. 4042: « Il provvedimento irrogativo di una sanzione amministrativa pecuniaria emesso dal Prefetto ex art. 18 della legge n. 689 del 1981 senza osservare il termine di trenta giorni per l’esaurimento dei procedimenti amministrativi, stabilito dall’art. 2 della legge n. 241 del 1990, ed applicabile in assenza di diverso termine specifico stabilito per legge o per regolamento ovvero di determinazione — in mancanza di tali previsioni normative — da parte della Pubblica Amministrazione interessata con apposito provvedimento, è affetto da violazione di legge; ne consegue che la relativa inosservanza determina l’annullamento dell’ordinanza-ingiunzione ». Quanto al procedimento di irrogazione di sanzione amministrativa pecuniaria, ex art. 145 del d.lgs. n. 385 del 1993, su proposta della Banca d’Italia, da parte del Mini-


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Solo in un caso la Corte si è difformemente espressa, facendo stero dell’economia, Cass., 15 giugno 1999, n. 5936, ha chiarito che « Il provvedimento irrogativo di una sanzione amministrativa pecuniaria, emesso in violazione del termine di trenta giorni per l’esaurimento dei procedimenti amministrativi, stabilito dall’art. 2 della l. n. 241 del 1990 ed applicabile in assenza di diverso termine specifico stabilito per legge o per regolamento, nonché di determinazione — in mancanza di tali previsioni normative — da parte della pubblica amministrazione interessata con apposito provvedimento, non può essere considerato inesistente, ma è affetto da violazione di legge ». Tuttavia, va detto come la Cassazione — pur sempre coerentemente rifiutando (al di là dell’eccezione rappresentata dalla pronuncia 369/2002, di cui si dirà nella nota 25) l’idea della normale « ordinarietà » dei termini previsti dall’art. 2 l. 241/1990 — esprima talvolta, in tema di sanzioni amministrative pecuniarie, la tesi della non applicabilità del termine sussidiario di trenta giorni previsto dallo stesso art. 2. Quest’ultimo, infatti, data la sua brevità, mal si concilierebbe con le particolari garanzie di contraddittorio che caratterizzano il procedimento sanzionatorio. La L. 689/1981 andrebbe dunque interpretata nel senso della inapplicabilità del termine di trenta giorni. Cosı̀, da ultimo, la pronuncia 21 gennaio 2004, n. 874: « Nell’ambito della disciplina, dettata dalla l. 24 novembre 1981 n. 689, per l’applicazione delle sanzioni amministrative, la mancanza di previsione di un termine per l’emissione dell’ordinanza ingiunzione, a seguito di contestazione della violazione, non autorizza la sua ricerca in altre disposizioni dell’ordinamento, sia pure a carattere generale, attesa la peculiarità del procedimento nel sistema, in quanto disciplinato nelle sue varie fasi, per il suo oggetto, ed in considerazione della sua natura contenziosa. Segnatamente, è con esso incompatibile il termine, molto breve, di trenta giorni per l’esaurimento del procedimento fissato dall’art. 2 l. 7 agosto 1990 n. 241, riguardante l’attività amministrativa in generale — che fra l’altro all’art. 1 rinvia, cosı̀ confermandole, “alle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti” — trovando ragione l’assenza di un termine per la fase decisoria dell’irrogazione della sanzione nella stessa articolazione di tale fase (art. 14 legge n. 689 del 1981), non contenibile entro limiti temporali predeterminati, tanto con riguardo all’esigenza di garantire a seguito della contestazione il dispiegarsi del diritto di difesa dell’interessato — implicante il compimento di attività a volte complesse — quanto con riguardo all’ipotesi di contestazione non immediata, decorrendo il termine per quest’ultima dall’esito dell’accertamento, di durata non prevedibile ». In precedenza, conf. Cass. 22 dicembre 2003, n. 19617; 11 luglio 2003, n. 10920; 17 giugno 2003, n. 9680; 16 aprile 2003, n. 6014 e 7 novembre 2002, n. 15642. Tale più restrittivo insegnamento — lo si ripete, espressamente ricollegato alla particolarità di uno specifico procedimento e ad una pretesa implicita scelta della legge che lo disciplina di derogare alla 241/1990, e, dunque, secondo gli stessi giudici di legittimità, non generalizzabile — è stato peraltro da ultimo rifiutato da Cass. 6 marzo 2004, n. 4616: « Nel procedimento per l’applicazione delle sanzioni amministrative, la l. 24 novembre 1981 n. 689 non prevede alcun termine per l’emissione dell’ordinanzaingiunzione, (tale non potendosi ritenere il termine di cinque anni previsto dall’art. 28 della medesima legge per la prescrizione del diritto dell’erario a riscuotere le somme dovute per le sanzioni, trattandosi di norma sostanziale); pertanto, deve trovare applicazione la disposizione generale di cui all’art. 2 l. 7 agosto 1990 n. 241, a norma del quale il procedimento amministrativo deve concludersi entro trenta giorni dal suo inizio, ter-


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proprie le posizioni prevalenti nella giustizia amministrativa (25). Quel che più importa notare è come, in tutte queste pronunce, la Corte abbia usato argomenti di portata generale: l’impossibilità di applicare norme e categorie processuali (art. 152, 2 comma, c.p.c.) a fattispecie di diritto sostanziale (insegnamento, quest’ultimo, proposto dalla Cassazione anche in altre pronunce, non riguardanti rapporti tra cittadino ed Amministrazione) (26); il valore costituzionale (art. 97 Cost.) della tempestività dell’azione amministrativa; la necessaria parità tra cittadino (soggetto a termini perentori nell’ambito del procedimento) ed Amministrazioni, che, invece, pretenderebbero di vedersi sottoposte solo a termini (in sostanza) non sanzionati; infine, la necessaria tutela dell’intemine che, tenuto conto della articolazione del procedimento sanzionatorio in diverse fasi, inizia a decorrere per ciascuna fase dall’esaurimento di quella precedente e la cui violazione determina l’illegittimità dell’atto, con conseguente annullabilità ». In precedenza, conformemente, Cass., 23 luglio 2003, n. 11434. (25) Si legge in Cassazione, 15 gennaio 2002, n. 369, che « Nel procedimento disciplinare davanti al consiglio dell’ordine locale dei chimici, il superamento del termine di cui all’art. 2 l. 7 agosto 1990 n. 241 sul procedimento amministrativo non comporta l’illegittimità del provvedimento adottato, atteso che l’art. 2 cit. pone un termine acceleratorio per la definizione dei procedimenti amministrativi, ma non contiene alcuna prescrizione in ordine alla perentorietà del termine stesso, né alla decadenza della potestà amministrativa o alla illegittimità del provvedimento tardivo ». Deve inoltre segnalarsi, per completezza, Cass., Sez. un., 22 marzo 1999, n. 175, ove è dato leggere, con riguardo, peraltro, ad un termine a carico del cittadino (termine per la consegna del libretto di pratica al consiglio dell’ordine degli avvocati) che: « ... che anche per i termini di natura amministrativa, come quello in esame, vale il principio di carattere generale dettato dal capoverso dell’art. 152 c. p. c. per quelli processuali, per il quale essi sono perentori se tali espressamente dichiarati dalla legge... ». (26) « Nel caso in cui il contratto collettivo di lavoro preveda un termine (nella specie, per intimare il licenziamento) senza indicare espressamente il carattere ordinatorio o perentorio dello stesso, il giudice può attribuire ad esso l’uno o l’altro carattere in base ad un’adeguata e motivata interpretazione del contratto, senza che possa farsi applicazione analogica dell’art. 152 c.p.c. che, introducendo nell’ordinamento un principio generale di presunzione del carattere ordinatorio dei termini, si riferisce unicamente agli atti processuali e non anche ad altri settori dell’ordinamento, quale quello della contrattazione collettiva di lavoro ». (Cass. 8 agosto 1987, n. 6839; nello stesso identico senso, Cass., 2 ottobre 1987 n. 7374 e Cass. 20 ottobre 1987, n. 7734); in tema di termini per la convocazione dell’assemblea di società di capitali, invece, Cass., 27 ottobre 1975, n. 3587, in Giur. it., I, 2249 ss.: « La distinzione tra carattere perentorio ed ordinatorio del termine si applica solo alla materia processuale ».


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resse del cittadino a non restare, per tempi indefiniti ed imprevedibili, sottoposto all’esercizio del potere amministrativo: « la previsione di termini per l’esercizio di poteri sanzionatori da parte della pubblica amministrazione costituisce garanzia procedimentale in favore del cittadino, a tutela del suo interesse a non restare esposto alla irrogazione della sanzione per un tempo maggiore di quello prefissato » (27). La Corte costituzionale, poi, con sent. 17 luglio 2002, n. 355 (28), ha mostrato di riconoscere rilevante valore al principio della certezza temporale nei rapporti cittadino-Amministrazione. In particolare, ha respinto la questione di illegittimità costituzionale di una disciplina legislativa che subordinava l’emanazione di provvedimenti autorizzatori all’approvazione di atti di pianificazione non soggetti ad alcun specifico termine (con conseguente ipotizzata violazione dell’art. 41 Cost., per irragionevole compressione della libertà di iniziativa economica). E ciò ha fatto proprio in ragione della vigenza dell’art. 2 l. n. 241 del 1990, capace di imporre un termine di 30 giorni. Secondo la Consulta, la mancata osservanza del termine a provvedere, se non comporta la decadenza dal potere, tuttavia « vale a connotare in termini di illegittimità il comportamento della pubblica amministrazione, nei confronti del quale i soggetti interessati alla conclusione del procedimento possono insorgere utilizzando, per la tutela della propria situazione soggettiva, tutti i rimedi che l’ordinamento appresta in via generale in simili ipotesi (dal risarcimento del danno all’esecuzione del giudicato che abbia accertato l’inadempienza della pubblica amministrazione). ». Nella pronuncia in questione la Consulta non prende espressa posizione sul problema della validità del provvedimento tardivo. Del resto, trattandosi di interessi pretensivi, l’istituto che veniva a rilevanza era il silenzio inadempimento. (27) Cosı̀, Cass. 9 settembre 2002 n. 13078. (28) in Cons. Stato, 2002, II, 1108 ss. Per un commento, si veda CAMERLENGO, Organizzazione amministrativa, in Viva vox Constitutionis, temi e tendenze nella giurisprudenza costituzionale dell’anno 2002, a cura di ONIDA, Milano, 2003, 217 ss., 218-222, nonché LIPARI, op. cit., 339. Entrambi gli Autori ritengono peraltro la pronuncia della Corte sostanzialmente adesiva rispetto alla tradizionali posizioni del Consiglio di Stato.


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Ma certo non possono passare inosservate l’importanza attribuita al valore della certezza temporale nei rapporti cittadinoAmministrazione, nonché l’espressa qualificazione in termini di illegittimità dell’eventuale inerzia dell’Amministrazione. Soprattutto perché, si noti, tale illegittimità è, condivisibilmente, ricollegata, del giudice delle leggi, non al comando « provvedi espressamente », ma al comando « provvedi tempestivamente ». E non poteva essere altrimenti: la questione che il giudice a quo poneva alla Corte era quella dell’assenza di limiti temporali per l’esercizio del potere di pianificazione e, dunque, di termini certi per la soddisfazione (o meno) dell’interesse pretensivo del cittadino; in particolare la previsione impugnata, secondo il giudice remittente, avrebbe avuto l’effetto di « comprimere in maniera indeterminata nel tempo e non correlata ad alcun pubblico interesse (la cui tutela militerebbe, anzi, per una sollecita entrata in vigore del piano), la libera iniziativa economica ». La Consulta, per arrivare a respingere la questione di costituzionalità, deve, dunque, statuire che il comando « provvedi tempestivamente », contenuto nell’art. 2 della l. n. 241 del 1990, è a pena di illegittimità. Nella specie, si trattava dell’illegittimità dell’inerzia (e per tale ragione i rimedi ipotizzabili non erano di tipo eliminatorio); ma, sviluppando coerentemente la visione del giudice delle leggi — ossia quella per cui l’illegittimità del silenzio consegue alla violazione della regola del termine, e non (o, perlomeno, non solo) a quella del dovere di provvedere espressamente — sembra inevitabile concludere che questa medesima illegittimità debba colpire anche il provvedimento espresso tardivo. 4. È giunto il momento di precisare la ricostruzione qui preferita delle conseguenze della violazione dei termini per l’emanazione del provvedimento, come prescritti ai sensi dell’art. 2 l. n. 241 del 1990. L’importante tesi dottrinale in cui più compiutamente si è affrontato il problema delle conseguenze della violazione dei termini ex art. 2 l. n. 241 del 1990 sul provvedimento, più volte qui


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citata (29), pur apprezzabile nel suo sforzo di assicurare effettività alla disciplina in questione, non può essere completamente condivisa. Infatti, a parte i casi in cui, con chiarezza, emerga dalla lettera o dalla ratio della norma che l’inutile trascorrere del tempo debba, radicalmente, tradursi nella decadenza dal potere, la conseguenza sembra dover sempre essere — secondo quanto espressamente suggerito dalla giurisprudenza dei giudici ordinari — quella (del resto) propria della violazione di una qualsiasi altra norma relativa all’esercizio del potere amministrativo: l’illegittimità del provvedimento per violazione di legge, e dunque, secondo i principi ad oggi vigenti nell’ordinamento, la sua invalidità-annullabilità. E ciò sia allorquando il provvedimento sia limitativo, sia quando sia accrescitivo, della sfera giuridica del destinatario. Non convince, in particolare, la considerazione secondo cui sarebbe paradossale affermare l’invalidità nel caso di provvedimento accrescitivo, perché, cosı̀ ragionando, il cittadino, già danneggiato dal ritardo, si troverebbe inoltre destinatario di un eventuale provvedimento (tardivo) invalido (30). Non deve dimenticarsi come accanto al cittadino aspirante al provvedimento, vi possa talvolta essere un terzo « controinteressato sostanziale », che risulterebbe danneggiato dal provvedimento. E non si vede perché a quest’ultimo dovrebbe essere precluso di far valere il vizio di tardività, per ottenere l’annullamento del provvedimento. In altri termini, il provvedimento accrescitivo della sfera giuridica del destinatario potrebbe risultare riduttivo della sfera di un altro cittadino. E appare stonato che — mentre di norma, secondo la dottrina in commento, il provvedimento con effetti riduttivi, se tardivo, dovrebbe considerarsi addirittura nullo — invece, in questa ipotesi, trattandosi di provvedimento emanato su istanza del suo diretto destinatario (e benificiario), non solo non potrebbe es(29) CLARICH, op. cit., in particolare 40-41. (30) Una tale riflessione si legge anche in CLARICH, op. cit., e costituisce certamente una delle ragioni della sua ricostruzione.


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sere nullo, ma risulterebbe perfettamente valido ed efficace (cioè nemmeno illegittimo). Insomma, ragionare solo nella prospettiva del soggetto aspirante al provvedimento accrescitivo rischia di risultare inappagante; e ciò specialmente in ragione del rischio di incoerenza nelle reazioni ordinamentali a fronte dell’emanazione di un provvedimento che, in entrambe le ipotesi (quelle della sua emanazione, rispettivamente, su istanza del diretto destinatario e benificiario, ovvero ad iniziativa d’ufficio), per un determinato cittadino (rispettivamente controinteressato e diretto destinatario) è con effetti riduttivi della sfera giuridica (31). Inoltre, anche a volersi porre nella esclusiva prospettiva dell’aspirante al provvedimento accrescitivo, la regola dell’illegittimità del provvedimento tardivo non sembra necessariamente doversi tradurre in un irragionevole sacrificio: basterà, all’aspirante al provvedimento, riproporre l’istanza, cosı̀ da riaprire i termini entro i quali l’Amministrazione deve provvedere, con l’effetto di salvaguardare, comunque, la legittimità del provvedimento infine ottenuto. Si è inoltre visto come, secondo un più recente orientamento dottrinale, l’art. 21-bis l. Tar, nel disciplinare il giudizio contro il silenzio inadempimento (32), avrebbe, con chiarezza, preso posizione a favore della legittimità del provvedimento tardivo, quan(31) Sul punto, altresı̀ TRAVI, Recensione, cit., ove si segnala l’inadeguatezza della logica « bilaterale » assunta da Clarich nella ricostruzione del rapporto cittadinoAmministrazione e si segnala che « la realtà è spesso molto più complessa, perché l’Amministrazione si pone in relazione non con un singolo, ma con una pluralità di soggetti, portatori di interessi fra loro non omogenei o addirittura contrapposti (profilo questo non secondario nella stessa legge n. 241 del 1990: basti pensare alla rilevanza che assume la figura del “controinteressato”, ai fini della comunicazione di avvio del procedimento, nell’art. 9 della legge) ». (32) Su tale nuovo rito, si vedano, essenzialmente, SASSANI, Il regime del silenzio e l’esecuzione della sentenza, in Il processo davanti al giudice amministrativo, a cura di SASSANI e VILLATA, Torino, 2001, 293 ss.; GRECO, L’articolo 2 della legge 21 luglio 2000, n. 205, in questa Rivista, 2002, 1 ss.; SCOCA, Il silenzio della pubblica amministrazione alla luce del suo nuovo trattamento processuale, in questa Rivista, 2002, 239 ss.; TONOLETTI, Commento alla l. 21 luglio 2000, n. 205 - Art. 2, in Le nuove leggi civili commentate, 2001, 575 ss.; PAOLANTONIO, I riti speciali, in Giustizia amministrativa, a cura di SCOCA, Torino, 2003, 224 ss., 272 ss.


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tomeno laddove accrescitivo della sfera giuridica del destinatario (33). Questa ricostruzione non persuade. È vero, certo, che non si comprenderebbe un ricorso contro il silenzio che si concluda con l’ordine di emanare un provvedimento illegittimo per tardività. Ma tale apparente ostacolo può facilmente superarsi: il giudice, nell’ordinare all’Amministrazione, su domanda del cittadino leso dell’inerzia, di provvedere, non esclusivamente apre la strada alla sostituzione degli ordinari organi amministrativi con un commissario ad acta, ma altresı̀ — a fronte della conforme domanda del cittadino aspirante al provvedimento accrescitivo — riapre i termini per provvedere, stabilendo un nuovo termine acceleratorio coincidente, quanto all’Amministrazione, con l’ultimo giorno precedente all’insediamento del commissario ad acta; il commissario, poi, si vede assegnare, implicitamente o esplicitamente, ulteriori termini (34). In altre parole, il giudice sostituisce ai normali termini stabiliti dalla legge o dai regolamenti, dei nuovi termini, cosı̀ modificando la realtà giuridica. Sarebbe interessante (ma non rientra nelle ristrette ambizioni di queste note) approfondire fino a che punto il potere di fissare nuovi termini dipenda, almeno in parte, da una modificazione della realtà giuridica determinata dallo stesso ricorrente, la cui (33) Cosı̀ LIPARI, op. cit., 341: « Proprio l’innovazione portata dall’art. 21-bis concernente il rito avverso il silenzio, sembra confermare l’esattezza complessiva dell’impostazione dottrinaria in esame [quella di CLARICH, op. cit.], limitatamente ai provvedimenti di carattere ampliativo. Dopo la scadenza del termine conclusivo del procedimento (e addirittura anche dopo la proposizione del ricorso) sussiste ancora l’obbligo di provvedere. È agevole osservare che nella vicenda considerata dal rito sul silenzio è contra ius la mancanza del provvedimento nel termine stabilito e non certo la sua adozione, sia pure tardiva ». Adesivamente, CARINGELLA, op. cit., 1256. (34) È noto infatti come l’Amministrazione possa ancora provvedere scaduti i termini inizialmente fissati dal giudice, ma prima che si sia insediato il commissario ad acta, come si deduce dal fatto che il legislatore impone al commissario di accertare, prima di provvedere, che l’Amministrazione non l’abbia ancora fatto, seppur tardivamente rispetto al termine stabilito dal giudice (art. 21-bis, 3 comma: « All’atto dell’insediamento il commissario, preliminarmente all’emanazione del provvedimento da adottare in via sostitutiva, accerta se anteriormente alla data dell’insediamento medesimo l’amministrazione abbia provveduto, ancorché in data successiva al termine assegnato dal giudice amministrativo con la decisione prevista dal comma 2 »).


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domanda giudiziale agirebbe anche nel campo del diritto sostanziale, fungendo da nuova istanza di emanazione del provvedimento, come tale capace di riaprire i termini per provvedere (35); oppure si ricolleghi esclusivamente ad un carattere di costitutività della pronuncia giudiziale. Basti notare che il provvedimento giudiziale presenta, nella ricostruzione qui ipotizzata, elementi di comunanza con la pronuncia c.d. determinativa, emanabile dal giudice ordinario ex artt. 1183, 1331, 1482, 1771, 1810 e 1817 c.c.: almeno la scelta, in concreto, dei nuovi termini per provvedere è di competenza del giudice (36). Se quanto sopra ipotizzato riveste un qualche fondamento, il provvedimento infine emanato nel rispetto dei termini giudizialmente stabiliti ex art. 21-bis l. Tar non sarà viziato da tardività, ma, sotto il profilo temporale, perfettamente legittimo. Cosı̀ come sarà legittimo, sotto quest’ultimo profilo, il provvedimento emanato dal Commissario ad acta, laddove perduri lo stato di inerzia degli organi ordinari della Amministrazione. 5. Chi scrive non ignora come alla base dell’orientamento giurisprudenziale che nega un’effettiva reazione ordinamentale a fronte della violazione delle norme sui termini per l’emanazione del provvedimento vi sia la volontà di preservare il potere ammi(35) In analogia con l’efficacia di diritto sostanziale (in particolare di costituzione in mora) notoriamente propria della domanda giudiziale proposta dal creditore nei confronti del debitore. Ovviamente, laddove si accolga la tesi, assai viva in giurisprudenza anche dopo l’entrata in vigore della l. n. 205 del 2000, della necessità di apposita diffida con assegnazione di termini prima di adire il giudice (ad esempio, Cons. Stato, 10 aprile 2002, n. 1970), sarà evidente come una prima riapertura dei termini si ricolleghi a questo atto di diritto sostanziale. (36) Sul punto DI MAJO, voce Termine (dir. priv.), in Enc. dir., Milano, 187 ss., 212- 214, che segnala trattarsi di una pronuncia costitutiva, perché gli elementi che il giudice deve tenere presenti, ai sensi dell’art. 1183 c.c., per determinare il termine, non assurgono « a ruolo di fonti dirette per l’individuazione del termine... sibbene più propriamente a criteri e parametri che il giudice dovrà tenere presenti nell’esercizio del proprio potere (diretto all’individuazione del termine) » (op. cit., 213). Con specifico riguardo ai rapporti contrattuali con la Amministrazione, SCOCA, Il termine giudiziale nell’adempimento delle obbligazioni della p.a., Milano, 1965.


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nistrativo (ed in particolare la sua inesauribilità) rispetto ad un vizio, quello di intempestività, sentito come meramente formale perché, quasi per definizione, incapace di influire sul contenuto della decisione amministrativa (37). Potrebbe, pertanto, sembrare piuttosto fuori luogo sostenere la piena invalidità-illegittimità del provvedimento tardivo, di fronte ad una probabile linea di evoluzione legislativa nel senso del superamento dell’efficacia invalidante dei vizi meramente formali. Come il lettore avrà già capito, si sta facendo riferimento al comma 2 di un nuovo art. 21-octies, che, secondo il disegno di legge S 1281 (« Modifiche ed integrazioni alla legge 241/1990, concernenti norme generali sull’azione amministrativa »), nella versione già approvata dal Senato della Repubblica, dovrebbe essere aggiunto all’attuale testo della legge sul procedimento: « Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato » (38). In realtà, laddove venisse definitivamente approvata tale novella, sembra legittimo aspettarsi che si assisterebbe ad un chiarimento concettuale. (37) Nota LIPARI, op. cit., 342, che la irrilevanza, quanto alla validità del provvedimento restrittivo della sfera giuridica del destinatario, della violazione dei termini per provvedere viene talvolta « giustificata, empiricamente, dalla circostanza che il destinatario non avrebbe alcun interesse a chiedere l’annullamento posto che, verosimilmente, l’atto invalido potrebbe essere rinnovato con identico contenuto ». (38) Su questa proposta di riforma, si vedano, in senso favorevole, CERULLI IRELLI, Innovazioni del diritto amministrativo e riforma dell’amministrazione, in LexItalia.it, riv. on line., che ne segnala la coerenza con sviluppi giurisprudenziali già in atto, che potranno cosı̀ trovare completamento legislativo e TRIMARCHI BANFI, Illegittimità e annullabilità del provvedimento amministrativo, in questa Rivista, 2003, 407 ss., che ne ricorda la coerenza con la visione oggi più accreditata dell’interesse legittimo, come posizione giuridica attiva, esercitabile anche precedentemente all’emanazione del provvedimento, per la tutela di un bene materiale della vita.


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Da un lato, infatti, non sempre l’illegittimità, secondo questa possibile nuova disciplina, dovrà tradursi in invalidità-annullabilità. Sicché sarebbe probabilmente più facile, per la giurisprudenza, ammettere che non tutte le norme di diritto pubblico (comprese quelle sui termini c.d. ordinatori) determinino illegittimità. Dall’altro, però, risulterebbe finalmente sancito che, laddove il provvedimento sia discrezionale, anche la norma dal carattere più formale (39) (nel senso di non poter certamente influire in modo diretto sul contenuto del provvedimento), quale, per ipotesi, quella sui termini c.d. ordinatori (norma, quest’ultima, che, peraltro — lo si vuole un’ultima volta ricordare — incide su di un interesse ben concreto e determinato: quello della certezza temporale nei rapporti cittadino-Amministrazione), deve godere di efficacia invalidante. E questo perché anch’essa in grado di procurare, al ricorrente, il vantaggio, strumentale, di riaprire la valutazione discrezionale dell’Amministrazione (40). Se la proposta nuova disciplina dell’annullabilità del provvedimento amministrativo verrà definitivamente approvata e, poi, correttamente interpretata, quindi, non dovrebbe più essere riconosciuta, alla giurisprudenza, la possibilità di isolare alcune categorie di vizi considerati meramente formali, in modo da « colpire » la loro violazione con la sola « sanzione » della irregolarità (41). Con una norma quale il nuovo art. 12-octies, comma 2, infatti, il legislatore finirebbe per riappropriarsi del potere di stabilire, in via generale, i limiti della rilevanza invalidante dei vizi puramente formali. FRANCESCO GOISIS (39) Diversa da quella che dispone la comunicazione di avvio del procedimento, la quale, come chiaramente enunciato nel disegno di legge, potrà risultare irrilevante sul piano invalidante, anche laddove il provvedimento sia discrezionale. (40) Come bene spiegato da CERULLI IRELLI, op. cit., 9, « La demolizione dell’atto consente infatti al ricorrente una nuova chance nell’ambito di un procedimento amministrativo, riaperto a seguito dell’annullamento del primo provvedimento... ». Sul punto, con riguardo alla questione dei termini, LIPARI, op. cit., 342. (41) Su questa categoria, si rinvia a ROMANO TASSONE, Contributo sul tema dell’irregolarità degli atti amministrativi, Torino, 1993 e, anche con riferimento al disegno di legge di riforma dell’azione amministrativa, a VIPIANA, Gli atti amministrativi: vizi di legittimità e di merito, cause di nullità ed irregolarità, Padova, 2003, 381-417.



indice

DOTTRINA pag. L.V. MOSCARINI, Vizi del procedimento e invalidità o ineffıcacia del contratto .

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A. PAJNO, Il giudice delle autorità amministrative indipendenti ......................

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G. ROMEO, L’effettività della giustizia amministrativa: principio o mito? .......

653

D. VAIANO, L’onere dell’immediata impugnazione del bando e della successiva partecipazione alla gara tra legittimazione ad agire ed interesse a ricorrere .....................................................................................................

693

G. GUIDARELLI, I provvedimenti cautelari monocratici nel processo amministrativo .......................................................................................................

727

GIURISPRUDENZA ANNOTATA Corte cost., 6 luglio 2004, n. 204, con note di V. CERULLI IRELLI, Giurisdizione esclusiva e azione risarcitoria nella sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 6 luglio 2004 (osservazioni a primissima lettura), e di R. VILLATA, Leggendo la sentenza n. 204 della Corte Costituzionale .........

799

Cons. Stato, Ad. plen., 23 marzo 2004, n. 6, con nota di S. SPUNTARELLI, Perenzione e procedimento monocratico in Consiglio di Stato ...................

841

Corte di Appello di Napoli, Decreto 25 novembre 2003, n. 31034, con nota di F. AULETTA, La trascrivibilità di domande giudiziali proposte al Tar .

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RASSEGNE - RECENSIONI - NOTIZIE L. BERTONAZZI, Il diffıcoltoso inquadramento del Regio Decreto 17 agosto 1907, n. 642, recante il « Regolamento per la procedura dinanzi al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale », tra le fonti del diritto primarie o secondarie ....................................................................................

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ERRATA CORRIGE

Nel n. 1/2004 è stata omessa la dicitura « Il lavoro è destinato agli Studi in onore di Giorgio Berti » con riferimento all’articolo del prof. Vittorio Domenichelli.


Hanno collaborato a questo fascicolo FERRUCCIO AULETTA professore associato di Diritto processuale civile nell’Università di Perugia LUCA BERTONAZZI ricercatore di Diritto amministrativo nell’Università degli Studi di Milano VINCENZO CERULLI IRELLI professore ordinario di Diritto amministrativo nell’Università di Roma La Sapienza GIULIO GUIDARELLI dottore in giurisprudenza LUCIO V. MOSCARINI professore ordinario di Diritto civile nella LUISS di Roma ALESSANDRO PAJNO consigliere di Stato GIUSEPPE ROMEO consigliere di Stato SARA SPUNTARELLI dottore in giurisprudenza DIEGO VAIANO professore straordinario di Diritto amministrativo nell’Università della Tuscia RICCARDO VILLATA professore ordinario di Diritto amministrativo nell’Università degli studi di Milano


dottrina

LUCIO V. MOSCARINI

VIZI DEL PROCEDIMENTO E INVALIDITÀ O INEFFICACIA DEL CONTRATTO

SOMMARIO: 1. Occasione e oggetto dell’indagine. — 2. Evoluzione della dottrina e della giurisprudenza: il nuovo riparto di giurisdizione e la svolta giurisprudenziale sulla risarcibilità degli interessi legittimi. — 3. Soluzione giurisprudenziale dell’annullabilità del contratto. — 4. Teoria della inefficacia del contratto e sua critica. — 5. Diversità dell’influenza dei vizi procedimentali sulla validità o efficacia del contratto secondo la loro afferenza alle varie fasi dell’evidenza pubblica. — 6. Necessità dell’impulso di parte per la caducazione del contratto ritenuto annullabile. — 7. Non necessità dell’impulso di parte della p.a. nel giudizio di « giurisdizione piena » del g.a. Configurazione dell’invalidità del contratto come nullità relativa accertabile dal giudice anche su impulso del terzo ricorrente. Giustificazione dogmatica della nullità relativa per mancanza della causa in concreto. — 8. Altre configurazioni dogmatiche del vizio del contratto: le tesi del difetto di legittimazione e del difetto di potere rappresentativo. — 9. Nullità relativa e nullità « speciali ». — 10. Distinzione fra norme imperative e norme ordinative e sua applicazione ai contratti di diritto pubblico. — 11. (Segue): la nullità relativa del contratto, la giurisdizione « piena » del g.a. e il problema della « pregiudiziale amministrativa ». — 12. Diverse soluzioni della giurisprudenza e il problema della rilevabilità della nullità relativa senza necessità dell’impulso di parte della p.a. — 13. Soluzione proposta: la rilevabilità della nullità relativa o della inefficacia del contratto senza necessità dell’impulso di parte. — 14. Conclusioni.

1. Le pagine che seguono riproducono quasi testualmente, ma con eliminazione delle parole di circostanza, gli adattamenti necessari per la traduzione da un « parlato » ad uno scritto e l’aggiunta delle note e di alcune ulteriori riflessioni ispirate dal dibattito, il testo di una relazione svolta, nell’Università Statale di Milano, nell’ambito di un incontro di studi promosso dal prof. Riccardo Villata per la celebrazione del ventesimo anniversario della fondazione della Rivista: incontro promosso, introdotto e incisivamente coordinato dallo stesso prof. Villata, con la partecipazione, oltre che del sottoscritto, del noto magistrato amministrativo e studioso Cons. Marco Lipari, che ha avuto ad oggetto uno dei Dir. Proc. Amm. - 3/2004


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punti più delicati della tematica interdisciplinare dei rapporti tra procedimento e provvedimenti autoritativi, da una parte, e atti di autonomia privata: i riflessi dei vizi del procedimento amministrativo di ricerca del contraente privato e/o del provvedimento autoritativo di aggiudicazione con cui esso si conclude, sull’efficacia e/o sulla validità del contratto che la p.a. stipula con il soggetto scelto attraverso il predetto procedimento. 2. Chi scrive si era occupato in più riprese (1) del problema indicandone soluzioni progressivamente modificate per effetto di ripensamenti e affinamenti concettuali maturati nel tempo sotto l’influenza sia della letteratura su di esso sviluppata da civilisti e amministrativisti, non sempre sufficientemente coordinati tra loro, sia della giurisprudenza pratica, civile e amministrativa, tutt’altro che univoca (2) e, anzi, caratterizzata da oscillazioni tali da suscitare ogni volta spunti per un ripensamento ab imis. Il panorama giurisprudenziale ha subito una profonda modifica attinente al suo presupposto primo, quello della giurisdizione, con il nuovo sistema del riparto per materie introdotto dal d.lgs. (1) L.V. MOSCARINI, Profili civilistici del contratto di diritto pubblico, Milano, 1988; ID., Risarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi e nuovo riparto di giurisdizione, in questa Rivista, 1998, 803 ss. ed ora in Diritto privato ed interessi pubblici, Milano, 2003, I, 171 ss.; ID., La risarcibilità degli interessi legittimi: un problema tutt’ora aperto (primo commento a Cass. Sez. Un. 22 luglio 1999, n. 500), in I contratti, 1999, 11 ss., ora nella raccolta cit., I, 213 ss.; ID., Risarcibilità degli interessi legittimi e termini di decadenza, nota alla stessa sentenza Cass., Sez. un., 22 luglio 1999, n. 500, in Giur. it., 2000, 12 ss. ed ora nella raccolta citata, 219 ss.; ID., Risarcibilità degli interessi legittimi e termini di decadenza: riflessioni a margine dell’ordinanza n. 1 dell’Adunanza Plenaria Cons. Stato 2 gennaio 2000, in questa Rivista, 2000, 1 ss. ed ora nella raccolta citata, 243 ss.; ID., La nullità speciale del contratto stipulato in esecuzione di un provvedimento di gara annullato per illegittimità, in Art. 28 e nullità speciali, Atti del Convegno di Teramo, 16-17 aprile 1999, ora nella raccolta citata, 387 ss.; ID., Risarcibilità degli interessi legittimi e pregiudiziale amministrativa, in Foro amm.-Tar, 2003, 2137 ss. (2) Per una completa analisi della giurisprudenza sia civile sia amministrativa si rinvia a M. LIPARI, L’annullamento dell’aggiudicazione e la sorte del contratto tra nullità, annullabilità e ineffıcacia: la giurisdizione esclusiva amministrativa e la reintegrazione in forma specifica, in Diritto e formazione, 2002, 245 ss.; M. SANINO, Procedimento amministrativo e attività contrattuale della pubblica amministrazione, Torino, 2003.


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n. 80 del 1998 e poi confermato e rafforzato dalla l. 205 del 2000. Il nuovo assetto legislativo, è venuto a coincidere quoad tempus con la storica svolta giurisprudenziale sulla risarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi, che ha dato spunto al sorgere di un nuovo problema di carattere generale comunemente riassunto nella sintesi verbale della c.d. « pregiudiziale amministrativa » (3). Quest’ultimo costituisce uno dei punti che ha maggiormente stimolato gli interessi dello scrivente, tanto che la tentazione immediata sarebbe stata quella di aprire subito un’ampia parentesi per occuparsi di esso. Ma tale tentazione, se assecondata, sarebbe apparsa come un mero espediente, vista l’almeno apparente distanza tra tale problema e quello oggetto del dibattito, per trattare un argomento diverso solo perché particolarmente gradito ad uno dei relatori. In verità la distanza tra il problema della « pregiudiziale amministrativa » è quello dei riflessi dei vizi procedimentali sulla validità e/o efficacia del contratto, non è grandissima, che anzi le interconnessioni e i collegamenti tra i due temi giuridici non mancano, come in appresso non si potrà fare a meno di mettere in evidenza. Ma ciò non esime lo scrivente dal dovere di tornare subito al tema assegnatogli, senza lasciarsi attrarre dalla divagazione da cui sarebbe tentato. In verità dal problema dei riflessi dei vizi del procedimento sulla validità e/o efficacia del contratto chi scrive è stato attratto sin da quando, stimolato dalla varietà casistica suggerita dalle esperienze professionali in un’epoca in cui il contenzioso sui procedimenti di gara era ancora di dimensioni assai ridotte, aveva concepito il disegno di sviluppare una trattazione organica sui profili civilistici dei contratti di diritto pubblico (4): tematica verso la quale aveva sempre nutrito il forte interesse che si prova (3) Vedi in particolare L.V. MOSCARINI, op. ult. cit.; G. VERDE, La pregiudizialità dell’annullamento nel processo amministrativo per risarcimento del danno, in questa Rivista, 2003, 963 ss. (4) L.V. MOSCARINI, Profili civilistici del contratto di diritto pubblico, cit., spec. 205 ss.


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nei confronti di un problema di cui non si ha certezza di qual sia la soluzione corretta. 3. All’epoca della ricordata ricerca monografica era predominante, nella giurisprudenza sia ordinaria sia amministrativa, l’opinione che i vizi del procedimento di ricerca del contraente privato dessero luogo, rispetto al contratto stipulato tra la p.a. e il soggetto prescelto, ad una situazione patologica riconducibile alla categoria concettuale dell’annullabilità. Di una invalidità, cioè, inerente alla struttura intrinseca della fattispecie contrattuale ma, in quanto comminata a tutela degli interessi di una sola delle parti, rilevabile soltanto se e in quanto invocata da quella stessa parte (5). Siffatta soluzione contrastava con le considerazioni suggerite dalla logica civilistica elementare, secondo la quale il contratto affetto da un vizio intrinseco alla sua struttura può essere nullo o soltanto annullabile, ma di queste due opzioni la regola è rappresentata dalla nullità, come tale invocabile da chiunque e in qualunque tempo, rispetto alla quale i casi di annullabilità, ristretti alle ipotesi di incapacità di agire (legale o naturale) di una delle parti, di vizi della volontà e di conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato, sono invocabili solo dalla parte incisa dalla incapacità, o dalla viziata formazione della sua scelta volitiva, o dal conflitto di interessi: ipotesi che costituivano tendenzialmente un’eccezione, soggetta ad un criterio di tassatività, ossia limitata ai soli casi espressamente assoggettati a tale trattamento (6). 4. Alle due categorie della nullità e dell’annullabilità la logica civilistica aveva affiancato quella della mera inefficacia, che mentre come nozione descrittiva del solo profilo della inidoneità alla produzione degli effetti, ricomprendeva in sé anche le ipotesi (5) Cass., 9 luglio 1977, n. 3067, in Cons. St., 1977, II, 1087 ed in Arch giur. OO.PP., 1977, II, 197; Cass., 10 aprile 1978, n. 1668, in Foro it., 1978, I, 2814; in Giust. civ., 1978, 1248 ss. ed in Cons. St., 1978, II, 935 ss.; Cass., 24 maggio 1979, n. 2996, in Cons. St., 1979, II, 957 ss. e in Arch. giur. OO.PP., 1979, II, 234 ss. (6) L.V. MOSCARINI, op. cit., alla nota 1.


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di nullità e quelle di contratto annullabile, una volta annullato (7), in un senso più ristretto era usata per indicare, secondo la migliore dottrina, due ordini di ipotesi: vale a dire in primo luogo quelle in cui l’inidoneità alla produzione degli effetti discende non già da un vizio intrinseco alla struttura della fattispecie negoziale, bensı̀ da un vizio esterno ad essa, consistente o nella sussistenza di un fatto impeditivo (es. il mancato avverarsi di una condizione sospensiva o l’avverarsi di una condizione risolutiva), ovvero nell’inesistenza di un fatto considerato dalla legge come elemento costitutivo della fattispecie, e quindi nella mancanza di una condicio iuris; in secondo luogo, quelle in cui il negozio era inefficace per le parti, e non anche (come nei casi di contratto risoluto o rescisso) rispetto ai terzi (8). La categoria dell’inefficacia in senso stretto era in verità criticata dalla dottrina civilistica più autorevole, e in particolare dal Santoro Passsarelli, mentre proprio ad essa aveva fatto ricorso una dottrina, altrettanto autorevole, amministrativistica, quale quella del Giannini, proprio a proposito del trattamento riservato al contratto di diritto pubblico stipulato in esito ad un procedimento o a un provvedimento viziato (9). 5. Quest’ultima soluzione sembrava allo scrivente, pur con il più profondo rispetto delle idee del suo Maestro, da condividere (7) F. SANTORO-PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, IX ed., Napoli, 2002, 241. (8) F. SANTORO-PASSARELLI, op. loc. cit. (9) M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, I, Milano, 1970, 680; ANELLI, Pubblico e privato in materia di contratti dello Stato e degli enti pubblici, in Cons. St., 1966, II, 348 ss.; Cass., 5 febbraio 1982, n. 671, in Foro it., 1982, I, 3034 ss.; Cass., 10 aprile 1978, n. 1668, ivi, 1978, I, 2814 ss.; Cass., 11 marzo 1976, n. 855, in Mass. Giust. civ., 1976, 377 ss.; Cass., 24 maggio 1979, n. 2996, in Arch. giur. OO.PP., 1979, II, n. 234. In particolare si afferma che tutti gli atti della serie pubblicistica costituiscono un requisito di legittimazione dell’organo stipulante. In critica a tale orientamento si veda M. NIGRO, Deliberazione amministrativa, in Enc. dir., XI, Milano, 1962, 1009 ss.; F.G. SCOCA, Novità normative interne e comunitarie sulla disciplina contrattuale, in Avvocatura enti pubblici, 1980, 25 ss.; G. GRECO, I contratti dell’amministrazione tra diritto pubblico e privato, Milano, 1986, 81 ss.; A. BARDUSCO, La struttura dei contratti delle pubbliche amministrazioni, Milano, 1974, 148 ss.; V. SPAGNUOLO VIGORITA, Rilevanza di elementi extratestuali ai fini della interpretazione e della validità dei contratti privati della pubblica amministrazione, in Rass. dir. pubbl., 1961, 529 ss.


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per le ipotesi di vizi procedimentali afferenti alla fase di approvazione del contratto, nelle quali la mancanza del provvedimento autoritativo di approvazione, o la sua illegittimità e il suo conseguente annullamento, potevano appunto rendere inefficace il contratto (10). Laddove nei casi in cui il provvedimento autoritativo era affetto da un vizio che, secondo la sistematica tradizionale della giustizia amministrativa, rendeva tale provvedimento solo annullabile, il contratto restava di per sé efficace sino a quando il provvedimento annullabile non fosse stato in concreto annullato, e diveniva inefficace solo se e quando il provvedimento di approvazione fosse stato annullato (11). Se il vizio riguardava invece un atto autoritativo interno alla struttura procedimentale della fattispecie contrattuale, come il bando di gara o il provvedimento autoritativo di aggiudicazione della commessa, il profilo patologico poteva travolgere anche il momento negoziale della fattispecie, fatta salva alla p.a. la facoltà, se nel frattempo il contratto fosse stato eseguito, di rinnovare il provvedimento annullato, e quindi confermare l’efficacia del vincolo, limitando la tutela dei soggetti terzi lesi dal vizio procedimentale al solo risarcimento, oppure non rinnovarlo, rendendolo definitivamente inefficace e attuando, con o senza una nuova gara, una reintegrazione in forma specifica degli interessi del terzo ricorrente (12). 6. Tale discrezionalità, con l’introduzione del nuovo riparto di giurisdizione per materie che ha attribuito al giudice amministrativo giurisdizione esclusiva sui procedimenti di gara, doveva ritenersi trasferita, almeno in qualche caso, allo stesso Giudice, il quale però, a parere di chi scrive, poteva annullare il contratto solo se la p.a., costituendosi e resistendo all’impugnativa, ne avesse fatto, magari in linea subordinata, espressa richiesta (13). (10) L.V. MOSCARINI, Profili civilistici del contratto di diritto pubblico, cit., 205 s. (11) L.V. MOSCARINI, Profili civilistici del contratto di diritto pubblico, cit., 206. (12) L.V. MOSCARINI, op. cit.. vedi nota 1. (13) L.V. MOSCARINI, Risarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi e nuovo riparto di giurisdizione, cit., spec. n. 12.


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7. Ma in un successivo scritto, riflettendo ancora sul nuovo riparto di giurisdizione che ha attribuito al g.a. giurisdizione esclusiva, comprensiva non solo di diritti e interessi ma anche della tutela risarcitoria, chi scrive aveva avanzato, sia pure timidamente, l’idea che tale discrezionalità di scelta se far cadere o no il contratto potesse ritenersi trasferita direttamente al giudice amministrativo in quanto passaggio necessario per realizzare, attraverso la reintegrazione in forma specifica, l’interesse del terzo ricorrente ad ottenere la commessa (14). Laddove nei casi di mancanza o di vizio della deliberazione di contrattare, o di un atto di controllo interno della stessa p.a., può profilarsi una parziale carenza della causa in concreto, in quanto viene meno la funzione dell’utile spendita del pubblico denaro, in mancanza della quale la deliberazione di contrattare, e di conseguenza il contratto, restano assoggettati ad una sospensione della loro efficacia: se interviene cioè, sia pure a posteriori, l’approvazione, questa sana il vizio. Altrimenti, il contratto resta nullo non tanto per un profilo di contrarietà a norma imperativa quanto piuttosto per mancanza di causa, ossia per impossibilità di realizzazione della causa in concreto (15), ravvisata nella funzione di scambio non tanto tra la prestazione caratterizzante e il corrispettivo pattuito quanto piuttosto tra la stessa prestazione caratterizzante (opera, fornitura o servizio) e l’utilizzazione del pubblico denaro ad esso finalizzata con il provvedimento autoritativo di stanziamento dei fondi. Nei casi invece in cui il vizio procedimentale consiste nella mancanza o nell’annullamento per illegittimità di un controllo a posteriori di un organo esterno (come ad esempio per i contratti degli enti locali), la soluzione prospettata dalle varie posizioni della dottrina rendeva la soluzione del problema meno univoca. 8.

Da una parte la corrente di pensiero che si rifaceva so-

(14) L.V. MOSCARINI, La nullità speciale del contratto stipulato in esecuzione di un provvedimento di gara annullato per illegittimità, cit. (15) L’idea che il vizio di legittimità degli atti del procedimento si risolva in un vizio della causa del contratto, sviluppata da chi scrive nella ormai antica monografia del 1988 (L.V. MOSCARINI, Profili civilistici del contratto di diritto pubblico, cit., 205 ss.) è stata condivisa nel recente saggio di F. SATTA, L’annullamento dell’aggiudicazione e i suoi effetti sul contratto, in Dir. amm., 2003, 645 ss., spec. 652 ss.


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prattutto alla dottrina del Giannini (16), utilizzava lo strumento concettuale del difetto di legittimazione al negozio, in contrasto però con la dottrina civilistica prevalente, che negava la categoria dogmatica della legittimazione come figura distinta dalla capacità di agire e dal potere di agire (17), ammessa invece da altri autorevoli civilisti (18). Una diversa corrente dottrinaria, che faceva capo soprattutto al Sandulli ravvisava invece nell’ipotesi di mancanza o di vizio di un controllo esterno, un caso di difetto di potere rappresentativo, e quindi di inefficacia in senso stretto, suscettibile di superamento con un atto di ratifica (19). Anche in questo caso tuttavia, nella ricordata indagine monografica, si era ritenuto ravvisabile un profilo di mancanza della causa in concreto, ossia della possibilità di utilizzazione, a fronte della prestazione caratterizzante che soddisfa l’interesse della p.a., del pubblico denaro a tal fine stanziato con un provvedimento autoritativo (20). Di conseguenza, secondo tale ricostruzione, poteva ravvisarsi anche in questa ipotesi un caso di nullità, suscettibile però di sanatoria in quanto comminata nell’interesse soltanto della p.a. e quindi configurabile concettualmente come nullità relativa, secondo una figura che la dottrina civilistica aveva già tratteggiato ad altri fini (21). Anche quest’ultima possibile costruzione concettuale della fattispecie si infrangeva contro la logica civilistica elementare secondo la quale, fatti salvi i casi, come si è detto eccezionali, in cui il vizio intrinseco al negozio ne determina la mera annullabilità, ogni altro vizio interno alla fattispecie negoziale che si risolva in una difformità della fattispecie concreta dalla fattispecie legale si (16) M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, I, Milano, 1970, 680 ss. e 731 s. (17) F. SANTORO-PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, IX ed., Napoli, 2002, 131. (18) P. RESCIGNO, Legittimazione (diritto sostanziale), in Noviss. dig. it., IX, Torino, 1963, 713 ss. (19) A.M. SANDULLI, Deliberazione di contrattare e negozio di diritto privato della pubblica amministrazione, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1965, I, 1 ss. (20) L.V. MOSCARINI, Profili civilistici del contratto di diritto pubblico, cit. 205 ss. (21) F. SANTORO-PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, 247 s.


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dovrebbe tradurre in un profilo di nullità, che secondo la tradizione culturale dei civilisti è sempre assoluta ed insanabile. 9. L’istintiva propensione ad utilizzare la figura della nullità relativa aveva però, in uno dei successivi scritti minori (22), trovato supporto in una tendenza emersa nella dottrina civilistica sulla nullità, soprattutto sotto l’impulso delle suggestioni esercitate sui civilisti dal c.d. « nuovo diritto dei contratti » (23) di matrice prevalentemente comunitaria e come tale svincolato dal rigore della categorie dogmatiche tradizionali della nostra letteratura: nella tendenza cioè ad unificare una varietà di fattispecie, emerse appunto nella nuova normativa di matrice sopranazionale, in un’anodina categoria di nullità speciali (24), quasi sempre connotate dal carattere della relatività, ossia della loro previsione a tutela dell’interesse di una soltanto delle parti del contratto, e come tali azionabili solo dalla parte interessata. Si trattava di una figura emersa soprattutto con riferimento al c.d. diritto dei consumatori, al quale altra dottrina vorrebbe affiancare anche il diritto dei risparmiatori, oggetto anch’esso di tutela speciale rafforzata. Figura che secondo un punto di vista ampiamente diffuso tra i giusprivatisti — ma non del tutto condivisibile — coincide in tutto e per tutto con il nuovo diritto civile, inteso, quale partizione della più ampia branca del diritto privato, come diritto dell’homo cives, contrapposto all’homo oeconomicus, imprenditore o « professionista », protagonista del diritto dell’impresa unificato dalla codificazione del 1940-42 con l’abrogazione del vecchio codice di commercio. Si trattava dunque di una figura utilizzabile anche per la ricostruzione concettuale della fattispecie del contratto stipulato dalla p.a. con un privato in esito ad un procedimento autoritativo viziato, secondo la stessa prospettiva di carattere generale che rav(22) L.V. MOSCARINI, La « nullità speciale » del contratto, cit., 387 ss. (della raccolta). (23) Si veda AA.VV., Materiali e commenti sul nuovo diritto dei contratti, a cura di G. VETTORI, Padova, 1999; AA.VV., Squilibrio e usura nei contratti, a cura di G. VETTORI, Padova, 2002. (24) G. PASSAGNOLI, Nullità speciali, Milano, 1995.


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visa nella disciplina dei contratti « ad evidenza pubblica », categoria coincidente con una delle possibili significazioni della nozione di « contratti di diritto pubblico », la natura di diritto speciale (25). Contratti, cioè, nei quali il peculiare carattere di uno dei soggetti, la pubblica amministrazione, influenza la natura, e quindi anche il trattamento dell’intera fattispecie, secondo uno schema logico simile a quello proprio del cd. diritto dei consumatori e dei risparmiatori: lo schema logico che fa dipendere la natura, e quindi il trattamento, del contratto, dalla peculiarità del soggetto: simmetrico rispetto a quello che, come proposto in una recente indagine monografica sul software, tali natura e trattamento fanno dipendere dalla peculiarità dell’oggetto (26). Naturalmente l’utilizzazione della categoria delle « nullità speciali » in luogo della configurazione di un’apposita categoria di « nullità relativa » restava una scelta di gusto costruttivo che poco incideva sulla sostanza del problema. 10. Probabilmente altrettanto può dirsi per una pur acuta costruzione concettuale della più recente letteratura civilistica in tema di nullità che, riprendendo un distinguo già in passato tracciato da altri, valorizza la distinzione tra norme imperative e norme ordinative (27). Nella prima categoria rientrebbero le norme che stabiliscono la nullità del contratto per illiceità della causa, dell’oggetto o dei motivi. Nella seconda le norme che sanzionano la nullità, sempre del contratto, per mancanza di uno dei suoi elementi essenziali, impropriamente indicati dall’art. 1325 come « requisiti », o per mancanza dei « requisiti » (in questo caso designabili correttamente con tale nozione) della possibilità, determinatezza o determinabilità dell’oggetto. Secondo tale veduta rientrebbero nella seconda categoria an(25) C. MARZUOLI, Principio di legalità e attività di diritto privato della pubblica amministrazione, Milano, 1982. (26) G. DI GIANDOMENICO, Natura giuridica e profili negoziali del software, Napoli, 2000, spec. 345 ss. (27) A. ALBANESE, Violazione di norme imperative e nullità del contratto, Napoli, 2003, 203 ss. e dottrina ivi cit.


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che le norme « procedimentali », che prescrivono gli adempimenti necessari perché il contratto sia valido ed efficace, oppure l’ordine temporale in cui devono essere compiuti gli atti preparatori che lo precedono (28). La loro inosservanza non si tradurrebbe nel difetto di uno dei « requisiti essenziali » previsti dall’art. 1325 e determinerebbe perciò conseguenze diverse dalla nullità. Di tale categoria la citata recente dottrina indica come esempio proprio le norme sui contratti della p.a. soggette alle regole della « evidenza pubblica » (29). Queste infatti non vietano né impongono un determinato regolamento di interessi, ma prescrivono soltanto le modalità di formazione e conclusione del contratto, funzionali a realizzare l’interesse pubblico specificamente affidato alle singole amministrazioni, in conformità con il principio di imparzialità e di buon andamento di cui all’art. 97 Cost. Si tratta allora, sempre secondo la citata recente dottrina civilistica, di stabilire quale sia la sorte del negozio, tenuto conto che le irregolarità della sua formazione non valgono di per sé a rendere il suo contenuto, e quindi l’assetto di interessi con esso determinato, contrario a norme imperative, e quindi non giustificano l’applicazione dell’art. 1418 c.c. (30). Il citato autore ricorda peraltro che la giurisprudenza pratica è orientata a considerare soltanto annullabili, e non nulli, i contratti stipulati in forza di un provvedimento illegittimo: annullabili per difetto di integrazione della capacità del soggetto pubblico (o del suo organo), e quindi come se si trattasse di un atto dell’inabilitato o del minore emancipato non integrato dalla volontà del curatore, ovvero, secondo altra veduta, per difetto di legittimazione dell’organo investito del potere di rappresentanza esterna; seguendo la quale opinione l’annullamento sarebbe possibile solo se chiesto entro il termine di cinque anni. Ma lo stesso scrittore, nel ricordare tale prevalente orientamento della giurisprudenza sia civile sia amministrativa, ora in (28) A. ALBANESE, op. cit., 212. (29) A. ALBANESE, op. loc. cit. (30) A. ALBANESE, op. loc. cit.


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verità superato dalla più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, osserva non essere invocabile la disciplina dell’incapacità legale, almeno nei casi in cui quella mancante sarebbe la volontà di un organo esterno. Più esatto sarebbe allora, secondo l’autore sopra citato, parlare di inefficacia per mancanza di potere dell’organo stipulante, anziché di annullabilità (31). D’altra parte, osserva sempre lo stesso Autore, i vizi del procedimento sono comminati a tutela di interessi pubblici, laddove l’annullamento tutela solo gli interessi di una parte (32). In verità la ricordata recente dottrina civilistica non condivide neppure l’affermazione della deducibilità dei vizi procedimentali ex uno latere. Se quello protetto è un interesse di natura pubblica, i vizi procedimentali potrebbero essere fatti valere da qualunque interessato, anche se terzo rispetto al contratto, con il solo limite del termine di decadenza, scaduto il quale prevale la categoria dell’inoppugnabilità del provvedimento autoritativo, laddove solo se e in quanto i vizi vengono fatti valere entro il termine decadenziale, la caducazione del contratto dovrebbe essere automatica, salva però la possibilità di una sua ratifica, se e in quanto conforme all’interesse pubblico, mediante acquisizione dei pareri o degli altri atti procedimentali mancanti o viziati (33). 11. Emerge a questo punto il collegamento tra il problema oggetto del dibattito e quello della c.d. « pregiudiziale amministrativa » cui, come si accennava in principio, lo scrivente sarebbe stato fortemente tentato di estendere la trattazione. Ma respingendo ancora una volta tale tentazione, e per riprendere il filo del discorso, la conclusione cui perviene il civilista da ultimo citato, che fa salvi sia gli interessi della p.a. sia quelli dei terzi, potrebbe essere raggiunta anche applicando le regole della rappresentanza organica delle persone giuridiche private, tra cui l’art. 23, comma 2 e l’art. 2377, comma 3 c.c., che fanno salvi in ogni caso i diritti acquistati dai terzi di buona fede per effetto di (31) A. ALBANESE, op. cit., 214 (32) A. ALBANESE, op. cit., 216. (33) A. ALBANESE, op. cit., 217 ss.


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atti compiuti in esecuzione della deliberazione annullata (34). A tale conclusione si sottrarrebbero invece le ipotesi di violazione di norme imperative in senso stretto, quale — esempio emblematico — l’aggiudicazione di un appalto di servizi per una durata eccedente quella massima consentita dalla legge, o per un corrispettivo inferiore a quello minimo imposto da una tariffa inderogabile. In sintesi, la voce più recente della dottrina civilistica non condivide la distinzione tra i casi in cui la norma violata tuteli un interesse particolare della p.a. (dando luogo ad un’ipotesi di annullabilità, o di nullità relativa), e quelli in cui la violazione riguardi norme poste a tutela della collettività (dando luogo solo in tal caso a nullità). Al contrario, l’unica distinzione ammissibile resterebbe quella tra norme imperative (che vincolano cioè in modo diretto e immediato le scelte della p.a.) e norme ordinative (che stabiliscono modalità e procedure). Tra le prime, peraltro, non rientrebbero le ipotesi di contratti conclusi per finalità diverse da quelle istituzionalmente proprie della p.a., poiché il vincolo di scopo non si tradurrebbe nell’imposizione di un assetto negoziale predeterminato bensı̀ costituirebbe solo una direttiva di massima cui la p.a. deve attenersi nell’ambito della sua discrezionalità. In queste ipotesi il vizio procedimentale si tradurrebbe in un profilo di annullabilità del contratto, azionabile solo se ed in quanto il vizio procedimentale venga fatto valere nel termine di decadenza (35). Nelle altre ipotesi invece il vizio degli atti procedimentali si tradurrebbe in un profilo di nullità del contratto, come tale assoluta ed insanabile. 12. A cosı̀ variegato panorama offerto dalla dottrina civilistica e amministrativistica si affianca una non meno variegata gamma di soluzioni prospettate dalla giurisprudenza, sia civile sia, specie dopo l’introduzione del nuovo riparto, amministrativa. Esse spaziano dalla soluzione, ormai riguardabile come tradi(34) A. ALBANESE, op. cit., 218. (35) A. ALBANESE, op. cit., 222.


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zionale, dell’annullabilità (36), più condivisibile se intesa quale nullità relativa, o, se si preferisce, « speciale »; a quella, emersa nella più recente giurisprudenza amministrativa, della caducazione automatica del contratto per effetto dell’annullamento giurisdizionale degli atti procedimentali (37); a quella infine che ricollega la sorte del contratto conseguente all’annullamento degli atti procedimentali ad un’autonoma valutazione del pubblico interesse (38). Risulta a questo punto non più temeraria e fuorviante la digressione che chi scrive sarebbe stato tentato di sviluppare ricollegando il problema oggetto del dibattito a quello della « pregiudiziale amministrativa ». E il collegamento appare ancor più evidente ove si consideri il carattere esclusivo della giurisdizione attribuito al g.a., che un valoroso amministrativista ha proposto di indicare con la definizione di giurisdizione « piena » (39). Come si è già detto, una volta accertato dal giudice amministrativo il vizio di legittimità degli atti procedimentali, il vero problema che lo stesso giudice deve risolvere è se travolgere nella pronuncia caducatoria anche il contratto già stipulato e (in tutto o in parte) eseguito oppure limitare la portata della sentenza alla sola declaratoria di illegittimità degli atti provvedimentali soddisfacendo l’interesse leso del soggetto ricorrente con un risarcimento pecuniario. Ed a questi fini, ove la scelta sia esercitata nel senso del travolgimento dell’intero contratto, la costruzione teorica più calzante deve distinguere i casi in cui il vizio attenga agli atti preparatori o interni alla fattispecie contrattuale (deliberazione (36) Vedi la giurisprudenza citata nella nota n. 5 cui adde Cass., 8 maggio 1996, n. 4269, in I contratti, 1997, 128 ss., con nota di C. MUCIO; Cass., 17 novembre 2000, n. 14901; Cass., 28 marzo 1996, n. 2848; Cass., 21 febbraio 1995, n. 1885; Cass., 7 aprile 1989, n. 1682; Cass., 13 ottobre 1986, n. 5983; Cass., 5 febbraio 1982, n. 671. (37) Cons. Stato, 14 gennaio 2000, n. 244, in Foro amm., 2000, 108; Cons. Stato, 25 maggio 1998, n. 677, in Foro amm., 1998, n. 1442; Cons. Stato, 30 marzo 1993, n. 435, in Giur. it., 1994, II, 18; Cons. Stato, 8 ottobre 1985, n. 430, in Foro amm., 1985, fasc. 10. (38) Cons. Stato, 23 ottobre 2003, n. 6666. (39) A. POLICE, Il ricorso di piena giurisdizione davanti al giudice amministrativo. II. Contributo alla teoria dell’azione nella giurisdizione esclusiva, Padova, 2001, spec. 227 ss.


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di contrattare, stanziamento dei fondi, bando, invito, aggiudicazione, provvisoria e/o definitiva), ovvero riguardi un provvedimento successivo ad essa (quale l’approvazione del contratto): nel primo caso continua a sembrare più corretta la ricostruzione teorica della nullità relativa, la si voglia o meno qualificare di diritto speciale; nel secondo caso, configurandosi, in termini civilistici, il venir meno di una condicio iuris, resta più propria la configurazione di una inefficacia in senso stretto. Ma al di là delle scelte concettualistiche tra nullità, annullabilità o inefficacia in senso stretto, il vero problema che il giudice amministrativo investito della giurisdizione piena è oggi chiamato a risolvere è se, una volta superata la « pregiudiziale amministrativa », ossia una volta azionata l’impugnativa degli atti procedimentali entro il termine decadenziale breve, che da ultimo anche la Corte di Cassazione (40), rimeditando le scelte espresse negli obiter dicta della notissima sent. n. 500 del 1999, ha riconosciuto operare come limite anche per la sola tutela risarcitoria dell’interesse legittimo leso, è se lo stesso giudice, ove accolga l’azione di annullamento degli atti provvedimentali illegittimi, possa senz’altro far cadere anche il contratto stipulato dalla p.a. sulla base dei provvedimenti annullati ovvero se per tale caducazione sia necessario l’impulso di parte della stessa p.a. 13. A questo proposito chi scrive continua a propendere per l’opinione, frutto di un ripensamento autocritico e confortata da ultimo anche dal Consiglio di Stato, che, una volta concentrata su di un unico giudice sia la tutela dei diritti e degli interessi sia la tutela risarcitoria, e una volta attribuita quindi inevitabilmente allo stesso giudice una giurisdizione incidente sul rapporto e non solo sull’atto provvedimentale, la valutazione di convenienza, ossia di conformità al pubblico interesse, che il contratto eventualmente stipulato in forza del procedimento di gara illegittimo sia conservato in vita o cada anch’esso debba ritenersi trasferita al giudice il quale, come ha dimostrato appunto la più recente pronuncia del Consiglio di Stato, potrà eventualmente richiedere alla p.a. gli (40)

Cass., 27 marzo 2003, n. 4538.


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elementi necessari per compiere la valutazione discrezionale che, nella prospettiva del riparto di giurisdizione tradizionale sarebbe stata di esclusiva competenza della stessa p.a. Tale scelta discrezionale peraltro, deve in verità ritenersi trasferita anch’essa al giudice della nuova giurisdizione « piena » per due ragioni, una di carattere processuale e l’altra di diritto sostanziale. Il profilo processuale si basa sulla considerazione che, mentre la tradizionale giurisdizione del giudice amministrativo era, salve le ipotesi eccezionali di giurisdizione esclusiva di sola legittimità o anche, in casi ancor più eccezionali, estesa al merito, giurisdizione solo sul provvedimento, come tale non incidente sul rapporto, ma in compenso in grado di cancellare dalla realtà giuridica il provvedimento illegittimo con valenza erga omnes, al contrario, la nuova giurisdizione « piena », comprensiva cioè non solo di diritti e interessi ma anche della tutela risarcitoria, è giurisdizione che per forza propria, in quanto deve accertare l’eventuale diritto del ricorrente al risarcimento, incide direttamente sul rapporto, ed è quindi in grado di determinare la formazione del giudicato peraltro vincolante, secondo i principi generali del processo, solo tra le parti, loro eredi ed aventi causa. Sotto questo profilo la nuova giurisdizione piena, in quanto incidente anche direttamente sul rapporto, è in grado di estendere il suo effetto caducatorio, oltre che agli atti provvedimentali impugnati, anche direttamente al contratto, se ed in quanto lo stesso giudice, non a caso dotato di giurisdizione « piena », sia in grado anche di compiere quella scelta discrezionale se determinarne o meno la caducazione per dichiarare il diritto del ricorrente o alla indizione di una nuova gara — nel caso che il vizio procedimentale imponga la necessità della valutazione di merito dell’amministrazione committente — o anche direttamente all’affidamento della commessa, sostituendosi cioè nell’esercizio di una discrezionalità già vincolata che, secondo la meno recente costruzione concettuale dell’annullabilità del contratto, era riservata alla parte, e cioè alla stessa amministrazione committente. Il profilo di diritto sostanziale si basa sulla considerazione che


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la scelta tra l’estensione o meno dell’effetto caducatorio al contratto già stipulato, ed eventualmente almeno in parte già eseguito, opera come passaggio obbligato della scelta tra assicurare al ricorrente la cui impugnativa sia giudicata fondata la tutela risarcitoria mediante lo strumento della reintegrazione in forma specifica ovvero attraverso un risarcimento per equivalente, che è discrezionalità non appartenente alla p.a. ma istituzionalmente propria del giudice in base alla regola di diritto comune (art. 2058 c.c.) ribadita con le stesse parole dell’art. 7 l. n. 205, secondo la quale il giudice, richiesto dalla parte danneggiata del risarcimento del danno subito, può disporre la reintegrazione in forma specifica, ma può quindi anche non disporla, con un margine di discrezionalità già riconosciuto dalla legge anche al giudice ordinario dell’actio ex lege aquilia, che non può quindi non ritenersi riconosciuta al giudice della giurisdizione esclusiva comprensiva della tutela risarcitoria (41). Ora, al di là, come già detto, delle discettazioni concettualistiche su nullità, annullabilità, inefficacia, ecc., il vero problema è se il giudice amministrativo investito della giurisdizione piena sugli atti di gara possa o meno, se richiesto dalla parte ricorrente, far cadere il contratto già stipulato ed eventualmente in corso di esecuzione anche senza l’impulso di parte della p.a. Quest’ultimo sarebbe in astratto concepibile come domanda (41)

Sul profilo della reintegrazione in forma specifica si veda per tutti A. TOMAS-

SETTI, Lesione dell’interesse legittimo e reintegrazione in forma specifica, in Foro amm.-

Tar, 2002, 1834 ss. il quale ritiene che nell’ambito del giudizio amministrativo la reintegrazione in forma specifica debba pur sempre essere rapportata alla situazione soggettiva oggetto di tutela; con la conseguenza che, in tema di giurisdizione generale di legittimità, la tutela non potrà che limitarsi all’annullamento dell’atto ed alla riedizione della attività amministrativa, non potendosi, per il tramite del risarcimento del danno, ottenere di più di quanto avrebbe potuto ottenersi attraverso l’ordinario giudizio di annullamento. In tema di giurisdizione esclusiva, d’altra parte, occorrerebbe operarsi una distinzione a seconda che la tutela riguardi la situazione di interesse legittimo, per il quale varranno le medesime considerazioni esposte in tema di giurisdizione generale di legittimità, ovvero di diritto soggettivo, rispetto al quale, tuttavia, la tutela estesa al rapporto dedotto in giudizio dovrebbe consentire il superamento del problema reintegratorio in considerazione della possibilità, per il giudice, di fornire tutela in via diretta per il tramite della declaratoria del diritto. Si veda anche, dello stesso A., Risarcimento e reintegrazione della situazione possessoria, in corso di stampa.


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azionata dalla stessa p.a. in via incidentale, sia pure in linea subordinata rispetto alla contestazione della pretesa caducatoria e risarcitoria del ricorrente: e proprio perciò chi scrive aveva in un primo tempo espresso l’opinione che la caducazione del contratto fosse possibile solo su impulso dell’amministrazione committente, parte, essa soltanto, del contratto che la più antica giurisprudenza amministrativa considerava soltanto annullabile, e come tale legittimata essa soltanto a provocarne l’annullamento. Ma poiché resta assai poco probabile che l’amministrazione attiva, normalmente convinta della piena legittimità del proprio operato, si induca a formulare, sia pure in via solo cautelare e subordinatissima, la domanda incidentale di caducazione anche del contratto, la soluzione ermeneutica sopra proposta, da ultimo avallata dal Consiglio di Stato, che ritiene trasferita la scelta discrezionale allo stesso giudice investito della giurisdizione piena, è da ritenere senz’altro preferibile in quanto più idonea a tutelare gli interessi del terzo ricorrente, sia pure con l’accorgimento istruttorio dell’acquisizione dalla p.a. di elementi fattuali utili ai fini dell’esercizio di tale discrezionalità. 14. In sintesi, se il vizio procedimentale riguarda un provvedimento successivo alla fattispecie negoziale, la caducazione del provvedimento può dar luogo ad inefficacia in senso stretto del contratto. Se invece riguarda un provvedimento anteriore o interno alla fattispecie negoziale, esso può tradursi in un’ipotesi di nullità relativa del contratto, che il giudice della giurisdizione « piena » può dichiarare o non dichiarare. In entrambi i casi lo stesso giudice della giurisdizione « piena » può avvalersi della discrezionalità attribuitagli dalla legge ai fini della scelta tra reintegrazione in forma specifica o risarcimento per equivalente. Ciò, ovviamente, al di fuori dell’ipotesi prevista dalla c.d. « legge obbiettivo » (42), giudicata costitu(42) Art. 14 del d.lgs. 20 agosto 2002, n. 190, sul quale si veda M. LIPARI, Le disposizioni processuali introdotte dal D.Lgs. n. 190/2002 in materia di infrastrutture strategiche, in F. CARINGELLA-G. DE MARZO (a cura di), La nuova disciplina dei lavori pubblici, 2003.


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zionalmente plausibile in quanto eccezionale (43), che per le grandi opere di valore « strategico » esclude espressamente la reintegrazione in forma specifica (44). Naturalmente la pronuncia del g.a. investito della giurisdizione non solo esclusiva (e cioè comprensiva di diritti e interessi), ma anche « piena » (e cioè comprensiva anche della tutela risarcitoria), sarà necessariamente limitata alla sola declaratoria del diritto del ricorrente, qualora il giudice lo ritenga meritevole della reintegrazione in forma specifica, all’affidamento della commessa, che soddisfa non solo il suo interesse patrimoniale al percepimento del relativo utile ma anche il suo interesse, patrimoniale e non patrimoniale, alla qualificazione idonea a costituire titolo per la partecipazione ad altre gare. La stipulazione del contratto resterà invece istituzionalmente riservata all’amministrazione attiva, ed eventualmente ottenibile, ove quest’ultima non si adegui al dictum del giudice, attraverso un procedimento di ottemperanza al giudicato. Tale costrutto presuppone ovviamente che resti fermo il nuovo riparto di giurisdizione cosı̀ come disegnato dal d.lgs. n. 80 del 1998 e dalla l. n. 205 del 2000, del quale com’è noto è stata messa in dubbio la legittimità costituzionale. Se esso dovesse cadere, si tornerebbe inevitabilmente all’ancien régime della tutela sdoppiata, e il nostro ordinamento si sarà inevitabilmente allontanato dal diritto europeo al quale, attraverso la concentrazione su di un unico giudice della tutela di diritti e interessi in alcune materie tra cui le commesse pubbliche, si era avvicinato attraverso la strada della giurisdizione esclusiva arricchita della tutela risarcitoria, senza compromettere la distinzione costituzionale tra diritti soggettivi e interessi legittimi, che anche il legislatore comunitario aveva demandato agli ordinamenti dei singoli Stati membri, e (43) Corte cost., 1o ottobre 2003, n. 303, con nota di A. MOSCARINI, Sussidiarietà e Supremacy clause sono davvero perfettamente equivalenti?, in corso di pubblicazione in Giur. cost., 2003, fasc. V. (44) Sul punto si rinvia allo scritto di M. LIPARI, Le disposizioni processuali introdotte dal D.Lgs. n. 190/2002 in materia di infrastrutture strategiche, in F. CARINGELLA-G. DE MARZO (a cura di), La nuova disciplina dei lavori pubblici, 2003.


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che è stata appieno preservata dalla c.d. « pregiudiziale amministrativa ». In questi termini, inevitabilmente dubitativi ma sostanzialmente adesivi rispetto all’ultima decisione del Consiglio di Stato, il discorso sul tema proposto deve concludersi, anche se l’attribuzione al Giudice della scelta discrezionale se far cadere il contratto oppure soddisfare l’interesse leso del terzo ricorrente mediante un risarcimento pecuniario susciterebbe lo stimolo ad ulteriori divagazioni su altre tematiche connesse, tra cui quella della natura, contrattuale o aquiliana, della responsabilità risarcitoria della p.a. (una volta operata la scelta del risarcimento per equivalente); quella dell’elemento soggettivo di tale responsabilità risarcitoria (solo per dolo o colpa grave, o anche per colpa tout court, semplicemente presunta), e quella infine, che non mi risulta essere stata ancora affrontata ma che la classe forense è istintivamente incline a sollevare, della possibile corresponsabilità solidale, nei limiti della ravvisabilità dell’elemento soggettivo dell’illecito ritenuto rilevante per la responsabilità risarcitoria della p.a., del controinteressato già avvantaggiato dal provvedimento illegittimo e da una già avvenuta almeno parziale esecuzione del contratto. Ma se si assecondasse l’impulso verso tali ulteriori ampliamenti si ricadrebbe, questa volta in modo ancor più colpevole, nel difetto di chi ricorre ad un espediente per svolgere un tema del tutto diverso da quello assegnatogli. Sembra perciò corretto limitarsi a segnalare le suddette tematiche, auspicando che esse possano formare oggetto di altri dibattiti.


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IL GIUDICE DELLE AUTORITÀ AMMINISTRATIVE INDIPENDENTI

SOMMARIO: 1. Modelli amministrativi e modelli di tutela giurisdizionale. — 2. Modelli di azione e modelli di organizzazione amministrativa. — 3. I modelli di azione delle autorità indipendenti: il modello procedimentale-partecipativo e quello dell’azione regolatrice. — 4. Modelli di azione delle autorità amministrative indipendenti e caratteri della tutela giurisdizionale: una giurisdizione che non ammette riparto in relazione all’esercizio di un potere neutrale. Una tutela accelerata a cognizione non sommaria. — 5. L’analisi delle norme attributive della giurisdizione esclusiva sugli atti delle autorità indipendenti. La funzione unificante della l. n. 205 del 2000. — 6. L’analisi della giurisprudenza: il giudice delle autorità indipendenti e le parti del processo. Legittimazione ed interesse a ricorrere. — 7. Il giudice delle autorità indipendenti ed il procedimento. La rilevanza del contraddittorio come elemento di legittimazione dell’intervento delle Autorità. Procedimento ed accertamento del fatto. — 8. Struttura del sindacato giurisdizionale e natura della discrezionalità delle Autorità indipendenti. La giurisdizione « piena » sull’interpretazione della legge. — 9. Sindacato giurisdizionale e discrezionalità tecnica delle Autorità. — 10. La giurisprudenza sulle valutazioni tecniche complesse ed il sindacato del giudice. Una giurisdizione adeguata al proprio oggetto. — 11. Il risarcimento del danno. — 12. L’intervento « regolatore » del giudice delle Autorità indipendenti: AGCM, ISVAP e Banca d’Italia. — 13. Il rito speciale e la sua forza espansiva. — 14. Tutela giurisdizionale sulle autorità indipendenti e network europeo. — 15. Alcune (provvisorie) conclusioni.

1. L’affermazione sullo scenario istituzionale delle autorità indipendenti continua, ancora oggi, ad essere avvertito come la rottura di equilibrio consolidato. Ancora di recente è stato ricordato (Schinaia) il titolo di un famoso studio di Predieri, — L’erompere delle autorità amministrative indipendenti —, capace di indicare ad un tempo l’affermazione e la diffusione del relativo modello organizzativo e la radicale novità da esso introdotto; e sempre di recente è stato affermato che le autorità amministrative indipendenti sono « fonti di scandalo » anche a proposito della tutela giurisdizionale, dal moDir. Proc. Amm. - 3/2004


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mento che su di esse « si può leggere tutto e il contrario di tutto, che vi sono giudici diversi per situazioni giuridiche simili e procedimenti processuali diversi a seconda che si impugnino provvedimenti dell’uno o dell’altra autorità » (Merusi). A ben vedere, peraltro, un esito del genere non può sorprendere, anche con riferimento alla tutela giurisdizionale: l’affermazione delle Autorità indipendenti coincide infatti, con l’affermazione di un modello organizzativo e funzionale — quello dell’amministrazione separata dal Governo e soggetta soltanto alla legge ed organizzata attorno al principio di imparzialità — che costituisce un radicale superamento del tradizionale modello che configura, invece, attraverso il principio di responsabilità ministeriale, l’amministrazione come un apparato comunque ed in ogni caso collegato con il Governo. L’introduzione di un numero crescente di figure riconducibili al modello dell’autorità indipendente e la riconduzione ad esso di figure già note nell’ordinamento (come avviene per la Banca d’Italia) appare finalizzata a garantire lo svolgimento di funzioni che — proprio per il deficit di indipendenza che caratterizza il modello ministeriale e la sua attività — non appaiono più esercitabili da quest’ultimo. Ora, l’introduzione di modelli organizzativi (e di azioni amministrative) del genere, se costituisce una discontinuità nella tradizionale organizzazione (ed azione) amministrativa, è destinata a trasferire i propri effetti anche sull’organizzazione della tutela giurisdizionale. Se infatti questa è, secondo un tradizionale modo di pensare, attuazione della legge (Chiovenda) questa attuazione non può prescindere dal modo in cui la legge struttura e organizza l’esercizio del potere pubblico, e dal tipo di garanzia che essa intende assicurare imponendo alcune forme organizzative ed alcune modalità di esercizio. Il diritto processuale conosce, d’altra parte, da tempo la presenza di tutele differenziate, e cioè strutturate secondo forme particolari in ragione dei rapporti cui le stesse hanno riferimento, ed in ragione dei meccanismi — negoziali o procedimentali — a seguito dei quali l’intervento giurisdizionale è destinato ad essere realizzato. Le tutele differenziate sono appunto, la testimonianza


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più evidente della speciale influenza delle situazioni sostanziali, e dei meccanismi negoziali o procedimentali ad esse collegati, sul processo giurisdizionale. Esiste dunque, una relazione obiettiva ed in un certo senso strutturale fra modelli di tutela (giurisdizionale e non giurisdizionale) e modelli di amministrazione, siano essi di organizzazione o di azione amministrativa; più precisamente al cambiamento dei modelli di organizzazione è spesso collegato un cambiamento del modello di azione amministrativa, ed al mutamento di essi si collega un cambiamento nelle forme e nell’organizzazione della tutela giurisdizionale, volte a tener conto, per assicurare l’effettività della tutela, alle garanzie che si sono intese assicurare al cittadino con le nuove forme di azione e di organizzazione amministrativa. Non a caso, infatti, un significativo filone di analisi della nuova disciplina generale del processo amministrativo è stata identificata nel parallelismo tra riforma dell’amministrazione e riforma della giurisdizione, sicché, accanto ad una amministrazione di risultato, si parla oggi, da parte di alcuni, di una giurisdizione (Clarich) o di un processo amministrativo di risultato (Sorrentino). 2. È noto che nell’ordinamento sembra possibile registrare la presenza di modelli diversi di azione amministrativa (Pajno). Accanto al modello tradizionale, che è quello autoritativo, caratterizzato dal fatto che l’Amministrazione provvede alle esigenze del cittadino con atti adottati da una posizione di supremazia, si sono progressivamente affermati il modello procedimentale-partecipativo, — che si connota per lo spostamento del baricentro dell’atto al procedimento —, il modello dell’azione regolatrice, che si iscriva in una decisa linea di tendenza di riduzione della sfera pubblica (rolling back the State) e che registra il progressivo abbandono, da parte dell’Amministrazione, di funzioni gestionali e l’assunzione, di compiti in senso lato di regolazione e di garanzia, nonché quello che può essere definito il modello gestionale, ovvero dell’azione effıcace, che consegue all’applicazione all’attività amministrativa del principio di separazione della


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politica dell’amministrazione, e che pone a base dell’attività amministrativa i principi di efficacia, di efficienza e di verifica del risultato raggiunto. I diversi modelli di azione amministrativa coesistono fra di loro e, pur apparendo legati ad alcune forme dell’organizzazione amministrativa, non sono esclusivi di esse. Non è questa la sede per studiare analiticamente l’intrecciarsi dei diversi modelli di azione amministrativa ed il legame di essi con le diverse forme dell’organizzazione amministrativa. Appare, comunque, palese che il modello di azione provvedimentale è quello proprio del modello organizzativo ministeriale e che la crisi di quest’ultimo — stretto fra l’affermazione del modello dell’amministrazione « plurale » e quello dell’amministrazione neutrale — comporta inevitabilmente la crisi del modello amministrativo autoritativo, nel duplice senso della crisi di un modello di azione legato ad un soggetto contrassegnato da un legame forte con l’organizzazione ministeriale ed inserito nel circuito dell’indirizzo politico-amministrativo, e della crisi di un modello di azione nel quale l’interesse pubblico non viene soddisfatto mediante la ponderazione discrezionale dei diversi interessi coinvolti e della soluzione da adottare in concreto, ma attraverso l’applicazione diretta della legge al rapporto preso in considerazione. 3. I modelli di azione amministrativa delle autorità indipendenti sono, in linea di massima, quello procedimentale partecipativo e quello dell’azione regolatrice. Il primo è, infatti, il modello proprio delle c.d. autorità di garanzia, chiamate alla tutela di interessi costituzionalmente protetti, e ad esercitare il proprio potere non mediante opzioni legate alla discrezionalità amministrativa, ma per il tramite dell’applicazione della legge in posizione di terzietà. Il modello procedimentale-partecipativo non è, come è noto, esclusivo delle autorità indipendenti, ma contrassegna normalmente anche l’esercizio dell’azione amministrativa in senso proprio; e non a caso la l. n. 241 del 1990 è la legge generale del procedimento amministrativo. Esso, tuttavia, costituisce la moda-


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lità di azione delle autorità indipendenti in un senso del tutto speciale. Nel procedimento amministrativo tradizionale la partecipazione procedimentale obbedisce allo scopo (prevalente) di consentire l’emersione nel procedimento di tutti gli interessi coinvolti, anche privati, allo scopo di selezionare quell’interesse coincidente con l’interesse generale; nel procedimento che si svolge dinanzi alle autorità indipendenti la partecipazione procedimentale ha, per un verso un valore, per dir cosı̀, di vero e proprio fattore di legittimazione, mentre per l’altro, costituisce un connotato strutturale che lo rende, in qualche modo, ineludibile. Sotto il primo profilo è stato ricordato come il contraddittorio processuale che caratterizza l’azione delle autorità indipendenti costituisca la conseguenza, in qualche modo naturale, della sottrazione dei provvedimenti delle autorità al circuito della responsabilità politica; venendo meno la legittimazione connessa con quest’ultima, è necessario che sussista quell’altro elemento di legittimazione democratica che è costituito dal contraddittorio completo e paritario. È forse, questa la ragione profonda che ha condotto a qualificare le autorità indipendenti come quasi giurisdizionali o paragiurisdizionali: per esse, infatti, si verifica in qualche modo ciò che si verifica per le autorità giurisdizionali, per le quali la legittimazione dipende non soltanto dalla circostanza che essi agiscano come organi dello Stato, ma dal fatto che le pronunce siano adottate dopo un contraddittorio pieno. Sotto il secondo profilo, deve essere ricordato che quella esercitata dalle autorità indipendenti è (prevalentemente) attività contenziosa in senso sostanziale: nella quale, cioè, il contraddittorio è il segno di un conflitto che l’amministrazione è chiamata a sciogliere con il proprio intervento. In questa prospettiva, il contraddittorio si atteggia come un vero e proprio connotato sostanziale. Il modello di azione partecipativo-procedimentale acquista, pertanto, il valore di una diretta conseguenza della esistenza di una situazione di contraddizione sul piano sostanziale. La natura contenziosa (o, come talvolta è stato detto, semi-


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contenziosa) dell’attività delle amministrazioni indipendenti è stata a lungo studiata, e sembra palesarsi non soltanto con riferimento a quella che può essere definita giustiziale in senso stretto (volta, cioè ad assicurare una protezione diversa da quella giurisdizionale) ma anche in relazione alle altre attività tipiche delle autorità indipendenti; come è reso evidente dal caso dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato, per la quale possono essere considerati contenziosi non solo i procedimenti di accertamento delle intese restrittive della libertà di concorrenza e di abuso di posizione dominante e quello concernente l’accertamento di operazioni di concentrazione, ma anche quelli che sembrano maggiormente avvicinarsi ai moduli tradizionali dell’agire amministrativo (quali l’autorizzazione in deroga al divieto di cui all’art. 2 della l. n. 287 del 1990) e quelli relativi ad indagini preliminari o conoscitive. Il primo, infatti, è costruito dal Regolamento emanato con il d.P.R. n. 461 del 1991 come un procedimento (contenzioso) che ha lo scopo di fare emergere un conflitto e di risolverlo; i secondi appaiono, invece, volti ad identificare situazioni di conflitto latenti o potenziali. Anche quello che è stato definito il modello dell’azione regolatrice non è esclusivo delle autorità amministrative indipendenti, anche se le caratterizza in modo specifico, ed in particolare quelle che sono identificate come autorità di regolazione in senso proprio. Qui l’essenza del fenomeno è dato dalla circostanza che il governo di un determinato settore non si realizza più attraverso provvedimenti predisposti dall’autorità amministrativa, — a carattere generale ovvero a carattere puntuale — ma attraverso la predisposizione di regole certe, di direttive ed indirizzi volti ad attuare un interesse pubblico oggettivo, ed a realizzare una missione indicata e definita direttamente dalla legge, e per tale ragione sottratta all’indirizzo politico. Il modello dell’azione regolatrice riguarda cosı̀ la predisposizione delle direttive concernenti la produzione e l’erogazione di servizi di pubblica utilità, la valutazione di istanze, reclami e segnalazioni, l’elaborazione di schemi di rinnovo e di variazione di atti di concessione o autorizzazione, la predisposizione di proce-


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dure di conciliazione e di arbitrato, la fissazione di tariffe base e di parametri di riferimento e l’individuazione dei diversi componenti delle tariffe medesime, l’esercizio di funzioni di vigilanza la verifica dei bilanci, e dei dati relativi alla proprietà di soggetti autorizzati o concessionati. Si tratta di compiti ed attività assai diversi fra di loro, ma tutti riconducibili all’esigenza di governare e regolare il settore di intervento delle autorità, allo scopo di garantire il rispetto di valori fondamentali, quali ad esempio quelli di libertà economica, e la realizzazione di scelte — quali l’instaurazione di un regime di mercato in settori originariamente sottratti ad esso — ritenuti a tal fine indispensabili dal legislatore. Il modello di azione procedimentale-partecipativa e quello dell’azione regolatrice sono, come è ovvio, soltanto logicamente distinti: nella realtà essi sono spesso strutturalmente intrecciati e si sovrappongono nell’esercizio delle funzioni delle diverse attività. L’azione regolatrice è, ad esempio, sempre procedimentalizzata, ed il suo esercizio interessa anche soggetti che tradizionalmente vengono ricompresi fra le autorità di garanzia, come l’Autorità per le garanzie delle telecomunicazioni (art. 1 comma 6, l. 31 luglio 1997, n. 249), ed autorità di vigilanza, come la Banca d’Italia, che esercitano funzioni antitrust nei confronti delle aziende e degli istituti di credito (art. 20, comma 2, l. n. 287 del 1990). Si tratta di una situazione che, se, da una parte, deriva dalla molteplicità e varietà delle funzioni che sono dalle leggi attribuite alle singole autorità, dall’altra evidenzia che la distinzione tra autorità di regolazione ed autorità di garanzia, se pure intercetta differenze reali, non può essere utilizzata per contrapporre le une alle altre, limitando sostanzialmente la nozione di autorità indipendente a quelle c.d. di garanzia. In realtà, infatti, la regolazione costituisce, talvolta, un modo di assicurare il perseguimento di alcuni valori costituzionalmente garantiti, come è testimoniato dall’Autorità per la garanzia nelle telecomunicazioni; mentre il compito di realizzare il mercato in settori tradizionalmente sviluppa-


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tisi al di fuori di esso, per un verso costituisce un modo di realizzare i diritti di libertà economica (e sotto questo profilo deve essere riguardata l’opera dell’Autorità per l’energia elettrica e per il gas), e per l’altro può essere assicurata anche attraverso interventi puntuali (come l’esperienza dell’Antitrust rende palese). 4. Se quelle sopra indicate costituiscono le modalità di azione amministrativa delle autorità indipendenti, dalla considerazione di esse derivano significative indicazioni per la configurazione della tutela giurisdizionale e del sindacato del giudice. Poiché, infatti, l’effettività della tutela sta nella sua attitudine a consentire a chi agisce di conseguire l’utilità che il soggetto si riproponeva attraverso la propria iniziativa sul piano del diritto sostanziale, e poiché tale utilità è perseguita su tale piano, in riferimento ad una azione procedimentalizzata o informata a finalità di regolazione in senso generale, la tutela giurisdizionale più idonea al conseguimento dell’utilità perseguita è quella che consente un sindacato approfondito sul procedimento e sull’esercizio procedimentalizzato del potere, e che è capace ad un tempo sia di effettuare lo scrutinio dell’attività di regolazione sia, a certe condizioni, di assicurarne i benefici. Si tratta, in particolare, di un sindacato che consente di verificare che tutti i presupposti di fatto necessari per la definizione della fattispecie siano stati correttamente determinati ed abbiano trovato ingresso nel procedimento; che tutti gli adempimenti e gli accertamenti istruttori siano stati effettuati; che nel procedimento siano presenti tutti i soggetti necessari; che sia emerso nei suoi termini oggettivi il conflitto che si intende definire; che siano presenti tutti i soggetti che costituiscono le parti del conflitto; che sia garantita la possibilità di verificare la carenza e l’adeguatezza, anche in termini di giudizio prognostico, della misura di soluzione del conflitto; che siano stati adeguatamente accertati e tenuti presenti tutti i fatti presupposti con riferimento alla fattispecie da regolare; che vi sia stata una adeguata considerazione, in termini di giudizio prognostico, degli effetti della regolazione. È dunque la considerazione delle modalità procedimentali at-


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traverso cui il bene della vita viene assicurato (o negato) dall’intervento delle autorità indipendenti a dettare i connotati del (futuro) sindacato giurisdizionale e della relativa tutela. Si tratta, di un esito del tutto coerente con la scelta di pervenire all’utilità che costituisce il bene della vita — la realizzazione del diritto fondamentale — non attraverso l’affidamento al singolo interessato del rimedio giurisdizionale (come avviene nel sistema americano) ma attraverso una tutela in via oggettiva assicurata da una autorità chiamata esclusivamente all’applicazione della legge. Si svela e si manifesta, cosı̀, il volto vero della giurisdizione esclusiva che tradizionalmente viene affiancata dall’ordinamento, agli atti e provvedimenti delle autorità indipendenti posti in essere secondo i moduli di azione che di essi sono propri. Questa giurisdizione è, innanzi tutto esclusiva non tanto nel senso che la cognizione affidata al giudice si estende, oltre che alle posizioni di interesse legittimo, ai diritti soggettivi, ma nel senso più proprio, che è una giurisdizione che non ammette riparto, e che per tale ragione è dalla legge affidata ad un solo giudice. C’è un legame significativo tra la tutela degli interessi fondamentali, di rilievo costituzionale, garantiti dalle autorità indipendenti, e la giurisdizione esclusiva: la presenza di interessi del genere, se richiede e postula la possibilità della tutela giurisdizionale, esige con altrettanto chiarezza che tale tutela sia esclusiva, e cioè affidata con chiarezza ad un solo giudice. In questa prospettiva, il dato significativo della giurisdizione esclusiva non è, almeno, in linea immediata, quello della determinazione dei poteri affidati al giudice, e neanche quello dell’identificazione delle situazioni giuridiche tutelate, ma quello della indicazione per legge del giudice competente a conoscere delle controversie sulle autorità. Si tratta di uno schema generale, che vale qualunque sia il giudice indicato come competente, e dunque anche per il giudice ordinario, in tutti quei casi in cui la legge lo designa come competente a conoscere delle controversie sugli atti delle autorità, come avviene per il Garante della privacy (art. 29, l. 31 dicembre 1976, n. 675).


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La regola dell’assegnazione per legge ad un giudice (esclusivo) è rispettata anche quando la legge indica, con riferimento alla medesima autorità, una competenza esclusiva del giudice amministrativo ed una competenza del giudice ordinario (art. 33 della l. n. 287 del 1990, che attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo i ricorsi avverso i provvedimenti adottati sulla base delle disposizioni di cui ai titoli dal I al IV, ed al giudice ordinario le azioni di nullità e risarcimento del danno, nonché i ricorsi intesi ad ottenere i provvedimenti di urgenza). Anche in questo caso, infatti, ciò che conta è che il riparto è effettuato dalla legge, e non dalla clausola generale che discrimina la competenza giurisdizionale in base alle situazioni soggettive. La giurisdizione sugli atti delle autorità indipendenti riguarda, poi, l’esercizio di un potere che, almeno nella maggior parte dei casi, non comporta spendita di discrezionalità amministrativa, e cioè, ponderazione di interessi contrastanti in funzione della realizzazione dell’interesse pubblico, ma semmai di discrezionalità tecnica, volta a dare applicazione a regole tecniche alle quali una norma giuridica attribuisca rilevanza. Si tratta di una situazione che, come si vedrà, si proietta ampiamente sul sindacato del giudice e sulla sua portata. In questa ottica, infatti, i provvedimenti adottati dalle autorità non presentano profili di merito amministrativo, inteso come valutazione dell’interesse pubblico concreto, e quindi profili di « competenza riservata » delle autorità, correlativi alle valutazioni di merito. Tale affermazione appare facilmente comprensibile con riferimento almeno alla maggior parte dei provvedimenti dell’Autorità garante della concorrenza o del mercato; la sua esattezza deve, peraltro, pur con tutte le cautele del caso, essere ribadita anche a proposito dei provvedimenti di regolazione in senso stretto, quali ad esempio, quelli normativi dell’Autorità dell’energia elettrica e del gas, volti a stabilire modalità e condizioni delle importazioni (art. 10, comma 2, d.lgs. n. 79 del 1990), a procedere alla determinazione delle tariffe, e con riferimento a quelli della stessa Autorità di garanzia per le telecomunicazioni (elaborazione dei piani di assegnazione delle frequenze; definizione dei criteri


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per l’interconnessione e l’accesso alle infrastrutture di telecomunicazione; predisposizione degli schemi di disciplinare per il rilascio delle concessioni e autorizzazioni). In tali casi, infatti, si è prevalentemente di fronte a scelte sostanzialmente operate sulla base di regole e valutazioni tecniche, in vista di un obiettivo fissato dalla legge. Ciò che quindi caratterizza tali scelte non è il fatto che siano in assoluto prive di discrezionalità — esse in linea generale sono manifestazioni di discrezionalità tecnica — ma la circostanza che le scelte tecniche in questione siano adottate al di fuori del circuito dell’indirizzo politico, in ragione di un valore — il mercato concorrenziale, il pluralismo dell’informazione — che è indicato direttamente dalla legge e considerato vincolante senza la mediazione della scelta e della discrezionalità amministrativa. La giurisdizione delle autorità deve poi, essere effettuata tenendo conto della speciale garanzia assicurata ai valori alla cui tutela esse sono preposte, attraverso l’esercizio di un potere neutrale. Si tratta, infatti, di stabilire come si esercita un sindacato giurisdizionale su di un potere neutrale. Come si vedrà, la risposta sembra condurre, per un verso, ad una speciale valorizzazione del sindacato sul procedimento e sul rispetto del principio del contraddittorio, per l’altro alla costruzione di un sindacato di tipo cassatorio, volto cioè a verificare la conformità a legge della soluzione adottata, ed a non sovrapporre il contenuto dell’attività del giudice a quello dell’autorità. La giurisdizione del giudice amministrativo appare, poi, ulteriormente connotata dal carattere dell’esclusività. Proprio, infatti, perché tale sindacato non trova alcun limite nella sua strutturale correlazione con un certo tipo di situazioni soggettive, ma soltanto nella relazione con una serie di materie o con una tipologia di controversie, è il giudice stesso che concorre a delineare l’ambito e la portata dei propri poteri in relazione agli atti o ai rapporti, e più in generale alle fattispecie sottoposte al suo esame. Il giudice esercita il controllo sul potere esercitato dalle autorità indipendenti con gli atti oggetto di giudizio, e, sulla scorta


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delle domande delle parti, ed alla luce delle disposizioni di legge che conformano i suoi poteri, determina quali siano, in concreto, le tecniche di tutela applicabili, fra quelle a sua disposizione, per pervenire ad un sindacato coerente ed efficace, oltre che rispettoso del quadro legislativo. In un certo senso, il giudice delle autorità indipendenti esercita anch’egli quello che, secondo Mario Nigro è uno dei compiti fondamentali della giustizia amministrativa, e cioè il compito di cooperare all’emersione della situazione soggettiva, che può essere di interesse legittimo, ma anche di diritto soggettivo. È in una logica del genere, che è stato, probabilmente, affermato, con riferimento all’attività delle autorità indipendenti, che l’interesse legittimo si prospetta come una manifestazione di un diritto fondamentale quando si tratta di tutelare quest’ultimo nei confronti dell’esercizio del potere, e che, in corrispondenza dei diritti fondamentali, può delinearsi ora la sequenza norma-potere-fatto, ora la sequenza norma-fatto (Merusi). In altri termini, la determinazione della situazione soggettiva che costituisce manifestazione del diritto fondamentale, costituisce la conseguenza dell’analisi del potere e dei suoi rapporti con la legge ed i fatti, e non un dato che determina a priori le condizioni e le tecniche di tutela. La considerazione delle modalità di azione amministrativa delle autorità indipendenti evidenzia, infine un ulteriore profilo significativo riguardo alle forme della tutela giurisdizionale. È stato, affermato che lo Stato totalizzante delle programmazioni amministrative è stato ormai sostituito dallo Stato del mercato, che la pubblica amministrazione è una componente del mercato, la quale deve dare certezze temporali ai privati, e che quindi deve essere reso certo il tempo del procedimento amministrativo (Merusi). Nello Stato del mercato c’è, pertanto, una relazione qualificata fra tempo e procedimento amministrativo: non soltanto dal punto di vista della certezza, ma anche dal punto di vista dell’efficacia delle misure adottate. Una situazione analoga si verifica anche con riferimento alla tutela giurisdizionale: nello Stato del mercato e, più in generale,


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nella società della comunicazione, il tempo della tutela non è una variabile indipendente, ma una condizione della sua effettività. Diviene cosı̀, decisivo, il rapporto tempo-processo; e poiché la tutela deve tendenzialmente essere reale e stabile, alle forme (generali) di tutela cautelare immediata ma a cognizione sommaria, vanno progressivamente sostituendosi forme speciali di tutela a cognizione anticipata ma non sommaria. Le modalità di azione amministrativa dello Stato del mercato, la cui azione incrocia e chiama in discussione diritti fondamentali, facilitano cosı̀, la predisposizione di forme di tutela giurisdizionale differenziate per le autorità indipendenti, nelle quali il tempo della protezione giurisdizionale, non è più soltanto quella della tutela cautelare a cognizione sommaria, ma quella della tutela accelerata a cognizione piena. 5. L’enucleazione, cosı̀ realizzata, dei caratteri della tutela giurisdizionale nei confronti delle autorità indipendenti, quale emerge dalla considerazione del collegamento tra i modelli di azione amministrativa e le forme della protezione giudiziaria, esige, adesso, una verifica sia alla stregua della disciplina positiva posta dalla legge con riferimento alle autorità indipendenti, sia con riferimento agli indirizzi giurisprudenziali formatisi negli ultimi anni. Quanto al primo dei profili di verifica indicati, il dato che deve essere sottolineato è che non esiste una disposizione di legge che attribuisce al giudice amministrativo la giurisdizione esclusiva sugli atti e provvedimenti delle autorità indipendenti; al contrario, sono sempre le singole disposizioni di legge sulle diverse autorità ad indicare il giudice competente a conoscere delle relative controversie e ad attribuire la tutela giurisdizionale al giudice amministrativo. Si tratta, di un esito che, a ben vedere, non può destare sorpresa, e ciò sotto diversi profili. Quella sulle autorità amministrative indipendenti è, innanzi tutto, come dicono i francesi, una legislazione circostanziale: una legislazione, cioè, che prevede il ricorso ad un modello speciale,


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di organizzazione amministrativa quale è quello delle autorità indipendenti, per ragioni specifiche e per far fronte a circostanze e problemi concreti. Anche l’identificazione del giudice chiamato a conoscere delle controversie sugli atti delle autorità non può, pertanto che essere anch’essa circostanziale. In secondo luogo, deve, essere tenuto presente che appartiene proprio alla configurazione tradizionale della giurisdizione esclusiva il suo legame con materie legislativamente identificate, e comunque con categorie di atti e di controversie previamente identificate. La giurisdizione esclusiva è una giurisdizione il cui ambito oggettivo è identificato per legge: non può, pertanto sorprendere che tale ambito non sia identificato una volta per tutte, in relazione a tutte le possibili autorità indipendenti, ma con riferimento alle « materie » di intervento delle medesime. È in questa ottica che debbono pertanto essere considerate le singole disposizioni che, nelle diverse leggi istitutive disciplinanti le diverse autorità, identificano il giudice dotato del potere di decidere nei confronti degli atti delle autorità; identificando talvolta anche forme semplificate o accelerate di definizione del processo. Devono, cosı̀, essere ricordati l’art. 33, comma 1, della l. n. 287 del 1990, che attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (ed alla competenza funzionale del Tar del Lazio) « i ricorsi avverso i provvedimenti amministrativi adottati sulla base delle disposizioni di cui ai titoli dal I al IV della presente legge »; l’art. 2, comma 25, della l. n. 481 del 1995, che demanda alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (ed alla competenza del Tar ove ha sede l’Autorità) i « ricorsi ovvero gli atti ed i provvedimenti » dell’Autorità per i servizi di pubblica utilità (ed in particolare dell’Autorità per l’energia elettrica e per il gas); l’art. 7 della l. n. 109 del 1994 che demanda al giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva le controversie sui provvedimenti dell’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici; l’art. 1 comma 26 della l. n. 249 del 1997 che fa lo stesso con riferimento all’impugnazione dei provvedimenti dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni; l’art. 7 del d.lgs. n. 74 del 1992, come modificato dal d.lgs. n. 67 del 2000, che attribuisce


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alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo i ricorsi avverso le decisioni definitive dell’Autorità in materia di pubblicità ingannevole e comparativa; analoga previsione è contenuta nell’art. 10, comma 10 della l. n. 28 del 2000, con riferimento ai provvedimenti dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni in tema di violazione delle disposizioni sulla parità di accesso ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali e referendarie. Alla giurisdizione dell’AGO (ma, alternativamente, alla tutela del Garante) è, invece, affidata sia la tutela diretta dei diritti dell’interessato in relazione al trattamento dei dati personali sia l’opposizione ai provvedimenti del medesimo Garante (art. 29, commi 1 e 8 della l. n. 675 del 1996); alla medesima giurisdizione sono attribuite sia le azioni di nullità e di risarcimento del danno in materia antitrust (art. 33, comma 2, l. n. 287 del 1990) che, con riferimento alla pubblicità ingannevole, le azioni in materia di concorrenza sleale, a norma dell’art. 2958 c.c., ed alla pubblicità comparativa, le controversie in materia di atti compiuti in violazione del diritto di autore, del marchio di impresa e delle denominazioni di origine riconosciute e protette (art. 7, comma 13, d.lgs. n. 74 del 1992). Alcune disposizioni attributive della giurisdizione esclusiva prevedono, altresı̀, forme semplificate di tutela o riti speciali. Merita, in proposito, di essere segnalato l’art. 1 comma 27 della l. n. 249 del 1997, che ha previsto, per il processo riguardante gli atti dell’Autorità per le telecomunicazioni, il rito speciale che è stato successivamente esteso a tutte le autorità indipendenti dalla l. n. 205 del 2000. Sulla materia è intervenuta, successivamente, la l. 21 luglio 2000 n. 205 che reca una serie di disposizioni riguardanti la giurisdizione esclusiva e le autorità indipendenti. Acquista, in proposito una specifica rilevanza l’art. 4 della l. n. 205 del 2000, che dispone l’applicabilità del rito speciale in esso previsto nei giudizi davanti agli organi di giustizia amministrativa aventi ad oggetto i provvedimenti adottati dalle autorità amministrative indipendenti.


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La norma è stata intesa non soltanto come una disposizione che estende il rito speciale ai processi riguardanti l’impugnazione degli atti di tutte le autorità amministrative indipendenti, ma anche come una disposizione abrogativa di tutte quelle incompatibili con l’attribuzione al giudice amministrativo della giurisdizione sugli atti dell’Autorità e con il procedimento accelerato ivi previsto (Merusi). L’interpretazione sopra ricordata appare animata dall’intento di stabilire un trattamento processuale comune per tutte le autorità indipendenti; non sembra, tuttavia, che essa possa essere condivisa. L’art. 4 della l. n. 205 del 2000 non è una disposizione generale attributiva della giurisdizione al giudice amministrativo, ma una norma sulla struttura del processo, e che impone l’applicazione del rito speciale « nei giudizi dinanzi agli organi di giustizia amministrativa » nei casi della stessa indicati, fra i quali anche quelli concernenti l’impugnazione dei provvedimenti delle autorità amministrative indipendenti. La norma, pertanto, introduce il rito speciale per tutti i casi in cui norme attributive della giurisdizione alle diverse autorità prevedano il potere di decidere del giudice amministrativo. Che, poi, l’art. 4 della l. n. 205 del 2000 non sia una norma generale attributiva della giurisdizione, ma una norma sul rito, è reso palese non soltanto dal suo tenore testuale, ma anche dal fatto che la stessa l. n. 205, quando ha voluto introdurre norme attributive della giurisdizione esclusiva, lo ha fatto espressamente, prevedendo la devoluzione al giudice amministrativo di interi blocchi di competenze (artt. 6 e 7 nella parte in cui introduce il nuovo testo degli artt. 33 e 34 del d.lgs. n. 80 del 1998). La stessa disposizione di cui all’art. 4 della l. n. 205 del 2000 interviene disponendo l’applicabilità del rito speciale ad una serie di giudizi già di competenza del giudice amministrativo; essa, pertanto, non obbedisce allo scopo di ricondurre al medesimo giudice controversie diverse, rispetto alle quali lo stesso giudice appariva sfornito del potere di decidere. L’art. 4 della l. n. 205 del 2000, non costituisce, cosı̀, una


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norma attributiva della giurisdizione esclusiva nei confronti delle autorità indipendenti; ciò, peraltro, non significa che nella stessa legge non siano presenti disposizioni in grado di operare sulla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Si tratta, in particolare, dell’art. 7, che nella parte in cui affida alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in materia di pubblici servizi, e tra esse, anche quelle « afferenti alla vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato mobiliare ». Non è questa la sede per chiarire l’ampiezza e la portata della norma in questione; certo è comunque che essa è una norma attributiva della giurisdizione esclusiva, sicché essa sembra attirare in tale alveo tutte le controversie che hanno per oggetto l’attività della Consob, della Banca d’Italia e dell’ISVAP, riportando al giudice amministrativo fattispecie prima affidate al giudice ordinario. Non può quindi essere condiviso quell’orientamento della Cassazione che tende ad isolare ipotesi di giurisdizione ordinaria (non affidate al giudice esclusivo), collegate con profili di responsabilità per l’esercizio (ovvero per il mancato esercizio) della vigilanza sul settore affidato all’autorità. Si tratta di un esito che sembra contrastare con l’indicazione esplicita a tutto tondo contenuta nella legge, mentre non appare utilizzabile, per escludere in tali ipotesi la giurisdizione del giudice amministrativo, la devoluzione all’AGO delle controversie « meramente risarcitorie ». L’inciso contenuto nell’art. 33, comma 2, lett. e del d.lgs. n. 80 del 1998 riguarda, infatti, le controversie riguardanti il « danno alla persona o a cose ». Destinate ad incidere sulla giurisdizione esclusiva sono anche le disposizioni contenute nel nuovo testo dell’art. 35 del d.lgs. n. 80 del 1998, introdotto dal medesimo art. 7 del d.lgs. n. 80 del 1998. Si tratta, peraltro, non di disposizioni sull’attribuzione della giurisdizione esclusiva, ma sui poteri del giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva (ed anche nel giudizio di legittimità, al quale si riferisce l’art. 35, comma 4), sia istruttori che decisori. La possibilità, per il giudice amministrativo di pronunciare


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quale giudice esclusivo, « il risarcimento del danno ingiusto », non sembra, d’altra parte che possa operare nel senso di incidere su clausole di legge, attributive della giurisdizione al giudice ordinario, con riferimento a controversie riguardanti autorità indipendenti, la cui attività non possa essere ricompresa nella nozione di servizio pubblico; la disposizione di cui all’art. 35, comma 1, del d.lgs. n. 80 del 1998, non è, infatti, come si è visto, una norma attributiva della giurisdizione esclusiva. L’analisi dei dati normativi conferma, pertanto, che l’attribuzione al giudice amministrativo della giurisdizione esclusiva nei confronti delle Autorità indipendenti rimane, in linea di massima, affidato a norme specifiche e non a clausole generali, e che la l. n. 205 del 2000 non contiene clausole di questo tipo. La legge, infatti, ha inteso operare non sull’attribuzione della giurisdizione, ma sulla struttura e sulla conformazione del processo amministrativo nei riguardi delle autorità indipendenti, nonché sui poteri, istruttori e decisori del giudice. Se si vuole, la funzione unificante svolta dalla l. n. 205 sta non nella generale attribuzione di una competenza giurisdizionale generalizzata al giudice amministrativo, ma nella previsione di un unico tipo di processo per tutti i giudizi nei confronti delle autorità indipendenti. In questa ottica, acquista un rilievo decisivo la disposizione del nuovo rito di cui all’art. 23-bis, comma 3 della l. n. 1034 del 1971, volta in linea di principio ad evitare, ove possibile, il ricorso a misure cautelari e la loro sostituzione con provvedimenti che rapidamente definiscono nel merito la controversia. La disposizione segna, plasticamente, il passaggio da un processo a cognizione sommaria urgente ad un processo a cognizione piena accelerata. L’esame evidenzia altresı̀ che alla scelta del legislatore, di istituire le varie autorità indipendenti come strumenti di tutela oggettiva di interessi costituzionalmente rilevanti, anche attraverso una attività di regolazione di settori rilevanti, si accompagna la scelta tendenziale di una tutela giurisdizionale affidata ad un giudice esclusivo, chiamato ad effettuare un sindacato sull’esercizio


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di un potere neutrale, secondo forme che fanno del rapporto tempo-processo un requisito costitutivo dell’effettività, e che per tale ragione appaiono volte ad assicurare, ad un tempo, la tempestività della decisione e la sua non sommarietà. 6. Una analisi che i più recenti indirizzi del giudice amministrativo nel giudizio riguardante gli atti delle autorità indipendenti consente, ad un tempo, di cogliere la progressiva costruzione del giudizio relativo come sindacato sull’esercizio del potere neutrale, la messa a fuoco di alcuni degli elementi ritenuti decisivi per l’esercizio di tale sindacato, nonché di fornire alcune provvisorie risposte ad alcuni dei problemi più ampi, sopra evidenziati, a proposito della giurisdizione sugli atti delle autorità. Tutti i giudici — e quindi anche il giudice delle autorità indipendenti — si definiscono, peraltro non da soli, ma in relazione alle parti. È per tale ragione che è cosı̀ importante la nozione di rapporto giuridico processuale, che, segnalando l’avvenuta costituzione della relazione tra le parti e il giudice, segnala che da quel momento si è di fronte ad un processo giurisdizionale. Si capisce, pertanto, come anche a proposito del giudice delle autorità indipendenti acquistino un rilievo decisivo le questioni che definiscono ed identificano le parti, e cioè quelle della legittimazione e dell’interesse a ricorrere, e del contraddittorio. Deve in proposito essere rilevato che le regole generali in tema di legittimazione, interesse a ricorrere, e di identificazione dei controinteressati trovano applicazione anche nel giudizio riguardante gli atti ed i provvedimenti delle autorità. In esso, peraltro, acquista una specifica rilevanza la considerazione del procedimento in concreto seguito dall’autorità, almeno nella misura in cui esso evidenzia una controversia sostanziale, che l’autorità medesima è chiamata a dirimere. È quanto avviene a proposito dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, in ordine alla quale è stato appunto affermato che, rispetto ad un provvedimento dell’Autorità in applicazione di regole di concorrenza, tutti i soggetti diversi dai destinatari, siano essi consumatori o imprese concorrenti, sono titolari di


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un mero interesse diffuso, e come tali non hanno un autonomo interesse ad agire (Tar Lazio, Sez. I, 23 dicembre 1997 n. 2216). È in questa medesima ottica che è stato dichiarato inammissibile il ricorso proposto da una associazione di difesa dei consumatori nei riguardi di un provvedimento dell’Autorità, autorizzativo di una operazione di concentrazione (Tar Lazio, Sez. I, 14 novembre 2001 n. 9354). Si tratta di un indirizzo giurisprudenziale che appare significativamente confermato dalla giurisprudenza della Cassazione, la quale ha precisato che, alla luce della caratterizzazione tecnica degli istituti delineati dalle l. n. 287 del 1990, lo strumento risarcitorio connesso alla violazione dei divieti di intese restrittive della libertà di concorrenza e di abuso di posizione dominante, rimesso alla competenza esclusiva della Corte di appello, non è aperto, in quanto tale, alla legittimazione attiva dei singoli cosiddetti « consumatori finali » (Cass., Sez. I, 9 dicembre 2002 n. 17475). Come è stato osservato, tale indirizzo evidenzia una distanza con l’ordinamento comunitario, nel quale la legittimazione all’impugnazione delle decisioni in materia di concorrenza è ampia, essendo riconosciuta ad ogni soggetto che dimostri di essere individualmente e direttamente interessato dal provvedimento (TesauroTodino). Gli indirizzi giurisprudenziali sopra ricordati appaiono, peraltro, applicabili allorché l’intervento dell’autorità è posto in essere con atti puntuali; essi, invece, non sono utilizzabili in presenza di una azione regolatrice in senso proprio, che, in quanto tale, ha carattere generale. In tali casi, deve essere riconosciuta la legittimazione all’impugnazione a tutti i soggetti comunque incisi in via immediata e diretta dall’azione regolatrice, mentre la giurisprudenza tende a dare rilievo specifico ai conflitti di interesse fra i soggetti regolati, attraverso la postulazione della qualità di parti necessarie dei medesimi. È stato, cosı̀, affermato che le aziende distributrici di energia elettrica assumono veste di controinteressati nella controversia relativa all’impugnazione del provvedimento col quale l’Autorità per l’energia, nel ripartire autorizza-


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zioni all’importazione di energia elettrica dall’estero, di fatto decurta, a favore delle aziende medesime, le quote già assentite ad ENEL (Cons. Stato, Sez. VI, 3 aprile 2001 n. 1995). 7. Come si è già osservato, dalla considerazione dalle modalità di azione delle autorità indipendenti deriva una particolare rilevanza del procedimento ai fini della tutela giurisdizionale. L’intervento del giudice deve realizzare sia un sindacato che consenta una verifica attenta di tutto lo svolgimento dell’azione procedimentale, sia un controllo che colga la speciale rilevanza del contraddittorio, e più in generale dei principi del procedimento, come fonte di legittimazione dell’intervento dell’autorità. Rinviando ad un momento successivo l’esame delle questioni attinenti all’intensità (e alla configurazione) dal sindacato giurisdizionale, si deve, adesso osservare che il pieno rispetto del principio del contraddittorio e, più in generale, dei principi generali di partecipazione, costituisce la proiezione, sul piano procedimentale, dell’indipendenza dell’Autorità. Ne deriva che la violazione di tali principi non implica soltanto il mancato rispetto delle norme che disciplinano lo sviluppo dell’azione dell’autorità, ma il venir meno in concreto dell’indipendenza astrattamente affermata con l’azione esercitata. Il provvedimento in violazione del principio del contraddittorio, è per ciò stesso, un provvedimento partigiano, e quindi posto in essere al di fuori del potere neutrale e della sua legittimazione. Questo speciale rilievo del contraddittorio e dei principi del procedimento sembra essere stato in qualche modo colto dalla giurisprudenza del giudice amministrativo, allorché ha censurato l’iter procedimentale seguito dall’autorità per violazioni tali da compromettere il contraddittorio o realizzare una impropria o illegittima compressione dei diritti di difesa. La particolare rilevanza del contraddittorio e della sua violazione costituisce, d’altra parte, una manifestazione della violazione del principio della parità delle armi, che costituisce il principio stesso che connota la nozione di mercato. Si comprende, pertanto, come risulti decisiva la determina-


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zione del criterio di accertamento della violazione del principio del contraddittorio. Questo, d’altra parte, appare strutturalmente connesso con la peculiare rilevanza del vizio procedimentale dedotto (Sez. VI, n. 2199 del 2002, n. 4362 del 2002); sicché appare evidente che in tal modo, viene, dal giudice esercitato un sindacato sulla intensità del pregiudizio alle esigenze del contraddittorio che la dedotta violazione ha registrato, in conformità a quanto stabilito anche dalla giurisprudenza comunitaria. Tale sindacato sull’intensità e sulla rilevanza del principio del contraddittorio consente di stabilire quando la riapertura del medesimo appaia necessaria; riapertura che è stata ritenuta necessaria non a seguito di qualunque cambiamento a seguito delle risultanze istruttorie, ma, in presenza di una proposta aggiuntiva di sanzione (Cons. Stato, Sez. VI, n. 4362 del 2002). Che poi il principio del contraddittorio sia la proiezione procedimentale del principio di parità delle armi come regola fondativa del mercato, risulta palese dalla giurisprudenza del giudice amministrativo, che ha precisato che esso impone che nel procedimento anticoncorrenziale le imprese abbiano una conoscenza del fascicolo pari a quella di cui dispone l’Autorità garante, anche se è stato escluso che tale principio risulti violato ove nel fascicolo non venga incluso un parere acquisito dall’Autorità in un diverso procedimento (Sez. VI, n. 2199 del 2002). Ciò che comunque colpisce in tale prospettazione è che un principio destinato a regolare i rapporti tra imprese, si trasferisce, a seguito dell’azione procedimentalizzata dell’Autorità a garanzia del mercato, nei rapporti fra questa e le imprese. La speciale rilevanza del procedimento è poi alla base di un recente indirizzo giurisprudenziale, che integrando quelli precedenti, volti ad escludere per gli atti di regolazione, in quanto atti normativi a contenuto generale, l’applicazione della disciplina generale della partecipazione e della comunicazione dell’avvio del procedimento (Sez. VI, n. 961 del 2002), ha ritenuto che « il complesso dei principi ricavabili dalla legge n. 241... si pone come canone interpretativo della disciplina di settore, eventualmente imponendo di non fermarsi ad una interpretazione letterale


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della lex specialis », e che tali principi hanno lo scopo di assicurare, secondo le norme previste dagli ordinamenti di settore, usualmente mediante forme di istruttoria pubblica e di audit nei procedimenti per la formazione di atti normativi ed a contenuto generale, l’acquisizione corretta ed imparziale degli interessi privati coinvolti nell’esercizio del pubblico potere (Cons. Stato, Sez. VI, 1 ottobre 2002 n. 5105). È stato cosı̀ ritenuto necessario che l’adozione di atti di determinazione di tariffe sia preceduta da forme partecipative. Ma il procedimento seguito dinanzi alle autorità amministrative indipendenti appare sotto un ulteriore profilo dotato di una speciale rilevanza. Il procedimento è infatti il luogo nel quale vengono accertati i fatti, eseguite le istruttorie, tenute in considerazione le emergenze fattuali, espletati gli accertamenti tecnici ritenuti necessari, acquisiti i pareri, effettuate le verifiche tecniche, stabilita in contraddittorio l’impostazione generale della questione. Esso, pertanto, non ha rilievo soltanto sotto il profilo della speciale garanzia assicurata al contraddittorio, ma anche con riferimento all’acquisizione, ponderazione a valutazione di tutta la base fattuale. Risulta, pertanto, evidente che lo stesso procedimento amministrativo è determinante per l’acquisizione, la rappresentazione e la valutazione dei fatti che sono a base delle determinazioni assunte dall’Autorità. Essi sono acquisiti — anche attraverso istruttorie e valutazioni tecniche — nel corso dell’azione delle Autorità, sicché l’erroneità del fatto accertato, od anche l’omessa valutazione di un fatto determinante costituisce, in realtà, una violazione, in concreto, della regola del procedimento, un error in procedendo. Per converso, appare palese che il sindacato sul procedimento e sulle sue acquisizioni e risultanze istruttorie, attraverso le figure di eccesso di potere riferite al farsi dell’atto, al difetto di istruttoria ed all’insufficienza della motivazione riferita alle risultanze del contraddittorio (Merusi), costituiscono, in realtà modalità per attingere al fatto posto a base del provvedimento, alla sufficienza delle acquisizioni fattuali, alla modalità della sua valutazione.


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Si tratta di una conseguenza del tutto coerente con la natura di errores in procedendo delle violazioni delle regole del procedimento, dal momento che, secondo i principi generali, negli errores in procedendo il giudice è giudice anche del fatto, nel senso che la sua indagine si estende ai presupposti di fatto che condizionano l’applicazione della norma. 8. Le osservazioni sopra esposte circa il ruolo del procedimento in ordine all’accertamento ed alla valutazione dei fatti conducono a quello che può essere considerato il cuore del problema del giudizio sugli atti delle autorità indipendenti: quello cioè delle caratteristiche e dell’intensità del sindacato giurisdizionale. Questo, a sua volta, appare intrinsecamente legato a quello della « natura » dell’attività dell’autorità, del tipo di discrezionalità dalla medesima esercitata, ed a quello dell’esistenza di una sfera di valutazioni in qualche modo riservate da parte dell’autorità, non attingibile da parte del sindacato giurisdizionale. Si incrociano, pertanto, nella questione del sindacato del giudice, tutte le questioni centrali riguardanti il modo stesso di considerare le attività di tali organismi. Da tempo gli studiosi distinguono, nell’ambito delle funzioni esercitate dalle autorità, compiti di regolazione, di normazione, compiti amministrativi in senso proprio, compiti contenziosi. Tali differenziazioni sussistono ed hanno anche rilievo; se, tuttavia, non si vuole rinunciare ad una prospettiva unificante che colga lo specifico del sindacato sulle autorità indipendenti, occorre tentare di costruire una sorta di sindacato generale sul potere neutrale, sia che questo si manifesti attraverso atti normativi, sia attraverso atti puntuali, sia attraverso atti di direttiva o di regolazione in senso proprio. Ora, ciò che caratterizza in linea generale il potere neutrale è l’assenza, nelle sue diverse esplicazioni, di merito amministrativo, inteso come ponderazione delle diverse opportunità ed identificazione dell’interesse pubblico in concreto. È da tale elemento che occorre, appunto, partire. Gli atti delle autorità indipendenti sono manifestazioni di discrezionalità, ma non di discrezionalità amministrativa.


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La discrezionalità che con essa si manifesta è volta a dare applicazione immediata ad una norma di legge, sia che tale applicazione comporti la soluzione di un conflitto fra soggetti, o la fissazione di una disciplina generale volta ad informare un determinato settore dei valori e dei principi indicati dalla legge, o ancora la determinazione delle condizioni per la quale una singola operazione possa essere considerata conforme alle indicazioni date dalla legge (come avviene allorquando l’Autorità garante della concorrenza fissa le condizioni perché una concentrazione possa essere autorizzata). La discrezionalità che in tal modo viene esercitata attiene, pertanto, o alla determinazione dell’ambito oggettivo delle norme di legge — e più in generale, all’interpretazione ed all’applicazione della legge — o alle valutazioni tecniche che l’applicazione della legge comporta. Da qui appunto una azione certamente amministrativa, nel senso che è posta in essere da autorità che sono amministrative, ma che non comporta, in senso, proprio spendita di discrezionalità amministrativa. La particolare configurazione di tale attività costituisce, poi, alla radice, la conseguenza della particolare posizione di indipendenza assicurata a chi la pone in essere, dal momento che è l’esercizio del potere in posizione indipendente o neutrale a sottrarre l’azione dal circuito dell’indirizzo politico, ad escludere, di conseguenza, la spendita di una discrezionalità amministrativa ed a fare di essa una applicazione diretta della legge, sia pure attraverso le necessarie opzioni interpretative e l’elaborazione delle valutazioni tecniche all’uopo necessarie. Sussiste, infatti, un legame strutturale tra sottrazione all’indirizzo politico (indipendenza « strutturale ») ed assenza di discrezionalità o merito amministrativo (indipendenza « funzionale »). Questa situazione appare, come è ovvio, carica di conseguenze per il sindacato giurisdizionale sugli atti dell’autorità, in un certo senso, a prescindere dal tipo di giudice destinato ad esercitarlo. Da una parte, infatti, non implicando il potere in questione esercizio di discrezionalità amministrativa, non può configurarsi


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un merito amministrativo, né di conseguenza una sfera riguardante le relative « valutazioni » riservate, non attingibile dal giudice. Il sindacato del giudice non trova alcun limite in un insussistente merito amministrativo: e non a caso il sindacato del giudice sugli atti delle autorità indipendenti volti all’applicazione della legge senza l’intermediazione di valutazioni tecniche è pieno, sia con riferimento all’ampiezza e la portata della norma da applicare, sia con riferimento alla determinazione dell’ambito oggettivo riconducibile alla norma, sia in relazione alla possibilità di collegare i fatti presi in considerazione con la norma da applicare. In tal modo, attraverso questo « sindacato pieno », il giudice contribuisce come efficacemente è stato detto, con la sua attività interpretativa, alla definizione di importanti nozioni sostanziali (Cassese) ed alla definizione delle relative fattispecie. 9. Strettamente connesso con i profili sopra ricordati, appare, peraltro, il tema delle c.d. valutazioni tecniche complesse, e più in generale della c.d. discrezionalità tecnica delle Autorità. Occorre, al riguardo, osservare, che il sindacato del giudice sull’interpretazione e sulla portata della norma consente allo stesso di contribuire alla enucleazione di nozioni generali (quali, intesa, concentrazione, o anche mercato rilevante) ed alla relativa definizione; tuttavia l’utilizzazione in senso qualificatorio delle fattispecie concrete di tali nozioni — che fanno riferimento a concetti giuridici indeterminati — necessita di una opera di integrazione (o di contestualizzazione, come dice la giurisprudenza) del parametro normativo, idonea a contribuire all’individuazione degli elementi costitutivi della fattispecie prese in considerazione. Questa opera di integrazione e specificazione del parametro normativo è frutto di una valutazione tecnica complessa, dal momento che essa implica l’elaborazione, spesso in funzione prognostica, degli effetti che la misura o la disciplina elaborata avrà sull’ambito oggettivo preso in considerazione, di valutazioni che « non si fondano su regole scientifiche, esatte e non opinabili, ma sono il frutto di scienze inesatte ed opinabili (in prevalenza di carattere economico) con cui vengono definiti i sopra descritti con-


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cetti giuridici indeterminati (Cons. Stato, Sez. VI, n. 2199 del 2002, cit.). Risulta cosı̀, palese, che costituisce valutazione tecnica complessa — compatibile, come è stato osservato con altre valutazioni complesse formulabili con riferimento allo stesso concetto indeterminato (Merusi) — sia l’integrazione o « contestualizzazione del parametro normativo » sia, a maggior ragione, il confronto dei fatti accertati con il parametro cosı̀ determinato. Il riferimento alle valutazioni tecniche complesse (frutto dell’applicazione di concetti giuridici indeterminati), spiega perché sia stata cosı̀ importante, per la determinazione dell’ampiezza del sindacato del giudice delle autorità indipendenti, la distinzione, operata dalla giurisprudenza tra merito e discrezionalità tecnica. Questa, infatti ha da una parte consentito di distinguere (Cons. Stato, Sez. IV, 9 aprile 1999, n. 601) in modo specifico l’aspetto propriamente non sindacabile dell’attività amministrativa — la diretta valutazione dell’interesse pubblico concreto — dalle altre valutazioni — tutte invece sindacabili da parte del giudice — ivi comprese quelle connesse all’applicazione di norme tecniche; dall’altra ha consentito di enucleare, nell’ambito delle più generali valutazioni tecniche, le valutazioni tecniche complesse, collegate alla rilevanza di interessi di rango primario, nelle quali esiste una contestualità cronologica, e comunque una stretta connessione fra valutazione tecnica opinabile e ponderazione degli interessi, che viene ritenuta indice dell’esistenza di un potere di valutazione tendenzialmente riservata all’amministrazione, non già nel senso della preclusione del controllo giurisdizionale, ma nel senso che non è concesso un sindacato con poteri sostitutivi (Cons. Stato, Sez. IV, 6 ottobre 2001 n. 5284). Ed infatti, poiché le « contestualizzazione » dei concetti giuridici indeterminati avviene attraverso valutazioni tecniche complesse, e poiché tali sono anche quelle che comportano la qualificazione in concreto degli elementi della fattispecie, l’utilizzazione della distinzione sopra cennata chiarisce, con riferimento alle autorità indipendenti: a) che l’esercizio del potere neutrale comporta l’esistenza di


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una discrezionalità di tipo tecnico, ed in particolare di valutazioni tecniche complesse rese necessarie dal carattere indeterminato dei concetti giuridici presi in considerazione dalle norme primarie sul potere delle medesime autorità indipendenti; b) che poiché esiste una discrezionalità (anche se del tipo sopra descritto) nell’esercizio del potere delle autorità, possono comunque essere utilizzati per il sindacato di essa, le figure che tradizionalmente sono utilizzate per il sindacato della discrezionalità, anche se con alcune conseguenze derivanti dalla particolarità dell’oggetto su cui cade lo scrutinio; c) che non esistendo un « merito » amministrativo nei provvedimenti delle autorità, non esistono, in essi aree di competenza riservate sottratte al sindacato giurisdizionale; d) che, al contrario, il sindacato giurisdizionale copre l’intera area dell’esercizio del potere da parte delle autorità indipendenti, modellandosi secondo le forme di un sindacato che talvolta è stato definito di tipo « debole »; tale cioè da non sovrapporsi alle valutazioni tecniche ed al modello attuativo dei concetti indeterminati prescelti dall’Autorità. 10. È appunto la complessità di tale situazione, anche in relazione al sindacato giurisdizionale, che la giurisprudenza ha cercato di esprimere. Non a caso, infatti, la giurisprudenza ha prima fissato il contenuto e l’articolazione dei provvedimenti dell’autorità (accertamento dei fatti; « contestualizzazione della norma che fa riferimento a concetti giuridici indeterminati; eventuale applicazione delle sanzioni) per poi dedurne le conseguenze sulla tutela giurisdizionale, cosı̀ evidenziando plasticamente il collegamento tra le modalità dell’azione amministrativa e le forme della tutela giurisdizionale » (Cons. Stato, Sez. VI, n. 2199 del 2002, cit.). In questa ottica, è stato, innanzi tutto, chiarito che non sussiste alcuna preclusione all’accertamento dei fatti posti a fondamento del provvedimento. Ad essi il giudice ha pieno accesso, anche attraverso l’espletamento di consulenze tecniche, e di essi è possibile stabilire la loro « verità » attraverso la valutazione degli


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elementi di prova raccolti dall’Autorità e dagli elementi a difesa offerti dalle imprese (Cons. Stato, Sez. VI, n. 2199 del 2002). Quanto a quelle modalità di azione amministrativa connesse alla « contestualizzazione » del parametro normativo ed alla considerazione dei fatti alla luce del parametro contestualizzato, la giurisprudenza ha richiamato la nozione di discrezionalità tecnica, e quella di valutazione tecnica complessa, sottolineando l’esigenza che il giudice effettui un controllo intrinseco, « avvalendosi anche di regole e conoscenze tecniche appartenenti alla medesima scienza specialistica applicata dall’Amministrazione ». Viene, peraltro, sottolineato che tale controllo intrinseco deve essere effettuato non secondo un controllo di tipo forte (o sostitutivo), ma secondo un controllo di tipo « debole », nel quale le cognizioni tecniche eventualmente acquisite a mezzo di un consulente vengono utilizzate al solo scopo di effettuare un controllo di ragionevolezza e coerenza tecnica, vengono, in tal modo censurate « le valutazioni tecniche, comprese il giudizio tecnico finale che, attraverso un controllo di ragionevolezza logicità e coerenza tecnica, appaiono inattendibili » (Sez. VI, n. 2199 del 2002). Viene, infine, precisato dalla giurisprudenza che il sindacato sulle sanzioni pecuniarie del giudice dell’autorità è di tipo pieno, tenuto conto del principio di legalità e che esso comporta la possibilità non solo di annullare la sanzione, ma di modificarne l’importo, sulla base dei parametri normativi di riferimento. La giurisprudenza del giudice amministrativo sull’ampiezza del sindacato giurisdizionale nei confronti degli atti delle autorità costituisce il frutto di un processo di interazione con la riflessione teorica, che ha raggiunto un significativo punto di equilibrio nel tentativo di determinare una tutela adeguata al proprio oggetto ed alla necessità di protezione delle situazioni soggettive. Si tratta di una giurisprudenza che, pur elaborata prevalentemente in relazione agli atti dell’Autorità garante della concorrenza, ha trovato piena conferma anche con riferimento agli atti delle Autorità di regolazione. La considerazione di essa suggerisce qualche riflessione a carattere generale.


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Risulta, innanzi tutto confermato che la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo non è, in alcun modo, una giurisdizione limitata. Al contrario, essa si adegua continuamente al suo oggetto per consentire l’emersione di tutte le opportunità di tutela. Essa appare, innanzi tutto, come sostanzialmente piena nei confronti dell’interpretazione ed applicazione delle norme generali chiamate in causa dall’esercizio del potere; si atteggia come piena nei confronti delle sanzioni (almeno per quanto riguarda l’Autorità garante della concorrenza); appare adeguata al suo oggetto e da questo conformata quando deve procedere non alla determinazione dell’ampiezza e della portata generale della norma, ma alla verifica del modello logico di attuazione del concetto giuridico indeterminato e delle relative valutazioni tecniche complesse. Se si vuole, si può chiamare tale sindacato come sindacato di legittimità, — come talvolta fa lo stesso giudice amministrativo: con la precisazione che ad esso non è precluso né l’accertamento del fatto né la censurabilità, nei sensi sopra esposti, delle valutazioni tecniche. Acquista, altresı̀ la sua giusta collocazione la questione della consulenza tecnica di uffıcio. Questa ha certamente un ruolo rilevante nell’accertamento dei fatti e nella introduzione di cognizioni tecniche necessarie al giudice per l’effettuazione del proprio controllo, ed opportunamente la l. n. 205 del 2000 ne ha previsto l’introduzione nella giurisdizione esclusiva e nella giurisdizione di legittimità. Tuttavia, il problema fondamentale non è costituito dalla possibilità di disporre la consulenza tecnica, ma dalla utilizzazione corretta dell’istituto, secondo la configurazione che ne fornisce lo stesso codice di rito civile. La consulenza tecnica, ponendo in relazione una situazione oggettiva con una regola di esperienza, mira all’affermazione di un fatto (anche) in via di deduzione dalla regola di esperienza, ma non può costituire un mezzo che esonera le parti dall’onere della prova, ed il giudice dall’onere di formulare il proprio giudizio attraverso la ricostruzione dei fatti e le qualificazioni giuridiche necessarie. Le riflessioni generali alla luce delle quali deve essere letta la


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giurisprudenza sul sindacato sugli atti dell’autorità sembrano idonee ad evidenziare ulteriormente le ragioni per le quali, la giurisdizione del giudice amministrativo in tema di sanzioni dell’A.G.C.M. ha carattere sostitutivo. L’irrogazione delle sanzioni non comporta, infatti, né esercizio di discrezionalità amministrativa (non esistente come si è visto negli atti delle Autorità) né esercizio di discrezionalità tecnica attraverso valutazioni tecniche complesse, ma semplicemente commisurazione della misura all’entità dell’illecito ed al comportamento del trasgressore. La giurisdizione non incontra, pertanto, alcuna situazione che possa limitarla (come il merito amministrativo) o conformarla (come la valutazione tecnica complessa), sicché può esplicarsi in tutta la sua « pienezza ». 11. La nuova giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo conosce, come è noto, anche la possibilità di procedere al risarcimento del danno ingiusto; mentre anche la giurisdizione generale di legittimità è ormai estesa, a seguito della l. n. 205 del 2000, alla tutela in relazione a tutte le conseguenze dell’illegittimo esercizio della funzione pubblica. Non vi è, pertanto, alcuna preclusione, in linea di principio, alla proposizione di domande risarcitorie dinanzi al giudice esclusivo delle autorità indipendenti: e domande del genere sono state, dal giudice amministrativo, esaminate (Sez. VI, n. 2199 del 2002). Fra le domande risarcitorie proponibili dinanzi al giudice amministrativo non possono, peraltro, essere ricomprese quelle che specifiche norme di settore affidano le domande risarcitorie al giudice ordinario (come avviene per l’A.G.C.M.), dal momento che le disposizioni sulle possibilità di pronunciare il risarcimento contenute nella l. n. 205 del 2000 non sono norme attributive della giurisdizione, ma sui poteri del giudice. Un discorso diverso deve essere fatto, relativamente a quelle autorità il cui intervento può essere inquadrato nell’ambito del c.d. servizio pubblico, secondo la nozione che ne dà il nuovo testo del d.l. n. 80 del 1998 introdotto dalla l. n. 205 del 2000. Quelle riguardanti i servizi pubblici, contenute nella l. n. 205, sono, infatti, norme attributive della giurisdizione.


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12. Le autorità indipendenti esercitano, in senso ampio, una attività di regolazione; tuttavia anche l’intervento del giudice amministrativo si risolve talvolta, in un intervento regolatore delle autorità e dei relativi rapporti. È quanto, ad esempio, è avvenuto con riferimento ai rapporti tra AGCM e l’ISVAP, quando quest’ultimo è chiamato ad esprimersi sugli atti della prima. È stato, cosı̀ precisato che il parere dell’ISVAP, nel quadro di procedimenti antitrust che operino nel settore delle assicurazioni, va richiesto nella fase decisoria e non in quella istruttoria, in modo che esso sia chiamato ad interloquire sulla base di una presentazione compiuta della vicenda, e che, tuttavia, tale parere non è vincolante, sicché può essere disatteso con adeguata motivazione. In questo quadro, merita di essere segnalata la pronuncia n. 5640 del 16 ottobre 2002, con cui la VI Sezione del Consiglio di Stato ha provveduto ad effettuare il riparto delle competenze in tema di vigilanza sulle intese restrittive della concorrenza tra AGCM e Banca d’Italia, assegnando correttamente la competenza generale alla prima (qualora siano coinvolte sia aziende di credito che altri soggetti, ovvero allorché l’intesa produca effetti anche su mercati diversi da quello bancario) e la competenza specifica alla Banca d’Italia, qualora nell’intesa siano coinvolti solo banche ed istituti di credito. 13. Qualche cenno deve essere dedicato al rito speciale previsto per il giudizio riguardante atti e provvedimenti delle autorità indipendenti. Tale rito si applica, innanzi tutto, a tutti gli atti dell’autorità, anche se gli stessi non riguardino l’esercizio delle funzioni istituzionali, ma strumentali (come quelle appartenenti al personale). La speciale rilevanza del rito in connessione con la materia trattata, appare, poi, alla base di un recente indirizzo giurisprudenziale, che afferma la forza espansiva di tale rito, anche con riferimento all’impugnazione di atti diversi da quelli indicati dall’art. 4 della l. n. 205 del 2000, ma connessi con provvedimenti delle autorità indipendenti (Cons. Stato, Sez. VI, 27 marzo 2003 n. 1605; si trattava dell’impugnazione di un decreto ministeriale, proposta


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unitamente a quella di un atto di una autorità indipendente, che ne costituiva applicazione). La giustificazione di tale « effetto estensivo » viene, poi, identificata nell’esigenza di definire in modo celere i giudizi che coinvolgono gli interessi coinvolti dai provvedimenti di cui all’art. 4 della l. n. 205; esigenza che non viene meno solo perché con il ricorso risultano impugnati altri provvedimenti (Sez. VI, n. 1605 del 2003, cit.). 14. Il quadro delle questioni riguardanti le autorità indipendenti rimanda ad una prospettiva europea. Ciò è vero per le autorità in generale, che la dottrina considera ormai come elementi di un network europeo attuativo di un modello federativo (Merusi); ma è vero anche per la tutela giurisdizionale, sotto un profilo oggettivo e soggettivo. Sotto il primo profilo, il giudice amministrativo coopera, con la propria giurisprudenza, alla costruzione delle discipline di settore, come plessi che « fanno corpo » e costituiscono sostanzialmente una unica realtà con la disciplina europea. In questo quadro, deve essere segnalata l’affermazione esplicita secondo cui la portata ed interpretazione delle norme sulla concorrenza va stabilita in armonia con le norme ed i principi del trattato (Cons. Stato, Sez. VI, 24 maggio 2002 n. 2869). Sotto il secondo profilo, va ricordato che il giudice amministrativo ha configurato il proprio sindacato in modo sostanzialmente non dissimile da quello della Corte di Giustizia della C.E. (28 maggio 1998 n. 7/1995, John Dere). Il richiamo diretto — assai frequente nelle sentenze del giudice amministrativo — alla giurisprudenza della Corte di Giustizia e l’uso non infrequente del rinvio pregiudiziale contribuiscono a configurare quelli fra istanze nazionali ed istanze comunitarie come i rapporti di strutture giurisdizionali appartenenti ad un plesso tendenzialmente unitario. 15. L’analisi qui svolta, se evidenzia la conferma sostanziale dei profili di analisi prospettati in sede di riflessione teorica con riferimento alla tutela nei confronti degli atti delle autorità indi-


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pendenti, consente di formulare alcune (provvisorie) valutazioni conclusive. Le prime di esse riguardano il più volte annunciato — ma non ancora approvato — disegno di legge di riforma delle autorità, che dovrebbe riguardare anche la tutela giurisdizionale. Già l’idea di una disciplina generale sulle autorità indipendenti può generare qualche perplessità, dal momento che la disciplina delle autorità indipendenti è normalmente di tipo circostanziale, legata cioè non alla soluzione di problemi generali ma di questioni specifiche. L’introduzione di una legge generale potrebbe poi trasformare un modello di amministrazione in qualche modo « speciale » in un modello generale, alternativo a quello tradizionale. Le perplessità sono, peraltro destinate a crescere se si passa alle « ventilate » riforme riguardanti il giudice delle autorità. Di esse la prima — consistente nell’integrazione dei collegi giudicanti con esperti dotati di specifica competenza tecnica nelle materie riservate alla competenza delle autorità — appare francamente non condivisibile: a tacer d’altro, essa finirebbe con il trasformare le autorità in organi di prima istanza ed il giudice nella « vera » autorità di seconda ed ultima istanza, e farebbe venir meno il sindacato giurisdizionale come controllo sul potere. Quanto alla seconda — l’affidamento delle controversie con le autorità al Consiglio di Stato in unico grado — si deve rilevare che essa, appare, in linea teorica, non irragionevole e, forse, coerente con alcuni possibili sviluppi della giustizia amministrativa. Si deve tuttavia osservare, in concreto, che il ruolo che potrebbe nel futuro essere svolto dal Consiglio di Stato in un unico grado nel sistema di giustizia amministrativa appare, in qualche modo, ormai efficacemente esercitato dal plesso Tar-Lazio-Consiglio di Stato. Inoltre, il doppio grado di giurisdizione con riferimento alle autorità indipendenti è stato sicuramente tempestivo ed efficace, sicché pare costituire una garanzia alla quale non rinunciare a cuor leggero. Le altre considerazioni riguardano la giurisdizione esclusiva sugli atti dell’autorità nel quadro più generale della giustizia amministrativa.


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Questa giurisdizione si è costruita, nell’arco degli ultimi dieci anni, come una giurisdizione sull’esercizio di un potere neutrale ed ad esso adeguata: coerente, cioè con tutte le esigenze di garanzia implicite nell’esercizio di esso. Ciò spiega una certa particolarità di essa: nel contesto di un cambiamento assai significativo della giurisdizione esclusiva, nel segno della concentrazione di tutte le tecniche e le opportunità di tutela, essa sembra in qualche modo atteggiarsi in modo diverso, e favorire la riscoperta dello spessore, in termini di profondità e di opportunità di tutela, del sindacato di legittimità, coerenza e ragionevolezza. La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulle autorità sembra, poi, costituire una testimonianza della vitalità della giustizia amministrativa e delle funzioni da esse svolte. Essa, da una parte, coopera in modo significativo alla definizione delle nozioni sostanziali a testimonianza del rapporto forte tra « sostanza » e « processo ». La scelta di affidare alla giustizia amministrativa è, come è naturale, di opportunità storica, e non ha un carattere, per dir cosı̀ strutturale, sicché la polemica fra chi considera proponibile l’intervento, in materia, del giudice ordinario, e chi invece difende le ragioni della giurisdizione amministrativa è probabilmente destinata a non cessare. Certo è, comunque, che se è vero quel che affermava Mario Nigro — che cioè il processo amministrativo coopera all’emersione dalla situazione soggettiva — non sembra che possa essere considerata una tutela non adeguata quella che non si limita a « registrare » la situazione soggettiva, ma contribuisce a darle rilievo, a definirla ed a prenderla in considerazione in relazione a tutte le forme dell’esercizio del potere. La partita che allora appare decisiva non è tanto quella di rivedere radicalmente scelte che si mostrano capaci di affrontare la modernità e di modificarsi in relazione alle sue esigenze, ma l’altra, di riformare il processo, tendenzialmente estendendo le tutele speciali previste per le autorità indipendenti a tutti i rapporti presi in considerazione dal giudice amministrativo. La contemporanea presenza di un efficace e tempestivo rito


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speciale — per il processo in determinate materie — e del rito ordinario pone alla lunga alla giustizia amministrativa, il problema dell’esistenza di due discipline processuali anzi di due diritti del processo. La presenza di due diverse discipline processuali appare, infatti, ragionevole ed accettabile solo se la disciplina speciale è veramente tale, limitata a poche anche se significative fattispecie: altrimenti il processo entra in una situazione nella quale sembra debba ritenersi che esistono, come diceva Salvatore Satta, « due diritti, uno assoluto ed uno relativo: e sarebbe come dire che “esistono due diverse ingegnerie” (in questo caso processuali), una superiore fatta per costruire i castelli in aria, ed una inferiore, fatta per costruire le nostre modeste abitazioni sulla terra ».


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L’EFFETTIVITÀ DELLA GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA: PRINCIPIO O MITO?

SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. Il principio di effettività come elemento qualificante della dottrina amministrativa e della giurisprudenza amministrativa. — 3. Il percorso essenziale dell’effettività: a) l’accesso alla giustizia. — 4. b) la tutela cautelare. — 5. c) l’ottemperanza. — 6. d) i procedimenti speciali. — 7. La l. n. 205 del 2000: un modello di processo effettivo. — 8. Conclusione: paradosso e metamorfosi della giustizia amministrativa.

1. Non è facile farsi un’idea chiara di che cosa sia l’effettività. Essa è stata concepita quale requisito di esistenza di un determinato ordinamento, ovvero come criterio che rende legittima la costituzione di una comunità politica (1). Sul piano della teoria generale del diritto (e della filosofia del diritto), ove è stata particolarmente studiata, la sua definizione ha però presentato difficoltà teoretiche inestricabili (2), e la tendenza ad attribuire ad essa importanza decisiva è stata vista come « un altro dei tanti segni del nostro tempo caratterizzato dal crepuscolo dei valori morali ». A determinare questo giudizio negativo è l’affermazione che il diritto si riduce al fatto, per cui è sufficiente che un istituto (o ordinamento) esista perché venga considerato legittimo, quale che ne sia l’origine. Dietro l’effettività permane il concetto di necessità

(1) Cosı̀ P. PIOVANI, Effettività (principio di), in Enc. dir., XIV, Milano, 1965, 420. Per una trattazione specifica dello stesso autore sul tema, Il significato del principio di effettività, Milano, 1953. (2) Cosı̀ si esprime G. GAVAZZI, Effettività (principio di), in Enc. giur., XII, Roma, 1989, 1.

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che, elevata a mito, fa, in maniera misteriosa, diventare normativo il mero fatto (3). Nell’uso corrente, il termine effettività si è impiegato per indicare una condizione di operatività di una specifica volizione legislativa. Nel significato attuale abbiamo dunque a che fare con un giudizio circa la possibilità che una norma sia portata ad esecuzione e non rimanga una mera enunciazione. Alla medesima area semantica di voci appartiene anche l’aggettivo effettivo, il cui uso non presenta particolari difficoltà. Effettivo si dice di un istituto che è capace di determinare comportamenti conseguenti; qualifica la norma e ne definisce l’operatività. Il principio e/o criterio di effettività designa, quindi, ciò in forza di che si pronuncia il giudizio di operatività della norma; la regola per discernere se una normativa è dotata di efficacia sostanziale, se è capace di incidere nella realtà (4). L’accezione che si rinviene nella dottrina e nella giurisprudenza amministrativa è quella più prossima al senso attuale più diffuso, e che pare mutuata dalla dottrina processualcivilistica, dove la effettività designa l’efficacia della tutela giurisdizionale, la quale deve essere adeguata alle posizioni di vantaggio che la normativa sostanziale riconosce (5). Essa richiama il risultato che la giurisdizione determina nella sfera sostanziale per forza propria (6). 2. L’appellarsi della dottrina e della giurisprudenza alla effettività della giustizia amministrativa, nel senso che è necessario che il giudice amministrativo disponga di strumenti idonei per (3) La disapprovazione del principio di effettività è di A. GROPPALI, Il principio di effettività e la riduzione del diritto a fatto, in Riv. int. fil. dir., 1954, 49. (4) Sui diversi significati del termine effettività, nel senso che esso designa la presenza di tutti gli elementi della fattispecie necessari perché si producano gli effetti considerati, la capacità del diritto di realizzarsi, ovvero esprime il concetto di vigenza dell’intero ordinamento, si rinvia a F. MODUGNO e A. CERRI, Rassegna critica sulle nozioni di effıcacia ed effettività, in Annuario Bibliografico di filosofia del diritto, III, Milano, 1970, 311 ss. (5) A. PROTO PISANI, Appunti sulla giustizia civile, Bari, 1982, 11. (6) E. FAZZALARI, Tutela giurisdizionale dei diritti, in Enc. dir., XX, Milano, 1970, 403.


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garantire che gli scopi legislativamente posti vengano conseguiti, sembra ora un imperativo assoluto. Il fatto che l’effettività si raccomandi come principio precettivo, piuttosto che quale criterio di valutazione della operatività degli istituti processuali, conferisce a questa una forza di persuasione che non ha possibilità di essere contraddetta. Il tentare di decifrarne la portata, anziché assumerla come un dato indiscutibile, comporta il rischio di essere annoverati non solo tra quelli che prendono posizione contro la giustizia amministrativa, ma contro la democratizzazione della azione amministrativa, che è fondamentale per una corretta relazione tra cittadino e pubblica amministrazione. Per verificare la fecondità della effettività, che si trova abbondantemente richiamata in quasi tutti gli scritti significativi di diritto processuale amministrativo, specie dei magistrati scrittori, può essere d’aiuto accertare quale sia stata l’utilità di questo criterio-guida, e quali sbocchi esso lascia intravedere per il futuro. Per la dottrina e per la giurisprudenza che all’effettività hanno fatto riferimento, essa ha significato che il processo passa da una concezione meramente formale, propria del vecchio modello di impugnazione, a una forma di tutela che si contraddistingue per i risultati concreti che è in grado di garantire, e quindi si proietta di là dell’annullamento dell’atto amministrativo verso l’ambito proprio della amministrazione, la quale deve completamente soggiacere al decisum in sede giurisdizionale. È difficile negare che questo risultato sia stato ormai raggiunto. Ma a ben vedere, in una prospettiva che guardi oltre l’interesse immediato del singolo, questo risultato non può soddisfare pienamente. Esso, in sostanza, si riduce alla possibilità che la opzione valutativa del giudice amministrativo, quale risulta da un approfondito esame delle contrapposte posizioni processuali, si affermi compiutamente. L’effettività ha certo conferito concretezza alla giustizia amministrativa, collegando le aspettative del singolo con il risultato ottenibile nel processo. Ma in tal modo il problema della relazione tra cittadino e amministrazione è stato riportato, con una semplificazione radicale, ad un unico principio operativo, assunto come


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assioma: « quello che non è possibile ottenere dall’amministrazione, si può ottenere dal giudice amministrativo ». La preminenza accordata al processo rispetto alla azione amministrativa è senza dubbio dovuta alla sfiducia che si è accumulata nel tempo nei confronti della pubblica amministrazione, ma è anche la conseguenza di una linea di sviluppo che tende ad assegnare a ogni magistrato (ordinario e/o amministrativo che sia) un ruolo sociale accentuato. Non è necessario che l’interesse, fatto valere in giudizio, sia definito normativamente: purché previsto e tutelato dall’ordinamento, esso può essere fatto valere nel processo, e tocca al giudice dare concretezza alla sua tutela. Il diritto, quale posizione di vantaggio, non si può definire a priori: è quello che si consegue nel processo, che riesce a farsi valere di fatto nel processo. Già da tempo, la riflessione della dottrina e i percorsi della giurisprudenza amministrativa si sono sviluppati nella direzione specifica di rendere effettiva la tutela che il cittadino domanda al giudice amministrativo. In questa direzione, si è attribuita al processo la prerogativa di una istanza definitiva di giudizio, che decide categoricamente in ordine al bene rivendicato; un bene, il cui riconoscimento normativo non è necessario per il fatto stesso che può essere comunque conseguito nel processo. Se un tale riconoscimento sia conseguibile alla stregua dell’ordinamento esistente, non importa che vi sia un titolo normativo a legittimare il riconoscimento giurisdizionale del vantaggio assegnato (7). Non è stata estranea a questa evoluzione del processo amministrativo la sollecitazione di autorevole dottrina che, in consonanza con l’idea (allora in espansione) di Stato sociale, che pretende di soddisfare bisogni emergenti e di dispensare utilità concrete, ha rivendicato al giudice amministrativo (in concorrenza con il giudice ordinario) la funzione di « facitore del sociale », che deve attingere ai principi sostanziali della Costituzione e ripristinare quel giudizio di ragionevolezza che lo ha da sempre ca(7) In buona parte delle controversie oggi si chiede al giudice quello che non si può ottenere sulla base della legge, cioè la determinazione di una situazione giuridica nuova; in proposito, S. COTTA, La Litigiosità odierna — Considerazioni giuridico-culturali, in Riv. dir. proc. civ., 1983, 789.


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ratterizzato, senza trincerarsi dietro la legittimità formale dell’attività della pubblica amministrazione (8). Persa l’idea dell’interesse legittimo, correlato a una posizione primaria del singolo, è inevitabilmente cambiata anche la concezione della giustizia amministrativa: questa non è più considerata nella sua realtà originaria, ossia di controllo formale sull’uso del potere, che si esprime con atti imperativi e tipici; essa è orientata a dare un contenuto sostanziale all’interesse del cittadino, a porre l’accento sui beni della vita, che devono essere garantiti in nome della effettività della tutela. Senza sapere ciò che del processo amministrativo dovesse essere mutato, perché potesse diventare migliore, questo è cambiato per prassi giurisprudenziale in omaggio allo spirito del tempo, che reclamava una giustizia effettiva, una giustizia che smantellasse la cognizione formale del provvedimento, al fine di pervenire alla verità sostanziale delle vicende amministrative. Tale visione fa tutt’uno con l’idea di un’amministrazione depotenziata e privata della sua funzione tradizionale di definire e mediare l’interesse pubblico con l’interesse privato, e per la quale ognuno si trova confrontato con la propria pretesa, che è in contrasto con quella degli altri. Spinta alle estreme conseguenze, una concezione della pubblica amministrazione nella quale il giudice amministrativo consolida la sua centralità, sfocia nella negazione dell’idea stessa di una amministrazione dotata di una propria autonomia. L’esigenza di garantire una tutela effettiva al cittadino è certamente all’origine dell’orientamento dottrinale che ha sospinto il giudice amministrativo a sciogliere l’ambiguità tra « sostanzafunzione » e « forma-struttura » del processo amministrativo, a favore del primo elemento (9). Parallelamente all’esaltazione di una tutela che soddisfi pienamente il singolo nei confronti dell’amministrazione, è rimasto però insoluto un problema fonda(8) In tal senso, si veda M. NIGRO, Problemi veri e falsi della giustizia amministrativa, in La riforma del processo amministrativo, Milano, 1980, 46; ID., Il giudice amministrativo oggi, ivi, 25; ID., I Tribunali amministrativi regionali: dieci anni dopo, in Foro it., 1984, V, 318 ss. (9) M. NIGRO, La riforma, cit., 13, 80.


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mentale: quello della relazione tra cittadino e amministrazione (10). La percezione sempre più viva che il problema della giustizia amministrativa non fosse più quello di comporre, in maniera formale, il dualismo tra interesse pubblico e interesse privato, ma di assicurare protezione all’interesse fatto valere in giudizio, ha finito per mettere radicalmente in dubbio la realtà di un’amministrazione, chiamata alla cura di interessi pubblici. Questa percezione che, in se stessa, può anche essere un’acquisizione positiva, ha trovato una delle espressioni più vistose nella esaltazione della effettività della giustizia amministrativa, al punto da farne un assoluto. Al dovere di seguire il « personaggio interesse pubblico, in nome del quale se ne combinano di ogni genere » (espressione, come noto, coniata da Giannini), che da sempre aveva rappresentato il criterio guida del giudice amministrativo nella sua « tecnica di controllo del potere », si è aggiunta la affermazione che il processo deve essere effettivo. In nome della effettività, il processo amministrativo viene sospinto nella mitologia, perché se esso si limita a definire il diritto, le regole del gioco tra le parti (pubblica amministrazione e singolo), ciò significa che l’amministrazione mantiene integro il suo potere, e il cittadino che ricorre al giudice amministrativo rischia di rimanere frustrato nelle proprie aspettative. L’amministrazione può (e deve) essere piegata al rispetto delle regole, può (e deve) essere ridotta a servizio del privato. Basta trovare la via, e i suggerimenti concordi della dottrina sostengono che quella via è l’effettività, la quale viene intesa — è quello che prima è avvenuto con « il personaggio interesse pubblico » — in senso mitico, vale a dire come possibilità che il giudice amministrativo, specialmente se dotato di strumenti proces(10) La constatazione dell’assenza di norme regolatrici del rapporto cittadinoamministrazione è risalente nel tempo, cfr. PIERO D’AMELIO, La formazione giudiziale del diritto amministrativo, in Foro amm., 1989, 118 ss.; B. LEUZZI SINISCALCHI, L’esperienza della giustizia amministrativa in Italia: momenti giuridici e politici, in Foro amm., 1976, 808, nota 29, dove si riporta la affermazione di M.S. GIANNINI e A. PIRAS, Giurisdizione Amministrativa, in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, 293, che « il legislatore ha costantemente omesso di stabilire i presupposti di diritto sostanziale delle norme di diritto processuale che andava a dettare ».


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suali adeguati, possa garantire il risultato magico di mutare il volto dell’amministrazione. Appena viene scoperta l’effettività, il processo amministrativo si pone all’altezza del potere amministrativo, e può sostituirvisi completamente. Di questo la dottrina non si preoccupa (e neppure la giurisprudenza mostra di preoccuparsene), ma il rischio è proprio quello di falsare il significato autentico della funzione giurisdizionale, facendola scivolare nella funzione amministrativa (11). Mentre il vero obiettivo positivo da perseguire doveva essere quello di non intaccare la sfera di autonomia della pubblica amministrazione, precisando (se possibile) i termini di un corretto rapporto del cittadino con essa, si è preferita la scorciatoia di trasferire il potere amministrativo in capo al giudice amministrativo, che lo esercita in forma giurisdizionale. Il mito dell’effettività della giustizia amministrativa è stato condiviso, come dimostra l’ambiente di consenso, pressoché unanime, suscitato dagli interventi innovativi del giudice amministrativo a favore del cittadino. È un insieme in cui dottrina e giurisprudenza si condizionano e si giustificano reciprocamente e, in nome dell’effettività, si ritrovano nel fatto di ridurre o addirittura di negare l’autonomia della amministrazione. La domanda di giustizia, alla quale il giudice amministrativo deve dare una risposta efficace, non può però prescindere dalla amministrazione, la cui autonomia resta al centro della questione, perché non si dà giustizia amministrativa senza amministrazione, come solennemente affermato dalla classica formula giustizia nell’amministrazione, fatta propria dalla Carta costituzionale. Non si tratta di disconoscere quanto di legittimo e utile vi sia nella tendenza (ormai consolidata) a esercitare il controllo giurisdizionale con modalità che entrino nella dinamica dell’esercizio del potere, al fine di indirizzare l’azione amministrativa futura; epperò, se si vuole operare un discernimento critico di questa tendenza, che, sotto l’influsso del criterio dell’effettività, ha interpretato in modo (11) In nome di un processo paritario, si auspica da tempo che nel processo amministrativo debbano coesistere « annullamento e accertamento, ma anche accertamento e condanna, i quali non debbono essere collegati a situazioni giuridiche soggettive prefigurate astrattamente, ma solo alla domanda giudiziale », cosı̀ V. DOMENICHELLI, Per un processo paritario, in questa Rivista, 1996, 425.


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radicalmente nuovo il rapporto della giustizia con l’amministrazione, si deve affermare che la formula giustizia nell’amministrazione risulta falsa: l’amministrazione si annulla nella giustizia, e la giustizia si tramuta in amministrazione. Questa formula ha, all’origine, suscitato una riflessione nella quale si è tenuta distinta l’amministrazione dalla giustizia, e non si può dimenticare che questa distinzione è stata utile, perché ha reso possibile la configurazione del ricorso al Consiglio di Stato come un vero e proprio rimedio giurisdizionale. I diversi modi secondo cui amministrazione e giustizia perseguivano le rispettive finalità non solo non si sovrapponevano fra loro, ma al contrario si compenetravano a vicenda. Ambedue contribuivano alla legalità dell’azione amministrativa, alla quale spettava la cura dell’interesse pubblico, la cui affermazione, se fatta legalmente, non rappresentava una minaccia per l’interesse privato (12). In questo disegno, l’unica via per la soddisfazione dell’interesse privato era quella di poter conseguire in sede giurisdizionale l’annullamento dell’atto illegittimo. La contrapposizione tra questi due interessi si è continuamente riproposta con singolare forza in rapporto alla giustizia amministrativa, e in particolare in rapporto alla effettività di questa. Il dibattito sul carattere formale della giustizia amministrativa, che ha sempre accompagnato la riflessione di accademici e di magistrati scrittori, ha assunto toni accesi, negli anni ’80, con la massima espansione dello Stato sociale, come si può rilevare dagli scritti che si sono occupati del tema. Ancora oggi, la tensione tra interesse privato e interesse pubblico appare attuale, e cosı̀ il dibattito sulla giustizia amministrativa resta segnato da questa tensione (13). Nel presupposto di un (12) Si veda P. D’AMELIO, op. cit., 125, nota 19, dove si ricorda l’articolo di BOZZI, La giustizia amministrativa di Silvio Spaventa e Benito Mussolini, in Riv. dir. pubbl., 1934, 260/69, nel quale si affermava che « cittadino e organi dell’amministrazione non si pongono in conflitto, ma collaborano, attraverso un contrasto che lo Stato stesso ha voluto perché per esso il controllo riuscisse più proficuo alla legittimità dell’attività amministrativa ». (13) Si veda da ultimo, F. SATTA, La nuova giurisdizione esclusiva: le regole del processo, relazione, inedita, al 49o Convegno di Studi Amministrativi di Villa Mona-


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perenne conflitto dell’amministrazione con il cittadino, si auspica una sottomissione totale della prima al secondo, il quale godrebbe di un primato, esattamente speculare a quello che prima era riconosciuto all’amministrazione sul singolo. Ma nell’epoca contemporanea il conflitto tra i due interessi si presenta in un senso completamente differente: il singolo reclama l’affermazione del suo interesse nei confronti di tutti i cittadini, non nei confronti di una sfera pubblica che, nella rappresentazione originaria, era costituita dalla pubblica amministrazione nelle sue varie articolazioni (14). Nonostante il mutato contesto, la dialettica tra « pubblico » e « privato » continua a essere considerata come fosse la caratteristica strutturale della giustizia amministrativa, e sono in molti a misurare l’utilità di questa sulla base di un riscontro circa la sua effettività, intesa quale capacità di affermazione concreta del secondo sul primo. Si ripetono gli appelli, ormai datati, con i quali il giudice amministrativo era sollecitato ad abbandonare la logica della mediazione tra « pubblico » e « privato » a vantaggio di un cittadino astretto dai bisogni, la cui tutela era assunta dallo Stato come ragione della sua stessa esistenza. Tutti si dichiarano sensibili alle istanze del cittadino, che concepiscono in contrasto con l’amministrazione, anche se si tende a misconoscere a questa non solo la dimensione autoritativa, ma anche l’autonomia. Si vuole un’amministrazione ridotta a materiale per il giudice amministrativo: essa dovrebbe essere trasformata nel processo, anzi superata, dal momento che costituisce un limite e una negazione della pretesa del singolo. Solo con la promozione senza misura del potere del giudice amministrativo, l’instero di Varenna, su L’evoluzione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, dove si afferma, 11, che « certi diritti esercitati dal privato si intrecciano indissolubilmente con l’interesse pubblico, con la conseguenza che in nome dell’interesse pubblico essi sono oggetto di intervento dell’autorità amministrativa, senza per questo perdere la loro natura di diritti ». Uno strano intreccio che consente a due elementi eterogenei di essere strettamente compenetrati, senza far perdere l’identità a nessuno dei due. (14) Cosı̀ ancora S. COTTA, op. cit., ove si sostiene che le controversie non sono tra privati o tra amministrazione e privati riguardo ai rispettivi diritti e doveri sotto la legge, al fine di ottenerne una rigorosa applicazione, bensı̀ tra il privato e la legge stessa dello Stato, vale a dire tutti.


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teresse individuale potrà affermarsi sulla amministrazione, la quale sta a significare tutto ciò che si colloca al di fuori della libertà di agire del singolo, e si oppone a quanto questo vuole realizzare. Ciò, in ultima analisi, vuol dire che l’amministrazione, ridotta a materiale disponibile, finisce per essere una realtà informe e sprovvista di significato finché non venga conformata dal giudice amministrativo con una pronuncia definitiva. Di conseguenza, essa deve essere presente nel giudizio non come controparte processuale, titolare di un proprio interesse, ma quale presupposto necessario alla pronuncia del giudice, il cui punto di riferimento è costituito dalla sola istanza del singolo che il processo è chiamato a riconoscere pienamente, se vuole essere effettivo. Per questo l’effettività esprime un significato differente da quello sino ad ora indicato: essa si riferisce alla pretesa « particolare » del singolo, che pretende di affermarsi nei confronti di « tutti ». La sua definizione deve essere fatta con riferimento esclusivo al modo nuovo di intendere i « diritti » (15), che l’individuo rivendica nel processo, e non può essere concepita, come in un certo passato, in funzione di un presunto rapporto tra cittadino e amministrazione, secondo il quale appariva congruo risolvere il conflitto tra « pubblico » e « privato » imponendo all’amministrazione di tenere un preciso comportamento. 3. Se è vero che, nell’incertezza (o meglio nell’assenza) di una normativa sostanziale e processuale, è andato sviluppandosi un orientamento giurisprudenziale attento a valutare la possibilità di garantire utilità sempre maggiori al cittadino vittorioso nel processo, è altrettanto vero che ciò è avvenuto senza mai mettere (almeno apertamente) in dubbio l’autonomia della amministrazione. Da molti punti di vista, si registrò una congiuntura favorevole per un processo che, superata la logica dell’atto, fosse in grado di soddisfare i bisogni emergenti. L’effettività fu la forza di persuasione mediante la quale il giudice amministrativo ha, da un lato, assecondato le trasformazioni del sociale, e, al tempo stesso, ha (15) Si rinvia a G. ROMEO, Il giudice amministrativo nella società tardomoderna, in questa Rivista, 1997, 183 ss.


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partecipato attivamente al compito di realizzare obiettivi di giustizia sociale in coerenza con il nuovo modo di porsi della formaStato. Nonostante alcune forzature (e anche timidezze), si costituı̀ una modalità di giustizia capace di fronteggiare l’azione del giudice ordinario (civile e penale), il quale tendeva a sostituirsi alle autorità amministrative competenti. L’amministrazione si incontrava con la giustizia in un processo, in cui il vecchio e il nuovo potevano fondersi, senza però che l’una si risolvesse nell’altra. Senza alcuna pretesa di voler essere esaustivi, si può dire che le tappe più significative (e ben note) del percorso verso l’effettività del processo amministrativo, siano: l’accesso alla giustizia, i mezzi cautelari e il giudizio di ottemperanza. Il cammino ha inizio con la larga applicazione del principio dell’errore scusabile, che, all’origine, la giurisprudenza ha considerato quale « istituto di generalissima applicazione nel sistema della giustizia amministrativa », siccome finalizzato a garantire l’effettività della tutela giurisdizionale: circostanze oggettive, quali comportamenti, indicazioni o avvertenze fuorvianti provenienti dalla stessa amministrazione ovvero incertezze normative, connesse a difficoltà interpretative, che abbiano potuto ingenerare l’errore incolpevole dell’interessato, possono giustificare la mancata applicazione della sanzione di inammissibilità del ricorso, alla quale l’amministrazione ha diritto. L’applicazione di tale principio non si presenta, però, con la pretesa di rendere effettivo il processo. Esso ha una fisionomia molto specifica: il potere discrezionale del giudice di disporre la regolarizzazione risponde, in realtà, più « all’esigenza di adeguare la ragione d’equità alla varietà dei casi pratici » (16), che a quella di rafforzare la ampiezza della tutela giurisdizionale ovvero la sua effettività, dal momento che è estranea a questa regolarizzazione ogni apprezzamento sul merito della vicenda processuale. Nel successivo sviluppo, dagli anni ’80 in avanti, il criterio di effettività assume un significato del tutto nuovo rispetto a quello sotteso al principio interpretativo dell’errore scusabile. Il suo modo di operare è all’interno del processo, che deve essere dotato (16)

Cfr. Cass. civ., Sez. II, 18 luglio 2002, n. 10441.


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di una incisività tale da poter riconoscere le nuove esigenze che venivano manifestandosi. Questo significa che la giustizia amministrativa, se vuole essere effettiva, deve abbandonare il mero garantismo formale, e partecipare al processo di strutturazione del sociale, inverando la qualità sociale dei soggetti e le loro posizioni. Sono gli anni in cui si acuisce il dibattito, da tempo avviato dai processualcivilisti, sulla effettività delle forme processuali, da cui viene fatta dipendere la stessa esistenza del diritto sostanziale (17), sulla opportunità di mantenere la distinzione tra diritto sostanziale e diritto processuale, sulla funzione strumentale della tutela giurisdizionale, avvalorata dalla costituzionalizzazione del principio processuale, espresso dall’art. 24 Cost. (« Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi »), il quale assicura ad ognuno l’accesso alla giustizia per la realizzazione di qualsiasi interesse comunque previsto e tutelato dall’ordinamento (18). Se si definisce con l’unico criterio della effettività la tutela giudiziaria, risulta chiaro che questa non deve servire, nel quadro della garanzia costituzionale del processo, solo ad assicurare a tutti una astratta libertà di agire, ma deve assolvere anche alla funzione di divenire « elemento costitutivo di fattispecie produttive di effetti sostanziali non altrimenti perseguibili ». Ne segue che la differenziazione, propria di una concezione autonoma dell’azione, del diritto sostanziale e del diritto processuale è destinata (17) Sul punto si veda F. ROSELLI, Il principio di effettività e la giurisprudenza come fonte del diritto, in Riv. dir. civ., 1998, II, 23 ss., per il quale l’effettività è condizione di esistenza di ogni ordinamento. Si veda anche G. SICCHIERO, Il principio di effettività ed il diritto vivente, in Giur. it., 1995, IV, 263 ss., il quale riprende « un prezioso scritto di Bianca » (Il principio di effettività come fondamento della norma di diritto privato: un problema di metodo della dottrina privatistica, in Estudios en honor de Castan Tobenas, II, Pamplona, 1969, 61 ss.), e sostiene che la legge diventa effettiva nella sua applicazione concreta. (18) Sull’argomento, L.P. COMOGLIO, Il diritto individuale alla tutela giudiziaria, in Commentario della Costituzione, a cura di G. BRANCA, Rapporti civili, BolognaRoma, 1981, sub art. 24, 6 ss., il quale ritiene che il grado di effettività della tutela giudiziaria si misura con la garanzia dell’accesso alla giustizia, nel senso che a ognuno deve essere data una possibilità seria e reale di ottenere una adeguata tutela del proprio interesse.


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a scomparire (19), e che il processo deve comunque garantire che il soggetto vittorioso sia pienamente soddisfatto, anche se la tutela non può estendersi al punto tale da offrire a chi agisce in giudizio ciò che lo stesso reclama (20). La cultura della effettività, quale espressione dell’unica essenza del processo civile, trascende quest’ultimo, e influenza anche il processo amministrativo. Rifiutare l’effettività significherebbe andare contro l’idea stessa di giustizia. Da tale premessa, la dottrina amministrativa sviluppa, con funzione di modello per il rapporto generale del cittadino con l’amministrazione, criteri che devono essere osservati nell’incontro di ogni vicenda che li vede contrapposti. Vengono individuati i limiti del modello di processo impugnatorio, specialmente in relazione alla sostanza sociale dei nuovi diritti, che si presentano come poteri di fatto che chiedono di essere riconosciuti e certificati giuridicamente. La domanda di giustizia rimanda per lo più al c.d. interesse pretensivo (di nuovo conio) ovvero alla valorizzazione di un bisogno che aspira ad essere giuridicamente rilevante, e, in connessione con questo, all’esercizio di un potere di fatto che chiede di essere legittimato, convertito in diritto. (19) In argomento, L.P. COMOGLIO, op. cit., 10. Dello stesso autore cfr. anche La garanzia costituzionale dell’azione ed il processo civile, Padova, 1970, e Giurisdizione e processo nel quadro delle garanzie costituzionali, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1994, 1075. Sulla distinzione tra diritto sostanziale e diritto processuale, V. DENTI, Intorno alla relatività della distinzione tra norme sostanziali e norme processuali, in Riv. dir. proc., 1964, 64 ss. Da una lettura differente dell’art. 24 Cost., che ne limita l’oggetto alla sola tutela processuale, è scaturita una posizione contrapposta per quanto riguarda il superamento della distinzione tra norme processuali e norme sostanziali, secondo la quale questa distinzione va mantenuta, e la pretesa di estendere l’applicazione della garanzia costituzionale di fuori dello specifico ambito del processo, può essere causa di confusione. Cfr. al riguardo E.T. LIEBMAN, Illegittime restrizioni all’azione dei creditori nella liquidazione coatta amministrativa, in Riv. dir. proc., 1972, 6 ss., ove si disapprova espressamente la tesi di Comoglio, secondo cui l’orientamento della Corte costituzionale (sent. n. 85 del 1968) sarebbe per un graduale superamento della distinzione tra diritto sostanziale e processuale. La polemica tra i due è proseguita: in risposta a Liebman, Comoglio continua a vedere i sintomi di un ridimensionamento della separazione tra diritto materiale e disciplina processuale quale indice di un preciso orientamento verso la concretezza e l’effettività, e non quale causa di confusione, Il diritto individuale, cit., 52. (20) Cosı̀ ancora L.P. COMOGLIO, Giurisdizione e processo, cit., 1076.


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Con queste indicazioni diviene chiara la tendenza della effettività a protendersi oltre il contesto storico in cui ha fatto la sua comparsa, e a definire il nuovo modello fondamentale di processo amministrativo, che può essere attivato da chiunque si trovi in una determinata situazione e sia in grado di dimostrare che il vantaggio misconosciuto dall’azione amministrativa possa emergere a livello giurisdizionale. La valutazione della situazione di fatto del singolo diviene prioritaria alla verifica di un previo interesse legittimo, che un tempo era condizione necessaria per la legittimazione a ricorrere (21). La tendenza della giurisprudenza amministrativa a valorizzare l’interesse legittimo, quale strumento di conversione di interessi, non normativamente riconosciuti, in pretese giuridiche, appartiene a questo contesto. La domanda di giustizia, che deve essere soddisfatta, sorge da interessi negati, da aspettative disattese, da bisogni insoddisfatti, da posizioni solo parzialmente tutelate. Le soluzioni del giudice amministrativo lasciano trasparire sempre più il contatto con le critiche dell’epoca nei confronti della scienza processualcivilistica tradizionale in generale, e in particolare della impostazione data dal Chiovenda alla riforma del codice di procedura civile del 1942, alla quale è stato mosso l’addebito di « eccessivo formalismo e di concettualismo di marca tedesca » (22), e di avere isolato il processo dalla realtà politicosociale circostante mediante l’utilizzo di categorie proprie della scienza giuridica privatistica (ad esempio, l’azione come diritto soggettivo; il processo come rapporto giuridico), attenuando la percezione dei « valori politici ispiratori dell’ordinamento ». Il problema di ciò che, secondo la concezione tradizionale del processo, poteva essere visto come eccedente quest’ultimo, viene nondimeno risolto dal giudice amministrativo con uno sforzo interpretativo che contribuisce alla realizzazione di obiettivi di giustizia sociale, senza mai sostituirsi pienamente alla pubblica am(21) Sul tema, si rinvia a G. ROMEO, Interesse legittimo e interesse a ricorrere: una distinzione inutile, in Scritti per Mario Nigro, III, Milano, 1991, 496 ss. (22) Reagiscono con decisione a questa accusa E. ALLORIO, Trent’anni di applicazione del Codice di procedura civile, in Comm. cod. proc. civ., Milano, XIII ss. e E.T. LIEBMAN, Storiografia giuridica « manipolata », in Riv. dir. proc., 1974, 100 ss.


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ministrazione, a differenza dell’azione del giudice ordinario che, sollecitato a soddisfare bisogni fondamentali, ritenuti costituzionalmente rilevanti, è apparso assumere un ruolo di supplente del potere amministrativo. 4. Il movimento verso l’effettività della tutela giurisdizionale giunge al massimo suo traguardo nel giudizio cautelare (23). In questo ambito, l’effettività è diventata possibilità concreta: essa si incontra con l’esigenza di assicurare gli effetti della sentenza che conclude il processo. Proprio il concentrarsi sull’« esigenza di massima strumentalità del processo rispetto al diritto sostanziale (ovvero di effettività del diritto di azione e della tutela giurisdizionale) » (24) ha dischiuso le porte del processo cautelare a tutti: ogni ricorrente può ottenere la misura cautelare (che continua a essere denominata sospensione degli atti impugnati) in virtù del danno grave e irreparabile. Il tema della effettività, quale attitudine fondamentale della tutela giurisdizionale, modifica la struttura del processo cautelare, il cui esito appare sempre più segnato da una decisione senza processo: si corre verso il giudice amministrativo, verso un rimedio in cui non è necessario verificare se la situazione reclamata sia conforme a diritto. Ma, proprio per questo motivo, il fatto che la tutela interinale possa essere realizzata anche mediante strumenti diversi ed eccedenti la pura e semplice paralisi degli effetti formali dell’atto impugnato, imponendo all’amministrazione di tenere un preciso comportamento, non significa che venga riconosciuto un mutato (o addirittura nuovo) rapporto del cittadino con l’amministrazione. Il potere amministrativo è contrassegnato dalle modalità indicate dal giudice amministrativo, e la sua reiterazione non può prescinderne. La novità (23) Per una disamina completa sotto il profilo dottrinale e giurisprudenziale, si veda L. PERFETTI, Tutela cautelare inaudita altera parte nel processo amministrativo. Effettività della tutela ed effettività del processo, in Riv. ital. dir. pubbl. com., 1999, 93 ss., ove si lamenta il « sovraccarico del principio di effettività, divenuto una sorta di totem ». (24) Cfr. A. PROTO PISANI, Chiovenda e la tutela cautelare, in Riv. dir. proc., 1988, 21, ove è richiamato il celebre principio chiovendiano, secondo cui « il processo deve dare per quanto è possibile praticamente a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello ch’egli ha diritto di conseguire ».


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consiste nella congiunzione in capo al giudice amministrativo di un potere che trascende il formalismo del passato e della non necessità che il singolo vanti una posizione giuridica relazionata con il provvedimento amministrativo. L’esperimento di un processo cautelare non limitato alla sospensione dell’atto, ma tale da assicurare un risultato che a volte neppure la sentenza di merito riesce a produrre, si è basato su una idea previa al giudizio cautelare, secondo la quale il giudice amministrativo non incontra, in questa fase, i limiti propri del processo amministrativo. Vi sono molte ragioni che spiegano il successo di questo modo di intendere il giudizio cautelare, ma la più importante consiste nella eliminazione del nesso di strumentalità rispetto al processo e allo stesso diritto sostanziale. Il processo poggia su un fondamento, che è stato messo bene in evidenza: esso definisce il diritto nel caso concreto, e deve praticamente riconoscere al soggetto il risultato utile che la norma sostanziale gli assicura, lo stesso risultato che avrebbe dovuto ottenere dall’amministrazione. Ogni tentativo che pretendesse di scavalcare questo collegamento, che volesse ottenere in anticipo il risultato della (magari esorbitante rispetto alla) sentenza, contraddirebbe la disciplina del processo, che deve dare tutto quello (e solo quello) che (si) ha diritto di conseguire. All’interno di questa disciplina, tale limitazione è necessaria, perché è l’unica garanzia in grado di evitare che la giustizia cautelare si trasformi in una giustizia octroyèe, affidata alla discrezionalità del singolo giudice (25). E tuttavia, ciò di cui si è intravista la necessità è stato l’utilizzo di uno strumento, che la prassi giurisprudenziale ha trasformato (con il plauso della dottrina dominante) in norma di chiusura e assolutamente generica, la cui applicazione è rimessa alla opzione valutativa del giudice chiamato a decidere, senza alcuna garanzia per l’uniformità dei giudizi, il che non assicura, diversamente da quanto sostenuto, una tutela giurisdizionale effettiva delle situazioni di vantaggio. L’immagine di un potere cautelare, che non incontra limiti nel (25) A. Proto Pisani ritiene che la giustizia offerta dall’art. 700 c.p.c. sia una giustizia octroyée, Appunti, cit., 279.


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suo esercizio, è dovuta oltre che al clima culturale di allora, all’orientamento espresso dalla Corte costituzionale con la sent. n. 8 del 1982, emessa su ord. n. 29 del 22 aprile 1977 della Sezione IV del Consiglio di Stato (26). Senza questa determinazione della Corte costituzionale che ha sancito il principio, costituzionalmente garantito, del doppio grado di giurisdizione cautelare nel processo amministrativo, l’abbaglio di credere che i mali della giustizia amministrativa potessero essere risolti con il potenziamento del potere del giudice amministrativo in sede cautelare, sarebbe stato forse impossibile. L’incidente cautelare è divenuto una forma autonoma di tutela, che non ha alcuna relazione con la posizione soggettiva reclamata, che potrebbe essere compromessa irreversibilmente dalle lungaggini del processo, al quale finisce per essere assegnato un compito residuale. Allo sviluppo progressivo del potere cautelare ha contribuito anche l’insistente richiamo della giurisprudenza comunitaria, la cui importanza è stata decisiva per quella che è stata la formazione successiva del processo cautelare, quale si è venuto consolidando nel segno dell’effettività. Non è dubbio che il principio di effettività è stato un tema centrale della giurisprudenza comunitaria, la cui logica originaria non è stata però quella di prendere in considerazione diretta i soggetti esistenti nel territorio della Comunità, ma quella di garantire il primato della disciplina comunitaria su quella nazionale. La garanzia offerta, nel contesto giuridico comunitario, alle situazioni soggettive, ha rappresentato primariamente uno strumento efficace per la realizzazione della « Comunità economica ». Il primo riconoscimento (27) di diritti soggettivi, quale « contropartita di precisi obblighi che il trattato impone ai singoli, agli Stati membri ed alle istituzioni comunitarie », avviene con la decisione Van Gend & Loos (28), laddove si definisce pragmatica(26) La sentenza è criticata da E. GARBAGNATI, Doppio grado di giurisdizione cautelare nel processo amministrativo?, in Jus, 1982, 51. (27) Si veda in proposito, M.P. CHITI, L’effettività della tutela giurisdizionale tra riforme nazionali e influenza del diritto comunitario, in questa Rivista, 1998, 506. (28) La sentenza Van Gend &Loos 5 febbraio 1963 è stata emessa in una causa tra l’amministrazione olandese delle imposte e la Van Gend & Loos, la quale rifiutava


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mente la Comunità Europea come « un ordinamento di nuovo genere », e si afferma il principio di importanza basilare della « efficacia diretta » delle norme comunitarie, le quali sono idonee a conferire agli individui e alle persone giuridiche diritti soggettivi, che possono essere fatti valere in giudizio nell’ambito di ciascuno Stato membro (29). L’esperienza giuridica iniziale è caratterizzata dalla necessità di assicurare l’effettività delle norme del Trattato e del diritto posto dalle istituzioni della Comunità. Questa implica la prevalenza del diritto comunitario rispetto al diritto nazionale, cioè « l’impossibilità per gli Stati di far prevalere, contro un ordinamento giuridico da essi accettato a condizione di reciprocità, un provvedimento unilaterale ulteriore, il quale pertanto non è opponibile all’ordinamento stesso » (30). Successivamente viene compiuto un ulteriore passo in avanti: il criterio di effettività non comprende solo il principio della efficacia diretta delle norme comunitarie e del primato del diritto comunitario su quello nazionale, ma anche la tutela piena del diritto sostanziale comunitario, nel senso che le situazioni giuridiche da questo riconosciute non possono subire restrizioni ad opera di regole processuali di diritto interno (31). In questo senso, si può dire che è la normativa comunitaria a possedere il carattere essenziale della effettività: essa fonda situazioni giuridiche dei singoli, che devono essere tutelate innanzi agli organi giurisdizionali con modalità procedurali che non siano meno favorevoli di quelle dettate per i ricorsi analoghi di natura di pagare il dazio di importazione su una merce in misura superiore a quella applicabile successivamente all’entrata in vigore del Trattato CEE, sostenendo che il Governo Olandese ha violato l’art. 12 del Trattato (immediatamente precettivo e attributivo di singoli diritti soggettivi che i giudici nazionali sono tenuti a tutelare), che stabilisce che gli Stati membri si asterranno dall’introdurre fra loro nuovi dazi doganali all’importazione e all’esportazione o tasse di effetto equivalente, e dall’aumentare quelli che applicano nei loro reciproci rapporti commerciali. (29) L’obbligo della tutela da parte delle giurisdizioni nazionali dei diritti attribuiti ai privati da norme comunitarie è stato pienamente affermato nella sent. 17 dicembre 1970 in causa 33/70, Sace, in Foro it., 1971, V, 97. (30) Sent. Costa c. ENEL del 15 luglio 1964. (31) Sul punto, M. CHITI, op. cit., 505.


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interna, ovvero che non rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti che i giudici nazionali sono tenuti a tutelare (32). Il rapporto tra sostanza e processo, tra diritto sostanziale e rimedi è chiaro (33): nessuna confusione tra l’una e l’altra cosa. È proprio mediante il processo che si realizza l’effetto utile della norma comunitaria dotata di efficacia diretta; un’efficacia che sarebbe affievolita se i cittadini di uno Stato membro destinatario non potessero avvalersi in giudizio di tale norma, e se i giudici nazionali non potessero prenderla in considerazione come parte integrante del diritto comunitario. L’accrescimento dei poteri del giudice nazionale nell’applicazione del diritto comunitario, specialmente per quanto attiene alla tutela cautelare, pur scissa dal processo di merito, risponde, quindi, ad una esigenza della disciplina comunitaria, che è quella di assicurare che la sua efficacia sia superiore a quella della normativa nazionale (34). Il modo di articolare l’effettività in ordine al processo cautelare, invece, ha aperto una breccia nell’amministrazione, la cui azione viene (in via provvisoria) modellata dal giudice che, in virtù dei nuovi poteri di cui si è dotato, definisce di volta in volta quali interessi del cittadino debbano essere riconosciuti. Un’idea ultima si è cosı̀ fatta strada in nome dell’effettività. Si è finto di credere che la tutela cautelare potesse risolvere il problema del tempo del processo. A una disfunzione del processo si è cercato di porre rimedio con altra patologia, quella di un giudi(32) Sentenza Corte di Giustizia CE, 17 novembre 1998, n. 228; sentenza Corte Giustizia CE, 5 marzo 1980, n. 265. (33) Di opinione diversa, M. CHITI, op. cit., 506, il quale sostiene che l’esperienza comunitaria cosı̀ particolare nella sua evoluzione dimostra quanto sia insostenibile la distinzione tra diritto sostanziale e diritto processuale. (34) Il modello di tutela cautelare, che è stato fatto proprio dalla Comunità con le direttive ricorsi n. 89-665 e n. 92-13, è quello di una tutela innominata, atipica e autonoma rispetto al giudizio di merito. Cfr. sent. 19 settembre 1996, in causa C-236/1995, che ha interpretato l’art. 2 della direttiva n. 665, nel senso che gli organi competenti sono tenuti ad accordare qualsiasi misura provvisoria « indipendentemente da ogni azione previa ». Osserva M. CHITI, op. cit., 515, nota 27, che questo inciso, riportato nella sentenza come citazione testuale dalla direttiva, non è presente nella direttiva stessa.


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zio cautelare che esorbita dalla funzione propria di assicurare gli effetti della decisione finale, che non possono essere pregiudicati dall’attività amministrativa, svolta in pendenza del processo. 5. L’ottemperanza è l’ambito dove l’effettività diventa la barriera contro le forme, è divenuta essa stessa l’antiforma, che garantisce i risultati ottenuti (e ottenibili) nel processo. In questa, infatti, si misurano la compiutezza e l’effettività del giudizio amministrativo (35). Quando si è insistito sui mali della giustizia amministrativa, il cui « punto nodale » è stato considerato il giudizio di ottemperanza, reclamando che esso deve essere strutturato in forma tale da garantire l’effettività di risultati, non si è sollevato alcun interrogativo sulla specificità del processo amministrativo, sul fatto che esso sconta la problematica che tocca la dimensione giuridica dello stesso Stato (36). Può forse essere utile accennare ancora una volta al clima culturale degli anni ’70-’80, caratterizzato da un brusco cambiamento di prospettiva, proveniente dalla nuova concezione di Stato, che da una tutela soggettiva passa a una protezione oggettiva volta a tutelare non solo diritti, ma direttamente contenuti sociali. La dimensione della garanzia — si afferma — viene a superare « lo schema statico, e “negativo”, del tradizionale diritto di libertà, coinvolgendo i contenuti attivi e “positivi” del diritto “sociale” » (37). Dietro l’esigenza che la tutela accordata al cittadino deve essere « effettiva », cioè tale da soddisfare il bisogno di giustizia sostanziale, resta in ombra la difficoltà costitutiva dello Stato di realizzare una immediata tutela « materiale » del cittadino, secondo un sistema di « diritti sociali », i quali obblighino (35) Numerosi sono gli scritti sul tema. Tra quelli che hanno messo in discussione in modo significativo l’originario giudizio di ottemperanza, S. GIACCHETTI, Un abito nuovo per il giudizio di ottemperanza, in Foro amm., 1979, I, 2618 ss. (36) Per L.P. Comoglio, va fatto un riesame critico della tutela esecutiva alla luce del principio di effettività, predicato dalla Costituzione (comma 1 dell’art. 24 e comma 2 dell’art. 3), secondo il quale deve essere valutata la completezza astratta delle norme previste, e la nuova esigenza di effettività di risultati, ID., Principi costituzionali e processo di esecuzione, in Riv. dir. proc., 1994, 450 ss. (37) Cosı̀ L.P. COMOGLIO, Il diritto individuale, cit., 51.


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lo Stato stesso a compiere una determinata attività attraverso un ben preciso apparato (38). Tuttavia, il giudizio di ottemperanza diviene l’immagine simbolica della crisi della giustizia amministrativa, nei cui confronti si alimenta il sospetto della inutilità. Di fronte a questa critica, il giudice amministrativo provvede a dotarsi di strumenti necessari per imporre alla amministrazione il rispetto della legalità obiettiva, come definita nel giudizio di cognizione, il quale deve esprimere compiutamente « la volontà concreta della legge », senza rimandare ad ulteriore momento cognitorio il definitivo accertamento dell’interesse sostanziale del ricorrente. L’ambiguità mitica della effettività fa sorgere nel giudice amministrativo un atteggiamento di eccessiva fiducia nella propria capacità di innovazione e, viceversa, la seduzione del mito dell’effettività è divenuta possibile perché egli ha pensato di non essere al passo con i tempi e di essere in grado di risolvere, con un rafforzamento del proprio potere, i problemi dei cittadini che reclamavano giustizia sostanziale. Il risultato di realizzare, in assenza di modifiche legislative, un profondo mutamento del giudizio di ottemperanza, originariamente concepito quale procedimento diretto ad adeguare lo stato di fatto allo stato di diritto determinato dalla decisione (39), poté essere apprezzato unicamente in virtù della effettività, intesa appunto in senso « mitico ». Il cambiamento che ha reso possibile l’adattamento di un istituto vecchio ad una situazione nuova, la quale richiede, anche nella prospettiva costituzionale, che il disposto delle pronunce giurisdizionali venga portato ad effetto, è avvenuto con la manipolazione di categorie sedimentate, quali « potestà », « interesse (38) Sul Welfare State che non produce una struttura istituzionale garantistica, specificamente idonea a garantire i nuovi diritti sociali corrispondenti alle nuove funzioni e prestazioni dello Stato, L. FERRAJOLI, Stato sociale e Stato di diritto, in Pol. dir., 1982, 41 ss. (39) In proposito, A. VERRANDO, Note in tema di poteri del giudice dell’ottemperanza e effettività della tutela, in Giur. it., 1992, III, 1, 381 ss., ove si mette in luce la tendenza iniziale della giurisprudenza ad apprezzare principalmente, nel giudizio di ottemperanza, l’attitudine ad eliminare le conseguenze prodotte dall’atto annullato.


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legittimo », « diritto soggettivo », « obbligo », « atto amministrativo », di cui alla originaria normativa (artt. 27 n. 4 T.U.C.S., 90 e 91 reg. proc. C.S.). L’effettività ha supplito alla assenza di modifiche legislative e ha offerto una adeguata copertura a una innovazione che corrisponde a una ben precisa concezione del ruolo del giudice amministrativo: egli « può fare tutto ciò che la legge — esplicitamente o implicitamente — non gli vieti di fare », dal momento che « le norme positive nel processo amministrativo non dicono quasi niente sui relativi temi di fondo » (40). Il nuovo giudizio di ottemperanza, ormai liberato da ogni pastoia formale, trova nell’effettività un supporto che ne garantisce l’evoluzione verso una tutela sempre più incisiva, « reale, sollecita ed efficace delle posizioni soggettive lese dall’atto o dal comportamento illegittimo della Pubblica Amministrazione » (41), la quale viene realizzata dal giudice amministrativo con l’esercizio « sia di poteri sostitutivi attribuitigli in sede di ottemperanza, sia di poteri cassatori e ordinatori che gli competono in sede di giurisdizione generale di legittimità » (42). Con questo, si accenna (in modo certamente esatto) a un altro elemento della effettività: la questione della tutela effettiva e la questione dell’oggetto del giudizio non possono essere separate. Se si assume che l’oggetto del giudizio non è la domanda motivata del singolo, ma l’atto o il c.d. rapporto, la giustizia rimane formale. La distinzione tra tutela formale e tutela reale perde il suo fondamento. (40) Cosı̀ S. GIACCHETTI, La crisi di effettività della giustizia amministrativa e il ruolo del giudizio di ottemperanza, in Foro amm., 1988, 1595 ss., ove si precisa anche che « nulla vieta che il giudice amministrativo continui a fare quello che ha sempre fatto finora: e cioè a crearsi — nei limiti della legge — i suoi attrezzi di lavoro ». (41) Questa è la tutela che una giustizia amministrativa deve apprestare, secondo G. CRISCI, Per una giustizia amministrativa effettiva e globale, in Foro it., V, 1986, 306. (42) Cfr. Cons. giust. amm. Reg. sic. 23 giugno 1994 n. 209, in Cons. St., 1994, I, 964, che sostiene che è possibile, in sede di giudizio di ottemperanza, integrare l’originario disposto del giudicato. Questa posizione è parsa eccessiva, ed è stata ridimensionata da Cons. Stato, Sez. IV, 6 febbraio 1999, n. 134, che vuole « collocarsi in una posizione intermedia », nel senso che, dopo il giudicato di annullamento di un diniego di concessione edilizia, l’amministrazione ha il potere di « esaminare l’affare nella sua interezza », rinnovando il diniego, ma è precluso alla stessa di « tornare a decidere sfavorevolmente in relazione a profili non ancora esaminati », in Urb. e app., 1999, 1229 ss., con nota di Aldo RUSSO.


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L’effettività aiuta, quindi, a ripensare criticamente la funzione giurisdizionale nelle sue varie fasi; essa indica la strada del rinnovamento della giustizia amministrativa, senza dare indicazioni su come questa debba essere percorsa. Se si guarda alla giurisprudenza che ha rinnovato il giudizio di ottemperanza, sembra che quest’ultima sia stata determinata dalla volontà di dare attuazione ai precetti costituzionali (artt. 24, 100 e 103), da cui si deduce il principio di effettività della tutela giurisdizionale. Non sembra però che la garanzia costituzionale della tutela giurisdizionale, di cui all’art. 24 Cost., sia stata interpretata dalla Corte come riferibile anche alle situazioni sostanziali, salvo le ipotesi in cui le restrizioni a un diritto soggettivo, poste da una norma sostanziale, siano state considerate cosı̀ gravi da rendere, senza una ragione plausibile, estremamente difficoltoso l’esercizio del diritto (43). La costituzionalità delle norme processuali è stata scrutinata dalla Corte costituzionale con riferimento agli effetti concreti delle stesse, e la interpretazione che questa ha elaborato al riguardo pare muovere dalla premessa che non è sufficiente che venga astrattamente riconosciuta la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi, ma occorre che tale tutela sia operativa, efficace, che abbia cioè la capacità di essere realizzata. La norma processuale è incostituzionale se detta una disciplina, la cui applicazione rende eccessivamente difficile, se non impossibile, il concreto esercizio del diritto di azione e di difesa (44). Anche in questo caso sembra si sia verificata una trasposizione di piani: dalla realtà di una tutela effettiva che la norma processuale deve garantire nella sua operatività, vale a dire in relazione alla posizione riconosciuta dalla norma sostanziale e accertata con il giudicato, si è passati al piano della metarealtà di una tutela, il cui grado di effettività si misura non dalla traduzione operativa delle statuizioni del giudicato, ma dalla possibilità di (43) Sul punto, E. LIEBMAN, Illegittime restrizioni, cit., nota 5, 8. (44) In argomento L.P. COMOGLIO, La Corte costituzionale ed il processo civile (Rassegna di giurisprudenza 1956-1968), in Riv. dir. proc., 1971, 765 ss.


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integrazione del giudicato stesso, al fine di soddisfare una pretesa dell’interessato che non è stata accertata in sede giurisdizionale nei termini in cui viene attuata nel giudizio di ottemperanza (45). 6. L’effettività, in tempi recenti, ha contrassegnato anche numerosi interventi legislativi con i quali sono stati introdotte numerose procedure speciali (46), le quali rischiano di risolversi in « privilegi ingiustificati » (47). La problematica del « giusto processo » è stata ridotta ad un unico aspetto: quello della rapidità del processo, giustamente considerata elemento essenziale del principio costituzionale della effettività della tutela giurisdizionale (48). La questione tocca però i fondamenti del processo. Si tratta di che cosa è il giusto processo e quali altri principi, anch’essi costituzionali, devono essere rispettati: contraddittorio, parità tra le parti, completezza della istruttoria, diritto di difesa, predeterminazione legale del rito, necessità che la soluzione abbreviata sia voluta da tutte le parti, e non affidata alla discrezionalità del giudice (49). Come si vede, si è preferito seguire la via dell’effettività, nel cui nome si giustifica l’introduzione di una pluralità di termini di difficile coordinazione. Ciò che, in questa soluzione, desta preoccupazione non è tanto il pragmatismo superficiale che denota, quanto il fatto che suscita la convinzione che il problema della durata del processo dipenda dal processo ordinario e che possa (45) È questa l’utilità del mito « nel suo significato essenziale di trasposizione di piani, di processo cioè che costringe una realtà a compiere un vistoso salto di piani trasformandosi in una metarealtà », cfr. P. GROSSI, Mitologie giuridiche della modernità, 45, Milano, 2001. (46) Cfr. CARINGELLA-DELLA VALLE, I processi amministrativi speciali, Milano, 1999; P. DE LISE, I procedimenti speciali, in Cons. St., 1999, II, 1773 ss. (47) Cosı̀ si esprimeva G. VERDE con riferimento a diverse leggi che avevano introdotto procedure speciali, Le tecniche processuali come strumento di politica del diritto, in Studi in memoria di S. Satta, II, Padova, 1982, 1867 ss. (48) In proposito v. G. SCARSELLI, La ragionevole durata del processo, in Foro it., 2003, V, 126 ss., dove si sostiene che, dopo la l. cost. 23 novembre 1999, n. 2 che ha riscritto gran parte dell’art. 111 Cost., « in nome del principio di ragionevole durata del processo si è pensato di fare un po’ di tutto », senza considerare che il giusto processo non si realizza solo con l’abbreviazione dei tempi del processo, e che un processo breve non è detto che per ciò stesso sia giusto. (49) Si veda ancora G. SCARSELLI, op. cit.


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essere risolto con una disciplina normativa, tale da accelerare i giudizi con un dimezzamento dei termini. Non esiste alcuna relazione tra la disciplina del processo amministrativo ordinario e la eccessiva durata dei giudizi (50): il processo non ha durata ragionevole per la semplice ragione che il numero dei ricorsi non definiti, accumulatisi negli anni, non consente una rapida trattazione di quelli introitati annualmente che sono superiori alla capacità dell’apparato (magistrati e addetti alle segreterie). L’illusione di pensare che il processo non funziona per colpa delle norme esistenti, denuncia, come è stato efficacemente detto in tempi non recenti, una « pericolosa tendenza al semplicismo che vuole risolvere le disfunzioni del processo con l’introduzione di nuovi riti speciali per assicurare maggiore speditezza dei giudizi, come se la giustizia dovesse misurarsi con il tachimetro » (51). Nella radicalizzazione di questa tendenza non si chiarisce che il problema del ritardo dei giudizi non è di carattere tecnico, ma dipende dal « diffondersi della litigiosità », che ha assunto « dimensioni patologiche e si trascina nel tempo come un male endemico » (52). In questo clima di litigiosità diffusa, una disciplina che pretende di risolvere la complessa relazione tra tempo e processo in una determinata materia con la riduzione dei termini (ci si riferisce all’art. 19 del d.l. n. 67 del 1997) appare come una disciplina che attribuisce privilegi, senza apprestare rimedi in grado di risolvere il grave problema del ritardo dei giudizi. Il dimezzamento di « tutti i termini processuali »; la possibilità che, in sede di domanda cautelare, possa essere definito « immediatamente » il merito; la previsione di una motivazione in forma abbreviata; il fatto che il ricorso, con istanza di sospensiva, se viene depositato subito dopo la notifica, possa essere definito nel merito nella prima camera di consiglio utile dopo la scadenza del termine di cinque (50) Cfr. M.E. SCHINAIA, Gli interessi generali emergenti e l’effettività della tutela giurisdizionale, in Cons. St., II, 1999, 1763 ss., ove dice chiaramente che l’introduzione delle corsie preferenziali e dei riti speciali è stata « imposta dal legislatore, come se il ritardo dipendesse da norme processuali inadeguate ». (51) La valutazione sui nuovi riti speciali è di E. ALLORIO, op. cit.. LCIII ss. (52) In argomento, S. COTTA, op. cit., 772 ss., ove si analizzano i possibili fattori generali di crescita della litigiosità.


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giorni successivi alla notificazione (53), possono essere considerati traguardi notevoli. Altri riti speciali esistono, e in tutti si ritrovano le medesime caratteristiche (54), che indicano il percorso che la giustizia amministrativa deve seguire per diventare effettiva: « il rito speciale dovrebbe divenire ordinario », all’insegna della « semplificazione e dello snellimento processuale ». La sensazione che la rapidità del processo sia la forma giusta del processo è abbastanza generale e si diffonde sempre più, anche perché i tempi della giustizia si allungano piuttosto che restringersi. Che grado di efficacia possiede il rimedio di introdurre procedure speciali al fine di conseguire decisioni rapide? Non esiste forse il sospetto che il discorso tecnico ne contrabbandi un altro, ispirato a una visione economicistica della giustizia, in cui si determina a priori quali sono le controversie che debbono essere indirizzate in una corsia preferenziale? Un sospetto che non pare dissipato neppure dalla sent. n. 427 del 10 novembre 1999, secondo la quale la deroga al regime ordinario del processo amministrativo, di cui al citato art. 19 del d.l. n. 67 del 1997, non è stata ritenuta in contrasto con gli artt. 3, 24, 103, comma 1, 113 e 125 Cost., in quanto giustificata dalla diversità e dalla peculiarità della materia (opere pubbliche o di pubblica utilità, e attività e procedure connesse). La riduzione a metà dei termini processuali è parsa del tutto ragionevole se considerata in relazione al preciso obiettivo di accelerazione delle controversie in una materia, quale quella di esecuzione di opere « tradizionalmente incrementatrici di occupazione », e non implicare modalità di esercizio della tutela giurisdizionale cosı̀ gravose da renderla impossibile o estremamente difficile. Come in passato si manifestò un atteggiamento critico nei confronti della risposta che la Corte costituzionale aveva dato agli (53) L’esempio è proposto da P. DE LISE, op. cit., 1780. (54) I problemi processuali, posti dalla introduzione dei procedimenti speciali, non sono stati pochi a giudicare dai numerosi interventi della Adunanza Plenaria in proposito, per cui è possibile dire che il prezzo pagato per questi sistemi di tutela « differenziata » è stato molto alto in termini di appesantimento dell’iter del processo e di incertezze.


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interrogativi posti dalle numerose ordinanze, con le quali era stata denunciata l’incostituzionalità di diverse leggi speciali, specialmente per ciò che si riferiva al mancato approfondimento delle ragioni che avevano indotto il legislatore a introdurre le varie procedure speciali (55), cosı̀ anche oggi pare che lo stesso atteggiamento si possa mantenere nei confronti della risposta che la Corte ha dato all’ordinanza con la quale è stata denunciata l’incostituzionalità dell’art. 19 del d.l. n. 67 del 1997. Non si può certo dire che le pretese fatte valere nelle controversie relative alla materia di esecuzione di opere, anche se ritenute « tradizionalmente incrementatrici di occupazione », richiedano una forma di tutela speciale. Piuttosto, viene da pensare che gli interessi forti prevalgano sul complesso degli interessi legittimi deboli, che attendono da anni di essere riconosciuti con un processo normale (56), e che il rimedio previsto difficilmente potrà essere accettato dalla generalità degli utenti della giustizia amministrativa (57). 7.

Il rapporto tra effettività e giustizia amministrativa è or-

(55) Si veda G. VERDE, op. cit. (56) L’idea della c.d. « tutela differenziata » è sorta nella dottrina processualcivilistica intorno agli anni ’70 (cfr. A. PROTO PISANI, Tutela giurisdizionale differenziata e nuovo processo del lavoro, in Foro it., 1973, V, 207 ss., e Appunti, cit., 211 ss.) e doveva servire ad assicurare « tutela giurisdizionale (effettiva) ad una serie di situazioni di vantaggio nuove a livello di diritto sostanziale ». Questa idea, che già era apparsa ambigua « perché si contrabbanda con un discorso tecnico un discorso politico » (G. VERDE, op. cit., 1867), non può essere trasferita nell’ambito processuale amministrativo, perché nel processo amministrativo, a differenza del processo civile dove è scontata la riconoscibilità e la distinzione delle situazioni sostanziali da tutelare, non vi sono settori caratterizzati da diversità materiale di rapporti, e le situazioni tutelate, più che avere una definizione sostanziale data a priori, trovano tradizionalmente, o almeno perfezionano, i propri lineamenti con la sperimentazione della tutela giurisdizionale, G. BERTI, Amministrazione e Giustizia, in Commentario della Costituzione a cura di Giuseppe BRANCA, Bologna-Roma, 1987, 110. (57) Esprime disapprovazione per gli strumenti processuali recenti, tendenzialmente destinati a privilegiare interessi forti, lasciando pericolosamente aperto uno spazio in cui l’emersione di interessi deboli rischia di non trovare adeguata tutela, con un’evidente lesione non solo delle prerogative dei loro portatori, ma anche un conseguente rischio di involuzione della società italiana, Mario S. SPASIANO, Tutela della persona, rimedi giustiziali e cittadinanza degli organismi privati di utilità sociale, in Le vie della giustizia, che raccoglie l’omaggio dei giuristi a Sua Santità Giovanni Paolo II nel XXV anno di Pontificato, a cura di Aldo LOIODICE e Massimo VARI, Roma, 2003, 309.


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mai definito: esso ha consentito (e consente) di risolvere la questione pratica del modo in cui la giustizia può continuamente rinnovarsi. Si è stabilita una circolarità tra effettività e giustizia, nel senso che la giustizia si è misurata sempre in rapporto alla effettività. Per tale via, da una parte il processo è in grado di corrispondere alla cultura del tempo, dall’altra anche il processo si arricchisce di strumenti che gli dischiudono orizzonti di effettività sempre nuovi. Di fatto, con l’introduzione dell’effettività è accaduto qualcosa di sorprendente: questo precetto cui si vuol dare rilievo costituzionale, che per sua natura pare svincolato dal rispetto delle forme esistenti, ha emarginato, in via definitiva, il modello vigente di processo impugnatorio come « formalismo arcaico », per divenire esso stesso il mito fondativo della giustizia amministrativa e al contempo la manifestazione della sua efficacia. Era, infatti, inevitabile che l’effettività, una volta messa in pratica, esigesse di superare il processo sull’atto: affinché potesse essere garantita una tutela reale del cittadino nei confronti della amministrazione, era necessario mettere in conto che il bene, la cui spettanza era stata accertata in giudizio, non poteva più essere messo in discussione dalla amministrazione. L’ottica entro la quale è sorto il tema della effettività è quello di regole processuali, viste dalla parte del cittadino che, vittorioso in giudizio, correva il rischio di non potere ottenere l’utilità sperata. Si può perciò dire che il principio di effettività sia stato affermato nella prospettiva del soggetto che agisce in giudizio, dal punto di vista di un soggetto che aspira ad un bene conseguibile nel processo. L’effettività presuppone che nel processo sia raggiungibile il bene per il quale è stato intrapreso il giudizio, e il giudice amministrativo si è reso interprete di questa realtà processuale e sostanziale. La sua particolare forma mentis (58) gli ha consentito di centrare l’attenzione sul problema di determinare quale sia l’interesse sostanziale del ricorrente e, su quello, di individuare gli strumenti necessari per soddisfarlo. Tale è l’imposta(58) Cfr. M.E. SCHINAIA, che evidenzia che lo sviluppo della giurisprudenza del giudice amministrativo verso la effettività delle sue decisioni sia stata resa possibile in primo luogo dalla sua forma mentis, Evoluzione del processo amministrativo nell’esperienza giurisprudenziale tra garanzia ed effettività, in Cons. St., II, 1997, 317 ss.


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zione fondamentale: tutto è possibile (nei limiti della legge, che sul punto dice poco o nulla) al giudice amministrativo per garantire l’effettività delle proprie decisioni; e se un rimprovero al medesimo può essere mosso, è quello di non avere fatto abbastanza, « pur non essendogli, ovviamente, imposto dalla legge di farlo ». In questo modo l’intervento del legislatore non è necessario, anzi potrebbe essere « deleterio », se ci si dovesse « appiattire sulle norme del processo civile » (59). È emersa, a questo punto, una nuova problematica interna al processo amministrativo attinente sempre al tema della effettività, e che non può essere risolta dal giudice amministrativo: si è venuta a creare l’esigenza di ridurre (meglio di eliminare), mediante l’ampliamento della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo con un blocco di materie, la diversità tra le due posizioni di interesse legittimo e di diritto soggettivo, che è spesso fonte di confusione per il cittadino e per i giudici coinvolti (amministrativo e ordinario), nonché quella di fare rientrare le questioni consequenziali, cioè il risarcimento del danno, nell’ambito di tale giurisdizione esclusiva allargata. Per questo ampliamento della giurisdizione esclusiva, non possono valere i tentativi che, in nome dell’effettività, il giudice amministrativo ha esperito con successo in altri campi: accesso alla giustizia, tutela cautelare, giudizio di ottemperanza. L’ampliamento della giurisdizione esclusiva non poteva avvenire che con l’intervento del legislatore. Certo, la fuga dall’atto amministrativo, dall’interesse legittimo, quale tecnica innominata di tutela, è stata preparata dal giudice amministrativo, il quale ambiva (60), da tempo, a concludere il percorso della effettività della giustizia amministrativa con un ampliamento della giurisdizione esclusiva. La riflessione non era interessata a determinare in modo concreto quale fosse l’interesse sostanziale che il singolo può conseguire nel processo amministrativo; né era ammesso che solo una rela(59) Cfr. M.E. SCHINAIA, op. cit., 328 e 329, dove si accenna all’« accordo dei più sulla fuga dal legislatore ». (60) Parla di « convergenze di vedute specie tra i magistrati amministrativi su questa soluzione dell’intervento minimale del legislatore », M.E. SCHINAIA, Evoluzione del processo, cit., 329.


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zione del cittadino con l’amministrazione, legalmente definita, venisse ad essere l’oggetto del processo, e meno ancora era accettato che la fissazione di regole sostanziali costituisse il centro della questione amministrativa. L’ampliamento della giurisdizione esclusiva interessa solo in quanto permette di giustificare ogni tipo di decisione sull’azione amministrativa o sulle regole: il fine è sempre quello di avere una giustizia effettiva, che è l’unica cosa che veramente interessa. Si deve agire prima sul processo, perché il bene sarà definito dopo come la concretizzazione di una giustizia effettiva. Se si abbandona la distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi e si fonda il riparto di giurisdizione sul diverso criterio delle materie, è perché il processo deve acquisire un carattere di illimitata strumentalità, nel senso che, a prescindere dalle situazioni fatte valere, esso deve garantire tutto quello che spetta al cittadino. Il fine ultimo del nuovo processo amministrativo è l’accertamento della utilità a cui si ha diritto; una utilità che non è deducibile a priori, in maniera compiuta, dalle norme esistenti, ma che viene determinata nel processo stesso in tutta la sua interezza. Di là delle ragioni di opportunità (compensazione per la assegnazione della giurisdizione in materia di pubblico impiego contrattualizzato al giudice ordinario) che hanno ispirato l’attuazione della delega di cui all’art. 11 della l. 15 marzo 1997 n. 59, avvenuta quasi surrettiziamente (61) con il d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, il legislatore delegato è, alla fine, intervenuto, e ha affidato alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo « tutte le controversie in materia di pubblici servizi » (art. 33), nonché quelle concernenti l’edilizia e l’urbanistica (art. 34). La devoluzione di queste materie alla giurisdizione esclusiva si giustifica non per la presenza di atti formalmente amministrativi, imputabili alla amministrazione, ma per il fatto oggettivo che l’attività risulta funzionalizzata alla tutela dell’interesse pubblico. Anche la ragione che in passato era stata posta a fondamento della giurisdizione esclusiva, cioè quella di evitare le difficoltà che po(61) Cfr. V. CERULLI IRELLI, La giurisdizione esclusiva e i servizi pubblici, relazione inedita al 49o Convegno di Studi Amministrativi, citato.


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tevano esserci circa l’esatta individuazione della posizione legittimante, è rimasta in ombra. La distinzione tra la posizione di diritto soggettivo e quella di interesse legittimo appare completamente inutile nella materia de qua in relazione alla riconosciuta risarcibilità del danno per lesione di interessi legittimi e, soprattutto, con riferimento al criterio oggettivo di tipo finalistico che presiede il nuovo riparto di giurisdizione, in virtù del quale si assegna esclusivo rilievo alla natura degli interessi di volta in volta perseguiti (62). Da questo punto di vista, si potrebbe affermare che si è giunti alla conclusione di un processo evolutivo che registra il cambiamento di un’amministrazione che ha smesso di essere garante di un corretto rapporto tra l’interesse pubblico e gli interessi dei cittadini (63), cosı̀ come la presenza di un giudice che, chiamato originariamente a sostituire l’amministrazione stessa in questa funzione di garanzia, diviene amministratore, assumendo il compito di avvalorare in sede processuale gli interessi rappresentati dalle parti. Il passaggio completo da un’amministrazione procedurale a una amministrazione giudiziale, compiuto in nome dell’effettività, è mancato solo per un incidente di percorso. La nota sent. n. 500 del 1999 della Corte di Cassazione ha momentaneamente offuscato il mito dell’effettività, cosı̀ come era stato vissuto nell’esperienza della giurisprudenza amministrativa e del legislatore. Con questa sentenza, si era per la prima volta interrotta la tradizione pubblicistica della società italiana (64), mediante la presa d’atto del tramonto di una sfera pubblica e del potere, a fronte del cui (62) Secondo F. SATTA, Relazione, cit., la ragione che giustifica l’attribuzione alla giurisdizione esclusiva delle materie dei servizi pubblici, dell’edilizia e urbanistica e dell’attività in regime di concorrenza, è la compenetrazione tra interesse pubblico delocalizzato dalla propria amministrazione di riferimento e attività pubbliche e private. (63) Si veda G. BERTI, op. cit., 86 dove si richiama l’originaria motivazione della istituzione del giudice amministrativo, che è quella della inidoneità della amministrazione di raggiungere risultati congrui nella direzione di un corretto rapporto tra interesse pubblico e interessi dei cittadini. (64) Sul fatto che la permanenza di un giudice amministrativo e lo sviluppo della giurisdizione amministrativa denunciano « sempre le tracce di un’anima amministrativa dello stato », e che, da questo punto di vista, dovrebbe guardarsi « con un certo sospetto


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esercizio non era ammessa la configurazione di diritti soggettivi, e mediante la conseguente rimozione del tabù della irrisarcibilità degli interessi legittimi. Lo sviluppo successivo mostra in modo esemplare che il processo per garantire una giustizia amministrativa effettiva ha ripreso il suo corso, ed è giunto a maturazione con la l. n. 205 del 2000, la quale ha realizzato, « all’improvviso, la più radicale riforma della giustizia amministrativa da un secolo in qua » (65). La riforma — è noto — è stata attuata per far fronte a una emergenza reale: tamponare la falla apertasi con la sentenza della Corte cost. n. 292 del 17 luglio 2000, che ha dichiarato incostituzionale per eccesso di delega l’art. 33 del d.lgs. n. 80 del 1998. Essa è venuta immancabilmente alla luce quando il percorso della effettività si è compiuto. L’ispirazione che la sorregge è quella dell’efficacia pratica della giustizia amministrativa, che deve essere, secondo la cultura giuridica contemporanea, effettiva e tempestiva. Il valore della giustizia amministrativa si misura con il metro economico del tempo. Se la nuova l. n. 205 del 2000 non ha un disegno sistematico che la sorregge, essa ha certamente uno scopo: il consolidamento delle molte indicazioni che la giurisprudenza aveva anticipato per dare effettività al processo (66). Su tutti gli aggiustamenti introdotti incombe la necessità che il processo sia effettivo e venga portato celermente a compimento: procedimenti abbreviati, motivi aggiunti per l’impugnazione di nuovi provvedimenti emessi in corso di giudizio su altro provvedimento connesso, accesso agli atti in pendenza di ricorso, fissazione della data dell’udienza nella ordinanza che dispone i mezzi istruttori, termine per il deposito dell’intervento, decisione rapida dei ricorsi avverso il silenzio rifiuto, la nuova misura cautelare che, modellata sul tipo di quella contenuta nell’art. 700 c.p.c., appare più la acquisizione da parte del giudice amministrativo di competenza esclusiva in determinate materie », G. BERTI, op. cit., 90. (65) Cosı̀ C. CALABRÒ valuta la l. n. 205 del 2000, Giudicato/III) Diritto processuale amministrativo, Estratto dal volume Aggiornamento XI della Enc. giur., Roma, 2003, 3. (66) Di questo è particolarmente orgoglioso il giudice amministrativo, cfr. per tutti, C. CALABRÒ, op. cit..


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strettamente collegata con il giudizio di merito (67), decisioni in forma semplificata, procedimento di ingiunzione. Sono pochi articoli, ma precisano la scelta determinante di un processo amministrativo dove spicca la caratteristica specifica dell’effettività, che ne ha provocato la trasformazione decisiva, sconvolgendo uno dei pilastri su cui si reggeva la giustizia amministrativa, quello della netta distinzione dell’amministrazione dalla funzione giurisdizionale. Tutto ciò è, in ogni caso, il risultato di un’evoluzione che ha avuto come punto di partenza una serie di intuizioni della giurisprudenza che, mentre rispondevano ad esigenze diffuse dei cittadini, riuscirono a non superare i limiti del giudizio di legittimità (68). C’è un tratto comune nei nuovi aspetti del processo amministrativo: tutti concorrono alla definizione di un nuovo ruolo del giudice amministrativo. Senza entrare nell’esame del testo della l. n. 205 del 2000, si può dire che il nuovo processo è espressione di un progetto di giustizia amministrativa la cui attuazione « cumula in sé la funzione giurisdizionale sua propria ed una sorta di funzione vicaria del procedimento amministrativo contraddittorio » (69). Merita attenzione la parte relativa all’ampliamento dei mezzi istruttori sino a comprendervi la consulenza tecnica (70) e (67) L’accentuazione del carattere di strumentalità e di provvisorietà della nuova misura cautelare è considerata come rispondente a una « visione quasi recessiva del provvedimento cautelare rispetto al giudizio di merito », cfr. F. CINTIOLI, L’esecuzione cautelare tra effettività della tutela e giudicato amministrativo, in questa Rivista, 2002, 58 ss. (68) Cfr. M.E. SCHINAIA, Evoluzione, cit., 326, che sul punto richiama F. SATTA, Giudizio Cautelare per l’Enc. giur. Treccani. (69) Cfr. F. SATTA, Relazione, cit., 8. (70) Anche questa previsione consolida e amplia quanto già acquisito a livello giurisprudenziale (Cons. Stato, Sez. IV, 9 aprile 1999, n. 601, in questa Rivista, 2000, 182; Cons. Stato, ord. 17 aprile 2000, n. 2292, in Foro amm., 2000, 1240, di rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale delle norme che non consentono al giudice amministrativo di disporre la consulenza tecnica nella giurisdizione generale di legittimità). Sul tema, cfr. S. BACCARINI, Giudice amministrativo e discrezionalità tecnica, in questa Rivista, 2001, 80 ss., dove, oltre a valutare positivamente il nuovo indirizzo giurisprudenziale che appare « finalmente adeguato ad un’effettiva parità delle parti nel processo », si chiede « scusa per il ritardo », con cui la giurisprudenza ha iniziato il nuovo corso. Questa richiesta di scuse non sembra che tenga conto della distinzione tra tempo presente, tempo della contingenza che oggi reclama


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quella relativa alla concentrazione in un unico processo dell’impugnativa degli atti connessi, emessi in corso di giudizio: la prima strettamente collegata all’esercizio del potere del giudice amministrativo di conformare un’azione amministrativa informe (71), ed ispirata all’idea che il fatto più che penetrato debba essere conosciuto in tutti i suoi elementi anche tecnici (72); la seconda indizio del nuovo corso di un processo che deve definire la vicenda nella sua interezza. A realizzare la comprensione globale del nuovo processo concorrono altri due elementi: il recupero del carattere di strumentalità e di provvisorietà della misura cautelare, e un giudicato forte. Il primo è significativo, perché serve a porre in debita evidenza quale è il rapporto dell’effettività con il giudizio di merito: solo a quest’ultimo spetta di determinare l’assetto di interessi in gioco. Quanto al secondo, è indubbio che esso rispecchia nel suo aspetto essenziale l’esigenza che la decisione giurisdizionale non sia più esposta a un potere che spetta solo al giudice amministrativo di esercitare in forma chiara, completa e definitiva (73). l’accesso al fatto, e tempo storico della giustizia amministrativa che è sorta ed è progredita nel segno della garanzia della sfera pubblica, la quale doveva essere difesa dalle pretese dei privati. Per un inquadramento sistematico del tema, cfr. M.E. SCHINAIA, Consulente tecnico/III) Diritto processuale amministrativo, Estratto dal volume aggiornamento XI della Enc. giur., Roma, 2003. (71) Al riguardo è esplicito C. CALABRÒ, op. cit., 7, il quale qualifica l’intervento del giudice amministrativo sull’azione amministrativa come « incombente, inerente e immanente », in tutte le fasi del giudizio. (72) La consulenza tecnica più che un mezzo di prova di certi fatti per i quali sia necessario l’ausilio di tecniche di ricerca, che sfuggono alla competenza del giudice amministrativo, pare rispondere alla configurazione del nuovo processo che deve concludere, in forma definitiva e completa, la vicenda che il privato ha iniziato con la sua domanda alla amministrazione, per cui il giudice amministrativo deve avere una chiara cognizione del fatto allo stesso sottoposto. Non a caso, il giudice amministrativo viene esortato a « non avere più alcuna remora a operare un’autonoma ricostruzione del fatto, utilizzando gli strumenti processuali, inclusa ove sia necessaria la consulenza tecnica »: cosı̀ M. CLARICH, La giurisdizione esclusiva e la regolamentazione dell’economia, testo provvisorio della Relazione, inedita, al 49o Convegno di Varenna citato. (73) In questa logica di un giudice amministrativo-amministratore unico può trovare giustificazione la tesi di L. MARUOTTI, Il giudicato, voce del Tratt. dir. amm. a cura di S. CASSESE, Milano, 2003, 4445 ss., secondo la quale il giudicato amministrativo è


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Il problema, allora, non è quello di comprendere la concezione della amministrazione che è sottesa al nuovo processo, e neppure quello di precisare come il criterio di effettività abbia condotto il giudice amministrativo a emarginare progressivamente l’amministrazione « autoritativa » (non ancora del tutto scomparsa), bensı̀ un altro. Oggi si deve rispondere ad una domanda precisa, quella che è lecito porsi, come emerge dal percorso dell’effettività, se la l. n. 205 del 2000 non abbia realizzato la trasformazione della amministrazione, ormai depotenziata, piuttosto che del processo. In questo, si realizza un vero e proprio contraddittorio tra le parti, e il giudice amministrativo, che non incontra più i limiti di un tempo, assume direttamente la cura dell’interesse privato (74), servendosi del materiale che l’amministrazione, nelle sue varie articolazioni, mette a sua disposizione. L’azione amministrativa, iniziata su impulso di parte, si prolunga nel processo che pone fine alla vicenda secondo criteri e contenuti predeterminati normativamente, e anche secondo modelli decisionistici, ispirati dal criterio di effettività. Il giudice amministrativo mantiene la sua indipendenza ed esercita la sua funzione in forma pienamente giurisdizionale, ma, da « aderente all’amministrazione » quale era, viene pienamente attratto all’interno di questa. Si opera in tal modo una saldatura tra amministrazione e giustizia amministraconfigurabile quando la decisione del Presidente della Repubblica accolga il ricorso straordinario previsto dall’art. 8 ss. del d.lgs. 24 novembre 1971, n. 1199, per cui il giudizio ex art. 27 n. 4 t.u. Cons. St. è proponibile al fine di garantire l’effettività della tutela delle posizioni giuridiche soggettive (in senso conforme, Cons. Stato, sez. IV, 15 dicembre 2000, n. 6695, in Foro amm., 2000, 3861; cfr. anche Cons. giust. reg. sic., in sede consultiva, ord. 13 maggio 2003 n. 448/2001 che rimette la questione alla Corte costituzionale, richiamando Cons. Stato, sez. II, ord. 27 marzo 2002, di analogo contenuto). La tesi non è condivisa dalla Cassazione, la quale, a sezioni riunite, ha escluso che si formi il giudicato sulla decisione del Capo dello Stato, della cui natura amministrativa non si può dubitare (Cass., Sez. un., 18 dicembre 2001, n. 15978, in Foro it., 2002, I, 2448). (74) Nonostante la giurisprudenza, in virtù del criterio di effettività, risulti collocata in una dimensione tale da corrispondere alle sole istanze del privato, si continua a voler scoprire « nuovi interessi generali emergenti, quali l’economicità, l’efficacia e l’efficienza » da perseguire nell’azione amministrativa (cfr. M.E. SCHINAIA, Gli interessi generali emergenti e l’effettività della tutela giurisdizionale, in Cons. St., II, 1999, 1765), che però attengono ai mezzi da utilizzare e non ai fini pubblici da perseguire.


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tiva, la quale può essere inquadrata in una dimensione che la fa apparire una sorta di autorità indipendente superiore che esercita il suo potere, in forma giurisdizionale, su tutti gli ambiti amministrativi della società contemporanea. 8. Il precetto costituzionale della effettività, che è fatto risalire direttamente all’art. 24 Cost., ha condotto la giustizia amministrativa ad un paradosso, che è solo apparente. È emerso in maniera chiara che il giudice amministrativo è legato al criterio della effettività, che deve commisurarsi a ciò che egli è in grado di realizzare operativamente, al grado di incisività con cui riesce a conformare l’azione amministrativa, altrimenti il suo intervento è inutile. Con questo si arriva ad una modifica essenziale del ruolo del giudice amministrativo che, sorto all’interno della amministrazione e soggettivamente indipendente da essa, doveva garantire (e controllare) che il rapporto tra cittadino e amministrazione si svolgesse in maniera corretta: se la connotazione fondamentale del giudice amministrativo doveva consistere solo nella garanzia che l’agire amministrativo fosse formalmente corretto, questo significa che il mutamento della amministrazione, alla quale non corrisponde più la cura di interessi pubblici ontologicamente diversi da quelli privati, avrebbe dovuto comportare un drastico ridimensionamento della giustizia amministrativa. L’assenza di una amministrazione, garante di un corretto rapporto tra l’interesse pubblico e gli interessi dei cittadini, implica l’assenza di una giustizia che l’esercizio di quella funzione di garanzia dovrebbe controllare e, eventualmente, supplire. L’amministrazione che svolge una funzione di mediazione tra interessi pubblici e interessi privati non si oppone, infatti, alla giustizia amministrativa, anzi è un elemento costitutivo di essa. Il problema del contatto dell’amministrazione con la giustizia amministrativa è perciò una questione di fondo della sopravvivenza di quest’ultima. Si tratta, allora, di verificare se sia necessario alla giustizia amministrativa il contatto con un’amministrazione che media, cioè se questa debba per sempre rimanere fedele all’originaria motivazione da cui prese l’av-


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vio, ovvero se essa possa essere strutturata in modo conforme al cambiamento profondo che ha segnato l’amministrazione, alla quale non si può più « riconoscere il ruolo di congiunzione tra la società e il potere politico » (75). La vitalità della giustizia amministrativa è oggi fuori discussione. In questa convivono due differenti tecniche di tutela, quella dell’interesse legittimo che accompagna le modalità residue del vecchio modo di operare della amministrazione, e quella dell’accertamento costitutivo che conforma in modo definitivo e completo l’azione amministrativa (76). Non si cerca più il collegamento con l’atto amministrativo, ma con una attività da chiunque svolta, purché « funzionalizzata all’interesse pubblico », appunto per il fatto che non si ritiene che la giustizia amministrativa debba ritornare per necessità all’originario modello. Il giudice amministrativo penetra all’interno dell’amministrazione, nel momento in cui questa si apre ai privati e non ha bisogno di essere difesa dalle pretese di questi, abbandonando dietro di sé i modelli imperativi, tipici della gestione di interessi pubblici predefiniti. Certamente la giustizia amministrativa non si riallaccia più in termini diretti ad un atto amministrativo, che media. Essa ha sicuramente stretto un legame solido con gli interessi che sono presenti nella società, e questo ha potuto fare perché si è sforzata di uscire da problematiche apparse sempre più formalistiche, e di assecondare i movimenti del reale. In tutto ciò si intravede la nuova modalità con la quale i cittadini si rapportano con la giustizia amministrativa, la quale lascia da parte il problema del modo in cui l’amministrazione cura i propri interessi. Questo pare importante anche per la questione del significato da assegnare alla giustizia amministra(75) Vede in questa realtà una delle prime crisi della giustizia amministrativa, G. BERTI, op. cit., 105. (76) L’oscillazione tra vecchio e nuovo, che coesistono nel processo amministrativo, e il progressivo allontanamento della giurisdizione amministrativa dal modello originario, la cui ragione era espressa « anche dalla collocazione, al di sopra dell’amministrazione, di un giudice speciale, nato nell’amministrazione, ma con garanzie di stabilità maggiori di quelle proprie dell’Amministrazione », sono visti come segni di incertezza della giustizia amministrativa da A. TRAVI, La giurisdizione amministrativa dopo le riforme degli anni ’90, in corso di stampa negli Scritti per Giorgio Berti.


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tiva e alla stessa amministrazione. Ambedue non rappresentano sistemi per cosı̀ dire chiusi, come un tempo: l’uno, l’amministrativo, che opera in ambiti suoi propri; l’altro, giurisdizionale, che garantisce la tutela nei confronti dell’azione dell’apparato amministrativo. Essi contribuiscono all’emersione di interessi che sono presenti nella società, là dove conducono al loro riconoscimento vuoi in sede amministrativa vuoi, eventualmente, in sede giurisdizionale. L’epoca contemporanea non estromette la nuova amministrazione dalla società, ma ne opera un raccordo stabile con la giustizia amministrativa. Con la riduzione dell’amministrazione a materiale disponibile per il giudice amministrativo, e con l’estensione a questo del potere di accedere in maniera completa al fatto, anche mediante la consulenza tecnica, si rinsalda il legame tra amministrazione e giustizia amministrativa. L’attribuzione di « blocchi di materie » al giudice amministrativo è richiesta da un’esigenza di compenetrazione tra i due ambiti, dalla necessità di adeguarsi a quel che è essenziale alla giustizia amministrativa: la conformazione dell’azione amministrativa nell’interesse del privato. Non c’è rottura, ma continuità tra azione amministrativa e giustizia amministrativa. Ciò significa che la giustizia amministrativa, per essere correttamente compresa, deve essere sempre pensata insieme con l’amministrazione, di cui costituisce il necessario completamento. Vi è un rapporto ininterrotto, stretto ed intenso tra giustizia amministrativa e l’amministrazione che alla prima offre il materiale disponibile, partecipando della sua funzione giurisdizionale. Non c’è dubbio che questo modo di concepire la funzione giurisdizionale del giudice amministrativo elimina di colpo un bagaglio di costruzioni teoriche che hanno accompagnato nel tempo la giustizia amministrativa, rompendo con una tradizione (riconosciuta anche dalla nostra Costituzione) che l’ha considerata una giurisdizione speciale, per collocarla in una dimensione nuova sul piano sociale. La giustizia amministrativa viene acquistando caratteristiche tali da distinguerla dall’immagine di una giustizia che ha per oggetto gli interessi legittimi e talvolta i diritti soggettivi, di una giustizia che « controlla ab ex-


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terno l’attività discrezionale dell’Amministrazione » (77), per presentarsi « tipicamente come potere » (78) amministrativo. Il fattore decisivo che ha provocato la trasformazione non è stato il criterio dell’effettività. Ciò non vuol dire, ovviamente, che l’effettività non abbia avuto un rilievo determinante per la trasformazione della giustizia amministrativa: si vuole solo sottolineare che questa trasformazione ha una origine più profonda e socialmente più significativa, la democratizzazione della azione amministrativa e lo sviluppo dello stato amministrativo (79). La metamorfosi della giustizia amministrativa si è compiuta. È avvenuto quello che accade in natura, dove gli organismi reagiscono al modificarsi delle condizioni ambientali mediante sistemi di regolazione che concorrono a mantenere le condizioni favorevoli per il funzionamento degli organismi stessi. La funzione giurisdizionale si è modificata in relazione alla mutazione dell’amministrazione, che è passata attraverso varie fasi di sviluppo: in origine autoritativa, poi procedurale con la l. n. 241 del 1990, e, infine, giustiziale con la l. n. 205 del 2000. Come il bruco che aumenta di dimensioni per entrare in un nuovo stadio, quello di pupa, sino al risultato finale di farfalla adulta, cosı̀ l’amministrazione è andata incontro ad un rimodellamento: mentre la sua caratteristica originaria (quella autoritativa) sembra avviarsi alla scomparsa totale, essa si organizza secondo un nuovo modello, quello giurisdizionale. A questo punto si potrebbe concludere che il criterio di effettività, avendo assunto forma concreta con il modello di processo (77) G. VERDE, L’unità della giurisdizione e la diversa scelta del Costituente, in questa Rivista, 2003, 343 ss., lamenta l’abbandono da parte del legislatore del modello voluto dai Costituenti. (78) In proposito, A. TRAVI, op. cit.. In questo senso, l’atteggiamento critico di A. PROTO PISANI, Verso il superamento della giurisdizione amministrativa?, in Foro it., 2001, V, 21 ss., nei confronti del sistema di giustizia amministrativa perché il Consiglio di Stato non sarebbe indipendente nello svolgimento delle funzioni giurisdizionali, andrebbe rivisto alla luce del nuovo ruolo assunto dal giudice amministrativo nella odierna realtà sociale. (79) È il caso di ricordare che G. BERTI, op. cit., 88, da tempo ha affermato che « il giudice amministrativo continua a testimoniare l’origine e la persistenza di uno stato amministrativo, verso il quale lo Stato di diritto e lo Stato parlamentare hanno conservato un largo rispetto ».


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amministrativo, disegnato dalla l. n. 205 del 2000, abbia perduto il suo originario vigore. Pare, invece, che l’effettività, una volta acquisita, non sia un criterio interpretativo a cui il giudice amministrativo possa rinunciare, giacché essa consente il progressivo superamento delle forme esistenti, sempre nella logica di assegnare un risultato utile al ricorrente vittorioso (80). P.S. La stesura di questo scritto è antecedente alla sentenza della Corte Costituzionale n. 204 del 6 luglio 2004 di dichiarazione di incostituzionalità dell’estensione della giurisdizione esclusiva (art. 7, lett. a e lett. b, della legge 21 luglio 2000, n. 205), le cui argomentazioni paiono sostanzialmente confermare alcune considerazioni in esso svolte.

(80) Si veda in proposito la problematica sugli effetti dell’annullamento dell’aggiudicazione rispetto al contratto di appalto già stipulato. Le soluzioni proposte in giurisprudenza (per la categoria della nullità, in senso atecnico, del contratto già stipulato con l’aggiudicatario, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 5 maggio 2003, n. 2332, in Cons. St., I, 2003, 1067; per l’inefficacia del contratto, cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 30 maggio 2003, n. 2992, in Cons. St., I, 2003, 1232; per l’inefficacia del contratto, con salvezza dei diritti del contraente in buona fede, cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 23 ottobre 2003, n. 6666, in Cons. St., I, 2003, 2304) denunciano le difficoltà di dare una forma giuridica adeguata a questa fattispecie. Non sembrano ancora riusciti i tentativi di risolvere la questione con strumenti interamente civilistici, anche perché non è certo che questi strumenti siano pienamente compatibili con l’essenza del potere del giudice amministrativo, cui spetta di definire la vicenda processuale.


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L’ONERE DELL’IMMEDIATA IMPUGNAZIONE DEL BANDO E DELLA SUCCESSIVA PARTECIPAZIONE ALLA GARA TRA LEGITTIMAZIONE AD AGIRE ED INTERESSE A RICORRERE

SOMMARIO: 1. Le clausole « escludenti » contenute nei bandi di gara, l’onere della loro immediata impugnazione e quello della presentazione della domanda di partecipazione a pena di inammissibilità del ricorso giurisdizionale: una sanzione in irragionevole contrasto con le esigenze di garanzia del diritto costituzionale di azione. — 2. La recente emersione di un orientamento giurisprudenziale volto a sottolineare l’inutilità della formale presentazione di un’offerta destinata ad una sicura esclusione e la gravità delle conseguenze discendenti dall’adozione, in queste ipotesi, di decisioni di inammissibilità dei ricorsi giurisdizionali. — 3. Rilievi sulla piena compatibilità delle conclusioni cui perviene siffatto orientamento con i principi affermati nella decisione Ad. plen. n. 1 del 2003 in materia di onere di immediata impugnazione delle sole clausole dei bandi di gara contenenti prescrizioni preclusive della partecipazione. — 4. (Segue): loro confronto con gli argomenti tradizionalmente addotti a sostegno dell’onere della formale partecipazione alla gara anche per il soggetto che abbia impugnato la « clausola escludente ». In particolare: a) i profili relativi alla ritenuta mancanza — in difetto della domanda di partecipazione — di un’adeguata differenziazione della situazione giuridica soggettiva propria dell’impresa ricorrente. 5. (Segue): possibilità di replica alla luce degli esiti ultimi dell’evoluzione giurisprudenziale verificatasi sul tema — per più versi assimilabile a quello qui in esame — della legittimazione a ricorrere avverso le deliberazioni di procedere alla scelta del contraente mediante trattativa privata, ora pacificamente riconosciuta di per sé all’« imprenditore operante nel settore economico-produttivo di riferimento ». — 6. (Segue): b) gli aspetti che ineriscono ad una supposta carenza nell’interesse processuale ad ottenere, sempre in difetto della suddetta partecipazione, l’annullamento in via giurisdizionale della clausola del bando impugnata, per la ormai avvenuta conclusione della procedura di gara. — 7. (Segue): considerazioni sulla evidente sussistenza, viceversa, dell’interesse strumentale minimo all’annullamento della clausola impugnata ed alla rinnovazione della gara medesima. Possibilità di spiegazione della predetta massima, pertanto, solo richiamando le fattispecie, radicalmente diverse, relative a concorsi a posti di pubblico impiego, in relazione alle quali questa ha avuto concretamente origine. — 8. Brevi considerazioni conclusive. L’effettività della tutela giurisdizionale, i limiti di ammissibilità e procedibilità dei ricorsi e l’esigenza della

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loro ragionevolezza anche alla luce della recente giurisprudenza della Corte di giustizia CE.

1. I problemi processuali che emergono nelle ipotesi in cui è stata proposta un’impugnazione di un bando di gara d’appalto continuano ad impegnare — sembra — la giurisprudenza del Consiglio di Stato, da ultimo sempre più spesso chiamata ad adempiere al compito di precisare le regole che presiedono allo svolgimento di siffatti giudizi, sovente affermate a pena di inammissibilità e/o di improcedibilità dei relativi ricorsi giurisdizionali. Com’è noto, infatti, su questo specifico tema è di recente intervenuta l’Adunanza plenaria n. 1 del 2003 (1), la quale, posta di fronte alla formazione di innovativi orientamenti volti ad affermare la necessità di immediato gravame, a pena di decadenza, anche nei confronti di clausole di bandi di gara o di lettere d’invito contenenti prescrizioni diverse da quelle cc.dd. « escludenti » (2), relative cioè ai requisiti soggettivi necessari per la parte(1) Cons. Stato, Ad. plen. 29 gennaio 2003, n. 1, in Cons. St., 2003, I, 1 ss., nonché in Urb. e app., 2003, 547 ss., con nota di F. MARTINELLI, L’Adunanza plenaria interviene in materia di impugnazione immediata dei bandi di gara ed in Giust. it, Rivista internet di diritto pubblico, n. 1-2003, con nota di G. BACOSI, Da Palazzo Spada conferme e smentite in tema di impugnative dei bandi di gara. (2) Tali innovativi orientamenti giurisprudenziali, analiticamente descritti nell’ordinanza di rimessione alla plenaria adottata da Cons. Stato, Sez. V, 6 maggio 2002, n. 2406, in Cons. St., 2002, I, 1029 ss., avevano in buona sostanza imposto a pena di decadenza l’onere di impugnazione immediata di clausole contenute nei bandi di gara « ... aventi il seguente contenuto precettivo: onere di produzione documentale in termini di decadenza (Sez. V, 11 maggio 1998, n. 225); attribuzione del maggior punteggio al progetto che si avvicini di più alla media aritmetica dell’insieme di tutti i progetti presentati (Sez. V, 11 gennaio 1999, n. 1757/98); funzionamento della commissione giudicatrice di un appalto-concorso con la presenza della maggioranza e non del plenum dei componenti (Sez. V, 22 marzo 1999, n. 302); apertura da parte della commissione di gara del plico contenente l’offerta economica in seduta riservata (Sez. V, 17 maggio 2000, n. 2884); calcolo della soglia di anomalia dell’offerta previa considerazione, per la determinazione dello scarto aritmetico, di tutte le offerte superiori alla media, comprese quelle escluse (Sez. V, 23 maggio 2000, n. 2990); ampliamento del numero delle imprese legittimate a partecipare alla gara (C.G.A., 3 dicembre 2001, n. 627) »: cosı̀ — in senso critico — S. BACCARINI, Clausole non escludenti dei bandi di gara ed onere di impugnazione autonoma delle stesse: un inattendibile orientamento del Consiglio di Stato, in Giust-it, Rivista internet di diritto pubblico, n. 4-2002.


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cipazione stessa alla procedura concorsuale (3), ha provveduto a restituire chiarezza e certezza del diritto in materia ribadendo, viceversa, la validità delle tradizionali posizioni giurisprudenziali che delimitano l’ambito oggettivo dell’onere di immediata impugnazione del bando con riferimento a quelle sole prescrizioni che siano tali precludere ex se, in modo certo, la partecipazione dell’interessato alla procedura concorsuale, unicamente in tali ipotesi riconoscendosi l’attualità dell’interesse a ricorrere (4). In questo modo — com’è stato esattamente osservato — l’Adunanza plenaria pare dunque avere giustamente privilegiato, nel decidere sul punto, « la stretta funzionalità della richiesta soluzione alla salvaguardia del diritto di azione, in rapporto alla tutela giurisdizionale da garantire al ricorrente » (5). Non altrettanto, tuttavia, sembra essere avvenuto allorché, nella medesima sentenza, si è ribadito come dovesse essere altresı̀ « ... confermato (3) Relativamente alle quali, viceversa, la giurisprudenza è da sempre unanime nel richiedere l’adempimento dell’onere di immediata impugnazione a pena di decadenza: per tutte, si cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 8 settembre 1997, n. 974, in Cons. St., 1997, I, 1192: « non è sufficiente la presenza di una supposta illegittimità nel bando di concorso per imporne l’immediata impugnazione nei termini di legge, a meno che la norma del bando non precluda ex se, in modo certo, la partecipazione alla selezione, sussistendo in tale seconda ipotesi un interesse attuale a ricorrere »; Cons. Stato, Sez. V, 29 gennaio 1999, n. 90, in Cons. St., 1999, I, 84: « l’interesse all’impugnazione degli atti relativi alla scelta dell’aggiudicatario sorge soltanto all’esito del procedimento selettivo, nascendo l’onere di immediata impugnazione del bando e delle relative clausole solo se questi ultimi o la lettera d’invito contengano prescrizioni atte a precludere la partecipazione dell’interessato a detto procedimento ». (4) Più precisamente, ha chiarito l’Ad. plen. cit., punto 5 della motivazione, come « l’onere di immediata impugnazione del bando di gara debba, normalmente, essere riferito alle clausole riguardanti requisiti soggettivi di partecipazione » ancorché « non possa essere escluso un dovere di immediata impugnazione delle clausole del bando in quei limitati casi in cui gli oneri imposti all’interessato ai fini della partecipazione risultino manifestamente incomprensibili o... del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della gara o della procedura concorsuale ». (5) Cosı̀ G. BACOSI, Da Palazzo Spada conferme e smentite in tema di impugnative dei bandi di gara, cit., il quale rileva altresı̀ come, in questa logica, ben si spiega la centralità offerta dall’Adunanza plenaria al momento della riconoscibilità della clausola come lesiva da parte del soggetto destinatario della prescrizione contenuta nell’atto generale, che si determina appunto, rispettivamente, o nel momento in cui questa gli precluda inevitabilmente la partecipazione stessa alla gara ovvero solo in quello successivo in cui venga adottato l’atto applicativo sfavorevole che rende non utile (esclusione, diniego di aggiudicazione) l’avvenuta partecipazione.


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quell’indirizzo giurisprudenziale che richiede, ai fini dell’ammissibilità dell’impugnazione immediata delle clausole del bando ritenute lesive, la presentazione della domanda di partecipazione alla gara od alla procedura concorsuale... (poiché questa)... nell’evidenziare l’interesse concreto all’impugnazione, fa del soggetto che ha provveduto a tale specifico adempimento un destinatario identificato, direttamente inciso dal bando ». Una tale conclusione, in effetti, appare essere stata determinata solo dall’acritico richiamo degli indirizzi tradizionalmente prevalenti sul punto in giurisprudenza (6), i quali viceversa, pur da tempo affermati, non sembrano potersi ulteriormente condividere, ponendosi questi in grave ed irrimediabile contrasto con le pur spesso conclamate esigenze di concreta garanzia ed effettività della tutela giurisdizionale assicurata dall’ordinamento costituzionale, senza che invero sia dato di comprendere fino in fondo a quale scopo e per quale motivo venga anche in questi casi affermata l’operatività di quella che — va ricordato — è la grave sanzione giuridica costituita dalla decadenza dalla possibilità di esercitare un diritto costituzionale (7). Occorre non dimenticare, in(6) Quale espressione dell’orientamento prevalente, da ultimo, si cfr. infatti Cons. Stato, Sez. V, 22 gennaio 2003, n. 242, in Cons. St., 2003, I, 78, secondo la quale « il soggetto che non presenta domanda di partecipazione alla gara d’appalto non ha interesse all’impugnazione nemmeno delle clausole del relativo bando di gara... giacché solo con la domanda predetta l’impresa assume una situazione giuridica differenziata rispetto a quella delle altre ditte presenti sul mercato, ergendosi solo in tal caso essa a titolare di un interesse legittimo giudizialmente tutelato, che la abilita a sindacare la legittimità della statuizione del bando di gara alla quale ha dimostrato in concreto di voler prendere parte ». Tali posizioni, come si è detto, sono peraltro da sempre frequentemente ribadite in giurisprudenza: tra le più recenti si v. in effetti Cons. Stato, Sez. IV, 17 gennaio 2002, n. 253, in Cons. St., 2002, I, 93; Cons. Stato, Sez. V, 3 dicembre 2001, n. 6018, ivi, 2001, I, 2610; Cons. Stato, Sez. V, 20 giugno 2001, n. 3264, ivi, 1378; Cons. Stato, Sez. V, 3 aprile 2000, n. 1909, in Foro amm., 2000, 1271; C.G.A., Sez. giurisd., 3 novembre 1999, n. 572, in Cons. St., 1999, I, 1949; Cons. Stato, Sez. V, 7 ottobre 1998, n. 1418, ivi, 1998, I, 1573; Cons. Stato, Sez. V, 26 maggio 1997, n. 554, in Foro amm., 1997, 1400. (7) In generale, in argomento, si cfr. tra gli altri G. PANZA, Decadenza nel diritto civile, in Digesto (disc. priv.), V, Torino, 1989, 132 ss., ove si ricorda come tale specifico « ... fenomeno estintivo, che trova la sua fattispecie costitutiva nella combinazione dell’inerzia con il tempo... » debba inquadrarsi all’interno del più ampio genus costituito dal complesso delle ipotesi in cui « ... tale espressione è usata dal legislatore per desi-


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fatti, che la dichiarazione dell’inammissibilità o dell’improcedibilità di un ricorso giurisdizionale, avendo l’effetto di assolvere il giudice dal compito di decidere nel merito sulla fondatezza di una (eventualmente) legittima pretesa fatta valere in giudizio, costituiscono modalità di conclusione di un processo con sentenze preliminari di rito che nella sostanza impediscono a colui che afferma di trovarsi in una posizione soggettiva protetta dal diritto di ottenere dagli organi della giurisdizione quella tutela che gli spetta secondo la legge (ovvero, meglio, di verificare nel processo tale spettanza). Il ricorso ad esse dovrebbe pertanto essere rigorosamente limitato — si crede — a quelle sole ipotesi nelle quali possa ritenersi che venga ragionevolmente ad operare una sanzione imposta della necessità di contemperare le esigenze di tutela manifestate da chi ricorre in sede giurisdizionale con altre, pur esse rilevanti, quali quelle sottese al principio dell’inoppugnabilità degli atti amministrativi e della certezza del diritto che la giustificano. Oltre questo limite, invece, per ragioni di compatibilità con i valori costituzionalmente tutelati, non dovrebbero ammettersi opzioni interpretative illogicamente restrittive: almeno, se non si vuole che in esito alle (talvolta) sottili ed argomentate considerazioni giuridiche contenute nelle sentenze vi sia qualcuno che, concretamente, perda la possibilità di ottenere quanto gli spetta sul piano del diritto sostanziale. 2. Nella direzione di una radicale revisione delle posizioni sul punto da tempo consolidate in giurisprudenza, d’altra parte, prima che fosse adottata la citata decisione dell’Ad. plen. n. 1 del 2003, sembrava in effetti essere ormai compiutamente emerso un diverso orientamento propenso finalmente a riconoscere come dovesse considerarsi assolutamente illogico, oltre che del tutto formalistico, l’insistere nel richiedere comunque — a pena di decadenza dal diritto di azione giurisdizionale — la presentazione di una domanda di partecipazione alla gara anche alle imprese che, adeguandosi alle ricordate tendenze dominanti, avessero ritualgnare un fenomeno estintivo a carattere sanzionatorio ovvero derivante da sopravvenute ragioni di incompatibilità ».


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mente impugnato nel termine di decadenza le clausole del bando contenenti prescrizioni chiaramente impeditive di quella medesima partecipazione (8). In questo senso, infatti, più di una decisione aveva avuto modo di rilevare come se occorreva certamente convenire nel « ... ritenere che la mancata partecipazione alla gara per l’aggiudicazione di un contratto della pubblica amministrazione rende inammissibili le censure che hanno attinenza con l’espletamento della gara stessa, per cui il soggetto che, sebbene regolarmente invitato, non vi abbia preso parte, non ha interesse ad impugnare l’atto conclusivo del procedimento per dolersi delle modalità di svolgimento della gara, ossia di vicende alle quali è rimasto estraneo... », nondimeno avrebbe dovuto ormai allo stesso modo ammettersi anche che « ... l’omessa presentazione della domanda di ammissione alla procedura di gara non esclude tuttavia la sussistenza di un interesse sostanziale e processuale all’impugnativa di quelle prescrizioni contenute nel bando che in modo non equivoco e tassativo porterebbero con ogni certezza all’esclusione di quelle imprese aspiranti all’aggiudicazione che non si trovano nelle condizioni richieste, con conseguente irrilevanza della necessità di una domanda formale di partecipazione che avrebbe comunque esito negativo » (9). Una differente conclusione — si era cosı̀ sottolineato — sa(8) In questo senso, infatti, si cfr. in particolare le decisioni adottate da Tar Puglia, Bari, Sez. II, 17 settembre 1996, n. 552, in Trib. amm. reg., 1996, 4277; Tar Lazio, Sez. III-bis, 26 aprile 2000, n. 3412, in Trib. amm. reg., 2000, 2322; Tar Sicilia, Catania, Sez. II, 29 gennaio 2002, n. 148, in www.giust.it, Rivista internet di diritto pubblico, n. 1-2003; Tar Lazio, Sez. III, 3 aprile 2002, n. 2693, in Foro amm.-Tar, 2002, 1306; Tar Campania, Napoli, Sez. I, 18 aprile 2002, n. 2206, in www.giust.it, Rivista internet di diritto pubblico, n. 5-2002; Tar Lombardia, Brescia, Sez. I, ord. 10 gennaio 2003, n. 5, ivi, n. 1-2003; Cons. Stato, Sez. II, 7 marzo 2001, n. 149 (parere su ricorso straordinario), ivi, n. 4-2002; C.G.A. 29 novembre 2002, n. 629, in Cons. St., 2002, I, 2381 ed in www.giust.it, Rivista internet di diritto pubblico, n. 12-2002. Tale orientamento, come si vedrà tra breve, è stato infine accolto anche nelle due successive decisioni Cons. Stato, Sez. V, 18 dicembre 2002 n. 7055, ivi, n. 1-2003 e Cons. Stato, Sez. V, 14 febbraio 2003, n. 794, in www.giustizia-amministrativa.it. (9) Cosı̀ Tar Lazio, Sez. III-bis, 26 aprile 2000, n. 3412, cit. Analogamente, si rileva anche nell’altra citata decisione del Tar Lazio, Sez. III, 3 aprile 2002, n. 2693, cit., come « se, in linea di principio, l’impugnativa del bando di gara deve ritenersi consentita solo al soggetto che presenti domanda di partecipazione alla gara, in quanto onere


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rebbe risultata in effetti in contrasto « ... con i principi che garantiscono il diritto alla difesa giurisdizionale (art. 24 Cost.)... ricollegandosi la legittimazione ad agire di un soggetto, sostanzialmente leso dal bando, al mero formalismo della presentazione di una domanda che avrebbe comportato la sicura esclusione » (10): e si trattava di posizioni che, infine, erano state condivise anche dalle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato (11), nelle senche radica l’interesse differenziato e qualificato a contestare la relativa lex specialis, ciò non vale nel caso in cui la formulazione letterale del bando sia tale da non permettere, in modo assoluto e definitivo, la partecipazione stessa, sicché l’istanza di ammissione avrebbe esito univoco e predeterminato... Di fronte ad una siffatta situazione il soggetto che intenda partecipare alla selezione indetta dalla pubblica amministrazione è tenuto ad impugnare, direttamente ed immediatamente, l’atto iniziale della procedura, facendo valere il proprio interesse all’annullamento, in parte qua, del bando, con conseguente rifacimento della gara alla stregua di nuove regole che tengano conto del dictum giudiziale ». (10) In questo senso, con particolare convinzione, Tar Campania, Napoli, Sez. I, 18 aprile 2002 n. 2206, cit.: decisione nella quale i giudici amministrativi, pur dicendosi « ... consapevoli del contrario orientamento del superiore giudice amministrativo che nega l’ammissibilità, per carenza di interesse, al gravame contro le clausole di un bando di una gara prodotto da un soggetto che non ha presentato la relativa domanda di partecipazione », osservano tuttavia come « ... tale orientamento... debba essere contraddetto. Non appare, infatti, conforme alla piena esplicazione del diritto alla difesa (art. 24 Cost.), della libertà della iniziativa economica privata (art. 41 Cost.) e soprattutto dell’apicale principio di portata comunitaria della libera e massima concorrenza, limitare la legittimazione di un soggetto, sostanzialmente leso da un bando, al mero formalismo della presentazione di una domanda che, con riferimento alla fattispecie in esame, avrebbe comportato la sicura esclusione. Tanto anche in adesione al principio — introdotto dalla L. 241/1990 ed incentivato dalla successiva legislazione, attenta ad espungere gli adempimenti inutili o superflui (cfr., ad es., art. 4, lett d), L. 59/1997; art. 6, D.L. 357/1994 conv. L. 489/1994; art. 1, L. 537/1993) — del non aggravamento del procedimento amministrativo, applicazione diretta dell’ulteriore e generalizzante principio della economicità dei mezzi giuridici ». (11) Ancorché — come si è ricordato retro, alla nota 8 — già il Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana, nella decisione del 29 novembre 2002, n. 629, cit., avesse confermato la citata decisione Tar Sicilia, Catania, Sez. II, 29 gennaio 2002, n. 148, aderendo al principio da questa applicato nella fattispecie secondo il quale « nel caso in cui l’interessato... abbia impugnato il bando di una gara d’appalto con offerte al ribasso, deducendo che il prezzo a base d’asta non copre i costi delle prestazioni richieste... non può richiedersi, ai fini della procedibilità del ricorso, che l’interessato abbia anche presentato domanda di partecipazione alla gara, atteso che l’interessato stesso, presentando la domanda di partecipazione, si troverebbe nell’alternativa o di offrire un prezzo in aumento o di presentare un prezzo in perdita... Nel caso anzidetto, benché non si possa esser certi del concreto interesse all’impugnazione (perché non si


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tenze rese dalla Quinta sezione in data 18 dicembre 2002, n. 7055 ed in data 14 febbraio 2003, n. 794 (12), attraverso le quali i giudici amministrativi potevano dirsi avere definitivamente superato le posizioni tradizionalmente prevalenti sul punto, risultando affermato espressamente il principio dell’ammissibilità del ricorso pur in assenza di una formale partecipazione alla gara d’appalto, giacché — si è puntualizzato — ciò che a tal fine viene ad assumere rilevanza decisiva è solo il verificare se l’eventuale accoglimento del gravame contro la prescrizione del bando determini o meno la necessità di rinnovazione dell’intera procedura concorsuale, a partire dalla definizione dei requisiti soggettivi necessari per la partecipazione alla gara. Ove una tale verifica dovesse avere esito positivo, infatti, poiché non sarebbe possibile la mera correzione del bando ma si dovrebbe procedere all’indizione di una nuova gara aperta alla legittima partecipazione della ricorrente, verrebbe infatti chiaramente in evidenza « ... la strumentalità dell’interesse processuale manifestato dalla ricorrente, pienamente idoneo a dimostrare la legittimazione al ricorso di primo grado, anche in mancanza della presentazione di un’offerta » (13). Sicché — ha concluso la Quinta Sezione — « se è vero che normalmente il soggetto che non ha presentato domanda di partecipazione ad una procedura di gara non ha legittimazione ad impugnare le modalità di svolgimento della gara od il suo esito », necessariamente « ... diversa è invece l’ipotesi in cui è la partecipazione ad essere preclusa direttamente dallo stesso bando di gara, impugnato autonomamente » poiché può sapere né se l’amministrazione rifarà la gara né se il ricorrente vi parteciperà e neppure se egli possiede effettivamente tutti i requisiti), nell’inevitabile alternativa tra l’ammettere un ricorso che potrebbe non essere sorretto da effettivo interesse e il negare giustizia si deve ammettere la legittimazione a ricorrere ». (12) Pubblicate per esteso, come si è indicato retro, in www.giust.it, Rivista internet di diritto pubblico, n. 1-2003 ed in www.giustizia-amministrativa.it. (13) Decisione cit.: con conseguente necessità di respingere la tesi, fatta propria dai giudici di primo grado, circa la mancanza di un personale e diretto vantaggio discendente dall’accoglimento del ricorso che avrebbe dovuto evidenziare la sua inammissibilità. Sulle ragioni di tali tradizionali — ma risalenti — posizioni giurisprudenziali si vedano comunque le considerazioni che verranno svolte infra, nei successivi paragrafi 4 e 6 delle presenti riflessioni.


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una volta che sia stata proposto il ricorso giurisdizionale avverso la clausola c.d. « escludente », pretendere altresı̀ la formale presentazione della domanda di partecipazione alla gara « ... sarebbe del tutto inutile e con l’esito scontato di esclusione dalla gara, non potendo il bando di gara essere disapplicato né dall’amministrazione né dal giudice amministrativo » (14). L’adesione all’evoluzione giurisprudenziale in corso non avrebbe potuto manifestarsi in modo più chiaro. 3. — In presenza di una giurisprudenza tuttora prevalente nel ribadire, invece, la « regoletta » secondo cui « fermo il principio dell’immediata impugnabilità del bando di gara quando contenga prescrizioni preclusive della partecipazione di soggetti aventi in astratto titolo per parteciparvi, presupposto necessario per l’impugnazione è, comunque, che il soggetto che non è in possesso di quei requisiti abbia presentato domanda di ammissione alla procedura di gara » (15), la recentissima Adunanza plenaria n. 1 del 2003, poteva costituire allora una buona occasione, per il Consiglio di Stato, per fare definitiva chiarezza anche su questo specifico profilo del problema generale dell’ammissibilità delle domande di tutela giurisdizionale avanzate da soggetti direttamente lesi da clausole contenute in bandi di gara nonché — eventualmente — per superare definitivamente le descritte ingiustificate ma dominanti posizioni giurisprudenziali. Come si è visto, la plenaria non ha colto l’occasione. Anzi: potrebbe persino sembrare che, dopo quanto questa ha espressamente affermato in materia, ogni possibilità di ulteriore discussione in merito debba ritenersi, almeno per il momento, sostanzialmente preclusa. Viceversa, tanto per ragioni formali inerenti all’assenza di una specifica pronuncia sul punto da parte del supremo consesso della (14) Come ribadito ancora da ultimo da Cons. Stato, Sez. V, 10 gennaio 2003, n. 35, pubblicata in Urb. e app., 2003, con nota di C.E. GALLO, Impugnazione, disapplicazione ed integrazione del bando di gara nei contratti della pubblica amministrazione: una pronuncia di assestamento. (15) Cosı̀, tra le altre, si esprime ad esempio la sentenza pronunciata da Cons. Stato, Sez. V, 3 dicembre 2001, n. 6018, in Cons. St., 2001, I, 2610.


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giustizia amministrativa quanto in considerazione dell’articolazione della motivazione che ha condotto alla citata decisione dell’Adunanza plenaria pare a noi che, esattamente all’opposto, le conclusioni cui perviene il richiamato orientamento minoritario possano trovare persino un implicito ma importante sostegno nel ragionamento di fondo e nei principi generali che hanno guidato il Consiglio di Stato alla definizione dei complessivi contenuti della sentenza in questione. In primo luogo, infatti, occorre rilevare come, nella decisione adottata dalla plenaria, il passaggio che riguarda lo specifico profilo qui in esame non costituisce altro che un obiter dictum, pronunciato con riferimento ad una questione del tutto irrilevante ai fini della definizione della lite concretamente rimessa alla decisione della plenaria, che non forma conseguentemente oggetto dell’accertamento giurisdizionale contenuto nella sentenza. Né tale passaggio argomentativo — ed è quel che più conta — si manifesta di importanza alcuna nell’ambito del percorso logico che ha condotto il Consiglio di Stato ad affermare chiaramente l’esistenza, in materia, di una regola — per la quale è solo l’emanazione dell’atto applicativo che rende immediatamente percepibile al partecipante l’esistenza di una lesione al proprio interesse materiale, con conseguente emersione dell’interesse a (e della necessità di) ricorrere alla giurisdizione — e di un’eccezione alla detta regola, che si verifica allorché la percepibilità di una immediata lesione discendente dal bando è evidente e sicura in relazione alla presenza di requisiti di partecipazione idonei a « tagliar fuori » dalla competizione taluni tra gli aspiranti al bene della vita oggetto della procedura concorsuale (16). Tale soluzione, infatti, è stata raggiunta — come si è detto — (16) In questo senso si veda ancora G. BACOSI, op. cit., nel suo pregevole commento alla decisione della plenaria. In tal modo, deve aggiungersi, l’Ad. plen. ha dunque dimostrato di condividere le riflessioni di quella parte della dottrina che aveva sottolineato la necessità di « valutare l’interesse a ricorrere nella prospettiva del ricorrente », considerando quale interesse sostanziale tutelato l’interesse ad ottenere l’aggiudicazione, con la conseguenza che « l’interesse a ricorrere avverso il bando è, fin dalla pubblicazione di questo, diretto ed attuale anche nei casi in cui la lesione dell’interesse sostanziale all’aggiudicazione, pur essendo futura, è altresı̀ certa per l’aspirante concorrente »: cosı̀, in particolare, P. PIZZA, Impugnazione diretta del bando, clausole im-


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ribadendo la validità delle posizioni tradizionalmente espresse dalla giurisprudenza amministrativa sul punto (17). Essa tuttavia, a ben vedere, non si pone affatto in irrimediabile contrasto sibbene in armonia e coerenza con una differente (ed opposta) impostazione del problema della successiva necessaria partecipazione alla gara, sembrando questa anzi avvalorare la possibilità di ragionare secondo il seguente stringente sillogismo: — di regola la lesione non si produce che con l’atto applicativo (di esclusione, di diniego di aggiudicazione): ed è allora, di regola, evidentemente necessaria la partecipazione; — in via di eccezione la lesione si produce immediatamente per la presenza di clausole che precludono la partecipazione: ma in questi casi non è allora, altrettanto evidentemente, necessaria (oltre che in alcun modo utile) la partecipazione. Sicché, se per un verso non meraviglia che sia « scappato », nel richiamo alla giurisprudenza tradizionalmente consolidata nella materia ad oggetto della decisione della plenaria, anche un riferimento alle altrettanto tradizionali — ma questa volta non condivisibili — posizioni volte ad affermare la necessità della successiva partecipazione alla procedura concorsuale dalla prevalente giurisprudenza amministrativa, per l’altro verso non pare che debba comunque sopravvalutarsi il predetto incidentale riferimento contenuto nella sentenza, rimanendo conseguentemente (quanto meno) impregiudicato lo stato del dibattito quale si presentava precedentemente alla citata pronunzia dell’Adunanza plenaria. mediatamente lesive e interesse a ricorrere: una tutela giurisdizionale incerta, in questa Rivista, 2002, 726 ss., spec. 766-767. (17) Condivise anche dalla prevalente dottrina intervenuta nel dibattito apertosi a seguito dell’emersione del descritto, innovativo orientamento giurisprudenziale: tra le altre, infatti, si cfr. le conformi posizioni espresse sul punto da R. VILLATA, Novità in tema di impugnative delle gare contrattuali dell’amministrazione?, in questa Rivista, 1999, 912 ss.; S. BACCARINI, Clausole non escludenti dei bandi di gara ed onere di impugnazione autonoma delle stesse: un inattendibile orientamento del Consiglio di Stato, cit.; P. PIZZA, Impugnazione diretta del bando, clausole immediatamente lesive e interesse a ricorrere: una tutela giurisdizionale incerta, cit.; C.E. GALLO, Impugnazione, disapplicazione ed integrazione del bando di gara nei contratti della pubblica amministrazione: una pronuncia di assestamento, cit., 422 ss.


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4. Se questo è vero, sembra allora tornare ad assumere rilievo ed importanza il notare come, seppure forse ancora prevalente, il principio in questione non poteva già da qualche tempo considerarsi più unanime in giurisprudenza, sı̀ da giustificare acritici richiami ad una massima da tempo consolidato. Viceversa, di fronte alle descritte recenti prese di posizione operate dalla giurisprudenza amministrativa — che appaiono fondate su argomenti logici che sembrano, quanto meno a prima vista, del tutto ragionevoli e condivisibili — viene in effetti da chiedersi come sia possibile che, al contrario, l’orientamento tuttora dominante persista nel ritenere necessaria, ai fini dell’ammissibilità del ricorso giurisdizionale rivolto avverso le clausole preclusive della stessa partecipazione alla gara d’appalto, la successiva formale presentazione dell’offerta economica, tra l’altro imponendo cosı̀ alle imprese di assumere i costi ed i rischi che risultano connessi a tale adempimento (18). Le ragioni ad esso sottese, invero, sono note e non appaiono di difficile comprensione: esse devono tuttavia ritenersi essere state ormai del tutto superate dalla complessiva evoluzione dell’ordinamento processuale amministrativo, tanto per ciò che riguarda i profili relativi alla ritenuta mancanza — in difetto della formale domanda di partecipazione — di una adeguata differenziazione della situazione giuridica soggettiva propria dell’impresa che intende ricorrere avverso i contenuti di una clausola « escludente » contenuta in un bando di gara od in una lettera d’invito, quanto in relazione agli aspetti che ineriscono ad una supposta (18) Tali profili vengono infatti sottolineati esattamente da G. MARI, Domanda di partecipazione alla gara come presupposto per l’impugnazione del bando, in Giust. civ., 2002, 828 ss., e sp. 830, ove si rileva criticamente come « in presenza di un bando che richieda requisiti non in possesso del ricorrente, il successivo provvedimento di esclusione non rappresenta altro che un atto vincolato, la cui emanazione è dunque prevedibile; costringere l’impresa a partecipare alla gara significherebbe, dunque, indurla a sostenere le inevitabili spese a ciò necessarie ». Né d’altra parte sono in ciò assenti dei rischi per l’impresa stessa, come ammetteva già Cons. Stato, Sez. V, 26 maggio 1997, n. 554, in Foro amm., 1997, 1400, nella quale dopo aver ribadito la necessità della successiva partecipazione alla gara ai fini dell’ammissibilità del ricorso proposto avverso l’espletamento della gara stessa, si rileva come « invero la società poteva comunque formulare un’offerta per lei sicuramente vantaggiosa, ancorché non concorrenziale (onde evitare il pericolo di restare vincolata ad un’offerta non remunerativa) ».


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carenza nell’interesse processuale ad ottenerne — sempre in difetto della suddetta partecipazione — l’annullamento in via giurisdizionale. Quanto al primo profilo, in effetti, la giurisprudenza tradizionale prevalente sul punto risulta fondata sull’accettazione del principio — di per sé, naturalmente, esattissimo — dell’insufficienza del mero interesse alla legittimità dell’azione amministrativa ai fini della proposizione di un ricorso giurisdizionale al Tar ed al Consiglio di Stato, occorrendo piuttosto che il soggetto che intenda introdurre tale giudizio versi in una posizione differenziata rispetto al quivis de populo, facendo valere un interesse specifico e diverso rispetto a quello che potrebbe riconoscersi in capo alla generalità dei consociati (19). In applicazione di tale principio dovrebbe dunque in materia conseguentemente ammettersi — secondo tale impostazione — che « solo le imprese che abbiano chiesto di partecipare ad una gara d’appalto... si collocano in una posizione giuridica differenziata rispetto a quella di tutte le altre imprese presenti sul mercato e, pertanto, si ergono a titolari di un interesse legittimo giudizialmente tutelato che le abilita a sindacare la legittimità delle statuizioni del bando della stessa gara, alla quale hanno dimostrato “in concreto” di voler prendere parte » (20). Lungi dal determinare acquiescenza alle contestate clausole del bando di gara o della lettera d’invito (21), solo la concreta (19) Posizioni ribadite di recente in modo chiarissimo, ad esempio, da Cons. Stato, Sez. IV, 23 dicembre 2002, n. 7277, pubblicata anch’essa per esteso in www.giust.it, Rivista internet di diritto pubblico, n. 1-2003: « salvo i casi previsti dalla legge di azione popolare a tutela dell’oggettiva legittimità dell’azione amministrativa, l’impugnativa di un atto amministrativo è proponibile solo da parte del titolare di un interesse legittimo e cioè di una posizione giuridica attiva che deve essere, oltre che qualificata da una previsione normativa che la prenda in considerazione insieme all’interesse pubblico, anche adeguatamente differenziata dall’interesse al corretto svolgimento dell’attività amministrativa, proprio della generalità dei consociati ». (20) Cosı̀ ancora Cons. Stato, Sez. IV, 23 dicembre 2002, n. 7277, cit. (21) Sul punto, infatti, si cfr. P. PIZZA, Impugnazione diretta del bando, clausole immediatamente lesive e interesse a ricorrere: una tutela giurisdizionale incerta, cit., 733, nt. 58, il quale ricorda come anche tale profilo fosse stato coinvolto nel dibattito sull’onere di immediata impugnazione delle clausole del bando — diverse da quelle cc.dd. escludenti — che si intendono assumere come lesive dell’interesse delle imprese


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partecipazione alla procedura concorsuale, il « contatto procedimentale » ivi verificatosi (22), potrebbe dirsi costituire pertanto l’elemento di fatto in grado di determinare l’insorgenza di una relazione giuridicamente rilevante con la pubblica amministrazione e, con essa, di una posizione differenziata dell’impresa interessata all’aggiudicazione dell’appalto che legittima al ricorso giurisdizionale. In mancanza, l’eventuale ricorso presentato dall’impresa operante nel settore non potrebbe invece che ritenersi inammissibile per l’assenza di una situazione giuridica soggettiva qualificata e tutelabile in giudizio. 5. Tale impostazione della questione, come si è detto, è risultata a lungo convincente, tanto che neppure in dottrina possono dirsi essere stati finora numerosi gli interventi e/o le riflessioni operati specificamente sul punto. Nondimeno — va rilevato — ciò sembra perfettamente spiegabile sol che si rilevi come le descritte posizioni giurisprudenziali appaiano in realtà essere state influenzate in modo assolutamente determinante da quelle medesime convinzioni che hanno caratterizzato le risultanze di un altro — e ben più noto — dibattito che per lungo tempo ha condotto dottrina e giurisprudenza ad esiti coincidenti con quelli cui tuttora si ispirano le soluzioni del problema qui in discussione. Si allude, naturalmente, al dibattito sulla legittimazione a ricorrere avverso le deliberazioni attraverso le quali la pubblica amministrazione si determina ad addivenire alla stipulazione di un che intendano partecipare alla gara d’appalto: « le sentenze che ampliano il novero delle clausole immediatamente impugnabili a pena di inammissibilità fanno spesso leva sull’argomento secondo il quale, partecipando alla gara senza metterne in discussione immediatamente le regole, i partecipanti presterebbero acquiescenza alle regole del bando ». Un contrario avviso, tuttavia, esprime altra parte della giurisprudenza: secondo Cons. Stato, Sez. V, 28 dicembre 2001, n. 6431, in Cons. St., 2001, I, 2744, « la partecipazione alla gara non manifesta affatto una volontà di incondizionata accettazione delle clausole adottate dall’amministrazione né esprime la rinuncia a far valere i vizi del procedimento lesivi degli interessi del concorrente... L’acquiescenza al provvedimento amministrativo si verifica solo quando tutti i dati fattuali indicano, senza incertezze, la presenza di una chiara intenzione di non contestare l’atto lesivo ». Nello stesso senso anche Cons. Stato, Sez. V, 3 settembre 2001, n. 4586, in Cons. St., 2001, I, 1949 ss.; Cons. Stato, Sez. V, 5 marzo 2001, n. 1247, in Cons. St., 2001, I, 586. (22) Come potrebbe dirsi seguendo una terminologia di recente invalsa nell’uso.


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contratto individuando il proprio contraente mediante il metodo della c.d. trattativa privata, i cui sviluppi ultimi sono stati non a caso richiamati anche da una parte di quella giurisprudenza che si è recentemente pronunciata in favore di un’evoluzione delle posizioni sostenute in tema di necessaria partecipazione alla gara d’appalto (23). Com’è noto, infatti, anche relativamente alla possibilità di ammettere una tale legittimazione a ricorrere la giurisprudenza del Consiglio di Stato, superando iniziali contrasti con le ancor più rigorose posizioni espresse della Corte di Cassazione (24), ha a (23) In questo senso, infatti, si cfr. i passaggi emergenti dalla decisione C.G.A. 29 novembre 2002, n. 629, cit., ove si è rilevato come la questione presenti « ... profili analoghi a quella relativa alla legittimazione a ricorrere, oggi costantemente ammessa, degli imprenditori del settore che contestino la decisione di una pubblica amministrazione di affidare un appalto a trattativa privata anziché mediante gara »; nonché nella recentissima ordinanza del Tar Lombardia, Brescia, Sez. I, ord. 10 gennaio 2003, n. 5, in www.giust.it, Rivista internet di diritto pubblico, n. 1-2003, con commento di A. TESTA, Impugnativa dei bandi di gara da parte di impresa che non abbia presentato offerta per la partecipazione all’appalto per pubblico incanto, che ha accolto l’istanza di tutela cautelare ritenendo « ... ammissibile il ricorso avverso un bando di gara proposto da un’impresa, appartenente al settore imprenditoriale attivo in relazione all’oggetto dell’appalto, che non ha presentato offerta, nel caso in cui sia stata impugnata una clausola che prevedeva requisiti non posseduti dalla ricorrente, che ne precludevano l’ammissione, attesa la violazione dei principi di derivazione comunitaria della più ampia partecipazione alla gara e della libertà di concorrenza... stante il carattere già attuale e concreto dell’interesse ad impugnare, a fronte del provvedimento di esclusione che la P.A. adotterebbe in ossequio al bando ». (24) Le quali, argomentando sulla base del rilievo della mancanza di norme pubblicistiche che disciplinano il sistema della trattativa privata e sulla conseguente necessità di ricondurre interamente tale metodo di scelta del contraente all’interno dell’autonomia negoziale della pubblica amministrazione, avevano in un primo momento sostenuto l’impossibilità di configurare, in materia, l’esistenza di interessi legittimi: Cass., Sez. un., 28 settembre 1955, n. 2658, in Foro it., 1956, I, 1137. Tali posizioni, come è risaputo, vennero tuttavia contrastate dall’Adunanza plenaria del Cons. Stato, 28 gennaio 1961, n. 3, in Cons. St., 1961, I, 8, la quale affermò viceversa la possibilità di riconoscere posizioni di interesse legittimo anche con riferimento al sistema della trattativa privata almeno nelle ipotesi in cui l’amministrazione appaltante, attraverso atti amministrativi formali, si fosse « autolimitata », manifestando il proposito di concludere il contratto con un soggetto determinato. L’autolimitazione formale avrebbe infatti consentito di differenziare la posizione di costui non solo da quella del quivis de populo ma anche da quella di tutti coloro che, in qualsiasi altra maniera, avessero dimostrato di aspirare essi stessi alla stipulazione del contatto. Per tutti, comunque, si cfr. sul punto i classici scritti di G. ABBAMONTE, Sui contratti della pubblica amministrazione a tratta-


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lungo ritenuto che potesse riconoscersi una posizione qualificata da norme di legge e differenziata dal quisque de populo solo in capo al soggetto che avesse già precedentemente intrattenuto un rapporto contrattuale con la pubblica amministrazione nel settore oggetto del contratto ovvero che fosse titolare di un’aspettativa tutelata dal diritto in quanto relativa ad una richiesta ufficiosa di disponibilità e/o di offerta proveniente dalla medesima pubblica amministrazione (con conseguente effetto di autolimitazione): ancora una volta, insomma, solo laddove si fosse potuta riscontrare l’esistenza di un pregresso « contatto » tra impresa e stazione appaltante, determinato o consentito da quest’ultima, in grado di porre in specifico e differenziato rilievo l’interesse di questa rispetto a quello proprio della generalità degli operatori economici del settore (25). Tali posizioni, tuttavia, sono progressivamente apparse essere del tutto insoddisfacenti, in considerazione, soprattutto, della complessiva evoluzione del contesto normativo vigente in tema di contratti della pubblica amministrazione volta ad evidenziare chiaramente — anche per l’influenza dei principi sostanziali di tiva privata, nota a Cass., 28 settembre 1955, n. 2658, in Giust. civ., 1956, I, 715; E. CANNADA BARTOLI, In tema di trattativa privata, nota a Cons. Stato, Ad. plen., 28 gennaio 1961, n. 3, in Foro amm., 1961, I, I, 2, 561; E. GUICCIARDI, Trattativa privata e giurisdizione amministrativa, nota a Cons. Stato, Ad. plen., 28 gennaio 1961, n. 3, in Giur. it., 1961, III, 241. (25) Per un’accurata ricostruzione dell’evoluzione della giurisprudenza sul punto, tra gli scritti più recenti, si cfr. L. CIMELLARO, La legittimazione al ricorso nella trattativa privata: verso un superamento della tradizionale concezione dell’interesse legittimo, in questa Rivista, 1999, spec. 117 ss., la quale ricorda appunto come dopo la decisione n. 3 del 1961, « talune pronunce della giurisprudenza amministrativa... prendendo spunto dal generico riferimento in esso contenuto alle autolimitazioni amministrative quali fondamento di situazioni soggettive qualificate e differenziate, ne ampliarono notevolmente la portata, cosı̀ estendendo di molto le ipotesi di interesse legittimo nella trattativa privata... Si è cosı̀ iniziato insomma a riconoscere che quando l’amministrazione abbia fissato delle regole per la conduzione delle trattative ovvero abbia predeterminato una precisa e tassativa procedura si hanno autolimitazioni del potere discrezionale che provocano nei soggetti coinvolti un’aspettativa e quindi una posizione qualificata e differenziata che li abilita ad invocare la tutela del giudice amministrativo in relazione alla pretesa lesione di tale posizione (v., ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 26 ottobre 1971, n. 898, in Cons. St., 1971, I, 1758.; Id., Sez. V, 1o febbraio 1974, n. 67, in Cons. St., 1974, I, 252; Id., Sez. IV, 15 dicembre 1978, n. 1227, in Cons. St., 1978,1, 1844) ».


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derivazione comunitaria — il favor dell’ordinamento verso una scelta del contraente ispirata al metodo della gara e della massima concorrenza tra gli imprenditori, in particolare attraverso una sempre più rigorosa delimitazione dei casi in cui viene ammesso il ricorso stesso alla trattativa privata e mediante la creazione delle ibride figure della trattativa privata preceduta da bando di gara o da gara ufficiosa o dalla selezione informale delle offerte (26). In presenza di siffatti sviluppi, pertanto, non meraviglia che talune importanti decisioni del Consiglio di Stato adottate a partire dalla seconda metà dello scorso decennio abbiano infine determinato una decisa e definitiva svolta nei principi ribaditi sul punto dalla giurisprudenza amministrativa (27), poi avallata anche dalla Corte di Cassazione (28), pervenendo ad ammettere la legittimazione a ricorrere avverso la deliberazione di procedere alla scelta del contraente attraverso il metodo della trattativa privata in capo a ciascun imprenditore operante nel medesimo settore economico-produttivo interessato dal contratto d’appalto a prescindere dalla preesistenza di una relazione giuridica sulla quale (26) Come viene espressamente rilevato nella decisione Cons. Stato, Sez. V, 10 aprile 2000, n. 2079, in Cons. St., 2000, I, 923, ricordandosi a titolo esemplificativo, tra gli altri, gli artt. 9 del d.lgs. 19 dicembre 1991 n. 406; 24 della l. 11 febbraio 1994 n. 109, per gli appalti pubblici di lavori; 9 del d.lgs. 24 luglio 1992 n. 358, per gli appalti di forniture; 7 del d.lgs. 17 marzo 1995 n. 157, per gli appalti di servizi; 12 e 13 del d.lgs. 17 marzo 1995 n. 158, per gli appalti nei cc.d.d. settori esclusi. (27) Tra queste, in particolare, si cfr. le decisioni Cons. Stato, Sez. V, 22 marzo 1995, n. 454, in Cons. St., 1995, I, 371 nonché in Gior. dir. amm., n. 11/1995, 1067 ss., con nota di V. DOMENICHELLI, L’affıdamento a trattativa privata e la tutela dei terzi; Cons. Stato, Sez. V, 26 giugno 1996, n. 792, in Cons. St., 1996, I, 937; Cons. Stato, Sez. V, 20 agosto 1996, n. 937, in Foro amm., 1997, 815 ss, con nota di T. TESSARO, Trattativa privata, gara uffıciosa e discrezionalità autolimitata: decisione isolata o affermazione di nuovi principi?; Cons. Stato, IV sez., 17 febbraio 1997 n. 125, in Cons. St., 1997, I, 199, nonché in Urb. e app., n. 8/1997, 906 ss., con nota di G. BACOSI, Trattativa privata, interesse legittimo e giustiziabilità « diffusa »; Cons. Stato, Sez. V, 31 dicembre 1998, n. 1996, in Cons. St., 1998, I, 1956 ed in Foro amm., 1998, 3148; Cons. Stato, Sez. VI, 15 novembre 1999, n. 1810, in Foro amm., 1999, 2553; Cons. Stato, Sez. V, 10 aprile 2000, n. 2079, in Cons. St., 2000, I, 923; Cons. Stato., Sez. IV, 1o febbraio 2001, n. 399, in Cons. St., 2001, I, 191; Cons. Stato, Sez. VI, 7 maggio 2001, n. 2541, in Cons. St., 2001, I, 1081. (28) Cass., Sez. un., 18 novembre 1998, n. 11619, in Cons. St., 1998, II, 576, che ha confermato la citata decisione Cons. Stato, Sez. V, 26 giugno 1996, n. 792.


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possa avere inciso l’atto impugnato: con ciò riconoscendosi, dunque, nella posizione di colui che avrebbe potuto aspirare all’aggiudicazione ove fosse stata bandita una procedura concorsuale aperta alla libera concorrenza fra più aspiranti al perseguimento del medesimo bene della vita una situazione giuridica soggettiva di per sé rilevante e meritevole di protezione da parte dell’ordinamento, nei limiti delle norme e dei principi che lo compongono (29). Certo, come si sottolinea nelle più approfondite tra le decisioni che hanno determinato e consolidato il revirement giurisprudenziale, nell’applicare tale criterio occorrerà pur sempre operare con molta cautela, delimitando ragionevolmente il « settore economico-produttivo » di riferimento e valutando concretamente la posizione e la domanda di partecipazione dell’interessato, onde evitare di garantire l’accesso al giudizio nel merito anche alle domande di tutela giurisdizionale del tutto prive dei requisiti minimi di ammissibilità (30). Quel che più conta, tuttavia, ai fini della presente indagine, è il rilevare chiaramente come, in base a tali nuovi ed ormai conso(29) L’ordinamento infatti — si è affermato con chiarezza — « nel prevedere che, di regola, deve esservi la gara pubblica, o a partecipazione allargata, attribuisce all’imprenditore una posizione giuridicamente protetta: egli deve essere posto in grado di partecipare alla gara e di risultare vincitore se è in possesso dei prescritti requisiti »: cosı̀ espressamente tanto Cons. Stato, Sez. V, 22 marzo 1995, n. 454, cit., quanto Cons. Stato, Sez. V, 26 giugno 1996, n. 792, cit. D’altra parte — si è ancora rilevato in giurisprudenza — il riconoscimento della « ... rilevanza dell’interesse dell’imprenditore deve dirsi essere imposta dal principio espresso dall’art. 41 primo comma della Costituzione, in forza del quale ogni soggetto può far valere la pretesa a svolgere attività economiche che non si pongano in contrasto con i valori indicati al secondo comma dello stesso articolo », oltre che dai più generali principi del diritto comunitario, « ampiamente sviluppati da una lunga serie di direttive e di atti normativi di vario rango », al cui interno quello « della salvaguardia del valore della concorrenza costituisce uno dei ”pilastri”, fin dal Trattato istitutivo »: cosı̀, ancora, Cons. Stato, Sez. V, 26 giugno 1996, n. 792, cit. nonché, tra le più significative, Cons. Stato, Sez. VI, 15 novembre 1999, n. 1810, cit. (30) Cons. Stato, Sez. V, 10 aprile 2000, n. 2079, cit.: profilo sul quale si tornerà immediatamente di seguito, allorché la riflessione assumerà a proprio oggetto la sussistenza del requisito dell’interesse processuale a ricorrere — al quale più propriamente va a nostro avviso riferita l’avvertenza contenuta nella sentenza — in capo all’impresa che non abbia presentato la domanda di partecipazione alla gara d’appalto.


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lidati principi giurisprudenziali, se nelle ipotesi ricordate viene ora ammessa la legittimazione a ricorrere in capo all’impresa « operante nel settore economico-produttivo » pur in mancanza — lo si ripete — di qualsiasi pregresso od ulteriore momento di formale differenziazione dell’interesse, allo stesso identico modo, invero, non pare allora più discutibile nemmeno la sussistenza della legittimazione a ricorrere in capo all’impresa che abbia impugnato la clausola che preclude la sua partecipazione ad una gara d’appalto, ancorché senza presentare poi una rituale (ed inutile) formale offerta, poiché questa si trova esattamente nella medesima posizione giuridica di quella: ad entrambe viene preclusa la possibilità di concorrere con le altre imprese operanti nel settore per ottenere l’aggiudicazione del contratto, entrambe si trovano di fronte una situazione di fatto che assumono contra ius ed avverso la quale insorgono per ottenere tutela in sede giurisdizionale, entrambe non godono di alcun altro profilo di differenziazione del proprio interesse che non sia quello discendente dall’operare nel settore economico-produttivo cui si riferisce il contratto pubblico. In entrambi i casi, dunque, è solo con riferimento alla dimostrazione della presenza o meno di questo specifico aspetto che andrà valutata la posizione di legittimazione alla proposizione di un ricorso giurisdizionale avverso deliberazioni amministrative — aventi natura generale (come un bando di gara o una lettera d’invito contenenti specifici requisiti soggettivi necessari per la partecipazione) ovvero particolare (come la deliberazione di stipulare a trattativa privata) — che hanno il comune effetto lesivo di precludere in modo definitivo la possibilità, per il medesimo imprenditore, di concorrere per l’attribuzione del bene della vita (aggiudicazione del contratto) al quale aspira, in concorrenza con gli altri operatori economici del settore (31). Qualsiasi ulteriore pro(31) Nello stesso senso, infatti, si cfr. anche F. SAITTA, La legittimazione ad impugnare i bandi di gara: considerazioni critiche sugli orientamenti giurisprudenziali, in Riv. trim. app., 2001, 536: « l’interesse vantato da colui che non ha potuto partecipare ad una gara perché il bando richiedeva a tal fine un requisito che lui non possedeva trova la sua qualificazione non già nella presentazione di un’inutile (in quanto scontatamente destinata al rigetto) domanda di partecipazione, che finirebbe per essere un fattore di legittimazione che qualunque soggetto potrebbe procurarsi artificiosamente,


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blema di ammissibilità del ricorso giurisdizionale andrà pertanto risolto, poi, sul piano processuale della verifica dell’esistenza, in capo a tale imprenditore, di un concreto interesse processuale a ricorrere per ottenere l’annullamento dei provvedimenti impugnati: ed è a tale diverso piano valutativo che occorrerà pertanto rivolgere adesso l’indagine. 6. Superate le difficoltà relative alla possibilità di ammettere l’esistenza di un interesse qualificato e sufficientemente differenziato in capo all’imprenditore operante nel settore, idoneo a consentire a questi di insorgere in sede giurisdizionale avverso la clausola preclusiva della sua (valida) partecipazione ad una gara d’appalto, non rimane in effetti da verificare altro che l’eventualità che la formale presentazione dell’offerta in quella medesima gara possa dirsi essere imposta per esigenze legate — non più alla differenziazione di tale posizione rispetto a quella del quivis de populo bensı̀ — alla necessità di dimostrare l’esistenza altresı̀ di un interesse ad ottenere una decisione giurisdizionale che sia in grado di far conseguire a costui « proprio quello e tutto quello che gli spetta sul piano del diritto sostanziale », come può dirsi riprendendo le correnti definizioni offerte della nozione dell’interesse processuale ricorrere (32). Sul punto, peraltro, occorre preliminarmente osservare come, anche in questa materia, emerga chiaramente quella che può considerarsi la nota situazione di confusione che sovente si riscontra in giurisprudenza tra i concetti dell’interesse sostanziale idoneo a fungere quale posizione legittimante all’azione giurisdizionale e dell’interesse meramente processuale ad ottenere un vantaggio bensı̀, precedentemente ed a prescindere da questa, nella rilevanza sociale riconosciutagli dall’ordinamento. In altri termini, tali situazioni soggettive si caratterizzano semplicemente per il fatto che la posizione di un imprenditore è certamente (...) differenziata rispetto a tutti gli atti soggetti dell’ordinamento ». (32) Per tutti si cfr. R. VILLATA, Interesse ad agire, II) Diritto processuale amministrativo, in Enc. giur., XIII, Roma, 1989, 1 ss. ed ivi gli ampi richiami operati alla dottrina processualcivilistica « ... che eleva a requisito dell’azione, giusta l’art. 100 c.p.c., l’interesse ad agire che nasce dallo stato di lesione della situazione sostanziale che si intende tutelare e coglie l’idoneità del provvedimento richiesto a soddisfarlo, attraverso l’eliminazione dello stato antigiuridico ».


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concreto dalla relativa decisione, ritrovandosi assai spesso decisioni che richiamano l’istituto dell’interesse a ricorrere ma svolgono poi argomenti del tutto identici a quelli fin qui trattati con riguardo al profilo della legittimazione ad agire (33). Tra le non molte decisioni giurisdizionali che, dunque, nel richiedere a pena di inammissibilità del ricorso la formale presentazione dell’offerta, si riferiscono invece propriamente (anche) al profilo della carenza dell’interesse processuale a ricorrere, uno in particolare sembra essere l’argomento addotto a sostegno della posizione assunta: quello volto a sottolineare come la formale presentazione dell’offerta dovrebbe dirsi necessaria in quanto, ove fosse eventualmente accolto il ricorso avverso l’illegittima clausola preclusiva della partecipazione impugnata, la decisione di annullamento della medesima rimarrebbe priva di utilità concreta per il ricorrente, in quanto questi non potrebbe più, comunque, aggiudicarsi la procedura concorsuale e conseguire cosı̀ concretamente il bene della vita al quale aspira (34). 7.

Neppure tale pregiudiziale obiezione all’ammissibilità del

(33) Sul punto, d’altra parte, si cfr. ancora R. VILLATA, op. ult. cit., spec. 4 ss., cui adde ID., Legittimazione processuale, II) Diritto processuale amministrativo, in Enc. giur., XVIII, Roma, 1990, 1 ss., ove si pone infatti immediatamente in rilievo « l’evidente intreccio dell’argomento della legittimazione ad causam nel giudizio amministrativo... con i problemi della definizione dell’interesse protetto e dei rapporti con l’interesse al ricorso », sottolineandosi appunto come « l’incertezza sia tutt’altro che attenuata dall’analisi della giurisprudenza...: anzi, un medesimo problema viene a volte prospettato in termini di interesse processuale, a volte di legittimazione, senza però chiaramente prender partito a favore dell’eventuale non autonomia dei suddetti requisiti ». (34) Chiarissima in questo senso, ad esempio, la decisione Tar Sicilia, Catania, Sez. II, 29 gennaio 2002, n. 148, cit., poi confermata e ribadita, anche nella motivazione, da C.G.A. 29 novembre 2002, n. 629, cit.: « si pensi, a titolo esemplificativo, alle prescrizioni del bando relative al possesso di particolari requisiti di capacità economica e finanziaria. Un’impresa priva dei requisiti prescritti potrà agire in giudizio, chiedendo l’annullamento delle clausole del bando ritenute illegittime, soltanto se avrà presentato la domanda di partecipazione alla gara, accompagnata dall’offerta economica, perché unicamente in tale ipotesi... ove il giudizio si concluda con l’annullamento delle clausole impugnate, la partecipazione dell’impresa ricorrente alla gara risulterà legittima e la stessa impresa potrà conseguire l’aggiudicazione, qualora abbia presentato la migliore offerta ». Accenni in tal senso, d’altra parte, si ritrovano poi anche in Cons. Stato, Sez. V, 26 maggio 1997, n. 554, cit., nella quale pure si osserva come « ... invero la società poteva comunque formulare un’offerta per lei vantaggiosa... e la stessa avrebbe potuto essere accolta ».


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ricorso giurisdizionale, tuttavia, sembra resistere alle ragioni che inducono invece ad una sua definitiva riconsiderazione. In primo luogo, infatti, pare di poter osservare come, anche in questo caso, le posizioni assunte dalla tradizionale giurisprudenza amministrativa risentano e risultino condizionate da massime affermatesi in relazione a fattispecie vicine — ancorché, questa volta, non fondatamente accostabili — nelle caratteristiche rispetto a quella che viene qui in questione. Di più: pare in questa ipotesi verificarsi veramente una manifestazione di quel fenomeno — di recente considerato in dottrina, infatti, « non del tutto inusuale » (35) — di trasposizione ed estensione di una massima al di fuori del suo naturale campo di applicazione con conseguenti gravi fraintendimenti e/o veri e propri difetti ricostruttivi. Le posizioni in tema di interesse processuale a ricorrere testé richiamate, in effetti, sono sorte e vengono tuttora ribadite dalla prevalente giurisprudenza con riferimento alla simile, ma tutt’altro che coincidente, problematica della partecipazione nei concorsi a posti di pubblico impiego (36). È in tale settore dell’ordinamento che, infatti, è emersa la regola giurisprudenziale secondo la quale l’esistenza dell’interesse processuale a ricorrere avverso una clausola preclusiva della partecipazione ad una procedura concorsuale risulta dipendente dall’essere comunque avvenuta la partecipazione stessa, « non ritraendo altrimenti il ricorrente alcuna utilità concreta dalla eventuale pronuncia di annullamento della prescrizione contenuta nel bando » (37). L’affermazione di un tale principio di diritto, tuttavia, pare discendere — e con in(35) R. CARANTA, La pubblica amministrazione nell’età della responsabilità, in Foro it., 1999, III, 3207. (36) Profilo rilevato, infatti, anche da F. SAITTA, La legittimazione ad impugnare i bandi di gara: considerazioni critiche sugli orientamenti giurisprudenziali, cit., 527, che osserva come l’orientamento in questione risulti « ... analogo a quello seguito in tema di concorsi pubblici secondo cui il soggetto che non ha chiesto di partecipare alla gara non ha veste per impugnare la clausola del bando che stabilisce i requisiti prescritti per l’ammissione ». (37) Tra le altre, in questo senso, si cfr. infatti Cons. Stato, Sez. V, 8 aprile 1987, n. 236, in Cons. St., 1987, I, 555; Cons. Stato, Sez. V, 22 febbraio 1993, n. 277, in Foro amm., 1993, 436; Cons. Stato, Sez. IV, 6 maggio 1996, n. 577, in Foro amm., 1996, 1478; Cons. Stato, Sez. V, 31 gennaio 2001, n. 351, in Foro amm., 2001, 65; Cons. Stato, Sez. V, 20 giugno 2001, n. 3264, in Riv. pers. e. l., 2001, 895, ove si ribadisce


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fluenza veramente determinante — da quella componente di « pragmatismo » che è da sempre riconoscibile nella giurisprudenza in tema di concorsi a pubblico impiego: materia nella quale, ragionevolmente, i giudici amministrativi si pongono con particolare attenzione e prudenza il problema di considerare le gravi conseguenze pratiche che vengono concretamente a determinarsi a seguito di una decisione di annullamento di un’intera procedura concorsuale (38), ovviandovi — in questa ipotesi — richiedendo appunto che avvenga comunque la partecipazione alla gara quale condizione per la definizione nel merito del giudizio e, ove positivamente superate le prove d’esame, per l’attribuzione del bene della vita ambito dal ricorrente (rapporto di lavoro subordinato con la pubblica amministrazione). In questo modo, infatti, vengono fatte salve, al tempo stesso, tanto le predette esigenze pratiche volte ad evitare il travolgimento dell’intera procedura concorsuale quanto quelle, certo non meno rilevanti, di non precludere la partecipazione al concorso a posti di pubblico impiego ad intere categorie di soggetti che ad essa — si accerta — avevano in effetti diritto. Se è vero, dunque, che profili di analogo « pragmatismo » possono certamente riconoscersi anche con riferimento alla vicina problematica relativa alle procedure concorsuali per l’aggiudicaespressamente che « l’interesse concreto fatto valere con l’impugnazione della clausola del bando deve essere comprovato dalla presentazione della domanda di partecipazione nel termine perentorio fissato nella lex specialis della procedura ». (38) È da ricordare, in effetti, come proprio quella medesima componente di pragmatismo fosse sottesa ed abbia determinato una delle più importanti evoluzioni « pretorie » verificatesi nell’ambito degli istituti del processo amministrativo di legittimità allorché, a partire già dagli anni sessanta, la giurisprudenza ha ammesso praeter legem la possibilità per il giudice di adottare misure cautelari consistente dell’ammissione con riserva al pubblico concorso. Al di là della diversità delle problematiche, infatti, anche al caso che qui interessa sembrano attagliarsi pienamente le riflessioni di recente proposte da F. SATTA, Giustizia cautelare, voce in Enc. dir., I (agg.), Milano, 1997, 596, nt. 9, ove si osserva come, in realtà, nella logica propria della sola misura cautelare tipica conosciuta nel processo amministrativo fino all’emanazione della l. n. 205 del 2000, in presenza di un provvedimento di esclusione la cui impugnazione fosse stata riconosciuta assistita dal fumus boni iuris, « ... si sarebbe dovuta sospendere l’intera procedura concorsuale. Certo si ritenne più opportuno sospendere l’esclusione anziché l’intero concorso. È il tipico approccio empirico che ha caratterizzato tanta giurisprudenza del Consiglio di Stato ».


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zione di contratti della pubblica amministrazione (39), questi tuttavia, in questa differente materia, non possono che ritenersi essere assolutamente recessivi rispetto alle esigenze di concreta effettività della tutela giurisdizionale e di ragionevole individuazione delle cause di inammissibilità o improcedibilità dei ricorsi che risultano pregiudicate dall’orientamento qui criticato, sia per la assoluta incomparabilità dei concreti « inconvenienti » pratici discendenti, nelle due ipotesi poste a confronto, dall’adozione di una sentenza demolitoria dell’intero procedimento concorsuale, sia in quanto la realtà delle controversie in tema di pubblici appalti mostra l’assoluta frequenza dei casi nei quali, a seguito del riscontro dell’illegittimità di clausole dei bandi di gara e/o delle modalità seguite per il suo svolgimento, i giudici amministrativi pervengono alla decisione di annullamento dell’intera gara illegittimamente espletata: il che se, da una parte, dimostra la tendenza a privilegiare, nel confronto con l’interesse pubblico alla rapida aggiudicazione dei contratti, gli interessi dei ricorrenti giuridicamente protetti dall’ordinamento con norme-principio di rilievo anche costituzionale, dall’altra appare indicare la necessità di pervenire definitivamente ad una soluzione evolutiva anche con riferimento alla tematica dell’onere della formale partecipazione qui in questione. D’altra parte — va conclusivamente rilevato — l’insistere ulteriormente nel ribadire le descritte posizioni giurisprudenziali sembrerebbe porsi in netto e grave contrasto rispetto ai principi che ormai da tempo vengono con assoluta certezza ripetuti dalla medesima giurisprudenza in tema di sufficienza del c.d. interesse strumentale al fine di integrare il richiesto requisito di ammissibi-

(39) Ammette in effetti anche G. MARI, Domanda di partecipazione alla gara come presupposto per l’impugnazione del bando, cit., 832, che la formale presentazione dell’offerta da parte dell’impresa che abbia impugnato la clausola impeditiva della partecipazione potrebbe contribuire alla speditezza della soluzione della complessiva vicenda processuale poiché « laddove si contesti un bando nella parte in cui prevede clausole impeditive della partecipazione del ricorrente e questi abbia presentato domanda di partecipazione alla gara e formulato la sua offerta, l’amministrazione potrà, emendato il bando dalla clausola illegittima, procedere a valutare l’offerta dell’impresa esclusa ».


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lità costituito dell’interesse processuale a ricorrere (40), il quale, secondo le ormai consolidate massime affermate in materia, deve riconoscersi allorché il ricorrente si trovi in una posizione tale da poter ottenere, per il tramite della sentenza giurisdizionale, anche solo il perseguimento di quella utilità strumentale minima che è costituita dal rimettere in discussione il rapporto controverso, per effetto della rimozione dell’atto lesivo, con successiva eventuale possibilità di soddisfacimento del bene della vita (41). Se è in relazione a questa utilità sostanziale minima che occorre valutare l’ammissibilità del ricorso, in effetti, ebbene non v’è allora dubbio alcuno che questa debba riconoscersi in relazione all’interesse che muove all’impugnazione l’imprenditore operante nel settore, la cui aspirazione sostanziale non in altro consiste evidentemente che — proprio e specificamente — nel vedere rinnovata la gara senza le clausole preclusive della sua partecipazione tempestivamente impugnate e riconosciute illegittime dal giudice. Ed è in questo senso, infatti, che ha ritenuto di potersi chiaramente pronunciare anche la già citata decisione della Quinta Sezione del Consiglio di Stato del 18 dicembre 2002, n. (40) Giurisprudenza costante: tra le altre, in questo senso, si cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 18 luglio 1995, n. 754, in Giust. civ., 1996, I, 279, secondo cui, appunto, « il limite al di sotto del quale la giurisdizione amministrativa non è attivabile è costituito dall’interesse processuale, nel suo contenuto minimo di mero interesse strumentale alla ridiscussione del rapporto controverso ». In dottrina, sul punto, si cfr. R. VILLATA, Interesse ad agire (II- Diritto processuale amministrativo), in Enc. giur., XIII, Roma, 1989, 1 ss.; R. FERRARA, Interesse e legittimazione al ricorso (ricorso giurisdizionale amministrativo), voce del Digesto (disc. pubbl.), VIII, Torino, 1993, 468 ss.; P.M. VIPIANA, In margine ad un recente orientamento del Consiglio di Stato sul c.d. interesse strumentale a ricorrere, in questa Rivista, 1987, 107 ss.; R. MONTEFUSCO, Rilevanza dei requisiti di differenziazione e qualificazione nell’individuazione delle posizioni di interesse legittimo (l’interesse legittimo fra interesse a ricorrere ed interesse illegittimo), in questa Rivista, 1985, 422. (41) Si veda infatti R. FERRARA, Interesse e legittimazione al ricorso (ricorso giurisdizionale amministrativo), cit., 474, ove viene osservato appunto come « in questo quadro, non solo è sufficiente che il vantaggio che il ricorrente si ripromette di ricavare dalla caducazione dell’atto impugnato sia meramente potenziale, ma esso può essere, secondo un indirizzo giurisprudenziale pressoché costante, anche semplicemente strumentale: espressioni forse in parte equipollenti, con le quali si designa l’interesse che può eventualmente avere il ricorrente alla mera ridiscussione del rapporto controverso ».


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7055, laddove, nel riformare la sentenza di primo grado, ha appunto ritenuto « ... non persuasivo l’argomento del tribunale che pone l’accento sulla mancanza di un personale e diretto vantaggio all’accoglimento del ricorso giurisdizionale » (42). Il requisito dell’interesse al ricorso — si è espressamente affermato — può assumere infatti carattere meramente strumentale, risolvendosi nell’interesse alla riapertura del procedimento in tutte le ipotesi in cui i vizi riferiti al bando di gara riguardino i requisiti di partecipazione oppure le modalità di composizione dell’offerta, venendo in questi casi in evidenza « la particolare caratteristica dell’effetto demolitorio della sentenza di accoglimento, la quale comporta la necessità di rinnovare la gara sin dalla definizione delle regole riguardanti i profili soggettivi ed oggettivi dell’offerta... e la strumentalità dell’interesse processuale manifestato dal ricorrente, pienamente idoneo a dimostrare l’ammissibilità del ricorso, anche in mancanza della presentazione di un’offerta » (43). Né infine, aderendo ad una tale maniera di ragionare, potrebbero dirsi fondate le preoccupazioni — alle quali si aveva avuto modo precedentemente di accennare — circa una eccessiva proliferazione di ricorsi in materia, proposti da soggetti in grado di dimostrare con eccessiva facilità la sussistenza della propria generica legittimazione quale « imprenditore operante nel settore » e del loro « minimo interesse strumentale alla rinnovazione della gara » (44). Non lo sono, invero, giacché occorrerà pur sempre — secondo le indicazioni che vengono appunto offerte dalla giuri(42) Già ricordata retro, alla nota 8. (43) Cosı̀, ancora, Cons. Stato, Sez. V, 18 dicembre 2002 n. 7055, cit. (44) Fatte presenti nella decisione Cons. Stato, Sez. V, 10 aprile 2000, n. 2079, cit., nella quale si era appunto precisato come, dopo la svolta giurisprudenziale in questione, occorresse molta prudenza nell’operare « ... la valutazione delle circostanze del caso. L’esigenza di introdurre opportune forme di controllo dell’azione amministrativa, nel rispetto dei principi costituzionali sanciti dagli artt. 24, 97, 113 e 41 Cost., deve infatti raffrontarsi con la regola per cui nel nostro ordinamento non sono ammesse forme di legittimazione popolare all’azione, al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge. In breve, esiste sempre un limite, oltre il quale non potrà riconoscersi la legittimazione al ricorso »: sicché, si ribadiva, le nuove regole enucleate dalla giurisprudenza « ... devono applicarsi con molta cautela, mediante opportuna delimitazione del ”settore di riferimento”... in una con l’esame della domanda proposta dall’interessato, per evitare arbitrarie precostituzioni della legittimazione ad agire ».


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sprudenza — vagliare in concreto, proprio attraverso il « filtro » dell’accertamento della sussistenza dell’interesse processuale a ricorrere (45), la consistenza della situazione soggettiva nella quale versa concretamente la ricorrente, onde stabilire se il ricorso possa considerarsi assistito da quel carattere di serietà ed attendibilità che richiede al giudice di addivenire ad una decisione giurisdizionale nel merito ovvero debba ritenersi meramente « emulativo », finalizzato ad ottenere una sentenza di annullamento senza che in alcun modo ad essa potrebbe poi conseguire, per la mancanza di altri requisiti necessari, una concreta ed effettiva « chance » di aggiudicazione in occasione della rinnovazione della procedura (46). 8. Non resta, dunque, che il compito di svolgere qualche breve considerazione conclusiva per sottolineare la direzione nella quale, tanto con riferimento al caso qui specificamente preso in esame quanto con riguardo ad altre — e non poche — ipotesi di inammissibilità e/o improcedibilità di ricorsi giurisdizionali appare veramente necessario che si evolvano talune posizioni che pure risultano tuttora, e con una certa convinzione, ribadite dalla prevalente giurisprudenza amministrativa. Invero, non esiste probabilmente principio costituzionale che venga richiamato dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato e dei (45) In questo senso si veda ancora Cons. Stato, Sez. V, 18 dicembre 2002 n. 7055, cit.: « né vale obiettare che in tal modo si legittimerebbe al ricorso anche un soggetto privo di altri requisiti prescritti dal bando e non contestati dalla parte attrice. Infatti, tale circostanza, se provata in concreto, potrebbe implicare il difetto di interesse al ricorso ». (46) Si cfr., infatti, quanto osserva F. SAITTA, La legittimazione ad impugnare i bandi di gara: considerazioni critiche sugli orientamenti giurisprudenziali, cit., 537538: « se, ad esempio, l’impresa ricorrente non avesse chances per risultare aggiudicataria nemmeno qualora la gara fosse reindetta con un nuovo bando... il ricorso dovrebbe essere sı̀ dichiarato inammissibile, ma per carenza di interesse (anche soltanto strumentale) a ricorrere, e non già di legittimazione... Una volta ammessa la tutela del mero interesse strumentale, la circostanza che sia stata presentata o meno la domanda di partecipazione non costituisce dunque un valido criterio per distinguere il ricorso “serio” da quello che tale non è. Ed allora, la restrizione operata sul versante della legittimazione sostanziale, già debole sotto il profilo strettamente dogmatico, perde anche l’unica potenziale giustificazione pratica ».


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Tribunali Amministrativi Regionali più spesso di quello che afferma solennemente l’esigenza dell’effettività della tutela giurisdizionale garantita dall’ordinamento nei confronti di tutti gli atti della pubblica amministrazione (47). È al valore ed alla rilevanza fondamentale di tale principio, infatti, che si sono sovente riferiti i giudici amministrativi impegnati nel compito di ricostruire gli istituti processuali in grado di offrire a coloro che ricorrono alla giurisdizione amministrativa una risposta adeguata alle esigenze di tutela manifestate con l’azione giudiziale, come è avvenuto, in particolare, allorché in via pretoria sono stati progressivamente enucleati gli effetti « conformativi » ed « ordinatori » propri della decisione di annullamento del provvedimento amministrativo impugnato. È ancora in relazione all’operatività di tale principio costituzionale, poi, che sono state motivate le decisioni volte ad affermare la necessità di garantire la cogenza di tali effetti « oltre l’annullamento » attraverso lo strumento del giudizio di ottemperanza, ritenuto ammissibile anche in presenza di atti di esecuzione considerati elusivi del giudicato. Ed è altresı̀ attraverso il richiamo dei suoi contenuti che, infine, è stata resa possibile la preventiva ed interinale « anticipazione » di quei medesimi effetti al momento della fase cautelare attraverso ordinanze a contenuto atipico ed innominato (48). Sicché — può dirsi — è proprio attraverso il riferimento al principio dell’effettività della tutela giuri(47) Per non dire, poi, della giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale pure ha avuto spesso modo di ribadire con chiarezza il valore e la rilevanza fondamentale di tale principio, derivandone implicazioni ricostruttive in grado di orientare concretamente l’evoluzione del sistema delle tutele assicurate dal vigente ordinamento costituzionale: tra le altre, in questo senso, si cfr. infatti Corte cost., 8 settembre 1995, n. 419, in Giur. cost., 1995, I, 3147; Corte cost., 15 settembre 1995, n. 435, ivi, 3420, in tema di potere di esecuzione coattiva delle decisioni del giudice amministrativo attraverso la nomina di commissari ad acta, la cui esistenza è stata considerata « in base al principio di effettività della tutela giurisdizionale... connotato intrinseco della stessa funzione giurisdizionale, nonché dell’imprescindibile esigenza di credibilità collegata al suo esercizio »; Corte cost., 16 luglio 1996, n. 249, in Giur. cost., 1996, I, 2238, in tema di tutela cautelare; Corte cost., 12 dicembre 1998, n. 406, ivi, 1999, I, 3479, in tema di esecuzione delle sentenze di primo grado, esecutive e non sospese dal giudice d’appello, ma non passate in giudicato. (48) Per ciascuno di tali aspetti sia consentito rinviare alla ricognizione giurisprudenziale svolta nel nostro Pretesa di provvedimento e processo amministrativo, Milano, 2002, spec. 76 ss.; 102 ss.; 130 ss.


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sdizionale che la giurisprudenza amministrativa pare essere spesso riuscita a trovare la via per adempiere al compito di offrire risposte eque ai bisogni di tutela giurisdizionale manifestati in giudizio, risultando in tal modo in grado di rendere ragione del ruolo di giustizia che l’ordinamento costituzionale le assegna. Ora, se questo è vero, va nondimeno rilevato come anche tale fondamentale principio costituzionale appaia faticare non poco nel vedere concretamente realizzata la sua stessa « effettività » all’interno dell’ordinamento processuale amministrativo in ipotesi nelle quali — forse per un eccessivo rigore formalistico o forse, più semplicemente, a causa delle incertezze indotte dalla « cronica » carenza di disposizioni legislative espresse che da sempre affligge la disciplina applicabile ai giudizi amministrativi (49) — le soluzioni alle quali è pervenuta la giurisprudenza appaiono comunque non appieno condivisibili in una chiave interpretativa che voglia essere attenta, in primo luogo, alla sostanza dei problemi di concreta tutela che la giurisdizione amministrativa è preposta a soddisfare. È il caso, come è chiaro, della problematica qui specificamente affrontata, almeno fino a questo momento ed in attesa di possibili sviluppi degli orientamenti giurisprudenziali evolutivi ai quali si è fatto cenno. Ma è altresı̀ ciò che accade con riferimento ad altre questioni che riguardano limiti di ammissibilità e di procedibilità dei ricorsi giurisdizionali affermati e/o ribaditi, anche recentemente, da decisioni giurisdizionali che hanno aderito alle soluzioni più rigorose e restrittive configurabili sul punto, negando cosı̀ sostanzialmente l’« effettività » del diritto costituzio(49) Frequentemente lamentata da parte della dottrina: per tutti, cfr. A. ROMANO, Premessa (alla prima edizione), in Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, Padova, 2001, XX-XXI, il quale osservava come le norme che (all’epoca) riguardavano il processo amministrativo fossero per la loro gran parte ancora coincidenti con quelle contenute nella l. del 31 marzo 1889, n. 5992, poi riversate nel t.u. delle leggi sul Consiglio di Stato del 26 giugno 1924, n. 1054, giacché le disposizioni contenute nelle leggi successive — ed in particolar modo nella l. n. 1034 del 1971 — « ... hanno quasi sempre rinunciato a colmare le sue numerose ed indiscutibili lacunosità od a risolvere le questioni che erano emerse nell’esperienza della sua applicazione ». Anche la recente l. n. 205 del 2000, almeno in parte, sembra debba in effetti partecipare del senso di questa critica, essendosi pure questa in fondo limitata ad intervenire su talune specifiche questioni, senza recare un contributo innovativo organico sul complesso della disciplina processuale vigente.


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nale all’azione giurisdizionale in conseguenza dell’accertamento di intervenute decadenze dalla possibilità del suo esercizio. Si pensi, in questa direzione, alle posizioni che tuttora risultano prevalentemente (se non unanimemente) ribadite in giurisprudenza in tema di improcedibilità dei ricorsi giurisdizionali per sopravvenuto difetto di interesse nelle ipotesi in cui sia stato emanato dalla pubblica amministrazione resistente un nuovo provvedimento amministrativo non satisfattivo della pretesa fatta valere in giudizio e questo non sia stato impugnato dall’originario ricorrente: conclusioni che costringono sovente il ricorrente ad una continua « corsa all’impugnazione », pendente il giudizio, di tutte le nuove determinazioni amministrative che intervengono nella materia oggetto della controversia, nonostante che queste riguardino, sovente, altri aspetti della questione ovvero, anche allorché ineriscano specificamente alla res litigiosa, assumano contenuti parimenti od identicamente lesivi per gli interessi della controparte processuale (50); oppure si considerino, in termini ancora più critici, le posizioni di recente assunte dalla Quinta sezione del Consiglio di Stato riguardo al problema dell’eventuale onere di impugnazione con motivi aggiunti dei provvedimenti adottati dall’amministrazione dopo la proposizione del ricorso giurisdizionale — e collegati con l’oggetto del giudizio — anche (e soprattutto)

(50) Carenza sopravvenuta di interesse che — si ritiene — conseguirebbe all’inoppugnabilità comunque raggiunta dal nuovo provvedimento amministrativo. Una tale conclusione, tuttavia, è apparsa essere invero ormai in contrasto con la lettera della disposizione di cui all’art. 23, comma 7, l. n. 1034 del 1971 (una delle poche innovazioni specificamente portate nel sistema processuale dalla legge istitutiva dei Tar). Dal primo punto di vista, infatti, si è osservato in effetti come il legislatore abbia regolato espressamente « non l’ipotesi della improcedibilità per sopravvenuto difetto di interesse bensı̀ quella della cessazione della materia del contendere... Questa espressa previsione non può avere che un solo significato, che cioè il legislatore ritiene che un nuovo provvedimento amministrativo che regoli il medesimo rapporto sostanziale può incidere sul rapporto processuale, e quindi assumere rilevanza sul processo, solo nell’ipotesi in cui sia pienamente satisfattivo della pretesa sostanziale del ricorrente. Da ciò inevitabilmente dovrebbe conseguire l’irrilevanza nel processo della sopravvenienza di qualsiasi nuovo provvedimento che non risulti satisfattivo della pretesa sostanziale »: cosı̀ V. CAIANIELLO, Diritto processuale amministrativo, III ed. ampl. ed agg., Torino, 2003, 587.


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laddove operi la dimidiazione dei termini processuali ai sensi dell’art. 23-bis, della l. n. 1034 del 1971 (51). Nel primo caso, invero, il riconoscere la figura della improcedibilità quale conseguenza della emanazione di un atto amministrativo non satisfattivo, anche a prescindere dalla situazione di fatto assai complicata nella quale viene concretamente messo il ricorrente — soprattutto, di nuovo, laddove si dovesse ritenere che la dimidiazione dei termini processuali operi anche per l’impugnazione « per motivi aggiunti » —, appare per più versi « ... lesivo di quella posizione di parità processuale tra le parti che pure caratterizza anche il processo amministrativo » (52). Ma ancor di più nella seconda delle ipotesi citate, la sanzione dell’improcedibilità, francamente, non appare giustificata né dal tenore letterale della disposizione di cui all’art. 23-bis della l. n. 1034 del 1971, al quale pure si richiama la giurisprudenza qui criticata (53), né da alcuna logica od esigenza sistematica, sembrando (51) Ci si riferisce in particolare alla — pur approfondita e per altri versi apprezzabile e condivisibile — decisione resa da Cons. Stato, Sez. V, 6 luglio 2002, n. 3717, in Urb. e app., 2002, 1179 ss., con nota di M. LIPARI, I termini per la proposizione dei motivi aggiunti nel rito speciale disciplinato dall’articolo 23-bis, ed in questa Rivista, 2003, 267 ss., con nota di P. MICOZZI, Ragione ed ambito dell’esclusione dalla dimidiazione ex art. 23-bis, comma 2, l. 6 dicembre 1971, n. 1034, come modificata dall’art. 4, l. 21 luglio 2000, n. 205, dei termini per la proposizione del ricorso e cumulo progressivo di domande nel processo amministrativo. (52) Cosı̀, ancora, V. CAIANIELLO, op. ult. cit., 588-589, che rileva che con ciò non si intende escludere che, sul terreno sostanziale, l’amministrazione, durante la pendenza del processo, sia spogliata del potere di regolare altrimenti il rapporto sostanziale controverso: « si dovrebbe però ritenere del tutto ininfluente questa possibilità rispetto al processo instaurato mediante l’impugnativa dell’atto originario... Nonostante l’emanazione di un nuovo atto non satisfattivo il processo occasionato dalla impugnatva del primo atto dovrebbe continuare verso il suo naturale epilogo, che è quello della pronunzia sul merito, essendo affidato alla iniziativa del destinatario dell’atto sopravvenuto l’apprezzamento circa la possibilità della proposizione di motivi aggiunti, ove il nuovo atto si presenti innovativamente lesivo anche per altri aspetti ». (53) Se è vero infatti che la norma in questione ha espressamente stabilito che solo il ricorso introduttivo non è soggetto alla regola della dimidiazione dei termini processuali cui soggiacciono, invece, tutte le altre disposizioni che li prevedono, non potrebbe dimenticarsi che — come è stato rilevato — proprio la genesi della disposizione in questione, quale emerge dall’esame dell’iter parlamentare lungo il quale « il pronome quello è stato sostituito con il pronome quelli », dimostrerebbe con chiarezza la volontà legislativa di estendere l’eccezione al dimezzamento dei termini... a tutti i termini pre-


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anzi paradossale che, come pure afferma la giurisprudenza fino a questo momento dimostratasi unanime sul punto (54), « se lo strumento dei motivi aggiunti è facoltativo e non costituisce materia di un onere, la tesi dell’applicazione della dimidiazione dei termini all’istituto condurrebbe ad un risultato singolare: si applicherebbe il termine ordinario in caso di ricorso autonomo ed il termine dimezzato in caso di ricorso per motivi aggiunti » (55): e cosı̀, evidentemente, non può essere. Si tratta, come si è detto, solo di esempi di alcune delle ipotesi maggiormente problematiche che continuamente si presentano all’attenzione degli operatori e degli studiosi del processo amministrativo: altri se ne potrebbero fare — richiamando ancora, sempre per esempio, l’interessante questione della decorrenza del termine per impugnare in relazione alla piena conoscenza del contenuto lesivo del provvedimento amministrativo (56) — ma pare inutile insistere nel richiamare le fattispecie che ribadiscono l’esistenza di un problema di rapporti tra l’effettività del principio e della garanzia costituzionale della tutela giurisdizionale avverso tutti gli atti della pubblica amministrazione. Esso è presente e tutti ne sono perfettamente coscienti: cosı̀ come del tutto indiscutibile ed indiscussa è la soluzione da offrire ad esso almeno in linea teorica, di recente ribadita anche dalla giurisprudenza della Corte di giustizia CE, in particolare nella decisione del 12 dicembre visti per la proposizione dei ricorsi giurisdizionali nel processo amministrativo, quali il ricorso principale, il ricorso incidentale, il ricorso per motivi aggiunti »: cosı̀ M. LIPARI, op. cit., 1185, che richiama l’analisi dei lavori parlamentari svolta da L. BARTOLINI, Il rito speciale per i settori sensibili, in Il processo davanti al giudice amministrativo, a cura di B. SASSANI e R. VILLATA, Torino, 2001, 211-212. (54) Per tutti si cfr. infatti, in questo senso, Cons. Stato, Sez. VI, 22 ottobre 2002, n. 5813, che ritiene espressamente che dell’istituto sia necessario offrire un’interpretazione estensiva, che tenga a mente che processualmente, questo « risponde unicamente ad esigenze di economia processuale ed è l’alternativa alla riunione di distinti ricorsi relativi ad atti connessi ». (55) In questo senso, ancora, si cfr. M. LIPARI, op. cit., 1186. (56) Di recente affrontata nelle decisioni Cons. Stato, Sez. V, 10 marzo 2003, n. 1275 e Cons. Stato, Sez. VI, 20 settembre 2002, n. 4780, pubblicate in Giorn. dir. amm., 2003, 495 ss., con commento di F. CEGLIO, La piena conoscenza e la decorrenza del termine per la proposizione del ricorso.


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2002, Universale Bau AG (57), nella quale si è espressamente stabilito che la direttiva 89/665 non osta ad una normativa nazionale che preveda un termine di decadenza per far valere situazione giuridiche soggettive tutelate dal diritto comunitario, a condizione che questo sia ragionevolmente giustificato e non metta in pericolo la possibilità di conseguire l’effetto utile delle normative comunitarie volte a garantire che le decisioni illegittime delle pubbliche amministrazioni siano soggette ad un giudizio di legittimità penetrante ed efficace. Spetterà pertanto ancora una volta, inevitabilmente, alla giurisprudenza amministrativa lo stabilire concretamente quando, in relazione alle singole tipologie di fattispecie portate all’attenzione dei giudici, debba ritenersi ragionevole o meno affermare l’operatività di quei rigorosi termini e/o oneri imposti a pena di decadenza sui quali si è fino a questo momento riflettuto, la necessità del cui rispetto fa sı̀ che divenga evidentemente quanto meno più difficile l’esercizio di quelle concrete garanzie di tutela giurisdizionale. D’altra parte — può conclusivamente osservarsi — occorre porre altresı̀ in chiaro rilievo anche che il problema in questione, da sempre avvertito all’interno della giurisdizione amministrativa di legittimità soprattutto per l’operatività in essa dei brevi e rigorosi termini di decadenza dal diritto di impugnazione degli atti amministrativi illegittimi, potrebbe essere destinato in breve tempo ad aggravarsi ulteriormente in conseguenza, soprattutto, delle novità portate dalle più recenti riforme dell’ordinamento processuale vigente, tanto amministrativo quanto civile. Dal primo punto di vista, infatti, è risultata frequente in dottrina l’osservazione volta a sottolineare come, dopo l’emanazione delle norme di cui al d.lgs. n. 80 del 1998 ed alla l. n. 205 del 2000, sia in atto un fenomeno di progressivo avvicinamento nei contenuti e nelle regole processuali proprie della giurisdizione amministrativa — specialmente nelle materie devolute alla c.d. giurisdizione esclusiva — rispetto a quelle vigenti nell’ambito della giurisdizione ordinaria. Ebbene, per quel che qui rileva, non va allora dimenticato che se, fino ad oggi, l’istituto della deca(57)

Sintetizzata nei suoi contenuti in Urb. e app., 2003, 783 ss.


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denza è stato applicato nell’ordinamento processuale amministrativo soprattutto (se non unicamente) in relazione al problema dei termini per l’impugnativa dei provvedimenti lesivi, nel processo civile, viceversa, soprattutto dopo la novella di cui alla l. 20 dicembre 1995, n. 534, tale istituto si rivolge prioritariamente a sanzionare ipotesi di decadenze « interne » verificatesi a giudizio già instaurato e relative alla possibilità di proposizione e/o precisazione delle domande giudiziali (anche riconvenzionali), di produzione documentale o di nuovi mezzi di prova, ecc. (58). Fino a questo momento il giudice amministrativo non pare essersi mai trovato di fronte al problema di dover valutare intercorse decadenze di un tale genere: ma in una fase di transizione e di assestamento quale quella che pare vivere l’attuale sistema della giustizia amministrativa, posto di fronte a novità di rilievo — come talvolta si dice — addirittura « epocale », non pare inutile, anche per questi motivi, un generale invito alla cautela nell’utilizzazione dell’istituto (della sanzione) della decadenza dalle possibilità di esercizio dei diritti sostanziali e dei poteri processuali propri della parti del giudizio (59).

(58) Per un tale ordine di considerazioni, si cfr. L. GILI, Sulla rimessione in termini per errore scusabile nel processo amministrativo e sui valori cosı̀ tutelati, in Foro amm.-Tar, 2002, 3215 ss., il quale sottolinea come sia « lecito supporre che il giudice amministrativo potrebbe a breve tempo trovarsi a dover valutare anche ipotesi di rimessione in termini per intercorse decadenze “interne”, alla luce di quanto previsto nel giudizio civile ex art. 184-bis c.p.c. »: disposizione introdotta dalla l. 20 dicembre 1995, n. 534, « ... secondo cui la parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice di essere rimessa in termini ». (59) Si pensi, a tacer d’altro, al non ancora compiutamente chiarito rapporto di « consequenzialità » che lega la domanda giudiziale di risarcimento dei danni a quella di annullamento del provvedimento impugnato. Finora a nessuno è mai venuto in mente di considerare l’ipotesi che, essendo le due domande legate al medesimo evento di fatto, queste debbano essere proposte all’interno del medesimo atto introduttivo del giudizio, necessariamente ed a pena di decadenza: ed è auspicabile — ancora per ragioni di effettività della tutela giurisdizionale del diritto al risarcimento del danno, soggetto al termine di prescrizione dell’azione — che di un tale problema non ci si trovi effettivamente mai a dover discutere.


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I PROVVEDIMENTI CAUTELARI MONOCRATICI NEL PROCESSO AMMINISTRATIVO

SOMMARIO: 1. Il sistema delle misure cautelari delineato dalla legge di riforma del processo amministrativo. — 2. Provvedimenti cautelari e tutela del contraddittorio. — 3. Rapporti tra tutela cautelare e giudizio di merito. — 3.1. Gli apporti del diritto comunitario sull’ammissibilità di una tutela ante causam. — 3.2. La posizione espressa dai giudici nazionali. — 4. La tutela cautelare monocratica nella l. n. 205 del 2000. — 5. L’orientamento della Corte costituzionale sulla tutela preventiva nel processo amministrativo. — 6. Tutela cautelare e autonomia del giudizio amministrativo rispetto al giudizio civile. — 7. La tutela cautelare nelle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici. — 7.1. L’adeguamento dell’ordinamento nazionale alle prescrizioni poste dalla dir. n. 89/665/CEE. — 8. Considerazioni conclusive.

1. L’esigenza di effettività e adeguatezza della tutela giurisdizionale nei confronti della Pubblica Amministrazione sembra essere uno dei profili che maggiormente qualificano il giudizio cautelare, all’indomani della riforma del processo amministrativo, attuata con la l. 21 luglio 2000, n. 205 (Disposizioni in materia di giustizia amministrativa) (1). L’ampliamento delle prospettive di tutela realizzatosi in tale ambito impone di riconsiderare i tradizionali confini del giudizio cautelare, tanto sotto il profilo dei possibili contenuti dei provvedimenti cautelari, quanto per quel che attiene alle modalità di accesso del ricorrente alla relativa tutela (2). L’intervento del legislatore sul testo dell’art. 21, l. 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali) ha infatti profonda(1) V. CAIANIELLO, Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino, 2003, 696 ss. (2) E. FOLLIERI, Il nuovo giudizio cautelare: art. 3 L. 21 luglio 2000 n. 205, in Cons. St., 2001, II, 479 ss.

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mente inciso sull’assetto complessivo del rimedio cautelare (3), colmando le lacune evidenziate da giurisprudenza e dottrina in anni di applicazione della precedente normativa e recependo le sollecitazioni provenienti a livello comunitario (4). In alcuni casi, sono state adottate soluzioni originali; in altre occasioni, si è preferito uniformare la disciplina ai principi elaborati in sede pretoria (5). (3) Secondo A. TRAVI, Commento all’art. 21, l. 6 dicembre 1971, n. 1034, in A. ROMANO (a cura di), Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, Padova, 2001, 766, i principali elementi di novità introdotti dall’art. 3, l. n. 205 del 2000, riguardano i contenuti delle misure cautelari, la procedura del giudizio cautelare e l’esecuzione dei provvedimenti cautelari. Per quel che concerne i contenuti delle misure cautelari, il giudice amministrativo può ora adottare tutti i provvedimenti cautelari che reputa opportuni al fine di assicurare interinalmente gli effetti della decisione, ivi compresa l’ingiunzione a pagare una somma, con conseguente superamento della forma tipica di misura cautelare rappresentata dalla sospensione del provvedimento impugnato. Inoltre, è riconosciuto un generale potere del giudice di disporre la prestazione di una cauzione cui sono subordinati la concessione e il diniego della misura cautelare (fatta eccezione per i casi in cui la richiesta cautelare attiene ad interessi essenziali della persona, quali il diritto alla salute, alla integrità dell’ambiente o ad altri beni di primario interesse costituzionale). Quanto alla procedura del giudizio cautelare, la principale novità concerne la previsione del potere del presidente del Tar di adottare, nei casi di « estrema gravità ed urgenza », misure cautelari provvisorie soggette a giudizio di conferma da parte del collegio. Inoltre, il termine per proporre appello contro l’ordinanza cautelare non notificata è stato ridotto a centoventi giorni che decorrono dalla comunicazione del deposito nella segreteria. Sotto il profilo dell’esecuzione dei provvedimenti cautelari, la nuova legge disciplina espressamente tale fase e prevede la possibilità per la parte interessata di chiedere al tribunale amministrativo, con istanza motivata e notificata alle altre parti, le opportune disposizioni attuative. Il giudice amministrativo emana tutte le misure necessarie per l’esecuzione dell’ordinanza, esercitando i poteri ad esso attribuiti nel giudizio di ottemperanza (art. 27, comma 1, n. 4, r.d. 26 giugno 1924, n. 1054). (4) D. DE CAROLIS, La tutela cautelare: le misure cautelari, presidenziali e collegiali tra atipicità ed effettività di tutela, in F. CARINGELLA, M. PROTTO (a cura di), Il nuovo processo amministrativo dopo due anni di giurisprudenza, Milano, 2002, 218, osserva che una delle finalità perseguite dalla l. n. 205 del 2000 è quella di recepire le aperture della giurisprudenza e di adeguare agli standard europei il sistema di tutela cautelare vigente nel nostro ordinamento. (5) In tal senso E.M. BARBIERI, Il nuovo processo cautelare amministrativo, in Rass. giur. en. elettr., 2000, 621; R. GAROFOLI, La tutela cautelare degli interessi negativi. Le tecniche del remand e dell’ordinanza a contenuto positivo alla luce del rinnovato quadro normativo, in questa Rivista, 2002, 864; G. PITTALIS, Natura e presupposti dell’azione cautelare (relazione al Seminario di studio su Aspetti problematici nella ri-


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Uno sguardo d’insieme sulle novità introdotte dall’art. 3, l. n. 205 del 2000 (6) rivela come l’intento del legislatore di assicurare una maggiore efficacia all’intervento cautelare risulti coordinato all’obiettivo di delineare un sistema di tutela attento alle esigenze di celerità e urgenza espresse dalla parte ricorrente. In tale ottica, se l’introduzione della tutela cautelare atipica — attraverso la previsione del potere del giudice amministrativo di adottare le misure che appaiono secondo le circostanze più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso (7) — ha rappresentato un ampliamento della tutela in relazione alle misure adottabili dal giudice amministrativo, sono state parimenti assecondate le istanze di riduzione dei tempi per accedere a quel tipo di rimedio. Al riguardo, rilievo decisivo ha assunto la previsione della possibilità di adottare misure cautelari con decreto presidenziale. Il comma 9 dell’art. 21, l. n. 1034 del 1971, introdotto dall’art. 3, forma del processo amministrativo, Bologna, 23 novembre 2000), in http://www.giustizia-amministrativa.it. (6) Il testo dell’art. 21, l. n. 1034 del 1971 risulta ora composto di ben 15 commi, avendo l’art. 3, comma 1, l. n. 205 del 2000 provveduto a sostituire l’ultimo comma del testo originario con otto nuovi commi (commi 8-15, art. 21, l. n. 1034 del 1971). Gli attuali primi sei commi sono stati invece introdotti dall’art. 1, comma 1, l. n. 205 del 2000, che ha abrogato i primi cinque commi del testo previgente. Il comma 6 è stato conservato nella formulazione originaria. È appena il caso di segnalare che nella numerazione dei nuovi commi dedicati alla tutela cautelare pare non si sia tenuto conto dell’introduzione, nella prima parte dell’articolo, di 6 nuovi commi al posto dei cinque precedenti e della conservazione del comma 6 (divenuto ora comma 7). Il difetto di numerazione è stato prontamente evidenziato dai primi commentatori: M. SANINO, Il processo cautelare, in V. CERULLI IRELLI (a cura di), Verso il nuovo processo amministrativo, Torino, 2000, 252 ss.; A. PANZAROLA, Il processo cautelare, in B. SASSANI, R. VILLATA, (a cura di), Il processo davanti al giudice amministrativo, Torino, 2001, 22. (7) È stato evidenziato da E. FOLLIERI, La fase cautelare, in F.G. SCOCA (a cura di), Giustizia amministrativa, Torino, 2003, 346, che, sebbene la formula usata dal legislatore all’art. 3, comma 1, l. n. 205 del 2000 ricalchi sostanzialmente quella impiegata all’art. 700 c.p.c., la misura cautelare prevista dalla l. n. 205 del 2000 si differenzia dal provvedimento d’urgenza delineato dal codice di rito. Infatti, mentre il provvedimento di cui all’art. 700 c.p.c. è atipico e residuale, non potendo essere richiesto quando possono essere adottati i rimedi tipici previsti dal codice di procedura civile, la misura cautelare di cui alla l. n. 205 del 2000 è sı̀ atipica, in quanto non predeterminata, ma non è residuale, poiché è l’unica misura stabilita nel giudizio amministrativo.


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comma 1, l. n. 205 del 2000, stabilisce che « in caso di estrema gravità ed urgenza, tale da non consentire neppure la dilazione fino alla data della camera di consiglio », il ricorrente possa chiedere al presidente del Tar o della sezione cui il ricorso è assegnato di disporre « misure cautelari provvisorie ». Il presidente provvede con decreto motivato che può essere adottato « anche in assenza di contraddittorio » ed è efficace sino alla camera di consiglio fissata per la trattazione della istanza cautelare. Il comma in esame precisa inoltre che il presidente si pronuncia sulla richiesta del ricorrente presentata contestualmente alla domanda cautelare o con istanza successiva. In tale ultima ipotesi, la domanda di misure provvisorie deve essere previamente notificata alle controparti (8). Una delle questioni più delicate emersa già all’indomani dell’entrata in vigore della l. n. 205 del 2000 e che ancora oggi anima un acceso dibattito, non solo in dottrina ma anche in giurisprudenza, è rappresentata dalla eventualità che il legislatore abbia inteso infrangere, con la disposizione in esame, il tradizionale limite rappresentato dall’inammissibilità di richieste di provvedimenti cautelari presentate anteriormente alla notificazione e deposito del ricorso. In tale ottica, si è ipotizzato che la nuova formulazione dell’art. 21, l. n. 1034 del 1971 abbia introdotto nel processo amministrativo un’ipotesi di tutela cautelare ante causam, indipendente dalla previa instaurazione del giudizio impugnatorio, similmente a quanto previsto per il processo civile (art. 669-ter, art. 669-sexies, comma 2, c.p.c.). Se, da un lato, considerazioni tanto di ordine testuale quanto, più in generale, legate alle peculiarità della tutela cautelare nel processo amministrativo, inducono a valutare con attenzione le conseguenze che deriverebbero dall’accoglimento di tale opzione

(8) L’articolo in commento riconosce l’applicabilità dei descritti poteri cautelari presidenziali anche alle controversie instaurate innanzi al Consiglio di Stato, tanto in caso di appello contro un’ordinanza cautelare, quanto in caso di domanda di sospensione della sentenza appellata.


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interpretativa (9); dall’altro, è un dato di fatto che l’adozione di provvedimenti cautelari secondo procedure parzialmente difformi dal modello di riferimento costituisca pratica tutt’altro che infrequente presso alcuni tribunali amministrativi regionali (10). Dinanzi ad un quadro normativo di riferimento indubbiamente più ricco ed articolato, sembra peraltro logico, nel prospettare possibili chiavi di lettura delle nuove disposizioni, richiamare preliminarmente i singoli aspetti che il tema della tutela ante causam nel giudizio amministrativo pone all’interprete. Un primo profilo sul quale sarà utile soffermarsi attiene alla tutela del contraddittorio all’interno del giudizio cautelare amministrativo: in tale ottica, il problema è quello di verificare il grado di permeabilità del giudizio amministrativo ad istituti e garanzie che da tempo caratterizzano altri settori di tutela. In particolare, è noto che nel processo civile la richiesta di una misura cautelare possa essere avanzata ante causam, ossia anteriormente all’instaurazione del giudizio di merito. In quel giudizio è altresı̀ previsto (9) A questo proposito E.M. BARBIERI, Diritto comunitario, processo amministrativo e tutela « ante causam », in Riv. it. dir. pubbl. com., 2003, 1294, osserva come risulti difficile prospettare una tutela ante causam nel nostro sistema di giustizia amministrativa, stante la difficoltà di ammettere un controllo da parte del giudice sull’operato della pubblica amministrazione che sia svincolato dalla indicazione dei motivi del ricorso. In argomento si veda anche P. LAZZARA, Tutela cautelare e misure d’urgenza nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, in questa Rivista, 2003, 1181, il quale evidenzia che il rimedio cautelare appare ontologicamente collegato alla prospettazione della questione principale. Quest’ultima, infatti, non solo funge da parametro per valutare i presupposti del fumus boni iuris e del periculum in mora, ma anche consente di stabilire i caratteri della misura cautelare richiesta in relazione alla sentenza di merito. (10) Cfr. Tar Sicilia, Catania, Sez. II, d. presidenziale 4 maggio 2002 n. 997, in http://www.lexitalia.it, con nota di G. VIRGA, che ha riconosciuto ammissibile la richiesta di una misura cautelare inaudita altera parte, nonostante il ricorso introduttivo non fosse stato preventivamente notificato ma soltanto depositato; Tar Sicilia, Catania, Sez. II, d. presidenziale 6 dicembre 2001, n. 32, in Foro amm.-Tar, 2002, 279 ss., con nota di R. GAVA, Decreto cautelare ante causam e contraddittorio, che ha accolto la domanda di misure cautelari provvisorie presentata anteriormente alla notifica del ricorso introduttivo del giudizio; Tar Lombardia, Brescia, d. presidenziale 10 marzo 2003, n. 266, in Giorn. dir. amm., 2003, 805 ss., con nota di B. COSSU, Ancora in tema di tutela ante causam nel processo amministrativo, che ha disapplicato l’art. 21, l. n. 1034 del 1971, riconosciuto contrastante con gli obblighi posti dall’art. 2, par. 1, lett. a), dir. n. 89/665/ CEE, ed ha concesso la misura cautelare, ancora prima dell’introduzione del giudizio di merito.


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che sulla domanda cautelare il giudice si pronunci, in via provvisoria, inaudita altera parte, ossia prima che essa sia portata a conoscenza dell’altra parte (11). Un primo problema è pertanto quello di verificare se nel processo amministrativo la misura cautelare possa essere concessa inaudita altera parte. Un secondo profilo concerne invece la questione specifica del rapporto tra giudizio cautelare e giudizio di merito, all’interno del processo amministrativo, e della conseguente ammissibilità di forme di tutela autonome ed indipendenti dalla proposizione del ricorso principale. 2. Nell’ambito delle disposizioni che regolano la procedura per la trattazione della domanda cautelare, è opportuno soffermarsi preliminarmente sugli aspetti concernenti il diritto di difesa e la tutela del contraddittorio (12). Al riguardo, è noto che la pronuncia cautelare presuppone la presentazione di apposita istanza, la quale, quando è avanzata con atto separato dal ricorso introduttivo del giudizio, deve essere notificata all’amministrazione resistente e agli interessati (13) (art. (11) Sul punto si sofferma R. VILLATA, Due anni dopo, in questa Rivista, 2003, 334 ss., il quale evidenzia come tutela cautelare ante causam e tutela cautelare « a sorpresa » siano soluzioni distinte, non potendosi intendere la seconda come necessaria variante processuale della prima. La disciplina del rito cautelare nel processo civile prevede, in effetti, una prima ipotesi più frequente in cui l’istanza cautelare è decisa dal giudice con ordinanza, in seguito all’instaurazione del contraddittorio mediante la convocazione delle parti in una apposita udienza. La seconda ipotesi è invece quella della misura cautelare resa prima dell’instaurazione del contraddittorio, nel caso in cui la preventiva convocazione della controparte possa pregiudicare l’attuazione del provvedimento. In tale evenienza, il giudice concede immediatamente con decreto la misura cautelare richiesta e con lo stesso provvedimento fissa l’udienza di comparizione delle parti. A tale udienza, il giudice provvede con ordinanza confermando, modificando o revocando le misure in precedenza adottate (art. 669-sexies c.p.c.). (12) In argomento G. ABBAMONTE, R. LASCHENA, Giustizia amministrativa, in G. SANTANIELLO, Trattato di diritto amministrativo, Padova, 2001, XX, 180 ss. (13) Circa il significato da attribuire all’espressione « interessati » sono state proposte diverse teorie (vedile in A. TRAVI, Commento all’art. 21, cit., 785). Si è di volta in volta sostenuto che la notifica dovesse essere fatta, oltre all’amministrazione resistente, a tutte parti intimate e a quelle costituite in giudizio; a tutti i controinteressati, a


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36, comma 1, r.d. 17 agosto 1907, n. 642, Regolamento per la procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato) (14). La decisione sulla domanda cautelare è assunta nella prima camera di consiglio, dopo che è spirato il termine dilatorio di dieci giorni dalla notifica del ricorso, concesso all’amministrazione resistente ed alle parti interessate per il deposito e la trasmissione di memorie ed istanze alla segreteria del tribunale (15). La giurisprudenza del Consiglio di Stato si è adoperata affinché anche nel giudizio cautelare trovassero piena attuazione il diritto di difesa e la garanzia del contraddittorio, riconoscendo che il procedimento cautelare, per il carattere necessariamente incidentale rispetto al giudizio di merito e per la natura decisoria del provvedimento conclusivo, presenta una struttura a contraddittorio necessario, essendo il diritto di difesa qualificato dall’art. 24 Cost. come diritto inviolabile in ogni stato e grado del processo (16). In tal senso, già con l’importante pronuncia 20 febbraio 1985, prescindere dalla circostanza che fossero o meno stati intimati; ad almeno uno dei controinteressati. Secondo V. CAIANIELLO, Manuale di diritto processuale amministrativo, cit., 728, con il termine « interessati » il legislatore ha inteso fare riferimento ai controinteressati. D’altro canto, è da escludere che l’istanza debba essere notificata ad ognuno di essi, essendo sufficiente la notifica ad almeno uno dei controinteressati, analogamente a quanto prevede la nuova formulazione dell’art. 21, comma 1, l. n. 1034 del 1971, con riferimento alla domanda introduttiva del giudizio. Per M. ROSSI SANCHINI, La tutela cautelare, in S. CASSESE, Trattato di diritto amministrativo. Diritto amministrativo speciale, Milano, 2003, V, 4528, « esigenze di giustizia e di effettiva difesa di tutte le parti del giudizio » impongono di notificare l’istanza cautelare alle stesse parti alle quali è stato notificato il ricorso principale. (14) L’art. 36, r.d. n. 642 del 1907 trova applicazione nei giudizi davanti ai tribunali amministrativi regionali in virtù del richiamo da parte dell’art. 19, comma 1, l. n. 1034 del 1971, che cosı̀ dispone: « Nei giudizi davanti ai tribunali amministrativi regionali, fino a quando non verrà emanata apposita legge sulla procedura, si osservano le norme di procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, in quanto non contrastanti con la presente legge ». (15) Detto termine non è da intendersi come perentorio, potendo gli intimati costituirsi e presentare le proprie difese sino al momento della discussione. In tal senso, V. CAIANIELLO, Manuale di diritto processuale amministrativo, cit., 728; C. MIGNONE, Il giudizio di primo grado, in L. MAZZAROLLI, G. PERICU, A. ROMANO, F.A. ROVERSI MONACO, F.G. SCOCA (a cura di), Diritto amministrativo, Bologna, 2001, 2000. (16) Cons. Stato, Sez. IV, ord. 28 ottobre 1995, n. 1538, in Giur. it., 1996, III, 1, 294 ss.


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n. 2, l’Adunanza plenaria ha riconosciuto applicabile anche alle ordinanze cautelari la disposizione di cui all’art. 35, l. n. 1034 del 1971 (17). Essa prevede che il giudice d’appello che accolga il ricorso per difetto di procedura o per vizio di forma (nonché per erronea declaratoria di incompetenza da parte del giudice di primo grado) annulli la sentenza di primo grado e rinvii la controversia al tribunale amministrativo regionale per la rinnovazione del giudizio (18). Costituisce affermazione ricorrente in giurisprudenza che la mancata integrazione del contraddittorio rispetto a tutti i controinteressati dia luogo ad una tipica ipotesi di « difetto di procedura » (19). In tale evenienza, il Consiglio di Stato è tenuto a disporre l’integrazione del contraddittorio, con annullamento della (17) Cons. Stato, Ad. plen., 20 febbraio 1985, n. 2, in Foro it., 1985, III, 191 ss.; in questa Rivista, 1985, 591 ss., con nota di L. IANNOTTA, Sull’annullamento con rinvio dell’ordinanza cautelare per vizi di procedura, muovendo dal riconoscimento dell’esigenza della completezza del contraddittorio in tutte quelle fasi e momenti processuali nei quali assume particolare rilievo il potere dispositivo delle parti, ha affermato il dovere del giudice di appello di annullare con rinvio l’ordinanza cautelare adottata nel corso di una riunione in camera di consiglio, tenutasi dopo vario tempo dalla notificazione della istanza di sospensione del provvedimento impugnato, la cui data non era stata ritualmente comunicata al ricorrente che aveva chiesto di essere sentito personalmente. La violazione dei diritti di difesa delle parti integra un vizio di procedura di tale gravità da comportare la nullità insanabile del procedimento e della decisione conclusiva di esso, con conseguente rinvio della controversia al giudice di primo grado per una nuova decisione sull’istanza cautelare. (18) L’art. 35, comma 4 (come modificato dall’art. 11, comma 1, l. n. 205 del 2000) dispone che il giudizio prosegue innanzi al tribunale amministrativo regionale, con fissazione d’ufficio della udienza di discussione. (19) L’assenza dell’integrità del contraddittorio in primo grado è rilevabile anche d’ufficio e comporta l’annullamento della sentenza, con rinvio al primo giudice ex art. 35, comma 1, l. n. 1034 del 1971: cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 7 maggio 2001, n. 2530, in Foro amm., 2001, 1224; Cons. Stato, Sez. IV, 1o febbraio 2001, n. 392, in Foro amm., 2001, 273; Cons. Stato, Sez. IV, 16 gennaio 2001, n. 134, in Foro amm., 2001, 27 ss.; Cons. giust. amm. reg. sic., Sez. giurisdiz., 3 aprile 2000, n. 167, in Ragiusan, 2000, f. 193-194, 15; Cons. Stato, Sez. VI, 19 luglio 1999, n. 997, in Cons. St., 1999, I, 1199; Cons. Stato, Sez. IV, 13 gennaio 1995, n. 5, in Foro amm., 1995, 26 ss.; Cons. Stato, Ad. plen., 17 ottobre 1994, n. 13, in questa Rivista, 1996, 330 ss., con nota di C.E, GALLO, Omessa integrazione del contraddittorio e rinvio al giudice di primo grado nel giudizio amministrativo; S. MENCHINI, La rimessione della causa al primo giudice nell’appello amministrativo; Cons. Stato, Sez. V, 3 agosto 1993, n. 837, in Cons. St., 1993, I, 938; Cons. Stato, Sez. V, 15 gennaio 1993, n. 70, in Cons. St., 1993, I, 54; Cons. Stato, Sez. V, 15 aprile 1991, n. 570, in Cons. St., 1991, I, 709; Cons. Stato, Sez. IV, 15


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sentenza impugnata e rinvio della causa al giudice di primo grado per l’espletamento del giudizio nei confronti di tutte le parti controinteressate. L’estensione alle ordinanze cautelari dell’istituto dell’annullamento con rinvio, sancita dalla richiamata pronuncia dell’Adunanza plenaria, ha avuto una significativa applicazione in Consiglio di Stato, Sez. V, ord. 20 ottobre 1995, n. 1504 (20), che ha dichiarato illegittima l’ordinanza pronunciata prima dell’integrazione del contraddittorio con tutti i controinteressati, a prescindere dall’esito di accoglimento o di rigetto della richiesta di sospensione. Il Consiglio di Stato ha inoltre precisato che, a seguito dell’annullamento dell’ordinanza pronunciata a contraddittorio non integro, gli atti devono essere restituiti al giudice di primo grado per una nuova decisione e che il vizio in esame può essere rilevato anche d’ufficio dal giudice di appello. È interessante notare come, in una pronuncia di pochi giorni successiva a quella citata, il Consiglio di Stato abbia ricavato un importante corollario della regola enunciata, stabilendo che l’ordinanza cautelare resa a contraddittorio non integro — nulla per la parte in cui provvede definitivamente sulla domanda cautelare — possa valere, per il principio di conservazione degli atti giuridici, come sospensione interinale del provvedimento impugnato in primo grado (21). febbraio 1991, n. 113, in Cons. St., 1991, I, 197 ss.; Cons. Stato, Sez. V, 1o febbraio 1990, n. 80, in Cons. St., 1990, I, 215; Cons. Stato, Sez. V, 10 maggio 1988, n. 324, in Cons. St., 1988, I, 637 ss.; Cons. Stato, Sez. VI, 2 luglio 1987, n. 450, in Foro amm., 1987, 1785; Cons. Stato, Sez. VI, 5 marzo 1986, n. 244, in Cons. St., 1986, I, 368 ss.; Cons. Stato, Sez. V, 18 gennaio 1985, n. 21, in Cons. St., 1985, I, 36; Cons. Stato, Sez. VI, 15 novembre 1982, n. 594, in Cons. St., 1982, I, 1462. (20) Cons. Stato, Sez. V, ord. 20 ottobre 1995, n. 1504, in Foro it., 1996, III, 151, con nota di A. TRAVI. Nello stesso senso Cons. Stato, Sez. IV, ord. 28 ottobre 1995, n. 1538, cit.; Cons. Stato, Sez. VI, ord., 20 settembre 1996, n. 1052, in Riv. amm. Repubblica italiana, 1996, 1044; Cons. Stato, Sez. VI, ord. 1o ottobre 1999, n. 1728, in Cons. St., 1999, I, 1945 ss. (21) Cons. Stato, Sez. IV, ord. 28 ottobre 1995, n. 1538, cit. A. TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2002, 260 ss. osserva che, a seguito della posizione assunta dal Consiglio di Stato, sembra essersi consolidato l’orientamento secondo cui l’efficacia delle misure cautelari concesse a contraddittorio non integro è provvisoria e, in ogni caso, limitata alla camera di consiglio fissata per


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È stato posto in rilievo (22) che con le decisioni sopra richiamate il Consiglio di Stato si è di fatto allineato alle indicazioni critiche espresse da un’autorevole dottrina (23) la quale, muovendo dalla considerazione del rilievo assunto dal giudizio cautelare all’interno del processo amministrativo, aveva evidenziato l’importanza del rispetto del contraddittorio nei confronti di tutti i controinteressati. A tal fine, l’indirizzo in parola aveva anche prospettato una possibile soluzione al problema di come conciliare nel processo cautelare garanzie del contraddittorio ed esigenze di celerità, ipotizzando di articolare il relativo giudizio in due fasi: una prima fase, a contraddittorio non integro, finalizzata all’adozione di misure cautelari provvisorie destinate ad essere riesaminate; una seconda fase, che si svolge nel contraddittorio di tutti i controinteressati, volta all’assunzione di una pronuncia definitiva sull’istanza cautelare (24). La procedura per decreto delineata dall’art. 21, comma 9, l. n. 1034 del 1971, prevede ora espressamente la possibilità di adottare « misure cautelari provvisorie » (25). La competenza è attribuita al presidente del tribunale il quale provvede con decreto assunto « anche in assenza di contraddittorio », la cui efficacia è limitata alla camera di consiglio fissata per la trattazione dell’istanza cautelare. Pare potersi affermare che il legislatore abbia, con la disposizione in commento, inteso ribadire la piena adesione ad un modello di giudizio cautelare nel quale l’instaurazione del contraddittorio rappresenta un presupposto della pronuncia del giudice, l’esame dell’istanza cautelare. Solo allora le misure provvisorie potranno essere, nel pieno rispetto del contraddittorio e in presenza dei presupposti richiesti dalla legge, confermate dal collegio. (22) A. TRAVI, nota a Cons. Stato, Sez. V, ord. 20 ottobre 1995, n. 1504, cit., 152. (23) F. PUGLIESE, Nozione di controinteressato e modelli di processo amministrativo. I: per la tutela cautelare, Napoli, 1989, 251 ss. (24) F. PUGLIESE, Nozione di controinteressato, cit., 273, nota 49; 320, nota 157, il quale rileva come il modello appena prospettato abbia trovato accoglimento presso alcuni tribunali (l’A. cita Tar Sardegna, Cagliari, ord. 16 dicembre 1987, n. 299). (25) M. ROSSI SANCHINI, La tutela cautelare, cit., 4532, nota n. 178, evidenzia come la soluzione introdotta dal legislatore presenti profili di affinità con il summenzionato indirizzo.


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anche in quelle ipotesi di estrema urgenza in cui la tutela risulta indifferibile (26). Al riguardo, l’art. 21, comma 9, l. n. 1034 del 1971 chiarisce, infatti, che la richiesta presentata dal ricorrente al presidente del tribunale di disporre misure cautelari provvisorie, nel caso in cui sia avanzata con separata istanza, debba essere « notificata alle controparti ». Se, dunque, la concessione di misure cautelari provvisorie è subordinata alla previa notificazione dell’istanza alle controparti, ne deriva che l’assenza di contraddittorio di cui parla la norma non si riferisce alla istanza del ricorrente, bensı̀ qualifica il provvedimento emesso dal presidente, il quale potrà decidere anche senza avere ascoltato le controparti (27). L’istanza di misure provvisorie deve pertanto essere previamente notificata alle altre parti le quali sono in tal modo rese edotte della particolare richiesta avanzata dal ricorrente e della conseguente possibilità che il presidente si pronunci su di essa inaudita altera parte (28). Non sembra invece possibile sostenere (26) Anche in dottrina, si è posto l’accento sull’importanza del rispetto del contraddittorio nella fase cautelare del giudizio amministrativo, dove sempre più di frequente si assiste ad una valutazione complessiva dei differenti interessi in gioco. Per una rassegna delle posizioni espresse dalla dottrina sul punto cfr. F. CARINGELLA, G. DE MARZO, F. DELLA VALLE, R. GAROFOLI, La nuova giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo dopo la legge 21 luglio 2000, n. 205, Milano, 2000, 629 ss. (27) In tal senso E. FOLLIERI, Effettività della giustizia amministrativa nella tutela cautelare, in Foro amm.-Tar, 2003, 1118 ss., il quale precisa che il presidente del Tar può adottare la misura cautelare provvisoria anche senza avere sentito le altre parti. Esse saranno avvertite attraverso la preventiva notifica della domanda cautelare. L’A. rileva che il rispetto della regola della preventiva notifica alle altre parti dell’istanza cautelare possa in alcuni casi rendere meno efficace, se non addirittura inutile, il provvedimento cautelare adottato, ed evidenzia l’opportunità di una modifica legislativa che consenta al giudice amministrativo di adottare provvedimenti urgenti, anche senza la necessaria preventiva notifica alle altre parti. (28) Per l’ipotesi in cui, invece, il presidente adito reputi di convocare innanzi a sé le parti in un’apposita udienza è interessante chiedersi se le difese orali delle parti possano essere integrate con il deposito di memorie scritte nell’imminenza dell’udienza. Riconosce tale possibilità A. PANZAROLA, Il processo cautelare, cit., 59, nota 143. Per E. FOLLIERI, La fase cautelare, in F.G. SCOCA (a cura di), Giustizia amministrativa, cit., 353, amministrazione resistente e controinteressato possono presentare documenti e memorie con le quali contestare la sussistenza dei presupposti della « estrema gravità ed urgenza » e del « fumus boni iuris ». Anche secondo M. SANINO, Il processo cautelare, cit., 272, la norma non esclude che tanto l’amministrazione resistente quanto le altri parti,


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che la modifica apportata all’art. 21, l. n. 1034 del 1971 dalla l. n. 205 del 2000 abbia autorizzato il ricorrente a richiedere misure cautelari ad insaputa delle altre parti del giudizio, analogamente a quanto avviene nel processo civile (art. 669-sexies, comma 2). Meno agevole è, invece, individuare con esattezza il contenuto dell’onere di previa notifica posto a carico del ricorrente. Al riguardo, secondo una prima ricostruzione, l’obbligo della previa notifica dell’istanza di misure cautelari presidenziali andrebbe assolto tanto nei confronti dell’amministrazione resistente quanto di tutti i controinteressati. D’altro canto, considerato che l’obiettivo perseguito dal legislatore, è quello di delineare un modello di tutela cautelare immediata per situazioni che non tollererebbero alcun ritardo, è facile accorgersi di come la soluzione prospettata possa risultare eccessivamente onerosa per il ricorrente. Questi deve, al contrario, in tali evenienze poter fare affidamento su di un meccanismo processuale agile, che garantisca l’esame della richiesta da parte del presidente nel più breve tempo possibile (29). Appare pertanto coerente con la ratio della riforma interpretare la nuova disposizione nel senso che l’istanza di misure provvisorie debba essere, prima del deposito, notificata all’amministrazione resistente e ad almeno uno dei controinteressati. Tale soluzione è anche quella che sembra meglio armonizzarsi con la formulazione del nuovo art. 21, comma 1, l. n. 1034 del 1971, il quale precisa che il ricorso introduttivo del giudizio deve essere notificato all’amministrazione resistente e ad almeno uno dei controinteressati. Se, infine, si considera che nel modello di tutela delineato dall’art. 21, comma 9, l. n. 1034 del 1971, la richiesta di misure ricevuta la notifica della istanza, si costituiscano immediatamente e che le rispettive deduzioni siano valutate dal presidente al momento della pronuncia del decreto. (29) E. FOLLIERI, Effettività della giustizia amministrativa, cit., 1118, evidenzia che la regola della preventiva notifica alle altre parti del giudizio « [...] sconta i tempi tecnici necessari per l’esecuzione della notifica ed il ritiro dell’originale dell’atto con la prova dell’avvenuta notificazione e, solo dopo questi adempimenti è possibile provvedere al deposito presso la Segreteria del Tar ». Anche E. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2000, 814, evidenzia, a questo proposito, che l’integrazione del contraddittorio potrebbe determinare un intralcio notevole per il ricorrente, ritardando la sollecita trattazione dell’istanza cautelare.


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presidenziali, oltre ad essere presentata con separata istanza, può essere integrata nel ricorso principale contenente la domanda cautelare (30), appare logico, anche per ragioni di uniformità, evitare di adottare un regime diverso a seconda che il ricorso introduttivo includa o meno detta istanza rivolta al presidente. 3. Un secondo ordine di considerazioni attiene al rapporto tra giudizio cautelare e giudizio di merito all’interno del processo amministrativo. Sotto questo profilo, si è fatta strada negli anni l’idea di un modello di tutela cautelare che fosse in grado di prescindere dalla previa instaurazione del giudizio principale e consentisse, dunque, al ricorrente di avanzare una domanda di misure cautelari anteriormente alla proposizione del ricorso (31). A ben vedere, la questione prospettata si colloca in un più ampio quadro di ripensamento dei confini del sistema di tutela cautelare, originariamente delineato dal legislatore, nel quale al giudice non era riconosciuto altro potere se non quello di sospendere l’esecuzione del provvedimento impugnato (32). In tal senso, è innegabile che l’ampliamento delle prerogative (30) Ciò che è prevedibile accada nella maggior parte dei casi, stante l’urgenza che giustifica il ricorso alle misure presidenziali. Nell’ipotesi in cui la richiesta di misure cautelari provvisorie sia formulata contestualmente alla domanda di tutela cautelare ordinaria, il ricorrente dovrà specificare che detta istanza è indirizzata al presidente del collegio giudicante. In tal senso P. DIVIZIA, Considerazioni sulla tutela ante causam nel processo amministrativo, in Foro amm.-Tar, 2002, 3439, nota 14. Per N. SAITTA, I provvedimenti monocratici nel processo amministrativo ed altri saggi sulla nuova giustizia amministrativa, Milano, 2002, 54, nel caso in cui la domanda di misura cautelare anticipata sia inserita nel ricorso principale, non è necessario un particolare indirizzo, essendo sufficiente una esplicita richiesta di provvedimento monocratico. (31) In argomento P. LAZZARA, Tutela cautelare e misure d’urgenza, cit., 1180 ss., il quale rileva come il rapporto tra tutela cautelare e principale possa, in linea generale, atteggiarsi secondo un duplice schema. Il primo è caratterizzato da un « condizionamento forte » tra domanda cautelare e azione principale. In tale modello la domanda incidentale è ammissibile solo a condizione che il contraddittorio risulti pienamente instaurato. Il secondo modello di condizionamento è definito « debole », in quanto la domanda cautelare può essere decisa inaudita altera parte e non è vincolata al compimento della vocatio in ius. L’A. precisa come anche in tale ipotesi il giudizio cautelare non appaia completamente autonomo rispetto al giudizio principale, atteso che l’istanza cautelare non può prescindere dalla editio actionis in relazione alla domanda principale. (32) Cosı̀ C. MIGNONE, Il giudizio di primo grado, cit., 1995 ss., il quale precisa che il riconoscimento da parte del legislatore, fino ad epoca recente, di una sola misura


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riconosciute al giudice amministrativo in sede di decisione del merito (33) abbia prodotto rilevanti conseguenze anche sul piano dei contenuti dei provvedimenti cautelari (34), data la complementarietà dell’azione cautelare rispetto all’azione principale (35). cautelare rappresentata dalla sospensione dell’efficacia del provvedimento impugnato è riconducibile alla tradizionale costruzione del processo amministrativo come giudizio impugnatorio. S. CASSARINO, Manuale di diritto processuale amministrativo, Milano, 1990, 373 ss., evidenzia come la misura della sospensione del provvedimento impugnato si riveli inadeguata ad assicurare un’effettiva tutela interinale del ricorrente, nei giudizi di accertamento e di condanna, con particolare riguardo al campo della giurisdizione esclusiva. (33) Si pensi all’introduzione da parte dell’art. 7, comma 3, l. n. 1034 del 1971, come modificato dall’art. 35, comma 4, d.lgs. 31 marzo 1988 n. 80, nel testo riscritto dall’art. 7, l. n. 205 del 2000 di un potere di condanna del giudice amministrativo al risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e alle opportunità offerte dalla nuova regolamentazione del ricorso avverso il silenzio-rifiuto prevista dall’art. 21-bis, l. n. 1034 del 1971. (34) La nuova formulazione dell’art. 21, comma 8, l. n. 1034 del 1971 prevede che il giudice amministrativo possa adottare tutte le misure cautelari che appaiono, secondo le circostanze, più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso, ivi compresa l’ingiunzione a pagare una somma. La disposizione in parola fa espresso riferimento al pregiudizio « derivante dall’esecuzione dell’atto impugnato, ovvero dal comportamento inerte dell’amministrazione, durante il tempo necessario a giungere ad una decisione sul ricorso », senza menzionare le altre ipotesi dell’agire amministrativo non riconducibili a provvedimenti o alla inerzia dell’amministrazione. Secondo C. MIGNONE, Il giudizio di primo grado, cit., 1997, tale omissione è superabile valorizzando il contesto nel quale è collocata la norma in commento ove si menzionano, accanto al diritto alla salute, il diritto all’integrità dell’ambiente e ad altri beni di rilievo costituzionale, « rispetto ai quali pare illogico collegare un pregiudizio ai soli provvedimenti o alla sola inerzia dell’amministrazione ». (35) V. CAIANIELLO, Manuale di diritto processuale amministrativo, cit., 697. A questo proposito, è stato evidenziato da E. FOLLIERI, Effettività della giustizia amministrativa, cit., 1120, che l’ampliamento delle tipologie di misure cautelari adottabili dal giudice amministrativo dovrebbe evitare il ricorso a certi « equilibrismi verbali tra motivazione e dispositivo » e consente di indicare chiaramente nel dispositivo gli effetti che si intendono disporre con l’ordinanza. L’A. ricorda che, in precedenza, il giudice amministrativo, vincolato dalla possibilità di adottare unicamente dispositivi di mera sospensione degli effetti del provvedimento impugnato, era costretto ad indicare nella motivazione il più complesso e articolato assetto che intendeva dare al rapporto, facendo affidamento sull’effetto conformativo del provvedimento rispetto alla successiva attività della amministrazione resistente e, in definitiva, sull’obbligo di quest’ultima di adeguarsi al dictum del giudice. Si sofferma sul rapporto tra contenuto dell’ordinanza cautelare e contenuto della decisione di merito, M. SANINO, Il processo cautelare, cit., 250, il quale rileva che anteriormente all’entrata in vigore delle nuove disposizioni sul processo cautelare intro-


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Per altri versi, il dibattito condotto intorno al tema dell’ammissibilità di forme di tutela cautelare ante causam risulta condizionato dall’incremento dei settori di controversie affidate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (36). Sotto questo profilo, per interi ambiti si è derogato al tradizionale criterio di riparto e si è attribuito al giudice amministrativo il potere di decidere questioni nelle quali sono coinvolte anche posizioni di diritto soggettivo. La scelta, operata di recente con il d.lgs. 31 marzo 1988, n. 80, di assegnare interi « blocchi di materie » alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (37) — con contestuale ampliamento dei poteri di quel giudice, che comprendono ora l’impiego dei mezzi istruttori previsti dal codice di procedura civile (38) ed il potere di disporre, anche attraverso la dotte dalla l. n. 205 del 2000 si era venuta a creare una profonda divaricazione tra la fase di merito, in cui il giudice si limitava a verificare l’esercizio corretto del potere da parte della pubblica amministrazione, pervenendo ad una pronuncia di annullamento o di conferma del provvedimento impugnato, e la fase cautelare, in cui il giudice amministrativo si era ritagliato significativi spazi di intervento che, in alcuni casi, coinvolgevano un’indagine sul rapporto controverso e arrivavano a riconoscere al ricorrente utilità maggiori di quelle ottenibili con l’accoglimento del ricorso. In argomento si veda anche E.M. BARBIERI, Il nuovo processo cautelare amministrativo, cit., 624 ss., il quale pone l’accento sui limiti che sono propri della pronuncia del giudice amministrativo in sede di decisione del merito e rileva come il giudice amministrativo non possa per il tramite della tutela cautelare giungere a sostituirsi all’amministrazione nell’esercizio del potere, ma debba circoscrivere il proprio intervento alla semplice « [...] salvaguardia delle condizioni necessarie per un futuro e corretto svolgimento della funzione amministrativa ». Secondo l’A., il potere cautelare del giudice amministrativo continua a configurarsi ancora in termini essenzialmente negativi « [...] spaziando dalla semplice sospensione del provvedimento impugnato fino alla inibitoria di ulteriori attività amministrative nella misura necessaria a salvaguardare l’utilità della sentenza definitiva ». (36) In tal senso U. DI BENEDETTO, Il provvedimento cautelare: forme ed effetti, in http://www.giustizia-amministrativa.it. Si veda anche R. GAROFOLI, M. PROTTO, Tutela cautelare monitoria e sommaria nel nuovo processo amministrativo, Milano, 2002, 44, ove si esamina il percorso evolutivo della giurisprudenza che ha condotto all’ampliamento delle forme di tutela cautelare nelle materie della giurisdizione esclusiva. (37) In particolare, gli artt. 33-35, d.lgs. n. 80 del 1998 hanno incluso nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le materie dei servizi pubblici, dell’edilizia e dell’urbanistica. (38) L’art. 35, comma 3, d.lgs. n. 80 del 1998 (come sostituito dall’art. 7, l. n. 205 del 2000), stabilisce che il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, può disporre l’assunzione dei mezzi di prova previsti dal


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reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto (39) — sembra, infine, aver contribuito ad assegnare un carattere recessivo al tradizionale criterio di riparto fra giurisdizione ordinaria e amministrativa fondato sulla situazione soggettiva fatta valere in giudizio (40). È evidente che nell’ottica di un consolidamento del quadro normativo appena descritto — nel quale il giudice amministrativo è il giudice delle controversie in cui è parte la pubblica amministrazione, negli specifici settori individuati dal legislatore (41) — risultino meno comprensibili eventuali disparità tra le due giuricodice di procedura civile, nonché della consulenza tecnica d’ufficio, esclusi l’interrogatorio formale e il giuramento. Il potere di disporre la consulenza tecnica è stato esteso dall’art. 16, l. n. 205 del 2000, anche alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo. Sui poteri istruttori del giudice amministrativo cfr. C. MIGNONE, I mezzi di prova in rapporto alle plurime giurisdizioni del giudice amministrativo, in questa Rivista, 2003, 1 ss.; M. LIPARI, I principi generali dell’istruttoria nel processo amministrativo dopo la l. n. 205 del 2000. Le trasformazioni del giudizio e gli indirizzi della giurisprudenza, in questa Rivista, 2003, 55 ss.; S. VENEZIANO, I nuovi mezzi probatori nella giurisdizione di legittimità e nella giurisdizione esclusiva, in questa Rivista, 2003, 180 ss.; M.E. SCHINAIA, Cenni sulla fase istruttoria nel processo amministrativo tra esigenze di celerità e ambiguità del risultato nella legge n. 205, con particolare riferimento alla consulenza tecnica d’uffıcio, in Cons. St., 2001, II, 1029 ss. (39) Art. 35, comma 1, d.lgs. n. 80 del 1998, come riformulato dall’art. 7, l. n. 205 del 2000. (40) In argomento R. GAROFOLI, M. PROTTO, Tutela cautelare monitoria e sommaria, cit., 49, ove si osserva che l’incremento delle ipotesi di giurisdizione esclusiva ha profondamente inciso sui caratteri della giustizia amministrativa e sul ruolo del giudice amministrativo il quale è « [...] destinato a trasformarsi, in modo sempre più marcato, da giudice dell’interesse legittimo in giudice naturale della pubblica amministrazione [...] ». (41) È quanto riconosce la stessa Cass., Sez. un., 22 luglio 1999, n. 500, in Foro it., 1999, I, 2487 ss., con nota redazionale di A. PALMIERI, R. PARDOLESI, e commenti di R. CARANTA, La pubblica amministrazione nell’età della responsabilità; F. FRACCHIA, Dalla negazione della risarcibilità degli interessi legittimi all’affermazione della risarcibilità di quelli giuridicamente rilevanti: la svolta della Suprema corte lascia aperti alcuni interrogativi; A. ROMANO, Sono risarcibili: ma perché devono essere interessi legittimi?; E. SCODITTI, L’interesse legittimo e il costituzionalismo. Conseguenze della svolta giurisprudenziale in materia risarcitoria: « Risulta in tal modo compiuta dal legislatore una decisa scelta nel senso del superamento del tradizionale sistema di riparto della giurisdizione in riferimento alla dicotomia diritto soggettivo-interesse legittimo, a favore della previsione di un riparto affidato al criterio della materia » (punto 6.3 della motivazione). In dottrina si veda su tale aspetto e con specifico riferimento al problema del ri-


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sdizioni nella tutela delle posizioni soggettive fatte valere in giudizio. È parimenti legittima la preoccupazione che l’attribuzione di una determinata controversia alla cognizione del giudice amministrativo possa risolversi di fatto in una limitazione di tutela per il cittadino (42). Non è pertanto casuale che il problema della effettività della tutela accordata dal giudice amministrativo si profili inizialmente con riguardo ai casi di giurisdizione esclusiva e che, proprio in tale specifico settore, si ipotizzi la possibilità di estendere al giudizio amministrativo taluni degli strumenti di cui dispongono i privati nelle controversie che si svolgono innanzi al giudice ordinario. In effetti, già con l’ordinanza 5 maggio 1980, n. 371 (43), il Tar Lazio aveva prospettato un contrasto con gli artt. 3 e 113 Cost. dell’art. 21, ult. comma, l. n. 1034 del 1971 (vecchia formulazione), nella parte in cui, limitando l’intervento cautelare del giudice amministrativo alla mera sospensione dell’esecutività dell’atto impugnato, non consentiva, nelle controversie patrimoniali in materia di pubblico impiego, di assicurare un’adeguata tutela d’urgenza alle posizioni di diritto soggettivo a contenuto patrimoniale. In tal senso, il pubblico dipendente veniva privato della tutela accordata agli altri lavoratori subordinati in forza dell’art. 423, comma 2, c.p.c. sarcimento del danno nei confronti delle pubbliche amministrazioni, F. MASTRAGOSTINO, La tutela risarcitoria del diniego e dell’inerzia tra reintegrazione e risarcimento per equivalente, in Atti del Convegno su La tutela dell’interesse al provvedimento, Trento 9-10 novembre 2000, Quaderni del Dipartimento di Scienze giuridiche, Trento, 2001, 260 ss. (42) Sul punto cfr. C.E. GALLO, Alla Corte costituzionale il problema della possibilità di provvedimenti cautelari ante causam nel processo amministrativo, in questa Rivista, 1998, 858, il quale, con specifico riferimento alle innovazioni introdotte dal citato d.lgs. n. 80 del 1998, rileva che « [...] se è possibile trasferire semplicemente un intero settore di contenzioso dal giudice amministrativo al giudice ordinario, in dipendenza di mutate valutazioni in ordine al ruolo della pubblica amministrazione e alla natura del rapporto di impiego, non è dato di comprendere come siano giustificabili, quasi da un punto di vista ontologico, disparità di trattamento per ciò che concerne la tutela processuale ». (43) Tar Lazio, Sez. III, ord. 5 maggio 1980 n. 371, in Giur. it., 1981, III, 1, 156 ss. Identica questione era stata sollevata in precedenza da Tar Toscana, ord. 18 aprile 1980, n. 182, in Trib. amm. reg., 1980, I, 2564 ss.


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La Corte costituzionale con la sent. n. 190 del 1985 (44) ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il citato art. 21, ult. comma, l. n. 1034 del 1971 (vecchia formulazione), nella parte in cui non prevede il potere del giudice amministrativo di adottare, nelle controversie patrimoniali in materia di pubblico impiego, i provvedimenti d’urgenza che appaiono secondo le circostanze più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito (45). È, dunque, quella in esame una sentenza additiva che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 21, ult. comma, l. n. 1034 del 1971, nella parte in cui configura una disparità di (44) Corte cost., 28 giugno 1985, n. 190, in Giur. it., 1985, I, 1, 1297 ss., con nota di M. NIGRO, L’art. 700 conquista anche il processo amministrativo, in Foro it., 1985, I, 1881 ss., con nota di A. PROTO PISANI, Rilevanza costituzionale del principio secondo cui la durata del processo non deve andare a danno dell’attore che ha ragione, in Foro it., 1985, I, 2491 ss., con nota di A. ROMANO, Tutela cautelare nel processo amministrativo e giurisdizione di merito, in questa Rivista, 1986, 117 ss., con nota di E. FOLLIERI, Sentenza di merito « strumentale » all’ordinanza di sospensione di atto negativo; « effetto di reciprocità » e adozione, da parte del giudice amministrativo, dei provvedimenti ex art. 700 c.p.c. per la tutela degli interessi pretensivi, in Foro amm., 1986, 1675 ss., con nota di L. FIORILLO, La corte costituzionale introduce nel processo amministrativo la tutela cautelare atipica, in Foro amm., 1988, 1275 ss., con nota di A. CORPACI, Tutela cautelare amministrativa e controversie patrimoniali in materia di pubblico impiego, in Corr. giur., 1985, 924 ss., con nota di S. NESPOR, Aperta la breccia dell’« urgenza » nel processo amministrativo. (45) Anteriormente alla decisione della Corte costituzionale in esame si registrano una serie di pronunce del giudice ordinario nelle quali è stata concessa una tutela cautelare, sebbene in materie di competenza esclusiva del giudice amministrativo: Pret. Pisa, ord. 30 luglio 1977, in Foro it., 1977, I, 2354 ss., Pret. Pisa, ord. 16 maggio 1978, in Riv. giur. lav., 1979, II, 329 ss., Pret. Bologna, ord. 24 aprile 1978, in Riv. giur. scuola, 1979, 971 ss., con nota di D. BONAMORE, Provvedimenti d’urgenza (ex art. 700 c.p.c.) nel rapporto di pubblico impiego fra precari e Università. Tale indirizzo è stato disatteso dalla Corte di cassazione la quale ha ribadito che, in difetto di giurisdizione, il giudice ordinario non può concedere alcuna tutela cautelare: Cass., Sez. un., 25 ottobre 1979, n. 5575, in Giust. civ., 1980, I, 1672 ss., con nota di F. PATRONI GRIFFI, Riflessioni sulla problematica cautelare nelle controversie affıdate alla giurisdizione del giudice amministrativo: art. 700 c.p.c. e azione di sospensione del provvedimento impugnato; Cass., Sez. un., 1o ottobre 1980, n. 5336, in Foro amm., 1981, I, 1060 ss., con nota di M.G. ANTONIUCCI, L’art. 700 c.p.c. ed il giudice amministrativo; Cass., Sez. un. 16 marzo 1981, n. 1484, in Giust. civ., 1981, I, 1630 ss., con nota di A. VALLEBONA, I « precari » delle università di fronte alle Sezioni Unite: brevi note per una lunghissima sentenza; Cass., Sez. un. 17 gennaio 1986, n. 277, in Cons. St., 1986, II, 547. In argomento si veda A. PROTO PISANI, Due note in tema di tutela cautelare, in Foro it., 1983, V, 145 ss.


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trattamento tra la tutela del pubblico dipendente e quella di ogni altro lavoratore (46). La Corte ha invece escluso che potessero ravvisarsi analoghi profili di illegittimità nella disposizione dell’art. 700 c.p.c., dichiarando sul punto inammissibile la questione di legittimità costituzionale (47). L’aspetto da ultimo evidenziato è indicativo di un atteggiamento ricorrente della Corte ed esprime la consapevolezza che il giudizio teso ad accertare la compatibilità con le norme costituzionali di istituti del processo amministrativo debba essere compiuto direttamente sulle disposizioni che regolano il relativo giudizio, e non già intervenendo sull’ambito di applicazione di norme dettate per il processo civile. È significativo che, una volta riconosciuta come illegittima la disparità di trattamento tra la tutela che una certa posizione soggettiva riceve nel giudizio innanzi al giudice amministrativo e quella assicurata all’identica posizione nell’ambito del processo civile, la Corte eviti di colpire con la sua pronuncia le norme sul processo civile. Appare sintomatica dell’impostazione da ultimo evidenziata la pronuncia della Corte costituzionale n. 146 del 1987, concernente i mezzi istruttori esperibili nelle controversie in materia di pubblico impiego (48). Anche in tale caso il giudice delle leggi ha (46) L’ampliamento dei poteri d’urgenza riconosciuti al giudice amministrativo ha alimentato un intenso dibattito dottrinale che ha coinvolto anche gli aspetti concernenti la possibile forza espansiva da riconoscere alla pronuncia della Corte. In argomento cfr., oltre agli autori in precedenza richiamati, M. SICA, Provvedimenti d’urgenza e giudizio cautelare amministrativo, in Giur. it., 1986, IV, 69 ss.; L. MONTESANO, Sull’istruzione e sulla cautela di giurisdizione esclusiva « civilizzate » dalla corte costituzionale, in Riv. dir. proc., 1989, 12 ss.; M.G. GRANATA, Passato e futuro della tutela cautelare nel processo amministrativo: primo bilancio della sentenza corte costituzionale n. 190/1985, in Giust. civ., 1988, II, 241 ss. (47) La Corte costituzionale, nella citata sent. n. 190 del 1985, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale — sollevata in riferimento agli artt. 24, comma 1, 3, comma 1 e 113 Cost. — dell’art. 700 c.p.c. nella parte in cui non consente al giudice ordinario di tutelare in via d’urgenza diritti soggettivi derivanti da comportamenti omissivi della pubblica amministrazione e devoluti in via di merito alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. (48) Corte cost., 23 aprile 1987, n. 146, in Foro amm., 1987, 1341 ss., con nota di G. VACIRCA, Prime riflessioni sul nuovo regime delle prove nelle controversie in materia di pubblico impiego, in Corr. giur., 1987, 649 ss., con nota di M. DI RUOCCO, Giustizia amministrativa: consentiti i mezzi istruttori nelle controversie del pubblico im-


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circoscritto il proprio intervento ai profili di illegittimità delle disposizioni sottoposte al suo esame, valorizzando le peculiarità del singolo caso esaminato ed evitando di fondare la declaratoria di incostituzionalità su considerazioni di carattere generale che potessero valere oltre lo specifico settore delle controversie in materia di pubblico impiego (49). In tal senso, la Corte, non solo ha delimitato il campo del proprio intervento, ma sembra anche avere inteso scoraggiare eventuali operazioni ermeneutiche tese ad estendere « in blocco » al processo amministrativo istituti destinati a regolare il giudizio innanzi al giudice ordinario (50). L’ampliamento dei poteri riconosciuti al giudice amministrativo nelle controversie attribuite alla sua giurisdizione esclusiva, oltre a riflettersi nelle pronunce della Corte costituzionale, ha trovato significativo alimento in un importante intervento del Consiglio di Stato. Nella celebre ord. n. 1 del 30 marzo 2000 (51), l’Adunanza plenaria era chiamata a individuare gli strumenti a dipiego, in Riv. dir. proc., 1987, 704 ss., con nota di G. VERDE, La Corte costituzionale e la disciplina delle prove nel processo del pubblico impiego. La Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimi gli artt. 44, comma 1, r.d. 26 giugno 1924, n. 1054; 26, r.d. 17 agosto 1907, n. 642; 7, comma 1, l. n. 1034 del 1971, nella parte in cui non consentono l’acquisizione dei mezzi istruttori previsti per il processo del lavoro (art. 421, commi 2 e 4, art. 422; art. 425 c.p.c.), riconoscendo ingiustificata la disparità di trattamento della posizione processuale del pubblico dipendente, rispetto a quella del lavoratore privato. (49) Sotto tale profilo, non è casuale che in una successiva pronuncia (Corte cost., 18 maggio 1989, n. 251, in Foro it., 1989, I, 2700 ss.) la Corte costituzionale abbia dichiarato infondata la questione di legittimità sollevata con riferimento alla mancata estensione dei mezzi di prova previsti nel processo amministrativo alla generalità delle controversie affidate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. La Corte ha in tal modo negato che il principio affermato con specifico riguardo alle controversie in materia di pubblico impiego potesse valere anche per tutte le altre controversie rientranti nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. (50) Sul tema dell’ammissibilità di un’estensione al processo amministrativo del complesso di regole ed istituti che caratterizzano il processo civile, cfr., con specifico riguardo al tema della tutela cautelare, i contributi di E.F. RICCI, Profili della nuova tutela cautelare amministrativa del privato nei confronti della pubblica amministrazione, in questa Rivista, 2002, 276 ss. e di M. MONTANARI, Giurisdizione amministrativa e misure cautelari tipiche del processo civile, in questa Rivista, 2003, 35 ss. (51) Cons. Stato, Ad. plen., ord. 30 marzo 2000 n. 1, in Foro amm., 2000, 2555 ss., con nota di R. DAMONTE, Profili innovatori in tema di tutela cautelare nel processo amministrativo. Il Cons. St., Ad. plen., n. 1/o. del 2000 e la l. n. 205 del 2000, in Foro it., 2000, III, 365 ss., con nota di F. FRACCHIA, Giurisdizione esclusiva, servizio pubblico


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sposizione dei titolari di farmacie convenzionate con il Servizio sanitario nazionale per la tutela dei crediti pecuniari vantati nei confronti della pubblica amministrazione. La Plenaria ha in tale occasione affermato che il giudice amministrativo è titolare del più ampio potere cautelare, anche quando conosce, nell’ambito della giurisdizione esclusiva, di diritti di natura patrimoniale. È interessante evidenziare come la soluzione ricavata dall’Adunanza plenaria si collochi sulla stessa linea seguita dalla Corte costituzionale, e ribadisca quel quadro di autonomia e di completezza del sistema di tutela previsto nel processo amministrativo, rispetto al regime processuale applicabile alle controversie instaurate innanzi al giudice ordinario. Infatti, la quinta sezione del Consiglio di Stato, con l’ordinanza di remissione del 9 novembre 1999, n. 2240 (52), aveva posto la questione della diretta applicabilità al giudizio amministrativo degli artt. 633 ss. c.p.c., che disciplinano la tutela sommaria e monitoria (53). Sul punto, l’Adunanza plenaria ha riconosciuto che la soluzione al problema della tutela dei crediti pecuniari vantati nei confronti delle pubbliche amministrazioni vada ricavata dal potere attribuito al giudice amministrativo di pronunciare ordinanze cautelari aventi ad oggetto l’ingiunzione al pagamento di somme di danaro. Tale prerogativa è considerata espressione del « più generale potere cautelare del giudice amministrativo, esercitabile in relazione a qualsiasi controversia devoluta alla sua giurisdizione ». e specialità del diritto amministrativo, in Urb. e app., 2000, 617 ss., con nota di M. PROTTO, La tutela anticipatoria dei crediti pecuniari verso la p.a. tra tutela cautelare e tutela sommaria, in Giust. civ., 2000, I, 2163 ss., con nota di M. ANTONIOLI, Brevi osservazioni sulla tutela cautelare del giudice amministrativo in materia di pubblici servizi. (52) Cons. Stato, Sez. V, ord. 9 novembre 1999, n. 2440, in Foro amm., 1999, 2456 ss., in Urb. e app., 2000, 45 ss., con nota di M. DE PALMA, Giurisdizione esclusiva del G.A. ex art. 33 d.lg. n. 80 del 1998 e procedimenti sommari. (53) In realtà, l’ordinanza di remissione si presenta più articolata: infatti, dopo una rassegna delle diverse opzioni interpretative proposte, relativamente al problema della tutela dei crediti pecuniari, riconosce che, in mancanza di espresse norme di richiamo, non potrebbe essere applicata al giudizio amministrativo la disciplina prevista dal codice di procedura civile. La quinta sezione del Consiglio di Stato rileva che andrebbe sollevata questione di legittimità costituzionale delle disposizioni sul processo amministrativo, nella parte in cui non prevedono il potere del giudice amministrativo di pronunciare decreti ingiuntivi.


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Dalla pronuncia della Adunanza plenaria escono valorizzati i caratteri di autonomia ed autosufficienza del sistema processuale amministrativo (54), il quale è in grado di offrire adeguata tutela alle posizioni soggettive devolute alla giurisdizione amministrativa, ivi compresi i diritti a contenuto patrimoniale: in particolare, come si precisa al punto 12 della motivazione, il riconoscimento in capo al giudice amministrativo di un generale potere cautelare consente di emanare le statuizioni più opportune, « disponendo l’effettuazione di una dovuta prestazione da parte dell’amministrazione ovvero l’emanazione di ordini di pagamento di una somma a favore del ricorrente ». 3.1. Per altri versi, è innegabile che il dibattito sui caratteri della tutela cautelare nel processo amministrativo e, in particolare, sulla specifica questione relativa alla possibilità per il giudice amministrativo di accordare forme di tutela autonome ed indipendenti dalla proposizione del ricorso principale risulti in larga misura influenzato dagli apporti del diritto comunitario (55). Sotto tale profilo, le pronunce della Corte di giustizia delle Comunità europee hanno contribuito nel corso degli anni a delineare un modello di tutela giurisdizionale ispirato ai principi di effettività nella protezione delle situazioni giuridiche soggettive fondate sul diritto comunitario (56) e destinato progressivamente (54) L’Adunanza plenaria, affermata la tendenziale impermeabilità del sistema processuale amministrativo alla disciplina del processo civile, riconosce che l’applicazione in via analogica degli istituti del processo civile possa avvenire solo all’esito di un giudizio che accerti, caso per caso, la compatibilità delle regole del giudizio civile con le esigenze del processo amministrativo. (55) E. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2000, 822 ss., il quale rileva che il settore delle misure cautelari è quello in cui l’impatto del diritto comunitario si manifesta con maggiore intensità. Per un esame sull’influenza del diritto comunitario sui differenti istituti del processo amministrativo cfr. E. PICOZZA (a cura di), Processo amministrativo e diritto comunitario, Padova, 2003. (56) Si veda a questo proposito la ricostruzione di M.P. CHITI, L’effettività della tutela giurisdizionale tra riforme nazionali e influenza del diritto comunitario, in questa Rivista, 1998, 503 ss., il quale individua due momenti dell’influenza comunitaria sui sistemi di tutela giurisdizionale degli Stati membri. In una prima fase, l’apporto della Corte di giustizia è più sfumato e rimette ai singoli legislatori l’individuazione delle forme di tutela, seppur nel rispetto del principio di efficacia nella protezione delle po-


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ad imporsi nei vari Stati membri, con l’effetto, tra l’altro, di armonizzare i sistemi di garanzie previsti dai singoli ordinamenti (57). Il cammino percorso dalla giurisprudenza comunitaria nel settore dei poteri cautelari d’urgenza (58) è scandito da importanti pronunce. Nella celebre decisione resa nel caso Factortame (59) si è affermato il dovere del giudice nazionale di disapplicare le leggi nazionali che impediscano l’adozione di misure cautelari a tutela di diritti fondati sulle norme comunitarie, quando ciò sia necessario al fine di garantire la piena efficacia satisfattiva della decisione di merito e di assicurare una applicazione uniforme delle norme comunitarie, nei confronti di tutti i destinatari nei vari Stati membri. I poteri cautelari del giudice amministrativo risultano ulteriormente ampliati dalla sentenza emessa nel caso Zuckerfabrik (60), ove la Corte di giustizia ha avuto occasione di precisare che la tusizioni che derivano dal diritto comunitario e di non discriminazione nella definizione delle relative regole procedurali. In una seconda fase, l’influenza della giurisprudenza della Corte di giustizia appare più decisa, con l’affermazione del principio generale dell’effettività della tutela giurisdizionale e l’elaborazione di una specifica « politica processuale » da parte della Comunità. (57) Osserva M.P. CHITI, L’effettività della tutela, cit., 506, che l’armonizzazione dei sistemi di tutela dei vari Stati membri rappresenta la condizione per garantire l’applicazione uniforme e la piena tutela delle posizioni soggettive a base comunitaria. (58) Per un’analisi degli apporti della giurisprudenza comunitaria sull’evoluzione del sistema di tutela cautelare cfr. M. ROSSI SANCHINI, La tutela cautelare, cit., 4499 ss. (59) Corte giust. CE, 19 giugno 1990 (in causa C-213/89), House of Lords C. Factortame ltd., in Foro amm., 1991, 1885 ss., con nota di R. CARANTA, Effettività della garanzia giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione e diritto comunitario: il problema della tutela cautelare, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1991, 1042 ss., con nota di M. MUSCARDINI, Potere cautelare dei Giudici nazionali in materie disciplinate dal diritto comunitario, in questa Rivista, 1991, 255 ss., con nota di C. CONSOLO, L’ordinamento comunitario quale fondamento per la tutela cautelare del giudice nazionale (in via di disapplicazione di norme legislative interne), in Riv. dir. proc., 1991, 1119 ss., con nota di M. SICA, Diritto comunitario e giustizia amministrativa: prime riflessioni a margine di una recente sentenza della Corte di Giustizia della CEE. (60) Corte giust. CE, 21 febbraio 1991 (in cause riunite C-143/88 e C-92/89), Zuckerfabrik Suderdithmarschen A G C. Hauptzollamt Itzehoe, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1992, 125 ss., con nota di G. TESAURO, Tutela cautelare e diritto comunitario, in Foro it., 1992, IV, 1 ss., con nota di A. BARONE, Questione pregiudiziale di validità di un regolamento comunitario e poteri cautelari del giudice nazionale, in Giur. it., 1994,


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tela cautelare riconosciuta dal diritto comunitario ai privati innanzi ai giudici nazionali non può variare, a seconda che si contesti la compatibilità di norme di diritto nazionale con il diritto comunitario o la validità di atti comunitari di diritto derivato. Per tale ragione, al giudice nazionale è attribuito il potere di sospendere l’esecuzione di un atto amministrativo nazionale, adottato sulla base di un regolamento comunitario la cui legittimità sia in contestazione. L’impatto più rilevante della giurisprudenza comunitaria sulla disciplina tradizionale del processo amministrativo si è peraltro avuto solo in seguito, con la celebre sentenza pronunciata nel caso Atlanta (61). La Corte di giustizia era chiamata a valutare se tra le differenti forme di tutela cautelare delle situazioni giuridiche soggettive di fonte comunitaria rientrasse anche l’adozione di misure di contenuto positivo. Il giudice comunitario ha riconosciuto che la tutela cautelare che i giudici debbono garantire ai singoli in forza del diritto comunitario ha la stessa estensione, indipendentemente dalla consistenza assunta dalle posizioni soggettive comunitarie una volta trasferite nell’ordinamento interno. Il giudice nazionale può adottare qualsiasi provvedimento provvisorio necessario ad assicurare una piena ed effettiva tutela alle posizioni soggettive di fonte comunitaria (62), ed anche disporre misure positive con le quali prevedere « una diversa disciplina provvisoria delle situazioni di diritto o dei rapporti giuridici controversi ». Su un altro versante, il legislatore comunitario ha contribuito I, 1, 353 ss., con nota di R. CARANTA, Diritto comunitario e tutela cautelare: dall’effettività allo « ius comune ». (61) Corte giust. CE, 9 novembre 1995 (in causa C-465/93), Soc. Atlanta Fruchthandelsgesellschaft mbH e altri C. Bundesamt fur Ernahrung und Forstwirtschaft, in Foro amm., 1996, 2543, con nota di R. CARANTA, L’ampliamento degli strumenti di tutela cautelare e la progressiva « comunitarizzazione » delle regole processuali nazionali, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1996, 985 ss., con nota di L. LAMBERTI, Principio di effettività della tutela giurisdizionale e diritto comunitario: a proposito del potere del giudice nazionale di concedere provvedimenti cautelari « positivi ». (62) Sul punto cfr. R. GAROFOLI, M. PROTTO, Tutela cautelare monitoria e sommaria, cit., 37, ove si rileva che il principio enunciato dalla Corte di giustizia, pur ricalcando i contenuti della citata prinuncia della Corte costituzoinale n. 190 del 1985, presenta un ambito applicativo più vasto, coinvolgendo tutte le posizioni giuridiche comunitarie.


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in misura determinante ad indirizzare gli ordinamenti nazionali verso un sistema di tutela giurisdizionale caratterizzato dal riconoscimento dell’essenzialità della tutela d’urgenza. Con le direttive nn. 89/665/CEE e 92/13/CEE, c.d. « direttive ricorsi » (63), la Comunità ha provveduto ad adottare la prima disciplina di « carattere processuale » (64) dalla quale emerge, sia pure limitatamente al settore degli appalti pubblici di lavori e forniture, un preciso indirizzo favorevole alla piena ed immediata tutela degli interessi dei ricorrenti, lesi dalla violazione di norme comunitarie. Sotto tale profilo, particolarmente significativo appare l’enunciato dell’art. 2, par. 1, lett. a), dir. n. 89/665/CEE (65), che prevede l’obbligo per gli Stati membri di adottare le misure necessarie affinché i giudici nazionali prendano « con la massima sollecitudine e con procedura d’urgenza provvedimenti provvisori intesi a riparare la violazione o impedire che altri danni siano causati agli interessi coinvolti, compresi i provvedimenti intesi a sospen(63) Direttiva CEE, 21 dicembre 1989, n. 665, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e lavori, in G.U.C.E., 30 dicembre 1989, L 395/33 (cui è stata data attuazione con la l. 19 febbraio 1992, n. 142); direttiva CEE, 25 febbraio 1992, n. 13, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle norme comunitarie in materia di procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di energia e degli enti che forniscono servizi di trasporto nonché degli enti che operano nel settore delle telecomunicazioni, in G.U.C.E., 23 marzo 1992, L 76/14 (cui è stata attuazione con la l. 19 dicembre 1992, n. 489). Per un commento alle direttive ricorsi cfr. G. MORBIDELLI, Note introduttive sulla direttiva ricorsi, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1991, 829 ss.; G. CUGURRA, Direttive comunitarie in materia di appalti pubblici e giudice amministrativo, in questa Rivista, 1989, 357 ss. (64) Cosı̀ M.P. CHITI, L’effettività della tutela, cit., 512, il quale precisa che l’affermazione del diritto ad un ricorso giurisdizionale effettivo era già contenuta in alcune pronunce della Corte di giustizia delle Comunità europee: Corte giust. CE, 15 maggio 1986 (in causa C-222/84), Johnston c. Chief Constable; Corte giust. CE, 15 ottobre 1987 (in causa C-222/86), Union Nationale des Entraı̀neurs C. Heylens, in Riv. it. dir. lav., 1988, II, 96 ss. Secondo l’A., l’adozione da parte del Consiglio delle menzionate direttive evidenzia come la posizione assunta dalla Corte di giustizia, sul punto della effettività della tutela giurisdizionale, sia condivisa dalle altre istituzioni comunitarie. (65) L’art. 41 della direttiva CEE, 18 giugno 1992, n. 50, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi, in G.U.C.E., 24 luglio 1992, L 209/1, ha esteso le disposizioni dettate dalla dir. n. 89/665/CEE agli appalti di servizi.


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dere o a far sospendere la procedura di aggiudicazione pubblica di un appalto o l’esecuzione di qualsiasi decisione presa dalle autorità aggiudicatrici » (66). Analogamente, l’art. 2, par. 1, lett. a), dir. n. 92/13/CEE dispone che le autorità nazionali responsabili delle procedure di ricorso assumano i provvedimenti necessari « ad impedire che altri danni siano causati agli interessi coinvolti », ivi compresa la « facoltà di imporre il pagamento di una somma determinata nel caso in cui l’infrazione non venga riparata od evitata » (art. 2, par. 1, lett. c), dir. n. 92/13/CEE). Anche in questo caso, la giurisprudenza comunitaria, mossa dall’intento di valorizzare ed ulteriormente sviluppare i profili di effettività e adeguatezza della tutela previsti nelle disposizioni introdotte dalle richiamate direttive, è giunta a riconoscere, con l’importante sentenza 19 settembre 1996 (in causa C-236/1995) (67), che, al fine di una corretta attuazione della dir. n. 89/665/CEE, gli Stati membri sono tenuti ad attribuire alle autorità nazionali investite delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori il potere di adottare qualsiasi provvedimento provvisorio, « indipendentemente da ogni azione previa », ossia a prescindere dalla contemporanea pendenza di un giudizio per l’annullamento della decisione dell’amministrazione aggiudicatrice. La sentenza in parola definisce il procedimento per infrazione promosso ai sensi dell’art. 226 (già art. 169), Trattato CE dalla Commissione delle Comunità europee contro lo Stato greco, per la mancata attuazione della dir. n. 89/665/CEE. Secondo la Corte di giustizia, l’inadempimento dalla Grecia rispetto alle prescrizioni poste dalla dir. n. 89/665/CEE consiste nell’avere previsto (66) Il quinto considerando della direttiva precisa che: « [...] data la brevità delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici, gli organi di ricorso competenti devono in particolare essere abilitati a prendere misure provvisorie per sospendere la procedura di aggiudicazione dell’appalto o l’esecuzione di decisioni eventualmente prese dall’autorità aggiudicatrice [...] ». (67) Corte giust. CE, 19 settembre 1996 (in causa C-236/1995), Comm. Ce C. Gov. Grecia, in Foro amm., 1997, 382 ss., con nota di A. SCOGNAMIGLIO, Ancora un intervento della Corte di giustizia in tema di tutela cautelare, in Urb. e app., 1998, 212 ss., con nota di M. PROTTO, Mezzi di tutela cautelare negli appalti pubblici di rilevanza comunitaria.


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un sistema di tutela provvisoria circoscritto alla mera sospensione del provvedimento impugnato, mentre la direttiva esige il riconoscimento di un potere cautelare generale e atipico. Il secondo profilo sul quale i giudici comunitari si sono soffermati concerne l’assenza, all’interno del sistema cautelare vigente nello Stato greco, di forme di tutela cautelare ante causam, atteso che in quel particolare modello la concessione della misura della sospensione presuppone la previa impugnazione del provvedimento illegittimo (68). Nella recente sentenza 15 maggio 2003 (69), la Corte di giustizia, decidendo il ricorso per infrazione proposto dalla Commissione contro il Regno di Spagna, ha ribadito con forza il profilo da ultimo evidenziato. La Corte ha riconosciuto che, nell’ordinamento processuale spagnolo, la pronuncia di misure cautelari aventi ad oggetto gli atti adottati dalle amministrazioni aggiudicatrici, è subordinata alla previa impugnazione del provvedimento ritenuto lesivo ed ha pertanto condannato la Spagna per la mancata attuazione della dir. n. 665/1989/CEE. Le conclusioni cui è approdato il giudice comunitario sembrano trovare ulteriore conferma nella recente ordinanza presidenziale adottata dal Tar Lombardia con la quale, nell’ambito di un ricorso proposto ai sensi dell’art. 234 (già art. 177), Trattato CE, è stato chiesto alla Corte di giustizia di verificare se la persistente subordinazione, presente nell’ordinamento italiano, fra la misura cautelare accordabile nel (68) È interessante notare come la Corte di giustizia, nel respingere le difese addotte dal governo greco, abbia precisato che l’inadempimento di uno Stato membro all’obbligo di attuazione di una direttiva della Comunità non è escluso dall’esistenza di orientamenti della giurisprudenza nazionale che riconoscono ai singoli i diritti attribuiti dalla direttiva stessa: è infatti necessario, al fine garantire la certezza del diritto, che i cittadini dello Stato membro possano contare su di un quadro normativo chiaro e preciso. (69) Corte giust. CE, 15 maggio 2003 (in causa C-214/00), Comm. Ce C. Regno di Spagna, in Urb. e app., 2003, 885 ss., con nota di R. CARANTA, La tutela cautelare ante causam contro gli atti adottati dalle amministrazioni aggiudicatrici; in questa Rivista, 2003, 1155 ss., con nota di P. LAZZARA, Tutela cautelare e misure d’urgenza, cit.; in Riv. it. dir. pubbl. com., 2003, 1267 ss., con nota di E.M. BARBIERI, Diritto comunitario, processo amministrativo e tutela « ante causam », cit. Su tale pronuncia v. diffusamente anche M.P. CHITI, La tutela cautelare ante causam nel processo amministrativo: uno sviluppo davvero ineluttabile?, in Giorn. dir. amm., 2003, 899 ss.


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processo amministrativo e l’azione d’annullamento sia compatibile con il tasso di effettività della tutela giurisdizionale, che deve essere uniformemente garantito da ogni giudice all’interno del territorio dell’Unione (70). In attesa del contributo chiarificatore del giudice comunitario, può essere utile soffermarsi sui differenti profili della questione, ripercorrendo le principali tappe del dibattito dottrinale e del percorso giurisprudenziale. 3.2. L’ammissibilità di una tutela cautelare preventiva nel processo amministrativo è stata sostenuta con forza in alcune pronunce del giudice nazionale. In un caso, è stata riconosciuta la possibilità di ottenere misure cautelari inaudita altera parte e, dunque, anteriormente all’udienza fissata per l’esame dell’istanza cautelare, nel contraddittorio delle parti (71). In altri casi, è stata giudicata ammissibile una vera e propria tutela cautelare ante causam, ossia anteriormente alla formale introduzione del giudizio, con la notifica e il deposito del ricorso giurisdizionale conte-

(70) Tar Lombardia, Brescia, ord. presidenziale 26 aprile 2003, n. 76, in Giorn. dir. amm., 2003, 897 ss., con nota di M.P. CHITI, La tutela cautelare ante causam nel processo amministrativo, cit., 1219 ss., in Urb. e app., 2003, 1219 ss., con nota di D. DE CAROLIS, Ancora sulla tutela cautelare ante causam nel processo amministrativo, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2003, 913 ss. La domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tar Lombardia è stata iscritta nel registro della Corte di giustizia con il numero C-202/03. Della domanda è data notizia in G.U.C.E., 19 luglio 2003, C 171/13. A commento dell’ordinanza si veda anche E.M. BARBIERI, Diritto comunitario, processo amministrativo e tutela « ante causam », cit., 1287 ss. L’ordinanza in parola segue di poco più di un mese il d. presidenziale 10 marzo 2003, n. 266, cit., adottato dal medesimo Tar Lombardia, Brescia. Con tale pronuncia il Tar Lombardia, preso atto che il sistema di tutela cautelare delineato dalla legge di riforma del processo amministrativo non prevede alcuna prerogativa del giudice ante causam, ha disapplicato l’art. 21, l. n. 1034 del 1971, riconosciuto contrastante con gli obblighi posti dall’art. 2, par. 1, lett. a), dir. n. 89/665/CEE, ed ha concesso la misura cautelare anteriormente all’introduzione del giudizio di merito. (71) Tar Lombardia, Milano, Sez. III, d. presidenziale 27 ottobre 1997, n. 727, in Foro amm., 1998, 1157 ss., con nota di G. SPADEA, La terza sezione del Tar Lombardia apre ad una giustizia cautelare amministrativa più effettiva ed europea, dove si è riconosciuto che, una volta proposto il ricorso giurisdizionale con l’istanza di sospensione dell’efficacia dell’atto impugnato, è ammissibile il ricorso ex art. 700 c.p.c., sul quale provvede il presidente del tribunale amministrativo regionale.


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nente l’istanza di sospensione dell’efficacia dell’atto impugnato (72). Un primo gruppo di pronunce ha rinvenuto il fondamento del potere del giudice amministrativo di accordare la tutela preventiva in principi affermati a livello comunitario e, in particolare, nella già ricordata dir. n. 89/665/CEE. Secondo l’interpretazione della Corte di giustizia, tale direttiva impone ai giudici nazionali di adottare in materia di appalti ogni occorrente misura provvisoria, anche indipendentemente dalla proposizione di una previa impugnazione (73). Un ruolo di primo piano è stato inoltre riconosciuto alle norme della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, segnatamente all’art. 13 che sancisce il diritto ad un ricorso effettivo per ogni violazione dei diritti e delle libertà riconosciute dalla convenzio-

(72) Tar Lombardia, Milano, Sez. III, d. presidenziale 14 novembre 1997, n. 758, in Urb. e app., 1998, 61 ss., con nota di F. CARINGELLA, Novità in tema di misure cautelari, in Foro amm., 1998, 1158 ss., con nota di G. SPADEA, La terza sezione del Tar Lombardia, cit.; Tar Lombardia, Milano, Sez. III, d. presidenziale 30 dicembre 1997, n. 814, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1998, 740 ss., con nota di S. FARO, Tutela cautelare « ante causam » nel processo amministrativo: un’apertura giurisprudenziale, in Foro amm., 1998, 1159 ss., con nota di G. SPADEA, La terza sezione del Tar Lombardia, cit.; Tar Lombardia, Milano, Sez. III, d. presidenziale 3 aprile 1998, in Foro amm., 1999, 424 ss., con nota di P. BARGERO, Nuove pronunce in tema di applicabilità al giudizio amministrativo del procedimento finalizzato all’adozione di provvedimenti cautelari ex art. 700, c.p.c.; Tar Sicilia, Catania, Sez. III, d. presidenziale 23 aprile 1998, n. 6, in Giust. amm. sic., 1998, 579 ss.; Tar Sicilia, Catania, Sez. III, d. presidenziale 23 giugno 1998, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1998, 1408, con nota di S. FARO, L’effettività della tutela cautelare amministrativa: questioni ancora aperte; Tar Emilia-Romagna, Bologna, Sez. I, d. presidenziale 4 gennaio 2000, n. 1, in Foro amm., 2000, 2785 ss. Con specifico riferimento al tema del procedimento di istruzione preventiva, si vedano Tar Toscana, Sez. I, ord. 20 dicembre 1996, n. 783, in Foro amm., 1998, 496 ss., con nota di E. CANNADA BARTOLI, Accertamento preventivo nel processo amministrativo, in Foro amm., 1998, 1531 ss., con nota di I. COLZI, Nuovi orientamenti in tema d’istruzione probatoria e di tutela cautelare nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in questa Rivista, 1998, 620 ss., con nota di A. POLICE, Istruzione preventiva e processo amministrativo: riflessioni a margine di una recente pronuncia; Tar Lombardia, Sez. I, 29 ottobre 1991, n. 54, in Giur. it., 1993, III, 1, 657 ss., con nota di R. CARANTA, Nuove questioni su diritto comunitario e forme di tutela giurisdizionale. (73) Tar Lombardia, Milano, Sez. III, d. presidenziale 30 dicembre 1997, n. 814, cit.; Tar Lombardia, Milano, Sez. III, d. presidenziale 3 aprile 1998, cit.


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ne (74), e all’art. 6 che garantisce la pretesa ad un giusto processo (75), nel quale sia assicurata al ricorrente una tutela urgente (76). In altre pronunce, si è fatto leva sull’applicazione analogica delle disposizioni dettate dal codice di rito per le controversie instaurate innanzi al giudice ordinario (art. 669-sexies, comma 2, art. 700 c.p.c.). L’applicazione della disciplina processualcivilistica è stata giustificata alla luce dell’orientamento — autorevolmente sostenuto anche in dottrina (77) — secondo cui le norme del codice di procedura civile possono essere applicate al processo amministrativo, non solo quando espressamente richiamate, ma anche in via generale, per analogia, considerato che il codice di rito costituisce una legge generale dalla quale è possibile ricavare i principi fondamentali sul processo (78). Le aperture giurisprudenziali appena richiamate sono state disattese in altre pronunce, ove si è giudicata inammissibile la domanda di tutela cautelare proposta anteriormente al ricorso principale (79). Tali decisioni hanno precisato che nel processo amministrativo la fase cautelare presenta un carattere incidentale ri(74) Tar Lombardia, Milano, Sez. III, d. presidenziale 27 ottobre 1997, n. 727, cit.; Tar Lombardia, Milano, Sez. III, d. presidenziale 14 novembre 1997, n. 758, cit. (75) Il principio del giusto processo è entrato recentemente a far parte della Carta fondamentale, a seguito delle modifiche apportate all’art. 111 Cost. dalla l. cost. 23 novembre 1999, n. 2. In argomento si veda G. SPADEA, Il giusto processo amministrativo secondo l’art. 6 della CEDU e con cenni al caso italiano, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2000, 367 ss., E. PICOZZA, Il « giusto » processo amministrativo, in Cons. St., 2000, II, 1061 ss. (76) Tar Lombardia, Milano, Sez. III, d. presidenziale 3 aprile 1998, cit. (77) M. NIGRO, Giustizia amministrativa, Bologna, 2002, 266 ss., il quale afferma che la fonte principale dell’integrazione diretta della disciplina del processo amministrativo è data da principi di diritto processuale comune che trovano nella legge processuale civile la propria sede di elezione. In particolare, l’A. distingue l’ipotesi dell’applicazione diretta delle norme di diritto processuale comune — sempre possibile, a condizione che esse siano compatibili con le particolari caratteristiche del processo civile — dal caso dell’applicazione analogica di principi specificatamente dettati per il processo civile o per altri ordinamenti processuali. (78) Tar Sicilia, Catania, Sez. III, d. presidenziale 23 aprile 1998, n. 6, cit.; Tar Sicilia, Catania, Sez. III, d. presidenziale 23 giugno 1998, cit.; Tar Emilia-Romagna, Bologna, Sez. I, d. presidenziale 4 gennaio 2000, n. 1, cit. (79) Tar Lazio, Sez. II, 3 marzo 1995, n. 319, in Trib. amm. reg., 1995, I, 1498 ss.; Tar Calabria, Reggio Calabria, 29 ottobre 1992, n. 877, in Foro it., 1993, III, 61 ss.;


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spetto al giudizio principale e che il ricorrente è in ogni caso tenuto ad illustrare nel ricorso introduttivo le ragioni ed i motivi posti a base della pretesa azionata in giudizio (80). Il Consiglio di Stato, da parte sua, ha energicamente contestato la validità dei decreti presidenziali emessi ante causam, giungendo a qualificarli come provvedimenti « abnormi », in quanto adottati da soggetti non investiti di potere giurisdizionale (81). In effetti, un primo aspetto sul quale si è soffermato il Consiglio di Stato concerne la mancata previsione, nell’ordinamento processuale amministrativo anteriore alla riforma introdotta dalla l. n. 205 del 2000, di specifici poteri decisori dei presidenti degli organi giurisdizionali amministrativi. Al riguardo, si è precisato che nel processo amministrativo la fase cautelare è caratterizzata da una riserva di collegialità e che non è possibile procedere ad un’applicazione analogica degli artt. 700 ss. c.p.c. Il Consiglio di Stato ha inoltre escluso che l’ammissibilità di un ricorso ex art. 700 c.p.c. nel giudizio amministrativo potesse essere desunta dalla richiamata sentenza della Corte cost. n. 190 Tar Lombardia, Milano, Sez. I, 19 gennaio 1998, in Foro it., 1998, III, 173; Tar FriuliVenezia Giulia, ord. 21 agosto 1998 n. 154, in Urb. e app., 1999, 435 ss., con nota di G. AVANZINI, La giurisdizione in materia di azioni di nunciazione dopo il d.lg. n. 80 del 1998. (80) Tar Lazio, Sez. II, 3 marzo 1995, n. 319, cit. (81) Cons. Stato, Sez. V, ord. 28 aprile 1998, n. 781, in Foro amm., 1999, 425 ss., con nota di P. BARGERO, Nuove pronunce, cit.; in Riv. it. dir. pubbl. com., 1998, 1408, con nota di S. FARO, L’effettività della tutela cautelare amministrativa, cit.; in Urb. e app., 1998, 1334 ss., con nota di G.M. SIGISMONDI, Processo amministrativo: tutela cautelare e rito monocratico; Cons. Stato, Sez. IV, ord. 19 maggio 1998 n. 814, in Rass. Avv. St., 1998, I, 143 ss., con nota di G. PALMIERI, Brevi osservazioni in tema di tutela cautelare ex art. 700 c.p.c. nel processo amministrativo, che ha dichiarato la nullità assoluta del decreto di sospensione dell’aggiudicazione di una gara d’appalto, adottato dal presidente del tribunale amministrativo inaudita altera parte ex art. 700 c.p.c., in quanto emesso da un soggetto non investito di potere giurisdizionale e con indebita sottrazione all’amministrazione del diritto di difesa riconosciuto nel procedimento cautelare tipico del giudizio amministrativo. Sul contrasto tra la posizione espressa dal Tar Lombardia e dal Consiglio di Stato in merito all’applicabilità dell’art. 700 c.p.c. nel processo amministrativo, si veda E.M. BARBIERI, Primi orientamenti della giustizia amministrativa sull’applicabilità dell’art. 700 c.p.c. nel processo amministrativo, in Giur. piemontese, 1998, 180 ss.


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del 1985: l’ampliamento dei poteri decisori sancito da tale pronuncia riguarda, infatti, le questioni attinenti ai diritti patrimoniali devoluti alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, limitatamente alla materia del pubblico impiego. In ogni caso, tale pronuncia non implica alcuna deroga alla disciplina posta dall’art. 21, l. n. 1034 del 1971, con specifico riferimento al procedimento volto alla concessione di provvedimenti cautelari, atteso che il modello di tutela previsto dalle norme sul processo amministrativo è idoneo a garantire una efficace tutela d’urgenza (82). In secondo luogo, il Consiglio di Stato ha mostrato di non condividere il richiamo operato dal Tar Lombardia alle fonti sopranazionali ed ha evidenziato che l’art. 2 della dir. n. 89/665/ CEE, oltre a non prevedere espressamente competenze monocratiche presidenziali in materia cautelare, riconosce agli Stati membri una piena libertà di delineare la disciplina dell’accesso alla tutela giurisdizionale. Appare improprio anche il richiamo agli artt. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in quanto l’art. 21 l. n. 1034 del 1971 è in grado di offrire adeguate forme di tutela alle posizioni soggettive del ricorrente. Su un altro versante, vanno segnalate le perplessità espresse dall’Adunanza Generale del Consiglio di Stato (83) in merito alla introduzione di forme di tutela preventiva all’interno del processo (82) È stato rilevato da P. BARGERO, Nuove pronunce, cit., 428, come l’orientamento espresso dal Consiglio di Stato nelle richiamate pronunce, ed in particolare nell’ord. 28 aprile 1998, n. 781, si fondi principalmente sul riconoscimento dell’idoneità del rimedio di cui all’art. 21, l. n. 1034 del 1971 ad assicurare un’effettiva tutela cautelare alle posizioni del ricorrente. Per tale ragione, l’ipotesi di un’applicazione analogica delle norme contenute negli artt. 669-bis ss. e 700 c.p.c. al processo amministrativo, oltre a dover essere attentamente vagliata sotto il profilo della compatibilità con le peculiarità del giudizio che si svolge innanzi al giudice amministrativo, risulta contraddetta dall’assenza, nel modello di tutela cautelare delineato dalle disposizioni sul processo amministrativo, di un vuoto normativo che giustifichi tale operazione ermeneutica. (83) Cons. Stato, ad. gen., 8 febbraio 1990, n. 16, in Foro amm., 1990, 270 ss. L’Adunanza Generale, chiamata ad esprimere il proprio parere sul testo del d.d.l. A.C. 12 ottobre 1989, n. 788-1726, A-A.S. 26 ottobre 1989, n. 1912 (disegno di legge delega sul processo amministrativo), ha suggerito l’introduzione di uno specifico potere del presidente di adottare misure cautelari provvisorie da sottoporre al successivo esame del collegio, secondo un modello che presenta affinità con la soluzione oggi vigente.


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amministrativo. Invero, se si considera il carattere incidentale che riveste la fase cautelare in tale giudizio, è necessario che il giudice chiamato a decidere l’istanza cautelare sia posto nella condizione di conoscere i motivi del ricorso, al fine di valutare la fondatezza della domanda. Inoltre, a differenza di quanto previsto per il processo civile, ove vige il principio della corrispondenza tra giudice della fase cautelare e giudice del merito (artt. 669-ter, 669-quater c.p.c.), nel giudizio amministrativo la competenza territoriale del giudice è derogabile e l’eventuale proposizione del regolamento di competenza non preclude l’esame della domanda cautelare (84). La precisa posizione assunta dal Consiglio di Stato non è stata peraltro in grado di arginare il dibattito sorto intorno al tema della tutela cautelare ante causam. Lo stesso Tar Lombardia, iniziatore dell’indirizzo interpretativo sopra richiamato, avvedutosi dell’atteggiamento di chiusura assunto dal Consiglio di Stato, ha ritenuto di dovere adire la Corte costituzionale con l’ordinanza di remissione 30 giugno 1998, n. 1 (85). Il Tar Lombardia ha giudicato non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, alla luce degli artt. 24 e 113 Cost., e degli artt. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dell’art. 21, l. n. 1034 del 1971, nella parte in cui esclude la tutela ante causam e la conseguente applicabilità degli artt. 669-bis ss. e 700 c.p.c. alle controversie devolute al giudice amministrativo (86). I profili sui quali la Corte costituzionale è stata chiamata a (84) Cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 20 gennaio 1997, n. 2, in questa Rivista, 1998, 169 ss., con nota di E. PULICI, La proposizione del regolamento di competenza nel processo amministrativo: i limiti oggettivi della pronuncia del Consiglio di Stato ed i rapporti con la tutela cautelare; Tar Calabria, Reggio Calabria, ord. 18 novembre 1997, n. 925, in Trib. amm. reg., 1997, I, 3389 ss.; Tar Lombardia, Milano, Sez. II, ord. 7 giugno 1995, n. 1456, in Trib. amm. reg., 1995, I, 1631 ss. (85) Tar Lombardia, Milano, Sez. III, ord. presidenziale 30 giugno 1998, n. 1, in questa Rivista, 1998, 724 ss. (pubblicata insieme all’ordinanza presidenziale resa ex art. 669-sexies c.p.c.), a commento dell’ordinanza si veda C.E. GALLO, Alla Corte costituzionale il problema della possibilità di provvedimenti cautelari ante causam nel processo amministrativo, cit., 856 ss.; F.F. TUCCARI, Considerazioni sulla tutela preventiva nel processo amministrativo, in questa Rivista, 1999, 869 ss. (86) In via subordinata, il Tar Lombardia ha posto anche la questione di legitti-


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pronunciarsi concernono, da un lato, l’esistenza di una ingiustificata disparità di trattamento tra il modello di tutela cautelare delineato dall’art. 21, l. n. 1034 del 1971 e quello prefigurato innanzi al tribunale ordinario per le controversie coinvolgenti posizioni di diritto soggettivo, le quali possono godere di una protezione immediata ed ante causam (87). Dall’altro, il Tar remittente ha evidenziato come la norma da ultimo citata, secondo l’interpretazione del Consiglio di Stato, si opponga al riconoscimento di poteri cautelari in capo al presidente dell’organo giurisdizionale amministrativo, con ciò compromettendo seriamente la possibilità di un tempestivo intervento a tutela della posizione soggettiva azionata dal ricorrente (88). Le speranze per una chiara soluzione delle questioni poste dalla ordinanza del giudice a quo sono state in un primo tempo deluse dalla Corte costituzionale la quale, preso atto delle importanti novità introdotte dalla l. 21 luglio 2000 n. 205 di riforma del processo amministrativo nel frattempo approvata dal Parlamento, ha preferito ordinare la restituzione degli

mità costituzionale dell’art. 700 c.p.c., avuto riguardo agli artt. 3, 24 e 113 Cost., per l’ipotesi in cui possa ritenersi che l’ambito di applicazione dell’articolo in parola risulti circoscritto alla sola area dei diritti soggettivi. (87) Nella ordinanza in esame, il Tar Lombardia osserva che all’art. 700 c.p.c. deve essere riconosciuto il ruolo di « norma di chiusura », consentendone l’applicabilità anche all’area degli interessi legittimi. Tanto più, osserva il giudice a quo, che anche in sede comunitaria la tradizionale dicotomia tra diritti soggettivi ed interessi legittimi assume un rilievo recessivo, e non è ragionevole fondare su di essa alcuna discriminazione nella protezione delle situazioni soggettive lese dall’azione amministrativa. (88) In dottrina (cfr. C.E. GALLO, Alla Corte costituzionale il problema della possibilità di provvedimenti cautelari ante causam nel processo amministrativo, cit., 859) si è evidenziato che l’introduzione nel processo amministrativo della tutela cautelare innominata, per effetto della sentenza della Corte cost., 28 giugno 1985, n. 190, cit., costituisce una innovazione, anche dal punto di vista processuale. In tal senso, il riconoscimento della possibilità di adottare provvedimenti cautelari innominati non può andare disgiunto dalla previsione di uno specifico potere del presidente dell’organo giudicante di accordare misure cautelari provvisorie. Per altro verso, è stato osservato che il principio della centralità del collegio nel processo amministrativo — cui è collegata l’importanza riconosciuta alla udienza e, più in generale, alla oralità del processo amministrativo — abbia col tempo perduto gran parte della sua rilevanza, in corrispondenza con la sensibile riduzione del tempo dedicato alle udienze ed alla trattazione orale del giudizio.


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atti al giudice a quo, affinché valutasse la perdurante rilevanza della questione (89). 4. Il modello di tutela d’urgenza delineato dalla legge di riforma del processo amministrativo presenta non pochi elementi che a prima vista potrebbero avere qualche attinenza con lo schema della tutela cautelare ante causam prospettato nelle pronunce appena richiamate. Segnatamente, l’espresso riconoscimento del potere del presidente del tribunale amministrativo regionale o della sezione cui il ricorso è assegnato di disporre « misure provvisorie », per i casi di « estrema gravità ed urgenza » che non consentono alcuna dilazione (art. 21, comma 9, l. n. 1034 del 1971), sembrerebbe avere rimosso uno dei principali ostacoli all’operatività del meccanismo di tutela ante causam (90). In tal senso, la posizione di chiusura nei confronti della tutela cautelare preventiva, espressa anche di recente dalla richiamata giurisprudenza del Consiglio di Stato, non potrebbe più fare leva sull’assenza di specifici poteri presidenziali in materia cautelare, atteso che l’adozione di provvedimenti cautelari con pronuncia monocratica è ora espressamente sancita dal nuovo testo dell’art. 21, l. n. 1034 del 1971 (91). L’introduzione del potere presidenziale è inoltre accompagnata dalla previsione secondo cui la richiesta di misure provvisorie può essere formulata dal ricorrente anche con « separata istanza ». Ora, è necessario soffermarsi sul significato dell’espressione impiegata dalla disposizione in esame, al fine di chiarire se con « separata istanza » il legislatore abbia inteso alludere ad una richiesta che sia presentata anteriormente all’instaurazione del giudizio. (89) Corte cost., ord. 23 novembre 2000, n. 536, in Giur. cost., 2000, 4185 ss. (90) R. GAROFOLI, La tutela cautelare degli interessi negativi, cit., 863, osserva che con la disposizione in esame è stato sfatato « [...] il dogma della necessaria collegialità delle pronunce del giudice amministrativo, ma senza intaccare l’assunto della non esportabilità nel processo amministrativo di una tutela cautelare preventiva o ante causam [...] ». (91) M. SANINO, Il processo cautelare, cit., 270 ss.


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Secondo una prima interpretazione, con la formulazione in parola la l. n. 205 del 2000 avrebbe introdotto nel processo amministrativo la dicotomia, presente nel giudizio civile, tra tutela cautelare ante causam e tutela cautelare in corso di causa (92). In tale giudizio è noto che la richiesta di misure cautelari possa essere avanzata ancora prima dell’inizio della causa mediante ricorso indirizzato al giudice competente a conoscere il merito (art. 669-sexies c.p.c.). Il ricorrente, in caso di accoglimento della richiesta di misure cautelari, è in seguito tenuto a dare avvio al giudizio principale entro un termine perentorio, non superiore a trenta giorni, fissato dal giudice (art. 669-octies c.p.c.), pena la perdita di efficacia del provvedimento cautelare (art. 669-nonies c.p.c.) (93). Seguendo la tesi esposta, il ricorrente avrebbe in sostanza a disposizione due modalità di accesso alla tutela cautelare, potendo scegliere se avanzare la relativa domanda nell’ambito dello stesso ricorso introduttivo, oppure, prima dell’introduzione del giudizio, con una « separata istanza » da notificare alle controparti. A ben vedere, la soluzione interpretativa richiamata presenta più di una zona d’ombra che la rende difficilmente percorribile all’interno del giudizio amministrativo. Invero, anche prescindendo dall’assenza nella disposizione in commento di chiare indicazioni circa il futuro giudizio che il ricorrente sarebbe tenuto ad instaurare, a pena dell’immediata perdita di efficacia delle misure cautelari ottenute (94), va rilevato che l’art. 21, comma 9, l. n. 1034 del 1971 ha inteso consentire l’esame anticipato, rispetto all’udienza in camera di consiglio, della domanda cautelare avanzata con il ricorso introduttivo del giudizio, ovvero proposta con una successiva istanza (95). In tale prospettiva, la richiesta di misure cautelari provvisorie presuppone la presentazione del ricorso (92) La tesi è stata sostenuta in dottrina da R. DEPIERO, Commento all’art. 3 (Disposizioni generali sul processo cautelare), in V. ITALIA, La giustizia amministrativa. Commento alla L. 21 luglio 2000, n. 205, Milano, 2000, 69 ss. (93) Sulle misure cautelari nel processo civile cfr. G. VERDE, Profili del processo civile, III, Napoli, 1998, 325 ss. (94) In tal senso E. FOLLIERI, La fase cautelare, in F.G. SCOCA (a cura di), Giustizia amministrativa, cit., 353. (95) M.P. CHITI, La tutela cautelare ante causam nel processo amministrativo, cit., 902 il quale rileva che la modifica introdotta dall’art. 3, l. n. 205 del 2000 ha nella


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giurisdizionale e non può in alcun modo prescindere dalla formale costituzione del rapporto processuale (96). D’altro canto, è pur vero che dinanzi alla previsione contenuta nella norma in esame — secondo cui è in facoltà del ricorrente decidere se avanzare la richiesta di misure cautelari provvisorie con un’istanza separata, ovvero contestualmente alla domanda cautelare — la locuzione « separata istanza » potrebbe essere intesa come richiesta presentata anteriormente al ricorso principale. Tuttavia, cosı̀ interpretata, la disposizione introdotta dalla legge di riforma male si armonizzerebbe con la disciplina dettata per l’instaurazione del giudizio cautelare. Invero, stando alle regole poste dall’art. 36 del r.d. n. 642 del 1907, non modificate sul punto dalla legge di riforma, la domanda cautelare, laddove non sia proposta contestualmente al ricorso introduttivo, può essere avanzata con separata istanza, contemporanea o successiva, che va notificata all’amministrazione e alle controparti, e depositata nella segreteria dell’organo giudicante. L’art. 36, cit. ha cura di precisare che detta istanza è « diretta alla sezione giurisdizionale a cui fu presentato il ricorso ». Anche la domanda cautelare proposta con atto separato dal ricorso introduttivo conserva la natura di domanda incidentale, essendo pur sempre necessaria la notificazione e il deposito del ricorso principale. Ora, posto che il testo dell’art. 21, comma 9, l. n. 1034 del 1971 non ha inteso derogare alla regola appena illustrata, il ricorrente, per poter accedere alla tutela monocratica d’urgenza, deve avere già avanzato l’istanza cautelare, cosicché la concessione di misure cautelari sostanza reso possibile ottenere una tutela ad horas, anche nelle fasi intermedie alle camere di consiglio fissate per la trattazione delle istanze cautelari; L. LOSA, Art. 3 (Disposizioni generali sul processo cautelare) in Commentario alla l. 21 luglio 2000, n. 205, a cura di A. TRAVI, in Nuove leggi civili, 2001, 597. (96) Tar Piemonte, Sez. I, 26 giugno 2002, n. 1292, in Foro amm.-Tar, 2002, 1878, ha chiarito che non è consentito chiedere la sospensione di un atto amministrativo al di fuori dell’ordinario processo di impugnazione; Tar Veneto, Sez. II, ord. 12 gennaio 2001, n. 13, in Foro amm., 2001, 1259, ha precisato che la separata istanza indirizzata al presidente del tribunale o della sezione, volta ad ottenere la pronuncia di misure cautelari provvisorie, deve necessariamente inerire ad un ricorso introduttivo del giudizio e va in ogni caso notificata alle controparti.


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provvisorie di cui all’art. 21, comma 9, l. n. 1034 del 1971 presuppone la previa proposizione del ricorso introduttivo (97). È possibile peraltro ricavare un ulteriore significativo argomento testuale a sostegno della lettura proposta, soffermandosi sulla prima parte del comma in esame, dove si precisa che il ricorrente può avanzare domanda di misure cautelari provvisorie, « prima della trattazione della domanda cautelare », in ogni caso in cui l’urgenza di provvedere non consenta « neppure la dilazione fino alla data della camera di consiglio ». Il riferimento alla trattazione della domanda cautelare può essere interpretato nel senso che, al momento della richiesta di misure provvisorie, la domanda cautelare ed il ricorso introduttivo sono già stati presentati. Allo stesso modo, il richiamo alla camera di consiglio finalizzata all’esame collegiale dell’istanza cautelare presuppone l’avvenuta fissazione della relativa udienza, per effetto del deposito da parte del ricorrente del ricorso principale e della domanda cautelare (quest’ultima può essere avanzata contestualmente al ricorso (98), ovvero con separata istanza notificata alle controparti (99)). (97) In tal senso A. TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, cit., 261, il quale rileva che la tutela cautelare monocratica ha sempre carattere incidentale e si svolge nell’ambito di un giudizio instaurato con il ricorso principale. Una tutela anteriore all’introduzione del giudizio non è ammessa innanzi al giudice amministrativo, neppure per le controversie in materia di diritti soggettivi. V. CAIANIELLO, Manuale di diritto processuale amministrativo, cit., 736, il quale precisa che la tutela prevista dall’art. 21, comma 9, l. n. 1034 del 1971 non è una tutela ante causam, in quanto la causa è già stata instaurata con il deposito del ricorso presso la segreteria del tribunale. C.E. GALLO, Manuale di giustizia amministrativa, Torino, 2001, 174 ss., il quale osserva che la l. n. 205 del 2000 non introduce poteri presidenziali ante causam, ma prevede la possibilità di disporre misure cautelari provvisorie prima della camera di consiglio fissata per la decisione dell’istanza cautelare. Per tale ragione, l’istituto della tutela ante causam rimane ancora estraneo al processo amministrativo. E. FOLLIERI, La fase cautelare, in F.G. SCOCA (a cura di), Giustizia amministrativa, cit., 352 ss., il quale rileva che il provvedimento adottato dal presidente ai sensi dell’art. 21, comma 9, l. n. 205 del 2000 presuppone la pendenza della lite e non integra una tutela ante causam. (98) È facile immaginare che nella maggioranza dei casi la richiesta di misure cautelari provvisorie sia avanzata già con il ricorso introduttivo del giudizio. La lettera della legge non esclude peraltro che la stessa sia proposta con atto successivo al ricorso, contestualmente alla domnda cautelare, ovvero, infine, con una separata istanza che segue l’atto contenente la domanda cautelare. (99) A. PANZAROLA, Il processo cautelare, cit., 61, nota 153, evidenzia l’ulteriore circostanza che, nel modello di tutela cautelare monocratica delineato dal legislatore, la


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Parimenti, non priva di effetti appare la precisazione secondo cui la domanda in esame deve essere rivolta al presidente del tribunale amministrativo regionale o della « sezione cui il ricorso è assegnato », lasciando cosı̀ intendere che al momento dell’esame da parte del presidente della richiesta di misure provvisorie il giudizio di merito sia già instaurato con la notifica ed il deposito del ricorso introduttivo presso la segreteria dell’organo giudicante (100). Un terzo profilo da evidenziare nella nuova formulazione dell’art. 21, comma 9, l. n. 1034 del 1971 concerne la previsione secondo cui il presidente del tribunale amministrativo provvede sull’istanza cautelare « anche in assenza di contraddittorio ». Si è già in precedenza chiarito come con la formulazione in esame il legislatore non abbia inteso affatto consentire al ricorrente di prescindere dalla previa notifica dell’istanza all’amministrazione resistente e ai controinteressati (101), ma abbia semplicemente precicamera di consiglio finalizzata all’esame collegiale delle misure cautelari provvisorie rese con decreto segue automaticamente senza soluzione di continuità il provvedimento assunto dal presidente e senza che sia necessario alcun atto di impulso da parte del ricorrente. Tale dato lascia intendere che, al momento della richiesta di misure provvisorie, il ricorso introduttivo e la relativa domanda cautelare siano già stati presentati. (100) A questo riguardo un certo rilievo è stato attribuito alla qualificazione, da parte della norma in esame, dell’istante come « ricorrente »: in tal modo è ulteriormente ribadito che la richiesta dell’intervento presidenziale può essere avanzata solo da chi, per avere notificato e depositato l’atto introduttivo del giudizio, ha assunto la veste formale di ricorrente. Sul punto si veda E. DI PALMA, Tutela cautelare ante causam e giudice amministrativo: un problema che sembrava risolto, in questa Rivista, 2002, 164 ss.; R. GAROFOLI, M. PROTTO, Tutela cautelare monitoria e sommaria, cit., 199; F. CARINGELLA, G. DE MARZO, F. DELLA VALLE, R. GAROFOLI, La nuova giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, cit., 642. Di contrario avviso è B. SASSANI, Intervento all’incontro di studio sulla Nuova tutela cautelare nel processo amministrativo, Roma, 18 maggio 2001, in http://www.lexitalia.it, il quale rileva che nulla impedisce di leggere il termine « ricorrente » come colui che, pur non avendo ancora proposto il ricorso, ha tuttavia intenzione di introdurre il giudizio di merito a seguito della presentazione dell’istanza cautelare. (101) Secondo C.E. GALLO, Presidente e collegio nella tutela cautelare: novità e prospettive nella disciplina della disciplina della legge n. 205 del 2000, in http://www. giustizia-amministrativa.it, la previsione della possibilità per il presidente di provvedere anche in assenza di contraddittorio deve essere interpretata nel senso di consentire al ricorrente, in determinate ipotesi (ad esempio quando il controinteressato risiede all’estero o in una parte del territorio nazionale distante dalla sede del tribunale compe-


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sato che la decisione del presidente possa essere assunta anche se non sono state previamente convocate le controparti in un’apposita udienza (102). In tal senso, l’audizione delle parti rappresenta una mera facoltà per il presidente. Egli è autorizzato dalla norma ad assumere misure cautelari provvisorie senza avere previamente sentito le parti (103). Va dunque posto in rilievo come l’obbligo della notifica dell’istanza all’amministrazione resistente ed ai controinteressati, differenzi sensibilmente il modello di tutela introdotto dalla l. n. 205 del 2000 rispetto al giudizio cautelare civile: infatti, in quel giudizio il decreto cautelare è pronunciato in assenza di contraddittorio, senza che la controparte sia resa edotta, attraverso la notificazione del ricorso, della richiesta avanzata dal ricorrente, essendo la relativa istanza presentata direttamente al giudice. Al contrario, nel processo amministrativo, l’instaurazione del contraddittorio, con la notifica dell’istanza alle altre parti, costituisce una condizione per la pronuncia del decreto presidenziale. Non a caso, in dottrina si è correttamente osservato che la locuzione impiegata dal legislatore risulta imprecisa quando definisce il provvedimento adottato dal presidente come decreto pronunciato anche in assenza di contraddittorio (104). In realtà, il contraddittorio tente a decidere sulla domanda), di prescindere dall’integrale rispetto delle regole poste a tutela del contraddittorio. In particolare, in presenza di tali circostanze, il ricorrente andrebbe sollevato dall’onere di dimostrare che l’atto notificato sia effettivamente giunto al destinatario, richiedendosi, perché l’obbligo di notificazione possa dirsi adempiuto, la prova della sua consegna agli ufficiali giudiziari per la notificazione. Secondo l’A., la soluzione proposta garantirebbe un intervento immediato del presidente, anche nel caso di notificazione in luogo assai distante dalla sede del tribunale adito. (102) G. VIRGA, Nota a Tar Sicilia, Catania, Sez. II, d. presidenziale 4 maggio 2002 n. 997, in http://www.lexitalia.it, rileva che l’assenza di contraddittorio di cui parla la norma deve essere intesa nel senso che le misure cautelari provvisorie possono essere adottate dal presidente anche se le parti intimate non si siano costituite, e non già anche nel caso in cui queste non siano state intimate mediante la notifica dell’istanza. (103) F. CINTIOLI, Osservazioni sul nuovo processo cautelare amministrativo, in Urb. e app., 2001, 244, evidenzia l’opportunità che il presidente conceda una « chance difensiva » alle controparti convocandole davanti a sé, prima di adottare il decreto, in tutti i casi in cui ciò sia possibile. (104) V. CAIANIELLO, Manuale di diritto processuale amministrativo, cit., 738; F. CINTIOLI, Osservazioni sul nuovo processo cautelare amministrativo, cit. 243 ss.


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è assicurato, poiché l’istanza di misure cautelari provvisorie deve essere in ogni caso notificata alle controparti (105). 5. La considerazione delle rilevanti opportunità offerte dal nuovo modello di tutela cautelare d’urgenza delineato dalla legge di riforma del processo amministrativo sembra essere all’origine dell’atteggiamento di prudenza assunto dalla Corte costituzionale nella ricordata ord. n. 536 del 2000. Con tale pronunzia il giudice delle leggi ha inteso rinviare la verifica concernente il tasso di effettività del modello di tutela cautelare delineato per il processo amministrativo e l’esistenza di possibili lacune al suo interno ad un raffronto con le novità introdotte dalla l. n. 205 del 2000. In realtà, il problema della conformità ai principi costituzionali della mancata previsione nel processo amministrativo della tutela cautelare ante causam non ha tardato a ripresentarsi allorquando, dall’esame delle disposizioni della legge di riforma, è emerso come il nuovo assetto del giudizio cautelare, nonostante le importanti modifiche apportate alla disciplina previgente, non presentasse ancora significativi elementi per ritenere che tale forma di tutela avesse fatto ingresso nell’ordinamento (106). La Corte costituzionale è stata dunque nuovamente investita della questione con l’ordinanza presidenziale del Tar Lombardia, 15 febbraio 2001, n. 1 (107). I profili di illegittimità costituzionale (105) E. FOLLIERI, La fase cautelare, in F.G. SCOCA (a cura di), Giustizia amministrativa, cit., 353, il quale riconosce che nel giudizio amministrativo, a differenza di quanto previsto dalla disciplina del processo civile, le controparti vengono avvertite della richiesta di misure cautelari provvisorie avanzata dal ricorrente: « Da questo punto di vista, la altera pars è posta nelle condizioni di conoscere e può farsi audire dal presidente, anche se con un contraddittorio non pieno, data la ristrettezza dei tempi »; A. PANZAROLA, Il processo cautelare, cit., 58. (106) In tal senso M. ROSSI SANCHINI, La tutela cautelare, cit., 4524, il quale rileva come, nonostante l’introduzione ad opera della l. n. 205 del 2000 dei decreti presidenziali, non abbia ancora trovato soluzione legislativa il problema dell’ammissibilità nel processo amministrativo di strumenti di tutela cautelare ante causam. (107) Tar Lombardia, Milano, Sez. III, ord. presidenziale 15 febbraio 2001, n. 1, in Urb. e app., 2001, 770 ss., con nota di F.F. TUCCARI, Tutela cautelare preventiva e processo amministrativo riformato: una quérélle ancora irrisolta, in Giust. civ., 2001, I, 1995 ss., con nota di M. D’AMICO, Un’importante questione di costituzionalità sulla tutela ante causam davanti al giudice amministrativo fra le strettoie del giudizio costitu-


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rilevati dal tribunale remittente attengono ancora una volta alla carenza nel processo amministrativo di forme di tutela cautelare che consentano al giudice di provvedere immediatamente a fronte del pericolo per il ricorrente di un pregiudizio grave e non altrimenti riparabile, ed alla conseguente posizione privilegiata riconosciuta alla pubblica amministrazione rispetto al proprio contraddittore (108). Le disposizioni sospettate di illegittimità costituzionale sono, da un lato, l’art. 21, l. n. 1034 del 1971, cosı̀ come novellato dalla l. n. 205 del 2000, nella parte in cui esclude la tutela ante causam e la conseguente applicabilità dell’art. 700 e degli artt. 669 e ss. c.p.c. davanti al giudice amministrativo, in relazione agli artt. 24 e 113 Cost., ed avuto anche riguardo agli artt. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Dall’altro, la questione involge l’art. 700 c.p.c., laddove espressamente prevede che la tutela cautelare ante causam sia accordabile ai soli diritti soggettivi e non anche agli interessi legittimi, in relazione agli artt. 24 e 113 Cost. L’ordinanza di remissione — dopo avere richiamato l’orientamento del Consiglio di Stato attestato su posizioni di chiusura in merito all’estensione o all’applicazione analogica degli artt. 669bis e 700 c.p.c. al processo amministrativo ed, in definitiva, ostile all’ingresso in tale giudizio di forme di tutela cautelare indipendenti dalla proposizione del ricorso principale (109) — si sofferma sui principi posti a livello comunitario dalla direttiva genezionale incidentale, in questa Rivista, 2002, 143 ss., con nota di E. DI PALMA, Tutela cautelare ante causam, cit. (108) Il Tar riconosce che la questione di legittimità costituzionale sollevata con la precedente ordinanza si presenta ancora attuale poiché « [...] pur davanti ad un obiettivo irrobustimento sul piano temporale e qualitativo delle nuove misure cautelari introdotte, la tutela siffattamente disciplinata, presupponendo la notifica ed il deposito del ricorso in sede giurisdizionale, resta pur sempre qualificabile come un intervento post causam e non già ante causam ». (109) Sotto tale profilo, il Tar rileva come tanto la giurisprudenza quanto la dottrina abbiano dato una lettura riduttiva della citata pronuncia della Corte cost., 28 giugno 1985, n. 190. Una maggiore valorizzazione dei principi affermati in tale importante sentenza additiva, avrebbe invece consentito l’adozione di provvedimenti ante causam, quanto meno per la tutela dei diritti e degli interessi affidati alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Per altri versi, è mancata un’adeguata considerazione della


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rale ricorsi (dir. n. 665/1989/CEE). Il giudice a quo evidenzia come l’interpretazione data dal legislatore nazionale al principio di effettività della tutela giurisdizionale in materia di appalti pubblici di lavori, servizi e forniture appaia assai riduttiva, in quanto solo con l’adozione di « forme di tutela il più rapide ed efficaci possibili » il ricorrente è messo al riparo dagli effetti pregiudizievoli di una procedura ad evidenza pubblica illegittima. Invero, il risarcimento del danno che venisse in seguito riconosciuto potrebbe risultare inidoneo ad assicurare una reintegrazione piena (110). Degno di nota è altresı̀ il richiamo ai modelli vigenti in altri ordinamenti europei, dove da tempo sono previste forme di tutela anticipata ed indipendenti dall’introduzione del giudizio (111). La Corte costituzionale si è pronunciata sulle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tar Lombardia con ord. 10 maggio 2002, n. 179 (112). Un primo rilevante profilo esaminato dalla Corte concerne la riferita possibilità di colmare le lacune presenti nella disciplina sul processo amministrativo mediante un’applicazione analogica delle disposizioni dettate dal codice di procedura civile. Al riguardo, l’argomentazione seguita nell’ordinanza in esame risulta alquanto articolata ed induce preliminarmente la Corte ad interrogarsi sull’esistenza di un obbligo del legislatore di osservare regole unidisposizione dell’art. 669-quaterdecies c.p.c., che regola l’ambito di applicazione delle disposizioni sui procedimenti cautelari dettate dal codice di rito. (110) Il Tar remittente ha cosı̀ concluso che il mancato adeguamento dell’ordinamento nazionale ai principi posti dalle richiamate direttive espone il nostro paese al rischio dell’avvio a suo carico di un procedimento di infrazione da parte della Commissione europea. (111) L’ordinanza menziona il modello francese del referé e quello previsto nell’ordinamento processuale amministrativo tedesco, applicabile tanto alla tradizionale azione di annullamento, quanto ad ogni altra azione proponibile innanzi al giudice amministrativo (ivi compresa la Verpflichtungsklage o azione di adempimento). Su tali modelli cfr. D. DE PRETIS, Il processo amministrativo in Europa, Trento, 2000. (112) Corte cost., ord. 10 maggio 2002, n. 179, in Urb. e app., 2002, 791 ss., con nota di D. DE CAROLIS, Tutela cautelare « ante causam » nel processo amministrativo: la Corte Costituzionale mette fine al dibattito?, in Giur. cost., 2002, 1442 ss., in Giur. it., 2003, 17 ss., con nota di V. VANACORE, Corte costituzionale, diritto comunitario e Convenzione europea dei diritti dell’uomo: una diffıcile convivenza in materia di norme processuali.


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formi per i due tipi di giudizio. Sul punto, il giudice delle leggi riconosce al legislatore la libertà di adottare norme processuali differenziate per il processo amministrativo, non essendo tenuto, nella sua discrezionalità, ad osservare una uniformità tra i diversi tipi di giurisdizioni e di riti procedimentali. L’ordinanza in commento conferma la tendenziale autonomia del sistema processuale amministrativo rispetto a quello civile e, sulla scorta di principi già ribaditi in precedenti pronunce (113), identifica nella « non manifesta irragionevolezza o non palese arbitrarietà » il limite generale al potere del legislatore di adottare soluzioni processuali differenziate per i diversi tipi di giurisdizioni. L’ordinanza si sofferma inoltre sul modello di tutela previsto per la giustizia amministrativa, alla luce delle recenti modifiche introdotte dalla legge di riforma del processo amministrativo, riconoscendo che i profili di tempestività e effettività della tutela, anche cautelare, sono pienamente garantiti all’interno del giudizio amministrativo (114). In particolare, la Corte sottolinea la « massima semplicità e flessibilità del mezzo introduttivo dei giudizi amministrativi » che consente al ricorrente, anche avvalendosi del meccanismo dei motivi aggiunti, di azionare agevolmente la propria pretesa davanti al giudice amministrativo (115). La stessa procedura di instaurazione del contraddittorio risulta semplificata dalla possibilità di avvalersi per la notifica dell’atto introduttivo, accanto alla tradizionale consegna materiale a mezzo ufficiale giudiziario, anche degli strumenti alternativi di notificazione in (113) La Corte costituzionale richiama le seguenti pronunce: Corte cost., ord. 24 ottobre 2001, n. 343, in Giur. cost., 2001, 2957 ss.; Corte cost., ord. 4 febbraio 2000, n. 30, in Giur. cost., 2000, 212 ss.; Corte cost., ord. 21 ottobre 1998, n. 359, in Foro it., 1998, I, 3033 ss.; Corte cost., 12 marzo 1998, n. 53, in Cons. St., 1998, II, 338 ss. (114) È stato rilevato da M.P. CHITI, La tutela cautelare ante causam nel processo amministrativo, cit., 903, nota 9, come sia difficile reperire nella giurisprudenza costituzionale ricostruzioni cosı̀ analitiche e puntuali delle disposizioni concernenti le modalità di accesso alla tutela giurisdizionale nel processo amministrativo come quella contenuta nell’ordinanza in esame. (115) Art. 1, comma 1, l. n. 205 del 2000, sostitutivo dell’art. 21, comma 1, l. n. 1034 del 1971.


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tempo reale per via telematica o a mezzo telefax (116). D’altro canto, la possibilità di abbreviazione dei termini per l’instaurazione del contraddittorio (117) e la facoltà di dichiarare urgente il ricorso, anche d’ufficio (118), consentono che l’esame della controversia da parte del collegio avvenga in tempi relativamente brevi. Con specifico riguardo al sistema delle misure cautelari, l’ordinanza in esame evidenzia l’ampia gamma di misure cautelari che il giudice amministrativo può ora emanare, al fine di assicurare interinalmente gli effetti della decisione del ricorso (119), nonché il potere riconosciuto ora al presidente del tribunale di adottare, in caso di estrema gravità ed urgenza, misure cautelari interinali con efficacia limitata alla pronuncia collegiale (120). In sede di camera di consiglio fissata per l’esame della domanda cautelare, il collegio può infine definire il giudizio di merito con una decisione in forma semplificata (121). Altra importante precisazione contenuta nella motivazione dell’ordinanza attiene ai profili di instaurazione del contraddittorio nella procedura cautelare per decreto. La Corte nega che il modello di tutela cautelare provvisoria delineato dalla legge di riforma del processo amministrativo legittimi l’adozione di misure cautelari anteriormente alla proposizione di un ricorso giurisdizionale (122). Essa si mostra peraltro sensibile alle esigenze di speditezza legate a tale forma di tutela e, valorizzando adeguata(116) Art. 12, l. n. 205 del 2000 e art. 151 c.p.c. (117) Artt. 20 e 36, r.d. n. 642 del 1907. (118) Artt. 51, comma 2 e 53, comma 2, r.d. n. 642 del 1907. (119) Art. 3, comma 1, l. n. 205 del 2000, sostitutivo dell’art. 21, comma 8, l. n. 1034 del 1971. (120) Art. 3, comma 1, l. n. 205 del 2000, sostitutivo dell’art. 21, comma 9, l. n. 1034 del 1971. (121) Art. 3, comma 1, l. n. 205 del 2000, sostitutivo dell’art. 21, comma 10, l. n. 1034 del 1971; art. 9, comma 1, l. n. 205 del 2000, sostitutivo dell’art. 26, comma 4, l. n. 1034 del 1971. (122) Sotto tale profilo, l’ordinanza in commento, contrariamente a quanto sostenuto dal Tar remittente, esclude che la sentenza della Corte cost. n. 190 del 1985 abbia introdotto nel giudizio amministrativo « una procedura autonoma di ricorso per provvedimenti di urgenza ante causam ». Detta pronuncia ha invece inciso sui contenuti dei provvedimenti cautelari che non si identificano più con la semplice sospensione, ma


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mente la previsione che autorizza il presidente a decidere « anche in assenza di contraddittorio », riconosce che il giudice possa pronunciarsi sull’istanza di misure cautelari provvisorie, una volta accertato l’avvenuto deposito del ricorso introduttivo, anche se non ancora « completato con la prova di tutte le notifiche ». Resta peraltro inteso che la tutela cautelare monocratica presenta carattere incidentale ed è successiva all’impugnazione del provvedimento amministrativo. Alla luce delle considerazioni svolte, la Corte ha escluso che il sistema delle misure cautelari vigente nel processo amministrativo conservi una posizione privilegiata alla pubblica amministrazione, concludendo per la manifesta infondatezza delle questioni prospettate dal Tar remittente. 6. Uno dei profili che la Corte costituzionale ha contribuito maggiormente a porre in risalto con la citata ord. n. 179 del 2002 è rappresentato dalla tendenziale autonomia del modello di tutela cautelare vigente per il processo amministrativo, rispetto a quello riferibile al giudizio civile. L’ordinanza in parola ha escluso la possibilità di estendere o di applicare per analogia al giudizio amministrativo istituti propri del processo civile, in tutti i casi in cui la disciplina dettata per il processo amministrativo offra un adeguato livello di protezione alle posizioni soggettive fatte valere in giudizio. Sotto tale profilo, anche in dottrina si è evidenziata l’opportunità che un’attenta verifica della disciplina specifica prevista per il processo amministrativo accompagni ogni ipotesi di estensione a tale giudizio di istituti e principi concepiti espressamente per il processo civile (123). Al riguardo, sembra ragionevole affermare che il terreno di comprendono ora ogni misura cautelare che appaia idonea ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito. (123) N. SAITTA, I provvedimenti monocratici, cit., 51, il quale evidenzia come la legge processuale amministrativa non contempli una disposizione del tenore analogo a quella che, con riferimento ai giudizi che si svolgono innanzi alla Corte dei Conti, prevede un generale rinvio alla disciplina dettata per il giudizio civile (art. 26, r.d. 13 agosto 1933, n. 1038).


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elezione per operazioni ermeneutiche di tale specie sia rappresentato dai quei settori in cui, da un lato, la disciplina dettata dal legislatore appare lacunosa (124), dall’altro, ci si trova dinanzi ad istanze di tutela che rischiano di restare senza risposta e giustificano l’applicazione di istituti di fonte processualcivilistica (125). Ora, se si pone mente alla disciplina del rito cautelare introdotta dalla l. n. 205 del 2000 è possibile accorgersi di come il legislatore sia intervenuto sulla normativa preesistente con il preciso intento di delineare un quadro della fase cautelare che fosse il più possibile esaustivo ed articolato. In molti casi, la disciplina posta dalla novella ha comportato il recepimento di orientamenti (124) N. SAITTA, I provvedimenti monocratici, cit., 51, osserva che l’applicazione in via analogica al giudizio amministrativo di istituti e modelli del processo civile — possibile nei casi in cui questi risultino compatibili con i principi generali che informano l’ordinamento processuale del giudice amministrativo — non possa prescindere da un’attenta considerazione dell’assetto dato dal legislatore ai diversi istituti del processo amministrativo. Invero, solo l’esistenza di lacune all’interno di quel sistema giustifica un’eventuale integrazione con le disposizioni dettate per il processo civile. (125) A tale applicazione ha fatto ricorso una parte della giurisprudenza, anteriormente alla entrata in vigore della l. n. 205 del 2000, per la tutela dei crediti pecuniari, nelle controversie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. In alcune decisioni, si è rinvenuta la fonte del potere del giudice di pronunciare ingiunzioni di pagamento nello stesso art. 21, l. n. 1034 del 1971, interpretato quale norma che attribuisce un generale potere cautelare, il cui contenuto si determina anche attingendo a strumenti di protezione propri del processo civile: Tar Calabria, Reggio Calabria, 17 dicembre 1999, n. 1871, in Ragiusan, 2000, f. 195-196, 211 ss.; Tar Sicilia, Palermo, Sez. I, ord. 9 giugno 1999, n. 1120, in Rass. giur. farm., 1999, f. 53, 99 ss.; Tar Campania, Napoli, Sez. I, ord. 9 giugno 1999, n. 2513, in Rass. giur. farm., 1999, f. 53, 98 ss.; Tar Calabria, Reggio Calabria, ord. 24 marzo 1999, n. 184 in Urb. e app., 1999, 539 ss., con nota di F. CARINGELLA, Misure cautelari, procedimenti sommari e giurisdizione esclusiva del G.A. Altre pronunce hanno invece fatto ricorso ad un’applicazione analogica di istituti e principi del processo civile: Tar Sicilia, Catania, Sez. III, ord. 8 novembre 1999 n. 2392, in Urb. e app., 2000, 50 ss., con nota di M. DE PALMA, Giurisdizione esclusiva del G.A., cit.; Tar Sicilia, Catania, ord. 26 ottobre 1999, n. 2278, in Rass. giur. farm., 2000, f. 56, 12 ss.; Tar Veneto, Sez. I, ord. 9 marzo 1999 n. 356, in Foro amm., 2000, 540; Tar Lazio, Sez. I, ord. 10 dicembre 1998, n. 3444, in Giur. it., 2000, 637 ss., con nota di A. CARRATTA, Giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art. 33 d.lgs. n. 80 del 1998 e tutela sommaria anticipatoria. In dottrina, una posizione favorevole all’integrazione tra i principi posti dal codice di procedura civile e quelli che reggono la giustizia amministrativa è espressa da A. TRENTINI, Commento all’art. 3, l. 21 luglio 2000, n. 205, in A. SCOLA, A. TRENTINI, Il nuovo processo amministrativo, Rimini, 2002, 60.


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affermatisi in sede giurisprudenziale; ovunque l’obiettivo è stato quello di fare delle nuove norme un imprescindibile punto di partenza nella soluzione delle questioni che si sarebbero di volta in volta presentate nella concreta applicazione delle misure. Cosı̀, con specifico riguardo al tema della tutela d’urgenza, il legislatore ha introdotto i nuovi poteri presidenziali ed ha forgiato un nuovo tipo di procedimento finalizzato all’adozione di particolari misure cautelari provvisorie, delle quali ha precisato l’efficacia ed i presupposti per la emanazione. In tale prospettiva, pare potersi affermare che se i tentativi di estendere o applicare analogicamente al processo amministrativo gli artt. 669-bis e 700 c.p.c. potevano apparire azzardati prima dell’approvazione della legge di riforma del processo amministrativo, oggi — in presenza di un quadro normativo indubbiamente più articolato e, soprattutto, idoneo a rivelare un chiaro orientamento del legislatore con riferimento al tema della ammissibilità della tutela cautelare preventiva nel processo amministrativo — risulta assai arduo giustificare detti interventi, richiamandosi ad esigenze di completezza dell’ordinamento processuale. Sennonché, la soluzione delineata dal legislatore all’art. 21, l. n. 1034 del 1971, nel comma nove riformato, nega per ora accesso nel giudizio amministrativo alle misure cautelari ante causam — come si desume peraltro dalla stessa relazione di accompagnamento al disegno di legge dal quale è derivata la l. n. 205 del 2000 (126) — ed accoglie, invece, una diversa forma di tutela che si esprime in provvedimenti interinali urgenti, adottati con la forma del decreto monocratico, e che presuppongono l’avvenuta instaurazione del giudizio principale. Per tale via, la tesi dell’applicazione analogica della tutela ante causam potrebbe sostenersi (126) Appare significativo il passo della relazione di accompagnamento al d.d.l. di riforma del processo amministrativo (riportato in F.F. TUCCARI, Tutela cautelare preventiva e processo amministrativo riformato, cit., 773, nota 19) in cui si afferma: « La Commissione ha, peraltro, ritenuto eccessivo, nell’attuale modulo organizzatorio della giustizia amministrativa, introdurre, come da alcuni autorevolmente proposto, la possibilità di una tutela ante causam e tuttavia opportuno introdurre, a valle della proposizione del ricorso, almeno la possibilità di provvedimenti interinali urgenti nella forma monocratica del decreto in attesa dell’esame cautelare da parte del collegio ».


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anche nel vigore delle nuove norme, stante la perdurante assenza nel giudizio amministrativo di un meccanismo di tutela cautelare preventivo, affine a quello previsto per il processo civile (127). A ben vedere, un corretto approccio al tema impone di considerare la disposizione in parola nel contesto in cui è collocata, valutando attentamente i rapporti con le altre disposizioni poste dalla l. n. 205 del 2000. In tale ottica, non potrà sfuggire, in primo luogo, come la l. n. 205 del 2000 abbia espressamente previsto all’art. 8, comma 1, una particolare forma di tutela preventiva, per le controversie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo aventi ad oggetto diritti soggettivi di natura patrimoniale, e non abbia disposto altrettanto per la fase cautelare, posto che la disciplina introdotta dall’art. 3 non consente di ricavare alcuna prerogativa del giudice amministrativo, anteriormente all’instaurazione del giudizio (128). In secondo luogo, acquista particolare rilievo la scelta compiuta dal legislatore all’art. 3 di tipizzare una delle misure cautelari che il giudice amministrativo può adottare, richiamando espressamente « l’ingiunzione a pagare una somma ». Per quel che concerne il primo profilo, l’art. 8, comma 1, l. n. 205 del 2000 ha introdotto nelle controversie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo il procedimento speciale per decreto ingiuntivo (129). A tal fine, la disposizione in (127) Secondo T. AUTIERI, Le misure cautelari provvisorie, in M. DE PAOLIS (a cura di), Il nuovo processo cautelare amministrativo, Rimini, 2002, 139, a seguito della riforma operata dalla l. n. 205 del 2000, l’adozione di provvedimenti cautelari ante causam sarebbe possibile solo attraverso l’applicazione analogica delle norme che disciplinano il giudizio cautelare nel codice di procedura civile. (128) In tal senso E.M. BARBIERI, Diritto comunitario, processo amministrativo e tutela « ante causam », cit., 1290, il quale osserva che « [...] per tutela cautelare ante causam deve intendersi quella che l’organo giudiziario competente può offrire prima della proposizione del ricorso, per cui in tale concetto non può farsi rientrare l’intervento mediante decreto presidenziale previsto ora dall’art. 21 comma 9 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, cosı̀ come novellato dalla legge 21 luglio 2000, n. 205 [...] ». (129) Il comma 2 dell’articolo in commento prevede, inoltre, il potere del tribunale amministrativo di emettere ordinanza di condanna al pagamento di somme non contestate e ordinanza di ingiunzione, ove ricorrano i presupposti di cui agli artt. 186bis e 186-ter c.p.c.


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commento si limita ad un semplice rinvio alla disciplina contenuta nel libro IV, titolo I, capo I del codice di procedura civile, relativa al « procedimento di ingiunzione ». Come è noto, la legge processuale civile consente a chi sia creditore di una somma liquida di danaro o di una determinata quantità di cose fungibili, o a chi abbia diritto alla consegna di una cosa mobile determinata di azionare una particolare forma di tutela caratterizzata dalla possibilità di ottenere in tempi assai brevi la pronuncia di un decreto contenente l’ingiunzione di pagamento o di consegna. Il giudice adito in sede monitoria emette il decreto senza la preventiva audizione della controparte (130) e all’esito di una cognizione sommaria, nella quale si limita ad accertare la presenza dei presupposti di ammissibilità della domanda di ingiunzione. Nell’estendere al giudizio amministrativo il procedimento d’ingiunzione, l’art. 8, l. n. 205 del 2000 precisa che competente a pronunciare il decreto è il presidente del tribunale amministrativo regionale o un magistrato da lui delegato e che l’opposizione si propone con ricorso. L’aspetto che in questa sede preme evidenziare è rappresentato, per un verso, dalla circostanza che il decreto ingiuntivo è emesso inaudita altera parte: il giudizio di opposizione rappresenta infatti una mera eventualità, subordinata all’iniziativa dell’ingiunto, atteso che la conclusione della fase monitoria, con la pronuncia del decreto ingiuntivo è in astratto idonea a definire il giudizio (131). In tal senso, è stata introdotta un’importante deroga al principio che prevede la necessaria integrazione del contraddittorio quale presupposto per la pronuncia del giudice. Per altri versi, nel modello di tutela delineato dalla disposizione in parola, il giudizio a cognizione piena segue l’emissione del de(130) Nel procedimento per ingiunzione l’attuazione del contraddittorio avviene in forma eventuale e differita. Eventuale, in quanto essa è rimessa all’iniziativa della parte intimata, la quale è tenuta ad instaurare entro 40 gg. dalla notifica del decreto ingiuntivo un giudizio di opposizione; differita, in quanto l’attuazione del contraddittorio segue in ogni caso la pronuncia dell’ingiunzione da parte del giudice. (131) Né si dimentichi che nel sistema previsto dal codice di procedura civile, richiamato dalla disposizione in commento, il decreto ingiuntivo può essere emesso anche in forma provvisoriamente esecutiva (art. 642 c.p.c.).


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creto da parte del presidente; la l. n. 205 del 2000 ha cosı̀ previsto una forma di tutela preventiva, sino ad ora estranea al sistema processuale amministrativo (132). Alla luce di quanto appena osservato, sembra trovare conferma la tesi secondo cui quando la legge di riforma del processo amministrativo ha inteso riconoscere al giudice amministrativo specifiche prerogative, anteriormente alla instaurazione del giudizio, ha provveduto espressamente in tal senso, come dimostra il caso della tutela monitoria. Il secondo dei profili sopra richiamati porta invece a considerare l’espressa previsione da parte dell’art. 3, l. n. 205 del 2000 dell’ingiunzione di pagamento quale particolare misura cautelare accordabile dal giudice amministrativo. È da ritenere che la scelta compiuta dal legislatore non sia priva di effetti e contribuisca ulteriormente ad evidenziare come l’adozione di provvedimenti ante causam, nel sistema delineato dalla l. n. 205 del 2000, risulti circoscritto alla tutela monitoria prevista dall’art. 8, l. n. 205 del 2000. In tal senso, il richiamo alla ingiunzione di pagamento, quale possibile contenuto del provvedimento cautelare, vale ancora di più a creare una sorta di incomunicabilità tra la disposizione dell’art. 8 e le altre previsioni relative alla tutela cautelare, ponendo in evidenza che l’ingiunzione di pagamento, quando non è adottata all’esito di un procedimento monitorio, si caratterizza per presupposti autonomi e, soprattutto, è retta da specifiche regole procedimentali — quelle proprie di tutti i provvedimenti cautelari — che non consentono di prescindere dalla previa instaurazione del giudizio principale. La legge di riforma del processo amministrativo ha cosı̀ conservato uno spazio di operatività alla tutela cautelare di tipo ingiuntivo: l’art. 8, l. n. 205 del 2000 ha infatti circoscritto alle controversie devolute alla giurisdizione esclusiva aventi ad oggetto diritti soggettivi di natura patrimoniale la possibilità di emanare decreti ingiuntivi (133), ordinanze di condanna al pagamento di somme non contestate ed ordinanze di ingiunzione, con la con(132) F.F. TUCCARI, Tutela cautelare preventiva e processo amministrativo riformato, cit., 777. (133) Secondo G. SIGISMONDI, Art. 8 (Giurisdizione esclusiva), in Commentario alla l. 21 luglio 2000, n. 205, a cura di A. TRAVI, in Nuove leggi civili, 2001, 644, ap-


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seguenza che la disciplina del procedimento cautelare continua ad essere applicabile, nelle materie non riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, per la tutela delle pretese creditorie a contenuto patrimoniale. Sennonché, anche nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva, l’ingiunzione di pagamento con finalità cautelari potrebbe avere concrete possibilità applicative, in tutti i casi in cui non ricorrano i presupposti per l’accesso alla tutela monitoria (134). Si sono in proposito fatti gli esempi della mancanza del documento scritto necessario per la pronuncia del decreto ingiuntivo (135), del crepare superflua la precisazione secondo cui è consentito chiedere la pronuncia di un decreto ingiuntivo solo nelle controversie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo che abbiano ad oggetto diritti soggettivi di natura patrimoniale: infatti, non sembra possibile estendere il procedimento di ingiunzione al processo amministrativo di impugnazione. Si sofferma sui rapporti tra tutela sommaria cautelare e tutela sommaria non cautelare G. TROTTA, I percorsi processuali nella legge 205/2000, in Foro amm.-Tar, 2002, 298 ss.; G. D’INNELLA, L’evoluzione della tutela sommaria e cautelare nel processo amministrativo, Torino, 2002, 99 ss.; G. MAZZEI, Tutela cautelare e tutela sommaria anticipatoria nella l. n. 205 del 2000, in Foro amm.-Cons. St., 2002, 491 ss.; P. LAZZARA, Tutela cautelare e misure d’urgenza, cit., 1177 ss. (134) Cons. Stato, Sez. VI, ord. 22 gennaio 2002, n. 397, in Foro amm.-Cons. St., 2002, 489 ss., con nota di G. MAZZEI, Tutela cautelare e tutela sommaria anticipatoria, cit.: « [...] la contestuale introduzione nel sistema processuale amministrativo dello stesso procedimento speciale per decreto ingiuntivo proprio del processo civile e delle ordinanze anticipatorie di condanna di cui agli artt. 186-bis e 186-ter c.p.c., non può non incidere in senso riduttivo sui reali spazi di utile e, quindi, effettiva percorribilità del rimedio cautelare a tutela di posizioni creditorie di tipo patrimoniale [...] in particolare, quanto alla materia di giurisdizione esclusiva, la scelta tra l’una e l’altra forma di tutela non può che essere influenzata dalla diversità dei presupposti rispettivamente richiesti per ottenere l’ordinanza ingiuntiva a natura cautelare, da un lato, e il decreto ingiuntivo o l’ordinanza anticipatoria di condanna, dall’altro ». In particolare, è possibile ricorrere alla tutela cautelare, « [...] pur in mancanza dei presupposti richiesti per l’accesso alla forma di tutela sommaria, a condizione che sussista, in uno al presupposto del fumus, anche quello del periculum, destinato a condizionare non solo l’an, ossia la possibilità di accordare la tutela, ma anche il quantum, cioè il contenuto della misura ingiuntiva rilasciata nella sede propriamente cautelare ». Il Consiglio di Stato ha inoltre chiarito che le due forme di tutela si differenziano anche per quel che concerne la funzione: in tal senso, la misura cautelare non ha carattere satisfattivo, ma è finalizzata a salvaguardare il diritto nelle more della decisione di merito. (135) F. CINTIOLI, Osservazioni sul nuovo processo cautelare amministrativo, cit., 241.


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dito privo dei caratteri di liquidità ed esigibilità (136) o, infine, dei casi in cui l’istanza di ingiunzione è preordinata alla tutela di posizioni soggettive di interesse legittimo (137). 7. Se si torna per un istante alla pronuncia n. 179 del 2002 resa dalla Corte costituzionale è possibile accorgersi di come la motivazione adottata dal giudice delle leggi lasci in ombra uno dei profili evidenziati nell’ordinanza di remissione. Si allude alla questione concernente la compatibilità del modello di tutela cautelare vigente nel nostro ordinamento con il diritto comunitario derivato e, in particolare, con le previsioni contenute nella dir. n. 89/665/CEE, concernenti le procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori e forniture. A tale riguardo, la direttiva impone agli Stati membri di garantire che i provvedimenti assunti dalle autorità aggiudicatrici, in violazione del diritto comunitario in materia di appalti pubblici o delle norme nazionali che recepiscono tale diritto, siano oggetto di un ricorso efficace e il più rapido possibile (art. 1, par. 1, dir. n. 89/665/CEE). Segnatamente, con specifico riferimento alle forme di tutela cautelare, la direttiva precisa che gli Stati membri sono tenuti ad assicurare meccanismi di tutela che consentano di ottenere con la massima sollecitudine e con procedura d’urgenza provvedimenti provvisori finalizzati a riparare la violazione o ad impedire che altri danni siano causati agli interessi coinvolti (art. 2, par. 1, lett. a), dir. n. 89/665/CEE) (138). La Corte di giustizia ha avuto modo di precisare la portata (136) Cfr. R. GAROFOLI, M. PROTTO, Tutela cautelare monitoria e sommaria, cit., 374 ss., ove si segnala il caso del procedimento contabile in cui all’assunzione della delibera di impegno di spesa non abbia ancora fatto seguito l’emissione del mandato di pagamento. (137) F. CINTIOLI, Osservazioni sul nuovo processo cautelare amministrativo, cit., 241, che richiama le controversie in materia di finanziamenti e sovvenzioni pubbliche. In argomento anche M. SANINO, Il processo cautelare, cit., 261; R. GAROFOLI, M. PROTTO, Tutela cautelare monitoria e sommaria, cit., 374 ss., ove si menziona l’ipotesi in cui la tutela richiesta non sia semplicemente di condanna ma anche costituiva, prevedendo l’annullamento di provvedimenti amministrativi presupposti. (138) Si veda a tal proposito il terzo considerando della dir. n. 89/665/CEE, ove si sottolinea che l’apertura degli appalti pubblici alla concorrenza comunitaria richiede la predisposizione di mezzi di ricorso efficaci e rapidi in caso di violazione del diritto


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degli obblighi comunitari a partire dalla importante pronuncia resa a conclusione del procedimento per infrazione promosso dalla Commissione, ai sensi dell’art. 226, Trattato CE (già art 169), contro la Repubblica Ellenica per la mancata attuazione della dir. n. 89/665/CEE (139). Secondo il giudice comunitario, gli Stati membri sono tenuti a conferire agli organi competenti a conoscere i ricorsi il potere di adottare qualsiasi provvedimento provvisorio, teso a porre rimedio alle violazioni del diritto comunitario in materia di appalti pubblici o delle norme nazionali che traspongono tale diritto, « indipendentemente da ogni azione previa » (140). In tale ottica, è apparsa insufficiente al fine di garantire una corretta trasposizione della direttiva, la previsione da parte degli ordinamenti nazionali di procedure di sospensione che presuppongano l’esistenza di un ricorso principale per l’annullamento dell’atto amministrativo impugnato (141). Né è possibile attribuire rilievo alla circostanza che la giurisprudenza di uno Stato membro interpreti la normativa nazionale conformemente alla dir. n. 89/665/CEE: infatti, affinché sia garantita la certezza del diritto è necessario che i cittadini possano contare su una « situazione giuridica chiara e precisa, che consenta loro di sapere esattamente quali sono i loro diritti e di farli valere, se del caso, dinanzi ai giudici nazionali » (142). Le argomentazioni sostenute nella sentenza pronunciata concomunitario in materia di appalti pubblici o delle norme nazionali che recepiscano tale diritto. Il quinto considerando della dir. n. 89/665/CEE evidenzia che la brevità delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici impone agli Stati membri di prevedere forme di tutela urgente che consentano di correggere rapidamente le violazioni commesse. (139) Corte giust. CE, 19 settembre 1996 (in causa C-236/1995), Comm. Ce C. Gov. Grecia, cit. (140) Punto 11 della motivazione. (141) A questo proposito, la normativa greca esaminata dalla Corte di giustizia da un lato limita la tutela giurisdizionale provvisoria alle sole procedure di sospensione dell’esecuzione di un atto amministrativo, dall’altro subordina il provvedimento di sospensione alla proposizione di un ricorso d’annullamento contro l’atto impugnato. (142) Tale principio è stato ribadito nelle sentenze Corte giust. CE, 30 maggio 1991, (in causa C-59/1989), Comm. Ce C. Gov. Germania federale, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1992, 911 ss., con nota di A. WEBER, La trasposizione delle direttive in materia


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tro lo Stato greco sono state di recente ribadite nella decisione 15 maggio 2003 (143), resa in esito al procedimento di infrazione promosso nei confronti del Regno di Spagna. Un’ulteriore decisione è infine attesa nei confronti dell’Italia a seguito del ricorso ex art. 234 (già art. 177), Trattato CE proposto dal Tar Lombardia con ordinanza presidenziale adottata il 26 aprile 2003 (144). Con la sentenza 15 maggio 2003 la Corte di giustizia ha accolto il ricorso per infrazione proposto dalla Commissione ed ha stabilito che il Regno di Spagna è venuto meno all’obbligo di adottare le misure necessarie per conformarsi alle disposizioni della dir. n. 89/665/CEE. La prima censura mossa dalla Commissione alla legislazione processuale spagnola concerneva l’esclusione dall’ambito di applicazione soggettivo della direttiva delle società di diritto privato. Sul punto, la Corte ha riconosciuto che una corretta trasposizione della nozione di « amministrazioni aggiudicatrici » di cui all’art. 1, par. 1, della citata direttiva, impone di fare riferimento alla nozione di « organismo di diritto pubblico » impiegata all’art. 1, par. 2, lett. b), delle direttive 92/50, 93/36 e 93/37 (145). Ne consegue che le procedure di ricorso previste dalla dir. n. 89/665/CEE devono essere estese anche alle decisioni adottate dalle « società di diritto privato, istituite per soddisfare specificamente necessità d’interesse generale, prive di natura industriale o commerciale, dotate di personalità giuridica, e la cui attività è soprattutto finanziata da amministrazioni pubbliche o da altri organismi di diritto pubblico, o la cui gestione è soggetta ad un controllo da parte di questi ultimi, oppure il cui organo di amministrazione, di direzione o di vigilanza è composto da membri dei quali più della metà siano nominati dalle amministrazioni pubbliche e dagli altri organismi di diritto pubblico ». Il secondo profilo evidenziato dalla Commissione aveva ad ambientale nel diritto tedesco; Corte giust. CE, 9 aprile 1987 (in causa C-363/1985), Comm. Ce C. Italia, in Rass. avv. St., 1987, I, 291 ss. (143) Corte giust. CE, 15 maggio 2003 (in causa C-214/00), Comm. Ce C. Regno di Spagna, cit. (144) Tar Lombardia, Brescia, ord. presidenziale 26 aprile 2003, n. 76, cit. (145) Punto 51 della motivazione.


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oggetto la mancata previsione nel sistema spagnolo di disposizioni che consentissero la proposizione di ricorsi contro tutti i tipi di decisioni adottate dalle amministrazioni aggiudicatrici relative al procedimento di aggiudicazione di un appalto pubblico. Segnatamente, la Commissione aveva evidenziato come le disposizioni spagnole in materia di impugnazione (art. 107, l. n. 30 del 1992 e art. 25, n. 1, l. n. 29 del 1998) (146) escludessero la possibilità di impugnare gli atti procedurali che non concludono un procedimento amministrativo. Al riguardo, la Corte ha riconosciuto che le disposizioni processuali previste nell’ordinamento spagnolo consentono agli interessati l’impugnazione non solo degli atti definitivi ma anche di quelli procedurali, nei casi in cui tali atti decidano, direttamente o indirettamente, il merito della questione, ovvero comportino l’impossibilità di continuare il procedimento, l’impossibilità di difendersi, ovvero determinino pregiudizi irreparabili a diritti o interessi legittimi (147). In tale ottica, considerato che la direttiva n. 89/665/CEE non fornisce la definizione di atto impugnabile comunitario, per ricavare tale concetto è necessario fare riferimento allo scopo perseguito dalla disciplina comunitaria, ossia garantire l’applicazione in tutti gli Stati membri di procedure di ricorso efficaci e quanto più possibile rapide, oltreché accessibili a chiun(146) Per quanto riguarda i ricorsi amministrativi, l’art. 107 della Ley 26 novembre 1992, n. 30, Régimen Jurı́dico de las Administraciones Públicas y del Procedimiento Administrativo Común (legge sul regime giuridico delle amministrazioni pubbliche e sulla procedura amministrativa di diritto comune), definisce impugnabili con ricorso diretto « gli atti procedurali, se decidono, direttamente o indirettamente, nel merito della questione, se comportano l’impossibilità di continuare il procedimento, l’impossibilità di difendersi, o se determinano pregiudizi irreparabili a diritti o interessi legittimi ». Per quel che concerne il ricorso contenzioso amministrativo, l’art. 25, n. 1 della Ley 13 luglio 1998, n. 29, Reguladora de la Jurisdicción ContenciosoAdministrativa (legge sulla giurisdizione del contenzioso amministrativo), dispone che: « Il ricorso contenzioso amministrativo è ricevibile nei confronti delle disposizioni di carattere generale e degli atti, espliciti e impliciti, della pubblica amministrazione che pongono fine ai ricorsi amministrativi, siano essi definitivi o procedurali, se decidono, direttamente o indirettamente, nel merito della questione, se comportano l’impossibilità di continuare il procedimento, l’impossibilità di difendersi, o se determinano pregiudizi irreparabili a diritti o interessi legittimi ». (147) Punti 74 e 79 della motivazione.


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que risulti leso da una violazione del diritto comunitario o delle norme nazionali che recepiscono tale diritto. Il giudice comunitario ha cosı̀ potuto concludere che la legge spagnola, consentendo l’impugnazione degli atti interni al procedimento che siano lesivi di posizioni giuridiche soggettive del ricorrente, non risulta contrastante su tale specifico aspetto con la dir. n. 89/665/CEE (148). La questione più rilevante posta dal ricorso per infrazione promosso dalla Commissione concerneva peraltro la tutela d’urgenza. A questo proposito, la Commissione censurava la legge processuale spagnola per avere, in generale, subordinato alla previa proposizione di un ricorso la possibilità di adottare misure cautelari contro le decisioni prese dalle amministrazioni aggiudicatrici. In realtà, come ha riconosciuto la stessa Corte di giustizia, nell’ambito del modello di contenzioso amministrativo spagnolo, i provvedimenti provvisori possono essere domandati e accordati ancora prima della proposizione del ricorso principale. Il procedimento contenzioso amministrativo spagnolo può infatti essere introdotto con un semplice documento scritto nel quale l’interessato, dopo avere indicato l’atto impugnato o avere denunciato l’inerzia dell’amministrazione, domanda la sospensione dell’esecuzione del provvedimento (149). In tal caso, l’interessato è tenuto ad impugnare l’atto che reputa illegittimo entro il termine di dieci giorni dalla notifica della decisione che accorda i provvedimenti richiesti. Tale disposizione non implica che le misure cautelari siano (148) Sulla questione la Corte di giustizia si era già espressa nella sentenza 3 dicembre 1992 (in causa C-97/91), Soc. oleificio Borelli C. Commiss. Ce, in Foro amm., 1994, 745 ss., con nota di R. CARANTA, Sull’impugnabilità degli atti endoprocedimentali adottati dalle autorità nazionali nelle ipotesi di coamministrazione, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1993, 540 ss., dove aveva chiarito che gli atti del procedimento sono direttamente impugnabili quando appaiono lesivi di posizioni giuridiche soggettive garantite dal diritto comunitario. (149) Si osservi, inoltre, che una volta avviato il procedimento contenzioso, secondo le modalità appena descritte, l’amministrazione resistente, su richiesta del giudice, è tenuta a fare pervenire all’interessato il fascicolo amministrativo e che il termine entro il quale l’interessato deve formulare il suo ricorso e articolare i motivi dello stesso comincia a decorrere soltanto dopo che il ricorrente sia venuto in possesso di tale fascicolo.


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indipendenti dal ricorso, in quanto l’istante è tenuto a chiederne la conferma con la proposizione del ricorso principale entro un termine decorso il quale i provvedimenti provvisori decadono automaticamente. (art. 136, n. 2, l. n. 29 del 1998) (150). Sebbene, nel modello spagnolo, il procedimento contenzioso sia instaurato con un semplice atto scritto, mentre il vero e proprio atto introduttivo possa essere formulato anche in epoca successiva alla domanda di provvedimento provvisorio (151), la Corte ha ritenuto di accogliere la censura mossa dalla Commissione. Il giudice comunitario ha chiarito che un modello di tutela che imponga, come regola generale, la previa proposizione di un ricorso di merito, quale condizione per l’adozione da parte del giudice di una misura cautelare contro una decisione dell’amministrazione aggiudicatrice, non possa essere considerato un sistema di tutela giurisdizionale provvisorio adeguato al fine di porre rimedio in modo efficace alle violazioni commesse (152). (150) L’art. 136 della Reguladora de la Jurisdicción Contencioso-Administrativa (l. n. 29 del 1998) dispone: « 1. Nei casi previsti agli artt. 29 e 30, il provvedimento cautelare sarà adottato, a meno che non appaia evidente che non ricorrono le situazioni previste da tali articoli o che il provvedimento perturba gravemente gli interessi generali o di terzi, che il giudice valuterà in maniera circostanziata. 2. Nei casi previsti dal numero precedente, i provvedimenti potranno altresı̀ essere chiesti prima della proposizione del ricorso con domanda presentata conformemente al disposto dell’articolo precedente. In tal caso, l’interessato dovrà chiederne la conferma al momento della proposizione del ricorso che dovrà obbligatoriamente avvenire entro un termine di dieci giorni dalla notifica dell’adozione dei provvedimenti cautelari [...]. Se non viene proposto il ricorso, i provvedimenti concessi perderanno automaticamente efficacia e il richiedente dovrà risarcire i danni causati dal provvedimento cautelare ». (151) È stato posto in rilievo da M.P. CHITI, La tutela cautelare ante causam nel processo amministrativo, cit., 901, come il modello spagnolo si caratterizzi per la previsione di una tutela più incisiva di quella assicurata nell’ordinamento italiano, pur alla luce delle novità introdotte dalla l. n. 205 del 2000. In effetti, secondo la disciplina italiana, le misure cautelari provvisorie adottate dal presidente presuppongono l’avvenuta notifica e deposito del ricorso principale, mentre la legge spagnola consente di avanzare la richiesta di provvedimenti cautelari a mezzo di un semplice documento scritto, che precede la proposizione del ricorso, con il quale si indica l’atto impugnato o si denuncia l’inerzia dell’amministrazione. (152) È stato evidenziato in dottrina (cfr. E.M. BARBIERI, Diritto comunitario, processo amministrativo e tutela « ante causam », cit., 1290 ss.) che la decisione della Corte di giustizia pare realizzare una « indebita intromissione dell’ordinamento comu-


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Ancora una volta, il giudice comunitario ha posto l’accento sulla disposizione dell’art. 2, n. 1, lett. a), dir. n. 89/665/CEE, interpretata quale solenne enunciazione dell’obbligo degli Stati membri di conferire agli organi competenti a conoscere i ricorsi la facoltà di adottare, « indipendentemente da ogni azione previa », qualsiasi provvedimento provvisorio teso a riparare alle violazioni del diritto comunitario in materia di appalti pubblici o delle norme nazionali che traspongono tale diritto e ad impedire che ulteriori danni siano causati agli interessi coinvolti (153). 7.1. L’ordinanza n. 179 del 2002 della Corte costituzionale, nel concludere per la manifesta infondatezza delle questioni sollevate dal giudice a quo, ha dunque tralasciato di pronunciarsi sullo specifico profilo, evidenziato nell’ordinanza di remissione, relativo da un lato alla compatibilità con il quadro normativo eunitario nell’ordinamento giuridico interno ». Segnatamente, la previsione di un obbligo per gli Stati membri di conferire ai propri organi giurisdizionali il potere di disporre misure cautelari ante causam darebbe luogo ad una forzatura delle disposizioni comunitarie. La direttiva ricorsi si limita infatti a vietare agli Stati membri di effettuare discriminazioni a motivo della distinzione tra norme nazionali che recepiscono il diritto comunitario ed altre norme nazionali, mentre l’ordinamento giuridico interno determina in autonomia le norme sulla procedura e individua il sistema di tutela giurisdizionale o il procedimento amministrativo contenzioso riconosciuto più adatto. (153) Circa il fondamento giuridico della tesi sostenuta dalla Corte di giustizia è stato evidenziato da M.P. CHITI, La tutela cautelare ante causam nel processo amministrativo, cit., 901, che l’interpretazione data dell’art. 2, par. 1, lett. a), dir. n. 89/665/ CEE integra a ben vedere una riscrittura della disposizione. La norma comunitaria richiede semplicemente che gli ordinamenti nazionali garantiscano un trattamento urgente rispetto alle violazioni delle disposizioni comunitarie e nazionali, e non prescrive affatto l’adozione di forme di tutela preventiva. Nella stessa direzione, S. TARULLO, La tutela cautelare: problemi derivanti dal diritto comunitario, in E. PICOZZA (a cura di), Processo amministrativo e diritto comunitario, cit., 223 ss., sottolinea come a stretto rigore non sia possibile ricavare dalle direttive ricorsi l’affermazione del potere di decisione cautelare ante causam: « [...] queste, assai genericamente richiamano la necessità che il giudice sia posto in condizione di operare “con la massima sollecitudine” e con una “procedura d’urgenza”, senza imporre ai legislatori nazionali l’adozione di un meccanismo di tutela preventivo e scisso rispetto al giudizio di “merito” ». E.M. BARBIERI, Diritto comunitario, processo amministrativo e tutela « ante causam », cit., 1292 ss., evidenzia che nessuna direttiva comunitaria afferma espressamente che la tutela cautelare debba essere assicurata « indipendentemente da ogni azione previa ». La tutela cautelare ante causam è dunque il prodotto dell’interpretazione giurisprudenziale proposta dalla Corte di giustizia nella ricordata pronuncia 19 settembre 1996.


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ropeo della mancata previsione nell’ordinamento processuale amministrativo nazionale, di forme di tutela cautelare ante causam, dall’altro al presunto inadempimento dello Stato italiano all’obbligo di adeguare le norme processuali amministrative alla dir. n. 89/665/CEE. Il giudice delle leggi ha riconosciuto non essere pertinente all’ambito della controversia in cui era stato sollevato l’incidente di costituzionalità — concernente la sospensione per 30 giorni dell’esercizio di attività di una casa di cura privata — il richiamo alla direttiva relativa alle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e lavori, ed ha cosı̀ evitato di prendere posizione sul punto. Non è pertanto privo di significato che, all’indomani della importante decisione resa dalla Corte costituzionale una parte della dottrina avesse prospettato la possibilità di avanzare nuovamente la questione di legittimità costituzionale, alla luce dell’interpretazione data dalla giurisprudenza comunitaria all’art. 2 della dir. n. 89/665/CEE (154). In realtà, il tema ha perso in parte rilevanza pratica a seguito del ricorso ex art. 234 (già art. 177), Trattato CE, proposto dal Tar Lombardia con la menzionata ordinanza presidenziale adottata il 26 aprile 2003 (155). La strada prescelta è stata dunque quella del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia delle Comunità europee. Al giudice comunitario è stato chiesto di accertare « se la persistente subordinazione che sussiste nell’ordinamento nazionale fra la misura cautelare accordabile nel processo amministrativo e l’azione d’annullamento sia compatibile con il tasso di effettività della tutela giurisdizionale che deve essere uniformemente garantito da ogni giudice all’interno del territorio dell’Unione ». Le problematiche sulle quali il giudice comunitario è chiamato a pronunciarsi attengono, per un verso, alla compatibilità del modello cautelare vigente in Italia con la normativa comunitaria sulle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli ap(154) D. DE CAROLIS, Tutela cautelare « ante causam » nel processo amministrativo, cit., 802. (155) Tar Lombardia, Brescia, ord. presidenziale 26 aprile 2003, n. 76, cit.


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palti pubblici di forniture e lavori. A questo riguardo, il Tar Lombardia ha in primo luogo sottoposto alla Corte di giustizia la questione se la perdurante assenza nell’ordinamento processuale amministrativo italiano, nonostante le recenti modifiche apportate al testo dell’art. 21, l. n. 1034 del 1971, di uno strumento di tutela cautelare che sia indipendente dalla proposizione di una previa azione d’annullamento, rappresenti o meno un sufficiente adempimento della previsione che fa obbligo a tutti gli Stati membri di garantire procedure di ricorso pienamente accessibili per quanti abbiano subito o temano di subire una lesione, in dipendenza di una decisione della commissione di gara per il conseguimento di un appalto pubblico (art. 1, par. 3, dir. n. 89/665/CEE). In tale prospettiva, il Tar remittente non esclude che profili di incompatibilità possano evidenziarsi anche rispetto alla prescrizione che obbliga a « prendere con la massima sollecitudine e con procedura d’urgenza provvedimenti provvisori intesi a riparare la violazione o impedire che altri danni siano causati agli interessi coinvolti, compresi i provvedimenti intesi a sospendere o a far sospendere la procedura di aggiudicazione pubblica di un appalto o l’esecuzione di qualsiasi decisione presa dalle autorità aggiudicatrici » (art. 2, par. 1, lett. a), dir. n. 89/665/CEE) (156). Per altri versi, l’ordinanza in esame ha evidenziato elementi di contrasto della normativa nazionale rispetto alle disposizioni del Trattato CE e del Trattato sull’Unione europea (c.d. Trattato di Maastricht). In tale ambito, l’art. 10 (già art. 5), Trattato CE, impone agli Stati membri, in assenza di un sistema processuale armonizzato, di adottare tutte le misure di carattere generale e particolare tese ad assicurare il rispetto degli obblighi derivanti dal (156) B. COSSU, Ancora in tema di tutela ante causam nel processo amministrativo, cit., 812, evidenzia come l’esigenza di massima sollecitudine posta dalla direttiva comunitaria sia stata soddisfatta dal legislatore italiano mediante la previsione del potere presidenziale di disporre misure cautelari provvisorie prima della trattazione della causa. Inoltre, l’affermazione contenuta nella citata sentenza Corte di giustizia CE, 19 settembre 1996 (in causa C-236/1995), Comm. Ce C. Gov. Grecia, secondo cui gli Stati membri sono tenuti a conferire agli organi competenti a conoscere dei ricorsi la facoltà di adottare qualsiasi provvedimento provvisorio « indipendentemente da ogni azione previa », non può costituire elemento dal quale fare derivare l’incompatibilità con il diritto comunitario del sistema di tutela cautelare italiano.


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Trattato, ovvero determinati dagli atti delle istituzioni comunitarie. Il principio di collaborazione sancito dal Trattato esige, dunque, che le pretese assistite dal diritto comunitario ricevano una tutela equivalente a quella garantita ai diritti fondati su norme nazionali. Gli ordinamenti interni sono liberi di determinare le modalità di tutela delle pretese riconosciute dal diritto comunitario a condizione che esse non risultino meno favorevoli rispetto a quelle previste per i diritti fondati su norme nazionali. A questo proposito — rileva il Tar Lombardia — non può sfuggire come, nell’ordinamento nazionale, le controversie affidate alla giurisdizione del giudice ordinario prevedano forme di tutela urgente indipendenti dalla proposizione della causa di merito, mentre, nei giudizi in materia di appalti pubblici di lavori e forniture devoluti al giudice amministrativo, le posizioni dei privati ricevano una protezione meramente incidentale e la tutela cautelare non possa essere azionata prima dell’introduzione del ricorso principale. L’ordinanza richiama inoltre l’art. 6, comma 2 del Trattato sull’Unione europea che, nel codificare il rispetto da parte dell’Unione dei diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ha recepito il principio dell’effettività della tutela giurisdizionale stabilito dagli artt. 6 e 13 della stessa Convenzione, con conseguente obbligo degli Stati membri di assicurarne la piena operatività nei rispettivi ordinamenti nazionali. Degno di nota è infine il decreto presidenziale adottato dallo stesso Tar remittente (157) il quale, in accoglimento della richiesta di misure cautelari ante causam formulata dal ricorrente, ha provvisoriamente ordinato all’amministrazione resistente di non dare corso alla sottoscrizione del contratto con il soggetto aggiudicatario. Il Tar Lombardia ha in questo caso ritenuto di disapplicare l’art. 21, l. n. 1034 del 1971 e, conformandosi all’obbligo posto dalla menzionata direttiva ricorsi di assicurare una tutela immediata ed efficace, ha concesso la misura cautelare ex artt. 669-bis ss. c.p.c. Come osserva lo stesso Tar Lombardia, la soluzione elaborata (157)

Tar Lombardia, Brescia, d. presidenziale 10 marzo 2003, n. 266, cit.


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nel caso in esame costituisce un’applicazione dei principi affermati dalla Corte di giustizia nella citata sentenza Factortame (158). Con tale pronuncia, il giudice comunitario ha riconosciuto ai giudici nazionali il potere di sospendere temporaneamente la vigenza della normativa nazionale, nelle more del giudizio ex art. 234, Trattato CE, e di adottare i provvedimenti provvisori necessari, al fine di garantire la piena efficacia satisfattiva della decisione di merito e di assicurare un’applicazione uniforme delle norme comunitarie nei vari Stati. 8. Tra i possibili scenari che si aprono all’indomani del giudizio di pregiudizialità comunitaria promosso dal Tar Lombardia, sembra assumere particolare rilievo il profilo concernente i percorsi da seguire — anche in vista dell’eventuale conferma da parte della Corte di giustizia dei principi sanciti nelle proprie precedenti pronunce — al fine di adeguare il sistema di tutela cautelare nazionale alle prescrizioni poste dalle direttive ricorsi. In tal senso, di recente si è affermato che l’ipotetico intervento del legislatore volto ad introdurre lo strumento della tutela cautelare ante causam nel processo amministrativo, anziché restare circoscritto al settore degli appalti pubblici, possa essere esteso ad ogni tipo di controversia affidata alla giurisdizione del giudice amministrativo (159). A sostegno di tale soluzione è stato sottoli(158) Corte giust. CE, 19 giugno 1990 (in causa C-213/89), House of Lords C. Factortame ltd., cit. (159) La tesi è sostenuta da M.P. CHITI, La tutela cautelare ante causam nel processo amministrativo, cit., 903. E.M. BARBIERI, Diritto comunitario, processo amministrativo e tutela « ante causam », cit., 1288, esclude che i principi affermati dalla Corte di giustizia nella richiamata pronuncia 15 maggio 2003 possano essere trasposti nell’ordinamento processuale amministrativo, ove non siano sorretti da un adeguato intervento legislativo. Una diversa soluzione è prospettata da R. CARANTA, La tutela cautelare ante causam contro gli atti adottati dalle amministrazioni aggiudicatrici, cit., 891, il quale, rileva che, alla luce del contrasto determinatosi tra ordinamento interno e previsioni della dir. n. 89/665/CEE, l’intervento del legislatore non sembra essere l’opzione preferibile, rivelandosi più adatta l’opera adeguatrice della giurisprudenza. Nello stesso senso D. DE CAROLIS, Ancora sulla tutela cautelare ante causam nel processo amministrativo, cit., 1229.


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neato il « potenziale espansivo » (160) che connota le recenti pronunce della Corte di giustizia, i cui effetti tendenzialmente si impongono oltre il ristretto settore degli appalti pubblici, coinvolgendo l’intero ambito della giurisdizione del giudice amministrativo o, quanto meno, le controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva. Inoltre, ragioni di opportunità suggerirebbero di evitare di tenere in vita irragionevoli differenze, non solo tra i vari settori di tutela affidati al giudice amministrativo, ma anche con riferimento al procedimento cautelare applicabile innanzi al giudice ordinario. Sennonché, ponendo mente alle disposizioni che regolano il giudizio cautelare nelle procedure di ricorso aventi ad oggetto gli appalti pubblici, è facile accorgersi della posizione marginale oramai assegnata dal legislatore alla tutela d’urgenza, a tutto vantaggio di esigenze legate ad una rapida definizione del merito. È possibile ricavare una prima conferma di quanto evidenziato nella recente disciplina introdotta dal d.lgs. 20 agosto 2002, n. 190, attuativo della l. 21 dicembre 2001, n. 443, anche detta « legge obiettivo » (161), relativamente ai giudizi promossi davanti agli organi di giustizia amministrativa in materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi. L’art. 14 d.lgs. n. 190 del 2002 delinea un regime speciale per l’esercizio dei poteri cautelari nelle controversie che « comunque riguardino le procedure di progettazione, approvazione e realizzazione delle infrastrutture ed insediamenti

(160) M.P. CHITI, La tutela cautelare ante causam nel processo amministrativo, cit., 902. (161) L. 21 dicembre 2001, n. 443 (Delega al Governo in materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici ed altri interventi per il rilancio delle attività produttive). Il comma 2, lett. n), dell’articolo unico della l. n. 443 del 2001, dispone che a seguito della stipula dei contratti di progettazione, appalto, concessione o affidamento a contraente generale è esclusa la reintegrazione in forma specifica, mentre è consentita la sola tutela risarcitoria per equivalente. Inoltre, per tutti gli interessi patrimoniali, è prevista la restrizione della tutela cautelare al pagamento di una provvisionale. Per un esame delle disposizioni contenute nella l. n. 443 del 2001 si vedano i commenti di G. PASQUINI, C. GUCCIONE, D. GALLI, « Legge obiettivo » e opere pubbliche, in Giorn dir. amm., 2002, 469 ss.


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produttivi e relative attività di espropriazione, occupazione ed asservimento » (162). Le disposizioni dettate dall’art. 14, d.lgs. n. 190 del 2002, non solo si presentano come derogatorie rispetto alle previsioni poste dall’art. 21, l. n. 1034 del 1971, con riferimento al giudizio cautelare comune, ma si affiancano a quelle, a loro volta speciali, introdotte dall’art. 23-bis, l. n. 1034 del 1971, per tutta una serie di giudizi, tra i quali quelli aventi ad oggetto: i provvedimenti relativi a procedure di affidamento di incarichi di progettazione e di attività tecnico-amministrative ad esse connesse (art. 23-bis, comma 1, lett. a), l. n. 1034 del 1971); i provvedimenti relativi alle procedure di aggiudicazione, affidamento ed esecuzione di opere pubbliche o di pubblica utilità, ivi compresi i bandi di gara e gli atti di esclusione dei concorrenti, nonché quelli relativi alle procedure di occupazione e di espropriazione delle aree destinate alle predette opere (art. 23-bis, comma 1, lett. b), l. n. 1034 del 1971); i provvedimenti relativi alle procedure di aggiudicazione, affidamento ed esecuzione di servizi pubblici e forniture, ivi compresi i bandi di gara e gli atti di esclusione dei concorrenti (art. 23-bis, comma 1, lett. c), l. n. 1034 del 1971). Il regime dettato dall’art. 23-bis, l. n. 1034 del 1971 — cui peraltro rinvia lo stesso art. 14, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 190 del 2002, « per quanto non espressamente previsto dal presente articolo » — è caratterizzato dalla previsione di meccanismi atti a favorire una rapida soluzione della controversia ed a rendere la tutela cautelare meramente eventuale (163). In effetti, in tali ipotesi (162) È controverso se le disposizioni poste dall’art. 14, d.lgs. n. 190 del 2002 trovino applicazione solo rispetto alle controversie aventi ad oggetto le infrastrutture e gli insediamenti produttivi strategici di preminente interesse nazionale inseriti nell’apposito programma di cui al comma 1 dell’articolo unico, l. n. 443 del 2001, ovvero si riferiscano alla generalità delle procedure relative ad infrastrutture ed insediamenti produttivi, come lascerebbe supporre la lettera dell’art. 14. La tesi restrittiva è seguita da V. CERULLI IRELLI, L’annullamento della aggiudicazione e la sorte del contratto, in Giorn. dir. amm., 2002, 1199; A. TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, cit., 242; C. VOLPE, Risoluzione delle controversie e norme processuali nella legge obiettivo. Alcune considerazioni sugli artt. 12 e 14, d.lgs. 20 agosto 2002, n. 190, in Riv. trim. app., 2002, 734; E. FOLLIERI, Effettività della giustizia amministrativa, cit., 1119. (163) N. SAITTA, Riti abbreviati e tutela cautelare: un passo indietro?, in http://


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l’accoglimento della domanda cautelare avanzata dal ricorrente è subordinato all’accertamento di un duplice ordine di presupposti. In primo luogo, alla luce del combinato disposto degli artt. 23-bis, comma 3, e 26, comma 4, l. n. 1034 del 1971 è necessario che il giudice amministrativo non ravvisi la manifesta fondatezza ovvero la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso. In tali casi, Tar e Consiglio di Stato decidono con sentenza succintamente motivata, senza accordare alcuna tutela cautelare (164). Ove non ricorrano le condizioni per una decisione immediata, la via per la pronuncia cautelare presenta un ulteriore ostacolo, atteso che l’accertamento da parte del giudice degli elementi di fumus e periculum — che nel regime ordinario legittimerebbe una pronuncia di misure cautelari — ha nell’ipotesi presa in esame dalla norma la limitata idoneità a consentire la fissazione dell’udienza di discussione, mentre il provvedimento impugnato conserva la propria efficacia. L’art. 21-bis, comma 3, l. n. 1034 del 1971 dispone infatti che il giudice adito, qualora reputi che il ricorso presentato evidenzi ad un primo esame « l’illegittimità dell’atto impugnato » e la sussistenza di un « pregiudizio grave e irreparabile », fissa con ordinanza la data di discussione nel merito alla prima udienza successiva al termine di trenta giorni dalla data di deposito dell’ordinanza (165). www.lexitalia.it, riconosce che il rito speciale delineato dalla disposizione in esame si caratterizza per una prevalenza assegnata al momento acceleratorio del giudizio rispetto al momento cautelare. Nello stesso senso R. GAROFOLI, La tutela cautelare degli interessi negativi, cit., 865, osserva che dall’art. 23-bis, comma 3, l. n. 1034 del 1971 traspare con evidenza la preferenza espressa dal legislatore per la sentenza definitiva e per una rapida definizione del merito in tutta una serie di controversie destinate a coinvolgere interessi pubblici particolarmente rilevanti. (164) La motivazione della sentenza consiste in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo, ovvero, se del caso, ad un precedente conforme. Il giudice provvede anche sulle spese di giudizio, applicando le norme del codice di procedura civile (art. 26, comma 4, l. n. 1034 del 1971). (165) La seconda parte dell’art. 23-bis, comma 3, disciplina l’ipotesi di « rigetto dell’istanza cautelare ». In tale evenienza, è possibile proporre appello innanzi al Consiglio di Stato avverso l’ordinanza di rigetto adottata dal tribunale. Nel giudizio di appello, qualora il Consiglio di Stato riformi l’ordinanza di primo grado, la pronunzia di


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Invero, affinché Tar e Consiglio di Stato « possano disporre le opportune misure cautelari » devono ricorrere gli ulteriori presupposti indicati al comma 5 dell’articolo in commento. Segnatamente, è necessario che la situazione prospettata dal ricorrente al giudice amministrativo presenti caratteri di « estrema gravità ed urgenza ». Inoltre, l’ordinanza che accorda le misure cautelari deve enunciare i « profili che, ad un sommario esame, inducono a una ragionevole probabilità sul buon esito del ricorso » (166). Se la via per accedere alla tutela cautelare nel rito speciale sugli appalti appena esaminato appare in salita e frapposta da numerosi ostacoli, l’impressione che è lecito desumere dall’esame della disciplina processuale dettata in materia di infrastrutture pubbliche e insediamenti produttivi di cui al richiamato art. 14, d.lgs. n. 190 del 2002 è quella di una sostanziale limitazione delle possibilità di ricorso allo strumento cautelare (167). Un primo profilo della disciplina in esame concerne i criteri ai quali si deve attenere il giudice al fine dell’eventuale pronuncia della misura cautelare. Il giudice è chiamato non solo ad verificare le probabili conseguenze del provvedimento cautelare richiesto per tutti gli interessi che possono essere lesi, ma è anche tenuto a considerare l’interesse nazionale alla « sollecita realizzazione dell’opera ». Detto interesse è espressamente qualificato come « preminente » (art. 14, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 190 del 2002). Il riferimento sembra alludere ad una comparazione degli interessi in gioco che è già stata fatta una volta per tutte dal legislatore delegato, posto che l’interesse sotteso alla tempestiva realizzazione appello è trasmessa al tribunale amministrativo regionale per la fissazione dell’udienza di merito. (166) N. SAITTA, Riti abbreviati e tutela cautelare, cit., osserva come la concessione delle « opportune misure cautelari », nelle materie di cui all’art. 23-bis, risulti in definitiva subordinata all’accertamento delle specialissime condizioni enucleate al comma 5 della disposizione. L’A. giudica altresı̀ poco condivisibile una forma di tutela nella quale il provvedimento impugnato, pur ritenuto affetto da evidenti vizi di illegittimità, rimanga pienamente efficace, sino al punto da distruggere il bene del ricorrente. (167) Cosı̀ A. TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, cit., 274; E. FOLLIERI, Effettività della giustizia amministrativa, cit., 1122, il quale osserva che la disposizione in commento arreca un grave vulnus all’effettività della tutela cautelare che, in tali ipotesi, viene sostanzialmente esclusa.


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dell’opera si caratterizza per essere preminente rispetto ad ogni altra contrapposta esigenza (168). Inoltre, la disposizione in commento impone al giudice di motivare l’eventuale provvedimento di accoglimento dell’istanza cautelare, soffermandosi sulla « gravità ed irreparabilità del pregiudizio all’impresa del ricorrente, il cui interesse dovrà comunque essere comparato con quello del soggetto aggiudicatore alla celere prosecuzione delle procedure ». È interessante notare come l’accertamento compiuto dal giudice non verta, come sarebbe stato logico attendersi, sul danno che il provvedimento impugnato arreca all’interesse azionato dal ricorrente, bensı̀ sul differente pregiudizio che l’esecuzione del provvedimento è idoneo a produrre in capo all’impresa del ricorrente. In tal senso, il giudizio risulta incentrato su profili, attinenti all’impresa del ricorrente ed estranei alla regolarità delle procedure di appalto, che a stretto rigore non dovrebbero influenzare la decisione del giudice (169). Si consideri, inoltre, che il danno all’impresa del ricorrente viene dalla norma posto a confronto con l’interesse dell’amministrazione aggiudicatrice alla celere prosecuzione delle procedure; tale interesse, essendo qualificato come « preminente », sembra destinato in ogni caso a prevalere sul primo (170). Il secondo aspetto della disciplina processuale dettata dall’art. 14, d.lgs. n. 190 del 2002 sul quale è opportuno soffermarsi attiene ai rapporti tra sospensione o annullamento del provvedimento di aggiudicazione dell’appalto ed efficacia del contratto nel frattempo stipulato dall’amministrazione aggiudicatrice. L’art. 14, comma 2, d.lgs. n. 190 del 2002 prevede che « la (168) È stato posto in rilievo da A. TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, cit., 274, che la disposizione in esame, se interpretata letteralmente, è idonea ad escludere qualsiasi possibilità di ricorso alla tutela cautelare. In tal senso anche C. VOLPE, Risoluzione delle controversie e norme processuali nella legge obiettivo, cit., 738. (169) E.M. BARBIERI, La tutela cautelare ed i grandi appalti, in Riv. trim. app., 2002, 853. (170) Secondo C. VOLPE, Risoluzione delle controversie e norme processuali nella legge obiettivo, cit., 739, appare scontato che il giudizio di comparazione previsto dalla norma in commento si concluda con la soccombenza dell’interesse privato di tipo economico dell’impresa ricorrente, rispetto a quello di carattere pubblico e collettivo alla celere prosecuzione delle procedure.


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sospensione o l’annullamento giurisdizionale della aggiudicazione di prestazioni pertinenti alle infrastrutture non determina la risoluzione del contratto eventualmente già stipulato dai soggetti aggiudicatori (171); in tal caso, il risarcimento degli interessi o diritti lesi avviene per equivalente, con esclusione della reintegrazione in forma specifica » (172). La disposizione in commento è animata dal chiaro intento di assicurare la sollecita realizzazione delle grandi opere pubbliche, eliminando ogni ostacolo che possa ritardare la stipulazione del contratto di appalto tra l’amministrazione e il soggetto aggiudicatario. A tal fine, il legislatore delegato ha stabilito che la reintegrazione per equivalente è la sola forma di tutela ammissibile nel caso in cui sia intervenuta la stipulazione del contratto di appalto tra amministrazione e soggetto aggiudicatario (173), mentre la sospensione o l’annullamento giurisdizionale della aggiudicazione non determina effetti di carattere costitutivo sul contratto eventualmente già stipulato (174). Le ripercus(171) V. CERULLI IRELLI, L’annullamento della aggiudicazione, cit., 1199, osserva che l’espressione impiegata dal legislatore si riveli « quantomai incerta e perplessa ». Infatti, il riferimento alla « risoluzione del contratto », lungi dal richiamare la specifica figura delineata dagli artt. 1453 ss. c.c., allude semplicemente ad ogni ipotesi di caducazione o invalidazione del contratto stipulato. (172) A. TRAVI, La reintegrazione in forma specifica nel processo amministrativo fra azione di adempimento e azione risarcitoria, in questa Rivista, 2003, 235, sottolinea l’uso improprio da parte della disposizione in commento della nozione di reintegrazione in forma specifica. Il legislatore ha inteso con essa fare riferimento all’effetto dell’annullamento dell’aggiudicazione, e non all’istituto disciplinato dall’art. 2058 c.c. Nello stesso senso R. CHIEPPA, La reintegrazione in forma specifica nel diritto amministrativo: tutela risarcitoria o azione di adempimento?, in Resp. civ. prev., 2003, 11. (173) E. FOLLIERI, Effettività della giustizia amministrativa, cit., 1122, muovendo dalla considerazione della inidoneità della reintegrazione per equivalente ad assicurare una adeguata tutela, allorquando risultino lesi valori attinenti alla tutela dell’ambiente e del paesaggio, propone un’interpretazione restrittiva dell’art. 14, comma 2, d.lgs. n. 190 del 2002, che ne circoscriva il campo di applicazione alle sole ipotesi in cui l’annullamento o la sospensione abbiano ad oggetto il provvedimento di aggiudicazione, nell’ambito del ricorso promosso dal concorrente non aggiudicatario, e non anche nella ipotesi in cui siano impugnati altri atti (approvazione del progetto, occupazione espropriazione), « [...] e si faccia valere l’interesse a che l’opera non si realizzi nel luogo ove è stata progettata ». (174) V. CERULLI IRELLI, L’annullamento della aggiudicazione, cit., 1200, il quale evidenzia che alla disposizione in esame deve essere riconosciuta una efficacia circoscritta all’ipotesi in cui il contratto di appalto sia già stato concluso al momento della


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sioni di tale assetto sul piano della tutela cautelare sono pertanto evidenti, se solo si considera che l’adozione del provvedimento cautelare di sospensione degli effetti dell’aggiudicazione non ha effetti sul contratto di appalto eventualmente già stipulato (175). L’esame delle disposizioni processuali speciali dettate in materia di appalti pubblici ha consentito di evidenziare l’esistenza di meccanismi di accesso al rimedio cautelare particolarmente severi che, in molti casi, riducono sensibilmente le possibilità di attivare lo strumento della tutela d’urgenza. Ora, dinnanzi alla prospettiva dell’introduzione di misure cautelari ante causam, nell’ottica di un adeguamento delle disposizioni nazionali alle prescrizioni poste dalle richiamate direttive comunitarie, può non essere fuori luogo riflettere sulla reale opportunità di un intervento che, per essere circoscritto allo specifico profilo della tutela preventiva, trascuri di considerare, su un piano generale, i profili di compatibilità con le direttive ricorsi del complessivo assetto della tutela cautelare nel settore degli appalti pubblici. A questo proposito, giova rimarcare che le direttive ricorsi si caratterizzano per il riconoscimento di una piena ed immediata tutela degli interessi lesi nelle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici e, a tal fine, impongono agli Stati membri di conferire alle autorità nazionali responsabili dei ricorsi il potere di « prendere con la massima sollecitudine e con procedura d’urgenza provvedimenti provvisori intesi a riparare la violazione denunciata o impedire che altri danni siano causati agli interessi pronuncia cautelare, con la conseguenza che, nel caso in cui il provvedimento sospensivo anticipi la stipulazione, il contratto che in seguito venisse concluso dall’amministrazione con il soggetto risultato aggiudicatario sarebbe da considerare invalido secondo i principi generali. (175) Si consideri, infine, che il comma 3 dell’articolo in commento stabilisce che il soggetto aggiudicatore è tenuto a comunicare il provvedimento di aggiudicazione ai controinteressati almeno trenta giorni prima della stipulazione del contratto. La disposizione richiamata sembra tesa a riconoscere un qualche spazio di operatività alla sospensione cautelare nei giudizi in materia di grandi appalti: ed infatti, la previsione di un termine dilatorio per la firma del contratto rende possibile una tempestiva impugnazione del provvedimento di aggiudicazione che l’amministrazione comunica ai soggetti controinteressati. D’altro canto, la riduzione, di fatto ad appena trenta giorni dalla comunicazione del provvedimento di aggiudicazione, del termine per la proposizione del ricorso determina un significativo sacrificio dell’esercizio del diritto di difesa.


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coinvolti, compresi i provvedimenti intesi a sospendere o a far sospendere la procedura di aggiudicazione di un appalto o l’esecuzione di qualsiasi decisione presa dall’ente aggiudicatore » (art. 2, par. 1, lett. a), dir. n. 89/665/CEE; art. 2, par. 1, lett. a), dir. n. 92/13/CEE). Resta da chiedersi se l’assetto impresso dal legislatore nazionale alla tutela cautelare nel settore degli appalti, delle infrastrutture e degli insediamenti produttivi possa giudicarsi in linea con lo spirito delle direttive ricorsi e se possa ancora considerarsi pienamente rispettato, da parte della normativa nazionale, l’obbligo di garantire rimedi efficaci e tempestivi contro le violazioni compiute nelle procedure di aggiudicazione degli appalti. Al riguardo, è probabile che un generale ripensamento da parte del legislatore nazionale delle modalità di accesso alla tutela cautelare nelle controversie aventi ad oggetto gli appalti pubblici, non solo sia utile al fine di assicurare una corretta applicazione dei principi posti a livello comunitario, ma si ponga altresı̀ quale condizione affinché la tutela cautelare ante causam abbia in quel particolare settore realistiche possibilità di impiego (176). POSTILLA. — Nelle more della pubblicazione del presente scritto, la Quarta Sezione della Corte di giustizia delle Comunità europee ha adottato l’ordinanza 29 aprile 2004 (in http:// www.lexitalia.it), avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale avanzata dal Tar Lombardia con la più volte richiamata ordinanza presidenziale 26 aprile 2003, n. 76. Il giudice remittente, nell’ambito di un ricorso proposto ai sensi dell’art. 234 (già art. 177), Trattato CE, aveva chiesto alla Corte di giustizia di verificare se la persistente subordinazione presente nell’ordinamento (176)

In una prospettiva in parte diversa da quella qui esposta si pone E.M. BAR-

BIERI, Diritto comunitario, processo amministrativo e tutela « ante causam », cit., 1295,

il quale osserva che le esigenze di garanzia che si vorrebbero soddisfare con l’introduzione della tutela cautelare ante causam — rimedio che l’A. riconosce difficilmente compatibile con il nostro sistema processuale amministrativo — potrebbero essere esaudite mediante l’adeguata valorizzazione dei poteri cautelari del giudice amministrativo nella fase della aggiudicazione, i quali dovrebbero estendersi sino a precludere in via provvisoria alla amministrazione la stipulazione del contratto, ovvero, se già stipulato, la sua esecuzione.


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italiano fra la misura cautelare accordabile nel processo amministrativo e l’azione d’annullamento fosse compatibile con il tasso di effettività della tutela giurisdizionale, che deve essere uniformemente garantito da ogni giudice all’interno del territorio dell’Unione. Il giudice comunitario — richiamandosi ai principi affermati in alcune precedenti sentenze (177) — ha riconosciuto che la disciplina comunitaria che regola le procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori e forniture deve essere interpretata nel senso che gli Stati membri sono tenuti a conferire ai loro organi competenti a conoscere dei ricorsi la facoltà di adottare, indipendentemente dalla previa proposizione di un ricorso di merito, qualsiasi misura provvisoria, compresi i provvedimenti intesi a sospendere o a far sospendere la procedura di aggiudicazione pubblica dell’appalto.

(177) Corte giust. Ce, 19 settembre 1996 (in causa C-236/1995), Comm. Ce C. Gov. Grecia, cit.; Corte giust. Ce, 15 maggio 2003 (in causa C-214/00), Comm Ce C. Regno di Spagna, cit.


giurisprudenza annotata

Corte costituzionale 6 luglio 2004, n. 204 - Pres. Zagrebelsky - Red. Vaccarella. Giurisdizione esclusiva - Artt. 33 e 34 d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80 come sostituiti dall’art. 7 l. 21 luglio 2000, n. 205 - Illegittimità costituzionale parziale per violazione art. 103 Cost. È costituzionalmente illegittimo l’art. 33, comma 1, del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80 come sostituito dall’art. 7 lett. a) della l. 21 luglio 2000, n. 205 nella parte in cui precede che sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo « tutte le controversie in materia di pubblici servizi, ivi compresi quelli » anziché « le controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi, ovvero a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore di pubblico servizio in un procedimento disciplinato dalla l. 7 agosto 1990, n. 241, ovvero ancora relative all’affıdamento di un pubblico servizio, ed alla vigilanza e controllo nei confronti del gestore nonché » (1). È costituzionalmente illegittimo l’art. 33 comma 2 del d.lgs. 30 marzo 1998, n. 80 come sostituito dall’art. 7 lett. a) della l. 21 luglio 2000, n. 205 (2). È costituzionalmente illegittimo l’art. 34 comma 1 del d.lgs. 30 marzo 1998, n. 80 come sostituito dall’art. 7 lett. b) della l. 21 luglio 2000, n. 205 nella parte in cui prevede che sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto « gli atti, i provvedimenti e i comportamenti » anziché « gli atti e provvedimenti delle pubbliche amministrazioni e dei soggetti alle stesse equiparati in materia di urbanistica edilizia » (3). 1. Con ordinanza del 31 luglio 2002 (r.o. n. 488 del 2002) il Tribunale di Roma, adito dalla casa di cura Villa Maria Pia S.r.l. con atto di citazione, notificato il 10 agosto 2000, volto ad ottenere la condanna della Azienda Usl Rm/E al pagamento di somme da questa dovute per prestazioni di ricovero, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 33, commi 1 e 2, lett. b) ed e), del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell’articolo 11, comma 4, della l. 15 marzo 1997, n. 59), come sostituito dall’art. 7 della l.


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21 luglio 2000, n. 205 (Disposizioni in materia di giustizia amministrativa), nella parte in cui devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in materia di pubblici servizi « tra le amministrazioni pubbliche e i gestori comunque denominati di pubblici servizi » e, in particolare, le controversie « riguardanti le attività e le prestazioni di ogni genere, anche di natura patrimoniale, rese nell’espletamento di pubblici servizi, ivi comprese quelle rese nell’ambito del servizio sanitario nazionale », per contrasto con gli artt. 3, 24, 25, 100, 102, 103, 111 e 113 Cost. 1.1. In punto di rilevanza, osserva il rimettente che la controversia rientra tra quelle devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, tenuto conto che il rapporto tra le case di cura e le minori strutture private (ambulatori, centri di diagnostica strumentale, etc.) e la Usl è sempre stato qualificato dalla giurisprudenza di legittimità di concessione di pubblico servizio. Pertanto, abbandonato il pregresso criterio che attribuiva al giudice amministrativo le controversie vertenti sull’accertamento del contenuto e della validità del rapporto, con devoluzione al giudice ordinario di quelle vertenti sul pagamento di indennità, canoni ed altri corrispettivi, il rapporto in questione è oggi direttamente disciplinato, quanto alla giurisdizione, dall’art. 33 del d.lgs. n. 80 del 1998, come modificato dall’art. 7 della l. n. 205 del 2000, che rimette alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in materia di pubblici servizi, tra le quali quelle « tra le amministrazioni pubbliche e i gestori comunque denominati di pubblici servizi » (comma 2, lett. b) e quelle « riguardanti le attività e le prestazioni di ogni genere, anche di natura patrimoniale, rese nell’espletamento di pubblici servizi, ivi comprese quelle rese nell’ambito del Servizio sanitario nazionale » (comma 2, lett. e). 1.2. Con riguardo alla non manifesta infondatezza del dubbio, osserva il giudice a quo che il nuovo criterio di riparto della giurisdizione « per blocchi di materie », introdotto dalla l. n. 205 del 2000, determina uno « smisurato ampliamento » della giurisdizione esclusiva, in contrasto, innanzitutto, con il dettato degli artt. 103, comma 1, e 113, comma 1, Cost., posto che il riferimento alle « particolari materie indicate dalla legge » esprimerebbe invece il carattere residuale delle controversie devolute alla giurisdizione esclusiva, la cui peculiarità non a caso è stata tradizionalmente riscontrata nella « sicura e necessaria compresenza o coabitazione... di posizioni di interesse legittimo e di diritto soggettivo legate da un inestricabile nodo gordiano »; come rendeva manifesto il divieto per il giudice amministrativo (ex artt. 30, comma 2, del r.d. 26 giugno 1924, n. 1054 e 7, comma 3, della l. 6 dicembre 1971, n. 1034) di conoscere, nelle materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, anche dei diritti patrimoniali consequenziali. Le richiamate norme costituzionali, inoltre, nel configurare la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo unicamente per la tutela di posizioni soggettive nei confronti della pubblica amministrazione, non


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autorizzerebbero (ciò che, invece, sembra legittimato dall’art. 33 censurato) anche la cognizione di diritti soggettivi azionati dalla medesima pubblica amministrazione contro privati ovvero contro altre amministrazioni pubbliche. In particolare, la l. n. 205 del 2000, segnando l’abbandono della nozione tradizionale di « giurisdizione esclusiva » e la ridefinizione dell’istituto secondo ambiti di intere materie, a prescindere dall’esplicazione di poteri autoritativi della pubblica amministrazione, sarebbe lesivo dell’art. 103, comma 1, Cost., norma che, tra la giurisdizione ordinaria sui diritti e quella esclusiva del giudice amministrativo, traccia un rapporto, di regola a eccezione, fondato sull’esigenza di concentrare innanzi ad un unico giudice la cognizione tanto dei diritti che degli interessi, e dunque, in definitiva, sulla peculiarità della controversia concretamente individuata. Pertanto, l’attribuzione tout court al giudice amministrativo di intere materie, come quella dei servizi pubblici, « di generica ed incerta identificazione » costituirebbe, secondo il giudice a quo, l’inversione della regola posta dall’art. 103 Cost., configurando il giudice amministrativo come giudice ordinario delle controversie in cui sia parte una pubblica amministrazione, in violazione anche dell’art. 100, comma 1, Cost. che lo qualifica giudice « nell’amministrazione » e non « dell’amministrazione ». Né al rimettente sembra dirimente accedere ad una ricostruzione in astratto piuttosto che in concreto della nozione di « materia », ricercandone la particolarità « nell’atteggiarsi dell’azione della pubblica amministrazione in settori determinati..., qual è quello dei servizi pubblici », in ipotesi connotati sempre dalla presenza dell’interesse pubblico: in tal modo si finirebbe infatti ugualmente per capovolgere, e svuotare, il criterio di residualità della giurisdizione amministrativa come fissato nella Costituzione. La fondatezza del dubbio viene altresı̀ argomentata dal rimettente sul rilievo che nel nostro ordinamento non esisterebbe alcuna possibilità di ampliare la giurisdizione amministrativa esclusiva oltre i casi in cui il settore individuato « sia conformato, quanto meno, da un regime giuridico derogatorio del diritto comune », ciò che, per la vastità e l’eterogeneità degli ambiti abbracciati, non appare configurabile per la materia dei servizi pubblici; né sarebbe possibile rintracciare nel sistema costituzionale una delega in bianco al legislatore ordinario per individuare le materie di giurisdizione esclusiva. Lo scostamento dai rigorosi parametri dell’art. 103 Cost. sembra, poi, al rimettente particolarmente visibile laddove, come nel caso sottoposto al suo giudizio, nessun contenuto di specialità sia dato ravvisare nella domanda del privato volta all’accertamento, condotto secondo le regole del diritto civile, dell’obbligo dell’Azienda Usl di pagare il corrispettivo di prestazioni sanitarie eseguite. Riprendendo alcune indicazioni del Consiglio di Stato (sezione V, n. 2440 del 1999) e della Cassazione (Sez. un., n. 5640 del 18 aprile 2002), il giudice a quo osserva anche come sia proprio la « costituzione del vincolo obbligatorio » a segnare lo spartiacque tra la giurisdizione del giudice amministrativo e quella dell’autorità giudiziaria ordinaria sul presupposto


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della tendenziale uguaglianza tra le parti nella fase successiva alla costituzione del vincolo, regolata dalle norme del diritto privato. Conseguentemente, a suo avviso, l’assegnazione indiscriminata alla cognizione del giudice amministrativo di diritti soggettivi, oltre alla progressiva creazione di un diritto civile speciale, violerebbe anche l’art. 3 Cost., sotto il profilo della lesione del principio di uguaglianza — per la creazione di una posizione di privilegio della pubblica amministrazione — nonché del principio di ragionevolezza, venendo a creare un « inutile doppione » del giudice ordinario e insieme a disperdere il patrimonio di esperienze ed attitudini di questi; tanto, per giunta, in un momento storico caratterizzato dalla regressione del momento autoritativo nel rapporto tra apparato pubblico e società civile. Palese sarebbe anche la violazione degli artt. 102, comma 1, e 113, comma 1, Cost. che, assecondando la tradizione giuridica italiana (cfr. artt. 2 e 26 della l. 20 marzo 1865, n. 2248, All. E, e il diritto vivente in tema di risarcimento per lesione di interessi legittimi), fanno del giudice ordinario il giudice dei diritti con cognizione, in via di principio, generale e illimitata, di contro alla tendenziale residualità della cognizione sui diritti affidata al giudice amministrativo, in un contesto che contempla altresı̀ la possibilità che all’autorità giudiziaria ordinaria siano attribuiti poteri di annullamento dell’atto amministrativo (art. 113, commi 2 e 3, Cost.): il che genera una vera e propria presunzione di devoluzione al giudice ordinario — la cui posizione nell’ordinamento non a caso è circondata da particolari garanzie di indipendenza ed autonomia (artt. 104 e 105 Cost.) — delle controversie in cui sussiste incertezza nell’identificazione della situazione soggettiva coinvolta. Il giudice a quo esprime, inoltre, dubbi circa la legittimità della norma censurata in relazione all’art. 25, comma 1, Cost.: evidenzia sul punto come una concezione del giudice naturale attenta ai valori su cui si fonda l’ordine costituzionale delle giurisdizioni, si sia ormai affermata in altri ordinamenti europei (cosı̀ ad esempio in Francia, ove il Consiglio costituzionale ha affermato che tra i principi fondamentali v’è quello per cui, « ad eccezione delle materie riservate per natura all’autorità giudiziaria, appartiene in ultima istanza alla competenza della giurisdizione amministrativa il contenzioso relativo all’annullamento e alla riforma degli atti amministrativi che costituiscono l’espressione dei pubblici poteri »), mentre nel nostro ordinamento tale opzione ermeneutica sarebbe stata avallata dalla stessa Corte costituzionale allorché questa ha, ad esempio, affermato « la maggiore idoneità del giudice ordinario alla cura di interessi concernenti rapporti paritari » (sent. n. 641 del 1987) o che « la Corte dei conti è il giudice naturale in materia di pensioni a totale carico dello Stato » (ord. n. 388 del 1990). La violazione nel settore dei pubblici servizi dell’ordine costituzionale [delle giurisdizioni], e cioè di « quel nucleo di principi che giustificano l’“essere giudice” in uno stato di diritto », si risolverebbe pertanto


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nell’istituzione di un giudice speciale in violazione del disposto dell’art. 102, comma 2, Cost. Dunque, anche a non voler riconoscere l’esistenza del principio, seppur tendenziale, di unità della giurisdizione (ma v., contra, sentt. nn. 41 del 1957 e 48 del 1959 di questa Corte), la pluralità di giurisdizioni riconoscibili nel nostro ordinamento non legittimerebbe la devoluzione a giudici appartenenti a giurisdizioni diverse di « controversie identiche ovvero non caratterizzate da una sostanziale ed intrinseca reciproca diversità con riguardo all’oggetto e alle posizioni soggettive delle parti », essendo del tutto irrilevante « la circostanza che nella controversia sia parte una pubblica amministrazione ovvero... che il suo oggetto presenti una generica rilevanza pubblica ». Il giudice rimettente osserva, poi, come ancora più grave sia il vulnus che la norma arreca al principio di uguaglianza (art. 3, comma 1, Cost.), inteso come uguaglianza davanti alla giustizia e alla giurisdizione (art. 24 Cost.), principio che troverebbe il suo logico corollario nella regola secondo cui controversie identiche o similari devono essere giudicate dalla medesima giurisdizione o da giurisdizioni strettamente identiche anche nelle regole di composizione. Sarebbe pertanto evidente, nella specie, « la disparità di trattamento tra i cittadini dinanzi alla giurisdizione, essendo l’individuazione del giudice fatta dipendere dalla qualità soggettiva di una parte », tanto più che nel momento storico attuale mancano riferimenti normativi di sicura individuazione del soggetto « pubblica amministrazione » e della materia « servizi pubblici ». Ulteriore profilo di illegittimità costituzionale è infine ravvisato dal giudice a quo nella violazione degli artt. 111, comma 7, e 3 Cost., sotto il profilo che « il principio di uguaglianza postula l’esigenza di uniforme interpretazione della legge, la quale invece (stante la non ricorribilità delle sentenze dei giudici amministrativi per violazione di legge) non avrebbe strumento alcuno per attuarsi a fronte di differenti orientamenti... che dovessero formarsi in ordine a medesime disposizioni codicistiche nelle non comunicanti giurisprudenze dei giudici ordinari e amministrativi » (Cass., Sez. un., n. 72 del 30 marzo 2000), con una sostanziale elisione della funzione di nomofilachia esercitata dalla Cassazione, innanzitutto, ai sensi dell’art. 65 dell’ordinamento giudiziario. Del resto, osserva il rimettente, il ruolo nomofilattico dello stesso Consiglio di Stato non si è mai svolto al di fuori del tradizionale ordine proprio di questa giurisdizione, caratterizzato dal generale parametro di riferimento dell’interesse pubblico, laddove in ambito civilistico la coscienza collettiva mal tollera ogni incidenza, sulle paritarie posizioni in conflitto, di valutazioni inerenti proprio l’interesse pubblico. 1.3. È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, il quale, con la rappresentanza dell’Avvocatura generale dello Stato, ha eccepito in via pregiudiziale l’inammissibilità della questione sollevata, che


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investirebbe non tanto la norma di legge oggetto di censura, quanto piuttosto « un puntuale combinato disposto di norme contenuto nella Costituzione stessa e cioè quello regolante l’intero sistema della giustizia amministrativa come delineato dagli artt. 24, 103, 108, 111 e 113 », norme originarie della Costituzione di cui il legislatore censurato sarebbe stato solo puntuale esecutore. Ulteriore profilo di inammissibilità è sollevato dall’Avvocatura per l’irrilevanza della censura relativa alla violazione degli artt. 3 e 103 Cost. sotto il profilo della attribuzione al giudice ordinario della conoscibilità di diritti azionati nei confronti di privati dalla pubblica amministrazione, tenuto conto che, nel giudizio a quo, la parte attrice è un ente di diritto privato. Nel merito, infondata sarebbe la questione laddove fa leva sul principio di unità della giurisdizione, mai accolto — se non come « valore fine » — nel sistema costituzionale che, anzi, avrebbe scelto di conservare le giurisdizioni storiche, in un sistema di riparto affidato al legislatore ordinario (sentt. nn. 48 del 1959 e 641 del 1987 di questa Corte). Né altrimenti sarebbe stato imposto a quest’ultimo, per via costituzionale, alcun limite alla individuazione delle particolari materie di giurisdizione amministrativa esclusiva sotto il profilo della necessaria compresenza di diritti soggettivi ed interessi legittimi. Tant’è che già in passato v’è stato un ampliamento di tale sfera giurisdizionale in assenza del richiamato « inestricabile nodo gordiano ». Con riguardo alla pretesa irragionevolezza dell’attuale sistema di riparto giurisdizionale, ricorda la deducente che nel sistema francese, affine a quello italiano, è affidata al giudice amministrativo la cognizione dell’azione pubblica tanto nel momento autoritativo che in quello paritetico. Improprio sarebbe inoltre il richiamo al giudice ordinario quale « giudice naturale » dei diritti, tenuto conto che l’art. 25 Cost. ancora tale nozione al solo giudice « precostituito per legge ». Per quanto attiene, infine, alle lamentate lesioni dei principi di uguaglianza e di difesa, con riguardo alle asserite, minori garanzie esistenti innanzi al giudice amministrativo, l’Avvocatura osserva come l’argomento provi troppo, tenuto conto che la equiordinazione, sul piano della tutela giurisdizionale e della difesa, approntata dalla Costituzione per diritti ed interessi, indurrebbe a dubitare della legittimità della giurisdizione esclusiva anche in materie in cui esiste l’evocato intreccio delle differenti situazioni soggettive. Infine, — rileva l’interveniente — neppure appare costituzionalizzato il ruolo nomofilattico pieno della Corte di cassazione. 1.4. Si è costituita, ma fuori termine, la casa di cura Villa Maria Pia S.r.l. che ha aderito in toto alle argomentazioni contenute nell’ordinanza di rimessione. 1.5.

Nella memoria successivamente depositata, l’Avvocatura dello


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Stato effettua, preliminarmente, un’articolata ricostruzione dell’evoluzione che la materia del riparto di giurisdizione ha avuto nel corso degli anni, al fine di dimostrare come dalla Carta fondamentale del nostro Stato si evinca con chiarezza la volontà del Costituente « di affermare la completa parità ed originarietà dei due ordini di giurisdizione » e conseguentemente di lasciare la concreta distribuzione degli affari tra gli stessi alle scelte discrezionali del legislatore. Ribadisce quindi che le norme impugnate si limitano a devolvere alla cognizione del giudice amministrativo particolari materie caratterizzate da spiccate connotazioni pubblicistiche, nell’ottica, non in conflitto col sistema costituzionale, del superamento del tradizionale criterio di riparto, fondato sul tipo di posizione soggettiva lesa (diritto soggettivo-interesse legittimo). Rileva in proposito che gli artt. 103 e 113 Cost. esprimono, con il richiamo all’interesse legittimo, nient’altro che il vincolo « relativo alla deducibilità in giudizio di tutte le controversie incidenti su interessi legittimi », esplicitando il principio di cui all’art. 24 Cost. e rimettendo, per il resto, al legislatore ordinario l’individuazione delle particolari « materie » di giurisdizione esclusiva, secondo un’accezione che, considerato il tratto « polisemico » del lemma, « ben si presta a ricomprendere alternativamente o vasti ambiti di attività amministrativa unitariamente considerati (in senso orizzontale: ad esempio urbanistica, edilizia, etc.) oppure un oggetto contenzioso (in senso verticale: paradigmaticamente il risarcimento del danno) accessivo a quello di competenza generale ». In alcun modo, invece, l’art. 103 Cost. collegherebbe l’individuazione delle particolari materie al presupposto dell’esistenza di un inestricabile intreccio tra diritti ed interessi legittimi, quale ragione tralaticiamente richiamata come essenziale ai fini dell’individuazione dell’area di operatività della giurisdizione esclusiva sulla scorta di un inesatto presupposto storico. Ne discenderebbe, per come affermato proprio dalla Corte costituzionale (ord. n. 140 del 2001), « una sorta di principio di indifferenza o intercambiabilità della tutela fornita dai due ordini di giurisdizioni », rafforzato dalle sempre più numerose eccezioni al divieto per il giudice ordinario di annullare atti amministrativi e dal correlativo ampliamento dei casi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Peraltro, ad avviso dell’Avvocatura, le norme censurate darebbero attuazione ai principi racchiusi nell’art. 24 Cost. anche sotto il profilo della eliminazione, da un lato, delle incertezze circa l’individuazione del giudice da adire e, dall’altro, delle lungaggini connesse alla necessità di percorrere il c.d. doppio giudizio per ottenere la piena soddisfazione delle posizioni soggettive lese, in armonia con i modelli istituzionali degli altri paesi membri dell’Unione europea in cui vige il sistema della doppia giurisdizione. Rilevato quindi che il cambiamento normativo ha avuto carattere biunivoco con l’attribuzione al giudice ordinario delle controversie relative al rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione, sottolinea la deducente come, conseguenzialmente, il riparto si sia venuto ad assestare su un nuovo punto di equilibrio, nel quale mentre il giudice ordina-


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rio è divenuto « il giudice naturale di una pubblica amministrazione che gestisce tutti i rapporti di lavoro alle sue dipendenze con i poteri e gli strumenti del privato datore, il giudice amministrativo, per converso, [ha acquisito] la piena cognizione di rapporti litigiosi in cui si applicano regole sostanziali esorbitanti dal diritto privato, anche se di essi siano parti... soggetti formalmente privati ma tenuti all’applicazione, specie in materia contrattuale, di procedure amministrative ». Peraltro, anche qualora si ravvisasse nella locuzione « particolari materie » un vincolo per il legislatore, questo non andrebbe individuato nel c.d. « nodo gordiano » diritti-interessi, la cui connessione con il problema del riparto deriverebbe da « un imprecisato ricordo storico »: in realtà, ove un limite si volesse considerare imposto nella individuazione dei settori da affidare alla giurisdizione esclusiva, questo non potrebbe che rinvenirsi « nelle materie in cui si verifica un assoggettamento dei diritti all’esercizio di un potere conformativo della pubblica amministrazione », con conseguente piena legittimità delle scelte operate dal legislatore nelle norme denunciate. Infine, con riguardo alla prospettata violazione dell’art. 111 Cost., osserva la deducente che la Carta fondamentale costituzionalizza le differenti competenze facenti capo alla Corte di cassazione in modo diverso da quello che i rimettenti danno per presupposto. Premesso che storicamente la funzione di nomofilachia della Cassazione risponde all’esigenza di natura politica di salvaguardare il principio della separazione tra poteri, preservando le leggi da ciò che i positivisti francesi definivano la « ribellione dei giudici », nel complesso delle attribuzioni della Suprema Corte individuate dall’art. 65 dell’Ordinamento giudiziario occorrerebbe distinguere le funzioni afferenti l’esatta osservanza della legge — la quale significa rispetto, da parte di tutti i giudici, del limite esterno della giurisdizione — da quelle afferenti l’uniforme interpretazione della legge (c.d. nomofilachia in senso generico): orbene, ad avviso dell’Avvocatura, questa sarebbe dalla Costituzione attribuita alla Cassazione solo per quanto concerne le sentenze del giudice ordinario. 2. Con tre distinte ordinanze, due delle quali pronunciate in data 11 ottobre 2002 (r.o. n. 226 e n. 227 del 2003) e l’altra in data 31 gennaio 2003 (r.o. n. 680 del 2003), il Tribunale di Roma ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 102, 103, 111 e 113 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 1, del d.lgs. n. 80 del 1998, nel testo sostituito dall’art. 7 della l. n. 205 del 2000, il quale devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto gli atti, i provvedimenti e i comportamenti delle amministrazioni pubbliche e dei soggetti alle stesse equiparati, in materia di urbanistica ed edilizia. I giudizi nel corso dei quali le prime due ordinanze sono state emesse avevano ad oggetto domande di risarcimento danni proposte, con atti di citazione notificati il 20 luglio 2000, dagli eredi di Arturo Menhert nei confronti del Comune di Roma, fondate, l’una, sulla circostanza che un fondo


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del loro dante causa era stato occupato, sin dall’11 agosto 1978, dall’ente convenuto, in vista della realizzazione di un asilo nido, poi effettivamente completato nel 1979, senza che peraltro la procedura di esproprio venisse mai portata a compimento e senza che venisse pagato il relativo indennizzo; l’altra, sul fatto che lo stesso Comune, con deliberazione consiliare n. 2201 del 3, 4 e 5 maggio 1976, aveva modificato la destinazione edilizia di alcuni terreni del medesimo dante causa, da aree edificabili ad aree per attrezzature di servizi di quartiere e verde pubblico, in vista della costruzione di una strada, cosı̀ determinando, senza che l’opera pubblica venisse in realtà mai realizzata, un tale deprezzamento degli immobili compresi nella variante da indurre la Cassa di risparmio di Roma a chiedere la restituzione di ingenti prestiti, erogati a Menhert S.r.l. e garantiti da quei beni; richiesta che, rimasta inevasa, aveva a sua volta provocato il fallimento della società garantita. La terza ordinanza è intervenuta nel corso di un giudizio proposto, con atto di citazione notificato il 26 gennaio 2001, dalla società D.M. S.a.s. di Abrusca Clara & c. nei confronti, ancora una volta, del Comune di Roma, al fine di ottenere il ristoro dei danni subiti in conseguenza del mancato allaccio alla rete fognaria e della mancata « agibilità » di un locale a destinazione negozio, di proprietà della società attrice. 2.1. In punto di rilevanza, in tutti e tre i giudizi il giudice a quo, evidenziato che il Comune convenuto ha opposto il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, osserva che, secondo le nuove previsioni in punto di riparto di giurisdizione — che attribuiscono al giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva, le controversie aventi ad oggetto, tra gli altri, i comportamenti della pubblica amministrazione in materia urbanistica — l’eccezione sarebbe fondata: e invero, alla stregua dei consolidati e condivisi orientamenti del Supremo Collegio, la materia urbanistica non si esaurisce nell’aspetto normativo della disciplina dell’uso del territorio, ma comprende anche il momento gestionale. Nelle ordd. nn. 226 e 227 del 2003 peraltro, emesse in giudizi iniziati con atti di citazione notificati il 20 luglio 2000, il rimettente precisa, richiamando le puntualizzazioni espresse dalla Corte costituzionale nelle pronunce nn. 123 e 340 del 2002, che nella fattispecie la giurisdizione esclusiva si radica non già sul testo originario dell’art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998, ma su quello sostituito dall’art. 7 della l. n. 205 del 2000, il quale, da un lato, ha innovato la natura giuridica della fonte, da legge materiale a legge formale (cosı̀ affrancandola dal vizio di eccesso di delega) e, dall’altro, per i giudizi introdotti dopo il 10 luglio 1998 e pendenti al 10 agosto 2000 — date in cui sono entrati in vigore, rispettivamente, il d.lgs. n. 80 del 1998 e la l. n. 205 del 2000 — ha disciplinato direttamente la giurisdizione, in deroga al principio sancito dall’art. 5 c.p.c., non avendo immutato il dettato dell’art. 45, comma 18, del d.lgs. n. 80 del 1998, che prevede, a decorrere dal 1o luglio 1998, la devoluzione al giudice amministrativo delle


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controversie di cui agli artt. 33 e 34: tale ricostruzione della successione temporale delle norme disciplinanti le controversie devolute alla sua cognizione, impone al decidente di ritenere rilevante nel giudizio a quo la questione di costituzionalità dell’art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998, nel testo risultante dalla sostituzione operata dall’art. 7 della l. n. 205 del 2000. 2.2. Quanto alla non manifesta infondatezza del dubbio di legittimità, il rimettente, che svolge considerazioni sostanzialmente identiche in tutti e tre i provvedimenti di rimessione, sostiene preliminarmente che il sistema dell’estensione della giurisdizione esclusiva per blocchi di materie, seguito dal legislatore sia nel 1998 sia nel 2000, si discosta da quello delineato nella Carta costituzionale, oltre ad apparire scarsamente razionale e ingiustificatamente squilibrato a favore della pubblica amministrazione, la quale viene in effetti ad avere un proprio giudice. In particolare, il contrasto con gli artt. 102, comma 1, 103, comma 1, e 113, comma 1, Cost., si radicherebbe sulla sostanziale ricezione, nell’assetto accolto dal Costituente, del sistema di tutela giurisdizionale del privato nei confronti della pubblica amministrazione disciplinato dalla legislazione previgente e in particolare dalla l. n. 2248 del 1865, All. E, e dal r.d. n. 1054 del 1924: sistema che ruota tutto intorno alla dicotomia diritto soggettivo-interesse legittimo, quali posizioni soggettive giustiziabili, rispettivamente, davanti al giudice ordinario e al giudice amministrativo. Posto allora che, nel quadro istituzionale delineato dalla legge fondamentale del nostro Stato, il giudice ordinario è giudice dei diritti e la sua giurisdizione viene meno soltanto nei limitati casi in cui la cognizione, in considerazione dell’intreccio, difficilmente districabile per talune controversie, di figure giuridiche attive riconducibili all’una o all’altra categoria, è attribuita al giudice amministrativo, il legislatore ordinario non potrebbe discostarsi da tale modello, attribuendo determinate materie al giudice amministrativo in considerazione della loro rilevanza pubblicistica. E ciò tanto più che il contesto normativo di riferimento, ancorché caratterizzato dalla progressiva estensione dell’area della giurisdizione esclusiva — in buona parte a prescindere dalla qualificazione giuridica della situazione vantata nei confronti della pubblica amministrazione (cosı̀ l’art. 11, comma 5, della l. n. 241 del 7 agosto 1990, sugli accordi con la pubblica amministrazione sostitutivi dei provvedimenti; l’art. 33 della l. n. 287 del 10 ottobre 1990 e l’art. 7 del d.lgs. n. 74 del 25 gennaio 1992, come modificato dall’art. 5, comma 11, del d.lgs. n. 67 del 25 febbraio 2000, sui provvedimenti dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato; l’art. 6, comma 19, della l. n. 537 del 24 dicembre 1993, come modificato dall’art. 44 della l. n. 724 del 23 dicembre 1994, sui contratti per la fornitura di beni e servizi alle pubbliche amministrazioni; l’art. 4, comma 7, della l. n. 109 dell’11 febbraio 1994, come modificato dall’art. 9, comma 9, della l. n. 415 del 18 novembre 1998, sui provvedimenti dell’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici; l’art. 2, comma 25, della l. n. 481 del 14 novembre 1995, sui


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provvedimenti delle Autorità per i servizi di pubblica utilità; l’art. 1, comma 26, della l. n. 249 del 31 luglio 1997, sui provvedimenti delle Autorità per le telecomunicazioni) — non avrebbe, a giudizio del rimettente, affatto obliterato la fondamentale funzione del giudice ordinario quale giudice dei diritti. Non a caso, egli ricorda, nel disciplinare il giudizio di opposizione alle sanzioni amministrative (l. 24 novembre 1981, n. 689), il legislatore si è spinto nel riconoscimento di quella funzione, fino al punto di attribuire al giudice ordinario il potere di intervenire direttamente sull’atto, mentre, pur nell’ambito delle varie ipotesi di giurisdizione esclusiva relative all’impugnazione dei provvedimenti emessi dalle Autorità indipendenti, non mancano casi in cui è sancita la giurisdizione del giudice ordinario. Né l’attribuzione al giudice amministrativo delle controversie in materia di urbanistica ed edilizia, operata dall’art. 7 della l. n. 205 del 2000, estesa a tutti gli atti, i provvedimenti e i comportamenti non solo delle pubbliche amministrazioni, ma anche « dei soggetti alle stesse equiparati », a prescindere dalla compresenza di situazioni di diritto soggettivo e di interesse legittimo, potrebbe ritenersi legittimata dalla previsione di cui all’art. 103, comma 1, Cost., posto che la lettera di tale norma evidenzia, semmai, che il legislatore costituzionale si è mosso nell’ottica del carattere eccezionale della riserva al giudice amministrativo di aree di giurisdizione esclusiva. Se dunque — argomenta il rimettente — il sistema di riferimento risulta strutturato sulla netta distinzione tra diritti e interessi legittimi, sulla « particolarità » delle materie nelle quali far operare la giurisdizione esclusiva e sulla individuabilità delle stesse attraverso l’inscindibile coesistenza di diritti e interessi, forte è il dubbio della legittimità di una norma di legge ordinaria che da tale assetto palesemente si discosti. Tale convincimento, ad avviso del giudice a quo, sarebbe convalidato dall’avvenuta presentazione, in data 28 novembre 2000, della proposta di legge costituzionale Atto Camera 7465 della XIII Legislatura, in cui, disegnata l’area di giurisdizione del giudice amministrativo con riferimento alle « controversie con la pubblica amministrazione nelle materie indicate dalla legge », venivano allo stesso esplicitamente riservate in ogni caso quelle « riguardanti l’esercizio di pubblici poteri »: modifica della Costituzione espressamente giustificata nella relazione illustrativa anche col richiamo all’entrata in vigore della l. n. 205 del 2000, la quale avrebbe espresso « una decisa volontà del Parlamento nel senso indicato ». Quanto poi al contrasto con gli artt. 102, secondo comma, e 3, comma 1, Cost., osserva il rimettente che, se la ratio giustificatrice dell’istituto della giurisdizione esclusiva è stata per tradizione individuata nella peculiarità delle controversie nelle quali sia parte la pubblica amministrazione, stante la rilevanza pubblicistica degli interessi in gioco e la necessità di fare applicazione di una normativa speciale, di natura amministrativa, derogatoria rispetto al diritto comune — rilievo da taluno correlato alla tesi dell’esi-


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stenza di un principio costituzionale di pluralità delle giurisdizioni —, sarebbe palese la sua assenza con riguardo a quelle fattispecie in cui venga lamentata la lesione di un diritto soggettivo, perché la pubblica amministrazione ha leso posizioni attive di altri soggetti, agendo iure privatorum o ponendo in essere un’attività illecita: qui occorrerà invero fare applicazione di nozioni quali danno ingiusto, nesso di causalità e colpevolezza, tipiche del diritto civile. In tale contesto normativo la norma impugnata, contraddicendo al principio per cui il giudice amministrativo è organo di tutela della giustizia nell’amministrazione e non già giudice dell’amministrazione, ingenera il sospetto di violazione del divieto di istituire giudici speciali (art. 102, comma 2, Cost.), dubbio vieppiù avvalorato dalla considerazione dei meccanismi di copertura di un quarto dei posti di consigliere di Stato (art. 19, numero 2, della l. 27 aprile 1982, n. 186), di nomina del presidente del Consiglio di Stato (art. 22, comma 1, della legge cit.) e di conferimento dell’incarico di segretario generale (art. 4, comma 3); nonché dalla considerazione delle funzioni di « alta sorveglianza » e di iniziativa in punto di promozione dei procedimenti disciplinari, attribuite al Presidente del Consiglio dei ministri su tutti i magistrati amministrativi (artt. 31, comma 1, e 33, comma 1) e della possibilità, per gli stessi, di accedere allo svolgimento di funzioni giuridico-amministrative presso le amministrazioni dello Stato (art. 13, comma 2, n. 8, e art. 29, comma 3). Sostiene anche il rimettente che devolvere una controversia a un giudice speciale in funzione, soltanto, della natura pubblica di una delle parti o della pretesa rilevanza pubblicistica degli interessi in contesa, desunta dall’esercizio di funzioni amministrative, anche da parte di un soggetto privato, sarebbe scelta foriera di una non giustificata disparità di trattamento tra i soggetti dell’ordinamento, posto che essa recherebbe in sé il rischio dell’affermazione di un diritto speciale della pubblica amministrazione, conformato su valutazioni incompatibili con la natura privatistica del rapporto controverso e su una posizione di ingiustificato privilegio attribuita ad una delle parti, la pubblica amministrazione, alla quale invece la Costituzione non riconosce alcun privilegio o statuto particolare, specie ove non agisca iure imperii o si rapporti ai privati su un piano di parità. Il sospetto di lesione degli artt. 111, commi 7 e 8, e 24, comma 1, e, sotto nuovo profilo, ancora una volta, dell’art. 3 Cost. viene radicato sul fatto che il legislatore del 2000, istituendo un giudice amministrativo munito di giurisdizione esclusiva in materie e con strumenti processuali pressoché coincidenti con le materie e con gli strumenti processuali da sempre appartenenti al giudice ordinario, si sarebbe mosso in palese controtendenza con le ragioni della scelta che guidarono il Costituente il quale, mantenendo in vita alcune delle giurisdizioni speciali preesistenti, operò in vista della conservazione del patrimonio di conoscenze da questi acquisite. L’irragionevolezza dell’opzione normativa, e la conseguente violazione dell’art. 3 Cost., risulterebbe vieppiù evidente in un contesto storico segnato — come si evince dall’art. 11 della l. n. 241 del 1990 e dalla notissima


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Cass. Sez. un., n. 500 del 1999 — dalla sempre più incisiva affrancazione dei rapporti fra cittadino e pubblica amministrazione dal modello c.d. autoritativo, e dalla loro evoluzione verso un modello c.d. negoziale, centrato sull’accordo delle parti e sul loro fondamentale dovere di comportarsi secondo buona fede. Infine l’attribuzione della cognizione di controversie sostanzialmente identiche, da decidere, per giunta, facendo uso di poteri processuali in larga misura coincidenti, a due plessi giurisdizionali distinti, unicamente in ragione della natura soggettiva di una delle parti in causa, comporterebbe un sostanziale svuotamento anche del fondamentale diritto di difesa, sancito dall’art. 24, comma 1, Cost., sotto il profilo che, limitando l’art. 111, comma 8, Cost., la ricorribilità per Cassazione delle decisioni del Consiglio di Stato ai « soli motivi inerenti alla giurisdizione », non vi sarebbe alcuna possibilità di composizione dei contrasti giurisprudenziali fra giudici ordinari e giudici amministrativi. 2.3. In tutti e tre i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, a mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha dedotto l’inammissibilità e l’infondatezza della questione proposta, richiamando le argomentazioni (sub 1.3.) svolte nel giudizio relativo alla ord. n. 488 del 2002. 2.4. Il 6 ottobre 2003, nei giudizi di cui alle ordd. nn. 226 e 227 del 2003, e il 26 novembre 2003, nel giudizio di cui all’ord. n. 680 del 2003, l’Avvocatura ha poi depositato memorie di contenuto pressoché identico a quello della memoria depositata nel giudizio n. 488 del 2002 (v. retro, sub 1.5.). CONSIDERATO IN DIRITTO. — 1. Il Tribunale di Roma solleva questione di legittimità costituzionale, con r.o. n. 488 del 2002, dell’art. 33, comma 1 e comma 2, lett. b) ed e) e, con r.o. n. 226, n. 227 e n. 680 del 2003, dell’art. 34, comma 1, del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, come sostituiti dall’art. 7 della l. 21 luglio 2000, n. 205; in tutte le ordinanze di rimessione si assumono violati gli artt. 3, 24, 102, 103, 111 e 113 Cost., mentre la prima ordinanza dubita, altresı̀, della violazione degli artt. 25 e 100 Cost. I giudizi — in ciascuno dei quali è adeguatamente motivata la rilevanza della questione — devono essere riuniti in quanto, sia pure in relazione a due norme diverse (artt. 33 e 34 del d.lgs. n. 80 del 1998, come modificati dall’art. 7 della l. n. 205 del 2000), in tutti viene sostanzialmente posta la (medesima) questione dei limiti che il legislatore ordinario deve rispettare nel disciplinare, ampliandola, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. 2.

Le questioni sono fondate nei limiti di seguito precisati.


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2.1. I giudici rimettenti lamentano che la l. n. 205 del 2000, portando a compimento un disegno di politica legislativa volto, a partire dal 1990, ad estendere l’area della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, abbia sostituito al criterio di riparto della giurisdizione fissato in Costituzione, e costituito dalla dicotomia diritti soggettivi-interessi legittimi, il diverso criterio dei « blocchi di materie »: in tal modo sarebbe stato alterato non soltanto il rapporto tra giurisdizione del giudice ordinario e del giudice amministrativo — rapporto che, pur non essendo stato realizzato il principio dell’unicità della giurisdizione, dovrebbe pur sempre essere di regola ad eccezione quanto alla cognizione su diritti soggettivi — ma anche il rapporto, all’interno della giurisdizione del giudice amministrativo, tra giurisdizione (generale) di legittimità e giurisdizione (speciale, se non eccezionale) esclusiva. La violazione degli artt. 102 e 103 Cost. (e dell’art. 100 — aggiunge l’ord. n. 488 del 2002 — con la trasformazione del Consiglio di Stato da giudice « nell’amministrazione » in giudice « dell’amministrazione ») non si sarebbe realizzata con i pur massicci interventi legislativi degli anni ’90, in quanto le nuove ipotesi di giurisdizione esclusiva concernevano pur sempre « talune specifiche controversie » caratterizzate « dall’intreccio di posizioni giuridiche riconducibili tanto al diritto soggettivo quanto all’interesse legittimo »: è con il d.lgs. n. 80 del 1998, specie come trasfuso nell’art. 7 della l. n. 205 del 2000, che il legislatore ha abbandonato il criterio dello « inestricabile nodo gordiano » ravvisabile in specifiche controversie correlate all’interesse generale per accogliere quello dei « blocchi di materie », nelle quali « la commistione di diritti soggettivi ed interessi legittimi non si debba ricercare nelle varie tipologie delle singole controversie ma nell’atteggiarsi dell’azione della pubblica amministrazione in settori determinati, anche se molto estesi, connotati da una significativa presenza dell’interesse pubblico ». La Costituzione, attribuendo al giudice ordinario « il ruolo di giudice naturale dei diritti soggettivi tra privati e pubblica amministrazione », avrebbe recepito e fatto propri i principi ispiratori della l. n. 2248 del 1865, All. E, cosı̀ conferendo alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo un carattere residuale, che può giustificare « eccezioni ma non stravolgimenti » rispetto alla « tendenziale generalità ed illimitatezza delle attribuzioni del giudice ordinario ». Anche a voler prescindere dall’irragionevolezza della scelta legislativa di esaltare il ruolo del giudice amministrativo nel momento in cui al c.d. modello autoritativo dei rapporti cittadino-pubblica amministrazione viene sempre più sostituito il c.d. modello negoziale, tale scelta — unita al conferimento al giudice amministrativo di « pienezza di poteri decisori » e quindi anche risarcitori, perfino « al di fuori della giurisdizione esclusiva e nell’ambito della sua giurisdizione generale di legittimità » — farebbe sı̀ che « il giudice amministrativo sia ormai proiettato in una dimensione civilistica che fino a ieri costituiva territorio esclusivo del giudice ordinario »,


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per giunta senza sottostare al controllo nomofilattico, che costituisce anche garanzia di parità di trattamento, della Corte di cassazione. 2.2. Del tutto correttamente i rimettenti osservano che la Carta costituzionale ha recepito — non senza conservare traccia nell’art. 102, comma 1, dell’orientamento favorevole all’unicità della giurisdizione — il nucleo dei principi in materia di giustizia amministrativa quali evolutisi a partire dalla legge abolitrice del contenzioso amministrativo del 1865: ed i lavori della Costituente documentano come « l’indispensabile riassorbimento nella Costituzione dei principi fondamentali della legge 20 marzo 1865 » conducesse, da un lato, alla proposta di Calamandrei per cui « l’esercizio del potere giudiziario in materia civile, penale e amministrativa appartiene esclusivamente ai giudici ordinari » (art. 12, discusso dalla seconda Sottocommissione il 17 dicembre 1946) e, dall’altro lato, al testo (proposto dagli on.li Conti, Bettiol, Perassi, Fabbri e Vito Reale) approvato dall’Assemblea costituente nella seduta pomeridiana del 21 novembre 1947, corrispondente agli attuali artt. 102 e 103 Cost.; e conducesse, inoltre, alla esclusione della soggezione delle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti al controllo di legittimità della Corte di cassazione, limitandolo al solo « eccesso di potere giudiziario », coerentemente alla « unità non organica, ma funzionale di giurisdizione, che non esclude, anzi implica, una divisione dei vari ordini di giudici in sistemi diversi, in sistemi autonomi, ognuno dei quali fa parte a sé » (cosı̀ Mortati, seduta pomeridiana del 27 novembre 1947). In realtà, come la dottrina ha da tempo chiarito, la l. n. 2248 del 1865, All. E, nel momento stesso in cui assicurava tutela al cittadino davanti al giudice ordinario per « tutte le materie nelle quali si faccia questione di un diritto civile o politico, comunque vi possa essere interessata la pubblica amministrazione » (art. 2), sanciva in ogni altro caso (per « gli affari non compresi nell’articolo precedente ») la totale sottrazione a qualsiasi controllo giurisdizionale della sfera della c.d. amministrazione pura (art. 3): in tal modo — anche grazie all’ampiezza con la quale questa zona « franca » dell’amministrazione fu intesa dalla giurisprudenza, in ciò incoraggiata dall’allora giudice dei conflitti, il Consiglio di Stato, e dal successivo giudice ex l. 31 marzo 1877 n. 3761, le sezioni unite della Cassazione romana — la legge del 1865 creava le premesse della legislazione successiva volta a colmare il sempre più grave vuoto di tutela giurisdizionale da essa lasciato con il puro e semplice ignorare tale esigenza negli « affari non compresi » nell’art. 2. La relazione Crispi al disegno di legge, divenuto la legge (istitutiva della IV Sezione) 31 marzo 1889, n. 5992, chiarisce infatti che « la legge 20 marzo 1865, All. E, proclamò l’unità della giurisdizione, ma nulla avendo sostituito al contenzioso amministrativo che abolı̀, rimase abbandonata alla potestà amministrativa l’immensa somma di interessi onde lo Stato è depositario »; e pur se soltanto la l. 7 marzo 1907, n. 62, istitutiva


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della V Sezione, definı̀ « giurisdizionale » questa e la IV Sezione, riconoscendo alle loro decisioni l’efficacia del giudicato, la funzione giurisdizionale dell’organo, che sarebbe stato chiamato a colmare il vuoto di tutela da essa lasciato, era già insita nella legge abolitrice del contenzioso amministrativo. È evidente, quindi, l’ambivalenza del richiamo — operato cosı̀ da Calamandrei come dai suoi oppositori nell’Assemblea costituente — all’« indispensabile riassorbimento nella Costituzione dei principi fondamentali della legge 20 marzo 1865, All. E »: richiamo, che potrebbe dirsi « statico », da parte di chi voleva colmare, nel 1947, con il giudice ordinario (eventualmente attraverso sue sezioni specializzate), il vuoto di tutela lasciato nel 1865 ed « abusivamente » (rispetto ai principi proclamati nell’art. 2) poi riempito da un Consiglio di Stato che aveva, ormai, « esaurito storicamente » il suo compito (Calamandrei, II Sottocommissione, seduta pomeridiana del 9 gennaio 1947); richiamo, che potrebbe dirsi « dinamico », da parte di chi sottolineava che « il Consiglio di Stato non ha mai tolto nulla al giudice ordinario » (cosı̀ Bozzi, ivi) in quanto la giurisdizione amministrativa è sorta « non come usurpazione al giudice ordinario di particolari attribuzioni, ma come conquista di una tutela giurisdizionale da parte del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione; quindi non si tratta di ristabilire la tutela giudiziaria ordinaria del cittadino che sia stata usurpata da questa giurisdizione amministrativa, ma di riconsacrare la perfetta tradizione di una conquista particolare di tutela da parte del cittadino » (Leone, Assemblea, seduta pomeridiana del 21 novembre 1947). Sembra allora chiaro che il Costituente, accogliendo quest’ultima impostazione, ha riconosciuto al giudice amministrativo piena dignità di giudice ordinario per la tutela, nei confronti della pubblica amministrazione, delle situazioni soggettive non contemplate dal (modo in cui era stato inteso) l’art. 2 della legge del 1865; cosı̀ come di questa legge ha, con quello che sarebbe diventato l’art. 113 Cost., recepito il principio — « e fu per questo ritenuta una conquista liberale di grande importanza » — « per il quale, quando un diritto civile o politico viene leso da un atto della pubblica amministrazione, questo diritto si può far valere di fronte all’Autorità giudiziaria ordinaria, in modo che la pubblica amministrazione davanti ai giudici ordinari viene a trovarsi, in questi casi, come un qualsiasi litigante privato soggetto alla giurisdizione... principio fondamentale che è stato completato poi con l’istituzione delle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato... dell’unicità della giurisdizione nei confronti della pubblica amministrazione » (Calamandrei, Assemblea, seduta pomeridiana del 27 novembre 1947). 2.3. Se, relativamente alla conservazione della giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo, l’esame dei lavori dell’Assemblea costituente offre il quadro che si è tratteggiato, da essi non emergono particolari elementi di chiarificazione relativamente alla previsione, nel testo


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dell’art. 103 Cost., della giurisdizione esclusiva: previsione che compare quasi come accessoria rispetto a quella generale di legittimità, per « la inscindibilità delle questioni di interesse legittimo e di diritto soggettivo, e per la prevalenza delle prime », le quali impongono di « aggiungere la competenza del Consiglio di Stato per i diritti soggettivi, nelle materie particolari specificamente indicate dalla legge » (Ruini, Assemblea, seduta pomeridiana del 21 novembre 1947). 3. L’ambivalenza stessa della premessa, si è rilevato, esclude in radice che possa sostenersi che la Costituzione abbia definitivamente ed immutabilmente cristallizzato la situazione esistente nel 1948 circa il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, ma deve anche escludersi che dalla Costituzione non si desumano i confini entro i quali il legislatore ordinario, esercitando il potere discrezionale suo proprio (più volte riconosciutogli da questa Corte), deve contenere i suoi interventi volti a ridistribuire le funzioni giurisdizionali tra i due ordini di giudici: a ciò non ostando la circostanza che, per la prima volta in un testo normativo, è nella Costituzione che compare, e ripetutamente, la locuzione « interessi legittimi ». Si è detto della chiara opzione del Costituente in favore del riconoscimento al giudice amministrativo della piena dignità di giudice: riconoscimento per il quale milita, oltre e più che l’apprezzamento, più volte espresso nell’Assemblea costituente, per l’indipendenza con la quale il Consiglio di Stato aveva operato durante il regime fascista, la circostanza che l’art. 24 Cost. assicura agli interessi legittimi — la cui tutela l’art. 103 riserva al giudice amministrativo — le medesime garanzie assicurate ai diritti soggettivi quanto alla possibilità di farli valere davanti al giudice ed alla effettività della tutela che questi deve loro accordare. Si è anche sostenuto che, in presenza di tale opzione, il principio dell’unicità della giurisdizione — espresso dall’art. 102, con riguardo al giudice, e riflesso nell’art. 113, con riguardo alle forme di tutela garantite al cittadino — sta a significare che in nessun caso il legislatore ordinario può far sı̀ che la pubblica amministrazione sia, in quanto tale, assoggettata ad una particolare giurisdizione, ovvero sottratta alla giurisdizione alla quale soggiace « qualsiasi litigante privato »: la specialità di un giudice può fondarsi esclusivamente sul fatto che questo sia chiamato ad assicurare la giustizia « nell’amministrazione », e non mai sul mero fatto che parte in causa sia la pubblica amministrazione. 3.1. Alla luce di tali principi occorre valutare se la disciplina introdotta, in punto di giurisdizione esclusiva, dalla l. n. 205 del 2000 è tale da confliggere con essi; ciò che equivale a chiedersi se quei principi conformino la giurisdizione esclusiva, ritenuta ammissibile dalla Costituzione, in modo incompatibile con la disciplina dettata dalla legge de qua. Si è rilevato (sub 2.1.) che i rimettenti ricordano diffusamente come la


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giurisdizione esclusiva — fino al 1990 confinata nei ristretti limiti segnati dagli artt. 29 del t.u. n. 1054 del 1924 e 5, comma 1, della l. n. 1034 del 1971 (ma adde gli artt. 11 della l. n. 1185 del 1967; 32 della l. n. 426 del 1971; 16 della l. n. 10 del 1977; 6 della l. n. 440 del 1978; 35 della l. n. 47 del 1985; 11 della l. n. 210 del 1985) — sia stata notevolmente estesa a partire da tale anno contemplando l’impugnazione degli atti delle c.d. autorità amministrative indipendenti (artt. 33 della l. n. 287 del 1990; 7 del d.lgs. n. 74 del 1992; 10 della l. n. 109 del 1994; 2 della l. n. 481 del 1995; 1 della l. n. 249 del 1997) nonché quella degli accordi tra privati e pubblica amministrazione (artt. 11 e 15 della l. n. 241 del 1990; l. n. 537 del 1993); ma tale estensione non appare loro confliggente con alcun parametro costituzionale in quanto, osservano, pur sempre limitata a specifiche controversie connotate non già da una generica rilevanza pubblicistica, bensı̀ dall’intreccio di situazioni soggettive qualificabili come interessi legittimi e come diritti soggettivi. La giurisdizione esclusiva introdotta, viceversa, dalla l. n. 205 del 2000 sarebbe qualitativamente diversa e, come tale, incompatibile con il dettato costituzionale. 3.2. Le censure che si sono sinteticamente riferite (sub 2.1.) colgono nel segno nella parte in cui denunciano l’adozione, da parte del legislatore ordinario del 1998-2000, di un’idea di giurisdizione esclusiva ancorata alla pura e semplice presenza, in un certo settore dell’ordinamento, di un rilevante pubblico interesse; un’idea — come osservano i rimettenti — che presuppone l’approvazione (mai avvenuta) di quel progetto di riforma (Atto Camera 7465 XIII Legislatura) dell’art. 103 Cost. secondo il quale « la giurisdizione amministrativa ha ad oggetto le controversie con la pubblica amministrazione nelle materie indicate dalla legge ». È evidente, viceversa, che il vigente art. 103, comma 1, Cost. non ha conferito al legislatore ordinario una assoluta ed incondizionata discrezionalità nell’attribuzione al giudice amministrativo di materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, ma gli ha conferito il potere di indicare « particolari materie » nelle quali « la tutela nei confronti della pubblica amministrazione » investe « anche » diritti soggettivi: un potere, quindi, del quale può dirsi, al negativo, che non è né assoluto né incondizionato, e del quale, in positivo, va detto che deve considerare la natura delle situazioni soggettive coinvolte, e non fondarsi esclusivamente sul dato, oggettivo, delle materie. Tale necessario collegamento delle « materie » assoggettabili alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo con la natura delle situazioni soggettive — e cioè con il parametro adottato dal Costituente come ordinario discrimine tra le giurisdizioni ordinaria ed amministrativa — è espresso dall’art. 103 laddove statuisce che quelle materie devono essere « particolari » rispetto a quelle devolute alla giurisdizione generale di legittimità: e cioè devono partecipare della loro medesima natura, che è contras-


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segnata della circostanza che la pubblica amministrazione agisce come autorità nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino davanti al giudice amministrativo. Il legislatore ordinario ben può ampliare l’area della giurisdizione esclusiva purché lo faccia con riguardo a materie (in tal senso, particolari) che, in assenza di tale previsione, contemplerebbero pur sempre, in quanto vi opera la pubblica amministrazione-autorità, la giurisdizione generale di legittimità: con il che, da un lato, è escluso che la mera partecipazione della pubblica amministrazione al giudizio sia sufficiente perché si radichi la giurisdizione del giudice amministrativo (il quale davvero assumerebbe le sembianze di giudice « della » pubblica amministrazione: con violazione degli artt. 25 e 102, comma 2, Cost.) e, dall’altro lato, è escluso che sia sufficiente il generico coinvolgimento di un pubblico interesse nella controversia perché questa possa essere devoluta al giudice amministrativo. 3.3. È appena il caso di rilevare che, ove il legislatore ordinario si attenga ai criteri appena enunciati, si risolve in radice anche il problema che i rimettenti pongono con riguardo all’art. 111, comma 7, Cost.: è sufficiente osservare, infatti, che è la stessa Carta costituzionale a prevedere che siano sottratte al vaglio di legittimità della Corte di cassazione le pronunce che investono i diritti soggettivi nei confronti dei quali, nel rispetto della « particolarità » della materia nel senso sopra (3.2) chiarito, il legislatore ordinario prevede la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. 3.4. Alla luce di tali criteri — desumibili dalla lettera delle norme nelle quali si è incarnata, nella Costituzione, la storia della giustizia amministrativa in Italia — la disciplina dettata dall’art. 7 della l. n. 205 del 2000, nella parte in cui sostituisce gli artt. 33 e 34 del d.lgs. n. 80 del 1998, non è conforme a Costituzione. 3.4.1. Va premesso che la dichiarazione di incostituzionalità non investe in alcun modo — nonostante i rimettenti ne adducano il disposto a sostegno delle loro censure — l’art. 7 della l. n. 205 del 2000, nella parte in cui (lettera c) sostituisce l’art. 35 del d.lgs. n. 80 del 1998: il potere riconosciuto al giudice amministrativo di disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto non costituisce sotto alcun profilo una nuova « materia » attribuita alla sua giurisdizione, bensı̀ uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione. L’attribuzione di tale potere non soltanto appare conforme alla piena dignità di giudice riconosciuta dalla Costituzione al Consiglio di Stato (sub 3), ma anche, e soprattutto, essa affonda le sue radici nella previsione dell’art. 24 Cost., il quale, garantendo alle situazioni soggettive devolute alla


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giurisdizione amministrativa piena ed effettiva tutela, implica che il giudice sia munito di adeguati poteri; e certamente il superamento della regola (avvenuto, peraltro, sovente in via pretoria nelle ipotesi olim di giurisdizione esclusiva), che imponeva, ottenuta tutela davanti al giudice amministrativo, di adire il giudice ordinario, con i relativi gradi di giudizio, per vedersi riconosciuti i diritti patrimoniali consequenziali e l’eventuale risarcimento del danno (regola alla quale era ispirato anche l’art. 13 della l. 19 febbraio 1992, n. 142, che pure era di derivazione comunitaria), costituisce null’altro che attuazione del precetto di cui all’art. 24 Cost. 3.4.2. La formulazione dell’art. 33 del d.lgs. n. 80 del 1998, quale recata dall’art. 7, comma 1, lett. a), della l. n. 205 del 2000, confligge con i criteri, quali si sono individuati sub 3.2. ai quali deve ispirarsi la legge ordinaria quando voglia riservare una « particolare materia » alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Ed infatti, non soltanto (e non tanto) il riferimento ad una materia (i pubblici servizi) dai confini non compiutamente delimitati (se non in relazione all’ipotesi di concessione prevista fin dall’art. 5 della l. n. 1034 del 1971), quanto, e soprattutto, quello a « tutte le controversie » ricadenti in tale settore rende evidente che la « materia » cosı̀ individuata prescinde del tutto dalla natura delle situazioni soggettive in essa coinvolte: sicché, inammissibilmente, la giurisdizione esclusiva si radica sul dato, puramente oggettivo, del normale coinvolgimento in tali controversie di quel generico pubblico interesse che è naturaliter presente nel settore dei pubblici servizi. Ma, in tal modo, viene a mancare il necessario rapporto di species a genus che l’art. 103 Cost. esige allorché contempla, come « particolari », rispetto a quelle nelle quali la pubblica amministrazione agisce quale autorità, le materie devolvibili alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Tale conclusione è avvalorata dalla circostanza che il comma 2 della norma individua esemplificativamente (« in particolare ») controversie, quale quella incardinata davanti al giudice a quo, nelle quali può essere del tutto assente ogni profilo riconducibile alla pubblica amministrazione-autorità: e certamente le ipotesi specificamente censurate (lett. b ed e) sono tali da non resistere al vaglio di costituzionalità in quanto non soltanto (come le altre contemplate dal comma 2) travolte dalla censura che investe la previsione di « tutte le controversie in materia di pubblici servizi », ma anche perché, ex se, integrano ipotesi nelle quali tali controversie non vedono, normalmente, coinvolta la pubblica amministrazione-autorità. La materia dei pubblici servizi può essere oggetto di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo se in essa la pubblica amministrazione agisce esercitando il suo potere autoritativo ovvero, attesa la facoltà, riconosciutale dalla legge, di adottare strumenti negoziali in sostituzione del potere autoritativo, se si vale di tale facoltà (la quale, tuttavia, presuppone l’esistenza del potere autoritativo: art. 11 della l. n. 241 del 1990): sicché, conclusivamente, va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 33,


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comma 1, nella parte in cui prevede che sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo « tutte le controversie in materia di pubblici servizi » anziché le controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi (cosı̀ come era previsto fin dall’art. 5 della l. n. 1034 del 1971), ovvero relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo disciplinato dalla l. n. 241 del 7 agosto 1990, ovvero ancora relative all’affidamento di un pubblico servizio, ed alla vigilanza e controllo nei confronti del gestore (cosı̀ come era previsto dall’art. 33, comma 2, lett. c e d). Va altresı̀ dichiarata l’illegittimità costituzionale del comma 2 della norma in esame. 3.4.3. Analoghi rilievi investono la nuova formulazione dell’art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998, quale recata dall’art. 7, comma 1, lett. b), della l. n. 205 del 2000: formulazione che si pone in contrasto con la Costituzione nella parte in cui, comprendendo nella giurisdizione esclusiva — oltre « gli atti e i provvedimenti » attraverso i quali le pubbliche amministrazioni (direttamente ovvero attraverso « soggetti alle stesse equiparati ») svolgono le loro funzioni pubblicistiche in materia urbanistica ed edilizia — anche « i comportamenti », la estende a controversie nelle quali la pubblica amministrazione non esercita — nemmeno mediatamente, e cioè avvalendosi della facoltà di adottare strumenti intrinsecamente privatistici — alcun pubblico potere. Poiché, mutatis mutandis, a tale previsione dell’art. 34, comma 1, del d.lgs. n. 80 del 1998 si attagliano le medesime considerazioni che si sono esposte (sub 3.4.2.) a proposito dell’art. 33, comma 1, deve dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 1, del d.lgs. n. 80 del 1998, come sostituito dall’art. 7, comma 1, lett. b), della l. n. 205 del 2000, nella parte in cui devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto « gli atti, i provvedimenti e i comportamenti » in luogo che « gli atti e i provvedimenti » delle amministrazioni pubbliche e dei soggetti alle stesse equiparati. Per questi motivi la Corte costituzionale riuniti i giudizi, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 33, comma 1, del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell’articolo 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), come sostituito dall’art. 7, lett. a, della l. 21 luglio 2000, n. 205 (Disposizioni in materia di giustizia amministrativa), nella parte in cui prevede che sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo « tutte le controversie in materia di pubblici servizi, ivi compresi quelli » anziché « le


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controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi, ovvero relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo disciplinato dalla legge 7 agosto 1990, n. 241, ovvero ancora relative all’affidamento di un pubblico servizio, ed alla vigilanza e controllo nei confronti del gestore, nonché »; dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 33, comma 2, del medesimo d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, come sostituito dall’art. 7, lett. a, della l. 21 luglio 2000, n. 205; dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 1, del medesimo d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, come sostituito dall’art. 7, lett. b, della l. 21 luglio 2000, n. 205, nella parte in cui prevede che sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto « gli atti, i provvedimenti e i comportamenti » anziché « gli atti e i provvedimenti » delle pubbliche amministrazioni e dei soggetti alle stesse equiparati, in materia urbanistica ed edilizia.

(1-3)

Giurisdizione esclusiva e azione risarcitoria nella sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 6 luglio 2004 (osservazioni a primissima lettura).

1. La Corte costituzionale con l’attesa sentenza n. 204 del 2004 (est. Vaccarella) ha affrontato una serie di questioni di costituzionalità relative agli artt. 33 e 34 del d.lgs. n. 80 del 1998 come novellati dall’art. 7 della l. n. 205 del 2000; tutte sollevate con ordinanze del Tribunale di Roma (n. 488/02, nn. 226, 227 e 680 del 2003). Le controversie di merito sono caratterizzate invero da una spiccata connotazione privatistica (alcune di esse sono, in senso proprio e pieno, « questioni concernenti diritti »). Ciò che indubbiamente ha evidenziato con forza, di fronte alla Corte, alcuni degli aspetti più problematici della disciplina al suo esame. Controversia tra un’Azienda Usl ed una casa di cura privata, concernente il pagamento di somme dovute dalla Usl per prestazioni di ricovero convenzionate. Controversie concernenti domande di risarcimento danni fondate, l’una su una occupazione abusiva da parte di un Comune di un fondo privato per la realizzazione di un’opera di interesse pubblico, senza che la procedura di esproprio venisse mai portata a compimento e senza che ve-


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nisse pagato il relativo indennizzo; l’altra, su una modificazione di destinazione edilizia di un fondo privato, tale da determinare un ingente deprezzamento degli immobili stessi, e successivo fallimento della società proprietaria; l’altra ancora, fondata sul mancato allaccio alla rete fognaria, da parte del Comune, di un locale di proprietà privata a destinazione negozio e, in conseguenza, la mancata agibilità dello stesso. La prima di queste controversie coinvolge l’applicazione dell’art. 33 comma 2, mentre le altre tre controversie coinvolgono l’applicazione dell’art. 34 (come è evidente); laddove attribuiscono le relative materie alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. L’insieme delle questioni di costituzionalità riguardano direttamente l’estensione della giurisdizione esclusiva quale operata dalle due norme contestate. La « questione dell’azione risarcitoria » (in quanto attribuita alla cognizione del giudice amministrativo in tutto l’ambito della sua giurisdizione dall’art. 35), viene affrontata dalla Corte solo incidenter come si mostra appresso. L’estensione della giurisdizione esclusiva supererebbe il vincolo costituzionale delle « particolari materie ». Un intero settore di controversie nelle quali la pubblica amministrazione sia comunque coinvolta e nelle quali sia comunque presente un profilo di pubblico interesse, sarebbe invero l’oggetto della norma. Questa estensione contrasterebbe, secondo le ordinanze di rimessione, con l’impostazione del testo costituzionale che affida alla competenza del giudice amministrativo, non già tutte le controversie con le pubbliche amministrazioni o tutte quelle in qualche modo coinvolgenti pubblici interessi, ma solo quelle nelle quali si faccia questione della tutela di interessi legittimi, salve appunto « le particolari materie ». Sul punto, è opportuno ricordare che in sede parlamentare, nella scorsa legislatura, prima nella proposta di legge costituzionale elaborata dalla Commissione Bicamerale D’Alema e successivamente nella pdl A.C. 7465 Cerulli Irelli, si era posto il problema della modifica del testo costituzionale, cosı̀ da superare l’impostazione dicotomica del sistema di tutela fondato sulla di-


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stinzione tra diritti e interessi legittimi, per sostituirlo con un sistema fondato sulla distinzione delle materie. Ma tali proposte non trovarono accoglimento (né l’una né l’altra, invero, pervennero mai all’esame dell’aula). E perciò il testo costituzionale è rimasto quello originario (né in questa legislatura si annunciano modifiche in tal senso). Insomma, alla forte modificazione della normazione positiva data dalle riforme del 1998-2000 non è seguita una modificazione del testo costituzionale come forse sarebbe stato necessario (circostanza fortemente sottolineata dalla Corte). 2. La Corte, nella sostanza, ritiene fondate le questioni di costituzionalità sollevate, con riferimento all’estensione della giurisdizione esclusiva. Innanzi tutto, le materie di giurisdizione esclusiva possono essere soltanto, secondo la Corte, materie nell’ambito delle quali le controversie sarebbero in ogni caso attribuite alla competenza del giudice amministrativo, come giudice generale della legittimità dell’azione amministrativa (giurisdizione generale di legittimità) e perciò concernenti interessi legittimi. Sol che, appunto, l’ascrizione di queste materie alla giurisdizione esclusiva consente di portare davanti al giudice amministrativo anche controversie che coinvolgono questioni di diritto soggettivo. Ma resta fermo, secondo la Corte, che deve comunque trattarsi di controversie concernenti l’esercizio del potere, e appunto per ciò coinvolgenti anzitutto interessi legittimi. Non può invece aprirsi l’ambito della giurisdizione esclusiva a tipi di controversie che, applicando i generali principi, spetterebbero comunque alla giurisdizione ordinaria perché coinvolgenti esclusivamente diritti soggettivi. L’art. 103 Cost. conferisce al legislatore, secondo la Corte, soltanto il potere « di indicare particolari materie nelle quali la tutela nei confronti della pubblica amministrazione investe anche diritti soggettivi » (e la sottolineatura della Corte cade sull’anche); materie, « particolari rispetto a quelle devolute alla giurisdizione generale di legittimità », ma tali da « partecipare della loro medesima natura... contrassegnata dalla circostanza che la pubblica amministrazione agisce come autorità,


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nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino davanti al giudice amministrativo ». Questa argomentazione della Corte sembra riportare invero la giurisdizione esclusiva a quella che tradizionalmente veniva configurata (pur tra contrasti) anteriormente alla svolta giurisprudenziale del 1939 (Cons. Stato, V, 1 dicembre 1939; Cons Stato, Ad. plen. 18 dicembre 1940): configurazione che aveva trovato una limpida sistemazione nell’opera del Ranelletti (Le guarentigie della giustizia nella pubblica amministrazione, Milano, 1934, 476 ss.). Secondo questa configurazione, poi totalmente superata, pur nell’ambito delle materie di giurisdizione esclusiva, e segnatamente nel pubblico impiego, la giurisdizione ordinaria restava ferma laddove si fosse trattato non dell’impugnativa di atti amministrativi (provvedimentali, lesivi di situazioni soggettive di terzi) ma della cognizione di rapporti a carattere obbligatorio. La Corte ritiene che le normative recenti che hanno esteso l’ambito della giurisdizione esclusiva (dall’art. 33 della l. 287/90, all’art. 2 comma 24 della l. 481/95, all’art. 1 comma 26 della l. 249/97, etc.) a differenza dell’art. 33 scrutinato, non siano in contrasto con la Costituzione trattandosi « pur sempre [di una estensione] limitata a specifiche controversie connotate non già da una generica rilevanza pubblicistica, bensı̀ dall’intreccio di situazioni soggettive ». E ciò è vero. Ma l’estensione della giurisdizione esclusiva a controversie a carattere puramente obbligatorio era avvenuta assai prima e per opera della giurisprudenza (assai significativa, Cons. Stato, Ad. plen. 26 ottobre 1979 n. 25). Certamente, l’art. 33 compie una operazione estensiva più ampia e conduce la giurisdizione amministrativa in ambiti puramente negoziali e a rapporti del tutto privatistici, anche intercorrenti solo tra soggetti privati. Ma la Corte non si limita a sanzionare questa ulteriore estensione, e sembra coprire con le sue argomentazioni anche le controversie a carattere obbligatorio tradizionalmente ascritte alla giurisdizione amministrativa. La Corte riscrive totalmente l’art. 33 (con una tecnica manipolativa e additiva usata forse con maggiore disinvoltura che in casi precedenti).


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La Corte riporta dunque la giurisdizione amministrativa esclusiva allo schema originario e in conseguenza riscrive totalmente l’art. 33 (con una tecnica manipolativa e additiva usata forse con maggiore disinvoltura che in casi precedenti). Il nuovo testo della norma risulta essere il seguente: « 1. Sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni o altri corrispettivi, ovvero relative ai provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore del pubblico servizio in un procedimento amministrativo disciplinato dalla l. n. 241 del 1990, ovvero ancora relative all’affidamento di un pubblico servizio, ed alla vigilanza e controllo nei confronti del gestore, nonché afferenti alla vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato mobiliare, al servizio farmaceutico, ai trasporti, alle telecomunicazioni e ai servizi di cui alla l. n. 481 del 1995 ». 2.

[dichiarato incostituzionale].

3. Come si vede, le controversie rimaste nell’ambito della giurisdizione amministrativa sulla base della norma cosı̀ riscritta, sono tutte controversie che concernono l’esercizio di poteri amministrativi (anche se non necessariamente da parte della pubblica amministrazione ma anche di soggetti ad essa equiparati come i gestori di pubblici servizi, tuttavia operanti in base alla disciplina amministrativa sul procedimento). E tra esse rientrano le controversie conseguenti ad accordi stipulati in esito a procedimenti amministrativi (art. 11 l. 241/90), rappresentando questi ultimi una delle modalità di definizione del procedimento stesso (c.d. fase decisoria negoziale). Ed espressamente la norma nella sua nuova formulazione, menziona le controversie concernenti concessioni, quelle concernenti affidamenti, quelle concernenti l’esercizio dei poteri di regolazione (« vigilanza e controllo »), quelle concernenti la vigilanza su settori imprenditoriali determinati come il credito, le assicurazioni, etc. Si tratta in tutti questi casi, di controversie pacifica-


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mente ascrivibili alla giurisdizione amministrativa a prescindere dalla nuova norma. Per altro, una parte di esse era già compresa nell’art. 5 della l. n. 1034 del 1971, come del resto ricordato dalla Corte. Ed espressamente vengono escluse dalla giurisdizione amministrativa le controversie « concernenti indennità, canoni o altri corrispettivi » riportando in vita il testo del vecchio art. 5. Scompaiono dall’ambito della giurisdizione amministrativa tutte le controversie previste dal secondo comma dell’art. 33 (dichiarato incostituzionale nella sua interezza), salve quelle rapportabili al contenuto del primo comma, come riformulato, nonché di altre norme rimaste in vita. E cosı̀ ad esempio, scompaiono le controversie di carattere patrimoniale tra le amministrazioni pubbliche e i gestori nonché quelle dei gestori tra loro, anche se aventi ad oggetto attività di espletamento del servizio. Scompaiono le controversie tra i gestori e gli utenti con oggetto la prestazione del servizio e i relativi rapporti contrattuali di utenza. Scompaiono, ovviamente, le controversie di carattere patrimoniale concernenti il servizio sanitario nazionale, peraltro espressamente menzionate dalla Corte; e cosı̀ via (si potrebbe dire, parafrasando un antico autore, quanti inutili sforzi per interpretare la lettera d) dell’art. 33, gettata via da un tratto di penna della Corte!). Mentre è pacifico che le importanti controversie di cui alla lettera d), concernenti le procedure di affidamento di appalti pubblici di lavori, servizi, e forniture, restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo per effetto, tra l’altro, dell’art. 6 della stessa legge che, espressamente, affida a detta giurisdizione « le controversie relative a procedure di affidamento di lavori, servizi o forniture svolte da soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente o del socio, ali’ applicazione della normativa comunitaria ovvero al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale ». È noto, peraltro, che la sovrapposizione tra l’art. 6 e la lettera d) del secondo comma dell’art. 33, è dovuta esclusivamente al mancato coordinamento tra il testo della l. 205 e la novellazione, in esso inserita all’ultimo momento, degli artt. 33 e ss. del d.lgs. 80/98. In ogni caso queste controversie posseggono le caratteristiche che


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la Corte ritiene necessarie per essere legittimamente attribuite alla giurisdizione amministrativa (controversie insorte in esito ad un procedimento amministrativo nel quale si esercita un potere amministrativo: in buona sostanza!). Resta qualche dubbio interpretativo sull’ultima parte della norma come riformulata, laddove fa riferimento « al servizio farmaceutico, ai trasporti, alle telecomunicazioni, e ai servizi di cui alla l. n. 481 del 1995 ». Dalla dizione sintattica del testo (« controversie... relative... al servizio... ») sembrerebbe infatti che queste controversie si estendano all’intero ambito di questi servizi come complessi di attività e non solo all’esercizio dei poteri amministrativi concernenti gli stessi. Ma le argomentazioni della Corte nella motivazione, sopra ricordate, indurrebbero a ritenere che anche con riferimento a questi servizi la giurisdizione amministrativa sia limitata a questo tipo di controversie. E perciò ad esempio, una controversia quale quella oggetto della ordinanza del Tribunale di Roma sopra citata (n. 488 del 2002), sicuramente viene esclusa dalla giurisdizione amministrativa (pagamenti della Usl alla struttura convenzionata). 4. Allo stesso modo, anche se su questo punto la sentenza non si dilunga in argomentazioni, viene dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 34 nella parte in cui estende la giurisdizione amministrativa anche alle controversie sui « comportamenti » della pubblica amministrazione e dei soggetti ad essa equiparati, in materia urbanistica ed edilizia (controversie nelle quali, secondo la Corte « la pubblica amministrazione non esercita — nemmeno mediatamente, e cioè avvalendosi della facoltà di adottare strumenti intrinsecamente privatistici — alcun pubblico potere »). La norma risulta perciò cosı̀ riformulata, nel comma 1 (gli altri permangono nel testo vigente): « 1. Sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto gli atti e i provvedimenti delle amministrazioni pubbliche e dei soggetti alle stesse equiparati in materia urbanistica ed edilizia ». Restano perciò al di fuori della giurisdizione amministrativa


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le azioni possessorie che una nota recente giurisprudenza, confermata dalla Corte di Cassazione, aveva attribuito sulla base dell’art. 34, alla giurisdizione amministrativa (con molte perplessità invero espresse in dottrina e con poca convinzione da parte dello stesso giudice amministrativo). Restano al di fuori, è da ritenere, anche le controversie concernenti la c.d. occupazione usurpativa e anche quella meramente acquisitiva, stando alla nota distinzione. È da ritenere, invece, che restino comprese nella giurisdizione amministrativa le controversie di cui all’art. 43 t.u. espropriazione (d.P.R. n. 327 del 2001) che contempla, come noto, l’esercizio di un vero e proprio potere amministrativo di carattere ablatorio con oggetto l’acquisizione al patrimonio indisponibile dell’ente dell’immobile utilizzato « per scopi di interesse pubblico » e la determinazione del risarcimento dei danni subiti in favore del proprietario. Perciò la giurisdizione contemplata dai commi 3 e 4 del cit. art. 43 è da ritenere resti immutata. 5. Si è accennato sopra che la sent. n. 204 del 2004 affronta direttamente la questione di costituzionalità degli artt. 33 e 34 per ciò che concerne la disciplina della giurisdizione amministrativa esclusiva da essi prevista con riferimento alla eccessiva estensione, evidenziata dalle ordinanze di rimessione, delle materie che ne sono oggetto, in contrasto con l’art. 103 Cost. La questione dell’azione risarcitoria di cui all’art. 35 non era stata sollevata dalle ordinanze. Essa perciò rimane sullo sfondo del giudizio di costituzionalità. Tuttavia viene affrontata, seppure incidenter, con affermazioni che appaiono assai significative e che forse costituiscono la parte più interessante della sentenza, per ciò che riguarda il futuro assetto della giurisdizione amministrativa. Mentre, come si è visto, nella configurazione della giurisdizione esclusiva la sentenza appare piuttosto orientata verso il passato che verso futuri e più avanzati assetti del sistema. Il legislatore nella l. n. 205 del 2000, nel ridisegnare la giurisdizione amministrativa, aveva compiuto, come è noto, la scelta fondamentale e profondamente innovativa di attribuire al giudice amministrativo la cognizione delle azioni risarcitorie in ogni materia soggetta alla sua giurisdizione; ampliando la scelta compiuta


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dallo stesso legislatore con il d.lgs. n. 80 del 1998, che aveva esteso la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (ma solo quella esclusiva) alla cognizione delle azioni risarcitorie: modificando in ciò il vecchio art. 30 t.u. Consiglio di Stato (r.d. n. 1054 del 1924) che faceva salva, come noto, anche nelle materie di giurisdizione esclusiva, la competenza dell’autorità giudiziaria circa « le questioni attinenti a diritti patrimoniali consequenziali ». È da ritenere che proprio questa sia stata la principale innovazione della legislazione di riforma (insieme ad altre non irrilevanti innovazioni di carattere procedurale); più ancora che l’estensione della giurisdizione esclusiva a tutte le controversie concernenti i pubblici servizi di cui si è appena detto. Sul punto, si deve ricordare che una volta acquisita da parte del legislatore (anche sulla base della famosa sentenza della Cassazione n. 500 del 1999) l’esigenza di dare pienezza alla tutela dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione, attribuendo loro anche la disponibilità dell’azione risarcitoria, si ponevano tre possibili soluzioni legislative. La prima soluzione era quella prospettata dalla Cassazione nella citata sentenza. E cioè che l’azione risarcitoria (nei confronti della pubblica amministrazione, come di ogni altro soggetto dell’ordinamento) si configura sempre come azione a tutela di diritti (il diritto al risarcimento del danno derivante da una azione od una omissione compiuta injure da un soggetto terzo). E perciò sia che la situazione soggettiva del danneggiato fosse configurabile come un diritto soggettivo, o come un interesse legittimo o come una aspettativa o quant’altro, in ogni caso, la competenza a conoscere della relativa azione risarcitoria spetta al giudice ordinario come giudice dei diritti soggettivi. Salve ovviamente le materie di giurisdizione esclusiva, una volta caduta la riserva del vecchio art. 30. La seconda soluzione, che poi è stata quella adottata dal legislatore, era nel senso di ritenere che l’azione risarcitoria non fosse altro che una delle modalità della tutela giurisdizionale sia dei diritti che degli interessi legittimi. E visto che l’art. 24 Cost. stabilisce il principio della pienezza della tutela delle une e delle altre


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situazioni soggettive, diveniva naturale attribuire alla cognizione del giudice amministrativo le azioni risarcitorie a tutela degli interessi legittimi (mentre al giudice ordinario quelle a tutela di diritti soggettivi, salve appunto le materie di giurisdizione esclusiva). Ma questa seconda soluzione presenta una variante, dalla quale appunto emerge la terza soluzione. Infatti, una volta stabilito che il giudice amministrativo sia competente a conoscere delle azioni risarcitorie a tutela di interessi legittimi (nonché di quelle a tutela di diritti nelle materie di giurisdizione esclusiva) si pone il problema di stabilire a quale giudice spetti la competenza a conoscere delle azioni risarcitorie a tutela di diritti soggettivi già lesi (o « degradati », come si usa dire) per effetto di atti ablativi, una volta ottenuto l’annullamento da parte del giudice amministrativo di questi atti. Si tratta, come è noto, di casi nei quali l’azione risarcitoria nei confronti della pubblica amministrazione è stata sempre ritenuta sussistente e attribuita, sulla base della legge del 1865, alla competenza del giudice ordinario. La cognizione di queste azioni poteva essere lasciata alla competenza del giudice ordinario, con la conseguenza sicuramente non positiva in termini di effettività della tutela, di costringere il soggetto agente a promuovere due processi, il primo davanti al giudice amministrativo mediante l’esercizio di azione di annullamento, il secondo davanti al giudice ordinario, mediante azione risarcitoria, una volta ottenuto l’esito favorevole del primo processo. Ma la soluzione che il legislatore ritenne preferibile (in verità con il consenso di tutte le forze politiche e con riferimento ai principi di effettività e concentrazione delle tutela giurisdizionale) è stata quella viceversa di affidare al giudice amministrativo la cognizione « di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali », con riferimento a tutto « l’ambito della sua giurisdizione » (art. 35 comma 4). Perciò laddove il giudice amministrativo è competente in ordine a un certo tipo di controversie concernenti provvedimenti ablatori incidenti su diritti soggettivi (espropriazioni, requisizioni,


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leva militare), in virtù della nota giurisprudenza sulla « degradazione », allo stesso giudice è conferita, altresı̀, la competenza a conoscere delle relative azioni risarcitorie. 6. Questo modello impostato dal legislatore esce indenne dallo scrutinio di costituzionalità. E appare consolidato e rafforzato. Anzitutto, la Corte conferma l’impostazione emersa nel corso dei lavori parlamentari e successivamente in dottrina, e sopra ricordata, che aggancia all’art. 24 Cost. la disciplina dell’azione risarcitoria, tanto a tutela di diritti che di interessi legittimi. Mentre rigetta la curiosa idea, pure emersa in dottrina e in qualche decisione giurisprudenziale, che l’azione risarcitoria possa considerarsi in quanto tale, una materia attribuita alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Su questo punto, l’opinione della Corte sembra assai ferma; laddove, da una parte, esclude che la dichiarazione di incostituzionalità degli artt. 33 e 34 investa, in qualche modo, l’art. 35 (il potere riconosciuto al giudice amministrativo di disporre, « anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto » non costituisce sotto alcun profilo una nuova « materia » attribuita alla sua giurisdizione, bensı̀ uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione); dall’altra parte, conferma pienamente la legittimità dell’attribuzione di questa competenza al giudice amministrativo (« conforme alla piena dignità di giudice riconosciuta dalla Costituzione al Consiglio di Stato ») e che essa « affonda le sue radici nella previsione dell’art. 24 Cost. il quale, garantendo alle situazioni soggettive devolute alla giurisdizione amministrativa piena ed effettiva tutela, implica che il giudice sia munito di adeguati poteri »; nonché la legittimità della scelta del legislatore di concentrare in unico giudice la cognizione dell’azione di annullamento e di quella risarcitoria, superando la precedente regola « che imponeva, ottenuta tutela davanti al giudice amministrativo, di adire il giudice ordinario, con i relativi gradi di giudizio, per vedersi riconosciuti i diritti patrimoniali consequenziali e l’eventuale risarci-


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mento del danno ». Ciò, secondo la Corte, « costituisce null’altro che attuazione del precetto di cui all’art. 24 Cost. ». Resta tuttavia il dubbio (peraltro questa questione non era stata posta all’attenzione della Corte) se ciò vale anche al di là delle materie di giurisdizione esclusiva: nei casi, peraltro estremamente marginali in cui, una volta fatta salva la giurisdizione esclusiva in materia urbanistica ed edilizia, si può porre un problema di risarcimento di danni prodotti per effetto di atti ablatori incidenti su diritti soggettivi, una volta annullati gli atti stessi. Se anche in questi casi permanga la giurisdizione amministrativa in ordine alle azioni risarcitorie, secondo la scelta del legislatore, ovvero essa sia destinata a ritornare nella cognizione del giudice ordinario. Tuttavia, la forte sottolineatura fatta dalla Corte circa l’opportunità del superamento della regola del « doppio giudizio », farebbe propendere per una soluzione positiva anche di questa questione; cioè per la legittimità della scelta legislativa. VINCENZO CERULLI IRELLI


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Leggendo la sentenza n. 204 della Corte costituzionale.

1. Dopo un’attesa non breve (già nei primi giorni del mese di maggio si era diffusa la notizia che questa volta, diversamente da quanto avvenuto in precedenza, la Corte costituzionale aveva affrontato il merito delle questioni sottoposte al suo vaglio) è stata pubblicata la sentenza che dichiara non conformi a Costituzione alcune disposizioni contenute nella l. 205 del 2000. Certamente tale sentenza sarà oggetto di un numero assai elevato di commenti: anzi, su di essa sarà necessario ritornare tra qualche tempo, all’esito di una riflessione più approfondita. In questa sede intendo semplicemente formulare alcune sommarie considerazioni, suggerite da una prima lettura, a poche ore di distanza dalla suddetta pubblicazione. 2. La sentenza si divide nettamente in due parti: nella prima (punti 1-2 del « considerato in diritto ») viene affrontato in termini generali il problema del ruolo del Giudice amministrativo in generale e della giurisdizione esclusiva in particolare nel quadro della vigente carta fondamentale; nella seconda (successivo punto 3) si traggono le conseguenze con riguardo agli artt. 33 e 34 della l. n. 205. Procedendo con ordine, va sottolineato come la Corte ribadisca che la Costituzione « ha recepito il nucleo dei principi in materia di giustizia amministrativa quali evolutisi a partire dalla legge abolitrice del contenzioso amministrativo del 1865 », e dunque il riparto delle giurisdizioni fondato sulla distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi. Ciò non significa che la situazione esistente nel 1948 circa detto riparto debba ritenersi cristallizzata, ma deve pure escludersi che dalla Costituzione non si desumano i confini entro i quali il legislatore ordinario deve contenere i suoi interventi volti a ridistribuire le funzioni tra i due ordini di Giudici. Ed allora, precisa la Corte: a) la giurisdizione amministrativa non sussiste affatto per la sola circostanza che parte in causa sia la Pubblica Amministrazione


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b) neppure rileva la pura e semplice presenza di un rilevante pubblico interesse c) l’art. 103 Cost. circoscrive la discrezionalità del legislatore a particolari materie nelle quali la tutela investe anche diritti soggettivi d) tali materie sono contrassegnate dalla circostanza che la Pubblica Amministrazione agisce come autorità, vale a dire esercita un potere autoritativo, sicché, pure laddove non fosse prevista la giurisdizione esclusiva, opererebbe sempre (ovviamente con minore estensione) la giurisdizione di legittimità. 3. Come si vede, la Corte costituzionale « spazza via » in modo netto le tesi insistentemente proposte, anche molto autorevolmente, negli ultimi anni. Ed in particolare: — la tesi secondo cui il criterio di riparto per blocchi di materie doveva ritenersi non solo oramai prevalente nella legislazione ordinaria, ma del tutto compatibile con una retta interpretazione del testo costituzionale — la tesi, ancora più radicale, secondo cui anzi la Costituzione stessa avrebbe indicato quale via da percorrere l’abbandono del riferimento alla natura delle situazioni soggettive azionate — la tesi secondo cui l’individuazione delle materie di giurisdizione esclusiva rientrerebbe nella discrezionalità piena del legislatore — la tesi secondo cui il Giudice amministrativo sarebbe il Giudice dell’Amministrazione e dell’interesse pubblico (e non quello del potere autoritativo dell’Amministrazione). Inoltre risulta meno saldo il fondamento dell’avviso, pacifico nella giurisprudenza del Consiglio di Stato, che affida al Giudice amministrativo il compito di pronunciarsi sulla sorte del contratto stipulato in esito ad un’aggiudicazione poi annullata dal medesimo Giudice. 4. Non pare azzardato prevedere che le voci dei commentatori saranno per lo più critiche, a fronte di una pronuncia di sapore, se non « reazionario », certamente non in linea con le appena riassunte più « avanzate » prospettive.


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Ma gli è che talvolta sembra seguito come canone ermeneutico, al di fuori dal suo contesto, l’affermazione di uno dei nostri maggiori giuristi contemporanei, per il quale le leggi (anche costituzionali) sono solo « fogli di carta sporchi di inchiostro », e dunque di ben scarsa utilità nella ricerca delle norme applicabili ad una determinata fattispecie; e talaltra la precomprensione gadameriana viene spinta sino alla indistinzione tra interprete e oggetto dell’attività ermeneutica. Ciò non significa affatto ritenere che il criterio di riparto (forse imprudentemente) costituzionalizzato non possa o debba essere sostituito con altro di maggior semplicità (ma i confini di una materia non sembrano poi molto più certi e pacifici, sicché resta da vedere se quello dei blocchi sia davvero il criterio migliore): tuttavia ciò deve avvenire con gli strumenti corretti, previsti dal sistema. 5. Un’ulteriore riflessione, anzi due, nascono dal rapporto biunivoco che la Corte individua tra potere autoritativo e giurisdizione amministrativa. La prima evidenzia un ulteriore profilo di « impoliticità » nella posizione assunta dalla Corte. Oggi infatti non vi è quasi saggio monografico, articolo o nota a sentenza che non muova dalla « dequotazione » del potere autoritativo della Pubblica Amministrazione, sentito come retaggio di uno Stato a sua volta autoritario, al quale viene sostituendosi, anzi si è oramai sostituito in forza della l. n. 241 del 1990, un rapporto paritario tra la medesima Amministrazione ed il cittadino, il quale, intervenendo nel procedimento, diventerebbe coautore della decisione finale. Ognuno vede come la posizione della Corte appare difficilmente compatibile con siffatta impostazione. La quale nella presente sede sarebbe un fuor d’opera ulteriormente discutere, salvo segnalarne una scarsa aderenza alla realtà, che vede ben salda l’Amministrazione nel suo potere di scegliere e disporre (e del resto, esistono obblighi ulteriori alla presa in considerazione, nel rispetto del principio di proporazionalità, degli interessi introdotti dal privato nel procedimento? ed era pari-


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taria l’Amministrazione espropriante che seguiva l’antico garantistico procedimento ablativo disciplinato dalla legge del 1865?). 6. La seconda considerazione annunciata concerne la tanto frequentemente segnalata difficoltà applicativa del criterio tradizionale di riparto. Sarebbe davvero bizzarro negare tale difficoltà. Sennonché, per un verso l’unica vera soluzione per evitare problemi al riguardo sarebbe quella di introdurre un giudice unico (magari nella forma più soffice di una pluralità di giudici specializzati, i cui rapporti siano costruiti in termini di competenza, con possibilità di traslazione in caso di errore); diversamente, ogni criterio presenta delle insidie, come le analisi del diritto comparato confermano. Per altro verso, il collegamento con il potere autoritativo semplifica molto le cose, giacché, ove si ammetta che la tutela nei confronti degli atti di tali potere esplicazione si colloca sempre sul piano degli interessi legittimi, allora l’individuazione del giudice non sembra particolarmente ardua. Né questo significa riconoscere una tutela minore a diritti soggettivi che si ravvisino esistere antecedentemente in capo al privato, giacché sulla « qualità » del Giudice amministrativo sarebbe davvero antistorico avanzare dubbi. Le difficoltà derivano allora dalla non piena accettazione del menzionato collegamento, ora ipotizzandosi « diretti resistenti », ora rivitalizzando la distinzione tra attività discrezionale e vincolata. A questo proposito, il riferimento della Corte costituzionale al potere autoritativo, e non al potere autoritativo discrezionale, potrebbe risultare significativo ed utile. A fini pratici, intendo. Giacché comprendo perfettamente che basta negare la qualifica di « potere » ove non vi sia discrezionalità per buttare nel cestino la proposta testé avanzata. Ma si fa in tal modo cosa utile? 7.

Nel punto 3 la Corte trae le conclusioni, vale a dire:


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— in una premessa, certo importante, ma che non entra nel dispositivo della pronuncia, fa salvo l’affidamento ex art. 7 l. n. 205 al giudice amministrativo dell’azione risarcitoria — riscrive completamente il comma 1 dell’art. 33, dichiarandone illegittimo il secondo — dichiara parzialmente illegittimo l’art. 34, laddove esso estende pure ai comportamenti la giurisdizione esclusiva. Anche a tale proposito sembra opportuno procedere partitamene alla (prima sommaria) analisi della sentenza. 8. Il riconoscimento della legittimità costituzionale della scelta di affidare al Giudice amministrativo l’azione risarcitoria è riferito, come detto, in termini espliciti alla sola giurisdizione esclusiva. Ma l’argomentazione addotta — vale a dire che il risarcimento del danno ingiusto non è affatto una particolare materia, sibbene costituisce uno strumento ulteriore, attribuito in virtù dell’art. 24 Cost., il quale richiede che il Giudice sia munito di adeguati poteri per assicurare la pienezza della tutela — sembra valere parimenti allorquando l’azione risarcitoria sia proposta nell’ambito della giurisdizione generale di legittimità. Non credo del resto che il sistema tollererebbe una soluzione diversa, che imponesse all’interessato, al di fuori delle materie di giurisdizione esclusiva, il rischio di dover affrontare cinque gradi di giudizio, davanti ad apparati diversi. Sulla giustificazione teorica individuata nutro invece (ma la cosa rileva davvero poco) qualche dubbio. A mio avviso l’azione ex art. 2043 ha per oggetto il (l’affermazione del) diritto al risarcimento laddove si concreti la fattispecie descritta da tale articolo e segnatamente, accanto agli altri elementi, ricorra il danno ingiusto, dipenda l’ingiustizia dalla violazione di un diritto soggettivo, reale o di credito, di una chance ed ora di un interesse legittimo. Solo in questo senso l’azione risarcitoria è un mezzo ulteriore di tutela degli interessi legittimi, in un senso cioè che non incide di per sé sulla giurisdizione. Non ritengo di condividere pertanto la tesi secondo cui sarebbero stati di natura processuale (vale a


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dire, la cognizione degli interessi legittimi riservata al Giudice amministrativo; ed infatti la tradizionale « pietrificata » tesi negatrice della Corte di Cassazione si basò in un primo tempo sulla c.d. improponibilità assoluta della domanda stante l’insussistenza di una qualsivoglia situazione soggettiva protetta, per poi più correttamente esprimersi in termini di infondatezza nel merito della domanda risarcitoria medesima) gli ostacoli effettivi a riconoscere la risarcibilità dei danni collegati alla lesione di un interesse legittimo. Semplicemente, la giurisprudenza negava che ciò concretasse la fattispecie prevista dal codice: e la sentenza n. 500 della Cassazione ne è la riprova. Ciò tuttavia non esclude affatto la legittimità, sulla base dei principi affermati dalla Corte costituzionale, della devoluzione al Giudice amministrativo delle azioni risarcitorie anche nella giurisdizione generale di legittimità, in quanto collegate all’esercizio del potere autoritativo, che è, come visto, pure il presupposto della giurisdizione esclusiva. 9. La sentenza n. 204 non ritiene che possa fondatamente ravvisarsi nella devoluzione suddetta un contrasto con l’art. 111, comma 7, Cost.: al riguardo difatti essa considera sufficiente osservare come sia la stessa Carta fondamentale a prevedere che siano sottratte al vaglio di legittimità della Corte di Cassazione le pronunce concernenti i diritti soggettivi ricondotti, nel rispetto della specialità della materia, alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. La questione meriterebbe invece ben più ampia analisi, sia pure per giungere eventualmente alla medesima conclusione. Ed invero le azioni risarcitorie nei confronti dell’Amministrazione vengono a distribuirsi, in misura maggiore dopo la sentenza in esame, tra Giudice ordinario e Giudice amministrativo a seconda che la controversia risulti o meno connessa all’esercizio di poteri autoritativi (il fenomeno ovviamente si aggraverebbe ove dovesse prevalere un orientamento che limitasse alle ipotesi di giurisdizione esclusiva l’azione risarcitoria proponibile innanzi al Giudice amministrativo): il rischio è quindi la formazione di due discipline differenti, l’una governata dalla Cassazione l’altra dal


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Consiglio di Stato, in tema di responsabilità dell’Amministrazione. Non dubito tuttavia che in concreto il Consiglio di Stato, con il suo tradizionale equilibrio, saprà effettuare scelte che evitino il disorientamento potenzialmente causato da una duplicazione della funzione nomofilattica. Non è questa la sede per diffondersi ulteriormente su tali problemi. Osservo tuttavia che dubito siano condivisibili, nell’ottica della necessaria riconduzione delle questioni risarcitorie ai principi del codice civile, le proposte volte ad inquadrare nella responsabilità contrattuale la « responsabilità da provvedimento », qualificando obbligazione in senso tecnico, a fronte dell’interesse legittimo considerato vero e proprio diritto di credito, quella avente ad oggetto l’emanazione del provvedimento amministrativo richiesto. 10. Il dispositivo della sentenza della Corte investe direttamente l’art. 33, nel testo recuperato della l. n. 205, dichiarandone l’illegittimità costituzionale. A tale conclusione la Corte perviene sulla base della considerazione che la « materia » dei pubblici servizi, non solo non prevede confini compiutamente delimitati, ma prescinde dalla natura delle situazioni soggettive coinvolte, e sopratutto che viene in tal modo a marcare l’indispensabile collegamento con l’agire dell’Amministrazione come autorità, circostanza particolarmente evidente nelle controversie elencate alle lett. b) ed e) del comma 2. Ne segue l’integrale riscritturazione da parte della Corte del comma 1, che oggi pertanto recita: « Sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi, ovvero relative ai provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore del pubblico servizio in un procedimento amministrativo disciplinato dalla l. n. 241 del 1990, ovvero ancora relative all’affidamento di un pubblico servizio, ed alla vigilanza e controllo nei confronti del gestore, nonché afferenti alla vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato mobiliare,


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al servizio farmaceutico, ai trasporti, alle telecomunicazioni e ai servizi di cui alla l. n. 481 del 1995 », e la caducazione dell’intero comma 2. Tralasciando la perplessità circa l’estensione dell’intervento manipolitativo operato dalla sentenza sul testo della disposizione di legge, osservo che: — il testo cosı̀ riscritto non è ben coordinato, giacché stando alla lettera andrebbero devolute alla giurisdizione esclusiva tutte le controversie afferenti « al servizio farmaceutico, ai trasporti, alle telecomunicazioni e ai servizi di cui alla l. n. 481 del 1995 », dunque pure laddove non entrasse in gioco l’agire dell’Amministrazione come autorità; si impone quindi una lettura sistematica della disposizione che, sulla base del ragionamento della Corte, sceveri all’interno di tali controversie quelle spettanti al Giudice amministrativo — non è chiaro l’iter logico che ha condotto alla dichiarazione di illegittimità dell’intero comma 2 dell’art. 33, posto che tra le ipotesi ivi contemplate non mancavano certo fattispecie attinenti all’esercizio di poteri autoritativi — si impone a questo punto un’attenta ricognizione delle controversie attribuite al giudice amministrativo del « vecchio » art. 33 al fine di verificare quali sopravvivano alla luce del nuovo comma 1; la prima impressione è che l’amputazione riguarderà essenzialmente vicende (esemplari i rapporti di utenza) per le quali assai dubbia mi era sempre apparsa l’opportunità di coinvolgere il Giudice amministrativo — le conseguenze sarebbero assai più rilevanti ove si ritenesse che la prospettiva seguita dalla Corte comporti l’illegittimità dell’art. 6 della l. n. 205; ritengo tuttavia che non sia eccessivamente arduo un percorso argomentativo che — poggiando sulla natura del potere esercitato, anche da soggetti formalmente privati, nelle procedure ad evidenza pubblica — salvi la richiamata disposizione da future eventuali eccezioni di legittimità costituzionale. 11. Infine, l’eliminazione dall’art. 34 del riferimento ai comportamenti.


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Si tratta di una conseguenza inevitabile dei presupposti da cui muove la Corte, che sottrae al Giudice amministrativo una tipologia di controversie (si pensi alle azioni possessorie) alle quali, per formazione, tradizione e disponibilità di adeguati strumenti processuali, tale Giudice è (ritengo giustamente) estraneo. L’interrogativo maggiore concerne il risarcimento danni per accessione invertita, che tale Giudice aveva rivendicato a sé, con il consenso della Corte regolatrice della giurisdizione, trovando infine conferme da parte del legislatore delegato. Ora come ora le complicazioni paiono non poche: è da ritenersi messa in discussione la legittimità costituzionale anche dell’art. 43 del testo unico sulla espropriazione? Dove, in ogni caso, si radica la giurisdizione per le controversie non ancora definite, o addirittura neppure iniziate, per vicende anteriori all’entrata in vigore del t.u. medesimo? Né semplifica i problemi la distinzione tra occupazioni usurpative ed acquisitive. Non nascondo che attribuire a giurisdizioni differenti vicende da definirsi sulla base di identici criteri (indennità di esproprio, risarcimento per accessione) potrebbe suscitare non ingiustificate perplessità. A regime tuttavia il quadro sembra cosı̀ definirsi: al Giudice ordinario le controversie in tema di misura dell’indennità espropriativa e di risarcimento per occupazione usurpativa e acquisitiva; al Giudice amministrativo le controversie ex art. 43 cit., posto che viene da detta disposizione attribuito all’Amministrazione e disciplinato un vero e proprio potere ablatorio. RICCARDO VILLATA


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Cons. Stato, Ad. plen., 23 marzo 2004, n. 6 — Pres. De Roberto — Est. Salvatore — U.S. (avv. De Angelis) c. Ente Regionale di Sviluppo Agricolo in Campania (non costituito). Giustizia amministrativa - Perenzione ordinaria - Pronuncia con decreto monocratico nel giudizio di appello - Possibilità. La perenzione ordinaria può essere pronunciata, anche nei giudizi di appello, con decreto monocratico del Presidente della sezione o di un consigliere delegato (1). (Omissis). — 1. La questione sottoposta all’esame di questa Adunanza plenaria, è quella sollevata con il primo motivo di opposizione, con il quale si sostiene che la pronuncia sull’eventuale perenzione del giudizio d’appello non può essere adottata con decreto monocratico, ai sensi dell’art. 9 comma 1 della l. 21 luglio 2000, n. 205, essendo il procedimento per decreto inapplicabile nell’ambito del giudizio di secondo grado. A sostegno del motivo, l’opponente si richiama a talune decisioni della IV Sezione di questo Consiglio di Stato (27 dicembre 2001, nn. 6425 e 6428), relative, rispettivamente, alla dichiarazione di cessazione della materia del contendere e della perenzione), con le quali si è ritenuto che la relativa pronuncia nel giudizio innanzi al Consiglio di Stato, è ancora riservata al collegio, non potendosi fare applicazione della norma sancita dall’art. 26, ult. comma, l. n. 1034 del 1971 — novellato dall’art. 9 l. n. 205 del 2000 — che riserva al Presidente della Sezione competente o ad un magistrato da lui delegato, il compito di dichiarare la rinunzia al ricorso, la cessazione della materia del contendere, l’estinzione del giudizio e la perenzione; ciò perché tale norma (che prevede una speciale fase di opposizione al decreto dell’organo monocratico nell’ambito del medesimo ufficio giudiziario di primo grado, ed un’impugnazione, con termini dimidiati, davanti al Consiglio di Stato dell’ordinanza resa), tace accuratamente sulla possibilità che la speciale procedura trovi applicazione innanzi al Consiglio di Stato, a differenza di altre ipotesi divisate dalla l. n. 205 del 2000, in cui, con disposizione espressa si è individuata la competenza monocratica del Consiglio di Stato (art. 3, comma 1, l. n. 205 del 2000); che solo una norma espressa può consentire di alterare la composizione strutturalmente collegiale del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale e che a tal fine non giova il richiamo alla norma sancita dall’ultimo comma dell’art. 28, l. n. 1034 cit., che si limita ad estendere i poteri di cognizione e di decisione del Consiglio di Stato in sede di appello (modellandoli su quelli propri del primo giudice), ma non tocca i profili ordinamentali nel cui novero rientra l’individuazione della struttura collegiale o meno del giudice chiamato all’esercizio dei su indicati poteri decisori; che alcun argomento contrario può trarsi dalla norma sancita dall’art. 9, comma 2, l. n. 205 cit., che nel prevedere una peculiare ipotesi di perenzione (ultradecennale), si limita a


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rinviare all’ultimo comma del menzionato art. 26 l. n. 1034 cit., per l’individuazione delle modalità con cui dichiarare perenti i ricorsi c.d. ultradecennali. L’orientamento espresso con tali decisioni si pone in contrasto con quello pacificamente seguito da tutte le sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato e dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, che, dall’entrata in vigore dell’art. 9 della l. 21 luglio 2000 n. 205, hanno sempre utilizzato per dichiarare la perenzione, sia ultrabiennale che ultradecennale, il procedimento mediante decreto di un consigliere delegato, secondo i rispettivi procedimenti, ammettendo altresı̀ l’opposizione a tale decreto decisorio, e ritenendo implicitamente che tale disposizione sia estensibile al giudizio di appello. Tale questione, come rileva l’ordinanza di rimessione, ha carattere prioritario, perché involge la competenza del giudice che ha pronunciato il decreto oggetto di opposizione, ed è idonea, in caso di fondatezza, a determinare non soltanto l’accoglimento dell’opposizione e l’annullamento del decreto dichiarativo della perenzione impugnato, con l’obbligo per la sezione di rinnovare, mediante giudizio collegiale, il procedimento per l’accertamento dell’intervenuta perenzione, ma altresı̀, ed in via generale, l’inammissibilità del rimedio dell’opposizione avverso le pronunce di secondo grado dichiarative della perenzione. 1.1. Nel merito, l’ordinanza di rimessione premette che le disposizioni che vengono in considerazione sono contenute nell’ultimo comma dell’art. 26 della l. 6 dicembre 1971 n. 1034, cosı̀ sostituito, insieme con gli attuali commi dal 4 al 7 dall’art. 9 comma 1 della l. 21 luglio 2000 n. 205, secondo il quale la rinuncia al ricorso, la cessazione della materia del contendere, l’estinzione del giudizio e la perenzione sono pronunciate, con decreto, dal presidente della sezione competente o da un magistrato da lui delegato. Il decreto è depositato in segreteria, che ne dà formale comunicazione alle parti costituite. Nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione ciascuna delle parti costituite può proporre opposizione al collegio, con atto notificato a tutte le altre parti e depositato presso la segreteria del giudice adito entro dieci giorni dall’ultima notifica. Nei trenta giorni successivi il collegio decide sulla opposizione in camera di consiglio, sentite le parti che ne facciano richiesta, con ordinanza che, in caso di accoglimento della opposizione, dispone la reiscrizione del ricorso nel ruolo ordinario. Nel caso di rigetto, le spese sono poste a carico dell’opponente e vengono liquidate dal collegio nella stessa ordinanza, esclusa la possibilità di compensazione anche parziale. L’ordinanza è depositata in segreteria, che ne dà comunicazione alle parti costituite. Avverso l’ordinanza che decide sulla opposizione può essere proposto ricorso in appello. Il giudizio di appello procede secondo le regole ordinarie, ridotti alla metà tutti i termini processuali. Ad avviso della Sezione rimettente, anche se tali disposizioni sono


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dettate per la disciplina del primo grado del giudizio, non può dirsi con certezza che esse non debbono estendersi anche al giudizio di secondo grado, poiché comuni sono per i due gradi di giudizio le esigenze di celerità e semplificazione cui sono ispirate molte, e tra queste proprio quelle in esame, tra le disposizioni della l. n. 205 del 2000. Tuttavia è però vero che non può ritenersi senza significato, a meno di non volere attribuire la circostanza alla mera causalità od all’improvvisazione del legislatore, che in differenti ipotesi previste dalla medesima l. n. 205 sia stata espressamente prevista l’applicabilità delle particolari ed innovative norme di rito anche nei giudizi di secondo grado. In tale senso, per esempio, dispongono i commi dal sesto al quattordicesimo dell’art. 21 della l. n. 1034 del 1971 che, secondo la modifica recata dall’art. 3 l. 21 luglio 2000 n. 205, e relativamente al nuovo rito delle fasi cautelare, istruttoria e di ottemperanza del processo amministrativo, si applicano anche nei giudizi avanti al Consiglio di Stato. Sempre nella medesima ottica, l’art. 23-bis successivo (aggiunto dall’art. 4 l. 21 luglio 2000 n. 205), stabilisce, nel comma 1, che le disposizioni di cui al presente articolo si applicano nei giudizi davanti agli organi di giustizia amministrativa e, all’ultimo comma, che le disposizioni del presente articolo si applicano anche davanti al Consiglio di Stato, in caso di domanda di sospensione della sentenza appellata. Né a sostegno della tesi dell’applicabilità, nel giudizio d’appello, del procedimento per decreto, potrebbero invocarsi l’ultimo comma dell’art. 28 della l. n. 1034 del 1971 cit., secondo cui in ogni caso, il Consiglio di Stato in sede di appello esercita gli stessi poteri giurisdizionali di cognizione e di decisione del giudice di primo grado, e l’art. 9 comma 2 l. n. 205 del 2000. Di tali norme, la prima si limita ad estendere al giudice di appello i poteri di cognizione e decisione spettanti al Tar, senza però incidere minimamente sulle differenti composizioni e sulle correlate competenze dei rispettivi organi giudicanti, che anzi sono mantenute appositamente differenziate, in ragione della distinzione tra i due gradi di giudizio; la seconda, nel prevedere una peculiare ipotesi di perenzione (ultradecennale), si limita a rinviare all’ultimo comma del menzionato art. 26 l. n. 1034 cit., per l’individuazione delle modalità con cui dichiarare perenti i ricorsi c.d. ultradecennali. In altre parole, secondo l’ordinanza di rimessione, qualora per esigenze di speditezza, celerità e semplificazione il Legislatore abbia ipotizzato la possibilità di adottare in veste monocratica una determinata categoria di decisioni, da parte del giudice di primo grado, non sembra potersi ritenere, in assenza di una norma esplicita, dinamicamente estesa la medesima possibilità al giudice di secondo grado. 2. Ritiene questa Adunanza plenaria che debba essere confermato l’orientamento pacificamente seguito da tutte le sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato e dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Re-


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gione siciliana, che, dall’entrata in vigore dell’art. 9 della l. 21 luglio 2000 n. 205, hanno sempre utilizzato per dichiarare la perenzione, sia ultrabiennale che ultradecennale, il procedimento mediante decreto di un consigliere delegato, secondo i rispettivi procedimenti, ammettendo altresı̀ l’opposizione a tale decreto decisorio, e ritenendo implicitamente che tale disposizione sia estensibile al giudizio di appello. Alla base dell’orientamento che esclude l’ammissibilità, nel giudizio d’appello, del procedimento per decreto nei casi previsti dall’ultimo comma dell’art. 26 (nuovo testo), vi è la constatazione che, a differenza di altri casi nei quali la norma espressamente prevede (artt. 3 e 4 della l. 21 luglio 2000 n. 205) che le nuove disposizioni si applicano anche nei giudizi avanti al Consiglio di Stato, l’art. 26 ult. comma, tace accuratamente sulla possibilità che la speciale procedura trovi applicazione innanzi al Consiglio di Stato. Da qui la conseguenza che, in mancanza di norma espressa, non si può alterare la composizione strutturalmente collegiale del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale e che a tal fine non giova il richiamo né alla norma sancita dall’ultimo comma dell’art. 28 l. n. 1034 cit., che si limita ad estendere i poteri di cognizione e di decisione del Consiglio di Stato in sede di appello (modellandoli su quelli propri del primo giudice), ma non tocca i profili ordinamentali nel cui novero rientra l’individuazione della struttura collegiale o meno del giudice chiamato all’esercizio dei su indicati poteri decisori né a quella sancita dall’art. 9 comma 2 l. n. 205 cit., che nel prevedere una peculiare ipotesi di perenzione (ultradecennale), si limita a rinviare all’ultimo comma del menzionato art. 26 l. n. 1034 cit., per l’individuazione delle modalità con cui dichiarare perenti i ricorsi c.d. ultradecennali. Va subito precisato che, ad avviso di questa Adunanza plenaria, per la soluzione del quesito non appare decisivo il raffronto con gli artt. 3 e 4 della l. 21 luglio 2000 n. 205, perché, in entrambi i casi, trattandosi di discipline del tutto nuove, relative, la prima al nuovo processo cautelare, e la seconda a un rito del tutto nuovo nelle materie tassativamente individuate dall’art. 4, che ha introdotto l’art. 23-bis l’espressa previsione dell’applicabilità delle relative disposizioni anche al giudizio davanti al Consiglio di Stato era assolutamente necessaria. Nel merito, la questione non può essere affrontata esaminando isolatamente l’ultimo comma dell’art. 26 nuovo testo, ma deve procedere da una lettura complessiva ed unitaria dell’intero art. 9 della l. 21 luglio 2000 n. 205, la cui intestazione è la seguente: « Decisioni in forma semplificata e perenzione dei ricorsi ultradecennali ». Come anche la dottrina ha avuto subito modo di evidenziare, l’art. 9 comma 1 modificando l’art. 26 l. Tar, ha soppresso il comma 4 ed ha aggiunto altri quattro commi, i quali prevedono: a) decisioni in forma semplificata assunte con sentenza succintamente motivata (commi 4, 5 e 6 del testo novellato);


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b) decisioni semplificate assunte con decreto sulle c.d. cause di estinzione del giudizio (comma 7). Per quelle sub a) il Legislatore ha fatto testuale riferimento al Tar e al Consiglio di Stato (comma 4), mentre per quelle sub b), il Legislatore nulla ha specificato in ordine al giudice competente. Ora, poiché non sembra che possano sorgere dubbi sulla circostanza che sia la sentenza succintamente motivata che il decreto dichiarativo delle cause di estinzione integrano una diversa tipologia di decisione semplificata, una interpretazione che tenga conto della collocazione sistematica della norma induce a ritenere che l’omessa specificazione, al comma 7, del giudice competente non appare decisiva. L’art. 9 citato, difatti, dal punto di vista strutturale, individua il giudice competente ad adottare decisioni semplificate al suo comma 1, prima parte, in cui menziona sia il Tar sia il Consiglio di Stato. Le ulteriori disposizioni contenute nella seconda parte del comma 1 e nei commi da 4 a 7 attengono esclusivamente alle modalità di decisione con le due tipologie di decisioni in forma semplificata: la sentenza succintamente motivata e il procedimento con decreto presidenziale. In tale contesto interpretativo, non vi era, pertanto, nessuna necessità che l’ultimo comma dell’art. 26 della l. Tar (nuovo testo) specificasse che le disposizioni in esso contenute si applicano anche davanti al Consiglio di Stato. Questa conclusione sembra trovare conferma con riferimento alla perenzione ultradecennale (comma 2 dell’art. 9), per la quale la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato appare orientata nel senso dell’ammissibilità del decreto presidenziale, come si evince anche dall’ordinanza della IV Sezione n. 2589 del 15 maggio 2002, che, pur avendo ad oggetto l’opposizione proprio ad un decreto presidenziale, tralascia ogni considerazione sulla necessità di una norma che assegni la competenza all’organo monocratico. Nello stesso senso si è pronunciata la V Sezione con ord. n. 1087 del 28 febbraio 2001 e con decisione 15 settembre 2001 n. 4820, la quale, non solo ritiene applicabile l’art. 26 ult. comma l. n. 1034 del 1971 al giudizio innanzi al Consiglio di Stato, ma ricomprende fra le dichiarazioni soggette a questa procedura semplificata di definizione del giudizio anche quella di improcedibilità del ricorso. Ove si accedesse al diverso orientamento, si verificherebbe non solo l’incongruità di non applicare al giudizio d’appello istituti di semplificazione che il Legislatore del 2000 ha introdotto allo scopo di accelerare i tempi del processo — esigenza questa comune ad entrambi i gradi del giudizio — ma addirittura un aggravamento procedurale del giudizio d’appello nei casi considerati dall’ultimo comma dell’art. 26 (nuovo testo), rispetto alla disciplina previdente. Non vi è dubbio, infatti, che il nuovo art. 26 ult. comma ha comportato l’abrogazione tacita dell’art. 27 n. 1 e n. 2 della l. n. 1034 del 1971, che prevedevano il procedimento in camera di consiglio per i giudizi rela-


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tivi alla rinuncia al ricorso, alla perenzione e alla cessazione della materia del contendere. Poiché non sembra possibile sostenere che l’abrogazione tacita opera solo per il giudizio di primo grado, il diverso orientamento comporterebbe che, nel giudizio di secondo grado, i giudizi prima specificati non possono più essere decisi con il procedimento, più snello, in camera di consiglio, ma con quello, ben più gravoso quanto ai tempi, dell’udienza pubblica. Alla luce delle considerazioni che precedono, ritiene questa Adunanza plenaria che l’interpretazione unitaria e sistematica dell’art. 9 della l. 21 luglio 2000 n. 205, consente di affermare che l’individuazione degli organi giudicanti contenuta nel comma 1 prima parte, si estende anche alle decisioni semplificate assunte con decreto monocratico nei giudizi davanti al Consiglio di Stato. Né, come assume l’opponente, un argomento a conforto, dell’opposta tesi, può desumersi dall’ultimo comma dell’art. 26 della l. 6 dicembre 1971 n. 1034, nella parte in cui prevede che l’ordinanza che decide sull’opposizione possa essere impugnata in appello, sta a significare che tale procedimento è riservato alla competenza del giudice di primo e non di secondo grado, non essendovi oltretutto chiarito davanti a quale giudice possa essere impugnata l’ordinanza di rigetto dell’opposizione pronunciata dal Consiglio di Stato. La previsione di un appello avverso l’ordinanza collegiale di decisione dell’opposizione al decreto monocratico, è previsione del tutto neutra ai fini della soluzione della questione. Quanto al rilievo che la norma non prevede a quale organo giudicante spetti decidere sull’impugnazione dell’ordinanza collegiale assunta dal Consiglio di Stato, è facile osservare che, per espressa previsione costituzionale, i provvedimenti giurisdizionali del Consiglio di Stato, in quanto organo di vertice della magistratura amministrativa, sono impugnabili solo per motivi inerenti la giurisdizione davanti alla Corte di cassazione a Sezioni unite. Pertanto, la questione di costituzionalità dell’art. 9 per violazione del doppio grado di giurisdizione è palesemente infondata. Deriva da quanto sopra l’infondatezza del primo e quarto motivo di opposizione. 3. I motivi secondo e terzo possono essere esaminati congiuntamente, perché con essi, sotto diversi profili, si assume: che l’unica prova dell’avvenuto deposito dell’istanza di fissazione insieme col fascicolo di parte, sarebbe ravvisabile nella dichiarazione giurata del medesimo difensore, depositata in atti, mentre sarebbe evidente che l’addetto alla ricezione dei ricorsi avrebbe omesso di apporre il timbro di deposito anche sull’istanza di fissazione, presentata al giorno dell’iscrizione della causa ruolo (3 luglio 2003); che, pertanto, il decreto impugnato non avrebbe considerato la presenza dell’istanza di fissazione nel fascicolo, considerata oltre-


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tutto la prassi e la possibilità di ricostruzione del fascicolo distrutto per qualsiasi causa. Essi sono entrambi infondati. L’avvenuta presentazione della domanda di fissazione dell’udienza di discussione, necessaria per evitare la dichiarazione di perenzione del giudizio amministrativo, va provata mediante l’annotazione della domanda stessa nell’apposito registro o con la dichiarazione della sua ricezione da parte dell’ufficio ai sensi dell’art. 51 del r.d. 17 agosto 1907 n. 642, contenente il regolamento di procedura davanti al Consiglio di Stato, ovvero ancora con il timbro di deposito dell’Ufficio. Nessuna di queste condizioni ricorre nel caso in esame, per cui correttamente è stata dichiarata la perenzione. La domanda rinvenuta nel fascicolo non reca alcun segno di ricezione (con la relativa data) dell’Ufficio accettazione ricorsi o dell’Ufficio di segreteria della Sezione, né risulta annotata nell’apposito registro con la conseguente inesistenza per il Segretario, il quale non poteva curarne la presentazione, ai sensi dell’art. 51 citato, al Presidente della Sezione per l’assegnazione del giorno d’udienza. Nel caso in esame, manca, pertanto, qualsiasi elemento che possa far desumere il suo tempestivo deposito, come sostiene l’opponente, il quale insiste nell’affermazione che l’istanza predetta sarebbe stata depositata in data 3 luglio 2000 presso l’ufficio ricorsi di questo Consiglio di Stato e che, per mera dimenticanza, il responsabile addetto avrebbe apposto il timbro di deposito solo sul ricorso e sugli allegati, e non anche sulla distinta istanza di fissazione. Le affermazioni del difensore e la sua dichiarazione giurata non possono, di per sé, smentire le risultanze oggettive e surrogare la prova documentale prescritta dalla normativa. Né giova alla tesi dell’opponente il richiamo alla decisione di questo Consiglio di Stato (V Sez.) 1o ottobre 2001 n. 5186, perché nel caso esaminato la domanda di fissazione recava un timbro ad inchiostro viola con la data del 16 dicembre 1992, per cui giustamente è stato ritenuto che la mancata annotazione nell’apposito registro di deposito non potesse comportare la perenzione del ricorso. A ulteriore sostegno della propria tesi, secondo cui, nel caso in esame, vi sarebbe stata un’evidente omissione di registrazione da parte dell’addetto alla ricezione degli atti, e l’unica prova dell’avvenuto deposito della domanda di fissazione d’udienza andrebbe individuata nella dichiarazione giurata del difensore, quest’ultimo, all’odierna camera di consiglio, ha depositato il dettaglio di un ricorso (n. 10873 del 2002), estratto dal sito internet della giustizia amministrativa, e nel quale alla pagina uno, accanto alla voce Istanza fissazione attiva, risulta annotato un « NO » a dimostrazione dell’assenza di un’istanza di fissazione. Posto che, in realtà, nel citato ricorso, la domanda di discussione è stata, invece, ritualmente depositata, la contraria annotazione risultante nell’apposita voce avanti richiamata, dimostrerebbe l’errore dell’ufficio ricezione ricorsi e renderebbe at-


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tendibile l’assunto della dimenticanza denunciata a proposito del ricorso in esame. Anche questo argomento deve essere disatteso, perché frutto di un’inesatta lettura del documento. L’annotazione « No » accanto alla voce Istanza di fissazione attiva sta solo a significare che, alla data di deposito dell’appello (avvenuta il 30 dicembre 2002), non risulta anche depositata la domanda di discussione del ricorso, che, invece, risulta depositata successivamente, in data 9 gennaio 2003, come documentalmente provato a pagina due del medesimo documento. Ora, tenuto conto che il documento in parola descrive, in ordine strettamente cronologico, le date nelle quali i singoli documenti sono depositati dalle parti, appare evidente che nessuna contraddittorietà può desumersi dalle due annotazioni prima evidenziate, le quali, diversamente da quanto assume l’opponente, si riferiscono a tempi diversi e non possono indurre a dubbi e perplessità sulla regolare e tempestiva registrazione di tutti gli atti depositati dalle parti. 4. Manifestamente infondata è la questione di costituzionalità, sollevata con il quinto motivo di opposizione, dell’art. 9 comma 2 della l. 21 luglio 2000 n. 205, per contrasto con gli artt. 3 e 97 Cost., essendo contraddittorio che il Legislatore non abbia previsto, anche nel caso della perenzione biennale, il particolare procedimento, previsto dal capoverso dell’articolo ultimo citato per i ricorsi ultradecennali, con la notifica alle parti di apposito avviso che le inviti a presentare entro sei mesi nuova istanza di fissazione di udienza, in mancanza della quale il ricorso è dichiarato perento. La peculiare fattispecie della perenzione ultradecennale dei ricorsi, introdotta dall’art. 9 comma 2 della l. n. 205 del 2000 come nuova causa di estinzione nel processo amministrativo, si differenzia dall’omonima tradizionale causa di estinzione del giudizio. La perenzione biennale costituisce una presunzione assoluta di abbandono del ricorso che consegue ad un comportamento inerte delle parti, le quali, per un periodo di oltre due anni, non hanno avuto cura di compulsare la fissazione dell’udienza di merito, presentando la relativa domanda. Il nuovo istituto impone alla parte ricorrente un nuovo onere: quello di rinnovare, dopo dieci anni, la manifestazione dell’interesse alla decisione della causa pur in presenza di una già rituale presentazione della domanda di fissazione d’udienza. La finalità della nuova disposizione è duplice, perché, da un lato, introduce un meccanismo generalizzato di verifica della sussistenza di un interesse alla decisione, e, dall’altro lato, persegue il contestuale smaltimento dell’arretrato. Ciò spiega perché, mentre la normale domanda di fissazione d’udienza, in quanto atto d’impulso processuale, rientra nella competenza del difensore, la domanda volta ad evitare la perenzione ultradecennale


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deve essere sottoscritta oltre che dal difensore anche dalla parte che egli rappresenta. Tenuto conto che il nuovo istituto è volto ad accertare il perdurante interesse alla decisione del ricorso, appare evidente come la relativa manifestazione di volontà debba promanare (anche) dalla parte titolare dell’interesse medesimo, mentre analoga esigenza non ricorre nel caso di perenzione biennale. 5. L’ultima questione da esaminare è la richiesta istruttoria per l’acquisizione degli atti che sono il presupposto del decreto impugnato, con l’attestazione e l’indicazione del responsabile delle operazioni di immissione dati, come previsto dall’art. 3 del d.lgs. 12 febbraio 1993 n. 39. La richiesta va disattesa sia perché gli atti sui quali si è fondato il decreto presidenziale di perenzione sono tutti acquisiti al fascicolo sia perché l’informatizzazione del processo amministrativo non è ancora operante, attesa la mancanza del d.P.C.M., previsti dall’art. 18 d.P.R. 13 febbraio 2001 n. 123, per l’applicazione anche al processo amministrativo degli strumenti informatici e telematici. 6. Alla stregua delle considerazioni appena svolte, ritiene questa Adunanza plenaria che la perenzione ordinaria possa essere pronunciata, anche nei giudizi di appello, con decreto monocratico del Presidente della Sezione o di un consigliere delegato. (Omissis).

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Perenzione e procedimento monocratico in Consiglio di Stato.

SOMMARIO: 1. Riti speciali e istituti di accelerazione del rito ordinario in Consiglio di Stato. — 2. I procedimenti monocratici per la dichiarazione della perenzione nel processo amministrativo e dell’estinzione nel processo civile. — 3. La decisione dell’Adunanza plenaria: perenzione e procedimento monocratico in Consiglio di Stato. — 4. (Segue): l’abrogazione tacita dell’art. 27, n. 1 e n. 2, l. 1034 del 1971. — 5. (Segue): il ricorso per Cassazione avverso l’ordinanza del collegio che decide l’opposizione al decreto sulla perenzione. — 6. Sulla prova dell’avvenuta presentazione della domanda di fissazione dell’udienza di discussione idonea a scongiurare la perenzione del giudizio amministrativo.

1. La l. 21 luglio 2000, n. 205, ampliando una tendenza legislativa diffusa negli ultimi anni (1), introduce rilevanti istituti innovativi del rito processuale amministrativo. Le disposizioni (1)

Si v. l’art. 31-bis, comma 3, l. n. 109 del 1994, introdotto dal d.l. 3 aprile


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della legge, infatti, regolano molteplici varianti al rito ordinario che hanno contribuito a confermare anche nel processo amministrativo l’utilizzo dell’espressione « riti speciali » (2). Tuttavia, la qualificazione in termini di « specialità » accomuna quegli istituti solo in quanto strumentale all’indicazione delle divergenze che essi evidenziano rispetto al rito proprio della generalità dei giudizi amministrativi (3). In realtà di riti speciali in senso vero e proprio pare doversi parlare solo nelle ipotesi in cui i procedimenti risultino « caratterizzati nella loro interezza da una struttura diversa da quella ordinaria » (4). In tal modo speciale è, ad esempio, il rito che si instaura a seguito del ricorso avverso il silenzio disciplinato dall’art. 21-bis della l. 6 dicembre 1971, n. 1034, introdotto dall’art. 2, l. 1995, n. 101, convertito nella l. 2 giugno 1995, n. 216; il d.l. 25 marzo 1997, n. 67, convertito con modifiche nella l. 23 maggio 1997, n. 135, sul quale F. PUGLIESE, Le nuove disposizioni in materia di giustizia rimodellano gli istituti processuali e l’attività amministrativa, in questa Rivista, 1999, 615 ss.; A. TRAVI, Dubbi sulla legittimità del giudizio abbreviato in materia di opere pubbliche, in Urb. e app., 1998, 959 ss.; M. LIPARI, La mini-riforma del processo amministrativo nella legge n. 135/1997, ivi, 1997, 740 ss.; in relazione all’applicabilità al termine biennale di perenzione di cui all’art. 40, r.d. 26 giugno 1924, n. 1054, della riduzione dei termini processuali disposta dall’art. 19, l. n. 135 del 1997 si v. Cons. Stato, Sez. IV, 29 ottobre 2001, n. 5623, in Giur. it., 2002, 391 ss. (2) Sui riti speciali anteriormente all’entrata in vigore della l. n. 205 del 2000 si v.: S. MENCHINI, Processo amministrativo e tutele giurisdizionali differenziate, in questa Rivista, 1999, 921 ss.; F. CARINGELLA, F. DELLA VALLE, I processi amministrativi speciali, Milano, 1999; sui riti speciali « caratterizzati dalla sommarietà della cognizione » e sulla differenziazione delle forme di tutela interinale si v. M. ANDREIS, Tutela sommaria e tutela cautelare nel processo amministrativo, Milano, 1996, 45 ss. (3) Nella normativa del processo amministrativo l’espressione riti speciali non è utilizzata, tuttavia può rilevarsi che anche nel codice di procedura civile, sebbene l’intero Libro IV sia rubricato « Dei procedimenti speciali », la disciplina di essi risulta accomunata solo dal loro essere « speciali » perché divergenti dal procedimento normale, si v. C. MANDRIOLI, Diritto processuale civile15, III, Torino, 2003, 7 ss.; sui riti speciali nel processo amministrativo si v.: M.P. CHITI, Le procedure giurisdizionali speciali, in Tratt. dir. amm., a cura di S. CASSESE, vol. V, Milano, 2003, 4735 ss.; N. PAOLANTONIO, Tutela differenziata e processo amministrativo, in questa Rivista, 2001, 964 ss.; M. LIPARI, Il processo speciale accelerato, Milano, 2003; sulla conciliazione fra modelli diversificati di rito con le garanzie minime sulle quali si fonda il « giusto processo », si v. L.P. COMOGLIO, La riforma del processo amministrativo e le garanzie del « giusto processo », in Riv. dir. proc., 2001, in particolare 655 ss. (4) L’espressione riportata nel testo è di V. CAIANIELLO, Manuale di diritto processuale amministrativo3, Torino, 2003, 1028.


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n. 205 del 2000. In questa ipotesi, infatti, la specialità si connota per tempi e modi procedimentali caratterizzati in maniera tale da configurare un vero e proprio modello processuale autonomo (5). Viceversa, il rito previsto dall’art. 23-bis, l. n. 1034 del 1971, introdotto dall’art. 4, l. n. 205 del 2000, non pare disciplinato da regole diverse da quelle ordinarie se non sotto il profilo della particolare accelerazione dei tempi per la decisione (6). Solo in questo senso attenuato può parlarsi di specialità con riferimento ai numerosi istituti di accelerazione e abbreviazione del rito ordinario processuale sin dalla legislazione del 1889. Inoltre taluni istituti di accelerazione risultano inscrivibili « all’interno di qualsiasi processo come alternativa al rito ordinario in presenza di alcuni presupposti indicati dalla legge » (7). In questa prospettiva paiono da annoverare le diverse ipotesi di decisioni succintamente motivate assunte in camera di consiglio (5) V. CAIANIELLO, Manuale di diritto processuale amministrativo, cit., 1028, annovera fra i procedimenti speciali, oltre a quello menzionato nel testo, il procedimento per l’esercizio di accesso già previsto dall’art. 25, l. n. 241 del 1990, il contenzioso elettorale, il procedimento monitorio per decreto ingiuntivo e i provvedimenti anticipatori (186-bis e 186-ter c.p.c.) ex art. 8 l. n. 205 del 2000, le controversie in materia di sciopero nei servizi pubblici essenziali e i giudizi instaurati ad iniziativa della pubblica amministrazione, ma anche l’art. 23-bis, introdotto dall’art. 4, l. n. 205 del 2000. (6) A. TRAVI, L’art. 23-bis della l. n. 1034 del 1971 fra disciplina particolare e rito speciale, in questa Rivista, 2004, 172 ss.; M. LIPARI, I riti abbreviati, in AA.VV., Il nuovo processo amministrativo2, a cura di F. CARINGELLA e M. PROTTO, Milano, 2002, 804 ss.; M. RAMAJOLI, La connessione nel processo amministrativo, Milano, 2002, 220. (7) V. CAIANIELLO, Manuale di diritto processuale amministrativo, cit., 1028, considera in tal modo la decisione in forma semplificata con rito camerale disciplinata dall’art. 26, l. n. 1034 del 1971, come integrato dall’art. 9, l. n. 25 del 2000, la definizione del processo con decreto presidenziale sulla rinunzia, la cessazione della materia del contendere e la perenzione, la possibilità di decidere il ricorso nel merito in sede di decisione sull’istanza cautelare prevista dall’art. 21, comma 9, l. n. 1034 del 1971, come novellato dall’art. 3, l. n. 205 del 2000; può sottolinearsi che da altri è stato proposto un tentativo di classificazione, non altrimenti rinvenibile nella normativa processuale amministrativa, dei riti latu sensu speciali in immediati, abbreviati e accelerati: S. MENCHINI, Processo amministrativo e tutele giurisdizionali differenziate, cit., 934 ss.; A. BARTOLINI, Il rito speciale per i « settori sensibili », in AA.VV., Il processo davanti al giudice amministrativo2, a cura di B. SASSANI e R. VILLATA, Torino, 2004, 283 ss.; N. PAOLANTONIO, I riti processuali, in AA.VV., Giustizia amministrativa, a cura di F.G. SCOCA, Torino, 2003, 224 e 229 ss., ove il rito immediato viene identificato nel disposto dei commi 4, 5, e 6 dell’art. 26, l. n. 1034 del 1971 come introdotti dall’art. 9, l. n. 205 del 2000.


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quale modo di definizione del giudizio che investe trasversalmente sia i procedimenti speciali che il procedimento ordinario in tutti quei casi in cui ricorrano oggettive condizioni assolutamente manifeste che non comportino l’esame di problematiche complesse. Per tale via ogni volta che la controversia appare matura per la decisione il legislatore del 2000 impone al giudice amministrativo la sentenza o l’ordinanza in camera di consiglio (8), sia che si tratti di un procedimento speciale, sia di un procedimento ordinario, o in virtù di una disposizione specifica (9), o sulla base dell’applicazione generale del disposto dell’attuale art. 26, l. n. 1034 del 1971, come novellato dall’art. 9, l. n. 205 del 2000 (10). La decisione in camera di consiglio rappresenta in tal modo la soluzione prescelta per definire il giudizio anche in merito e non solo in rito come nelle previsioni dell’art. 27, l. n. 1034 del 1971 (11), allo scopo di realizzare una accelerazione dei tempi della decisione giurisdizionale (12). Tuttavia le alterazioni del rito ordinario investono anche la composizione dell’organo giudicante, che in talune ipotesi da col(8) Sulle sentenze camerali anteriormente all’entrata in vigore della l. n. 205 del 2000 e sulle novità di quest’ultima in relazione a quelle si v. N. SAITTA, I giudizi in camera di consiglio nella giustizia amministrativa, Milano, 2003, 317 ss.; in precedenza ID., I procedimenti in camera di consiglio nella giustizia costituzionale e amministrativa, Milano, 1980, 107 ss. (9) L’art. 21-bis della l. n. 1034 del 1971, introdotto dall’art. 2, l. n. 205 del 2000, afferma che: « i ricorsi avverso il silenzio dell’amministrazione sono decisi in camera di consiglio, con sentenza succintamente motivata ». (10) A norma della disposizione citata nel testo: « Nel caso in cui ravvisino la manifesta fondatezza ovvero la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso, il tribunale amministrativo regionale e il Consiglio di Stato decidono con sentenza succintamente motivata [...]. La decisione in forma semplificata è assunta [...] nella camera di consiglio »; si noti che l’art. 4, l. n. 205 del 2000, che introduce il nuovo art. 23-bis, l. n. 1034 del 1971, fa « salva l’applicazione dell’art. 26, quarto comma ». (11) N. SAITTA, I giudizi in camera di consiglio nella giustizia amministrativa, cit., 325 ss. (12) Sulle esigenze che dettano al legislatore l’introduzione della decisione in camera di consiglio in luogo dell’udienza pubblica e sui limiti dell’effettiva rispondenza di questa tecnica alle esigenze di celerità del processo si v. A. BRIGUGLIO, La pronuncia in camera di consiglio della Corte di Cassazione (riflessioni sul nuovo art. 375 c.p.c.), in Riv. dir. proc., 2001, 1006 ss.


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legiale diventa monocratico (13), e la veste delle sue decisioni che assumono la forma del decreto (14). Tali innovazioni appaiono considerevoli per il processo amministrativo, che fino al periodo immediatamente precedente l’intervento legislativo del 2000 non conosceva alternativa alla decisione collegiale (15). Le modificazioni del modello ordinario di processo amministrativo possono descriversi in tal modo o quali elementi di specialità « forte » che investe l’intero procedimento caratterizzandolo autonomamente per regole proprie, o quali elementi di specialità in senso attenuato che riguardano o la dimidiazione dei tempi procedimentali o l’accelerazione delle decisioni nel rito ordinario che implicano a loro volta anche una modificazione sia della composizione dell’organo giudicante che della forma della decisione. A fronte delle specialità lato sensu individuate occorre verificare la loro applicabilità anche al giudizio in Consiglio di Stato, in considerazione, da un lato, dell’esame funzionale degli istituti di semplificazione pensati per accelerare i tempi del processo, esigenza senz’altro comune sia al primo che al secondo grado del giudizio amministrativo, dall’altro, delle eventuali differenze rinvenibili nelle discipline dei due gradi del processo. In effetti, la necessità della conciliazione delle discipline pro(13) Si vedano, ad esempio, le previsioni circa le decisioni che possono essere assunte dall’organo monocratico in sede cautelare — con decreto del presidente del Tar, o della sezione cui il ricorso è assegnato — sorrette da esigenze di « estrema gravità ed urgenza, tale da non consentire neppure la dilazione fino alla data della camera di consiglio », sulle quali F. CINTIOLI, Osservazioni sul nuovo processo cautelare, in Urb. e app., 2001, II, 243; M. SANINO, Il processo cautelare, in AA.VV., Verso il nuovo processo amministrativo, a cura di V. CERULLI IRELLI, Torino, 2000, 271. (14) Sui decreti presidenziali introdotti dalla l. n. 205 del 2000 si v. F.F. TÙCCARI, Decisioni in forma semplificata ed estinzione del giudizio (art. 9 seconda parte), in AA.VV., Il nuovo processo amministrativo, cit., 1062 ss.; sui provvedimenti monocratici rinvenibili nel processo amministrativo si v. N. SAITTA, I provvedimenti monocratici nel processo amministrativo, Milano, 2002, 7 ss.; sulla forma di questo tipo di decisione del giudice amministrativo e sul contenuto dei decreti prima della l. n. 205 del 2000 si v. A. ANDREANI, Decreto (diritto processuale — diritto processuale amministrativo), in Enc. giur., vol. X, Roma, 1988, 1 ss. (15) In effetti alcuni tentativi di decisioni in forma monocratica si sono avuti all’indomani del d.lgs. n. 80 del 1998, ma si v. l’intervento dell’Ad. plen., ord. 30 marzo 2000, n. 1, in Cons. St., I, 767 ss., specialmente 787 ss.


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cessuali del primo e del secondo grado del giudizio nasce dalla peculiare formazione del sistema di giustizia amministrativa. Infatti la l. n. 1034 del 1971, istitutiva dei tribunali amministrativi regionali (16), innesta la disciplina legislativa del processo sulla preesistente normativa dettata dal r.d. 26 giugno 1924, n. 1054, t.u. Cons. Stato (17) e nata quando il Consiglio di Stato era organo di giurisdizione amministrativa in unico grado (18). In particolare, l’art. 28, comma 5, l. n. 1034 del 1971, dichiara che « in ogni caso, il Consiglio di Stato in sede di appello esercita gli stessi poteri giurisdizionali di cognizione e di decisione del giudice di primo grado », affermando non solo il carat(16) L’innovazione maggiore della l. n. 1034 del 1971, non paragonabile per consistenza e matrice culturale alle precedenti leggi del 1865 e del 1889, è rinvenibile nella istituzione dei Tar, mentre la legge ha rinunciato a risolvere le questioni aperte e a colmare le lacune della normazione anteriore, si v. A. ROMANO, Premessa, in Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa2, Padova, 2001, XIX, il quale in merito alla l. n. 1034 del 1971 rileva che: « esibita come attuazione, che del resto sarebbe stata comunque ben tarda, dell’art. 125, secondo comma, Cost., in realtà la sua adozione è stata dovuta a stringenti ragioni molto più pratiche; in particolare, dal grande aumento del contenzioso amministrativo, per tutta una serie di cause che vanno dalla istituzione e dallo sviluppo delle regioni, e dalla valorizzazione delle autonomie locali in genere, alla esplosione della conflittualità nel pubblico impiego, e delle tensioni concernenti gli usi del territorio »; inoltre, l’introduzione del doppio grado di giurisdizione nel sistema della giustizia amministrativa è peculiare perché inserisce dei giudici di primo grado, piuttosto che un giudice di appello, « inferiori » nei sensi rilevati da M. NIGRO, Il Consiglio di Stato giudice di appello, in Foro it., 1982, V, 9: « il Consiglio di Stato non è solo colui al quale, come giudice di secondo grado, spetta sulla controversia l’ultima parola, ma è colui che “fa la legge” o qualcosa che assomiglia alla legge ». (17) A. ROMANO, op. ult. cit., XX, rileva nella l. n. 1034 del 1971 la presenza di: « disposizioni che regolano il giudizio davanti ai tribunali amministrativi regionali, il giudizio amministrativo ora di primo grado; o lo normano in generale, ossia indipendentemente dal grado nel quale si svolge. E sono disposizioni che, almeno tendenzialmente, riformulano, sovrapponendovisi, una disciplina già prevista in norme precedentemente vigenti, e, in particolare, nel testo unico del 1924: di materie già da queste considerate, di istituti già da queste delineati. Ma, molto spesso, limitandosi a riproporre proposizioni identiche, o a sostituirle solo con loro perifrasi ». (18) Il testo unico raccolse la l. 31 marzo 1889, n. 5992, istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato, dopo le iniziali incertezze, con funzione giurisdizionale e le sue successive modificazioni. La disciplina dell’esercizio della funzione giurisdizionale amministrativa (artt. 26 e ss. del t.u. Cons. Stato) risulta anche dal coordinamento con il r.d. 17 agosto 1907, n. 642, regolamento di esecuzione del precedente testo unico delle leggi del Cons. Stato del 17 agosto 1907, n. 638.


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tere rinnovatorio dell’appello amministrativo (19), ma anche la norma per la quale nel giudizio d’appello debbono valere le stesse regole che disciplinano il processo di primo grado « che costituiscono l’ossatura interna del processo amministrativo » (20). Tuttavia, il successivo art. 29, comma 1, l. n. 1034 del 1971, afferma che « al giudizio di appello si applicano le norme che regolano il processo innanzi al Consiglio di Stato », prospettando un rinvio alle norme del t.u. del 1924 (21). Le disposizioni della l. n. 205 del 2000, dal punto di vista della disciplina del secondo grado di giudizio intervengono in vario modo. Esse modificano esplicitamente per più profili il processo in appello (22), estendendo al giudizio di secondo grado sia la specialità dei riti sia gli istituti di accelerazione (23), tanto che (19) La disputa sull’oggetto del giudizio di appello controverte sulla sua natura rinnovatoria del processo, per la quale Cons. Stato, Ad. plen., 21 ottobre 1980, n. 37, in Foro it., 1981, III, 144 ss., o, viceversa, cassatoria della sentenza impugnata, si v.: M. NIGRO, Il Consiglio di Stato giudice di appello, cit., 1 ss.; R. VILLATA, Considerazioni sull’effetto devolutivo dell’appello nel processo amministrativo, in questa Rivista, 1985, 131 ss.; A. PAJNO, Appello nel processo amministrativo e funzioni di nomofilachia, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1990, 541 ss.; F. SAITTA, Notazioni in tema di rinnovazione dell’appello amministrativo, in questa Rivista, 1994, 754 ss.; C.E. GALLO, Art. 28, Sez. II, in A. ROMANO, Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, cit., 923 ss. e giurisprudenza ivi citata. (20) C.E. GALLO, op. ult. cit., 925. (21) C. MIGNONE, Art. 29, in A. ROMANO, Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, cit., 939, rileva che la norma dell’art. 29, comma 1, l. n. 1034 del 1971, viene ad avere « un pressoché inesistente significato, che non sia quello di equiparare quanto alla procedura il giudizio di primo e il giudizio di secondo grado », in considerazione del disposto dell’art. 19, comma 1, l. n. 1034 del 1971, che rinvia per i giudizi davanti ai tribunali amministrativi regionali, alle norme di procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, applicabili solo in quanto non contrastanti con le disposizioni recate dalla legge istitutiva dei Tar. (22) L’art. 1, l. n. 205 del 2000 disciplina la trasmissione degli atti e documenti di primo grado al giudice di appello, modificando l’art. 23, l. n. 1034 del 1971; l’art. 8, l. n. 205 del 2000 prevede la possibilità di emanazione di una ingiunzione anche in sede di giudizio di appello; l’art. 16 l. n. 205 del 2000, modificando l’art. 44 del t.u. Cons. Stato, prevede la possibilità di disporre la consulenza tecnica anche nel giudizio di appello. (23) L’art. 2, comma 1, l. n. 205 del 2000 estende al giudizio di appello « le stesse regole », l’art. 3, l. n. 205 del 2000 afferma esplicitamente l’applicazione delle sue disposizioni « anche nei giudizi avanti al Consiglio di Stato », mentre l’art. 4, l. n. 205 del 2000 ne dispone l’applicazione davanti al Consiglio di Stato « in caso di do-


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la complessiva valutazione della disciplina del giudizio in Consiglio di Stato all’indomani dell’intervento legislativo del 2000 è stata criticata per la varietà dei termini e dei riti introdotti « che non giova certamente alla semplificazione del processo e alla certezza del giudizio » (24). 2. Nella decisione che si annota l’Adunanza plenaria è stata chiamata a risolvere il contrasto interpretativo sorto dalle disposizioni dell’art. 26, ult. comma, l. n. 1034 del 1971, come introdotte dall’art. 9, comma 1, l. n. 205 del 2000, circa l’applicazione del procedimento monocratico per la dichiarazione della perenzione anche in Consiglio di Stato, che non risulta esplicitamente prevista dal legislatore. Infatti, a fronte di decisioni concordi delle Sezioni V e VI e del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, che ritenendo applicabile al giudizio di appello il disposto dell’art. 9, comma 1, l. n. 205 del 2000, erano state assunte con procedimento monocratico dichiarativo della perenzione e avevano ammesso l’opposizione al decreto decisorio, si collocano alcune decisioni della IV Sezione del Consiglio di Stato che, viceversa, avevano dichiarato l’inapplicabilità nel giudizio di appello dell’art. 26, ult. comma, l. n. 1034 del 1971 (25). Qui interessa concentrare l’attenzione appunto sulla perenmanda di sospensione della sentenza appellata », su questa disposizione si v. N. SAITTA, I giudizi in camera di consiglio nella giustizia amministrativa, cit., 341 ss.; viceversa, l’art. 9, l. n. 205 del 2000 sembrerebbe lasciarsi leggere nel riferimento sia al Tar che al Consiglio di Stato solo in relazione alle sentenze succintamente motivate che decidono sulla manifesta infondatezza o la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso e non anche al procedimento monocratico che culmina nel decreto decisorio sulla rinuncia al ricorso, la cessazione della materia del contendere, l’estinzione del giudizio e la perenzione, ma sul punto infra nel testo. (24) C.E. GALLO, Art. 28, Sez. II, cit., 938, rileva, inoltre, che: « È pur vero che la celerità nelle decisioni è un bene essenziale, ma non è affatto detto che detta celerità si possa raggiungere moltiplicando i riti ». (25) Si tratta di Cons. Stato, Sez. IV, 27 dicembre 2001, n. 6428, in Cons. St., 2001, I, 2743 ss. e in Foro it., III, 2003, 224; id., 23 gennaio 2002, n. 396, ibidem, 224; id., 27 dicembre 2001, n. 6425, in Foro amm., 2001, 3155 (s.m.) sulla cessazione della materia del contendere; sulle implicazioni di queste decisioni si v. G. D’ANGELO, in Foro it., III, 2003, 223 ss.; il convincimento della IV Sezione si fonda sui seguenti rilievi: in primo luogo, la norma oggetto di controversa interpretazione, a differenza di altre di-


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zione oggetto della decisione in commento, sorta dall’ordinanza di rimessione della VI Sezione del 5 agosto 2003, n. 4467 (26). Inoltre, per verificare la concreta operatività di istituti non sperimentati nel sistema amministrativo, è utile ricorrere al confronto con la disciplina dell’estinzione del processo civile per inattività delle parti (27). Perenzione del giudizio amministrativo ed estinzione del giudizio civile rappresentano due vicende anomale del processo che determinano la mors litis (28). Al verificarsi di esse, pertanto, il processo non realizza il suo scopo di arrivare alla definizione in merito della controversia, frustrando la composizione della lite e la tutela delle situazioni giuridiche soggettive. Tuttavia, essi pongono fine all’incertezza derivante dalla pensposizioni della medesima l. n. 205 del 2000, quali l’art. 3, comma 1, e l’art. 4, tace sulla possibilità che la speciale procedura trovi applicazione innanzi al Consiglio di Stato; secondariamente, l’interpretazione è apparsa suffragata dal principio per cui solo una norma espressa sarebbe in grado di alterare la composizione collegiale del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale ex art. 27, n. 1 e n. 2, l. n. 1034 del 1971, a nulla rilevando il disposto del successivo art. 28 che si limita ad estendere i poteri di cognizione e di decisione del giudice di primo grado al Consiglio di Stato in sede di appello, ma non coinvolge la determinazione della struttura collegiale del giudice di secondo grado. Tuttavia la posizione della IV Sezione non è uniforme, si v., ad es., Cons. Stato, Sez. IV, decr. 18 ottobre 2002, n. 5762, in materia di perenzione dichiarata in veste monocratica dal Presidente della sezione. (26) Sul significato del « contrasto » giurisprudenziale e sull’oggetto della rimessione all’Adunanza plenaria si v. E. FERRARI, Art. 45, in A. ROMANO, Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, cit., 550 ss.; la Sez. VI, nell’ordinanza di rimessione all’Adunanza plenaria, pubblicata in Cons. St., 2003, I, 1684 ss., sottolinea la massima importanza della questione circa la competenza a pronunciare la perenzione in grado di appello che « in assenza di una norma esplicita dinamicamente estesa » oscilla fra la riserva al collegio e la possibilità di adozione in veste monocratica secondo quanto disposto dall’art. 9, comma 1, l. n. 205 del 2000. (27) Sui rapporti fra le norme del codice di procedura civile e la disciplina del processo amministrativo si v. G. VERDE, Norme processuali ordinarie e processo amministrativo, in Foro it., 1985, V, 157 ss. (28) Le trattazioni classiche sull’origine della perenzione fanno abitualmente riferimento alla costituzione Properandum di Giustiniano, il cui scopo era quello di impedire che le liti non si protraessero oltre un triennio dalla litis contestatio. Sull’attuazione di questo programma affidata ad altre disposizioni si v. R. VACCARELLA, Inattività delle parti ed estinzione del processo di cognizione, Napoli, 1975, 20, nota 4. Tuttavia, è merito della dottrina più recente aver evidenziato la sostanziale differenza fra l’antico istituto che introduce un termine massimo alla durata del processo e gli odierni istituti della perenzione e dell’estinzione, si v. R. VACCARELLA, op. ult. cit., 21 ss.


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denza della lite (29), in nome della celerità del processo, prevalendo l’interesse a che le controversie non siano immortali (30). In questo senso perenzione ed estinzione del processo, differenziatesi nel tempo dalla comune matrice del codice di procedura civile del 1865, rappresentano gli strumenti « dell’eterno sogno del legislatore di porre un termine sollecito ai processi » (31), aprendo la via alle critiche circa la loro idoneità a rappresentare la soluzione all’inefficienza del processo (32). In particolare, l’istituto della perenzione è introdotto nel processo amministrativo con la l. 7 marzo 1907, n. 62, a seguito di un’articolata vicenda legislativa che tentava di porre rimedio a un considerevole accumulo di arretrato. Essa rispondeva anche alla necessità di imporre l’adempimento fiscale necessario affinché

(29) G. CAPOGRASSI, Intorno al processo (ricordando Giuseppe Chiovenda), (1938), ora in ID., Opere, IV, Milano, 1959, 136 ss. (30) In questo senso riecheggia l’espressione ne litis fiant paene immortales, rinvenibile nella costituzione Properandum. (31) L’espressione riportata nel testo è di R. VACCARELLA, Inattività delle parti ed estinzione del processo di cognizione, cit., 24. (32) G. CHIOVENDA, Principi di diritto processuale civile, (1923), Napoli, 1965, 883: « La nostra perenzione, permettendo non solo la ripresa del processo ex novo, ma la interruzione continua del termine perenzionale con atti nuovi contribuisce ad eternare anziché abbreviare le liti »; ID., Lo stato attuale del processo civile in Italia e il progetto Orlando di riforme processuali, (1910), ora in Saggi di diritto processuale, I, Milano, 1993, 419, coerentemente al Suo pensiero sui principi del processo civile rileva, con le parole di R. VACCARELLA, op. ult. cit., 38 ss., che « l’equivoco storico da cui nasce la perenzione consiste nell’aver creduto di poter disciplinare dall’esterno il ritmo del processo, cadendo (su un altro piano) nella medesima illusione di Giustiniano; nell’aver pensato che per far procedere ad una velocità accettabile il processo bastasse escogitare a tavolino un qualche accorgimento “tecnico” senza por mano ai sommi principi cui quel processo si informava; nel non aver compreso che nessun accorgimento può rendere rapido un processo scritto, mentre di nessun accorgimento c’è bisogno in un processo orale ». Tuttavia si v. Cons. Stato, Sez. V, 2 luglio 2001, n. 3593, in Foro amm., 2001, 1973 (s.m.), che afferma che la perenzione nel processo amministrativo pur estinguendo il giudizio non è di per sé in contrasto né con l’art. 24 Cost., né con l’art. 6 (diritto ad un processo equo) della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, trattandosi di un istituto processuale che non incide sull’effettività della tutela giudiziaria dei soggetti di diritto, perché ben radicato nel quadro normativo e nella prassi della giurisprudenza e in solide basi di teoria giusprocessualistica.


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fosse resa la decisione (33), rappresentando uno dei casi di cessazione del giudizio amministrativo. Il fondamento della perenzione, appare ravvisato dalla dottrina nella sanzione dell’inattività delle parti (34), ma non è raro rinvenirne la giustificazione nella particolare natura delle controversie amministrative che, riguardando sempre interessi pubblici, non tollererebbero di essere tenute troppo a lungo in sospeso (35). Anche nel processo civile nel passaggio dalla perenzione ancora prevista nel codice del 1940, all’introduzione dell’estinzione con la « novella » del 1950 (36), si accende il dibattito sul fonda(33) E. FERRARI, Art. 40, Sez. II, in A. ROMANO, Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, cit., 504 ss. (34) Si v. la definizione che della perenzione appare già in G. FOLCO, Decadenza e perenzione nei procedimenti amministrativi, Napoli, 1921, 157: « La perenzione può essere definita come la sanzione giuridica all’omissione di qualsiasi atto procedurale in un periodo di tempo stabilito dalla legge, e consiste nella perdita del diritto a continuare la procedura e rende inefficaci gli atti procedurali anteriormente compiuti »; si v., inoltre, P. BODDA, La perenzione nel procedimento giurisdizionale amministrativo, Torino, 1932; U. FRAGOLA, Appunti sulla perenzione, in Nuova rass., 1955, 249 ss.; F. BENVENUTI, Estinzione del processo (dir. amm.), in Enc. dir., vol. XV, Milano, 1966, 948; G. VACIRCA, Perenzione nel giudizio amministrativo, in Enc. giur., vol. XXIII, Roma, 1990, 2, ricorda anche come in passato la perenzione sia stata considerata « un istituto di “mero interesse privato” » e fondata « nella presunzione di una tacita rinunzia agli atti del giudizio e di una tacita accettazione delle altre parti »; si noti che nelle leggi sulla giustizia amministrativa il termine « perenzione » appare nell’art. 45 reg. proc. Cons. Stato che detta anche alcune disposizioni integrative dell’art. 40 t.u. Cons. Stato: E. FERRARI, Art. 40, Sez. II, cit., 503. (35) E. FERRARI, op. ult. cit., 507, afferma che non esistono particolari ragioni che colleghino al processo amministrativo la figura della perenzione, la cui disciplina attuale « risulta essere più il frutto di una tradizione legislativa acriticamente trasmessa che il risultato di una scelta consapevole »; si noti, inoltre, che la l. n. 1034 del 1971, nel disciplinare la perenzione non si ispira al codice di procedura civile vigente, ma alla precedente legislazione amministrativa ispirata al codice del 1865. Tuttavia, appare interessante rilevare come il Consiglio di Stato, ancora nel parere reso in Ad. gen., 8 febbraio 1990, n. 16, in Cons. St., 1992, I, 318, affermi che l’istituto della perenzione si giustifica per la particolarità del processo amministrativo che sta nella stretta commistione di interessi pubblici e privati che in esso si realizza, di modo che la sollecita definizione del giudizio si impone « non solo nell’interesse del ricorrente, ma anche in quello dell’amministrazione, che deve poter contare su situazioni definite in tempi brevi per poter amministrare correttamente »; si v. anche S. CASSARINO, Gli studi di diritto processuale amministrativo in Italia e la costruzione teorica del processo amministrativo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2001, in particolare 906 ss. (36) G. MONTELEONE, Estinzione (processo di cognizione), in Dig. disc. priv., Sez.


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mento dei due istituti (37), e si disegna una disciplina dell’estinzione che viene a connotarsi per una molteplicità di cause estintive del giudizio civile riconducibili ad unità solo nella loro idoneità a rappresentare motivi di mors litis (38). Al di là delle ricostruzioni proposte sulla natura della perenzione e quella dell’estinzione pare fondamentale sottolineare che, attualmente, mentre l’estinzione del processo civile si connota come sanzione ad un’attività specifica prevista di volta in volta, la perenzione del processo amministrativo alla luce della l. n. 205 del 2000 continua ad apparire quale sanzione ad un’attività generica delle parti (39), rimanendo immutata la caratteristica idoneità del mancato compimento di atti di procedura nel termine perentorio biennale a integrare una sopravvenuta causa di cessazione di un processo validamente instaurato. Viceversa, la disciplina introdotta dal legislatore del 2000 innova l’istituto della perenzione prevedendone un’ulteriore ipotesi, nella quale pare assolutamente preminente quell’interesse che storicamente fa pensare alla perenzione come alla soluzione di un arretrato non patologico anche in presenza dell’obbligo, oggi costituzionalmente sancito, della raciv., vol. VIII, Torino, 1992, 131 ss.; A. SALETTI, Estinzione del processo, 1) dir. proc. civ., in Enc. giur., vol. XIII, Roma, 1988, 1 ss.; L. BIANCHI D’ESPINOSA, A. BALDI, Estinzione del processo (dir. proc. civ.), in Enc. dir., vol. XV, Milano, 1966, 916 ss.; C. CALVOSA, Estinzione del processo, in Noviss. dig. it., vol. VI, Torino, 1960, 973 ss. (37) Rilievo particolare assume il confronto fra perenzione ed estinzione nel momento in cui si sviluppa il dibattito sulla riforma del codice di procedura civile che tende ad evidenziare il carattere pubblicistico della perenzione, quale sanzione dell’ordinamento all’inattività delle parti nel compimento di un atto di procedura rilevabile d’ufficio, e il carattere privatistico dell’estinzione, viceversa eccepibile solo dalle parti sebbene operi d’ufficio; tuttavia si v. M.G. CANELLA, Sul potere del giudice di rilevare d’uffıcio l’estinzione del processo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2002, 345 ss.; sulla doverosa eccezione di parte nel processo civile (solo il previgente codice civile prevedeva che l’estinzione venisse dichiarata con ordinanza, anche d’ufficio) rispetto alla rilevabilità d’ufficio nel processo amministrativo si v. Cons. Stato, Sez. V, 29 ottobre 1994, n. 1223, in Foro amm., 1994, 2419 ss.; id., 22 settembre 1994, n. 1013, in Rep. Foro it., 1995, voce Giustizia amministrativa, n. 717, afferma la rilevabilità d’ufficio della perenzione stante la vigenza dell’art. 45, comma 1, r.d. 17 agosto 1907, n. 642; sulla distinzione fra estinzione (in senso stretto) e perenzione si v. G. VACIRCA, Perenzione nel giudizio amministrativo, cit., 1 ss. (38) R. VACCARELLA, Inattività delle parti ed estinzione del processo di cognizione, cit., 99 ss. (39) FERRARI, Art. 40, Sez. II, cit., 507.


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gionevole durata del processo (40). La fattispecie prende avvio dalla circostanza che, nonostante il deposito dell’istanza di fissazione dell’udienza, per oltre dieci anni il ricorso non è stato trattato, di modo che il legislatore, dubitando dell’attualità dell’interesse delle parti ricorrenti alla decisione, introduce un istituto volto a verificare il perdurare di quell’interesse attraverso la notifica da parte della segreteria di un avviso alle parti costituite, a seguito del quale o entro sei mesi viene presentata nuova istanza di fissazione dell’udienza (41), sottoscritta dalla parte (42), o il giudizio si perime (43). (40) In questo senso R. MONTEFUSCO, Le decisioni in forma semplificata, in AA.VV., Il processo davanti al giudice amministrativo, cit., 400. (41) L’Adunanza plenaria nella decisione che si annota ritiene manifestamente infondata la questione di costituzionalità della disposizione in parola in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. — sollevata nell’atto di opposizione al decreto decisorio in relazione alla contraddittorietà del legislatore che non ha previsto, anche nel caso della perenzione biennale, il procedimento riservato alla perenzione ultradecennale — poiché il particolare procedimento della notifica di apposito avviso che inviti a presentare nuova istanza di fissazione dell’udienza si giustifica solo in relazione alla perenzione ultradecennale che impone un nuovo onere alla parte ricorrente, di rinnovazione della manifestazione dell’interesse alla decisione della causa. (42) Si v. G. SIGISMONDI, Art. 9 (Decisioni in forma semplificata e perenzione dei ricorsi ultradecennali), in AA.VV., L. 21 luglio 2000 n. 205 — Disposizioni in materia di giustizia amministrativa, a cura di A. TRAVI, in Nuove leggi civ., 2001, 656 ss., circa la previsione che l’istanza di fissazione dell’udienza deve essere sottoscritta « dalle parti » (ricorrenti), secondo il quale appare irragionevole la puntualizzazione che fa ritenere « che l’atto debba essere sottoscritto dalla parte, o da un rappresentante munito di procura ad hoc, e non possa essere sottoscritto dal difensore nell’esercizio dei suoi poteri di rappresentanza processuale », tenuto conto che l’atto della sottoscrizione dell’istanza di fissazione dell’udienza è sempre stato ritenuto ricompreso nei poteri di rappresentanza processuale del difensore; sul punto l’Adunanza plenaria, nella decisione in commento, afferma che la disposizione si giustifica poiché il nuovo istituto è volto ad accertare il perdurante interesse alla decisione del ricorso che deve essere, quindi, manifestato dalla parte titolare di quell’interesse, rimanendo fermo che nella perenzione biennale quella sottoscrizione non è richiesta in quanto quella causa di estinzione costituisce una presunzione assoluta di abbandono del ricorso che consegue ad un comportamento inerte delle parti; si v. anche Cons. Stato, Sez. IV, 17 dicembre 2003, n. 8268, in Cons. St., 2003, 2796 ss. (43) La norma è stata criticata da più parti, sia per la sua opportunità che per la sua legittimità; secondo N. SAITTA, I provvedimenti monocratici nel processo amministrativo, cit., 37, non si tratterebbe di perenzione ma di decadenza sia « perché la perenzione vera e propria rappresenta un modo di estinzione dei giudizi amministrativi che si “presumono” abbandonati — abbandono da parte di tutti e non soltanto del ricorrente


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La disciplina introdotta con la l. n. 205 del 2000 rappresenta, inoltre, l’occasione per verificare l’introduzione di una singolare analogia fra il procedimento dichiarativo della perenzione e quello dichiarativo dell’estinzione del processo civile nelle cause riservate al tribunale in composizione collegiale a seguito dell’introduzione del giudice unico (44). La nuova disciplina, infatti, incide fortemente sul procedimento e sulla composizione dell’organo chiamato a dichiarare perento il giudizio sia nell’ipotesi ordinaria che in quella ultradecennale (45). Tale aspetto, confermato dalla collocazione delle dispo— estinzione che può, peraltro, essere evitata da un idoneo atto processuale con valenza interruttiva del termine sia perché sembra proprio eccessivo sanzionare anche questa c.d. perenzione decennale con l’estinzione del giudizio: inerte, colpevolmente inerte per più di dieci anni, è stato semmai, l’ufficio giudiziario, che avrebbe ben potuto fissare in tanto tempo un’udienza di trattazione ». (44) Come noto il d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51 reca l’istituzione del giudice unico nel processo civile, inserendo la Sezione VI-bis del capo I, titolo I, Libro I del codice di procedura civile, rubricato « Della composizione del tribunale »; in particolare il nuovo art. 50-bis elenca le cause riservate alla decisione collegiale, mentre a norma dell’art. 50-ter « Fuori dei casi previsti dall’art. 50-bis, il tribunale giudica in composizione monocratica »; inoltre il d.lgs. citato ha inserito nel codice di procedura civile il capo III-bis al titolo I del Libro II, rubricato « Del procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica », nell’ambito del quale l’art. 281-quater c.p.c. stabilisce che le cause nelle quali il tribunale giudica in composizione monocratica sono decise « con tutti i poteri del collegio » dal giudice istruttore o dal giudice dell’esecuzione; su questi aspetti si v.: G. TARZIA, L’istituzione del giudice unico di primo grado e il processo civile, in Riv. dir. proc., 1998, 621 ss.; A. PROTO PISANI, Giudice unico togato di primo grado e tentativi della giustizia civile di uscita dal tunnel, in Giur. it., 1998, V, 341 ss.; A. CARRATTA, Poteri istruttori del tribunale in composizione monocratica, ivi, 2000, 658 ss.; in precedenza G. OLIVIERI, Giudice unico e giudice collegiale, in Studi in memoria di Corrado Vocino, Napoli, 1996, 365 ss.; S. CHIARLONI, Giudice monocratico e giudice collegiale nella riforma del processo civile, in Scritti in onore di Mario Vellani, I, Milano, 1998, 285 ss. (45) Le modalità di dichiarazione della perenzione sono comuni in virtù del rinvio operato dalla disposizione all’ultimo comma dell’art. 26, l. n. 1034 del 1971; si v. sul punto la ricostruzione di G. D’ANGELO, op. cit., 225 ss., sul contrasto incongruo fra alcune decisioni del Consiglio di Stato che avevano ritenuto applicabili al giudizio in appello il procedimento monocratico in relazione alla sola perenzione ultradecennale e le decisioni della IV Sez. del Consiglio di Stato che ritengono non applicabile in giudizio di appello il procedimento monocratico per la dichiarazione della perenzione biennale, con il risultato che dal quadro poteva emergere la possibilità che la perenzione ordinaria e la perenzione ultradecennale potessero essere pronunciate l’una con decisione collegiale ex art. 27, n. 1, l. n. 1034 del 1971, l’altra con decreto monocratico ex art. 9,


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sizioni all’interno dell’art. 9 della l. n. 205 del 2000 (46), appare decisivo a favore del ritenere che tali previsioni rispondano all’esigenza di celerità ispiratrice la riforma del processo amministrativo (47), e quindi alle medesime esigenze delle decisioni succintamente motivate, costituendo un’ulteriore specificazione delle decisioni in forma semplificata (48). A fronte della pronuncia, inaudita altera parte (49), del decreto di cessazione del processo per avvenuta perenzione, l’odierno art. 26, ult. comma, introduce la garanzia dell’opposizione al collegio che, una volta instaurata, sebbene possa suscitare dubbi quanto al suo contributo alla voluta celerità del procedimento, risponde alla duplice aspettativa di tutela in ordine alla maggiore ponderazione collegiale e al contraddittorio tra le parti (50). Avverso la decisione del collegio sull’opposizione al decomma 2, l. n. 205 del 2000; tuttavia si v. F. SAITTA, L’appello, in AA.VV., Il processo davanti al giudice amministrativo, cit., 501, per la valutazione sulla disposizione in esame che « dovrebbe trovare scarsissima applicazione nei giudizi d’appello, che, a differenza dei giudizi di primo grado, difficilmente durano più di dieci anni e, con l’ausilio delle nuove disposizioni acceleratorie, dovrebbero in futuro essere definiti ancor più rapidamente ». (46) A. TRAVI, Note introduttive, in AA.VV., L. 21 luglio 2000 n. 205 — Disposizioni in materia di giustizia amministrativa, cit., 559, rinviene un’importante misura « di accelerazione e di semplificazione » nella previsione circa « la decisione con decreto presidenziale nel caso di rinuncia al ricorso, cessazione della materia del contendere, estinzione del giudizio e perenzione (art. 9, comma 2o) ». (47) R. VILLATA, La riforma, in AA.VV., Il processo davanti al giudice amministrativo, cit., 1, afferma che la l. n. 205 del 2000 è anche il risultato dell’esigenza « di intervenire sul processo amministrativo al fine (almeno nelle intenzioni) di assicurarne nel contempo una maggiore celerità e un più pregnante contenuto di tutela per il cittadino ». (48) Secondo A. LAMBERTI, Le decisioni in forma semplificata (art. 9), in AA.VV., Verso il nuovo processo amministrativo, cit., 343, la norma lascia la possibilità che la decisione del giudizio nelle ipotesi considerate avvenga oltre che con decreto anche con sentenza in forma semplificata o ordinaria. (49) Sulla non necessità della instaurazione del contraddittorio nel procedimento monocratico si v. Cons. Stato, Sez. V, 13 marzo 2001, n. 1606, in Cons. St., 2001, I, 830 ss. (50) Il decreto non è autonomamente appellabile: Cons. Stato, Sez. IV, ord. 29 aprile 2003, n. 1637, in Cons. St., 2003, I, 1038 ss. L’opposizione al collegio va proposta nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione alle parti costituite a cura della segreteria e va « notificato a tutte le altri parti », questa espressione secondo G. SIGISMONDI, Art. 9 (Decisioni in forma semplificata e perenzione dei ricorsi ultradecennali),


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creto, che per espressa disposizione legislativa è assunta in forma di ordinanza, l’art. 9, comma 1, stabilisce la possibile impugnazione in appello (51). Il procedimento esposto ricorda proprio quello disciplinato dall’art. 308 c.p.c. in tema di estinzione del giudizio civile nelle cause la cui decisione spetta al collegio. Infatti, in quella disposizione il reclamo avverso l’ordinanza che decide l’estinzione è ammesso ex art. 178, commi 3, 4 e 5 c.p.c. solo nell’ipotesi in cui l’ordinanza è assunta dal giudice istruttore (52), poiché nelle ipotesi di giudice unico il reclamo non avrebbe ragion d’essere dato che organo istruttore e organo decidente coincidono nella stessa persona fisica (53). Inoltre, analogamente alle disposizioni in tema di perenzione nel processo amministrativo, l’art. 308 c.p.c. disciplina le vicende del reclamo sul quale il collegio decide con sentenza definitiva, pertanto appellabile, se lo respinge, mentre pronuncia ordinanza cit., 654, « fa ritenere che il reclamo (che può essere proposto dalle sole parti costituite) debba essere notificato anche alle parti non costituite »; l’opposizione è decisa in camera di consiglio con ordinanza, sentite le parti che ne facciano richiesta, nei trenta giorni successivi. (51) Dalla possibilità di proporre appello R. MONTEFUSCO, Le decisioni in forma semplificata, in AA.VV., Il processo davanti al giudice amministrativo, cit., 396, afferma che « la decisione del reclamo ha natura di “ordinanza conclusiva” a contenuto decisorio »; sui poteri decisori del giudice di secondo grado in questa ipotesi si v. F. SAITTA, L’appello, cit., 499 ss. e Cons. Stato, Sez. IV, 8 luglio 2003, n. 4046, in Foro amm., Cons. St., 2003, 2183 ss.; G. ABBAMONTE, R. LASCHENA, Giustizia amministrativa, in Tratt. dir. amm., diretto da G. SANTANIELLO, vol. XX, Padova, 2001, 398, rilevano che « essendo prevista l’appellabilità dell’ordinanza e non solo dell’ordinanza di rigetto, l’esame della causa ritornata sul ruolo per effetto dell’accoglimento non dovrebbe avvenire prima del decorso del termine, ridotto a metà, per il relativo appello. [...] il contesto dell’art. 9 va inteso per quello che è, un dettato speciale che deroga per quanto esprime ». (52) Se l’ordinanza, invece, non è impugnata con reclamo, assume efficacia di incontrovertibilità assimilabile al giudicato, si v. Cass., 21 gennaio 1980, n. 467, in Foro it., 1980, I, 1362 ss. che afferma: « L’ordinanza dichiarativa dell’estinzione del processo, ove non sia oggetto di tempestivo reclamo, diventa immutabile, assumendo la stessa forza imperativa della sentenza passata in giudicato », sulla decisione si v. R. ORIANI, Estinzione del processo e interruzione della prescrizione, ibidem, 1364 ss. e bibliografia ivi citata. (53) G. TARZIA, Lineamenti del processo civile di cognizione2, Milano, 2002, 206 ss.


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non impugnabile se l’accoglie (54). Viceversa, nelle cause che spettano al giudice unico l’estinzione dichiarata con sentenza è impugnabile solo in appello, con esclusione del reclamo per le ragioni ricordate (55). Infine, a norma dell’art. 307, ult. comma, c.p.c., l’estinzione, se viene eccepita per la prima volta dinanzi al collegio, è dichiarata in camera di consiglio con sentenza, quindi assoggettata al normale regime di impugnazioni previsto per quel provvedimento (56). Inoltre, in virtù del disposto dell’art. 350 c.p.c. (57), la decisione sull’estinzione nel processo civile in secondo grado avviene sempre con decisione collegiale della Corte d’Appello, ferma rimanendo la diversa ipotesi dell’appello davanti al tribunale avverso le sentenze del giudice di pace, trattato e deciso dal giudice monocratico. Pertanto, il codice di procedura civile prevede una diversità delle modalità di dichiarazione dell’estinzione e delle vicende (54) Secondo C. MANDRIOLI, Diritto processuale civile15, vol. II, Torino, 2003, 364, in questa ipotesi infatti il controllo dell’ordinanza potrà avvenire nella fase della rimessione totale della causa al collegio ex art. 178, comma 1, a norma del quale: « le parti, senza bisogno di mezzi di impugnazione, possono proporre al collegio, quando la causa è rimessa a questo a norma dell’art. 189, tutte le questioni risolute dal giudice istruttore con ordinanza revocabile »; perciò l’ordinanza che accoglie il reclamo non è impugnabile neanche per ricorso in Cassazione ex art. 111 Cost.; si v. Cass., 2 ottobre 1973, n. 2465, in Foro it., 1974, I, 122 ss.; B. CAVALLONE, Forma ed effıcacia dei provvedimenti sulla estinzione del processo di cognizione, in Riv. dir. proc., 1965, 262. (55) L’appello è ammesso quale unico rimedio anche nell’ipotesi in cui il provvedimento di estinzione è emesso dal giudice istruttore che operi come giudice unico in forma di ordinanza « in quanto ha contenuto sostanziale di sentenza »: Trib. Milano, 2 giugno 1997, in Giur. it., 1998, 2316 ss. (56) In virtù del rinvio operato ex art. 359 c.p.c. — a norma del quale nei procedimenti dinanzi alla Corte o al tribunale si osservano, in quanto applicabili, le norme dettate per il procedimento di primo grado davanti al tribunale se non sono incompatibili con le disposizioni del capo II, Libro II, dedicato all’appello — ferma rimanendo in appello la composizione collegiale, si applica la disposizione del solo comma 2 dell’art. 308 c.p.c., a norma della quale l’estinzione deve essere dichiarata in camera di consiglio. Tuttavia propriamente il comma 2 dell’art. 308 c.p.c. fa riferimento alla pronuncia sul reclamo, scindendola in ordinanza non impugnabile se lo accoglie e in sentenza impugnabile se lo respinge. Ma in appello non vi è una pronuncia del giudice istruttore, né la conseguente vicenda del reclamo, solo la pronuncia del collegio. Si tratta sempre di una sentenza sul processo, impugnabile in Cassazione. (57) A norma del quale davanti alla corte di appello la trattazione dell’appello è collegiale.


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della decisione sull’estinzione. Infatti, se l’estinzione è eccepita in primo grado davanti al giudice istruttore, essa viene dichiarata con ordinanza sulla quale può aprirsi il procedimento del reclamo. Viceversa, se essa viene eccepita davanti al giudice monocratico in primo grado, ovvero davanti al collegio — sia per la prima volta nelle cause riservate alla decisione del tribunale in composizione collegiale sia in secondo grado — la dichiarazione dell’estinzione avviene con sentenza, appellabile nelle prime due ipotesi e impugnabile con ricorso per Cassazione nella terza. 3. La decisione dell’Adunanza plenaria in commento pone alcune questioni di importanza non secondaria relative alla composizione dell’organo giudicante in secondo grado e alle vicende del decreto decisorio assunto in appello. In merito al primo aspetto la decisione che si annota giunge a ritenere esteso al giudizio in Consiglio di Stato il procedimento monocratico per la dichiarazione della perenzione del processo previsto dall’art. 26, ult. comma, l. n. 1034 del 1971, come modificato dall’art. 9, l. n. 205 del 2000, sulla base dell’interpretazione della struttura e della funzione della norma. Infatti, secondo l’Adunanza plenaria la « lettura complessiva ed unitaria » dell’art. 26, l. n. 1034 del 1971, come modificato dalla l. del 2000, mostra l’introduzione nel rito processuale amministrativo di due tipologie di decisione semplificata, l’una assunta con sentenza succintamente motivata (commi 4, 5 e 6 del testo novellato), l’altra con decreto dichiarativo delle cause di estinzione (in senso lato) del giudizio (comma 7). In tal modo, l’indicazione dell’organo competente, compiuta dall’art. 9, comma 1, che menziona sia il Tar sia il Consiglio di Stato (58), sarebbe riferita a tutte le successive disposizioni del medesimo art. 9, che riguardano « esclusivamente (58) Sul punto l’Adunanza plenaria ritiene non necessaria l’ulteriore specificazione dell’organo competente alla pronuncia del decreto semplificato e, viceversa « assolutamente necessaria » l’espressa previsione dell’applicabilità anche al giudizio davanti al Consiglio di Stato effettuata dall’art. 3, l. n. 205 del 2000, in materia di processo cautelare e dall’art. 23-bis, l. n. 205 del 2000, sui riti speciali, in quanto discipline « del tutto nuove ».


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modalità di decisione con le due tipologie di decisioni in forma semplificata ». La conclusione è suffragata, inoltre, dall’interpretazione della funzione della norma, poiché, ad avviso dell’Adunanza plenaria, le modalità di decisione in forma semplificata rappresentano lo strumento introdotto dall’art. 9, l. n. 205 del 2000 al fine di accelerare i tempi del processo amministrativo sia in primo che in secondo grado, di modo che l’art. 9 non permette di escludere incongruamente l’operatività delle disposizioni di semplificazione nel giudizio di appello. Sebbene paia da condividere l’interpretazione della funzione dell’art. 9, l. n. 205 del 2000, tuttavia l’introduzione del procedimento monocratico non riguarda solo la semplificazione della forma della decisione, ma anche la tradizionale composizione dell’organo giudicante amministrativo e i poteri complessivi che la l. n. 205 del 2000 attribuisce all’organo monocratico. L’art. 26, ult. comma, come novellato dall’art. 9, l. n. 205 del 2000, si colloca quale possibilità — alternativa alla decisione di merito collegiale — di conclusione di un iter processuale interamente seguito dal Presidente o dal magistrato da lui delegato, a partire dal deposito del ricorso fino alla decisione, attraverso i poteri istruttori riconosciuti all’organo monocratico (59). Quanto detto risulta confermato dal collegamento instaurato fra fase dell’istruzione e fase della decisione dall’art. 1, l. n. 205 del 2000, sostitutivo dell’art. 44, comma 3, t.u. Cons. Stato, a norma del quale il Presidente della sezione, o un magistrato da lui delegato, decide sui mezzi istruttori con ordinanza con la quale è contestualmente fissata la data della successiva udienza di discussione (60). Nel processo amministrativo, la decisione di merito spetta, tuttavia, sempre al collegio. Infatti, il comma 5 dell’art. 26, l. Tar, come novellato dalla l. del 2000, prevede che la decisione in forma semplificata, per le ipotesi di manifesta fondatezza o mani(59) C.E. GALLO, Attività istruttoria ed abbreviazione dei tempi del giudizio: il ruolo dell’organo monocratico, in questa Rivista, 2002, 1039 ss. (60) Sull’introduzione di questo potere istruttorio monocratico si v. C.E. GALLO, Art. 44, in A. ROMANO, Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, cit., 530.


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festa irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso, è assunta nella camera di consiglio fissata per l’esame dell’istanza cautelare o nell’ordinanza che decide sui mezzi istruttori adottata dal Presidente della sezione o da un magistrato da lui delegato ovvero dal collegio, a norma dell’art. 44, comma 3, t.u. Cons. Stato (61). In tal modo profonda rimane la differenza rispetto ai poteri del giudice unico nel processo civile, al quale spetta, invece, anche la decisione di merito. Viceversa, nelle cause di estinzione (in senso lato) del giudizio amministrativo l’organo monocratico può concludere il processo con decreto decisorio. Tuttavia, avverso esso può proporsi opposizione innanzi al collegio che decide con ordinanza in camera di consiglio. In particolare, sebbene nel processo amministrativo non possa parlarsi di un vero e proprio giudice istruttore (62), questo tipo di procedimento presenta, come accennato, delle similitudini più con il procedimento delle decisioni rimaste di competenza del collegio nel processo civile sotto il profilo del rapporto fra giudice istruttore e collegio, che con il modello del giudice unico. Tuttavia, la decisione dell’Adunanza plenaria in commento, nel ritenere applicabile anche in Consiglio di Stato il procedimento monocratico interrompe le analogie fra dichiarazione della perenzione nel processo amministrativo e dichiarazione dell’estinzione nel processo civile, almeno in grado di appello. La decisione, giustificabile dal punto di vista delle comuni esigenze di accelerazione dei due gradi di giudizio, inserisce un effetto modificativo della composizione dell’organo decidente in secondo grado sulle cause di estinzione (in senso lato) del processo, rinvenendolo nella l. n. 205 del 2000, ma dal quale nascono alcune perplessità. 4.

L’applicazione del procedimento monocratico sia davanti

(61) Infatti deve ritenersi errato il rinvio operato dall’art. 9, comma 1, all’art. 44, comma 2, del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato, dovendosi leggere quale rinvio al comma 3 del medesimo articolo. (62) Si v. le considerazioni di C.E. GALLO, L’istruttoria processuale, in Tratt. dir. amm., a cura di S. CASSESE, vol. V, cit., in particolare 4407 ss.


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al Tar che in Consiglio di Stato evidenzia, infatti, un profilo problematico relativo alla composizione dell’organo competente a dichiarare la perenzione, in rapporto alla possibile antinomia fra il nuovo disposto dell’art. 26, ult. comma, e le preesistenti disposizioni ex art. 27, n. 1 e n. 2, l. n. 1034 del 1971. Come noto, tali disposizioni prevedono la decisione in camera di consiglio, alternativa alla sentenza a seguito di pubblica udienza, per i giudizi per i quali si debba soltanto dare atto della rinuncia al ricorso o dichiarare la perenzione e per i ricorsi per i quali tutte le parti concordemente chiedano che sia dichiarata la cessazione della materia del contendere (63). In realtà la l. n. 205 del 2000 non fa alcun riferimento esplicito alla disposizione dell’art. 27 l. Tar, ma le due norme si troverebbero in contrasto perché aventi ad oggetto le medesime pronunce conclusive del giudizio, disciplinando, tuttavia, diversamente la composizione dell’organo decidente. Ad avviso dell’Adunanza plenaria il contrasto fra le due norme deve risolversi ricorrendo al criterio cronologico della successione delle leggi nel tempo, in base al quale l’incompatibilità delle due disposizioni importa l’implicita abrogazione della precedente in virtù del principio lex posterior derogat legi priori (64). La tesi dell’abrogazione « tacita » dell’art. 27, n. 1 e n. 2, l. n. 1034 del 1971 era stata, infatti, prospettata, quale possibile

(63) Si tratta di procedimenti camerali cc.dd. autonomi, si v. G. FRANCHI, Camera di Consiglio (dir. proc. amm.), in Enc. dir., vol. V, Milano, 1959, 1006 ss.; M. ANDREIS, Art. 27, in A. ROMANO, Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, cit., 909. (64) L’ipotesi dell’incompatibilità delle disposizioni di leggi successive rispetto a quelle di leggi anteriori è disciplinata dall’art. 15 disp. prel. c.c., accanto all’abrogazione espressa e all’abrogazione per incompatibilità, che si determina perché la nuova legge regola l’intera materia già regolata dalla legge anteriore. Propriamente nell’ipotesi di incompatibilità di disposizioni si sarebbe di fronte alla abrogazione implicita, laddove nell’ipotesi di incompatibilità a seguito di nuova legge che disciplini l’intera materia precedentemente disciplinata da altra legge si avrebbe abrogazione tacita, espressione quest’ultima già criticata da E. BETTI, Teoria generale della interpretazione2, (1955), Milano, 1990, 832, nota 62; sul punto si v. anche S. PUGLIATTI, Abrogazione, in Enc. dir., Milano, 1958, in particolare 150.


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conseguenza dell’intervento novativo del legislatore del 2000, anche dalla dottrina (65). Tuttavia, secondo un’altra ricostruzione l’art. 26, l. Tar, nel momento in cui disciplina la decisione monocratica ben potrebbe affiancarsi alla disposizione dell’art. 27, l. n. 1034 del 1971, che rimarrebbe immutata (66), divenendo, viceversa, superflua la disposizione dell’art. 26, l. n. 1034 del 1971 in merito alla decisione camerale nell’eventuale fase di opposizione, disciplinata dall’ancora vigente art. 27, l. Tar. Si tratterebbe in questo caso di incongruenza o di disarmonia fra le disposizioni, che postulano, invece, « un adeguamento e un adattamento delle norme antiche alle nuove, una messa in accordo per via d’interpretazione » (67). Le conclusioni delle due diverse impostazioni appaiono, inoltre, notevolmente diverse poiché dalla seconda menzionata non potrebbe derivarsi l’affermazione dell’Adunanza plenaria in merito alla conseguenza dell’avvenuta abrogazione dell’art. 27, l. Tar, e consistente nel fatto che la decisione in secondo grado sulle cause di estinzione (in senso lato) del giudizio dovrebbe essere assunta a seguito di pubblica udienza. Ne deriva, inoltre, che (65) G. SIGISMONDI, Art. 9 (Decisioni in forma semplificata e perenzione dei ricorsi ultradecennali), cit., 655; A. LAMBERTI, Le decisioni in forma semplificata (art. 9), cit., 344, rileva che la nuova disciplina introdotta dall’art. 9, l. n. 205 del 2000 comporta l’abrogazione della disposizione di cui all’art. 27, l. n. 1034 del 1971 che consente di pervenire, ad istanza di parte, all’udienza pubblica nelle ipotesi di rinuncia, cessazione della materia del contendere e perenzione. (66) N. SAITTA, I giudizi in camera di consiglio nella giustizia amministrativa, cit., 50; ID., I provvedimenti monocratici nel processo amministrativo, cit., 33, il quale rileva che cambiato è « il contesto nel quale adesso si trova inserita la fase camerale, non più inevitabile e tipico momento decisorio (a parte la rimessione in udienza pubblica ancor oggi teoricamente possibile), ma ormai solamente eventuale, legata com’è alla facoltà di ciascuna delle parti costituite di proporre opposizione »; di necessità di coordinamento, senza riferimento al criterio dell’abrogazione tacita, parla M. ANDREIS, Art. 27, cit., 910. (67) E. BETTI, Teoria generale della interpretazione, cit., 832 ss., il quale afferma: « per valutare tanto l’incompatibilità quanto l’incongruenza fra legge anteriore e legge posteriore, l’interprete deve mettersi [...] dal punto di vista sistematico e normativo dell’ordine giuridico oggi in vigore, e quindi anche dal punto di vista della società contemporanea, nella quale la legge posteriore e la legge anteriore (in quanto compatibile con essa) sono destinate a svolgere insieme la loro funzione normativa. [...] Nel che consiste il procedimento ermeneutico designato da Leibniz come “legem probare”: rationem legis veram reddere, non tantum scilicet cum sit lata, sed etiam cur sit tuenda ».


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senza forzare troppo le analogie fra procedimenti dichiarativi della perenzione del processo amministrativo e dell’estinzione del processo civile, vi sarebbe stata, utilizzando la seconda ricostruzione del rapporto fra nuovo art. 26, l. n. 205 del 2000 e art. 27, l. Tar, la possibilità di ritenere inalterato il procedimento dichiarativo della perenzione in appello. 5. Il riconoscimento dell’Adunanza plenaria dell’applicazione del procedimento monocratico in Consiglio di Stato determina, inoltre, alcune questioni intorno all’impugnazione dell’ordinanza collegiale che decide l’eventuale opposizione al decreto decisorio. L’art. 9, l. n. 205 del 2000, in effetti, fa riferimento all’appello quale mezzo di impugnazione sull’opposizione, fornendo una delle leve alla tesi dell’applicabilità del procedimento monocratico ai soli giudizi innanzi ai Tar (68). Sul punto l’Adunanza plenaria afferma la neutralità della disposizione ricordata rispetto alla soluzione della questione sottopostale, poiché, anche se la norma non ha previsto esplicitamente a quale organo giurisdizionale proporre l’impugnazione dell’opposizione assunta in camera di consiglio dal collegio nel corso del giudizio di appello, tuttavia per espressa previsione costituzionale il provvedimento giurisdizionale del Consiglio di Stato è impugnabile davanti alla Corte di Cassazione a Sezioni unite (69). Sebbene l’affermazione consenta all’Adunanza plenaria di ritenere palesemente infondata la questione di legittimità costituzionale, (68) Sul punto, anteriormente alla decisione dell’Adunanza plenaria in commento, si v. N. SAITTA, I giudizi in camera di consiglio nella giustizia amministrativa, cit., 47. (69) Quindi solo per motivi inerenti la giurisdizione. La materia è attualmente regolata dall’art. 362 c.p.c. che ammette il ricorso per Cassazione nel termine di sessanta giorni avverso le decisioni di ultimo grado di qualsiasi giudice speciale per motivi attinenti la giurisdizione del giudice stesso (comma 1) e in ogni tempo nel caso di conflitti positivi o negativi di giurisdizione tra giudici speciali, o tra questi e i giudici ordinari (comma 2, n. 1), disposizioni rispondenti al disposto dell’art. 111 Cost., comma 8, in base al quale contro le decisioni del Consiglio di Stato il ricorso per Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione: A.M. SANDULLI, Il giudizio davanti al Consiglio di Stato e ai giudici sottordinati, Napoli, 1963, 42 ss.; le leggi di giustizia amministrativa fanno oggi riferimento al rimedio in parola negli artt. 48, t.u. Cons. Stato e 36, l. n. 1034 del 1971.


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per violazione del doppio grado di giurisdizione prospettata dal ricorrente in opposizione, lascia tuttavia spazio ad ulteriori considerazioni. La questione appare piuttosto rilevante, in primo luogo, in quanto gli esiti della ricostruzione prospettata ammettono l’ammissibilità del ricorso per Cassazione di una decisione del Consiglio di Stato assunta in forma di ordinanza. Nel processo amministrativo il problema si è già posto nei confronti dell’ordinanza del Consiglio di Stato che decide l’appello sulle ordinanze cautelari assunte dai Tar, per le quali la giurisprudenza ha costantemente escluso il rimedio impugnatorio ex art. 111, odierno comma 8, Cost. La giurisprudenza della Cassazione, infatti, è univoca nell’escluderne l’ammissibilità (70), sul motivo che quelle ordinanze sarebbero inidonee a passare in giudicato e prive dei requisiti formali e sostanziali della pronuncia definitiva della controversia. In particolare la negazione del ricorso in parola si fonda sul riconoscimento del carattere decisorio dell’ordinanza cautelare solo all’interno della « lite cautelare », non comportando la definizione dell’assetto giuridico dell’atto o del rapporto dedotto in giudizio. In modo simile, anche le pronunce relative alla perenzione sono state considerate tradizionalmente come non idonee al giudicato perché decisioni di rito che esaurirebbero i loro effetti all’interno del processo in cui sono emesse (71). Tuttavia va rilevato che la questione è tuttora aperta, soprattutto a seguito di talune pronunce che hanno dato occasione di ritenere incrinata la compattezza di quell’orientamento (72), sul ri(70) Cass., Sez. un., 15 ottobre 1987, n. 7628, in Foro it., 1988, I, 100; id., 26 gennaio 1988, n. 634, ivi, 1989, I, 2589; id., ord. 25 giugno 1993, n. 534, Rep. Foro it., 1993, voce Giustizia amministrativa, n. 704; si v. A. TRAVI, Art. 21, Sez. VI, in A. ROMANO, Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, cit., 797 ss.; L. VERRIENTI, Art. 36, Sez. II, ibidem, 977. (71) Sulla posizione della giurisprudenza in merito si v. E. FERRARI, Art. 26, Sez. III, in A. ROMANO, Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, cit., 898 ss. (72) Cons. Stato, Sez. IV, 6 dicembre 1977, n. 1129, in Cons. St., 1977, I, 1827 ss.; id. 10 novembre 1981, n. 866, in Foro amm., 1981, I, 2271, sulla quale G. VACIRCA, Sentenze di rito e cosa giudicata, ibidem, 1982, I, 390 ss.


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lievo che anche nelle decisioni processuali il giudice amministrativo compie « un accertamento della situazione secondo gli opportuni parametri normativi », valutando la questione processuale « alla stregua delle norme di diritto rilevanti per il caso » (73). Se su tali rilievi appariva sostenibile che anche la sentenza processuale passasse in giudicato almeno quando tale decisione avesse rappresento un presupposto necessario di quella di merito (74), l’affermazione dell’Adunanza plenaria pare comportare l’ammissione definitiva di quella idoneità delle questioni processuali (decise, inoltre, con ordinanza) (75), perché presupposto dell’atto impugnabile per ricorso in Cassazione (76). L’ammissione dell’Adunanza plenaria appare, allora, di particolare importanza, perché il riconoscimento del rimedio in parola contribuisce a sostenere l’intero impianto argomentativo della decisione in commento, con la conseguenza che se essa dovesse essere smentita occorrerebbe riconsiderare l’effettiva « neutralità » della disposizione circa l’appellabilità dell’ordinanza sulle cause di estinzione (in senso lato) del giudizio amministrativo contenuta nell’odierno art. 26, ult. comma. (73) Le espressioni riportate nel testo sono di E. FERRARI, Art. 26, Sez. III, cit., 899, il quale nota come un ulteriore elemento a favore dell’esistenza di un accertamento sulla sussistenza o meno dei presupposti processuali da parte del giudice amministrativo può trarsi dal tenore letterale dell’art. 26, comma 1, l. n. 1034 del 1971, ove afferma che il giudice « dichiara » con sentenza l’irricevibilità o l’inammissibilità. (74) E. FERRARI, op. ult. cit., 899; Cons. Stato, Sez. IV, 5 settembre 1986, n. 587, in Cons. St., 1986, I, 1116 ss.; contra Cons. Stato, Sez. V, 3 febbraio 1988, n. 154, ivi, 1988, I, 177 ss.; in precedenza si v. Cons. Stato, Ad. plen., 1o marzo 1984, n. 4, ivi, 1984, I, 229 ss. (75) Se quanto sostenuto appare condivisibile, va sottolineata una conseguenza del ragionamento svolto che investe l’idoneità del passaggio in giudicato delle decisioni processuali solo in relazione ai motivi che ne sono alla base, ritenendo che sia possibile proporre un secondo ricorso contro lo stesso atto qualora il termine non sia decorso, si v. E. FERRARI, Art. 26, Sez. III, cit., 899; contra E. GUICCIARDI, La giustizia amministrativa3, Padova, 1954, 283. (76) La Corte di Cassazione, in relazione all’art. 111, odierno comma 7, si è orientata nel senso di ammettere il ricorso dinanzi ad essa non solo avverso le sentenze, ma con riguardo ad ogni altro provvedimento emesso in forma diversa purché incida su diritti soggettivi, abbia natura decisoria e non sia altrimenti impugnabile, requisiti riconducibili nell’unica cornice dell’idoneità al giudicato: C. MANDRIOLI, Diritto processuale civile, vol. II, cit., 474 ss. e nota 36; A. CERINO CANOVA, La garanzia costituzionale del giudicato civile, in Riv. dir. civ., 1977, I, 395 ss.


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Tuttavia le considerazioni non si arrestano qui e ricorrendo, ancora una volta, anche alla disciplina del processo civile, può rilevarsi che la decisione dell’Adunanza plenaria giunge ad equiparare le vicende impugnatorie dell’ordinanza del collegio che decide l’eventuale reclamo sul decreto decisorio alle vicende proprie delle sentenze assunte dal Consiglio di Stato in appello, e a quelle della decisione sull’estinzione del processo civile in secondo grado. E tuttavia, nel processo civile l’impugnazione in Cassazione della decisione del collegio sull’eccezione di estinzione sollevata in grado di appello permette un controllo più ampio rispetto a quanto è consentito nel processo amministrativo ove il ricorso per Cassazione è limitato ai soli motivi inerenti la giurisdizione. Da quanto esposto pare di intuire che il riconoscimento da parte dell’Adunanza plenaria del potere decisorio all’organo monocratico anche in secondo grado sia stato dettato dall’adesione a una scelta di politica legislativa chiaramente volta ad accelerare i tempi del giudizio, svincolandoli da quelli della camera di consiglio (77), e confermata dalla forte sanzione dell’obbligatoria condanna alle spese prevista dall’art. 9, l. n. 205 del 2000, nell’ipotesi di rigetto dell’opposizione al decreto decisorio (78). Tuttavia, l’interpretazione comporta un’alterazione della composizione collegiale in secondo grado che, sebbene sia accompagnata dalla possibilità del riesame da parte del collegio della decisione monocratica, pare determinare un abbassamento (77) La questione della scelta in favore del giudice singolo o del collegio, con le parole del progetto Zanardelli del 1903, è un problema « antico e pur mai sempre nuovo », come ricorda F. CARPI, Le riforme del processo civile in Italia verso il XXI secolo, in Riv. dir. proc. civ., 2000, 123. (78) Infatti, a norma dell’art. 9, l. n. 205 del 2000, nel caso di accoglimento dell’opposizione, l’ordinanza dispone la reiscrizione del ricorso nel ruolo ordinario; nel caso di rigetto, invece, le spese sono poste a carico dell’opponente e vengono liquidate dal collegio nella stessa ordinanza « esclusa la possibilità di compensazione anche parziale ». Della legittimità costituzionale di questa norma dubita A. LAMBERTI, Le decisioni in forma semplificata (art. 9), cit., 344, « sia per l’uso evidente della pressione economica quale mezzo di dissuasione dal ricorso ai mezzi giudiziari predisposti dall’ordinamento, sia per l’interferenza che opera nella valutazione che solo il giudice può fare del gradiente di ragionevolezza ovvero di pretestuosità dell’opposizione, valutazione che, sola, può ispirare la più giusta determinazione sul regime delle spese ».


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della soglia delle aspettative di tutela dei ricorrenti rispetto alle vicende del giudizio di primo grado, ove è riconosciuta la possibilità dell’appello avverso la dichiarazione della perenzione confermata dal collegio, e, quindi, di una nuova valutazione dei fatti di causa, laddove in secondo grado soprattutto la sanzione dell’obbligatoria condanna alle spese, in caso di conferma del decreto dichiarativo della perenzione, appare ancor più scoraggiante, attesa la limitatezza del sindacato della Cassazione ai soli motivi inerenti la giurisdizione. In ogni caso, pare di poter rilevare che le esigenze di celerità dietro le quali si giustificano l’istituto della perenzione del processo amministrativo e, oggi, il procedimento monocratico per la sua dichiarazione, risultano maggiormente lesive delle aspettative di tutela delle situazioni giuridiche soggettive azionate rispetto a quanto accade in seguito all’estinzione del processo civile che, a norma dell’art. 310 c.p.c., « non estingue l’azione ». 6. Un ultimo aspetto merita di essere menzionato nella decisione dell’Adunanza plenaria, che coinvolge due questioni in merito alla prova dell’avvenuta presentazione della domanda di fissazione dell’udienza di discussione del ricorso idonea a scongiurare la perenzione. L’art. 23, commi 1 e 6, della legge istitutiva dei Tar ha introdotto uno specifico atto di procedura che non compiuto determina la perenzione del processo amministrativo (79). Si tratta del(79) La disposizione specifica la generica inattività delle parti sanzionabile attraverso la perenzione sulla base della preesistente previsione dell’art. 40, r.d. 26 giugno 1924, n. 1054, a norma del quale (a seguito della modifica intervenuta con la l. 21 dicembre 1950, n. 1018) « Le parti in causa o la pubblica amministrazione dovranno domandare, con separate istanze, ai presidenti delle sezioni contenziose, la fissazione dell’udienza per la discussione dei ricorsi. I ricorsi si avranno per abbandonati, se per il corso di due anni non siasi fatto alcun atto di procedura »; l’art. 23, commi 1 e 6, della l. 6 dicembre 1971, n. 1034, va, inoltre, coordinato con l’art. 25 l. n. 1034 del 1971, a norma del quale « i ricorsi si considerano abbandonati se nel corso di due anni non sia compiuto alcun atto di procedura »; sul coordinamento fra le disposizioni citate si v. E. FERRARI, Art. 25, in A. ROMANO, Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, cit., 873 ss.; si v., inoltre, Cons. Stato, Sez. V, 17 marzo 1998, n. 294, con nota di F. GAFFURI, Note sulla perenzione nel processo amministrativo di primo grado, in


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l’istanza di fissazione dell’udienza di discussione (80) da presentare entro due anni dal deposito del ricorso o dall’esecuzione dell’istruttoria (81). Questo onere in capo alle parti, che non adempiuto ha l’effetto della perenzione del processo, solleva profili problematici non trascurabili in merito alle aspettative di tutela azionate (82). In ogni caso, nella decisione in commento, l’Adunanza plenaria afferma che la normativa prescrive la prova documentale questa Rivista, 1999, 753 ss.; in merito si v. anche F.F. TÙCCARI, Decisioni in forma semplificata ed estinzione del giudizio (art. 9 seconda parte), in AA.VV., Il nuovo processo amministrativo, cit., 1057, nota 204, il quale sostiene che « emerge, in materia di perenzione, l’esistenza di un doppio binario tra processo di primo grado e giudizio di appello in quanto, mentre nel primo, è solo l’istanza di fissazione dell’udienza di trattazione che salva il ricorso dalla perenzione, nel secondo l’effetto estintivo è impedito, nell’accezione ampia che ne ha dato l’Adunanza plenaria, dal compimento di un qualsivoglia atto, purché nel biennio »; si v. Cons. Stato, Sez. IV, 3 marzo 2000, n. 1123, in Foro amm., 2000, 799 ss.; A. ANGELETTI, Perenzione di procedimenti giurisdizionali amministrativi, in Noviss. dig. it., appendice, vol. V, Torino, 1984, 855; infine si v. nel processo civile la particolare opera di conciliazione svolta in ordine al raccordo fra disciplina dell’estinzione e improcedibilità dell’appello ex art. 348 c.p.c.: R. VACCARELLA, Inattività delle parti ed estinzione del processo di cognizione, cit., 194 ss. (80) Cons. Stato, Sez. V, 15 maggio 2001, n. 2701, in Foro amm., 2001, 1199 (s.m.), afferma che l’istanza di fissazione di udienza non può essere desunta dalla mera circostanza del deposito dell’istanza di sospensione dell’atto impugnato, in quanto quest’ultima serve ad introdurre un procedimento incidentale, inserito in quello principale, ma autonomo e distinto, onde la richiesta di tutela cautelare non è idonea ad interrompere il termine di perenzione del giudizio principale; Tar Umbria, ord. 22 novembre 2001, n. 58, in Trib. amm. reg., 2001, I, 3532, per l’affermazione che la presentazione dell’istanza di fissazione dell’udienza per la trattazione della causa non è sostituibile col compimento di un qualsiasi e diverso atto di procedura. (81) Se il computo del biennio dal deposito del ricorso non determina problemi, più complessa appare la determinazione del dies a quo nell’ipotesi di attività istruttoria che dovrebbe decorrere dal momento della comunicazione alla parte dell’esecuzione istruttoria o della sua inesecuzione: Cons. Stato, Ad. plen., ord. 18 aprile 1986, n. 3, in Cons. St., 1986, I, 437 ss.; Cons. Stato, Sez. V, 11 dicembre 1992, n. 1425, ivi, 1992, I, 1794; Cons. Stato, Ad. plen., 11 luglio 1983, n. 19, in questa Rivista, 1984, 134 ss., con nota di L. MIGLIORINI, Perenzione ed estinzione nel processo amministrativo; Cons. Stato, Sez. IV, 2 dicembre 2003, in Cons. St., 2003, 2689 ss. (82) Si pensi anche all’onere delle parti, il cui inadempimento comporta la perenzione, di presentare domanda di fissazione dell’udienza di discussione a seguito della cancellazione della causa dal ruolo: Cons. Stato, Sez. VI, 14 ottobre 2003, n. 6271, in Foro amm., Cons. St., 2003, 3048; Cons. Stato, Sez. IV, 26 ottobre 1985, n. 470, in Rep. Foro it., 1985, voce Giustizia amministrativa, n. 567; M. ANDREIS, Art. 23, Sez. III, in A. ROMANO, Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, cit., 854.


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dell’avvenuta presentazione dell’istanza di fissazione dell’udienza di discussione, da dimostrare attraverso le modalità dell’annotazione della domanda nell’apposito registro, del timbro di deposito apposto sull’istanza dall’ufficio o della dichiarazione della sua ricezione da parte dell’ufficio come previsto dall’art. 51 del regolamento di procedura davanti al Consiglio di Stato, r.d. 17 agosto 1907, n. 642. Nella specie, viceversa, il ricorrente in opposizione assumeva di provare il tempestivo deposito dell’istanza sulla base di indizi circostanziali sorretti dalle dichiarazioni giurate di due difensori circa l’avvenuto deposito dell’istanza (contestuale al deposito del ricorso e in atto separato) e la verifica dell’esistenza di essa nel fascicolo di parte (83). La decisione pare coerente con precedenti che avevano dichiarato inidonea ad impedire la perenzione la trasmissione da parte del segretario al Presidente, ex art. 51 reg. Cons. Stato, di un’istanza priva dei segni della rituale presentazione e ricezione in data certa (84), e aderente alla concezione del fascicolo quale strumento che certifica l’avveramento di un determinato evento processuale. Tuttavia, proprio a tale ultima considerazione può collegarsi il secondo profilo della decisione relativo alla prova dell’avvenuto deposito della domanda di fissazione dell’udienza di discussione. L’opponente, infatti, aveva richiesto l’acquisizione degli atti che sono il presupposto del decreto impugnato, con l’attestazione e l’indicazione del responsabile delle operazioni di immissione dati ex art. 3 del d.lgs. 12 febbraio 1993, n. 39 (85). L’Adunanza ple(83) A seguito della verifica dell’esistenza dell’istanza nel fascicolo, confermata da due addetti all’archivio del Consiglio di Stato e alla segreteria della sezione sesta, ne veniva richiesta l’attestazione al dirigente della sezione VI che trasmetteva la relazione dei fatti al Presidente della Sezione, il quale, però, respingeva la richiesta del difensore di certificare il rinvenimento della domanda di fissazione in questione; sulla prevalenza delle risultanze del fascicolo d’ufficio o del registro di cui all’art. 51 reg. proc. Cons. Stato rispetto ad altri dati quali la ricevuta della spedizione dell’istanza a mezzo di raccomandata si v. Cons. Stato, Sez. V, 8 luglio 1998, n. 1017, in Rep. Foro it., 1999, voce Giustizia amministrativa, n. 767 e M. ANDREIS, Art. 40, Sez. I, in A. ROMANO, Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, cit., 498. (84) Cons. Stato, Sez. VI, 7 maggio 1991, n. 283, in Cons. St., 1991, I, 994 ss. (85) Nell’articolo citato è previsto anche il principio per cui di norma tutte le


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naria ha negato l’acquisizione anche sul rilievo che l’informatizzazione del processo amministrativo non è ancora operante attesa la mancanza dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri previsti dall’art. 18, d.P.R. 13 febbraio 2001, n. 123 (86). Tuttavia, l’Adunanza plenaria mostra di ritenere che in un futuro non troppo lontano possa aversi anche per il processo amministrativo un fascicolo virtuale creato a seguito dell’immissione nella rete telematica giudiziaria del ricorso introduttivo del giudizio e dei successivi atti processuali. De iure condendo, l’informatizzazione del processo, oltre alla presa di coscienza che la crisi della giustizia in Italia va risolta anche attraverso il ripensamento dell’organizzazione giudiziaria (87), evidenzia la riflessione sulla necessità di rifondare il rapporto fra attori del processo (giudici, avvocati, parti) in una dimensione democratica che incontri la società superando il « mutismo » degli uffici di cancelleria e fondando un dialogo per l’affermazione di una nuova oralità del processo (88). pubbliche amministrazioni agiscono attraverso i sistemi informativi automatizzati; la disciplina segue la l. 23 ottobre 1992, n. 421. (86) Si tratta del Regolamento recante la disciplina dell’uso di strumenti informatici nel processo civile, nel processo amministrativo e nel processo innanzi alle sezioni giurisdizionali della Corte dei conti che si pone quale sviluppo di un quadro normativo relativo al processo civile telematico formatosi nel corso degli ultimi anni, si v.: l’art. 15, comma 2, della l. 15 marzo 1997, n. 59 e il d.P.R. 10 novembre 1997, n. 513 sulla validità giuridica del documento informatico e della firma digitale; il d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, t.u. sulla documentazione amministrativa; il decreto 27 marzo 2000, n. 264 recante il regolamento per la tenuta dei registri presso gli uffici giudiziari; il d.lgs. 23 gennaio 2002, n. 10 di recepimento della direttiva comunitaria sulle firme elettroniche; sul processo telematico e sull’esperienza del progetto « Polis » a Bologna si v.: AA.VV., Il processo telematico. Nuovi ruoli e nuove tecnologie per un moderno processo civile, a cura di M. JACCA, Bologna, 2000; V. RUGGIERI, Il processo telematico, Torino, 2001; F. BUFFA, Il processo civile telematico, Milano, 2002; AA.VV., E-government, a cura di F. SARZANA DI S. IPPOLITO, Piacenza, 2003, 174 ss. (87) P. LICCARDO, Introduzione al processo civile telematico, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2000, 1165. (88) P. LICCARDO, op. ult. cit., 1191, rileva che il sistema informativo dovrà sostituirsi ai registri di cancelleria superando la povertà informativa in forza di una complessiva apertura al sistema delle informazioni interessate dal processo e che, ivi, 1196, « il fascicolo muta la sua funzione sociale per l’organizzazione che presiede alla sua conservazione e gestione, da muto contenitore degli atti delle parti e delle attività udienzali a luogo dei nessi e delle relazioni costruite dagli attori del processo [...] nel corso del


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Nel caso di specie l’inserimento della domanda di fissazione dell’udienza nel fascicolo informatico da parte degli avvocati se non effettuato non avrebbe permesso il sospetto di noncuranza da parte degli uffici. SARA SPUNTARELLI

processo e delle decisioni da loro assunte »; infine l’A., ivi, 1203, sottolinea che « il giudice dismette cosı̀ ogni funzione oracolare, ogni veste meramente burocratica: viene chiamato ad un’opera di testimonianza e di instancabile dialogo [...]. Gli uffici perdono ogni carattere di oscurantismo insito nel mutismo della loro produzione ».


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App. Napoli, sez. I civile — Pres. D. Nardi — Rel. A. Casoria — decreto 25 novembre 2003, n. 31034 — Bagnolifutura S.p.a. di Trasformazione urbana (avv.ti Allodi, Verde) c. Cimi.Montubi S.p.a. e Mededil — Edilizia Mediterranea S.p.a. in liquidazione (avv.ti Ambroselli, Clarizia, Magri), Comune di Napoli (avv.ti Allegretti de Lista); Agenzia del Territorio — Ufficio provinciale di Napoli (avv. Stato); P.G. (concl. conf.). Ricorso giurisdizionale di legittimità - Trascrizione - Esclusione. Non può essere trascritto il ricorso proposto al Tribunale amministrativo regionale contenente la domanda di annullamento di un provvedimento amministrativo, seppure anteriormente trascritto — ai sensi dell’art. 2645 c.c. — in quanto produttivo dell’effetto traslativo della proprietà di beni immobili; vi osta l’inestendibilità della previsione dell’art. 2652, comma 1, n. 6 c.c. alle domande giudiziali dirette a far pronunziare l’annullamento di atti diversi da quelli negoziali (Fattispecie relativa alla domanda di annullamento del provvedimento, adottato dal Comune di Napoli, di « acquisi[zione] [del]la proprietà delle aree oggetto degli interventi di bonifica » previsti dall’art. 114, comma 19, l. 23 dicembre 2000, n. 388; la Corte ha escluso trattarsi di domanda diretta a « rivendicare la proprietà » a norma dell’art. 2653, comma 1, n. 1, c.c., questa sı̀ trascrivibile pur quando deferita alla giurisdizione amministrativa esclusiva) (1). (Omissis). — 1. Le società reclamate hanno sostenuto che né il Comune di Napoli né la BagnoliFutura S.p.a., quale avente causa dall’ente pubblico, hanno legittimazione a proporre reclamo per il radicale motivo che esse non avevano alcun titolo a partecipare al procedimento in primo grado. Hanno in sintesi sostenuto: a) che, in tema di provvedimenti di volontaria giurisdizione, tipicamente diretti ad attuare un controllo preventivo o successivo, di legittimità o di merito, su determinati atti giuridici ad istanza del privato interessato, non è configurabile una controparte e un contrasto di interessi da risolvere; b) che, poiché il procedimento in questo caso azionato è diretto a vagliare la fondatezza dei dubbi espressi dal conservatore in merito alla trascrivibilità dell’atto, non sussiste una controparte da coinvolgere nel procedimento, essendo poi rimessa a un eventuale giudizio contenzioso la definitiva pronuncia sulla sussistenza del diritto e sull’effettuazione della pubblicità. Hanno quindi rilevato che la detta costruzione non trova resistenza nella norma di rito (art. 113-ter, comma 2 disp. att. c.c.), la quale dispone che il Tribunale debba provvedere in camera di consiglio, sentiti, oltre il pubblico ministero e il conservatore, anche « le parti interessate », e ciò in quanto l’audizione, oltre a prospettarsi, alla stregua della dizione di legge, come meramente facoltativa, deve ritenersi dettata con chiaro riferimento ai soli casi di legittimazione plurima al ricorso.


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1.1. La tesi delle società reclamate non può condividersi. La circostanza che rispetto al procedimento di volontaria giurisdizione, siccome preordinato all’attuazione del controllo di legalità e/o opportunità di un atto o di una pluralità di atti, non è configurabile una contrapposizione di parti in lite, dovendo le contestazioni sui diritti trovare la loro soluzione nella competente sede contenziosa, evidentemente nulla toglie alla possibilità che la legge possa prevedere una pluralità di parti interessate a interloquire in merito all’attuazione dell’attività di controllo demandata al giudice. Deve del resto dirsi che è lo stesso art. 739 c.p.c., ordinaria « forma processuale » della volontaria giurisdizione, a configurare la possibilità di una pluralità di parti nel procedimento trattato in camera di consiglio. Nella specie il procedimento di cui agli artt. 2674-bis c.c. e 113-ter disp. att. c.c., è preordinato a superare « i gravi e fondati dubbi » emergenti « sulla trascrivibilità di un atto o sulla iscrivibilità di un’ipoteca », dubbi che non esimono il conservatore dall’eseguire la formalità con riserva, ma che reagiscono sulla formalità cosı̀ eseguita, determinandone ipso iure la perdita di ogni effetto, nella ipotesi che colui che ha chiesto e ottenuto il compimento della formalità, nonostante i dubbi « gravi e fondati », non proponga; nel termine decadenziale di trenta giorni, reclamo al Tribunale, da notificare nello stesso termine al Conservatore, per ottenere la rimozione della valutazione negativa insita nella riserva. Allorché dunque si dispone normativamente che; rispetto a siffatta domanda, vengano sentite « le parti interessate » (comma 2 art. 113-ter), deve di necessità ritenersi che il legislatore abbia sancito l’obbligo di sentire le altre parti dell’atto della cui trascrivibilità si discute, nel caso di specie dunque il Comune di Napoli, destinatario della notifica dei ricorsi trascritti con riserva. Né si vede perché di una simile audizione debba supporsi il carattere meramente facoltativo, data l’evidenza del testo di legge, a norma del quale viene sancito che il Tribunale possa provvedere solo dopo avere sentito « le parti interessate ». Si aggiunge che l’interpretazione delle reclamate è contraddetta anche dalla norma del comma 3 del citato art. 113-ter che, nel prevedere la possibilità di reclamo alla Corte di Appello, con ricorso da notificare a pena d’improcedibilità « anche al conservatore » (del quale resta cosı̀ scolpita l’estraneità all’ambito « delle parti interessate », abilitate all’impugnazione), non limita affatto il reclamo alla soia ipotesi del rigetto da parte del Tribunale e prevede la notifica del reclamo in appello ad « altri » rispetto al conservatore. Né può opinarsi che il legislatore abbia previsto l’impugnabilità del decreto (anche) di accoglimento e abbia richiesto la notifica dell’impugnazione con riferimento alla posizione del P.M., perché evidentemente la previsione di un’esclusiva legittimazione attiva e passiva del P.M. alla impugnazione sarebbe stata esplicitata. Sarebbe del resto del tutto incongrua l’ipotesi che la legge abbia accordato il potere di impugnazione al P.M. per la tutela di un generale interesse alla regolarità delle trascrizioni ed iscrizioni, negandolo alle altre parti dell’atto di cui si discute provviste


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di un interesse diretto e concreto a partecipare al procedimento, volto ad attuare il controllo di legalità sulla trascrivibilità, inficiata da « gravi e fondai dubbi ». 2. Sotto diverso profilo le stesse società reclamate hanno dedotto che l’estraneità di fatto del Comune di Napoli al procedimento di primo grado precluderebbe allo stesso Comune (e alla società succedutagli) di impugnare il provvedimento del Tribunale, secondo il principio generale, affermato anche per i procedimenti in camera di consiglio, che l’impugnazione è riservata solo a coloro che hanno in concreto partecipato al giudizio di primo grado, salva la possibilità delle parti necessarie pretermesse di promuovere un giudizio autonomo di nullità, ovvero — in ipotesi di procedimenti volontari — di far valere i loro pretesi diritti in un giudizio ordinario. 2.1. Anche questa tesi è priva di pregio. In conformità di prevalente e autorevole dottrina, la Corte ritiene che, in materia di provvedimenti di volontaria giurisdizione, l’impugnativa possa essere proposta da chiunque abbia un diretto interesse, riconosciuto dalla legge, alla situazione giuridica che forma oggetto del provvedimento. Non occorre quindi che il soggetto abbia partecipato al procedimento nel quale è stato emesso il provvedimento impugnato. La contraria e minoritaria tesi, fondata sulla lettera del comma 2 dell’art. 739 c.p.c., non può seguirsi, perché la norma disciplina i termini in cui può proporsi il reclamo da parte di chi ha in effetti partecipato al procedimento di primo grado in camera di consiglio. Essa non può essere invece utilizzata per l’individuazione di tutti i soggetti legittimati al gravame, in specie avverso provvedimenti di volontaria giurisdizione adottati col rito camerale. Non si può escludere, infatti, il potere di reclamare all’assente e in genere a tutti coloro che, pure essendo portatori di un interesse rilevante, non hanno partecipato al processo o per propria determinazione o per causa altrui. Posto infatti che il provvedimento emesso dal giudice in primo grado riguarda tali soggetti, essi potrebbero chiederne la revoca allo stesso giudice o intervenire in sede di gravame proposto da altri: se ciò è vero non si può escludere la possibilità di proporre la stessa istanza mediante reclamo al giudice superiore. Non vale ad infirmare tale conclusione il richiamo alla giurisprudenza della Suprema Corte, operato dalle società reclamate, e ciò in quanto le pronunce attengono a procedimenti per loro natura contenziosi, ancorché trattati nelle forme del rito camerale. In quei casi è lo stesso ambito soggettivo del giudicato ad escludere il pregiudizio per l’interessato pretermesso, mentre nel caso di specie il provvedimento di volontaria giurisdizione, riguardando l’attuazione del controllo di legalità di un atto immediatamente incidente sulla posizione del pretermesso, non può che essere reclamabile anche da costui. Del resto il principio della legittimazione all’im-


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pugnazione da parte dell’interessato che pure non ha partecipato al giudizio di primo grado è sintomaticamente sancito dall’art. 718 c.p.c. per una materia oggettivamente di volontaria giurisdizione (l’interdizione e l’inabilitazione), pur se trattata nelle forme del rito ordinario. 3. Sempre sotto il profilo processuale si osserva ancora che la reclamante « BagnoliFutura », società di trasformazione urbana costituita in conformità della espressa previsione legislativa e incontestato successore a titolo particolare nel rapporto in coerenza con la medesima previsione di legge (art. 114, comma 19, l. n. 388 del 2 dicembre 2000), ha impugnato un provvedimento, mai notificato ad essa e al dante causa Comune di Napoli, in forza del generale principio di cui all’ultimo comma dell’art. 111 c.p.c. Inoltre, a seguito della notifica del reclamo, è intervenuto in causa il Comune di Napoli, il quale ha impugnato anche esso il decreto del Tribunale, deducendo, per motivi espressamente formulati, l’illegittimità della trascrizione eseguita con riserva, chiedendone perciò la cancellazione. 4. Nel merito la Corte ritiene che il reclamo in appello sia fondato e, meriti perciò di essere accolto. 4.1. Non vi è dubbio che gli atti soggetti a trascrizione sono quelli tassativamente previsti per legge e che la trascrizione debba essere eseguita solo per gli effetti che ad essa la legge espressamente ricollega. Nel caso di specie deve sottolinearsi come le società reclamate abbiano prospettato al conservatore la trascrivibilità dei proposti ricorsi, richiamando una serie svariata di ipotesi normative, alcune delle quali visibilmente inapplicabili al caso di specie. 4.2. Si osserva quindi che, nella nota di trascrizione, l’esecuzione della formalità fu richiesta — in via gradata — in forza degli artt. 2684, n. 5 e 2690, n. 3 c.c. Il numero 5 dell’art. 2684 c.c. disciplina la trascrizione dei « provvedimenti con i quali nel giudizio di espropriazione si trasferiscono la proprietà o gli altri diritti menzionati nei numeri precedenti » e il successivo art. 2690 prevede la trascrizione delle domande relative a siffatti provvedimenti giudiziari, attuativi del trasferimento dei diritti reali. La richiesta subordinata è stata dunque giustamente abbandonata. 4.3. Un più approfondito esame merita la trascrizione, richiesta e disposta con riserva, ex art. 2652, n. 6 c.c. Conviene premettere che il provvedimento oggetto di ricorso al Tar è stato emesso in base alla previsione del comma 19 art. 114 l. n. 388 del 23 dicembre 2000, il quale sul punto testualmente dispone: « In considerazione del pubblico interesse alla bonifica, al recupero ed alla valorizzazione dell’area di Bagnoli, è attribuita facoltà al comune di Napoli, entro il 31 dicembre 2001, di acquisire la proprietà delle aree oggetto degli interventi di


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bonifica anche attraverso una società di trasformazione urbana. In tale caso possono partecipare al capitale sociale, fina alla completa acquisizione della proprietà delle aree al patrimonio della società medesima, esclusivamente il comune di Napoli, la provincia di Napoli e la regione Campania. Il comune di Napoli, a seguito del trasferimento di proprietà, subentra nelle attività di bonifica attualmente gestite dalla società Bagnoli S.p.a. con il trasferimento dei contratti in essere, dei finanziamenti specifici ad essi riferiti e di quelli non ancora utilizzati, ivi compresi i finanziamenti per il completamento della bonifica; gli affidamenti dei lavori avverranno secondo le norme vigenti per la pubblica amministrazione con riferimento alla legge 11 febbraio 1994, n. 109, e successive modificazioni, e altresı̀ secondo modalità e procedure che assicurino il mantenimento dell’occupazione dei lavoratori dipendenti della società Bagnoli S.p.a. nelle attività di bonifica. Ai fini dell’acquisizione da parte del comune di Napoli della proprietà delle aree oggetto dei progetti di bonifica, il corrispettivo è calcolato dall’ufficio tecnico erariale in base al valore effettivo dei terreni e degli immobili che, secondo il progetto di completamento approvato, devono rimanere nell’area oggetto di cessione; dall’importo cosı̀ determinato è detratto, ai fini dell’ottenimento della cifra di cessione, il 30 per cento dell’intervento statale utilizzato sino al momento della cessione nelle attività di bonifica. In caso di rinuncia esplicita da parte del comune di Napoli all’acquisto delle aree soggette od interventi di bonifica, l’IRI o altro proprietario, entro nove mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, provvede all’alienazione mediante asta pubblica, il cui prezzo base è determinato dall’ufficio tecnico erariale secondo i criteri di cui al periodo precedente, senza alcuna detrazione. Dal prezzo di aggiudicazione è detratto a favore dello Stato il valore delle migliorie apportate alle aree interessate sino al momento della cessione ». Si tratta di una norma, la quale, come si vede, attribuisce facoltà al Comune di Napoli di acquisire le aree per un « corrispettivo » determinato per legge, addossando all’ente la prosecuzione delle attività di bonifica, e, solo in ipotesi di « rinuncia esplicita all’acquisto » da parte dello stesso Comune, ne prevede la vendita all’asta pubblica da parte dell’IRI o altro proprietario pure per un corrispettivo di legge, assicurando la soddisfazione dell’impegno finanziario sostenuto dallo Stato. Orbene il Comune di Napoli, espressa la sua volontà di acquisto delle aree, la quale ne impone il necessario trapasso all’ente per il prezzo legalmente determinato, ha ritenuto di potere e dovere attuare l’acquisizione attraverso un provvedimento amministrativo di carattere oneroso contro il « corrispettivo » determinato, che ha reso disponibile in favore dei proprietari con vincolo di destinazione, offrendolo in pagamento subordinatamente alla dimostrazione della qualità di proprietari da parte della Cimi.Montubi e della Mededil. Le società oggi reclamate hanno impugnato dinanzi al Tar Campania, tra altri numerosissimi atti amministrativi, lo specifico provvedimento, che ha attuato il trasferimento di proprietà. È evidente che solo con riguardo ad esso


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si pone il problema della trascrizione dei ricorsi ai sensi dell’art. 2652, n. 6 c.c., siccome diretti a far pronunciare l’annullamento di un atto soggetto a trascrizione. Per la verità non si comprende affatto il rilievo che, ai fini della trascrivibilità dei ricorsi dinanzi al Tar, voglia darsi, ai fini di questo titolo di trascrizione, alla modifica del riparto giurisdizionale tra giudice ordinario e giudice amministrativo. L’annullamento di provvedimenti amministrativi non è stato mai compreso nella competenza giurisdizionale del g.o., tradizionalmente titolare del solo potere di disapplicazione (artt. 4 e 5 l. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E). In conseguenza, per sostenere la trascrivibilità dei ricorsi al Tar Campania ai sensi dell’indicata norma di legge, dovrebbe affermarsi che da sempre le impugnative dinanzi al g.a. di decreti di espropriazione o di altri provvedimenti amministrativi ablativi della proprietà privata sarebbero state soggette a trascrizione. Il provvedimento di cui si tratta, adottato in attuazione di una specifica disposizione di legge, in quanto contenente trasferimento della proprietà, è stato evidentemente trascritto ai sensi del generale principio di cui all’art. 2645 c.c., il quale testualmente dispone: « Deve del pari rendersi pubblico, agli effetti dell’articolo precedente, ogni altro atto o provvedimento che produce in relazione a beni immobili o a diritti immobiliari taluno degli effetti dei contratti menzionati nell’art. 2643, salvo che dalla legge risulti che la trascrizione non è richiesta o è richiesta ad effetti diversi ». Questa norma — nella determinazione degli atti da trascrivere ai fini della soluzione del conflitto tra più acquirenti da uno stesso dante causa di cui all’art. 2644 c.c. — ha finito per spostare l’accento dall’atto da trascrivere agli effetti che esso produce. Ed è testuale che la norma si riferisce non solo agli atti innominati di diritto privato, ma anche ai provvedimenti, siano essi giurisdizionali o amministrativi, idonei a determinare il trasferimento della proprietà o di altri diritti reali. È peraltro affermazione assolutamente costante che la trascrizione del provvedimento espropriativo risulta disposta — ex art. 53 l. n. 2359 del 1865 (oggi art. 23 d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327) — per una finalità di pubblicità notizia e per quella (eventuale) di assicurare la continuità delle trascrizioni, e — quindi — non per l’effetto negativo comminato alla mancata trascrizione ex art. 2644 c.c. rispetto ad atti di trasferimento trascritti nel corso del procedimento espropriativo, essendo gli acquirenti — in base a titoli trascritti — abilitati all’esperimento delle azioni ex artt. 52 e 54 l. n. 2359 del 1865 (in motivazione Cass., Sez. I,1o febbraio 2002, n. 1289; ed inoltre Cass. 4 agosto 2000, n. 10229; Cass. 23 aprile 2001, n. 5978). Il principio di tassatività di cui all’art. 2643 (pur temperato dall’art. 2645), cui fa riferimento il corrispondente art. 2652 c.c., è quindi uno dei motivi ritenuti ostativi alla possibilità di trascrivere il ricorso giurisdizionale di annullamento del provvedimento espropriativo (in tal senso sempre in motivazione si veda la Cass. n. 1289 del 2002). L’applicazione dei principi nel caso di specie è stata negata per vero


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dalle società reclamate, le quali hanno affermato che una cosa è il decreto di espropriazione, altra e diversa è il provvedimento di acquisizione adottato nel caso di specie ed oggetto di impugnazione. Orbene osserva la Corte che la trascrizione — certamente non esclusa dalla legge — del provvedimento acquisitivo a titolo oneroso di cui si tratta, adottato per la realizzazione di una finalità di pubblico interesse definita direttamente dalla stessa legge, non sembra distaccarsi dalla funzione di mera notizia, propria del generale provvedimento di esproprio, con conseguente opponibilità del provvedimento finale anche a coloro che abbiano trascritto diritti nel corso del procedimento, salva la loro possibilità di soddisfarsi sul « corrispettivo », determinato in forza della medesima disposizione di legge. E però, se volesse diversamente opinarsi, e volesse ritenersi il detto provvedimento trascrivibile e trascritto proprio ai sensi e per gli effetti della norma di cui all’art. 2644 c.c., ciò non implicherebbe affatto la conseguente trascriviblità della domanda di impugnazione dell’atto di acquisto ex art. 2652 c.c. ed in particolare del n. 6 di tale norma di legge, che è la disposizione che qui si invoca. Si rileva in specie che il confitto che l’art. 2644 è destinato a risolvere — sul piano meramente oggettivo e senza che rilevino gli stati d’animo delle parti — è quello tra acquirenti dallo stesso dante causa, mentre l’art. 2652 è diretto a disciplinare i rapporti tra l’attore e gli acquirenti del convenuto in relazione a una serie di specifiche ipotesi, oltre le quali all’interprete non è consentito di andare. Orbene la norma, sulla cui base le società oggi reclamate hanno chiesto la trascrizione dei ricorsi giurisdizionali, prevede, nella formulazione risultante dalla premessa dalla disposizione specifica del n. 6, quanto segue: « Si devono trascrivere, qualora si riferiscano ai diritti menzionati nell’art. 2643, le domande giudiziali indicate nei numeri seguenti agli effetti per ciascuna di esse previsti: ... 6) le domande dirette a far dichiarare la nullità o a far pronunziare l’annullamento di atti soggetti a trascrizione e le domande dirette a impugnare la validità della trascrizione. Se la domanda è trascritta dopo cinque anni dalla data della trascrizione dell’atto impugnato, la sentenza che l’accoglie non pregiudica i diritti acquistati a qualunque titolo dai terzi di buona fede in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda. Se però la domanda è diretta a far pronunziare l’annullamento per una causa diversa dalla incapacità legale, la sentenza che l’accoglie non pregiudica i diritti acquistati dai terzi di buona fede in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda, anche se questa è stata trascritta prima che siano decorsi cinque anni dalla data della trascrizione dell’atto impugnato, purché in questo caso i terzi abbiano acquistato a titolo oneroso ». Contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, appare davvero impossibile far rientrare il ricorso giurisdizionale per l’annullamento di un atto amministrativo in questa norma di legge dettata con tutta evidenza per disciplinare gli effetti prodotti dalle domande proposte per far valere le cause di nullità e di annullamento di atti negoziali.


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Si comincia con il rilevare che le disposizioni in materia di trascrizione distinguono tra atti, sentenze e provvedimenti; in proposito è sufficiente leggere l’elencazione di cui all’art. 2643 c.c. e l’endiadi di cui allo stesso art. 2645 atti-provvedimenti (i secondi da intendersi come giurisdizionali e amministrativi. La conseguenza è che il n. 6 dell’art. 2652 disciplina le domande riguardanti i vizi degli « atti » di autonomia privata e non certo di quelli adottati nell’esercizio di un potestà amministrativa (i provvedimenti). La valenza del dato è rafforzata dalla congiunta trattazione delle domande di « nullità e di annullamento », con evidente riguardo alle due categorie « nullità-annullabilità », qualificanti i vizi degli atti di autonomia privata e non certo i vizi tradizionali (incompetenza, violazione di legge, eccesso di potere) di legittimità degli atti amministrativi (provvedimenti). Si aggiunge che, nel disciplinare gli effetti della trascrizione della domanda (che è la finalità per cui essa è dettata), la norma distingue tali effetti a seconda della data di trascrizione della domanda, infra o ultraquinquennale (come rilevato in dottrina il legislatore ha utilizzato come decadenziale il termine di prescrizione dell’azione di annullamento, peraltro estendendolo alla domanda di nullità), nonché la buona o mala fede del terzo acquirente. Ed è sancita l’inattaccabilità della posizione del terzo con riferimento a questi elementi, che non si vede come potrebbero utilizzarsi con riferimento ai tradizionali vizi di legittimità degli atti amministrativi. È finalmente sufficiente una lettura della disciplina degli effetti della domanda di annullamento a seconda che concerna vizio di incapacità legale o altro vizio per rilevare che essa non è altro che la applicazione, ai fini della trascrizione, della norma di cui all’art. 1445 c.c., che regola gli « effetti dell’annullamento nei confronti dei terzi », norma dettata per i vizi del contratto che ne comportano l’annullamento, e ovviamente applicabile « agli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniole » (art. 1324). E, correlativamente, l’art. 1445 proprio alle norme sulla trascrizione rinvia ai fini del completamento della disciplina legale degli effetti della domanda di annullamento dei contratti (e quindi degli atti unilaterali) verso i terzi (« fatti salvi gli effetti della trascrizione della domanda di annullamento »). Anche sotto questo profilo la Corte non può che ritenere il pieno fondamento dei dubbi espressi dal conservatore e quindi la non conformità a legge della eseguita trascrizione con riserva. 4.4. Non ritiene infine la Corte che ricorra l’ipotesi di cui all’art. 2653, n. 1 c.c., la quale dispone la trascrivibilità delle « domande dirette a rivendicare la proprietà o altri diritti reali su beni immobili e altre domande dirette all’accertamento dei diritti stessi ». Ed invero i ricorsi — come sopra trascritti — sono stati espressamente proposti per ottenere l’annullamento di atti amministrativi attuativi di un procedimento espropriativo, previa sospensione della loro efficacia. Sotto questo profilo le società reclamate hanno fatto valere che esse,


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come primo dei vari motivi di ricorso al Tar, avevano dedotto che la norma di cui all’art. 114, comma 19 l. 23 dicembre 2000, n. 388, al contrario di quanto ritenuto dall’ente pubblico, non ha attribuito uno speciale potere espropriativo al Comune di Napoli, ma ha previsto solo la facoltà del stesso Comune di acquisire l’area di Bagnoli soggetta a bonifica o attraverso un contratto di compravendita, ovvero attivando l’ordinario procedimento espropriativo; ed hanno sostenuto che gli atti amministrativi assunti dall’ente — nell’errata prospettiva — sarebbero inosservanti di alcune delle fondamentali norme in materia espropriativa, e perciò adottati in carenza di potere. Cimi.Montubi e Mededil affermano quindi che sussisterebbe oggi la necessità di proporre al g.a. domande reintegratorie e risarcitorie prima di competenza del giudice ordinario, a cagione dei mutamenti apportati in materia al riparto di giurisdizione dagli artt. 34 e 35 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80 (come sostituiti art. 7 l. 21 luglio 2000, n. 205), con l’attribuzione al g.a. della giurisdizione esclusiva in merito alle controversie aventi per oggetto gli atti, i provvedimenti e i comportamenti delle amministrazioni pubbliche e dei soggetti alle stesse, equiparati in materia urbanistica ed edilizia (art. 34), nonché del potere di disporre, « anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto » (art. 35). La Corte rileva che può prescindersi, in questa sede, da ogni valutazione in merito ai limiti del trasferimento della giurisdizione, e in specie se debba ritenersi sottratta — e in che limiti — la competenza giurisdizionale al g.o. sulle domande di rivendica e di accertamento della proprietà. Quello che, in questa sede, rileva è infatti solo la natura della domanda proposta. È evidente cioè che, se la legge prevede la trascrizione delle domande di rivendica o di accertamento della proprietà e se le reclamate sostengono che queste domande sarebbero oggi attribuite alla giurisdizione del g.a., esse di tali domande, eventualmente proposte, avrebbero potuto chiedere la trascrizione. I ricorsi hanno invece ad oggetto l’impugnazione di atti amministrativi per motivi di diversa portata e consistenza, alcuni dei quali certamente diretti a contestare il cattivo esercizio del potere, altri riconducibili astrattamente alla categoria della carenza di potere, ma tutti formulati per conseguire l’annullamento di tali atti (si vedano anche le formali conclusioni finali del secondo ricorso notificato il 26 gennaio 2002). Deve pertanto escludersi la trascrivibilità, ai sensi dell’art. 2653 n. 1 c.c., di ricorsi contenti impugnative di atti amministrativi — proposte dai destinatari per motivi di diversa consistenza, non passibili di valutazione nel merito ai fini della trascrizione — e certamente non una domanda diretta a rivendicare la proprietà o altri diritti reali di godimento su beni immobili, né una domanda diretta ad accertare i diritti stessi, che sono le uniche trascrivibili ai sensi della indicata norma di legge. 5. Deve essere quindi accolto il reclamo in appello e, in riforma del decreto del Tribunale, va rigettato il reclamo proposto dalla Cimi.Montubi


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S.p.a. e dalla Mededil S.p.a. in liquidazione avverso le formalità eseguite con riserva in loro favore dal conservatore dei RR.II., che restano perciò senza effetto (art. 113-ter, comma 4, disp. att. c.c.). Data la natura non contenziosa del procedimento non vi è luogo a provvedere sulle spese.

(1)

La trascrivibilità di domande giudiziali proposte al Tar.

SOMMARIO: 1. Il fatto. — 2. Le decisioni. — 3. Il problema, le soluzioni. — 4. Un’opinione. — 5. Le conseguenze.

1. C’è una norma che dice, grosso modo: « In considerazione del pubblico interesse alla bonifica, al recupero ed alla valorizzazione dell’area di Bagnoli, è attribuita facoltà al comune di Napoli [...] di acquisire la proprietà delle aree oggetto degli interventi di bonifica anche attraverso una società di trasformazione urbana [...]. Il comune di Napoli, a seguito del trasferimento di proprietà, subentra nelle attività di bonifica attualmente gestite dalla società Bagnoli S.p.a. [...]. Ai fini dell’acquisizione da parte del comune di Napoli della proprietà delle aree oggetto dei progetti di bonifica, il corrispettivo è calcolato dall’ufficio tecnico erariale [...]. In caso di rinuncia esplicita da parte del comune di Napoli all’acquisto delle aree soggette ad interventi di bonifica, l’IRI o altro proprietario, entro nove mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, provvede all’alienazione mediante asta pubblica [...] ». È accaduto che, nell’esercizio della « facoltà » attribuitagli dalla legge (art. 114, comma 19, l. 23 dicembre 2000, n. 388), il Comune ha « acquisi[to] la proprietà » in questione. Siffatto « provvedimento di acquisizione onerosa al patrimonio del Comune di Napoli », adottato con determinazione dirigenziale del 27 dicembre 2001, è stato trascritto presso la Conservatoria dei Registri immobiliari in data 2 gennaio 2002. E la formalità è stata eseguita a norma dell’art. 2645 c.c., per cui « deve rendersi pubblico [...] ogni altro atto o provvedimento che produce in relazione a beni immobili [il trasferimento della proprietà] » (1). (1)

Di « trasferimento della proprietà » è, in ogni caso, corretto parlare: v. FERRI-


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Sta di fatto che il provvedimento, con altri ne formavano presupposto o conseguenza, è stato impugnato mediante ricorso proposto al Tar della Campania, denunciandone l’illegittimità. I ricorrenti, quindi, hanno richiesto la trascrizione della domanda giudiziale « ai sensi del combinato disposto degli artt. 2653 n. 1 e 2652 n. 6 [c.c.] ». La trascrizione, però, è stata fatta « con riserva », tant’è che gli istanti sono rimasti onerati di proporre reclamo al Tribunale secondo il procedimento disciplinato dagli artt. 2674bis, comma 2, c.c. e 113-ter disp. att. c.c. La decisione del Tribunale è stata successivamente riformata dalla Corte, col decreto che qui si annota. 2. Il Tribunale di Napoli aveva osservato che ricorrevano i requisiti per la trascrizione senza riserva alcuna del ricorso giurisdizionale, peraltro in materia di giurisdizione esclusiva (« urbanistica »): a norma dell’art. 2652, n. 6, dunque, si sarebbe trattato di una delle « domande dirette a far [...] pronunziare l’annullamento di atti soggetti a trascrizione »; in ogni caso, avrebbe potuto concorrere la possibilità di trascrizione offerta dall’art. 2653, comma 1, n. 1, c.c., che rende doverosa quella delle « domande dirette a rivendicare la proprietà ». È su queste basi che il Tribunale ordinava di annotare a margine della formula di « riserva » apposta del Conservatore il decreto di accoglimento del reclamo. Ma la Corte d’appello è intervenuta a revocare il decreto. E ha escluso che ricorresse nella fattispecie l’ipotesi della trascrizione di una domanda diretta a « rivendicare la proprietà » (art. 2653, comma 1, n. 1, c.c.), pur assumendo che in linea di massima nulla osta alla trascrivibilità di domande del genere pur quando deferite alla giurisdizione amministrativa in « esclusiva ». Sennonché, la trascrivibilità veniva fatto di escludere, in concreto, stante che la domanda giudiziale aveva « invece ad oggetto l’impugnazione di atti amministrativi per motivi [...] tutti formulati per conseguire l’annullamento di tali atti ». ZANELLI, Trascrizione3, in Commentario codice civile Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1995, 68, per cui non si esclude dal novero dei casi concettualmente riconducibili al trasferimento della proprietà quello c.d. coattivo, mentre si esclude qualsiasi fenomeno costitutivo di diritti.


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Di conseguenza, l’unica via per conseguire gli effetti della trascrizione rimaneva quella delineata dall’art. 2652, comma 1, n. 6, c.c., ma, già in astratto stavolta, ne veniva accertata l’impraticabilità, determinandosi cosı̀ la Corte a dichiarare che « le formalità eseguite resta[va]no prive di effetto ». In estrema sintesi, la divergenza di principio tra gli uffici che hanno esaminato l’affare nei diversi gradi di giudizio origina dall’interpretazione dell’art. 2652, comma 1, n. 6, c.c.: se per « domande dirette a far [...] pronunziare l’annullamento di atti soggetti a trascrizione », cioè, si possano intendere o meno quelle rivolte a provocare l’annullamento di atti non negoziali, e segnatamente di provvedimenti amministrativi. 3. L’opzione negativa da parte del Giudice d’appello, secondo cui per « domande dirette a far [...] pronunziare l’annullamento di atti soggetti a trascrizione » non si possono intendere quelle rivolte a provocare l’annullamento di provvedimenti amministrativi, muove dai seguenti, alternativi rilievi: a) « la trascrizione [...] del provvedimento acquisitivo a titolo oneroso di cui si tratta, adottato per la realizzazione di una finalità di pubblico interesse definita direttamente dalla stessa legge, non sembra distaccarsi dalla funzione di mera notizia, propria del generale provvedimento di esproprio, con conseguente opponibilità del provvedimento finale anche a coloro che abbiano trascritto diritti nel corso del procedimento, salva la loro possibilità di soddisfarsi sul “corrispettivo”, determinato in forza delle medesima disposizione di legge »; b) « se volesse diversamente opinarsi, e volesse ritenersi il detto provvedimento trascrivibile e trascritto proprio ai sensi e per gli effetti della norma di cui all’art. 2644 c.c., ciò non implicherebbe affatto la trascrivibilità della domanda di impugnazione dell’atto [poiché] l’art. 2652 è diretto a disciplinare i rapporti tra l’attore e gli acquirenti del convenuto in relazione a una serie di specifiche ipotesi, oltre le quali all’interprete non è consentito di andare ». In breve, se la finalità della trascrizione dell’atto impugnato davanti al Tar è di « pubblicità notizia » nonché « di assicurare la


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continuità delle trascrizioni », e non — dunque— quella di impedire « l’effetto negativo comminato alla mancata trascrizione ex art. 2644 c.c. », a precludere la trascrizione della domanda di annullamento del provvedimento amministrativo sta la serie delle ragioni già ritenuta ostativa, per giurisprudenza consolidata, della trascrivibilità del ricorso giurisdizionale per l’annullamento del decreto di esproprio. Altrimenti, a precludere la stessa trascrizione basta l’esegesi dell’art. 2652 c.c.: a fronte del dualismo tra atti e provvedimenti (qui inclusi quelli giurisdizionali e amministrativi), noto al precedente art. 2645, la norma sulla trascrizione delle domande giudiziali (art. 2652) disciplina soltanto quelle rivolte contro « atti di autonomia privata » e non anche contro « quelli adottati nell’esercizio di una potestà amministrativa ». « La valenza del dato — spiega la Corte — è rafforzata dalla congiunta trattazione delle domande di “nullità e di annullamento”, con evidente riguardo alle due categorie “nullità-annullabilità”, qualificanti i vizi degli atti di autonomia privata e non certo i vizi tradizionali [...] di legittimità degli atti amministrativi ». Aggiunge la motivazione del decreto che « non si vede come potrebbero utilizzarsi [la data di trascrizione della domanda, se infra o ultra-quinquennale, e la buona o mala fede del terzo acquirente: elementi tutti previsti dalla disposizione che si sta analizzando] con riferimento ai tradizionali vizi di legittimità degli atti amministrativi ». 4. È comune acquisto della dottrina che nell’elenco offerto dall’art. 2652 c.c. « l’unico elemento comune è costituito da una generica funzione cautelare o conservativa, la quale si realizza in modo specifico con riferimento alle singole domande » (2); altri dati appaiono più nitidi: che la trascrizione dell’atto contro il quale la domanda giudiziale si dirige non è richiesta per la trascrivibilità di quest’ultima (3); e che la trasmissibilità del diritto (oggetto dell’atto o anche del processo) (4) è requisito insopprimibile poiché (nella misura in cui) la disciplina della trascrizione delle (2) TRIOLA, Della tutela dei diritti. La trascrizione, in Tratt. dir. priv., diretto da BESSONE, IX, Torino, 2000, 153. (3) TRIOLA, op. cit., 154. (4) Sembrano adatte alla circostanza le parole di PICARDI, La trascrizione delle


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domande giudiziali è intesa a dirimere il conflitto tra l’attore e l’avente causa dal convenuto che, in mancanza di un diritto trasferibile, nemmeno potrebbe sorgere. Infine, è pacifica la tassatività delle ipotesi di trascrizione della domanda giudiziale. Tutt’altro che condiviso, invece, è quanto sostiene PROTO PISANI, per il quale le diverse ipotesi che vi risultano incluse possono discriminarsi fra quelle che rientrano e quelle che non rientrano nell’ambito applicativo dell’art. 111 c.p.c., cioè della successione a titolo particolare nel diritto controverso (5). Di certo, non dirime veramente le questioni la considerazione svolta nel decreto che dà l’occasione di queste note: che « le disposizioni in materia di trascrizione distinguono tra atti, sentenze e provvedimenti », per lasciarne conseguire « che il n. 6 dell’art. 2652 disciplina le domande riguardanti i vizi [soltanto] degli “atti” di autonomia privata e non certo quelli adottati nell’esercizio di una potestà amministrativa (i provvedimenti) ». Basterebbe, infatti, replicare che tra gli « atti soggetti a trascrizione », a norma dell’art. 2643 c.c., nonché tra gli « altri atti soggetti a trascrizione » a norma dell’art. 2645 c.c., specificamente rilevante — peraltro — nella vicenda (6), sono incluse fattispecie non negoziali dentro la formula all-inclusive di « ogni altro... provvedimento »; e ciò senza dire che, occupandosi degli « effetti della domande giudiziali, Milano, 1968, 325, nt. 188, per cui « non si intende [...] negare che la successione di cui all’art. 111 cod. proc. civ. si possa presentare associata ad una autonoma e parallela vicenda sul piano sostanziale, anzi si ammette che questa sia l’ipotesi statisticamente più frequente. Si vuole semplicemente osservare che tale mutamento soggettivo di carattere sostanziale non è sempre costante e comunque, anche quando fosse una ipotesi riscontrabile, non esaurirebbe in sé il fenomeno traslativo in esame ». (5) Cfr. La trascrizione delle domande giudiziali, Napoli, 1968, 228. Questo A., in base alla personale ricostruzione, è indotto a « escludere che l’eventuale trasferimento del diritto di proprietà durante la pendenza del processo [nelle azioni costitutive] determini l’applicabilità dell’art. 111 » (op. cit., 132). La posizione è assai peculiare, massimamente coerente con determinate premesse ricostruttive ma tendenzialmente incompatibile con quella, anche qui accettata, che « nella dizione “trasferimento del diritto controverso” rientri qualsiasi posizione giuridica enucleabile dall’oggetto della controversia in atto »: cosı̀ VERDE, Profili del processo civile, I, Napoli, 2002, 227. (6) Come scrivono FERRI-ZANELLI, op. cit., 218, « il criterio da seguire è quello di vedere se da un atto o provvedimento, qualunque ne sia la natura, sgorghi uno degli effetti previsti dall’art. 2643, avendo ben presente che deve trattarsi di uno di quegli effetti nella loro identità, e non semplicemente di effetti affini » (corsivo non degli autori).


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trascrizione », l’art. 2644 evoca senz’altro come « atti » tutti quelli « enunciati nell’articolo precedente », dove nell’elenco si avvicendano « contratti », « atti », « provvedimenti » e « sentenze ». Né le diverse regolazioni (secondo la causa di annullamento e il carattere e il termine dell’acquisto) che hanno riguardo alla prevalenza o meno dei « diritti acquistati [...] dai terzi di buona fede » appaiono assolutamente incompatibili con la trascrizione (anche) della domanda di annullamento di un provvedimento amministrativo (7). Dunque, i dati finora riferiti, combinati insieme, non sono pregiudizialmente impeditivi della trascrivibilità della domanda di annullamento di un atto amministrativo illegittimo, che sia rivolta al giudice naturale di questa: ma si tratta di una possibilità che dipende dal previo riconoscimento di un atto amministrativo che, facendo conseguire alla p.a. l’altrui diritto di proprietà, tuttavia « non neghi i caratteri distintivi del concetto di trasferimento, il quale, appunto, va[da] considerato, dal lato dell’acquirente, come acquisto derivativo » (8). In altri termini, se l’originario titolare del diritto coattivamente alienato all’ente pubblico intendesse prenotare, con la trascrizione della domanda di annullamento del provvedimento traslativo, la serie degli effetti utili dell’eventuale (7) « Se la domanda è trascritta dopo cinque anni dalla data della trascrizione dell’atto impugnato, la sentenza che l’accoglie non pregiudica i diritti acquistati a qualunque titolo dai terzi di buona fede in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda. Se però la domanda è diretta a far pronunziare l’annullamento per una causa diversa dall’incapacità legale, la sentenza che l’accoglie non pregiudica i diritti acquistati dai terzi di buona fede in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda, anche se questa è stata trascritta prima che siano decorsi cinque anni dalla data della trascrizione dell’atto impugnato, purché in questo caso i terzi abbiano acquistato a titolo oneroso ». Non intendo negare che la predetta normativa dell’art. 2652, n. 6 sia funzionale agli atti negoziali e aderente alla disciplina degli stessi, ma, dovendone per forza di cose stimare la compatibilità con fattispecie diversa da quella dell’atto negoziale, il risultato è quello riferito nel testo, al quale era peraltro giunto il Tribunale. (8) PUGLIATTI, voce Acquisto del diritto, in Enc. dir., I, Milano, 1958, 511; ma, già prima, in Teoria dei trasferimenti coattivi, Messina, 1931, 13 ss.: « nulla vieta [...] di ritenere che l’ordinamento possa collegare un acquisto derivativo ad una fattispecie diversa da quella costituita da un atto di volontà del titolare », secondo l’efficace sintesi di PICARDI, op. cit., 384, che la teoria mostra di condividere.


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annullamento giudiziale, serie che potrebbe — di contro — interrompersi ove un successivo avente causa dalla p.a. procedesse alla trascrizione del suo titolo d’acquisto con anteriorità rispetto alla domanda di annullamento, non potrebbe negarsi che l’art. 111, ult. comma, c.p.c. rappresenti una fonte normativa privilegiata nel fondamento del potere di trascrizione della domanda giudiziale (9). Difatti, dovendosi applicare questa norma, e cioè consentire in linea di principio che la sentenza del giudice amministrativo spieghi sempre i suoi effetti anche contro l’avente causa dalla p.a., ove si negasse il potere di trascrizione del ricorso per l’annullamento dell’atto amministrativo presupposto, si verrebbe a determinare l’impossibilità, per l’attore (benché) vittorioso, di conseguire l’utilità reale (anche ai sensi dell’art. 35, comma 1, d.lgs. n. 80 del 1998) (10) dell’annullamento del trasferimento coattivo: l’avente causa dalla p.a., procedendo alla trascrizione del suo acquisto, assicurerebbe comunque la risoluzione in suo favore del conflitto con l’attore vittorioso. Verrebbe meno, in sostanza, l’« armonioso collegamento fra le normative contenute, rispettivamente, nel codice civile e nel codice di procedura civile » (11), da cui si può ricavare che all’efficacia della sentenza rimane esposto soltanto l’avente causa che trascrive l’acquisto dopo la trascrizione della domanda; perché — come dice Picardi — l’art. 111 c.p.c. « entra in funzione solo a condizione che sia stata precedentemente trascritta la domanda » (12). Ben altre conseguenze, invece, dovrebbero trarsi qualora il provvedimento amministrativo integrasse uno dei modi di acquisto della proprietà non propriamente derivativo. E valgano qui le argomentazioni con le quali la giurisprudenza ha sinora escluso la trascrivibilità della domanda giudiziale volta a ottenere l’annullamento del decreto di esproprio. (9) Sull’indiscussa applicazione dell’art. 111 c.p.c. al processo amministrativo v., da ultimo, Cons. Stato, V, 20 aprile 2000, n. 2424, in Foro amm., 2000, 1320. (10) « Il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto ». (11) PICARDI, op. cit., 347. (12) Cfr. op. cit., 370.


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« Fra gli atti soggetti a trascrizione, ai sensi e per gli effetti di cui agli art. 2643 ss. c.c., non possono essere ricompresi i decreti di espropriazione di beni immobili [...], con riguardo ai quali la trascrizione [...] assolve alla sola funzione di dare pubblicità all’atto amministrativo ablatorio [...], sicché questo, già opponibile erga omnes per forza propria e indipendentemente dalla trascrizione, una volta trascritto deve considerarsi conosciuto da chiunque » (13). Di conseguenza, « il ricorso giurisdizionale di annullamento del decreto di espropriazione non è suscettibile di trascrizione, non operano gli effetti della trascrizione della domanda diretta a far dichiarare la nullità del titolo di acquisto dell’accipiens e la sentenza di annullamento pronunciata nei confronti dell’espropriante-alienante non è opponibile ai successori a titolo particolare, che abbiano trascritto il loro titolo di acquisto » (14). Insomma, « la trascrizione del decreto di espropriazione per pubblica utilità non risponde a finalità di risoluzione dei conflitti previsti dall’art. 2644 c.c. Infatti il decreto di espropriazione, anche a non volerlo considerare un atto di acquisto a titolo originario, cosı̀ come sostenuto da parte della dottrina, non può indubbiamente inquadrarsi tra gli atti elencati negli artt. 2643 e 2645 c.c. La trascrizione prevista dall’art. 53 legge sull’espropriazione 25 giugno 1865 n. 2359 risponde solo a finalità di pubblicità notizia ed, eventualmente, allo scopo di assicurare la continuità della trascrizione ex art. 2650 c.c. » (15). E quindi, « pur dovendosi affermare la trascrivibilità dei provvedimenti espropriativi, quale che sia la loro forma, l’operatività dell’art. 2652 n. 6 c.c. è da escludere, in linea di principio, sia per i decreti di espropriazione per pubblica utilità, sia per i provvedimenti di esproprio emanati in base alle leggi di riforma fondiaria: in quanto ai primi atteso che l’acquisto dell’espropriante è svincolato dalla titolarità del di(13) Cass.. 23 aprile 2001, n. 5978, in Vita not., 2001, 828; conf. Cass., 4 agosto 2000, n. 10229, in Urb. e app., 2000, 1218. (14) Cass., 1o febbraio 2002, n. 1289, in Giust. civ., 2002, I, 2808. (15) Cass., 26 marzo 1977, n. 1190, in Riv. dir. ipotecario, 1979, 43; si veda ora l’art. 23, comma 2, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 327, recante « Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità » (inapplicabile ratione temporis alla vicenda in esame).


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ritto da parte dell’espropriato, in ordine ai secondi considerato che la titolarità del bene, da parte dell’espropriato, costituisce elemento di “validità” del provvedimento » (16). 5. Volendo trasfondere il precipitato di queste notazioni nella fattispecie da cui abbiamo preso le mosse, vi è che il soggetto reclamante (Bagnolifutura S.p.a.) gioca nel relativo procedimento in camera di consiglio l’« incontestato » ruolo di successore a titolo particolare a norma dell’art. 111 c.p.c., in quanto tale dotato del potere di impugnare il provvedimento già reso in primo grado (anche) nei confronti del suo dante causa (Comune di Napoli). Anzi, il suo interesse ad agire sta proprio nella capacità del decreto (confermativo della trascrizione della domanda giudiziale) di « spiegare sempre i suoi effetti anche contro il successore a titolo particolare » (17); se cosı̀ non fosse, oscura si farebbe la condizione in parola (art. 100 c.p.c.) (18). Difatti, se gli effetti della trascrizione della domanda di annullamento proposta al Tar, e che sono stati sanciti dal decreto del Tribunale, mai potessero giungere ad assicurare la successiva prevalenza del diritto (di proprietà) dell’attore (vittorioso) in annullamento sopra il diritto dell’avente causa dalla p.a. convenuta, verrebbe da chiedersi qual è l’interesse che sostiene l’azione (autonomamente) proposta dall’avente causa (mediante il reclamo) per impedire la trascrizione della domanda di annullamento (annullamento che, sebbene pronunciato, in nessun caso potrebbe vedere pregiudicato il suo acquisto). In altre parole: se l’acquisto dell’avente causa dalla p.a. convenuta davanti al Tar è destinato a prevalere sempre sul diritto dell’originario proprietario (attore presso la giustizia amministrativa), perché mai all’avente causa dovrebbe riconoscersi interesse (16) Cass., Sez. un., 17 novembre 1978, n. 5341, in Giust. civ., 1979, I, 238. (17) Cfr. VERDE, op. cit., 223. (18) Tanto più che l’interesse generale alla corretta applicazione delle norme sulla trascrizione e la tutela della relativa funzione sociale è affidata dalla legge al P.M., interveniente necessario. Per l’esplicita estensione dell’art. 100 c.p.c. ai procedimenti in camera di consiglio v. App. Perugia 25 febbraio 1998, in Giur. merito, 1999, 243, con nota di MORANI.


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a contestare in giudizio il decreto che ha ammesso la trascrizione della domanda giudiziale non potendo quello stesso soggetto riceverne pregiudizio reale (19)? Che, però, l’ipotesi della prevalenza dell’acquisto dell’avente causa dalla p.a. sopra il primo proprietario sia quella esatta, dipende interamente dalla qualificazione del procedimento in applicazione del quale il trasferimento della proprietà immobiliare è avvenuto a favore del Comune di Napoli e, dopo, della S.p.a. di Trasformazione urbana: a) se il procedimento è di espropriazione in senso stretto (20), è giusto cosı̀, e il diritto dell’originario pro(19) Se la fattispecie acquisitiva del terzo avente causa dalla p.a. convenuta in giudizio di annullamento del provvedimento amministrativo vede in quest’ultimo atto la interruzione del nesso di pregiudizialità-dipendenza dal diritto dell’originario proprietario (poiché l’esistenza del diritto in capo all’espropriato è inessenziale e i poteri inerenti i diritti sulla cosa si convertono tutti in pretesa pecuniaria) « la sentenza emanata nei confronti del dante causa non può esplicare alcuna efficacia [neppure] riflessa nei confronti del terzo acquirente » (cosı̀ PICARDI, op. cit., 389): l’avente causa che non subisce pregiudizio diretto per difetto di anteriore trascrizione della domanda giudiziale nei confronti del suo dante causa (ma, secondo PROTO PISANI, op. cit., 270, anche la trascrizione della domanda determinerebbe al più efficacia riflessa della sentenza), e non subisce pregiudizio neppure riflesso se il diritto di cui si è reso acquirente dal suo dante causa prescinde dall’esistenza di quello pretesamente ablato al proprietario-attore (non si pone quale « derivazione diretta » di questo, per dirla con Cass., 13 agosto 1985, n. 4432), è un « terzo del tutto indifferente », aggiunge PICARDI, op. cit., 389, nt. 94, terzo che « non è legittimato ad esperire alcun mezzo di impugnazione contro la pronuncia emessa nei confronti del suo dante causa » (sic). Peraltro, anche secondo PROTO PISANI, op. cit., 328, i terzi aventi causa dal convenuto che non siano da considerare per l’A. successori a titolo particolare nel diritto controverso (quali gli acquirenti del diritto di proprietà da dante causa convenuto per l’annullamento dell’atto d’acquisto presupposto), non sono legittimati a proporre impugnazione in via autonoma. Come può notarsi, la condizione dell’azione adoperata quale discriminante (dagli autori citati in questa nota) è quella della legittimazione; ma oltre nel testo sarà apprezzato il ruolo, nella medesima tensione finalistica, anche dell’altra, l’interesse ad agire. Però, come scrive CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile, II, Padova, 2004, 246, « l’interesse alla impugnazione è costituito dalla soccombenza [...]. A stretto rigore non si tratta qui di interesse ad agire ma piuttosto di una questione di titolarità del potere impugnatorio (e cosı̀, in senso lato, di legittimazione) ». (20) « La pluralità di leggi di settore, intervenute a disciplinare le espropriazioni in materie specifiche, ha determinata una tendenza per la quale l’espropriazione non è stata valutata come materia a sé stante, ma come procedimento strumentale »: CONTICELLI, L’espropriazione, in Tratt. dir. amm., a cura di CASSESE. Diritto amministrativo speciale, 2, Milano, 2000, 1466; conf. CARANTA, Espropriazione per pubblica utilità, in Enc. dir., Agg. V, Milano, 2001, 420. La tradizionale definizione di « espropriazione »,


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prietario godrà semplicemente della tutela riservatagli dall’art. 25 del t.u. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità (21); b) altrimenti, salvo che la legge in questione non abbia determinato un nuovo modo di acquisto della proprietà (e i dati lessicali sono obiettivamente equivoci, né vale ai nostri fini analizzarli), l’annullamento dell’atto illegittimamente ablativo determinerebbe la necessità per la p.a. di tornare in proprietà dell’immobile solo mediante uno degli altri e predeterminati modi legislativi attraverso i quali la stessa si trasferisce (art. 922 c.c.): ma da ciò deriverebbe che la soluzione del conflitto tra l’attore vittorioso e colui che (medio tempore) si è reso avente causa dalla p.a. non potrebbe che trovare nelle « norme [...] sulla trascrizione » (come recita l’art. 111, ult. comma, c.p.c.) il suo principio (22); e lı̀, una volta ammessa la trascrizione del primo acquisto con la sequela di effetti abituali (non trattandosi di provvedimento espropriativo), più non si potrebbe negare la trascrizione della domanda giudiziale avverso l’atto di acquisto con i (parimenti abituali) effetti impeditivi della salvezza del diritto del secondo acquirente. L’alternativa sembra questa: o la natura espropriativa del provvedimento concretamente trascritto (trascrizione, forse, non operabile neppure ai sensi dell’art. 2645 c.c., ma di altra e speciale base legislativa) preclude la trascrizione della domanda giudiziale intesa al suo annullamento, ma con questa preclusione si renderebbe critico il riconoscimento dell’interesse ad agire (nella fattispecie, in sede di reclamo) del successore a titolo particolare; che risale a Zanobini, è quella di « un istituto di diritto pubblico in base al quale un soggetto, previo giusto indennizzo, può essere privato del diritto di proprietà che ha sopra una cosa a favore di un soggetto diverso, quando ciò sia richiesto da esigenze di pubblico interesse » (CUGURRA, Espropriazione per pubblica utilità, in Dizionario amministrativo2, coordinato da GUARINO, I, Milano, 1983, 877). (21) « 1. L’espropriazione del diritto di proprietà comporta l’estinzione automatica di tutti gli altri diritti, reali o personali, gravanti sul bene espropriato, salvo quelli compatibili con i fini cui l’espropriazione è preordinata. 2. Le azioni reali e personali esperibili sul bene espropriando non incidono sul procedimento espropriativo e sugli effetti del decreto di esproprio. 3. Dopo la trascrizione del decreto di esproprio, tutti i diritti relativi al bene espropriato possono essere fatti valere unicamente sull’indennità ». (22) Sull’applicazione dell’art. 111 c.p.c. al processo amministrativo v. di recente e tra molte Cons. Stato, Sez. V, 20 aprile 2000, n. 2424, in Foro amm., 2000, 1320.


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ovvero la natura pienamente derivativa dell’acquisto trascritto (sı̀, questa volta, a norma dell’art. 2645 c.c.) non preclude la trascrizione della domanda giudiziale, cosı̀ potendosi dare ragione dell’interesse ad agire del successore a titolo particolare. Non è coniugabile, allora, l’interesse ad agire ex art. 113-ter disp. att. c.p.c. del successore a titolo particolare con il divieto di trascrizione della domanda giudiziale proposta contro il dante causa (23)? In realtà, l’avvenuta trascrizione di domanda non sottoposta per legge a questa formalità è senz’altro fonte di « danni risarcibili » eventualmente anche nei confronti del terzo avente causa, poiché la trascrizione « fa sempre sorgere uno stato di incertezza e di dubbio che è di per sé un fatto nocivo » (24). Non si può dubitare, per questo, che l’interesse ad agire per conseguire il risarcimento del danno sussiste in capo all’avente causa cui pure faccia difetto l’interesse ad agire per conseguire la cancellazione di una trascrizione di per sé improduttiva di effetti reali pregiudizievoli. Trattandosi di « risarcimento », questo risulta, anche « in parte », possibile « in forma specifica » (2058 c.c.), cioè mediante cancellazione della trascrizione. Ed è stato già riconosciuto come sia ammissibile richiedere in un giudizio autonomo (rispetto a quello originato dalla domanda trascritta) l’ordine in tal senso previsto dall’art. 2668 c.c. (25), opinando che « il legislatore ha (23) Anche l’art. 113-ter disp. att. c.c. discorre, quanto ai titolati a partecipare al procedimento in camera di consiglio che scaturisce dalla riserva apposta dal Conservatore di « parti interessate »; ma è ben certo che altro è l’interesse da cui può derivare il diritto processuale di essere « sentito », disciplinato appunto nel procedimento in questione in maniera specifica, altro è l’interesse che occorre per promuovere un qualunque procedimento giurisdizionale. (24) FERRI-ZANELLI, op. cit., 315 s. Peraltro, l’attore può sempre consentire alla cancellazione della trascrizione della domanda senza per questo dover rinunciare anche all’azione: v. in tal senso TRIOLA, op. cit., 291. (25) Cfr. Cass., 7 giugno 1974, n. 1706, in Giur. it., 1975, I, 1, 1682; Cass., 30 giugno 1982, n. 3933, in Foro it., 1983, I, 1044, dove si legge pure che « la istanza di cancellazione della trascrizione illegittima di una domanda giudiziale, perché effettuata fuori dei casi previsti dalla legge (nella specie, si era trascritta la domanda di adempimento dell’obbligo di pagare una somma di denaro, in esecuzione della transazione stipulata fra le parti), ben può essere proposta in autonomo giudizio, quando è ancora


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espressamente previsto la cancellazione delle domande la cui trascrizione sia legittima, a maggior ragione deve potersi disporre la cancellazione delle trascrizioni eseguite al di fuori delle ipotesi consentite » (26). È nota però l’opinione, resistente agli attacchi che pure viene subendo dal sistema e dalla sua evoluzione (27), circa l’impraticabilità per via cautelare dell’ordine in questione, stante la chiara imputazione della capacità di ordinare la cancellazione unicamente alla « sentenza passata in giudicato »; ma l’identità di contenuto degli ordini da dirigere al Conservatore (quello positivamente stabilito per la cancellazione della trascrizione di domanda definitivamente accertata come infondata e quell’altro — non espressamente disciplinato — di cancellazione della trascrizione indebita della domanda, fondata o meno che sia) non impedisce di riconoscere che, nel caso di trascrizione di domanda non sottoposta per legge a questa formalità, la stessa è illegittima, mentre rimane pienamente legittima, quando la formalità sia prevista per legge, nonostante ogni successiva dichiarazione di infondatezza. Sennonché, la ratio decidendi della recente sentenza della Corte costituzionale 6 dicembre 2002, n. 523 (28) va nel senso della coerenza sistematica dell’art. 2668 c.c., e della inerente previsione di una cancellazione eseguibile solo dopo che si sia formato il giudicato d’infondatezza della domanda, limitatamente alle domande la cui trascrizione sia « imposta dalla legge: [soltanto] la trascrizione di tali domande non risente delle vicende del processo e viene meno solo quando l’infondatezza sia stata definitivamente sancita con sentenza passata in giudicato ». Come a dire: altro è il caso della cancellazione di quelle domande che né « si devono trascrivere » (art. 2652 c.c.), né si sarebbero potute pendente il processo instaurato con la domanda illegittimamente trascritta »; Cass., 21 febbraio 1991, n. 1859. (26) TRIOLA, op. cit., 294. (27) Cfr. RONCO, Distonie tra cautele processuali ed extraprocessuali: in tema di restrizione e cancellazione di ipoteca, in Giur. it., 1996, I, 2, 305; CONTE, Provvedimento d’urgenza, ordine di cancellazione della trascrizione di domanda giudiziale ictu oculi infondata e incostituzionalità dell’art. 2668 c.c., in Corr. giur., 2001, 931. (28) In Foro it., 2003, I, 1972, con osservazioni di GAMBINERI.


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trascrivere, giustificando cosı̀ la diversa soluzione secondo la quale è ordinabile per via cautelare (almeno) la cancellazione della trascrizione (quando) eseguita fuori dei casi previsti dalla legge (29). Se è vero, allora, che « con sentenza passata in giudicato », e non prima, si deve ordinare la cancellazione « delle domande enunciate dagli articoli 2652 e 2653 », per quelle ivi non enunciate (eppure trascritte ugualmente) è la via dell’ordinario processo di cognizione, senza esclusione di poteri cautelari del giudice, che può assicurare il risultato utile prima ancora che « la domanda [trascritta] sia rigettata ». Ma l’interesse ad agire dell’avente causa dal convenuto dopo che l’attore abbia trascritto la domanda fuori dei casi previsti dalla legge non può essere altro dall’interesse ad agire per la condanna (almeno) del Conservatore (e dello Stato ex art. 28 Cost.) (30) al (29) Cosı̀ Cass., Sez. un., 30 settembre 1989, n. 3447, in Foro it., 1991, I, 600, in cui testualmente si legge: « Né, al fine di superare le precedenti osservazioni vale fare richiamo a Cass. 18 gennaio 1986 n. 251, che ha ammesso il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. avverso il provvedimento di cancellazione della trascrizione di una delle domande indicate negli am. 2652 e 2653, sulla base del rilievo che l’art. 2668, comma 1, c.c. prevede che tale cancellazione può essere ordinata giudizialmente con sentenza passata in giudicato, sicché ove la stessa sia ordinata con provvedimento d’urgenza lo stesso costituisce un provvedimento abnorme di contenuto decisorio e definitivo. E infatti sufficiente osservare che la sentenza n. 251 del 1986 detta una regola di giudizio in relazione ad una situazione di fatto diversa da quella in esame, dal momento che la trascrizione di cui è stata ordinata la cancellazione con il provvedimento ora impugnata non riguardava le “domande enunciate dagli artt. 2652 e 2653” c.c., con la conseguenza che proprio il carattere eccezionale dell’art. 2668, comma 1, c.c. — ove si dovesse accedere all’interpretazione fornita dalla richiamata pronuncia, la cui fondatezza questa Corte è dispensata dall’esaminare — finisce per confermare, per altra strada, il carattere non decisorio e non definitivo di provvedimenti d’urgenza con i quali si disponga la cancellazione di trascrizioni di domande giudiziali diverse da quelle previste dai richiamati artt. 2652 e 2653 c.c. ». Identicamente orientati sono, di recente, Trib. Brindisi 25 marzo 2002, in Danno e resp., 2003, 252, con nota di PALMIERI; Trib. Siracusa, 2 febbraio 2001, in Giur. merito, 2002, 43; Trib. Milano, 22 febbraio 2001, in Giur. it., 2001, 1155; Trib. Roma, 29 dicembre 1998, in Foro it., 2000, I, 1325, con osservazioni di GAMBINERI; Trib. Roma, 19 settembre 1995, in Riv. dir. proc., 1997, 1239, con nota di PICOZZA; Pret. Milano, 1o febbraio 1991, in Foro pad., 1993, I, 69, con nota di SICCHIERO. (30) Scrivono FERRI-ZANELLI, op. cit., 476 s., che « se invece venga trascritto [...] un mutamento giuridico non sottoposto a pubblicità [...] il danno non deriva dalla tra-


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(la cancellazione quale) risarcimento del danno (in forma specifica) per il fatto (istantaneo) della avvenuta trascrizione che cagiona un danno ingiusto (permanente), e non per l’accertamento dell’inesistenza dell’altrui diritto soggettivo alla trascrizione: chi nega che l’atto è previsto dalla legge (31), non potrebbe affermare che esso è in grado di provocare pregiudizio reale del proprio acquisto dato che la relativa trascrizione sarà sı̀ posteriore, ma rispetto a un’« inutile » (32) trascrizione della domanda. Questo interesse, a bene osservare, è esattamente speculare a quello di chi, avendo richiesto la registrazione pubblicitaria e ottenuto, di contro, l’apposizione della riserva, insta per l’adempimento dell’obbligo del Conservatore di eseguire le formalità senza riserva: si tratta di una condanna, invero, da cui non è implicato alcun accertamento circa il suo diritto di trascrivere nei confronti del convenuto. Eppure, nonostante la specularità delle posizioni, le modalità d’azione nei due casi non coincidono. Mentre il richiedente la trascrizione, se vuole evitare ogni pregiudizio che possa occorrere al suo diritto alla trascrizione stessa durante il tempo occorrente a farlo valere in via ordinaria, rimane onerato di (e legittimato in esclusiva ad) agire a norma dell’art. 2674-bis c.c., cioè nelle forme, sanzionate da decadenza, del procedimento in camera di consiglio, viceversa chi si oppone alla trascrizione senz’altro eseguita (33) può ottenere una protezione provvisoria secondo forme alternative, non escluse la partecipazione al procedimento camerale che viene qui in rilievo. Il risultato pratico conseguibile all’esito del procedimento delineato dall’art. 113-ter disp. att. c.c. può, insomma, secondare

scrizione come tale, perché essa è inutile e di niun effetto », assumendo che vi sia titolo per agire « contro chi richiese la trascrizione ». (31) « Atto ricognitivo », secondo MALTESE, voce Registri immobiliari, in Enc. dir., XXXIX, Milano, 1988, 472. (32) « Inutile è la trascrizione di un atto che per legge non vi sia soggetto »: FERRI-ZANELLI, op. cit., 424. (33) Effetto da ritenersi pro iam nato dopo che il Tribunale abbia accolto il reclamo in primo grado.


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l’uno e l’altro degli interessi opposti (34), che riguardano — in ogni caso — soltanto il piano degli effetti obbligatori per il Conservatore. Certo, la funzione cautelare riconoscibile nel procedimento (35) non esclude che le « parti interessate » (alla cancellazione) e che neppure hanno legittimazione ad agire finché la trascrizione non si possa dire tale senz’altro (36), utilizzino, ove rimaste definitivamente estranee al procedimento de quo, un autonomo procedimento a struttura (oltre che, semplicemente, funzione) cautelare, questo sembrando loro innegabile per Costituzione. Altrimenti, basteranno allo scopo le utilità recate dal (34) Si noti che oggetto ne è, a norma dell’art. 2674-bis c.c., la « trascrivibilità di un atto », cioè l’« astratta appartenenza dello stesso a un modello con riferimento al quale la trascrizione è prevista » TRIOLA, op. cit., 280. (35) Viene frequentemente ripetuto in giurisprudenza che « il provvedimento della Corte di appello, con il quale si conclude, a norma dell’art. 2674-bis c.c. e 113-ter disp. att. stesso codice, il procedimento sul reclamo proposto avverso la trascrizione o l’iscrizione con riserva al fine di conservare gli effetti della formalità, non è impugnabile con il ricorso per Cassazione a norma dell’art. 111 Cost., trattandosi di un procedimento lato sensu cautelare, a contraddittorio non pieno, nel quale le parti interessate, ai sensi del cit. art. 113-ter, vengono semplicemente sentite, diretto a far sı̀ che, nel caso in cui sorgano gravi e fondati dubbi sulla trascrivibilità o iscrivibilità di un determinato atto, l’interessato possa ottenere, in via provvisoria, l’attuazione della pubblicità immobiliare, ed il cui oggetto è il solo accertamento della gravità e fondatezza dei dubbi in questione, essendo la definitiva pronuncia sulla sussistenza del diritto e sull’effettuazione della pubblicità, rimessa ad un eventuale giudizio contenzioso » (Cass., 23 agosto 1997, n. 7940). Sui limiti del giudizio camerale in materia di trascrizioni e iscrizioni, rispetto al giudizio ordinario, si v. anche l’art. 113, comma 3, disp. att. c.c.: trattasi di norma che, nel disciplinare il reclamo menzionato nell’art. 2888 del codice, dispone che « il tribunale o la corte può ordinare che la domanda di cancellazione sia proposta nelle forme ordinarie in contraddittorio delle persone che ritiene abbiano interesse contrario alla cancellazione medesima ». Si è di fronte al modello concettuale quasi replicato, di recente, nell’art. 32 d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, sul quale, per tutti, v. ARIETA-DE SANTIS, Diritto processuale societario, Padova, 2004, 508 ss.: questi AA. ricostruiscono sistematicamente i rapporti tra le due forme di tutela, camerale e ordinaria, come generalmente contingue, in cui vi sarebbe obbligo di trasformare il procedimento da camerale in ordinario, a determinate condizioni, anche di là di espresse previsioni legislative (cfr. p. 464, nt. 21). Giustamente, FERRI, La disciplina dei procedimenti in camera di consiglio nel decreto legislativo societario, in Riv. dir. proc., 2003, 702, a proposito della norma di recente introduzione, osserva « come essa non rappresenti in assoluto una novità ». (36) L’art. 2674-bis, comma 2, c.c. assegna la legittimazione a promuovere il procedimento davanti al Tribunale esclusivamente alla « parte a favore della quale è stata eseguita la formalità con riserva ».


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procedimento in camera di consiglio in cui possono assumere la qualità di parte. Anche nella prospettiva dell’economia di mezzi, dunque, il decreto annotato appare meritevole di approvazione. FERRUCCIO AULETTA


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IL DIFFICOLTOSO INQUADRAMENTO DEL REGIO DECRETO 17 AGOSTO 1907, N. 642, RECANTE IL « REGOLAMENTO PER LA PROCEDURA DINANZI AL CONSIGLIO DI STATO IN SEDE GIURISDIZIONALE », TRA LE FONTI DEL DIRITTO PRIMARIE O SECONDARIE

SOMMARIO: 1. Presentazione della questione affrontata: il r.d. 17 agosto 1907, n. 642 è una fonte del diritto primaria o secondaria? — 2. Inquadramento del r.d. n. 642 del 1907 nella successione cronologica degli atti normativi istitutivi del sistema italiano di giustizia amministrativa. — 3. Disparità di vedute nella giurisprudenza costituzionale e nella dottrina in ordine alla natura primaria o secondaria del r.d. n. 642 del 1907. — 4. Sintetica ricostruzione del sistema delle fonti del diritto in vigore al principio del XX secolo, con particolare riferimento ai poteri normativi del governo passibili di tradursi in regolamenti di esecuzione, regolamenti delegati e leggi delegate. — 5. Soluzione della questione affrontata: il r.d. n. 642 del 1907 è un regolamento delegato, riconducibile tra le fonti del diritto secondarie. — 6. Disamina più approfondita della giurisprudenza costituzionale: ridimensionamento del peso delle pronunce in cui il Giudice delle leggi pare aver attribuito al r.d. n. 642 del 1907, sia pure implicitamente, natura primaria. — 7. Osservazioni critiche sulla adesione, da parte dell’ordinanza della Quarta Sezione del Consiglio di Stato 17 aprile 2000, n. 2292, alle pronunce con cui la Corte costituzionale pare aver qualificato il r.d. n. 642 del 1907, sia pure implicitamente, come fonte del diritto primaria. — 8. Riepilogo delle ragioni a supporto della soluzione proposta.

1. Le regole che presiedono all’istruzione probatoria del processo amministrativo sono in gran parte contenute, ancora oggi, nel Titolo II (« Dell’istruzione ») del r.d. 17 agosto 1907, n. 642, recante « Regolamento per la procedura dinanzi al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale ». Le disposizioni intervenute successivamente in tema di istruzione probatoria si sono essenzialmente limitate ad ampliare lo spettro dei mezzi di prova consentiti nel processo amministrativo, senza incidere sulle modalità procedurali della loro assunzione. Dir. Proc. Amm. - 3/2004


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Cosı̀, l’art. 16 della l. 28 gennaio 1977, n. 10 ha consentito al giudice amministrativo di disporre « le perizie di cui all’art. 27 r.d. 17 agosto 1907, n. 642 » nelle controversie relative al rilascio o al diniego di concessione edilizia, alla determinazione e liquidazione del contributo di concessione edilizia, alle sanzioni irrogabili in materia edilizia. Allo stesso modo, l’art. 35, comma 3, del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, a seguito della riformulazione operata dall’art. 7 della l. 21 luglio 2000, n. 205, permette al giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, di « disporre l’assunzione dei mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile, nonché della consulenza tecnica d’ufficio », con le sole esclusioni del giuramento e della confessione. La stessa sentenza « additiva » della Corte costituzionale 23 aprile 1987, n. 146 (1) ha consentito al giudice amministrativo, nell’ambito delle controversie in materia di pubblico impiego (all’epoca integralmente devolute alla sua giurisdizione esclusiva), di disporre l’assunzione di tutti i mezzi di prova previsti nel processo del lavoro (privato). Da ultimo, l’art. 1, comma 2, della l. n. 205 del 2000 — che ha novellato l’art. 44, comma 3, del r.d. 26 giugno 1924, n. 1054 (recante, come è noto, « Approvazione del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato ») — e l’art. 16 della stessa l. n. 205 del 2000 — che ha novellato l’art. 44, comma 1, del medesimo regio decreto — si sono sostanzialmente limitati a « generalizzare » la consulenza tecnica d’ufficio, ora ammessa anche nella giurisdizione generale di legittimità. Tuttavia, le leggi che hanno progressivamente esteso il novero dei mezzi di prova consentiti nel processo amministrativo hanno sempre trascurato il profilo squisitamente procedurale, il quale, pertanto, risulta ancora oggi disciplinato in larga parte dagli artt. da 26 a 35 del r.d. n. 642 del 1907. La perdurante vigenza del r.d. n. 642 del 1907, mai messa in (1) In questa Rivista, 1987, 558 ss., con note di A. TRAVI, Garanzia del diritto di azione e mezzi istruttori nel giudizio amministrativo, di C.E. GALLO, Prova testimoniale e processo amministrativo di giurisdizione esclusiva, di F. SAITTA, Nuovi orientamenti in tema di mezzi di prova nel contenzioso sul pubblico impiego.


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dubbio, si desume dall’art. 19, comma 1, della l. 6 dicembre 1971, n. 1034 (recante, come è noto, « Istituzione dei tribunali amministrativi regionali ») e dall’art. 35, comma 3, del d.lgs. n. 80 del 1998 (nella versione riscritta dall’art. 7 della l. n. 205 del 2000, che è peraltro letteralmente identica alla versione originaria). L’art. 19, comma 1, della l. n. 1034 del 1971 prevede che « nei giudizi davanti ai tribunali amministrativi regionali, fino a quando non verrà emanata apposita legge sulla procedura, si osservano le norme di procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, in quanto non contrastanti con la presente legge ». La legge istitutiva dei tribunali amministrativi regionali, pur rinviando, per il futuro, ad una « apposita legge sulla procedura » (mai approvata), opera, per il presente, un esplicito rinvio alle « norme di procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato », contenute in gran parte nel r.d. n. 642 del 1907. L’art. 35, comma 3, del d.lgs. n. 80 del 1998 prevede che « l’assunzione dei mezzi di prova » introdotti nella giurisdizione esclusiva (id est, di tutti i mezzi di prova ammessi nel processo civile, nonché della consulenza tecnica d’ufficio, con le sole eccezioni del giuramento e della confessione) sia disciplinata dal « regolamento di cui al r.d. 17 agosto 1907, n. 642 ». Dunque, anche la disposizione in parola, all’atto di ampliare il catalogo dei mezzi di prova consentiti nella giurisdizione esclusiva, ha operato un esplicito rinvio alle modalità di « assunzione » definite nel r.d. n. 642 del 1907. Assodato che il r.d. n. 642 del 1907 (è ancora in vigore e) reca le norme « per la procedura dinanzi al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale »; assodato altresı̀ che tali norme risultano applicabili anche « nei giudizi davanti ai tribunali amministrativi regionali » ai sensi dell’art. 19, comma 1, della l. n. 1034 del 1971, si tratta ora di inquadrare il regio decreto in parola nell’ambito del sistema delle fonti del diritto. Si tratta, in altri termini, di individuare il suo rango, primario o secondario: il r.d. n. 642 del 1907 è una fonte primaria ovvero una fonte secondaria del diritto? La questione, tutt’altro che oziosa, è invece gravida di implicazioni pratiche della massima importanza.


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Infatti, la soluzione che qualificasse il r.d. n. 642 del 1907 come regolamento governativo (e, quindi, gli riconoscesse natura secondaria) implicherebbe un sindacato diffuso sulla legittimità anche costituzionale del regolamento di procedura: sindacato che verrebbe svolto, evidentemente, dagli stessi giudici amministrativi di primo e di secondo grado, mediante l’istituto della disapplicazione. Cosı̀, ciascun giudice amministrativo potrebbe trovarsi a disapplicare una o più norme di procedura che ritenesse costituzionalmente illegittime. Una soluzione siffatta originerebbe risultati pratici dirompenti in termini di incertezza applicativa: una stessa norma di procedura potrebbe essere ritenuta legittima (sotto il profilo della sua compatibilità costituzionale) da un giudice amministrativo e illegittima (in quanto difforme dagli stessi canoni costituzionali) da un altro giudice amministrativo, in un quadro che verrebbe a comporsi intorno al pericoloso binomio minima certezza del diritto e massima incertezza applicativa. Né si potrebbe pensare, al fine di rifuggire da una simile deriva (e, quindi, di assicurare quel minimo di certezza che deve essere connaturato al funzionamento dei meccanismi processuali), di investire comunque la Corte costituzionale di una questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto una o più norme di procedura: il loro rango secondario determinerebbe inevitabilmente la inammissibilità della questione, alla luce dell’art. 134 Cost. che, come è noto, limita il sindacato della Corte costituzionale alle leggi, statali e regionali, e agli atti aventi forza di legge (2). (2) Cfr., da ultimo, Cons. Stato, Sez. IV, 17 ottobre 2003, n. 6335, in sito internet www.dirittodeiservizipubblici.it, in cui, citandosi la giurisprudenza costituzionale più recente, si afferma che le censure di illegittimità costituzionale sono inammissibili « in quanto rivolte avverso... disposizioni regolamentari », « alla stregua del costante insegnamento della Corte costituzionale, secondo cui il giudizio di legittimità costituzionale di norme aventi natura regolamentare eccede i limiti della giurisdizione della Corte, secondo la definizione che di questa è data dall’art. 134 Cost., il quale la limita al caso dell’illegittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge ». Aggiunge la sentenza che « peraltro, il pieno esplicarsi della garanzia della Costituzione nel sistema delle fonti — con particolare riferimento a quelle di valore regolamentare... — non è pregiudicato dall’anzidetta limitazione della giurisdizione del giudice costituzio-


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DIRITTO PROCESSUALE AMMINISTRATIVO

Al contrario, la soluzione che qualificasse il r.d. n. 642 del 1907 come atto avente forza di legge (decreto legislativo o, come soleva dirsi più frequentemente all’epoca della sua emanazione, legge delegata) precluderebbe al giudice amministrativo di svolgere un sindacato diffuso sulla legittimità anche costituzionale delle norme di procedura e gli consentirebbe di investire la Corte costituzionale dei dubbi di costituzionalità che dovessero affiorare. Questa seconda impostazione garantirebbe, come è agevole notare, un irrobustimento significativo del tasso di certezza del diritto e un correlato affıevolimento del grado di incertezza applicativa, in un quadro di maggiore aderenza al canone costituzionale del « giusto processo regolato dalla legge » (art. 111, comma 1, Cost., introdotto dall’art. 1 della l. cost. 23 novembre 1999, n. 2). Occorre tuttavia verificare se la soluzione più opportuna e più in linea con le odierne coordinate costituzionali sia anche giuridicamente sostenibile. Infatti, la circostanza che un approdo interpretativo implichi risultati pratici più rassicuranti (o meno dirompenti) rispetto ad altro approdo non vale, da sola, a rendere il primo preferibile al secondo. E se l’interprete si muovesse soltanto in base a tale ragionamento (destinato per di più a rimanere inconfessato ed inconfessabile) darebbe vita, presumibilmente, ad un sentiero argomentativo poco convincente. Inoltre, trattandosi di riconoscere al r.d. n. 642 del 1907 natura primaria o secondaria (e cioè, in termini più generali, di inquadrare una fonte del diritto statale tra quelle primarie — leggi o atti aventi forza di legge — ovvero tra quelle secondarie — regolamenti governativi), non può soccorrere il criterio dell’interpretazione costituzionalmente orientata, capace di indirizzare l’interprete verso la norma (tra quelle cui dà adito una disposizione) nale, in quanto la relativa garanzia è da ricercare... nel controllo di legittimità del regolamento... demandato al giudice ordinario e al giudice amministrativo, nell’ambito dei poteri ad essi spettanti, controllo che può condurre... alla disapplicazione o all’annullamento del regolamento ».


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che presenta maggiore aderenza rispetto al paradigma costituzionale. Infatti, trattandosi di inquadrare il r.d. n. 642 del 1907 nel sistema delle fonti del diritto vigente all’epoca della sua emanazione, al fine di stabilire se siamo al cospetto di un regolamento delegato (o autorizzato) ovvero di una legge delegata, l’individuazione della sua esatta natura non può che avvenire sulla base del sistema delle fonti del diritto come si presentava a quel tempo, dovendosi per questa ragione escludere la possibilità di attingere al criterio ermeneutico dell’interpretazione secundum constitutionem, incapace di produrre alcuna novazione delle fonti di produzione giuridica risalenti ad un’epoca precostituzionale (id est, di elevare a fonte di rango sovraordinato una fonte che, avuto riguardo al sistema in vigore al tempo della sua emanazione, si collocava ad un livello subordinato). Chiarita, con una notazione di carattere preliminare e metodologico, la correttezza dell’approccio che trascura sia le questioni di pura opportunità, in quanto questioni inidonee per loro natura ad influire sulle operazioni ermeneutiche (e, quindi, a supportarle in modo convincente), sia il criterio dell’interpretazione costituzionalmente orientata, in quanto inapplicabile onde ricostruire il rango primario o secondario di una fonte venuta ad esistenza in epoca precostituzionale, si procede anzitutto ad inquadrare il r.d. n. 642 del 1907 nella successione cronologica degli atti normativi che, a partire dalla fine del secolo XIX, hanno progressivamente edificato il nostro sistema di giustizia amministrativa, imprimendogli quei connotati essenziali che ancora oggi ne contraddistinguono la fisionomia. 2. Si tratta di ripercorrere il succedersi degli atti normativi che hanno interessato la giustizia amministrativa tra la fine del secolo XIX e l’inizio del secolo XX, nonché di comprendere i nessi intercorrenti tra gli uni e gli altri. Il 22 novembre 1887 Francesco Crispi, all’epoca Presidente del Consiglio dei Ministri, presentava al Senato il disegno di legge « Modificazioni della legge sul Consiglio di Stato » che —


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riveduto ed emendato in sede parlamentare — divenne poi la l. 31 marzo 1889, n. 5992, pubblicata nella Gazzetta Uffıciale del Regno del 1o aprile 1889, n. 78: si tratta, come è noto, della legge istitutiva della Quarta Sezione del Consiglio di Stato (3). (3) Per l’illustrazione del quadro politico-istituzionale nel quale venne approvata la l. n. 5992 del 1889, si vedano A. BARUCCHI, La creazione della IV Sezione del Consiglio di Stato, in Scritti in onore di Elio Casetta, Napoli, 2001, 169 ss.; N. PAOLANTONIO, L’istituzione della IV Sezione del Consiglio di Stato attraverso la lettura degli atti parlamentari, in Quad. dir. proc. amm., Milano, 1991; V. SCIALOIA, Come il Consiglio di Stato divenne organo giurisdizionale, in Riv. dir. pubbl., 1931, 407 ss.; O. RANELLETTI, Le guarentigie della giustizia nella pubblica amministrazione, V ed., Milano, 1936, 383 ss.; V.E. ORLANDO, La giustizia amministrativa, in Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, a cura di V.E. ORLANDO, vol. III, Milano, 1901, 633 ss.; V. E. ORLANDO, La giustizia amministrativa, in Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, a cura di V.E. ORLANDO, vol. III, II ed., Milano, 1923, 3 ss.; Discorso inedito di Silvio Spaventa per l’inaugurazione della IV Sezione, in Riv. dir. pubbl., 1909, I, 289 ss.; F. BO, La difesa giurisdizionale contro gli atti e provvedimenti della pubblica amministrazione nella legislazione italiana, Torino, 1893. Fondamentale resta lo storico discorso pronunciato alla Associazione costituzionale di Bergamo da Silvio Spaventa il 6 maggio 1880 su La giustizia nell’amministrazione », ripubblicato in Riv. dir. pubbl., 1939, I, 222 e in Discorsi parlamentari di Silvio Spaventa, pubblicati per deliberazione della Camera dei Deputati, Roma, 1913, 550 ss. (« uno dei documenti più significativi della nostra letteratura », secondo l’opinione di G. ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, vol. II, La giustizia amministrativa, VIII ed., Milano, 1958, 39). Sulle origini del Consiglio di Stato, istituito con regio editto promulgato (octroyée) dal Re Carlo Alberto il 18 agosto 1831, si veda invece D. LA MEDICA, Lo Statuto Albertino nel 150o anniversario della sua promulgazione, in Scritti giuridici in onore di Sebastiano Cassarino, Padova, 2001, 869 ss. Si segnala soltanto che con l’art. 10, n. 1, della l. 20 marzo 1865, n. 2248, allegato D (legge sul Consiglio di Stato, nell’ambito delle leggi di unificazione amministrativa del Regno) si era attribuito al Consiglio di Stato il potere di dirimere i conflitti di attribuzione tra autorità giurisdizionale ordinaria e pubblica amministrazione (le cui sfere di attribuzione erano disegnate rispettivamente dagli artt. 2 e 3 della l. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, sulla abolizione del contenzioso amministrativo): cfr. V. BONO, Il Consiglio di Stato nella legislazione italiana, Stradella, 1889, 137 ss. Con l. 31 marzo 1877, n. 3761 i conflitti di attribuzione sono stati poi devoluti alle Sezioni unite della Corte di Cassazione di Roma, istituita con l. 12 dicembre 1875, n. 2832 (cfr. G. GIORGI, La dottrina delle persone giuridiche o corpi morali, vol. III, parte speciale, Lo Stato, Firenze, 1892, 465; A. LENTINI, Istituzioni di diritto amministrativo, vol. II, parte speciale di giustizia amministrativa, III ed. riveduta ed ampliata, Milano, 1939, 69 ss.; I. TAMBARO, Diritto amministrativo nelle sue recenti riforme, Napoli, 1930, 313-315; G. ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, vol. II, La giustizia amministrativa, Milano, 1958, 40; G. MANTELLINI, I conflitti di attribuzione in Italia dopo la legge del 1877, Firenze, 1878; E. GUICCIARDI, La giustizia amministrativa, II ed., Padova, 1943, 45-46). Gli artt. 19, comma 2 (« Nulla è innovato alla legge del 31 marzo 1877, n. 3761 ») e 20 della l. n. 5992 del 1889 confermano l’attribuzione alle Sezioni unite


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L’art. 25 della l. n. 5992 del 1889 conferiva al Governo la « facoltà... di coordinare in testo unico, con le disposizioni della presente legge, quelle della legge del 20 marzo 1865, allegato D »: la l. 31 marzo 1889, n. 5992 fu pertanto coordinata con la l. 20 marzo 1865, n. 2248, allegato D (recante la precedente legge sul Consiglio di Stato, nell’ambito delle leggi di unificazione amministrativa del Regno), mediante la compilazione del testo unico approvato con r.d. 2 giugno 1889, n. 6166 (intitolato, per l’appunto, « Regio decreto che approva il testo unico della legge sul Consiglio di Stato » e pubblicato nella Gazzetta Uffıciale del Regno del 5 luglio 1889, n. 168) (4). L’art. 43 del r.d. n. 6166 del 1889 (nel quale risultava trasfusa la disposizione originariamente contenuta nell’art. 22 della l. n. 5992 del 1889) disponeva che « con regi decreti, a proposizione del Ministro dell’interno, sentito il Consiglio di Stato » sarebbero state « determinate le norme del procedimento da seguirsi avanti la quarta sezione » e si sarebbe « provveduto a quant’altro » potesse « occorrere per l’esecuzione della presente legge ». Dando seguito a tale disposizione, venivano emanati il r.d. 17 ottobre 1889, n. 6516, intitolato « Regio decreto che approva il della Corte di Cassazione romana della potestà regolatrice dei conflitti di attribuzione (i quali, con il progressivo affermarsi della natura giurisdizionale della funzione contenziosa svolta dal Consiglio di Stato, avrebbero assunto la duplice veste di conflitti di attribuzione — tra autorità giurisdizionale e pubblica amministrazione — e di conflitti di giurisdizione — tra autorità giurisdizionale ordinaria e autorità giurisdizionale amministrativa). Identico discorso può essere ripetuto per l’art. 40 del r.d. 17 agosto 1907, n. 638 (secondo testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato), « non avendo l’ultima legge sugli organi della giustizia amministrativa in nulla modificato le preesistenti attribuzioni delle sezioni unite della Corte di Cassazione » quale giudice regolatore dei conflitti (cfr., in questi termini, Corte di Cassazione di Roma, Sez. un., 26 febbraio 1910, con nota di L. RAGGI, A proposito dell’articolo 40 della legge 17 agosto 1907 sul Consiglio di Stato, in Riv. dir. pubbl., 1910, II, 545 ss.). (4) F. D’ALESSIO, Istituzioni di diritto amministrativo italiano, II ed. riveduta e ampliata, vol. II, Torino, 1939, 283. Cfr. altresı̀ L. RAGGI, Diritto amministrativo. Atti amministrativi — giustizia amministrativa, corso di lezioni per l’anno accademico 1928-29 raccolte dallo studente R. Lucifredi, ristampa 1930, 414: « Funzioni giurisdizionali furono al Consiglio di Stato per la prima volta attribuite dalla legge 31 marzo 1889, la quale, fusasi con la preesistente legge sul Consiglio di Stato 20 marzo 1865, allegato D, diede luogo al primo testo unico della legge stessa, approvato con r.d. 2 giugno 1889 ».


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regolamento di procedura dinanzi alla quarta sezione del Consiglio di Stato », e il r.d. 17 ottobre 1889, n. 6515, recante il regolamento per l’esecuzione della legge sul Consiglio di Stato: ambedue pubblicati nella Gazzetta Uffıciale del Regno del 4 dicembre 1889. Con l. 1o maggio 1890, n. 6837 si attribuirono funzioni contenziose, relativamente a taluni atti delle amministrazioni locali, alle Giunte Provinciali Amministrative, già istituite con la legge comunale e provinciale 30 dicembre 1888, n. 5865, poi confluita nel testo unico approvato con r.d. 18 febbraio 1889, n. 5921 (5). Sia il r.d. 2 giugno 1889, n. 6166 (primo testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato) che la l. 1o maggio 1890 furono poi modificati dalla l. 7 marzo 1907, n. 62 (« Legge sul riordinamento degli istituti per la giustizia amministrativa », pubblicata nella Gazzetta Uffıciale del Regno del 15 marzo 1907, n. 63), approvata sulla base di un disegno di legge presentato da Giovanni Giolitti, all’epoca Presidente del Consiglio dei Ministri, il 27 novembre 1906 e istitutiva della Quinta Sezione del Consiglio di Stato (6) (7). (5) Con la l. 30 dicembre 1888, n. 5865, che pure istituiva le Giunte Provinciali Amministrative, il legislatore non attribuiva a queste ultime alcuna competenza di indole contenziosa, ma soltanto funzioni tutorie, di controllo sugli atti delle amministrazioni locali: cfr. Diritto amministrativo italiano, Dispense del corso tenuto dal prof. Piero Sacerdoti nel Campo Universitario d’Internamento Militare presso l’Università di Ginevra, Ginevra, 1944, 156. Cfr. altresı̀ F. D’ALESSIO, Istituzioni di diritto amministrativo italiano, II ed. riveduta e ampliata, vol. II, Torino, 1939, 284, secondo cui in sede di approvazione della legge comunale e provinciale 30 dicembre 1888, n. 5865 prevalse l’opinione di non includere in un disegno di legge precipuamente diretto al riordinamento delle amministrazioni locali un insieme di disposizioni che per loro natura meglio si connettevano con le riforme da apportare all’ordinamento della difesa contenziosa dei cittadini verso l’amministrazione dello Stato, sicché meglio potevasi provvedere a tali riforme con leggi apposite. Cfr., più diffusamente, V. E. ORLANDO, La giustizia amministrativa, in Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, a cura di V.E. ORLANDO, vol. III, II ed., Milano, 1923, 21-24. (6) Cfr. il testo integrale della relazione ministeriale sul progetto di legge per il riordinamento degli istituti per la giustizia amministrativa, presentato dal Ministro dell’interno e Presidente del Consiglio Giolitti di concerto con il ministro del tesoro Majorana, nella tornata del 27 novembre 1906, in C. PASTORE, Vademecum per il Consiglio di Stato, Roma, 1908, 7 ss. (7) Cfr. F. D’ALESSIO, Istituzioni di diritto amministrativo italiano, II ed. riveduta


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L’art. 15, n. 1, della l. n. 62 del 1907 dava « facoltà » al Governo del Re, « sentito il Consiglio di Stato », di compilare un testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato e un testo unico delle leggi sulle Giunte Provinciali Amministrative, al precipuo fine di raccordare le novità recate dalla stessa l. n. 62 del 1907 con il r.d. 2 giugno 1889, n. 6166 (precedente testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato) e con la l. 1o maggio 1890, n. 6837 (legge che aveva attribuito competenza contenziosa alle Giunte Provinciali Amministrative). L’art. 15, n. 2, della l. n. 62 del 1907 (con disposizione poi trasfusa nell’art. 46 del r.d. n. 638 del 1907, del quale si dirà tra poco) dava « facoltà » al Governo del Re, « sentito il Consiglio di Stato », di « aggiungere alle disposizioni in vigore per il gratuito patrocinio quelle altre che occorressero per l’applicazione di questa legge ». L’art. 16, comma 1, della l. n. 62 del 1907 (con disposizione poi trasfusa nell’art. 47 del r.d. n. 638 del 1907, del quale, come già anticipato, si dirà tra poco) prevedeva che « con regi decreti, su proposta del Ministero dell’interno e sentito... il Consiglio di e ampliata, vol. II, Torino, 1939, 303; L. RAGGI, Diritto amministrativo. Atti amministrativi — giustizia amministrativa, corso di lezioni per l’anno accademico 1928-29 raccolte dallo studente R. Lucifredi, ristampa 1930, Padova, 414-415. È osservazione comune alla quasi totalità della dottrina che la l. n. 62 del 1907 sancı̀ definitivamente la natura giurisdizionale delle Sezioni Quarta e Quinta del Consiglio di Stato, nonché della funzione contenziosa dalle stesse esplicata. In particolare, la legge del 1907, oltre a dichiarare testualmente il carattere giurisdizionale degli organi e della funzione, attribuı̀ alle decisioni del Consiglio di Stato idoneità a passare in giudicato, nonché attitudine ad essere impugnate davanti alle Sezioni unite della Corte di Cassazione romana per motivi inerenti alla giurisdizione, in base alla legge sui conflitti di attribuzione (e di giurisdizione) del 31 marzo 1877, n. 3761 (cfr. O. RANELLETTI, Le guarentigie della giustizia nella pubblica amministrazione, V ed. aggiornata, Milano, 1937, 406-407; G. ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, vol. II, La giustizia amministrativa, VIII ed., Milano, 1958, 46; A. AMORTH, Giustizia amministrativa, in Nuovo dig. it., vol. VI, Torino, 1938, 416 ss., poi ripubblicato in Scritti giuridici, vol. I, Milano, 1999, 252; V. SCIALOIA, Per una riforma delle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, in Riv. dir. pubbl., 1909, I, 7). Si fa rilevare, per incidens, che già in precedenza le Sezioni Unite della Corte di Cassazione di Roma avevano affermato a più riprese la proponibilità del ricorso per conflitto di attribuzione (rectius, di giurisdizione) avverso le decisioni della Quarta Sezione del Consiglio di Stato, giungendo pertanto ad equiparare tali pronunzie alle sentenze di un giudice, sia pure speciale (si veda, tra le prime decisioni in questa direzione, Cass civ., Sez. un., Roma, 21 marzo 1893, in Giur. it., 1893, I, 1, 649).


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Stato, saranno stabilite le modificazioni da apportarsi ai regolamenti per l’esecuzione della legge sul Consiglio di Stato, per la procedura davanti alle sezioni giurisdizionali del Consiglio stesso e davanti alle giunte provinciali nell’esercizio delle attribuzioni giurisdizionali » (8). Infine, l’art. 16, comma 2, della l. n. 62 del 1907 dispone che « sarà pure fissato per decreto reale non più tardi di mesi sei dalla pubblicazione, il giorno in cui la presente legge andrà in vigore coi relativi regolamenti, e provveduto a quanto possa occorrere per la sua esecuzione ». Dando seguito alla previsione di cui all’art. 15, n. 1, della l. n. 62 del 1907 il Governo compilò il « Testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato », emanato con r.d. 17 agosto 1907, n. 638, nonché il « Testo unico delle leggi relative alle attribuzioni della giunta provinciale amministrativa in sede giurisdizionale », emanato con r.d. 17 agosto 1907, n. 639 e pubblicato, al pari del primo, sulla Gazzetta Uffıciale del Regno del 25 settembre 1907, n. 227 (9). (8) L’art. 47 del r.d. n. 638 del 1907, nel quale risultò sostanzialmente trasfuso il disposto dell’art. 16, comma 1, della l. n. 62 del 1907, disponeva che « con regi decreti, a proposizione del ministro dell’interno, sentito il Consiglio di Stato, saranno determinate le norme del procedimento da seguirsi avanti le sezioni giurisdizionali [del Consiglio di Stato] e sarà provveduto a quant’altro possa occorrere per l’esecuzione della presente legge ». È evidente l’identità tra le due disposizioni in parola, al di là della formulazione letterale sensibilmente divergente: con la determinazione delle « norme del procedimento da seguirsi avanti le sezioni giurisdizionali », infatti, si sarebbero necessariamente apportate « le modificazioni » al precedente regolamento di procedura, approvato con r.d. 17 ottobre 1889, n. 6516. (9) Trattandosi di testi unici raccolti con decreto reale, sia pure in virtù di una facoltà di raccolta e coordinamento concessa dal legislatore, « le diverse loro disposizioni » — secondo l’opinione all’epoca prevalente — hanno valore in quanto provengono da leggi anteriori senza che disposizioni omesse si intendano per ciò solo abrogate, disposizioni incluse si abbiano senz’altro in vigore, o disposizioni indebitamente modificate operino quali sono e non quali risultano dai testi originari » (F. CAMMEO, Corso di diritto amministrativo, vol. III, Padova, 1914, 1583). Negli stessi termini si era già espresso lo stesso F. CAMMEO, Della manifestazione della volontà dello Stato nel campo del diritto amministrativo, in Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, a cura di V.E. ORLANDO, vol. III, Milano, 1901, 185 e, successivamente, O. RANELLETTI, Lezioni di diritto amministrativo, fasc. I, Napoli, 1921, 37-38, secondo cui « il testo unico non può alterare lo stato giuridico esistente; non può abrogare norme che ancora esistono, né far rivivere norme abrogate. Se una norma non abrogata fosse dimenticata dal t.u., essa rimarrebbe ugualmente in vigore; e viceversa se il t.u. riprodu-


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In attuazione dell’art. 15, n. 2, della l. n. 62 del 1907 (poi trasfuso nell’art. 46 del r.d. n. 638 del 1907) venne approvato, con r.d. 17 agosto 1907, n. 640, il regolamento per il gratuito patrocinio innanzi alle giurisdizioni amministrative, anch’esso pubblicato nella Gazzetta Uffıciale del Regno del 25 settembre 1907, n. 227 (10). cesse una norma abrogata, non per ciò questa rivivrebbe. Ora, finché il governo si limita a riunire nel t.u. le norme giuridiche esistenti, esso non compie alcun atto legislativo, ma un semplice atto di amministrazione, in quanto il suo atto non innova al diritto esistente, e anzi non ha alcuna efficacia giuridica. E per far questo non avrebbe certo bisogno di una delegazione di poteri degli organi legislativi. Ma il Parlamento, nel dare facoltà al Governo di redigere il t.u., gli accorda pure la facoltà di coordinare fra loro le varie disposizioni, di porle in armonia con quelle delle leggi esistenti, e di introdurvi quelle modificazioni di forma che fossero a ciò necessarie. In questo vi è una delegazione di potestà legislativa in senso formale e materiale; e solo in questi limiti si può ammettere che vi sia delegazione di potestà legislativa nella concessione della facoltà di redigere il testo unico ». Anche L. RAGGI, Diritto amministrativo. Atti amministrativi — giustizia amministrativa, cit., 415 afferma che « il valore di questi testi unici emanati con decreto è il valore consueto di tutti i testi unici: la forza delle disposizioni in essi contenute deriva dalle leggi preesistenti e non si deve credere che quelle omesse in tali testi unici siano per quel solo fatto abrogate; quanto alle disposizioni incluse nel testo unico, esse valgono in quanto non siano in contrasto con altre disposizioni di legge, a meno che non si tratti di disposizioni di coordinamento per le quali il governo abbia avuto una vera delega dal potere legislativo ». In effetti, l’art. 15, n. 1, della l. n. 62 del 1907 non si limitava ad abilitare il Governo a compilare un testo unico che si limitasse a riunire le disposizioni previgenti, ma autorizzava anche l’Esecutivo ad introdurvi le modificazioni necessarie « nei limiti ed agli effetti del coordinamento anche con le altre leggi vigenti, in quanto riguardino le giurisdizioni amministrative »: in questi limiti, pertanto, l’art. 15, n. 1 cit. conteneva una vera e propria delegazione legislativa. L’opinione, all’epoca dominante, che negava di regola ai testi unici qualsiasi portata innovativa, risulterà in seguito criticata da C. ESPOSITO, voce Testi unici, in Nuovo dig. it., XII, 2, Torino, 1940, 181 ss., secondo il quale sempre il testo unico, essendo un testo di legge che unifica e sostituisce una pluralità di testi disciplinanti una determinata materia (id est, importando « la sostituzione di una unità alla molteplicità »), comporterebbe una novazione (con modifiche più o meno sensibili) delle disposizioni giuridiche preesistenti. Oggi il problema è condizionato (e, al tempo stesso, reso di più agevole soluzione) dall’art. 77 Cost., che disciplina la delega legislativa, e cioè lo strumento normalmente utilizzato per delegare il Governo alla redazione di testi unici: in particolare, il decreto delegato recante l’approvazione del testo unico deve osservare i principi e i criteri direttivi stabiliti nella legge delega, pena la sua incostituzionalità. I limiti entro i quali il Governo è abilitato, nel predisporre il testo unico, ad innovare alla realtà giuridica preesistente sono ricavabili dalla legge delega: quei limiti, siano essi significativi ovvero angusti, debbono essere rispettati dall’Esecutivo, onde evitare di esporre il decreto delegato, in tutto o in parte, alla dichiarazione di incostituzionalità. (10) Cfr. V.E. ORLANDO, Principi di diritto amministrativo, V ed. riveduta, Fi-


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Dando seguito alla previsione contenuta nell’art. 16, comma 1, della l. n. 62 del 1907 (poi trasfusa nell’art. 47 del r.d. n. 638 del 1907), il Governo adottò il r.d. 17 agosto 1907, n. 641, recante « Approvazione del regolamento per l’esecuzione della legge sul Consiglio di Stato » (11), nonché il r.d. 17 agosto 1907, n. 642, recante « Regolamento per la procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato » (entrambi pubblicati nella Gazzetta Uffıciale del Regno del 25 settembre 1907, n. 227) (12). Sempre in attuazione dell’art. 16, comma 1, della l. n. 62 del 1907 fu emanato il r.d. 17 agosto 1907, n. 643, recante « Approvazione del regolamento di procedura davanti alla Giunta provinciale amministrativa in sede giurisdizionale » e il r.d. 17 agosto 1907, n. 644, recante « Approvazione del regolamento per la segreteria della Giunta provinciale amministrativa negli affari giurisdizionali » (anch’essi pubblicati nella Gazzetta Uffıciale del Regno del 25 settembre 1907, n. 227). Infine, in attuazione dell’art. 16, comma 2, della l. n. 62 del 1907, l’art. 50 del r.d. n. 638 del 1907 stabilı̀ che « la presente

renze, 1915, 417, nota 2, il quale dà atto che l’art. 15, n. 2), della l. n. 62 del 1907 diede facoltà al governo di aggiungere alle disposizioni in vigore per il gratuito patrocinio quelle altre necessarie per l’esercizio del medesimo innanzi agli istituti della giustizia amministrativa: facoltà che il governo venne in seguito ad usare con il r.d. 17 agosto 1907, n. 640. In seguito, il r.d. n. 640 del 1907 venne sostituito con il r.d. 30 dicembre 1923, n. 3282, con cui fu approvato il testo di legge sul gratuito patrocinio (U. BORSI, La giustizia amministrativa, VII ed. riveduta, Padova, 1941, 181). Per la versione integrale del r.d. n. 640 del 1907, si veda C. PASTORE, Vademecum per il Consiglio di Stato, Roma, 1908, 99 ss. (11) Se ne veda la formula di emanazione, tipica dei regolamenti governativi: « ... Abbiamo decretato e decretiamo: è approvato il regolamento per l’esecuzione della legge sul Consiglio di Stato, annesso al presente decreto... ». Il testo integrale del r.d. n. 641 del 1907 è reperibile in C. PASTORE, Vademecum per il Consiglio di Stato, Roma, 1908, 49 ss. (12) Cfr. A. SALANDRA, Lezioni di diritto amministrativo, anno accademico 192223, lezioni raccolte e compilate dai sigg.ri Eitel Monaco e Vittorino Pazienza, Roma, 1923, 236, il quale sottolinea che il regolamento di esecuzione della l. n. 62 del 1907, approvato con r.d. n. 641 del 1907, non deve essere confuso (« ... da non confondersi... ») « con il regolamento di procedura delle sezioni giurisdizionali », approvato con r.d. n. 642 del 1907. Ambedue i regolamenti possono essere consultati, nella loro versione integrale, in C. PASTORE, Vademecum per il Consiglio di Stato, Roma, 1908.


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legge, coi relativi regolamenti, andrà in vigore dal 1o novembre 1907 » (13). In seguito, il Governo fascista, in base alla l. 3 dicembre 1922, n. 1601 (legge generale di delega al Governo dei « pieni poteri » per riformare le più importanti leggi amministrative dello Stato) (14) adottò il decreto legislativo approvato con r.d. 30 dicembre 1923, n. 2840, recante « Modificazioni all’ordinamento del Consiglio di Stato e della Giunta provinciale amministrativa in sede giurisdizionale », le cui novità più salienti consistevano nella soppressione della ripartizione di competenze tra IV Sezione — (13) Cfr. l’art. 16, comma 2, della l. n. 62 del 1907: « Sarà pure fissato per decreto reale non più tardi di mesi sei dalla pubblicazione, il giorno in cui la presente legge andrà in vigore coi relativi regolamenti ». Cfr., in attuazione di quest’ultimo precetto di legge, l’art. 50 del r.d. n. 638 del 1907: « La presente legge, coi relativi regolamenti, andrà in vigore dal 1o novembre 1907 ». Si poteva seriamente dubitare, avuto riguardo alla dottrina dell’epoca (cfr., per tutti, L. RAGNISCO, La legge 31 gennaio 1926, n. 100 ed il Consiglio di Stato, Padova, 1930, 124; F. CAMMEO, Della manifestazione della volontà dello Stato nel campo del diritto amministrativo, in Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, a cura di V.E. ORLANDO, vol. III, Milano, 1901, 187-188), della compatibilità con i limiti della potestà regolamentare del potere di incidere direttamente sugli effetti della legge, stabilendone la data di entrata in vigore. Ed è proprio per questa ragione che la disposizione con cui si individuava nel 1o novembre 1907 la data di entrata in vigore della l. n. 62 del 1907 fu dal Governo inserita nel testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato, emanato con r.d. n. 638 del 1907 e munito indiscutibilmente di natura primaria, anziché nel r.d. n. 641 o nel r.d. n. 642, pure adottati in pari data (17 agosto 1907). Tale modus operandi del Governo (che ha inserito in un atto avente senz’altro forza di legge una disposizione di dubbia compatibilità con i limiti della potestà regolamentare) conferma la bontà dell’opinione espressa dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 118 del 1968, secondo cui la disposizione contenuta nell’art. 16, comma 2, della l. n. 62 del 1907 « è del tutto autonoma rispetto a quella contenuta nel 1o comma del medesimo articolo ». È « certo da escludere » — prosegue la Corte — « che la circostanza che la legge (artt. 15 e 16) conferı̀ al governo una serie di poteri normativi debba indurre a ritenere che necessariamente tutti fossero della stessa natura ». Si avrà modo di tornare più diffusamente su tale profilo nel prosieguo del presente contributo. (14) Sulla delegazione legislativa dei « pieni poteri », si veda L. RAGGI, Diritto amministrativo, vol. III, lezioni raccolte dallo studente U. Vernetti, anno accademico 1930-31, Padova, 1931, 87, il quale dava atto che il Parlamento, con la l. 3 dicembre 1922, n. 1601, aveva delegato al governo i « pieni poteri » fino al 31 dicembre 1923 per la riorganizzazione dell’amministrazione e per la realizzazione di economie nel bilancio. Cfr. altresı̀ L. RAGNISCO, La legge 31 gennaio 1926, n. 100 ed il Consiglio di Stato, Padova, 1930, 114; R. ALESSI, Principi di diritto amministrativo, vol. II, IV ed. rielaborata e aggiornata, Milano, 1978, 759.


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per l’innanzi competente per i giudizi di sola legittimità — e V Sezione — per l’innanzi competente per i giudizi estesi al merito; nell’introduzione della giurisdizione amministrativa esclusiva in particolari materie, tra le quali il pubblico impiego; nell’attribuzione al giudice amministrativo, anche al di fuori della giurisdizione esclusiva, del potere di decidere (con efficacia limitata al caso deciso e, dunque, senza efficacia di giudicato) tutte le questioni pregiudiziali o incidentali relative a diritti la cui risoluzione fosse necessaria per pronunciare sulla questione principale di sua competenza, con le sole eccezioni dell’incidente di falso e delle questioni concernenti lo stato e la capacità delle persone, salvo, in quest’ultima ipotesi, che si trattasse della capacità di stare in giudizio (15). Il r.d. 30 dicembre 1923, n. 2840 (16) fu poi coordinato, in base ad una delega contenuta nel suo art. 29 (17), con le leggi preesistenti, attraverso la compilazione di due nuovi testi unici (15) Cfr., sul punto, A.M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, V ed., Napoli, 1959, 536 ed anche XV ed., Napoli, 1989, 1193-1194; Diritto amministrativo italiano, Dispense del corso tenuto dal prof. Piero Sacerdoti nel Campo Universitario d’Internamento Militare presso l’Università di Ginevra, Ginevra, 1944, 157-158; G. ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, vol. II, La giustizia amministrativa, VIII ed., Milano, 1958, 48-49; C. VITTA, Diritto amministrativo, vol. I, Parte generale, Torino, 1937, 567-568. (16) Il r.d. n. 2840 del 1923 fu il frutto di un lungo e ricco dibattito svoltosi in seno alla Commissione di studio nominata il 13 luglio 1910 dal Ministro dell’interno del tempo, Luigi Luzzatti: dibattito culminato nell’elaborazione di un progetto di riforma presentato al Governo nel 1916, accompagnato da una raffinata relazione illustrativa di A. Codacci Pisanelli. Il progetto non aveva immediatamente seguito, anche perché quelli erano gli anni della prima guerra mondiale. Peraltro nel 1923, allorché furono attribuiti al Governo i « pieni poteri » per la riforma delle più importanti leggi amministrative del Regno, le proposte trasfuse nel richiamato progetto di riforma e nella relazione illustrativa che lo accompagnava vennero tradotte in uno schema di decreto delegato, poi divenuto il r.d. n. 2840 del 1923. La relazione illustrativa, opera di A. CODACCI PISANELLI, risulta pubblicata nella Riv. dir. pubbl., 1916, I, 290 ss. Sul progetto presentato al Governo nel 1916, si veda F. ROVELLI, A proposito del progetto di riforma delle leggi sulla giustizia amministrativa, in Riv. dir. pubbl., 1916, I, 563 ss. (17) Insolito, anche se non del tutto isolato, si presentava, all’epoca, il (censurabile) fenomeno della delegazione legislativa operata con un decreto legislativo: cfr., sul punto, L. RAGNISCO, La legge 31 gennaio 1926, n. 100 ed il Consiglio di Stato, Padova, 1930, 112, nota 4. L’art. 29 del r.d. n. 2840 del 1923 conteneva, per l’appunto, una disposizione che, pur inserita in un decreto legislativo, conferiva al Governo la facoltà di coordinare in un testo unico le novità recate dallo stesso r.d. n. 2840 del 1923 con i pre-


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delle leggi relative, rispettivamente, al Consiglio di Stato e alle Giunte provinciali amministrative. Il primo testo unico è stato emanato con r.d. 26 giugno 1924, n. 1054, pubblicato nella Gazzetta Uffıciale del Regno del 7 luglio 1924, n. 158: si tratta, per l’appunto, del regio decreto recante « Approvazione del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato », tutt’ora in vigore, sia pure con le modifiche ed integrazioni a più riprese apportatevi. Il secondo testo unico (« delle leggi sulla Giunta provinciale amministrativa in sede giurisdizionale ») è stato emanato con r.d. 26 giugno 1924, n. 1058, anch’esso pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del Regno del 7 luglio 1924, n. 158 (18). In base alla previsione contenuta nell’art. 27 del r.d. n. 2840 del 1923 (poi trasfusa nell’art. 53 del r.d. n. 1054 del 1924) fu emanato in pari data (26 giugno 1924) anche il nuovo regolamento per l’esecuzione delle leggi sul Consiglio di Stato (r.d. 26 giugno 1924, n. 1055), che abrogava il precedente regolamento di esecuzione, approvato con r.d. 17 agosto 1907, n. 641 (19). Invece, il nuovo regolamento di procedura, sebbene preannunziato in qualche punto del r.d. n. 1054 del 1924 (e, ancor prima, nell’art. 27 del r.d. n. 2840 del 1923), non è mai stato approvato (20). Sono quattro, per la precisione, le disposizioni del r.d. n. 1054 cedenti testi unici sul Consiglio di Stato (r.d. n. 638 del 1907) e sulle giunte provinciali amministrative (r.d. n. 639 del 1907). (18) Come è noto, le giunte provinciali amministrative furono in seguito espunte dall’ordinamento, nella seconda metà degli anni Sessanta, a mezzo di apposite pronunce della Corte costituzionale, delle quali dà sinteticamente conto, tra gli altri, A.M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, XV ed., Napoli, 1989 1197-1198. (19) Successivamente, il r.d. 21 aprile 1942, n. 44 ha « riordinato il regolamento per l’esecuzione del T.U. sul Consiglio di Stato, comprendendo in larga parte disposizioni sui servizi di segreteria »: cfr. G. LANDI e G. POTENZA, Manuale di diritto amministrativo, VII ed., Milano, 1983, 584. (20) In questi termini, si veda F. D’ALESSIO, Istituzioni di diritto amministrativo italiano, II ed. riveduta e ampliata, vol. II, Torino, 1939, 308, secondo cui, dato che « il regolamento di procedura annunziato in qualche punto della nuova legge non si è ancora avuto », ne deriva che « continua ad avere vigore quello del 1907 ». Cfr. anche O. RANELLETTI, Lezioni di diritto amministrativo — Ordinamento della pubblica amministrazione, II ed. riveduta e aggiornata, Milano, 1929, 222; E. GUICCIARDI, La giustizia amministrativa, II ed., Padova, 1943, 50. Ancora nel 1958 G. ZANOBINI poteva affermare


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del 1924 nelle quali è dato rinvenire un esplicito rinvio ad un nuovo regolamento di procedura, che avrebbe dovuto sostituire il r.d. n. 642 del 1907. L’art. 44, comma 2, del r.d. n. 1054 del 1924 stabilisce che « nei giudizi di merito il Consiglio di Stato può...ordinare qualunque altro mezzo istruttorio », « nei modi determinati dal regolamento di procedura ». L’art. 44, comma 3, del r.d. n. 1054 del 1924 stabiliva, nella sua versione originaria (prima della riformulazione operata dall’art. 1, comma 2, della l. n. 205 del 2000) che « i provvedimenti istruttori preliminari alla discussione del ricorso...potranno essere disposti anche dal presidente della sezione secondo le norme stabilite dal regolamento [si intende: dal regolamento di procedura, e cioè dallo stesso regolamento richiamato dal precedente comma 2 dell’art. 44 cit.] ». L’art. 45, ult. comma, del r.d. n. 1054 del 1924 stabilisce, con norma di portata generale (che trascende, come tale, lo specifico tema dell’istruzione probatoria), che « le norme del procedimento [rectius, del processo avanti alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato] sono determinate nel regolamento [si intende: nel che i regolamenti di procedura relativi al Consiglio di Stato e alle Giunte provinciali amministrative (r.d. nn. 642 e 643 del 1907), « a differenza dei testi legislativi » (il riferimento è ai r.d. nn. 638 e 639 del 1907, confluiti rispettivamente nei r.d. nn. 1054 e 1058 del 1924) « sono ancora vigenti » (Corso di diritto amministrativo, vol. II, La giustizia amministrativa, VIII ed., Milano, 1958, 46. Identica affermazione è ovviamente rinvenibile in tutte le opere ed i manuali che si sono susseguiti sino ai giorni nostri: si vedano, tra gli altri, O. SEPE e G. PES, Le nuove leggi di giustizia amministrativa, Milano, 1972, 216; G. ROEHRSSEN, La giustizia amministrativa in Italia, Roma, 1984, 156, secondo cui « la modifica delle norme procedurali è sul tappeto da molti anni (si pensi che il regolamento di procedura non è stato aggiornato neppure dopo le leggi del 19231924...), ma fino ad oggi non si è pervenuti ad alcuna conclusione »; S. CASSARINO, Il processo amministrativo nella legislazione e nella giurisprudenza, vol. I, Milano, 1999, 3, che annovera, « ancora oggi », tra « le principali fonti sul processo amministrativo » il r.d. n. 642 del 1907. Identica affermazione valeva anche per il r.d. 17 agosto 1907, n. 643, recante il regolamento per la procedura avanti alla Giunta provinciale amministrativa, sopravvissuto al r.d. 26 giugno 1924, n. 1058, ancorché « anteriore di circa venti anni » rispetto a quest’ultimo, non essendosi « trovato posteriormente il tempo di emanare un regolamento di procedura aggiornato »: cfr. M. ANGELICI, Il giudizio di fronte alla Giunta provinciale amministrativa, Padova, 1958, 55.


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regolamento di procedura, e cioè nel regolamento recante la disciplina della procedura] ». Infine, l’art. 53 del r.d. n. 1054 del 1924 prevede che con regio decreto « a proposizione del Ministro dell’interno, sentito il Consiglio di Stato, saranno determinate le norme del procedimento da seguirsi avanti il Consiglio di Stato, in quanto non siasi provveduto con la presente legge », oltre « a quanto altro possa occorrere per la esecuzione della legge medesima ». Dato che, come si è detto, il regolamento di procedura cui rinviano le richiamate disposizioni del r.d. n. 1054 del 1924 non è mai stato approvato (21), continua ad avere vigore, a tutt’oggi, il r.d. n. 642 del 1907. La lettura del r.d. n. 642 del 1907 deve essere pertanto preceduta da un’importante avvertenza di ordine metodologico: poiché il r.d. n. 642 del 1907 è stato emanato quando era in vigore il r.d. n. 638 del 1907 (testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato inteso a raccordare le novità recate dalla l. n. 62 del 1907 con il (21) Cfr. G. ABBAMONTE e R. LASCHENA, Giustizia amministrativa, in Tratt. dir. amm. diretto da G. SANTANIELLO, Padova, 1997, 21, i quali, attingendo da E. CANNADA BARTOLI, voce Giustizia amministrativa, in Digesto — Discipline pubblicistiche, Torino, 1991, 508 ss., ricostruiscono gli eventi che hanno condotto alla mancata approvazione del regolamento di procedura nei seguenti termini: dopo l’approvazione del r.d. n. 1054 del 1924 e del r.d. n. 1058 del 1924 « erano predisposti anche gli schemi dei regolamenti di procedura per i giudizi che dovevano svolgersi dinanzi al Consiglio di Stato ed alle Giunte; su di essi interveniva il parere del Consiglio di Stato, ed erano predisposti i decreti reali di approvazione, che peraltro non erano pubblicati; gli schemi non avevano, quindi, seguito ». Cfr. altresı̀, al riguardo, M.S. GIANNINI e A. PIRAS, Il principio del contraddittorio nel processo amministrativo, in Il principio del contraddittorio nel processo civile, penale ed amministrativo, Atti III e IV delle giornate giuridiche italojugoslave, Milano, 1968, 304, i quali rilevano che l’iter di formazione del regolamento sia stato interrotto per motivi incomprensibili, in un momento in cui lo schema di regolamento era già stato sottoposto al parere del Consiglio di Stato e deliberato dal Consiglio dei Ministri. R. CHIEPPA, Sulla validità delle norme sulla procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato: a proposito dell’esecuzione del giudicato, nota a Corte cost., 28 novembre 1968, n. 118, in Giust. cost., 1968, III, 2127, nota 2 evidenzia che il nuovo regolamento di procedura del 1924 (mai pubblicato sulla Gazzetta Uffıciale e, quindi, mai entrato in vigore) si trova annunciato nella pubblicazione del « Testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato e regolamento per la sua esecuzione », a cura del Ministero dell’interno, Roma, Libreria dello Stato, luglio 1924, 2, ove si legge pure l’annuncio che « in un volume a parte sarà pubblicato, appena inserito nella Gazzetta Ufficiale, il Regolamento di procedura ».


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precedente testo unico approvato con r.d. 2 giugno 1889, n. 6166) e poiché le disposizioni del r.d. n. 638 del 1907 sono state poi trasfuse nel r.d. n. 1054 del 1924 (testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato inteso a coordinare le novità recate dal r.d. n. 2840 del 1923 con lo stesso r.d. n. 638 del 1907), ne deriva che tutte le volte in cui il r.d. n. 642 del 1907 fa riferimento ad una disposizione del r.d. n. 638 del 1907, il richiamo deve intendersi operato alla corrispondente disposizione del r.d. n. 1054 del 1924 (la quale ben può avere, ed anzi normalmente ha, collocazione in un articolo numerato diversamente). 3. Ciò premesso in ordine alla ricostruzione della successione logica e cronologica degli atti normativi che hanno edificato le fondamenta degli istituti di giustizia amministrativa, occorre dare atto della disparità di vedute ravvisabile sia nell’ambito della giurisprudenza costituzionale, sia nell’ambito della dottrina più autorevole in ordine alla qualificazione del r.d. n. 642 del 1907 come fonte del diritto primaria o secondaria. Quanto alla giurisprudenza costituzionale, si segnala anzitutto la sentenza 28 novembre 1968, n. 118 (22), della quale è opportuno riportare il passaggio più significativo ai fini che qui interessano: « ... l’art. 16, 1o comma, della legge 7 marzo 1907, n. 62, sulla base del quale » il r.d. n. 642 del 1907 « venne emanato, conferı̀ all’autorità governativa il potere di stabilire le modificazioni da apportarsi, tra l’altro, al “regolamento” per la procedura davanti alle sezioni giurisdizionali del Consiglio [approvato con r.d. 17 ottobre 1889, n. 6516]. Fu, dunque, la stessa legge, a differenza dell’art. 22 della legge 31 marzo 1889, n. 992 [trasfuso nell’art. 43 del r.d. n. 6166 del 1889], che genericamente parlava di “norme del procedimento”, ma che, nondimeno, era stato esso stesso inteso come fonte di un potere meramente regolamentare (cfr. r.d. 17 ottobre 1889, n. 6516) (23), a qualificare, sia pure indirettamente, la natura dell’atto che il Governo avrebbe dovuto (22) In Giur. cost., 1968, III, 2124 ss., con nota di R. CHIEPPA, Sulla validità delle norme sulla procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato: a proposito dell’esecuzione del giudicato. (23) Che il r.d. 17 ottobre 1889, n. 6516 fosse stato qualificato come regolamento


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emanare: ed a tale qualifica si attenne l’intitolazione del regio decreto » n. 642 del 1907. « In presenza di una qualificazione data dalla legge nel senso che il Governo era legittimato ad emanare un regolamento » — prosegue la Corte — « è necessario che concorrano elementi obiettivi, certi ed inequivoci per dimostrare che, al contrario, si trattava di una vera e propria delega legislativa »: ma « nel caso in esame... nulla contraddice alla corrispondenza tra la qualifica risultante dal testo della legge [art. 16, comma 1, della l. n. 62 del delegato dalla dottrina dell’epoca si ricava da F. CAMMEO, Della manifestazione della volontà dello Stato nel campo del diritto amministrativo, in Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, a cura di V.E. ORLANDO, vol. III, Milano, 1901, 174, in cui si afferma chiaramente che anche un regolamento delegato (quale era, per l’appunto, il r.d. n. 6516 del 1889) — « emanato non... in virtù degli ordinari poteri regolamentari [di competenza del Governo], ma in base... ad una delegazione espressa, contenuta nell’art. 43 della legge 2 giugno 1889, n. 6166 [recante il primo testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato] » — pur non essendo costretto a rimanere intra legem (in ciò distinguendosi dai regolamenti di pura esecuzione) e pur potendo invece operare praeter legem, non poteva tuttavia porsi contra legem. L’Autore ricordava, « per chiarire con un caso pratico la regola enunciata », che l’art. 10 (rectius, l’art. 9, commi 2 e 4) della legge sul Consiglio di Stato (l. 31 marzo 1889, n. 5992) stabiliva, sotto pena di nullità, il regime delle notificazioni del ricorso avanti alla Quarta Sezione del Consiglio di Stato. L’art. 16 del r.d. 17 ottobre 1889, n. 6516 prescriveva, in aggiunta (rispetto alla notifica e al deposito del ricorso introduttivo), la notifica, a beneficio dell’amministrazione resistente, dell’avvenuto deposito dell’originale del ricorso con la prova delle avvenute notifiche e dei documenti: ebbene, la « giurisprudenza costante della IV Sezione » — conclude l’Autore — « ha più volte dichiarato che questa notificazione non è richiesta a pena di nullità, e deve considerarsi come un desiderio e non come una prescrizione tassativa, essendo contraria allo spirito » della legge. Tale « giurisprudenza costante della IV Sezione » muoveva, evidentemente, dalla qualificazione del r.d. 17 ottobre 1889, n. 6516 a guisa di regolamento delegato, privo come tale di forza di legge. Diversamente, non si sarebbe potuto ridurre una sua chiara prescrizione alla stregua di un semplice « desiderio », a ciò indotti dall’esigenza di escludere che essa potesse derogare alla legge. Premesso che sui concetti soltanto lumeggiati in questa nota si tornerà diffusamente nelle pagine successive, si osserva che il pensiero di F. CAMMEO, op. ult. cit. riguardo all’inquadramento del r.d. n. 6516 del 1889 tra le fonti del diritto è nuovamente espresso a p. 176, nota 3, laddove — nel riportare un elenco esemplificativo di clausole legislative che preludevano all’adozione di regolamenti governativi — menziona ancora una volta l’art. 43 del r.d. 2 giugno 1889, n. 6166, in base al quale fu poi adottato il r.d. 17 ottobre 1889, n. 6516. Cfr. altresı̀ la p. 177, nella quale si annoverano in una ulteriore elencazione esemplificativa di regolamenti delegati, anche quelli « di procedura dinanzi...al Consiglio di Stato e alle giunte provinciali amministrative » (contenuti rispettivamente nel r.d. 17 ottobre 1889, n. 6516 e nel r.d. 4 giugno 1891).


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1907] e la natura del decreto emesso in forza di questa [r.d. n. 642 del 1907] ». Il Giudice delle Leggi giungeva cosı̀ a dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 90 e 91 del r.d. n. 642 del 1907, sollevata con ordinanza 24 giugno 1967 dal Pretore di Sassari (24). Nella stessa linea si colloca la sentenza della Corte costituzionale 18 maggio 1989, n. 251 (25): avanti alla Corte era stata sollevata, con ordinanza del Tar Valle d’Aosta, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 44, comma 1, del r.d. n. 1054 del 1924 e dell’art. 26 del r.d. n. 642 del 1907, nella parte in cui non prevedono che nelle questioni pregiudiziali relative a diritti — che il giudice amministrativo può decidere incidenter tantum ai sensi dell’art. 8, comma 1, della l. n. 1034 del 1971 (e, prima ancora, dell’art. 28 del r.d. n. 1054 del 1924) — possano essere esperiti gli stessi mezzi di prova di cui può avvalersi il giudice ordinario per la soluzione, in via principale, di identiche questioni. La Corte dichiarava preliminarmente inammissibile la questione di legittimità costituzionale riguardante l’art. 26 del r.d. n. (24) In Giust. civ., 1967, III, 210, con nota di L. SALIS, Illegittimità costituzionale del regolamento di procedura avanti al Consiglio di Stato (artt. 90 e 91). L’ordinanza del giudice a quo riteneva non manifestamente infondati di dubbi di legittimità costituzionale degli artt. 90 e 91 del r.d. n. 642 del 1907 (identici agli artt. 58 e 59 del precedente regolamento di procedura, emanato con r.d. n. 6516 del 1889), nella parte in cui non assicuravano all’amministrazione resistente un adeguato diritto di difesa e di contraddittorio nell’ambito del giudizio di ottemperanza di cui all’art. 27, n. 4), del r.d. n. 1054 del 1924. L. SALIS, op. ult. cit., 211-212 richiama l’opinione di Mortara che attribuiva al r.d. n. 642 del 1907 natura secondaria, anche muovendo dalla osservazione di quel filone giurisprudenziale che assicurava una adeguata tutela del contraddittorio nell’ambito del giudizio di ottemperanza, superando in via pretoria l’inadeguato schema risultante dagli artt. 90 e 91 del r.d. n. 642 del 1907: « la prassi... portava a ritenere che il Consiglio di Stato, adottando i normali criteri del contraddittorio, fosse arrivato ad un tacito riconoscimento della illegittimità della citata norma regolamentare ». Ci si limita a segnalare, in modo fulmineo, che la disapplicazione e/o la degradazione di una norma a mero « desiderio » (cfr. la nota precedente) e/o il « tacito riconoscimento della illegittimità » di una norma (conseguentemente disapplicata) implicano senz’altro l’inquadramento di quella stessa norma tra le fonti secondarie del diritto. Cfr. la nota precedente per altra vicenda giurisprudenziale dello stesso segno. (25) In questa Rivista, 1990, 115 ss., con nota di G. VIRGA, Le limitazioni probatorie nella giurisdizione generale di legittimità.


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642 del 1907, « in quanto il sindacato di disposizioni contenute in atti privi di forza di legge esorbita dalla competenza della Corte costituzionale, al cui giudizio possono essere sottoposti solo gli atti aventi forza di legge ». Il riconoscimento della natura secondaria del r.d. n. 642 del 1907 avveniva attraverso una pedissequa riedizione degli argomenti già svolti nella precedente sentenza n. 118 del 1968. Vi sono tuttavia altre pronunce nelle quali la stessa Corte costituzionale parrebbe, sia pure implicitamente, attribuire al r.d. n. 642 del 1907 natura primaria: si segnalano, al riguardo, la sentenza 23 aprile 1987, n. 146, l’ordinanza 21 ottobre 1998, n. 359 e la sentenza 12 dicembre 1998, n. 406 (26). La prima dichiarava incostituzionali l’art. 44, comma 1, del r.d. n. 1054 del 1924 e l’art. 26 del r.d. n. 642 del 1907 nella parte in cui non consentivano, nelle controversie in materia di pubblico impiego riservate (all’epoca) alla giurisdizione amministrativa esclusiva, l’esperimento dei mezzi istruttori previsti nel processo del lavoro (privato). La declaratoria di incostituzionalità investiva anche l’art. 26 del r.d. n. 642 del 1907: ciò postulava, ancorché implicitamente, l’attribuzione a quella norma del rango primario, ché diversamente la questione di costituzionalità sarebbe stata dichiarata inammissibile in parte qua. L’ordinanza n. 359 del 1998 (27) dichiarava la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 51 del codice di procedura civile e dell’art. 47 del r.d. n. 642 del 1907. La questione, sollevata dal Tar Puglia con ordinanza del 6 novembre 1996, investiva le richiamate disposizioni nella parte in cui non prevedono il regime di incompatibilità del magistrato amministrativo, che abbia già conosciuto della causa in fase cautelare, a partecipare alla decisione di merito. La declaratoria di manifesta infondatezza (anziché di inammissibilità) presupponeva, ancora una volta in modo implicito, l’adesione alla tesi che riconosce natura primaria al r.d. n. 642 del 1907. (26) In questa Rivista, 1999, 1126 ss., con nota di F. GOISIS, Interessi pretensivi ed esecutività della sentenza di primo grado. (27) In www.giurcost.org.


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Infine, la sentenza n. 406 del 1998 dichiarava non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 37 della l. n. 1034 del 1971, dell’art. 27, comma 1, numero 4), del r.d. n. 1054 del 1924 e degli artt. 90 e 91 del r.d. n. 642 del 1907, nella parte in cui stabiliscono che il giudizio di ottemperanza possa essere proposto soltanto in base a sentenze passate in giudicato, e non anche in base a sentenze di primo grado non sospese dal giudice d’appello. Ancora una volta, la declaratoria di infondatezza (anziché di inammissibilità) della questione di legittimità costituzionale, nella parte in cui investiva gli artt. 90 e 91 del r.d. n. 642 del 1907, postulava, sia pure implicitamente, il riconoscimento al r.d. n. 642 del 1907 della natura primaria. Al contrasto tra diverse pronunce rese dalla Corte costituzionale fa da sfondo identica disparità di opinioni emersa nella dottrina, specie in quella più risalente, che più di frequente rispetto a quella a noi più vicina si è posta la questione della natura primaria o secondaria del r.d. n. 642 del 1907. A favore della natura primaria del r.d. n. 642 del 1907 si sono espressi A. Salandra, nelle sue Lezioni di diritto amministrativo del 1910-1911 (28), G. Zanobini, nel secondo volume su La giustizia amministrativa del suo Corso di diritto amministrativo del 1958 (29) e, sia pure in termini problematici, R. Chieppa, nel commento alla sentenza della Corte costituzionale n. 118 del (28) A. SALANDRA, Lezioni di diritto amministrativo, 1910-1911, Roma, 136 ss. (29) G. ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, vol. II, La giustizia amministrativa, VIII ed., Milano, 1958, 263, secondo cui i r.d. nn. 642 e 643 del 1907 « hanno carattere di decreti legislativi, perché emanati in forza della delegazione contenuta nei testi di legge della stessa data [r.d. nn. 638 e 639 del 1907], precedentemente in vigore [id est, in vigore fino all’entrata in vigore dei r.d. n. 1054 e 1058 del 1924]: per conseguenza, non si tratta di norme semplicemente esecutive, ma di norme complementari e integrative, aventi la stessa efficacia di quelle delle due leggi fondamentali [all’epoca, i r.d. nn. 1054 e 1058 del 1924, che avevano sostituito rispettivamente il r.d. n. 638 e il r.d. n. 639 del 1907] ». Si sottolinea che l’affermazione secondo cui il r.d. n. 642 del 1907 sarebbe stato emanato in forza di una delegazione contenuta nel r.d. n. 638 del 1907 può essere accettata soltanto con la precisazione che l’art. 47 del r.d. n. 638 del 1907 riproduceva la clausola di delegazione contenuta nell’art. 16, comma 1, della l. n. 62 del 1907. In realtà, pare più corretto individuare la clausola delegazione legittimante l’emanazione del r.d. n. 642 del 1907 nell’art. 16, comma 1, della l. n. 62 del 1907, piuttosto che nell’art. 47 del r.d. n. 638 del 1907, posto che l’art. 47 cit. si limitava a


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1968, apparso nella Rivista Giustizia costituzionale dello stesso anno (30). A favore della natura secondaria del r.d. n. 642 del 1907 si sono invece pronunciati L. Raggi, nelle lezioni tenute per l’anno accademico 1928-29 e raccolte dallo studente R. Lucifredi (31), L. Ragnisco, nel capitolo VI, intitolato alla Delegazione di potestà legislativa e delegazione di potestà regolamentare, della sua opera relativa alla l. n. 100 del 1926 (32), M. Soardi, nel suo Manuale della giustizia amministrativa del 1956 (33), E. Cannada Bartoli, nella voce Processo amministrativo apparsa sul Novissimo digesto italiano nel 1966 (34), G. Landi e G. Potenza, nel loro Manuale di diritto amministrativo (35) e, più di recente, G. Abbamonte e R. Laschena, nel volume sulla Giustizia amminiribadire il disposto dell’art. 16, comma 1 cit. e che il r.d. n. 638 del 1907 è stato emanato nella stessa data (17 agosto) in cui fu emanato il r.d. n. 642 del 1907. (30) R. CHIEPPA, Sulla validità delle norme sulla procedura dinnanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, nota a Corte cost., 28 novembre 1968, n. 118, in Giur. cost., 1968, III, 2127 ss. (31) L. RAGGI, Diritto amministrativo. Atti amministrativi — giustizia amministrativa, corso di lezioni per l’anno accademico 1928-29 raccolte dallo studente R. Lucifredi, ristampa 1930, Padova, 416, che qualifica espressamente il r.d. n. 642 del 1907 (al pari del r.d. n. 643 del 1907) come « regolamento delegato ». (32) L. RAGNISCO, La legge 31 gennaio 1926, n. 100 ed il Consiglio di Stato, Padova, 1930, 138, che identifica un « caso di delegazione di potestà regolamentare » nell’art. 53 del r.d. 26 giugno 1924, n. 1054, il quale dispone che con regio decreto « a proposizione del Ministro dell’interno, sentito il Consiglio di Stato, saranno determinate le norme del procedimento da seguirsi avanti il Consiglio di Stato, in quanto non siasi provveduto con la presente legge, e sarà provveduto altresı̀ a quanto altro possa occorrere per la esecuzione della legge medesima ». Identico inquadramento è dall’Autore riservato all’art. 24 del r.d. 26 giugno 1924, n. 1058, il quale rinviava, del pari, ad un regolamento di procedura avanti alle giunte provinciali amministrative. (33) M. SOARDI, Manuale della giustizia amministrativa, F. Apollonio & C., 1956, 223, nota 390, che definisce esplicitamente il r.d. n. 642 del 1907 (« regolamento di procedura approvato contestualmente al T.U. del 1907 » e « ancora in vigore ») come « regolamento delegato ». (34) E. CANNADA BARTOLI, voce Processo amministrativo (considerazioni introduttive), in Noviss. dig. it., XIII, Torino, 1966, 1078. Identica opinione viene manifestata dall’Autore anche in Appunti sul contraddittorio nel processo ex art. 27, n. 4, della legge sul Consiglio di Stato, Estratto da Atti del convegno sull’adempimento del giudicato amministrativo, Milano, 1962, 155 ss. (35) G. LANDI e G. POTENZA, Manuale di diritto amministrativo, VII ed., Milano, 1983, 583 secondo cui, pur essendo « stato generalmente ritenuto che » il r.d. n. 642 del 1907 avesse « efficacia formale di legge » (il riferimento implicito è, evidentemente, alle


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strativa inserito — nel 1997 — nel Trattato di diritto amministrativo diretto da G. Santaniello (36). Una posizione per cosı̀ dire intermedia spetta a F. Cammeo e ad A.M. Sandulli, i quali si sono schierati ora a favore dell’una ora a favore dell’altra tesi. In particolare, F. Cammeo, nel capitolo intitolato Della manifestazione della volontà dello Stato nel campo del diritto amministrativo, inserito nel terzo volume del Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano a cura di V.E. Orlando (37), riconosceva al r.d. 17 ottobre 1889, n. 6516 (e cioè al regolamento di procedura successivamente abrogato dal r.d. n. 642 del 1907) la natura di regolamento delegato, salvo poi, nel terzo volume del suo Corso di diritto amministrativo del 1914 (38), annettere al r.d. n. 642 del 1907 natura di legge delegata. Anche l’opinione di A.M. Sandulli ha sposato, nel corso del tempo, l’una e l’altra tesi: nelle edizioni del suo Manuale di diritto amministrativo del 1952 e del 1959 l’Autore qualificava il r.d. n. 642 del 1907 come « legge delegata » o come « decreto le-

opinioni espresse in tal senso da Cammeo e Zanobini), in quanto emanato « in base a delega di poteri legislativi », « tale opinione va tuttavia riveduta alla luce della pronuncia della Corte costituzionale 28 novembre 1968, n. 118, che ha considerato le norme di mero contenuto regolamentare ». Cfr. anche, già negli stessi termini, la VI ed., Milano, 1978, 597. (36) G. ABBAMONTE e R. LASCHENA, Giustizia amministrativa, in Tratt. dir. amm. diretto da G. SANTANIELLO, Padova, 1997, 20, i quali, all’atto di menzionare il r.d. n. 642 del 1907, affermano che « trattasi di un regolamento c.d. autorizzato ». (37) F. CAMMEO, Della manifestazione della volontà dello Stato nel campo del diritto amministrativo, in Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, a cura di V.E. ORLANDO, vol. III, Milano, 1901, 174, 176 (nota 3) e 177. Cfr., per una descrizione più ampia della posizione espressa al riguardo da Cammeo, la precedente nota n. 22. (38) F. CAMMEO, Corso di diritto amministrativo, vol. III, Padova, 1914, 1585, ove ai r.d. nn. 642 e 643 del 1907 si riconosce « forza legislativa », potendo essi « derogare a qualsiasi norma o principio di diritto, che non sia contenuto nelle leggi rispettive [e cioè, nei r.d. nn. 638 e 639 del 1907] ». In questo passaggio l’Autore ricostruisce i rapporti tra leggi contenenti la clausola di delegazione (r.d. nn. 638 e 639 del 1907) e atti normativi delegati al governo (r.d. nn. 642 e 643 del 1907) alla stessa stregua dell’odierno rapporto intercorrente, in virtù dell’art. 76 Cost., tra legge delega e decreto legislativo.


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gislativo » (39); nelle edizioni del 1966 e del 1969 il regio decreto risulta definito come un « regolamento libero » (40); infine, nelle edizioni del 1974, del 1984 e del 1989 la qualificazione impressa al regio decreto è quella di « regolamento autorizzato » (41) (42). Sia consentito notare, sia pure sommessamente, che le differenti opinioni sulla natura (primaria o secondaria) del r.d. n. 642 del 1907 sono state generalmente espresse in modo non sufficientemente argomentato e talvolta addirittura apodittico. Cosı̀, chi ha optato per riconoscere al r.d. n. 642 del 1907 natura primaria, ciò ha fatto semplicemente affermandone il carattere di decreto delegato, a sua volta derivante dalla clausola (qualificata come) di delegazione legislativa contenuta nella legge (e, in particolare, nell’art. 16, comma 1, della l. n. 62 del 1907, poi trasfuso nell’art. 47 del r.d. n. 638 del 1907). Allo stesso modo, chi ha aderito alla tesi che riconosce natura secondaria al r.d. n. 642 del 1907, si è limitato ad esprimere, di solito con pochissime parole, una tale posizione, senza provare a suffragarla con argomenti convincenti (43). In un quadro di opinioni tanto divergenti quanto scarsamente (39) A.M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, I ed., Napoli, 1952, 477, ove si parla di « legge delegata »; Manuale di diritto amministrativo, V ed., Napoli, 1959, 605, ove si parla parimenti di « decreto legislativo ». (40) A.M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, IX ed., Napoli, 1966, 739, ove si parla di « regolamento libero ». Identica locuzione si rinviene nella X ed., Napoli, 1969, 816. (41) A.M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, XII ed., Napoli, 1974, 964, ove si parla di « regolamento autorizzato ». Identica locuzione si rinviene anche nella XIV ed., Napoli, 1984, 1351, nonché nella XV ed., Napoli, 1989, 1404. (42) Anche M. NIGRO, voce Processo amministrativo, in Enc. giur. Treccani, vol. XXIV, Roma, 1991, ripubblicato in Scritti giuridici, tomo III, Milano, 1996, 2082 si limita a dar conto dell’incertezza in ordine all’esatta natura del r.d. n. 642 del 1907. (43) Si tratta, a ben vedere, dello stesso atteggiamento esibito dalla Corte costituzionale nelle vicende, sopra ricordate, in cui ha dichiarato fondata (anziché inammissibile) la questione di legittimità costituzionale che investiva (anche) una disposizione contenuta nel r.d. n. 642 del 1907 (sent. 23 aprile 1987, n. 146), ovvero ha dichiarato manifestamente infondata (anziché inammissibile) la questione di legittimità costituzionale che investiva (anche) una disposizione contenuta nel r.d. n. 642 del 1907 (ord. 21 ottobre 1998, n. 359), ovvero ha dichiarato infondata (anziché inammissibile) la questione di legittimità costituzionale che ineriva (anche) una disposizione del r.d. n. 642 del 1907 (sent. 12 dicembre 1998, n. 406). In tutte e tre le vicende la Corte ha pertanto


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argomentate, fa eccezione Francesco D’Alessio, il quale, nella sua opera del 1912 relativa ai rapporti e ai conflitti tra la IV e la V Sezione del Consiglio di Stato, dedicava uno spazio relativamente ampio alla questione de qua, attingendo spunti preziosi dai lavori preparatori della l. n. 62 del 1907 (44) (45). L’Autore, dichiarando preliminarmente di non voler affrontare la questione, « dibattuta e non ancora sopita nel campo della scienza, se le norme di procedura possano formare oggetto di regolamento, o se non debbano invece trovare posto più conveniente in sede legislativa », afferma che « giuridicamente non può essere dubbio il carattere di regolamenti delegati per quelli che intendono disciplinare la procedura dei ricorsi davanti il Consiglio di Stato e le Giunte provinciali amministrative »: con la l. n. 62 del 1907, « che pur conteneva [essa stessa] importanti innovazioni in materia procedurale », è stata pertanto « confermata la grande importanza del regolamento, cui è stata deferita la determinazione di norme essenziali per il procedimento amministrativo » (oggi diremmo più correttamente: processo amministrativo) (46). Il carattere di delegazione di potestà regolamentare troverebbe conferma, secondo l’Autore, nella relazione ministeriale al Senato (che accompagnava il disegno di legge poi divenuto l. n. 62 del 1907): « Le innovazioni introdotte nel presente disegno di legge rendono necessario il coordinamento di queste con il testo delle assunto una posizione tanto (apparentemente) netta quanto (realmente) priva di un esplicito supporto logico-giuridico. (44) F. D’ALESSIO, Rapporti e conflitti fra le due sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, Milano, 1912, 29-30. I rapporti e i conflitti tra la IV e la V Sezione del Consiglio di Stato — sia puntualizzato per incidens — discendevano dal riparto di competenza istituito con la l. n. 62 del 1907 tra le due sezioni, la prima essendo stata munita della sola competenza di legittimità, la seconda essendo stata invece investita della sola competenza estesa al merito. Il problema venne poi risolto con il r.d. n. 2840 del 1923, con il quale si rese promiscua la competenza delle due sezioni. (45) In verità, un’ampia riflessione sulla questione qui dibattuta è stata svolta anche da R. CHIEPPA, Sulla validità delle norme sulla procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato: a proposito dell’esecuzione del giudicato, nota a Corte cost., 28 novembre 1968, n. 118, in Giur. cost., 1968, III, 2127 ss.: l’Autore opta, sia pure in modo problematico, per la soluzione che riconosce natura primaria al r.d. n. 642 del 1907, sulla base di una serie di argomenti che verranno affrontati, al fine di verificarne l’effettiva consistenza, nel prosieguo della presente esposizione. (46) F. D’ALESSIO, op. ult. cit., 30.


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leggi modificate [id est, con il r.d. n. 6166 del 1889]. Il mandato di compilarlo è, secondo le mie proposte, conferito, come di consueto, al Governo del Re, al quale viene parimenti delegata la facoltà di modificare i regolamenti per l’esecuzione della legge » (47). Il disegno di legge che sarebbe poi divenuto l. n. 62 del 1907 conteneva pertanto sia la delega al Governo per la compilazione di un testo unico inteso a raccordare il vecchio testo unico del 1889 (r.d. 2 giugno 1889, n. 6166) con le novità introdotte dalla stessa l. n. 62 del 1907 (testo unico che sarebbe stato poi compilato ed emanato con r.d. 17 agosto 1907, n. 638), sia la delega al Governo per l’adozione del regolamento inteso a modificare il precedente regolamento di procedura, a suo tempo emanato — in base all’art. 43 del r.d. n. 6166 del 1889 — con r.d. 17 ottobre 1889, n. 6516 (nuovo regolamento che sarebbe stato poi emanato con il r.d. n. 642 del 17 agosto 1907). Si trattava pertanto di una duplice delega: la prima (poi trasfusa nell’art. 15, n. 1, della l. n. 62 del 1907) era una delega legislativa (o, secondo la terminologia allora invalsa, delegazione di potestà legislativa in senso formale), funzionale alla compilazione di quel testo unico poi emanato con r.d. 17 agosto 1907, n. 638; la seconda (poi trasfusa nell’art. 16, comma 1, della l. n. 62 del 1907) era una delega di potere regolamentare (o delegazione di potestà legislativa in senso soltanto materiale), cui il Governo diede seguito con l’emanazione del r.d. n. 642 del 17 agosto 1907, inteso, come già rilevato, a modificare il precedente regolamento di procedura del 1889 (48). (47) F. D’ALESSIO, op. ult. cit., 30, nota n. 2. La versione integrale della relazione ministeriale sul progetto di legge per il riordinamento degli istituti per la giustizia amministrativa, presentato al Senato dal Ministro dell’Interno e Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti di concerto col Ministro del Tesoro A. Majorana nella tornata del 27 novembre 1906 è reperibile in C. PASTORE, Vademecum per il Consiglio di Stato, Roma, 1908, 14-15. (48) Aggiunge F. D’ALESSIO, op. ult. cit., 30 — con una considerazione che pur presentando una coloritura politica è tuttavia capace di riflettere efficacemente l’assetto dei rapporti esistenti all’epoca tra Potere Legislativo e Potere esecutivo — che « politicamente, il rinvio di tale attribuzione [id est, dell’attribuzione di adottare i nuovi regolamenti di esecuzione e di procedura, intesi a modificare i precedenti] al potere esecu-


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L’art. 16, comma 1, della l. n. 62 del 1907 (poi trasfuso nell’art. 47 del r.d. n. 638 del 1907) delegava pertanto il Governo ad adottare un regolamento inteso ad apportare le necessarie modificazioni al precedente regolamento di procedura, che era stato a sua volta emanato con r.d. n. 6516 del 1889, in base all’art. 22 della l. n. 5992 del 1889 (poi trasfuso nell’art. 43 del r.d. n. 6166 del 1889). Prima ancora dei lavori parlamentari che hanno condotto all’approvazione della l. n. 62 del 1907, è lo stesso tenore letterale del suo articolo 16, comma 1 a far supporre che il r.d. n. 642 del 1907 sia un regolamento delegato (frutto di una delegazione di potestà regolamentare) e non una legge delegata (frutto di una delegazione di potestà legislativa in senso formale). L’art. 16, comma 1, cit. dispone, infatti, che « con regi decreti, su proposta del Ministero dell’interno e sentito... il Consiglio di Stato, saranno stabilite le modificazioni da apportarsi »: a) al regolamento per l’esecuzione della legge sul Consiglio di Stato (si trattava del r.d. 17 ottobre 1889, n. 6515, che sarebbe stato poi sostituito dal r.d. 17 agosto 1907, n. 641); b) al regolamento per la procedura davanti alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato (si trattava del r.d. 17 ottobre 1889, n. 6516, che sarebbe stato poi sostituito dal r.d. 17 agosto 1907, n. 642; c) al regolamento per la procedura davanti alle Giunte provinciali amministrative nell’esercizio delle loro attribuzioni giurisdizionali (si trattava del r.d. 4 giugno 1891, che sarebbe stato poi sostituito dal r.d. 17 agosto 1907, n. 643). Come già segnalato, il regolamento per l’esecuzione della legge sul Consiglio di Stato sarebbe stato poi emanato con r.d. 17 agosto 1907, n. 641, mentre il regolamento di procedura sarebbe stato poi emanato con r.d. 17 agosto 1907, n. 642. tivo è di certo giustificato dalla crisi che attraversa attualmente il nostro sistema parlamentare e che rende più che mai inadatte le assemblee legislative alla compilazione di leggi organiche, cui non possano presiedere pochi principi facilmente e generalmente intelligibili, ma che debbano scendere invece fino ad una minuta casistica, informata a disposizioni chiare e soprattutto armoniche, per le quali è specialmente necessaria l’opera paziente ed il raccoglimento, in tranquille officine, d’abili operai della scienza e dell’amministrazione pubblica ».


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Si nota immediatamente che fu lo stesso art. 16, comma 1 cit. a qualificare, sia pure in modo indiretto, la natura dell’atto che il Governo era delegato ad emanare: infatti, la legge attribuiva al Governo il potere di « stabilire le modificazioni da apportarsi » a taluni « regolamenti »: quello di esecuzione e quello di procedura, a suo tempo approvati — in seguito al r.d. 2 giugno 1889, n. 6166 — con r.d. del 17 ottobre 1889, rispettivamente n. 6515 e n. 6516. Tuttavia, dato che la qualificazione impressa dall’art. 16, comma 1, cit. agli atti normativi che il Governo era delegato ad emanare è una qualificazione soltanto indiretta (derivante, cioè, dalla natura degli atti rispetto ai quali occorreva stabilire « le modificazioni da apportarsi »), appare necessario verificare ulteriormente la corrispondenza tra la qualifica risultante dal testo della legge (art. 16, comma 1, della l. n. 62 del 1907) e la natura del regio decreto emesso in forza di questa (r.d. n. 642 del 1907): tale operazione va naturalmente condotta avendo riguardo al sistema delle fonti del diritto in vigore all’epoca di emanazione del r.d. n. 642 del 1907. 4. Al fine di ricostruire i connotati del sistema delle fonti del diritto in vigore nei primi anni del Novecento, si è esaminata la dottrina più autorevole dell’epoca, assumendo, quali imprescindibili punti di riferimento, gli scritti di Oreste Ranelletti e di Federico Cammeo. Entrambi gli Autori classificavano i regolamenti governativi adottati per l’esecuzione di una legge in due categorie: quelli adottati per potere proprio del Governo e quelli adottati per delegazione da parte del Parlamento. Con i primi (cc.dd. regolamenti di esecuzione) il Governo adottava tutte le norme giuridiche necessarie per l’esecuzione delle leggi, quando tali norme si potessero per interpretazione e logica deduzione derivare dalla legge (della cui esecuzione si trattasse) o, in genere, dal diritto vigente. Tali regolamenti erano dal Governo adottati per potere proprio, e cioè indipendentemente da (e, quindi, anche in mancanza di) una speciale clausola di delegazione contenuta nella legge


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della cui esecuzione si trattasse: il loro fondamento generale era individuato nell’art. 6 dello Statuto Albertino, che operava un’attribuzione stabile di competenza al Governo, della quale l’Esecutivo poteva pertanto fare uso sempre, per ogni legge. Mentre per l’adozione di regolamenti di esecuzione — espressione di un potere proprio del Governo — quest’ultimo non necessitava « di una disposizione positiva che glielo » attribuisse (si intende: il potere), « una tale disposizione (delegazione di poteri) » si riteneva, invece, « necessaria per l’emanazione di norme », fossero « pure occorrenti per l’esecuzione di una legge, ma che non si » potessero « ricondurre al diritto esistente », non si potessero « da questo derivare in via d’interpretazione, cioè norme nuove » (c.d. regolamenti delegati o, secondo un’altra dizione, autorizzati). Mentre i regolamenti di esecuzione esprimevano un potere proprio del Governo, munito di un’abilitazione ampia e perenne (accordata, una volta per tutte, dall’art. 6 dello Statuto Albertino) (49), i regolamenti delegati riflettevano un potere delegato all’Esecutivo dal Parlamento (c.d. delegazione di potestà legislativa in senso soltanto materiale o, più semplicemente, delegazione di potestà regolamentare) (50). La clausola legislativa di delegazione consentiva all’Esecutivo di disciplinare materie sottratte alla competenza degli organi amministrativi e rimesse all’esclusiva competenza degli organi legislativi (materiae legis) o, in generale, di porre norme giuridiche nuove, non ricavabili in via di interpretazione o di logica deduzione dal diritto vigente. Tuttavia, anche i regolamenti delegati, pur permettendo al Governo di superare i limiti sostanziali altrimenti connaturati al potere regolamentare, rimanevano pur sempre soggetti ai limiti for(49) L’art. 6 dello Statuto Albertino, secondo cui « il Re fa i regolamenti necessari per l’esecuzione delle leggi senza sospendere l’osservanza delle leggi e senza dispensarne », era una traduzione quasi letterale dell’art. 13 della Carta francese del 1803. (50) O. RANELLETTI, Lezioni di diritto amministrativo, fasc. I, Napoli, 1921, 2425; F. CAMMEO, Della manifestazione della volontà dello Stato nel campo del diritto amministrativo, in Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, a cura di V.E. ORLANDO, vol. III, Milano, 1901, 177 ss.


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mali: detti regolamenti, cioè, non potevano mai contraddire una legge in senso formale vigente e potevano essere abrogati o derogati da regolamenti successivi nel tempo (51). Per superare i limiti sostanziali normalmente connaturati al suo potere regolamentare (id est, per regolare materie ordinariamente sottratte alla sua competenza e, in generale, per emanare norme giuridiche nuove, nel senso di norme necessarie per l’esecuzione di una legge e tuttavia non ricavabili in via interpretativa o di deduzione logica dalle fonti primarie vigenti), il Governo abbisognava di una delegazione di potestà legislativa in senso soltanto materiale, e cioè di una delegazione di potestà regolamentare. Attraverso di essa, il Governo poteva regolare materie che altrimenti sarebbero state di esclusiva competenza degli organi legislativi e, in generale, poteva porre norme giuridiche nuove (nel senso di norme non intra legem), ma il suo atto (regolamento delegato), da un lato non poteva derogare o abrogare leggi in senso formale esistenti e, dall’altro lato poteva essere sempre modificato da un regolamento successivo (52). Per superare i limiti formali connaturati al suo potere regolamentare (id est, per porre in essere norme giuridiche primarie, in grado di derogare o abrogare leggi esistenti, nonché di resistere all’abrogazione da parte di regolamenti successivi), il Governo necessitava invece di una delegazione di potestà legislativa in (51) Per l’illustrazione dei limiti formali e sostanziali cui soggiaceva, in termini generali, il potere regolamentare del Governo, si vedano O. RANELLETTI, op. ult. cit., 2728; L. RAGGI, Diritto amministrativo, vol. III, Introduzione — Fonti — Diritti soggettivi — Oggetti, lezioni raccolte dallo studente U. Vernetti, anno accademico 1930-31, Padova, 1931, 102-103. Come si è appena notato nel testo, i regolamenti delegati implicavano un superamento dei limiti sostanziali normalmente connaturati al potere regolamentare, impregiudicato il secondo ordine di limiti: quelli formali. Sullo stesso tema, si veda anche G.M. DE FRANCESCO, Appunti dalle lezioni di diritto amministrativo. Nozioni — fonti — soggetti, a cura dell’assistente Cesare RIBOLZI, III ed. riveduta ed aggiornata, Milano, s.d., 131-132; F. CAMMEO, Della manifestazione della volontà dello Stato nel campo del diritto amministrativo, in Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, a cura di V.E. ORLANDO, vol. III, Milano, 1901, 177 ss. (52) O. RANELLETTI, op. ult. cit., 29. Per alcuni esempi di regolamenti delegati, si vedano le pp. 32-33. Si veda altresı̀ L. RAGGI, Diritto amministrativo, vol. III, Introduzione — Fonti — Diritti soggettivi — Oggetti, lezioni raccolte dallo studente U. Vernetti, anno accademico 1930-31, Padova, 1931, 106.


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senso formale, capace di abilitarlo ad emanare leggi delegate, munite di forza di legge e passibili, come tali, di modifica soltanto ad opera di una legge o un atto avente forza di legge successivi nel tempo (53). Sia i regolamenti delegati che le leggi delegate esprimevano non già un potere proprio del Governo (quale era invece quello che si rifletteva nei regolamenti di pura esecuzione, destinati come tali a restare intra legem) (54), bensı̀ un potere delegato al Governo dal Parlamento. Dunque, il tratto comune di regolamenti delegati e leggi delegate era dato dal rinvenire ambedue le fonti il fondamento in una speciale clausola di delegazione contenuta in un testo di legge approvato dal Parlamento. La differenza tra regolamenti delegati e leggi delegate dipendeva poi dalla speciale clausola di delegazione, la quale nell’ipotesi di regolamento delegato contemplava una delegazione di potestà regolamentare (idonea come tale a superare il solo limite sostanziale connaturato normalmente al potere regolamentare dell’Esecutivo), mentre nell’ipotesi di legge delegata contemplava una delegazione di potestà legislativa in senso formale (idonea come tale a superare ambedue i limiti ordinariamente propri del (53) O. RANELLETTI, op. ult. cit., 29. Per alcuni esempi di leggi delegate, si vedano le pp. da 35 a 38. (54) Cfr. F. CAMMEO, Della manifestazione della volontà dello Stato nel campo del diritto amministrativo, in Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, a cura di V.E. ORLANDO, vol. III, Milano, 1901, 171-172, secondo cui anche i regolamenti delegati, al pari di quelli di pura esecuzione, « in un certo senso servono all’esecuzione della legge, la quale senz’essi non avrebbe vita organica », in quanto alcune norme « per completare la legislazione sopra un dato argomento solo in parte governato dalla legge sono espressamente delegate all’amministrazione »; tuttavia, « questi regolamenti non sono esecutivi in senso stretto, poiché piuttosto completano la legge anziché assicurarne l’esecuzione: dettano norme praeter legem in virtù di delegazione, anziché intra legem ». Al contrario — proseguiva l’Autore — « il carattere dei regolamenti di esecuzione è essenzialmente quello di rimanere intra legem. Essi sono cioè costituiti dal complesso delle norme che possono emanarsi nell’esercizio di quella somma di piccole facoltà discrezionali, che ogni legge in maggiore o minor misura lascia all’autorità amministrativa su punti di secondaria importanza, su questioni di indole tecnica: e queste norme secondarie vanno desunte ed in tanto sono legittime, in quanto sono desunte dai principi generali stabiliti dalla legge per via di interpretazione della sua lettera e del suo spirito ».


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potere regolamentare: tanto quello formale quanto quello sostanziale) (55). Tornando per un momento alla differenza intercorrente tra i regolamenti di pura esecuzione (destinati a porre norme giuridiche intra legem, e cioè derivabili in via interpretativa e di logica deduzione dalle leggi vigenti) e i regolamenti delegati (che, sorpassando il richiamato limite sostanziale, ponevano norme giuridiche nuove, ancorché occorrenti per l’esecuzione della legge) (56), la dottrina dell’epoca aveva notato che molto spesso le leggi contenevano una disposizione che rinviava ad un successivo regolamento governativo. Oreste Ranelletti si domandava, al riguardo: si tratta di una clausola di pura ripetizione dell’art. 6 dello Statuto Albertino? (55) G.M. DE FRANCESCO, Appunti dalle lezioni di diritto amministrativo, cit., 132, secondo cui « i regolamenti delegati si distinguono...dalle leggi delegate, in quanto queste hanno forza formale di legge (e possono perciò modificare o estinguere leggi precedenti), mentre i regolamenti delegati non hanno tale efficacia e quindi non possono mai contenere norme giuridiche contrarie alle leggi formali, poiché, come si è detto, essi possono bensı̀ superare i limiti sostanziali...ma giammai i limiti formali, dati dalle leggi preesistenti ». Cfr. altresı̀ L. RAGNISCO, La legge 31 gennaio 1926, n. 100 ed il Consiglio di Stato, Padova, 1930, 135, secondo cui i regolamenti delegati, pur implicando una autorizzazione conferita dal Parlamento al Governo di intervenire in materie riservate al Parlamento, « non sono, come le leggi delegate, atti legislativi », costituendo invece « una specie del genere regolamento: ciò che distingue il regolamento delegato dagli altri regolamenti è la materia cui esso si riferisce, la quale, non essendo materia amministrativa, ma, toccando i diritti e le libertà dei cittadini, esige una specifica autorizzazione da parte del legislatore ». (56) Cfr. anche G. M. DE FRANCESCO, Appunti dalle lezioni di diritto amministrativo, cit., 131, secondo cui « i regolamenti delegati si distinguono... dai regolamenti esecutivi in quanto per questi ultimi vi sono delle leggi di cui si provvede ad esplicare il contenuto, mentre per i regolamenti delegati la legge è solo il fondamento della facoltà di emanare determinate norme giuridiche oltre i limiti sostanziali ». L’unica perplessità che, sia pure per incidens, si ritiene di esprimere (derivante dal collocarsi l’insegnamento di G.M. De Francesco a valle della l. n. 100 del 1926) attiene alla perdurante validità della distinzione tra regolamenti esecutivi e regolamenti delegati dopo l’entrata in vigore della l. n. 100 del 1926 (perdurante validità correttamente negata dalla prevalente dottrina: si veda, tra gli altri, L. RAGGI, Diritto amministrativo, vol. III, Introduzione — Fonti — Diritti soggettivi — Oggetti, lezioni raccolte dallo studente U. Vernetti, anno accademico 1930-31, Padova, 1931, 97-98). Discorso differente — che qui non può essere affrontato — è quello relativo alla perdurante vigenza della l. n. 100 del 1926 a seguito dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana e fino all’avvento della legge n. 400 del 1988.


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Oppure quella clausola contiene il conferimento di una più ampia facoltà al Governo di poter emanare norme giuridiche anche nuove, purché necessarie all’esecuzione della legge e sempre nel rispetto di quel limite formale che attiene all’efficacia d’ordine subordinato che è propria dei regolamenti (di qualunque tipo essi siano) rispetto alle fonti primarie del diritto? L’Autore esprimeva la sua preferenza per la seconda opinione, in quanto sarebbe risultata del tutto inutile e pleonastica una clausola di legge da intendersi semplicemente come pura ripetizione dell’art. 6 dello Statuto Albertino (57). Ed è proprio aderendo a tale opinione che l’Autore passava a sviluppare la distinzione già indicata tra regolamenti di pura esecuzione (adottabili in base ai poteri riconosciuti all’Esecutivo dall’art. 6 dello Statuto Albertino, anche in mancanza di una speciale clausola di delegazione) e regolamenti delegati o autorizzati (adottabili soltanto in presenza di una clausola speciale di delegazione al Governo, in quanto non corrispondenti ad un potere proprio dell’Esecutivo, ma ad un potere allo stesso delegato dal Parlamento, il solo organo capace di abilitare il Governo a superare i limiti sostanziali entro i quali si riteneva normalmente ristretta la potestà regolamentare, quanto ai suoi contenuti o alle materie sulle quali essa poteva dispiegarsi) (58). Esaminando altra dottrina del tempo, ci si rende conto di come la posizione del Ranelletti fosse troppo rigida: non poteva, infatti, escludersi a priori che una clausola speciale di delegazione contenuta in una legge del Parlamento si atteggiasse alla stregua di pura ripetizione dell’art. 6 dello Statuto Albertino e, dunque, rinviasse ad un successivo regolamento di pura esecuzione. È presumibile che lo stesso Ranelletti si fosse avveduto dell’eccessiva rigidità della tesi che faceva corrispondere ogni « clausola a regolamentare » ad una delegazione di potestà regolamentare (e, dunque, ad una autorizzazione a superare i limiti sostanziali normalmente propri del potere regolamentare), nel momento in cui (57) O. RANELLETTI, La potestà legislativa del Governo, in Riv. dir. pubbl., 1926, I, 167. (58) O. RANELLETTI, op. ult. cit., 167.


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scriveva che « il Governo avrà i poteri » regolamentari nei soli « limiti della clausola di delegazione » (59): occorreva pertanto interpretare, volta per volta, la norma di legge recante il rinvio ad un regolamento, al fine di discernere la pura ripetizione dell’art. 6 dello Statuto Albertino (che preludeva ad un regolamento intra legem) dalla delegazione di potestà regolamentare (che preludeva ad un regolamento delegato, in grado di superare i limiti sostanziali ordinariamente connaturati al potere regolamentare) (60). Tuttavia, lasciando in disparte quest’ultimo ragionamento, quel che conta è di aver compreso quali fossero identità e differenze tra regolamenti di pura esecuzione, regolamenti delegati e leggi delegate, nel quadro del sistema delle fonti del diritto vigente all’inizio del XX secolo (61). In estrema sintesi, regolamenti di pura esecuzione e regolamenti delegati erano accomunati da due fattori: a) entrambi davano esecuzione alle leggi; b) entrambi soggiacevano ineludibilmente al limite formale sempre connaturato al potere regolamentare: non potevano cioè abrogare o derogare leggi vigenti e potevano essere abrogati o derogati da regolamenti successivi. L’elemento in grado di scriminare regolamenti di pura esecuzione e regolamenti delegati atteneva al limite sostanziale normalmente proprio della potestà regolamentare: limite che incombeva (59) O. RANELLETTI, Lezioni di diritto amministrativo, fasc. I, Napoli, 1921, 29. (60) Cfr. C. SALTELLI, Potere esecutivo e norme giuridiche, Roma, 1926, 101, il quale rilevava correttamente che talvolta la clausola legislativa di rinvio ad un regolamento governativo fosse superflua, in quanto pura ripetizione dell’art. 6 dello Statuto Albertino, e talaltra quella clausola fosse tutt’altro che pleonastica, se e nella misura in cui preludesse all’adozione di un regolamento delegato o autorizzato. (61) Come nota lo stesso O. RANELLETTI, La potestà legislativa del Governo, in Riv. dir. pubbl., 1926, I, 167, l’annosa questione inerente alla distinzione tra regolamenti di pura esecuzione (espressione di un potere proprio del Governo) e regolamenti delegati (espressione di un potere delegato al Governo, affinché quest’ultimo fosse in grado di superare i limiti sostanziali ordinariamente propri del potere regolamentare) venne superata dalla l. 31 gennaio 1926, n. 100, il cui art. 1, comma 1, n. 1 attribuiva al Governo di emanare regolamenti recanti « le norme giuridiche necessarie per disciplinare l’esecuzione delle leggi »: tutte le norme, dunque, senza alcuna restrizione, e quindi anche nuove, purché fossero necessarie per la esecuzione delle leggi, fermo soltanto il limite formale.


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senz’altro sui primi (in quanto regolamenti destinati ad operare soltanto intra legem) e che risultava invece sorpassato dai secondi (in quanto regolamenti abilitati dalla clausola speciale di delegazione contenuta in un testo di legge a porre norme giuridiche nuove, non derivabili in via di interpretazione o di logica deduzione dal diritto vigente). Anche i regolamenti delegati e le leggi delegate condividevano un tratto comune, consistente nel fondarsi ambedue su una clausola speciale di delegazione contenuta in una legge del Parlamento. Non corrispondendo a poteri propri del Governo, tali atti necessitavano di una apposita delegazione ad opera dell’organo istituzionalmente titolare della potestà normativa (cfr. l’art. 3 dello Statuto Albertino, secondo cui « il potere legislativo è esercitato collettivamente dal Re e dalle due Camere, il Senato e la Camera dei Deputati », mentre al complesso Sovrano-Governo « appartiene il potere esecutivo » ex art. 5 dello stesso Statuto). Tuttavia, mentre il regolamento delegato non può modificare fonti primarie del diritto e può invece essere derogato o abrogato da un regolamento successivo (id est, non può scardinare il limite formale che incombe inesorabile sulla potestà regolamentare, essendo soltanto in grado di sorpassare l’altro limite, quello sostanziale, relativo ai contenuti, alle materie, agli ambiti disciplinari, alla novità delle norme giuridiche secondarie poste), la legge delegata è un atto avente forza di legge, idoneo come tale a scardinare entrambi i limiti di cui soffre per sua natura il potere regolamentare (62). È nell’ambito di queste coordinate che Ranelletti e Cammeo individuavano un criterio per discernere regolamenti delegati e leggi delegate nei casi dubbi (e cioè nei casi di formule legisla(62) Corollario di tale distinzione era che la delegazione di potestà regolamentare conferiva al Governo « una facoltà permanente di provvedere sopra una data materia », mentre la delegazione di potestà legislativa in senso formale conferiva al Governo un potere che si esauriva con l’adozione di una sola legge delegata, o di una serie di leggi delegate contenute entro un orizzonte temporale predeterminato: « in altre parole, i regolamenti delegati possono modificarsi con altri regolamenti; i decreti legislativi non si mutano che con una legge » (cfr. C. SALTELLI, Potere esecutivo e norme giuridiche, Roma, 1926, 209).


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tive non particolarmente felici o perspicue). Partendo dalla premessa maggiore secondo cui « ogni delegazione » di potestà normativa (sub specie di delegazione di potestà regolamentare ovvero di delegazione di potestà legislativa in senso formale) « costituisce una deroga al principio della divisione dei poteri, ed ha perciò carattere eccezionale » e passando attraverso la premessa minore secondo cui « più grave deroga contiene quella di potestà legislativa formale » (posto ch’essa consentiva all’Esecutivo di sorpassare ambedue i limiti propri del potere regolamentare), i due Autori giungevano alla duplice conclusione che si riporta testualmente: a) la delegazione di potestà legislativa in senso formale (delegazione che prelude a leggi delegate) « deve risultare chiaramente, per essere ammessa, dalla disposizione di delegazione »; b) « nel dubbio », la delegazione « dev’essere intesa come semplice delegazione di facoltà regolamentare » (63). 5. È giunto il momento di applicare le coordinate nitidamente svolte da Ranelletti e da Cammeo alla questione che ha originato la digressione sul sistema delle fonti del diritto vigente all’inizio del XX secolo. Quand’anche si volesse ritenere che l’art. 16, comma 1, della l. n. 62 del 1907, nel delegare il Governo a stabilire « le modificazioni da apportarsi ai regolamenti per l’esecuzione della legge sul Consiglio di Stato » e « per la procedura davanti alle sezioni giurisdizionali del Consiglio stesso », abbia impiegato una formulazione priva del crisma della chiarezza, tale cioè da far residuare (63) O. RANELLETTI, Lezioni di diritto amministrativo, fasc. I, Napoli, 1921, 39. Cfr. altresı̀ F. CAMMEO, Della manifestazione della volontà dello Stato nel campo del diritto amministrativo, in Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, a cura di V.E. ORLANDO, vol. III, Milano, 1901, 187-187, il quale già riteneva che nei casi dubbi (quando, a fronte di una « clausola di delegazione a regolamentare sopra un determinato argomento », « nulla » chiarisse « espressamente il pensiero del legislatore, in quanto al valore da attribuirsi all’atto del Governo ») si dovesse « sempre presumere » che si trattasse « di facoltà regolamentare ordinaria » e che quindi il governo potesse « modificare con un suo atto il regolamento emanato e l’autorità giudiziaria sindacarne la legittimità del contenuto »: « nel dubbio, è miglior partito concludere per il carattere regolamentare ».


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un dubbio in ordine alla natura (primaria o secondaria) dell’atto normativo con il quale il Governo fu chiamato a definire le norme di procedura (atto poi emanato con r.d. n. 642 del 1907), il dubbio dovrebbe essere risolto nel senso di intendere la delegazione « come semplice delegazione di facoltà regolamentare », dovendo la delegazione di potestà legislativa (in ragione della deroga « più grave » che infligge al « principio della divisione dei poteri ») « risultare chiaramente ». Tutto può dirsi dell’art. 16, comma 1, della l. n. 62 del 1907 tranne che dal suo disposto risulti chiaramente una delegazione di potestà legislativa: di qui, in applicazione del criterio che valeva all’epoca a sciogliere i casi dubbi, la preferenza per la tesi che individua in quella disposizione di legge una clausola di delegazione di potestà regolamentare, che prelude come tale ad un regolamento delegato. L’art. 16, comma 1, della l. n. 62 del 1907, nella parte in cui rinvia ad un regolamento di procedura, reca pertanto una speciale clausola di delegazione di potestà legislativa in senso soltanto materiale, al pari dell’art. 138 della legge di pubblica sicurezza 30 giugno 1889, n. 6144, il quale autorizzava il Ministro dell’interno ad adottare una serie di regolamenti per l’esecuzione della legge, « con facoltà di comminare l’ammenda sino a lire cinquanta o l’arresto sino a giorni dieci » per una serie di contravvenzioni individuate nella legge, nonché al pari dell’art. 375 della legge sui lavori pubblici 20 marzo 1865, n. 2248, allegato F, il quale dava facoltà al governo di adottare regolamenti per l’esecuzione della legge che « potranno contenere la comminazione di pene di polizia e di multe non eccedenti le lire 300 » (64). Queste ultime disposizioni, citate dal Ranelletti quali esempi di delegazione di facoltà regolamentare, non recavano alcun elemento testuale dal quale risultasse chiaramente la delegazione di legislazione in senso formale, a nulla rilevando che esse commettessero all’Esecutivo la determinazione delle pene (ambito disciplinare che il codice penale dell’epoca e lo stesso Statuto Albertino già riservavano al potere legislativo), in quanto era tipico dei (64)

O. RANELLETTI, op. ult. cit., 32-33.


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regolamenti delegati il superamento (loro consentito dalla clausola legislativa di delegazione) dei limiti sostanziali ordinariamente connaturati al potere regolamentare. Al contrario, l’art. 139 della stessa legge di pubblica sicurezza n. 6144 del 1889, nella parte in cui autorizzava l’adozione di un regolamento relativo al meretricio e disponeva che « questo regolamento non potrà essere modificato se non per legge, dopo trascorso un anno dalla sua pubblicazione », conteneva una speciale clausola di delegazione legislativa, e cioè dava « valore legislativo formale al regolamento... perché soltanto un atto che abbia forza legislativa non può essere modificato che per legge » (65). Allo stesso modo, conteneva una speciale clausola di delegazione di potestà legislativa in senso formale l’art. 82 della citata legge di pubblica sicurezza n. 6144 del 1889, laddove dava facoltà al Governo di adottare un regio decreto prescrivendo che esso « sarà presentato al Parlamento per essere convertito in legge »: « questo decreto » — secondo Ranelletti — « ha efficacia legislativa in senso formale anche prima della conversione in legge » (66). (65) O. RANELLETTI, op. ult. cit., 35. Identico esempio era già stato in precedenza riportato da F. CAMMEO, Della manifestazione della volontà dello Stato nel campo del diritto amministrativo, in Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, a cura di V.E. ORLANDO, vol. III, Milano, 1901, 183 ed è stato poi ripreso da L. RAGNISCO, La legge 31 gennaio 1926, n. 100 ed il Consiglio di Stato, Padova, 1930, 119. F. CAMMEO, op. ult. cit., 183 aggiunge poi un ulteriore esempio di legislazione delegata, sempre caratterizzato dalla volontà legislativa dell’intangibilità, se non con una legge successiva, dell’atto normativo commesso al governo: si trattava dell’art. 1 della l. 19 luglio 1880, il quale autorizzava il governo ad emanare le regole sulla licenza di lotterie pubbliche ed a stabilire entro i limiti delle leggi e dei decreti esistenti le sanzioni penali per ogni specie di contravvenzione al divieto delle lotterie pubbliche ed alle privative dello Stato, aggiungendo che « i detti provvedimenti saranno emanati con decreto reale, che farà parte della presente legge e dovrà essere pubblicato entro l’anno corrente ». Infatti — prosegue l’Autore — il r.d. 21 ottobre 1880 « fu sempre considerato come avente forza di legge e fu modificato soltanto con legge 22 dicembre 1895 ». (66) O. RANELLETTI, op. ult. cit., 35-36. Identico esempio è riportato anche in L. RAGNISCO, La legge 31 gennaio 1926, n. 100 ed il Consiglio di Stato, Padova, 1930, 119, che aggiunge peraltro un esempio ulteriore: l’art. 2 del testo unico delle leggi emanate in conseguenza del terremoto 28 dicembre 1908, approvato con decreto luogotenenziale 19 agosto 1917, n. 1399, stabiliva che, qualora in determinati comuni, indicati nel precedente art. 1, si manifestasse l’urgenza di provvedimenti eccezionali, non preveduti


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Altra ipotesi di delegazione legislativa era ritenuta quella in cui il Parlamento, autorizzando il Governo ad emanare norme complementari di una legge, disponeva che dette norme dovessero considerarsi « parte integrante » della stessa legge (67). Ulteriore esempio di delegazione legislativa è rappresentato dai codici dell’epoca. L’art. 2 della l. 2 aprile 1885, che autorizzava il Governo ad adottare i codici, disponeva: « il Governo del re avrà facoltà di introdurre nei codici... le modificazioni necessarie per coordinare in ciascuna materia le particolari disposizioni, sia nella sostanza che nella forma, col sistema e coi principi direttivi adottati, senza alterarli, nonché per coordinare tali codici... con altre leggi dello Stato ». Analogamente, la l. 22 novembre 1888, che autorizzava il Governo ad adottare il codice penale, dava facoltà all’Esecutivo di introdurre nel testo del codice quelle modificazioni che ravvisasse necessarie per emendarne le disposizioni e coordinarle fra loro e con quelle degli altri codici e leggi (68). L’esplicita autorizzazione a modificare le leggi esistenti, indipendentemente dai limiti più o meno ampi in cui essa fosse contenuta, era ritenuta un sintomo chiaro della delegazione di potestà legislativa in senso formale (69). Tornando alla questione che ha originato la ricognizione dell’assetto delle fonti del diritto vigente all’inizio del secolo XX, l’art. 16, comma 1, della l. n. 62 del 1907 non reca affatto una chiara delegazione di potestà legislativa in senso formale (limitandosi, per quel che qui interessa, ad abilitare il Governo a modificare il precedente regolamento di procedura, a suo tempo emanato dalle leggi in vigore, era data facoltà al governo, fino al 30 giugno 1918, di provvedere con decreti reali « che saranno presentati al Parlamento per la conversione in legge ». (67) Cfr. L. RAGNISCO, La legge 31 gennaio 1926, n. 100 ed il Consiglio di Stato, Padova, 1930, 120. Cfr. altresı̀ la precedente nota n. 65. (68) O. RANELLETTI, op. ult. cit., 37. Sui codici dell’epoca quali ipotesi di delegazioni legislative, si veda anche F. CAMMEO, Della manifestazione della volontà dello Stato nel campo del diritto amministrativo, in Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, a cura di V.E. ORLANDO, vol. III, Milano, 1901, 184. (69) Sulla esplicita autorizzazione a modificare le leggi esistenti quale manifestazione tipica della delegazione legislativa, si veda anche L. RAGNISCO, La legge 31 gennaio 1926, n. 100 ed il Consiglio di Stato, Padova, 1930, 116-117, con la casistica ivi riportata.


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con r.d. n. 6516 del 1889); né dispone (al contrario dell’art. 139 della citata l. n. 6144 del 1889) che il regolamento di procedura non possa essere modificato se non per legge; né prescrive (al contrario dell’art. 82 della citata l. n. 6144 del 1889) che il regolamento di procedura — una volta adottato dal Governo — debba essere presentato al Parlamento per la sua conversione in legge; né, infine autorizza il Governo (al contrario delle leggi di delega all’approvazione dei codici dell’epoca) a modificare, in limiti più o meno contenuti, le leggi esistenti. Risulta pertanto ulteriormente corroborata la tesi che riconosce al r.d. n. 642 del 1907 natura secondaria. Tesi che riceve un’ulteriore e preziosa conferma dalle considerazioni che seguono, tratte dalle riflessioni che Mortara ha sviluppato proprio al fine di discernere la delegazione di potestà regolamentare da quella di potestà legislativa in senso formale. Secondo il Mortara, la distinzione tra le due tipologie di delegazione passava attraverso lo svolgimento di due indagini: « una di forma, l’altra di sostanza ». Quanto all’indagine « di forma » — riteneva l’autorevole giurista — « sebbene niuna regola scritta lo imponga, è consuetudine che l’atto di delegazione legislativa esprima la riserva della conversione in legge dei futuri provvedimenti » (70) commessi al Governo; « dove tal riserva manchi, a meno che tuttavia la conver(70) Cfr. anche F. CAMMEO, Della manifestazione della volontà dello Stato nel campo del diritto amministrativo, in Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, a cura di V.E. ORLANDO, vol. III, Milano, 1901, 183, il quale dà conto di alcuni « esempi di delegazione legislativa » nei quali « il Parlamento autorizza il Governo a pubblicare un regolamento coll’obbligo di convertirlo in legge. Cosı̀ la legge di pubblica sicurezza, art. 82, stabilisce che con decreto reale saranno stabilite le norme e i casi di concorso degli enti obbligati al mantenimento degli inabili al lavoro, con la riserva che il suddetto decreto reale sarà presentato al Parlamento per essere convertito in legge. In questo caso il regolamento ha forza di legge, anche prima della approvazione parlamentare: poiché l’obbligo della conversione in legge non è già una condizione risolutiva o sospensiva della sua efficacia giuridica, ma una riserva, limitata agli effetti della responsabilità ministeriale ». Allo stesso modo, l’art. 5 della legge doganale (t.u.) 21 novembre 1895 — riportato dall’Autore, op. ult. cit., 183, nota 2 — rinvia a un decreto reale prescrivendo che esso dovrà « essere presentato immediatamente al Parlamento per la conversione in legge ». Per un altro esempio dello stesso genere, si veda la precedente nota n. 66.


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sione in legge si manifesti, per altri segni certi, voluta e necessaria, avremo motivo di opinare che la delegazione non vi sia. A maggiore ragione si dovrà cosı̀ opinare se, invece di riservare la conversione in legge, il Parlamento vincola l’emanazione delle norme governative al parere del Consiglio di Stato, che non vi è esempio (per quanto io sappia) che sia stato prescritto [si intende: il parere del Consiglio di Stato] nei casi di vera e propria delegazione legislativa, in armonia con l’indole e lo scopo della funzione consultiva di quel consesso » (71). Questa è l’indagine formale, che attiene, come ognun può constatare, all’iter di formazione dell’atto normativo commesso al Governo (riserva di conversione in legge che accompagna la delegazione, quale segno di una delegazione di potestà legislativa in senso formale; nessuna riserva di conversione in legge ed anzi prescrizione di udire il parere del Consiglio di Stato sullo schema di atto normativo elaborato dal Governo, quale segno di una delegazione di potestà regolamentare). (71) Non deve (trarre in inganno e) indurre a dissentire dall’opinione espressa dal Mortara la circostanza che il r.d. 2 giugno 1889, n. 6166 (recante il primo testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato) e il il r.d. 17 agosto 1907, n. 638 (recante il secondo testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato), pur essendo leggi delegate, siano stati approvati dopo aver acquisito il parere del Consiglio di Stato. Infatti, quest’ultimo parere risultava expressis verbis prescritto, rispettivamente, nella disposizione che abilitava il Governo a coordinare le novità apportate dalla l. n. 5992 del 1889 con la l. n. 2248 del 1865, allegato D (cfr. l’art. 25 della l. n. 5992 del 1889), nonché nella disposizione che abilitava il Governo a coordinare le novità recate dalla l. n. 62 del 1907 con il precedente r.d. n. 6166 del 1889 (cfr. l’art. 15, n. 1 della l. n. 62 del 1907). Era in effetti tipico della funzione consultiva del Consiglio di Stato di rendere pareri « in tutti i casi in cui il suo voto » fosse « prescritto dalla legge » (cfr., in questi termini, l’art. 10, n. 1), del r.d. n. 6166 del 1889, poi ribadito nell’art. 10, n. 1) del r.d. n. 638 del 1907). Peraltro, in seguito il legislatore avrebbe stabilito, in termini generali, l’obbligatorietà del parere del Consiglio di Stato « sopra tutti i coordinamenti in testi unici di leggi o di regolamenti » (cfr. art. 16, n. 3 del r.d. n. 1054 del 1924). Per l’affermazione della perdurante validità, anche dopo la l. n. 100 del 1926, della regola secondo cui il parere del Consiglio di Stato non era richiesto sulle leggi delegate, salvo che non si trattasse di deleghe legislative aventi ad oggetto la compilazione di testi unici, si veda anche L. RAGNISCO, La legge 31 gennaio 1926, n. 100 ed il Consiglio di Stato, Padova, 1930, 128 e 133. È inoltre da precisare che tradizionalmente si è sempre richiesto al Consiglio di Stato il parere su schemi di atti normativi relativi allo stesso Consiglio di Stato, secondo una regola consuetudinaria che sarebbe stata poi codificata con l’art. 1 del r.d.l. 9 febbraio 1939, n. 273.


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Quanto invece all’indagine « di sostanza » — proseguiva il Mortara — essa « cade sul contenuto del provvedimento delegato »: se esso detta « nuove norme giuridiche principali », e cioè se interviene su una « materia ancor priva di ogni giuridica disciplina », allora « vi è materia di legge », nella quale non può che intervenire una legge delegata; se invece il provvedimento delegato detta « norme nuove secondarie o complementari, per integrazione delle principali che una legge già fornisce », allora « la materia è di regolamento » (72). È subito evidente come l’indagine « di sostanza » conduca a rafforzare la tesi che riconosce natura secondaria al r.d. n. 642 del 1907: infatti, tale regolamento di procedura, lungi dall’intervenire su una « materia ancor priva di ogni disciplina giuridica », detta norme bensı̀ nuove (in armonia con la sua natura di regolamento delegato), ma pur sempre necessarie per l’esecuzione della legge, e cioè pur sempre « secondarie o complementari », ad « integrazione delle principali » che la l. n. 62 del 1907 « già fornisce ». Non deve essere dimenticato, infatti, che già la l. n. 62 del 1907 dettava una serie invero nutrita di norme di procedura (cfr., in particolare, i suoi artt. 5, 6 e 7). Ma è l’indagine « di forma » che fornisce l’ultimo, decisivo supporto alla tesi che individua nel r.d. n. 642 del 1907 un regolamento delegato (anziché una legge delegata). Infatti, integrando le intuizioni formulate al riguardo dal Mortara con la legislazione (e con la consuetudine) all’epoca vigente in ordine all’iter di formazione di regolamenti delegati e leggi delegate, si giunge alle seguenti conclusioni: a) già prima della c.d. legge Rocco (31 gennaio 1926, n. 100, « Sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche »), i regolamenti governativi (e, quindi, anche quelli delegati) erano emanati con regio decreto, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, udito il parere del Consiglio di Stato; b) in particolare, la deliberazione del Consiglio dei Ministri e il parere obbligatorio del Consiglio di Stato erano prescritti dal (72) L. MORTARA, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, vol. I, Milano, 1901, 101 ss.


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r.d. 14 novembre 1901, n. 466, mentre l’emanazione con regio decreto trovava il suo fondamento nell’art. 6 dello Statuto Albertino (73); c) la formula di emanazione dei regolamenti governativi era la seguente. « Udito il parere del Consiglio di Stato, sentito il Consiglio dei Ministri, sulla proposta del nostro Ministro Segretario di Stato, abbiamo decretato e decretiamo: è approvato il regolamento annesso al presente decreto » (74); d) la delegazione legislativa, pur nel silenzio dello Statuto Albertino, nacque e si sviluppò contemporaneamente allo Statuto medesimo: le regole per la formazione delle leggi delegate si consolidarono pertanto in via di prassi; e) in particolare, i decreti delegati presupponevano una legge delega approvata dai due rami del Parlamento, erano deliberati dal Consiglio dei Ministri ed emanati dal Sovrano con regio decreto (75); f) se è vero che qualche legge delega subordinava l’emanazione della legge delegata alla previa acquisizione del parere di speciali organi consultivi, il Mortara, come già notato, affermava che « non vi è esempio (per quanto io sappia) » in cui « sia stato prescritto » il parere del Consiglio di Stato « nei casi di vera e propria delegazione legislativa » (ad eccezione, beninteso, dei casi di delegazione legislativa funzionale alla approvazione di un testo unico o funzionale ad apportare una o più modifiche all’organizzazione e al funzionamento del Consiglio di Stato) (76). Ebbene, l’emanazione del r.d. n. 642 del 1907 seguı̀ l’iter al(73) C. SALTELLI, Potere esecutivo e norme giuridiche, Roma, 1926, 163 ss. La norma che all’epoca imponeva il parere del Consiglio di Stato sugli schemi di regolamenti governativi (contenuta nel r.d. 14 novembre 1901, n. 466) è stata poi trasfusa nell’art. 12, n. 1) del r.d. n. 638 del 1907 e, quindi, nell’art. 16, n. 1) del r.d. n. 1054 del 1924. Tale norma era già, in verità, contenuta nell’art. 12, n. 1) del r.d. n. 6166 del 1889. (74) C. SALTELLI, Potere esecutivo e norme giuridiche, cit., 18, nota 4). (75) Sui decreti legislativi, prima e dopo la l. n. 100 del 1926, si veda C. SALTELLI, Potere esecutivo e norme giuridiche, cit., 201 ss.; L. RAGNISCO, La legge 31 gennaio 1926, n. 100 ed il Consiglio di Stato, Padova, 1930, 111 ss.; L. RAGGI, Diritto amministrativo, vol. II, Introduzione - Fonti - Diritti soggettivi - Oggetti, lezioni raccolte dallo studente U. Vernetti, anno accademico 1930-31, Padova, 1931, 85 ss. (76) Per l’illustrazione di questi casi, si rinvia alla precedente nota n. 71.


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l’epoca previsto per i regolamenti governativi: proposta di un Ministro (il Ministro dell’interno, secondo l’indicazione contenuta nello stesso art. 16, comma 1, della l. n. 62 del 1907); acquisizione del parere del Consiglio di Stato (secondo l’indicazione parimenti contenuta nell’art. 16, comma 1, cit.); deliberazione del Consiglio dei Ministri; emanazione da parte del Sovrano con regio decreto. Anche la formula di emanazione ricalca quella tipica dei regolamenti governativi, che si è sopra riportata. Illuminante è l’esame del preambolo che precede l’articolato del r.d. n. 642 del 1907, che si riporta testualmente: « Visto l’art. 16 della l. 7 marzo 1907, n. 62, sulla riforma degli istituti per la giustizia amministrativa » [si tratta della disposizione contenente, nel comma 1, la speciale clausola di delegazione a favore del Governo]. « Visto il nostro decreto di pari data che approva il testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato » [il riferimento è, naturalmente, al r.d. n. 638 del 1907, inteso a coordinare le novità recate dalla l. n. 62 del 1907 con il precedente r.d. n. 6166 del 1889]. « Udito il parere del Consiglio di Stato in adunanza generale » [parere prescritto sugli schemi di regolamenti governativi, ancor prima che dall’art. 16, n. 1) del r.d. n. 1054 del 1924, dall’art. 12, n. 1) del r.d. n. 638 del 1907, dal r.d. 14 novembre 1901, n. 466 e dall’art. 12, n. 1) del r.d. n. 6166 del 1889]. « Sentito il Consiglio dei Ministri » [la cui competenza per la deliberazione dei regolamenti governativi era all’epoca esplicitamente prevista dal r.d. 14 novembre 1901, n. 466]. « Sulla proposta del Nostro ministro segretario di Stato per gli affari dell’interno... » [proposta imputata al ministro dell’interno dallo stesso art. 16, comma 1, della l. n. 62 del 1907]. « Abbiamo decretato e decretiamo: è approvato il regolamento di procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, annesso al presente decreto » [formula di emanazione tipica dei regolamenti governativi]. Risultava cosı̀ emanato, con r.d. n. 642 del 1907, « il regolamento di procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato »: dizione — quest’ultima — che compare sia nel titolo del regio decreto che nella formula di emanazione.


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Non soltanto negli anni a noi più recenti, ma anche al principio del secolo XX, la dottrina valorizzava adeguatamente il criterio « di forma » al fine di discernere le varie fonti del diritto (77). Il criterio formale — volendo indulgere in una notazione capace di svelarne l’intrinseca consistenza — riuscı̀ a prevalere anche nel diritto romano: « Lex est quod populus romanus senatorio magistratu interrogante, veluti consule, constituebat ». 6. Devono pertanto essere condivise le sentenze della Corte costituzionale n. 118 del 1968 e n. 251 del 1989, con le quali si sono dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto disposizioni contenute nel r.d. n. 642 del 1907, argomentando dalla natura secondaria dello stesso regolamento di procedura. In particolare, il Giudice delle Leggi ha derivato la natura secondaria del regolamento di procedura: a) dalla qualificazione che l’art. 16, comma 1, della l. n. 62 del 1907 ha impresso, sia pure indirettamente, all’atto normativo commesso al Governo: infatti, il legislatore ha delegato il governo a stabilire le modifiche da apportare al precedente regolamento di procedura (r.d. n. 6516 del 1889), a suo tempo adottato in base all’art. 22 della l. n. 5992 del 1889 (poi trasfuso nell’art. 43 del r.d. n. 6166 del 1889); b) dalla mancanza di « elementi obiettivi, certi ed inequivoci » nel disposto dell’art. 16, comma 1, della l. n. 62 del 1907, capaci di superare la « qualificazione data dalla legge nel senso che il governo era legittimato ad emanare un regolamento ». Secondo la Corte, « nulla contraddice alla corrispondenza fra la qua(77) Cfr., in particolare, A. FERRARIS, Diritto amministrativo, Padova, 1923, 74, secondo cui nel diritto pubblico italiano poteva chiamarsi legge soltanto quella che è stata votata dalle camere legislative e, quindi, sanzionata e promulgata dal Re: « tale forma quindi è essenziale perché esista una legge; un atto che non abbia quella forma, potrà contenere norme giuridiche valide, ma non è una legge ». Cfr., altresı̀, nel senso della valorizzazione di un criterio essenzialmente formale per distinguere la legge (in senso formale, per l’appunto) dalle altre fonti del diritto, C.F. BRUNIALTI, Il diritto costituzionale e la politica, Torino, 1986, vol. I, 755; A. CODACCI PISANELLI, Legge e regolamento, in Scritti di diritto pubblico, Città di Castello, 1900, 4.


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lifica risultante dal testo della legge e la natura del decreto emesso in forza di questa »; c) dalla circostanza che alla qualificazione voluta dal legislatore « si attenne l’intitolazione del regio decreto » n. 642 del 1907, oltre che la formula impiegata per la sua emanazione; d) dalla « considerazione che il regio decreto, per esplicito disposto della legge, doveva essere emanato, ed in effetti venne emanato, previa audizione del parere del Consiglio di Stato, vale a dire secondo il procedimento che già nell’ordinamento del tempo (art. 12, n. 1) del r.d. 2 giugno 1889, n. 6166) era tipico dei regolamenti ». Il sentiero argomentativo del Giudice delle Leggi ha privilegiato quella che Mortara definı̀ « indagine di forma », valorizzando elementi quali la qualificazione esplicita (ancorché indiretta, nei termini sopra chiariti) impressa dal testo della legge all’atto normativo commesso al Governo, l’intitolazione dell’atto governativo (coincidente con la qualificazione legislativa) e l’acquisizione del parere del Consiglio di Stato, in coerenza con l’iter procedimentale prescritto per i regolamenti governativi. Può tuttavia essere individuata, nel passaggio in cui si denota la mancanza di « elementi obiettivi, certi ed in equivoci » capaci di contraddire i risultati della « indagine di forma », l’applicazione, sia pure con modalità non appariscenti, del criterio individuato da Cammeo e da Ranelletti per sceverare, nei casi dubbi, delegazione di potestà regolamentare e delegazione legislativa: criterio che, in estrema sintesi, indica di sciogliere i casi dubbi optando per la delegazione di potestà regolamentare. Non meritano invece di essere condivise le pronunce con cui la Corte costituzionale, non dichiarando inammissibili questioni di legittimità costituzionale nella parte in cui investivano disposizioni del r.d. n. 642 del 1907, pare avere riconosciuto la natura primaria di quest’ultimo atto normativo. Tuttavia, il peso di tali pronunce può essere significativamente ridimensionato solo che si scenda ad una disamina più attenta delle stesse. La sent. n. 146 del 1987 ha dichiarato l’illegittimità costitu-


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zionale dell’art. 44, comma 1, del r.d. n. 1054 del 1924 e dell’art. 26 del r.d. n. 642 del 1907, nella parte in cui non consentivano, nelle controversie relative al pubblico impiego riservate (all’epoca) alla giurisdizione amministrativa esclusiva, l’esperimento dei mezzi istruttori ammessi nel processo del lavoro (privato). La Corte non si è nemmeno posta il problema della natura (primaria o secondaria) di una delle due disposizioni censurate (l’art. 26 del r.d. n. 642 del 1907), in ciò presumibilmente agevolata dalla circostanza che le ordinanze di rimessione si appuntavano anche sull’art. 44, comma 1, del r.d. n. 1054 del 1924, che è disposizione di rango senz’altro primario. Quand’anche la Corte avesse dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale nella sola parte in cui investivano l’art. 26 del r.d. n. 642 del 1907 (disposizione di rango secondario), la declaratoria di incostituzionalità sarebbe comunque intervenuta sull’art. 44, comma 1, del r.d. n. 1054 del 1924: un simile ragionamento avrebbe potuto, in effetti, indurre a trascurare la questione della natura primaria o secondaria del r.d. n. 642 del 1907, in quanto questione praticamente irrilevante ai fini della risoluzione dell’incidente di costituzionalità (che ben avrebbe potuto svolgersi, con i risultati cui è pervenuto, anche sul solo art. 44, comma 1, del r.d. n. 1054 del 1924). In definitiva, l’assoluto silenzio serbato dalla Corte sulla questione in parola non può assurgere ad argomento passibile di contrapporsi utilmente a quelli svolti nella precedente sentenza n. 118 del 1968. Quanto invece all’ordinanza n. 359 del 1998, essa ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 47 del r.d. n. 642 del 1907 e dell’art. 51 c.p.c., nella parte in cui non prevedono il regime di incompatibilità del magistrato amministrativo, che abbia già conosciuto del profilo cautelare della lite, a partecipare alla decisione di merito. Anche in questo caso la Corte non ha speso alcuna parola sulla natura (primaria o secondaria) della disposizione contenuta nell’art. 47 del r.d. n. 642 del 1907. Anzi, un passaggio argomentativo dell’ordinanza, tutt’altro che convincente, ha consentito al Giudice delle Leggi di non affrontare la delicata questione.


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Si allude al passaggio in cui la Corte dichiara l’art. 51 c.p.c. « applicabile, come norma fondamentale, anche al processo amministrativo, in base ai principi generali, in mancanza di autonoma specifica disciplina del giudizio amministrativo e rispetto al quale [deve intendersi: rispetto all’art. 51 cit.] l’art. 47 del regolamento per la procedura dinanzi al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale assume il valore di mera norma ricognitiva »: sicché — prosegue la Corte — « il richiesto scrutinio di costituzionalità deve incentrarsi sul citato art. 51 cod. proc. civ., nella parte in cui non prevede l’incompatibilità del magistrato, che abbia conosciuto della causa in fase cautelare, a partecipare alla decisione del merito ». Un simile ragionamento si presta, ad esaminarlo con attenzione, ad una critica tutt’altro che peregrina. Non convince, anzitutto, l’affermazione secondo cui l’art. 51 del codice di rito sarebbe « applicabile, come norma fondamentale, anche al processo amministrativo, in base ai principi generali », mancando quel processo di una « autonoma specifica disciplina » in punto di astensione e ricusazione dei magistrati. Tale affermazione potrebbe essere condivisa soltanto se non esistesse l’art. 47 del r.d. n. 642 del 1907: soltanto in quell’ipotesi, infatti, potrebbe porsi la necessità di qualificare l’art. 51 c.p.c. come disposizione che esprime una « norma fondamentale », passibile, « in base ai principi generali », di applicazione analogica nel processo amministrativo. Appare poi contraddire la (pur discutibile) premessa l’ulteriore affermazione secondo cui l’art. 47 del regolamento di procedura presenterebbe « il valore di mera norma ricognitiva » della « norma fondamentale » espressa dall’art. 51 c.p.c. La Corte ragiona dapprima come se l’art. 47 del regolamento di procedura non esistesse, laddove dichiara applicabile al processo amministrativo l’art. 51 c.p.c., quale norma fondamentale suscettibile di applicazione analogica. Tuttavia, dato che l’art. 47 del regolamento di procedura innegabilmente esiste (riproducendo un precetto già contenuto, in precedenza, nell’art. 31 del r.d. n. 6516 del 1889), ecco che gli si riconosce la valenza di « mera norma ricognitiva ».


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Dovrebbe invece affermarsi che la disciplina del processo amministrativo, lungi dal presentare una lacuna (colmabile, in base ai principi generali, mediante l’applicazione analogica di norme e principi propri del codice di rito), regola in modo specifico le cause di ricusazione o di astensione del magistrato amministrativo, sia pure mediante un rinvio dinamico alla disciplina dettata sul punto dal codice di procedura civile. Dunque, nessuna lacuna è ravvisabile, nel sistema processuale amministrativo, in punto di astensione e ricusazione dei magistrati amministrativi: esiste, al riguardo, una disposizione ad hoc, con la quale (si sarebbe potuto individuare soluzioni alternative ed originali e invece, più semplicemente) si è ritenuto di operare un rinvio dinamico al codice di rito. Ma il ragionamento della Corte costituzionale, pur non condivisibile per le ragioni testé sintetizzate, costituisce ottima premessa per una conclusione cui certamente non difetta il requisito della perfetta consequenzialità (rispetto alla premessa di partenza): se è vero che l’art. 47 del regolamento di procedura « assume il valore di mera norma ricognitiva », ne deriva che « il richiesto scrutinio di costituzionalità deve incentrarsi » sul solo art. 51 c.p.c. In definitiva, l’ordinanza n. 359 del 1998 trascura la delicata questione della natura primaria o secondaria dell’art. 47 del r.d. n. 642 del 1907 proprio in quanto relega quella disposizione nel limbo di quelle aventi una valenza meramente ricognitiva, incentrando il sindacato di costituzionalità sul solo art. 51 c.p.c. Una notazione conclusiva si impone: anche senza arrivare a dire che il passaggio motivazionale sopra criticato sia una sorta di escamotage utile ad eludere una questione tanto spinosa, pare ragionevole ritenere che l’ordinanza n. 359 del 1998 non possa essere utilmente annoverata tra le pronunzie con le quali la Corte ha (sia pure implicitamente) riconosciuto natura primaria al r.d. n. 642 del 1907, per la ragione che è la stessa Corte a collocare nel limbo delle disposizioni meramente ricognitive l’art. 47 del r.d. n. 642 del 1907, contestualmente dichiarando di


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incentrare il proprio scrutinio di costituzionalità sul solo art. 51 c.p.c. (78). Un ragionamento sostanzialmente analogo può essere ripetuto per la sentenza n. 406 del 1998 (il cui relatore è peraltro identico a quello dell’ordinanza n. 359 del 1998): investita della questione di legittimità costituzionale dell’art. 37 della l. n. 1034 del 1971, dell’art. 27, comma 1, n. 4) del r.d. n. 2054 del 1924 e degli artt. 90 e 91 del r.d. n. 642 del 1907, nella parte in cui subordinano l’ammissibilità del giudizio di ottemperanza al passaggio in giudicato della sentenza, la Corte costituzionale, prima di dichiarare l’infondatezza della questione (per ragioni che in questa sede possiamo trascurare), ha « preliminarmente rilevato che il richiesto scrutinio di costituzionalità deve incentrarsi sugli artt. 37 l. n. 1034 del 1971 e 27, comma 1, numero 4, r.d. n. 1054 del 1924, che sono le norme dalle quali può dedursi il presupposto contestato, mentre gli artt. 90 e 91 r.d. n. 642 del 1907 hanno la sola funzione di regolamentazione della procedura per i ricorsi cui le prime si riferiscono ». Tale passaggio motivazionale, riguardato in sé, risulta in effetti convincente: ma allora la sentenza n. 406 del 1998 non può essere, se non superficialmente, annoverata tra quelle con cui il Giudice delle Leggi ha, sia pure implicitamente, riconosciuto natura primaria al r.d. n. 642 del 1907. In fase di riepilogo deve dunque notarsi che con la sentenza n. 146 del 1987 il Giudice delle Leggi ha bensı̀ svolto il suo sindacato di legittimità costituzionale anche su una disposizione contenuta nel r.d. n. 642 del 1907 (art. 26), senza tuttavia spendere nemmeno una parola sulla natura primaria di quell’atto, a ciò presumibilmente indotta (e in ciò presumibilmente agevolata) dalla circostanza che le questioni di legittimità costituzionale si appuntavano anche su una disposizione di rango senz’altro primario, quale è quella contenuta nell’art. 44, comma 1, del r.d. n. 1054 del (78) Sulla legittimità costituzionale, alla stregua di molteplici pronunciamenti della Corte costituzionale, dell’art. 51 c.p.c. (richiamato dall’art. 47 del r.d. n. 642 del 1907), nella parte in cui non impone l’obbligo di astensione al giudice della causa di merito che abbia già conosciuto la fase cautelare della lite, si veda, da ultimo, Cons. Stato, Sez. VI, 6 marzo 2003, n. 1228, in Foro amm.-Cons. St., 2003, 1072.


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1924. Con l’ordinanza n. 359 del 1998 e con la sentenza n. 406 del 1998 la Corte ha invece dichiaratamente circoscritto il suo scrutinio di costituzionalità a fonti senz’altro primarie, evitando cosı̀ di dover ritornare sulla delicata questione della natura primaria o secondaria del r.d. n. 642 del 1907 e, al tempo stesso, di dover contraddire la posizione già nettamente assunta al riguardo nella sentenza n. 118 del 1968. È per queste ragioni che il peso delle tre pronunce con le quali il Giudice delle Leggi pare aver optato, sia pure in modo implicito, per la natura primaria del r.d. n. 642 del 1907 merita, secondo quanto si è già anticipato, di essere decisamente ridimensionato: in una pronuncia la questione pare addirittura sfuggita (e, in ogni caso, non avrebbe dispiegato alcuna influenza sul risultato dello scrutinio di costituzionalità, posto che esso investiva anche una disposizione contenuta in una fonte primaria); nelle altre due pronunce assistiamo ad una « fuga » dalla questione, condotta ora con argomenti convincenti (è il caso della sentenza n. 406 del 1998) ora con argomenti che non resistono ad un sereno vaglio critico (è il caso dell’ordinanza n. 359 del 1998). 7. Identica considerazione vale anche per l’ordinanza del Consiglio di Stato, Sez. IV, 17 aprile 2000, n. 2292 (79), con la quale è stata rimessa alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19 della l. n. 1034 del 1971, dell’art. 44 del r.d. n. 1054 del 1924 e dell’art. 26 del r.d. n. 642 del 1907, nella parte in cui il complessivo sistema probatorio risultante da tali norme non consentiva al giudice amministrativo, nella giurisdizione generale di legittimità, di avvalersi, ai fini dell’accesso al fatto, di perizie, accertamenti tecnici o consulenze tecniche d’ufficio (80). La Quarta Sezione si è rappresentata il problema della natura (79) In Urb. e app., 2000, 1334 ss. (80) La questione è stata successivamente superata dall’entrata in vigore dell’art. 1, comma 2 e dell’art. 16 della l. n. 205 del 2000 i quali hanno, come è noto, « generalizzato » la consulenza tecnica d’ufficio, ora ammessa anche nella giurisdizione generale di legittimità. Cfr. Corte Costituzionale ord. 21 dicembre 2001, n. 430, in Giust. civ., 2002, I, 889, che a seguito dell’entrata in vigore della legge n. 205 cit. ha restituito


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primaria o secondaria dell’art. 26 del r.d. n. 642 del 1907, risolvendolo nel senso della natura primaria: in particolare, si è ritenuto che le pronunce con le quali la Corte costituzionale avrebbe riconosciuto, « implicitamente quanto ineluttabilmente », natura primaria al r.d. n. 642 del 1907 siano preferibili rispetto alle altre pronunzie con le quali il Giudice delle leggi ha invece optato, esplicitamente e motivatamente, per la natura secondaria del regolamento di procedura. Tuttavia, dato che un’indagine più meditata conduce, come si è tentato di dimostrare, a ridimensionare in modo assai significativo il peso delle pronunzie con le quali la Corte costituzionale parrebbe aver aderito, sia pure implicitamente, alla tesi della natura primaria, mentre assai più convincente risulta la tesi (altre volte sposata dalla stessa Corte) della natura secondaria, ne deriva che la fragilità intrinseca al primo ordine di pronunce del Giudice delle leggi è destinata a trasmettersi inevitabilmente all’ordinanza n. 2292 del 2000, che principalmente su di esse pretende di fondare l’accoglimento della tesi della natura primaria del r.d. n. 642 del 1907. Né appare in alcun modo persuasivo l’argomento secondo cui « in presenza dell’evidenziato contrasto... tra diverse pronunce della stessa Corte costituzionale... sembra opportuno includere » il r.d. n. 642 del 1907 tra le fonti che, avendo natura primaria, « vengono con la presente ordinanza rimesse all’esame del Giudice delle Leggi ». Come si è già anticipato, le questioni di pura opportunità non sono in grado, da sole, di dar vita a soluzioni ermeneutiche davvero appaganti, specialmente quando si tratti di qualificare come primaria o secondaria una fonte del diritto alla stregua del sistema in vigore all’epoca in cui essa è venuta ad esistenza. Non vi è alcun dubbio che la tesi della natura primaria si rivelerebbe massimamente opportuna, in quanto consentirebbe la sottoposizione delle disposizioni del r.d. n. 642 del 1907 al sindacato accentrato della Corte costituzionale, mentre la tesi della nagli atti al Consiglio di stato perché valutasse la perdurante rilevanza della questione di legittimità costituzionale sollevata con l’ordinanza n. 2292 del 2000 cit.


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tura secondaria originerebbe una grave incertezza applicativa, in quanto implicherebbe un sindacato diffuso del giudice amministrativo, mediante l’istituto della disapplicazione, sulla legittimità anche costituzionale del regolamento di procedura. Non di meno, l’esatto inquadramento nell’ambito delle fonti primarie ovvero secondarie di una fonte del diritto venuta ad esistenza nel 1907 non può che avvenire alla stregua dell’ordinamento dell’epoca, con particolare riferimento ai criteri allora adoperati per distinguere la delegazione di potestà regolamentare dalla delegazione legislativa, dovendo invece confinarsi nel limbo dell’irrilevanza sia il canone dell’interpretazione costituzionalmente orientata (insuscettibile di operare alcuna novazione della fonte), sia gli apprezzamenti di pura opportunità (rilevanti soltanto sul differente piano della politica del diritto) (81). (81) Né miglior sorte meritano altri tre argomenti spesi dalla Quarta Sezione, nell’ord. n. 2292 del 2000 cit., onde sostenere la tesi della natura primaria del r.d. n. 642 del 1907. Il primo si risolve in un richiamo al regolamento di procedura della Corte dei Conti, emanato con r.d. 13 agosto 1933, n. 1038 in forza della previsione contenuta nell’art. 32 della l. 3 aprile 1933, n. 255 (poi confluita nell’art. 97 del testo unico approvato con r.d. 12 luglio 1934, n. 1214), a tenore della quale « con decreti reali a relazione del Capo del Governo, primo ministro segretario di Stato, su proposta della Corte dei Conti, sono stabilite... le forme del procedimento nei giudizi della Corte ». Essendo stato tale regolamento di procedura a più riprese qualificato dalla Corte costituzionale come atto avente forza di legge, « non è, quindi, agevole comprendere » — prosegue l’ordinanza n. 2292 del 2000 — « per quali effettive ragioni di ordine giuridico analoga natura primaria non debba riconoscersi al r.d. 17 agosto 1907, n. 642 ». È sufficiente il ricorso a quella che Mortara definiva come « indagine di forma » per rendersi conto di come il regolamento di procedura della Corte dei Conti non potesse essere definito come regolamento delegato (o, dopo l’entrata in vigore della l. n. 100 del 1926, come regolamento di esecuzione). La clausola speciale di delegazione preludeva infatti ad una vera e propria delegazione legislativa, in quanto non era prescritto (diversamente da quanto previsto per i regolamenti governativi dall’art. 1, comma 1, della l. n. 100 del 1926) alcun parere del Consiglio di Stato. Il secondo argomento speso dall’ordinanza n. 2292 del 2000 a favore della natura primaria del r.d. n. 642 del 1907 si traduce in un richiamo ad « autorevolissima dottrina » che avrebbe fatto « oggetto di puntuale critica » la sentenza della Corte cost. n. 168 del 1968. Il riferimento è, presumibilmente, al commento con cui R. Chieppa ha annotato la sentenza n. 168 cit., in Giur. cost., 1968, III, 2127 e ss: tuttavia, la posizione dell’Autore appare complessivamente contrassegnata più dal carattere della problematicità che da quello della nettezza; inoltre, le riflessioni sopra svolte paiono idonee a superare i dubbi e le perplessità pur pregevolmente manifestati dallo stesso Autore. L’ampia digressione sopra svolta sul sistema delle fonti del diritto vigente al principio del XX secolo impone, ad avviso dello scri-


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8. Appare utile, in chiusura, indulgere in un riepilogo delle ragioni che concorrono ad assegnare al r.d. n. 642 del 1907 una natura normativa soltanto secondaria. vente, di addivenire alla conclusione della natura secondaria del r.d. n. 642 del 1907 e, soprattutto, consente di supportare una conclusione siffatta con argomenti che paiono in effetti convincenti e difficilmente controvertibili. In termini più concreti, a voler prendere sul serio i criteri elaborati all’epoca per discriminare regolamenti delegati e decreti delegati e a volerli serenamente applicare al r.d. n. 642 del 1907, pare proprio che la conclusione più attendibile sia quella che riconosce a quest’ultimo natura secondaria, riuscendo invero problematico escogitare un percorso argomentativo alternativo, che sia ad un tempo convincente e passibile di condurre ad approdi differenti. Infine, il terzo argomento speso dall’ordinanza n. 2292 del 2000 onde sostenere la tesi della natura primaria del r.d. n. 642 del 1907 si risolve in un richiamo a tre lontane pronunce dello stesso Consiglio di Stato: IV Sezione, 22 gennaio 1891, n. 14 (in Giust. amm., 1891, I, 52); IV, 2 aprile 1909, n. 109 (in Giust. amm., 1909, I, 87) e Ad. gen., 4 giugno 1924, n. 83 (i cui passaggi più significativi sono riportati da M.S. GIANNINI e A. PIRAS, Il principio del contraddittorio nel processo amministrativo italiano, in Il principio del contraddittorio nel processo civile, penale ed amministrativo, Atti III e IV delle giornate giuridiche italo-jugoslave, Milano, 1968, 304). Orbene, la sentenza Cons. Stato, Sez. IV, 2 aprile 1909, n. 109 non contiene — se non ci si inganna — nemmeno un obiter dictum relativo alla natura, primaria o secondaria, del r.d. n. 642 del 1907. La sentenza Cons. Stato, Sez. IV, 22 gennaio 1891, n. 14 contiene, in effetti, l’affermazione invero apodittica secondo cui il r.d. 17 ottobre 1889, n. 6516, emanato in virtù della « delegazione di poteri fatta con l’articolo 43, comma 2, della legge 2 giugno 1889 », « ha piena efficacia legislativa ». Come ognuno può agevolmente constatare, la « delegazione di poteri fatta con l’articolo 43, comma 2, della legge 2 giugno 1889 » — unico argomento addotto per dimostrare la « piena efficacia legislativa » del r.d. n. 6516 del 1889 — non è, riguardata da sola, capace di svelare né la natura primaria né la natura secondaria dell’atto normativo commesso al Governo: anche in questo caso, pertanto, la posizione assunta si presenta tanto netta quanto priva di qualsiasi supporto argomentativo. Quanto infine ad Ad. gen., 4 giugno 1924, n. 83, si tratta del parere reso sullo schema di regolamento di procedura che, adottato ai sensi dell’art. 53 del r.d. n. 1054 del 1924 (il quale riproduceva il disposto dell’art. 27 del r.d. n. 2840 del 1923), avrebbe dovuto sostituire il r.d. n. 642 del 1907: tuttavia, come già segnalato l’iter di formazione ed entrata in vigore di questo schema di regolamento si è incomprensibilmente arenato sulla soglia della pubblicazione nella Gazzetta Uffıciale. È utile riportare il passaggio più significativo, ai nostri fini, del parere de quo: « ... giova tener presente che si tratta di regolamento che ha contenuto ed efficacia legislativa, perché emanato in base all’art. 22 della l. 1o maggio 1890 n. 6837, che era letteralmente identico all’art. 27 del r.d. 30 dicembre 1923 n. 2840 innanzi trascritto e che è dato al Governo, nei riguardi di esso, rinnovare in pieno l’esercizio della funzione legislativa perché la delegazione è stata rinnovata ». Premesso che il riferimento all’art. 22 della l. n. 6837 del 1890, frutto di una mera svista, va sostituito con il riferimento all’art. 22 della l. n. 5992 del 1889, poi trasfuso nell’art. 43 del r.d. n. 6166 del 1889, nonché con il riferimento all’art. 16, comma 1, della l. n. 62 del 1907, poi trasfuso nell’art. 47 del r.d. n. 638 del 1907 (queste essendo le disposizioni in base alle quali furono emanati i precedenti regolamenti di pro-


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In primo luogo, l’art. 16, comma 1, della l. n. 62 del 1907 (poi trasfuso nell’art. 47 del r.d. n. 638 del 1907) non reca una chiara delegazione di potestà legislativa in senso formale, limitandosi, per quel che qui interessa, ad abilitare il Governo a modificare il precedente « regolamento per la procedura davanti alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato », emanato con r.d. 17 ottobre 1889, n. 6516, in base alla previsione contenuta nell’art. 22 della l. n. 5992 del 1889 (poi trasfusa nell’art. 43 del r.d. n. 6166 del 1889). Dunque, l’oggetto della delega conferita al Governo con l’art. 16, comma 1, della l. n. 62 del 1907 si traduceva nella facoltà di stabilire « le modificazioni da apportarsi » al precedente regolamento di procedura, in modo da renderlo coerente con le novità recate dalla stessa l. n. 62 del 1907. L’art. 16, comma 1, della l. n. 62 del 1907 non dispone che il regolamento di procedura non possa essere modificato se non per legge; né prescrive che esso, una volta adottato dal Governo ed emanato dal Sovrano, debba essere presentato al Parlamento per la sua conversione in legge; né, infine, autorizza il Governo a modificare, entro limiti più o meno contenuti, le leggi esistenti. La clausola di delegazione contenuta nell’art. 16, comma 1, della l. n. 62 del 1907 è pertanto priva di quei requisiti che, alcedura: r.d. 17 ottobre 1889, n. 6516 e r.d. 17 agosto 1907, n. 642), non può sfuggire, ancora una volta, l’apoditticità della posizione assunta dai giudici di Palazzo Spada: dato che le precedenti previsioni legislative avrebbero recato una delegazione legislativa (sulla base della quale sarebbero stati adottati i decreti delegati recanti il regolamento di procedura), l’art. 27 del r.d. n. 2840 del 1923 e l’art. 53 del r.d. n. 1054 del 1924 si limitavano a rinnovare le precedenti delegazioni legislative, con il risultato che il Governo risultava abilitato a « rinnovare in pieno l’esercizio della funzione legislativa ». In questo (soltanto) si traduce il sentiero argomentativo disegnato dall’Adunanza Generale del Consiglio di Stato. È agevole dimostrare che il ragionamento condotto avrebbe dovuto essere rovesciato, alla luce della ricostruzione operata nelle pagine che precedono del sistema delle fonti del diritto vigente al principio del Novecento: dato che l’art. 22 della l. n. 5992 del 1889 (poi trasfuso nell’art. 43 del r.d. n. 6166 del 1889) e l’art. 16, comma 1, della l. n. 62 del 1907 (poi trasfuso nell’art. 47 del r.d. n. 638 del 1907) devono essere intesi come disposizioni recanti una clausola di delegazione di potestà regolamentare, ne deriva che l’art. 27 del r.d. n. 2840 del 1924 e l’art. 53 del r.d. n. 1054 del 1924, proprio in quanto « letteralmente identici » (secondo l’osservazione dell’Adunanza Generale) alle corrispondenti disposizioni del 1889 e del 1907, non possono che rinnovare l’esercizio di una potestà regolamentare.


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l’epoca, ne avrebbero fatto senz’altro una clausola di delegazione legislativa: l’attribuzione all’atto normativo commesso al Governo della forza di resistenza passiva tipica delle fonti primarie, la fissazione dell’obbligo per il Governo di presentare al Parlamento il regio decreto per la sua conversione in legge, l’autorizzazione esplicita a modificare le leggi esistenti (non importa con quale estensione ed intensità). In secondo luogo, assumendo, con la migliore dottrina dell’epoca, che l’intervento in una materia ancora priva di disciplina giuridica non potesse competere che alla legge e che l’intervento in una materia già coperta da disciplina giuridica, mediante l’introduzione di norme complementari ed integrative potesse essere attribuito al Governo con una speciale clausola di delegazione di potestà regolamentare contenuta in una legge del Parlamento, si può constatare agevolmente che il r.d. n. 642 del 1907, lungi dall’irrompere in una materia sfornita di qualsivoglia disciplina giuridica, detti bensı̀ norme nuove, ma pur sempre necessarie per completare ed integrare le norme di procedura che si trovavano già contenute nella l. n. 62 del 1907 (poi coordinata con il r.d. n. 6166 del 1889 e, quindi, confluita nel r.d. n. 638 del 1907). È sufficiente una lettura dell’intero Capo II del r.d. n. 638 del 1907 (intitolato Del procedimento dinanzi le sezioni giurisdizionali e la loro adunanza plenaria) per comprendere immediatamente che già la legge sul Consiglio di Stato conteneva un insieme invero corposo di norme sulla procedura, che si trattava quindi di integrare e completare, conseguendo un risultato che era, all’epoca, tipico dei regolamenti governativi delegati o autorizzati. In terzo luogo, trascorrendo dall’indagine che Mortara definiva « di sostanza » a quella « di forma », si è sopra illustrato che l’iter di formazione del r.d. n. 642 del 1907 ricalcò lo schema all’epoca previsto per i regolamenti governativi: deliberazione del Consiglio dei Ministri, udito il parere del Consiglio di Stato, emanazione con regio decreto, pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale che riportava, nel preambolo, la formula di emanazione tipica dei regolamenti governativi.


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Nell’iter di formazione dei decreti legislativi (definito in via soltanto consuetudinaria in ragione del silenzio serbato dallo Statuto Albertino) era invece assente il parere del Consiglio di Stato, salvi i soli casi in cui tale parere risultasse specificamente prescritto nella legge delega del Parlamento, nonché quelli in cui il decreto delegato andasse ad incidere sull’organizzazione e sul funzionamento dello stesso Consiglio di Stato. Come già rilevato, l’intero procedimento di formazione del r.d. n. 642 del 1907 si è dispiegato nel rispetto delle disposizioni che, all’epoca, regolavano la formazione dei regolamenti governativi, fino alla formula di emanazione che ricalca anch’essa quella tipica dei regolamenti governativi. Si noti che il preambolo e la formula di emanazione del r.d. n. 642 del 1907 risultano letteralmente identici a quelli del r.d. n. 641 del 1907, emanato in pari data e pubblicato anch’esso sulla Gazzetta Uffıciale del 25 settembre 1907, n. 227. Nell’un caso e nell’altro caso la qualifica « regolamento » è utilizzata nel titolo (rispettivamente, « Regolamento per l’esecuzione della legge sul Consiglio di Stato » e « Regolamento di procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato ») e nella formula di emanazione (rispettivamente, « è approvato il regolamento per l’esecuzione della legge sul Consiglio di Stato » e « è approvato il regolamento di procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato »). In quarto luogo, un esame ad un tempo testuale e sistematico, capace di valorizzare il coordinamento tra l’art. 16, comma 1, della l. n. 62 del 1907 e il r.d. n. 642 del 1907, porta ad emersione un dato: la qualificazione che la norma di legge ha impresso, sia pure indirettamente (e cioè attraverso la qualificazione come « regolamento » del precedente regolamento di procedura, risalente al 1889), all’atto normativo commesso al governo, trova perfetta corrispondenza sia nell’intitolazione che nella formula di emanazione del r.d. n. 642 del 1907 (con una assoluta identità, sul punto specifico, a quel che può dirsi anche per il coevo r.d. n. 641 del 1907, la cui natura regolamentare nessuno ha mai revocato in dubbio).


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In quinto luogo, la clausola di delegazione contenuta nell’art. 16, comma 1, della l. n. 62 del 1907 abilitava il Governo a « stabilire le modificazioni da apportarsi » al precedente regolamento di procedura (r.d. n. 6516 del 1889), nonché quelle da apportarsi al precedente regolamento di esecuzione della legge sul Consiglio di Stato (r.d. n. 6515 del 1889), ambedue emanati in base all’art. 43 del r.d. n. 6166 del 1889 che — nel ribadire la disposizione originariamente contenuta nell’art. 22 della l. n. 5992 del 1889 — aveva a suo tempo abilitato il Governo a fissare « le norme del procedimento » e a provvedere contestualmente a quanto potesse « occorrere per l’esecuzione » della legge sul Consiglio di Stato, e cioè della l. n. 5992 del 1889, poi coordinata con la precedente l. n. 2248, allegato D, del 1865 e, quindi, trasfusa nel testo unico approvato con r.d. n. 6166 del 1889. Appare poi tutt’altro che casuale la differente collocazione sistematica dell’ulteriore clausola di delegazione, contenuta nel comma 2 dell’art. 16 cit., con la quale si abilitava il Governo a fissare « il giorno in cui la presente legge andrà in vigore coi relativi regolamenti », in quanto la migliore dottrina dell’epoca dubitava della conciliabilità con i limiti della potestà regolamentare del potere di incidere direttamente sugli effetti della legge, stabilendone la data di entrata in vigore. Cosı̀, mentre le norme sulla procedura sono state poste con il r.d. n. 642 del 1907 (in base alla stessa previsione di legge che abilitava anche l’adozione del regolamento di esecuzione, emanato con r.d. n. 641 del 1907), la data di entrata in vigore della l. n. 62 del 1907 è stata stabilita dal Governo con un atto munito senz’altro di rango primario, e cioè con il r.d. n. 638 del 1907, il cui articolo 50 disponeva che « la presente legge, coi relativi regolamenti, andrà in vigore dal 1o novembre 1907 ». La circostanza che la clausola di delegazione legittimante l’adozione del regolamento di procedura e del regolamento di esecuzione fosse formalmente distinta dalla clausola di delegazione che abilitava il Governo a fissare la data di entrata in vigore della l. n. 62 del 1907 (cfr., rispettivamente, i commi 1 e 2 dell’art. 16 della stessa legge), unitamente alla circostanza che alla prima clausola di delegazione il Governo diede seguito con l’ado-


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zione del nuovo regolamento di procedura (r.d. n. 642 del 1907) e del nuovo regolamento di esecuzione (r.d. n. 641 del 1907), mentre la disposizione con cui si individuava nel 1o novembre 1907 la data di entrata in vigore della l. n. 62 del 1907 venne dal Governo inserita nel testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato, emanato con r.d. n. 638 del 1907 (e indiscutibilmente munito di natura primaria), confermano: a) i dubbi che la migliore dottrina dell’epoca nutriva in ordine alla compatibilità con i limiti propri del potere regolamentare (ivi compreso quello delegato) della potestà di dettare disposizioni finali e transitorie idonee ad incidere direttamente sugli effetti della legge, tra le quali quelle che ne stabilivano la data di entrata in vigore; b) la correttezza della posizione espressa dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 118 del 1968, allorché ha evidenziato che la disposizione contenuta nell’art. 16, comma 2, della l. n. 62 del 1907 « è del tutto autonoma rispetto a quella contenuta nel primo comma del medesimo articolo », essendo « certo da escludere che la circostanza che la legge (artt. 15 e 16) conferı̀ al Governo una serie di poteri normativi debba indurre a ritenere che necessariamente tutti fossero della stessa natura ». In definitiva, l’art. 16, comma 2, della l. n. 62 del 1907 preludeva davvero all’adozione di un atto avente forza di legge, tanto è vero che a quella previsione il Governo diede seguito con l’art. 50 del r.d. n. 638 del 1907. Al contrario, l’art. 16, comma 1, della l. n. 62 del 1907, che abilitava il Governo a stabilire « le modificazioni da apportarsi » ai precedenti regolamenti di esecuzione e di procedura (risalenti al 1889), preludeva all’adozione di uno o più atti normativi di rango secondario. Questa conclusione deriva dalla valorizzazione di due dati sistematici: la medesima collocazione riservata alle disposizioni che abilitavano il governo ad adottare un regolamento di procedura e un regolamento di esecuzione, da un lato, e la differente collocazione riservata alla disposizione che autorizzava il governo a stabilire « il giorno in cui la presente legge andrà in vigore coi relativi regolamenti », dall’altro lato.


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In sesto luogo, il r.d. n. 1054 del 1924, nei suoi artt. 44, commi 2 e 3, 45, ult. comma e 53, rinvia ad un « regolamento di procedura » (mai emanato e tuttavia, nelle intenzioni del legislatore del 1924) destinato a sostituire il precedente regolamento di procedura, emanato con il r.d. n. 642 del 1907: la capacità del nuovo regolamento di procedura di sostituire integralmente il precedente poteva discendere soltanto dalla qualificazione di quest’ultimo come fonte del diritto secondaria, risultando evidentemente impossibile per l’emanando regolamento di procedura l’abrogazione di una fonte primaria. Infine, quand’anche — nonostante gli sforzi fin qui profusi — residuassero dubbi intorno all’esatta qualificazione della clausola di delegazione contenuta nell’art. 16, comma 1, della l. n. 62 del 1907, dovrebbe essere applicato il criterio che la migliore dottrina dell’epoca aveva indicato proprio al fine di sciogliere le incertezze derivanti dalle clausole di delegazione non particolarmente chiare: posto che ogni delegazione di potestà normativa (sub specie di delegazione di potestà regolamentare ovvero di delegazione di potestà legislativa in senso formale) era avvertita come una deroga al principio della divisione dei poteri, prefigurato nello Statuto albertino (premessa maggiore del ragionamento), e posto che la deroga più grave si riteneva realizzata con la delegazione di potestà legislativa in senso formale (premessa minore del ragionamento), si giungeva alla condivisibile conclusione secondo cui la delegazione legislativa, per essere ammessa, dovesse risultare chiaramente dalla disposizione di delegazione, dovendosi invece, nei casi dubbi, intendere la delegazione come semplice delegazione di potestà regolamentare (82) (83). LUCA BERTONAZZI (82) È ben vero che nella precedente nota si sono riportati tre casi nei quali, secondo l’ordinanza della Quarta Sezione del Consiglio di Stato n. 2292 del 2000 cit., lo stesso Consiglio di Stato, in epoca lontana, avrebbe assunto una posizione a favore della natura primaria del r.d. n. 642 del 1907. I casi in verità si restringono a due, posto che nella sentenza del Cons. Stato, Sez. IV, 2 aprile 1909, n. 109 cit. non è rinvenibile, se non ci si inganna, nemmeno un obiter dictum relativo alla natura primaria o secondaria del r.d. n. 642 del 1907. Corrisponde invece al vero che nella sentenza del Cons. Stato,


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Sez. IV, 22 gennaio 1891, n. 14 cit. i giudici di Palazzo Spada affermarono che il r.d. 17 ottobre 1889, n. 6516 (e, dunque, il regolamento di procedura che precedette storicamente quello contenuto nel r.d. n. 642 del 1907) ha « piena efficacia legislativa », in quanto emanato in virtù della « delegazione di poteri fatta con l’articolo 43, comma 2, della legge 2 giugno 1889 » [rectius, con l’art. 43, che non si articolava in una pluralità di commi, del r.d. 2 giugno 1889, n. 6166, recante il testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato]. L’affermazione si presenta isolata da qualsivoglia supporto argomentativo capace di renderla plausibile. Maggiori lumi possono venire dall’esame della singola vicenda processuale sottoposta in quell’occasione al supremo consesso amministrativo: la sent. n. 14 del 1891 cit. dichiarava inammissibile un ricorso proposto avverso un provvedimento adottato anteriormente al 1o gennaio 1890, in applicazione dell’art. 60 del r.d. 17 ottobre 1889, n. 6516, a mente del quale, in effetti, « non è ammesso ricorso alla quarta sezione contro gli atti o provvedimenti dell’autorità amministrativa anteriori al giorno in cui sarà entrata in vigore la legge del 2 giugno 1889, testo unico sul Consiglio di Stato » (giorno che sarebbe stato poi fissato nel 1o gennaio 1890). È ben vero, come peraltro si afferma nella nota redazionale alla sentenza (in Giust. amm., 1891, I, 53), che « di fronte alla letterale disposizione del regolamento, la sezione IV non avrebbe potuto regolarsi diversamente », e cioè non avrebbe potuto sottrarsi alla declaratoria di inammissibilità di un ricorso avente ad oggetto un provvedimento adottato anteriormente al 1o gennaio 1890. Non di meno, è agevole comprendere le ragioni per le quali il Consiglio di Stato ha inteso sposare, in modo tanto netto quanto apodittico, la tesi della natura primaria del r.d. n. 642 del 1907. La migliore dottrina dell’epoca dubitava fortemente della conciliabilità con i limiti della potestà regolamentare del potere di incidere direttamente sugli effetti della legge, stabilendone la data di entrata in vigore e, più, in generale, l’efficacia nel tempo. Concordando con la nota redazionale alla sentenza, si ritiene che « nessun’altra delegazione sarebbe stata conferita al governo con l’articolo 43 della legge [id est, del r.d. n. 6166 del 1889] all’infuori di quella che si riferisce alla compilazione ed approvazione del regolamento di procedura », e cioè alla predisposizione « delle norme e delle discipline necessarie al funzionamento dell’istituto della giustizia amministrativa in esecuzione della legge ». L’art. 60 del r.d. 17 ottobre 1889, n. 6516 non rinveniva pertanto alcuna base legittimante nell’art. 43 del r.d. n. 6166 del 1889, né, in termini più generali, si riteneva delegabile al governo il potere di incidere sugli effetti nel tempo della legge (nemmeno attraverso lo strumento del regolamento delegato o autorizzato). Da una simile trama argomentativa sarebbe però derivata l’illegittimità dell’art. 60 del r.d. n. 6516 del 1889, con conseguente ammissibilità del ricorso dichiarato invece inammissibile con la sent. n. 14 del 1891, cit. e, più in generale, con conseguente ammissibilità, almeno per il profilo qui in considerazione, di tutti i ricorsi aventi ad oggetto provvedimenti adottati prima del 1o gennaio 1890. Questa è presumibilmente la ragione (pratica) per la quale la sent. n. 14 del 1891, cit., si è indotta a sposare, in modo tanto netto quanto apodittico, la tesi della natura primaria del r.d. n. 642 del 1907: ragionare diversamente (e cioè attribuire a quell’atto normativo natura secondaria) avrebbe significato rilevarne l’illegittimità, con i risultati pratici appena immaginati. Cfr., sul punto, C. VITTA, Giustizia amministrativa, Milano, 1903, 125 che, nell’enumerare i « casi in cui il ricorso » alla quarta sezione è inammissibile, individua l’ipotesi in cui « si tratti di impugnare provvedimenti amministrativi presi anteriormente all’entrata in vigore del testo unico del 1889, cioè anteriormente al 1o gennaio 1890 » (con l’ulteriore precisazione secondo cui « il giorno in cui doveva entrare in vigore quel


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testo unico fu lasciato fissare per decreto reale in virtù dell’articolo 46 del testo unico stesso; ed il relativo decreto reale 23 novembre 1889 fissò appunto la data del 1o gennaio 1890 »). L’inammissibilità dei ricorsi avverso atti adottati anteriormente al 1o gennaio 1890 — prosegue l’Autore — è stabilita « esplicitamente dall’articolo 60 del regolamento di procedura avanti la quarta sezione 17 ottobre 1889, e sebbene cotale articolo 60 sia stato criticato come incostituzionale non senza buoni motivi perché restringe una facoltà accordata dalla legge, pure la giurisprudenza vi si è mostrata ossequente ». Si fa infine rilevare per incidens che una disposizione sostanzialmente identica a quella originariamente contenuta nell’art. 60 del r.d. 17 ottobre 1889, n. 6516 è stata poi tralatiziamente trasfusa nell’art. 96 dello stesso r.d. 17 agosto 1907, n. 642, il quale disponeva che « non è ammesso ricorso alle sezioni giurisdizionali contro gli atti o provvedimenti dell’autorità amministrativa anteriori al giorno in cui è entrata in vigore la legge 2 giugno 1889, n. 6166 » (e cioè, al 1o gennaio 1890). È perfino superfluo ribadire i dubbi in ordine alla (il)legittimità di tale previsione, in quanto la sua riproduzione all’interno del r.d. n. 642 del 1907 pare davvero il frutto di una vista e/o di una ripetizione tralatizia e quasi inconsapevole, essendo evidentemente irrealistico ritenere che nel 1907 fossero ancora pendenti ricorsi instaurati nel 1890 avverso provvedimenti adottati anteriormente al 1o gennaio di quello stesso anno 1890. Come già sottolineato nella nota precedente, identico (ed elevatissimo) è il tasso di apoditticità che contraddistingue l’affermazione della natura primaria del r.d. n. 642 del 1907, contenuta nel parere del Cons. Stato, Ad. gen., 4 giugno 1924, n. 83, cit.: il regolamento di procedura (mai emanato nonostante il rinvio ad esso operato con l’art. 27 del r.d. n. 2840 del 1923) avrebbe « contenuto ed efficacia legislativa » in quanto da emanarsi in base all’art. 27 del r.d. n. 2840 del 1923 che, in quanto letteralmente identico alle precedenti previsioni legislative legittimanti l’adozione dei precedenti regolamenti di procedura (contenuti nei r.d. nn. 6516 del 1889 e 642 del 1907), si sarebbe limitato a « rinnovare in pieno l’esercizio della funzione legislativa ». In altri termini, il regolamento cui preludeva l’art. 27 del r.d. n. 2840 del 1923 (con disposizione poi trasfusa nell’art. 53 del r.d. n. 1054 del 1924) non poteva avere che « contenuto ed efficacia legislativa », in quanto con i precetti legislativi che a quel regolamento rinviavano « la delegazione [legislativa] è stata rinnovata ». Tralasciando di ripetere le gravi perplessità che originano da un simile ragionamento (cfr. la nota precedente), si ritiene tuttavia opportuno evidenziare che lo stesso Consiglio di Stato, al di là delle pronunce esaminate in questa e nella precedente nota, ha in altre occasioni dimostrato di considerare il r.d. n. 642 del 1907 alla stregua di una fonte secondaria del diritto. La constatazione (che si passa immediatamente ad avvalorare) non muta, evidentemente, anche se in tali occasioni il Consiglio di Stato non si è prodotto in affermazioni nette e recise sulla natura secondaria del r.d. n. 642 del 1907. Si evidenziamo, in particolare, due gruppi di pronunce. Del primo gruppo di pronunce dà conto F. CAMMEO, Della manifestazione della volontà dello Stato nel campo del diritto amministrativo, in Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, a cura di V.E. ORLANDO, vol. III, Milano, 1901, 174. L’art. 9 della l. 31 marzo 1889, n. 5992 (con disposizione poi trasfusa nell’art. 30 del r.d. 2 giugno 1889, n. 6166) stabiliva che il ricorso giurisdizionale « deve essere... notificato », nel termine perentorio di sessanta giorni, all’autorità dalla quale è emanato l’atto o provvedimento impugnato » e « alle persone alle quali l’atto o provvedimento medesimo direttamente si riferisce ». Quella disposizione stabiliva altresı̀, nel perfezionare la disciplina sulla instaurazione del processo, che « l’originale del ricorso, colla prova delle seguite notificazioni e coi


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documenti sui quali si fonda, deve essere dal ricorrente, nei trenta giorni successivi alle notificazioni medesime, depositato, insieme all’atto o provvedimento impugnato, nella segreteria del Consiglio di Stato ». L’art. 16 del r.d. 17 ottobre 1889, n. 6516 (regolamento di procedura) stabiliva poi, in aggiunta agli adempimenti che la legge poneva in capo al ricorrente ai fini della corretta instaurazione del processo, che il ricorrente medesimo avrebbe dovuto altresı̀ « notificare che il deposito [del ricorso e dei documenti presso la segreteria del Consiglio di Stato] è stato eseguito nei modi di legge al ministero dal quale dipende l’autorità il cui provvedimento è stato impugnato ». Il regolamento di procedura stabiliva, in capo al ricorrente, un adempimento ulteriore rispetto a quelli determinati nella legge: la notifica all’amministrazione resistente di un atto con cui si dimostrava l’avvenuto deposito del ricorso introduttivo e dei relativi documenti. Ebbene, F. CAMMEO, op. ult. cit., 174 dà atto che, a quell’epoca, la « giurisprudenza costante della IV Sezione » aveva « più volte dichiarato che questa notificazione [id est, la notificazione ulteriore, prescritta dal regolamento di procedura] non è richiesta a pena di nullità, e deve considerarsi come un desiderio e non come una prescrizione tassativa, essendo contraria allo spirito » della legge. Si è già osservato (cfr. la precedente nota n. 23) che l’Autore considerava tale « giurisprudenza costante della IV Sezione » come la riprova della qualificazione del regio decreto recante il regolamento di procedura alla stregua di regolamento governativo (delegato), potendo pertanto tale atto normativo operare anche praeter legem (e non necessariamente intra legem), ma mai contra legem. Si è già osservato altresı̀ (cfr., di nuovo, la precedente nota n. 23) che quella « giurisprudenza costante della IV Sezione » richiamata da Cammeo al dichiarato fine di « chiarire con un caso pratico » la natura secondaria del r.d. n. 6516 del 1889, muoveva evidentemente dalla qualificazione di quel regolamento di procedura a guisa di regolamento delegato, ché diversamente non si sarebbe potuto degradare una sua prescrizione alla stregua di un semplice « desiderio », a ciò evidentemente indotti dall’esigenza di escludere che esso si ponesse contra legem. Cfr., sul punto, C. VITTA, Giustizia amministrativa, Milano, 1903, 248: « Depositato il ricorso in segreteria, l’articolo 16 del regolamento di procedura ordina che se ne renda edotto il Ministero dal quale dipende l’autorità il cui provvedimento è stato impugnato... Questa notificazione al Ministero dell’avvenuto deposito veramente non è imposta dalla legge, e quindi la giurisprudenza ha ritenuto che la mancanza di essa non induca la nullità del ricorso ». Del secondo gruppo di pronunce con cui il Consiglio di Stato, dimostrava, pur senza solenni affermazioni in tal senso, di annettere natura secondaria al regolamento di procedura, dà conto il Mortara, la cui opinione è richiamata da L. SALIS, Illegittimità costituzionale del regolamento di procedura avanti il Consiglio di Stato, in Giust. civ., 1967, III, 211-212. Il Mortara dà atto di un filone giurisprudenziale risalente alla fine dell’Ottocento che, al fine di neutralizzare il deficit di contraddittorio del quale pativa l’amministrazione resistente nell’ambito del giudizio di ottemperanza in base alla disciplina ricavabile dagli artt. 58 e 59 del r.d. n. 6516 (i cui precetti sono stati poi ribaditi negli artt. 90 e 91 del r.d. n. 642 del 1907), introduceva in via pretoria « i normali criteri del contraddittorio », in tal modo pervenendo « ad un tacito riconoscimento della illegittimità » delle citate norme regolamentari (profilo sul quale si veda, più diffusamente, E. CANNADA BARTOLI, Appunti sul contraddittorio nel processo ex art. 27, n. 4, della legge sul Consiglio di Stato, Estratto da Atti del convegno sull’adempimento del giudicato amministrativo, Milano, 1962, 155 ss.). Come si è già segnalato nella precedente n. 24), la disapplicazione e/o la degradazione di una norma a mero « desiderio » (come accadeva nell’orien-


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tamento giurisprudenziale, ricordato da Cammeo, in tema di adempimenti per la corretta instaurazione del processo) e/o il tacito riconoscimento della illegittimità di una norma (come accadeva nel filone giurisprudenziale ricordato da Mortara, in tema di contraddittorio nell’ambito del giudizio di ottemperanza) implicano senz’altro l’inquadramento di quella stessa norma tra le fonti secondarie del diritto. Peraltro può sostenersi senza eccessive forzature che gli orientamenti giurisprudenziali ricordati da Cammeo e Mortara, che senz’altro muovono dall’inquadramento del regolamento di procedura tra le fonti secondarie del diritto, anticipano in buona sostanza l’impiego dell’istituto della disapplicazione dei regolamenti nell’ambito del processo amministrativo, un secolo prima rispetto all’ultimo decennio degli anni Novanta, nel quale soltanto quell’istituto ha acquisito — in via pretoria — piena cittadinanza nell’ambito della giurisdizione amministrativa. (83) Oltre ai due gruppi di pronunce risalenti alla fine dell’Ottocento, citati nella nota precedente, di recente la Quarta Sezione del Consiglio di Stato, con sent. 17 ottobre 2003, n. 6335 (in sito internet www.dirittodeiservizipubblici.it) ha mostrato di aderire alla tesi che riconosce natura primaria al r.d. n. 642 del 1907. Nel ritenere manifestamente infondato un dubbio di legittimità costituzionale avente ad oggetto l’art. 32, comma 2, della l. n. 109 del 1994, nella parte in cui rimette ad un atto di normazione sub — primaria la definizione delle norme di procedura dell’arbitrato in tema di esecuzione di lavori pubblici (sia pure nel rispetto dei principi del codice di procedura civile), la Quarta Sezione ha affermato che « da un punto di vista generale deve ammettersi la possibilità che l’emanazione delle disposizioni in questione sia demandata ad un atto di normazione secondaria », dovendosi « escludere che la materia in questione [id est, le norme di procedura dell’arbitrato relativo all’esecuzione di lavori pubblici] sia coperta da riserva assoluta di legge, come è dimostrato dal rilievo che anche la procedura dinanzi alle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato è stata disciplinata a suo tempo con un regolamento che è tuttora vigente... cui la Corte costituzionale, con sentenza 18 maggio 1989, n. 251, ha espressamente riconosciuto natura regolamentare ».



indice

DOTTRINA pag. F. MERUSI, Variazioni su tecnica e processo .....................................................

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F. CINTIOLI, Tecnica e processo amministrativo ................................................

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R. CHIEPPA, Il controllo giurisdizionale sugli atti delle autorità antitrust .......

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G. GUCCIONE, Il ricorso avverso il silenzio-inadempimento dell’amministrazione: breve ricostruzione storica dell’istituto ed applicazioni giurisprudenziali del rito ex art. 2 della legge 21 luglio 2000, n. 205 .................

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GIURISPRUDENZA ANNOTATA Cass., Sez. un., 16 aprile 2004 n. 7265, con nota di M. DELSIGNORE, I rapporti individuali di utenza con soggetti privati secondo l’interpretazione della Corte di Cassazione ..................................................................................

1123

Cons. Stato, Sez. V, 14 luglio 2003 n. 4167, con nota di A. MARRA, Rinegoziazione del contratto dopo l’aggiudicazione e riparto di giurisdizione .

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Cons. Stato, Sez. IV, 18 novembre 2003 n. 5108, con nota di B. LUBRANO, Limiti e poteri dell’ordinanza cautelare nel processo amministrativo .......

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RASSEGNE - RECENSIONI - NOTIZIE S. VALAGUZZA, La concretizzazione dell’interesse pubblico nella recente giurisprudenza amministrativa in tema di annullamento d’uffıcio ..................

ERRATA CORRIGE Nel n. 3/2004 a p. 840 invece di « dell’art. 43 » leggasi « dell’art. 53 »; invece di « ex art. 43 cit. » leggasi « ex art. 43 T.U. cit. »

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Hanno collaborato a questo fascicolo ROBERTO CHIEPPA consigliere di Stato FABIO CINTIOLI consigliere di Stato MONICA DELSIGNORE ricercatore di Diritto amministrativo nell’Università degli studi di Milano GWENDOLINE GUCCIONE dottore in giurisprudenza BENEDETTA LUBRANO dottore in giurisprudenza ALFREDO MARRA dottore in giurisprudenza FABIO MERUSI professore ordinario di Diritto amministrativo nell’Università degli studi di Pisa SARA VALAGUZZA dottore in giurisprudenza


dottrina

FABIO MERUSI

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Mi limiterò ad alcune « variazioni sul tema “Tecnica e Processo” » senza avere la pretesa che hanno i musicisti di rendere la variazione più piacevole del motivo ispiratore ... qui nessun Diabelli diventerà celebre ... Prima di tutto perché oggi si parla tanto di tecnica e processo? Perché nel diritto amministrativo un tema, quello della discrezionalità tecnica, che sembrava ormai definito, almeno nelle sue alternative teoriche, negli studi degli anni trenta/quaranta (1), è tornato, cosı̀ insistentemente, di attualità? Non bastava per risolvere le singole questioni utilizzare le vecchie nozioni del rinvio a norme non giuridiche, della discrezionalità pura contrapposta a quella tecnica o dell’interpretazione contrapposta alla ponderazione degli interessi costituente l’essenza della discrezionalità in senso proprio? Magari con qualche aggiornamento processuale a maggior tutela del ricorrente come da più parti auspicato? (2). Tanto per cambiare è colpa della Comunità Europea (o, per meglio dire, la Comunità ha dato una « sterzata » ad un dibattito ricorrente nell’ordinamento italiano che non sembrava trovare sbocco ...). Le direttive comunitarie sono infatti infarcite di con(*) Relazione conclusiva della Tavola rotonda sul tema « Tecnica e Processo », tenuta a Venezia il 27 febbraio 2004 in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2004 del T.A.R. Veneto. (1) Si pensi alla nota polemica fra M.S. Giannini e Mortati, nella quale si trovano riassunti gli studi precedenti, italiani e non, o all’ingiustificatamente dimenticata monografia di CODACCI PISANELLI, L’invalidità come sanzione di norme non giuridiche, Milano, 1940. (2) Per cui si rinvia, in particolare, per la messa a punto dei singoli problemi a S. BACCARINI, Giudice amministrativo e discrezionalità tecnica, in questa Rivista, 2001, 80 ss. e a F. SALMONI, Le norme tecniche, Milano, 2001.

Dir. Proc. Amm. - 4/2004


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cetti giuridici indeterminati; di concetti giuridici indeterminati che fanno riferimento a nozioni tecnico scientifiche e, talvolta, addirittura a formule matematiche contenute nel testo o, quando sono un po’ troppo complicate, riportate in allegati « facenti parte della direttiva a tutti gli effetti ... ». Ne deriva che l’esercizio del potere amministrativo delle Amministrazioni dei singoli Stati facenti parte della Comunità è stato progressivamente vincolato all’interpretazione di concetti giuridici indeterminati, all’interpretazione di concetti tecnicoscientifici e ... all’applicazione di formule matematiche ... Ma perché la Comunità europea lo ha fatto? Qual è la logica che informa le direttive comunitarie? È evidente l’intento di evitare che il potere amministrativo delle singole amministrazioni dei singoli Stati della Comunità, ed ora dell’Unione, venga esercitato in materia discrezionale ... Se fosse usato in maniera discrezionale verrebbe meno l’effetto di uniformità che le direttive intendono imporre alle amministrazioni della Comunità (indirettamente quando sono seguite da leggi nazionali esecutive; direttamente quando, come accade sempre più di frequente, le direttive sono « autoapplicative »). Dove per discrezionale si intende un potere libero di ponderare interessi al momento della decisione. La ponderazione degli interessi conserva un margine di libertà che le varie regole sulla ponderazione elaborate dai giudici amministrativi dei vari Paesi della Comunità (le figure sintomatiche italiane; gli standards dell’excés de pouvoir francesi; le varie manifestazioni dell’Ermessenmissbrauch tedesco) hanno scalfito solo dall’esterno. Il merito amministrativo è di per sé nemico dell’uniformità comunitaria. Naturalmente c’è anche una giustificazione più nobile della pretesa « accentratrice » della Comunità e che la Comunità ha preso a prestito da un ordinamento di un Paese membro nel quale si è voluto sostituire l’arbitrio della discrezionalità con il potere vincolato da concetti giuridici indeterminati e dal rinvio a nozioni tecnico-scientifiche: i diritti fondamentali vengono prima del potere amministrativo e in corrispondenza di diritti fondamentali il potere esecutivo non può conservare un margine di arbitrio (il merito amministrativo insito


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nella ponderazione di interessi) inconoscibile dal giudice che tutela i diritti fondamentali. E la Comunità europea, almeno quella realizzata prima del Trattato di Nizza e della Costituzione in itinere, si fondava, e ancora nella sua parte essenziale si fonda, su un diritto fondamentale: la libertà economica. Ma, quarti di nobiltà a parte, è un dato di fatto che la normazione comunitaria è una normazione che intende vincolare il potere amministrativo delle amministrazioni dei singoli Paesi europei, delle amministrazioni che appaiono tali e di quelle che sono tali secondo indici sostanziali previsti dalla Comunità (gli organismi di diritto pubblico), di quelle rapportabili al potere esecutivo e di quelle definite autorità indipendenti, le quali, essendo preposte a settori economici, sono quasi tutte enti autarchici della Comunità, cioè enti che traggono, direttamente o indirettamente, il loro potere da regolamenti e direttive della Comunità. Ma si fa presto a dire potere vincolato, potere esercitato in maniera uniforme (o senza « arbitrio » nei confronti di diritti fondamentali) sulla base di direttive (e più raramente di regolamenti) comunitari. Come si fa a vincolare l’esercizio di un potere senza cadere in formalismi avulsi dalla realtà? Attraverso concetti giuridici indeterminati che quasi mai sono soltanto giuridici. Forse neanche l’esempio « storico » del divieto agli zingari di girare in « orde » era un concetto giuridico indeterminato allo stato puro. Quasi sempre i concetti indeterminati implicano il rinvio a nozioni di scienze e tecniche non giuridiche. Il che accade in particolare per la normativa comunitaria che ha per oggetto attività economiche o, comunque, economicamente rilevanti. Le nozioni di mercato concorrenziale; di mercato rilevante; di notevole forza di mercato; di abuso di posizione dominante; di prezzo predatorio; di sana e prudente gestione implicano che l’amministrazione decida sulla base di nozioni di scienze o, comunque di tecniche, non giuridiche. Peggio ancora quando si tratta di simulare la concorrenza in mercati inesistenti o non ancora concorrenziali. Qui è il potere amministrativo che crea il fatto economico, ma sulla base di scelte economiche quasi sempre altamente opinabili, se non, addirittura, a soluzione multipla.


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Se l’esercizio del potere sulla base di concetti giuridici indeterminati non fosse giustiziabile la libertà dell’Amministrazione finirebbe per essere simile, se non addirittura maggiore, a quella che le conferisce la discrezionalità intesa come ponderazione di interessi. Il diritto fondamentale non verrebbe prima del potere esecutivo e l’autarchia comunitaria, anziché imporre un esercizio uniforme del potere, favorirebbe soluzioni diversificate secondo la logica degli interessi nazionali o anche, più semplicemente, delle diverse « culture » nazionali. Ovviamente è giustiziabile. Ma in che misura e come? Delegando la decisione ad un consulente tecnico d’ufficio come fa il giudice ordinario nelle liti tra privati; andando alla ricerca della soluzione scientifica più convincente, o soltanto conforme alle proprie idee, sulle riviste di divulgazione scientifica o semplicemente affermando che ci si fida dell’alta qualifica tecnica di chi ha deciso come fa da oltre mezzo secolo la Corte d’Appello di Roma a proposito delle sanzioni in materia bancaria e finanziaria? La Corte di Giustizia della Comunità Europea e, dopo qualche esitazione iniziale collegata all’ambigua nozione di discrezionalità tecnica, il Consiglio di Stato italiano hanno indicato che l’obbligo dell’esercizio del potere vincolato da concetti giuridici indeterminati è connesso all’essenza stessa del processo di legittimità: è legale ciò che è razionale. Nel riesaminare l’esercizio del potere compito del processo è verificare se la soluzione adottata sia « ragionevole » o razionalmente preferibile ad altre se le soluzioni possibili erano più d’una. Non la ricerca della verità scientifica secondo le leggi delle scienze o delle tecniche alle quali il concetto giuridico indeterminato fa rinvio. Ciò che il processo può dare è solo la verifica della plausibilità della soluzione adottata nell’esercizio del potere. Come è stato sottolineato, se anche non esiste la verità, neppure quella scientifica, è anche vero che esiste un metodo per ricercarla e che questo metodo è il contraddittorio processuale. Perché nel processo amministrativo non si ricerca in contraddittorio la verità prospettando dalle due parti, nel caso di concetti giuridici indeterminati a contenuto tecnico scientifico, la soluzione che si


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ritiene conforme al concetto giuridico indeterminato che vincola l’esercizio del potere per poi lasciare al giudice di scegliere la soluzione che gli sembra più convincente? Perché nel processo amministrativo — più accentuatamente in quello italiano che in quello europeo — l’attenzione del giudice si sposta prevalentemente sulla ragionevolezza della decisione presa dall’Amministrazione nell’esercizio del potere tanto da suggerire la diffusa affermazione che quello esercitato dal giudice amministrativo sulla discrezionalità tecnica sarebbe un « sindacato debole »? La risposta è ovvia: perché il giudice ha già davanti a sé i risultati del contraddittorio! Il contraddittorio sulla sussumibilità di una determinata soluzione in un concetto giuridico indeterminato è già avvenuto in sede di procedimento amministrativo coi possibili interessati a soluzioni diverse e il giudice, acquisiti in via istruttoria tutti gli elementi emersi nel contraddittorio procedimentale, è in grado di esprimersi sulla « ragionevolezza » della soluzione adottata nell’esercizio del potere amministrativo. E non a caso una parte consistente degli esempi giurisprudenziali richiamati a proposito della problematica del rapporto fra tecnica e processo si riferiscono a censure sull’adeguatezza del contraddittorio procedimentale. Si pensi a famosi esempi di atti di autorità indipendenti ad alto contenuto tecnico come l’Autorità garante per le telecomunicazioni in cui l’oggetto del contendere si è spesso arrestato alle censure sui vizi del contraddittorio, cioè sulla mancata possibilità di prospettare soluzioni diverse da quelle fatte proprie dall’Autorità nella decisione finale. Ma, superato l’esame sull’adeguatezza del contraddittorio, il giudice può sempre limitarsi ad un giudizio sulla « ragionevolezza » della soluzione adottata in corrispondenza di un determinato concetto giuridico indeterminato a contenuto tecnico scientifico? Non sempre la « scorciatoia » procedimentale, o meglio l’acquisibilità degli elementi per decidere attraverso il procedimento amministrativo, permette al giudice amministrativo di operare soltanto un c.d. « sindacato debole » sulla decisione. La ricerca della verità in contraddittorio non c’è stata quando il ricorrente non ha


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partecipato al contraddittorio o vi ha partecipato in maniera indiretta o marginale e afferma che l’amministrazione è stata « catturata » dall’amministrato che gli ha prospettato come esercitare il potere regolato da un concetto giuridico indeterminato. Un fenomeno ricorrente in settori regolati da una autorità amministrativa indipendente quando nel settore è presente un c.d. incumbent, un ex monopolista detentore dei dati tecnici e, in generale, della « sapienza » riferibile a determinati concetti giuridici indeterminati ad alto contenuto tecnico-scientifico. Gli utenti e i nuovi entrati in un mercato artificiale (in quanto determinato da provvedimenti amministrativi) sono i soggetti che di solito lamentano la propria estraneità al contraddittorio procedimentale e la conseguente « cattura » dell’Amministrazione da parte dell’incumbent. Se il contraddittorio non c’è stato, non c’è stata neppure la ricerca della verità ... o per meglio dire il giudice non è in grado di valutare la « ragionevolezza » di una soluzione quando si afferma che sotto un concetto giuridico indeterminato sono sussumibili più soluzioni. In questo caso la « verità » va ricercata dal giudice, non solo ammettendo davanti a sé stesso il contraddittorio che non c’è stato in sede procedimentale, ma introducendo esso stesso il contraddittorio con la soluzione adottata dalla Pubblica Amministrazione, ricorrendo, se ritiene che gli elementi del contraddittorio introdotti dal ricorrente non siano sufficienti, alla Consulenza Tecnica d’Ufficio prevista dalla Novella della 205. Essendo peraltro ben chiaro che la Consulenza Tecnica d’Ufficio non può sostituire la decisione dell’Amministrazione, ma solo misurarne la ragionevolezza. Insomma, se Dio è morto, come è stato da più parti ricordato, e la verità è solo il risultato di un processo in contraddittorio, nel processo deve esserci, in qualche modo, un contraddittorio! Ma della consulenza tecnica il giudice può aver bisogno non solo nel caso in cui ci sia stato un contraddittorio carente sull’applicabilità di un concetto giuridico indeterminato, ma anche quando risulta contestato un fatto rientrante nei presupposti per l’esercizio del potere. Per fare un esempio tratto da una problematica spesso evocata anche in questa sede, quella della misurazione


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dei campi elettromagnetici, per loro natura instabili, esiste una pluralità di metodi per la misurazione e i vari metodi, ovviamente, danno risultati non sempre coincidenti. Scegliere un metodo o l’altro può essere valutato dal giudice solo con criteri di ragionevolezza. Ma se si contesta in fatto la misurazione effettuata con un determinato metodo, l’unico modo per il giudice per conoscere il fatto contestato è di far ripetere la misurazione da un perito d’ufficio. Abbiamo detto che il giudice non può e non deve, almeno nel giudizio di legittimità sull’esercizio di un potere, inseguire la verità « scientifica », neppure attraverso un consulente tecnico d’ufficio, ma solo misurare la ragionevolezza scientifica della soluzione adottata, salva la pienezza del contraddittorio procedimentale o giudiziale nella ricerca della soluzione della quale il giudice deve misurare la ragionevolezza. Ma ci sono dei casi in cui la « ragionevolezza » non vale, nei quali il giudice nulla può fare a meno di non emettere sentenze irrazionali, per loro natura contrarie ad un giudice di legittimità, per il quale, come abbiamo visto, è legale ciò che è razionale ed è illegittimo ciò che non lo è. Sono i casi in cui i concetti giuridici indeterminati che vincolano l’esercizio del potere fanno riferimento a questioni scientificamente controverse o addirittura non scientificamente verificabili. I possibili effetti nel tempo dei campi elettromagnetici; delle modificazioni genetiche e, più semplicemente, di terapie mediche non ancora sperimentate (3), mentre tutte le vicende, anche giurisprudenziali, del noto caso Di Bella sono ora ricostruiti nel volume a cura di E. BRUTI LIBERATI, Diritto alla salute e terapie alternative: le scelte dell’amministrazione sanitaria e il controllo dei giudici, Milano, 2003. E di ciò che non è scientificamente verificabile si nutrono le psicosi collettive che in ogni epoca hanno cercato nel giudice lo strumento per « inverare » paure collettive. I meccanismi logico giuridici attraverso i quali i giudici sono stati strumentalizzati da tali psicosi collettive, (3) Il malleus maleficarum potrebbe essere applicato agli organismi geneticamente modificati come risulta dai lavori raccolti da R. FERRARA e I.M. MARINO, Gli organismi geneticamente modificati. Sicurezza alimentare e tutela dell’ambiente, Padova, 2003.


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ma anche quelli attraverso i quali ha resistito alla pressione per trasformarsi in strumento di tali psicosi, sono stati esaurientemente illustrati da PROSPERI in Tribunali della coscienza (4). Come sfuggire all’alternativa fra il non liquet e l’avventurarsi nell’irrazionale? Ancora una volta è giunta in soccorso del nostro ordinamento la Comunità Europea, la quale ha introdotto fra i principi comunitari da trasmettere ai vari ordinamenti che fanno parte della Comunità il principio di « precauzione ». Un principio che dovrebbe assicurare una soluzione che tenga conto dei pericoli paventati, quando tali pericoli non sono scientificamente accertabili. Un altro concetto giuridico indeterminato da verificare con criteri di ragionevolezza? In teoria sı̀, se la determinazione della « precauzione » è lasciata alla Pubblica Amministrazione. Normalmente dovrebbe trattarsi invece di un principio regolante la normazione: solo la norma può definire in maniera « arbitraria » ciò che si ritiene « precauzionale ». Si pensi ad esempio alla determinazione di « soglie » di inquinamento oltre le quali un inquinamento del quale non è stata ancora scientificamente provata la pericolosità potrebbe diventare pericoloso. L’elettromagnetismo ci offre ancora una volta un esempio di comune conoscenza. E non è un caso che nel nostro ordinamento la contesa attorno all’elettromagnetismo si è spostata sulle fonti abilitate a determinare la precauzione, nella solita contesa fra legge statale, legge regionale e regolamento comunale, determinata dall’attuale incertezza costituzionale sui livelli di governo, cioè su una questione di stretto diritto nella quale la questione « scientificamente controversa » diventa irrilevante. Che dire infine della ricorrente proposta di spostare la scienza e la tecnica dal livello istruttorio al livello giudicante, di affiancare al giudice togato, esperto in scienze giuridiche, giudici esperti nelle scienze e nelle tecniche richiamate nei concetti giu(4) E, dato che siamo a Venezia, possiamo aggiungere i lavori di MARISA MILANI, Streghe e diavoli nei processi del S. Uffızio. Venezia, 1554-1592 (Padova, 1989) e Processi del S. Uffızio di Venezia contro ebrei e giudaizzanti (1587-1598) (Firenze, 1990).


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ridici indeterminati? Una proposta riferita prevalentemente alle scienze economiche che sono alla base delle decisioni delle Autorità amministrative indipendenti volute dalla Comunità per regolare una economia di mercato. Se occorre verificare la legittimità di un diniego di autorizzazione all’esercizio di una impresa bancaria, fondato sul concetto di « sana e prudente gestione » dell’organizzazione aziendale proposta, perché non giovarsi dell’esperienza di un economista aziendale, cioè di un esperto della materia alla quale il concetto giuridico indeterminato fa rinvio? Oppure, nel caso in cui si debba determinare se un mercato è « rilevante » per essere sottoposto alle regole della concorrenza, perché non giovarsi della conoscenza di un esperto di economia applicata? La risposta a tali suggestioni è la solita che si è sempre data a proposito del rapporto fra giudici amministrativi e amministrazione. Il giudice amministrativo non deve diventare un amministratore di secondo grado, non deve sostituire la propria valutazione alla decisione della Pubblica Amministrazione, deve solo valutarne la legittimità, che nel caso di concetti giuridici indeterminati che rinviano a nozioni tecnico-scientifiche si traduce nella « ragionevolezza » della soluzione presa in esame, che in molti casi, attesa l’« inesattezza » delle scienze e delle tecniche, può anche non essere l’unica possibile. Il giudizio di ragionevolezza è un giudizio giuridico tipico del processo di legittimità non un giudizio tecnico-scientifico che, come tale, è di pertinenza di un giudice senza ulteriori aggettivi. Come del resto, in contrasto con la prospettata riforma del giudice di questioni economiche, risulta confermato dall’esperienza della Corte di Giustizia della Comunità Europea che giudica su questioni spesso perfettamente identiche a quelle affrontate dai giudici nazionali a proposito di provvedimenti di autorità amministrative indipendenti, anzi, nel caso dell’antitrust, addirittura alternative, senza alcuna « addizione » specialistica. Si potrebbe dire, con una battuta, che in questo caso è la divisione dei poteri che spinge per il giudice « peritus peritorum »... Naturalmente il discorso non finisce qui. Anzi bisognerebbe


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cominciare da qui. Se si parte dal presupposto, fatto proprio dalla Comunità ed imposto agli Stati membri, che i diritti fondamentali vengono prima del potere, e che di fronte ai diritti fondamentali il potere amministrativo deve essere necessariamente un potere vincolato, anche se in prevalenza da concetti giuridici indeterminati, che, a loro volta, rinviano a nozioni tecnico-scientifiche, bisogna ripensare la classificazione delle situazioni giuridiche soggettive di fronte all’esercizio del potere; ripensare il rapporto fra procedimento e processo; fare cadere il pregiudizio legislativo che la consulenza tecnica d’ufficio si addica alla giurisdizione esclusiva e non, in generale, al processo di legittimità; ripensare alla validità della stessa distinzione fra giurisdizione di legittimità e giurisdizione esclusiva, e cosı̀ via. Ma non è certo questo né il luogo, né il momento per ricominciare da capo ...


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SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. Discrezionalità tecnica e concetti giuridici indeterminati. — 3. Contaminazioni reciproche tra diritto e tecnica. — 4. Discrezionalità tecnica e discrezionalità amministrativa di fronte alla pervasività della tecnica. — 5. Discrezionalità tecnica e riserva di funzione amministrativa. — 6. Il Consiglio di Stato e la distinzione tra sindacato debole e forte. — 7. La giurisprudenza della Corte Costituzionale. — 8. Ricerca della verità e giudice amministrativo. — 9. Regola giuridica (dell’azione amministrativa) e regola economica. Il caso delle Autorità indipendenti. — 10. Il caso CIF (Corte di giustizia CE 9 settembre 2003) e il potere di disapplicazione dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato. — 11. Sindacato sul potere e Autorità indipendenti. Lo sviamento di potere. — 12. Conclusioni.

1. Il tema prescelto per il mio intervento è sicuramente tra i più appassionanti: unisce problemi di attualità a riflessioni che risalgono a nozioni di teoria generale, sulle quali generazioni di studiosi hanno affilato le armi della dialettica; sembra saldamente legato all’esperienza del giurista, ma rischia, specie ai nostri giorni, di sconfinare in un campo nel quale al giurista può capitare di smarrirsi; infine muove dal processo, ma finisce per incidere su aspetti dogmatici che attingono anzitutto ad istituti di diritto sostanziale. Sicché il compito è sı̀ molto stimolante, ma al contempo tutt’altro che agevole. Per evitare di valicare da subito i confini del terreno a me più consono, utilizzo proprio il punto di vista del giurista e, segnatamente, di chi suole occuparsi del diritto amministrativo. Individuo cosı̀ due temi principali, lungo i quali desidero avviare le mie osservazioni. (*) Il presente articolo ripropone, con ampliamenti e modifiche, la relazione tenuta in Venezia, in data 27 febbraio 2004, al convegno Tecnica e processo, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario del T.A.R. per il Veneto.

Dir. Proc. Amm. - 4/2004


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Il primo concerne il sindacato del giudice amministrativo sulla cosiddetta discrezionalità tecnica dell’amministrazione. Il secondo tema ha una portata più generale e verte sulla complessa relazione che corre tra regola giuridica dell’agire amministrativo e regola tecnica. Nella parte finale si tenterà di riallacciare le riflessioni dedicate all’uno ed all’altro profilo in un discorso unitario. 2. La nozione di discrezionalità tecnica è tra quelle che più di altre hanno contraddistinto il diritto amministrativo italiano (1). È infatti destino di questa partizione dell’ordinamento, fin dalle origini, avvalersi di concetti e principi che, pur in mancanza di apposita codificazione, hanno assunto, soprattutto grazie alla giurisprudenza, una rilevanza decisiva, contribuendo a formare gli stessi criteri di svolgimento dell’azione amministrativa. Il fenomeno che nella nostra esperienza passa sotto il nome di discrezionalità tecnica (e che è stato solitamente esaminato con la lente di ingrandimento del giudice dell’amministrazione) si è replicato in condizioni pressoché eguali in altri ordinamenti, e non solo tra quelli che conoscono un regime di diritto amministrativo. In essi però ha assunto un’etichetta diversa, perché si è parlato di controllo giudiziale sui concetti giuridici indeterminati. L’utilizzo da parte del legislatore di concetti indeterminati, elastici, generali non è vicenda che appartenga in esclusiva al diritto amministrativo; ma in esso acquista un connotato particolare. Ciò perché il concetto giuridico indeterminato dev’essere, in prima battuta, interpretato e applicato dall’autorità amministrativa titolare del potere pubblico e solo in seconda battuta, in occasione del sindacato compiuto sull’atto con cui il potere è stato esercitato, viene all’attenzione del giudice. Sicché mentre il giudice civile, di solito, attua la clausola generale (si pensi per tutte alla buona fede o correttezza) direttamente nel rapporto controverso, traendone la regola del caso, il giudice amministrativo, di solito, (1) Sia concesso un rinvio generale al mio Consulenza tecnica d’uffıcio e sindacato giurisdizionale della discrezionalità tecnica, in Cons. Stato, 2000, II, 2371, anche per le citazioni di dottrina e giurisprudenza.


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si confronta con una forma già concreta di esemplificazione del concetto indeterminato, la quale ovviamente coincide con il provvedimento. Nel diritto amministrativo spetta anzitutto all’amministrazione di interpretare e applicare tale concetto. Le ragioni per le quali il dibattito su forme e limiti del controllo giurisdizionale sull’attuazione dei concetti giuridici indeterminati sia divenuto, nella nostra esperienza, il dibattito sul sindacato della discrezionalità tecnica sono, come spesso accade, storicamente contingenti (2). Di certo, l’accostamento dell’aggettivo tecnico al fenomeno della discrezionalità ha generato numerosi equivoci, favorendo l’atteggiamento giurisprudenziale più volte criticato per l’eccessiva timidezza nell’approccio alle questioni tecniche; lı̀ dove, poi, l’espressione tecnico non sempre è stata utilizzata in maniera uniforme (3). Ma queste incertezze, è bene dirlo subito, appartengono ormai alla storia del processo: perché il giudice amministrativo si è da tempo impadronito del fatto e ne possiede piena conoscenza; perché le più recenti disposizioni processuali, concedendo la nomina di un consulente tecnico d’ufficio, hanno eliminato l’ostacolo che, pur inconsapevolmente, reggeva la detta timidezza. Sapere oggi, con certezza, che il giudice amministrativo può conoscere ogni circostanza di fatto sottesa al provvedimento formale e che può anche ripercorrere sino in fondo processi volitivi e conoscitivi basati su scienze tecniche non giuridiche implica una prima conclusione di massima. La conclusione è che non basta una mera questione tecnica a paralizzare l’intensità della cognizione giudiziale e che, dunque, il problema non sta nel carattere tecnico della va(2) Per un ampio riferimento alla prima elaborazione e utilizzazione della nozione di discrezionalità tecnica, da parte dell’Avvocatura dello Stato, nelle Relazioni sulla Regia Avvocatura Erariale per gli anni 1911 e per gli anni 1912-1925, cfr. P. LAZZARA, Autorità indipendenti e discrezionalità, Padova, 2001, 234. (3) Mi riferisco al fatto che talora la giurisprudenza, senza neppure distinguere tra l’applicazione delle scienze esatte e delle scienze non esatte, ha sostanzialmente rinunciato all’effettività della sua tutela, trincerandosi dietro alla massima ricorrente secondo cui « le valutazioni tecnico-discrezionali o comunque caratterizzate da profili tecnici attengono al merito amministrativo e non possono essere censurate dal giudice amministrativo se non nei limiti in cui esse appaiono viziate per travisamento dei fatti, per illogicità od irragionevolezza od incongruenza della motivazione ».


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lutazione, ma nel fatto che con essa viene attuata una norma che reca un concetto giuridico indeterminato. Il giudice è, per definizione, anche tecnicamente attrezzato, sicché la difficoltà non nasce dal confronto con nozioni specialistiche estranee al diritto, bensı̀ dall’operazione di « contestualizzazione » del concetto indeterminato. Può dirsi, dunque, che, grazie alle recenti acquisizioni normative e interpretative sui mezzi istruttori a disposizione del giudice amministrativo, l’esperienza italiana dal punto di vista terminologico si è felicemente congiunta a quella tedesca, relativa al sindacato giurisdizionale sugli Unbestimmte Rechtsbegriffe (4). La strettissima contiguità tra la questione della discrezionalità tecnica e la questione dei concetti indeterminati è stata altresı̀ determinata dal fatto che la giurisprudenza, in sintonia con la dottrina classica, volle accreditare la distinzione tra gli accertamenti tecnici in senso stretto e la discrezionalità tecnica (5). L’accertamento tecnico consiste in quella valutazione che viene compiuta dall’amministrazione mediante l’applicazione di regole desunte da scienze esatte. La desumibilità della regola da una scienza esatta fa sı̀ che il risultato cui l’amministrazione è approdata sia suscettibile di una verifica condotta in termini assoluti, tale da comprovarlo ovvero da smentirlo in via definitiva. La discrezionalità tecnica invece è fenomeno che non appartiene né al terreno delle certezze scientifiche né a quello delle certezze giuridiche, simbolica erma bifronte che domina una zona grigia tra diritto e tecnica. Il suo carattere anfibologico, a ben vedere, sta nella definizione: v’è un po’ di discrezionalità amministrativa e un po’ di tecnica. Ciò è dovuto al fatto che l’amministrazione applica una regola che, pur enunciata nella norma giuridica, non è, essa stessa, regola giuridica, ma non è neppure regola (4) Per un’esauriente rassegna sullo stato della dottrina e della giurisprudenza tedesca sull’applicazione e controllo dei concetti giuridici indeterminati cfr. D. DE PRETIS, Valutazione amministrativa e discrezionalità tecnica, Padova, 1995, 11 e ss. Per l’esperienza spagnola sul controllo giurisdizionale dei concetti giuridici indeterminati cfr. G. PALEOLOGO (a cura di), Piani urbanistici e controllo giurisdizionale in Spagna ed in Italia, Un colloquio fra giudici superiori, Milano, 2002, 199 e ss. (5) Per tutte v. Cons. Stato, sez. IV, 17 aprile 2000, n. 2292, in Cons. Stato, 2000, I, 987.


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tecnica in senso proprio, dato che non deriva da una scienza esatta. Dunque, nella discrezionalità tecnica si intende per tecnico un giudizio di qualificazione che appartiene a discipline non giuridiche (perché i criteri dell’interpretazione giuridica non gli forniscono un significato autosufficiente) e che tuttavia non è comprovabile in maniera assoluta. La discrezionalità tecnica partecipa della relatività delle conoscenze che è propria delle scienze umanistiche e coinvolge, come sul dirsi, regole desunte da scienze non esatte. Due caratteri dunque la connotano: l’esser basata su regole non giuridiche; l’esser basata su regole non comprovabili in maniera universalmente accettata e, dunque, su regole opinabili. È opinabile, ad esempio, l’accertamento del carattere paesistico di un bene; è opinabile la valutazione del rischio valanghivo e idrogeologico ai fini del rilascio di un’autorizzazione al disboscamento di un area sottoposta a vincolo; è opinabile la nozione di « dominanza sul mercato » e quella di « rilevanza del mercato »; è opinabile la scelta strategica che spesso ispira la pianificazione urbanistica; è opinabile la congruità delle giustificazioni offerte dal partecipante a una gara di evidenza pubblica a corredo di un’offerta sospetta di anomalia; e può esser opinabile anche la valutazione di una componente qualitativa di un’offerta nell’applicazione del metodo di aggiudicazione che va sotto il nome di offerta economicamente più vantaggiosa. Tali esempi ci consentono allora di descrivere compiutamente il tema di cui si sta discutendo. E ci consentono anche di comprendere perché la discrezionalità tecnica vada distinta dalla discrezionalità amministrativa pura. Nella prima il legislatore svolge un ruolo consapevolmente ambiguo e incompleto, perché egli affida al modo in cui sarà attuato il concetto indeterminato la realizzazione dei « giusti » valori. Nella seconda invece il legislatore (perlomeno stando allo schema classico, nostalgicamente intriso della razionalità legale di stampo weberiano) enuncia il fine pubblico che l’amministrazione è chiamata a perseguire ed è essa cosı̀ a dover esercitare i suoi poteri in maniera coerente con le indicazioni provenienti dalla legge, nel presupposto che l’interesse pubblico sia ormai compiutamente definito e che spetti all’ammi-


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nistrazione solo di ponderarlo con gli altri interessi, pubblici o privati, in gioco. Nella discrezionalità tecnica l’amministrazione è perciò chiamata a una valutazione sı̀ tecnica, nel senso detto, ma complessa, laddove la complessità descrive, appunto, il carattere indeterminato del concetto e la sua opinabilità. 3. Nel corso del tempo il tema della discrezionalità tecnica è divenuto di sempre maggiore importanza e ciò non è accaduto casualmente. La crescente attenzione per questi profili è infatti una diretta conseguenza dell’assottigliarsi della barriera che il diritto, specie negli ordinamenti di civil law come il nostro, aveva eretto a salvaguardia della purezza e autonomia logica dei suoi concetti; è, per gli amministrativisti in particolare, una conseguenza della crisi del metodo giuridico orlandiano e del principio di legalità classico. Quando il legislatore è costretto a rifugiarsi sempre più spesso nei concetti indeterminati, v’è il sintomo evidente di una perdita di autosufficienza del sistema. Grandi argomenti, come quello della c.d. amministrazione di risultato, e visibili fenomeni, come quello dell’attività integrativa del precetto legislativo svolta dall’amministrazione, sono tutti strettamente collegati a ciò di cui si sta adesso discutendo (6). La pervasività della tecnica nell’azione quotidiana dell’amministrazione è il frutto delle grandi trasformazioni dei nostri tempi: innovazione scientifica e tecnologica; globalizzazione e diffusione delle conoscenze; mutamento dei rapporti tra amministrazione e mercato; crisi, sempre più visibile, del ruolo della legge e del principio di legalità (7). Il diritto e la tecnica appaiono sempre più avvinti in una di(6) Sul tema dell’amministrazione di risultato cfr., in particolare i contributi raccolti sotto il titolo Innovazione del diritto amministrativo e riforma dell’amministrazione, in Annuario 2002 dell’Associazione italiana dei professori di diritto amministrativo, Milano, 2003, 3 e ss.. Sull’attività amministrativa integrativa del precetto cfr., anche per le ampie citazioni, F. MANGANARO, Principio di legalità e semplificazione dell’attività amministrativa, Napoli-Roma, 2000, 166 e ss.. (7) L’espressione pervasività della tecnica è tratta da S. BACCARINI, Giudice amministrativo e discrezionalità tecnica, in questa Rivista, 2001, 80 e ss.


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mensione unitaria sia in termini generali, sia, con ancora maggiore evidenza, quando viene in gioco l’attività amministrativa, la quale deve non solo coniugare diritto e tecnica ma anche contemperare l’interesse collettivo con gli interessi privati. L’attuazione del concetto indeterminato è un’operazione complessa per definizione, dato che porta con sé una carica assiologica non semplice da dosare e distribuire tra i soggetti della contesa. La relatività e mutevolezza degli pseudoconcetti adoperati dal legislatore (i quali almeno dall’inizio dello scorso secolo, con la crisi del positivismo, scuotono le certezze del giurista) (8), diventa emblematica nel caso in cui il diritto positivo non vuole neppure enunciare la regola finale del rapporto, ma si limita ad affidare a una amministrazione un potere tecnico per la cura degli interessi della collettività; come per l’appunto accade nel diritto amministrativo. Registriamo a questo punto un passaggio molto importante, perché, per un capriccio degli eventi, la definizione italiana del problema svela oggi improvvisamente la sua attualità (mi riferisco al fatto che nel nostro dibattito si sia sempre parlato di discrezionalità tecnica anziché di applicazione dei concetti giuridici indeterminati). Il sindacato su tali concetti è divenuto più problematico proprio a causa del mutevole rapporto tra tecnica e diritto. Sono questi i due poli di partenza del discorso. Infatti la reciproca contaminazione tra diritto e tecnica si è risolta, nel nostro campo d’indagine, in una parallela contaminazione tra la sfera dell’opinabilità e la sfera dell’opportunità amministrativa. 4. La nozione di discrezionalità tecnica, alle sue origini, era ben distinta da quella di discrezionalità pura. Nel primo caso la norma non si limitava ad enunciare un fine pubblico, ma affidava all’azione amministrativa un compito ulteriore, illustrato nella regola tecnica. Nel secondo caso invece la norma enunciava solo un fine pubblico da attuare e lasciava al potere discrezionale dell’am(8) Sulla definizione crociana dei concetti di cui si compongono le norme quali pseudoconcetti, « formazioni arbitrarie » e categorie ausiliatrici del pensare e dell’agire, cfr. N. IRTI, La polemica sui concetti giuridici, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2004, 13.


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ministrazione di attuarlo nei modi e nelle forme definite mediante la ponderazione di tutti gli interessi rilevanti. Sappiamo che per lungo tempo la giurisprudenza e la dottrina hanno seguito strade diverse quando si è trattato di definire lo spessore del sindacato del giudice sulla discrezionalità tecnica (9). Da un lato la giurisprudenza ha detto che il rinvio legislativo al concetto tecnico (ossia al concetto giuridico indeterminato) equivale al conferimento di un ampio potere discrezionale, con la conseguenza che la « lettura » fatta dall’amministrazione della regola tecnica avrebbe riguardato il merito e che il controllo giudiziale di questa operazione sarebbe rimasto ristretto a un approccio esterno di logicità e ragionevolezza. Si è finito cosı̀ per garantire spesso ai poteri attuativi dei concetti indeterminati un margine di insindacabilità ben superiore a quello relativo ai poteri discrezionali puri, dato che questi ultimi venivano comunque bersagliati dallo sviamento di potere. Dall’altro lato la dottrina ha detto che le valutazioni tecniche non si sostanziano nella comparazione tra interessi diversi (che connota la vera e propria discrezionalità amministrativa), ma si compendiano nell’applicazione della regola tecnica e da ciò ne discendono i presupposti per una maggiore intensità del controllo del giudice. Sicché il sindacato dovrebbe essere, anziché più tenue, più stringente di quello esercitato sul potere discrezionale, dato che in questi casi la norma giuridica assorbe la regola tecnica e l’inosservanza di siffatta regola ridonda nella violazione della norma di legge (10). Detto di questa contrapposizione classica tra giurisprudenza e dottrina, si devono però registrare i mutamenti prodotti dalla contaminazione reciproca tra diritto-tecnica. Per un verso, il controllo del potere discrezionale puro ha dovuto subire le conseguenze della crisi del principio di legalità e delle trasformazioni dell’azione amministrativa, approdando alle tecniche del controllo di ragionevolezza e proporzionalità. L’interesse pubblico e il fine (9) Valga ancora una volta il rinvio alle citazioni contenute nel mio Consulenza tecnica d’uffıcio e sindacato giurisdizionale della discrezionalità tecnica, cit. (10) In particolare si ricordano i contributi di M.S. GIANNINI, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione, Milano, 1939, 161 e ss.; F. LEDDA, Potere, tecnica e sindacato giudiziario sull’amministrazione pubblica, in questa Rivista, 1983, 371.


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pubblico appaiono uno spartiacque sempre più opaco tra ciò che è sindacabile e ciò che appartiene al merito amministrativo e si sopperisce proprio con queste tecniche, le quali, in sostanza, rappresentano la versione più matura dell’eccesso di potere. Per altro verso, la pervasività della tecnica ha prodotto due effetti concorrenti: a) fa sı̀ che i casi statisticamente ascrivibili all’ambito della discrezionalità tecnica siano aumentati in modo impressionante rispetto a quelli ascrivibili alla discrezionalità pura; b) fa sı̀ che la linea di discrimine tra opinabilità (prerogativa della discrezionalità tecnica) ed opportunità (prerogativa del merito) divenga sempre più impalpabile. Potremo dire con sicurezza che la valutazione tecnica sulla persistenza del rischio valanghivo ai fini del rilascio di un’autorizzazione al disboscamento coinvolge solo questioni di opinabilità? Ovvero dovremo dire che l’organo istituito per pronunciarsi, e munito della competenza specialistica richiesta dalla legge, con questa valutazione compie, in casi dubbi, anche una valutazione di opportunità amministrativa ispirata da un concorrente principio precauzionale, con l’assunzione di una responsabilità che, sia pure di riflesso, attinge al livello politico (nel senso della proiezione esterna verso la collettività di riferimento)? La strettissima vicinanza tra opinabilità e opportunità è, non a caso, la risultante della debolezza delle barriere che il diritto oppone alla tecnica. Fin quando si parlava del controllo sulla discrezionalità pura era possibile avvalersi di istituti dogmaticamente definiti; mi riferisco alla triade fine pubblico fissato dalla leggepotere discrezionale dell’amministrazione-sviamento di potere utilizzato dal giudice. Quando ormai questo tipo di controllo diviene quantitativamente recessivo rispetto a quello esercitabile sul potere di attuazione dei concetti indeterminati, il fulcro del sindacato del giudice si sposta in un ambito abbastanza indefinito, avvolto com’è tra diritto e tecnica, tra opinabilità e opportunità. La regola tecnica è infatti per definizione « non governabile » dal punto di vista del diritto positivo. Fino ai nostri giorni è sempre stato pacifico che la sfera delle valutazioni di (vero e proprio) merito, attinenti l’opportunità e


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convenienza, fossero un « giardino proibito » per il giudice amministrativo. Questo principio non deve di certo stupirci, perché è un corollario del nesso di necessaria correlazione tra potere e responsabilità. È tale nesso che connota ciascun fenomeno di manifestazione del potere ammesso dall’ordinamento. Inoltre esso è comune agli altri settori dell’ordinamento e all’esperienza della giurisdizione ordinaria in occasione del sindacato sul potere privato delle organizzazioni d’impresa (11). Tali certezze però sono messe a dura prova dalla contaminazione reciproca che avvicina opinabilità e opportunità. È, a ben vedere, la stessa rassicurante distinzione tra merito insindacabile e discrezionalità sindacabile che entra in crisi quando il giudice scende sull’irto terreno della discrezionalità tecnica. I dubbi sui quali si affaticano i protagonisti del dibattito possono condensarsi nel seguente quesito: se la discrezionalità tecnica (o meglio l’attuazione dei concetti giuridici indeterminati) dia luogo a valutazioni inerenti il merito amministrativo o se si risolva in una attività di mera interpretazione e applicazione della legge (questa seconda strada evoca la nozione di attività amministrativa vincolata come contrapposta a quella discrezionale). Le due opposte strade ripropongono, a distanza, di tempo, la polemica che vide contrapposti Giannini e Mortati a proposito del controllo sulla discrezionalità amministrativa, sicché, da tale punto di vista, la questione si ridurrebbe all’interrogativo se la discrezionalità tecnica sia in tutto omologabile alla discrezionalità amministrativa (12). Tuttavia, come si è detto, il problema è più complesso, perché sono gli stessi strumenti concettuali della separazione tra sfera dell’opinabilità e sfera dell’opportunità che appaiono insufficienti. Non è un caso, dunque, che la dottrina sia andata alla ricerca di una terza via, distinguibile sia da quella del potere discrezio(11) Cfr. A. DACCÒ, Il sindacato del giudice nei confronti degli atti gestori degli amministratori, in Anal. giur. econ., 2003, 183. (12) Per un ampio riepilogo di questo dibattito cfr. P. LAZZARA, Autorità indipendenti e discrezionalità, cit., 143 e ss.


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nale, sia da quella del potere vincolato (13). Si è sostenuto che l’attuazione del concetto indeterminato esprime l’esercizio di un potere di altra specie, il quale, a sua volta, implica una valutazione complessa. Tale valutazione però, proprio per la sua complessità e per gli interessi che coinvolge, resterebbe tendenzialmente riservata all’amministrazione. Dalla natura riservata del potere si è infatti desunta, quale immediato riflesso, l’esistenza di limiti ordinamentali alla proiezione sostitutiva del controllo giudiziale: il giudice dovrebbe restare nei confini di una verifica di attendibilità e ragionevolezza della scelta finale, senza sovrapporre integralmente il suo decisum all’organo competente. 5. Orbene, dal momento che il problema della discrezionalità tecnica è divenuto il problema del confine tra opinabilità ed opportunità e che esso assorbe e ripropone l’antico conflitto sui possibili contenuti del sindacato sul potere, mi sembra indubitabile che proprio questo finisca con l’essere il banco di prova per accertare esistenza e spessore di una riserva costituzionale di amministrazione nei confronti del potere giurisdizionale. Il punto focale non può che spostarsi al livello dei valori costituzionali, per comprendere come il principio di separazione dei poteri, ma soprattutto l’articolazione del nostro Stato di diritto, reagiscano sulla questione. Troppo spesso l’argomento è affrontato riducendolo a un caso di specie, nel quale resterebbero coinvolti il concreto interesse pubblico e il concreto interesse privato, mentre è proprio su questo terreno che vengono in gioco i valori costituzionali. Se il buon andamento ridonda in una vera e propria clausola di efficienza e di ottimale allocazione delle risorse prescritta all’amministrazione (e mi sembra evidente che sia cosı̀ nella stagione dominata dai principi della legge generale sul procedimento e dalla logica del risultato), non possono non trarsi le giuste conseguenze in ordine al giusto equilibrio tra responsabilità e poteri. Se il circuito democratico deve nutrirsi in primo luogo del principio di rappresentatività e restare, di massima, imperniato sullo schema (13) Cfr. in part. C. MARZUOLI, Potere amministrativo e valutazioni tecniche, Milano, 1985; D. DE PRETIS, Valutazione amministrativa e discrezionalità tecnica, cit.


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« corpo elettorale-Parlamento-Governo », non può non guardarsi con cautela a fenomeni di completa sostituzione giudiziale nell’esercizio dei poteri che involgono, anche indirettamente, una responsabilità politica. Va parimenti ricordato che il principio di imparzialità non ha una valenza solo formale e di democraticità interna alla P.A., ma implica la « necessità di ponderare tutti gli interessi legislativamente tutelati che possono essere direttamente toccati dall’agire amministrativo e solo essi e di operare le conseguenti scelte in base a criteri previsti dalla legge oppure unitari, ossia conformi ad indirizzi generali, adottati dagli organi competenti alla stregua del sistema democratico » (14). Siamo cosı̀ giunti al punto più sensibile dell’esposizione, perché ci stiamo chiedendo se i valori costituzionali della Carta fondamentale impongano di selezionare le competenze secondo un ordine predeterminato e se, e in quale misura, via siano momenti valutativi e scelte di appannaggio, non già esclusivo, ma tendenziale dell’amministrazione e rispetto ai quali al giudice non sarebbe concesso di esercitare un controllo senza limite alcuno. Il cuore del dibattito sulla discrezionalità tecnica coincide oggi con un preciso interrogativo: se il controllo sull’attuazione del concetto giuridico indeterminato comporti, oppure no, un potere del giudice di « sostituirsi » fino in fondo all’Amministrazione, imponendo il proprio modello logico e volitivo. Il che ripropone per altro verso l’interrogativo se l’attuazione del concetto indeterminato porti con sé, oppure no, l’esercizio di un potere. 6. La giurisprudenza amministrativa in questi anni è rimasta tutt’altro che indifferente alle novità. Ha superato l’impostazione tradizionale riduttiva che poneva un’equazione tra merito insindacabile e discrezionalità tecnica e che consentiva solo un controllo estrinseco e indiretto di logicità e ragionevolezza, senza neppure appurare i dati tecnici acquisiti e ponderati dall’amministrazione. Il Consiglio di Stato ha invertito la rotta a partire dal 1999, traendo anche spunto dalla riforma processuale del 2000 e dalla (14) Cfr. A. CERRI, Imparzialità e indirizzo politico nella pubblica amministrazione, Padova, 1973, 120.


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norma che concede la possibilità di nominare un consulente tecnico d’ufficio (15). Si è ammessa una piena conoscenza del fatto e del percorso intellettivo e volitivo seguito dall’amministrazione. Ma soprattutto si è affrontato a viso aperto il dubbio di fondo, relativo alla configurabilità di un sindacato direttamente sostitutivo e si è discussa l’alternativa tra due forme di controllo: quello che si è definito forte e quello che si è definito debole (16). L’impostazione appare anzitutto corretta dal punto di vista metodologico, perché si fa carico del rilievo costituzionale del problema e prende in considerazione la compatibilità dell’intervento sostitutivo con i limiti fisiologici della giurisdizione. Sicché potremmo dire, con l’ausilio di questa giurisprudenza, che al giorno d’oggi verificare l’esistenza di una riserva di amministrazione (nei confronti della giurisdizione) significa chiarire se quello esercitato dal giudice rispetto ai concetti indeterminati sia un controllo che conosce limiti, o se non conosca limite alcuno. La tesi che gli conferisce un potere (talora) limitato, e che nell’esperienza della giurisprudenza è divenuto il c.d. sindacato debole, ritiene che il giudice amministrativo, al cospetto di un’amministrazione che abbia effettuato la propria scelta tecnico(15) Il primo aperto ripensamento della giurisprudenza, a favore della sindacabilità della sfera di opinabilità delle valutazioni, è dovuto a Cons. Stato, sez. IV, 9 aprile 1999, n. 601, in questa Rivista, 2000, 182. Risponde al vero la considerazione che, ancor oggi, sono piuttosto rari i provvedimenti del giudice amministrativo di nomina di un c.t.u. In parte ciò è dovuto probabilmente alla difficoltà di adeguarsi tempestivamente alle novità. In parte però è anche dovuto all’attenzione con cui il giudice ha guardato ai contributi tecnici offerti dalle parti processuali in contraddittorio, come ad esempio è accaduto nel caso di impugnazione degli atti dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Che questo metodo possa rivelarsi sufficiente è comprovato anche dall’esperienza diretta della Corte di giustizia, la quale incentra la propria attenzione sui dati del contraddittorio, il quale ha riempito di contenuti il procedimento. Inoltre dev’essere massima la cura del giudice nel soppesare i requisiti di ammissibilità e rilevanza della c.t.u., come dev’essere attenta la valutazione della relazione tecnica del medesimo c.t.u.: onde evitare che si possano verificare, in via di fatto, impropri fenomeni di delega decisionale. Infine è indubitabile che la giurisprudenza abbia tratto rilevantissime conseguenze dal fatto stesso della innovazione normativa, sul piano del metodo d’indagine e della profondità della cognizione. (16) Per questa distinzione si rinvia a Cons. Stato, sez. V, 5 marzo 2001, n. 1247, in www.giustizia-amministrativa.it, ed a Cons. Stato, sez. IV, 6 ottobre 2001, n. 5287, in Foro it., 2002, III, 414.


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discrezionale, abbia in primis il potere-dovere di compiere un accertamento completo e di acquistare la piena conoscenza del fatto, nonché di verificare l’intero percorso conoscitivo e volitivo dell’amministrazione impadronendosi anche degli aspetti tecnici. Tuttavia, tale tesi postula che, all’esito di questa indagine, il giudice debba solo appurare se la scelta finale — il bene è una bellezza paesistica, il rischio idrogeologico sussiste — sia attendibile e ragionevole; e se sia ragionevole, beninteso, anche alla luce della tecnica. Il giudice deve assicurarsi che tale scelta rientri in una delle scelte ragionevolmente possibili in quella situazione data e dunque, come tali, « corrette ». Quando la decisione sia compresa in quella gamma ristretta di soluzioni finali compatibili con quel percorso conoscitivo e con quei determinati elementi tecnici, allora il giudice dovrà rispettarla, senza sforzarsi di elaborare, anche in questo caso, la sua scelta per sovrapporla a quella fatta dall’autorità amministrativa. È questo, allora, l’unico limite che l’idea del sindacato debole postula: quando il giudice ha accertato, attraverso una serrata analisi tecnica, che la scelta finale dell’amministrazione è coerente, ragionevole e assolutamente compatibile con le premesse in quanto costituisce una delle ristrette scelte possibili, a quel punto non ha il dovere di andare oltre e di elaborare necessariamente una sua scelta finale da sostituire a quella dell’amministrazione. La linea testé esposta risponde, insomma, alla negazione di un controllo sostitutivo. E sta, appunto, nel controllo sostitutivo la soluzione opposta, vale a dire quella del controllo forte. Nel sindacato forte il giudice, dopo aver compiuto il solito (e completo) percorso conoscitivo, elabora in ogni caso la « sua » scelta finale. Sicché il processo dovrà chiudersi in uno dei seguenti due modi: o la scelta del giudice coincide con quella dell’amministrazione, e la domanda viene rigettata; oppure la scelta del giudice non è esattamente identica a quella dell’amministrazione e ciò comporterà un diverso finale, ossia la sostituzione della regola del giudice a quella elaborata dall’amministrazione. Potremmo dire anche che nel controllo debole il giudice segue lo schema del sindacato sul potere e ritiene che il concetto indeter-


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minato conferisca un autonomo potere valutativo all’amministrazione, secondo lo schema norma-potere-fatto; e che invece nel controllo forte il giudice segue la tecnica dell’interpretazione e applicazione della norma di legge, secondo lo schema normafatto. Sul piano logico, come si vede, il giurista non può che tornare alle categorie fondamentali. Nel gioco di interferenze possibili tra i casi ascrivibili al controllo forte e quelli ascrivibili al controllo debole restano sullo sfondo i valori costituzionali in gioco: da una parte soprattutto il precetto di buon andamento (eventualmente arricchito da collegamenti con altri beni o diritti di primaria rilevanza costituzionale, come la tutela dell’ambiente o della salute, ex artt. 9 e 32 Cost.); dall’altra il principio di effettività della tutela giurisdizionale del diritto di difesa (ex artt. 24, 103 e 113 Cost.). I termini essenziali del confronto sono proprio questi. La giurisprudenza ha seguito la strada del controllo debole nei soli casi nei quali la contiguità tra opinabilità ed opportunità era apparsa molto accentuata. Si è affermato che « la stretta connessione tra apprezzamento tecnico opinabile e scelta di merito è un indice dell’esistenza di un potere di valutazione tendenzialmente riservata all’amministrazione, non già nel senso della preclusione del controllo giurisdizionale, ma nel senso che non è concesso un sindacato con poteri sostitutivi » e che « la diffıcoltà di separare concettualmente tra opinabilità ed opportunità amministrativa è accentuata proprio nei casi in cui la valutazione presenta caratteri di obiettiva complessità, collegata alla rilevanza di interessi di rango primario » (17). Ha dunque confermato il carattere debole del sindacato a proposito del caso (più volte utilizzato a mò d’esempio) del diniego di autorizzazione al disboscamento di un’area sottoposta a vincolo idrogeologico, nonché, più recentemente, a proposito degli atti delle Autorità indipendenti (in particolare, degli atti dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato in relazione ad illeciti antitrust). Mentre ha riconosciuto il carattere forte dell’accertamento a proposito della valutazione (17)

V. la cit. Cons. Stato, sez. IV, n. 5287 del 2001.


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dell’anomalia delle offerte nel procedimento ad evidenza pubblica (18). L’espressione utilizzata dalle sentenze (specie quelle della sesta sezione del Consiglio di Stato a proposito degli atti delle Autorità indipendenti (19)) ha suscitato alcune aperte critiche nella dottrina. Esse, però, mi sembrano in buona parte frutto di un (pur comprensibile e giustificabile) equivoco, dovuto al fatto che, in diritto, la debolezza o mitezza degli argomenti non sono necessariamente espressione di una debolezza degli intenti (20). A volte, il giudizio su una certa interpretazione può essere influenzato dall’etichetta con cui viene classificata e il caso di specie lo dimostra in modo abbastanza chiaro. Forse, se si fosse parlato di controllo sostitutivo o non sostitutivo anziché di controllo forte o debole, le osservazioni si sarebbero appuntate su altri aspetti, i quali avrebbero potuto ancor meglio contribuire alla ricchezza del dibattito. Che il controllo debole non sia affatto tale dal punto di vista delle basi dogmatiche e dei possibili risultati è confermato, a tacer d’altro, da due dati: a) proprio questo orientamento della giurisprudenza sarà ricordato, storicamente, come progressista, perché ha definitivamente spazzato via la vecchia equazione tra la discrezionalità tecnica e il merito insindacabile; b) quella del controllo debole non è altro che la tecnica del sindacato di ragionevolezza e proporzionalità, ossia il sindacato che si addice al potere pubblico e che, non caso, la stessa Corte di giustizia adopera per giudicare le determinazioni prese dalla Commissione sulle attività anticoncorrenziali di spessore comunitario (21). Che, poi, il para(18) V. la cit. Cons. Stato, sez. V, n. 1247 del 2001. (19) Cons. Stato, sez. VI, 23 aprile 2002, n. 2199, in Giur. it., 2002, 1957, relativa al caso Rc auto; Id., 1 ottobre 2002, n. 5156, in www.giustizia-amministrativa.it, relativa al caso Enel-Wind/Infostrada. (20) Che il sindacato debole del giudice amministrativo non sia affatto tale viene dimostrato nelle pagine seguenti. Che, poi, il diritto mite si riveli tutt’altro che tale, nella misura in cui consente ai valori contenuti nei principi costituzionali la massima effettività nell’interpretazione del giudice, è dimostrato nel noto contributo di G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Torino, 1992. (21) R. CARANTA, nel suo I limiti del sindacato del giudice amministrativo sui provvedimenti dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, in Giur. comm., 2003, 170, mi attribuisce un’opinione favorevole all’ampliamento del sindacato del giu-


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gone col giudizio di accertamento mero non debba indurre in abbagli è evidente, perché quando viene in gioco l’esercizio di un potere fondato sul diritto positivo i modi della cognizione e della tutela giudiziale cambiano. Né la nozione di scuola di potere vincolato sembra adattarsi ai casi nei quali la giurisprudenza ha sperimentato il suo sindacato debole. E la dimostrazione di questo è stata data lucidamente in dottrina (22). Alcune importanti precisazioni sono state fatte di recente proprio dalla sesta sezione (23): « In realtà, con l’espressione sindacato “di tipo debole” la Sezione non ha inteso limitare il proprio potere di piena cognizione sui fatti oggetto di indagine e sul processo valutativo, mediante il quale l’Autorità applica alla fattispecie concreta la regola individuata. Con tale espressione si è inteso porre solo un limite finale alla statuizione del giudice, il quale, dopo aver accertato in modo pieno i fatti ed aver verificato il processo valutativo svolto dall’Autorità in base a regole tecnidice, specie dopo l’entrata in vigore della legge n. 205 del 2000, e segnatamente mi attribuisce l’affermazione che non vi sarebbe ragione alcuna per limitare l’oggetto del sindacato solo « ai profili del procedimento seguito ». Questa attribuzione è corretta nei limiti in cui espone una convinzione circa la profondità del sindacato; per i contenuti più precisi valga ancora il richiamo al mio Consulenza tecnica d’uffıcio e sindacato giurisdizionale della discrezionalità tecnica, cit. Sennonché Caranta prosegue rilevando che nella citata sentenza della IV sezione del Cons. Stato, 6 ottobre 2001, n. 5287, il sottoscritto avrebbe, quale estensore, « mutato indirizzo rispetto a quanto affermato extrajudicially », in quanto tale sentenza aveva qualificato come debole il sindacato compiuto sul diniego di autorizzazione al disboscamento di un’area sottoposta a vincolo idrogeologico. Tale seconda attribuzione va smentita. In verità, è anzitutto fallace per definizione e metodologicamente incongruo il paragone tra una tesi sostenuta in uno scritto di dottrina ed una sostenuta in una sentenza, per l’ovvia ragione che, mentre la prima è il frutto della libera opinione del consigliere di Stato, la seconda è anche la sintesi del lavoro collegiale. Inoltre, nel caso di specie esiste una perfetta coincidenza di vedute tra scritto e sentenza, specie per quanto concerne l’identificazione dei presupposti (valori costituzionali in gioco e composizione tecnica dell’organo) che giustificano la dimensione debole anziché forte del sindacato e che oltretutto sono ribaditi nel presente articolo. E andrebbe anche richiamata la profondità della cognizione che in quell’occasione il Consiglio di Stato esercitò, sia pure sotto l’egida del carattere debole del sindacato, nell’esame delle considerazioni tecniche svolte sia dall’amministrazione sia dal c.t.u. nominato dal giudice di primo grado. (22) Cfr. F. MERUSI, Giustizia amministrativa e Autorità indipendenti, in Annuario 2002 dell’Associazione italiana dei professori di diritto amministrativo, Milano, 2003, 177. (23) Cons. Stato, sez. IV, n. 926 del 2004, in www.giustizia-amministrativa.it.


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che, anch’esse sindacate, se ritiene le valutazioni dell’Autorità corrette, ragionevoli, proporzionate ed attendibili, non deve spingersi oltre fino ad esprimere proprie autonome scelte, perché altrimenti assumerebbe egli la titolarità del potere. Il giudice non può sostituirsi ad un potere già esercitato, ma deve solo stabilire se la valutazione complessa operata nell’esercizio del potere debba essere ritenuta corretta sia sotto il profilo delle regole tecniche applicate, sia nella fase di “contestualizzazione” della norma posta a tutela della concorrenza che nella fase di raffronto tra i fatti accertati ed il parametro “contestualizzato” ». Si consideri, poi, che questa decisione rivendica la pienezza del suo potere di cognizione proprio sul fronte metagiuridico: « Al giudice amministrativo spetta quindi di verificare, ex post, l’operato dell’Autorità e in tale controllo il giudice non incontra alcun limite, tenuto conto che anche nel modello impugnatorio il sindacato giurisdizionale è oggi particolarmente penetrante e, nelle controversie quali quelle in esame, si estende sino al controllo dell’analisi economica compiuta dall’Autorità (potendo sia rivalutare le scelte tecniche compiute da questa, sia applicare la corretta interpretazione dei concetti giuridici indeterminati alla fattispecie concreta in esame) ». Il giudice dunque non si ferma allo pseudoconcetto nella sua dimensione astratta e secondaria, ma si spinge a giudicare la regola economica fino alla sua attuazione. 7. Avendo, però, posto in primo piano i valori costituzionali e la questione della riserva di amministrazione, mi sembra opportuno proporre alcuni ulteriori spunti tratti dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale. In particolare, possono essere citate due sentenze con le quali la Corte sembra aver affermato che, al di fuori degli atti politici in senso stretto (insindacabili per definizione), esistono alcune funzioni amministrative le quali paiono caratterizzate da una sorta di copertura costituzionale di competenza. Tale copertura varrebbe ad enunciare una competenza amministrativa che appare tendenzialmente riservata alla P.A. (sia pure in alcuni suoi organi particolarmente qualificati) e che, pur non essendo del tutto esclusiva, sembra resistere meglio alla forza sostitutiva del controllo giurisdizionale.


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La prima sentenza è più direttamente pertinente al tema in esame. Si tratta della decisione n. 121 del 1999 e riguarda il noto « caso Di Bella » (24). La Corte ha negato al giudice (nel caso, al pretore di Maglie) il potere di sovrapporre, mediante l’ausilio di un consulente tecnico, la propria valutazione scientifica di un farmaco a quella compiuta dall’organo amministrativo a ciò appositamente deputato dalla legge. Altrimenti il giudice avrebbe posto la consulenza tecnica in concorrenza con la complessa procedura amministrativa di sperimentazione. Tale decisione equivale a porre un ordine costituzionale di valori e competenze: il giudice non può sostituirsi sino in fondo all’amministrazione, o perlomeno non gli è concesso al cospetto di organi amministrativi muniti, per definizione, di speciale attitudine tecnica. E in questo caso, si badi, il bilanciamento tra i beni costituzionalmente protetti ha dovuto scontare il fatto che la tutela della salute non si poneva solo dal lato della competenza amministrativa, ma era alla base della stessa domanda di parte attrice. Il rilievo costituzionale si addiceva cosı̀ ad entrambi gli interessi in conflitto: all’interesse pubblico come all’interesse privato. La seconda sentenza ha un legame obiettivamente più sottile col discorso sulla discrezionalità tecnica, ma è egualmente in grado di fornire importanti suggestioni. Si tratta della decisione n. 282 del 2002 e concerne il rapporto tra potestà legislativa statale e regionale in materia di tutela della salute (25). Lo Stato aveva impugnato davanti alla Corte la legge della Regione Marche 13 novembre 2001, n. 26, con la quale erano stati sospesi, in tutto il territorio della Regione, alcuni trattamenti terapeutici (l’applicazione della terapia elettroconvulsivante — TEC, o elettroshock —, « la pratica della lobotomia prefrontale e transorbitale ed altri simili interventi di psicochirurgia »; in entrambi i casi « fino a che il Ministero della salute non definisca in modo certo e circostanziato le situazioni cliniche per le quali tale terapia, applicata secondo protocolli specifici, è sperimentalmente dimostrata efficace (24) (25)

In Giur. cost., 1999, 1015. In Giur. cost., 2002, f. 3.


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e risolutiva e non è causa di danni temporanei o permanenti alla salute del paziente »). Di fronte al dubbio sollevato circa la competenza legislativa regionale ad occuparsi di questi temi, la Corte, nel suo passaggio fondamentale, segna un preciso punto di equilibrio. Se da un lato la tutela della salute è materia concorrente, nella quale allo Stato compete solo l’indicazione dei principi fondamentali e alle regioni le norme di dettaglio, dall’altro lato emergono in questo settore beni costituzionali primari, tra i quali il diritto del malato ad essere curato efficacemente e quello ad essere rispettato come persona e il diritto all’autonomia del medico nella scelta terapeutica. Sicché non può essere il legislatore regionale a stabilire quali pratiche terapeutiche sono ammesse (con quali limiti ed a quali condizioni); egli può solo intervenire dettando regole legislative con le quali prescrivere procedure particolari per l’impiego di mezzi terapeutici « a rischio », a condizione che ogni intervento legislativo sulle scelte terapeutiche sia preceduto non da valutazioni di pura discrezionalità politica, bensı̀ dalla elaborazione di indirizzi fondati sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali acquisite tramite istituzioni e organismi a ciò deputati, di norma nazionali o sopranazionali. Dunque, secondo la Corte spettano ad organi amministrativi centrali muniti di speciale competenza tecnica, e non al legislatore regionale, le linee fondamentali entro le quali possono dettarsi le regole concrete di applicazione di una certa terapia. Spetta ad una peculiare funzione amministrativa, allocata a livello statale dal moto ascendente della sussidiarietà ovvero addirittura a livello sovrastatale, lo stabilire se una certa terapia è, in assoluto, praticabile. Siamo allora al cospetto di una competenza amministrativa costituzionalmente garantita e cosı̀ fortemente radicata in capo all’organo tecnico per via dei valori in gioco che persino al legislatore regionale è fatto divieto di interferire. Possiamo inferirne che una competenza di tal fatta (non a caso, ancora una volta legata al diritto fondamentale alla salute ex art. 32 Cost.) gode anch’essa di una copertura costituzionale speciale. E che essa debba poter valere anche nei confronti del giudice amministrativo, perlomeno nei termini necessari a configurare un sindacato di tipo debole.


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8. La ricostruzione del rapporto tra tecnica e processo ci guida a una prima conclusione, che vale a contraddistinguere il modello di ricerca della verità che si addice al giudice amministrativo. Egli non sempre compie un’operazione interpretativa pura della norma, bensı̀ cumula all’interpretazione lo speciale esercizio del sindacato sul potere. Quest’ultimo, come ho già detto, si avvale oggi, in aggiunta agli elementi sintomatici dell’eccesso di potere, del principio di ragionevolezza e dei sottoprincipi che regolano l’azione amministrativa, nonché del principio di necessaria proporzionalità (26). Questo modello è, per molti aspetti, quello che meglio resiste alle trasformazioni dell’ordinamento e alla crisi della legge, perché accetta la funzione integrativa assolta dall’amministrazione nell’applicazione dei concetti indeterminati. Inoltre è perfettamente compatibile con la relatività degli assunti propri delle scienze morali e con l’instabilità delle barriere che separano il diritto dalla tecnica, poiché mira non già alla ricerca della verità assoluta, ma alla ricerca della verità possibile. E persegue un risultato che sconta sempre un bilanciamento degli interessi e dei valori in gioco. Si potrà anche pensare che questo sistema finisca col determinare una sovraesposizione del potere del giudice, ma ciò è provocato soprattutto dall’impellente pressione esercitata dalla tecnica sul diritto e dall’ormai palese inadeguatezza della « nostra » legge formale a rispondere puntualmente (e una volta per tutte) ai bisogni dei cittadini e della collettività tutta (27). Andrebbe quindi riletta e meditata l’impostazione della sen(26)

Sul principio di ragionevolezza come principio « assoluto » cfr. G. MORBI-

DELLI, in L. MAZZAROLLI, G. PERICU, A. ROMANO, F.A. ROVERSI MONACO, F.G. SCOCA (a cura

di), Diritto amministrativo, tomo II, 1250 e ss., Bologna, 2001; ID., Invalidità e irregolarità, in Annuario 2002 dell’Associazione italiana dei professori di diritto amministrativo, Milano, 2003, 98. Sul principio di proporzionalità cfr. A. SANDULLI, La proporzionalità dell’azione amministrativa, Padova, 1998, in part. 285 e ss. e 359 e ss. (27) Coglie nel segno V. DOMENICHELLI, Regolazione e interpretazione nel cambiamento del diritto amministrativo: verso un nuovo feudalesimo giuridico?, in questa Rivista, 2004, 1 e ss., quando denuncia da un lato i guasti derivanti dalla perdita del primato della legge e dall’altro la perdita di capacità propulsiva e costruttiva del giudice amministrativo. Resta però il fatto che il giudice è costretto a fare i conti con una realtà normativa purtroppo magmatica: tanto instabile, quanto disordinata e ambigua. Dal punto di vista del giudice l’opera di riordino delle fonti e dei principi per la soluzione


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tenza n. 251 del 1989 della Corte Costituzionale, la quale ha escluso che il processo amministrativo abbisognasse, nella giurisdizione di legittimità, della prova testimoniale: la tutela degli interessi legittimi, si è affermato, implica un accertamento sı̀ pieno, ma da svolgere attraverso « il sindacato sull’esercizio del potere amministrativo » (28). Tale sindacato si avvale invero di peculiari forme di cognizione, le quali non devono affatto far pensare ad una diminuzione della quantità di conoscenze, ma solo alla scelta di strumenti che appaiono, all’opposto, i più adeguati all’acquisizione degli interessi rilevanti e soprattutto i più efficaci a realizzarne la migliore delle sintesi. L’accesso al fatto è pieno, ma tale pienezza non si misura sull’indiscriminato uso di mezzi probatori che possano condurre persino a una deformazione della realtà e, in definitiva, ad una inesatta percezione degli interessi meritevoli di tutela. Neppure di fronte alle novità introdotte dalla legge n. 205 del 2000 in tema di mezzi istruttori deve sottovalutarsi l’idea che la ricerca della verità processuale debba assumere il procedimento come luogo (se non esclusivo, almeno privilegiato) di riferimento. Il procedimento è ancor oggi sia il luogo in cui il potere amministrativo si mostra autenticamente funzione, sia il luogo nel quale il giudice indaga per appurare torti e ragioni, ricostruendo il modo in cui il potere è stato esercitato e gli interessi sono stati ordinati. È nel procedimento che va ricercata la sintesi tra autorità e libertà, sebbene sia condivisibile l’opinione di quanti auspicano, allo scopo di rendere più efficaci le garanzie, l’incremento delle attidel caso indubbiamente deve sempre guardare ad un obiettivo di razionalizzazione del sistema e non deve mai smarrire l’esigenza di assicurare la stabilità e uniformità dell’interpretazione. A questo il giudice è sicuramente tenuto e, più che gli altri, vi è tenuto proprio il giudice amministrativo. Questo aspetto, oltretutto, conduce molto lontano e tocca profili strutturali di ordinamento interno alla giustizia. Tuttavia, se il risultato, visto alla luce della certezza del diritto, non è sempre dei migliori, non è detto che ciò sia necessariamente (e sempre) imputabile al giudice stesso. L’opera di razionalizzazione dell’interprete infatti deve pur sempre fare i conti con le falle del sistema. Il giudice, in definitiva, deve contribuire alla tenuta del sistema, ma non può di certo riuscirvi con le sue sole forze. (28) Su questa sentenza, sul significato che ad essa deve riconoscersi e sul dibattito giuridico che si svolse si rinvia a V. CAIANIELLO, Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino, 2003, 368 ss..


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vità amministrative di predeterminazione delle decisioni mediante enucleazione di criteri generali (29). Sicché se ne possono trarre importanti conseguenze: sia in merito al riparto degli oneri probatori, da disciplinare in funzione delle responsabilità di guida del procedimento che gravano sull’amministrazione; sia in merito alla rilevanza che ben possono conservare vincoli formali ed oneri reciproci tra amministrazione e privato (nel giudizio di validità del provvedimento come nel giudizio di responsabilità risarcitoria) (30). 9. È molto stretto il collegamento che corre tra queste affermazioni e il secondo tema al quale avevo in principio fatto richiamo: il rapporto tra regola giuridica (sull’azione amministrativa) e regola economica. Molte delle precedenti considerazioni valgono ovviamente anche se si predilige come campo di osservazione il diritto sostanziale anziché il diritto processuale. E la descritta pervasività della tecnica conserva tutta la sua carica evocativa. L’influenza della tecnica svela oggi con evidenza i limiti delle teorie gradualiste sulla costruzione dell’ordinamento giuridico e della teoria kelseniana del precetto. La norma giuridica dell’azione amministrativa vive una stagione ben diversa dal passato. Essa solo con difficoltà riesce a selezionare e ordinare gli interessi meritevoli di tutela; spesso non risponde neppure al modello strutturale del precetto puro imperniato sulla struttura condizionale (se X allora Y), sicché si limita talora ad enunciare un fine generico ovvero a circoscrivere un obiettivo o valore per la cui precisa (29) Il riferimento riguarda A. POLICE, Autorità e libertà: riflessioni marine su un conflitto antico, in F. MANGANARO e A. ROMANO TASSONE (a cura di), Persona ed amministrazione, Torino, 2004, 209 e ss., il quale in particolare considera ineliminabile il potere autoritativo e vede nella prassi consistente nella predeterminazione dei criteri di decisione uno strumento utile ad « erodere » il campo di gioco della discrezionalità. Per un più ampio riferimento al tema, già sviluppato dallo stesso autore, si veda il suo La predeterminazione delle decisioni amministrative, Napoli, 1997. (30) Penso, in particolare, al rilievo che può assumere ai fini della configurazione di una responsabilità della P.A. « da contatto » nel procedimento amministrativo l’onere per l’interessato di interloquire « nel procedimento » e con le « forme » compatibili col procedimento stesso.


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identificazione occorre, per l’appunto, avvalersi di nozioni tecniche (31). Il deficit di tassatività della norma è il simbolo della crisi del principio di legalità (32). E nel diritto amministrativo tale crisi comporta una distanza crescente dal modello weberiano di razionalità legale nel quale la legge enunciava il fine e l’amministrazione provvedeva solo ad attuarlo. Il proliferare dei concetti indeterminati amplia la funzione integrativa dell’operato dell’amministrazione. Il contatto con l’ordinamento comunitario e, tramite esso, con ordinamenti di tradizione diversa dal nostro, o comunque con ordinamenti « altri », ha accelerato questo processo. Il precetto giuridico allora non è più autosufficiente: è costretto a nutrirsi della tecnica, ad abbeverarsi alla fonte di scienze non giuridiche e ad assorbire soprattutto regole economiche (33). Ecco il perché la ricerca della verità, dovendo guardare al procedimento come ad una « pentola » nella quale si mescolano tutti gli interessi e le scienze pertinenti al caso, deve provare a combinare insieme diritto e tecnica. Si pensi all’azione delle Autorità indipendenti, che costituisce, di certo, uno degli esempi paradigmatici di questo fenomeno. Si è felicemente scritto che la legittimazione dei poteri delle Autorità nasce « negli interstizi delle norme comunitarie » (34). La norma comunitaria infatti non descrive puntualmente il potere conferito alle Autorità nazionali, ma si affida ancora una volta a un concetto generale, intriso di valenza economica prima ancora che giuridica, corroborando la teorica dei c.d. poteri impliciti (35). Ad esempio, (31) Su questi temi si veda, in part., R. BIN, Atti normativi e norme programmatiche, Milano, 1988. (32) S. CASSESE, La crisi dello Stato, Roma-Bari, 2002, 74. (33) Questo fenomeno si collega all’interrogativo, che si riaffaccia fin dai tempi della democrazia ateniese, se la suprema autorità sia affidata al popolo o al diritto, con l’ultima parola ai giudici in quest’ultimo caso (interrogativo recentemente riproposto da S. CASSESE, in La fabbrica dello Stato, ovvero i limiti della democrazia, in Quad. cost., 2004, 252). Ciò che colpisce è il fatto che il fenomeno descritto si trova sempre più spesso a dover utilizzare proprio nel diritto un terreno alquanto diverso dal passato: privato sia delle convinzioni del giusnaturalismo sia delle certezze del positivismo giuridico, e soprattutto pressato dalle ragioni della tecnica. Un tale fenomeno, a ben vedere, mette alla prova l’intero sistema di un ordinamento di civil law come il nostro. (34) F. MERUSI, Le leggi del mercato, Bologna, 2002. (35) Su questo aspetto cfr. N. BASSI, Principio di legalità e poteri amministrativi


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la direttiva 7 marzo 2002 n. 2002/21/CE, che istituisce un quadro normativo comune per le reti ed i servizi di comunicazione elettronica, all’art. 8, comma 2, lettera b), stabilisce che le autorità nazionali di regolamentazione promuovono la concorrenza nella fornitura delle reti di comunicazione elettronica, dei servizi di comunicazione elettronica e delle risorse e servizi correlati, tra l’altro garantendo che non abbiano luogo distorsioni e restrizioni della concorrenza nel settore delle comunicazioni elettroniche (36). Questo ed altri esempi testimoniano quanto vada ampliandosi lo spazio riservato alla discrezionalità tecnica o (se si preferisce questa definizione) alle valutazioni complesse dell’amministrazione. 10. La sovrapposizione tra sfera del diritto e sfera della tecnica non può che influire su questioni di metodo, che oggi tornano ad animare il dibattito. Le relazioni complesse tra diritto e altre scienze richiedono un metodo che tenti di ricondurre ad unità questa magmatica realtà, perlomeno all’insegna di alcuni principi generali che possano guidare l’interprete (37). Il discorso sul metodo non può però qui neppure avviarsi, considerati i limiti del mio scritto. Sicché preferisco limitarmi ancora una volta ad un esempio concreto che, nella sua complessità, mostra quali curiosi frutti possano nascere dalla combinazione tra diritto e tecnica. La comunicazione tra il mondo del diritto amministrativo e il mondo delle regole tecniche può sı̀ mostrare talora l’insufficienza del metodo giuridico classico, ma può nel contempo far vedere quanto sia ancora utile l’appiglio ai principi generali. Solo i principi infatti possono salvare l’interprete dal rischio di approdare a soluzioni prive di congruità sistematica, specie quando è la tecimpliciti, Milano, 2001: v. anche T.A.R. Lombardia, Milano, II, 4 aprile 2002, n. 1331, in Giorn. dir. amm., 2003, 35 e ss., con nota di V. MILANI. (36) Su questo tema si rinvia ai contributi raccolti in G. MORBIDELLI e F. DONATI (a cura di), Comunicazioni: verso il diritto della convergenza?, Torino, 2003. (37) Recentemente, preziose indicazioni sui problemi del metodo, con particolare riguardo al rapporto tra scienza giuridica e altre scienze ed al ruolo assunto dai principi generali, si devono a A. ROMANO TASSONE, Metodo giuridico e ricostruzione del sistema, in Dir. amm., 2002, 11 e ss.; ID., Pluralità di metodo ed unità della giurisprudenza, in Dir. amm., 1998, 659.


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nica a imporre con prepotenza le sue ragioni. Richiamo, in particolare, il caso CIF (Consorzio Italiano Fiammiferi), deciso dalla Corte di giustizia CE con sentenza del 9 settembre 2003, in causa C-198/01 (38). La massima stabilisce che in presenza di comportamenti anticoncorrenziali, i quali siano imposti o favoriti da una normativa nazionale che ne legittima o rafforza gli effetti, l’Autorità nazionale preposta alla tutela della concorrenza cui spetti il compito di vigilare sul rispetto dell’art. 81 CE ha l’obbligo di disapplicare tale normativa nazionale, adottando di conseguenza le misure repressive del caso, con alcune limitazioni solo all’applicazione di vere e proprie sanzioni per i comportamenti pregressi. Questo principio implica, in breve, il potere-dovere dell’Autorità (nel nostro ordinamento l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, cui oltretutto si riferiva la concreta controversia) di disapplicare la legge statale in contrasto con le norme comunitarie che garantiscono il libero mercato. Letta in questi termini, la sentenza appare non solo condivisibile, ma addirittura scontata. È pacifico, ormai da molto tempo, che non solo il giudice nazionale ma anche l’autorità amministrativa (e dunque anche l’Autorità indipendente) debbano disapplicare il diritto interno in caso di contrasto col diritto comunitario: sono a confermarlo convergenti e consolidati orientamenti della Corte di giustizia e della Corte Costituzionale (39). Sennonché la tecnica, proprio in un caso di tal fatta, rischia di scompaginare la coerenza interna degli strumenti tecnico-giuridici di cui pure si predica l’uso: mi riferisco in particolare alla disapplicazione e al suo presupposto: l’esistenza di una antinomia tra norme giuridiche. Si consideri il modo in cui l’Autorità garante della concorrenza e del mercato opera nella repressione degli illeciti antitrust. a) Il punto di partenza è dato dal concetto indeterminato contenuto nella norma (comunitaria come nazionale): è vietato, ad esempio, l’abuso di una posizione dominante sul mercato. È tale concetto che deve essere applicato dall’Autorità. A questo fine (38) In Urb. e app., 2004, 151. (39) Da ultimo, nel senso che è obbligatoria la disapplicazione per contrasto col diritto comunitario del provvedimento amministrativo concreto, non avente natura normativa cfr. CGCE 29 aprile 1999, C-224/97, Ciola, in Foro amm., 2000, 328.


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esso viene contestualizzato: viene dunque elaborata una regola economica di buon funzionamento del mercato. b) È questo il secondo passaggio del ragionamento. Dalla regola giuridica imperniata su di un concetto generale (è illecito l’abuso di una posizione dominante su di un certo mercato rilevante) si elabora una regola economica. Ad esempio, la regola economica può essere la seguente: è illecita, in quanto configura un comportamento abusivo di una posizione dominante, la fissazione di prezzi predatori, vale a dire la pratica di prezzi dell’operatore che abbia una posizione di preminenza sul mercato che sia finalizzata a confinare il concorrente in posizione marginale ovvero ad estrometterlo dal mercato (40). c) Solo dopo aver elaborato la propria regola di buon funzionamento del mercato, l’Autorità provvede ad applicarla al caso di specie. Si tratta della seconda contestualizzazione: si verifica se un certo contegno dell’impresa configuri, oppure no, una pratica avente per oggetto prezzi predatori. Si noti che sia nella prima che nella seconda operazione di contestualizzazione la tecnica sembra dominare il diritto: sono proprio le teorie economiche che definiscono sia il « tipo » di illecito antitrust, consistente nei prezzi predatori, sia l’esistenza di un illecito nel concreto comportamento dell’impresa. d) L’ultimo passaggio logico consiste nell’adattamento della regola economica al caso concreto e nell’affermazione che in esso vi è un illecito anticoncorrenziale. Vi è un illecito proprio perché vi è contrasto tra la norma, che abbiamo posto al principio della sequenza, e il comportamento, che abbiamo posto alla fine della sequenza logica. Questi due estremi, a ben vedere, sono tenuti insieme solo dalla tecnica e il diritto parrebbe aver abdicato. Ciò detto, qualora, stando alla sentenza della Corte di giustizia, vi fosse una legge che, a certe condizioni soggettive e di mercato, consentisse di stabilire prezzi anche predatori, l’Autorità dovrebbe disapplicarla per dare applicazione alla norma comunita(40) Vedi, per un applicazione del criterio dei prezzi predatori, il caso DianoTourist, giudicato da T.A.R. Lazio, sez. I, 24 gennaio 2003, n. 403, in www.giustiziaamministrativa.it.


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ria. Sennonché la norma che viene cosı̀ applicata non è (solo) quella contenuta nella fonte comunitaria (coincidente, grosso modo, col principio di tutela del libero mercato), ma è la regola di buon funzionamento del mercato che è stata elaborata dall’Autorità nella prima fase di contestualizzazione (i prezzi predatori sono vietati). Ebbene, al di là di qualsivoglia valutazione adesiva o critica alla massima giurisprudenziale, l’interprete non può non percepire una difficoltà ricostruttiva. Si tengano presenti due approcci diversi alla questione. Il primo. Se si ritiene che l’Autorità non eserciti un potere di cui abbia l’effettiva titolarità e che sia solo chiamata a interpretare e applicare una norma giuridica (secondo lo schema norma-fatto), l’utilizzo della disapplicazione sarebbe consequenziale e senza difficoltà: di fronte al contrasto tra norma giuridica comunitaria e norma interna (nella specie, la norma che concedeva al CIF una posizione di speciale favore) la disapplicazione troverebbe spazio quale strumento di risoluzione dell’antinomia. Se cosı̀ fosse, tuttavia, e se si trattasse di un’attività di pura interpretazione della legge, dovrebbe scaturirne l’applicazione del principio jura novit curia sul piano del controllo giurisprudenziale. Sicché il giudice, di fronte alla contestazione del ricorrente, dovrebbe ripetere l’operazione interpretativa e ciò non potrebbe che determinare un controllo sostitutivo « a tutto campo ». In questo caso a restare sacrificata sarebbe dunque quella cautela che inerisce alla categoria del sindacato debole, di cui si è già parlato. Veniamo al secondo approccio. Se invece si ritenesse che l’Autorità è titolare di un potere che non si sostanzia della mera interpretazione della norma, ma che implica un’attività di integrazione del precetto assimilabile alla discrezionalità (visibile nella creazione della regola economica di buon funzionamento della libera concorrenza), allora lo schema applicabile sarebbe quello, ben diverso, norma-potere-fatto. Sarebbe ad esso consono un sindacato giurisdizionale di tipo debole, imperniato sul canone di ragionevolezza. Ma sarebbe più difficile


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dare spazio alla disapplicazione, perché l’antinomia non sarebbe più quella diretta tra norma comunitaria e norma interna, bensı̀ tra quest’ultima e la regola economica concreta elaborata dall’Autorità: non si tratterebbe allora di vera e propria antinomia normativa e il primato del diritto comunitario si trasformerebbe in un primato del diritto comunitario come elaborato e tradotto in altrettante regole dall’Autorità nazionale. Si tratterebbe dunque di riflettere sull’opportunità di estendere tout court il congegno della disapplicazione dalla relazione tra legge interna e norma comunitaria alla relazione tra legge interna e principio generale del diritto comunitario. La soluzione favorevole alla disapplicazione in un caso come quello testé illustrato farebbe sı̀ che il compito di interpretare il buon funzionamento del mercato conferito all’Autorità e al giudice nazionale possano estendersi fino al sacrificio, nel caso concreto, del dettato legislativo. La certezza del diritto e la tutela dell’affidamento sono valori indubbiamente rilevanti. Per la loro tutela parrebbe utile un approccio cauto e alternativi strumenti di soluzione delle possibili antinomie tra ordinamento interno e principi comunitari, per impedire che la vigilanza antitrust possa, con concrete misure, incidere troppo vigorosamente su capacità di programmazione e aspettative degli operatori. Ad esempio, potrebbe essere preziosa, ove possibile, l’anticipazione pubblica da parte dell’Autorità dei criteri e regole che ne ispireranno la concreta condotta. 11. Personalmente, aderisco all’opinione di quanti ravvisano in prevalenza nell’attività delle Autorità indipendenti preposta alla regolazione e tutela del libero mercato lo schema norma-poterefatto (41). La giurisdizione del giudice amministrativo si giustifica in questa materia perché essa non è tanto connessa alla distinzione tra potere discrezionale e potere vincolato, quanto all’esercizio di

(41) Su questo tema e sulla contrapposizione tra la sequenza norma-fatto-effetto e la sequenza norma-potere-effetto, cfr. R. VILLATA, Giurisdizione esclusiva e amministrazioni indipendenti, in Annuario 2002 dell’Associazione italiana dei professori di diritto amministrativo, Milano, 2003, 206.


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un potere comunque regolato (42). Se pure si voglia desumere una incompatibilità tra i diritti fondamentali, oggetto primario di cura delle Autorità, ed il potere discrezionale, non per questo può escludersi da un lato la genuinità di questa forma di potere intitolato alle Autorità e dall’altro lato l’esigenza di dare spazio a un sindacato che si ispiri prevalentemente al criterio della ragionevolezza: nello schema norma-potere-fatto il giudice non si può sostituire a un potere già esercitato, ma deve solo stabilire se la valutazione complessa operata nell’esercizio del potere sia una di quelle compatibili con quel concetto giuridico indeterminato adoperato dalla legge. In breve, nell’attuazione dei concetti indeterminati, in questo come in altri settori, vi è spazio per l’esercizio di un potere al cospetto del quale sia configurabile una posizione soggettiva di interesse legittimo ed è pertinente una tecnica di sindacato peculiare alla tradizione della giurisdizione amministrativa. L’utilizzo di concetti giuridici indeterminati e/o di norme tecniche dà luogo a valutazioni complesse di tipo probabilistico e perciò non esclusive, ma compatibili con altre valutazioni complesse formulabili con riferimento allo stesso concetto giuridico indeterminato e/o alla stessa norma tecnica (43). Piuttosto, proprio nei confronti delle Autorità indipendenti si è segnalato come possa rivelarsi utile anche il sindacato esercitato sullo sviamento di potere (44). Quando un’autorità preposta alla (42) F. MERUSI, Giustizia amministrativa e Autorità indipendenti, cit., 180. (43) F. MERUSI, Giustizia amministrativa e Autorità indipendenti, cit., 186. (44) F. MERUSI, op. ult. cit., 190, osserva che vengono in rilievo, proprio per l’onere procedimentale che grava sulle amministrazioni indipendenti, le tradizionali figure dell’eccesso di potere riferite al farsi dell’atto, il difetto di istruttoria e l’insufficienza della motivazione riferita alle risultanze del contraddittorio. Inoltre, l’a., 191 e ss., vede nello sviamento di potere il vizio tipico dei provvedimenti delle Autorità amministrative indipendenti: « quando di fronte a un potere c’è un diritto fondamentale è il diritto fondamentale la regola del potere. Il fine del potere delle autorità indipendenti è ... garantire l’esercizio di un diritto fondamentale. Ciò vale sia per la libertà personale che per la libertà economica, ma è soprattutto con riferimento alla libertà economica che viene in evidenza il possibile sviamento di potere di provvedimenti di autorità amministrative indipendenti ». Egli soggiunge che « la libertà economica è un fine da raggiungere come sono fine gli strumenti giuridici previsti per garantirne l’esistenza ». Sicché « se il provvedimento di una autorità preposta alla realizzazione della libertà in un determinato settore economico perde di vista la sua finalità ultima (assicurare la concor-


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tutela del libero mercato, chiamata a salvaguardare la libertà economica, dovesse perdere di vista la sua finalità ultima, vale a dire travisare l’obiettivo della sua azione, finendo addirittura con l’introdurre vincoli al libero mercato non giustificabili dalla giusta misura della regolazione e da effettive esigenze di repressione degli illeciti, ben potrebbe, una tale attività, esser viziata da eccesso di potere per sviamento. Il pericolo che (in particolare) la funzione di regolazione del mercato possa diventare eccessiva e intrusiva appartiene alle analisi di scuola degli esperti della materia. L’interesse perseguito dalle Autorità per la tutela del mercato ha una modesta carica finalistica, perché l’obiettivo di fondo del legislatore, comunitario come nazionale, non può che essere quello di garantire la libertà economica da limitazioni non giustificabili. Inoltre la relatività delle conoscenze raggiungibili e la complessità degli interessi in gioco inducono a perseguire non già l’idea del libero mercato perfetto, ma del miglior libero mercato possibile. La libera concorrenza risponde dunque a un valore che, specie dal punto di vista degli strumenti di azione, non è confondibile con l’interesse pubblico che tradizionalmente compete alle amministrazioni di perseguire. Valga la distinzione di Vincenzo Caianiello tra imparzialità, tipica della P.A. che assume un proprio interesse pubblico da attuare, e neutralità, tipica delle Autorità indipendenti le quali invece non hanno una propria linea politica da attuare in positivo (45). La sperimentazione dello sviamento di potere può giustificare, specie nel sindacato sugli atti di repressione degli illeciti anticoncorrenziali, un aggravamento dell’onere probatorio in capo all’Autorità (con esclusione della possibilità di utilizzare argomenti di tipo presuntivo a favore di quest’ultima): ciò allo scopo di dimostrare l’esistenza delle ragioni che infrangono la regola di lirenza, la par condicio nel contraddittorio concorrenziale; il coinvolgimento nel contraddittorio concorrenziale di tutti i soggetti interessati e quant’altro emerge dall’esigenza di tutelare la libertà economica) il provvedimento, anche se apparentemente rispettoso delle norme che regolano nel caso concreto l’esercizio del potere, deve considerarsi viziato sotto il profilo dell’eccesso di potere per sviamento ». (45) V. CAIANIELLO, La autorità indipendenti tra potere politico e società civile, in Foro amm., 1997, 341.


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bero svolgimento delle relazioni nel mercato e che sorreggono la configurazione dell’illecito. Le medesime considerazioni possono valere anche per gli atti di regolazione aventi valore restrittivo delle libertà economiche. In entrambi i casi l’apparente severità degli oneri probatori da imporre alle Autorità, in corrispondenza dell’onere del principio di prova del ricorrente, può rivelarsi un fardello ben sopportabile proprio grazie all’adempimento degli oneri procedimentali: è nel procedimento e nel contraddittorio che l’Autorità vede i « fallimenti del mercato » ed elabora la sua scelta correttiva; ed è con le risultanze del procedimento che può difenderla davanti al giudice. Questo spunto sull’eccesso di potere dimostra come anche il sindacato debole possa dimostrarsi, alla prova dei fatti, tutt’altro che tale (46). 12. Non resta che avviarmi alle conclusioni. La definizione dei casi nei quali il giudice abbia e di quelli nei quali non abbia il potere di sostituirsi alle valutazioni complesse e/o di discrezionalità tecnica dell’amministrazione sfugge ai rigori delle classificazioni nette. Finisce dunque per doversi risolvere caso per caso, al fine di indicare qual è quella parte della valutazione che inerisce alla decisione ultima effettivamente spettante all’amministrazione (47). È però possibile enunciare alcuni indici, i quali in via di massima possono aiutare l’interprete a stabilire quando vi sia il conferimento, da parte dell’ordinamento, di un vero e proprio potere (46) Ritiene « particolarmente appropriato » il controllo del giudice amministrativo nei confronti degli atti delle amministrazioni indipendenti G. MORBIDELLI, Sul regime amministrativo delle autorità indipendenti, in Scritti di diritto pubblico dell’economia, Torino, 2001, 249. Osserva inoltre (p. 251) che nei confronti di provvedimenti di autorità indipendenti la tesi della insindacabilità degli accertamenti tecnici appare ancora più ingiustificata alla luce del principio fondamentale per cui la riconducibilità al sistema costituzionale delle autorità indipendenti richiede una loro sottoposizione al pieno controllo giurisdizionale, come svolgimento della loro soggezione alla legge, considerando che difettano controlli amministrativi e controlli politici, ed essendo in gioco valori costituzionali. (47) L. BENVENUTI, Interpretazione e dogmatica nel diritto amministrativo, Milano, 2002, 172.


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giuridico decisionale in capo all’amministrazione e quale sia il suo spessore, in termini di stabilità, saldezza e incontestata appartenenza soggettiva. Questi indici, corroborando la spettanza amministrativa del potere, dovrebbero di converso indurre alla configurazione del sindacato giurisdizionale in termini di una sua debolezza (nel senso che si è ampiamente illustrato). È anzitutto un indice che concorre a definire la stabilità del potere amministrativo (inerente la discrezionalità tecnica e/o i concetti indeterminati) l’appartenenza dell’autorità amministrativa al circuito della democrazia rappresentativa. Dal binomio poteri di indirizzo politico-responsabilità politica scaturiscono le competenze amministrative in capo ad una figura soggettiva la quale, secondo lo schema tipico dell’art. 95 Cost., diviene titolare di un interesse pubblico determinato e in funzione del quale compie le sue scelte. La partecipazione o, meglio, derivazione dal circuito dell’indirizzo politico dell’amministrazione è elemento che rafforza anziché diminuire il radicamento del potere. Un secondo indice può trarsi dalla norma che riguarda la composizione dell’organo e che ne prescriva l’alta qualificazione tecnica. Questo dato è rilevante perché accentua la responsabilità dell’organo in merito alle decisioni che venga ad assumere e, di riflesso, non può che contribuire alla stabilità del relativo potere. Un terzo indice concerne il tipo di interesse pubblico di cui l’amministrazione assume la cura: quando si tratta di interessi e beni giuridici di primario rilievo costituzionale (come, ad esempio, la tutela della salute, dell’ambiente, dei diritti fondamentali), la possibilità di una sostituzione giudiziale per la tutela di contrapposti interessi individuali appare oggettivamente indebolita. Infine, è importante verificare se l’Autorità Amministrativa che esercita il potere sia titolare di un interesse pubblico proprio, il quale abbia una (più o meno vicina) ascendenza politica e attitudine finalistica. Se l’amministrazione infatti non fosse titolare di un interesse di questa natura e se, dunque, non fosse chiamata a compiere valutazioni di stretta opportunità e di convenienza amministrativa per il perseguimento di quell’interesse, allora le pre-


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messe per un intervento giudiziale con forza sostitutiva si farebbero più visibili (48). Viviamo tempi di repentine trasformazioni che sottopongono il giurista e gli strumenti del suo lavoro a continui scossoni e aggiustamenti. Il giudice amministrativo non ha un compito facile ed esso certamente si complica quando egli è chiamato a coniugare diritto e tecnica. Nello spazio che resta vorrei, senza pretesa di completezza alcuna, proporre alcune brevissime formule, per riassumere queste difficoltà e i modi per superarle. Il giudice deve sforzarsi di bilanciare gli interessi tutelando la pretesa e tutelare la pretesa bilanciando gli interessi, senza mai dimenticare che, a fronte delle ragioni del ricorrente (pur vigorosamente ancorate al principio di effettività della tutela), stanno comunque le ragioni della collettività (49). Egli deve bilanciare gli interessi interpretando la legge e interpretare la legge bilanciando poteri e interessi. Deve utilizzare la iuris prudentia, vale a dire una prudenza che imponga un ragionevole dosaggio del sindacato esercitabile su poteri, di rango costituzionale, i quali siano saldamente radicati in capo all’amministrazione. Deve infine sforzarsi di dare ogni possibile certezza ai cittadini, perché la frammentazione dell’ordinamento, le interferenze della tecnica nel diritto e il proliferare dei concetti indeterminati mettono a rischio soprattutto la certezza del diritto. Questo giudice, che elabora la sua giurisprudenza secondo il metodo del case law in costante evoluzione, finisce per somigliare (48) Si pensi, ad esempio, alla ricordata neutralità delle Autorità indipendenti, specie quando assumono per fine l’eliminazione delle turbative al libero mercato: un tipo di interesse che, per definizione, non è a forte carica finalistica e rispetto al quale non è probabilmente configurabile neppure un « merito amministrativo » in senso classico. A proposito della controversa esistenza di una vera e propria discrezionalità amministrativa nelle autorità indipendenti cfr. G. MORBIDELLI, Sul regime amministrativo delle autorità indipendenti, cit., 240 e ss. (49) Sull’importanza di una valutazione attenta di tutti gli interessi e libertà fondamentali coinvolti nell’azione amministrativa, ivi compresi quelli che sono rimessi alla stessa cura dell’amministrazione cfr. M. MAZZAMUTO, Amministrazione e privato, in F. MANGANARO e A. ROMANO TASSONE (a cura di), Persona ed amministrazione, Torino, 2004, 67 e ss.


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forse troppo a modelli lontani dalla nostra cultura giuridica (in particolare a quelli proposti dal common law). E la mancanza, nel nostro sistema, del principio dello stare decisis e della forza del precedente parrebbe insinuare un contraddizione troppo grave nel discorso (50). Ma la storia e la cultura del giudice amministrativo vanno esattamente in questo senso: dall’epoca della creazione delle figure sintomatiche dell’eccesso di potere a quella, odierna, dello scrutinio di ragionevolezza sulla discrezionalità (51). È proprio il carattere « pretorio » della giurisprudenza del Consiglio di Stato e dei T.A.R. che ha consentito al legislatore con la legge n. 205 del 2000 (più che di innovare) di recepire nel diritto positivo principi e istituti nati nel vivo del processo amministrativo. È questo carattere che, mediante il filtro dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, ha consentito che fossero creati i principi sui quali si basa il diritto amministrativo moderno. Ed è, probabilmente, solo questo carattere che può riuscire a dare il giusto grado di permeabilità alle barriere che il diritto oppone alla tecnica: senza smarrire né l’aspirazione all’unità del sistema né l’esigenza, fortissima e perenne, che il diritto resti scienza pratica al servizio della società civile (52). (50) Il punto è che la condizione attuale dell’ordinamento, emblematicamente riassunta nell’erosione dell’area del diritto da parte della tecnica, ha bisogno dello stare decisis nella stessa misura in cui ha bisogno della certezza del diritto quale contrassegno dell’effettività dell’ordinamento medesimo. In questi termini, dunque, condivido la tesi che il capitalismo abbia un « costitutivo bisogno di diritto » e che dunque « il capitalismo abbia necessità del diritto, mentre il diritto non ha necessità del capitalismo ». Tesi sostenuta da N. IRTI, in N. IRTI-E. SEVERINO, Dialogo su diritto e tecnica, RomaBari, 2001, 48. (51) F. MERUSI, Sull’equità della pubblica amministrazione e del giudice amministrativo, in Riv. trim. dir. pubbl., 1974, 359 e ss.; ID., L’equità nel diritto amministrativo secondo Cammeo: alla ricerca dei fondamenti primi della legalità sostanziale, in Quaderni fiorentini n. 22, Milano 1994, 413 e ss. (52) Di fronte alle continue contingenze che scuotono la razionalità della legge e nonostante il fatto che la legislazione stessa si svolga al di fuori del controllo logicosistematico dei giuristi i quali non riescono più ad orientare le scelte della classe politica (per queste osservazioni cfr. N. IRTI, La polemica sui concetti giuridici, cit., 21), il giurista non deve smarrire la « volontà di credere » e la sua fede nella logica e nel sistema (rinvio alle ampie citazioni di S. PUGLIATTI contenute in N. IRTI, op. ult. cit.). L’esigenza di lavorare in sintonia con un traguardo di (nuova) razionalità sistematica (onde evitare l’approdo al nuovo feudalesimo di cui parla V. DOMENICHELLI), è ancor più


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forte per l’amministrativista. Egli infatti si trova in presenza di una legge che non solo rinuncia ad enunciare concetti esaustivi e autosufficienti, ma che chiama il livello dell’amministrazione ad integrarli. Sicché il rischio di una dispersione della coesione e organicità dei valori, dello sfilacciamento dell’unità dell’ordinamento, dell’incertezza della regola diventa ancor più forte e si fa talora minaccia per il progresso economico e sociale della collettività.


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IL CONTROLLO GIURISDIZIONALE SUGLI ATTI DELLE AUTORITÀ ANTITRUST (*)

SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. Spunti di riflessione sul sindacato giurisdizionale provenienti da oltreoceano. — 3. Il sindacato giurisdizionale sugli atti della Commissione e delle autorità antitrust nell’ordinamento comunitario e di alcuni altri stati membri. — 4. Il sindacato esercitato dal giudice amministrativo italiano. — 5. Il sindacato sulle sanzioni antitrust. — 6. Altre questioni in materia di sindacato: gli atti impugnabili, la legittimazione a ricorrere, i provvedimenti di archiviazione e l’inerzia dell’autorità. — 7. Conclusioni.

1. Il processo di maturazione delle discipline antitrust non è mai stato facile ed anche negli ordinamenti, che a differenza di quello italiano, hanno il vantaggio di una consolidata esperienza in questo settore non sempre nel corso degli anni le normative antitrust hanno costituito un effettivo strumento di democrazia economica e di libertà dei cittadini (1). Sicuramente nell’ordinamento italiano, come in quello degli altri paesi occidentali, l’antitrust è oggi sempre più al centro dell’attenzione degli studiosi del diritto e dell’economia, oltre che dell’opinione pubblica e non costituisce più quella « unknown policy », come in passato criticamente definita (2). (*) Il presente articolo trae spunto dalla relazione tenuta alla VI Conferenza di Treviso « Antitrust fra diritto nazionale e diritto comunitario » - 13-14 maggio 2004 ed è in corso di pubblicazione nella versione in lingua inglese (R. CHIEPPA, Jurisdictional control over the decisions of the antitrust Authorities », in Antitrust between EC law and national law, VI Conference, Milano-Bruxelles, 2005). (1) Nel senso inteso da G. ROSSI, Antitrust e teoria della giustizia, in Riv. soc., 1995, 1 ss. (2) « Antitrust should not be permitted to remain an unknown policy » sentenziava nel 1978 un grande critico della nostra disciplina, R.H. BORK, The Antitrust Paradox, New York, 1978, 11. E finalmente dopo dieci anni anche in Italia non pare più una

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Tuttavia, l’attuazione del diritto antitrust continua a risentire, nell’ordinamento italiano come in altri, delle tensioni tra le « filosofie di base » che ispirano l’intervento dei vari « attori », chiamati a vigilare, direttamente o indirettamente, sul corretto svolgimento del gioco concorrenziale. Mentre nel percorso di liberalizzazione di alcuni settori del mercato la difficoltà è stata quella di raggiungere un punto di equilibrio tra le responsabilità del Governo e quelle dell’Autorità antitrust e/o delle diverse Autorità di settore, uno degli aspetti maggiormente critici di ogni sistema antitrust è costituito dal raggiungimento di un corretto equilibrio di ruoli e responsabilità tra Autorità e Magistratura. Il problema non è solo quello di dare una risposta al noto interrogativo « Who guards the guardians? » (3), ma anche, o piuttosto, quello di stabilire fino a che punto è corretto spingersi nel sindacare in sede giurisdizionale un’attività particolarmente complessa e caratterizzata da profili altamente specialistici e tecnici, quale quella svolta dalle autorità antitrust. Anche in questo caso, la risposta corre il rischio di essere influenzata o dalla « filosofia di base » dell’antitrust, per la quale si propende, o dalla fiducia che nei vari ordinamenti e nei diversi periodi storici autorità antitrust e/o magistratura competente per il sindacato giurisdizionale in materia hanno saputo conquistarsi. Una delle « filosofie di base » è sicuramente molto efficacemente riassunta in una considerazione: « Se le autorità indipendenti in Italia non nascono in opposizione ai giudici, ci si può chiedere, tuttavia, perché venga attribuito il compito di decidere questioni di interesse collettivo ad autorità dotate di indipendenza, i cui membri vengono scelti con criteri particolarmente selettivi e sottoposti a incompatibilità ben superiori a quelle dei giudici, per

« unknown policy », conferma G. ROSSI, Governo, Magistratura, Autorità Garante: tre diverse filosofie dell’antitrust, in Riv. soc., 2000, 1081. (3) M. SHAPIRO, Who guards the guardians?, Athens (GA), University of Georgia Press, 1988.


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assoggettare, poi, la loro attività all’ordinario sindacato giurisdizionale » (4). Si tratta di un’impostazione, che esplicitamente riflette, e richiama, la soluzione data al problema della unelected administrators legitimacy da James Landis nel 1938, il quale nelle lezioni tenute alla Yale Law School aveva spiegato il fenomeno delle autorità indipendenti con « the need of expterness », evidenziando che « the art of regulating an industry requires knowledge of details of its operation ». Sotto altro fronte è stato invece avvertito il pericolo di una deriva tecnocratica, dominata da quella che Carl Schmitt definiva la « cupa religione del tecnicismo » e si è ravvisata l’esigenza di un rafforzamento degli organi di garanzia e l’ineludibilità di un effettivo sindacato giurisdizionale sugli atti delle autorità indipendenti (5). Nell’ordinamento italiano, come negli altri paesi europei, è ormai prevalente la tesi che nega la natura giurisdizionale, o di tipo quasi-judicial, alle Autorità indipendenti con la conseguente sottoposizione della loro attività al sindacato giurisdizionale. Ogni potere ha il suo giudice ed a tale regola, proprio per la sua generalità, non sfuggono le autorità indipendenti e tra queste le autorità antitrust (6). In tale contesto si inserisce il controllo del giudice, il quale, soprattutto nell’ordinamento italiano dove la normativa antitrust è relativamente giovane, ha dovuto in breve tempo « specializzarsi » nella materia, correndo il rischio di farsi condizionare da una delle « filosofie di base » dell’antitrust o da una propria autonoma filosofia, che a volte può essere caratterizzata da una diffidenza nei confronti dell’operato di un’autorità di cui riesce diffi(4) S. CASSESE, Le autorità indipendenti: origini storiche e problemi odierni, in S. CASSESE-C. FRANCHINI, I garanti delle regole, Bologna, 1996, 221. (5) V. CAIANIELLO, Le autorità indipendenti tra potere politico e società civile, in Foro amm., 1997, II, 368. (6) R. CARANTA, Il giudice delle decisioni delle autorità indipendenti, in S. CASSESE-C. FRANCHINI, I garanti delle regole, Bologna, 1996, 165, ricorda che in Francia, dove non mancavano voci nel senso dell’inadeguatezza del giudice a sindacare gli atti delle autorités administratives indépendantes, il Conseil Constitutionel ha in più occasioni ribadito la necessità di sottoporre tali autorità al sindacato giurisdizionale.


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cile l’inquadramento nell’organizzazione statale e può essere vista quasi come un « new competitor » del giudice stesso (7), altre volte può invece risentire di una certa deferenza nel sindacare atti fondati su un elevato livello di tecnicismo ed adottati da organi maggiormente qualificati, sotto il profilo tecnico, rispetto al giudice. Deve tenersi presente che nel sistema antitrust europeo, caratterizzato dal ruolo di guida svolto dalla Commissione e dal crescente accrescersi delle competenze delle singole Autorità nazionali, il coinvolgimento dei giudici nell’attuazione delle regole della concorrenza è avvenuto principalmente in sede di controllo giurisdizionale dei provvedimenti delle Autorità e non in sede di risoluzione delle controversie intersoggettive (8). È noto, infatti, che la disciplina antitrust esplica i suoi effetti in due distinte direzioni: da un lato, attribuisce ai singoli diritti soggettivi direttamente tutelabili davanti al giudice, dall’altro conferisce ad un’Autorità il potere di adottare decisioni a tutela dell’interesse pubblico al libero gioco della concorrenza. Si tratta di un interesse pubblico che assume carattere del tutto particolare ed è caratterizzato dalla tutela della concorrenza in sé e dallo stretto rapporto con gli interessi di cui sono titolari in materia i soggetti privati, pur non avendo la pretesa di indirizzare l’attività di tali soggetti; in pratica, la tutela della concorrenza in sé viene distinta dalla tutela dei singoli concorrenti (9). A presidio dell’interesse pubblico si erge un apparato sanzionatorio ed uno o più soggetti pubblici deputati ad accertare e sanzionare i comportamenti illeciti, mentre a presidio del diritto dei privati si erge il tradizionale sistema di tutela dei diritti soggettivi, dove i singoli possono, attraverso l’intervento del giudice, reagire avverso i comportamenti anticoncorrenziali ritenuti lesivi. Nel primo caso si parla di public enforcement, nel secondo di private enforcement. Mentre nel modello statunitense l’efficienza dell’enforcement (7) Si perdoni la forzatura nell’utilizzo di un termine improprio, suggerito però proprio dalla materia in esame. (8) Sulle ragioni d tale fenomeno vedi oltre. (9) RAMAJOLI, Attività amministrativa e disciplina antitrust, Milano, 1998, 356 ss.


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sembra risiedere negli incentivi alle private actions (10) e nel conseguente sindacato diffuso del private enforcement, in Europa il sistema si basa, quasi esclusivamente, sul public enforcement, mentre restano esigue le azioni intraprese direttamente dai privati in sede giurisdizionale (11). Di conseguenza, in Europa, l’esperienza dei giudici in materia antitrust è maturata essenzialmente attraverso il filtro dell’attività delle Autorità antitrust ed ha finito con il risentire storicamente della maggiore o minore autorevolezza conquistata dalle singole Autorità e della maggiore o minore propensione delle stesse ad intervenire a tutela della concorrenza. Ciò non significa una prevalenza della tutela dell’assetto concorrenziale sulla tutela degli interessi privati (12); le due prospettive sono tra loro complementari e devono tra loro coesistere, risultando un mero dato di fatto se in un ordinamento risulta quantitativamente maggiore il ricorso ad una tutela piuttosto che all’altra. Il dato può invece essere rilevante per il legislatore, dovendo questi trarre elementi per potenziare, nel sistema italiano e più in generale in quello europeo, il private enforcement attraverso l’introduzione di quelle specifiche azioni a tutela dei consumatori, conosciute nel modello statunitense. 2. L’analisi della natura del sindacato giurisdizionale sugli atti di un’Autorità antitrust risulta certamente limitata se condotta esclusivamente con riguardo ad un singolo ordinamento giuridico. (10) Come i treble damages, contingency fees e l’istituto delle class actions. (11) Per le ragioni dell’insuccesso delle private actions nel contesto europeo vedi il par. 3. (12) RAMAJOLI, Attività amministrativa e disciplina antitrust, cit., 356 e 378, evidenzia che la tutela degli interessi privati non deve essere considerata assorbente rispetto a quella del complessivo assetto del mercato, come fa invece la teoria che equipara l’autorità antitrust ad un giudice, la quale non considera che i limiti alla libertà economica sono anche posti nell’interesse di tutti e non solo nell’interesse di un determinato soggetto privato; dall’altro lato, evidenzia sempre Ramajoli, la tutela dell’assetto concorrenziale non può condizionare la protezione delle posizioni dei singoli, come avverrebbe invece se si configurasse l’intervento dell’Autorità quale presupposto processuale di eventuali azioni davanti al giudice ordinario.


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Il processo di armonizzazione del diritto comunitario della concorrenza, già in passato avviato e che oggi ha avuto un decisivo impulso a seguito dell’approvazione del regolamento CE n. 1/2003, include anche le giurisdizioni; accanto alla vera e propria rete, composta dalla commissione e dalle autorità nazionali garanti della concorrenza, i giudici, seppur con diverso ruolo, fanno parte, oggi ancor più di ieri, di un sistema complessivo che comprende le giurisdizioni di tutti gli stati membri ed ha come punto di riferimento gli organi giurisdizionali dell’unione europea. Ampliando ulteriormente la visuale, le esigenze di un mercato mondiale globalizzato determinano la necessità di tendere ad una armonizzazione o ad una convergenza delle politiche di concorrenza, come dimostra la costituzione dell’International Competition Network (Rete internazionale della concorrenza) (13). Allo stato le differenze e le difficoltà di convergenza con il modello antitrust statunitense sono evidenti, come dimostrano anche recenti e meno recenti casi giudiziari (14). (13) Il processo di progressivo allineamento dell’azione delle Autorità a livello internazionale ha avuto come punto di arrivo la costituzione di una rete mondiale di Autorità antitrust: l’International competition network. La rete è formata dalle Autorità antitrust di circa ottanta Paesi, ivi compresi i sette paesi più industrializzati. Almeno in una sua prima fase, il network dovrebbe funzionare come centro di scambio delle esperienze di vigilanza tra le Autorità partecipanti. In questa sede dovrebbe, poi, esservi un dialogo riguardante due profili. Il primo è la discussione di questioni di fondo sulla politica della concorrenza, con particolare riguardo all’identificazione delle problematiche internazionali derivanti dall’applicazione di una molteplicità di normative antitrust. Il secondo attiene, invece, alla definizione di standard di azione armonizzati da parte delle Autorità. L’obiettivo di tale attività dovrebbe essere il conseguimento della « massima convergenza ... tra i partecipanti, attraverso il dialogo e lo scambio di esperienze sulla politica e la prassi di applicazione della normativa. Il consenso dovrebbe derivare da una comune comprensione dei migliori metodi per risolvere i problemi economici di fondo, nonché le questioni attinenti all’applicazione della normativa » (Commissione europea, XXX Relazione della politica della concorrenza della Commissione europea, 63). Al riguardo, v. D. IELO, L’internazionalizzazione del controllo antitrust: dalla Rete Internazionale della Concorrenza al Regolamento n. 1/2003, in Diritto e formazione, 2003, 1537 (I parte) e 1693 (II parte). (14) G. PRIEST, L’antitrust negli Stati Uniti e in Europa. Analisi e psicoanalisi di una divergenza, in Merc conc. Reg., 2002, 151, evidenzia come nel recente passato la convergenza tra le politiche di concorrenza degli Usa e dell’Europa è lungi dall’essere completa: la fusione GE / Honeywell è stata approvata dagli Stati Uniti, ma bloccata dalla Commissione europea; le istruttorie su Microsoft hanno condotto a risultati di-


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Nel sistema d’oltreoceano lo sviluppo del private enforcement e l’attribuzione alle autorità antitrust di poteri per lo più inquirenti (15) ha fatto sı̀ che il potere giudiziario sia stato il vero protagonista della formazione del diritto antitrust americano, tant’è che le teorie nelle quali ha trovato la sua più sofisticata elaborazione rispondono al nome di autorevoli giudici della Corte Suprema, da Pekham a Taft, da Holmes a Hughes, da White a Brandeis, da Hand a Warren, le cui tesi sono ancora oggi oggetto di discussione (16). Tuttavia, anche nel sistema statunitense, accanto al descritto ruolo assunto dai giudici per la c.d. attività di adjudication, si registra un sindacato non altrettanto penetrante per l’attività di rule making. Il tentativo di rendere più effettiva la tutela giurisdizionale nei confronti degli atti delle autorità regolatrici è stato decisamente frenato dalla nota sentenza sul caso Chevron (17), con cui la Corte Suprema ha sostanzialmente richiamato i giudici ad una maggiore deferenza nei confronti delle agencies, affermando che i giudici possono disattendere l’interpretazione che un’agenzia abbia dato ad una legge di cui ha il compito di curare l’applicazione, solo quando questa interpretazione sia contraria alla vo-

versi; il caso IMS Health è stato deciso dalla Commissione europea, in modo divergente rispetto ad una precedente decisione del giudice statunitense nel caso Intel. (15) La divisione antitrust del Dipartimento di Giustizia - DOJ e la Federal Trade Commission compiono le necessarie istruttorie, ma si rivolgono al giudice per l’adozione dei provvedimenti definitivi, aventi anche carattere penale e per l’applicazione delle sanzioni, svolgendo in pratica un ruolo di pubblico accusatore. Anche la cease and desist order (ordinanza di cessare e desistere), che può emettere la FTC, svolge un ruolo di moral suasion e diventa esecutiva solo a seguito dell’intervento del Tribunale Federale sotto forma di sanzione civile. Vedi. P. AQUILANTI, Poteri dell’Autorità in materia di intese restrittive della libertà di concorrenza e di abuso di posizione dominante, in Diritto antitrust italiano, volume II, Bologna, 1993, 815. (16) Vedi G. ROSSI, Governo, Magistratura, Autorità Garante: tre diverse filosofie dell’antitrust, cit. che richiama la conclusione della menzionata indagine di BORK secondo cui: « The central institution in making antitrust law has been the Supreme Court ». (17) Chevron USA Inc. vs. Natural Resources Defense Council, 104, S. CT., 1984, 2778.


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lontà chiara ed espressa del legislatore oppure sia irragionevole (18). Pur trattandosi di una sentenza relativa al controllo giurisdizionale non sugli atti di autorità, quali quella antitrust, ma sull’interpretazione della legge effettuata da un’autorità cui spettano poteri regolatori, è significativo il fatto che anche nel sistema americano le particolari competenze tecniche di un’autorità costituiscono un limite per il controllo giurisdizionale, applicabile proprio agli ambiti che appaiono al giudice più congeniali (interpretazione della legge). Con la sentenza Chevron la Corte Suprema ha nella sostanza riservato al giudice la gestione del nucleo certo nell’interpretazione della legge (il c.d. cono di luce, secondo la celebre metafora di Hart) e alle autorità gli spazi di interpretazione non chiari (la c.d. zona di penombra) (19). La sentenza Chevron presuppone, quindi, che il legislatore abbia implicitamente delegato alle autorità indipendenti la decisione di tutti i casi compresi nelle materie di loro competenza, sui cui il legislatore non si è espressamente pronunciato indicandone una precisa soluzione. La tesi della delegazione implicita non appare in sé convincente (20) e risulta addirittura pericolosa se trasposta alle problematiche dibattute nel nostro ordinamento della discrezionalità tecnica e dei concetti giuridici indeterminati, contenuti, come meglio spiegato in seguito, in numerose disposizioni della disciplina antitrust. (18) Sulla questione vedi F. DENOZZA, Discrezione e deferenza: il controllo giudiziario sugli atti delle autorità indipendenti regolatrici, in Merc. Conc. Reg., 2000, 469 e M. ARGENTATI, Il sindacato giurisdizionale sulle autorità indipendenti nell’esperienza statunitense, in Diritti, interessi ed amministrazioni indipendenti (Atti del Convegno Siena 31 maggio e 1 giugno 2003), Milano, 2003, 185. In particolare, Denozza evidenzia come i criteri indicati dalla Corte (chiarezza della norma / non irragionevolezza dell’interpretazione) siano suscettibili di ampia manipolazione e siano di portata incerta. (19) V sempre F. DENOZZA, Discrezione e deferenza: il controllo giudiziario sugli atti delle autorità indipendenti regolatrici, cit., il quale utilizza la metafora di Hart. (20) Si continua a prendere spunto dalle acute osservazioni di DENOZZA, cit., il quale distingue tra il potere di creare regole nuove ed il potere di interpretare una regola.


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Ogni giurista sa perfettamente che le norme molto spesso non sono suscettibili di interpretazioni univoche e che presentano accanto ai « coni di luce » diverse « zone di penombra ». Il compito del giudice non è mai stato solo quello di applicare meccanicamente le norme di chiara lettura, ma quello di interpretare le norme anche in settori, rispetto ai quali è carente di competenze specifiche; nella sua attività il giudice continuamente valuta tutti i fattori che devono essere considerati al fine di stabilire la validità di una determinata soluzione sotto i profili della compatibilità con la legge e del rispetto dei principi generali, della ragionevolezza, della proporzionalità delle conseguenze. L’autorità indipendente deve esercitare tutte le proprie competenze tecniche al fine dell’assunzione di una decisione, che sia poi idonea a resistere all’eventuale sindacato giurisdizionale, non inteso come sovrapposizione delle (minori) competenze tecniche del giudice a quelle dell’autorità, ma quale verifica in giudizio del buon utilizzo delle competenze tecniche e della conseguente correttezza della decisione adottata (21). Tali considerazioni conducono a ritenere non condivisibile la dottrina Chevron con riferimento all’attività di rule making, in relazione alla quale si è formata e tanto più non applicabile alle « zone di penombra » anche esistenti nell’attività di adjudication, tipica dell’antitrust. Anche nell’ordinamento statunitense, quindi, nonostante il ruolo guida assunto dai giudici nella creazione del diritto antitrust, vi è una tendenza a limitare il sindacato giurisdizionale nei con(21) F. DENOZZA, Discrezione e deferenza: il controllo giudiziario sugli atti delle autorità indipendenti regolatrici, cit. distingue tra preferenze semplici e diffuse che devono essere registrate ed aggregate dal legislatore per poi essere assicurate a tutti anche attraverso la garanzia dell’esercizio della funzione giurisdizionale, svincolata dalle contingenti preferenze della maggioranza e preferenze strumentalmente motivate, rispetto alle quali le preferenze semplici non sono rilevanti. Riguardo a quest’ultime le autorità indipendenti appaiono meglio attrezzate ai fini della aggregazione e può anche essere lasciata ad esse la soluzione dei casi dubbi, venendo in gioco solo interessi secondari e non interessi principali oggetto di preferenze semplici (l’autore esplica la differenza con l’esempio della scelta tra destinare fondi alla protezione dell’ambiente o al potenziamento dell’esercito — preferenza semplice e la scelta del tipo di armi da acquistare — interesse secondario, oggetto di preferenza strumentalmente motivata).


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fronti delle autorità indipendenti sulla base di una tesi, la cui accettazione potrebbe avere dei riflessi anche sulla questione dei limiti del sindacato del giudice nel sistema antitrust europeo. 3. Rispetto al modello statunitense, il sistema antitrust comunitario è caratterizzato dalla concentrazione in capo alla Commissione del triplice ruolo di esecutivo dell’Unione, di guardiano dell’applicazione delle norme e di titolare del potere di proposta legislativa. Il controllo giurisdizionale è stato affidato alla Corte di Giustizia, cui si è aggiunto il Tribunale di primo grado a partire dal 1988 (22). L’interazione fra la Commissione e la Corte di Giustizia europea nel settore dell’antitrust è ormai collaudata ed ha contribuito ad accrescere il prestigio di entrambi gli organi, creando quella che è stata definita una « sorta di staffetta », progressiva e alternata, nella quale ad un’applicazione estensiva del precetto da parte della Commissione, fa riscontro l’affermazione di un precedente ermeneutico da parte dei giudici comunitari che, quando danno ragione alla Commissione, le offrono nel contempo spunto per ulteriori passi avanti (23). Commissione e Corte di Giustizia hanno costituito fino ad oggi il faro che ha guidato la crescita delle autorità antitrust e delle relative giurisdizioni negli stati membri. Gli organi comunitari hanno cosı̀ avviato un processo di decentramento del diritto comunitario della concorrenza, che oggi con il regolamento n. 1/2003 ha trovato pieno riconoscimento normativo ed ulteriore impulso. Il « testimone della staffetta » è quindi oggi passato anche alle autorità ed alle giurisdizioni degli stati membri. Del resto, tale processo di armonizzazione si inserisce nel più ampio fenomeno dell’europeizzazione dei diritti processuali am(22) Con la decisione 88/591/ECSC del 24 ottobre 1998, ad esecuzione dell’art. 168A del Trattato Istitutivo della Comunità europea. (23) V. G. ROSSI, Governo, Magistratura, Autorità Garante: tre diverse filosofie dell’antitrus, cit., il quale evidenzia che in fondo, è proprio attraverso questa sorta di minuetto giuridico che per decenni si è costruito il diritto comunitario.


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ministrativi nazionali, intesa non tanto come esportazione e importazione di istituti da un sistema all’altro, ma come cross-fertilization ossia permeabilità dei vari sistemi a stimoli e scambi con gli altri (24). La Corte, da un lato, ricava principi dai singoli ordinamenti e conferisce ad essi rango europeo; dall’altro li proietta sui vari sistemi i quali a loro volta tendono a farli propri anche in controversie di mero diritto interno. Si innesca cosı̀ un processo di integrazione, o meglio di armonizzazione, « circolare », in cui il confronto tra i diversi modelli, vigenti negli Stati membri, contribuisce a creare la regola comunitaria, che a sua volta influisce sull’interpretazione delle norme interne. Il fenomeno, pur riguardando principalmente il processo comunitario, da un lato, e il processo amministrativo nazionale dall’altro, si presenta anche come riparto fra il primo e il processo

(24) Al riguardo, vedi D. DE PRETIS, La tutela giurisdizionale amministrativa europea e i principi del processo, in Riv. trim. dir. pub., 2002, 683 e ss., in cui è sottolineato che difficilmente un ordinamento regge un sistema binario, che comporti l’applicazione di regole processuali diverse a seconda del diritto (nazionale o europeo applicato), e di conseguenza l’ordinamento interno tende ad adattarsi stabilmente allo standard europeo. Tanto che il sorprendente processo di unificazione che ne è derivato ha fatto recentemente parlare appunto di un sistema unitario di giurisdizione europea. Sulla europeizzazione dei diritti processuali amministrativi, l’autrice cita: M. FROMONT, La convergence des sistèmes de justice administratives in Europe, in Riv. trim. dir. pub., 2000, 125 ss.; E. GARCIA DE ENTERRIA, Perspectivas de las justicias administrativas nacionales en el ambito de la Unión Europea, in Revista española de derecho administrativo, in Riv. trim. dir. pubbl., 1999, 1, 1 ss.; G. FALCON, Dal diritto amministrativo nazionale al diritto amministrativo comunitario, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1991, 353 ss., nonché ID., Giustizia comunitaria e giustizia amministrativa, in L. VANDELLI, C. BOTTARI, D. DONATI (a cura di), Diritto amministrativo comunitario, Rimini, 1994, 271; C.D. CLASSEN, Die Europäisierung der Verwaltungsgerichtsbarkeit, J.C. Mohr (Paul Siebeck), Tübingen, 1996, con un’analisi che muove dalla comparazione fra i modelli tedesco e francese di giustizia amministrativa posti di fronte all’influenza del diritto comunitario. Con particolare riguardo agli effetti sulla giustizia amministrativa del nostro Paese, cfr. M.P. CHITI, L’effettività della tutela giurisdizionale tra riforme nazionali e influenza del diritto comunitario, in questa Rivista, 1998, 499 ss.; M. GNES, Giudice amministrativo e diritto comunitario, in Riv. trim. dir. pubbl., 1999, 331 ss.: F. ASTONE, Integrazione europea e giustizia amministrativa, Napoli, 1999; L. TORCHIA, Developments in Italian Admistrative Law trough cross-fertilisation, in J. BEATSON-T. TRIDIMAS (eds.), New directions in european public law, Hart Publishing, Oxford, 1998, 137 ss.


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ordinario nazionale, quando l’ordinamento statale attribuisca la questione alla giurisdizione ordinaria (25). Tale ultima considerazione acquista particolare rilevanza proprio nel settore antitrust, in cui le competenze giurisdizionali sono diversamente attribuite nei vari stati membri, risultando però l’individuazione di giudici diversi (amministrativo o ordinario) del tutto irrilevante ai fini della funzionamento del sistema. Va ricordato che, per giurisprudenza comunitaria costante, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro designare i giudici competenti e stabilire le modalità procedurali dei ricorsi giurisdizionali intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme comunitarie, sempreché tali modalità non siano meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna (principio dell’equivalenza e di non discriminazione), né rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività) (26). Anche sotto il profilo del controllo giurisdizionale, il sistema dei vari paesi membri ha subito anche di recente degli assestamenti ed appare caratterizzato da un’esigenza di specializzazione dei giudici, che prescinde dal tipo di autorità giudiziaria indicata dai legislatori come competente per il sindacato sugli atti delle autorità antitrust. In Francia i poteri decisionali sono concentrati in capo al Conseil de la concurrence e solo sul controllo delle concentrazioni le potestà decisorie restano conferite al Ministro dell’economia. In caso di azione del privato in sede giurisdizionale, il Con(25) Vedi, ad esempio, R. CHIEPPA, Viaggio di andata e ritorno dalle fattispecie di responsabilità della pubblica amministrazione alla natura della responsabilità per i danni arrecati nell’esercizio dell’attività amministrativa, in questa Rivista, 2003, 683, per quanto riguarda tale processo circolare ed il parallelismo tra responsabilità delle istituzioni europee e responsabilità degli organi nazionali per violazione di norme comunitarie. (26) V., fra tutte, Corte Giust., 21 gennaio 1999, C-120/97, Upjohn Ltd contro The Licensing Authority established by the Medicines Act, commentata da R. CARANTA, Tutela giurisdizionale effettiva delle situazioni giuridiche soggettive di origine comunitaria ed incisività del sindacato del giudice nazionale (Kontolldichte), in Riv. it. dir. pubbl. com., 1999, 503.


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seil può essere consultato dall’autorità giudiziaria ordinaria, alla quale sono attribuite sia le competenze per le azioni di risarcimento del danno sia i ricorsi avverso le decisioni del Conseil del la concurrence (Corte d’Appello di Parigi e non più il Consiglio di Stato in queste ultime controversie) (27). Nell’ordinamento francese, il Conseil Constitutionnel, oltre ad aver affermato espressamente il carattere di organismo amministrativo del Conseil de la concurrence, ha sottolineato che costituisce principio fondamentale, quello secondo cui, ad eccezione delle materie riservate per natura all’autorità giudiziaria ordinaria, compete alla giurisdizione amministrativa l’annullamento e la riforma degli atti adottati dalle autorità nell’esercizio di prerogative e potestà pubbliche; tuttavia, allorché l’applicazione di una legislazione o regolamentazione specifica potrebbe dare origine a contenziosi diversi suscettibili di ripartirsi tra le due giurisdizioni ordinaria ed amministrativa, il legislatore può legittimamente, nell’interesse di una buona amministrazione della giustizia, decidere di unificare di contenzioso a vantaggio dell’ordine giurisdizionale maggiormente interessato (28). (27) In Francia, l’ord. n. 86-1243 del 1 dicembre 1986 prevedeva originariamente che avverso le misure cautelari e le decisioni del Conseil de la concurrence si poteva adire il Conseil d’Etat con ricorso de pleine jurisdiction. Immediatamente dopo l’approvazione definitiva dell’ord. 86-1243, il 20 dicembre 1986 venne approvata una modifica che prevedeva invece il ricorso alla Corte d’Appello di Parigi. Questa legge venne però ritenuta incostituzionale dal Conseil Constitutionnel con la decisione 23 gennaio 1987, in quanto mentre il Conseil d’Etat ha il potere di sospendere l’esecuzione dei provvedimenti impugnati, ciò non era previsto dalla legge che attribuiva la competenza alla Corte d’Appello di Parigi con limitazione di una essenziale garanzia difensiva. Tuttavia, il Parlamento con la legge n. 87/499 del 6 luglio 1987 ha riformulato la disciplina mantenendo la competenza della Corte d’Appello, ma prevedendo che il Primo Presidente della Corte potesse ordinare la sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato. Il ricorso alla Corte di Appello può essere presentato anche dal Ministro dell’economia, nel termine di un mese dalla notificazione del provvedimento (10 giorni se si tratta di misura cautelare) e può portare all’annullamento o alla riforma della decisione del Consiglio della concorrenza. È proponibile anche ricorso incidentale e la sentenza del giudice è pubblicata nel Bulletin offıciel de la concurrence, de la consommation et de la repression des fraudes. V. S. LICCIARDELLO, « Sulle sanzioni a tutela della concorrenza e del mercato. Italia e Francia a confronto », in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 1993, 91. (28) Citata decisione 86/224 DC del 23 gennaio 1987, pubblicata in L. FAVOREU


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Si osserva che comunque resta attribuita al Conseil d’Etat la giurisdizione sui ricorsi avverso i provvedimenti repressivi delle operazioni di concentrazione, che vengono adottati dal Ministero dell’economia, con l’eventuale intervento del consiglio della concorrenza, sulle impugnazioni dei decreti ministeriali di esenzione, in base a cui pratiche anticoncorrenziali possono essere autorizzate e sulle controversie in materia di nullità dei contratti amministrativi (29). In Germania l’autorità antitrust è il Bundeskartellamt se la pratica restrittiva produce i suoi effetti in più di un Bundesland, altrimenti sono competenti i Landeskartellämter, autorità antitrust dei Bundesländer. Le decisioni del Bundeskartellamt, sono sindacabili, in sede giurisdizionale, davanti alla Corte di appello di Berlino (Kammergericht), le cui sentenze possono essere impugnate solo per motivi di legittimità alla Corte suprema federale (Bundesgerichtshof, presso cui è istituito il Kartellsenat); mentre le decisioni delle altre autorità antitrust sono impugnabili dinanzi all’Oberlandesgericht, Corti di appello competenti per territorio, presso cui è istituito il Kartellsenat (30). e L. PHILIP, Les grandes décision du Conseil Constitutionnel, Paris, 1993 (vedi i considerant 15 e 16). Sul problema. v. R. MAIA, Le autorités administratives indépendantes tra vincoli costituzionali e potere politico, in Amministrare, 2000, 157 e G. DE MINICO, Spunti per una riflessione in merito al sindacato giurisdizionale sugli atti dell’Antitrust e della CONSOB, in Pol. diritto, 1998, 250, che sottolinea anche che, secondo la Corte Costituzionale francese, quale sia il giudice costituisce questione, che può risolversi considerando o l’autorità emanante le decisioni, favorendo cosı̀ l’attribuzione al giudice amministrativo, o la materia oggetto della controversia; in base a tale criterio il legislatore francese ha optato per il giudice ordinario, già competente a conoscere delle azioni di nullità e di responsabilità fondate sul diritto della concorrenza. (29) Per una ricostruzione del sistema antitrust francese, vedi. D. AMIRANTE, Le autorità di tutela della concorrenza in Francia. Profili organizzativi, in L. AMMANATI, La concorrenza in Europa, Padova 1998, 61, in cui viene sottolineato come il giudice amministrativo francese non sia in realtà stato estromesso dal contenzioso della concorrenza, tenuto conto delle menzionate ipotesi ancora appartenente alla sua giurisdizione. (30) In alcuni casi specifici il ricorso ha effetto sospensivo, mentre l’autorità dei cartelli, in tali casi, può ordinare l’immediata esecuzione del provvedimento quando ciò risponde all’interesse pubblico o all’interesse prevalente dei partecipanti. Vedi, L. AMMANATI, Il sistema tedesco della concorrenza. Un modello consolidato alla prova dei tempi, in L. AMMANATI, La concorrenza in Europa, Padova, 1998, 13; M. MELI, Il sistema sanzionatorio delle intese restrittive della concorrenza nell’ordina-


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In Gran Bretagna, vigeva un complesso sistema di competenze in materia antitrust, che è stato modificato con il Competition Act del 1998 e con la sostituzione della vecchia Monopolies and mergers commission con la Competition Commission a partire dal 1-4-1999 e con l’Enterprise Act del 2002, attraverso il quale sono stati affidati alla Commissione veri e propri poteri decisionali e non di mera proposta al Secretary of State, come avveniva in passato (31). Sotto il profilo del controllo giurisdizionale è stato osservato che i giudici inglesi hanno mantenuto un atteggiamento di self restraint, come dimostra l’alta percentuale dei casi risolti in senso favorevole alla Commissione (32). In Spagna sono due le istituzioni nazionali che si occupano di tutela della concorrenza: il Servicio de Defensa de la Competencia, con funzioni istruttorie e di vigilanza e il Tribunal de Defensa de la Competencia, con funzioni decisorie in ordine ai comportamenti illeciti e funzioni consultive per le operazioni di concentrazione; avverso i provvedimenti del Tribunal de Defensa de la Competencia è previsto un recurso contencioso-administrativo (33). Dall’analisi delle diverse discipline antitrust, vigenti negli mento tedesco, in Riv. critica dir. privato, 1997, 259. Sull’armonizzazione del diritto antitrust tedesco, vedi U.M. GASSNER, L’europeizzazione del Kartellrecht tedesco, in Riv. soc., 1999, 1199, accompagnato dall’articolo di G. GIUDICI, Alcune note sulla storia del diritto antitrust in Germania. (31) In passato, la Monopolies and mergers commission svolgeva funzioni investigative in materia di monopoli, acquisizioni, fusioni e restrictive trade practices, su impulso dell’Offıce of Fair Trading. L’indagine si concludeva con un monopoly report, in cui poteva essere prospettata la possibilità di una formal action (ordine ministeriale, che è presupposto di sanzionabilità delle pratiche vietate) o di una informal action con decisione finale attribuita alla competenza del Secretary of State. (32) S. CASSESE, Poteri indipendenti, Stati, relazioni ultrastatali, in Foro it., 1996, V, 12. Definisce talora ossequiosa la deferenza dei giudici inglesi (ed anche di quelli francesi) nei confronti delle autorità indipendenti M. D’ALBERTI, Autorità indipendenti (Dir. amm.), voce in Enc. giur., 1995. Sul cauto utilizzo delle procedure di judicial review, vedi A. BIONDI, Chi regola i regulators? - Privatizzazione delle public utilities e controllo giudiziario: recenti sviluppi nella giurisprudenza inglese, in Riv. dir. civ., 1998, I, 85. (33) Si ricorda che in Spagna nell’ambito di un’unica giurisdizione il contenzioso di diritto amministrativo è attribuito, mediante anche un processo con regole parzialmente diverse, alla Sala Tercera del Tribunal Supremo.


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stati membri, emerge che le pur rilevanti differenze tra i vari sistemi si stanno via via attenuando mediante un processo di convergenza sul modello comunitario. Le giurisdizioni hanno avuto un ruolo nello sviluppo del diritto antitrust soprattutto in sede di sindacato giurisdizionale sugli atti delle autorità, in quanto il private enforcement non si è sviluppato come invece avvenuto negli Stati Uniti, come è dimostrato dall’esiguità delle controversie intersoggettive in materia. Le controversie, contrattuali o risarcitorie, in materia di concorrenza restano numericamente limitate, nonostante che la Commissione già nella tredicesima relazione sulla concorrenza del 1983 e poi dieci anni più tardi nella comunicazione del 1993 avesse invitato le parti a rivolgersi direttamente ai giudici nazionali, fondandosi anche sulla giurisprudenza comunitaria, che aveva legittimato l’archiviazione di un caso di assenza di interesse comunitario e se il ricorrente poteva avere tutela davanti al giudice nazionale (34). Una delle cause può anche essere stata l’attribuzione della competenza esclusiva per l’applicazione dell’art. 81.3 del Trattato in capo alla Commissione, ossia della possibilità di concedere esenzioni individuali in relazione ad accordi comunque rientranti nell’art. 81 e, quindi, si tratta di una causa ormai rimossa a seguito del passaggio da un sistema di notifica e di autorizzazione preventiva delle intese ad un sistema di eccezione legale con controllo ex post, basato sull’applicazione diretta dell’intero articolo 81 del Trattato da parte delle autorità nazionali e dei giudici nazionali, ai sensi del regolamento CE n. 1/2003. Tuttavia, si osserva che il private enforcement non ha avuto successo anche nel caso di violazione delle regole nazionali di concorrenza; le imprese intraprendono giudizi davanti al giudice ordinario per lo più in via risarcitoria dopo l’intervento dell’autorità nazionale, in quanto i soggetti che si ritengono lesi da una condotta anticoncorrenziale preferiscono fare una segnalazione al(34)

Trib. I CE, 17 settembre 1992, Automec, T-24/90.


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l’autorità nazionale o alla Commissione, anziché intraprendere un’azione giudiziale (35). La mera segnalazione ha il vantaggio di non avere costi, di garantire l’anonimato del denunziante al fine di evitare ritorsioni commerciali, di sfruttare i maggiori poteri investigativi dell’autorità a fronte degli oneri probatori gravanti sull’attore in un giudizio civile (36). Le giurisdizioni hanno quindi assunto un ruolo soprattutto in sede di sindacato giurisdizionale sugli atti delle autorità antitrust. Nella diversità dei sistemi europei, si riscontra la comune esigenza di specializzazione dei giudici intesa non tanto come formale creazione di sezioni specializzate (37), ma come formazione specifica dei singoli giudici che si occupano di concorrenza. Non è casuale che in Germania l’obiettivo perseguito dal legislatore sia stato quello di concentrare la competenza per tutte le questioni inerenti il diritto antitrust in capo ai c.d. Kartellgerichten (38); che in Francia il buon funzionamento della nuova disciplina introdotta nel 1987 sia dipeso anche dalle iniziative del Presidente della Corte di Appello di Parigi, il quale decise di assegnare un piccolo gruppo di giudici al riesame delle decisioni del Consiglio, cosı̀ che questi, occupandosi in particolare di antitrust, potessero acquisire una competenza specifica in materia di con(35) Vedi sul punto F. GHEZZI, La cooperazione tra giudici nazionali e Commissione CEE in materia antitrust, in Riv. soc., 1993, 685. (36) Inoltre, l’intervento dell’autorità ha un effetto deterrente sulla condotta della controparte, anche prima di una decisione formale e si può ipotizzare che il denunziante possa contestare, davanti al giudice amministrativo, l’archiviazione del caso (su quest’ultimo punto vedi il par. 6). La possibilità di ottenere solo il risarcimento dei danni compensativi (la mancanza quindi sia di multiple damages che di exemplary damages) e l’assenza di un istituto quale quello delle class actions costituiscono ulteriori elementi da prendere in considerazione per spiegare le ragioni del mancato sviluppo del private enforcement. (37) Al riguardo, vedi le osservazioni di M.E. SCHINAIA, Il giudice e le Autorità indipendenti, in Cons. Stato, 2002, II, 1861, il quale, utilizzando un concetto caro agli economisti, evidenzia come un giudice speciale rischierebbe di essere « catturato » dall’autorità o al contrario di sostituirsi ad essa. (38) Denominazione utilizzata correntemente, benché non utilizzata dal legislatore, come nota M. MELI, op. cit., 276.


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correnza (39); che anche in Italia nella I sezione del Tar del Lazio e nella VI sezione del Consiglio di Stato, competenti sui ricorsi avverso gli atti dell’autorità antitrust, sia stato creato un nucleo di giudici, in capo ai quali si è concentrata l’assegnazione dei ricorsi (nucleo che si è poi progressivamente allargato) (40). Sembra quasi che i giudici, investiti delle competenze in materia antitrust, siano consapevoli della difficoltà del proprio compito, di dovere essere allo stesso tempo legalmente corretti ed economicamente pertinenti nei propri giudizi, e tengano quindi conto della duplice natura, giuridica ed economica, dell’applicazione della legislazione antitrust, e del conseguente bisogno di unire conoscenze giuridiche ed economiche, per poter adeguatamente applicare la normativa antitrust (41). (39) V. F. JENNY, Autorità amministrative indipendenti e tutela della concorrenza: l’esperienza del Conseil de la Concurrence, in Atti del Convegno Internazionale (Roma, 20/21 novembre 1995), in www.agcm.it., il quale sottolinea che il Presidente della Corte di Appello di Parigi ha anche promosso l’apprendimento di una cultura economica da parte di questi giudici (attraverso seminari condotti da economisti su tematiche relative all’applicazione della legge sulla concorrenza, quali la definizione del mercato, il surplus del consumatore, l’economia dell’integrazione verticale, e cosı̀ via). Inoltre, sotto il profilo statistico, tra il 1987 e la fine del 1994, il Consiglio per la Concorrenza ha preso 551 decisioni, per 186 delle quali è stato presentato ricorso presso la Corte d’Appello di Parigi. Entro il marzo 1994, la Corte d’Appello di Parigi aveva confermato il giudizio del Consiglio per 138 delle 166 decisioni che le erano state sottoposte (83%), pur avendo diminuito o elevato ‘entità delle sanzioni inflitte dal Consiglio in 29 casi. Dall’istituzione del Consiglio la Corte ha annullato 13 decisioni e ne ha emendate 15. (40) A. POMELLI, Il giudice e l’Antitrust. Quanto self restraint?, in Merc. conc. reg., 2003, 239, evidenzia che preso la I sezione del Tar del Lazio soltanto dieci giudici sono stati relatori di cause antitrust, con una percentuale di controversie superiore al 50% istruita da due soli giudici e che il dato è comune anche alla VI sezione del Consiglio di Stato, benché vi sia stata una maggiore rotazione tra gli otto relatori. Viene anche sottolineato che i collegi difensivi dei ricorrenti sono sovente composti dai medesimi professionisti, in numero proporzionalmente limitato se confrontato con il numero complessivo dei difensori teoricamente disponibili sul mercato. (41) Devono condividersi pienamente le idee, già emerse (Vedi A. FRIGNANI, E. GENTILE, G. ROSSI, La devolution dell’antitrust, in Merc. Conc. Reg., 2000, 197), di momenti di aggiornamento professionale comune tra giudici e funzionari delle autorità nazionali. Al riguardo, non è di secondario profilo l’esigenza di fornire alle Autorità nazionali le risorse, anche economiche, per conservare al proprio interno le professionalità formate. Vedi, F. GHEZZI, Il libro bianco della Commissione sulla modernizzazione del diritto della concorrenza comunitario, in Conc. e Merc., n. 8/2000, 175, circa l’esigenza delle autorità di avere risorse sufficienti in termini di staff. Negli Stati Uniti, benché in


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È stato osservato che la mancanza di conoscenza tecnica delle questioni rispetto alle quali un giudice deve esprimersi non è caratteristica solo dell’antitrust (42). Nel caso del diritto antitrust, tuttavia, si aggiunge un’ulteriore difficoltà: non solo la realtà economica (cioè l’oggetto) è difficile da comprendere, ma lo è anche il significato della legge che è scritta in termini generali ed astratti attraverso i c.d. concetti giuridici indeterminati, quali ad esempio « restringere la concorrenza » oppure « abuso di posizione dominante », « mercato rilevante », privi di un univoco significato Si tratta di qualcosa di simile a quelle zone di penombra, in precedenza menzionate. Le tecniche del sindacato su tali zone di penombra non sono ovviamente state uguali in tutti gli ordinamenti, cosı̀ come non è stata uguale l’incisività del sindacato. Probabilmente, lo standard di controllo presente negli ordinamenti francese e tedesco è più elevato sotto il profilo dell’accesso diretto al fatto e della verifica dell’apprezzamento del fatto, anche di natura tecnica; mentre il sindacato esercitato dai giudici inglesi sembra aver avuto solo recentemente una accelerazione verso un controllo più incisivo (43). In particolare, nell’ordinamento francese la Corte di appello di Parigi esercita una giurisdizione « piena » sugli atti del Conseil de la Concurrence, che consente al giudice di sostituire la decisione impugnata con la propria senza alcun rinvio del caso all’Autorità. Finora il ruolo di guida per i giudici interni è stato svolto della Corte di Giustizia, ma da oggi non è escluso che il decentramento un sistema profondamente diverso, il Federal Judicial Center offre programmi di aggiornamento ai giudici; in sede europea sono già in corso iniziative quali la rete europea per la formazione giudiziaria. Per quanto concerne la concorrenza, tali iniziative dovranno essere estese anche agli avvocati dello Stato ed agli avvocati e ai consulenti delle imprese. (42) V. F. JENNY, Autorità amministrative indipendenti e tutela della concorrenza: l’esperienza del Conseil de la Concurrence, cit., il quale evidenzia che ad esempio, i giudici affrontano decisioni sulla responsabilità personale riguardo alle azioni dei medici anche senza conoscere la scienza medica. (43) In questo senso v. R. CARANTA, Tutela giurisdizionale effettiva delle situazioni soggettive di origine comunitaria ed incisività del sindacato del giudice nazionale (Kontrolldichte), cit., 517 e D. DE PRETIS, Valutazione amministrativa e discrezionalità tecnica, Padova, 1995.


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del diritto della concorrenza, derivante dal regolamento CE n. 1/2003, possa condurre ad un maggior apporto dal basso nello sviluppo della giurisprudenza in materia antitrust all’interno di quel processo circolare di formazione del diritto descritto in precedenza. Appare a questo punto necessario esaminare le modalità del sindacato giurisdizionale esercitato dalla Corte di Giustizia e dal Tribunale di primo grado sugli atti della Commissione. Gli organi giurisdizionali comunitari svolgono un controllo di legittimità sui provvedimenti della Commissione, che è esteso al merito per le sanzioni pecuniarie (44). È stato osservato che l’attribuzione di una competenza « anche di merito » alla Corte significa che tale competenza si aggiunge al controllo di legittimità e non lo sostituisce interamente; pertanto per la parte della decisione impugnata che riguarda l’accertamento della violazione rimane il tradizionale sindacato di legittimità, mentre il ricorso diventa di piena giurisdizione per la sola parte relativa alla sanzione (45). In ogni caso il ricorso è assoggettato al termine decadenziale di due mesi, decorrenti dalla notifica della decisione. Sotto il profilo dell’incisività, il sindacato della Corte di Giustizia, esercitato sulle valutazioni economiche complesse fatte dalla Commissione, è stato espressamente limitato alla verifica dell’osservanza delle norme di procedura e di motivazione, nonché dell’esattezza materiale dei fatti, dell’insussistenza d’errore manifesto di valutazione e di sviamento di potere (46). (44) L’art. 229 del Trattato prevede che « i regolamenti stabiliti dal Consiglio in virtù delle disposizioni del presente Trattato possono attribuire alla Corte di Giustizia una competenza giurisdizionale anche di merito per quanto riguarda le sanzioni previste nei regolamenti stessi ». L’art. 17 del reg. 17/1962 e l’art. 16 del Reg. 4064 sul controllo delle concentrazioni hanno previsto tale competenza di merito. Oggi l’art. 31 del Reg. n. 1/2003 prevede che « La Corte di giustizia ha competenza giurisdizionale anche di merito per decidere sui ricorsi presentati avverso le decisioni con le quali la Commissione irroga un’ammenda o una penalità di mora. Essa può estinguere, ridurre o aumentare l’ammenda o la penalità di mora irrogata ». (45) In questo senso, A. FRIGNANI-M. WAELBROECK, Disciplina della concorrenza nella CE, Torino, 1996, 441. (46) Vedi, sentenze della Corte di Giustizia 11 luglio 1985, causa 42/84, Remia,


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La Corte di Giustizia ha negato la possibilità di un sindacato sostitutivo del giudice sulle valutazioni tecniche (nella specie economiche) complesse compiute dalla Commissione (47). Tale orientamento del giudice comunitario non ha mancato di attrarre le critiche della dottrina, la quale ha in particolare sottolineato che « la qualità dell’analisi economica offerta dalla Corte di giustizia lasci molto a desiderare se confrontata con i brillanti esercizi di cui la Corte suprema degli Stati Uniti ha dato prova negli ultimi due decenni » (48). L’indirizzo richiamato trova ancora conferma in decisioni recenti del Tribunale di primo grado, oggi unico giudice del fatto nel sistema europeo, e dunque pare consolidato a livello comunitario (49), anche se è stato osservato che il Tribunale stesso fosse stato istituito anche per render possibile un più approfondito sindacato sugli accertamenti di fatto delle istituzioni comunitarie (50). È anche vero che, al di là delle affermazioni di principio punto 34, e 17 novembre 1987, cause riunite 142/84 e 156/84, BAT e Reynolds, punto 62; 28 maggio 1998, C-7/95, John Deere, punto 34 e, da ultimo, 7 gennaio 2004, cause riunite 204/00 e 219/00, Aalborg, punto 279 e Trib. primo grado CE, 21 marzo 2002, T-231/99, Joynson). (47) Corte Giust., Sentenze del 15 giugno 1993, in causa C-225/91, Matra, in Racc. 1993, I-3203, e 5 maggio 1998, in causa C-157/96, National Farmer’s Union, ivi 1998, I-2211, in cui si afferma come anche nella verifica dell’esattezza sostanziale dei fatti e della loro qualificazione giuridica operata dall’autorità comunitaria, il giudice europeo applica i consueti controlli (anche penetranti, ma sempre di carattere estrinseco) sulla discrezionalità. Trib. di primo grado, sent. 12 dicembre 2000, in causa T-296/97 Alitalia; nella quale, con riferimento alla valutazione economica complessa necessaria per l’applicazione del criterio c.d. « dell’investitore privato », si afferma che la Commissione gode di un ampio potere discrezionale, per cui il sindacato giurisdizionale su di essa non può comportare una sostituzione della valutazione della Commissione con quella del giudice. (48) M. RICOLFI, Antitrust, in N. ABRIANI-G. COTTINO-M. RICOLFI, Diritto industriale, in Trattato di diritto commerciale, vol. II, Padova, 2001, 785. (49) I precedenti della Corte di giustizia richiamati sono alla base, ad es., di Trib. primo grado CE, 21 marzo 2002 (in causa T-131/99), Shaw e Falla c. Commissione; Trib. primo grado CE, 21 marzo 2002 (in causa T-231/99), Joynson c. Commissione, rispettivamente punti 38 e 36 della motivazione; adde Trib. primo grado CE, 28 febbraio 2002 (in causa T-395/94), Atlantic Container Line AB e altri c. Commissione, punto 257 della motivazione. (50) R. CARANTA, I limiti del sindacato del giudice amministrativo sui provvedimenti dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, in Giur. comm., 2003, 170


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sopra descritte, i giudici comunitari hanno in realtà analizzato molto spesso in modo accurato le analisi economiche svolte dalla Commissione (51). In alcune recenti sentenze, il Tribunale di primo grado ha svolto il sindacato operando una valutazione sostanziale del contenuto dei provvedimenti antitrust, annullando ad esempio la decisione della Commissione Airtours / First Choice (52), ritenendola viziata da un insieme di errori commessi nella valutazione di elementi importanti per l’individuazione dell’eventuale creazione di una posizione dominante collettiva; o annullando la decisione Tetra Laval/Sidel, viziata da un errore manifesto di apprezza-

sottolinea che la decisione 88/591/CECA, CEE, Euratom del Consiglio del 24 ottobre 1988 che istituisce un Tribunale di primo grado delle Comunità europee, in G.U.C.E. 25 novembre 1988 n. L 319/1, testualmente recitava nelle premesse: « considerando, che per le controversie che esigono un esame approfondito di fatti complessi, l’istituzione di un doppio grado di giurisdizione è atta a migliorare la tutela giurisdizionale dei soggetti; considerando che, al fine di preservare la qualità e l’efficacia della tutela giurisdizionale nell’ordinamento giuridico comunitario, si deve consentire alla Corte di concentrare la sua attività sul suo compito principale, che è quello di assicurare l’interpretazione uniforme del diritto comunitario; considerando che è quindi necessario valersi dell’autorizzazione conferita dall’articolo 32-quinquies del trattato CECA, dall’articolo 168 A del trattato CEE e dall’articolo 140 A del trattato CECA, e trasferire al Tribunale la competenza a conoscere in primo grado di talune categorie di ricorsi che spesso richiedono l’esame di fatti complessi, ossia i ricorsi proposti dagli agenti delle istituzioni, nonché — per quanto riguarda il trattato CECA — i ricorsi promossi da imprese o associazioni in materia di prelievi, di produzione, di prezzi, d’intese e concentrazioni e — per quanto riguarda il trattato CEE — i ricorsi proposti da persone fisiche o giuridiche in materia di concorrenza »; l’autore richiama anche L. RITTER-W.D. BRAUN-F. RAWLINSON, European Competion Law: A Practitioner’s Guide, 2nd ed., The Hague et al. (Kluwer), 2000, 908, i quali conseguentemente ritengono che « changes are likely in the lower court’s procedure, expecially since the Court of First Instance has been charged with the task of scrutinizing the Commission’s fact-finding more closely »; gli stessi Autori affermano poi che « In the Court of First Instance, it is likely that further enquiries, hearing of witnesses and expert testimony, and perhaps the oral hearing of counsel, will assume a more important role than in the Court of Justice » (ivi, p. 909). (51) Ancora M. RICOLFI, Antitrust, cit., 784; nel senso che « The Court of First Instance has generally been more rigorous than the Court of Justice in scrutiny of [...] the Commission’s economic reasoning » si veda anche R. LANE, EC Competition Law, Harlow (Longman), 2000, 191. (52) Trib. CE, 6 giugno 2002, T-342/99, Airtours PLC, Foro it., 2003, IV, 35.


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mento commesso dalla Commissione nella valutazione degli effetti anticoncorrenziali dell’operazione (53). Nonostante tali aperture giurisprudenziali, parte della dottrina ritiene comunque che il grado di incisività richiesto a livello comunitario è probabilmente inferiore a quello proprio di alcuni sistemi nazionali (ad esempio il francese e il tedesco), facendo riferimento non tanto alla questione del diretto accesso ai fatti e, (53) Trib. CE, 25 ottobre 2002, T-5/02, Tetra Laval BV, in Foro it., 2003, IV, 123. Questa decisione e quella di cui alla nota precedente vengono indicate come esempi di un controllo più incisivo da parte del Tribunale da A. POMELLI, Il giudice e l’Antitrust. Quanto self restraint?, cit., 275 e da F. SCIANDONE, Il sindacato del giudice amministrativo in materia antitrust: eventuali asimmetrie con gli orientamenti comunitari, in Foro Amm. TAR, 2003, 1963. La sentenza Tetra Laval è stata impugnata dalla Commissione davanti alla Corte di Giustizia proprio sotto il profilo dell’intensità del sindacato giurisdizionale. La Commissione contesta al Tribunale di non essersi limitato a controllare se essa avesse commesso un « manifesto errore di valutazione », e quindi a verificare se i dati di fatto su cui si fondava la sua valutazione fossero corretti, se le conclusioni tratte da tali dati non fossero manifestamente sbagliate o incongruenti e se tutti i fattori rilevanti fossero stati presi in considerazione. Secondo la Commissione, invece, il Tribunale avrebbe esercitato un controllo molto più incisivo, spingendosi a verificare se le conclusioni della Commissione fossero sorrette da prove o elementi « convincenti ». Il Tribunale avrebbe dunque erroneamente effettuato un tipo di controllo che, se preso alla lettera, avrebbe imposto alla Commissione di « convincerlo » delle sue conclusioni e, di conseguenza, avrebbe consentito a tale giudice di entrare nel merito delle questioni e sostituire il proprio punto di vista a quello della Commissione. Al momento, sono state pubblicate solo le conclusioni dell’Avvocato Generale, che si è espresso nel senso della reiezione del ricorso, pur riconoscendo che, in alcuni passaggi della sentenza, il Tribunale, oltrepassando i limiti del proprio sindacato giurisdizionale, ha erroneamente sostituito il proprio punto di vista a quello della Commissione, formulando alcune autonome valutazioni. Secondo l’Avvocato Generale i giudici comunitari, oltre ovviamente a controllare il rispetto delle regole di diritto, ed in particolare di quelle relative alla procedura ed all’obbligo di motivazione, esercitano un controllo diverso secondo che si tratti della correttezza degli accertamenti di fatto o delle valutazioni economiche della Commissione. Con riferimento agli accertamenti di fatto, il controllo è chiaramente più intenso, in quanto si tratta di verificare in maniera oggettiva l’esattezza di determinati elementi nella loro materialità e la correttezza delle deduzioni operate per stabilire se determinati fatti noti consentano di dimostrare l’esistenza di altri fatti da accertare. Per quanto riguarda invece le valutazioni economiche complesse effettuate dalla Commissione, il controllo dei giudici comunitari è necessariamente più ristretto, in quanto essi debbono rispettare l’ampio potere discrezionale insito in tale tipo di valutazioni e non possono sostituire il loro punto di vista a quello dell’organo cui queste istituzionalmente competono (Causa C-12/03 P, Commissione c. Tetra Laval, Conclusioni dell’Avv. gen. Tizzano del 25 maggio 2004). Vedi, in seguito, l’assoluta somiglianza con i principi affermati dal Consiglio di Stato italiano.


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quindi, dei poteri istruttori del giudice, considerato che la Corte non ha mai messo in discussione, almeno in linea di principio (e pur facendone raro uso), il suo potere di diretta conoscenza dei fatti rilevanti nella causa, quanto invece alla possibilità che il giudice verifichi gli apprezzamenti del fatto (eventualmente anche di natura tecnica) compiuti dall’amministrazione (54). Tale dottrina evidenzia che la Corte di giustizia ha affermato espressamente che il diritto comunitario non prescrive standard di incisività del controllo giurisdizionale sulla valutazione amministrativa degli elementi tecnici, e segnatamente non prevede rimedi giurisdizionali che consentano al giudice di sostituire la sua valutazione degli elementi di fatto a quella dell’autorità amministrativa competente (55). Sotto il profilo dei poteri del giudice, si rileva che i giudici europei fanno raro uso dei poteri istruttori: la prova documentale resta per essi il principale strumento di conoscenza della controversia da parte del giudice. È significativo il fatto che la Corte di Giustizia abbia ritenuto ammissibile la C.T.U. nell’ambito dei giudizi in materia di concorrenza, ma abbia poi utilizzato lo strumento con estrema cautela (56). La dottrina ha anche evidenziato che il ricorso alla Corte in materia di concorrenza comporta il riesame della decisione impugnata, ma non il rifacimento dell’intera procedura condotta dalla (54) D. DE PRETIS, La tutela giurisdizionale amministrativa europea e i principi del processo, cit., la quale esprime le sue considerazioni in termini generali e non con limitato riferimento alla materia antitrust. (55) V. sempre D. DE PRETIS, cit, che richiama Corte Giust., Sentenza 21 gennaio 1999, in causa C-120/97, Upjohn, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1999, 495, con nota di R. CARANTA, Tutela giurisdizionale effettiva delle situazioni soggettive di origine comunitaria ed incisività del sindacato del giudice nazionale (Kontrolldichte), ivi, 503, che sottolinea come in questo modo la Corte abbia perso l’occasione fornitale con il rinvio pregiudiziale da parte del giudice inglese di affrontare più compiutamente le tematiche di diritto sostanziale concernenti l’attività discrezionale della pubblica amministrazione e i connessi problemi del grado di controllo giurisdizionale. (56) Per un caso di utilizzo, vedi Corte Giust, CE, C-89/85, 31-3-93, Woodpulp - Pasta di legno, in cui è stato affidato ai periti l’incarico di accertare alcuni fatti contestati alle imprese e determinate caratteristiche del mercato in esame. Sullo scarso utilizzo dei poteri istruttori in generale da parte della Corte di Giustizia, si vedano i dati riportati in G. FALCON, La tutela giurisdizionale, in M. CHITI-G. GRECO, Trattato di diritto amministrativo europeo, Milano, 1997, Parte Generale, 387, nota 159.


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Commissione e che, quindi, la Corte può tenere conto di nuovi fatti o documenti soltanto se possono servire a confermare i fatti contenuti nella decisione, mentre argomenti del tutto nuovi non possono trovare ingresso, perché su di essi non si sarebbe svolto il contraddittorio nel procedimento amministrativo e perché ci sarebbe la prova che la motivazione della decisione era insufficiente (57). Si può quindi ritenere che, nonostante alcune aperture, la giurisprudenza comunitaria abbia optato per un tipo di sindacato giurisdizionale sugli atti della Commissione, che, pur non fermandosi ad una mera verifica formale del rispetto delle procedure come anche si potrebbe desumere da alcune massime, si spinge fino ad una piena verifica del fatto, riesaminando la valutazione di esso operata dalla Commissione ma senza arrivare ad una sostituzione della valutazione con quella del giudice. 4. Nell’ordinamento italiano il legislatore ha attribuito al giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva, i ricorsi avverso i provvedimenti dell’autorità antitrust, con competenza funzionale in primo grado del Tar del Lazio (58), mentre le azioni di nullità e di risarcimento del danno (59) devono essere promosse davanti al giudice ordinario (alla Corte di appello competente per territorio); si è optato quindi per due diversi giurisdizioni, amministrativa ed ordinaria, competenti rispettivamente per il public e il private enforcement. La scelta del legislatore italiano in favore della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sui ricorsi avverso i provvedimenti dell’autorità antitrust è stata, e continua ad essere, oggetto di critiche e di un ampio dibattito in dottrina. Come è noto, nell’ordinamento italiano, nelle ipotesi di giuri(57) V. FRIGNANI-WAELBROECK, op. cit., 449. (58) La tesi della competenza funzionale, e quindi inderogabile e rilevabile d’ufficio, del Tar del Lazio ai sensi dell’art. 33 della legge n. 287/1990 è condivisa da M. TAVASSI-M. SCUFFFI, Diritto processuale antitrust, Milano, 1998, 152 e da Consiglio Stato, sez. VI, 1 febbraio 1993, n. 132, in Giust. civ., 1993, I, 1124. (59) Si ricorda che le domande di risarcimento del danno proposte nei confronti dell’autorità rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.


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sdizione esclusiva, il giudice amministrativo può essere adito non solo per la tutela degli interessi legittimi, per i quali è ordinariamente competente ai sensi dell’art. 103 della Costituzione, ma anche di diritti soggettivi. Generalmente la scelta per la giurisdizione esclusiva viene motivata con esigenze di certezza, di concentrazione e di economia dei mezzi giuridici in presenza di materie, in cui non è agevole distinguere tra diritti soggettivi ed interessi legittimi, anche se parte della dottrina ha giustificato tale scelta per i provvedimenti dell’Autorità antitrust con ragioni di tipo funzionale, consistenti nella particolare attitudine del giudice amministrativo a valutare complessivamente l’azione dell’amministrazione (60). La dottrina appare ancora più divisa circa la configurabilità di diritti soggettivi o interessi legittimi nei rapporti tra imprese ed Autorità antitrust. Da un parte, si ritiene che in assenza di momenti di natura discrezionale, l’attività provvedimentale risulti deficitaria di qualsiasi effetto degradatorio sulle posizioni giuridiche dei responsabili delle infrazioni, qualificabili quindi senza dubbio come diritti soggettivi, la cui cognizione andrebbe attribuita al giudice ordinario, giudice naturale dei diritti (61); si osserva inoltre che si tratta di diritti soggettivi spesso di rango costituzionale, in presenza dei quali l’autorità garante può solo accertare gli illeciti ed applicare la legge, senza alcuna valutazione di opportunità politica, che nell’esercizio di una funzione neutrale non può mai entrare in gioco (62). Da altro lato, si evidenzia che si tratta di interessi legittimi, in quanto questi sono configurabili non solo in presenza di un potere discrezionale in senso proprio, ma ogni volta che il soddisfacimento di un interesse in senso materiale dipende da un atto auto(60) V. I. MARINO, Autorità garante della concorrenza e del mercato e giustizia amministrativa, in Dir. econ., 1992, 578. (61) GHIDINI-FALCE, Giurisdizione antitrust: l’anomalia italiana, in Merc. Conc. Reg., 1999, 317 ss. (62) G. SCARSELLI, Brevi note sui procedimenti amministrativi che si svolgono dinanzi alle autorità garanti e sui loro controlli giurisdizionali, in Foro it., 2002, III, 488.


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ritativo altrui (63); in particolare, viene rivalutata l’astratta compatibilità dell’interesse legittimo con strutture di potere formalmente vincolate, ma condizionate all’esito di una valutazione secondo discrezionalità tecnica (64). La questione è stata approfondita da Merusi, il quale, pur evidenziando che di fronte a diritti fondamentali (quale la libertà di iniziativa economica) non può esistere un potere discrezionale della pubblica amministrazione, sostiene che l’interesse legittimo non è incompatibile con la nozione di diritto fondamentale ed è anzi configurabile quando si tratta di tutelare un diritto fondamentale nei confronti dell’esercizio del potere (potere che nei procedimenti antitrust è vincolato ai c.d. concetti giuridici indeterminati) (65). Altra dottrina ha, inoltre, sottolineato che, pur essendo sicuramente qualificabili come diritto soggettivi alcune situazioni soggettive coinvolte nei rapporti con il potere dell’autorità antitrust, la libertà di iniziativa economica e di concorrenza, di cui godono i singoli, non vive isolatamente, ma è tenuta ad armonizzarsi con l’interesse generale alla concorrenza, la cui tutela è demandata istituzionalmente all’Autorità; quest’ultima viene ad instaurare una relazione con i privati, assoggettandoli eventualmente ad un complesso di obblighi, idonei a determinare riflessi sulla loro autonomia imprenditoriale e rispetto ai quali vi sarebbe una coesistenza di diritti soggettivi ed interessi legittimi (66). (63) M. LIBERTINI, Il ruolo del giudice nell’applicazione delle norme antitrust, in Giur. comm., 1998, 649; M. CLARICH, Per uno studio sui poteri dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, in Dir. amm., 1993, 99. (64) V. G. DE MINICO, op. cit., 249. (65) F. MERUSI, Giustizia amministrativa ed autorità amministrative indipendenti, in Dir. amm., 2003, 181 ss., il quale evidenzia anche che nell’esercizio delle funzioni demandate all’Autorità antitrust si delinea la sequenza norma-potere-fatto, a volte anche accompagnata dal semplice rapporto di norma-fatto. Il dubbio sulla compatibilità fra la nozione di diritto fondamentale e la nozione di interesse legittimo ha spinto il legislatore a prevedere una generalizzata giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Le osservazioni di Merusi sono condivise ed approfondite da M.E. SCHINAIA, Il controllo giurisdizionale sulle autorità amministrative indipendenti, in Foro amm. Cds, 2003, 3160, contenente una ampia rassegna della giurisprudenza del giudice amministrativo in materia antitrust e delle posizioni della dottrina. (66) RAMAJOLI, op. cit., 364 ss., la quale evidenzia che l’impresa, titolare di un


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In aggiunta alle considerazioni affermate dalla dottrina, si osserva che in alcuni casi l’Autorità antitrust esercita veri e propri poteri discrezionali, come per i provvedimenti di autorizzazione di operazioni di concentrazione vietate, adottabili da parte dell’Autorità antitrust per rilevanti interessi generali dell’economia nazionale ai sensi dell’art. 25 della legge n. 287/1990, sempreché essi non comportino la eliminazione della concorrenza dal mercato o restrizioni alla concorrenza non giustificate dagli interessi generali predetti (67). Tale elemento conferma, quanto meno in tali casi, la configurabilità di posizioni di interesse legittimo ed avvalora la validità della scelta in favore della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in quanto altrimenti comunque vi sarebbe stata per tali provvedimenti la tradizionale giurisdizione di legittimità, sempre del giudice amministrativo. Peraltro, si è in presenza certamente di posizioni di interesse legittimo con riferimento alla situazione del denunciante, controinteressato rispetto al comportamento anticoncorrenziale, che contesti il mancato esercizio dei poteri repressivi da parte deldiritto soggettivo all’esercizio della sua attività, si trova a vantare anche interessi legittimi in alcuni casi in cui entra in rapporto con l’Autorità antitrust, come nell’ipotesi di interventi inibitori o ripristinatori adottati nei suoi confronti. Ramajoli parla espressamente non di un affievolimento del diritto soggettivo ma della coesistenza di diritti soggettivi ed interessi legittimi, che costituisce la ragione della previsione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, chiamato a conoscere di un blocco di situazioni giuridiche, che non ha nessun senso separare tra di loro, a causa della difficoltà e soprattutto dell’inutilità di siffatta operazione. Riguardo la tutela obiettiva del libero mercato, non limitata alla garanzia delle posizioni individuali degli operatori economici, vedi M.E. SCHINAIA, Il giudice e le Autorità indipendenti, in Cons. Stato, 2002, II, 1861. (67) La dottrina riconosce la sussistenza di poteri discrezionali in questa ipotesi ed in quella prevista dall’art. 4 della legge n. 287/1990 provvedimenti di deroga al divieto di intese restrittive della concorrenza; v. M. ANTONIOLI, Giudice amministrativo e diritto antitrust: un dibattito ancora aperto, in Giust. civ., 2001, 97, il quale sottolinea che la piena cognizione del giudice ordinario sui provvedimenti dell’Autorità antitrust richiederebbe non già la mera abrogazione dell’art. 33, comma 1, della legge n. 287/ 1990, bensı̀ il riconoscimento al giudice ordinario di una giurisdizione esclusiva, con l’attribuzione della tutela anche di interessi legittimi (con profili di possibile contrasto con gli artt 103 e 113 della Costituzione). Nel senso della natura discrezionale del potere esercitato dall’autorità antitrust nelle due ipotesi descritte, vedi anche, Cons. Stato, VI, n. 2199/2002 (punto 1.3.1.), in Foro it., 2002, III, 482.


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l’Autorità (l’inerzia, l’archiviazione di una denuncia o l’autorizzazione di una concentrazione) (68). Le divisioni della dottrina sulla qualificazione come diritti soggettivi o come interessi legittimi delle posizioni dei soggetti con cui entra in rapporto l’Autorità antitrust confermano la validità della scelta del legislatore di rendere non rilevante tale problema di carattere puramente teorico, soprattutto in un settore, quello del diritto antitrust, caratterizzato da una forte esigenza di armonizzazione in sede comunitaria, dove la distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi non è conosciuta. Del resto, la qualificazione nazionale delle situazioni giuridiche soggettive costituisce questione, rispetto alla quale l’ordinamento comunitario è indifferente, in quanto l’obiettivo che questo si pone non è certo quello di appiattire su un unico modello le identità giuridiche di ciascuno Stato membro, ma di garantire l’effettività della tutela giurisdizionale, pur nella valorizzazione dei singoli patrimoni nazionali (69). Ciò che rileva non è quindi né la giurisdizione individuata dal legislatore per i ricorsi avverso i provvedimenti in materia antitrust, né la qualificazione giuridica delle posizioni soggettive coinvolte, ma la qualità della tutela offerta dai singoli ordinamenti. La previsione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo non costituisce allora alcuna « contraddizione comunitaria » (70), considerato che anche il ricorso di annullamento, previsto all’art. 230 del Trattato è modellato sull’azione costitutiva di annullamento esperibile avverso gli atti amministrativi con evidenti affinità tra il giudizio comunitario ed il giudizio amministrativo italiano (71) e considerata anche la piena coerenza con il si(68) Sul punto vedi il successivo par. 6. (69) In questo senso, vedi anche L. MASSELLI, Alcune riflessioni in tema di « conflict of jurisdiction » tra Autorità garante, giudice amministrativo e Commissione nella disciplina della concorrenza, in questa Rivista, 1999, 695. (70) In tal senso, GHIDINI-FALCE, op. cit., 326. (71) In questo senso, GRECO, Profili di diritto pubblico italo-comunitario, in Argomenti di diritto pubblico italo-comunitario, Milano, 1989, 85 e M. ANTONIOLI, Giudice amministrativo e diritto antitrust: un dibattito ancora aperto, cit., 100.


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stema comunitario di un irrinunciabile termine di decadenza per l’impugnazione dei provvedimenti in materia antitrust, previsto anche in sede comunitaria (due mesi) e sulla base di esigenze di certezza che prescindono dalla qualificazione giuridica delle posizioni soggettive (72). Non è quindi casuale che la giurisprudenza amministrativa si sia finora poco soffermata sulla qualificazione giuridica delle posizioni soggettive coinvolte dai provvedimenti dell’Autorità antitrust, ma abbia invece posto la sua attenzione sulla natura e sulle modalità del sindacato giurisdizionale. Il problema sta proprio qui: individuare un tipo di sindacato idoneo a realizzare una tutela effettiva e coerente con il controllo esercitato dalla Corte di Giustizia e dal Tribunale di primo grado sugli atti della Commissione. Rispetto a tale problema l’individuazione del giudice non appare risolutiva, come dimostra il fatto che lo spostamento della giurisdizione verso il giudice ordinario è auspicato da alcuni per consentire un pieno controllo sul merito delle decisioni dell’Autorità antitrust (73) e da altri, perché tale giudice sarebbe più idoneo a preservare i limiti del giudizio sugli atti delle autorità indipendenti senza rischi di sconfinamento nel merito (74). Dall’esame della giurisprudenza del Consiglio di Stato sulla questione del sindacato giurisdizionale sugli atti dell’autorità antitrust emerge chiaramente come il giudice amministrativo, pur seguendo una medesima linea interpretativa, abbia progressivamente approfondito la questione e sia stato mosso dalla ricerca di (72) Anche in sede di giurisdizione esclusiva viene confermata la rilevanza della distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi sotto il profilo dell’applicabilità del termine di decadenza previsto per l’impugnazione dei provvedimenti amministrativi solo in presenza di interessi legittimi, risultando altrimenti applicabile il termine di prescrizione. In materia antitrust, a prescindere da tale qualificazione, appare irrinunciabile la previsione di un termine di decadenza per l’impugnazione dei provvedimenti adottati dall’Autorità garante, proprio per quelle esigenze di certezza che caratterizzano i complessi rapporti economici, su cui si innestano i provvedimenti in questione. (73) GHIDINI-FALCE, op. cit., 323; SCARSELLI, Brevi note sui procedimenti amministrativi che si svolgono dinanzi alle autorità garanti e sui loro controlli giurisdizionali, cit., 492. (74) M. RESCIGNO, Autorità indipendenti e controllo giurisdizionale: un rapporto diffıcile, in Le Società, 2001, 533.


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un punto di equilibrio tra le contrapposte esigenze di garantire l’effettività della tutela giurisdizionale e di evitare che il giudice possa esercitare direttamente un potere che in materia antitrust è invece rimesso all’Autorità garante, la correttezza del cui operato deve essere verificata dal giudice. Nelle prime decisioni in materia, è ricorrente l’affermazione del principio, secondo cui i provvedimenti dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato sono sindacabili, in giudizio, per vizi di legittimità, e non di merito. Purché si rimanga nell’ambito dei vizi di legittimità, il sindacato giurisdizionale non incontra limiti, potendo essere esercitato, oltre che in relazione ai vizi di incompetenza e violazione di legge, anche in relazione a quello di eccesso di potere in tutte le sue forme. Allorché, peraltro, viene dedotto, avverso i provvedimenti dell’Autorità, il vizio di eccesso di potere, il giudice, nell’ambito del suo sindacato, circoscritto alla sola legittimità dell’atto, e non esteso al merito delle scelte amministrative, può solo verificare se il provvedimento impugnato appaia logico, congruo, ragionevole; correttamente motivato e istruito, ma non può anche sostituire proprie valutazioni di merito a quelle effettuate dall’Autorità, e a questa riservate (75). Successivamente, il Consiglio di Stato (76) ha riconfermato tale orientamento, fornendo alcune ulteriori precisazioni e evidenziando che i provvedimenti dell’Autorità antitrust hanno natura atipica e sono articolati in più parti, che corrispondono alle fasi del controllo svolto dall’Autorità: a) una prima fase di accertamento dei fatti; b) una seconda di « contestualizzazione » della norma posta a tutela della concorrenza, che facendo riferimento a « concetti giuridici indeterminati » (quali il mercato rilevante, l’abuso di posizione dominante, le intese restrittive della concorrenza) necessita di una esatta individuazione degli elementi costitutivi dell’illecito contestato (le norme in materia di concorrenza non sono di « stretta interpretazione », ma colpiscono il dato sostanziale costituito dai comportamenti collusivi tra le imprese, (75) Vedi, fra tutte, Cons. Stato, VI, 14 marzo 2000, n. 1348, Italcementi, in Foro amm., 2000, 933. (76) Cons. Stato, VI, 23 aprile 2002, n. 2199, Rc Auto, cit.


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non previamente identificabili, che abbiano oggetto o effetto anticoncorrenziale (77)); c) una terza fase in cui i fatti accertati vengono confrontati con il parametro come sopra « contestualizzato »; d) un’ultima fase di applicazione delle sanzioni, previste dalla disciplina vigente. Ciò premesso, il Consiglio di Stato esclude che il controllo di legittimità possa precludere al giudice amministrativo la verifica della verità del fatto posto a fondamento dei provvedimenti dell’Autorità, in quanto a seguito del progressivo spostamento dell’oggetto del giudizio amministrativo dall’atto al rapporto controverso (pretesa fatta valere, secondo alcuni) deve ormai ritenersi superato quell’orientamento che negava al giudice amministrativo l’accesso diretto al fatto, salvo che gli elementi di fatto risultassero esclusi o sussistenti in base alle risultanze procedimentali. Sulla base di tale orientamento, quindi, i fatti posti a fondamento dei provvedimenti dell’Autorità antitrust possono senza dubbio essere pienamente verificati dal giudice amministrativo sotto il profilo della verità degli stessi; ciò presuppone la valutazione degli elementi di prova raccolti dall’Autorità e delle prove a difesa offerte dalle imprese senza che l’accesso al fatto del giudice possa subire alcuna limitazione. Per quanto concerne le fasi sopra indicate sub b) e c), consistenti nell’individuazione del parametro normativo e nel raffronto con i fatti accertati, in relazione alle quali l’Autorità esercita, almeno in parte, un’attività discrezionale di carattere tecnico e non amministrativo, fondata non su regole scientifiche, esatte e non opinabili, ma in base a scienze inesatte ed opinabili (in prevalenza, di carattere economico) con cui vengono definiti i « concetti giuridici indeterminati », la tutela giurisdizionale, per essere effettiva, non può limitarsi ad un sindacato meramente estrinseco, ma deve consentire al giudice un controllo intrinseco, avvalendosi eventualmente anche di regole e conoscenze tecniche appartenenti alla medesima scienza specialistica applicata dall’amministrazione. (77) V. sul punto Cons. Stato, VI, n. 1189/2001, Rischi Comune Milano, in Cons. Stato, 2001, I, 554.


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Il passaggio ad un controllo intrinseco assume una notevole importanza e conduce il giudice amministrativo a sindacare la stessa analisi economica svolta dall’Autorità, seppur con alcuni limiti, che nella decisione vengono qualificati in termini di « sindacato di tipo debole », nel senso che non consente un potere sostitutivo del giudice tale da sovrapporre la propria valutazione tecnica opinabile o il proprio modello logico di attuazione del « concetto indeterminato » all’operato dell’Autorità (78). In altra decisione, immediatamente successiva, il Consiglio di Stato (79) ha ribadito il pieno accesso al fatto da parte del giudice ed ha confermato che la valutazione complessa (80) in funzione dell’applicazione di concetti giuridici indeterminati, posta in essere dall’Autorità, è soggetta ad un sindacato di tipo « debole ». I descritti limiti del sindacato sono stati giustificati anche a causa della particolare rilevanza degli interessi rimessi, proprio per la loro importanza, alla tutela dell’Autorità antitrust, organo caratterizzato da specifica composizione tecnica, posto in posizione di particolare indipendenza e che esercita poteri neutrali, al di fuori del circuito dell’indirizzo politico. La qualificazione del controllo giurisdizionale come sindacato « di tipo debole » è stata oggetto di numerose critiche da parte della dottrina che ha ritenuto l’intervento del Consiglio di Stato di carattere prevalentemente restauratore, di sostanziale conferma di (78) Nella sentenza viene affermato che il giudice amministrativo non può, quindi, sostituire le proprie valutazioni a quelle dell’Autorità; esemplificando, il giudice non può sostituire l’individuazione del mercato rilevante operata dall’Autorità, ma può verificarne la correttezza secondo quanto detto in precedenza; parimenti il giudice non può sostituire la specificazione del parametro normativo violato a quella dell’Autorità, né può modificare l’impostazione dell’indagine, e quindi del provvedimento, ma solo verificarne la legittimità. L’impostazione generale seguita dall’Autorità nello svolgere una determinata indagine e nelle conseguenti valutazioni ad essa rimesse non può quindi essere modificata dal giudice, cui spetta solo il compito di verificarne la legittimità, anche sotto il profilo delle regole tecniche applicate. (79) Cons. Stato, VI, 1 ottobre 2002, n. 5156, Enel/Infostrada, in Foro amm. CDS, 2002, 2505. (80) La categoria delle valutazioni complesse, per lo più volte all’applicazione di concetti giuridici indeterminati, è costituita da quelle valutazioni in cui è dato registrare sovente una contestualità cronologica ed una parziale sovrapposizione logica tra il momento della valutazione tecnica e la ponderazione dell’interesse pubblico, e più in generale la fusione dei due momenti in un procedimento logico unitario.


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orientamenti pregressi, in cui ad alcune aperture affermate in astratto non ha fatto seguito una corretta applicazione, ma il rifiuto di valersi di conoscenza tecniche (81). La qualificazione del sindacato come debole è stata inoltre ritenuta non compatibile con le posizioni di diritto soggettivo coinvolte nell’esercizio dei poteri dell’Autorità, che imporrebbe che il controllo giurisdizionale investa l’intero rapporto giuridico intercorso tra le parti e non sia limitato alla mera valutazione della legittimità dell’atto impugnato (82). Di recente, il percorso della giurisprudenza amministrativa sembra aver trovato un definitivo approdo in altra decisione, con cui ulteriori precisazioni sono state rese all’espresso fine di « di fugare i dubbi riguardo l’effettività della tutela giurisdizionale » (83). Il Consiglio di Stato ha precisato che, nonostante la qualificazione come esclusiva della giurisdizione del G.A., questa resta una « giurisdizione che agisce quale istanza di ricorso », secondo la definizione di cui al il Regolamento CE n. 1/2003, in cui al giudice spetta di verificare se il potere spettante all’Autorità antitrust sia stato correttamente esercitato. Ciò premesso, il massimo organo della giustizia amministrativa si affretta anche a precisare come anche nel modello impugnatorio il sindacato giurisdizionale sia oggi particolarmente penetrante e, nelle controversie in materia antitrust, si estenda sino al controllo dell’analisi economica compiuta dall’Autorità (potendo sia rivalutare le scelte tecniche compiute da questa, sia applicare la corretta interpretazione dei concetti giuridici indeterminati alla fattispecie concreta in esame). Nella preoccupazione che la definizione del sindacato « di (81) R. CARANTA, I limiti del sindacato del giudice amministrativo sui provvedimenti dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, in Giur. Comm., 2003, 170. (82) G. SCARSELLI, Brevi note sui procedimenti amministrativi che si svolgono dinanzi alle autorità garanti e sui loro controlli giurisdizionali, in Foro it., 2002, III, 488. (83) Cons. Stato, VI, 2 marzo 2004 n. 926, Buoni pasto Consip, in www.lexfor.it e in Diritto e formazione, 2004, 997 con nota di D. DE PRETIS, Antitrust, valutazioni tecniche e controllo giurisdizionale.


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tipo debole » possa essere interpretata come limitativa dell’effettività della tutela giurisdizionale, il Consiglio di Stato precisa che con tale espressione non ha inteso limitare il proprio potere di piena cognizione sui fatti oggetto di indagine e sul processo valutativo, mediante il quale l’Autorità applica alla fattispecie concreta la regola individuata, ma ha voluto solo porre un limite finale alla statuizione del giudice, il quale, dopo aver accertato in modo pieno i fatti ed aver verificato il processo valutativo svolto dall’Autorità in base a regole tecniche, anch’esse sindacate, se ritiene le valutazioni dell’Autorità corrette, ragionevoli, proporzionate ed attendibili, non deve spingersi oltre fino ad esprimere proprie autonome scelte, perché altrimenti assumerebbe egli la titolarità del potere. Il giudice non può sostituirsi ad un potere già esercitato, ma deve solo stabilire se la valutazione complessa operata nell’esercizio del potere debba essere ritenuta corretta sia sotto il profilo delle regole tecniche applicate, sia nella fase di « contestualizzazione » della norma posta a tutela della concorrenza che nella fase di raffronto tra i fatti accertati ed il parametro « contestualizzato » (84). Il Consiglio di Stato sembra quindi voler superare la terminologia « sindacato forte o debole », per porre l’attenzione unicamente sulla ricerca di « un sindacato tendente ad un modello comune a livello comunitario, in cui il principio di effettività della tutela giurisdizionale sia coniugato con la specificità di controversie, in cui è attribuito al giudice il compito non di esercitare un (84) Ciò che ad una giurisdizione di ricorso è precluso è di modificare l’impostazione generale seguita dall’Autorità nello svolgere una determinata indagine e nelle conseguenti valutazioni ad essa rimesse e tale preclusione costituisce una garanzia per le stesse imprese, che non rischiano di vedere confermata la sanzione sulla base di una impostazione diversa rispetto a quella avverso cui si sono difese nel procedimento. Qualora il giudice ritenga che la valutazione non è corretta e che tale vizio abbia una portata invalidante sull’intero provvedimento, annullerà il provvedimento impugnato. L’assenza di poteri sostitutivi comporta, quindi, unicamente l’impossibilità di impostare in modo diverso l’indagine svolta dall’Autorità e di accertare in sede giurisdizionale se tale diversa impostazione sia compatibile con le infrazioni accertate dall’Autorità e possa, in caso di risposta affermativa, condurre ugualmente all’irrogazione di sanzioni. Ad esempio, se le prove acquisite dall’Autorità nel corso dell’istruttoria non sono sufficienti a dimostrare la sussistenza dell’intesa, ulteriori elementi probatori non possono essere acquisiti dal giudice al fine di confermare la sanzione irrogata.


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potere in materia antitrust, ma di verificare — senza alcuna limitazione — se il potere a tal fine attribuito all’Autorità antitrust sia stato correttamente esercitato ». Si osserva che in una prospettiva di armonizzazione con il sistema comunitario (oggi imposta a seguito del processo di applicazione decentrata del diritto comunitario della concorrenza, avviato dal citato regolamento CE n. 1/2003), appare preferibile raffrontare non gli istituti o le terminologie giuridiche (sindacato « debole » o « forte »; interesse legittimo /diritto soggettivo), ma comparare i modi attraverso cui i problemi vengono risolti. Il descritto percorso evolutivo della giurisprudenza amministrativa ha condotto il giudice amministrativo italiano ad affrontare la questione del sindacato giurisdizionale degli atti dell’Autorità con modalità che appaiono molto simili a quelle del giudice comunitario che si sono descritte in precedenza e che si pongono in linea con gli standard di tutela riconosciuti a livello comunitario. È anche vero che, come ricordato in precedenza, al di là delle affermazioni di principio sopra descritte, i giudici comunitari hanno in realtà analizzato molto spesso in modo accurato le analisi economiche svolte dalla Commissione; ma ciò è quanto sembra aver cominciato a fare anche il giudice amministrativo (85). Anche nella materia antitrust, quindi, si è avviata la c.d. « co-

(85) Ad esempio, nella citata decisione n. 5156/2002 (Enel/Wind-Infostrada), il Consiglio di Stato ha esaminato l’analisi economica compiuta dall’Autorità, annullando le misure correttive degli effetti anticoncorrenziali di una determinata operazione di concentrazione sulla base di un « penetrante » sindacato sulla assenza di proporzionalità ed adeguatezza delle misure rispetto all’esigenza di evitare le conseguenze negative sul piano concorrenziale dell’operazione. In quella fattispecie, la VI Sezione ha in concreto dimostrato di non incontrare alcun limite nell’esercizio del proprio sindacato giurisdizionale e l’assenza di poteri sostitutivi ha comportato solamente che non fosse il giudice a rideterminare le prescrizioni cui condizionare l’assenso all’operazione di concentrazione, ma che la definizione della fattispecie sostanziale oggetto del provvedimento impugnato spettasse, in sede di riesercizio del potere e con i vincoli derivanti dal giudicato, all’Autorità, cui il legislatore ha demandato l’esercizio di tali delicati poteri (all’interno di un procedimento amministrativo, caratterizzato da particolari garanzie di contraddittorio).


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munitarizzazione » del giudizio amministrativo, auspicata da tempo da parte della dottrina (86). Le menzionate precisazioni fornite dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato escludono limiti alla tutela giurisdizionale dei soggetti coinvolti dall’attività dell’Autorità antitrust, individuando quale unica preclusione l’impossibilità per il giudice d esercitare direttamente il potere rimesso dal legislatore all’autorità garante. Peraltro, va anche evidenziato come ormai nel giudizio amministrativo (sia di legittimità, che in sede di giurisdizione esclusiva) non esiste più alcuna limitazione per il giudice di carattere processuale, la cui sussistenza veniva in passato invocata a fondamento della limitazione del sindacato del giudice amministrativo. Come più volte ribadito nelle citate decisioni del Consiglio di Stato, nell’esercizio del sindacato sui provvedimenti dell’Autorità antitrust è ammissibile in astratto l’utilizzo della consulenza tecnica, ma tramite tale mezzo probatorio può essere delegato al consulente l’accertamento sotto il profilo tecnico di un ben individuato presupposto del fatto o comunque gli potrà essere chiesto un ausilio finalizzato ad ampliare la conoscenza del giudice con apporti tecnico-specialistici (ben delimitati nel quesito) appartenenti a campi del sapere caratterizzati da obiettiva difficoltà. Parte della dottrina non ha mancato di evidenziare come in realtà, nonostante le affermazioni di principio, la consulenza tecnica non sia stata disposta dal giudice amministrativo nei giudizi in materia antitrust (87). Al riguardo, è significativo il fatto che la Corte di Giustizia (86) GRECO, op. cit., 86, il quale osserva che attraverso il modulo del giudizio di annullamento dell’atto, la giurisdizione comunitaria penetra a fondo la sostanza del rapporto tra le parti. Anche se è stato osservato che la configurazione di un processo sull’atto anziché sul rapporto rende meno satisfattiva la tutela degli interessi legittimi di tipo pretensivo e non anche quella degli interessi legittimi di tipo oppositivo, fra i quali vanno ricompresi quelli riconoscibili in capo alle imprese, destinatarie dell’attività provvedimenale dell’Autorità antitrust (M. ANTONIOLI, op. cit., 101). (87) R. CARANTA, I limiti del sindacato del giudice amministrativo sui provvedimenti dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, cit. In senso contrario, F. MERUSI, Giustizia amministrativa ed autorità indipendenti, cit., 191, evidenzia che di fronte alla enfatizzazione del ruolo della CTU nel processo amministrativo e, in particolare, nei giudizi aventi ad oggetto gli atti delle autorità indipendenti, viene spontaneo osservare che il giudice ordinario, dotato di giurisdizione speciale in ordine ad atti ana-


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abbia ritenuto ammissibile la C.T.U. nell’ambito dei giudizi in materia di concorrenza, ma abbia poi utilizzato lo strumento con estrema cautela, come già evidenziato in precedenza. Inoltre, non può essere ignorato che l’estrema parsimonia, con cui i giudici utilizzano lo strumento della consulenza tecnica, dipende anche dal fatto che probabilmente spesso i giudici si sono posti il problema pratico di trovare, in presenza di casi rilevanti, un consulente che desse adeguate garanzie sotto profilo dell’autonomia. Si osserva che al problema dell’assenza in capo ai giudici delle necessarie competenze in campo economico e della verifica dell’esistenza di idonei strumenti per supplire a tale mancanza si è cercato di dare risposta in diversi modi: a fronte di innovative proposte, quali l’introduzione di un consigliere economico del giudice (previsto in Scozia) o di integrazione dei collegi tramite esperti economici (88), a volte il c.d. adversary system, basato sulla contrapposizione dei consulenti economici delle parti, funziona bene e risulta adeguato per far emergere le eventuali distorsioni dovute ad analisi non corrette, come avviene negli Stati Uniti dove spesso non viene utilizzata dal giudice la possibilità di nominare esperti (89). In conclusione, gli sforzi della giurisprudenza amministrativa sembrano oggi indirizzati verso un sindacato sugli atti dell’Autorità antitrust che sia effettivo ed omogeneo con quello svolto dalla Corte di giustizia. Il dibattito sulla natura di tale sindacato appare invece a volte risentire della ricerca di qualificazioni e categorie giuridiche, non sempre appropriate tenuto conto dell’atipicità dei poteri esercitati dall’Autorità. loghi (le sanzioni bancarie) non ha mai accolto, affermando sempre che non era necessaria, una richiesta di consulenza tecnica in oltre mezzo secolo (tanto è durata la giurisdizione della Corte di Appello di Roma su tali controversie). (88) L’integrazione del collegio giudicante sui ricorsi avverso gli atti delle autorità indipendenti con esperti in campo economico è contenuta in una delle versioni dello schema di disegno di legge sulla riforma delle autorità indipendenti, ancora non approvato dal Consiglio dei Ministri. (89) Vedi sul punto, F. GHEZZI, Il libro bianco della Commissione sulla modernizzazione del diritto della concorrenza comunitario, cit., nota 164, che richiama al riguardo le vicende Microsoft e Visa/Mastercard ed ulteriore dottrina sul punto.


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La lamentata mancanza di un sindacato di merito sugli accertamenti compiuti dall’Autorità trascura il fatto che questa da un lato deve raffrontare i fatti accertati con un parametro non compiutamente descritto dalla legge e dall’altro non esercita però alcun potere di merito, di valutazione dell’opportunità di un determinato comportamento tenuto dalle imprese sul mercato (90). Anche quando vengono imposte dall’Autorità misure dirette ad eliminare gli effetti distorsivi di un determinato comportamento sul mercato, non vi è alcuna necessità di sindacare tali misure sotto il profilo dell’opportunità, in quanto al giudice sarà chiesto di valutare l’idoneità funzionale della misura e il giudice amministrativo ben può verificare se la misura sia idonea a recuperare l’operazione alla liceità ed anche se il sacrificio imposto sia proporzionato rispetto al fine da raggiungere o se invece questo poteva essere conseguito tramite altra misura di minore impatto. L’esorbitanza della misura integrerà una deviazione del potere dalla funzione sua propria e quindi uno dei classici vizi tradizionalmente sindacati dal giudice amministrativo: lo sviamento di potere (91). Ad esempio, incapperebbe nel vizio di sviamento di potere l’Autorità antitrust, se nello svolgimento dell’attività di adjudication, fosse tentata di imporre prescrizioni, dettate allo sviato fine di introdurre in via amministrativa quelle misure proposte e non accolte da chi svolge l’attività di rule making (92). La giurisprudenza del giudice amministrativo, quindi, non ri(90) Considera riduttiva la contrapposizione tra legittimità e merito ed in ogni caso inidonea a risolvere il problema dell’intensità del sindacato giurisdizionale sugli atti dell’Autorità antitrust, P. LAZZARA, Discrezionalità tecnica e risarcimento del danno, in Diritti, interessi ed amministrazioni indipendenti (Atti del Convegno - Siena 31 maggio e 1 giugno 2003), Milano, 2003, 163). (91) Ipotizza una rivitalizzazione del vizio dello sviamento di potere, F. MERUSI, Giustizia amministrativa ed autorità amministrative indipendenti, in Dir. amm., 2003, 198. (92) In sede di autorizzazione di operazioni di concentrazione relative ai mercati in fase di liberalizzazione, può accadere che tra le prescrizioni cui condizionare l’operazione, siano prese in esame anche misure proposte dalla stessa Autorità al legislatore e da questo non accolte. Sulla necessità di tenere distinte le due attività, di decisione e di regolazione, vedi F. DENOZZA, Discrezione e deferenza: il controllo giudiziario sugli atti delle autorità indipendenti regolatrici, cit., 486.


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conosce oggi alcun ambito di attività « riservato » all’Autorità e non sindacabile in modo effettivo dal giudice; ciò che è riservato all’Autorità, cui non può sostituirsi il giudice, è il diretto esercizio del potere, rispetto al quale il compito del giudice è quello di valutane la correttezza, sotto tutti i profili, anche sotto quello dell’analisi economica applicata. 5. Le Autorità antitrust possono irrogare alle imprese sia sanzioni ripristinatorie sia sanzioni afflittive (93). Com’è noto, a differenza delle sanzioni afflittive, che sono dirette a punire in modo immediato il comportamento illecito del soggetto agente, le c.d. sanzioni ripristinatorie non assumono, in realtà, carattere sanzionatorio, poiché, più che a punire l’autore dell’illecito, mirano a soddisfare interessi pubblici (94). La misura ripristinatoria prevista dalla legge antitrust si sostanzia nella diffida alla rimozione dell’infrazione (la cui effettività è rafforzata dalla presenza di sanzioni amministrative pecuniarie nel caso di gravità e perduranza dell’illecito (95)). Le sanzioni afflittive previste dalla legge n. 287/1990 si sostanziano, a loro volta, in sanzioni pecuniarie ed interdittive. Le prime riguardano: i casi di infrazione grave alla normativa sulle intese e sull’abuso di posizione dominante; l’inottemperanza alla diffida dell’Autorità; l’omissione o rifiuto di fornire informazioni richieste o di esibire documenti o, ancora, la produzione o esibizione di documenti falsi (art. 14, comma 5); l’inottemperanza al divieto di concentrazione o all’obbligo di notifica. La sanzione (93) Le sanzioni che l’Autorità antitrust italiana può irrogare alle imprese sono disciplinate dagli artt. 14 e 15 della legge 287/90. Queste norme prevedono sia sanzioni (rectius misure) ripristinatorie sia sanzioni afflittive, nell’ambito di un meccanismo complessivo improntato ad un criterio di progressione temporale, volto ad ottenere, per successive approssimazioni ingiuntive-repressive, la desistenza del comportamento vietato (v. P. AQUILANTI, Poteri dell’Autorità in materia di intese restrittive della libertà di concorrenza e di abuso di posizione dominante, in Diritto antitrust italiano, volume II, Bologna, 1993, 890). (94) E. CASETTA, Sanzione amministrativa, in Digesto delle discipline pubblicistiche, XIII, Torino, 1997, 598. (95) Per la configurazione della diffida dell’Autorità antitrust come sanzione ripristinatoria, si veda, da ultimo, Cons. di Stato, sezione VI, 23 aprile 2002 n. 2199, in Foro it., 2002, III, 482.


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interdittiva, consistente nella sospensione dell’attività di impresa, si applica, invece, nei casi di reiterata inottemperanza. Nell’ordinamento italiano in base alla distinzione tra sanzioni afflittive e ripristinatorie opera il riparto della giurisdizione tra giustizia ordinaria e amministrativa (giudice amministrativo per le sanzioni ripristinatorie e giudice ordinario per le sanzioni afflittive) (96). Per quanto concerne le sanzioni previste dalla disciplina antitrust italiana, si era in passato posta la questione del difficile coordinamento tra l’art. 33 della legge 10 ottobre 1990 n. 287, che devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativa i ricorsi avverso i provvedimenti adottati dall’Autorità antitrust e l’art. 31 della stessa legge, che contiene un richiamo alla legge 24 novembre 1981, n. 689 (97), che attribuisce al giudice ordinario le controversie in materia di opposizione alle ordinanze ingiunzioni che comminano sanzioni amministrative pecuniarie. La questione è stata ormai chiarita nel senso della prevalenza della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo a partire dalla sentenza della Cassazione a sezioni unite del 5 gennaio 1994, n. 52, che ha evidenziato come il richiamo alla legge 689/81 è limitato alle sole disposizioni sostanziali, e non alle norme in materia di giurisdizione (98). Ulteriore problema interpretativo era costituito dai limiti del (96) Il diverso riparto di giurisdizione si giustifica sul fatto che le sanzioni amministrative c.d. ripristinatorie o restitutorie sono rivolte a realizzare il medesimo interesse pubblico al cui soddisfacimento è preordinata la funzione amministrativa assistita dalla sanzione; in questi casi la posizione soggettiva ha natura e consistenza di interesse legittimo. Le sanzioni amministrative afflittive o punitive sono invece destinate a garantire solo il rispetto della norma posta a tutela dell’interesse pubblico e — poiché è esclusa ogni discrezionalità in ordine alla loro irrogazione se non quanto alla misura — la contestazione dell’intimato si risolve nel dedurre il proprio diritto soggettivo a non subire l’imposizione di prestazioni patrimoniali fuori dei casi espressamente previsti dalla legge; queste danno luogo appunto a posizioni di diritto soggettivo, tutelabili innanzi al giudice ordinario (Cfr., Cass. sez. un., 3 febbario 1989, n. 660, in Foro it., 1989, I, 1076; Consiglio di Stato, sez. IV, 5 febbraio 1999, n. 112, in Foro amm., 1999, 314). (97) La norma, testualmente, cita « Per le sanzioni amministrative pecuniarie conseguenti alla violazione della presente legge si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni contenute nel capo I, sezioni I e II, della legge 24 novembre 1981, n. 689 ». (98) Cass., sez. un, 5 gennaio 1994, n. 52, in Foro it., 1994, I, 732, con nota di A. BARONE. Nella decisione viene anche evidenziato che nella legge n. 287 del 1990


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sindacato giurisdizionale ed, in particolare, dall’applicabilità dell’art. 23, comma 11, della legge n. 689/1981, che prevede che il potere del giudice di annullare in tutto o in parte (l’ordinanza) o di modificarla anche limitatamente all’entità della sanzione dovuta. Il Consiglio di Stato ha aderito alla tesi dell’applicabilità del citato art. 23 e della conseguente giurisdizione di merito sulle sanzioni pecuniarie irrogate dall’Autorità, richiamando sia il principio di legalità, che tutela il diritto del privato a non subire imposizioni patrimoniali al di fuori dei casi previsti dalla legge (art. 23 Cost.), sia la compatibilità con i principi della legge n. 287/ 1990 dell’art. 23 della legge n. 689/1981, sia infine la diversità del potere esercitato dall’Autorità per l’applicazione di una sanzione amministrativa tipicamente punitiva, quale quella pecuniaria. In alcune decisioni, il Consiglio di Stato ha ritenuto non grave l’illecito commesso dalle imprese e quindi non sanzionabile con la pena pecuniaria, mentre in altri casi ha censurato l’entità della sanzione irrogata, modificandone l’importo (99). Anche in questo caso il riconoscimento di tale tipo di sindal’atto con cui l’Autorità infligge le sanzioni pecuniarie viene testualmente indicato con il termine « provvedimento » (v. art. 14, comma 5), e che nelle fattispecie di illecito di maggior rilievo l’atto medesimo non è di mera applicazione della sanzione, volto, cioè, alla quantificazione ed alla riscossione di un credito sorto ex lege in conseguenza della operazione vietata, ma ha un contenuto complesso, che gli attribuisce i caratteri del provvedimento amministrativo in senso proprio, con esercizio di poteri autoritativi discrezionali spettanti all’Autorità per la cura degli interessi pubblici ad essa istituzionalmente attribuiti. Sulla questione e più in generale sulla problematica della sanzioni, vedi E. BANI, Il potere sanzionatorio delle Autorità indipendenti, Torino, 2000. (99) Nel caso Rc Auto, il Consiglio di Stato ha ritenuto non grave uno scambio di informazioni, intercorso tra le compagnie assicurative minori e più limitato rispetto a quello organizzato dalle imprese più grandi, e conseguentemente ha annullato la sanzione pecuniaria irrogata dall’Autorità antitrust (Cons. Stato, n. 2199/2002, cit.); mentre nel caso Rai ha modificato la sanzione irrogata dall’Autorità, riducendola di un terzo (Cons. Stato, VI, n. 2869 del 24 maggio 2002). Recentemente, il Consiglio di Stato ha nuovamente fatto esercizio dei propri poteri di modifica dell’entità della sanzione riducendo dal 4% al 2% del fatturato una sanzione irrogata ad Italgas per l’inottemperanza ad un precedente provvedimento della stessa Autorità (Cons. Stato, VI, 2 agosto 2004, n. 5368). Una riduzione della sanzione dal 3% all’1% del fatturato delle imprese è stata effettuata da Tar Lazio, 2 agosto 2002, n. 6929, in Foro amm. Tar, 2002, 2903, con nota di M. BONINI, Potere sanzionatorio dell’autorità antitrust e giudizio amministrativo. Afferma la possibilità del giudice di ridurre la sanzione, in ipotesi di riscontro di una ille-


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cato giurisdizionale è coerente con i principi affermati in materia dalla giurisprudenza comunitaria, che ha sempre ritenuto la sussistenza di una competenza di merito del giudice, che consenta anche la modifica delle sanzioni irrogate dalla Commissione (100); ed è anche coerente con le prospettive di armonizzazione del diritto della concorrenza, citate in precedenza, tenuto conto che l’art. 31 del reg. CE n. 1/2003 prevede che la Corte di Giustizia possa estinguere, ridurre o aumentare le ammende irrogate dalla Commissione, qualificando tale competenza giurisdizionale « di merito » (101). Al riguardo, va segnalata la singolarità della disposizione nella parte in cui è prevista la possibilità di aumento della sanzione, che, se intesa in senso letterale, si porrebbe in contrasto con il principio della domanda e della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato. Unica possibilità di rendere compatibile la norma con il suddetto principio è riferirla alla possibile domanda di altra parte del giudizio, che è però difficile che possa essere la Commissione, che ha stabilito l’entità dell’importo in sede amministrativa, mentre si potrebbe ipotizzare una domanda in tal senso di soggetti controinteressati, che ritengono esigua la sanzione inflitta (102). gittimità o una inopportunità dell’operato dell’autorità amministrativa, operato che, pertanto, è sindacabile da parte del giudice amministrativo in caso di violazione di legge, illogicità, travisamento dei fatti, ed anche iniquità (Cons. Stato, VI, 20 marzo 2001, n. 1671, Caldaie, punto 12.3.1, in Dir. e giust., 2001, 81). Fa espresso riferimento ad un sindacato di merito: Cons. Stato, VI, 30 agosto 2002, n. 4362, in Foro amm. CDS, 2002, 1837. La correlazione tra diversità del sindacato e diversità dei poteri esercitati dall’autorità nei procedimenti antitrust è evidenziata da A. LALLI, Il sindacato giurisdizionale sui provvedimenti dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, in Giorn. dir. amm., 2003, 358. (100) V. Trib. Ce, 11 marzo 1999, T-141/94, Thyssen Stahl AG, par. 646 e 674 e Corte Giust. CE, 16 novembre 2000, C-291/98, Sarriò-Cartoncino, par. 70-71. (101) Peraltro, anche nel sistema francese è prevista la possibilità di riforma delle sanzioni pecuniarie irrogate dal Conseil de la concurrence. V. S. LICCIARDELLO, op. cit., 119. (102) In questo senso, G. FALCON, La tutela giurisdizionale, cit., 363, nota 84; A. FRIGNANI-M. WAELBROECK, Disciplina della concorrenza nella CE, cit., 440, evidenziano che, nonostante il richiamo nelle massime del potere di modificare la sanzione anche in aumento, mai la Corte di Giustizia e il Tribunale di primo grado hanno proceduto in tale senso, riportando anche i dubbi della dottrina sulla possibilità di una reformatio in peius.


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La riconosciuta possibilità (sia per il giudice comunitario che per i giudici interni) di modificare l’importo della sanzione fa emergere l’esigenza che il controllo giurisdizionale, benché esteso al merito, avvenga attraverso la verifica della congruità e della correttezza dei criteri utilizzati dall’Autorità per determinare l’importo delle sanzioni. È nota la giurisprudenza comunitaria, secondo cui in una decisione di irrogazione di ammende a molteplici imprese per un’infrazione alle norme comunitarie che disciplinano la concorrenza, l’obbligo di motivazione non comporta la redazione di un elenco vincolante o esauriente dei criteri tenuti in considerazione (103); inoltre, nel fissare l’importo di ciascuna ammenda, la Commissione dispone di un margine di discrezionalità e non la si può considerare tenuta ad applicare, a tale scopo, una formula matematica precisa (104). Tuttavia, nei casi citati gli organi di giustizia comunitaria hanno anche ritenuto che, se è auspicabile che le imprese interessate e, ove necessario, il Tribunale siano messi in condizioni di controllare che il metodo di calcolo utilizzato e i passaggi seguiti dalla Commissione siano privi di errori e compatibili con le disposizioni e i principi applicabili in materia di ammende, in particolare con il divieto di discriminazioni, deve tuttavia consentirsi la spiegazioni dei criteri utilizzati da parte della Commissione in corso di giudizio. In ogni caso, l’assenza di idonea motivazione circa la quantificazione della sanzione non comporta l’annullamento della sanzione, ma la verifica della congruità della stessa da parte del giudice, che sul punto esercita un sindacato pieno, come descritto in precedenza. Sia in sede comunitaria, che sulla base della disciplina italiana i margini di discrezionalità nel determinare l’entità della sanzione da irrogare risultano oggi maggiori, tenuto conto della vigente disciplina che individua solo una percentuale massima della san(103) Corte Giust. CE, ord. 25 marzo 1996, causa C-137/95 P, SPO, punto 54. (104) Trib. CE, 6 aprile 1995, causa T-150/89, Martinelli, punto 59; 11 marzo 1999, Thyssen Stahl, cit., punti 605 e ss.


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zione (10%) da rapportare al fatturato totale realizzato dalle imprese (105). Le nuove disposizioni implicano la necessità di una più adeguata motivazione della quantificazione della sanzione pecuniaria da irrogare, attraverso l’indicazione di criteri di ordine generale, come effettuato dalla Commissione o in alternativa mediante specifiche e più approfondite spiegazioni relative ai singoli casi anche confrontati con le sanzioni già irrogate. L’avviato processo di armonizzazione del diritto comunitario della concorrenza e la creazione di una « rete » composta dalla Commissione e dalle singole autorità nazionali aumenta l’esigenza di una uniformità nell’intero sistema anche nei criteri di quantificazione delle sanzioni al fine di evitare che vi siano maglie più larghe della rete e che la quantificazione venga decisa caso per caso con intervento poi del giudice, anche esso privo di uniformità (106). Inoltre, l’aver previsto come limite il 10% del fatturato totale comporta margini molto ampi di quantificazione, soprattutto per le imprese maggiori; i suddetti criteri orientativi dovrebbero prevedere i necessari correttivi nei casi in cui il comportamento anticoncorrenziale si verifica in attività marginali di grandi imprese (107). Nell’ordinamento italiano tale uniformità deve riguardare anche il requisito della gravità degli illeciti, richiesto dall’art. 15 della legge n. 287/1990 per la applicabilità della sanzione pecuniaria. Non va trascurata, infine, l’esigenza di dare certezza ad ogni soggetto che opera sul mercato circa la liceità o meno di determinati comportamenti, tenuto conto della difficoltà di tipizzare i (105) Come è noto, l’art. 15 della legge n. 287/90, è stato modificato dall’art. 11, comma 4 della legge n. 57/2001, con cui è stato ampliato il margine di discrezionalità dell’Autorità attraverso l’eliminazione di una percentuale minima della sanzione, rapportata ora all’intero fatturato dell’impresa. Analoga disposizione è contenuta nell’art. 23 del Reg. CE n. 1/2003. (106) Si ricorda che la Commissione ha adottato « Orientamenti per il calcolo delle ammende inflitte in applicazione dell’art. 15, paragrafo 2 del regolamento n. 17 e dell’articolo 65, par. 5, del trattato CECA » in GUCE n. 9 del 14 gennaio 1998. (107) V. R. CHIEPPA, Il ruolo dei giudici nazionali nell’applicazione decentrata del diritto comunitario della concorrenza, in Cons. Stato, 2003, II, 1121.


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menzionati concetti giuridici indeterminati e della riconosciuta possibilità di disapplicare il diritto interno contrastante con le norme di tutela della concorrenza (108); Commissione ed autorità nazionali dovrebbero quindi valutare la possibilità di ritenere non gravi quanto meno quelle fattispecie in cui obiettivamente non vi era certezza circa l’anticoncorrenzialità di un determinato comportamento tenuto dalle imprese sul mercato e ciò assume maggior rilievo anche a seguito del passaggio da un sistema di notifica e di autorizzazione preventiva delle intese ad un sistema di eccezione legale con controllo ex post, basato sull’applicazione diretta dell’intero articolo 81 del Trattato da parte delle autorità nazionali e dei giudici nazionali (109). 6. Con riguardo al sindacato giurisdizionale sugli dell’Autorità antitrust si pongono ulteriori questioni, la prima delle quali consiste nell’individuazione degli atti impugnabili. Il problema ovviamente non si pone per i provvedimenti sanzionatori o di divieto di operazioni di concentrazione, attesa l’evidente lesività nei confronti dei destinatari degli atti. Non si ritiene possano essere impugnati gli atti di avvio e di chiusura delle indagini conoscitive, svolte ad esempio dall’Auto(108) Corte di Giustizia, 9 settembre 2003, Causa C-198/01, Consorzio Industrie Fiammiferi. (109) M. LIBERTINI, La prospettiva giuridica: caratteristiche della normativa antitrust e sistema giuridico italiano, in Concorrenza e Autorità Antitrust. Un bilancio a 10 anni dalla legge - Atti del Convegno Roma 9-10 ottobre 2000, in www.agcm.it, evidenzia che nella prassi applicativa degli ultimi anni, il giudizio di gravità dell’infrazione, di cui all’art. 15 della legge n. 287/90, tende a generalizzarsi e che questa linea condiziona i procedimenti antitrust, orientandoli sempre più secondo il modello dei procedimenti punitivi: da qui la necessità di istruttorie più lunghe e più approfondite, e la mancanza di incentivi per le imprese a correggere i loro comportamenti in corso di giudizio. L’autore si chiede se, ai fini dell’efficacia complessiva dell’intervento, un’interpretazione meno estensiva dell’art. 15 non possa rivelarsi più produttiva. Essa potrebbe portare ad escludere la sanzione pecuniaria nei casi in cui l’illecito sia stato solo progettato o abbia avuto attuazione breve o precaria. Con ciò sarebbe facilitata la conclusione rapida dei procedimenti, anche con l’assunzione di impegni di comportamento da parte delle imprese. L’attenzione punitiva potrebbe invece concentrarsi, con uguale efficacia di prevenzione generale, sui grandi cartelli di durata pluriennale e sui casi di violazione cosciente e volontaria della legge, tra cui i casi di recidiva e quelli di violazione degli impegni assunti nei confronti dell’Autorità.


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rità garante italiana ai sensi dell’art. 12, comma 2, delle legge n. 287/1990, avendo le stesse natura meramente ricognitiva priva di incidenza sulle posizioni giuridiche degli operatori del mercato (110). Con riferimento agli atti endoprocedimentali, nonostante alcune pronunce favorevoli all’impugnabilità, si ritiene che, in linea di principio, gli atti aventi carattere solamente preparatorio rispetto al provvedimento definitivo non siano impugnabili, in quanto anche in questo caso privi del requisito delle lesività. Tale conclusione è applicabile anche all’atto di avvio del procedimento, anche se è stata ammessa l’impugnabilità dell’atto di avvio da parte del soggetto che contesta in radice l’applicabilità nei suoi confronti della legge antitrust (111). È stata invece prospettata l’impugnabilità degli atti endoprocedimentali che siano lesivi del diritto di difesa, quali il rifiuto di ammettere un tecnico di parte a seguire alcune fasi del procedimento, o l’assunzione di mezzi di prova ritenuti illegittimi nella sostanza o nella forma (112). Per quanto concerne le attestazioni negative in materia di intese, il silenzio serbato dall’Autorità sulle istanze o sulle denunce di terzi e soprattutto i provvedimenti di archiviazione, la questione non è tanto quella di verificare l’impugnabilità di tali atti, ma piuttosto quella di riconoscere, o meno, la legittimazione a ricorrere da parte dei soggetti terzi controinteressati. Tali provvedimenti o l’inerzia dell’Autorità, infatti, non incidono in senso sfavorevole sulle imprese che hanno posto in essere il comportamento segnalato, poiché ne viene riconosciuta la li(110)

In questo senso, M. TAVASSI-M. SCUFFI, Diritto processuale antitrust, cit.,

161. (111) Tar Lazio, 2 novembre 1993, n. 1549. A. FRIGNANI-M. WAELBROECK, Disciplina della concorrenza nella CE, cit., 439, evidenziano che in sede comunitaria non si ritiene autonomamente impugnabile la comunicazione di addebiti. Ritiene invece che sussiste l’interesse delle imprese ad impugnare l’atto di avvio dell’istruttoria, in quanto la soggezione ai poteri dell’Autorità incide in modo rilevante sullo status delle imprese sia per il complesso di doveri conseguono nei confronti dell’Autorità, sia per i riflessi che ne derivano sull’autonomia funzionale, M. RAMAJOLI, op. cit., 365. (112) M. LIBERTINI, Il ruolo del giudice nell’applicazione delle norme antitrust, cit., 655.


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ceità o espressamente o implicitamente omettendo di intervenire, ma possono incidere sulle posizioni di soggetti terzi, che possono assumere la veste di controinteressati rispetto al comportamento consentito. Rispetto a tali soggetti si è formato un orientamento giurisprudenziale contrario al riconoscimento della legittimazione a ricorrere, che si ritiene di non condividere. Tale orientamento si fonda sulla affermazione, secondo cui i ricorsi proposti da soggetti terzi, diversi da quelli direttamente menzionati, avverso i provvedimenti adottati dall’Autorità antitrust, sono inammissibili, atteso che i poteri di cui alla l. n. 287 del 1990 sono preordinati esclusivamente alla tutela oggettiva del diritto di iniziativa economica nell’ambito del libero mercato e non alla garanzia di posizioni, individuali o associate di soggetti fruitori del mercato. A fronte dell’esplicazione dei detti poteri, tutti i soggetti diversi da quelli direttamente incisi, quindi, sono da ritenere titolari di un mero interesse indifferenziato rispetto alla generalità dei cittadini a che le autorità preposte alla repressione dei comportamenti illeciti esercitino correttamente e tempestivamente i poteri loro conferiti a tale specifico fine (113). Prima di procedere ad un esame critico della citata giurisprudenza, va subito premesso che certamente il denunziante, in quanto tale, non è titolare di un interesse qualificato ad un corretto esame della sua denuncia, ma lo diventa solo quando dimostra di essere portatore di un interesse particolare e differenziato, che assume essere stato leso dalla mancata adozione del provvedimento (113) Giurisprudenza granitica soprattutto del Tar del Lazio sia in caso di impugnazione dei provvedimenti di archiviazione delle denunce presentate all’Autorità, sia in caso di ricorso avverso i provvedimenti di autorizzazione ad operazioni di concentrazione. V., fra tutte, Tar Lazio, sez. I, 1 agosto 1995, n. 174 in Trib. amm. reg., 1995, I 3456; Tar Lazio, sez. I, 5 maggio 2003, n. 3861 in Foro amm. TAR, 2003, 1942. Nello stesso senso, Cons. Stato, VI, 30 dicembre 1996, n. 1792, in Foro amm., 1996, 3383. In senso contrario, si è recentemente espresso Tar Lazio, I, 24 febbraio 2004, n. 1715, che ha riconosciuto la legittimazione a ricorrere di una impresa che contestava un provvedimento con cui una intesa volontariamente comunicata è stata ritenuta non restrittiva della concorrenza. La tesi accolta necessita però di un consolidamento soprattutto da parte del Consiglio di Stato, che sembra ora arrivato con la recente sentenza n. 3865/ 2004 del 14 giugno 2004, VI sezione (vedi la nota 120)


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repressivo; la legittimazione deriva allora non dalla qualità di denunciante, ma da quella di controinteressato (114). La possibilità di presentare denunce all’Autorità da parte di « chiunque vi abbia interesse, ivi comprese le associazioni rappresentative dei consumatori » (art. 12, comma 1, della L. n. 287/ 1990) non determina il riconoscimento della legittimazione a ricorrere in capo ai soggetti denuncianti. Del resto, le norme che regolano l’istruttoria davanti all’Autorità antitrust limitano la partecipazione al procedimento ai « soggetti portatori di interessi pubblici o privati, nonché le associazioni rappresentative dei consumatori, cui possa derivare un pregiudizio diretto, immediato ed attuale dalle infrazioni oggetto dell’istruttoria o dai provvedimenti adottati in esito alla stessa e che facciano motivata richiesta di intervenire entro trenta giorni dalla pubblicazione nel bollettino del provvedimento di avvio dell’istruttoria » (art. 7, comma 1, lett. b), D.P.R. n. 217/1998) e prevedono la notifica dell’avvio dell’istruttoria « ai soggetti che ai sensi dell’articolo 12, comma 1, della legge, avendo un interesse diretto, immediato ed attuale, hanno presentato denunce o istanze utili all’avvio dell’istruttoria » (art. 6, comma 4, cit. D.P.R. n. 217/98). Da ciò ne deriva che in sede di ricezione di una denuncia l’Autorità non è tenuta ad una approfondita verifica dell’interesse del denunziante, dovendo invece valutare la rilevanza e la fondatezza dei fatti denunciati; una volta aperta l’istruttoria, l’obbligo di notificare il provvedimento di avvio e di consentire la partecipazione al procedimento non riguarda in modo indiscriminato qualsiasi soggetto denunciante, ma solo chi è titolare di un interesse diretto, immediato ed attuale, chi nella sostanza subisce un pregiudizio (sempre diretto, immediato ed attuale) dalle infrazioni oggetto dell’istruttoria o dai provvedimenti da adottare. Tuttavia, la distinzione non risolve il problema della legittimazione a ricorrere, tenuto conto che la giurisprudenza ha escluso che alla legittimazione procedimentale si accompagni automaticamente il riconoscimento della diversa legittimazione al ricor(114)

In questo senso, M. LIBERTINI, op. cit., 656.


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so (115), limitandosi a riconoscere la legittimazione del denunciante ad agire in giudizio per la lesione di diritti a lui spettanti, quale parte del procedimento, come il diritto di accesso (116). Secondo la richiamata giurisprudenza, la posizione del soggetto leso dal comportamento anticoncorrenziale di altra impresa non assume una rilevanza giuridica autonoma rispetto all’esercizio dei poteri dell’Autorità garante, in quanto tali poteri sono preordinati ad una tutela oggettiva della concorrenza e non alla tutela di posizioni individuali dei soggetti fruitori del mercato; inoltre, rispetto a poteri repressivi affidati ad un’autorità amministrativa, non sarebbero mai configurabili specifiche situazioni protette diverse da quelle dei soggetti incisi dall’esercizio del potere. La dottrina ha criticato tale orientamento, evidenziando, sotto il secondo profilo, che in realtà la stessa giurisprudenza amministrativa è costante nel riconoscere al terzo danneggiato da un altrui intervento edificatorio la titolarità di un interesse differenziato al corretto esercizio del potere repressivo dell’autorità preposta alla vigilanza e la legittimazione ad impugnare l’atto con cui l’amministrazione rifiuta, espressamente o implicitamente, di esercitare i propri poteri e sottolineando che il criterio da seguire è quello dell’interesse sostanziale leso per determinare la sfera dei legittimati al ricorso (117). La giurisprudenza in esame parte dal lodevole intento di individuare dei limiti obiettivi alla legittimazione all’impugnazione in una materia, che coinvolge interessi, più o meno qualificati, di una pluralità di soggetti al fine di evitare la proposizione di inammissibili azioni popolari. Tuttavia, l’affidamento all’Autorità di una « tutela oggettiva della concorrenza » non esclude che la salvaguardia dell’interesse generale ad un assetto concorrenziale del mercato si traduca, sul piano concreto, in misure adottate a salvaguardia anche di singoli (115) V. Cons. Stato, VI, 12 aprile 2000, n. 2185, in Giur. it., 2000, 1945. (116) Tar Lazio, sez. II, 10 marzo 2001, n. 1834, in Foro amm., 2001, 1310. (117) A. SCOGNAMIGLIO, Profili della legittimazione a ricorrere, in Diritti, interessi ed amministrazioni indipendenti (Atti del Convegno - Siena 31 maggio e 1 giugno 2003), Milano, 2003, 170.


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operatori o dei consumatori, lesi dal comportamento anticoncorrenziale posto all’esame dell’Autorità. È questa la posizione differenziata che legittima all’impugnazione chi è titolare di un interesse diretto ed attuale all’esercizio dei poteri repressivo, distinto da quello della collettività che anche in termini generali beneficia dell’esercizio di tali poteri. Ad esempio, appare evidente tale interesse, e la conseguente legittimazione al ricorso, in capo ad un’impresa che lamenta il mancato esercizio dei poteri repressivi nei confronti di altre imprese concorrenti, resesi responsabili di una illecita intesa anticoncorrenziale avente il fine di ripartirsi il mercato con evidente pregiudizio per le altre imprese del settore; o ancor di più, in capo all’unico concorrente nei confronti di un provvedimento dell’Autorità che autorizza un’impresa già in posizione dominante a procedere ad una concentrazione (118). Soprattutto con riguardo ai provvedimenti di autorizzazione di concentrazioni, ma anche per quelli di archiviazione delle denunce, è auspicabile che la giurisprudenza del giudice amministrativo italiano rimediti la questione della legittimazione al ricorso, sviluppando quel « timido » precedente, con cui in materia di pubblicità ingannevole è stato affermato che l’impresa o l’associazione di categoria che lamenti una specifica lesione a causa della pubblicità ingannevole è legittimata ad impugnare innanzi al (118) Tale ultimo esempio è riportato, a sostegno della tesi della sussistenza della legittimazione, da A. POMELLI, Il giudice e l’Antitrust. Quanto self restraint?, cit., 274., il quale evidenzia che dalla autorizzazione alla concentrazione deriva una lesione diretta alla posizione sul mercato dell’impresa restata estranea alla concentrazione, lesione assai differente da quella che potrebbe subire ogni altro soggetto terzo. Sulla base di tali considerazioni Pomelli critica la pronuncia del Tar del Lazio 26 settembre 2001 n. 7797, con cui è stato dichiarato inammissibile il ricorso proposto da Pagine Italia s.p.a. contro il provvedimento dell’Autorità garante con cui era stata concessa l’autorizzazione condizionata alla concentrazione tra Telecom Italia spa e Seat Pagine Gialle spa, nonostante Pagine Italia fosse l’unica concorrente di Pagine Gialle. Infine, l’Autore sottolinea come la legittimazione ad impugnare il provvedimento autorizzativo di una operazione di concentrazione è sostenuta anche da quella dottrina che ha maggiormente valorizzato il collegamento tra i poteri conferiti all’Autorità e la salvaguardia dell’interesse generale ad assetto concorrenziale del mercato (M. RAMAJOLI, Attività amministrativa e disciplina antitrust, cit., 356).


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giudice amministrativo le determinazioni dell’Autorità, assumendone il carattere lesivo (119). Nella fase di pubblicazione del presente articolo è sopravvenuta la sentenza n. 3865/2004, con cui la VI Sezione del Consiglio di Stato sembra aver rimeditato la questione, riconoscendo la legittimazione a ricorrere ad una impresa concorrente rispetto ad un provvedimento di autorizzazione in deroga al divieto di intese restrittive della concorrenza, adottato dall’Autorità antitrust ai sensi dell’art. 4, comma 1, della legge n. 287/90 (120). Peraltro, la modifica del descritto orientamento giurisprudenziale è oggi imposta dall’esigenza di un allineamento con la giurisprudenza comunitaria ed anche di alcuni Stati membri. Secondo la giurisprudenza comunitaria le lettere di archiviazione che rigettano definitivamente una denuncia e che chiudono la pratica sono impugnabili, poiché esse hanno il contenuto di una decisione e ne producono gli effetti, in quanto pongono fine alle indagini, contengono una valutazione degli accordi e impediscono alle ricorrenti di chiedere la riapertura delle indagini a meno che esse non forniscano elementi nuovi (121). Sempre nel senso della possibilità di impugnare le lettere di archiviazione di denunce in materia di concorrenza si è espressa la dottrina, che ha evidenziato come le c.d. comfort letters hanno (119) Cons. Stato, sez. VI, 1 marzo 2002, n. 1258, in Foro amm. CDS, 2002, 703, in cui la legittimazione al ricorso è stata riconosciuta in capo ad un’associazione di categoria; le suindicate considerazioni dovrebbero indurre a ritenere l’estensione della legittimazione anche alle associazioni dei consumatori in tutti i casi in cui vi è un effetto diretto del comportamento anticoncorrenziale denunciato sui consumatori, rappresentati dall’associazione. Vedi la nota 113 con riferimento ad un mutamento della giurisprudenza del Tar del Lazio. (120) Cons. Stato, VI, 14 giugno 2004, n. 3865, Motorola, in cui con ampia e condivisibile motivazione viene riconosciuta la legittimazione a ricorrere in capo a Motorola, quale impresa concorrente nello stesso settore dell’intesa esaminata dall’Autorità ed avente un evidente interesse alla non autorizzazione di una intesa, il cui divieto avrebbe impedito le limitazioni alla concorrenza con vantaggio per Motorola e gli altri concorrenti. (121) Sentenze della Corte di Giustizia 11 ottobre 1983, causa 210/81, DemoStudio Schmidt/Commissione, Racc. pag. 3045, punti 14 e 15, 28 marzo 1985, causa 298/83, CICCE/Commissione, Racc. pag. 1105, punto 18 e 17 novembre 1987, BAT e Reynolds, cause riunite 142/84 e 156/84, pag. 4487, punto 12; sentenza del Tribunale (Quarta Sezione), 17 febbraio 2000, T-241/97, Stork Amsterdam BV, punto 53.


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comunque l’effetto di porre fine alla procedura al pari del formale rigetto della denuncia (122). La stessa giurisprudenza comunitaria ha però precisato che il controllo svolto dal giudice sull’esercizio da parte della Commissione del suo potere discrezionale non deve condurre a sostituire la propria valutazione dell’interesse comunitario a quella della Commissione, bensı̀ a verificare se la decisione controversa non si basi su fatti materialmente inesatti e non sia viziata da errori di diritto, da manifesti errori di valutazione o da sviamento di potere (123). Risulta in particolare da tale giurisprudenza che la Commissione, quando decide di accordare gradi di priorità differenti alle denunce di cui è investita, può non soltanto stabilire l’ordine in cui le denunce saranno esaminate, ma anche respingere una denuncia per mancanza di interesse comunitario sufficiente alla prosecuzione dell’esame della pratica. Il potere discrezionale di cui dispone la Commissione non è però senza limiti. In tal senso la Commissione è vincolata da un obbligo di motivazione quando decide di non proseguire l’esame di una denuncia e tale motivazione dev’essere sufficientemente precisa e dettagliata in modo da consentire al Tribunale di svolgere un effettivo controllo sull’esercizio da parte della Commissione del suo potere discrezionale di definire determinate priorità (124). I denuncianti hanno, quindi, il diritto di ottenere che la sorte della loro denuncia sia fissata con decisione della Commissione, che possa costituire oggetto di un ricorso giurisdizionale e la Commissione, pur potendo stabilire l’ordine di priorità nel trattamento delle denunce con cui è adita, non può considerare escluse a priori dalla sua sfera d’azione determinate situazioni rientranti (122)

A. FRIGNANI-M. WAELBROECK, Disciplina della concorrenza nella CE, cit.,

434. (123) V. sentenze del Tribunale 18 settembre 1992, causa T-24/90, Automec/ Commissione, Racc. pag. II-2223, punto 80, e 13 dicembre 1999, causa riunite T-9/96 e T-211/96, Européenne automobile/Commissione, Racc. pag. II-3639, punto 29); 14 febbraio 2001, causa T-115/99, Système européen promotion (SEP) SARL. (124) V. sentenza del Tribunale 24 gennaio 1995, causa T-5/93, Tremblay e a./ Commissione, Racc. pag. II-185, punto 60; 14 febbraio 2001, causa T-26/99, Trabisco SA, punto 30.


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nel ruolo assegnatole dal Trattato, ma ha l’obbligo di valutare in ciascun caso di specie la gravità delle asserite violazioni della concorrenza e della persistenza dei loro effetti (125). Da ultimo, la giurisprudenza comunitaria ha affermato che il trattamento diligente ed imparziale di una denuncia trova espressione nel diritto ad una buona amministrazione, che rientra tra i principi generali dello Stato di diritto comuni alle tradizioni costituzionali degli Stati membri. Infatti, l’art. 41, n. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 conferma che « ogni individuo ha diritto a che le questioni che lo riguardano siano trattate in modo imparziale, equo ed entro un termine ragionevole dalle istituzioni e dagli organi dell’Unione » (126). Per completezza, si ricorda anche che la giurisprudenza comunitaria si è orientata nel senso di riconoscere la legittimazione al ricorso avverso un provvedimento di autorizzazione di una concentrazione in capo ad una impresa concorrente, valorizzando non tanto (o meglio non solo) l’elemento della partecipazione dell’impresa al procedimento, ma soprattutto la ripercussione dell’operazione di concentrazione autorizzata sulla posizione di mercato della ricorrente (127). Una volta riconosciuta, sul piano comunitario ed auspicabil(125) V. sentenza della Corte 18 marzo 1997, causa C-282/95 P, Guérin Automobiles/Commissione, Racc. pag. I-1503, punto 36; 4 marzo 1999, C-119/97 P, Ufex, punti 86 ss. (126) Sentenza del Tribunale (Seconda Sezione ampliata), 30 gennaio 2002, causa T-54/99, max.mobil Telekommunikation Service GmbH, punto 48 e ss., con cui per la prima volta è riconosciuto il diritto fondamentale al trattamento diligente delle denunce di violazione dell’art. 90, n. 1 del Trattato. Al riguardo, vedi il commento di V. RAPELLI, In margine alla sentenza max.mobil Telekommunikation Service: il diritto all’esame diligente delle denunce, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2003, 235. (127) Vedi la sentenza del Tribunale (Terza Sezione), 30 settembre 2003, causa T-158/00, ARD, avente ad oggetto la domanda di annullamento della decisione della Commissione 21 marzo 2000, SG (2000) D/102552 che aveva dichiarato compatibile con il mercato comune e con l’Accordo sullo spazio economico europeo l’operazione di concentrazione con la quale la BSkyB ha acquisito il controllo comune della KirchPayTV, ai sensi dell’art. 6, n. 1, lett. b), del regolamento (CEE) del Consiglio 21 dicembre 1989, n. 4064, relativo al controllo delle operazioni di concentrazione tra imprese. La legittimazione al ricorso è stata riconosciuta in capo ad una emittente televisiva operante in Germania sul mercato della televisione gratuita, in relazione ad una


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mente anche su quello interno, la legittimazione a ricorrere avverso i provvedimenti di archiviazione delle denunce in capo ai soggetti « controinteressati » rispetto al comportamento anticoncorrenziale, ulteriore conseguenza dovrà essere la possibilità di contestare non solo gli atti, con cui espressamente viene negato l’intervento dell’autorità o della Commissione, ma anche il silenzio serbato da queste. Ovviamente con le modalità previste nell’ordinamento italiano dal rito speciale dei ricorsi avverso il silenzio della P.a., di cui all’art. 21-bis della legge n. 1034/1971, introdotto dall’art. 2 della legge n. 205/2000 (128) e nell’ordinamento comunitario attraverso lo strumento del ricorso in carenza. Sul fronte comunitario, è stato affermato che allorché la Commissione tardi nel dar seguito ad una denuncia, può essere chiesto alla Commissione di prendere posizione sulla denuncia e nel caso di ulteriore silenzio può essere esercitato un ricorso in carenza (129). La giurisprudenza comunitaria ritiene ammissibile l’utilizzo del ricorso in carenza, quando la Commissione in presenza di una denuncia si astenga dall’avviare un procedimento contro l’impresa che costituisce oggetto della denuncia o dall’adottare una decisione definitiva di rigetto di tale denuncia, in quanto un’impresa che abbia denunciato alla Commissione di essere vittima di pratiche seguite da altre imprese in violazione delle norme sulla concorrenza ha diritto, trascorso un termine ragionevole dalla presentazione della denuncia, ad ottenere dalla Commissione una comunicazione provvisoria ai sensi dell’art. 6 del regolamento n. 99/63, cosicché qualora, nonostante l’invio della lettera di diffida

concentrazione riguardante il settore della televisione a pagamento, ma idonea a produrre talune ripercussioni anche sul mercato della televisione gratuita. (128) Con tale ricorso si può ottenere la mera declaratoria dell’obbligo dell’amministrazione, in questo caso dell’Autorità, di provvedere espressamente sull’istanza del privato. Sul silenzio serbato dall’Autorità antitrust, vedi M. TAVASSI-M. SCUFFI, Diritto processuale antitrust, cit., 154. (129) A. FRIGNANI-M. WAELBROECK, Disciplina della concorrenza nella CE, cit., 435.


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ad agire, non riceva tale comunicazione, essa può proporre un ricorso per carenza (130). Si osserva che anche in Germania e Francia viene riconosciutala legittimazione ad impugnare le decisioni delle autorità antitrust da parte dei soggetti terzi rispetto all’illecito denunciato: in Germania la legittimazione è collegata alla partecipazione procedimentale (131), mentre in Francia hanno il diritto di presentare ricorso alla Corte d’Appello di Parigi le parti che hanno sottoposto il caso all’attenzione del Consiglio (un privato o il Ministro incaricato degli affari economici), oltre che le parti sottoposte ad indagini (132). (130) V. le sentenze del Tribunale, 18 settembre 1992, -28/90, Asia Motor France I e 9 settembre 1999, causa T-127/98, UPS Europe SA. In quest’ultima decisione, ad esempio, il ricorso in carenza è stato accolto, previa constatazione dell’inerzia della Commissione a seguito della presentazione da parte del denunciante delle osservazioni in ordine alla comunicazione inviata in conformità all’art. 6 del regolamento n. 99/63 (inerzia ritenuta di durata superiore ad un termine ragionevole). Si ricorda che, come rilevato dal Tribunale nella sentenza 10 luglio 1990, causa T-64/89, Automec/ Commissione (Racc. pag. II-367, ai punti 45-47), la procedura di esame di una denuncia si articola in tre fasi successive. Durante la prima fase, che fa seguito alla presentazione della denuncia, la Commissione assume gli elementi che le consentiranno di valutare il seguito da riservare alla denuncia. Tale fase può comprendere uno scambio informale di punti di vista tra la Commissione e il denunciante, inteso a precisare gli elementi di fatto e di diritto che costituiscono l’oggetto della denuncia, e a dare al denunciante la possibilità di esporre i propri argomenti, eventualmente alla luce di una prima reazione degli uffici della Commissione. Durante la seconda fase, in una comunicazione prevista all’art. 6 del regolamento n. 99/63, la Commissione indica eventualmente al denunciante i motivi per i quali non le sembra giustificato dar seguito favorevole alla sua denuncia e gli dà la possibilità di presentare, entro un termine che essa stabilisce a tal fine, le sue eventuali osservazioni. Nella terza fase della procedura, la Commissione prende conoscenza delle osservazioni presentate dal denunciante. Benché l’art. 6 del regolamento n. 99 non preveda espressamente tale possibilità, alla fine di questa fase, la Commissione è tenuta o ad avviare un procedimento contro la persona che costituisce oggetto della denuncia o ad adottare una decisione definitiva di rigetto della denuncia, che può costituire oggetto di un ricorso di annullamento dinanzi al giudice comunitario. (131) V. P. AQUILANTI, Poteri dell’Autorità in materia di intese restrittive della libertà di concorrenza e di abuso di posizione dominante, in Diritto antitrust italiano, volume II, Bologna, 1993, 824. (132) F. JENNY, Autorità amministrative indipendenti e tutela della concorrenza: l’esperienza del Conseil de la Concurrence, cit., evidenzia che in Francia la trasparenza nel sistema deriva dal fatto che, non appena un caso viene sottoposto all’attenzione del Consiglio, questo deve prendere una decisione, pubblica e appellabile presso la Corte


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Tali aperture giurisprudenziali sulla legittimazione a contestare il mancato esercizio dei poteri sanzionatori in materia antitrust non determinano alcun rischio sotto il profilo della compromissione dell’efficacia dell’azione di un’Autorità, « costretta » ad occuparsi di ogni segnalazione e cosı̀ privata della possibilità di concentrare energie e risorse sui fatti di maggior rilievo anticoncorrenziale. Infatti, la giurisprudenza comunitaria ha comunque contenuto il sindacato del giudice alla verifica di manifesti errori di diritto o di valutazione, anche dei fatti, o della sussistenza del vizio dello sviamento di potere, precisando che il giudice non deve sostituire la propria valutazione dell’interesse comunitario a quella della Commissione. Resterà quindi nella facoltà della Commissione e delle Autorità nazionali stabilire delle priorità nell’utilizzare le proprie capacità investigative, ferma restando la necessità di una indicazione delle ragioni per cui non si intende dare corso ad una determinata denuncia. La sindacabilità di tali ragioni in sede giurisdizionale completa il sistema di tutela, fornendo i necessari strumenti di reazione anche in ipotesi di una Autorità non particolarmente attenta nell’intervenire per sanzionare i comportamenti anticoncorrenziali denunciati (133). 7.

L’analisi svolta delle varie problematiche inerenti il con-

d’Appello di Parigi. Quindi esso non può esimersi dall’indagare per ragioni di opportunità su di un caso particolare. La certezza che ogni denuncia porterà ad una decisione dopo un opportuno contraddittorio è stata criticata da alcuni poiché impone un elevato carico di lavoro per casi di limitata importanza. Tuttavia questo ha contribuito notevolmente a chiarire che il Consiglio non fa uso di un potere amministrativo discrezionale per decidere se indagare o meno su denunce pertinenti. (133) Il fatto che in Italia l’Autorità garante abbia fino ad oggi ben lavorato, conquistandosi stima ed apprezzamenti da parte degli esperti del settore può dimostrare che allo stato non vi è un concreto bisogno di interventi del giudice diretti a stimolare l’esercizio dei poteri ad essa attribuiti, ma non costituisce motivo per escludere, come in realtà fa l’attuale giurisprudenza del giudice amministrativo, la legittimazione ad agire dei denuncianti, o meglio delle imprese controinteressate rispetto al comportamento anticoncorrenziale. Non può, peraltro, essere aprioristicamente escluso che in futuro si possa avvertire anche in concreto la necessità di tale forma di tutela giurisdizionale.


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trollo giurisdizionale sugli atti delle Autorità antitrust induce a qualche riflessione finale. Innanzitutto, vi è oggi una maggiore esigenza che i giudici nazionali si sentano partecipi di un sistema complessivo di tutela della concorrenza, articolato su diversi livelli: il sistema a « rete » non può essere limitato alla collaborazione tra Autorità nazionali e tra queste e la Commissione, ma deve essere completato da meccanismi di tutela giurisdizionale, che siano effettivi ed uniformi per tutti gli Stati membri. Per raggiungere tale obiettivo, molte delle disquisizioni teoriche, che si agitano nei vari ordinamenti, risultano del tutto irrilevanti: per la realizzazione della rete è irrilevante, ad esempio, quale giudice è individuato per le controversie antitrust all’interno degli Stati membri (134), cosı̀ come prive di rilievo sono le qualificazioni giuridiche attribuite alle diverse posizioni soggettive. È invece fondamentale che le diverse forme di tutela giurisdizionale siano idonee a garantire tre principi fondamentali: il principio di effettività della tutela, quello della certezza del diritto e la ragionevole durata del processo. Attorno a questi tre principi si gioca l’affidabilità delle giurisdizioni. Il principio di effettività della tutela giurisdizionale impone che l’esercizio dei diritti in materia antitrust sia garantito in maniera uniforme e non sia reso eccessivamente difficile o addirittura impossibile. A tal fine il livello di tutela, indicato dalla giurisprudenza comunitaria, dovrà essere inteso come un livello minimo da garantire da parte delle giurisdizioni degli Stati membri. Il processo di decentramento del diritto comunitario della concorrenza consentirà che da oggi in poi, in quel processo in precedenza de(134) Le discussioni, in precedenza evidenziate, circa la devoluzione al giudice ordinario o al giudice amministrativo italiano delle controversie in materia di concorrenza, appaiono appartenere ad un’ottica limitata e non estesa ad un sistema « a rete », in cui l’uniformità non è assicurata dall’individuazione di un unico giudice (il che peraltro non escluderebbe di per sé il rischio di conflitti tra le controversie individuali e i ricorsi avverso i provvedimenti dell’Autorità), ma è garantita dall’inserimento del giudice, o dei giudici interni, all’interno di un sistema unitario di giurisdizioni, in cui il ruolo guida è svolto dalla Corte di Giustizia.


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finito di « armonizzazione circolare » possano essere le giurisdizioni nazionali a spingere i giudici comunitari verso livelli di effettività della tutela ancora maggiori. L’effettività della tutela risulterebbe comunque attenuata in assenza della certezza del diritto. L’ultimo considerando del regolamento n. 1/2003 (n. 38) è sicuramente tra i più importanti, perché valorizza la certezza del diritto quale elemento che contribuisce alla promozione dell’innovazione e degli investimenti per le imprese che operano nel quadro delle regole di concorrenza (135). La certezza del diritto è quindi sempre più indice di affidabilità di un sistema e l’interprete (il giudice in primo luogo) deve sempre tendere verso una interpretazione certa ed uniforme (136). Bisogna assolutamente evitare il rischio di interpretazioni difformi, anche perché all’interno di un sistema a rete, se vi sono maglie della rete più deboli, ciò indebolisce l’intera rete con pericolo che in molti tentino di forzare la rete laddove le maglie sono più deboli; il che viene tradotto, con riferimento alle giurisdizioni, con il termine forum shopping. Tra i rimedi per evitare tale rischio, sicuramente il ruolo guida degli organi giurisdizionali comunitari costituisce quello migliore (135) Si riporta testualmente il considerando n. 38: « La certezza del diritto per le imprese che operano nel quadro delle regole di concorrenza comunitarie contribuisce alla promozione dell’innovazione e degli investimenti. Nei casi che danno adito ad una reale incertezza perché presentano quesiti nuovi o non risolti circa l’applicazione di dette regole, è possibile che le singole imprese desiderino ottenere dalla Commissione un orientamento informale. Il presente regolamento lascia impregiudicata la capacità della Commissione di fornire un siffatto orientamento ». (136) Incidentalmente, si osserva che il problema della certezza del diritto è particolarmente attuale nell’ordinamento italiano, dopo lo scossone dato al sistema di riparto di competenze tra centro e periferia dalla riforma del titolo V della Costituzione e le conseguenti difficoltà interpretative che stanno generando un periodo di incertezza e di estrema conflittualità, in cui la Corte Costituzionale diventa arbitro dei rapporti Stato-Regioni. Le conseguenze del protrarsi di un periodo di incertezza le subiscono tutti: i cittadini disorientati dall’assenza di certezze in relazione a beni di primaria importanza, le imprese anche penalizzate dalla incertezza ed il nostro sistema giuridicoeconomico che in un’epoca di globalizzazione, oltre che di crescente integrazione europea, sarà considerato meno affidabile dal mercato, proprio a causa delle incertezze giuridiche e del tempo trascorso per risolverle. Tutto ciò deve essere evitato nel settore della concorrenza, in cui tali conseguenze sarebbero amplificate.


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e l’utilizzo del rinvio pregiudiziale da parte dei giudici interni potrà consentire di mantenere una adeguata uniformità interpretativa (137). Tuttavia, appare necessario procedere anche ad una maggiore armonizzazione delle leggi nazionali di tutela della concorrenza e recepire in modo chiaro le previsioni del regolamento n. 1/2003 (138); sarebbe pericoloso, sotto il profilo della certezza del diritto, lasciare all’interprete la soluzione delle numerose questioni applicative del nuovo regolamento e sarebbe invece auspicabile un intervento chiarificatore del legislatore. Ancora sotto l’aspetto dell’uniformità, non deve essere trascurata la già evidenziata esigenza di individuare criteri orientativi per la quantifica(137) Il regolamento n. 1/2003 potenzia anche l’azione uniformatrice della commissione, la quale, non dovendosi più occupare delle richieste di esenzione, potrà dedicarsi maggiormente alla funzione di indirizzo tramite regolamenti di esenzione vincolanti, comunicazioni formali, le relazioni annuali sulla politica della concorrenza. La possibilità di chiedere informazioni e pareri alla commissione, già prevista in passato (dalla Comunicazione relativa alla cooperazione tra i giudici nazionali e la Commissione nell’applicazione degli articoli 85 e 86 del trattato CEE, in GUCE C-039, del 13 febbraio 1993), è oggi rafforzata dall’articolo 15 del nuovo regolamento, che introduce i poteri di ufficio della commissione e della autorità nazionale di presentare osservazioni, anche orali se autorizzate, alle giurisdizioni. Ciò comporterà non solo l’obbligo di comunicare alla Commissione le sentenze, come espressamente previsto dallo stesso articolo 15, ma anche l’onere delle giurisdizioni di comunicare alla autorità nazionali ed alla Commissione la pendenza del procedimento, pena l’impossibilità di consentire l’esercizio della facoltà di presentare osservazioni. Ovviamente, per l’autorità, tale facoltà riguarda solo i procedimenti davanti al giudice ordinario, essendo già parte necessaria in quelli davanti al giudice amministrativo. Riguardo l’intervento della Commissione quale amicus curiae si rendono necessarie alcune considerazioni. Già nella citata comunicazione del 1993, la Commissione affermava che in tale veste doveva rispettare la neutralità e l’obiettività giudiziaria. Oggi, una volta introdotto un potere d’ufficio di intervento, sarà necessario che il legislatore interno chiarisca le modalità di tale intervento, in quanto lasciandolo alle forme previste dal c.p.c. (intervento ad adiuvandum o ad opponendum) si corre il rischio che venga meno tale funzione di neutralità di un organo, a cui il giudice si può rivolgere per chiedere un parere e che poi si schiera per una delle parti in gioco, con evidente lesione del principio, oggi costituzionalizzato, del giusto processo. Sarà necessario che la Commissione intervenga su sole questioni di diritto, e non anche fornendo informazioni sui fatti. (138) Una ragione del successo della normativa italiana in materia antitrust è stata quella di essere partita in piena sintonia con le norme comunitarie ed oggi a seguito dell’approvazione del regolamento n. 1/2003 appare necessario introdurre alcune modifiche.


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zione delle sanzioni omogenei sia in sede comunitaria che in sede nazionale. L’effettività della tutela e la certezza del diritto verrebbero vanificate se la decisione del giudice arriva oltre un ragionevole tempo di attesa. Nel settore dell’antitrust e, in particolare in fase di applicazione dei principi antitrust alla new economy, il c.d. « mismatch » tra « tempo giuridico » e « tempo reale » costituisce un problema rilevante, tenuto conto che l’intervento antitrust attraverso misure correttive e la modifica o conferma delle stesse in sede giurisdizionale rischiano a volte di giungere « fuori tempo massimo », quando l’innovazione ha reso obsolete le condotte incriminate o ha già radicalmente modificato il mercato, sul quale si intendeva ripristinare la concorrenza (139). È quindi indispensabile che le Autorità si facciano carico del problema della ragionevole durata del procedimento e che i giudici riescano a rendere ragionevole e compatibile con il « tempo reale » la durata del processo. In Italia, ad esempio, a fronte di innegabili problemi di eccessiva durata dei processi, civili, penali ed amministrativi, non può non risaltare come la giurisdizione amministrativa sia stata fino ad oggi in grado di garantire nel settore antitrust quella ragionevole durata del processo, anche in presenza di controversie particolarmente complesse, sia sotto l’aspetto qualitativo che sotto quello quantitativo delle parti coinvolte, riuscendo a svolgere i due gradi di giudizio per tali controversie più complesse in un tempo di circa un anno e mezzo (140). (139) Considerazioni svolte, con riferimento al processo Microsoft negli U.S.A., da G. COLANGELO, Microsoft e i vecchi dilemmi del nuovo antitrust, in Foro it., 2001, IV, 380. (140) Prendendo ad esempio alcuni dei casi più complessi e rilevanti trattati dall’Autorità antitrust si ricava che: per il caso Carburanti la decisione dell’Autorità risale al 18 giugno 2000; la sentenza del Tar al 18 gennaio 2001 e quella del Consiglio di Stato al 20 luglio 2001; per il caso Rc Auto, in cui vi erano circa 35 parti in causa, il provvedimento è del 27 luglio 2000, la sentenza del Tar del 5 luglio 2001 e quella del Consiglio di Stato del 26 febbraio 2002 (pubblicazione dispositivo, seguito dalle motivazioni in data 23 aprile 2002); per il caso Enel - Infostrada il ricorso avverso il provvedimento del 28 febbraio 2001 è stato deciso dal Tar con sentenza del 14 novembre


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Il giudice amministrativo italiano ha quindi attuato quell’indicazione del legislatore di creare un « binario preferenziale » per controversie di maggiore rilevanza, elencate nell’art. 23-bis della legge n. 1034/1971, introdotto dall’art. 4 della legge n. 205/2000 ed ha optato per una rapida definizione nel merito di tali giudizi, con casi estremamente rari dell’utilizzo di misure cautelari. In futuro, l’eventuale adozione di misure cautelari da parte dell’Autorità potrà costituire motivo per l’esame dal parte del giudice, a sua volta in sede cautelare, di rilevanti questioni, anche se appare preferibile che sia l’Autorità, sia in seconda battuta la giurisdizione di ricorso puntino ad una decisione definitiva in tempi rapidi, anziché ad un assetto provvisorio degli interessi in gioco. Effettività della tutela, certezza del diritto e ragionevole durata del processo sono dunque i tre principi attorno a cui si deve sviluppare la « rete » delle giurisdizioni che si occupano di antitrust. Si tratta di principi, l’uno collegato all’altro, in quanto la tutela non è effettiva se giunge « oltre il tempo massimo » e parimenti l’interpretazione delle norme non contribuisce alla certezza del diritto se viene resa quando il mercato preso in considerazione è ormai mutato e le condotte contestate sono superate. In realtà, una delle difficoltà risiede nel fatto che l’antitrust mal si presta ad essere « ingabbiato » in un modello statico, economico o normativo; l’antitrust è stato definito espressione della democrazia economica, strumento stesso del processo democratico (141), allo sviluppo del quale tutti dovrebbero partecipare: dagli imprenditori ai consumatori, dai membri delle Autorità ai legali delle imprese, fino ad arrivare agli stessi giudici. La naturale dialettica tra Autorità garante e magistratura può 2001 e dal Consiglio di Stato all’udienza del 18 giugno 2002 con pubblicazione del dispositivo, seguito poi dalle motivazioni in data 1 ottobre 2002; infine, nel più recente caso Consip - Buoni pasto il provvedimento dell’Autorità è del 13 giugno 2002, la sentenza del Tar del 10 marzo 2003 e quella del Consiglio di Stato è stata pubblicata nel dispositivo il 27 gennaio 2004 e nelle motivazioni il 2 marzo 2004. (141) G. ROSSI, Antitrust e teoria della giustizia, in Riv. soc., 1995, 14, da cui è ripresa anche la necessità di un sviluppo « dal basso » dell’antitrust, descritta oltre.


IL CONTROLLO GIURISDIZIONALE SUGLI ATTI DELLE AUTORITÀ ANTITRUST

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apparire particolarmente complessa a causa della commistione fra diritto ed economia nella formazione dei principi che governano l’antitrust, ma il problema risulterà semplificato se si pongono in primo piano i diritti del cittadino: la libertà di impresa e la libertà dei consumatori attraverso un approccio che valorizzi, anche in campo europeo, quel principio di ragionevolezza, sui cui si è sviluppato l’antitrust oltreoceano (142). Il ruolo del giudice, sia esso giurisdizione di ricorso, sia esso giudice delle controversie intersoggettive, non è quello di imporre dall’alto un sistema chiuso di interpretazione della disciplina antitrust, ma di dare voce a quelle istanze che « dal basso » formano l’antitrust. Lo sviluppo « dal basso » dell’antitrust esige un processo di (142) Il principio di ragionevolezza trova, come è noto, un fondamento storico nella c.d. « rule of reason », elaborata nel diritto antitrust americano, secondo cui sarebbero illecite solo quelle intese produttive di una irragionevole restrizione della concorrenza. In senso favorevole ad un maggior ricorso alla regola di ragione, vedi F. GHEZZI, Il libro bianco della Commissione sulla modernizzazione del diritto della concorrenza comunitario, in Conc. e Merc, n. 8/2000, 175. Proprio in Italia, il legislatore ha introdotto fra le norme interne di tutela della concorrenza il requisito della restrizione consistente delle intese; ciò ha consentito una interpretazione più duttile delle norme, anche rispetto alla regola de minimis elaborata da gli organi comunitari. In una recente sentenza del Consiglio di Stato il requisito della consistenza è stato individuato quale referente normativo proprio del principio di ragionevolezza. Vedi Cons. Stato, VI, n. 4362/ 2002, in www.giustizia-amministrativa.it, in cui il giudice amministrativo, pur senza approfondire la questione dell’esistenza di una c.d. « rule of reason comunitaria », osserva che l’applicazione in sede comunitaria di un modello di concorrenza efficace (« workable ») consente di non applicare i divieti antitrust ad intese restrittive, prive di sensibili ripercussioni esterne. Viene poi sottolineato che a differenza del sistema comunitario, che ha elaborato una serie di linee guida sugli accordi minori (« de minimis ») che non ricadono nei divieti, il legislatore italiano ha previsto l’ulteriore requisito della restrizione « consistente », il cui ambito di applicazione appare più ampio rispetto alla regola « de minimis » elaborata dagli organi comunitari. Pertanto, secondo il Consiglio di Stato, la valorizzazione del principio della ragionevolezza trova nel nostro ordinamento anche un diretto referente normativo, costituito dal requisito della consistenza ed applicabile principalmente in presenza di intese non oggettivamente anticoncorrrenziali (i c.d. « divieti per se »). Benché parte della dottrina ha intravisto in alcune pronunce della Corte di Giustizia il ricorso al principio di ragionevolezza (V. KORAH, The future of vertical agreements under E.C. Competition Law, 19 E.C.L.R., 506), altri autori dubitano della reale applicazione della rule of reason, quantomeno se con essa si intenda quella sviluppata negli Stati Uniti (v. F. GHEZZI, Il libro bianco della Commissione sulla modernizzazione del diritto della concorrenza comunitario, cit.).


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maturazione dell’associazionismo, l’introduzione di strumenti idonei a potenziare il c.d. private enforcement, come le class actions e, più in generale, una maggiormente diffusa percezione degli effetti restrittivi della concorrenza di determinati comportamenti. In passato, ad esempio, il sistema di notifica preventiva contribuiva in parte a deresponsabilizzare le imprese; oggi, invece, le imprese dovranno valutare autonomamente se i loro accordi o le loro iniziative sono suscettibili di restringere la concorrenza (143). Ciò può non essere visto con favore da molti per la maggiore assunzione di responsabilità che graverà sui consulenti delle imprese, ma deve ritenersi che l’autonoma analisi che le imprese dovranno fare contribuirà invece a creare quell’humus per il rafforzamento di una cultura della concorrenza. Ed oggi, ai fini dell’effettivo rafforzamento di una cultura della concorrenza, anche i giudici interni sono chiamati a svolgere un ruolo di primo piano.

(143) Ciò è già stato acutamente rilevato dalla dottrina. Vedi, in particolare, A. FRIGNANI, E. GENTILE, G. ROSSI, La devolution dell’antitrust, in Merc. Conc. Reg., 2000, 184.


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IL RICORSO AVVERSO IL SILENZIO-INADEMPIMENTO DELL’AMMINISTRAZIONE: BREVE RICOSTRUZIONE STORICA DELL’ISTITUTO ED APPLICAZIONI GIURISPRUDENZIALI DEL RITO EX ART. 2 DELLA LEGGE 21 LUGLIO 2000, N. 205

SOMMARIO: 1. Disciplina processuale. — 2. La procedura di formazione del silenzio rifiuto o inadempimento prima dell’art. 2 l. 7 agosto 1990, n. 241. — 2.1. Segue: Conseguenze dell’art. 2 della legge n. 241 del 1990 sulla disciplina della formazione del silenzio-rifiuto. — 2.2. Segue: La procedura di formazione del silenzio-rifiuto in seguito all’art. 2 l. 21 luglio 2000, n. 205. — 2.3. Segue: Prime applicazioni giurisprudenziali in relazione alla formazione del silenzio. — 3. Campo di applicazione oggettivo. — 3.1. Segue: Orientamenti giurisprudenziali. — 4. Oggetto dell’accertamento giurisdizionale prima della legge n. 205 del 2000. — 4.1. Segue: Oggetto del sindacato giurisdizionale dopo l’art. 2 l. n. 205 del 2000. — 4.2. Segue: Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 9 gennaio 2002, n. 1. — 4.2.1. Segue: Una possibile ipotesi di lettura della disposizione de qua in merito all’ampiezza del sindacato giurisdizionale. — 4.3. Segue: La natura giuridica del commissario ad acta.

1. L’art. 2 della legge 21 luglio 2000, n. 205, contenente disposizioni sul nuovo processo amministrativo, ha introdotto, con l’inserimento dell’art. 21-bis nel corpo della legge Tar, un nuovo rito speciale in materia di silenzio della Pubblica Amministrazione. L’articolo de quo costituisce il tentativo di allestire rimedi processuali per il silenzio che da sempre rappresenta una delle « manifestazioni più scandalose del (mal) costume amministrativo; scandalose non solo da parte dell’amministrazione che ne è responsabile, ma anche da parte di quell’ambiente sociale, che accetta, rassegnato, comportamenti del genere » (1). (1) S. GIACCHETTI, Il « ricorso avverso il silenzio dell’amministrazione » e « le macchine di Munari », in Cons. St., 2001, II, 471 ss.

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La norma prevede che la decisione dei ricorsi avverso il silenzio avvenga con sentenza resa in camera di consiglio (2) e succintamente motivata entro trenta giorni dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso stesso, uditi i difensori delle parti che ne facciano richiesta. Se viene disposta l’istruttoria, la decisione deve avvenire entro trenta giorni dal termine fissato per l’adempimento istruttorio. Il termine per l’appello è di trenta giorni dalla notificazione, ovvero di novanta giorni dalla comunicazione della sentenza; nel giudizio d’appello si seguono le stesse regole del giudizio di primo grado. La sentenza di totale o parziale accoglimento del ricorso ordina all’Amministrazione di provvedere di norma entro un termine non superiore a trenta giorni. Qualora l’Amministrazione resti inadempiente oltre il suddetto termine, il giudice, su richiesta di parte, nomina un commissario ad acta (3), al quale, prima di provvedere in via sostitutiva, incombe l’obbligo di accertare se anteriormente alla data del proprio insediamento il provvedimento non sia intervenuto. I problemi interpretativi che scaturiscono dalla disposizione in esame sono molteplici. Ci si soffermerà su alcune questioni che, a (2) Cfr. A. LAMBERTI, Il ricorso avverso il silenzio (art. 2), in Verso il nuovo processo amministrativo, a cura di V. Cerulli Irelli, Torino, 2000, 239 ss.: l’Autore è critico nei confronti di tale previsione, egli rileva che « la formula della sentenza in camera di consiglio nel nostro ordinamento è pressoché sconosciuta, ed opportunamente, dal momento che se non ci sono ragioni del tutto particolari (quali quelle che consigliano il rito camerale in materia di volontaria giurisdizione), non v’è ragione di disgiungere la sentenza dal rito pubblico, trattandosi di manifestazioni di potere di particolare spessore che regole elementari, e perciò fondamentali, di democrazia vogliono soggette, anche nelle forme, al controllo diretto del popolo che della sovranità è l’unico originario depositario e finale destinatario. Ciò tanto più perché neppure potrebbe essere invocata alcuna economia di mezzi e di persone essendoci, com’è noto, equivalenza tra le due udienze, pubblica e camerale (di data, di luogo, di oneri connessi) con la sola differenza delle porte aperte o chiuse ». (3) Cfr. A. LAMBERTI, Il ricorso avverso il silenzio (art. 2), cit.: l’Autore si interroga sul perché « in un giudizio ispirato al massimo dell’accelerazione, il ricorrente debba operare una ulteriore richiesta al giudice per ottenere la nomina del commissario quando l’Amministrazione resti inadempiente » quasi a voler rilevare che il nuovo legislatore abbia previsto una autonoma attività del ricorrente successiva all’accoglimento del ricorso avverso il silenzio e all’inerzia dell’Amministrazione soccombente.


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parere di chi scrive, si presentano maggiormente rilevanti, ossia la necessità della diffida per la formazione del c.d. silenzio-inadempimento, l’ambito di operatività della norma ed, infine, l’oggetto del sindacato giurisdizionale. 2. La l. 25 luglio 1865, n. 2248, All. e), che, come noto, dispose l’abrogazione del precedente sistema del contenzioso amministrativo, prevedeva che la tutela delle situazioni aventi natura di interesse legittimo potesse avvenire solo mediante l’esperimento di ricorsi amministrativi davanti alla stessa autorità amministrativa, nulla dicendo, però, circa l’ipotesi in cui l’amministrazione non si fosse pronunciata sul ricorso. Neppure la successiva legge 31 marzo 1889, n. 5892, istitutiva della Sezione IV del Consiglio di Stato, che riconobbe tutela giurisdizionale anche agli interessi legittimi una volta che l’atto amministrativo impugnato fosse divenuto definitivo, introdusse un norma che consentisse di adire il giudice amministrativo in caso di mancata pronuncia sul ricorso amministrativo. La mancanza di una norma che imponesse, in via generale, alla pubblica amministrazione di concludere il procedimento amministrativo con un provvedimento espresso incentivava comportamenti intenzionalmente od involontariamente ostruzionistici, determinando ampi vuoti di tutela dei privati e, per converso, creando, a favore della p.a. « una riserva di potere formata al riparo dell’inazione » (4). Il problema del silenzio rifiuto (5) si articolava in due aspetti (4) G. ABBAMONTE, Silenzio rifiuto e processo amministrativo, in questa Rivista, 1985, 20 ss. (5) La formula silenzio rifiuto od inadempimento risponde ad esigenze di semplificazione espositiva. In realtà, come autorevole dottrina ha precisato (F.G. SCOCA, Il silenzio della Pubblica Amministrazione, Milano, 1971, 294), nel caso di specie « il silenzio non è né legittimo né illegittimo, appunto perché non è un provvedimento e non è, sotto nessun aspetto, (atto) di svolgimento della funzione amministrativa. È forse preferibile precisare i termini della figura: l’inadempimento dell’obbligo di pronunciarsi è da individuare nell’inerzia dell’Amministrazione e non nel silenzio. La prima può essere lesiva dell’interesse del privato ad ottenere che l’Amministrazione provveda sulla sua domanda (...). Il secondo resta, invece, un meccanismo che consente al privato di rivolgersi al giudice in mancanza di un provvedimento formale; come meccanismo, il


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diversi: innanzitutto la legge consentiva di impugnare un provvedimento lesivo di una situazione di interesse legittimo, affetto da un vizio di legittimità. Nell’ipotesi in cui la lesione derivasse dalla mancata adozione di un provvedimento, la parte risultava impossibilitata ad adire il giudice amministrativo, stante il principio alla cui stregua non era concepibile l’esperimento del ricorso giurisdizionale in assenza di un provvedimento da impugnare. In secondo luogo il ricorso giurisdizionale era possibile solo avverso un atto definitivo, ossia un atto dell’autorità competente a pronunciarsi in ultima istanza. L’interessato, pertanto, aveva l’obbligo, prima di impugnare l’atto dinanzi al g.a., di esperire tutti i rimedi interni alla p.a. L’autorità amministrativa gerarchicamente superiore poteva, quindi, di fatto, ritardare l’accesso alla giustizia amministrativa, semplicemente non decidendo sul ricorso amministrativo, visto che in tale maniera non si veniva a formare l’atto definitivo. Si trattava di stabilire qual era il momento a partire dal quale il mancato intervento del provvedimento doveva essere considerato inadempimento, con conseguente esperibilità del ricorso giurisdizionale. In una celebre sentenza del Consiglio di Stato (6) il silenzio veniva equiparato ad un rigetto del ricorso gerarchico, una volta che fosse scaduto il termine fissato dall’interessato attraverso un atto di diffida ad adempiere o messa in mora. silenzio non è di per sé né legittimo né illegittimo; né sotto questo profilo può essere valutato in sede processuale, ove semmai l’indagine va diretta sulla legittimità dell’inerzia ». La definizione più appropriata del silenzio della p.a. sembra allora essere quella di « omissione di provvedimento che dà luogo ad un fatto di disfunzione amministrativa » (cfr. G. ABBAMONTE, Silenzio rifiuto, cit.). Assai rilevante è stata ed è l’attenzione della dottrina sul silenzio in esame, per un’indagine approfondita cfr. E.B. TONOLETTI, Silenzio della Pubblica Amministrazione, in Dig. disc. pubbl., XIV, Torino, 1999, 156 ss.; G.B. GARRONE, Silenzio della Pubblica Amministrazione (ricorso giurisdizionale amministrativo), in Dig. disc. pubbl., ivi, 191 ss. (6) Cons. St., sez. IV, 22 agosto 1902, n. 429, in Giur. it., II, 1902, 342. Tale pronuncia — preceduta da altre sentenze, in particolare da Cons. St., sez. IV, 16 marzo 1893, n. 109, in Giust. amm., 1893, I, 197 — richiamava la precedente decisione del Cons. St., sez. IV, 2 marzo 1894, che aveva svolto il ruolo di capostipite, suscitando anch’essa un certo clamore in dottrina per la sua arditezza. Sul punto cfr., per tutti, F. LA VALLE, Azione di impugnazione ed azione di adempimento nel giudizio amministrativo di legittimità, in Jus, 1965, 165.


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L’indirizzo inaugurato da tale pronuncia trovò numerose adesioni, come risulta dal suo recepimento, dopo un’esperienza untratrentennale, in sede legislativa nell’art. 5 del r.d. 3 marzo 1934, n. 383 (t.u. della legge comunale e provinciale). Tale norma, contenente disposizioni in materia di silenzio rigetto sul ricorso gerarchico, più nel dettaglio prevedeva, ai commi 5 e 6, che, decorsi centoventi giorni dalla presentazione del ricorso, l’interessato dovesse mettere in mora l’amministrazione con una diffida notificata per atto di ufficiale giudiziario. Decorso l’ulteriore termine di sessanta giorni assegnato con diffida, il ricorso si intendeva respinto a tutti gli effetti. La giurisprudenza amministrativa dell’epoca, applicando in via analogica detto articolo, vi individuò il procedimento di formazione del silenzio-rifiuto. Dopo l’innovazione introdotta dall’art. 6 d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199, che ha modificato la disciplina del silenzio-rigetto, prevedendo che « decorsi inutilmente novanta giorni dalla presentazione di un ricorso gerarchico, ... esso si intende respinto a tutti gli effetti », si pose nuovamente il problema della disciplina applicabile alla formazione del silenzio rifiuto. Le soluzioni fornite al fine di rendere possibile l’esperimento del ricorso giurisdizionale avverso l’inerzia della p.a., furono le seguenti: parte della giurisprudenza (7) applicava analogicamente l’art. 6 d.P.R. cit. alla formazione del silenzio-rifiuto; altra parte consistente (8) sosteneva, invece, che l’art. 6 non avesse mutato il procedimento di formazione del silenzio-rifiuto, a cui riteneva applicabile sempre l’art. 5 t.u. com. e prov. Difatti, mentre nell’ambito del silenzio-rigetto si giustificava l’eliminazione della messa in mora della p.a., con conseguente semplificazione dell’iter procedimentale, perché qui vi era un atto da impugnare in sede giurisdizionale (lo stesso impugnato in sede amministrativa), nei casi di silenzio-inadempimento un atto mancava del tutto, per cui non si rinveniva alcuna ratio giustificatrice del mutamento di proce(7) Cfr. Tar Sicilia, 18 aprile 1975, n. 102. (8) Cfr. Cons. St., 19 ottobre 1976, n. 355; Id., 14 dicembre 1976, n. 447; Id., 7 giugno 1977, n. 599.


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dura. L’orientamento prevalso veniva, tuttavia, espresso dalla Adunanza Plenaria (9) del Consiglio di Stato con sentenza 10 marzo 1978, n. 10, secondo cui, mancando altra fonte idonea a seguito dell’abrogazione dell’art. 5 t.u. com. e prov., poteva trovare applicazione in questa materia la disposizione dell’art. 25 t.u. degli impiegati civili dello Stato. Perciò il silenzio-inadempimento si riteneva formato quando, trascorsi sessanta giorni dalla presentazione all’amministrazione di un’istanza sulla quale questa sarebbe stata tenuta a provvedere, e notificato ad essa successivamente un atto di messa in mora, l’amministrazione avesse persistito per oltre trenta giorni nella sua inerzia. Si era osservato che la norma, pur essendo stata dettata in tema di responsabilità personale di pubblici impiegati, aveva un più vasto campo di applicazione, in quanto prendeva in considerazione la stessa situazione giuridica alla base del silenzio-rifiuto, cioè l’inadempimento della p.a. a fronte di un obbligo di provvedere. 2.1. Nonostante l’ampliamento della tutela giurisdizionale nei confronti dei comportamenti omissivi della p.a., reso possibile dall’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale, il meccanismo di formazione del silenzio-rifiuto è stato ritenuto lacunoso e inadeguato, per due ordini di ragioni: in primo luogo il carattere defatigante della procedura di cui all’art. 25 t.u. del 1957, n. 3, comportante dapprima il decorso di sessanta giorni dall’istanza iniziale e poi quello di trenta giorni dall’ulteriore diffida; inoltre la contrarietà ai principi costituzionali (di imparzialità e di trasparenza) dell’insussistenza di un obbligo generalizzato di conclusione esplicita del procedimento. Anteriormente alla promulgazione della legge 7 agosto 1990, n. 241, una ristrutturazione sostanziale dell’istituto si era già avuta con l’art. 16, comma 2, della legge 26 aprile 1990, n. 86, recante modifiche in tema di reati contro la pubblica amministrazione, che impone al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio (9)

Cons. St., Ad. Plen., 10 marzo 1978, in Cons. St., 1978, I, 335.


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di compiere atti del suo ufficio entro trenta giorni, o, in mancanza, di spiegare le ragioni del ritardo (10). Occorreva verificare se la fattispecie di cui al novellato art. 328 c.p. avesse modificato il procedimento di formazione del silenzio-rifiuto, nel senso che esso sarebbe maturato alla scadenza dei trenta giorni dalla presentazione della richiesta dell’interessato. La dottrina prevalente (11) rispondeva negativamente al suddetto interrogativo, escludendo che il meccanismo di formazione del silenzio-rifiuto potesse essere stato ab imis riformato da una norma rivolta all’incriminazione dei comportamenti di persone fisiche e non alla delineazione dei principi informatori dell’azione amministrativa (12). In seguito all’introduzione dell’art. 2 della legge n. 241 del 1990, che ha sancito l’obbligo generale della p.a. di concludere il procedimento mediante l’adozione di un provvedimento esplicito, la situazione prima decritta veniva profondamente innovata (13). In particolare, il secondo e il terzo comma dell’articolo in questione statuiscono che quest’obbligo di conclusione esplicita (10) Per un analisi approfondita dell’art. 328 c.p. cfr. A. CRESPI, F. STELLA e G. ZUCCALÀ (a cura di), Commentario breve al codice penale. Complemento giurisprudenziale, Padova, 2001, 1128 ss. e bibliografia ivi indicata. (11) Cfr. P. VIRGA, Diritto amministrativo, II, Mulino, 1992, 49: P.G. LIGNATI, voce Silenzio (dir. amm.), in Enc. dir., XLII, Milano, 1990, 559 ss., secondo cui « non è detto che ogni caso di silenzio, nel senso amministrativistico della parola, sia anche un caso di omissione di atti d’ufficio, in senso penalistico, o viceversa ». (12) Tale conclusione è stata confermata dalla circolare amministrativa del Ministero della Funzione Pubblica 4 dicembre 1990, n. 58245/7464. (13) L’azione amministrativa si articola in una serie di atti logicamente coordinati, che hanno lo scopo di giungere all’adozione del provvedimento finale, che, attraverso la comparazione di opposti interessi, è espressione della volontà dell’amministrazione ed ha effetti esecutivi. La legge n. 241 del 1990 indica i principi a cui la p.a. deve necessariamente ispirarsi nel condurre l’iter procedurale volto all’emanazione del provvedimento, che sono in assoluto contrasto con la possibilità di un comportamento omissivo da parte della stessa. Di importanza cruciale è stata l’introduzione, in capo alla p.a., e dell’obbligo di concludere il procedimento entro un termine prestabilito mediante l’adozione di un provvedimento espresso e dell’obbligo della motivazione. Sull’art. 2 legge proc. si veda più diffusamente N.W.M. SUCK, L’articolo 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241 ed il termine nel procedimento amministrativo, in www.giust.it.


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del procedimento deve, in assenza di un’apposita norma legislativa e regolamentare, essere adempiuto nel termine stabilito dalla pubbliche amministrazioni per i singoli procedimenti o, in mancanza di questa determinazione, in quello legale di trenta giorni e che tale termine decorre dall’inizio di ufficio del procedimento o dal ricevimento della domanda se il procedimento è ad iniziativa di parte. Parte della dottrina (14) e della giurisprudenza di merito (15) ritenevano che la norma avesse eliminato la necessità di esperire il complesso iter di formazione del silenzio-rifiuto, di cui all’art. 25 t.u. imp. civ., in luogo del quale ne veniva introdotto uno più agile, basato sul mero decorso del termine di trenta giorni dall’inizio d’ufficio del procedimento o dal ricevimento della domanda. Secondo tale opzione interpretativa, il nuovo procedimento di formazione del silenzio-rifiuto, introdotto dall’art. 2 testé citato, si sarebbe basato sulle seguenti proposizioni: i termini previsti dal(14) Cfr. R. MURRA, Legge sul procedimento amministrativo e corretta formazione del silenzio impugnabile, in Trib. amm. reg., 1993, II, 429 ss., secondo cui « oggi, alla luce dei principi generali apportati al nostro ordinamento dalla legge sul procedimento amministrativo, può a ben diritto affermarsi che l’obbligo della p.a. di provvedere sull’istanza del privato si è trasformato da “generico” a “specifico”, allorché sono stati scanditi i ritmi dell’attività procedimentale e sono stati apposti termini finali per la conclusione dell’iter amministrativo stesso »; V. CERULLI IRELLI, Corso di diritto amministrativo, parte III, Torino, 1991, 83 ss. (15) Cfr. Tar Calabria, 23 maggio 2000, n. 774: « Ai sensi della legge 7 agosto 1990, n. 241, di fronte al silenzio della Pubblica Amministrazione non sono necessarie, ai fini della diretta adizione del giudice amministrativo, la diffida e la messa in mora, atteso che una volta decorso inutilmente il termine essenziale stabilito per espressa e motivata conclusione del procedimento amministrativo, l’inadempimento di tale obbligo da parte dell’Amministrazione procedente è in re ipsa e, quindi, può essere immediatamente denunciato in via di azione, senza che sia necessaria la previa diffida e messa in mora »; Tar Calabria, 23 novembre 2000, n. 1956; Tar Marche, 25 settembre 1999, n. 1041. Per la necessità, invece, della diffida al fine della formazione del silenzio rifiuto si veda, di recente, Tar Lombardia, sez. II, 22 gennaio 2001, n. 134, in www.giustizia-amministrativa.it: « Anche dopo l’entrata in vigore della legge 7 agosto 1990, n. 241, in mancanza di norme speciali che equiparino il silenzio al provvedimento espresso di rifiuto, il soggetto che intende reagire all’inerzia della p.a. ha l’onere di seguire l’iter procedimentale stabilito dall’art. 25 t.u. 10 gennaio 1957 n. 3 e, quindi, di notificare una diffida affinché provveda nei successivi trenta giorni, al fine di rendere giuridicamente rilevante l’inerzia dell’amministrazione »; Tar Sardegna 2 maggio 2000, n. 352, ivi, che ritiene che l’assenza della procedura della diffida comporti l’inammissibilità del ricorso.


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l’art. 2, commi 2 e 3, ai fini dell’emanazione del provvedimento finale hanno carattere cogente; ove la p.a. non emani il provvedimento nei termini suddetti, si determina, ope legis, un comportamento giuridicamente rilevante di rifiuto di provvedere; l’interessato è conseguentemente legittimato all’esperimento del ricorso giurisdizionale al g.a., o, in alternativa, del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, allo scadere del termine di cui sopra, senza dover seguire l’iter di cui all’art. 25 t.u. imp. civ. e, quindi, senza dover previamente diffidare l’amministrazione; il g.a. adito con l’esperimento del ricorso avverso il silenzio-rifiuto della p.a., deve, ferma restando l’illegittimità intrinseca dell’inerzia dell’amministrazione, valutare la fondatezza della pretesa sostanziale prospettata dall’interessato e, in caso di esito positivo di detta valutazione, imporre all’amministrazione l’obbligo di pronuncia espressa. In senso contrario alla valenza innovativa dell’art. 2 in materia di silenzio-rifiuto si era, invece, espresso il Ministero della Funzione Pubblica, con circolare 8 gennaio 1991, n. 60397/7493, in cui si specificava che l’art. 2 non incideva sull’applicabilità del procedimento di cui all’art. 25 t.u. n. 3/1957, in quanto « non dispone nel senso della qualificazione dell’inerzia imputabile all’amministrazione ». A supporto di tale assunto, altra parte della dottrina (16) richiamava l’indirizzo giurisprudenziale, a tenore del quale, in costanza dell’orientamento previgente, era da considerarsi necessaria la previa diffida anche nei casi in cui le leggi di settore stabilivano un termine per provvedere. La risoluzione di questo delicato nodo problematico si presentava particolarmente difficile, ciò nondimeno è da reputarsi che la prima soluzione interpretativa, postulante il superamento della procedura di cui all’art. 25 t.u. imp. civ. fosse, oltre che meglio armonizzabile con la formulazione letterale del dettato normativo, più omogenea con la ratio ispiratrice della disposizione de qua e, più in generale, della legge sul procedimento, concretantesi nella (16) Cfr. A. DE ROBERTO, Il silenzio del funzionario responsabile del procedimento amministrativo, in Nuova Rassegna, 1992, 2067 ss.


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necessità di improntare l’azione dei pubblici poteri a canoni di speditezza, di trasparenza e di democrazia procedimentale (17). Nonostante le oscillazioni dei giudici di merito, la giurisprudenza del Consiglio di Stato non registrava al riguardo alcuna incertezza interpretativa, ritenendo la diffida, sempre e comunque, elemento imprescindibile (18). 2.2. La nuova disciplina non fa menzione espressa della diffida. Alla luce degli obiettivi cui ha inteso mirare il legislatore, ossia economicità ed efficienza del processo, ma soprattutto effettività della tutela giuridica dei singoli, sembra preferibile ritenerla non più necessaria, risolvendosi, nei fatti, in un ingiustificato aggravio procedurale. Questa possibilità si allinea con la previsione di cui all’art. 3-ter della legge 11 luglio 1995, n. 273, di conversione del decreto legge n. 163 del 12 maggio 1995 che prevede la possibilità per l’interessato di produrre un’istanza sollecitatoria e non una diffida, al dirigente generale. Analogamente, l’art. 4 del decreto legge 5 ottobre 1993, n. 398, convertito con modificazioni dalla legge 4 dicembre 1993, n. 493, come sostituito dall’art. 2, comma 60, della legge 23 dicembre 996, n. 662, nel disciplinare la procedura di rilascio della concessione edilizia, malgrado preveda l’opportunità per il privato di attivare i poteri sostitutivi della giunta regionale, non preclude allo stesso di adire immediatamente il giudice amministrativo per l’accertamento del silenzio inadempimento (19). (17) Cfr. Corte dei Conti, 4 aprile 1991, n. 76986. Una posizione sostanzialmente compromissoria assume, invece, R. GALLI (Corso di diritto amministrativo, Padova, 1996), ad avviso del quale non è possibile ritenere, con assoluta certezza, che il disposto dell’art. 2 l. n. 241 del 1990 abbia comportato il venire meno del meccanismo di cui all’art. 25 t.u. n. 3 del 1957. Difatti, ad una conclusione di questo tipo si potrebbe pervenire solo ove si ritenesse, in conformità al tenore letterale dell’art. 2, comma 3, ed in ossequio ai principi di efficienza e buon andamento, cui si ispira l’intera normativa in materia di procedimento, di dovere ascrivere carattere perentorio al termine previsto dalla disposizione de qua. (18) Cfr. C.g.a., 23 dicembre 1999, n. 665; Cons. Stato, sez. III, 2 giugno 1998, n. 113; Id., sez. V, 18 novembre 1997, n. 1331; Id., sez. V, 18 novembre 1997, n. 3549. (19) Cfr. Tar Lazio Latina, 15 novembre 2002, n. 1163: « L’inottemperanza del


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2.3. I Giudici di Palazzo Spada, intervenuti in più occasioni (20) a pronunciarsi sul problema relativo alla procedura di formazione del silenzio rifiuto in seguito all’entrata in vigore del rito speciale de quo, ponendosi in linea di continuità rispetto a quanto espresso anteriormente, hanno ribadito l’orientamento, secondo cui, appunto, « per la formazione del silenzio-inadempimento è sempre indispensabile l’attivazione della procedura di cui all’art. 25, comma 1, t.u. 10 gennaio 1957, n. 3. L’interessato, quindi, dopo l’infruttuosa scadenza del termine di sessanta giorni dall’inizio d’ufficio del procedimento (che in tal caso tiene luogo dell’istanza del privato), ovvero di quello più lungo fissato dai regolamenti attuativi dell’art. 2, comma 2, l. n. 241 del 1990, deve notificare a mezzo ufficiale giudiziario apposito atto di diffida e messa in mora, concedendo un termine non inferiore a trenta giorni, affinché l’amministrazione provveda; per poi impugnare il silenzio innanzi al giudice amministrativo, nel termine decadenziale di sessanta giorni, decorrente dallo scadere del termine assegnato con la diffida » (21). Si segnala, peraltro, qualche sentenza di segno contrario (22), secondo cui, sotto il profilo funzionale, l’art. 21-bis, nel sancire anche formalmente la rilevanza puramente comportamentale del silenzio, consente di portare ancora più innanzi quel processo di superamento del formalismo legato alla visione tradizionale dell’atto presunto o tacito e alla necessità di rendere significativo, con la diffida, il silenzio (altrimenti « muto ») dell’amministrazione. Ancorché la nozione comportamentale del silenzio della sindaco all’istanza di rilascio della concessione edilizia avanzata ai sensi dell’art. 4 d.l. 5 ottobre 1993 n. 398, conv. in l. 4 dicembre 1993 n. 493, si configura comunque come silenzio-inadempimento, avverso il quale l’interessato può proporre, senza necessità di previa diffida, immediato ricorso giurisdizionale ex art. 21-bis l. 6 dicembre 1971 n. 1034, a ciò non ostando la specifica previsione che consente all’interessato, una volta scaduto il termine assegnato al sindaco per rispondere alla sua istanza, di richiedere allo stesso di adempiere nel successivo termine di quindici giorni ». (20) Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 27 dicembre 2001, n. 6415; Id., sez. V, 10 aprile 2002, n. 1970; Id., sez. IV, 11 giugno 2002, n. 3256, in www.giust.it; Id., 10 febbraio 2003, n. 672; Id., sez. V, 21 ottobre 2003, n. 6537, in www.giurisprudenza.it. (21) Cons. Stato, sez. IV, 11 giugno 2002, n. 3256 cit. (22) Cfr. ex multis, Tar Campania, Napoli, sez. IV, 20 novembre 2001, n. 4875; Id., sez. I, 22 novembre 2001, n. 4977.


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p.a. costituisca già da tempo acquisizione consolidata e costante nella giurisprudenza amministrativa, la consacrazione normativa di tale impostazione, avvenuta con la legge n. 205, non può restare priva di conseguenze sul piano interpretativo. Sul piano sistematico e dei principi, deve osservarsi, inoltre, che la previsione di cause di inammissibilità dell’azione deve di regola essere espressa nella legge di disciplina dell’azione medesima. Nel caso in esame, invece, il nuovo articolo 21-bis citato, che pure è il luogo normativo in cui l’azione avverso il silenzio trova la propria piena e diretta disciplina, nulla dice in ordine a una siffatta condizione dell’azione, che troverebbe dunque il suo unico fondamento in una tradizione giurisprudenziale formatasi prima e al di fuori della legge e in un contesto (quello dell’atto presunto e tacito da rendere significativo) del tutto diverso e incompatibile con quello attuale, nel quale la nuova azione contro il silenzio della p.a. è volta a sanzionare il silenzio come fatto di inadempimento dell’obbligo di provvedere e prescinde da qualsivoglia significato implicito possa attribuirsi all’atteggiamento passivo dell’amministrazione. Sul piano dell’interpretazione teleologica, infine, non si rinviene alcuno scopo pratico attuale della previa diffida e messa in mora che possa essere utile a giustificare il permanere di tale appesantimento degli oneri incombenti sul soggetto leso dall’inadempimento dell’amministrazione all’obbligo di provvedere. In particolare, come si evince già dalla citata pronuncia n. 10 del 1978 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, la diffida era, da una parte, legata ad esigenze di tutela del privato che, in una logica ancora impugnatoria (sia pur discussa) era esposto alla sopravvenienza di una inoppugnabilità di cui poteva essere incolpevole; dall’altra era finalizzata alla esigenza di dare all’amministrazione un’ultima possibilità di provvedere prima di essere spogliata dall’intervento del giudice (nell’ottica, molto diffusa nella giurisprudenza amministrativa, dell’estensione dell’oggetto del giudizio all’accertamento della fondatezza della pretesa). 3.

Tralasciando le figure intermedie, esistono almeno tre


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principali tipologie di silenzio, aventi effetti giuridici differenti. Esse sono: il silenzio assenso, il silenzio rigetto ed il silenzio rifiuto od inadempimento. Il silenzio assenso è un rimedio preventivo che consiste nell’eliminazione della stessa possibilità che il ritardo nella conclusione del procedimento produca effetti negativi in capo al soggetto interessato all’emanazione dell’atto (23); esso è imperniato su una qualificazione che si potrebbe definire di « irrilevanza » dell’inerzia, nel senso che ad essa il legislatore fa conseguire gli stessi effetti dell’esercizio positivo dell’attività amministrativa; il silenzio de quo è un istituto di carattere eccezionale, che può esser previsto solo da specifiche e tassative norme di legge non suscettibili di estensione analogica. Il silenzio rigetto si verifica quando la disposizione di legge sancisce direttamente che, decorso un termine prefissato dal momento della presentazione dell’istanza da parte del richiedente senza che l’organo adito abbia comunicato la decisione, la richiesta medesima si intende rigettata. Il silenzio-rifiuto (o inadempimento) si concreta nell’omessa decisione su una domanda dell’interessato, che impedisce al richiedente di ottenere un provvedimento (24). (23) Cfr. A. TRAVI, Silenzio-assenso ed esercizio della funzione amministrativa, Padova, 1985. (24) La giurisprudenza, al riguardo, ha chiarito che l’omissione della p.a. assume valore di silenzio-rifiuto solo ove sussista, in capo all’amministrazione medesima, un obbligo giuridico di provvedere derivante da una norma di legge o di regolamento o da un atto amministrativo (Cons. St., Ad. Plen., 10 marzo 1978, cit.; Id., sez. VI, 27 marzo 1984, n. 180; Id., sez. IV, 6 ottobre 1985, n. 652). Appare opportuno fare qualche precisazione in ordine alla ricorrenza del presupposto fondamentale ai fini della formazione del silenzio-rifiuto, ossia la sussistenza dell’obbligo di provvedere in capo alla p.a. Orbene, ad avviso della giurisprudenza, detto obbligo non può ravvisarsi, con conseguente inattivabilità della tutela giurisdizionale approntata in termini di silenziorifiuto, in caso di: a) in presenza di pretese del privato palesemente infondate o manifestamente assurde (cfr. Cons. St., sez. IV, 20 novembre 2000, n. 6181; Id., sez. V, 8 marzo 2001, n. 1354, in Sett. giur., 2001, 211: « La Pubblica Amministrazione non ha l’obbligo di provvedere su una domanda manifestamente infondata ed il ricorso giurisdizionale proposto a seguito del silenzio serbato dall’Amministrazione è inammissibile per difetto di interesse, in quanto il ricorrente non ha alcuna possibilità di conseguire un risultato utile dall’eventuale accoglimento del suo gravame ». Valutazione questa che


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Con tale espressione si intende, in altri termini, « la mancata pronuncia amministrativa su un’istanza di provvedimento presentata dall’amministrato » (25). Il problema che si pone è quello di stabilire a quale delle tre figure faccia riferimento l’art. 2 l. n. 205/2000. Nonostante la generica formulazione legislativa i primi commentatori della nuova disciplina (26) riferiscono il rito speciale de non può non implicare la necessaria verifica in termini di vantaggio conseguibile, se la vocatio iudicis è posta in relazione all’interesse del ricorrente: il che porta verso i temi della sostanzialità dell’azione); b) nel caso di richieste di riesame di atti illegittimi inoppugnati; c) qualora vi siano richieste di estensione, ultra partes, dell’efficacia del giudicato; d) al cospetto di pretese illegali, non potendosi dare corso alla tutela di interessi legittimi (cfr. Cons. St., sez. IV, 20 novembre 2000, n. 6181). Trattasi di deroghe in ordine alle quali la dottrina non ha mancato di manifestare perplessità: con riguardo alla prima ipotesi ci si è domandati come sia possibile definire, in sede giurisdizionale, l’infondatezza di una pretesa se non a seguito di un giudizio di merito sulla legittimità del pur tacito rifiuto di provvedimento e, quindi, in definitiva, sulla stessa istanza del privato. Circa la seconda, invece, la giurisprudenza crea una forte disparità tra i casi i cui la p.a. non risponda all’istanza di riesame del privato relativa ad atti inoppugnabili, per i quali non sarebbe praticabile la formazione del silenzio-rifiuto ed il conseguente accesso alla tutela giurisdizionale, e quelli in cui l’Amministrazione, pur non essendovi tenuta, risponda espressamente in senso negativo a tale richiesta, con ciò dando luogo ad un provvedimento di conferma (propria), pacificamente ritenuto impugnabile in sede giurisdizionale. Sulla base di un itinerario argomentativo simile è, poi, possibile censurare anche la terza ipotesi: se è vero che il soggetto extraneus al giudicato non riveste un formale titolo di legittimazione all’attuazione dello stesso, è altrettanto vero che ragioni di equità e di giustizia sostanziale dovrebbero imporre alla p.a. di eliminare, in accoglimento dell’istanza del privato, un atto identico ad analogo ritenuto come illegale su ricorso di altro soggetto. Si è assistito, sulla scorta di tali considerazioni, ad un’inversione di tendenza della giurisprudenza relativamente a tale ultima ipotesi. (25) A. QUARANTA, Lineamenti di diritto amministrativo, Novara, 1989. (26) Cfr. S. FANTINI, Il rito speciale in materia di silenzio della pubblica amministrazione, in Trib. amm. reg., 2000, II, 609 ss.; v. anche Cons. Stato, Commissione Speciale - Parere 17 gennaio 2001 n. 1242/2000 (parere espresso su richiesta formulata dal Ministero dell’Interno sui rapporti che corrono tra l’art. 87, comma 6, del d. lgs. 25 febbraio 1995, n. 77, e la nuova disciplina processuale di cui all’art. 21-bis della l. Tar), in www.giust.it: « L’art. 21-bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, aggiunto dall’art. 2 della legge 21 luglio 2000, n. 205, il quale ha introdotto un rito speciale per la decisione dei ricorsi giurisdizionali proposti avverso il silenzio dell’Amministrazione, si applica ai soli casi di silenzio inadempimento (o silenzio-rifiuto), mentre non si applica ai casi di silenzio significativo, ossia a quelli in cui la norma attribuisce al comportamento inerte dell’Amministrazione protratto per un certo termine il valore legalmente tipico di assenso o di rigetto della domanda; la predetta norma, in particolare, non può ritenersi


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quo solo all’ipotesi del silenzio-rifiuto, inteso come inerzia della pubblica amministrazione, cui non è ricollegabile alcun effetto sostanziale o processuale, escludendone quindi l’operatività nelle ipotesi di silenzio-rigetto formatosi all’esito del procedimento di riesame giudiziale e di silenzio significativo, nell’accezione di Sandulli (27) che vi include sia il silenzio-diniego sia il silenzioassenso. E ciò perché è la stessa norma giuridica che ricollega ad essi un valore legale tipico (28). A riprova di quanto affermato, per rimanere agli istituti di carattere generale, è evidente la non inerenza allo speciale rito in esame del silenzio-rigetto, che si connota, a norma dell’art. 6 del d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199, nel senso che il ricorso amministrativo si intende respinto con l’inutile decorso di novanta giorni dalla presentazione del ricorso gerarchico; in tal caso, infatti, il successivo gravame giurisdizionale ha per oggetto il provvedimento di base, non già il silenzio dell’Amministrazione. Quanto poi al silenzio significativo, va detto che lo stesso è funzionale alla conclusione del procedimento e risulta inquadrabile nella teoria delle « valutazioni legali tipiche ». Ne consegue che il silenzio significativo è strumento di semplificazione procedimentale, che, per il tramite di una fictio iuris degli effetti provvedimentali, è fonte di un autonomo assetto di interessi sul piano sostanziale, rispetto al quale non può trovare spazio l’azione di applicabile al silenzio-rigetto, formato ai sensi dell’art. 6 del d.P.R. n. 1199 del 1971 e delle altre norme che si riconducono alla medesima matrice ». (27) A.M. SANDULLI, Sull’impugnabilità giurisdizionale del silenzio serbato dall’amministrazione sul ricorso straordinario, in Giust. civ., 1962, I, 178 ss. (28) Cfr. N. SAITTA, Ricorso contro il silenzio della P.A: quale silenzio?, in www. giust.it; S. GIACCHETTI, Il « ricorso avverso il silenzio dell’amministrazione » e « le macchine di Munari », in Cons. St., 2001, II, 471 ss.: « È indubbio che il Legislatore abbia pensato essenzialmente al silenzio-rifiuto ». L’Autore, però, ritiene anche che, nello spirito di semplificazione e razionalizzazione che sta inspirando l’attuale indirizzo legislativo, ci si dovrebbe sforzare di applicare la norma a tutti i tipi di silenzio; S. PELILLO, Le nuove disposizioni in materia di giustizia amministrativa (l. 21 luglio 2000 n. 205): il ricorso avverso il silenzio dell’amministrazione, in www.giust.it, secondo tale Autore il silenzio che rileva ai fini dell’applicabilità del rito de quo « non può non essere riconosciuto in quello che tipicamente sta ad identificare il comportamento neutro dell’Amministrazione, la disfunzione amministrativa, anche se non mancano accostamenti ed estensioni al silenzio rigetto ».


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adempimento disciplinata dall’art. 2 della l. n. 205 del 2000, che presuppone al contrario una condizione di inazione a fronte di un interesse pretensivo del privato (29). Occorre, infine, chiarire cosa si debba intendere per Amministrazione. Il legislatore del 2000 ha usato tale espressione in una triplice accezione: in senso stretto il termine fa riferimento ad una qualità soggettiva pubblica estrinseca dell’ente, in senso più allargato ad una qualità pubblica estrinseca o ad essa espressamente equiparata dalla norma, in senso più esteso, invece, ad una qualità oggettiva relazionale, l’essere, cioè, il soggetto tenuto, indipendentemente dalla sua natura pubblica o privata, al rispetto di specifiche normative. Analogamente a quanto stabilisce l’art. 23 legge n. 241/1990, come riformato dalla legge 3 agosto 1999, n. 265, che nell’elencare i soggetti passivi del diritto d’accesso ai documenti amministrativi fornisce un definizione di pubblica amministrazione tale da ricomprendervi gli organismi di diritto pubblico introdotti dall’ordinamento comunitario, anche l’art. 2 legge cit. ha accolto una locuzione ampia di pubblica amministrazione (30). 3.1.

Il Consiglio di Stato (31), che anche in Adunanza Ple-

(29) Cfr. S. FANTINI, Il rito speciale in materia di silenzio, cit. Anticipando brevemente quanto verrà approfondito in seguito, occorre dire che, salvo qualche pronuncia di segno contrario, la giurisprudenza successiva alla legge di riforma, dopo un breve periodo di incertezza risalente ai primi mesi di applicazione della nuova disposizione, si è espressa decisamente nel senso dell’ammissibilità della nuova azione nel solo caso di silenzio-inadempimento, con esclusione delle ipotesi di silenzio significativo: cfr. Tar Abruzzo, 26 gennaio 2001, n. 57; Tar Lazio, sez. I, ord. 12 gennaio 2001, n. 125; Tar Lazio, sez. II, 28 febbraio 2001, n. 1597. (30) Cfr. S. GIACCHETTI, Il « ricorso avverso il silenzio dell’amministrazione », cit. (31) Cfr. Ad. Plen., Cons. St., 9 gennaio 2002, n. 1, in Urb. App., 2000, 420 (su cui diffusamente infra); Id., sez. IV, 11 giugno 2002, n. 3256 cit.: « Il rito speciale di cui all’art. 21-bis l. n. 1034 del 1971, non è compatibile con quelle controversie che, solo apparentemente, hanno ad oggetto una situazione di inerzia, come i casi dei giudizi incentrati sull’accertamento di pretese patrimoniali costitutive di diritti soggettivi di credito attribuiti alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. In tali ipotesi: a) non occorre l’attivazione della procedura di silenzio inadempimento ex art. 25 t.u. n. 3/1957; b) i ricorsi sono soggetti al termine ordinario di prescrizione; c) coerentemente, non potrà essere utilizzato il rito speciale di cui all’art. 21-bis, perché la posizione sog-


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naria ha avuto modo di occuparsi compiutamente della disciplina introdotta dall’art. 2 l. n. 205 cit., ha avvallato la tesi dottrinale secondo cui il rito in oggetto trova applicazione solo nelle controversie in cui il privato risulti titolare di una posizione di interesse legittimo. Tale scelta appare condivisibile (32): il rischio, infatti, era quello di far confluire nel rito in questione tutte le ipotesi di inadempimento dell’amministrazione, comprese quelle in cui l’obbligo di provvedere fosse scaturito da posizioni giuridiche del privato aventi la consistenza di diritto soggettivo. L’indicazione operata dai giudici di Palazzo Spada, infatti, è l’unica che possa « evitare sconfinamenti in materie in cui esiste un conflittuale riparto di giurisdizione tra giudice amministrativo e giudice ordinario », ovvero « non alterare le regole di tutela giurisdizionale di cui godono i diritti soggettivi nel passaggio dall’una all’altra giurisdizione » (33). gettiva che viene in rilievo non è sicuramente configurabile in termini di interesse legittimo »; Cons. St., sez. VI, 22 gennaio 2003, n. 133: nella sentenza de qua i giudici di Palazzo Spada, dopo aver premesso che esulano dal campo di applicazione del rito in oggetto i casi di silenzio significativo, con riguardo al silenzio tenuto dall’amministrazione in relazione ad una denuncia di inizio attività hanno stabilito che esso non è giuridicamente qualificabile come « inadempimento » e non è pertanto giustiziabile ai sensi dell’art. 21-bis, in quanto inidoneo a sostanziare un’autonoma determinazione di natura provvedimentale direttamente impugnabile in sede giurisdizionale con un’azione di inadempimento (mancando l’inerzia in senso tecnico dell’amministrazione) né di annullamento (mancando un provvedimento da annullare), potendo il terzo agire a tutela degli interessi che assuma lesi dal silenzio sulla scorta di un giudizio di cognizione; Cons. St., sez. V, 29 aprile 2003, n. 2196, secondo cui è inammissibile un ricorso proposto avverso il silenzio serbato da un Comune su una diffida a stipulare un atto pubblico di trasferimento di un terreno di proprietà comunale cui si sarebbe precedentemente obbligato, atteso che tale azione afferisce alla tutela di un diritto soggettivo e cioè una situazione giuridica soggettiva rientrante, salve le ipotesi di giurisdizione esclusiva, nella giurisdizione del giudice ordinario. (32) Cfr. L. TARANTINO, L’epilogo del silenzio. O sancta simplicitas!, in Urb. App., n. 4, 2000, 423. Contra G. BACOSI, Silenzio ... parla Palazzo Spada, in www.giust.it, secondo cui la posizione azionata andava qualificata alla stregua di un vero e proprio diritto soggettivo di credito rispetto all’obbligo formale di provvedere. (33) L. TARANTINO, L’epilogo del silenzio, cit., 424. Secondo l’Autore le ragioni che hanno spinto alcuni Tar (cfr., per tutti, Tar Campania, 16 dicembre 2000, in Trib. amm. reg., 2001, 653) ad operare una lettura estensiva della disposizione in esame sono le seguenti: innanzitutto la locuzione generica della norma che fa riferimento al « silen-


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Vi sono argomenti più specifici, poi, che portano a ritenere inaccoglibile la tesi della giurisdizione piena: sul piano sostanziale, infatti, il giudizio sul « silenzio » viene ricollegato al « dovere » delle pubbliche amministrazioni di concludere il procedimento mediante l’adozione di un provvedimento espresso nel caso in cui esso consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, cosı̀ come dispone l’art. 2, comma 2, l. n. 241/1990. L’art. 21-bis l. Tar non fa altro che completare sul piano processuale, il precetto sostanziale contenuto nell’art. 2 l. proc., il legame esistente tra queste due disposizioni fa presupporre che la relazione tra amministrazione e privato sia una relazione che si esplica nelle forme dell’interesse legittimo e della potestà pubblicistica. La possibilità di nomina di un commissario ad acta lascia, inoltre, supporre che l’attività sostituiva abbia natura provvedimentale in senso stretto. Infine, sul piano sistematico, la norma de qua sembra perseguire finalità di mera disciplina piuttosto che porsi come modifica sostanziale della giurisdizione del giudice amministrativo. Vi è, peraltro, una parte minoritaria della giurisprudenza di merito (34), secondo cui l’art. 21-bis legge Tar, individuando nel giudice amministrativo « il giudice del silenzio dell’amministrazione », configura un mezzo processuale di carattere generale zio dell’amministrazione », non evidenziando in tal modo un riferimento esplicito all’attività amministrativa in senso stretto; in secondo luogo l’indefettibile esigenza per tutto l’operato amministrativo del rispetto dei principi di buon andamento ed imparzialità ex art. 97 Cost.; in terzo luogo la similarità strutturale tra la tutela giuridica approntata a favore del diritto d’accesso e quella di cui all’art. 21-bis l. Tar, lascerebbe intendere che anche in quest’ultimo caso sia presente un’ipotesi di giurisdizione esclusiva alla stregua di quanto prevede, per una parte della dottrina, l’art. 25 l. n. 241/1990 in tema di accesso. Infine, si sottolinea come di dubbia legittimità costituzionale si presenterebbe la norma ai sensi degli artt. 3, 24 e 97 Cost., qualora si ritenesse applicabile il rito accelerato da essa previsto solo alle ipotesi di giurisdizione esclusiva del g.a. (34) Cfr. Tar Lazio, sez. I, 6 maggio 2003, n. 3921, in www.giust.it, avente ad oggetto il caso di un Direttore dell’Agenzia delle Entrate in seguito nominato Consigliere della Corte dei Conti, il quale, avvalendosi del rito speciale de quo, chiede gli venga riconosciuto nella nuova posizione di impiego un trattamento economico di misura equivalente a quello dallo stesso percepito in qualità di dirigente dello Stato.


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esperibile in tutti i casi di inerzia della pubblica amministrazione, non già nelle sole ipotesi in cui la stessa si presenti come autorità. La norma processuale, infatti, facendo riferimento ad un nozione di silenzio alquanto generica, che, nella sua ampia accezione, è comprensiva di ogni condotta omissiva, non fa alcuna discriminazione con riguardo alla situazione soggettiva sostanziale che il privato ha inteso tutelare. L’accertamento giudiziale è limitato alla verifica della sola sussistenza o meno dell’obbligo di adottare il provvedimento esplicito richiesto. Ne deriva l’inammissibilità del ricorso ex art. 21-bis legge Tar con il quale si avanzano istanze di annullamento di provvedimenti amministrativi, ovvero di accertamento di diritti nei confronti della p.a., che vanno proposte avvalendosi del rito ordinario disciplinato dagli artt. 19 e ss. della presente legge. Gli argomenti posti a sostegno della tesi estensiva sono i seguenti (35): innanzitutto la generica locuzione di silenzio dell’amministrazione di silenzio, comprensiva, come già detto, di comportamenti omissivi non necessariamente riconnessi all’esercizio di attività amministrativa in senso stretto; in secondo luogo l’esigenza che l’attività amministrativa, anche quando posta in essere iure privatorum, sia rispettosa dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 Cost.; l’assimilazione, poi, fra il rito in esame e quello di cui all’art. 25 l. proc. in tema di accesso, che consente di affermare la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo anche nell’ipotesi di silenzio; infine la contrarietà ai principi costituzionali di uguaglianza e tutela giurisdizionale di cui agli artt. 3 e 24 Cost. dell’interpretazione che limita l’applicazione della speciale procedura accelerata ivi prevista alle sole ipotesi in cui sussista la giurisdizione del giudice amministrativo, e non anche a quelle attribuite alla giurisdizione di altro giudice. Tale tesi, pur presentando aspetti di indubbio interesse, non appare però, meritevole di accoglimento per le ragioni già esposte. (35) Cfr. Tar Campania, Napoli, sez. II, 16 dicembre 2000, n. 113, in www.giustizia-amministrativa.it.


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A tacere d’altro, occorre ribadire come l’art. 2 l. proc e l’art. 21-bis legge Tar si pongano in linea di continuità; ne segue che l’obbligo di provvedere dell’amministrazione è necessariamente correlato ad una istanza di emanazione di un provvedimento discrezionale, che costituisce espressione di potestà pubblicistica in presenza della quale residua per il privato solo una posizione di interesse legittimo (36). 4. In merito all’oggetto del giudizio di impugnazione in caso di silenzio-rifiuto (inadempimento), è da registrare un’interessante evoluzione dottrinale e giurisprudenziale. Difatti, la delimitazione dell’ambito di cognizione consentita al giudice amministrativo nel giudizio instaurato sulla base dell’inerzia dell’Amministrazione, riflette « da un lato, l’evoluzione subita dal concetto stesso di inerzia nel corso dei decenni e, dall’altro, la crisi generale e la trasformazione del processo d’impugnazione » (37). Secondo l’orientamento tradizionale, l’esame del giudice deve consistere nell’accertare l’esistenza di un obbligo dell’amministrazione di provvedere e l’inosservanza ingiustificata di tale obbligo da parte della stessa. Il g.a. è, quindi, tenuto a dichiarare l’esistenza di tale obbligo e a disporre il conseguente rinvio degli atti alla p.a., affinché provveda. Ciò si spiega in base al fatto che le istanze proposte in ordine alla formazione del silenzio-rifiuto normalmente mirano alla costituzione, modificazione o estinzione di un rapporto con la p.a. Una tale pretesa, tuttavia, essendo di natura costitutiva, non (36) Cfr. Cons. St., sez. VI, 23 settembre 2002, n. 4824, in Urb. e app., 2003, 205, con nota di L. TARANTINO, L’esegesi autoreferenziale del rito ex art. 21-bis e le pretese patrimoniali, 206: « La formazione del silenzio inadempimento disegnata secondo gli schemi dell’art. 25 comma 1 del t.u. 10 gennaio 1957 n. 3 e confermata sul piano processuale dal rito speciale dell’art. 21-bis l. n. 1034/1971 non è compatibile con quelle controversie che, solo apparentemente, hanno ad oggetto una situazione di inerzia, come i casi dei giudizi incentrati sull’accertamento di pretese patrimoniali costitutive di diritti soggettivi di credito attribuiti alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ». (37) F.G. SCOCA-M. D’ORSOGNA, Silenzio, clamori di novità, in questa Rivista, n. 3, 1995, 145 ss.


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può essere soddisfatta in sede giurisdizionale, ma soltanto attraverso l’adozione di atti formali da parte della p.a. A sostegno di tale posizione vengono addotte sia ragioni di salvaguardia delle prerogative della p.a., sia esigenze di tutela dell’interlocutore privato (38). La sentenza emessa avverso il silenzio-rifiuto è, dunque, di mero accertamento, in quanto, o ribadisce l’obbligo della p.a. di provvedere, o lo dichiara inesistente. Nel corso degli ultimi anni, tuttavia, si è andato affermando, con riferimento al ricorso avverso il silenzio-rifiuto su atti vincolati, un orientamento innovativo volto a superare la concezione tradizionale che configura il processo amministrativo come impugnatorio. Il più autorevole precedente giurisprudenziale ante riforma è rappresentato, senza alcun dubbio, dalla sentenza 10 marzo 1978, n. 10, Cons. Stato, Ad. Plen. (39), con cui si è ammessa per la prima volta la possibilità per il giudice amministrativo, limitatamente agli atti vincolati, di andare oltre il mero accertamento dell’illegittimità del silenzio-rifiuto e di pronunciarsi anche sulla fondatezza dell’istanza presentata dal ricorrente. Tale affermazione, a dire il vero, è stata recepita molto tiepidamente dalla giurisprudenza, che solo di recente si è consolidata nel senso che oggetto del giudizio di impugnazione del silenziorifiuto non è il « silenzio » in sé, bensı̀ la fondatezza della pretesa del ricorrente, seppur nel solo caso in cui: o il provvedimento abbia natura vincolata, o sia, comunque, privo di apprezzabili mar-

(38) L’intento del giudice di pregiudicare il meno possibile le ulteriori scelte dell’amministrazione traspare in Cons. St., Ad. Plen., 3 maggio 1960, n. 8, in Giur. it., 1960, III, 257. (39) Cons. St., Ad. Plen., 10 marzo 1978, cit.: « ... la possibilità che la diffida attenga ad atti non provvedimentali o addirittura materiali, pone il giudice di fronte a nuove prospettive di intervento. Non sembra dubbio, infatti, che, nei limiti in cui l’inerzia riguardi scelte o attività vincolate, la decisione possa e debba andare oltre il mero riconoscimento dell’obbligo di procedere, precisando anche quando e come detto obbligo possa essere adempiuto, e che la relativa pronuncia sia suscettibile di ottemperanza, secondo i criteri di esecuzione del sindacato amministrativo ».


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gini di discrezionalità, oppure sia manifesta la fondatezza od infondatezza della pretesa (40). Molto più pronta è stata, invece, la dottrina nel recepire l’importanza delle affermazioni contenute nella ricordata sentenza dell’Adunanza Plenaria. Alcuni Autori (41), infatti, sostengono che, sia pure limitatamente ai casi di poteri obbligatori e vincolati della p.a., l’indagine del g.a., in caso di impugnazione del silenzio-rifiuto, non dovrebbe più riguardare la sola legittimità o meno dell’inerzia, bensı̀ dovrebbe indirizzarsi al rapporto tra p.a. e privato. Si afferma, in altri termini, che la pretesa fatta valere nel ricorso contro il silenzio-rifiuto non è rivolta solamente all’emanazione di un atto amministrativo, ma è diretta ad ottenere un atto di un determinato contenuto, che soddisfi l’interesse sostanziale del cittadino. Ciò porterebbe alla configurazione di una vera e propria azione di accertamento davanti al g.a. della fondatezza della pretesa del ricorrente, azione che garantirebbe quell’effettività di tutela che il processo attuale sembra ancora negare (42). Circa poi l’impugnativa del silenzio-rifiuto, è affiorato in giurisprudenza (43) un orientamento innovativo, secondo cui la stessa non deve essere necessariamente esperita entro il termine di decadenza di sessanta giorni, come voleva l’impostazione tradizionale, ma può aversi fino a quando persista l’atteggiamento (40) Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 7 luglio 1986, n. 483; Id., sez. VI, 29 febbraio 1997, n. 162; Id., sez. VI, 1 febbraio 1999, n. 201; Cons. Giust. Amm. 25 maggio 2000, n. 264. (41) Cfr. G. GRECO, Il silenzio della Pubblica Amministrazione e problemi di effettività della tutela degli interessi legittimi, in questa Rivista, 1979, 395 ss. (42) Cfr. Cons. St., sez. VI, 26 febbraio 1982, n. 92, in Giur. it., 1983, III, 138, con nota di G. GRECO, Silenzio della Pubblica Amministrazione ed oggetto del giudizio amministrativo. La prima sentenza del Consiglio di Stato ad accertare in positivo un obbligo di provvedere da parte dell’amministrazione è Cons. St., sez. V, 6 novembre 1985, n. 380, in Foro amm., 1985, 2207. (43) Cfr. Tar Calabria, 14 novembre 1994, n. 1077: « L’impugnazione del silenzio-rifiuto non è soggetta al termine di decadenza di sessanta giorni decorrenti dalla data in cui detto silenzio si è formato, poiché nessun atto è idoneo a divenire inoppugnabile, quindi capace di dare un assetto definitivo al sottostante rapporto, tanto che l’interessato può sempre reiterare all’Amministrazione la diffida a provvedere ».


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inerte della p.a., poiché in capo ad essa continua a sussistere il potere-dovere di pronunciarsi. Tornando alla questione principale, ovvero quale sia l’oggetto del sindacato giurisdizionale, in realtà, anche all’indomani della citata Plenaria, il discorso sull’ampiezza della cognizione della g.a. in presenza di un silenzio dell’amministrazione è parso tutt’altro che chiuso, non essendosi esaurito quel filone giurisprudenziale che all’opposto ha continuato a ritenere che il compito del giudice amministrativo debba limitarsi ad accertare la sussistenza di un generico obbligo di provvedere (44). 4.1. Il citato orientamento chiaramente minoritario prima dell’entrata in vigore della novella sul processo amministrativo, è tornato prepotentemente alla ribalta proprio grazie all’esegesi proposta dell’art. 21-bis della legge Tar, disposizione che disciplina il ricorso avverso l’inerzia dell’amministrazione (45). A sostegno di questa lettura restrittiva deporrebbero alcuni ar(44) Cfr. Cons. Stato, sez. V, 13 aprile 2000, n. 2211. (45) Cfr. Tar Lazio, sez. I, ord., 12 gennaio 2001, n. 125, in www.giustizia-amministrativa.it: « ... il processo speciale cosı̀ regolato non è compatibile con una cognizione giudiziale piena, ordinata ad una compiuta verifica della fondatezza della pretesa sostanziale volta per volta azionata dal soggetto ricorrente ..., ma è orientato ad una mera finalità di accertamento — pronto e agevole — della formale inottemperanza all’obbligo di provvedere, in funzione di un sollecito insediamento di una figura commissariale surrogatoria dell’Amministrazione rimasta silente; ... il processo speciale in questione, pur essendo stato correlato dal legislatore alla repressione del « silenzio amministrativo » tout court, senza specificazioni, si presta ad essere logicamente riferito, in realtà, unicamente alle ipotesi più tradizionali di silenzio-rifiuto, afferenti a relazioni giuridiche del tipo « potestà pubblica-interesse legittimo »; ... soltanto a queste ultime sembra addicersi un intervento giudiziale che, lasciando impregiudicato il problema della spettanza o meno dell’utilità cui il ricorrente aspira, esaurisca la propria funzione, in pratica, nel legittimare l’attivazione sostitutoria di un commissario ad acta ... »; Tar Lazio, sez. II, 23 marzo 2001, n. 2372, in Urb. e app., 2001, 1123, con nota di R. GIOVAGNOLI, L’oggetto del sindacato giurisdizionale nel ricorso contro il silenzio-rifiuto della p.a., 1124 ss.: l’Autore è critico nei confronti delle conclusioni a cui perviene la sentenza de qua; egli, infatti, è dell’avviso che « ... la possibilità di esercitare un sindacato sulla fondatezza della pretesa, quantomeno nelle ipotesi di attività vincolata, può ricavarsi dal sistema anche a prescindere dalle indicazioni contraddittorie che emergono dall’art. 21-bis legge n. 1034/1971, ed in tale direzione erano infatti orientate, ancora prima della riforma del processo amministrativo, la dottrina e la giurisprudenza prevalenti ».


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gomenti di carattere testuale (46): innanzitutto la circostanza che il legislatore abbia trasformato il ricorso contro il silenzio in una sorta di procedimento d’urgenza, destinato a concludersi in un lasso di tempo assai breve e con una sentenza succintamente motivata; in secondo luogo il ruolo centrale attribuito al commissario ad acta, la cui nomina rappresenta un atto dovuto e non una mera facoltà come si riteneva in passato; infine la formula utilizzata nell’art. 21-bis, comma 2, secondo cui « il giudice amministrativo ordina all’amministrazione di provvedere ». All’interno di tale filone interpretativo si possono, poi, distinguere posizioni intermedie secondo cui, una volta definito l’ambito della cognizione consentita al g.a. nel giudizio instaurato contro l’inerzia della p.a., il rito de quo deve essere seguito solo quando il ricorrente si limita a chiedere la mera dichiarazione dell’obbligo di provvedere e non anche la verifica della spettanza del bene della vita: la maggior semplicità e speditezza del giudizio sono tese ad « evitare che la dichiarazione dell’obbligo di provvedere sopraggiunga dopo i lunghi tempi del processo ordinario » (47). Il giudizio in esame, quindi, non dà un’utilità finale al privato, rappresentando solo una tappa della tutela perseguita, e, pertanto, deve necessariamente essere rapido (48). Un orientamento radicalmente opposto ritiene, invece, che con l’art. 2 l. n. 205 del 2000, non solo sia stata espressamente legittimata la verifica giurisdizionale della spettanza del bene della vita, ma sia stato attribuito al g.a. il potere di sindacare la fondatezza della pretesa anche nelle ipotesi di silenzio-inadempimento serbato dalla p.a. avverso un’istanza del privato volta ad ottenere un provvedimento connotato da discrezionalità ammini(46) Cfr. R. GIOVAGNOLI, L’oggetto del sindacato giurisdizionale, cit. (47) Testo dei lavori parlamentari relativi al d.d.l. n. 2934. (48) Queste conclusioni non appiano condivisibili, dal momento che l’art. 21-bis non fa alcuna distinzione in base al contenuto del ricorso del privato, ma, anzi, contiene degli elementi che farebbero propendere per la tesi della generale applicabilità: l’accoglimento parziale del ricorso e la possibilità di disporre accertamenti istruttori sembrano, infatti, essere stati previsti dal legislatore proprio nell’eventualità in cui il ricorrente chieda la verifica sostanziale della pretesa. Inoltre, due riti contro il silenzio comporterebbero sicuramente un elemento di complicazione nel sistema, ciò in spregio alle esigenze di semplificazione perseguite dal legislatore del 2000.


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strativa. La norma avrebbe introdotto una nuova ipotesi di giurisdizione piena, estesa anche al merito, consentendo al giudice di sostituire le proprie valutazioni a quelle dell’amministrazione inerte (49). Non a caso, si osserva, questo nuovo rito risulta modellato sullo schema di ricorso ex art. 25 della l. n. 241 del 1990, e non soltanto con riferimento alla scansione dei tempi e dei modi procedurali. Ed è significativo che anche questo giudizio poteva e può essere proposto avverso un silenzio di fronte ad una domanda di accesso. Il contenuto della sentenza che viene chiesta al giudice dell’accesso ed al nuovo giudice del silenzio è lo stesso: « un ordine di facere, in fondo di provvedere, rivolto all’amministrazione invano interpellata ... Un’actio ad exhibendum in quel caso, un’actio ad ... providendum in questo » (50). È da segnalare, infine, che con ordinanza 10 luglio 2001, n. 3803, il Consiglio di Stato (51), attesa la rilevanza della verifica dell’oggetto del giudizio nel rito speciale in tema di silenzio contro la p.a. ex art. 21-bis legge Tar e la possibilità di contrasti giurisprudenziali tra le varie sezioni, ha deferito l’intera questione all’Adunanza Plenaria. 4.2. La Plenaria (52), con sentenza 9 gennaio 2002, n. 1, sposa la tesi secondo cui l’ambito di cognizione del giudice nel giudizio promosso ai sensi dell’art. 21-bis l. Tar, sia limitato all’accertamento dell’illegittimità dell’inerzia dell’amministrazione (53). Il Supremo Consesso di giustizia amministrativa, sulla scorta (49)

Cfr. R. GIOVAGNOLI, L’oggetto del sindacato giurisdizionale, cit.; L. TARAN-

TINO, Giudizio amministrativo e silenzio della pubblica amministrazione, in F. CARINGELLA-M. PROTTO (a cura di), Il nuovo processo amministrativo dopo la legge 21 luglio 2000 n. 205, Milano, 2001, 81. (50) N. SAITTA, Ricorso contro il silenzio, cit. (51) Cfr. L. TARANTINO, Silenzio e ragionevolezza, in Urb. e app., 2001, 1240 ss., nota a ord. Cons. St., sez. VI, 10 luglio 2001, n. 3803, 1237. (52) Consiglio St., Ad. Pl., n. 1 del 2002, in Urb. e app., n. 4, 2000, cit. (53) L’impostazione inaugurata dalla Plenaria è stato seguita in senso unanime dalla giurisprudenza successiva. Cfr., per tutti, Cons. St., sez. IV, n. 3256 del 2002, cit., secondo cui: « Non è possibile compiere un accertamento sulla fondatezza della pretesa sostanziale del ricorrente, indicando all’amministrazione il contenuto del provvedimento da adottare, atteso che il giudizio sul silenzio-rifiuto verte solo sull’accertamento della


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di considerazioni di carattere letteral-esegetico, afferma innanzitutto che tale disposizione, senza punto richiamare la c.d. « pretesa sostanziale » del ricorrente, ovvero il bene a cui egli anela, fa piuttosto riferimento a ricorsi avverso un non meglio inteso « silenzio » dell’amministrazione, con ciò volendo chiaramente significare che il giudice amministrativo è esclusivamente autorizzato a sondare l’atteggiarsi di tale inerzia sotto il profilo della relativa illegittimità, senza potersi spingere, una volta ritenuto illegittimo il silenzio, a provvede concretamente sull’istanza. Ulteriore argomento a favore è rinvenibile nella formula « resti inadempiente », la quale lascia intendere che l’inadempimento dell’amministrazione ha identica valenza sia quando rileva come presupposto del ricorso, sia, successivamente, quando è condizione perché il commissario provveda. Si prevede, infatti, che in caso di perpetuata inattività dell’amministrazione, all’ordine del giudice di provvedere possa seguire, su richiesta di parte, la nomina, appunto, di un « commissario che provveda ». Il richiamo al provvedere, sempre a giudizio della Plenaria, non è senza causa, ed è da esso facile evincere che solo a tale organo e non al giudice è riconosciuto il potere di adottare in via sostitutiva « il provvedimento », ferma residuando la possibilità, in capo all’Amministrazione, di determinarsi in senso positivo o negativo sull’istanza del privato. Non si porrebbe in contrasto con tale interpretazione la possibilità di esperire nel corso del giudizio attività istruttoria o di accogliere parzialmente il ricorso, essendo questi ultimi eventi compatibili anche con un giudizio avente ad oggetto un mero obbligo di provvedere. L’Adunanza, inoltre, ritiene superato quel consolidato orientamento giurisprudenziale, alla stregua del quale un margine medio di sindacato del giudice amministrativo sussiste nell’ipotesi in cui il provvedimento sia espressione di potestà amministrativa priva di contenuto discrezionale, o a basso contenuto di discrezionalità. sussistenza o meno dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere ... »; di recente anche Cons. St., sez. V, 29 aprile 2003, n. 2196, in www.giust.it: « Il procedimento avverso il silenzio dell’Amministrazione ... deve tendere all’accertamento dell’obbligo dell’Amministrazione di esercitare un pubblico potere di cui sia titolare ... ».


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All’accoglimento di tale tesi osta il fatto che l’art. 21-bis « non contiene alcun elemento che autorizzi ad attribuire al sindacato del giudice amministrativo un’estensione diversa in relazione alle peculiarità sostanziali della potestà non esercitata »; anzi, tale norma definisce una disciplina unica ed indifferenziata, valida in tutti i casi in cui la pubblica autorità si sottragga all’obbligo di adottare un atto autoritativo esplicito. Una diversa soluzione comporterebbe un’evidente e irrazionale disparità di trattamento, dal momento che farebbe discendere dalla distinzione fra casi di agevole e non agevole conoscibilità della fondatezza della pretesa del ricorrente, ovvero dalla minore o maggiore ampiezza del potere discrezionale riconosciuto all’amministrazione, il riconoscimento al giudice di poteri cognitivi e dispositivi rispettivamente più o meno estesi, stante l’empirismo di un siffatto criterio non più ammissibile dopo l’entrata in vigore di una disposizione di legge ad hoc. Le conclusioni a cui giunge la Corte nel volere risolvere la questione interpretativa sottoposta al suo esame sono le seguenti: innanzitutto il rito in oggetto trova applicazione solo nelle controversie in cui il privato risulti titolare di una posizione di interesse legittimo; in secondo luogo la sentenza che conclude il giudizio si limita ad accertare l’inadempimento della p.a. all’obbligo di provvedere con contestuale indicazione di un termine entro il quale l’amministrazione stessa deve attivarsi; infine, in caso di reiterata inerzia, il giudice non può in nessun caso sostituirsi alla p.a. nell’adozione del provvedimento richiesto, ma solo procedere alla nomina di un commissario ad acta, che agisca quale succedaneo dell’organo rimasto inadempiente. Se la prima delle conclusioni a cui giunge la Plenaria circa le questioni attratte dal rito ex art. 21-bis cit. appare, come già detto, la più corretta ed opportuna dal punto di vista interpretativo, lo stesso non può dirsi con riguardo a quanto viene stabilito in relazione sia all’ampiezza dell’oggetto del giudizio sul silenzio che, conseguentemente, alla natura giuridica del commissario ad acta. La giurisprudenza pregressa era giunta ad affermare che il processo diretto all’annullamento del silenzio-inadempimento


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aveva per oggetto non la mera illegittimità dell’inerzia tenuta dall’amministrazione, ma l’accertamento della fondatezza sostanziale della pretesa del ricorrente. Infatti, la domanda del privato non è volta ad ottenere una pronuncia qualsiasi, ma piuttosto una pronuncia di contenuto positivo in relazione ad un preteso provvedimento, che sia satisfattivo dell’interesse fatto valere (54). Le argomentazioni svolte dalla Plenaria a sostegno della tesi restrittiva appaiono tutte fondate su una lettura del dato letterale facilmente sconfessabile dai sostenitori della opzione esegetica contraria, in quanto mancante di qualsiasi riferimento a principi di rango costituzionale, ma anche di un più ampio coordinamento con tutte le altre norme processuali che afferiscono al tema dell’oggetto del processo amministrativo. Nel corso del giudizio avverso il silenzio, infatti, sono possibili l’espletamento di attività istruttoria, l’accoglimento solo parziale del ricorso e l’esperimento della tutela cautelare, dal legislatore della novella espressamente indirizzata anche a superare il comportamento inerte dell’amministrazione (55); la previsione di suddette facoltà processuali non avrebbe ragion d’esser nel caso si volesse far coincidere l’oggetto giudizio de quo, sempre e comunque, con l’accertamento della sussistenza del mero obbligo di provvedere da parte dell’amministrazione. In realtà, si è dell’avviso che la disciplina dettata dall’art. 21bis cit., costituisca la consacrazione a livello legislativo di quanto stabilito, in tema di silenzio, dalla giurisprudenza più lungimirante: la praticabilità o meno degli strumenti processuali ivi previsti dipenderà dal « contenuto sostanziale della pretesa come desumibile dalla situazione dedotta in giudizio e dalle eventuali pre(54) Senza alcuna pretesa di esaustività cfr. Cons. St., sez. V, n. 2211 del 2000, in Cons. Stato, 2000, 1304; Tar Lazio, sez. I-ter, n. 4461 del 2000, in Trib. amm. reg., 2000, 3055; Tar Lazio, sez. I-bis, n. 5978 del 2000, ivi, 2000, 3696; Tar Lazio, sez. Ibis, n. 7176 del 2000, ivi, 2000, 4349. (55) L’art. 21, comma 8, l. Tar, come modificato dall’art. 3 l. n. 205 del 2000, intitolato Disposizioni generali sul processo cautelare, cosı̀ recita: « Se il ricorrente, allegando un pregiudizio grave ed irreparabile derivante dall’esecuzione dell’atto impugnato, ovvero dal comportamento inerte dell’amministrazione, durante il tempo necessario a giungere ad un decisione sul ricorso, chiede l’emanazione di misure cautelari ... ».


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cisazioni formulate nel corso del medesimo, nonché del provvedimento in concreto richiesto » (56). Identificare, come fa l’Adunanza, l’oggetto del ricorso ed il silenzio dell’amministrazione, non comporta, quale sua immediata conseguenza, il vincolo per il giudice a verificare soltanto l’illegittimità dell’inerzia dei pubblici poteri, ignorando del tutto la pretesa sostanziale del ricorrente. La legge di riforma del processo amministrativo ha introdotto, oltre a quello de quo, vari riti accelerati (57) nell’ipotesi in cui si controverta in particolari materie, con ciò non volendo certamente introdurre modifiche con riguardo alla tematica dell’oggetto del giudizio amministrativo, ma, invece, definire l’ambito di applicazione delle suddette procedure speciali. Ciò significa che nessuna variazione si è venuta a creare relativamente all’ampiezza della giurisdizione del giudice amministrativo. Autorevole dottrina (58), onde sconfessare l’orientamento restrittivo, ha osservato che i giudici di Palazzo Spada sembrano non prendere in debita considerazione norme quali gli artt. 4, 21, comma 1, 23, comma 7, l. Tar, le sole idonee a chiarire quello che è l’oggetto del giudizio amministrativo. L’art. 23, in particolare, al comma 7 prevede che « se entro il termine di fissazione dell’udienza l’amministrazione annulla o riforma l’atto impugnato in modo conforme all’istanza del ricorrente, il tribunale amministrativo regionale dà atto della cessata materia del contendere e provvede sulle spese », ciò significa che l’atto sopravvenuto per determinare la pronuncia di cessazione della materia del contendere deve risultare conforme alla pretesa sostanziale del privato, che rappresenta, necessariamente, la misura del sindacato giurisdizionale del g.a. (59). La nozione di oggetto del giudizio è arrivata ad un punto di maturità tale da non poter essere ricostruita al di fuori di quel rapporto di durata che (56) Cass., sez. un., n. 27 del 2000, inedita. (57) Cfr. art. 23-bis l. Tar. (58) Cfr. L. TARANTINO, L’epilogo del silenzio, cit. (59) Cfr. L. TARANTINO, L’epilogo del silenzio, cit.; G. ABBAMONTE, R. LASCHENA, Giustizia amministrativa, XX, in Trattato di diritto amministrativo, diretto da Santaniello, 2001, 247-248. Cfr. Cons. St., sez. V, n. 331 del 1994, in Foro amm., 1994, 802.


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caratterizza la relazione esistente tra il potere dell’amministrazione e l’interesse del singolo, poiché se il primo sopravvive all’attivazione del giudizio, il secondo rimane esposto a tutte quelle successive lesioni che ulteriori manifestazioni del potere potranno evidenziare, introducendo altri sbarramenti tra il privato e il bene della vita al quale questi aspira (60). Ciò premesso, quindi, se si accoglie la tesi fatta propria dall’Adunanza, si giunge alle seguenti conclusioni: o si ritiene che, nel caso, appunto, l’amministrazione si attivi tardivamente in senso conforme all’istanza dell’interessato, non sia possibile pronunciare la cessazione della materia del contendere nel rito ex art. 21-bis cit., in quanto al giudice viene inibito di valutare la relazione di soddisfacimento tra l’interesse legittimo azionato ed il provvedimento sopravvenuto; oppure si deve concludere che la posizione azionata è soddisfatta dal sopraggiungere di un qualsiasi provvedimento esplicito, dal momento che l’oggetto del giudizio è limitato all’accertamento della violazione dell’obbligo di provvedere, per cui anche l’atto negativo espresso sopravvenuto è idoneo a far cessare il giudizio contro il silenzio-rifiuto: anche se non satisfattivo dell’interesse del cittadino, esso costituisce comunque adempimento dell’obbligo suddetto e soddisfa, pertanto, l’interesse fatto valere nel giudizio de quo. Quest’ultima è, peraltro, l’impostazione seguita in maniera unanime dalla giurisprudenza successiva, secondo cui, essendo il giudizio de quo diretto ad accertare se l’inerzia dell’Amministra(60) Ci si riferisce in particolare all’istituto dei motivi aggiunti, introdotto dalla legge di riforma del processo amministrativo, che ha riformulato l’art. 21, 1 comma, legge Tar: esso consente, infatti, al ricorrente di aggredire tutte le manifestazioni provvedimentali lesive del proprio diritto o interesse dinanzi lo stesso giudice davanti al quale pende il primo ricorso. Cfr. B. MAMELI, Atto introduttivo e attività istruttoria, in Il nuovo processo amministrativo, a cura di F. Caringella-M. Protto, 2001, 3-4. Occorre rilevare come la giurisprudenza del Consiglio di Stato, secondo cui la specialità del rito de quo è tale da renderlo avulso dal soddisfacimento dell’interesse sostanziale perché mirante esclusivamente alla rimozione della situazione di inerzia, ha escluso, anche per evitare facili elusioni dei tempi ordinari di trattazione delle controversie: a) che possano proporsi motivi aggiunti avverso il provvedimento amministrativo sopravvenuto nel corso del giudizio (cfr. Cons. St., sez. V, 11 gennaio 2002, n. 144); b) che sia ammissibile la conversione del ricorso speciale in ricorso volto ad introdurre un giudizio ordinario di legittimità (cfr. Cons. St., sez. V, 3 gennaio 2002, n. 12).


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zione abbia o meno violato l’obbligo della stessa di provvedere, ne discende che un volta adottato dalla pubblica autorità un provvedimento esplicito sull’istanza del privato, che non abbia carattere soprassessorio od interlocutorio, non può che essere dichiarata dal giudice l’improcedibilità del ricorso avverso il silenzio rifiuto per carenza sopravvenuta di interesse (61). Dette conclusioni appaiono, però, inaccettabili, anche perché non va dimenticato che, nonostante la scelta della Plenaria appaia, dal punto di vista dogmatico, la più corretta, essa porta « a conseguenze opposte rispetto ad altri approdi che hanno consegnato definitivamente al novero delle posizioni giuridiche sostanziali la nozione di interesse legittimo, che si è venuta affermando proprio all’indomani dell’entrata in vigore della l. 241/90 » (62). In definitiva, limitare l’interesse legittimo azionato all’interesse che l’amministrazione ottemperi tempestivamente l’obbligo di provvedere su di essa gravante, equivarrebbe ad accogliere una concezione formale e non più sostanziale dell’interesse legittimo. E ciò, oltre a comportare seri dubbi di compatibilità costituzionale, contraddirebbe quelle affermazioni che hanno portato all’estensione, operata dallo stesso legislatore della novella, della tutela risarcitoria anche alle ipotesi di lesione dell’interesse legittimo. L’interpretazione della norma in esame, per essere corretta, dovrebbe essere tesa al rispetto dagli imprescindibili principi di (61) Cfr., ex multis, Cons. St., sez. V, 7 aprile 2003, n. 1836, in www.giust.it; Id., sez. V, 14 febbraio 2003, n. 808, ivi; Id., sez. IV, 11 giugno 2002, n. 3256 cit: « ... il presupposto per la condanna dell’amministrazione, a mente dell’art. 21-bis l. n. 1034 del 1971, è che, quantomeno al momento della pronuncia del giudice, perduri l’inerzia dell’amministrazione. Conseguentemente, l’adozione dal parte di quest’ultima di un qualsivoglia provvedimento esplicito in risposta all’istanza dell’interessato, rende il ricorso: a) inammissibile, per carenza originaria di interesse ad agire, se il provvedimento, ancorché non comunicato, intervenga prima della proposizione del ricorso medesimo ...; b) improcedibile, per carenza sopravvenuta di interesse ad agire, se il provvedimento, intervenga nel corso del giudizio ». (62) Cfr. L. TARANTINO, L’epilogo del silenzio, cit., 429. La celebre definizione di interesse legittimo quale « posizione di vantaggio fatta ad un soggetto dall’ordinamento in ordine ad una utilità oggetto di potere amministrativo e consistente nell’attribuzione al medesimo soggetto di poteri atti ad influire sul corretto esercizio del potere, in modo da rendere possibile la realizzazione della pretesa utilità », la si deve, come noto, a M. NIGRO, Giustizia amministrativa, Bologna, 1994, 96.


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legalità ed effettività della tutela giurisdizionale delle posizioni giuridiche. Con riguardo al primo, la Plenaria ha stabilito che il solo frammento conoscibile da parte del giudice amministrativo sia quello inerente all’attuazione del disposto dell’art. 2 l. n. 241 del 1990 e che gli sia inibita la verifica di tutte quelle disposizioni giuridiche che, di volta in volta, rilevano in seno al procedimento, e ciò appare, già prima facie, in aperta violazione del principio stesso. Si assiste in questo modo ad una duplicità della nozione stessa di interesse legittimo, il quale assume, a seconda del fatto che l’amministrazione si sia, con un provvedimento, espressa o meno, una natura diversa. Nel caso di inattività, l’interesse legittimo coinciderebbe con l’interesse ad un tempestiva pronuncia dell’amministrazione (63). Ciò produce una grave lesione del diritto di difesa del ricorrente, risultando impossibile all’esito del giudizio di cognizione una tutela giurisdizionale. Inoltre, tale conclusione comporta come sua inevitabile conseguenza la riconduzione della figura del commissario ad acta nell’alveo degli organi straordinari della pubblica amministrazione, circostanza questa che sortirebbe come unico risultato quello di impedire al giudice di conoscere nel merito la controversia, se non dopo due ulteriori gradi di giudizio in sede impugnatoria (64). Con riguardo al principio di effettività della tutela giurisdizionale, l’istante viene di fatto privato della possibilità di esperire il giudizio cautelare (65), come anche di avvalersi di tutta quella (63) Cfr. L. TARANTINO, L’epilogo del silenzio, cit., 429. (64) In questo senso v. Tar Catania, n. 293 del 2001, in Trib. amm. reg., 2001, 1503. Cfr. L. TARANTINO, L’epilogo del silenzio, cit., 429. (65) Per realizzare una migliore tutela delle posizioni soggettive dei privati, pregiudicate da comportamenti omissivi della p.a., parte della dottrina (G. ABBAMONTE, Silenzio rifiuto e processo amministrativo, in questa Rivista, 1985, 20 ss.), seguita da alcune ordinanze dei giudici amministrativi (Tar Lombardia, Brescia, ord. 8 settembre 1989, n. 405), aveva affermato, anteriormente all’entrata in vigore della l. n. 205/2000, la possibilità di estendere la tutela cautelare alle fattispecie di inerzia della p.a. L’affermazione della possibilità di incidere su comportamenti omissivi dei pubblici poteri con ordinanze che indicassero all’amministrazione la via da seguire, era tesa ad evitare che


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strumentazione processuale prevista in via ordinaria, visto che il positivo accoglimento dell’istanza è completamente rimesso alla volontà dell’amministrazione, qualora la stessa decida, rendendosi parte diligente, di attivarsi spontaneamente. È di tutta evidenza, infatti, che la possibilità di tutela cautelare ed oggetto del giudizio ex art. 21-bis legge Tar, sono questioni tra loro inscindibilmente connesse: il ritenere che la sentenza del giudice amministrativo abbia come portata massima l’accertamento con una pronuncia dichiarativa di un generico obbligo di provvedere incide sensibilmente sulla configurabilità di una tutela interinale di tipo cautelare. Del tutto naturale, invece, risulta l’utilizzabilità di strumenti di tutela provvisoria, qualora l’ampiezza della cognizione giudiziale sia sagomata sulla pretesa sostanziale del ricorrente (66). 4.2.1. Per fornire una ricostruzione valida della norma de qua non può prescindersi, in via preliminare, dalla considerazione che taluni istituti del processo amministrativo hanno subito, nel corso degli anni, modifiche, che hanno comportato un radicale la successiva pronuncia di merito fosse resa inefficace dall’inazione della p.a. protratta nel tempo. Sul nuovo sistema di tutela cautelare e sui problemi applicativi da esso derivanti si rinvia a D. DE CAROLIS, Il nuovo assetto della tutela cautelare (art. 3), in Il nuovo processo amministrativo dopo la legge 21 luglio 2000, n. 205, a cura di F. Caringella-M. Protto, Giuffrè, 2001, 181 ss.; C. CACCIAVILLANI, La tutela cautelare nei ricorsi avverso il diniego di provvedimento e l’inerzia della P.A, in La tutela all’interesse al provvedimento, Trento, 2001, 41 ss. (66) In questo senso cfr. Tar Lombardia, sez. III, decr. pres., 28 dicembre 2000, n. 472, in Giorn. dir. amm., 2002, 59, (con nota di M. VERONELLI, L’inerzia della pubblica amministrazione e le misure cautelari atipiche, 59): « Va accolta ... la domanda di sospensione di un ricorso con il quale è stato chiesto l’accertamento dell’obbligo di tempestiva pronuncia da parte della Giunta regionale in ordine all’istanza di rinnovo dell’autorizzazione per lo svolgimento di attività di commercio ..., come previsto dall’art. 21-bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034. L’accoglimento della domanda di sospensione comporta in particolare: 1) la sospensione del termine di decadenza dell’autorizzazione in essere sino alla data della prossima camera di consiglio della sezione; 2) l’ingiunzione all’Assessore regionale competente di volere inserire all’ordine del giorno della Giunta regionale l’esame della richiesta di rinnovo dell’autorizzazione presentata dal ricorrente ». Contra Tar Catania, sez. II, 10 febbraio 2001, n. 293, Trib. amm. reg., 2001, I, 1502.


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cambiamento dei loro connotati tipici, in un’ottica di sempre maggiore attenzione per gli interessi dei privati che di volta in volta si vengono a relazionare con il potere pubblico. Con la trasfigurazione della p.a. da « potere » a « servizio » è emersa la necessità di affrancare il processo amministrativo dal modello cassatorio per un più moderno e performante giudizio sul rapporto, al fine di dare pronta riposta alle istanze di tutela man mano che esse emergevano nella prassi curiale. La disciplina di riforma del processo amministrativo, introdotta dalla più volte citata legge, 21 luglio 2000, n. 205, infatti, pur se non scevra da imperfezioni tecniche e difetti di coordinamento tra le norme di cui si compone, rappresenta « una scelta di sistema » a favore di una più effettiva tutela giurisdizionale della situazioni giuridiche del privato sotto l’influenza del diritto comunitario e nell’ambito del processo di uniformazione dei diritti processuali degli Stati aderenti alla Comunità Europea (67). Molte ed importanti sono, quindi, le novità di cui alla legge succitata (68), tra cui va annoverata a pieno titolo la nuova disciplina del ricorso avverso l’inerzia della p.a. Tutto ciò premesso, si è dell’avviso che la scelta tra le due soluzioni interpretative prospettate, quella restrittiva sposata dalla Plenaria e quella estensiva, non può che scaturire da una valutazione sistematica del testo dell’art. 2 l. n. 205 cit., che sia, inoltre, conforme al dettato costituzionale. E, difatti, l’interpretazione sistematica, oltre che adeguatrice, non può che comportare l’accoglimento della seconda delle opzioni esegetiche (69), e ciò non solo perché essa è la più conforme (67) Vale la pena ricordare che l’ossatura della provvedimento è costituta da un progetto (Atto Senato 1124) di adeguamento del processo amministrativo ai principi posti dalla Convenzione Europea per i diritti dell’uomo, su cui si è espressa in maniera sostanzialmente favorevole anche l’Adunanza Generale del Consiglio di Stato con parere 6 ottobre 1994, n. 236. (68) Per un analisi accurata della l. n. 205 del 2000 si rinvia a F. CARINGELLA, M. PROTTO (a cura di), Il nuovo processo amministrativo dopo la legge 21 luglio 2000, n. 205, Giuffrè, 2001. (69) Cfr. G. GRECO, L’articolo della legge 21 luglio 2000, n. 205, in questa Rivista, 2002, n. 1, 6 ss.; R. GIOVAGNOLI, L’oggetto del sindacato giurisdizionale nel ricorso contro il silenzio-rifiuto della p.a., cit.


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ai principi desumibili dagli artt. 24 Cost. e 6 Convezione Europea dei diritti dell’uomo e l’unica in grado di mantenere fede ad un soluzione giurisprudenziale, quella di cui alla sent. n. 10/1978, Ad. Pl., Cons. St., prospettata più di vent’anni fa, ma soprattutto perché quello che si suole definire accertamento del rapporto, non è più un obiettivo da raggiungere, né il solo frutto di una giurisprudenza pretoria ed evolutiva; esso è, viceversa, normativamente previsto e, comunque presupposto, una volta introdotta in via generale l’azione di risarcimento del danno, anche in forma specifica (70). L’azione di risarcimento danni, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, altro non è, per la tutela degli interessi legittimi pretensivi, che un’azione di adempimento o, comunque, qualcosa di più che racchiude un’azione di adempimento (71). In alcuni casi, infatti, la soddisfazione (o se si vuole il risarcimento) dell’interesse legittimo pretensivo leso non può che passare attraverso un giudizio che ne accerti la fondatezza e che ordini all’Amministrazione l’emissione del provvedimento richiesto (72). Nel caso di inerzia della p.a. la lesione sfocia non già da un (70) In ordine al problema della tutela risarcitoria dell’amministrato a fronte dell’inerzia della p.a., la giurisprudenza formatasi anteriormente alla sent. Corte Cass., sez. un. 26 marzo 1999, n. 500, si era attestata su posizioni negative. Si riteneva, difatti, che fino a quando la p.a. non avesse emanato il provvedimento ampliativo richiesto dal privato, in capo al richiedente fosse ravvisabile soltanto una posizione di interesse legittimo, o al più, una situazione soggettiva qualificabile come diritto, potere e facoltà, che, tuttavia, si presentava come meramente potenziale, inattiva o quiescente. Non essendo configurabile nella fattispecie una lesione di un diritto soggettivo perfetto, non si giustificava a favore del privato alcuna pretesa risarcitoria, atteso che la giurisprudenza non ammetteva la risarcibilità dei danni collegati alla lesione di interessi legittimi. Sulla risarcibilità degli interessi legittimi c.d. pretensivi si veda ora, diffusamente, F. CARINGELLA, Giudice amministrativo e risarcimento del danno (art. 7, seconda parte), in Il nuovo processo amministrativo dopo la legge 21 luglio 2000, n. 205, a cura di F. Caringella-M. Protto, Giuffrè, 2001, 611 ss. (71) Sulla possibilità di esperire l’azione di risarcimento nel giudizio avverso l’inerzia, cfr. Tar Campania, Napoli, sez. I, 6 dicembre 2001, n. 5277 (in senso conforme Id., 17 gennaio 2002, n. 330), che ha dichiarato « inammissibile — per evidente incompatibilità di rito — la domanda risarcitoria proposta in via cumulativa nello stesso ricorso di impugnativa del silenzio ». (72) Cfr. G. FALCON, Il giudice amministrativo fra giurisdizione di legittimità e


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provvedimento, bensı̀ dal silenzio stesso: ritenere che in questo caso la tutela dell’interesse del ricorrente risulti affievolita, sarebbe illogico, discriminatorio e contrastante con i principi più elementari, di parità di tutela processuale delle medesime posizioni giuridiche sostanziali. Nella disamina del silenzio dell’amministrazione il giudice non deve accertare se, date certe premesse, il comportamento silenzioso del funzionario possa avere un qualche significato, piuttosto si tratta di verificare se il funzionario doveva volere ed in quale direzione per eseguire il precetto di legge (73). In tale attività di indagine, la circostanza di trovarsi di fronte ad un’attività vincolata o discrezionale darà luogo, ovviamente, a minori o maggiori problemi ricostruttivi, ma non potrà comportare, di per sé, preclusioni alla cognizione giudiziale del fatto controverso, a pena di sfociare in un vero e proprio diniego di giustizia con conseguente violazione dei principi di cui agli artt. 24 e 113 Cost (74). Questa sembra la tesi da dover adottare, del resto sarebbe davvero irragionevole che, proprio il giudizio sul silenzio, il quale ha registrato finora le tendenze evolutive di cui si è detto, pur in un quadro legislativo basato sui poteri di annullamento e apparentemente poco incline ad agevolare l’accertamento della fondatezza della pretesa sostanziale, debba ora regredire a giudizio su posizioni meramente formali. Il rito de quo si caratterizza per essere diviso in due fasi: la prima consiste in un giudizio di cognizione, particolarmente rapido, che può tuttavia essere aggravato da un’istruttoria (75) e che giurisdizione di spettanza, in La tutela all’interesse al provvedimento, Trento, 2001, 219 ss. (73) Cfr. G. ABBAMONTE, Il silenzio rifiuto e processo amministrativo, in Il silenzio della pubblica amministrazione, Atti del XXVIII convegno di studi di scienza dell’amministrazione, Varenna 23-25 settembre 1982, Milano, 1985, 137. (74) Cfr. L. TARANTINO, L’epilogo del silenzio, cit., 431 ss. (75) Si sottolinea come, ante riforma, la circostanza che l’oggetto del giudizio avverso il silenzio si limitasse alla sola verifica dell’obbligo di provvedere, non dipendesse solo da ragioni di principio, ma anche dalla concreta insufficienza del materiale di cognizione, cioè dall’incompletezza dell’istruttoria rispetto alle esigenze dell’accertamento giudiziale: il sindacato giurisdizionale della fondatezza della pretesa sostanziale avrebbe, infatti, richiesto, in molti casi, un corretto funzionamento del principio dispo-


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tende a sfociare in una sentenza succintamente motivata; la seconda, invece, meramente eventuale, consistente in un giudizio di esecuzione, che prevede la nomina di un commissario ad acta (76). Ora non si capisce perché il giudizio sul silenzio, che pure deve concludersi con una pronuncia succintamente motivata, non possa riguardare la fondatezza della pretesa sostanziale, almeno tutte le volte in cui la fondatezza o, per converso, l’infondatezza risultino manifeste e palesi. La tempistica dell’art. 2 cit., infatti, non è affatto preclusiva al riguardo, soprattutto alla luce di quanto osservato sul punto da autorevole dottrina: si è, infatti, contestato, che la finalità acceleratoria del nuovo rito non è stata adeguatamente assicurata dal legislatore, vuoi perché non è precisato quand’è che si forma il silenzio impugnabile, vuoi per l’incongruo termine fissato per il deposito camerale (77). La tesi restrittiva dell’Adunanza non può non riflettersi anche sulla soluzione da dare al problema rappresentato dalla natura sitivo, tale da consentire al giudice di integrare il materiale probatorio offerto dalle parti (cfr. E.B. TONOLETTI, Oggetto del giudizio contro il silenzio della p.a.: orientamenti giurisprudenziali, in Urb. App., 1997, 1039 ss.). In seguito all’entrata in vigore della legge n. 205 del 2000, la situazione è, però, radicalmente cambiata: la novella ha, come noto, riconosciuto al giudice maggiori possibilità di accedere al fatto controverso in sede istruttoria, « anche attraverso atti di propria iniziativa in attuazione del c.d. “metodo acquisitivo”, quindi di rispondere in modo più completo alla domanda del privato » (L. TARANTINO, L’epilogo del silenzio, cit., 432). Tale dato non può essere trascurato, costituendo ulteriore elemento alla cui stregua definire l’oggetto del rito ex art. 21-bis l. Tar. (76) Cfr. Cons. St., Commissione Speciale - Parere 17 gennaio 2001 n. 1242/ 2000, cit., nella nuova disciplina dell’art. 21-bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, aggiunto dall’art. 2 della legge 21 luglio 2000, n. 205, « la sequenza tra giudizio di cognizione per la dichiarazione di illegittimità del silenzio inadempimento e giudizio di ottemperanza per la pronuncia positiva è assorbita in un giudizio unitario. Esso ha duplice oggetto, misto di accertamento e di condanna, e che supera in via definitiva l’interpretazione che affidava alla decisione del giudice una mera efficacia demolitoria del silenzio dichiarato illegittimo. Il nuovo modello, invero, consente non solo di pronunciare sull’inadempimento dell’Amministrazione, ma anche di ordinarle di provvedere sull’istanza e di nominare un commissario ad acta alla scadenza del termine all’uopo assegnatole ». (77) Cfr. S. GIACCHETTI, Il « ricorso avverso il silenzio dell’amministrazione » e « le macchine di Munari », in Cons. St., 2001, II, 471 ss.


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giuridica del commissario ad acta, problematica sulla quale occorre fare una breve digressione. 4.3. Nell’ambito del processo di ottemperanza, la nomina del commissario ad acta da parte del giudice dell’esecuzione, costituisce esercizio di una tipica misura sostitutiva. Al commissario, dotato dei poteri di valutazione e di scelta di competenza dell’amministrazione, spetterà il compito di sostituirsi alla stessa nel dare esecuzione alla sentenza inadempiuta, emanando un serie di atti sulla cui natura giuridica e, consequenzialmente, sul cui regime di impugnazione si discute, cosı̀ come, più in generale, dubbia è la natura giuridica di tale figura. Secondo un primo orientamento, attualmente minoritario (78), il commissario si sostituisce alla p.a. inadempiente rimanendo, come tale, organo straordinario della pubblica amministrazione, ciò significa che gli atti posti in essere dal commissario sarebbero succedanei di quelli mai adottati dalla p.a. ed agli stessi si applicherebbe, pertanto, lo stesso regime di impugnabilità previsto per questi ultimi, più nello specifico le conseguenze a cui questa tesi porta sono le seguenti: innanzitutto gli atti del commissario, in qualità di atti amministrativi, potrebbero venire auto-annullati dalla p.a., in sede di autotutela decisoria, il che renderebbe inutiliter data la statuizione giudiziale di accoglimento delle ragioni del privato (79); in secondo luogo la p.a. non potrebbe, comunque, impugnarli in sede di legittimità perché sarebbe costretta ad indirizzare a se stessa il ricorso; infine nel caso in cui tali atti non fossero satisfattori per il privato, quest’ultimo sarebbe costretto ad impugnare l’atto per le normali vie amministrative o giurisdizionali, rendendo praticamente vano il risultato positivo già conseguito con la pronuncia trascorsa in giudicato. (78)

Cfr. Cons. St., sez. V, dec. n. 533 del 1988; Tar Marche, 7 luglio 2000, n.

247. (79) È opportuno segnalare l’orientamento di quella giurisprudenza secondo cui il potere di annullamento d’ufficio dell’amministrazione si esaurisce una volta nominato il commissario ad acta, la p.a. non può far altro che ricorrere al giudice dell’ottemperanza in sede di verifica dell’operato del commissario stesso. Sul punto cfr. Cons. St., dec. n. 298 del 1995; Tar Puglia, sent. n. 1296 del 1994.


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Un temperamento a tali radicali posizioni è stato introdotto dalla dottrina più recente (80), la quale ha chiarito che, seppur l’attività posta in essere dalla figura in esame ha sostanzialmente carattere amministrativo, ciò non significa che ne segua il regime e la disciplina. Per ovviare ai rigori cui conduce il primo indirizzo, l’altro orientamento, tra l’altro maggioritario, attribuisce natura giurisdizionale alla figura e alle decisioni del commissario ad acta. La figura in esame, infatti, ricava i suoi poteri da un atto di delega promanante dal giudice dell’ottemperanza, vale a dire da un organo giurisdizionale; egli, pertanto, deve essere considerato un organo ausiliario del giudice, da ciò consegue che « nella sua funzione non può considerasi soggetto ai criteri a suo tempo adottati dall’Amministrazione che è chiamato a sostituire » (81). Avendo natura di atti giurisdizionali, i suoi atti sono impugnabili dalle parti del processo con reclamo diretto al giudice dell’ottemperanza, secondo il principio per cui competente a giudicare sugli incidenti durante i procedimenti di esecuzione è lo stesso giudice che cura quest’ultima. Tutto ciò premesso, passando al caso di specie, occorre rilevare, in via preliminare, che il rito di cui all’art. 21-bis l. Tar, prevede un collegamento non solo cronologico, ma anche funzionale tra il giudizio di cognizione e il successivo giudizio di esecuzione, al suo interno enucleabili: se si ritiene, quindi, che al giudice sia preclusa la possibilità di stabilire di volta in volta quando la singola fattispecie consenta un accertamento completo della fondatezza della pretesa e quando no, ciò significa che la sentenza, che ordina all’amministrazione di provvedere, non potrà contenere alcuna indicazione circa il contenuto del provvedimento da emettere, ovvero circa i criteri in base ai quali provvedere. Il commissario ad acta, pertanto, risulterà del tutto libero da ogni accertamento giudiziale vincolante. Il che sarebbe di per sé un’anomalia rispetto al consueto quadro in cui si muove, normalmente, il commissario di nomina giudiziale; un’anomalia tanto (80) Cfr. M. CLARICH, in questa Rivista, 1998, 541 ss. (81) Cons. St., 7 ottobre 1998, n. 1202.


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più grave se si considera che persino per l’esecuzione della ordinanze cautelari il giudice non si limita a ordinarne l’esecuzione, ma ne indica anche le modalità, cosı̀ vincolando alla relativa osservanza la stessa Amministrazione e, in sua mancanza, il commissario. La nomina di tale figura non è accompagnata da nessun’altra precisazione da parte del giudice, è chiaro, quindi, che le modalità, i contenuti e, quanto meno, i criteri del provvedere devono essere specificati nella sentenza che conclude il giudizio di cognizione. Diversamente opinando, si relegherebbe il giudizio de quo ad un ruolo cognitorio e decisorio più riduttivo dello stesso giudizio cautelare e ciò non risulta giustificabile sotto alcun punto di vista. Appare d’uopo ricordare, infine, che l’accoglimento della tesi della natura amministrativa della carica commissariale, oltre a porsi in evidente contrasto con l’orientamento giurisprudenziale maggioritario formatosi circa la natura giuridica del « collega » nominato dal giudice dell’ottemperanza, di cui si è detto poc’anzi, porta a tutta quella serie di conseguenze logiche, sulle quali ci si è appena soffermati (82); conseguenze che, sotto l’aspetto giuridico non appaiono conformi al principio di razionalità, che costituisce una regola cardine del nostro ordinamento.

(82) Volendone fare un breve riepilogo esse sono: innanzitutto l’inammissibilità di un ricorso del commissario davanti al giudice del silenzio in caso di dubbio circa il contenuto da dare al provvedimento emanando, stante il carattere « neutro » dell’ordine di tale giudice; infine i rimedi esperibili avverso il provvedimento commissariale di contenuto sfavorevole per il ricorrente saranno quelli ordinari, non già il reclamo allo stesso giudice che lo ha nominato.


giurisprudenza annotata

Corte di Cassazione, Sezione Unite Civili, 16 aprile 2004, n. 7265. Pres. ff. Carbone, Est. Berruti - P.M. Iannelli (parzialmente conforme) - Comune di Vico Equense (Avv. Castellano) c. Barba Pasquale, C.O.D.A.C.O.N.S. e Azienda Risorse Idriche Penisola Sorrentina. Giurisdizione ordinaria e amministrativa - Rapporti individuali d’utenza - Spettanza. La formula « rapporti individuali », di cui all’art. 7, comma 2 della legge n. 205 del 2000, sottolinea la realtà ontologica della relazione giuridica che nasce da una negoziazione individuale, ovvero dalla negoziazione singola ancorché a sua volta elemento di una negoziazione di massa; pertanto non rientrano nella giurisdizione amministrativa quei rapporti cui il servizio pubblico dà vita con i singoli utenti aventi ad oggetto le singole utenze (1). L’espressione « soggetti privati » fa riferimento allo strumento giuridico che è fonte del rapporto individuale. Se esso non è di natura amministrativa, anche il rapporto individuale di tale utente, sia esso pubblico o privato, è escluso dalla giurisdizione del giudice amministrativo (2). Le controversie sui canoni di distribuzione del servizio d’acqua potabile anteriori alla data del 3 ottobre 2000 rientrano nella giurisdizione delle Commissioni Tributarie. (Omissis). 1. Con il primo motivo di ricorso il Comune, richiamando la giurisprudenza di queste Sezioni Unite sostiene la giurisdizione delle Commissioni Tributarie sulla controversia di cui si tratta ai sensi degli artt. 7, 37, 38 c.p.c. e 2 d.lgs. n. 546 del 1992 e 14 l. 36 del 1994. 2.a. Con il secondo motivo di ricorso il Comune lamenta la violazione dell’art. 21 del d.lgs n. 546 e 2934 cc. Sostiene che la eccezione di prescrizione è stata erroneamente respinta. 1.b. Con il terzo motivo il Comune lamenta la violazione degli artt. 2 d.lgs n. 546 del 1992, 14 1 n. 36 del 1994, 2 del dl 79/95 nonché della legge n. 444 del 1998 e dell’art. 12 delle preleggi. Sostiene che il canone in questione per la sua natura è dovuto anche in caso di mancanza del servizio relativo.


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MONICA DELSIGNORE

1.c. Con il quinto motivo il Comune lamenta la violazione degli artt. 23 e 97 della Costituzione conseguente al fatto che la sentenza impugnata ha violato oltre a norme comunitarie anche quelle costituzionali di cui alla epigrafe. 2. Si pone anzitutto la questione, che il collegio deve esaminare di ufficio, se la controversia avente l’oggetto che si è detto in narrativa e che è iniziata dopo della emanazione della legge n. 205 del 2000 e dunque nel vigore dell’art. 7 di tale normativa debba ritenersi attribuita alla giurisdizione esclusiva del G.A.: ciò per la ragione che il predetto art. 7 dopo della sentenza della Corte Costituzionale n. 292 del 17 luglio del 2000 che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 33 comma 1o del d.lgs. n. 80 del 1998 nella parte in cui questo istituiva una giurisdizione esclusiva del G.A. in materia di pubblici servizi anziché limitarsi ad estendere la giurisdizione amministrativa alle controversie aventi ad oggetto diritti patrimoniali consequenziali, ripristinava l’assetto normativo caducato dal giudice delle leggi riproducendo con alcune varianti il testo dell’art. 33 predetto. 3.a. Osserva il collegio che la norma in questione dopo di avere soffermato la generale devoluzione alla giurisdizione esclusiva delle controversie in materia di pubblici servizi, contiene al comma secondo l’elencazione di talune soltanto di tali controversie. La legge infatti recita: « tali controversie sono, in particolare, quelle... » e quindi provvede alla predetta elencazione distinta dalle lettere A fino ad E. L’uso della espressione « in particolare » chiarisce la natura non esaustiva dell’elencazione la quale risponde alla preoccupazione del legislatore di evitare che l’interprete possa pervenire ad escludere dalla giurisdizione appena stabilita talune controversie specifiche, rientranti comunque nella predetta materia. Alla lettera E) della elencazione di tali controversie imprescindibilmente attribuite alla giurisdizione esclusiva la norma indica quelle: « riguardanti le attività di ogni genere, anche di natura patrimoniale, rese nell’espletamento dei pubblici servizi, ivi comprese quelle rese nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale e della Pubblica Istruzione, con esclusione dei rapporti individuali di utenza con soggetti privati, ... ». Si tratta pertanto nel caso che ne occupa di intendere il significato della eccezione. Ovvero, premesso che la materia dei pubblici servizi appartiene alla giurisdizione esclusiva, di stabilire cosa si deve intendere per « rapporti individuali di utenza con privati ». Ritiene il collegio che il riferimento dell’esclusione in parola debba essere ricercato nella consapevolezza che la natura giuridica dei rapporti che fanno eccezione alla generale attribuzione al G.A. partecipa tuttavia a quella di pubblico servizio. Non si spiegherebbe un’eccezione ovvero « l’esclusione », come dice


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la legge, di una specifica controversia rispetto ad altre, dopo della sottolineata attribuzione alla giurisdizione di cui si tratta della materia dei pubblici servizi tutta intera, se non con la sua implicita appartenenza alla stessa. Il problema pertanto non è di stabilire, quanto alle controversie nei quali si contesta il canone di utenza, se si tratta di rapporti facenti capo ovvero rientranti nella predetta « materia particolare » nel senso dell’art. 103 Cost., ma piuttosto di distinguerli dentro la medesima. Ciò premesso sembra al collegio che la formula “rapporti individuali” utilizzata nella citata lettera E dell’art. 7, comma 2o, sottolinei la realtà ontologica della relazione giuridica che nasce da una negoziazione individuale, ovvero dalla negoziazione singola ancorché a sua volta elemento di una negoziazione di massa perché parte di una serie di rapporti individuali attraverso i quali si realizza un servizio pubblico. Quest’ultimo, che è funzione economico pratica destinata alla soddisfazione di un interesse generale, quale che sia lo strumento giuridico attraverso il quale la realizzazione si attua, può, come nel caso del servizio di distribuzione si acqua potabile per uso domestico, dare luogo ad una pluralità di rapporti individuali, tali perché la loro fonte è specifica ed unica e perché la loro vita può attraversare fasi e vicende del tutto distinte da quelle che possono attraversare i rapporti consimili attinenti lo stesso servizio. Pertanto può dirsi che quest’ultimo, che è dato dalla complessa relazione che si instaura tra il soggetto che organizza una offerta pubblica di prestazioni predefinite nei suoi caratteri attraverso un vero e proprio programma di servizio, il quale la rende doverosa per gli utenti, rientra nella giurisdizione amministrativa salvo, per l’appunto, quei rapporti cui esso stesso dà vita con i singoli utenti aventi ad oggetto le singole utenze. Sorregge questa interpretazione la precisazione della norma laddove si legge che i rapporti esclusi sono quelli che sorgono con soggetti privati. In realtà non si può ritenere che solo i rapporti di utenza con soggetti privati rientrino nella esclusione, giacché la disparità di trattamento con utenti pubblici dello stesso generalizzato servizio che danno vita a rapporti individuali nel senso detto, incontrerebbe ostacoli costituzionali. Ritiene pertanto il collegio che la espressione « soggetti privati » faccia riferimento allo strumento giuridico che è fonte del rapporto individuale. Se esso non è di natura amministrativa, ovvero è estraneo a fattispecie di tipo concessorio ma è invece strumento di diritto privato anche il rapporto individuale di un tale utente, sia esso soggetto pubblico o privato, rientra nella esclusione. La conclusione appena indicata appare coerente con i principi che regolano il riparto e la riserva di giurisdizione esclusiva. Nella fattispecie in esame infatti entrano in gioco posizioni di diritto soggettivo attinenti l’esecuzione di un contratto di diritto privato senza che ciò comporti alcuna valutazione del rapporto di servizio pubblico. Non viene in questione il titolo in base al quale l’erogatore del servizio opera


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quanto alla sua legittimità o al suo contenuto, ma solo l’esecuzione della singola prestazione e la sua ricaduta sul patrimonio dell’utente contraente. L’individuazione dell’esclusione che si trae dalla esegesi che si è fatta trova dunque una conferma logica nella considerazione della piena compatibilità della attribuzione da parte del legislatore di una particolare materia alla giurisdizione esclusiva con un’eccezione che tiene conto della natura esclusivamente patrimoniale di rapporti che non hanno alcuna connessione funzionale con l’ordinamento del servizio pubblico. 4. Esclusa per le ragioni dette la giurisdizione del G.A. va quindi rilevato che la controversia riguarda canoni risalenti ad un rapporto sorto antecedentemente all’ottobre 2000. Esso pertanto risale ad un atto precedente tale data e poiché il rapporto non può essere frazionato in altrettanti rapporti quanti sono i canoni mensili, tutto intero esso ricade nella precedente disciplina. Osserva pertanto il collegio che queste Sezioni Unite hanno raggiunto un orientamento stabile, secondo il quale fino alla data del 3 ottobre 2000, data di entrata in vigore dell’art. 24 del d.lgs. n. 258 del 2000 il canone per il servizio di depurazione integra un tributo comunale. Tale orientamento, risultante già da numerose sentenze fino all’anno 2001 (9883 del 2001 e 14266 del 2001 in particolare), fondava nel suo impianto originario essenzialmente sul rilievo della norma di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992, esattamente invocata dal Comune ricorrente. Successivamente peraltro le Sezioni Unite sono tornate sulla questione esaminando in particolare la portata dell’art. 24 del d.lgs. 258 del 2000 ed hanno ribadito il predetto indirizzo, arricchendolo di ulteriori precisazioni e pervenendo alla affermazione che il predetto art. 24 ha fatto venir meno, ma non solo per il futuro, il differimento della abrogazione della previgente disciplina che considerava detto canone un tributo, differimento che era stato disposto fino all’applicazione della tariffa del servizio idrico integrato di cui agli artt. 13 e ss. della legge n. 36 del 1994. Conseguentemente deve ritenersi che appartengono alla giurisdizione delle Commissioni Tributarie le controversie concernenti i canoni anteriore alla data del 3 ottobre 2000, non avendo il citato art. 24 d.lgs. n. 258 del 2000 efficacia retroattiva (SS.UU. 1735 del 2003, 1087 del 2003, 1086 del 2003 tra le ultime). Il collegio non ha motivo per discostarsi da questo orientamento. 3. Il primo motivo del ricorso del Comune è pertanto fondato e deve essere accolto, cassandosi la sentenza impugnata con gli effetti di cui all’art. 336 c.p.c. e dichiarandosi sulla controversia la giurisdizione del Giudice Tributario. È assorbita da tale accoglimento la trattazione degli altri motivi del ricorso. Ricorrono giusti motivi per compensare tra le parti le spese dell’intero giudizio. (Omissis)


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(1-2) I rapporti individuali di utenza con soggetti privati secondo l’interpretazione della Corte di Cassazione. SOMMARIO: Premessa. — 1. Il significato dell’esclusione dalla giurisdizione esclusiva delle « controversie individuali di utenza con soggetti privati »: una clausola ambigua, ma una controversia senz’altro relativa ai pubblici servizi. — 2. I rapporti individuali di utenza. — 3. Il valore dell’espressione rapporti « con soggetti privati ». — 4. Possibili contraddizioni con le impostazioni precedenti della stessa Corte di Cassazione. — 5. Considerazioni critiche circa l’interpretazione della norma da parte della Corte nella risoluzione dei conflitti di giurisdizione. — 6. La sentenza n. 204 del 2004 della Corte Costituzionale ed i suoi riflessi quanto alla giurisdizione in tema di controversie individuali di utenza con soggetti privati.

La Corte di Cassazione è chiamata ad indicare il giudice competente nel caso in cui un soggetto eserciti azione di condanna alla restituzione di una somma versata ad un Comune a titolo di canone per la prestazione del servizio idrico. Nonostante il conflitto tra le parti in giudizio verta sulla individuazione, quale autorità competente a decidere, del giudice ordinario o, invece, delle Commissioni Tributarie, la Cassazione coglie l’occasione per precisare il significato della controversa formula « rapporti individuali di utenza con soggetti privati », formula sulla quale, peraltro, la Corte stessa già aveva avuto modo di riflettere. 1. Il criterio del servizio pubblico — utilizzato per individuare la materia riservata alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 33 del d.lgs. n. 80 del 1998 e poi confermato, a seguito del noto intervento demolitorio della Corte Costituzionale, dalla legge n. 205 del 2000 — non implica certo esiti chiarificatori quanto al riparto di giurisdizione soprattutto, come evidenziato dalla dottrina e dalle perplessità della giurisprudenza (1), quando ci si riferisca all’elencazione esemplificatoria e alle clausole derogatorie del criterio medesimo. (1) Si ricordino le ben note sentenze della Cass. sez. un. 30 marzo 2000, n. 71 e 72, in Foro it., 2000, I, col. 2210 e l’ord. Cons. St., ad. Plen. 30 marzo 2000, n. 1, in Foro it., 2000, III, 365. Per un commento a confronto dei provvedimenti A. TRAVI, La giurisdizione amministrativa al bivio, in Giorn. dir. amm., 2000, 556; B. SASSANI, Le alte Corti all’impatto delle questioni di giurisdizione dell’art. 33 d.lgs. 80 del 1998: prime impressioni di lettura, in Giust. civ., 2000, I, 1321; R. GAROFOLI, in Urb. app., 2000, 603;


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I commi successivi dello stesso art. 33 contengono appunto alcune precisazioni, forse con intenti esplicativi. In particolare, la nuova lettera e) specifica (2) che attengono alla giurisdizione esclusiva le controversie « riguardanti le attività e le prestazioni di ogni genere, anche di natura patrimoniale, rese nell’espletamento di pubblici servizi... con esclusione dei rapporti individuali di utenza con soggetti privati, delle controversie meramente risarcitorie che riguardano il danno alla persona o a cose... » (3). Sin dalle prime letture la dottrina ha inevitabilmente sottolineato la difficoltà nell’interpretazione del significato della lett. e) del comma 2 dell’art. 33 (4). Non può non ricordarsi che, già prima dell’entrata in vigore della norma, l’Adunanza generale del Consiglio di Stato (5) aveva V. CARBONE, in Corr. giur., 2000, 604; M. ANTONIOLI, Prime notazioni in tema di riparto fra le giurisdizioni in materia di pubblici servizi e sulla tutela cautelare dei diritti soggettivi dinanzi al giudice amministrativo, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2000, 511; F. GOISIS, La nozione di servizio pubblico come criterio di riparto tra le giurisdizioni, in questa Rivista, 2001, 238; M. CUNIBERTI, Il servizio pubblico nella nuova giurisdizione esclusiva (art. 33 del decreto legislativo n. 80 del 1998, come modificato dalla legge 21 luglio 2000, n. 205), in Servizi pubblici concorrenza diritti, a cura di L. Ammaniti, M.A. Cabiddu, P. De Carli, Milano, 2001, 269. (2) Come già la precedente lett. f) dell’art. 33 d.lgs. n. 80 del 1998. (3) Nello stesso senso Cass. civ., Sez. un., 10 giugno 2003, n. 9297, in Foro amm. (C.d S.), 2003, 1829 (s.m.). (4) Tra gli altri, M. MAZZAMUTO, Servizi pubblici e giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nel d.lgs. n. 80 del 1998, in Riv. giur. quadr. serv. pubbl., 1999, 25 « Eppure la norma contiene un’eccezione forse significativa: sono esclusi i “rapporti individuali di utenza con soggetti privati”. La formula è per la verità avara di chiarezza: che significa rapporti “individuali” di utenza? E soprattutto che significa soggetti “privati”? in particolare: deve ritenersi che, a dispetto della teoria dell’organo indiretto, rimanga un ambito di gestori privati, a tutti gli effetti, del servizio pubblico? E che, in tali casi, i rapporti tra il gestore privato e gli utenti — non comunque quelli con l’amministrazione (si tenga a mente i “gestori comunque denominati” della lett. b) — siano quindi sottratti al giudice amministrativo? »; nello stesso senso R. COLAGRANDE, Disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti, in Nuove leggi civ. comm., 1998, 715, « Premesso che, ad una prima lettura, non risulta chiaro se per soggetti privati, a prescindere da ogni ulteriore approfondimento, debbano intendersi gli erogatori del servizio pubblico oppure gli utenti dello stesso servizio, ad una più attenta riflessione sembra evidente che entrambe le soluzioni interpretative conducono a risultati aberranti ». (5) In tal senso il parere n. 30 del 1998, in Giust. civ., 1998, II, 245, ove si afferma appunto che « ... riferendosi alle attività e alle prestazioni di ogni genere, può apparire devolvere alla giurisdizione del giudice amministrativo anche tutte le controver-


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confidato che i rapporti di utenza restassero espressamente esclusi dalla cognizione del giudice amministrativo. La giurisprudenza, chiamata ad applicare il diritto, ha provato a comprendere quali siano i limiti al sindacato del giudice amministrativo, che la norma attributiva ha voluto cosı̀ confusamente tracciare. Concordemente si è osservato che la scelta del legislatore di introdurre una clausola d’eccezione quanto alla controversie inerenti a rapporti individuali di utenza con soggetti privati indica che tali controversie sarebbero, diversamente, ricomprese nella giurisdizione esclusiva in quanto attratte nella materia dei servizi pubblici. Pertanto, è all’interno dell’attività di espletamento del pubblico servizio che si collocano i rapporti individuali di utenza. Anche la Cassazione conviene nel definire il punto di partenza del suo ragionamento nella consapevolezza che « ... la natura giuridica dei rapporti che fanno eccezione alla generale attribuzione al G.A. partecipa tuttavia a quella di pubblico servizio ». Il problema di interpretazione nasce, perciò, dall’esigenza di distinguere all’interno della materia servizi pubblici, cui, senza dubbio, le stesse appartengono, le controversie individuali di utenza con soggetti privati. La Cassazione, peraltro, tenta, anche in questo arresto, di fornire una definizione della materia oggetto della giurisdizione esclusiva e cosı̀ afferma che è pubblico servizio la « ...funzione economico pratica destinata alla soddisfazione di un interesse generale ». sie tra utente e gestore relative ai servizi pubblici, sanità e istruzione. Riguardo a quest’ultimo aspetto può ritenersi che le controversie relative all’ammissione al servizio pubblico, cosı̀ come quelle per danno nei confronti dell’autorità di settore, che non possono considerarsi meramente risarcitorie investendo ambiti di esercizio del potere, rientrino fra quelle devolute al giudice amministrativo, dovrebbero intendersi, invece, comunque, escluse le controversie relative alla c.d. responsabilità amministrativa del dipendente pubblico attribuite alla giurisdizione della Corte dei conti, cosı̀ come quelle meramente risarcitorie e, in particolare, quelle promosse dall’utente del servizio leso nella sua integrità fisica... Comunque, ferme restando queste precisazioni interpretative, il Consiglio ritiene utile una previsione espressa, che escluda dalla devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, le controversie concernenti i rapporti individuali di utenza con soggetti privati relative alle prestazioni del servizio ».


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Pur non essendo intento della Corte definire i confini precisi della materia, è evidente il riferimento ad una nozione oggettiva di servizio pubblico, ove il fine di interesse generale della funzione economica vale a identificarla. Del resto, la stessa Corte aveva già riflettuto e definito il significato della formula nelle note sentenze n. 71 e 72 del 2000 e, ancora nell’aprile di quest’anno (6), ha ribadito, sempre riferendosi all’esecuzione di un contratto in favore della pubblica amministrazione, che è servizio pubblico « non ogni attività privata, pur soggetta a controllo, vigilanza o autorizzazione da parte di una pubblica amministrazione », ma il servizio che « comporti una prestazione resa da un soggetto pubblico (o privato che al primo, in forza di diversi meccanismi giuridici, si sostituisca) alla generalità degli utenti ». La definizione contenuta nella sentenza qui in commento risulta, però, in virtù della sua estrema generalità, assai poco utile e discriminante e ciò nonostante il profilo in considerazione sia nuovo, trattandosi dell’indicare il valore del rapporto di utenza nella materia pubblico servizio ed il come ed in quali limiti lo stesso sia contenuto in quella materia. D’altra parte, come si è detto, al giudice non interessa ricostruire l’ambito della giurisdizione esclusiva, poiché la questione afferente al rapporto d’utenza è per natura compresa nella materia pubblici servizi e il quesito verte, piuttosto, sull’eventualità della sua esclusione in virtù di una clausola derogatoria. Il giudice, pertanto, semplicisticamente ricostruito l’ambito della giurisdizione esclusiva, ritiene piuttosto di delimitare all’interno della materia pubblico servizio la sfera delle controversie individuali d’utenza con soggetti privati. La Cassazione, nel tentativo di semplificare l’ambiguità della clausola d’esclusione utilizzata dal legislatore, si orienta a sviluppare il suo ragionamento distinguendo i due profili della formula normativa, ovvero considerando distintamente, da un lato, il significato del rapporto individuale d’utenza, dall’altro, il senso della specificazione con soggetti privati. (6)

Ordinanza 19 aprile 2004, n. 7461 reperibile su www.lexitalia.it.


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2. Nella sentenza in commento, il collegio abbraccia quell’orientamento, già seguito da alcuni giudici ordinari e amministrativi, che riconduce l’individualità alla sussistenza di un contratto negoziato tra le parti. Anzi l’intera formula normativa è ricostruita secondo questa impostazione. La Cassazione precisa che la norma sottolinea « la realtà ontologica della relazione giuridica che nasce da una negoziazione individuale, ovvero dalla negoziazione singola ancorché a sua volta elemento di una negoziazione di massa perché parte di una serie di rapporti individuali attraverso i quali si realizza un servizio pubblico ». Parte della giurisprudenza (7) aveva già riferito l’individualità alla necessaria sussistenza di un contratto tra ente erogatore ed utente. Le controversie sarebbero, cioè, individuali, quando il servizio è erogato all’utente a seguito dell’instaurarsi di un rapporto di natura contrattuale, più in generale bilaterale, tra l’utente medesimo ed il gestore, e la controversia verta sull’interpretazione delle clausole del contratto medesimo (8). Si ragionava, però, con un’accezione diversa da quella fatta propria dalla Cassazione ritenendo la deroga avverata alla sola sussistenza e rilevanza di un contratto. Non si richiede, infatti, che il ricorrente sia l’effettivo contraente, ma, semplicemente, che ai (7) Cosı̀ Tribunale di Palermo, sez. I, 29 dicembre 1999-10 gennaio 2000 pronunciatosi circa la legittimazione all’azione inibitoria di un’associazione di consumatori nell’ambito di un contratto afferente al servizio idrico, in Giorn. dir. amm., 2000, 983, con commento di P. Pizza e in Corr. Giur., 2000, 772 con commento di R. Conti. (8) Sembra condividere tale impostazione P. PIZZA, op. cit., 986, che spiega che esistono servizi che vengono comunque erogati in concreto ad una collettività indeterminata di utenti e che possono definirsi servizi « a partecipazione generale in quanto tutti vi siano ammessi senza distinzione e senza limiti ». Ad essi si contrappongono servizi nei quali l’erogazione in concreto è subordinata alla compresenza di determinate condizioni, quali ad esempio il pagamento di un tributo da parte dell’utente o la stipula di un contratto, ovvero servizi « a partecipazione speciale o individuale ». È nell’ambito di tali rapporti individuali di utenza che devono poi distinguersi quelli con soggetti privati sottratti alla giurisdizione esclusiva. Si crede, però, che cosı̀ ragionando, non avrebbe più alcun senso la specificazione individuali: solo i servizi individuali si basano su di un rapporto di utenza, poiché non sembra possa parlarsi di rapporto di utenza per servizi a cui tutti sono ammessi « senza distinzioni e senza limiti ».


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fini della decisione rilevino la sussistenza ed il contenuto di clausole contrattuali. Pertanto, anche controversie promosse da associazioni portatrici di interessi collettivi potrebbero considerarsi controversie individuali. Ciò avverrebbe quando l’interesse tutelato da tali associazioni fosse la « mera sommatoria degli interessi individuali degli utenti » del servizio, intesi appunto quali posizioni di vantaggio derivanti dal rapporto bilaterale instauratosi tra erogatore e fruitore della prestazione. L’ente sarebbe, cioè, « rappresentativo di interessi di cui sono portatori i singoli consumatori in qualità di contraenti con l’ente erogatore del servizio..., e non già in qualità di soggetto delegato alla tutela di interessi collettivi astrattamente inidonei alla configurazione di una controversia individuale ». Siffatta conclusione, cui la Cassazione certo non aderisce, è, però, fortemente dubbia. Cosı̀ ragionando, infatti, si finirebbe con l’introdurre nell’ordinamento una legittimazione processuale sui generis delle associazioni di utenti, non più quali portatrici di interessi collettivi (9), bensı̀ quali sostituti processuali di singoli utenti (10). (9) M. S. GIANNINI, in Le azioni a tutela di interessi collettivi, Padova, 1976, 352, spec. 357 « ... altro è l’interesse collettivo in quanto interesse di un gruppo che esiste nella collettività generale, altro sono gli interessi ai singoli beni della vita, sia pur compresi nell’interesse collettivo ossia nella finalità dell’ente portatore degli interessi collettivi ». (10) Se si realizzasse la sostituzione processuale, ne deriverebbe che gli effetti del giudicato sostanziale rispetto alle associazioni, opererebbero anche a danno degli utenti. Analoga precisazione, pur in riferimento alle diverse fattispecie di cui alla legge n. 281/1998, si trova in A. GIUSSANI, La tutela di interessi collettivi nella nuova disciplina dei diritti dei consumatori, in Danno e resp., 1998, 1061, ove riferendosi all’elencazione dell’art. 1 della legge n. 281/1998 si afferma che « le condotte lesive di tali diritti fondamentali assumono una dimensione plurioffensiva che rende possibile sia una tutela in via individuale da parte dei singoli consumatori sia la tutela dell’interesse collettivo da parte delle loro associazioni; ... Questa ricostruzione non implica che si configuri un fenomeno di sostituzione processuale rispetto ai consumatori: questi ultimi non sono titolari, come individui, né dell’interesse collettivo, né tanto meno della legittimazione a farlo valere, ma solo dei propri diritti soggettivi. Di conseguenza deve escludersi che gli effetti del giudicato sostanziale, che si forma rispetto alle associazioni, possano operare anche in loro pregiudizio ».


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L’interesse collettivo (11) non è mai stato considerato, né può individuarsi nella mera sommatoria di più interessi individuali (12). Esso assume, proprio perché facente capo ad una categoria, una connotazione ed una forza diversa. L’associazione non è portatrice di un interesse proprio e personale, ma nemmeno della sommatoria degli interessi individuali di alcuni utenti del servizio suoi affiliati. L’associazione è portatrice, appunto, dell’interesse collettivo ovvero dell’interesse generale della categoria, che emerge attraverso l’aggregazione e l’omogeneizzazione delle diverse e distinte posizioni e prospettive individuali (13). Diversa(11) Il tema è stato oggetto di numerosi studi. Oltre a R. FERRARA, voce Interessi collettivi e diffusi (ricorso giurisdizionale amministrativo), in Dig. disc. pubbl., Torino, si ricordano Atti del Convegno Rilevanza e tutela degli interessi diffusi: modi e forme di individuazione e protezione degli interessi della collettività, Milano, 1978; A. ANGIULI, Interessi collettivi e tutela giurisdizionale, Napoli, 1986; R. FEDERICI, Gli interessi diffusi, Padova, 1984; M. NIGRO, Le due facce dell’interesse diffuso: ambiguità di una formula e mediazione della giurisprudenza, in Foro it., 1987, V, col. 7; SALVATORE, Il problema della legittimazione: interesse legittimo, interesse collettivo, interesse diffuso, interesse di fatto, in Studi per il centenario della Quarta Sezione, Roma, 1989, vol. II, 489, G. SANTANIELLO, La tutela degli interessi diffusi dinnanzi al giudice amministrativo, in Studi per il centocinquantenario del Consiglio di Stato, Roma, 1981, 1547, G. VILELLA, Situazione legittimante e organizzazione degli interessi, Bologna, 1991; AA.VV., Le azioni a tutela di interessi collettivi, Padova, 1976; R. ROTA, Gli interessi diffusi nell’azione della Pubblica Amministrazione, Milano, 1998; L. MARUOTTI, La tutela degli interessi diffusi e degli interessi collettivi in sede di giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo: questioni di giurisdizione e selezione dei soggetti legittimati all’impugnazione, in questa Rivista, 1992, 253. (12) Nello stesso senso anche la normativa comunitaria (dir. 98/27/CE) che chiarisce (II considerando) che « per interessi collettivi si intendono gli interessi che non comprendono la somma degli interessi di individui lesi da una violazione ». (13) Cosı̀ precisa altro giudice amministrativo, Cons. St., sez. VI, 15 dicembre 1998, n. 114 (ord.), in Urb. app., 1999, 173, affermando che la « ... tutela di interessi collettivi » pertiene ad interessi propri degli « ...utenti non uti singuli, ma, come componenti di una classe di individui la cui sfera soggettiva è esposta all’organizzazione ed al livello di qualità dei servizi pubblici ». Il collegio precisa, inoltre, che « ... intorno a tale interesse collettivo sorga una posizione soggettiva ascrivibile al novero dei diritti configurati all’art. 1 della legge 30 luglio 1998 n. 281, posizione soggettiva riferibile inscindibilmente ad una serie indeterminata di soggetti utenti e la cui violazione non dà luogo, in linea di principio, ad una controversia individuale, ai fini della giurisdizione amministrativa quale delimitata dall’art. 33 d.lgs. 80/98 » e distingue tra « situazioni soggettive derivanti dalla qualità di contraente individuale » e « la pretesa ad una corretta organizzazione dei pubblici servizi ». Rileva, inoltre che « la legittimazione ad azionare tale posizione soggettiva connessa ad un interesse collettivo discenda dalla


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mente, l’organizzazione non sarebbe, nell’ordinamento italiano, legittimata ad agire. Se controversia individuale indentificasse ogni questione purché riferita ad un contratto, si introdurrebbe, infatti, senza alcuna espressa, e nemmeno implicita, previsione legislativa a riguardo, un’azione propria di altri sistemi giuridici, la c.d. class action (14), ampiamente diffusa negli Stati Uniti (15). Tale istituto, proprio del processo civile anglosassone, risponde all’esigenza di provvedere in merito a situazioni plurisoggettive, favorendo l’attuazione del diritto sostanziale e l’uniformità delle decisioni (16). Il giudicato, infatti, si estende a tutti i soggetti appartenenti ad una « classe », in quanto essi risultino adeguatamente rappresentati dalle parti presenti in giudizio. L’azione trova applicazione (17) quando la « classe » è cosı̀ numerosa da rendere impraticabile la partecipazione formale al giudizio di tutti suoi componenti e le questioni di fatto e di diritto sono comuni a tutta la classe. Si designa, allora, un representitive, che fa valere in proprio pretese omogenee o isomorfe a quelle fatte valere in favore dei rappresentati ed è in grado di poter o saqualità di ente esponenziale ope legis che è attribuita solo in base al sistema previsto dagli artt. 3 e 5 della legge n. 281/98 ». (14) Per una trattazione completa A. GIUSSANI, Studi sulle class actions, Padova, 1996. L’istituto è disciplinato a livello federale dalla Federal Rule of Civil Procedure 23. Le discipline statali si conformano a quella federale. (15) Sulla netta distinzione tra l’azione collettiva di concezione europea e la class action del sistema statunitense si trovano precisazioni anche in R. CAMERO, S. DELLA VALLE, La nuova disciplina dei diritti del consumatore, Milano, 1999. Sulla difficoltà di introdurre tale istituto nel nostro ordinamento anche U. RUFFOLO, Interessi collettivi e diffusi e tutela del consumatore, Milano, 1985, 60. (16) In proposito A. GIUSSANI, op. cit., 132 spiega che tale funzione delle class actions, deve ricondursi ad esigenze tipiche del capitalismo sviluppato, che impongono di superare la ristretta ottica individualistica del processo adversary per rispondere alle esigenze della massificazione e della crescente complessità dei sistemi di produzione e di distribuzione, in modo da tutelare i diritti di gruppi, come quelli dei consumatori. (17) Si rilascia in tal caso una certifications ovvero l’autorizzazione a procedere in forma rappresentativa in limine litis. Tale autorizzazione contiene la descrizione delle caratteristiche della « classe » e l’accertamento della sussistenza dei requisiti per applicare l’istituto. La certificazione permette agli assenti di esercitare il diritto di autoescludersi dalla classe attraverso una notice indirizzata a tutti i componenti della « classe ».


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per proteggere adeguatamente ed equamente gli interessi della classe (18). Le brevissime considerazioni sul meccanismo della class action permettono di comprendere l’assurdità del riferire l’individualità al fatto che oggetto della controversia sia un contratto di utenza e da ciò derivare che anche l’associazione possa essere parte attrice in una controversia individuale di utenza. È chiaro, infatti, che la decisione della controversia sarebbe imposta agli utenti, associati e non, senza alcuna possibilità di escludersi dal procedimento giurisdizionale in corso e senza alcuna garanzia del contraddittorio (19). L’azione proposta da un’associazione che non è portatrice di interessi collettivi, bensı̀ della mera sommatoria degli interessi individuali dei propri membri non può trovare spazio alcuno nel nostro sistema di giustizia (20). Certo ciascun associato potrà far valere singolarmente la sua posizione, e, nel caso di connessione, sarà anche possibile una trattazione unitaria dei diversi procedimenti giudiziali, ma l’associazione non potrà mai dirsi portatrice della stessa azione, ancorché moltiplicata per ciascuno dei suoi membri, che ogni utente potrebbe proporre individualmente. L’interesse collettivo, di cui l’associazione è titolare, assume conno(18) Le class actions sono tripartite in: I) controversie a litisconsorzio necessario (joinder of persons needed for just adjudication), quando la controparte della classe ha interesse alla risoluzione della controversia in unico senso ovvero la risoluzione della lite nei confronti di solo alcuni litisconsorti comporterebbe un pregiudizio pratico per gli altri; II) civil rights actions: richiesta di provvedimenti inibitori (injuctions) o di pronunce meramente dichiarative (declaratory judgements); III) come strumento di economia processuale: le questioni comuni prevalgono su quelle individuali, per evitare cause-pilota. (19) Sulla necessità di garantire pur sempre il contraddittorio M. CAPPELLETTI, Appunti sulla tutela giurisdizionale, cit., 191, afferma che se gli schemi del garantismo individuale si rivelano insufficienti ciò « significa cercare il loro superamento, ma non significa affatto voler abolire ogni esigenza garantistica. Al posto di quello superato o da superarsi, deve nascere un nuovo tipo di garantismo...“ attraverso un’analisi di rappresentatività in concreto...” il rispetto delle fondamentali garanzie processuali nei confronti di quella parte, sarà sufficiente per tutti, perché tutti gli interessati saranno adeguatamente rappresentati da quella “parte ideologica” ». (20) Sulla impossibilità allo stato attuale di introdurre nel nostro sistema la class action cfr. G. ALPA, Il diritto dei consumatori, Roma- Bari, 1999, 408 e, in particolare, 411.


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tati propri e distinti dalla posizione di diritto o di interesse che fa capo al singolo associato (21). La Cassazione certo non aderisce al ragionamento appena ricordato, sottolineando piuttosto come i rapporti individuali esclusi dalla giurisdizione esclusiva si riferiscono a rapporti cui il servizio pubblico « ... dà vita con i singoli utenti aventi ad oggetto le singole utenze ». Si individuano, allora, le controversie in cui parti litiganti siano un soggetto utente ed un soggetto erogatore del servizio. L’individualità allude, cioè, al fatto che l’utente avanza una pretesa, fa valere una posizione soggettiva, che fa capo a lui solo o che assume connotazioni particolari nel suo caso specifico, sı̀ che la soluzione della controversia medesima rileva solo entro la sfera giuridica di quell’utente determinato, costituendo semmai un precedente giurisprudenziale, ma non comportando alcuna modificazione alle posizioni di altri utenti del medesimo servizio. La nozione, fatta propria dalla Suprema Corte, di rapporto individuale di utenza, come rapporto che può far capo solo all’utente in quanto singolo e non alle formazioni collettive, era già accolta dalla giurisprudenza dei giudici amministrativi (22), né (21) Ciò non implica un giudizio positivo quanto all’opzione del legislatore di escludere la class action dai rimedi a disposizione degli utenti e consumatori, giudizio che richiederebbe considerazioni non solo giuridiche, quanto economiche e di politica del diritto. In proposito lo stesso A. GIUSSANI, La tutela di interessi collettivi nella nuova disciplina dei diritti dei consumatori, in Danno e resp., 1998, 1061, operando un parallelo tra la class action statunitense e la soluzione europea, afferma che quest’ultima sarebbe meno efficiente « soprattutto dal punto di vista della strutturazione degli incentivi: il compenso per l’attività di tutela del gruppo dipende essenzialmente da contribuzioni spontanee, che possono essere attirate più dalla notorietà che dalla fondatezza dell’iniziativa, e che comunque diventano meno probabili quanto più il gruppo è disperso e come tale bisognoso di una tutela di portata collettiva ». (22) In particolare su questo punto Cons. St., sez. VI, ord. 15 dicembre 1998, n. 1884, in Urb. app., 1999, 173, con nota di S. Della Valle, e in Corr. giur., 1999, 494, con il commento di G. De Marzo. Ivi si precisa che, poiché la controversia attiene « alla tutela di interessi collettivi, cioè pertinenti agli utenti non uti singuli, ma, come componenti di una classe di individui la cui sfera soggettiva è esposta all’organizzazione ed al livello di qualità dei servizi pubblici », « ... intorno a tale interesse collettivo sorge... una posizione soggettiva riferibile inscindibilmente ad una serie indeterminata di soggetti utenti e la cui violazione non dà luogo, in linea di principio, ad una controversia individuale, ai fini della giurisdizione amministrativa quale delimitata dall’art. 33 d.lgs. n.


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era espressamente esclusa da parte di alcuni giudici ordinari (23). Cosı̀ il giudice amministrativo ha ritenuto che la nozione si riferisca a « rapporti tra soggetto erogatore e consumatore finale instaurati in base a (e regolati da) un contratto di diritto privato » (24). Non rileva il solo titolo contrattuale, ma il ricorrente è lo stesso contraente. La giurisprudenza (25) amministrativa specifica, inoltre, che qualora venga in evidenza l’ammissione al godimento di una prestazione pubblica o la concessione, sovvenzione o sussidio, cioè, in genere, quando rilevi un atto amministrativo, allora non potrebbe più parlarsi di rapporto individuale di utenza e, quindi, si tornerebbe nell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. In realtà tale affermazione non pare logicamente connessa con la nozione di rapporto individuale di utenza, ma semmai trova ragione nel fatto che alla base di atti amministrativi vi sia un potere amministrativo e, dunque, non tanto non si tratti più di rapporto individuale di utenza, quanto di rapporti con soggetti privati. L’atto amministrativo ci avverte dell’entrata in gioco del potere pubblico allo stesso sotteso. Se è vero che le pretese individuali trovano la loro fonte nel 80 del 1998 ». Il collegio precisa che, nel caso di specie, « ... non si controverte delle situazioni soggettive derivanti dalla qualità di contraente individuale ma della pretesa ad una corretta organizzazione dell’erogazione dei pubblici servizi, sı̀ da garantirne “sicurezza e qualità”, senza che siano riservati sugli utenti i costi di eventuali disservizi ». (23) In proposito si consideri la sentenza del Tribunale di Palermo, sez. III, 3 febbraio 1999, in Corr. giur., 1999, 588. Il collegio demanda alla giurisdizione del giudice ordinario la cognizione dell’azione inibitoria di cui all’art. 1469-sexies c.c., interpretando in tal senso il riferimento al « giudice competente », che si trova anche nell’art. 1469-sexies c.c., ed il rinvio espresso agli artt. 669-bis e ss. c.p.c. Il Tribunale precisa, però, che nella controversia in discussione si prescinde « dalla disciplina introdotta con il d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, che all’art. 33 ha devoluto al giudice amministrativo tutte le controversie in materia di pubblici servizi », con ciò sottointendendo, probabilmente, che diversamente si sarebbe dovuto ragionare qualora tali norme fossero state rilevanti. Per un commento alla sentenza G. SAPIO, L’inibitoria ex art. 1469-sexies c.c. tra problemi risolti e questioni ancora aperte, in Giust. civ., 2000, 241, in particolare 247 ove si esprimono dubbi sulla risoluzione del problema della cognizione sulle controversie tra utenti e gestori di un pubblico servizio in materia di clausole vessatorie. (24) Cosı̀ Tar Campania, sez. I, 28 marzo 2001, n. 1358, reperibile su www.giust.it. (25) Sempre Tar Campania, sez. I, 28 marzo 2001, n. 1358, cit..


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contratto stipulato dall’utente con l’erogatore del servizio, esse possono, però, derivare sia dall’applicazione specifica del contratto al caso concreto e dal corretto svolgersi del rapporto di utenza tra i due soggetti determinati, sia, invece, da clausole o standards di servizio contenuti nel contratto medesimo ed inseriti di diritto in virtù di atti generali, regolamenti (26) o carte del servizio (27), i cui tratti fondamentali sono predefiniti a livello statale (28). (26) Si pensi alle direttive sui livelli di qualità dei servizi stabilite dall’Autorità dell’energia e elettrica e del gas, che hanno effetti autoritativi puntuali nella sfera dell’imprenditore erogatore: le determinazioni in esse contenute, infatti, si inseriscono di diritto, modificando o integrando il diverso regolamento di servizio, definito dall’esercente, che non garantisca livelli equivalenti o superiori a quelli indicati dall’Autorità, in base agli art. 2 e 32 della delibera dell’Autorità dell’energia elettrica e del gas n. 201 del 1999. (27) Si ricordi che le Carte di servizio sono state introdotte con la direttiva P.C.M. del 27 gennaio 1994, in cui si indicavano come principi di carattere generale per la redazione l’uguaglianza, l’imparzialità, la continuità, il diritto di scelta, la partecipazione, l’efficienza e l’efficacia. Tale indicazione di principio si accompagnava disposizioni generali cui si accompagnavano disposizioni più specifiche per ciascun erogatore del servizio, tra le quali quelle sulla qualità del servizio. Successivamente il decreto legge del 12 maggio 1995, n. 163, convertito nella legge 11 luglio 1995, n. 273 ha stabilito l’obbligo dell’adozione delle carte da parte delle amministrazioni erogatrici in base a schemi generali di riferimento approvati con decreto del Presidente del consiglio dei ministri, su proposta del Dipartimento della funzione pubblica e d’intesa con le amministrazioni interessate (art. 2). In realtà si trattava pur sempre di disposizioni generali, che potevano poi essere adeguate alle esigenze concrete dei singoli settori. La disciplina è stata abrogata e ancora modificata dall’art. 11 del d.lgs. 30 luglio 1999, n. 286 che ha ribadito l’obbligatorietà ex lege della carta, stabilendo inoltre che gli standard di qualità del servizio siano individuati con direttive del Presidente del Consiglio dei Ministri, aggiornate di anno in anno. Sulla carta del servizio G. VESPERINI, S. BATTINI, La carta dei servizi pubblici: erogazione delle prestazioni e diritti degli utenti, Rimini, 1997; G. SCIULLO, Profili della direttiva 27 gennaio 1994 (« Principi sull’erogazione dei servizi pubblici »), in Dir. dell’eco., 1995, 47; C. LACAVA e G. VECCHI, L’amministrazione nella XI legislatura, in Riformare la pubblica amministrazione, AA.VV., Torino, 1995, 11; S. BATTINI, La carta dei servizi, in Giorn. dir. amm., 1995, 703; G. SBISÀ, Natura e funzione delle « Carte dei servizi ». La carte del servizio elettrico, in Rass. giur. en. elettr., 1997, 333; G. VESPERINI, L’attuazione della carta dei servizi pubblici in Italia; S. BATTINI, La tutela dell’utente e la Carta dei servizi pubblici, in Riv. trim. dir. pubbl., 1998, rispettivamente 173 e 185; L. IEVA, Carte dei servizi pubblici e tutela degli utenti, in www.giust.it; F. PUGLIESE, Le carte dei servizi. L’Autorità di regolazione dei servizi pubblici essenziali. I controlli interni, in Riv. trim. app., 1995, 233. (28) Nel senso della ricomprensione nella giurisdizione esclusiva delle controversi attinenti ad atti generali A. TRAVI, op. cit., 1521, il quale afferma che la formula-


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La Corte, pur senza mostrare di riferirsi alla questione, si esprime nel senso del titolo individuale alla pretesa e della necessità della negoziazione. Ora poiché in ipotesi di controversie quanto all’applicazione di standards generali, a loro volta derivanti da atti generali, provvedimenti di regolazione, organizzativi del servizio, talora predisposti dalle Autorità di regolazione, ovvero inseriti di diritto nel contratto in virtù di carte del servizio, la pronuncia avrebbe necessariamente un riflesso anche nella sfera degli altri utenti del medesimo servizio, si ritiene che in tali fattispecie verrebbe a mancare quell’individualità del rapporto, cui si riferisce l’eccezione secondo la Corte. Di conseguenza tali controversie rientrerebbero nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. D’altra parte, certo non sono negoziate le clausole introdotte in virtù di provvedimenti di regolazione o organizzativi del servizio. Anzi proprio l’introduzione di diritto nel contratto sulla falsariga delle disposizioni generali contenute nell’atto normativo — si pensi anche alle Carte del servizio — esclude quella negoziazione cui espressamente si riferisce la Corte. Diversamente ragionando si legittimerebbe l’utente singolo ad introdurre in giudizio un’azione popolare (29), in cui si fanno valere interessi collettivi propri di tutti gli utenti, attuali e potenziali, del servizio cui afferiscono gli oneri e doveri generali, contenute appunto nel regolamento o nella carta di servizio, del pubblico servizio controverso. zione della norma riflette la contrapposizione tra vertenze concernenti « rapporti individuali di utenza » e le vertenza concernenti « l’applicazione delle carte dei servizi ed i regolamenti generali dei servizi », che si intendevano invece riservare al giudice amministrativo. In tal senso attribuisce alla giurisdizione esclusiva tutte le controversie in tema di carte del servizio, tariffe, fissazione di condizioni generali del servizio. « Quando il servizio è svolto da un soggetto pubblico al GA spettano tutte le controversie inerenti non solo alla prestazione tipica del pubblico servizio, ma in genere al rapporto di utenza e quindi tutte le modalità e le condizioni per l’erogazione ». Concorde M. RAMAJOLI, La tutela degli utenti nei servizi pubblici a carattere imprenditoriale, in Dir. amm., 2000, 383, in particolare 444. (29) In tal senso Cons. Stato, sez. IV, 30 giugno 2003, n. 3876, in Foro amm. (C.d.S.), 2003, 1867 (s.m.) nega la legittimazione ad agire in capo ad un cittadino, « uti singulus, avverso i provvedimenti di approvazione delle tariffe (n.d.r. notarili), in quanto non è portatore di un interesse collettivo rispetto al quale la legge preveda un’azione “popolare” ».


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3. Esaurito il quesito circa il valore delle controversie individuali, la Corte si interroga sull’altro aspetto assai poco chiaro della disposizione, ovvero il significato del riferimento a « i soggetti privati », quali parti del rapporto di utenza, aspetto di perplessa interpretazione. La norma non specifica, infatti, se soggetti privati debbano essere gli utenti o i gestori del servizio ovvero entrambi, né, tanto meno, se debbano intendersi privati i soggetti solo formalmente ovvero anche sostanzialmente tali. La dottrina (30) sembra riferire l’espressione soggetti privati ai gestori, anche se vi è chi riterrebbe preferibile riferirsi ad utenti privati (31). La giurisprudenza amministrativa (32) è parsa accogliere, almeno nelle sue prime pronunce (33), la tesi che soggetti privati siano gli erogatori del servizio pubblico, attribuendo, inoltre, un significato sostanziale al carattere privato degli stessi. Nelle sentenze si considera privato il soggetto erogatore che non solo è formalmente privato, ma che svolge altresı̀ la sua attività in regime di concorrenza (34). Si richiede che la fonte del rapporto tra utente ed erogatore non solo sia di tipo contrattuale (questo, come si è sopra ricordato, in riferimento alla caratteristica della individualità), ma che il rapporto stesso sia integralmente disciplinato dal diritto privato, senza presentare alcun tratto pubblicistico. Saranno, cioè, sottratti alla giurisdizione esclusiva solo « quei rapporti con i gestori privati che si attuano attraverso strumenti con(30) Per tutti si ricordi A. TRAVI, Commento all’art. 33 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, cit., 1521 « ... quando il servizio sia gestito da un soggetto privato, le vertenze degli utenti (attuali o potenziali) con tale soggetto, per le prestazioni concernenti il servizio, non sono neppure oggi di competenza del giudice amministrativo ». (31) Cosı̀ R. VILLATA, Prime considerazioni sull’art. 33 del d.lgs. n. 80 del 1998, in questa Rivista, 1999, 281, in particolare 293 e P. PIZZA, op. cit., in particolare 986, ove la lettera e) viene letta sistematicamente con la lettera b) dell’art. 33 del d.lgs. n. 80 che parla di « gestori comunque denominati ». (32) Cons. St., Ad. Plen., 30 marzo 2000, n. 1, cit.; Tar Campania-Napoli, sez. I, 28 marzo 2001, n. 1358, in Ragiusan, 2001, f. 204-5, 142 e Tar Toscana, sez. I, 18 aprile 2000, n. 724, in Foro toscano, 2000, 193. (33) Diversamente, più recentemente, Tar Piemonte, sez. II, 11 gennaio 2002, n. 62, in Rass. dir. farmaceutico, 2002, 780. (34) Specificamente Tar Toscana, n. 724 del 2000, cit..


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trattuali tipicamente civilistici » (35), poiché l’espressione rapporti individuali di utenza si riferisce « all’utente finale del servizio, cioè al « consumatore » delle prestazioni erogate, i cui rapporti di natura tipicamente negoziale si sono voluti escludere dalla devoluzione delle controversie in materia di pubblici servizi alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo » (36). La giurisprudenza ha motivato la propria lettura sostenendo che, diversamente opinando, la « specificazione “soggetti privati” risulterebbe ridondante e inutile, poiché... sarebbe bastato il mero richiamo ai rapporti individuali di utenza » (37). La stessa Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (38) ha affrontato, pur in via superficiale e sbrigativa, il problema dell’interpretazione della clausola normativa, precisando che « quanto ai rapporti individuali di utenza, il legislatore delegato ha attribuito alla giurisdizione esclusiva le controversie intercorrenti tra l’amministrazione e i singoli utenti, mentre ha lasciato ferma la giurisdizione ordinaria per quelle intercorrenti tra i gestori privati ed i singoli utenti, in quanto esse (oltre che per il notevole numero) sono caratterizzate il più delle volte dal loro modesto valore economico e dalla applicabilità integrale del diritto privato, in particolare della normativa sui contratti per adesione e sulle clausole vessatorie o abusive ». Il rischio, cui può portare l’opzione giurisprudenziale, è che rapporti giuridici identici abbiano un diverso trattamento a seconda si intrattengano con gestori privati ovvero con gestori pubblici (39), ma anche, diversamente opinando, con utenti privati o con utenti pubblici. In realtà, nessuna delle interpretazioni possibili dell’espressione soggetti privati pare risolutiva o convincente (35) Tar Campania, sez. I, n. 1358 del 2001, cit.. (36) Tar Toscana, ult. cit.. (37) Tar Campania, ult. cit.. (38) Ordinanza 30 marzo 2000, n. 1, cit.. (39) In proposito R. VILLATA, op. cit., 293 osserva che « ... in caso di contestazione dell’importo contenuto in una bolletta del gas, laddove il servizio di distribuzione sia affidato ad un’azienda speciale, la lite circa l’ammontare corretto di quella bolletta dovrebbe essere instaurata davanti al giudice amministrativo » (invece, delle liti riguardanti le bollette emesse dal gestore del servizio del gas concessionario privato di pubblici servizi dovrebbe conoscere il giudice ordinario).


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in quanto ragionevolmente fondata. In entrambi i casi, sia qualora ci si riferisca ai gestori privati sia quando si considerino gli utenti privati, si potrebbero verificare ingiustificate disparità di trattamento. È vero che la scelta sostanzialistica in merito alla nozione di gestore privato sembra permettere di attribuire un senso logico all’esclusione: è chiaro, infatti, che le controversie individuali di utenza con soggetti privati formalmente, ma anche sostanzialmente, trovano fondamento in una situazione di diritto soggettivo e, quindi, in virtù della univocità nella qualificazione delle situazioni giuridiche contese, non si vede perché non dovrebbe applicarsi l’ordinario criterio per il riparto di giurisdizione (40). Quando, invece, il gestore, pur formalmente privato, presenti connotazioni pubblicistiche, allora, nonostante sussista anche un contratto di utenza, può essere opinabile ed incerto se rilevi una questione di diritto soggettivo o di interesse legittimo ed, allora, può esser logico introdurre una ipotesi di giurisdizione esclusiva. Come si è sottolineato in dottrina (41), non va, però, dimenticato che i gestori privati sono spesso assoggettati ad alcuni tratti della disciplina amministrativistica proprio in ragione del carattere in senso lato pubblicistico che acquisiscono come conseguenza dell’attività ad essi affidata. Ecco allora che la specificazioni che i rapporti individuali di utenza debbano essere esclusi dalla giurisdizione esclusiva solo in quanto sussistenti con soggetti privati lascia molto perplessi e non pare facilmente condivisibile. La Cassazione, nella sentenza qui in commento, avvertita l’ingiustizia derivante dal riferire la formula soggetti privati al(40) Si ragiona, qui, in base alla tradizionale esigenza della giurisdizione esclusiva di individuare facilmente quale sia la giurisdizione competente nella controversia in discussione. Sulla giurisdizione esclusiva V. DOMENICHELLI, Giurisdizione esclusiva e processo amministrativo, Padova, 1988, nonché dello stesso Autore Giurisdizione esclusiva e pienezza di giurisdizione, in questa Rivista, 1989, 623 e P.M. VIPIANA, voce Giurisdizione amministrativa esclusiva, in Digesto disc. pubbl., vol. VII, 377. (41) In tal senso F. FRACCHIA, Giurisdizione esclusiva, servizio pubblico e specialità del diritto amministrativo, in Foro it., 2000, III, 368. Ma già anche F. TRIMARCHI BANFI, La responsabilità del gestore di pubblici servizi nella prospettiva delle privatizzazioni, in Dir. amm., 1995, 143.


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l’utente o al gestore, forza il dato letterale e ritiene che « la espressione “soggetti privati” faccia riferimento allo strumento giuridico che è fonte del rapporto individuale. Se esso è estraneo alla fattispecie di tipo concessorio ma è invece strumento di diritto privato anche il rapporto individuale di un tale utente, sia esso soggetto pubblico o privato, rientra nell’esclusione ». L’interpretazione operata dalla Cassazione stride fortemente con altra e bene diversa lettura che le stesse Sezioni Unite avevano fornito della norma (42). In una fattispecie in cui soggetto erogatore del servizio era un Comune, ossia un soggetto senza dubbio pubblico, il giudice supremo, richiamando l’Adunanza Plenaria n. 1/2000 già ricordata, ha ritenuto che la clausola di cui alla lettera e) valga ad escludere « solo le controversie tra privati gestori e singoli utenti. Ove si accedesse ad una lettura meno restrittiva della deroga, nel senso, cioè, di esonerare dalla giurisdizione esclusiva qualsiasi controversia su rapporti individuali di utenza, indipendentemente dalla natura, pubblica o privata, del soggetto gestore del pubblico servizio, ne risulterebbero gravemente contraddette le ragioni ispiratrici della riforma ». Evidente è la opposta prospettiva nella quale si pongono le Sezioni Unite nel pronunciarsi ad assai breve distanza di tempo sulla medesima questione interpretativa di giurisdizione e senza che, proprio nella sentenza qui in commento, si dia atto dell’esistenza del ben diverso precedente indirizzo sempre dello stesso giudice supremo e del fatto che la nuova interpretazione non « contraddica gravemente le ragioni della riforma », come si argomentava, invece, nell’arresto del 2002. Il giudice si limita a rilevare che l’interpretazione fornita riconduce alla giurisdizione del giudice ordinario posizioni di di(42) Cass. S.U. 27 novembre 2002, n. 16838 in Giust. civ. Mass., 2002, 2069 (s.m.), del resto già nello stesso senso avevano ragionato le Sezioni Uniti nella sentenza del 30 marzo 2000, n. 71, cit., laddove precisavano che la nozione di servizio pubblico accolta dall’art. 33 non era quella in senso soggettivo in virtù del fatto « che esso possa essere svolto anche da soggetti privati (v., in particolare, il comma 2, lettera e)) ». Si qualificano, dunque, soggetti privati, coloro che svolgono il servizio e, cioè, gli erogatori.


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ritto soggettivo, attinenti all’esecuzione della singola prestazione e alla sua ricaduta sul patrimonio dell’utente contraente senza che ciò comporti alcuna valutazione del rapporto di servizio pubblico. Tale argomento, peraltro, è assai debole ove si ricordi che ai fini della giurisdizione esclusiva nessun rilievo assume la posizione di diritto soggettivo o di interesse legittimo affermata in giudizio. Ciò che, dunque, emerge dalla nuova lettura della Corte, attraverso il combinato significato delle due distinte espressioni contenute alla lett. e), è che la deroga non vale ad escludere dalla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo quelle controversie in cui rilevi la natura pubblica dell’attività svolta dal gestore, al di là della natura privata o pubblica del medesimo (43), nonché dell’utente. La Cassazione, peraltro, non si riferisce alla sussistenza, quale fonte del rapporto individuale, di un contratto di utenza, ma parla, più genericamente dello « strumento di diritto privato » (44). Già il giudice amministrativo aveva ragionato sulla forma giuridica che media l’erogazione della prestazione di pubblico servizio (45). Alla luce di tale criterio, si erano fatte rientrare nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo quei rapporti (43) In tal senso ha talvolta ragionato anche il giudice amministrativo; cosı̀ Tar Piemonte, sez. II, 12 gennaio 2002, n. 62, cit.. (44) L’espressione richiama, inevitabilmente, alla mente la formula legislativa contenuta all’art. 1 del disegno per la riforma della legge n. 241/1990, che prevede che « le amministrazioni pubbliche agiscono secondo il diritto privato ». In proposito e quanto ai limiti all’utilizzo degli strumenti privatistici in sostituzione del provvedimento amministrativo si veda la relazione di V. CERULLI IRELLI, in Autorità e consenso nell’attività amministrativa, Convegno Varenna, Milano, 2002 e G. NAPOLITANO, Pubblico e privato nel diritto amministrativo, Milano, 2002. È evidente, peraltro, che se lo strumento di diritto privato sostituisce il provvedimento amministrativo si è ancora senza dubbio in presenza di esercizio del potere e perciò di attività di diritto pubblico. (45) Cfr. Tar Campania, Napoli, sez. I, 28 marzo 2001, n. 1358, in Ragiufarm, 2002, f. 71, 71. Il giudice, su tale ragionamento fonda l’inclusione nella giurisdizione esclusiva della controversia avente ad oggetto il rimborso di prestazioni mediche da parte del servizio sanitario, non trovando tale prestazione fonte in uno specifico contratto di utenza, ma derivando dall’interpretazione della disciplina di diritto vigente. Il giudice è giunto, cosı̀, ad una conclusione ben diversa da quella della Cassazione che ritiene (cfr. S.U. 9 agosto 2000, n. 558, in Foro it., 2001, I, col. 2580) rientrino nella giurisdizione del giudice ordinario le controversie attinenti a prestazioni sanitarie fornite


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che comunque abbiano una fonte provvedimentale, nonché quelli che siano sottratti all’applicabilità integrale del diritto privato e presentino, quindi, un tratto pubblicistico. Lo strumento di diritto privato cui si riferisce la Cassazione non può essere che il contratto di utenza. Ed, infatti, come si è detto, lo stesso giudice precisa che si controverte su posizioni di diritto soggettivo attinenti l’esecuzione di un contratto di diritto privato. Dunque, la deroga alla giurisdizione esclusiva non vale quando lo strumento giuridico fonte del rapporto individuale non è di diritto privato ed ha, perciò, natura pubblica, amministrativa o normativa. La natura privata dello strumento giuridico si riferisce, infatti, secondo le parole della Corte, alla sua estraneità alla fattispecie concessoria, quasi che solo dalla sussistenza di un provvedimento amministrativo derivi la giurisdizione in capo al giudice amministrativo, dovendo diversamente riconoscersi competente il giudice ordinario. La Cassazione, individuando la fattispecie derogatoria nell’esistenza di un contratto, ovvero strumento di diritto privato, su cui si fonda la pretesa individuale, non offre una soluzione chiara in grado di esaurire anche il problema di interpretazione che sorge quando la controversia verta su clausole inserite autoritativamente nel contratto, cioè quando lo strumento giuridico fonte del rapporto individuale ha natura privata, ma è in parte mera riproduzione del contenuto di atti di natura pubblica. In tali ipotesi resterà, infatti, da verificare se oggetto della controversia sia la legittimità di un atto amministrativo, provvedimentale o di regolazione o ancora normativo, cui si sia conformato il gestore e ciò comporti che la deroga debba intendersi non concretata. Resta anche possibile ritenere diversamente che il riferimento della Corte allo strumento di diritto privato, indichi che, una volta esistente il contratto, ogni questione individuale di inadempienza da soggetti pubblici o privati. Ma su tale questione si avrà modo di riflettere con più attenzione nel proseguo.


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del medesimo debba essere, comunque, risolta dal giudice ordinario, senza che a nulla rilevi la fonte della clausola contrattuale controversa. Si osservi che, come già fatto notare in precedenza, quando l’inserzione della clausola nel contratto sia doverosa, verrebbe, però, probabilmente a mancare il diverso requisito dell’individualità del rapporto, non essendo certo tali clausole il frutto di una negoziazione individuale, né in prima battuta, né in quanto elemento di una negoziazione di massa. Se la clausola è inserita di diritto, ne deriva, infatti, che la stessa è per definizione non negoziata. 4. Resta ancora da chiarire una possibile incongruenza all’interno delle diverse interpretazioni che le stesse Sezioni Unite hanno operato della deroga. Ricostruita la clausola alla luce della sussistenza di un contratto negoziato, è difficile, infatti, ritrovare coerenza con la riconduzione alla deroga di cui alla lettera e), sempre secondo la giurisprudenza delle Sezioni Unite (46), delle controversie in tema di prestazioni sanitarie. La Cassazione, in una fattispecie in tema di diritto al rimborso delle spese mediche sostenute per un intervento d’urgenza presso una clinica privata, ha qualificato controversie individuali di utenza con soggetti privati « i giudizi promossi dai singoli utenti del Servizio... per ottenere le prestazioni cui lo stesso è istituzionalmente preposto, relativamente ai quali l’individuazione del giudice fornito di giurisdizione deve, dunque, avvenire, non in base al criterio della materia, ma in base a quello della consistenza della situazione giuridica della quale si domanda la tutela, vale a dire riconoscendosi la sussistenza della giurisdizione ordinaria, relativamente ai diritti soggettivi, ovvero quella generale di legittimità del giudice amministrativo, relativamente agli interessi legittimi ». In tema di prestazioni sanitarie, infatti, la Corte sembra insistere nella qualificazione, in virtù della disciplina di legge, della (46)

Cass., Sez. un., 9 agosto 2000, n. 558, in Foro it., 2001, I, 2580.


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situazione in capo al fruitore della prestazione alla stregua del diritto soggettivo. Se, però, alla luce della sentenza qui in commento, la controversia per essere esclusa dalla giurisdizione esclusiva deve vertere su di un rapporto negoziale e negoziato e considerato che nel caso di prestazioni sanitarie tale contratto non esiste, è chiaro che, poiché la pretesa dell’utente trova la sua fonte nella legge ovvero nella norma regolamentare, il giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva, dovrebbe essere, alla luce della logica della Corte, l’autorità competente a decidere della controversia. A nulla rileva la qualificazione della posizione soggettiva dell’utente quale diritto. Trattandosi di controversia in tema di pubblici servizi e non sussistendo il requisito del contratto quale fonte della situazione legittimante all’azione in giudizio, il criterio rilevante è quello della materia, da cui consegue appunto la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Le controversie in tema di prestazioni sanitarie, pertanto, alla luce della nuova lettura operata dalla Cassazione non sarebbero di competenza del giudice ordinario, ma sarebbero attribuite al sindacato del giudice amministrativo. Si realizzerebbe, cosı̀, un ravvicinamento con la giurisprudenza dello stesso giudice amministrativo, che include nell’ambito della giurisdizione esclusiva anche le controversie connesse a prestazioni rese dai privati accreditati con il Servizio sanitario nazionale (47). Forse la contrapposizione tra la natura pubblica o privata dello strumento fonte del rapporto di utenza, può lasciar intendere che la Cassazione abbia voluto riferirsi — e, in tale ipotesi, però, meglio avrebbe fatto a specificare con più cura — non tanto alla natura contrattuale del titolo della pretesa, quanto piuttosto alla natura paritaria o autoritativa del rapporto tra utente e gestore del servizio. Se cosı̀ fosse, anche il rapporto di utenza al servizio sanitario (47) Da ultimo Cons. Stato, sez. V, 28 maggio 2004, n. 3464, reperibile sul sito www.lexitalia.it, che ha appunto ritenuto sussistente la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo per un rimborso di spese mediche sostenute all’estero, discostandosi cosı̀ da quanto diversamente deciso nella ricordata sentenza Cass., Sez. un., 9 agosto 2000, n. 558, cit..


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sarebbe inquadrabile nella fattispecie di cui alla deroga. È evidente, però, che la sentenza non contiene riferimento alcuno alle posizioni delle parti nel rapporto di utenza, né considerazioni circa l’esercizio di poteri, anche solo organizzatori del servizio, da parte del gestore. 5. La formula utilizzata per la clausola di esclusione, di cui all’art. 33 del d.lgs. n. 80 del 1998, e le incertezze nella sua interpretazione lasciano trasparire il disagio del legislatore, cui si accomuna quello dello studioso che si avvicina alla tematica del servizio pubblico. Si tratta di una materia in cui momenti privatistici e pubblicistici non solo si succedono di continuo, ma si sovrappongono, coincidono, si combinano, sicché risulta difficile scindere l’una fase dall’altra. Le nuove norme introdotte con il d.lgs. n. 80 e riprese nella legge n. 205 del 2000 non fanno chiarezza sul punto. Il rapporto individuale di utenza è escluso dalla giurisdizione esclusiva perché sembra coinvolgere attività meramente privatistica, ma la specificazione dei soggetti privati quali parti del rapporto di utenza — sia parti attive quali gestori, sia parti passive quali utenti — pare far risorgere gli antichi privilegi della pubblica amministrazione, in quanto soggetto pubblico che coinvolge interessi superiori nello svolgimento della sua attività. Nonostante la perplessità della norma, non possono tacersi alcune considerazioni critiche sull’opzione della Corte di forzare in modo cosı̀ evidente le parole del legislatore. Interpretare la formula soggetti privati come se la stessa intenda riferirsi alla necessaria sussistenza di un contratto implica, da parte della Corte, il riconoscimento implicito che la stessa formula « con soggetti privati » non trovi alcuna ragionevole soluzione alla luce di un’interpretazione letterale. Si è visto, d’altra parte, che l’espressione può considerarsi in riferimento sia al gestore soggetto privato, sia, invece, all’utente privato. La Corte afferma che « in realtà non si può ritenere che solo i rapporti di utenza con soggetti privati rientrino nella esclusione, giacché la disparità di trattamento con utenti pubblici dello stesso


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generalizzato servizio che danno vita a rapporti individuali nel senso detto, incontrerebbe ostacoli costituzionali ». Sempre di argomentazione di rilievo costituzionale, d’altra parte, la stessa Corte si era avvalsa quando chiamata a pronunciarsi sul corretto significato da attribuirsi ad altre delle lettere contenute nel comma 2 dell’art. 33 del d.lgs. n. 80/1998 (48). Nell’ipotesi, però, la Corte, considerate le diverse opzioni ermeneutiche quanto alla lett. e) ed f) del d.lgs. n. 80, nella formulazione del 1998, valutata l’insufficienza degli elementi letterale, sistematico e teleologico, « a fronte di disposizioni cosı̀ irrisolubilmente polisense » ne ha affrontato l’esegesi « alla luce del “fondamentale e sovraordinato” canone ermeneutico per cui nel concorso tra più interpretazioni possibili, deve preferirsi quella conforme o più conforme alla Costituzione ». Diversamente sembra si sia articolato il pensiero del Collegio nella sentenza in commento. Il giudice, infatti, non spiega, né affronta le considerazioni che pure si sono avanzate circa la possibilità della sussistenza di una diversa competenza giurisdizionale quando il rapporto coinvolga un soggetto privato o, invece, un soggetto pubblico, utente o gestore. Nemmeno considera l’ipotesi (che rappresenterebbe pur sempre una minor forzatura del dato letterale) che entrambi i soggetti, utenti e gestori, siano privati, leggendo la formula non come rapporti di utenza con soggetti privati, ma come rapporti di utenza tra soggetti privati. Cosı̀ implicitamente se ne deve ricavare che, a parere della Corte, nemmeno una lettura che individui il giudice competente in base alla natura pubblica, e quindi all’esercizio del potere nello svolgimento della propria attività, o, invece, alla natura formalmente e sostanzialmente privata delle parti della controversia è conforme al dettato della Costituzione, in quanto anch’essa è fonte di disparità di trattamento ingiustificate. Il rapporto di utenza ed il contratto di utenza appartengono, però, come si diceva, all’ambito in cui pubblico e privato sono difficilmente separabili. Il contratto non è negoziato, diversamente da quanto affermano i giudici, se non per poche clausole, ma il (48)

Cass., Sez. un., 30 marzo 2000, n. 72, cit..


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suo contenuto è in buona parte predeterminato da atti generali, espressione di un potere di regolazione nell’erogazione del servizio pubblico. È vero che la Corte di Cassazione è chiamata a dirimere i conflitti di giurisdizione; ciò non significa, però, legittimare la Corte a sostituirsi al legislatore dettando una disciplina ex novo senza che sia data ragionevole ed esauriente motivazione della necessità di ripensare e, in un certo senso, riscrivere la norma. Il riferimento a possibili « ostacoli costituzionali », senza che si citino le norme e i principi costituzionali la cui lesione viene in rilievo lascia assai perplessi circa la stessa legittimità dell’interpretazione della Corte. Se è pur vero che alla Corte di Cassazione, come ad ogni altro giudice, compete fornire un’interpretazione adeguatrice (49) della legge, che può, perciò, non essere rigorosamente corrispondente al dato letterale, nel caso in questione intendere il riferimento al soggetto privato inserito nella norma come allusione al contratto di diritto privato è evidente forzatura del dato testuale, ma anche forzatura nell’interpretazione esegetica della norma. Di tale forzatura, peraltro, la Corte pare quasi non curarsi, se non per un inciso di qualche rigo. Come noto, attraverso l’interpretazione adeguatrice si ricostruisce la disposizione di legge in modo da attribuirle un significato normativo, tra i diversi possibili, che non sia in contrasto con i parametri costituzionali e che quindi esoneri il giudice dall’obbligo di sollevare l’incidente di costituzionalità; da ciò deriva che presupposti per l’interpretazione adeguatrice sono il carattere polisenso della disposizione da applicare, che presenta appunto plu-

(49) Sul significato dell’interpretazione adeguatrice in capo ai giudici ordinari e speciali e sui limiti della stessa si vada l’esaustivo articolo di G. AMOROSO, L’interpretazione « adeguatrice » nella giurisprudenza costituzionale tra canone ermeneutica e tecnica di sindacato di costituzionalità, in Foro it., 1998, V, col. 89. Sullo stesso tema M.R. MORELLI, Il ruolo del giudice tra interpretazione adeguatrice e corretto accesso al giudizio incidentale costituzionale, in Corr. giur., 1994, 1397, ove si sottolinea il « primato dell’operazione adeguatrice » in capo al giudice giudicante.


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rimi significati normativi comunque astrattamente ricostruibili sulla base degli ordinari criteri interpretativi (50). Ora quando la scelta del giudice ordinario verta tra diversi significati plausibili della norma è certo suo compito, tanto più quando tale giudice è la Corte di Cassazione, indicare la soluzione conforme alla Costituzione, operando un’interpretazione adeguatrice appunto. Quando, però — e questo pare essere il caso di specie — non si tratti di attività esegetica della norma, ma si debba, ben diversamente, parificare situazioni giuridiche, per eliminare disuguaglianze, ovvero operare bilanciamenti di valori, o ancora ripristinare la coerenza normativa per preservare la ragionevolezza del sistema è solo la Corte Costituzionale che può intervenire. L’interpretazione, infatti, non è più adeguatrice, ma è correttiva e manipola il testo della norma (51). Valutare soggetto privato come contratto privato significa, in concreto, leggere la norma come se non contenesse lo stesso riferimento al soggetto privato e, dunque, non solo interpretarla, ma di fatto cancellarne una parte. Ed infatti, come si è detto, già la giurisprudenza aveva riconosciuto che la stessa individualità della controversia richiamava la sussistenza di un contratto e la stessa Corte, riferendo l’individualità alla necessaria negoziazione delle clausole controverse, richiama per implicito l’accordo negoziato tra le parti, ovvero il contratto. 6.

Come noto la sentenza della Corte Costituzionale (52), a

(50) In tal senso G. AMOROSINO, op. cit., col. 91. (51) Cfr. ancora G. AMOROSINO, op. cit, col. 102. (52) Corte Costituzionale 5 luglio 2004, n. 204 reperibile sul sito www.lexitalia.it. Per i primi commenti alla sentenza B. SASSANI, Costituzione e giurisdizione esclusiva: impressioni a caldo su una sentenza storica, V. CERULLI IRELLI, Giurisdizione esclusiva e azione risarcitoria nella sentenza della Corte Costituzionale n. 204 del 6 luglio 2004 (osservazioni a primissima lettura), F. CINTIOLI, La giurisdizione piena del giudice amministrativo dopo la sentenza n. 204 del 2004 della Corte Costituzionale (9 luglio 2004), reperibili sul sito www.giustamm.it; R. GAROFOLI, La nuova giurisdizione in tema di servizi pubblici dopo Corte Costituzionale 6 luglio 2004 n. 204, G. BACOSI, Sulla giurisdizione la Consulta chiama (204.04)... la Plenaria risponde (9.04); M. CLARICH, La « tribunalizzazione » del giudice amministrativo evitata: commento alla sen-


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lungo attesa, ha espressamente abrogato il comma 2 dell’art. 33 del d.lgs. n. 80 del 1998. È, allora, necessario, domandarsi se le controversie individuali di utenza con soggetti privati, venuta meno la clausola che alle stesse si riferiva specificamente, debbano o meno ricomprendersi entro i nuovi confini della giurisdizione esclusiva cosı̀ come delineati dall’intervento del giudice di costituzionalità. Ciò tanto più ove si consideri che sarà ancora la Corte di Cassazione, in quanto giudice della giurisdizione, ad interpretare le nuove regole derivanti dall’arresto di illegittimità costituzionale. Precisato che la giurisdizione esclusiva deve considerarsi « quasi come accessoria rispetto a quella generale di legittimità » e che le particolari materie, di cui all’art. 113 Cost., devono comunque essere contrassegnate « dalla circostanza che la pubblica amministrazione agisce come autorità nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino davanti al giudice amministrativo », la Corte afferma che « la materia dei pubblici servizi può essere oggetto di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo se in essa la pubblica amministrazione agisce esercitando il suo potere autoritativo ovvero, attesa la facoltà, riconosciutale dalla legge, di adottare strumenti negoziali in sostituzione del potere autoritativo, se si vale di tale facoltà... ». Alla luce di tali considerazioni la lettera dell’art. 33 del d.lgs. devolve alla giurisdizione esclusiva « ... le controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi, ovvero relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo disciplinato dalla legge n. 241 del 7 agosto 1990, ovvero ancora relative all’affidamento di un tenza della Corte Costituzionale 5 luglio 2004 n. 204 reperibili sul sito www.giustiziaamministrativa.it; G. VIRGA, Il giudice della funzione pubblica (sui nuovi confini della giurisdizione esclusiva tracciati dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 204/2004) e F. SAITTA, Tanto tuonò che piovve: riflessioni (d’agosto) sulla giurisdizione esclusiva ridimensionata dalla sentenza costituzionale n. 204 del 2004 reperibili sul sito www. LexItalia.it.


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pubblico servizio, ed alla vigilanza e controllo nei confronti del gestore ». Che ne è dunque delle controversie individuali di utenza? La Corte Costituzionale sottolinea che, anche nell’ambito della giurisdizione esclusiva, il criterio della materia non esclude certo il necessario esercizio del potere da parte della pubblica amministrazione chiamata in giudizio. Ciò che non rileva è, invece, il fatto che a tale potere si opponga una situazione di interesse legittimo ovvero di diritto soggettivo. Si censura, di conseguenza, quell’orientamento delle Sezioni Unite in tema di prestazioni sanitarie che rinveniva nella situazione di diritto soggettivo in capo all’utente l’elemento giustificatore della competenza del giudice ordinario a decidere. La materia dei pubblici servizi è oggetto di giurisdizione esclusiva solo in quanto la controversia verta su attività o inattività, da parte dell’amministrazione o del gestore del servizio, che sia esplicazione del potere imperativo ed autoritativo. Da ciò deriva una implicita critica a quell’atteggiamento di molta parte della dottrina che aveva ritenuto di poter enucleare, in virtù delle nuove disposizioni normative, un nuovo criterio per il riparto delle giurisdizioni nei « blocchi di materie ». La riconduzione della controversia alla giurisdizione esclusiva deriva, invece, dalla connotazione pubblicistica dell’oggetto del giudizio, connotazione che può ricollegarsi alla natura pubblica dei provvedimenti oggetto del giudizio o dell’attività esercitata. È necessario, perciò, domandarsi se tale connotazione pubblicistica possa talora sussistere quando oggetto del giudizio è una controversia individuale di utenza. Quanto alle questioni relative alla riscossione dei crediti dagli operatori del servizio sanitario nei confronti delle Asl, ma in genere tutti i rapporti credito-debito, la decisione degli stessi sarà senz’altro da affidarsi alla competenza del giudice ordinario (53). Il giudice ordinario è, però, chiamato a decidere non tanto in virtù (53)

Della stessa opinione F. CINTIOLI, op. cit., 5 e R. GAROFOLI, op. cit., 12.


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della situazione rilevante in capo all’utente (54), ma in quanto l’amministrazione o il gestore del servizio agisce come parte contrattuale all’interno di un rapporto paritario tra soggetti entrambi sostanzialmente privati senza che rilevi l’esercizio del potere. È l’esercizio del potere e non la situazione giuridica rilevante il criterio di discrimine. Più in generale, poiché, come si è tentato di chiarire in precedenza e come si è ricavato dalla stessa sentenza qui in commento, le controversie di utenza sono individuali in quanto si disputi di singole e concrete vicende contrattuali, che rilevano quanto alle parti in giudizio, è chiaro che, anche quando sia coinvolto un soggetto pubblico, mai verrà in rilievo l’esercizio del potere autoritativo per la cura di interessi pubblici. Da ciò è facile ricavare che tali controversie non rientrano nella materia pubblici servizi, poiché manca la caratteristica prima, che il giudice costituzionale ritiene debba permeare tutte le materie di giurisdizione esclusiva in quanto « particolari » rispetto alle giurisdizione di legittimità, ovvero la natura delle stesse, connotata dalla circostanza che la pubblica amministrazione agisce come autorità. Quanto alla formula con soggetti privati, venuta meno la clausola derogatoria, si risolve anche il difficile problema della scelta se riferirla al gestore del servizio ovvero all’utente. A nulla rileva che uno dei due soggetti, ovvero entrambi siano privati, ciò che si richiede di verificare è che nessuno dei due soggetti sia titolare di potere pubblico e, soprattutto, che tale potere non sia stato esercitato nei confronti degli interessi controversi. Le controversie individuali di utenza saranno, perciò, sempre risolte dal giudice ordinario in quanto in esse si discute della corretta esecuzione delle obbligazioni derivanti dal contratto, cioè di rapporti di diritto privato, sia quando gli stessi coinvolgano soggetti pubblici, sia soggetti privati (55). Non pare corretto ricomprendere nelle controversie individuali di utenza quelle controversie attinenti atti generali, adottati (54) Come, invece, afferma la Cassazione, cfr. par. 4. (55) In tal senso anche G. BACOSI, op. cit., 38 che precisa che dove vi è « singolo contratto di utenza, la giurisdizione era già, e rimane, del g.o. ».


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dall’Autorità di regolazione ovvero a livello statale, proprio perché le stesse perdono il carattere dell’individualità, che non può che significare inerenza ad una specifica e peculiare questione. In base all’interpretazione della Corte, restano, infatti, oggetto della giurisdizione esclusiva tutte le controversie in cui rilevano provvedimenti o atti amministrativi impositivi di livello di servizio, proprio perché le stesse implicano l’esercizio del potere di regolazione. Ed è il giudice amministrativo il giudice costituzionalmente competente a svolgere il sindacato di ragionevolezza sul potere. MONICA DELSIGNORE


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Cons. Stato, Sez. V, 14 luglio 2003 n. 4167 — Pres. Elefante — Est. Deodato — Soc. A.F.L.S. (avv. Sanino) c. Comune Roma (avv. Lorusso) e altri. Contratti della pubblica amministrazione - Rinegoziazione del contratto dopo l’aggiudicazione - Legittimità - Esclusione. Giustizia amministrativa - Giurisdizione - Contratti della pubblica amministrazione - Rinegoziazione - Giurisdizione del giudice amministrativo. Spetta alla giurisdizione amministrativa la controversia relativa alla rinegoziazione delle condizioni di contratti stipulati in esito ad una procedura di selezione pubblica ed alla legittimità di pattuizioni difformi da quelle prescritte dalla stessa amministrazione negli atti di gara (1). Mentre nei contratti di appalto è possibile distinguere una fase amministrativa di scelta dell’appaltatore (rispetto alla quale sussiste la giurisdizione del g.a.) da una fase meramente esecutiva (rispetto alla quale sussiste la giurisdizione del g.o.), tale distinzione non è possibile con riferimento al contratto di vendita delle azioni di una S.p.a. a capitale pubblico. Ne consegue che, nel secondo caso, le controversie successive alla vendita ed inerenti alla legittimità della transazione stipulata tra il Comune ed il cessionario inadempiente, spetta alla giurisdizione del g.a. (2). (Omissis). 3. Deve preliminarmente chiarirsi che l’oggetto dell’appello in esame è circoscritto alla disamina della sola questione di giurisdizione. (Omissis). 5. Come già rilevato, la ricorrente assume, in sostanza, l’illegittimità dell’esercizio della funzione amministrativa relativa alla contrattazione con un’impresa privata e deduce, a sostegno dell’intrapresa iniziativa giudiziaria, l’invalidità della modifica pattizia delle condizioni di cessione della proprietà azionaria, già cristallizzate negli atti di gara, siccome contraria alle regole della concorrenza e del rispetto della par condicio dei partecipanti ad un confronto concorrenziale nonché invalidamente deliberata nonostante la sottrazione della relativa potestà alla capacità d’agire dell’Ente e, quindi, nell’assoluta impossibilità di ricorrere ad un istituto di tipo privatistico quale la transazione. La questione appena illustrata, riassumibile nel duplice problema della sussistenza della giurisdizione amministrativa nelle controversie relative alla rinegoziazione delle condizioni di contratti stipulati in esito ad una procedura di selezione pubblica ed alla legittimità di pattuizioni difformi da quelle prescritte dalla stessa amministrazione negli atti di gara, è stata già esaminata e definita da questo giudice (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 13 novembre 2002, n. 6281; Comm. Spec., 12 ottobre 2001, n. 1084/00) nel senso


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della appartenenza di tale tipo di liti alla sfera cognitiva attribuita al giudice amministrativo, in quanto riferite alla verifica della correttezza dell’esercizio della funzione amministrativa relativa alla contrattazione con i privati, e dell’invalidità, per difetto di capacità d’agire dell’amministrazione, di accordi con il contraente privato che contemplino diritti od obblighi diversi da quelli sanciti con l’aggiudicazione e la conseguente stipula del contratto. È stato, al riguardo, rilevato che le controversie aventi ad oggetto l’accertamento della legittimità della rinegoziazione delle condizioni contrattuali, anche dopo la stipula del contratto, appartengono senz’altro alla giurisdizione amministrativa esclusiva ai sensi dell’art. 33 comma 2, lett. d) d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80 (cosı̀ come sostituito dall’art. 7 della l. n. 205 del 2000) in quanto pertinenti alla verifica della regolarità dell’aggiudicazione dell’appalto (o di un’impresa pubblica, come nel caso di specie, posto che la mera differenza dell’oggetto del contratto non vale a giustificare un diverso riparto della giurisdizione). Tale orientamento va senz’altro condiviso e confermato in quanto correttamente formatosi in esito ad un’analisi compiuta e coerente delle regole che presiedono alla selezione del contraente privato delle pubbliche amministrazioni ed ai vincoli legali dell’azione di queste ultime in ordine alla stipulazione del contratto ed alla ammissibilità di una successiva ridefinizione convenzionale dei suoi elementi essenziali. 6. L’analogia della presente fattispecie con quelle scrutinate dai precedenti citati ed il segnalato carattere uniforme del relativo orientamento assunto in materia dal Consiglio di Stato esimono il Collegio da una disamina diffusa dei problemi sottesi alla questione principale e degli argomenti addotti a sostegno della tesi contraria a quella preferita dalla Sezione e consentono di ribadire sinteticamente le ragioni assunte a fondamento del convincimento qui confermato. 6.1. Reputa il Collegio che sia, in particolare, condivisibile e decisivo il rilievo che con la cristallizzazione negli atti di gara delle condizioni del contratto (sia se imposte dalla legge, sia se discrezionalmente determinate dalla stessa amministrazione aggiudicatrice) alla cui stipulazione risulta preordinata una procedura selettiva e con la conseguente e coerente conclusione dell’accordo con l’impresa selezionata, l’Ente procedente perde la disponibilità del contenuto del rapporto contrattuale già instaurato (che resta inderogabilmente regolato dallo schema approvato con l’indizione della gara) e, quindi, la capacità di convenire con la controparte condizioni diverse da quelle conosciute dai partecipanti al confronto concorrenziale (con conseguente invalidità di accordi di tal fatta). Tale conclusione, imposta dalla valenza correttamente riconosciuta alle esigenze di salvaguardia dell’interesse generale alla certezza ed alla stabilità dei rapporti giuridici in cui sono parti amministrazioni pubbliche e


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di quello (non solo) privato, speculare, all’affidabilità dei sistemi di gara ed al rispetto della concorrenza e della par condicio dei partecipanti, implica, inoltre, che ogni determinazione idonea ad incidere sulle condizioni di contratto, modulando assetti di interessi difformi da quelli consacrati negli atti di gara, va riferita alla medesima funzione amministrativa (la cui disponibilità è, tuttavia, nel frattempo venuta meno) nel cui esercizio si è proceduto alla selezione del contraente e non anche, come erroneamente ritenuto nella fattispecie dal Tribunale capitolino, a quella che presiede all’esecuzione del contratto. Mentre, infatti, quest’ultima fase attiene all’esecuzione della prestazione dovuta dal contraente privato ed all’esercizio di tutti i diritti direttamente connessi all’adempimento dell’obbligazione principalmente dedotta nella convenzione, la revisione pattizia delle condizioni di contratto (che prescinda da qualsiasi difetto di funzionamento del sinallagma) si rivela estranea alla fase esecutiva del rapporto (in quanto ad essa logicamente antecedente) e, piuttosto, pertinente a quella dell’aggiudicazione e, in definitiva, della contrattazione (intesa come definizione unilaterale e pubblicistica del contenuto dell’accordo). Ne consegue che la controversia nella quale si discute della validità di una transazione con la quale sono state modificate talune (rilevanti) condizioni dell’aggiudicazione (prima che del contratto), della illiceità del presupposto, omesso esercizio da parte dell’amministrazione dei poteri assegnatile da una clausola risolutiva espressa e del conseguente pregiudizio patito da un’impresa concorrente (che ha formulato l’offerta confidando nella stabilità delle clausole del contratto ed impegnandosi al loro rispetto) va senz’altro ricondotta al novero delle liti attribuite in via esclusiva alla giurisdizione amministrativa, siccome relative alla procedura di affidamento nella sostanza contestata (nella riferita lettura del complesso fenomeno dell’aggiudicazione del contratto). 6.2. Né tale conclusione risulta inficiata dall’argomento con cui si obietta che nel caso di specie non si verte in tema di procedure di affidamento di appalti, ma sulla diversa questione della cessione di un’impresa pubblica, con la duplice conseguenza che non sarebbero applicabili sia i principi affermati dalla giurisprudenza citata (in quanto espressamente riferita ad ipotesi di aggiudicazione di appalti pubblici), sia, per le medesime ragioni, l’art. 33 comma 2, lett. d) d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80. È sufficiente, al riguardo, rilevare che, se può escludersi l’applicabilità diretta (ma non in via analogica) alla fattispecie controversa della disposizione appena citata, non può, di contro, dubitarsi della riconducibilità del caso in discussione entro l’ambito applicativo dell’art. 23-bis lett. e) l. n. 1034 del 1971 (come introdotto dall’art. 4 della l. n. 205 del 2000). Nonostante, infatti, tale norma si occupi precipuamente di prevedere e disciplinare un procedimento speciale in talune materie, senza dettare esplicitamente regole innovative in tema di giurisdizione, ed ancorché non ri-


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sulti coordinata con la regolamentazione positiva della giurisdizione amministrativa esclusiva (e segnatamente con il d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80), non può, invero, seriamente dubitarsi che l’espressa previsione dell’applicazione di un rito particolare ai giudizi aventi ad oggetto « i provvedimenti relativi alle procedure di privatizzazione o di dismissione di imprese o beni pubblici, nonché quelli relativi alla costituzione, modificazione o soppressione di società, aziende ed istituzioni ai sensi dell’art. 22 della legge 8 giugno 1990, n. 142 » implichi necessariamente il riconoscimento implicito della giurisdizione amministrativa esclusiva sulle relative controversie. (Omissis). 6.3. Né varrebbe, ancora, obiettare che l’art. 23-bis l. n. 1034 del 1971, siccome disposizione regolatrice del solo rito, riveste valore meramente ricognitivo della (già esistente) giurisdizione generale di legittimità in materia di privatizzazioni di imprese o beni pubblici, senza alcuna valenza costitutiva di nuove potestà giurisdizionali nelle controversie ivi elencate. Quand’anche, infatti, si intendesse accedere a tale lettura della norma, si dovrebbe, comunque, confermare la sussistenza della giurisdizione amministrativa (ut supra riconosciuta in esito a diverso percorso ermeneutico), in quanto radicata dalla diretta pertinenza della lite all’esercizio di una funzione pubblicistica incidente sull’interesse legittimo (nella specie azionato) al rispetto delle regole poste a presidio della concorrenza ed alla correttezza nella contrattazione delle pubbliche amministrazioni (secondo l’accezione prima descritta); senza necessità, dunque, di ricorrere alla diversa ipotesi della giurisdizione esclusiva (pure, tuttavia, esistente). (Omissis). Può, quindi, concludersi che la controversia in esame risulta soggetta all’art. 23-bis l. n. 1034 del 1971 (da valersi quale disposizione attributiva anche della giurisdizione esclusiva amministrativa) e che, quand’anche dovesse rifiutarsi tale ultima conclusione, la lite resterebbe validamente radicata davanti al giudice adito in quanto riferita alla giurisdizione generale di legittimità agevolmente riconoscibile nell’esercizio della funzione della contrattazione della pubblica amministrazione con i privati (dalla quale esulano i soli atti o comportamenti relativi alla fase propriamente esecutiva del rapporto costituito dalla stipula del contratto). 6.4. Non solo, ma se possono formularsi rilievi critici (alle conclusioni sopra raggiunte) fondati sulla distinzione tra fase della contrattazione e fase dell’esecuzione del contratto nei procedimenti relativi all’affidamento di appalti pubblici, le medesime obiezioni non rivestono alcun pregio nella materia delle dismissioni di beni pubblici. In quest’ultima fattispecie, infatti, a differenza che negli appalti, non è configurabile ontologicamente alcuna possibilità di distinguere una fase esecutiva, posto che il procedimento finalizzato alla cessione del bene o


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dell’impresa esaurisce i suoi effetti con la stipula del contratto di vendita (che produce i relativi e definitivi effetti traslativi della proprietà) e che, successivamente a tale momento, non è dato ravvisare alcun ulteriore segmento del rapporto da sottrarre alla cognizione del giudice amministrativo. Il procedimento controverso, in definitiva, si perfeziona e si risolve con la cessione della proprietà, sicché, anche sotto tale peculiare profilo, deve ribadirsi che tutti gli atti ed i comportamenti direttamente riferibili all’atto traslativo (in quanto meramente riproduttivo delle condizioni dell’aggiudicazione) ed alla sua regolamentazione vanno ricondotti entro la sfera cognitiva della « privatizzazione o dismissione di imprese o beni pubblici » e deve, al contempo, escludersi la stessa astratta configurabilità in tali procedimenti di provvedimenti o condotte che si riferiscano all’esecuzione in senso stretto del contratto. 7. Alle considerazioni che precedono conseguono, in definitiva, l’accertamento della sussistenza della giurisdizione amministrativa nel presente giudizio, l’annullamento della sentenza appellata ed il rinvio della controversia ad altra Sezione del Tar del Lazio.

(1-2) Rinegoziazione del contratto dopo l’aggiudicazione e riparto di giurisdizione. 1. Il caso in esame. — 2. Considerazioni introduttive. — 3. Legittimità della rinegoziazione. — 4. La rinegoziazione rientra nella fase pubblicistica o in quella privatistica? — 5. Questioni di giurisdizione in materia di contratti ad evidenza pubblica nei servizi pubblici. — 6. Conclusioni.

1. Il caso in esame riguarda la procedura di privatizzazione sostanziale della Centrale del latte di Roma. Il Comune di Roma, dopo aver provveduto alla trasformazione dell’azienda comunale in S.p.a., aveva indetto la relativa procedura di dismissione delle quote richiedendo, da parte dell’offerente, la sottoscrizione dello schema di contratto, comprensivo di una clausola di inalienabilità per cinque anni delle quote acquistate. La procedura concorrenziale aveva visto riuscire aggiudicataria la società Cirio con la quale il Comune di Roma aveva proceduto a stipulare il contratto di vendita. Dopo la stipulazione la Cirio, violando l’apposita clausola dei patti parasociali, aveva trasferito la sua divisione latte ad una società da essa interamente controllata al fine della cessione di questa alla società Parmalat. A seguito di tale comportamento


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il Comune di Roma avrebbe dovuto avvalersi della clausola risolutiva espressamente prevista dai patti parasociali e invece aveva preferito accettare la proposta di transazione delle società Cirio e Parmalat. A questo punto la società Ariete Fattoria Latte Sano, soccombente nella gara, diffidava l’amministrazione comunale ad avvalersi della clausola risolutiva ed a bandire una nuova gara. A fronte dell’inerzia del Comune di Roma a riguardo della diffida, Latte Sano ricorreva dinanzi al Tribunale amministrativo del Lazio denunciando l’illegittimità del silenzio dell’amministrazione e chiedendo la declaratoria dell’obbligo di provvedere da parte del Comune e la sua condanna al risarcimento del danno, anche in forma specifica, patito a seguito della violazione della clausola di inalienabilità. Il Tar del Lazio, tuttavia, declinava la sua giurisdizione in favore di quella ordinaria ritenendo estranee alla propria sfera di cognizione controversie relative a vicende di tipo privatistico, quali quelle successive alla stipula del contratto, e dichiarava, pertanto, inammissibile il ricorso. La società Latte Sano appellava allora la sentenza del Tar dinanzi al giudice di secondo grado il quale, nella decisione in esame, riconosceva la giurisdizione del giudice amministrativo ed annullava, pertanto, la sentenza impugnata con rinvio della controversia ad una diversa sezione del Tar del Lazio. 2. La sentenza in epigrafe (1) va esaminata relativamente a due profili diversi, ma strettamente connessi: il primo è quello dell’ammissibilità della rinegoziazione dei contratti stipulati dall’amministrazione pubblica con il privato aggiudicatario successivamente ad una procedura di selezione pubblica; il secondo che, come ha sottolineato la stessa Quinta sezione, costituisce l’oggetto principale del giudizio, è quello della giurisdizione nel caso di specie. Nel caso in esame la Quinta sezione, diversamente opinando (1) La decisione in commento è stata annotata da M. ALESIO, in Diritto e giustizia, 2003, f. 32, 78 ss.; Sempre Alesio ha annotato la sentenza di primo grado, ibidem, f. 13, 85 ss.


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rispetto al giudice di primo grado (2), ha affermato la giurisdizione del giudice amministrativo in sede esclusiva ritenendo che la controversia de qua rientri nella sfera cognitiva del giudice amministrativo in applicazione dell’art. 33 comma 2, lett. d) del d.lgs.31 marzo 1998, n. 80 in quanto « le controversie aventi ad oggetto la legittimità della rinegoziazione delle condizioni contrattuali, anche dopo la stipula del contratto, [sono] pertinenti alla verifica della regolarità dell’aggiudicazione dell’appalto (o dell’impresa pubblica, come nel caso di specie, posto che la mera differenza dell’oggetto non vale a giustificare un diverso riparto di giurisdizione) ». In subordine, ove non si volesse accedere ad un’interpretazione analogica dell’art. 33 comma 2, lett. d) al caso in esame, la giurisdizione del giudice amministrativo in sede esclusiva deriverebbe dall’applicazione dell’art. 23-bis lett. e) della l. n. 1034 del 1971 (come modificato dalla l. n. 205 del 2000). In sostanza la Quinta sezione: esclude la legittimità della rinegoziazione e riconduce le controversie relative alla rinegoziazione stessa nell’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo in quanto riferite alla verifica della correttezza dell’esercizio della funzione amministrativa (in questa fase verrebbero modificati elementi determinanti dell’offerta a base dell’asta con con(2) Tar Lazio, Sez. III, 28 gennaio 2003 n. 506 in Diritto e giustizia, 2003, f. 13, 81. Il giudice di prime cure si è primariamente soffermato sulla ammissibilità dell’impugnativa del silenzio rifiuto. Il Tar ha evidenziato che nel caso di specie l’istituto non sia riconducibile ad inadempienze dell’amministrazione in rapporto ad un sussistente obbligo pubblicistico di provvedere su un’istanza rivoltale dal privato e, pertanto, non può essere considerato giuridicamente rilevante. I giudici di primo grado hanno sottolineato che la declaratoria di silenzio inadempimento avanzata dalla ricorrente Latte Sano è, invece, in funzione di inadempienze contrattuali in quanto volta ad ottenere che l’amministrazione si avvalga della clausola risolutiva contenuta nel contratto. « Trattasi di richiesta che involgendo l’esercizio di una facoltà risolutoria in materia contrattuale, inerisce ad attività tipicamente privatistica, in ordine alla quale la giurisprudenza sia del giudice ordinario che di quello amministrativo ha sempre prevalentemente affermato la giurisdizione del giudice ordinario.[...] Le asserite violazioni del contratto di cessione delle quote azionarie concernono una vicenda privatistica limitata ai soli soggetti contraenti e non possono riguardare soggetti ulteriori che, come la parte ricorrente, hanno avuto una relazione giuridica con gli atti presupposti e cioè con il procedimento ad evidenza pubblica ». Il Tar aveva pertanto concluso nel senso di ritenere inammissibile il ricorso per difetto di giurisdizione.


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seguente violazione delle regole della par condicio dei concorrenti), ed esclude di conseguenza la giurisdizione del giudice ordinario, non trattandosi, in questo caso, di controversia relativa alla fase dell’esecuzione del contratto. Entrambe le conclusioni cui perviene il Consiglio di Stato non appaiono interamente condivisibili a chi scrive. 3. A conferma di tale impostazione la Quinta Sezione richiama la sua stessa precedente giurisprudenza in un caso analogo (3), ed il parere della Commissione speciale in tema di rinegoziazione (4). Il divieto di rinegoziare l’offerta nella fase successiva all’aggiudicazione è stato sostenuto anche in sede comunitaria dalla (3) Cons. Stato, Sez. V, 13 novembre 2002, n. 6281 in Foro amm..Cons. St., 2003, 145 ss., con nota di S. VARONE. La sentenza aveva ad oggetto il caso di una rinegoziazione del prezzo di un appalto per l’affidamento del servizio di gestione e manutenzione degli impianti di stoccaggio e gas medicinali, tecnici e di laboratorio con il soggetto prescelto come contraente. Successivamente all’aggiudicazione provvisoria la pubblica amministrazione aveva pattuito una riduzione del 15% rispetto a quanto precedentemente stabilito. La Quinta Sezione in questo caso ha negato la possibilità della rinegoziazione sulla base della considerazione che non vi è capacità di agire di diritto privato dell’ente in tal senso e c’è, invece, palese violazione delle regole di concorrenza e di parità di condizioni tra i partecipanti alla gara pubblica. (4) Comm. Spec. 12 ottobre 2001, in Urb. e app., 2002, 447-448 con nota di R. DAMONTE. Nel parere reso dalla Commissione Speciale circa la possibilità o meno della rinegoziazione al ribasso dell’offerta aggiudicativa dopo l’aggiudicazione nelle gare pubbliche si legge: « In ordine al quesito proposto si ritiene che un’eventuale soluzione positiva non può certamente basarsi sulla semplice considerazione che, nell’ambito dello svolgimento della gara, una volta intervenuta l’aggiudicazione, la possibile rinegoziazione non risulterebbe oramai suscettibile di alterare la par condicio dei concorrenti giacché quel che invece deve innanzitutto venire in rilievo al riguardo è il possibile peggioramento del servizio o della qualità del prodotto fornito in quanto in linea di fatto — come è noto — l’impresa aggiudicataria dovrebbe in qualche modo « scaricare » lo sconto ulteriore effettuato nei confronti dell’Amministrazione [...]. Si introdurrebbe, in sostanza, un elemento distorsivo della stessa funzione della gara, nella misura in cui i concorrenti verrebbero indotti ad inglobare nelle offerte il rilievo economico insito nel successivo meccanismo della rinegoziazione ». Inoltre « [...] il divieto di rinegoziare le offerte deve razionalmente intendersi in linea di principio [...] anche successivamente all’aggiudicazione, in quanto la possibilità di rinegoziazione tra la stazione appaltante e l’aggiudicatario, modificando la base d’asta, finirebbe (seppure indirettamente) coll’introdurre oggettivi elementi di distorsione della concorrenza, violando in tal modo i principi comunitari in materia ».


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Commissione CE con il parere del 23 marzo 1998 riguardante una licitazione privata al termine della quale la pubblica amministrazione aveva proceduto a rinegoziare con l’aggiudicatario il prezzo d’offerta (5). A conclusioni opposte perviene altra parte della giurisprudenza che legittima la rinegoziazione successiva all’aggiudicazione in considerazione del fatto che non sarebbe cosı̀ alterata la concorsualità del procedimento (6). La questione merita un seppur breve approfondimento dovendosi esaminare punti di forza e punti di debolezza di entrambe le soluzioni (7). Occorre tuttavia primariamente distinguere a seconda che oggetto di rinegoziazione siano clausole essenziali del contratto (ad esempio il prezzo) oppure clausole marginali (8). In effetti, sia la sentenza della Quinta Sezione del Consiglio di Stato n. 6281 del 2002 sia il parere della Commissione speciale (richiamati nella sentenza in epigrafe) attengono alla rinegozia(5) Si veda anche la circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri 15 novembre 2001, in G.U. n. 8, 10 gennaio 2002, serie generale. (6) Cons. Stato, Sez. V, 20 settembre 1990, n. 686 in Foro amm., 1990, 2036; Tar Campania, Sez. I, 9 marzo 1999, n. 681 in Ragiusan, 2000, 190-1, 153; Le tre sentenze richiamate, tuttavia, riguardavano situazioni affatto diverse: le due sentenze della Quinta sezione del Consiglio di Stato avevano ad oggetto la rinegoziazione successiva ad una trattativa privata, mentre la sentenza del Tar Campania concerneva il riequilibrio di un prezzo fuori mercato a seguito di licitazione privata. Si veda anche Tar Puglia Bari, Sez. I, 7 aprile 1999, n. 247 in Trib. amm. reg., 1999, I, 2129. (7) In dottrina si segnala in senso contrario all’orientamento prevalente B. MARCHETTI, Atti di aggiudicazione e poteri di rinegoziazione della pubblica amministrazione nei contratti ad evidenza pubblica, commento a Cons. Stato, Sez. V, 13 novembre 2002, n. 6281, in Giorn. dir. amm., 2003, 505-511. Si veda pure G. PIAZZALUNGA, È legittima la trattativa instaurata dall’amministrazione con l’aggiudicatario provvisorio di una gara d’appalto, volta alla rinegoziazione dell’offerta presentata? Nota a Tar Lazio Roma, Sez. III, 8 gennaio 2002, n. 106 in Foro amm.-Tar, 2002, 161-170. (8) Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 25 marzo 2003, n. 1544 in Foro amm.-Cons. St., 2003, 924. In questo caso il Consiglio di Stato considerando oggetto della rinegoziazione un elemento non accidentale del contratto (nella specie il prezzo) aveva ricondotto la controversia nell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo dal momento che tale rinegoziazione avrebbe potuto risolversi, di fatto, in un nuovo affidamento. Ragionando al contrario se ne dovrebbe dedurre che laddove la rinegoziazione avesse ad oggetto un elemento accidentale del contratto, non vi sarebbe il rischio di violazione delle regole di concorrenza.


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zione del prezzo di aggiudicazione nelle gare pubbliche. Ed in questo senso appaiono comprensibili e fondate le preoccupazioni da cui tali pronunce hanno preso le mosse, essendo il prezzo dell’aggiudicazione uno degli elementi determinanti vuoi la predisposizione dell’offerta da parte del privato vuoi, conseguentemente, la valutazione di essa da parte dell’amministrazione. In particolare, la Commissione speciale del Consiglio di Stato, chiamata a pronunciarsi in merito alla prassi diffusa di richiedere da parte delle amministrazioni aggiudicatrici la disponibilità dell’aggiudicatario a concedere un ulteriore sconto sul prezzo, sostiene l’impraticabilità di questa strada. Il rischio paventato dalla Commissione è che tale prassi porterebbe a distorsioni della concorrenza in quanto le imprese partecipanti sarebbero indotte, nel presentare l’offerta, ad includervi anche il computo economico del successivo sconto all’amministrazione. Da un punto di vista ricostruttivo generale una tale soluzione, tanto categorica quanto coerente con la funzione della procedura ad evidenza pubblica, finalizzata all’individuazione del miglior contraente possibile, parrebbe essere quella più corretta. Sembrerebbe chiaro, infatti, che se fosse sempre possibile rinegoziare il prezzo in un momento successivo all’aggiudicazione verrebbe modificato ex post un elemento decisivo (ex ante) al fine della scelta dell’offerta migliore. Un tale indirizzo, elaborato forse più per scoraggiare una « cattiva abitudine » dell’amministrazione, che non per stabilire una regola valida in assoluto, dovrebbe essere però temperato in tutti i casi, come quello deciso dalla sent. n. 6281 del 2002 della Quinta Sezione del Consiglio di Stato, in cui la rinegoziazione al ribasso non appare in concreto lesiva del par condicio competitorum e pertanto dovrebbe essere consentito all’amministrazione di negoziare per sé condizioni contrattuali più vantaggiose (9). In altre parole l’affermazione di un divieto assoluto di rinegoziare il prezzo dell’offerta non sembra del tutto appagante, ché anzi parrebbe essere una soluzione un po’ troppo sbrigativa. Ed infatti, (9) Si vedano in proposito le convincenti considerazioni di B. MARCHETTI, Atti di aggiudicazione, cit., in particolare 508.


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non si vede per quale ragione dovrebbe essere negata la possibilità della rinegoziazione (del prezzo) quando questa, senza alterare l’esito della procedura di evidenza pubblica, sia idonea a far conseguire all’amministrazione condizioni contrattuali più vantaggiose al fine della realizzazione dell’interesse pubblico. Se, infatti, l’amministrazione, anche dopo la stipula, non può aggirare con strumenti privatistici le regole inderogabili e imperative poste a tutela della scelta del contraente migliore (addivenendo ad una modifica delle condizioni dell’offerta che mortifichino la funzione del procedimento ad evidenza pubblica) (10) essa, tuttavia, ben può, anzi deve, perseguire il pubblico interesse, anche con strumenti privatistici, con il minor sacrificio possibile di altri interessi (di cui quello finanziario dell’amministrazione è certamente un interesse rilevante). Pertanto, la legittimità o meno della rinegoziazione (del prezzo) andrà verificata in concreto dal giudice, il quale dovrà stabilire se questa ha dato luogo ad una violazione delle regole di concorrenza e di par condicio, senza che ad un tale risultato si possa pervenire in maniera meccanica e automatica per il solo fatto che c’è stata rinegoziazione. Nel chiederci se nel nostro caso la rinegoziazione sia illegittima o no, occorre considerare che qui oggetto di nuova pattuizione tra le parti non è il prezzo, ma una diversa clausola concernente l’inalienabilità per cinque anni della proprietà azionaria. Modificare — si badi — non il prezzo dell’offerta dell’aggiudicatario, ma una clausola dei patti parasociali concernente il divieto di alienazione per cinque anni è davvero una violazione della par condicio dei concorrenti? La risposta ad un tale quesito discende dalla previa verifica se la clausola in questione rivesta un carattere determinante sotto un duplice profilo. (10) In questo senso ancora B. MARCHETTI, Atti di aggiudicazione, cit. segnala come il rischio di una violazione della par condicio concorrentium possa esserci nel caso di modifiche del prezzo in aumento e non invece in diminuzione. L’A., tra l’altro, assumendo la prospettiva del privato aggiudicatario mostra il paradosso cui conduce la decisione del giudice amministrativo nel caso in esame. L’aggiudicatario, infatti, non solo ha rinunciato ad una parte di profitto per aver concesso uno sconto all’amministrazione, ma si vede addirittura annullata l’intera gara (laddove se avesse preteso un prezzo maggiore l’aggiudicazione ed il contratto sarebbero stati perfettamente validi).


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Primariamente occorrerà valutare la rilevanza di questa clausola rispetto alla predisposizione dell’offerta da parte del privato; occorrerà, cioè, verificare se il divieto di alienazione delle quote per cinque anni costituisca un elemento decisivo nell’elaborazione dell’offerta da parte del privato. In tal modo si potrà valutare se, costituendo tale clausola un elemento fondamentale dell’offerta, essa abbia in concreto influito nella scelta del contraente migliore da parte della p.a. In secondo luogo, attraverso un’indagine interpretativa della volontà delle parti (ed in particolare di quella parte che ha predisposto lo schema di contratto, cioè l’amministrazione), sarà necessario considerare la rilevanza di una clausola di tal fatta nel contesto del regolamento contrattuale. Rispetto al primo profilo la Quinta sezione avrebbe dovuto svolgere un’indagine circa la rilevanza della clausola di inalienabilità nella predisposizione dell’offerta da parte dei privati. Attraverso l’analisi del caso concreto il giudice di secondo grado avrebbe potuto pervenire a due conclusioni opposte: o la clausola di inalienabilità non costituisce un elemento decisivo nella predisposizione dell’offerta (a differenza ad esempio del prezzo), né quindi nella scelta del contraente (in questo senso la transazione non altera la par condicio tra i partecipanti alla gara); oppure — ed è questa la soluzione preferibile — tale clausola si configura come un significativo limite in relazione alla scelta delle imprese di partecipare o meno alla gara. Non si può escludere, infatti, che in assenza del divieto di alienazione delle quote, anche altre imprese avrebbero potuto partecipare alla procedura di dismissione. Quanto al secondo profilo, considerato che la violazione di tale clausola comportava ex contracto la risoluzione del contratto stesso e il pagamento di una penale — pari al prezzo delle quote acquistate — a carico del privato che l’avesse violata, è da ritenere che l’amministrazione avesse dato un particolare peso al vincolo di inalienabilità. La transazione, dunque, ha ad oggetto la modifica di una rilevante condizione del contratto. La legittimità della rinegoziazione (rectius transazione), escluso che possa avere risvolti retroattivi sul procedimento ad evidenza pubblica (che


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non è stato oggetto di censura alcuna in sede di legittimità), andrà valutata da un punto di vista squisitamente privatistico in sede di interpretazione del contratto, in quanto logicamente rientrante nella fase di adempimento delle obbligazioni stabilite nel contratto stesso. Cosı̀ facendo si potrà stabilire se la clausola oggetto di nuova negoziazione rivesta o meno i caratteri della essenzialità. Nel primo caso deve ritenersi che l’amministrazione non può liberamente modificare una clausola di tal fatta in quanto andrebbe ad incidere indirettamente sulla par condicio competitorum; nel secondo, invece, si dovrà concludere che l’amministrazione, anche successivamente all’aggiudicazione, potrà valutare più funzionale all’interesse pubblico primario la stipulazione di una transazione piuttosto che la risoluzione del contratto. E ciò proprio in quanto la modifica di una clausola di tal fatta non produce conseguenze invalidanti nella fase pubblicistica. La Quinta sezione non affronta il problema di un’indagine circa l’essenzialità della clausola in questione ed opta per una soluzione radicale secondo cui « con la cristallizzazione negli atti di gara delle condizioni di contratto [...] l’ente procedente perde la disponibilità del contenuto del rapporto contrattuale già instaurato [...] e la capacità di convenire con la controparte condizioni diverse da quelle conosciute dai partecipanti al confronto concorrenziale (con conseguente invalidità di accordi di tal fatta) ». La rinegoziazione, insomma, sarebbe sempre illegittima. 4. Il giudizio relativo alla legittimità di una negoziazione di clausole contrattuali (o dei patti parasociali, come in questo caso) attiene senz’altro alla fase di esecuzione del contratto in quanto riguardante il corretto svolgersi del rapporto sinallagmatico e non, come affermato nella sentenza in esame, le procedure di affidamento. Similmente a quanto accade nelle procedure per l’affidamento degli appalti pubblici, anche la procedura di privatizzazione sostanziale presenta, secondo uno schema generalmente accettato, una fase pubblicistica per la selezione del concorrente che fa l’of-


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ferta migliore ed una fase privatistica per tutto quanto attiene all’esecuzione del contratto (11). Il ragionamento svolto dalla Quinta sezione relativamente a questo punto non pare del tutto convincente. I giudici di Palazzo Spada sembrerebbero piuttosto preoccupati di fornire argomentazioni a sostegno della tesi che vuole la giurisdizione del giudice amministrativo in sede esclusiva. Il Collegio, infatti, in un primo momento afferma che « la revisione pattizia delle condizioni di contratto (che prescinda da qualsiasi difetto di funzionamento del sinallagma) si rivela estranea alla fase esecutiva del rapporto [...]: ne consegue che la controversia nella quale si discute della validità di una transazione con la quale sono state modificate talune (rilevanti) condizioni dell’aggiudicazione (prima che del contratto) va senz’altro attribuita al novero delle liti attribuite in via esclusiva alla giurisdizione amministrativa, siccome relative alla procedura di affidamento ». Nella parte finale del suo ragionamento afferma invece che, comunque, ove non si volesse accedere ad un’interpretazione analogica dell’art. 33 comma 2, lett. d), « la controversia in esame risulta soggetta all’art. 23-bis l. n. 1034 del 1971 (da valersi quale disposizione attributiva anche della giurisdizione esclusiva amministrativa) e [che], quand’anche dovesse rifiutarsi quest’ultima conclusione, la lite resterebbe validamente radicata davanti al giudice adito in quanto riferita alla giurisdizione generale di legittimità agevolmente riconoscibile nell’esercizio della funzione della contrattazione della pubblica ammini(11) In tema di evidenza pubblica la dottrina è copiosa. Si segnalano ex multis: C. CAMMEO, I contratti della pubblica amministrazione: capacità e legittimazione a contrattare, Firenze, 1954; A. BARDUSCO, La struttura dei contratti della pubblica amministrazione: atti amministrativi e negozi di diritto privato, Milano, 1974; G. GRECO, I contratti dell’amministrazione tra diritto pubblico e diritto privato. I contratti ad evidenza pubblica, Milano, 1986; M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, Milano, 1987, 777 ss.; S. BUSCEMA, I contratti della pubblica amministrazione, Padova, 1994; F.P. PUGLIESE, voce Contratto, V, in Enc. giur., IX, 1; A. BENEDETTI, I contratti della pubblica amministrazione tra specialità e diritto comune, Torino, 1999; D. MEMMO, Il diritto privato nei contratti della pubblica amministrazione, Padova, 1999; G. PERICU, L’attività consensuale della pubblica amministrazione, in L. MAZZAROLLI, G. PERICU, A. ROMANO, F.A. ROVERSI MONACO, F.G. SCOCA (a cura di), Diritto amministrativo, Bologna, 2001, 1622 ss.; E. FERRARI (a cura di), I contratti della pubblica amministrazione in Europa, Torino, 2003.


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strazione con i privati ». Inoltre sostiene il Collegio che « in quest’ultima fattispecie, a differenza che negli appalti, non è configurabile ontologicamente alcuna possibilità di distinguere una fase esecutiva posto che il procedimento finalizzato alla cessione del bene o dell’impresa esaurisce i suoi effetti con la stipula del contratto di vendita (che produce i relativi e definitivi effetti traslativi della proprietà) ». Conclude, pertanto, il Collegio accogliendo il ricorso nel senso di ritenere sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo. Primariamente occorre notare che anche in una procedura di dismissione di un’impresa pubblica (similmente a quanto accade in materia di appalti) è possibile rintracciare due fasi, una pubblicistica ed una per cosı̀ dire privatistica. Il fatto che il procedimento di dismissione sia finalizzato alla cessione di un bene e che il contratto cosı̀ stipulato sia un contratto ad effetti reali, in quanto traslativo della proprietà, non esclude che anche nel nostro caso sia possibile individuare due momenti fondamentalmente diversi quanto al loro scopo e alla loro disciplina. Nella fase pubblicistica l’amministrazione deve selezionare il contraente migliore, mentre nella fase privatistica, attraverso l’esatto adempimento delle obbligazioni previste dal contratto, essa realizza il soddisfacimento dello specifico interesse pubblico di cui è portatrice o del suo particolare interesse « di parte » (12). Il contratto, infatti, rimane uno strumento neutro rispetto all’interesse perseguito. D’altra parte mentre la fase antecedente la stipulazione è regolata dalle norme pubblicistiche relative ai procedimenti e ai provvedimenti amministrativi, nella fase privatistica trovano applicazione le norme del diritto privato. Conseguenza di questa separazione è che dopo la stipula del contratto vengono in essere, da parte privata, esclusivamente si(12) Sulla funzionalizzazione dell’attività di diritto privato al perseguimento dell’interesse pubblico si vedano: F. LEDDA, Il problema dei contratti nel diritto amministrativo, Torino, 1967; M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, II, Milano, 1988, 777 ss.; V. CERULLI IRELLI, Il negozio come strumento di azione amministrativa, in Autorità e consenso nell’attività amministrativa (atti del XLVII Convegno di studi di scienze dell’amministrazione), Milano, 2002, 77 ss.; A. BENEDETTI, I contratti della pubblica amministrazione, cit., 175 ss.


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tuazioni di diritto soggettivo, laddove, invece, prima dell’aggiudicazione, esiste soltanto una posizione di interesse legittimo (13). È opinione diffusa in dottrina e in giurisprudenza (14) che il momento di separazione tra le due fasi sia costituito dalla stipulazione del contratto, mentre l’aggiudicazione della gara rappresenta il momento in cui attraverso un atto (che è ancora un atto amministrativo e non negoziale) si realizza in concreto una lesione a carico dei concorrenti esclusi. Una volta trascorso il termine di decadenza per impugnare l’aggiudicazione, non potrà essere proposto alcun ricorso al giudice amministrativo (neanche nei casi in cui sia necessario un successivo decreto di approvazione) (15). Pertanto una volta aggiudicata la gara, decorso inutilmente il termine di decadenza, « il contratto che le parti stipulano è un vero e proprio contratto sottoposto alle regole del codice civile » (16). Tradizionalmente la scomposizione in due fasi comporta anche che ci siano due diversi giudici a seconda che ci si trovi nella fase propriamente di evidenza pubblica (e allora la giurisdizione spetterà al giudice amministrativo) oppure nella fase di esecuzione del contratto (e qui la giurisdizione sarà del giudice ordinario). Le ragioni di questa doppia giurisdizione, che viene tuttora riconosciuta dalla giurisprudenza prevalente (17), sono riconducibili ad una matrice storica per quanto detto sopra circa il tradizio(13) Per un diverso caso in cui il Consiglio di Stato ha deciso che spetti al giudice amministrativo il contenzioso relativo alla risoluzione del contratto disposta dalla p.a. in via di autotutela, in conseguenza del rifiuto dell’impresa di consegnare in anticipo i lavori si veda Cons. Stato, Sez. IV, 25 settembre 2002, n. 4895 cit. (14) Cons. Stato, Sez. IV, 25 settembre 2002, n. 4895, in Nuovo dir., 2003, 39. Per una disamina più approfondita si vedano in dottrina D. STEVANTINO, I diversi momenti del sorgere del vincolo contrattuale negli appalti della p.a., in Giust. civ., 2003, I, 493; M. GATTI, Aggiudicazione provvisoria e definitiva: una distinzione attuale?, in Riv. trim. app., 2003, 163 ss. (15) Cons. Stato, IV, 23 marzo 1987 n. 173 in Foro amm., 1987, 467. (16) G. CORSO, Manuale di diritto amministrativo, Torino, 2003, 286; Si veda anche G. GRECO, I contratti della pubblica amministrazione tra diritto pubblico e privato, cit., 3. (17) Tra le sentenze più recenti Cass. Civ., Sez. Un., 23 dicembre 2003, n. 19787, in Giust. civ. Mass., 2003, f. 12; Tar Friuli Venezia Giulia, 25 ottobre 2003, n. 738 in Redazione Giuffrè, 2003; Tar Sardegna, 27 ottobre 2003, n. 1303, in Redazione Giuffrè, 2003; Tar Puglia Lecce, Sez. II, 7 settembre 2002, n. 4306, in Foro amm.-Tar, 2002;


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nale criterio di riparto in funzione della situazione giuridica soggettiva venuta in essere. Occorrerà, però, verificare se tale criterio rimanga ancora valido alla luce della nuova giurisdizione esclusiva come disegnata dal legislatore del 1998-2000. Nel caso in esame dopo l’aggiudicazione della gara le parti hanno stipulato un contratto conforme a quanto disposto nel bando e nello schema di contratto sottoscritto. Il contratto dunque è venuto validamente ad esistenza, senza che, fino a questo punto, si potesse obiettare alcunché. Occorre a questo punto appurare se la nuova negoziazione appartenga alla serie pubblicistica (secondo la prospettazione della Quinta sezione nella sentenza in commento), o alla serie privatistica. Che l’attività di rinegoziazione svolta dopo l’aggiudicazione non costituisca esercizio di un potere pubblicistico si argomenta nel caso di specie da diverse considerazioni che conviene passare rapidamente in rassegna: in primo luogo l’appellante Latte Sano chiede, attraverso la diffida, che il Comune si avvalga della clausola risolutiva prevista nel contratto tra Cirio e Comune di Roma. Ora la risoluzione è istituto di diritto privato (18) disciplinato daCass. civ., Sez. Un., 18 aprile 2002, n. 5640, in Giust. civ. Mass., 202, 675; ma si veda pure Cons. Stato, IV, 9 gennaio 1996, n. 41, in Giur. it., 1996, III, 1, 496 con nota di E. CANNADA BARTOLI; e Cass., Sez. Un., 30 marzo 2000, n. 71, in Foro it., 2000, I, 2211. (18) A questo proposito si veda da ultimo l’ordinanza di rimessione all’Adunanza plenaria del Cons. Stato del 21 maggio 2004 in www.lexitalia.it operata dalla IV sezione che, al punto 5, prospettando il problema della giurisdizione nel caso di invalidità del contratto a seguito dell’annullamento dell’aggiudicazione, fornisce qualche considerazione utile anche al nostro caso affermando: « Resta, in ogni caso, esclusa, anche accedendo all’interpretazione estensiva appena esposta [che vorrebbe la giurisdizione del giudice amministrativo in sede esclusiva anche forzando la lettera della legge, n.d.r.], la possibilità di pronunciare la risoluzione del contratto (od altre statuizioni costitutive prive di una connessione diretta con la validità dell’aggiudicazione) che, postulando l’accertamento di vicende relative all’attuazione del rapporto e non immediatamente ascrivibili alla legittimità della procedura di affidamento, risultano senz’altro riservate alla giurisdizione ordinaria ». Si vedano inoltre: Cass., Sez. Un., 29 aprile 2003 n. 6628, in Foro amm.-Cons. St., 2003, 1257; Cass., Sez. Un., 30 maggio 1991 n. 6158, in Giust. civ. Mass., 1991, fasc. 5; Cass., Sez. Un., 17 novembre 1984 n. 5840, in Foro it., 1985, I, 132; Cons. Stato, Sez. IV, 29 novembre 2000 n. 6325, in Foro amm., 2000, f. 11, 3602; Tar Friuli Venezia Giulia, 25 ottobre 2003, n. 738, in Redazione Giuffrè, 2003; Tar Lazio, Sez. II, 26 giugno 2000 n. 5182, in Foro amm., 2001, 719. Tar Umbria, 4 luglio 2003 n. 568, in Foro amm.-Tar, 2263; Tar Lazio, Sez. I, 6 novembre 2002


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gli articoli del codice civile ed evidentemente si pone nella fase esecutiva, di sicura spettanza del giudice ordinario. Peraltro, la clausola risolutiva è vincolante tra le parti proprio in forza del contratto e non è, pertanto, riconducibile ad un vizio nella fase di selezione. Anche se la rinegoziazione fosse dunque illegittima ciò non toglie che il vizio da cui è affetto il contratto stipulato tra Comune di Roma e Cirio non deriva da una qualche illegittimità della procedura di evidenza pubblica (pertanto siamo qui fuori dall’annosa questione circa gli effetti sul contratto del provvedimento illegittimo). Semmai, all’inverso, il Consiglio di Stato vorrebbe far retroagire al momento pubblicistico un vizio della fase privatistica. Più correttamente, invece, l’invalidità del contratto (si potrà poi discutere di che tipo di invalidità si tratti, se nullità totale o parziale del contratto o inefficacia) dovrebbe essere ricondotta al mancato rispetto di una clausola contrattuale, o meglio alla illecita ridefinizione di condizioni contrattuali non liberamente modificabili dall’amministrazione. In secondo luogo, come visto precedentemente, l’indagine circa la legittimità o meno della rinegoziazione avviene in sede di interpretazione del contratto ad opera del giudice (a prescindere dal fatto che si pervenga a qualificare la nuova negoziazione come legittima o illegittima). Se si accede — come appare preferibile — alla prospettazione dei giudici della Quinta sezione che considerano illegittima la rinegoziazione, ciò non toglie, tuttavia, che il vizio riguardi solo ed esclusivamente la fase privatistica del contratto. Ed infatti, una volta stabilito che le condizioni per contrattare sono quelle predisposte nel bando di gara e relativi allegati (schema di contratto, patti parasociali, ecc.), e da queste l’amministrazione non n. 9725, in Dir. e Formazione, 2002, 1747; Tar Sicilia Palermo, Sez. I, 11 settembre 2002 n. 2375, in Foro amm.-Tar, 2002, 3008; Tar Puglia Lecce, Sez. II, 19 gennaio 2002 n. 42, in Foro amm.-Tar, 2002, 235; Tar Lombardia Milano, Sez. III, 13 novembre 2000 n. 6327, in Foro amm., 2001, 934. In dottrina a proposito di risoluzione di appalto di opere pubbliche F.G. SCOCA, Risoluzione del rapporto, in MARZANO (a cura di), Appalto di opere pubbliche, Roma, 1987, 449 ss.; E. MELE, I contratti della pubblica amministrazione, Milano, 1998, 328.


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può discostarsi, allo stesso modo non ci si può discostare dall’esito di una gara legittima che ha visto riuscire vincitore il concorrente che ha presentato l’offerta marginalmente più congrua. Si vuol dire cioè che, cosı̀ come le regole contrattuali predisposte dall’amministrazione nello schema di contratto e nei patti parasociali in conformità a quanto previsto dal bando costituiscono un vincolo immodificabile, allo stesso modo costituisce un vincolo altrettanto stringente per l’amministrazione la stipulazione col concorrente risultato vincitore della gara (fatta salva la decisione di non stipulare affatto per sopravvenute esigenze di opportunità). Ma con l’aggiudicazione la fase pubblicistica è conclusa: tutto ciò che avviene dopo questo momento, compresa la ridefinizione di clausole del negozio, attiene al rapporto tra due soggetti entrambi legittimati a contrarre un fascio di obbligazioni reciproche sebbene a condizioni vincolate. L’alterazione di questi vincoli (che può dare luogo a invalidità del contratto) e dunque del contenuto delle obbligazioni riguarda evidentemente il proprium del rapporto sinallagmatico. L’assetto di interessi posto in essere, cioè il contratto, potrà essere nullo (in tutto o in parte) o inefficace a seconda del vizio cui si voglia ricondurre la pattuizione a condizioni diverse da quelle previste dal bando. Rimane aperto ancora un problema, che non può essere affrontato compiutamente in questa sede, ma che meriterebbe adeguato approfondimento: quello della tutela del terzo soccombente nella gara. Pare a chi scrive che la Quinta sezione sia giustamente preoccupata di assicurare la tutela di un soggetto terzo rispetto ad un contratto di alienazione ed alle vicende che lo riguardano. Latte Sano, infatti, aveva dovuto ricorrere ad un pretesto per agire innanzi al giudice amministrativo (attivando il giudizio sul silenzio) non sussistendo un provvedimento impugnabile, espressione di un potere autoritativo dell’amministrazione, ma un atto paritetico (contratto di transazione). D’altra parte l’escamotage della diffida ad avvalersi della clausola risolutiva per poi impugnare il silenzio del Comune a riguardo, sebbene si presenti come una costruzione un po’ macchinosa, è l’unica soluzione a disposizione del terzo. Come si è visto costui non è titolare di una particolare


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situazione soggettiva da far valere nella vicenda relativa alla validità della rinegoziazione di clausole del contratto tra amministrazione ed aggiudicatario, a meno che non si affermi — come fa la Quinta Sezione — che la rinegoziazione appartiene alla serie pubblicistica. In tal caso, infatti, ben potrebbe egli far valere l’interesse legittimo di cui è titolare in questa fase. Tale affermazione, tuttavia, per quanto visto sin qui, pare francamente una forzatura. Se la difesa della posizione del terzo appare un profilo certamente importante — anche perché fornisce occasione al giudice amministrativo di assicurare una tutela oggettiva in una vicenda che, diversamente, potrebbe prestarsi a delle speculazioni — il ragionamento complessivo della Quinta sezione nella sentenza in epigrafe non è privo di ombre e non sembra, per questa ragione, del tutto convincente. Per consentire al terzo di far valere in giudizio le proprie ragioni (che si sostanziano fondamentalmente nell’interesse a che sia data applicazione alla clausola risolutiva affinché l’amministrazione indica una nuova gara) si potrà piuttosto considerarlo come soggetto legittimato a far valere in giudizio l’invalidità della rinegoziazione (ad esempio nella specie della nullità assoluta del contratto di transazione) in forza dell’art. 1418 c.c. che stabilisce come la nullità possa essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse. Nel caso di specie, riconoscendo in capo al terzo la legittimazione ad impugnare la transazione, questi potrebbe domandare al giudice (ordinario) al contempo la dichiarazione di nullità della transazione (ed eventualmente dell’intero contratto) nonché lo scioglimento del rapporto instaurato tra amministrazione ed aggiudicatario in applicazione della clausola risolutiva espressa. Cosı̀ facendo, dunque, da un lato verrebbe riconosciuta in capo al terzo una posizione giuridica da far valere in giudizio (realizzando perciò l’esigenza del Consiglio di Stato di assicurare una tutela oggettiva nel caso concreto) dall’altro, non vi sarebbe più la necessità di ricorrere al macchinoso pretesto del silenzio inadempimento né quindi la necessità di operare uno spostamento della giurisdizione dal giudice ordinario al giudice amministrativo. 5.

Occorre a questo punto svolgere qualche considerazione


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in ordine ai profili di giurisdizione e rispondere all’interrogativo emerso nel corso del commento se il criterio di riparto tra giudice ordinario e giudice amministrativo, fondato sulla dicotomia diritti soggettivi/interessi legittimi, continui ad avere validità nel quadro della nuova giurisdizione esclusiva o se, viceversa, debba essere soppiantato in favore del diverso criterio delle materie (o blocchi di materie). Per quello che qui interessa tale interrogativo concerne in particolare i contratti ad evidenza pubblica in materia di servizi pubblici (19). Il dato normativo a riguardo è costituito dalla previsione della lett. d) del comma 2 dell’art. 33 del d.lgs. n. 80 del 1998 come modificato dall’art. 7 della l. n. 205 del 2000. Mentre il comma 1 dell’art. 33 attribuisce alla giurisdizione esclusiva tutte le controversie in materia di servizi pubblici la lett. d) sembrerebbe operare una sorta di restrizione di campo prevedendo che tali controversie siano in particolare quelle aventi ad oggetto le procedure di affıdamento di appalti pubblici di lavori, servizi e forniture, svolte da soggetti comunque tenuti all’applicazione delle norme comu(19) Il problema, tuttavia, investe più in generale l’intera materia dei servizi pubblici per la necessità di rintracciarne i confini. Non potendosi qui affrontare compiutamente tutta la tematica in esame ci si limiterà a prendere in considerazione i contratti ad evidenza pubblica. Per quanto attiene le non poche difficoltà derivanti dall’inquadramento entro confini certi dell’ambito della giurisdizione esclusiva si rinvia alla dottrina in commento dell’art. 33 del d.lgs. 31 marzo 1998 n. 80, della pronuncia dell’Adunanza plenaria n. 1 del 2000 e delle pressoché contemporanee (ed opposte) pronunce delle Sezioni unite della Suprema Corte di Cassazione nn. 71 e 72 dello stesso anno. In commento all’art. 33 si veda R. VILLATA, Prime considerazioni sull’art. 33 del d.lgs. n. 80 del 1998, in questa Rivista, 1/1999; L. BERTONAZZI, Commento all’art. 33, in La nuova giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (a cura di A. TRAVI), in Le nuove leggi civili, 1998. In commento all’Adunanza plenaria n. 1 del 2000 e alle contemporanee sentenze delle Sezioni unite nn. 71 e 72 si vedano A. TRAVI, Commento a Adunanza plenaria n. 1/2000 e a Cass. SS.UU. n. 71-72/2000, in Giorn. dir. amm., 2000, 576; A. TRAVI, Giustizia amministrativa e giurisdizione esclusiva nelle recenti riforme, in Foro it., 2001, V, 68; B. SASSANI, Le alte Corti all’impatto delle questioni di giurisdizione dell’art. 33 d.lgs. n. 80 del 1998: prime impressioni di lettura, in Giust. civ., 2000, 1321; F. FRACCHIA, Giurisdizione esclusiva, servizio pubblico e specialità del diritto amministrativo, in Foro it., 2000, III, 368; R. GAROFOLI, L’art. 33 d.lgs. 80/98 al vaglio della Cassazione e del Consiglio di Stato, in www.Giust.it, G. VIRGA, Un guscio mezzo vuoto (a proposito dell’ampliamento della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo), in www.giust.it.


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nitarie o della normativa nazionale o regionale. Sembrerebbe — stando alla lettera della norma — che in materia di contratti ad evidenza pubblica nei servizi pubblici la giurisdizione esclusiva sia limitata alle sole procedure di affidamento. Pertanto, primariamente, occorrerà verificare se la lett. e) costituisca un limite alla materia dei servizi pubblici di cui al comma 1; oppure se, avendo tale lettera un carattere meramente esemplificativo, la statuizione in essa contenuta non possa definire l’ambito di giurisdizione del giudice amministrativo che rimane, pertanto, individuato dalla previsione del comma 1 riguardante tutte le controversie in materia di pubblici servizi. In altre parole ci si chiede se abbia senso — una volta che il legislatore ha espressamente previsto che rientrino nella giurisdizione esclusiva tutte le controversie riguardanti i servizi pubblici — continuare a distinguere la fase pubblicistica da quella privatistica e limitare la giurisdizione del giudice amministrativo solo alla prima, sulla base della considerazione che nella fase esecutiva verrebbero in essere solo diritti soggettivi. Anticipando da subito le conclusioni cui si perverrà appare preferibile quest’ultima soluzione. In effetti, l’impostazione che estende la giurisdizione esclusiva anche al momento esecutivo del contratto sembrerebbe contraddire tanto la lettera dell’art. 33 del decreto n. 80 del 1998, quanto la logica che ha ispirato la creazione della giurisdizione esclusiva e ne ha giustificato la particolarità nel nostro sistema costituzionale (come si avrà modo di dire più oltre). Le due posizioni sopra richiamate circa l’ampiezza della giurisdizione esclusiva in materia di contratti ad evidenza pubblica nei servizi pubblici sono riflesse, con sfumature diverse, nella giurisprudenza e nella dottrina recenti (20). In effetti per quel che riguarda i contratti della pubblica amministrazione la giurisprudenza maggioritaria, tanto quella civile quanto quella amministrativa, anche dopo le modifiche apportate dall’art. 7 della l. n. 205 (20) Per un’analisi dettagliata a riguardo si veda F. SAITTA, Esecuzione dei contratti ad evidenza pubblica e giudice amministrativo: la (persistente?) « specialità » della giurisdizione esclusiva alla ricerca di un’identità smarrita, in questa Rivista, 1/2004; M. PACINI, Il riparto delle giurisdizioni nella giurisprudenza (gennaio 1999febbraio 2001), in Giorn. dir. amm., 2001, 592.


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del 2000 all’art. 33 del d.lgs. n. 80 del 1998, ritiene che la fase esecutiva del rapporto contrattuale rientri ancora nello spazio di giurisdizione del giudice ordinario, in forza dell’esplicita previsione della lett. d) dell’attuale art. 33 (21). Parte della dottrina (22) e una parte (minoritaria) della giurisprudenza (23) hanno invece sostenuto che anche la fase di esecuzione del contratto debba farsi più correttamente rientrare nell’ambito di giurisdizione del giudice amministrativo in quanto l’elencazione del comma 2 dell’art. 33 avrebbe un valore solo esemplificativo e, come tale, non sarebbe idonea a limitare la generale previsione del comma 1 che devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie in materia di pubblici servizi. Secondo questa interpretazione, cui va ascritto il merito di ricercare una lettura dell’art. 33 coerente con la nozione stessa di giurisdizione esclusiva e con l’utilità di concentrare nelle mani di un unico giudice l’intera materia dei contratti, non avrebbe senso alcuno sovrapporre al criterio delle materie il criterio basato sulla (21) Cass., Sez. un., 23 dicembre 2003, n. 19787, in Giust. civ. Mass., 2003, f. 12; Cons. Stato, Sez. V, 30 giugno 2003, n. 3868 in Cons. St., 2003, I, 1443; Tar Puglia Lecce, Sez. II, 24 marzo 2003, n 1332, in Foro amm.-Tar, 2003, 1074; Tar Sardegna, 27 ottobre 2003 n. 1303, in Redazione Giuffrè; Tar Friuli Venezia Giulia, 25 ottobre 2003, n 738, in Redazione Giuffrè, 2003; Tar Umbria 18 marzo 2003, n. 176, in Foro amm.-Tar, 2003, 901; Tar Emilia Romagna Bologna, Sez. II, 27 gennaio 2003, n. 40, in Serv. pubbl. e appalti, 2003, 306; Cons. Stato, Sez. IV, 25 settembre 2002, n. 4895, in Nuovo dir., 2003, 39; Cons. Stato, Sez. V, 30 gennaio 2002, n. 515, in Giur. it., 2002, 1072; Cass. civ., Sez. un., 18 aprile 2002 n. 5640, in Giust. civ. Mass., 2002, 675; Tar Puglia Lecce, Sez. II, 7 settembre 2002 n. 4306, in Foro amm.-Tar, 2002; Tar Campania Napoli, Sez. I, 21 febbraio 2001, n. 868, con nota di A. PAGANO, in Urb. e app., 2001, 420; Tar Basilicata, 1o giugno 1999 n. 198 e Tar Marche 12 marzo 1999 n. 260 in questa Rivista, con commento critico di L. BERTONAZZI, Note sull’ambito di applicazione dell’art. 33, comma 2, lett. e) del d.lgs. 31 marzo 1998 n. 80, con particolare riferimento alle controversie relative all’esecuzione dei contratti di appalto (aventi un oggetto strumentale alla gestione ed erogazione di un pubblico servizio); Tar Abruzzo Pescara, ord. 29 aprile 1999 n. 184 in Urb. e app., 1999, 908. (22) L. BERTONAZZI, Note sull’ambito di applicazione dell’art. 33, comma 2 lett. e), cit; D. BEZZI, Esecuzione di appalti di lavori, Giudice ordinario e Giudice amministrativo: primi spunti di riflessione, in Riv. giur. edil., 2002, I,741. (23) Tar Calabria Reggio Calabria 27 gennaio 2000 n. 71 con nota di M. DE PALMA, in Urb. e app., 2000, 820; Tar Sicilia Catania, Sez. III, 7 gennaio 2002 n. 7, in Guida al diritto, 2002 n. 6, 87; Tar Campania Napoli sez. I, 29 maggio 2002 n. 3177, con nota di V. CERULLI IRELLI, in Giorn. dir. amm., 2002, 1195.


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situazione giuridica lesa assegnando un valore limitante e tassativo alle previsioni (solo esemplificative) del comma 2, posto che il tradizionale criterio di riparto fondato sulla distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi avrebbe ormai ceduto il posto al criterio di riparto per materia (24). A sostegno della prima tesi (l’esecuzione del contratto rimane nella giurisdizione del giudice ordinario) è possibile avanzare (e di fatto sono state avanzate dalla dottrina e dalla giurisprudenza) argomentazioni diverse e di diverso ordine. Prima di tutto ragioni di ordine letterale: occorre notare, infatti, che al legislatore del 2000 è ben nota la differenza che intercorre tra fase di selezione e fase di esecuzione (come è possibile evincere da altre norme della l. n. 205 del 2000) (25), ragion per cui ove avesse voluto ricomprendere nella giurisdizione esclusiva anche la fase esecutiva il legislatore avrebbe potuto farlo, ma non l’ha fatto (26). In secondo luogo, anche se l’elencazione del comma 2 dell’art. 33 costituisce una mera esemplificazione, non per questo se ne deve dedurre che tale elencazione non abbia nessun valore per l’interprete; che anzi altro è dire che la materia dei servizi pubblici non è esaurita alle sole previsioni dell’art. 33 — che non ricomprende fattispecie certamente ascrivibili a tale categoria ed al contrario ne cita altre di dubbia compatibilità con la nozione comunemente accettata di servizi pubblici — altro è dire che tali previsioni non costituiscano una manifestazione della volontà del (maldestro) legislatore del 1998-2000. La chiara dicitura « controversie aventi ad oggetto le proce(24) Per il superamento del criterio della causa petendi in favore di quello per materia Cons. Stato, Ad. plen., ord. n. 1 del 2000 cit., in dottrina, tra i tanti, A. FABRI, Giurisdizione esclusiva: i modelli processuali, Torino, 2002 294 ss. (25) Si pensi all’art. 4 della medesima l. n. 205 del 2000 che ha introdotto l’art. 23-bis della l. n. 1034 del 1971 e che alla lett. c) espressamente si riferisce a « provvedimenti relativi alle procedure di aggiudicazione, affidamento ed esecuzione di servizi pubblici e forniture ». (26) In questo medesimo senso F. SAITTA, Esecuzione dei contratti ad evidenza pubblica e giudice amministrativo: la (persistente?) « specialità » della giurisdizione esclusiva alla ricerca di un’identità smarrita, cit., 44.


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dure di affidamento di appalti pubblici di lavori » non sembra lasciare spazio ad altre interpretazioni. Si potrebbe obiettare che in tal modo nulla sarebbe innovato rispetto alla situazione precedente, posto che già prima del d.lgs. n. 80 del 1998 in base al criterio di riparto fondato sulla causa petendi la fase pubblicistica spettava al giudice amministrativo e quella privatistica al giudice ordinario. Effettivamente — stando a questa interpretazione — in materia di contratti ad evidenza pubblica nei servizi pubblici non sarebbero riscontrabili significative novità quanto al riparto di giurisdizione rispetto all’assetto precedente, posto che il giudice amministrativo in sede di legittimità avrebbe comunque giurisdizione nella maggioranza dei casi di controversie attinenti a questa fase. D’altra parte militano a favore della tesi minoritaria anche ragioni di economicità processuale, nel senso che costituisce certamente una semplificazione e una garanzia di maggior tutela per il privato il doversi rivolgere ad un unico giudice. Ciò non toglie tuttavia che l’interpretazione da preferirsi sia quella più fedele al dettato normativo. Altre ragioni, oltre a quelle letterali, che fanno propendere per una interpretazione « restrittiva » della lett. d) comma 2 dell’art. 33, sono quelle che derivano da una lettura della norma alla luce della Costituzione. Questo filone interpretativo, sostenuto da autorevole dottrina (27) e dalla giurisprudenza della Cassazione (28), predilige una lettura « privatistica » dell’art. 33 posto che la lettura pubblicistica — pure astrattamente possibile — non si sottrae a dubbi di costituzionalità con riguardo all’art. 103 Cost. (29). Secondo l’interpretazione della Cassazione tale norma circoscrive l’ambito della giurisdizione esclusiva a « controversie comunque correlate all’interesse generale, in quanto volte alla tutela di (collegate) posizioni di interesse legittimo o in casi particolari anche di diritti soggettivi, (27) R. VILLATA, Prime considerazioni sull’art. 33 del d.lgs n. 80 del 1998, cit. A. ROMANO, Giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa dopo la legge n. 205/2000 (Epitaffıo per un sistema), in questa Rivista, 2001, 602. (28) In particolare si veda Cass., Sez. Un., 30 marzo 2000 n. 72, cit. (29) In tema G. MONTEDORO, La costituzionalità del nuovo assetto del riparto di giurisdizione dopo l’adunanza plenaria n. 4 del 2003, in questa Rivista, 2004, 94 ss.


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senza possibilità di indiscriminata estensione [...] a tipologie di liti [...] coinvolgenti unicamente diritti patrimoniali »; e con riguardo all’art. 3 Cost. « sia sotto il profilo della dubbia ragionevolezza di una scelta distributiva tra due diversi plessi giurisdizionali di controversie identicamente attinenti a vicende di inadempimento di diritto comune; sia per il profilo dell’uguaglianza, cui si riconduce l’esigenza dell’uniforme interpretazione della legge che (stante la non ricorribilità delle sentenze dei giudici amministrativi per violazione di legge ex art. 360 c.p.c.) » rischierebbe di essere compromesso in caso di diversa interpretazione da parte dei giudici civili e amministrativi delle medesime norme (30). Effettivamente il criterio della situazione giuridica soggettiva, riconosciuto anche nella Costituzione all’art. 103, viene decisamente messo in crisi dal consistente ampliamento delle ipotesi di giurisdizione esclusiva (che pure la Costituzione riconosce, ma che fino al 1998 costituiva in qualche modo un’eccezione alla regola) (31) per fare spazio al diverso criterio delle materie. Tali modifiche, peraltro, sono state attuate per legge ordinaria e la loro conformità alla Costituzione è stata sollevata da parte della dottrina sin dai primi commenti al decreto n. 80 del 1998. Probabilmente una parola chiara potrà venire solo dalla Corte costituzionale (32). (30) A conclusioni diverse approda altra parte della dottrina D. PALLOTTINO, Osservazioni sulla legittimità costituzionale del nuovo sistema di riparto delle giurisdizioni, in Foro amm.-Tar, 2003, 4, 1461; S. BACCARINI, La giurisdizione esclusiva e il nuovo riparto, in questa Rivista, 2003, 2, 365. (31) In questo senso E. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2003, 626; F. FRACCHIA, La giurisdizione esclusiva, in F. CARINGELLA, M. PROTTO (a cura di), Il nuovo processo amministrativo dopo due anni di giurisprudenza, Milano, 2002; V. PARISIO, Giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, appalti e natura delle posizioni giuridiche soggettive, in Giust. civ., 2003, 93; contra nel senso cioè della conformità alla Costituzione che avrebbe, « attraverso il riferimento alla distinzione fra diritti e interessi legittimi, fatto proprio non soltanto l’assetto tradizionale della giustizia amministrativa, ma anche la chiave di volta per il superamento di tale assetto » A. PAJNO, Il riparto della giurisdizione, in S. CASSESE (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, IV, Milano, 2003, 4221. (32) Nelle more della pubblicazione di questo scritto la Corte Costituzionale si è pronunciata con sentenza 6 luglio 2004, n. 204, in tema di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, dichiarando la parziale illegittimità costituzionale degli artt. 33 e 34 del D.lgs. n. 80/98 e precisando i limiti imposti al legislatore nell’attribuire « particolari materie » alla giurisdizione esclusiva del g.a.


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Allo stato attuale, comunque, e per quanto detto fin qui, è preferibile aderire all’interpretazione restrittiva dell’art. 33 comma 2 lett. d) del d.lgs. n. 80 del 1998. Nella sentenza in esame anche i giudici della V sezione sembrano accedere all’indirizzo maggioritario che vuole la fase esecutiva del contratto di spettanza della giurisdizione del giudice ordinario. Essi, tuttavia, ritengono (erroneamente) che la rinegoziazione appartenga alla fase di selezione del contraente e rivendicano, pertanto, al giudice amministrativo la giurisdizione in materia. Non potendo attribuirsi la giurisdizione nel caso di specie il giudice amministrativo cerca di giustificare la sua giurisdizione per altra via, sostenendo che la rinegoziazione rientri nella fase pubblicistica. E cosı̀ il giudice amministrativo uscito dalla porta vien fatto rientrare dalla finestra. Sempre in questo senso la V sezione fa appello, ove non si volesse accedere ad un’interpretazione analogica dell’art. 33 al caso in esame, all’art. 23-bis lett. e) della l. n. 1034 del 1971 (introdotto dall’art. 4 della l. 205 del 2000) che include tra i provvedimenti (33) ai quali si applicano particolari disposizioni sul processo (tra le quali la riduzione dei termini alla metà), anche i provvedimenti relativi alle procedure di privatizzazione o di dismissione di imprese o beni pubblici [...]. In verità è opinione pacifica anche in giurisprudenza che tale norma non fondi nessuna nuova ipotesi di giurisdizione (considerato che nella l. n. 205 si occupano di giurisdizione già l’art. 6 e l’art. 7 sebbene non siano coordinati tra loro), ma semmai presuppone la giurisdizione del giudice amministrativo. In questo senso appare del tutto fuorviante il ragionamento della V sezione del Consiglio di Stato nella sentenza in epigrafe nella parte in cui afferma il « necessari[o] riconoscimento implicito della giurisdizione amministrativa esclusiva » (34). (33) Sottolinea che oggetto del giudizio in questione sono solo i provvedimenti in quanto atti autoritativi e non gli atti paritetici o di matrice privatistica M. LIPARI, I riti abbreviati: l’ambito della disciplina e il concreto funzionamento del giudizio accelerato, in F. CARINGELLA-M. PROTTO (a cura di), Il nuovo processo amministrativo dopo due anni di giurisprudenza, Milano, 2002, 827-828. (34) Cons. Stato, Sez. IV, 25 marzo 2003 n. 1544 cit.; F. SAITTA, Esecuzione dei


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6. Le considerazioni di cui sopra ancora una volta ripropongono il problema della definizione del ruolo attuale del giudice amministrativo in sede esclusiva. Non v’è dubbio alcuno, infatti, che l’evoluzione della giurisdizione esclusiva abbia aperto scenari nuovi nell’ambito del problema del riparto della giurisdizione tra autorità giurisdizionale ordinaria e amministrativa. Da una parte gli interventi del legislatore del 1998-2000 avrebbero dovuto innovare nel senso della semplificazione e della effettività della tutela; d’altra parte la disorganicità di tali interventi legislativi ha evidentemente generato gravi incertezze e vaste zone d’ombra nell’attuale assetto della giustizia amministrativa. La giurisprudenza dal canto suo, come sopra si è messo in evidenza, sembra ancora saldamente ancorata ad una costruzione della giurisdizione esclusiva come eccezionale rispetto a quella generale di legittimità. E l’eccezione sembra essere giustificata ora dalla difficoltà di distinguere, in una determinata materia, gli interessi legittimi dai diritti soggettivi, ora dall’inscindibile intreccio tra queste due posizioni giuridiche, ora, infine, dalla necessità di assicurare una tutela più piena ai privati nei confronti dell’amministrazione in determinate materie (35). In questo senso appare degna di nota, anche per la suggestività che tale proposta riveste e per l’autorevolezza dei proponenti (36), l’idea di una svolta radicale attraverso il passaggio ad una giurisdizione unica, cioè un passaggio contratti ad evidenza pubblica, cit., 50; R. DE NICTOLIS-F. CARINGELLA, Giurisdizione esclusiva e pubblici appalti. La legge 205/2000 al vaglio della giurisprudenza, F. CARINGELLA-M. PROTTO (a cura di), Il nuovo processo amministrativo dopo due anni di giurisprudenza, Milano, 2002. (35) Per una ricostruzione circa la ratio della giurisdizione esclusiva si rimanda alle trattazioni generali sull’argomento: M.S. GIANNINI-A. PIRAS, Giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria nei confronti della pubblica amministrazione, in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, 229 ss.; N.A. CALVANI, La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, Bari, 1992, in particolare 80 e ss.; P.M. VIPIANA, voce Giurisdizione amministrativa esclusiva, in Dig. pubbl., VII, Torino, 1991, 377; E.M. BARBIERI, voce Giurisdizione esclusiva nel giudizio amministrativo, in Enc. giur., XV, Roma, 1989, 1; M. NIGRO, Giustizia amministrativa, a cura di E. CARDI, A. NIGRO, Bologna, 2002, 137 ss. (36) A. PROTO PISANI, Verso il superamento della giurisdizione amministrativa?, in Foro it., 2001, V, 21; con diverso tono e per ragioni in parte diverse anche A. TRAVI, Giustizia amministrativa e giurisdizione esclusiva nelle recenti riforme, in Foro it., 2001, V, 68.


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— per dirla con le parole di Mario Nigro — da un sistema di giurisdizione dualistico ad uno monistico, nel quale la giurisdizione amministrativa sarebbe solo una sezione specializzata dell’unica giurisdizione civile. Tale proposta che pure fu dibattuta in sede di Assemblea Costituente non trovò accoglimento nella nostra Carta costituzionale, preferendosi ad essa l’attuale assetto della giurisdizione (37). Le ragioni che inducono parte della dottrina a riprendere in considerazione la possibilità di una giurisdizione unica non possono non essere tenute presenti nel sistematizzare l’attuale (dis)ordine della giurisdizione. Il nuovo sistema di giustizia amministrativa, infatti, appare ben lontano da una sistemazione coerente, ordinata e capace di rispondere all’effettivo bisogno di tutela del cittadino (38). L’ampliamento notevole della giurisdizione esclusiva a materie, quale quella dei servizi pubblici, indeterminate nella loro definizione, è facilmente suscettibile di creare (e di fatto crea) non pochi problemi circa i confini della materia stessa (39). Il fatto che per la gran parte delle controversie si faccia ora applicazione del criterio della materia, infatti, non risolve le incertezze circa il riparto di giurisdizione tra autorità giurisdizionale ordinaria e amministrativa, come del resto era già stato notato dall’Adunanza generale del Consiglio di Stato in occasione del parere reso sullo schema del d.lgs. n. 80 del 1998 (40). Inoltre, in conseguenza dell’ampliamento della giurisdizione esclusiva coesistono due giudici diversi per l’applicazione delle medesime norme (in larga parte civilistiche) (41) senza che sia assicurata la funzione nomofilattica da parte di un’unica Corte Suprema, in quanto l’art. 111 Cost. consente il ricorso in Cassa(37) Cfr. G. VERDE, L’unità della giurisdizione e la diversa scelta del Costituente, in questa Rivista, 2003, 343. (38) In questo senso svolge un’analisi lucida A. ROMANO, Giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa dopo la legge n. 205/2000, cit. (39) In questo senso anche M. LIPARI, La nuova giurisdizione amministrativa in materia edilizia, urbanistica e dei pubblici servizi, in Urb. e app., 1998, 596. (40) Ad. gen., Cons. Stato, 12 marzo 1998, n. 30/98 in Foro it., 1999, III, 350, in particolare 360. (41) A. PROTO PISANI, Verso il superamento della giurisdizione amministrativa?, cit., 25.


RINEGOZIAZIONE DEL CONTRATTO

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zione contro le decisioni del Consiglio di Stato per soli motivi attinenti alla giurisdizione. Infine il progressivo avvicinamento tra giudici civili e amministrativi quanto ai poteri e agli strumenti a disposizione rende (forse) maturi i tempi per la creazione di una giurisdizione unica (42). Attualmente, per mettere ordine in un sistema cosı̀ complicato, sarebbe probabilmente auspicabile un intervento razionale del legislatore (costituzionale) chiamato a dare sistematicità e coerenza ad un ordinamento della giustizia amministrativa ormai svuotato delle sue caratteristiche originali e destinato, per il mutare dei tempi, ad un nuovo assetto strutturale. Diversamente, esiste il rischio concreto che il giudice amministrativo, destreggiandosi tra le maglie della legge, non rinunci alla tentazione di allargare la sua sfera di giurisdizione e ciò non a danno del giudice civile, ma soprattutto a danno dell’effettività della tutela. ALFREDO MARRA

(42) Già prima della l. n. 205 del 2000 era aperto un dibattito sul tema. Si veda A. TRAVI, Per l’unità della giurisdizione, in Dir. pubbl., 1998, 371.


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Cons. St., Sez. IV, ord. 18 novembre 2003 n. 5108 - Pres. Trotta - Est. Russo - Ministero della Giustizia e Commissione Esami Avvocato presso la Corte d’Appello di Reggio Calabria (Avvocatura Generale dello Stato) c. E.B. (avv. F. Lubrano e M. Salazar). Giustizia amministrativa - Tutela cautelare - Contenuto della ordinanza cautelare, ordinanze propulsive - Riforma dell’ordinanza e caducazione degli atti procedimentali successivi e conseguenti. L’ordinanza cautelare pronunciata avverso il diniego di ammissione agli orali dell’esame di avvocato contiene in sé, oltre alla sospensione dell’esecuzione del suddetto provvedimento di diniego, l’ordine di ricorreggere gli scritti del ricorrente ovvero l’ordine, rivolto alla pubblica amministrazione, di rinnovare gli atti procedimentali ritenuti illegittimi (1). I successivi atti, posti in essere dalla pubblica Amministrazione nell’esercizio della sua piena discrezionalità, devono essere caducati in seguito all’accoglimento dell’appello avverso la suddetta ordinanza cautelare, in quanto « adottati a seguito della predetta ordinanza » (2). (Omissis) Considerato che la situazione di improcedibilità, individuata dalla decisione dell’Adunanza Plenaria n. 3 del 27 febbraio 2003, non si determina per il solo fatto che l’Amministrazione abbia adottato una nuova valutazione favorevole all’interessato, ma solo quando tale nuova valutazione ecceda i limiti della esecuzione dell’ordinanza cautelare appellata; Considerato che nel caso di specie tutta l’attività posta in essere dall’Amministrazione rimaneva nell’ambito della esecuzione della pronunzia cautelare, che imponeva in termini generali una complessiva rinnovazione del giudizio e non una semplice integrazione della motivazione; Considerato, pertanto, che gli atti posti in essere dall’Amministrazione, in quanto esecutivi della pronunzia cautelare, non determinano l’improcedibilità del ricorso; Considerato che il ricorso di primo grado non appare assistito dal necessario fumus boni iuris, in relazione al consolidato orientamento di questa Sezione circa la sufficienza della valutazione espressa con attribuzione di un punteggio alfanumerico; P.Q.M. — Accoglie l’appello (Ricorso numero: 9371/2003) e, per l’effetto, in riforma dell’ordinanza impugnata, respinge l’istanza cautelare proposta in primo grado, con conseguente caducazione di tutti gli atti adottati a seguito della predetta ordinanza. (Omissis)


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(1-2) Limiti e poteri dell’ordinanza cautelare nel processo amministrativo. SOMMARIO: 1. Il caso: la decisione con la quale il giudice d’appello ha riformato l’ordinanza cautelare di ricorrezione delle prove scritte svolte dal ricorrente travolge, o meno, l’efficacia anche degli atti procedimentali successivamente posti in essere dalla pubblica amministrazione nell’esercizio della propria discrezionalità? — 2. Il carattere « strumentale » della tutela cautelare ed il contenuto che essa può avere. — 3. Una tutela cautelare strumentale ma anche autonoma. — 4. Le « misure cautelari » e l’idea del procedimento amministrativo come un procedimento aperto, in un regime di continuità tra giurisdizione ed amministrazione. — 5. L’ampiezza di contenuti delle « moderne » misure cautelari. — 6. Le ordinanze cautelari propulsive, mediante le quali il giudice amministrativo ordina all’Amministrazione di agire. — 7. Gli atti procedimentali conseguenti l’ordinanza cautelare e quelli successivi ad essa ma autonomi rispetto ad essa. — 8. L’attività discrezionale della pubblica amministrazione e la necessità di una impugnazione autonoma di ciascun atto cosı̀ posto in essere. — 9. La conseguente caducazione di tutti gli atti adottati successivamente all’ordinanza appellata: una soluzione forse ammissibile in via generale ma sicuramente inapplicabile, perché errata, nel caso di specie.

La decisione, che si annota, è particolarmente interessante in quanto, pur non avendone svolto a pieno i presupposti di origine, ha fornito alcuni criteri fondamentali in ordine al contenuto delle ordinanze cautelari, agli effetti, provvisori e definitivi, ad esse riconducibili ed in esse aventi la loro ragion d’essere (1). (1) In relazione all’istituto, di origine pretoria, circa la caducazione automatica del provvedimento amministrativo consequenziale per intervenuto annullamento dell’atto presupposto, cfr.: G. ACQUAFRESCA, Invalidità caducante ed effettività della tutela giurisdizionale, in questa Rivista, 1990, 139 ss.; L. ACQUARONE, Attività amministrativa e provvedimenti amministrativi, Genova, 1986, 167 ss.; V. CAIANIELLO, Diritto processuale amministrativo, 1994, 832 ss.; E. CANNADA BARTOLI, Annullabilità e annullamento, in Enc. dir., II, 1958, 496 ss.; B. CAVALLO, Provvedimenti e atti amministrativi, in Tratt. dir. amm., a cura di Santaniello, III, 310 ss.; A.M. CORSO, Atto amministrativo presupposto e ricorso giurisdizionale, Padova, 1990, 107 ss.; L. GAROFALO, Impugnazione dell’atto presupposto e onere di impugnazione dell’atto consequenziale, in questa Rivista, 2000, 344 ss.; P. GASPARRI, L’invalidità successiva degli atti amministrativi, Pisa, 1939; S. GATTAMELATA, Effetti dell’annullamento sugli atti consequenziali, in questa Rivista, 1991, 308 ss.; E. GUICCIARDI, Giustizia amministrativa, Padova, 1954, 285 ss.; F. LUBRANO, L’atto amministrativo presupposto, Milano, 1967; L. MARUOTTI, Il giudicato, in Trattato di diritto amministrativo - Diritto amministrativo speciale, vol. IV, Milano, 2000, 3363 ss.; G. PAGLIARI, Contributo allo studio della cd. Invalidità successiva dei provvedimenti amministrativi, Padova, 1991; A. PIRAS, Invalidità (diritto amministrativo), in Enc. dir., XXII, 1972, 598 ss.; S. ROMANO, Osservazioni sull’invalidità succes-


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1. Al fine di una esatta comprensione di tale ordinanza appare opportuno richiamarne le premesse di fatto e la sua attinenza ad una controversia relativa ad una mancata ammissione alle prove orali degli esami di avvocato, in relazione all’impugnativa della quale il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria, Sezione di Reggio Calabria, aveva concesso un provvedimento cautelare, nel senso di disporre la sospensione del provvedimento impugnato e la « conseguente rinnovazione del giudizio impugnato da parte di diversa sottocommissione e con adeguata motivazione da effettuarsi entro sessanta giorni dalla notificazione della presente ordinanza a cura di parte ». In esecuzione della suindicata ordinanza cautelare (2) la Commissione, in rinnovata composizione, aveva riesaminato gli elaborati scritti del ricorrente, attribuendo ad essi il motivato punteggio di 30/50; in seguito a ciò la stessa Commissione, nell’esercizio della propria discrezionalità, ha ritenuto di far sostenere al ricorrente anche le prove orali, che hanno avuto un esito favorevole. siva degli atti amministrativi, in Raccolta di studi di diritto pubblico in onore di G. Vacchelli, Milano, 1938, 431 ss.; A.M. SANDULLI, L’effettività delle decisioni giurisdizionali amministrative, in Atti del Convegno celebrativo del 150o anniversario dell’istituzione del Consiglio di Stato tenuto a Torino nel 1981, Milano, 1983, 306 ss.; F. SATTA, Giustizia amministrativa, Padova, 1997, 480 ss., in particolare 482; ID., Giustizia cautelare, in Enciclopedia del diritto, App. agg., I, Milano, 1997, 595 ss.; E. STICCHI DAMIANI, La caducazione degli atti amministrativi per nesso di presupposizione, in questa Rivista, 2003, 633 ss.; P. VIRGA, Caducazione dell’atto amministrativo per effetto travolgente dell’annullamento giurisdizionale, in Studi in memoria di E. Guicciardi, Padova, 1975, 687 ss.; P.M. VIPIANA, Contributo allo studio del giudicato amministrativo, Milano, 1990, 319 ss. (2) Sulla c.d. « esecuzione cautelare » cfr.: E. FOLLIERI, Esecuzione delle ordinanze cautelari del giudice amministrativo, in Foro amm., 1982, 629; ID., Aspetti problematici sull’esecuzione delle ordinanze di sospensione dell’atto amministrativo, in Il giudizio di ottemperanza, Atti del XXVII convegno di studi di scienza dell’amministrazione, 17-19 settembre 1981, Milano, 1983, 393; G. SAPORITO, Ottemperanza e decisioni cautelari, Atti del XXVII convegno di studi di scienza dell’amministrazione, 17-19 settembre 1981, Milano, 1983, 473. In generale sul problema dell’esecuzione delle decisioni prima che esse abbiano acquisito la certezza del giudicato (ovvero sulla estensione dei poteri del giudice dell’ottemperanza alle misure di esecuzione riferite all’ordinanza cautelare ed alla sentenza di primo grado esecutiva) cfr.: B. MARCHETTI, L’esecuzione della sentenza amministrativa prima del giudicato, Padova, 2000, 198 ss.; G. DE GIORGI CEZZI, Esecuzioni di sentenze non sospese dal Consiglio di Stato e dalla Corte dei conti, in Il nuovo processo amministrativo dopo la l. 21 luglio 2000, n. 205, a cura di F. Caringella e M. Protto, 2001, 863 ss.


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Nel contempo il Ministero della Giustizia e la Commissione per gli esami di Avvocato presso la Corte di Appello di Reggio Calabria hanno proposto appello al Consiglio di Stato avverso la suddetta ordinanza cautelare chiedendone l’annullamento. Il Consiglio di Stato, con l’ordinanza che è oggetto della suddetta nota, ha accolto il predetto appello ed ha sancito la « conseguente caducazione di tutti gli atti adottati a seguito della predetta ordinanza » (3). Il punto controverso, la cui definizione ha un interesse anche di studio, riguarda l’identificazione esatta degli atti adottati in seguito, ed in ragione, della ordinanza cautelare emanata dal Tar Calabria, ovvero riguarda l’identificazione precisa degli atti che possano dirsi emanati in adempimento dell’ordinanza cautelare, differenziandoli da quelli che, invece, possono dirsi espressione della discrezionalità dell’Amministrazione (4); in connessione con la determinazione degli atti oggetto di caducazione a seguito della (3) Per un orientamento dottrinario indubbiamente di supporto a tale decisione, cfr. A. TRAVI, La tutela cautelare nei confronti dei dinieghi di provvedimenti e delle omissioni della P.A., in questa Rivista, 1990, 357, che afferma che « il principio di strumentalità impone di escludere che attraverso l’ordinanza cautelare possano attribuirsi utilità maggiori di quelle ipotizzabili in caso di esito vittorioso del ricorso, altrimenti il giudizio cautelare diventa una cellula impazzita del processo amministrativo, dove tutto risulta consentito indipendentemente dall’oggetto del giudizio e dai poteri del giudice rispetto al ricorso ». La ragione di questa « limitazione » dei poteri del giudice in sede cautelare viene chiaramente evidenziata dallo stesso Autore in Misure cautelari di contenuto positivo e rapporti fra giudice amministrativo e pubblica amministrazione, in questa Rivista, 1997, 174 ss., ove evidenzia come « la tutela cautelare, anche nel processo amministrativo, si giustifica per la sua strumentalità: lo scopo della tutela è quello di determinare un assetto interinale, tale da evitare che l’interesse di una parte possa essere gravemente o irreparabilmente compromesso dalla natura del giudizio. L’interinalità di questo assetto comporta la necessità che esso sia provvisorio e reversibile: esorbita da qualsiasi logica di una tutela cautelare la produzione di effetti giuridici definitivi, perché altrimenti verrebbe superata la necessità del giudizio di merito. L’ordinanza cautelare che comporti effetti giuridici definitivi usurpa uno spazio riservato alla sentenza; assume, per lo meno, i caratteri del provvedimento sommario (ma la tutela sommaria è ben altra cosa rispetto alla tutela cautelare) ». (4) Cfr. F. CINTIOLI, L’esecuzione cautelare tra effettività della tutela e giudicato amministrativo, in questa Rivista, 2002, 80-86, analizza il problema dei rapporti tra l’ordinanza cautelare ed i nuovi provvedimenti presi dall’amministrazione, con particolare riferimento « al caso in cui la misura cautelare sia stata pronunciata per garantire l’interesse pretensivo del ricorrente, che faccia valere in giudizio l’aspirazione al bene della vita », ed ai casi in cui vengano emanate ordinanze a contenuto propulsivo, ov-


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trattazione dell’appello cautelare (ma il problema è più generale concernendo anche gli effetti del possibile annullamento) si pone il problema di quali limiti possano poi derivare al Giudice amministrativo (allo stesso giudice che ha emesso la pronuncia cautelare o al giudice di appello a seguito della esecuzione del provvedimento cautelare e della conseguente rinnovazione parziale degli atti del provvedimento). Difatti mentre il ricorrente aveva sottolineato la necessità di differenziare tra quanto prescritto dall’ordinanza cautelare, che aveva fatto espresso riferimento alla « rinnovazione del giudizio impugnato ... con adeguata motivazione » in adempimento della quale la Commissione aveva rivalutato gli elaborati del ricorrente, e l’attività ulteriore, posta in essere dall’Amministrazione nell’esercizio della propria discrezionalità, e non, quindi, eseguita in adempimento di un vincolo giuridico, il Consiglio di Stato ha rivero sempre con riferimento a quei casi in cui l’ordinanza cautelare necessariamente determini un agire della pubblica amministrazione. L’Autore ritiene che per risolvere il suddetto problema sia opportuno verificare quali rapporti intercorrano tra la fase di esecuzione cautelare ed il giudizio di ottemperanza; a tale fine egli evidenzia come la fase di esecuzione sia divenuta « un connotato che riguarda indifferentemente tutti i provvedimenti del giudice: cautelari o di merito, assistiti o meno dal giudicato, nel segno dell’effettività della tutela ». L’esigenza di aversi effettività della tutela determina, necessariamente, l’adozione di ogni misura esecutiva necessaria a rendere effettiva la portata della decisione presa dal giudice in sede cautelare, ovvero l’attribuzione al giudice in sede cautelare dei medesimi poteri che vengono attribuiti in sede di ottemperanza, pur nella necessaria differenziazione della situazione di partenza determinata dal fatto che l’ampiezza dei poteri del giudice dell’ottemperanza è determinata da quella particolare stabilità che deriva dal giudicato, mentre l’ordinanza cautelare viene pronunciata sulla base di una cognizione sommaria della controversia. A differenza di quando agisce in sede di ottemperanza, però, il giudice in sede di esecuzione cautelare « non procede affatto a definire il vincolo della futura azione amministrativa, né pretende di regolare l’assetto stabile del rapporto ». Ne consegue che i nuovi atti posti in essere dalla Amministrazione, pur su impulso del giudice cautelare, non sono necessariamente ordinati, nel loro contenuto, da costui e « dunque, parrebbe siano solo eventualmente annullabili: essi devono essere impugnati nel termine di decadenza e potranno essere esaminati dal giudice davanti al quale pende la causa nell’ambito di un giudizio che risulterà la naturale prosecuzione del processo cautelare ». Non, quindi, l’automatica caducazione di tutti gli atti posti in essere dall’Amministrazione in un momento successivo all’emanazione dell’ordinanza cautelare e che, pertanto, sembrerebbero comunque collegati, direttamente o indirettamente, ad essa, ma possibilità di impugnare con motivi aggiunti tali atti, ove ritenuti lesivi della posizione giuridica soggettiva di una delle parti dell’originario processo.


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tenuto che « nel caso di specie tutta l’attività posta in essere dall’Amministrazione rimaneva nell’ambito della esecuzione della pronuncia cautelare, che imponeva in termini generali una complessiva rinnovazione del giudizio e non una semplice integrazione della motivazione »; tale presupposto ha determinato che l’accoglimento dell’appello dovesse necessariamente comportare la « conseguente caducazione di tutti gli atti adottati a seguito della predetta ordinanza » e quindi tutti gli atti conseguenti nella rinnovazione del procedimento compresa l’ulteriore attività consistente nello svolgimento della prova orale. In realtà sembra che la soluzione non possa essere cosı̀ drastica e che, al contrario, proprio la decisione del Consiglio di Stato imponga una riflessione sul contenuto delle ordinanze cautelari, su quali siano i limiti dei poteri del giudice amministrativo in sede cautelare (5) e relativamente ai possibili effetti definitivi traenti origine da un’ordinanza cautelare. (5) Cfr. A. ROMANO, Tutela cautelare nel processo amministrativo e giurisdizione di merito, in Foro it., 1985, I, 2502, rileva come l’ammissibilità di misure cautelari diverse dalla mera sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato non comporta che queste possano essere concesse senza limiti: limiti « che vengono spostati dalla tipologia dei dispositivi delle misure cautelari adottabili, alla valutazione dei presupposti per la loro adozione: dall’esterno della funzione cautelare, per cosı̀ dire, al suo interno: al modo nel quale deve venire svolta ». Parimenti cfr.: C. CACCIAVILLANI, La tutela cautelare nei ricorsi avverso il diniego di provvedimento e l’inerzia della p.a., in questa Rivista, 2002, 100, la quale afferma l’indiscutibilità dell’esistenza di una possibilità in astratto di offrire tutela cautelare avverso i dinieghi, ma contemporaneamente sottolinea l’esistenza del problema, di natura processuale, « di verificare come — su quali presupposto e in quali forme — essa possa ammettersi », posto che non ritiene condivisibile la tesi di chi propone di ammettere, a fronte dei dinieghi, « un potere cautelare generalizzato in funzione dell’anticipazione dell’assetto finale degli interessi sostanziali delle parti, giustificata con l’esigenza di dare efficienza al processo amministrativo », per la duplice ragione innanzitutto che ciò determinerebbe l’identificazione dell’efficienza del processo con l’individuazione diretta da parte del giudice del corretto assetto di interessi, mentre è noto che l’individuazione del corretto assetto sostanziale da parte del giudice non è possibile in tutte le ipotesi in cui si abbia un potere amministrativo discrezionale, perché altrimenti si dovrebbe attribuire al giudice il potere di sostituire la propria valutazione a quella discrezionalmente compiuta dall’amministrazione, ed inoltre perché l’Autrice sottolinea come l’esigenza di efficienza del processo amministrativo debba essere soddisfatta mediante una definizione celere dei giudizi, e non certo mediante pronunce meramente interinali (come riconfermato dalla stessa disciplina posta dalla legge 205 del 2000 che, con istituti quali, ad esempio, la sentenza


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2. Il Tar Calabria, con l’ordinanza n. 4521 del 16 luglio 2003, sommariamente verificata la fondatezza del ricorso « sotto il profilo del difetto di motivazione », ha accolto la richiesta di sospensione, ordinando, conseguentemente, alla Commissione la « rinnovazione del giudizio impugnato ... con adeguata motivazione »; in sostanza il Collegio, verificata l’illegittimità di una fase procedimentale (nel caso di specie la mancanza di motivazione delle valutazioni), ha sospeso l’efficacia del provvedimento finale ed, ordinando la ripetizione della fase procedimentale ritenuta illegittima, è, di fatto, entrato all’interno del procedimento stesso. 2.1. Per giudicare la legittimità o meno di questo intervento del giudice amministrativo e per comprendere quali e quanti siano i poteri di intervento in questa fase processuale è necessario compiere un passo indietro, analizzando in primis quale sia stata l’evoluzione della tutela cautelare, dalla sua « creazione » nel lontano 1924 (6) (quando l’art. 39 del Testo Unico sul Consiglio di Stato - R.D. 26 giugno 1924, n. 1054 - rimetteva al giudice la facoltà di sospendere, su istanza di parte, l’esecuzione del provvedimento per « gravi ragioni ») (7) alla disciplina attuale, contenuta in forma semplificata, dimostra una chiara preferenza per una immediata decisione nel merito del ricorso). (6) In realtà la « nascita » della tutela cautelare può farsi risalire anche più addietro, se si pensa che già la legge 17 luglio 1890, n. 6972 — istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato — prevedeva dei casi in cui il ricorso al Consiglio di Stato sospendeva l’efficacia del provvedimento impugnato. (7) Cfr. C. CACCIAVILLANI, Giudizio amministrativo di legittimità e tutele cautelari, Padova, 2002, 48 ss., sottolinea il collegamento esistente fra le « gravi ragioni », soltanto in presenza delle quali la sospensione dell’esecuzione può essere disposta, che ella identifica in « ciò che al pubblico interesse risulti ... maggiormente confacente » con la teorica che identifica la funzione del processo amministrativo nella protezione dell’interesse pubblico alla legalità dell’azione amministrativa. L’Autrice, anzi, ritiene che « più che in termini di collegamento, il rapporto tra le due concezioni potrebbe essere forse più esattamente descritto in termini di derivazione: nel senso che l’identificazione con l’interesse pubblico delle gravi ragioni idonee a consentire la sospensione dell’esecuzione dell’atto, sembra essere una conseguenza dell’identificazione della funzione del giudizio con la tutela dell’interesse pubblico »; oggetto delle funzioni del giudice non era, dunque, in origine la protezione delle posizioni delle parti, quanto la protezione dell’interesse pubblico, in ragione di tutela esclusivamente del quale era predisposto il


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nell’art. 21 della legge n. 1034 del 1971, come modificato dalla legge n. 205 del 2000 (nella quale il giudice amministrativo ha, per espressa disposizione normativa, la facoltà di adottare le « misure cautelari ... che appaiano, secondo le circostanze, più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso »). L’originaria sospensione del provvedimento amministrativo differiva notevolmente dalle moderne misure cautelari: si trattava, infatti, di una tutela che agiva solo sull’efficacia del provvedimento, paralizzandola, ed il cui unico scopo era prevenire la realizzazione del danno che sarebbe potuto derivare della durata del processo (8). Le « gravi ragioni » che determinavano la sospensione dell’esecuzione dell’atto nella impostazione originaria andavano identificate nell’interesse pubblico, in funzione di tutela unicamente del quale era posto il giudice amministrativo. Il giudice, infatti, nell’esercitare il potere di sospensione dell’atto impugnato, valutava unicamente l’incidenza che la sua pronuncia avrebbe avuto sul perseguimento, da parte dell’Amministrazione, dell’interesse pubblico, ad essa affidato dall’ordinamento, nel convinciricorso giurisdizionale amministrativo, cosı̀ come erano attribuito al giudice il potere di sospensione del provvedimento. (8) L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 1 del 20 gennaio 1978 delineò con esattezza quella che era la funzione del giudizio cautelare (allora di sola sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato), affermando che « il giudizio cautelare di sospensione — com’è noto — è preordinato ad assicurare al ricorrente, attraverso la concessione della misura conservativa, una tutela provvisoria durante le more della causa (...), affinché sia possibile, nell’eventualità di un accoglimento del ricorso, l’esplicazione completa dell’efficacia ripristinatoria della sentenza. La tutela cautelare veniva, quindi, costruita a tutela del processo amministrativo, al fine di assicurarne l’efficacia: G. PALEOLOGO, La tutela cautelare nel processo amministrativo, in Cons. Stato, 1991, I, 199, che afferma proprio che se « il processo è a tutela del diritto, la cautela è a tutela del processo »; ID., Il giudizio cautelare amministrativo, Padova, 1971; E. FOLLIERI, Giudizio cautelare amministrativo ed interessi tutelati, Milano, 1981; ID., Il giudizio cautelare amministrativo (codice delle fonti giurisprudenziali), Rimini, 1992, 243 ss.; E. CANNADA BARTOLI, Sospensione dell’effıcacia dell’atto amministrativo, in Nov. dig. it., XVII, Torino, 1970, 934 e Aggiornamento, in Nov. dig. it., 1987; F.G. SCOCA, Processo cautelare amministrativo e costituzione, Nota a Corte Cost., 1 febbraio 1982, n. 8, in questa Rivista, 1983, 311; M. SICA, Effettività della tutela e provvedimenti di urgenza nei confronti della pubblica amministrazione, Milano, 1991, 6.


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mento che « la posizione dell’amministrazione nell’ordinamento fosse, e dovesse essere, una posizione differenziata, di privilegio ». D’altronde l’art. 39 del T.U. sul Consiglio di Stato non faceva alcun riferimento ad una valutazione della posizione del ricorrente; da cui derivò, quale conseguenza necessaria ed indefettibile, la convinzione che l’unico parametro cui dovesse essere ancorata la decisione se concedere o meno la tutela cautelare dovesse essere il danno derivante alla pubblica amministrazione; il danno derivato in capo al ricorrente, infatti, costituiva una mera condizione di ammissibilità della domanda cautelare (9). Dalla originaria mera sospensione del provvedimento impugnato, ordinata in funzione di tutela dell’interesse pubblico e che, di fatto, dava tutela alle sole posizioni di interesse oppositivo, in ragione delle pressioni della dottrina, e delle esigenze imprescindibili di tutela dei ricorrenti (10), per via giurisprudenziale si è avuta un’importante evoluzione: l’originario giudizio di sospensione da strumento volto unicamente al fine di eliminare temporaneamente un danno si è tramutato in uno strumento produttivo di un effetto nuovo, ulteriore e del tutto differente dall’originaria semplice sospensione dell’esecuzione (11). Congiuntamente, e (9) Tale originaria impostazione relativamente alla tutela cautelare ed alla funzione del processo amministrativo corrispondeva perfettamente con quanto veniva sostenuto da Santi Romano, ovvero che « il privato, difendendo il proprio concorre al soddisfacimento di tale interesse pubblico, aiutando l’amministrazione a scoprire gli errori ed i torti da essa commessi ed a rimediarvi ». (10) Sugli orientamenti più generali, che rilevano aspetti evolutivi del processo cautelare al fine di garantire una più completa tutela del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione cfr.: V. SPAGNUOLO VIGORITA, Evoluzione della giustizia amministrativa, in Una giustizia per la pubblica amministrazione (Atti del Convegno di Napoli 24-27 aprile 1980 su Realtà e prospettive della giustizia amministrativa), Napoli, 1984, 51-52; F.G. SCOCA, Modello tradizionale e trasformazione del processo amministrativo (relazione al Convegno di Firenze 14-16 marzo 1985, su Diritto amministrativo e giustizia amministrativa nel bilancio di un decennio di giurisprudenza), in questa Rivista, 1985, 262 ss. (11) Cfr. al riguardo: E. FOLLIERI, La cautela tipica e la sua evoluzione, in questa Rivista, 1989, 646 ed in Studi per il centenario della IV Sezione del Consiglio di Stato, che evidenziava come la « nuova funzione » della sospensione sia iniziata in relazione a quegli atti che negano la produzione della modificazione del reale richiesta dall’istante, cosicché la loro sospensione determina propriamente « la produzione degli effetti non voluti dall’atto impugnato », ovvero quella modificazione dello status quo


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conseguentemente, a questa evoluzione giurisprudenziale la legge 6 dicembre 1971, n. 1034 ha rivoluzionato anche normativamente l’ottica della tutela cautelare, introducendo il pregiudizio suscettibile di derivare al ricorrente dall’esecuzione dell’atto quale parametro per la decisione della domanda stessa; rivoluzione che è stata poi ancora meglio specificata con le innovazioni introdotte, nel testo della stessa legge Tar, dalla legge n. 205 del 2000, con la quale è stata per la prima volta enunciata la funzionalizzazione delle misure cautelari all’assicurazione degli effetti della decisione sul ricorso (12). Si è, quindi, passati dalla mera sospensione dell’esecuzione del provvedimento, in funzione dell’interesse pubblico che ne sarebbe stato danneggiato, alle misure cautelari atipiche, funzionaante che l’atto impugnato aveva impedito si producesse; si passa cosı̀ da una sospensione quale mero « strumento per conservare adhuc integra la situazione in attesa che intervenga la decisione in merito » alla sospensione quale « mezzo di modificazione della situazione. Da strumento di conservazione, a strumento di propulsione »; F. LUBRANO, Il giudizio cautelare amministrativo, Roma, 1997, 40 ss. (12) Cfr. sul nuovo processo cautelare nella legge n. 205 del 2000: A. AUSILI, La tutela cautelare e sommaria del giudice amministrativo nel quadro della nuova giurisdizione delineata dalla l. 21 luglio 2000, n. 205: profili problematici ed una prima ipotesi ricostruttiva, in Trib. Amm. Reg., 2000, 415 ss.; F. CINTIOLI, Osservazioni sul nuovo processo cautelare amministrativo (art. 3 della legge 21 luglio 2000, n. 205), in Urb. e app., 3, 2001; D. DE CAROLIS, Il nuovo assetto della tutela cautelare (art. 3 della l. 205 del 2000), in Il nuovo processo amministrativo, a cura di F. CARINGELLA-M. PROTTO, Milano, 2000; ID., Atti negativi e misure cautelari del giudice amministrativo nel nuovo assetto della tutela dettato dall’art. 3 della l. 21 luglio 2000, n. 205, Milano, 2001; G. DELL’AIRA, Impressioni da una prima lettura della legge n. 205 del 2000. La tutela cautelare, in Giust. amm., 2000, 101; A. DI LIETO, La tutela cautelare nel processo amministrativo, Roma, 2001; E. FOLLIERI, Il nuovo giudizio cautelare: art. 3 l. 21 luglio 2000, n. 205, in Cons. Stato, 2001, 479 ss.; R. GAROFOLI-M. PROTTO, Tutela cautelare, monitoria e sommaria nel nuovo processo amministrativo. Provvedimenti di urgenza, tutela possessoria, decreti ingiuntivi e ordinanze ex artt. 186-bis e 186-ter c.p.c., Milano, 2002; G. GIOVANNINI, Note di commento alla legge 21 luglio 2000, n. 205, in www.giustizia-amministrativa.it; E.F. RICCI, Profili della nuova tutela cautelare amministrativa del privato nei confronti della P.A., in questa Rivista, 2002, 276 ss.; M. ROSSI SANCHINI, La nuova tutela cautelare, in Giorn. dir. amm., 2000, 1090; N. SAITTA, I giudizi in camera di consiglio nella giustizia amministrativa, aggiornamento, Milano, 2000; M. SANINO, Il processo cautelare, in Verso il nuovo processo amministrativo, a cura di V. CERULLI IRELLI, Torino, 2000, 249; G. TROTTA, Processo cautelare: decisione in forma semplificata e sospensione dei termini processuali in periodo feriale, in Foro amm. Tar, 2002, 3851 ss.


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lizzate ad assicurare gli effetti della decisione sul ricorso, e congiuntamente, da una tutela cautelare che aveva l’unica funzione di conservazione dello status quo ante a dei provvedimenti cautelari che rivestono il ruolo di mezzi di propulsione e di anticipazione della pronuncia sul merito. Proprio in questa ottica di « propulsione » e di « anticipazione » si sono affermate le misure cautelari del tipo in esame, ovvero misure cautelari che permettono al giudice amministrativo di non limitare il proprio intervento alla sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato, in attesa che si abbia al riguardo una decisione nel merito, bensı̀ riconoscono al giudice cautelare amministrativo anche il potere di ordinare all’Amministrazione di correggere immediatamente la fase procedimentale ritenuta illegittima anticipatamente rispetto alla decisione nel merito del ricorso, ponendo in essere una attività propulsiva (13). L’art. 3 della legge 205 del 2000, avendo abbandonato definitivamente la nozione di « sospensione » dell’esecuzione, ha tolto ogni dubbio circa la piena legittimità delle ordinanze cautelari a tutela delle situazioni di interesse pretensivo ed ha superato tutti quei limiti originariamente ancora esistenti (14) alla tutela cautelare, ma, come si evince dalla problematica sollevata dal caso di specie, « non è di per se solo idoneo a chiarire l’ambito effettivo della protezione interinale accordabile alla pretesa dinamica intesa al conseguimento del bene della vita negato in prima battuta dall’amministrazione » (15). Infatti se la moderna dizione (13) Sul tema delle misure cautelari atipiche cfr.: A. TRAVI, Misure cautelari di contenuto positivo e rapporti tra giudice amministrativo e Pubblica Amministrazione, in questa Rivista, 1997, 167 ss.; ID., Sospensione del provvedimento impugnato, in Dig. disc. pubbl., XIV, Torino, 1999, 384; G. PALEOLOGO, La giustizia amministrativa cautelare e d’urgenza, in Giorn. dir. amm., 1995, 745; ID., Il giudizio amministrativo oggi, in Riv. trim. dir. pubbl., 2000, 628; S. BACCARINI, Esperienze e prospettive del giudizio cautelare amministrativo, in questa Rivista, 1998, 865 ss.; M. ROSSI SANCHINI, La tutela cautelare, in Trattato di diritto amministrativo a cura di S. CASSESE, tomo IV, Il processo amministrativo, 3415; BERTONAZZI, Brevi riflessioni sulla tutela cautelare nei confronti dei provvedimenti negativi e dei comportamenti omissivi della Pubblica Amministrazione, in questa Rivista, 1999, 1208. (14) Cfr. al riguardo E. FOLLIERI, Il nuovo giudizio cautelare: art. 3 l. 21 luglio 2000, n. 205, in Cons. Stato, 2001, II. (15) Come osservato da R. GAROFOLI, La tutela cautelare degli interessi negativi.


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« misure cautelari » sembra aprire in modo indefinito i margini dei poteri concessi al giudice in sede cautelare, i caratteri propri della strumentalità, incidentalità e necessaria provvisorietà (16) della tutela cautelare sembrano porre un freno insuperabile a tali poteri. 2.2. Innanzi tutto, quindi, occorre riflettere sul concetto stesso di « strumentalità » della misura cautelare: su cosa si intenda per « strumentalità » della misura cautelare ed in riferimento a cosa occorre parlare di « strumentalità » della misura cautelare (17). Le tecniche del remand e dell’ordinanza a contenuto positivo alla luce del rinnovato quadro normativo, in questa Rivista, 2002, 867 ss. (16) Cfr. sulla strumentalità e provvisorietà della misura cautelare, con specifico riguardo al codice di procedura civile, E.A. DINI-G. MAMMONE, I provvedimenti d’urgenza, Milano, 1997, 37, 48; F. TOMMASEO, voce Provvedimenti di urgenza, in Enc. dir., vol. XXXVII, Milano, 1988, 860, che nell’evidenziare tra i caratteri strutturali dei provvedimenti di urgenza la loro strumentalità e provvisorietà, precisa come il significato che il concetto di strumentalità assume nella « tutela urgente a struttura anticipatoria » è proprio quello di fare sı̀ che il rapporto fra il possibile contenuto del provvedimento d’urgenza ed il contenuto della sentenza di merito determini che « il provvedimento d’urgenza non può produrre effetti diversi da quelli scaturienti dalla futura sentenza di merito », in ragione proprio del nesso di strumentalità che vi è tra il primo ed il secondo provvedimento giurisdizionale. L’Autore precisa il possibile contenuto dei provvedimenti d’urgenza determinato in ragione del nesso di strumentalità che lo collega al provvedimento di merito puntualizzando che « il provvedimento d’urgenza non può attribuire alle parti beni che esse non chiedono al giudice, né utilità che le parti non potrebbero comunque conseguire in sede giurisdizionale. Il giudice, mentre può anticipare i prevedibili effetti della sentenza, non può dettare regolamenti d’interessi che, per quanto provvisori, producano effetti diversi da quelli che la legge fa discendere dalla concreta fattispecie prospettata dalle parti ». A sostegno della sua tesi l’Autore richiama innanzitutto: L. MONTESANO, I provvedimenti d’urgenza nel processo civile, Napoli, 1955, 129; C. MANDRIOLI, Corso di diritto processuale civile, Torino, 1987, 293, e, specialmente, F. TOMMASEO, I provvedimenti d’urgenza, Padova, 1983, 113 e ss., ed ivi la nota 141 che richiama ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, IV, Procedimenti speciali (artt. 622-831), Napoli, 1964, 264, il quale osserva che il giudice, cosı̀ facendo, assicurerebbe gli effetti d’una decisione di merito « giuridicamente impossibile ». (17) Sottolineano l’imprescindibilità della regolare instaurazione del giudizio principale per la configurabilità della tutela cautelare in ragione della natura strumentale di quest’ultimo rispetto al giudizio principale: G. ABBAMONTE-R. LASCHENA, Giustizia amministrativa, in Trattato di diritto amministrativo, diretto da G. Santaniello, XX, Padova, 271, affermano che « il giudizio cautelare si inserisce, cioè, come un “incidente”


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Come evidenziato più volte da autorevoli esponenti della dottrina (18), il problema relativo alla strumentalità dell’ordinanza cautelare nei confronti della sentenza di annullamento non si pone in relazione alle ordinanze di sospensione di provvedimenti negativi, che soddisfano, quindi, situazioni di interessi oppositivi, posto che la sentenza provvederà ad eliminare l’atto che, nel frattempo, era stato privato, mediante la tutela cautelare, dei suoi effetti: la sentenza di merito determinerà il consolidarsi della paralisi degli effetti dell’atto impugnato. Il concetto di « strumentalità » della tutela cautelare rispetto alla sentenza di merito va, però, in crisi nelle ipotesi in cui oggetto della tutela cautelare sia la sospensione di atti negativi: in tali ipotesi, infatti, « la soddisfazione dell’interesse legittimo pretensivo è un risultato che si ottiene solo quando la decisione nel merito incanali la successiva azione amministrativa verso una via obbligata » (19), in questi casi, quindi, la strumentalità dell’ordinanza cautelare rispetto alla sentenza di merito va in crisi perché in via cautelare si dà tutela ad interessi legittimi pretensivi che la sentenza di per sé non soddisfa. È quindi opportuno fare un passo indietro ed esaminare il rapporto tra l’ordinanza cautelare e la sentenza di merito (20) in quello principale, essendo preordinato esclusivamente ad anticipare gli effetti della decisione di merito, se ed in quanto favorevole al ricorrente »; ritiene che la natura incidentale della tutela cautelare sia dimostrata anche dalla cosiddetta « unità di fascicolo » fra giudizio cautelare e giudizio di merito, con la conseguenza che i documenti e le difese prodotti sono utilizzati in comune anche G. PALEOLOGO, Sospensione dell’esecuzione dell’atto amministrativo e altre misure cautelari, in Enc. Giur. Treccani, XXIV; evidenzia come il nesso di strumentalità operi su piani diversi e tra loro antitetici R. GALLI, Corso di diritto amministrativo, Padova, 1994, il quale afferma che « tale rapporto può operare in due direzioni opposte, in quanto un’eventuale pronunzia di rigetto del ricorso principale travolgerebbe l’ordinanza cautelare perché risultate prive di fondamento le ragioni che ne erano alla base; in caso di accoglimento, invece, la sospensione verrebbe assorbita dalla sentenza definitiva ». (18) Cfr. al riguardo E. FOLLIERI, La cautela tipica e la sua evoluzione, in questa Rivista, 1989, 665 ss. (19) Cfr.: E. FOLLIERI, La cautela tipica e la sua evoluzione, cit., 666 ss., che a sua volta richiama a tale riguardo: M. NIGRO, Il giudicato ed il processo di ottemperanza, in Atti del XXVII Convegno di Studi di Scienze dell’Amministrazione, Varenna 17-19 settembre 1981, Milano, 1983, 75 e ss. (20) Sulla strumentalità dell’ordinanza di sospensione alla decisione nel merito:


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considerando la situazione giuridica al perseguimento della quale è rivolto il ricorso amministrativo. Per comprendere tale rapporto, e dare una soluzione che soddisfi anche le situazioni in cui il ricorrente ricerca la soddisfazione di posizioni di interesse legittimo pretensivo, infatti, è opportuno, preliminarmente, analizzare le ragioni per le quali tradizionalmente si è sempre parlato di tale rapporto come di una relazione strumentale (21) e cosa significhi questa « strumentalità » dell’ordinanza cautelare. Calamandrei, fra i primi esponenti della dottrina ad avere esaminato tale aspetto ed ad avere evidenziato il carattere strumentale della tutela cautelare, ha sottolineato come essa sia volta « ad approntare i mezzi meglio atti alla riuscita della sentenza », ovvero costituisca una « anticipazione provvisoria di certi effetti del provvedimento definitivo, volta a prevenire il danno che potrebbe derivare dal ritardo del medesimo » (22). Giustificazione unica dell’esistenza della tutela cautelare è quindi, storicamente, M. NIGRO, Giustizia amministrativa, Bologna, 1983, 283; P. VIRGA, Diritto amministrativo, Atti e ricorsi, vol. II, Milano, 1987, 283; G. PALEOLOGO, Il giudizio cautelare amministrativo, Padova. 1971, 121; V. GASPARINI CASARI, Introduzione allo studio della tutela cautelare nei confronti della P.A., Modena, 1982, 26 ss.; U. FANTIGROSSI, Giudizio cautelare amministrativo: si ampliano i poteri del giudice, in questa Rivista, 1984, 407; E.M. BARBIERI, I limiti del processo cautelare amministrativo, in questa Rivista, 1986, 200 ss.; ID., Sulla strumentalità del processo cautelare amministrativo, in Foro amm., 3173, pone l’accento sulla necessità che il giudice consideri l’essenzialità del carattere strumentale della tutela cautelare; G. CORSO, La tutela cautelare nel processo amministrativo, in Foro amm., 1987, 1655 ss.; DI MODUGNO, Sulla strumentalità dell’azione cautelare nel processo amministrativo, comunicazione a Esperienze cautelari nel processo amministrativo, Tavola Rotonda tenuta a Teramo il 20 maggio 1988. (21) Sulla necessaria strumentalità e provvisorietà della tutela cautelare cfr. S. SATTA-C. PUNZI, Diritto processuale civile, Padova, 2000, 780, precisano proprio che: « il procedimento cautelare, reso sulla base di una valutazione meramente probabilistica dell’esistenza del diritto che costituirà oggetto del processo a cognizione piena (fumus boni iuris)... è caratterizzato dalla provvisorietà, ossia dalla sua inidoneità ad assicurare una disciplina immutabile del diritto controverso, e dalla strumentalità rispetto al provvedimento definitivo reso dall’esito del giudizio a cognizione piena, di cui mira ad assicurare l’utilità », e A. PROTO PISANI, Procedimenti cautelari, in Enc. giur., vol. XXIV, Roma, 1991, 5, secondo il quale il carattere della strumentalità può essere considerato come una relazione mezzo-fine tra tutela cautelare e tutela principale. (22) Cfr. P. CALAMANDREI, Introduzione allo studio sistematico dei provvedimenti cautelari, Padova, 1936, 21 ss., che, con riferimento al rapporto intercorrente tra provvedimenti cautelari e provvedimenti che chiudono il processo propone di utilizzare il binomio provvedimenti cautelari-provvedimenti principali, che scolpisce il carattere di


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« l’urgenza di un provvedimento idoneo ad assicurare gli effetti della sentenza che conclude il processo ordinario, affinché questa non sia, nel momento in cui sarà pronunciata praticamente inefficace » (23), tale urgenza è determinata dalla durata, indiscutibilmente eccessiva, del processo, che, come evidenziato dall’Allorio (24), ne costituisce l’imperfezione più grave, ed a cui si può porre rimedio esclusivamente mediante la tutela cautelare, che è l’unico strumento idoneo ad evitare che la necessità di servirsi del processo per ottenere ragione torni a danno di chi ha ragione (25). I provvedimenti cautelari, quindi, sono stati ideati con una finalità strettamente strumentale alla decisione nel merito, posto che lo scopo specifico per cui sono stati previsti è « far sı̀ che la sentenza attui la legge come se ciò avvenisse nel momento stesso della dostrumentalità dei primi rispetto ai secondi meglio di altri binomi utilizzati, quale quello provvedimenti provvisori-provvedimenti definitivi. Ciò perché, di fatto, la « provvisorietà » dei provvedimenti cautelari è una provvisorietà molto particolare: lo stesso Calamandrei, paragonando il provvedimento cautelare al provvedimento sommario, evidenzia come il primo sia « provvisorio nel fine », intendendo questa provvisorietà come la naturale destinazione della decisione cautelare « a durare fino a che non sopraggiunga un evento successivo », provvisorietà che non va confusa con la « temporaneità » del provvedimento, posto che « temporaneo è, semplicemente, ciò che non dura sempre, ciò che, indipendentemente dal sopravvenire di altro evento, ha per sé stesso durata limitata »; la provvisorietà della decisione cautelare, invece, non va vista come inidoneità di tale decisione a durare nel tempo, ma va vista in ragione della strumentalità intrinseca della stessa; difatti anche i provvedimenti cautelari sono provvedimenti che si atteggiano a definitivi quanto al procedimento cautelare, perché essi contengono l’« accertamento delle condizioni della misura cautelare », ma divengono provvisori, e quindi perdono la loro efficacia, nel momento in cui sopraggiunge una decisione nel merito. Questa distinzione evidenziata dal Calamandrei riveste un’importanza fondamentale al momento attuale, posto che il carattere provvisorio e non temporaneo delle decisioni cautelari determina la sua capacità di consolidarsi negli effetti, divenendo definitivo, ogni qual volta, ad esempio, la parte interessata a chiedere la cognizione piena rimanga inattiva. (23) Cfr. C. CACCIAVILLANI, Giudizio amministrativo di legittimità e tutele cautelari, Padova, 2002, 144. (24) Cfr. E. ALLORIO, Per una nozione del processo cautelare, in Riv. dir. proc. civ., 1936, I, 18 ss., che individua, espressamente, il fondamento della tutela cautelare nella necessità di garantire l’efficacia e l’efficienza della protezione giurisdizionale. (25) Cfr. G. CHIOVENDA, Principi di diritto processuale civile, Napoli, 1965, autore della notissima formula, sempre impiegata per definire la funzione dei processi cautelari, secondo cui « la necessità di servirsi del processo non deve tornare a danno di chi ha ragione ».


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manda giudiziale » (26), conciliando cosı̀ l’esigenza imprescindibile di ponderatezza delle decisioni giurisdizionali con l’esigenza di celerità (27). La tutela cautelare, quindi, sembra essere stata concepita come un provvedimento strumentale alla decisione di merito, la cui strumentalità consiste proprio nel suo essere finalizzata alla « conservazione » dello status quo ante, nel suo essere stata predisposta per evitare i danni derivanti dalla durata del processo; in realtà, però, come dimostrato dalla evoluzione giurisprudenziale che si è avuta, e come intuito già in tempi lontani da autorevole dottrina (28), la tutela cautelare ha successivamente acquisito una funzione che supera ampiamente la prospettiva « conservativa » iniziale, perché ove l’aspettativa del ricorrente consista nella ricerca, mediante l’intervento del giudice amministrativo, di effetti costitutivi e innovativi della realtà, tale efficacia innovativa deve riconoscersi anche ai provvedimenti cautelari. La richiamata capacità propulsiva ed innovativa della tutela cautelare sembrerebbe, però, contrastare con la sua rigorosa stru(26)

Cfr. G. CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1923,

148. (27) Cfr. A. DIANA, Le misure cautelari interinali, in Studi Senesi, 1909, che ha iniziato l’elaborazione dottrinaria della tutela cautelare nel processo civile, (come riconosciuto da A. PROTO PISANI, Chiovenda e la tutela cautelare, in Riv. dir. proc., 1988, 16 ss., e ricordato da C. CACCIAVILLANI, Giudizio amministrativo di legittimità e tutele cautelari, cit.), individuando la funzione dei provvedimenti cautelari e le condizioni per la loro emanazione, ha affermato la necessità che tali provvedimenti siano fondati su un accertamento, per quanto necessariamente sommario, della fondatezza della pretesa fatta valere dall’attore e che siano inoltre, proprio perché determinati da un accertamento sommario, provvisori. A tale riguardo osservava P. CALAMANDREI, Introduzione allo studio sistematico, cit., che « tra il far presto ma male, e il far bene ma tardi, i provvedimenti cautelari mirano innanzitutto a far presto, lasciando che il problema del bene e del male, cioè della giustizia intrinseca del provvedimento, sia risolto successivamente colla necessaria ponderatezza nelle riposate forme del processo ordinario ». (28) Cfr. P. CALAMANDREI, Introduzione allo studio sistematico..., cit., già aveva teorizzato il superamento della prospettiva « conservativa » della tutela cautelare, precisando che « quando si attende che il futuro provvedimento principale costituisca nuovi rapporti giuridici ovvero ordini misure innovative del mondo esterno, il provvedimento cautelare ... deve tendere non già a conservare lo stato di fatto esistente, ma ad operare, in via provvisoria e anticipata, quegli effetti costitutivi e innovativi, che potrebbero diventare, se differiti, inefficaci o inattuabili ».


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mentalità rispetto alla decisione di merito, posto che, come evidenziato da Travi (29) quasi venti anni or sono, le misure cautelari propulsive o sostitutive (30) del giudice amministrativo rendono impossibile la rigorosa omogeneità di effetti fra misura cautelare e decisione del ricorso che è conseguenza necessaria della strumentalità rigorosamente intesa. 2.3. Per conciliare il carattere strumentale della tutela cautelare con l’efficacia innovativa degli effetti conseguenti all’esecuzione del provvedimento cautelare si può o « distinguere fra (la) disciplina dettata dal giudice amministrativo in sede cautelare e (i) risultati conseguiti attraverso tale disciplina » (31), oppure valutare la strumentalità dell’ordinanza cautelare nei confronti non della sentenza di merito ma della soddisfazione finale dell’interesse legittimo che viene perseguita, soddisfazione che non si ottiene con il semplice annullamento ma in funzione del quale l’annullamento sancito con la sentenza costituisce esclusivamente una tappa, posto che per la soddisfazione della posizione giuridica soggettiva del ricorrente è necessario un qualcosa di più, un’attività di adeguamento ad opera della stessa pubblica amministrazione. Il fatto che la necessaria strumentalità, interinalità e provvisorietà della tutela cautelare determini, contestualmente al sopravvenire della decisione di merito sul ricorso, la caducazione (29) Cfr. A. TRAVI, Recenti orientamenti in tema di tutela cautelare nel processo amministrativo, in questa Rivista, 1986, 293 ss.: « la tutela cautelare, anche nel processo amministrativo, si giustifica per la sua strumentalità: lo scopo della tutela è quello di determinare un assetto interinale, tale da evitare che l’interesse di una parte possa essere quello di determinare un assetto interinale, tale da evitare che l’interesse di una parte possa essere gravemente o irreparabilmente compromesso dalla natura del giudizio. L’interinalità di questo assetto comporta la necessità che esso sia provvisorio e reversibile: esorbita da qualsiasi logica di una tutela cautelare la produzione di effetti giuridici definitivi, perché altrimenti verrebbe superata la necessità del giudizio di merito. L’ordinanza cautelare che comporti effetti giuridici definitivi usurpa uno spazio riservato alla sentenza: assume, per lo meno, i caratteri del provvedimento sommario (ma la tutela sommaria è ben altra cosa rispetto alla tutela cautelare ». (30) Cfr. F. FRACCHIA, Osservazioni in tema di misure cautelari di carattere dispositivo nel giudizio amministrativo, in Foro it., 1998, III, c. 308, che segue l’ordinanza (propulsiva) Cons. Stato, Sez. IV, 21 ottobre 1997, n. 2056, ivi pubblicata. (31) Cfr. A. TRAVI, Recenti orientamenti in tema di tutela cautelare nel processo amministrativo, cit., 310.


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dell’assetto di interessi determinato dal giudice cautelare, proprio perché la disciplina dettata in sede cautelare non può sopravvivere alla sentenza, non determina però necessariamente la caducazione anche di tutti i risultati materiali conseguiti attraverso la misura cautelare, posto che in alcune ipotesi essi permangono, perché ormai si sono già prodotti e rappresentano un fatto compiuto. Autorevole dottrina ha, quindi, ritenuto necessario effettuare una differenziazione fra assetto di interessi posto in essere dalla ordinanza cautelare ed effetti ad essa conseguenti, al fine di continuare a affermare la strumentalità della misura cautelare rispetto alla sentenza di merito, strumentalità che permane anche nelle ipotesi in cui la misura cautelare contenga atti propulsivi o innovativi. Follieri, infatti, ha evidenziato il carattere strumentale dell’ordinanza di sospensione dei provvedimenti negativi rispetto al giudizio ordinario, determinato dalla perfetta rispondenza tra gli effetti della sentenza e il contenuto dell’ordinanza cautelare. Ciò non contrasta in alcun modo con la permanenza dei risultati ulteriori conseguiti attraverso la misura cautelare (32), che costituiscono, invece, un qualcosa a se stante, che è a sua volta strumentale alla soddisfazione dell’interesse legittimo alla base del ricorso. Si pensi ad esempio all’ipotesi di un provvedimento negativo, di mancata ammissione di un soggetto ad un concorso pubblico: la sospensione del diniego di ammissione ha consentito che il soggetto partecipasse al concorso (33) (sospendendo l’efficacia di quel provvedimenti di diniego che la sentenza di merito avrebbe (32) Cfr. M.C. FUCCILLO, La tutela cautelare nel processo amministrativo, Padova, 1999, 33, richiama dottrina e giurisprudenza per evidenziare come alcuni effetti dell’ordinanza cautelare siano destinati a non scomparire, posto che tutti gli accadimenti che si sono verificati nel corso della vigenza del provvedimento cautelare devono considerarsi sottratti alla disciplina del provvedimento impugnato, in quanto in quel periodo non produceva alcun effetto (poiché sospeso); la durata del processo viene, quindi, considerata come « un tempo neutro, nel quale non vi è ancora l’accertamento del giudice circa la legittimità dell’atto amministrativo, ma scompare anche, se pur momentaneamente, l’atto medesimo quale espressione di potestà pubblica, non essendo esso abilitato a produrre gli effetti suoi propri per tutto il tempo occorrente alla verifica giudiziale ». (33) E. FOLLIERI, La cautela tipica e la sua evoluzione, in questa Rivista, 1989, 646 e ss., evidenzia come già negli anni ’30 il giudice amministrativo avesse sospeso


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poi annullato ove illegittimo), onde si riscontra una perfetta rispondenza tra gli effetti della sentenza e l’ordinanza cautelare ad essa strumentale (34). Tale carattere strumentale, invece, si perderebbe se si guardasse alla soddisfazione finale dell’interesse legittimo, che non è limitata alla mera partecipazione al concorso, ma costituisce un qualcosa di più, per ottenere il quale occorre una ulteriore attività da parte della pubblica Amministrazione; strumentali alla soddisfazione di tale interesse sono, invece, i risultati ulteriori conseguiti attraverso la misura cautelare (quali, ad esempio, nel caso di specie, lo svolgimento delle prove concorsuali, e la valutazione di esse ad opera della pubblica amministrazione). La strumentalità dell’ordinanza cautelare, quindi, permane un provvedimento di esclusione di una candidata da un concorso, in base al presupposto che al concorso stesso non potessero partecipare le donne (Cons. Stato, Sez. V, 15 febbraio 1938, n. 92) e tale provvedimento di ammissione con riserva ad un concorso si era ripetuto anche negli anni ’40, quando il giudice amministrativo aveva sospeso il divieto di partecipazione al concorso per 50 posti di sottotenente nel Corpo delle guardie di P.S. di sottoufficiali non di ruolo o comunque inquadrati in soprannumero e fuori dall’organico ordinario (Cons. Stato, Sez. IV, 10 maggio 1946, n. 138), ma si trattava solo di casi isolati poiché tali pronunzie hanno iniziato ad assumere un’apprezzabile frequenza solo dopo la metà degli anni ’60. A tale proposito l’Autore richiama G. PALEOLOGO, Il giudizio cautelare amministrativo, Padova, 1971, 265, che alla nota n. 6 segnala una serie di ordinanze di sospensione di provvedimenti di esclusione a concorso a posti di pubblico impiego (Cons. Stato, Sez. VI, 30 dicembre 1966, nn. 184 e 185; Cons. Stato, Sez. VI, 6 ottobre 1966, n. 166; Cons. Stato, Sez. VI, 24 ottobre 1966, n. 152; Cons. Stato, Sez. VI, 26 luglio 1966, n. 114), ed una decisione (Cons. Stato, Sez. Vi, 29 marzo 1968, n. 223, in Foro amm., 1968, I, 2, 403) dalla quale si ricava indirettamente che fu adottata una ordinanza di sospensione di un provvedimento di esclusione da un concorso, posto che in essa viene dichiarato improcedibile per difetto di interesse il ricorso proposto contro il provvedimento di esclusione da un concorso a posti di pubblico impiego, dal momento che il ricorrente, ammesso a parteciparvi in virtù di ordinanza di sospensione, non aveva conseguito l’idoneità nelle prove scritte. (34) Le pronunce cautelari in relazione a dinieghi della pubblica Amministrazione si risolvono, infatti, il più delle volte, nell’ordine, impartito alla p.a. dal giudice, di riesaminare il diniego già formulato riesercitando il potere amministrativo tenuto conto delle doglianze del ricorrente, che il giudice ritenga assistite dal fumus boni iuris; la sentenza di merito, ove sia di accoglimento del ricorso, si tradurrà nell’annullamento di quel diniego perché illegittimo, annullamento cui seguirà il riesercizio del potere amministrativo ad opera della p.a., nel rispetto delle « regole » sancite in via giurisdizionale. Per un’analisi approfondita del problema relativo alla tutela cautelare nei confronti dei dinieghi dell’Amministrazione cfr.: C. CACCIAVILLANI, Giudizio amministrativo di legittimità e tutele cautelari, in particolare il cap. IV: Il giudizio contro gli atti di diniego e la tutela cautelare, Padova, 2002, 181 e ss.


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anche ove si siano prodotti effetti ulteriori in seguito all’emanazione dell’ordinanza ed anche ove per ottenere soddisfazione l’interesse legittimo richieda qualcosa di più del semplice annullamento del provvedimento illegittimo, posto che tale strumentalità « va misurata con la sentenza, in relazione all’atto impugnato, e tenendo a mente che l’interesse legittimo non è tutelato di per sé ma ha una serie di poteri strumentali di cui si serve per soddisfare (anche in via non definitiva) l’interesse al bene » (35). 2.4. Altra parte della dottrina ha risolto il problema della apparente inconciliabilità del carattere strumentale della ordinanza cautelare con il contenuto innovativo o propulsivo di essa identificando la funzione strumentale del processo cautelare nel suo porsi « in relazione alla utilità della fase di esecuzione della decisione » (36), sottolineando l’esigenza di tutelare in via cautelare la possibilità di realizzazione concreta non solo del petitum formale, consistente nella richiesta di annullamento dell’atto, ma anche del petitum sostanziale, che consiste nella situazione vantaggiosa richiesta dal ricorrente. Una strumentalità dell’ordinanza cautelare nei confronti, quindi, non della sentenza di merito, il cui contenuto è di annullamento dell’atto ritenuto illegittimo, bensı̀ dell’utilità finale ricercata dal ricorrente, e che questi conseguirà, di fatto, solo in sede di esecuzione. Ne consegue che, pur non potendosi affermare che il giudice amministrativo in sede cautelare già operi interventi sull’attività provvedimentale dell’amministrazione cosı̀ incisivi come quelli che realizza in sede di giudizio di ottemperanza, di fatto le ordinanze cautelari « producono effetti costitutivi di situazioni vantaggiose per il ricorrente troppo simili a quelli che deriverebbero dai provvedimenti positivi che l’amministrazione avrebbe emanato, se alla istanza di tale ricorrente, viceversa, non avesse opposto l’impugnato diniego »; in pratica, quindi, il giudice amministra(35) Cfr. E: FOLLIERI, La cautela tipica e la sua evoluzione, in questa Rivista, 1989, 646 ss., in particolare 672-673. (36) Cfr. G. MINIERI, Il giudizio cautelare nella prospettiva dell’avvocato, in Il giudizio cautelare amministrativo (aspetti e prospettive), Giornata di studio, Brescia 4 maggio 1985, Roma 1987.


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tivo spesso « adotta in via cautelare, una misura mediante la quale produce, sia pure a titolo provvisorio, la situazione vantaggiosa richiesta dal ricorrente » (37). Per tali ragioni autorevole dottrina, rinvenendo nell’operato del giudice amministrativo della cautela quei poteri di sostituzione dell’amministrazione che sono propri del giudizio di ottemperanza (38), ha proposto « di qualificare il giudizio cautelare come un caso, sia pure non legislativamente cosı̀ definito, di giurisdizione estesa al merito », posto che solo in sede di giurisdizione estesa al merito possono essere riconosciuti al giudice amministrativo poteri di sostituzione dell’amministrazione. 3. « Rimane sempre il carattere di una anticipazione di effetti giuridici e la finalità dell’istituto cautelare di evitare che il trascorrere del tempo necessario per lo svolgimento del processo non vada a danno di chi deve rivolgersi al Giudice per ottenere il riconoscimento delle proprie ragioni: ma, al tempo stesso, il provvedimento cautelare presenta proprie caratteristiche (39), risultato (37) Cfr. A. ROMANO, Il giudizio cautelare: linee di sviluppo, in Il giudizio cautelare amministrativo (aspetti e prospettive), in Riv. amm., 1987, perviene conclusivamente ad una configurazione del processo cautelare come procedimento di merito con il quale il giudice adotta « una misura mediante la quale produce, sia pur a titolo provvisorio, la situazione vantaggiosa richiesta dal ricorrente » in quanto « i poteri del giudice amministrativo della cautela ... anzitutto sono di sostituzione dell’amministrazione come nel giudizio di ottemperanza »; ciò in quanto « le misure cautelari che il giudice amministrativo può adottare sono esatissimamente quelle, soprattutto sostitutive dell’attività dell’amministrazione, che il medesimo giudice amministrativo può disporre in sede di giudizio di ottemperanza ». (38) Cfr. C.E. GALLO, Presidente e collegio nella tutela cautelare: novità e prospettive nella disciplina della legge n. 205 del 2000, in www.giustizia-amministrativa.it, ritiene che « per i provvedimenti cautelari (e cioè per l’ordinanza di sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato) non riferiti a provvedimenti positivi ma invece riferiti a provvedimenti negativi o addirittura al silenzio, la tutela cautelare è apparsa in sé più efficace della tutela ottenibile al termine del giudizio di cognizione », in quanto in sede cautelare si ottiene « un provvedimento ordinatorio che ha un contenuto ben più incisivo di quanto non possa avere la sentenza conclusiva del giudizio » poiché la tutela cautelare « sembra avere come punto di riferimento non tanto o non soltanto il giudicato che si forma nella fase della cognizione, ma anche il contenuto della statuizione del giudice che è tipico della fase dell’ottemperanza ». (39) L’autonomia del procedimento cautelare rispetto a quello di merito viene evidenziata dalla dottrina e dalla giurisprudenza con riferimento a svariati piani, sia


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dell’applicazione di una regola di giudizio estremamente elastica e tale da non condizionare in nessun modo la valutazione del giudice, produce propri effetti, al limite diversi ed anzi opposti rispetto agli effetti che potrebbero essere propri del provvedimento di annullamento, tende in definitiva alla realizzazione di interessi particolari autonomamente considerati e distinti dagli interessi che alla fine troveranno soddisfazione con il giudizio di merito (o potranno trovare, quando pure questa possibilità non sia stata esclusa proprio dallo svolgimento del processo cautelare) » (40). Una tutela cautelare, quindi, che, pur conservando il carattere strumentale suo proprio, assume una funzione autonoma e risulta idonea a soddisfare degli interessi ulteriori (41). Funzione autonoma che è la diretta conseguenza dell’evoluzione della tutela cautelare stessa: se l’originaria sospensione del provvedimento impugnato era strettamente strumentale alla sentenza di merito e non necessitava di altro, comportando il divieto dell’esecuzione del provvedimento impugnato, in via provvisoria, i medesimi effetti che sarebbero poi stati raggiunti mediante la sentenza di merito, ampliandosi l’oggetto della tutela cautelare, e, con essa, i poteri del Giudice cautelare, l’ordinanza cautelare acquista un’efficacia ulteriore, che è quella di divenire essa stessa mezzo di tufunzionali che strutturali; ne evidenzia le differenze strutturali: R. GALLI, Corso di diritto amministrativo, Padova, 1994, 997, che sottolinea come « il giudizio impugnatorio, infatti, si fonda su un’azione di annullamento e si risolve in una decisione che incide sulla stessa permanenza in vita dell’atto amministrativo; quello cautelare, invece, è volto a conservare inalterato lo status quo ante e si conclude, in caso di accoglimento, con una pronunzia provvisoria che opera non sull’atto in sé, ma sui suoi effetti, temporaneamente posti in uno stato di quiescenza ». (40) Cfr. F. LUBRANO, Il giudizio cautelare amministrativo, Roma, 1997, 72. (41) Cfr. M. ANDREIS, Tutela sommaria e tutela cautelare nel processo amministrativo, Milano, 1996, 128, evidenzia la differenza fra l’interesse cui offre tutela il provvedimento cautelare e quello sotteso alla decisione di merito. L’autore, infatti, evidenzia come oggetto della decisione cautelare non sia « un contrasto tra un comportamento individuale e la norma », né « può dirsi che il ricorrente deduca la contrarietà tra il comportamento dell’amministrazione e la norma, poiché è la stessa esecutoorietà dell’atto amministrativo, della quale esso si duole, che discende espressamente da una norma di legge. Si tratta, dunque, di offrire eventuale tutela ad un interesse del privato contrario a detta norma, interesse che, in ogni caso, risulta qualificabile come interesse semplice ».


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tela dell’interesse del ricorrente, di tale ampiezza da potere rendere poi superflua la stessa decisione nel merito. Traducendo tale discorso nei fatti si pensi alla differenza intercorrente tra un’ordinanza di sospensione a tutela di una posizione giuridica di interesse oppositivo, che si concreta nella semplice sospensione dell’efficacia del provvedimento ritenuto lesivo e cui null’altro serve, ed in relazione alla quale l’Amministrazione si trova nell’impossibilità pratica di tenere un comportamento contrario a quanto indicato dal provvedimento cautelare, ed un’ordinanza di sospensione a tutela di una posizione giuridica di interesse pretensivo, in relazione alla quale si prospetta la necessità di un intervento attivo della pubblica Amministrazione che valga ad attribuire al ricorrente quel vantaggio che immediatamente gli deve essere riconosciuto in ragione dell’ordinanza cautelare (42) ma che, per i propri effetti sostanziali può anticipare (e rendere inutili) gli effetti di una decisione di merito, determinando la produzione di una situazione giuridica che non può essere posta nel nulla nemmeno dalla decisione di merito (eventualmente di rigetto del ricorso). Chiaramente in relazione a tali ultime ipotesi è sorto il problema dell’esecuzione delle ordinanze cautelari, in mancanza della quale sarebbe rimasta del tutto priva di effettività la tutela con essa fornita (43). Problema cui è stata data soluzione, prima in via giurisprudenziale poi con la legge 205 del 2000 an(42) Cfr. E.M. BARBIERI, La sospensione del provvedimento amministrativo nel giudizio di primo grado, in Il giudizio cautelare amministrativo (aspetti e prospettive), Roma, 1987, 41, il quale, pur ribadendo il suo convincimento che « la sospensiva abbia, per sua natura, una rigidità di contenuti difficilmente eliminabile » « non esclude, però, che con una prudente ed attenta utilizzazione dei poteri istruttori anche a fini meramente cautelari, con una saggia apposizione di termini, con il ricorso a motivazioni penetranti e serie, ed anche con ordini positivi, purché questo avvenga al limitato fine di garantire l’effettività della garanzia giurisdizionale, sia possibile plasmare l’intervento di sospensione alle esigenze di una concreta e fattiva utilità ». (43) Cfr. sui problemi dell’esecuzione delle ordinanze cautelari: D. DE CAROLIS, Il sequestro giudiziario, misura per l’esecuzione dell’ordinanza di sospensione del giudice amministrativo, in questa Rivista, 1990, 430 ss.; G. SAPORITO, Esecuzione dell’ordinanza cautelare amministrativa e intervento del giudice ordinario, nota a Pretura Portici 12 agosto 1980, in Giust. civ., 1981, I, 1830 ss.; sui poteri del giudice amministrativo cautelare di reintervenire con altra ordinanza e conseguente nomina di un Commissario per l’esecuzione dell’ordinanza di sospensione, cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 14 maggio 1993, n. 349, con nota di R. CHIEPPA, Sull’adempimento delle ordinanze di sospen-


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che normativamente, attribuendo al giudice amministrativo in sede cautelare i medesimi poteri del giudice di ottemperanza, e riuscendo cosı̀ ad assicurare al privato, anche in sede cautelare, la piena realizzazione dell’interesse tutelato. Chiaramente la grande ampiezza di poteri riconosciuti al giudice cautelare ha accentuato l’autonomia del procedimento cautelare stesso, che sembra essere collegato semplicemente in un’ottica funzionale al processo di merito ma cessa di essere subordinato allo stesso, posto che assume un’importanza sua propria, ed effetti autonomi, che spesse volte non appaiono nemmeno eliminabili in dipendenza di un diverso esito del processo principale (44). Ragione di tale evoluzione, e della conseguente autonomia della tutela cautelare, è stata l’esigenza costituzionale di effettività che non poteva essere soddisfatta da una tutela cautelare che, in quanto limitata alla mera sospensione, concessa al solo ricorrente sione, in Foro amm., 1993, 1002 ss.; Cons. Stato, Ad. Plen., 30 aprile 1982, n. 6, con nota di E. FOLLIERI, Esecuzione delle ordinanze cautelari del giudice amministrativo, in Foro amm., 1982, I, 629 ss. e la successiva ordinanza nella stessa questione Ad. Plen., 1 giugno 1983, n. 14, con nota di A. SCOLA, Brevi note in tema di tutela cautelare nel giudizio amministrativo, in Foro amm., 1984, 2034 ss.; Tar Puglia - Bari, 9 dicembre 1982, n. 531, con nota di N.A. CALVANI, Brevi osservazioni in tema di esecuzione delle ordinanze di sospensione, in Foro amm., 1982, I, 2245; M.E. SCHINAIA, I poteri del giudice amministrativo nella fase dell’esecuzione delle sue decisioni da parte dell’Amministrazione, in www.giustizia-amministrativa.it, che in relazione ai poteri di esecuzione attribuiti al giudice amministrativo in sede cautelare ha affermato che « si è voluto puramente e semplicemente prendere atto, positivizzare un lungo e tormentato percorso giurisprudenziale tendente a dare effettività alla misura cautelare, che altrimenti sarebbe rimasta una mera esortazione rivolta all’amministrazione ». (44) Cfr. A. DE ROBERTO, La sospensione del provvedimento amministrativo, in Il processo cautelare amministrativo (aspetti e prospettive), Roma, 1987, 77 fa riferimento a quella giurisprudenza del Consiglio di Stato e della Corte di Cassazione che « consapevole dell’operatività ... nell’ordinamento, di misure cautelari implicanti l’imposizione di obblighi di facere alla autorità amministrativa ... si è preoccupata di ovviare ad una difficoltà alla quale non era stato possibile in precedenza porre rimedio: le inadempienze dell’Amministrazione nell’eseguire spontaneamente gli obblighi di pronunciare, di provvedere in un modo determinato; di corrispondere somme di denaro imposti, in sede cautelativa, dal giudice amministrativo » e « secondo cui il processo cautelare ha carattere rigorosamente unitario e non può scindersi in procedimento di cognizione e di esecuzione », onde « l’attuazione del provvedimento (cautelativo) costituisce parte integrante ... del processo (cautelare) ed elemento indefettibile dello stesso ».


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e priva di poteri esecutivi, non era idonea a tutelare la posizione giuridica soggettiva dei soggetti richiedenti (45). Al fine di soddisfare l’esigenza pratica, ed imprescindibile, di effettività della tutela giurisdizionale cautelare si è, quindi, arrivati a dare all’istituto cautelare quella fisionomia particolare e quella autonomia che lo caratterizza da ormai un ventennio (46) e che comporta il suo esplicarsi in una varietà di forme la cui ampiezza è pari solo a quella delle nuove esigenze e dei nuovi possibili problemi che sono emersi in ragione dell’evoluzione dello stesso diritto amministrativo e che è tale da riuscire ad assicurare al privato coinvolto in qualsiasi modo dall’agire della pubblica Amministrazione una effettività di tutela e di intervento che sembra essere superiore anche alla stessa tutela che si può realizzare mediante il giudizio di merito. Nell’evolversi della giustizia amministrativa verso una tutela effettiva della posizione giuridica soggettiva del cittadino la tutela cautelare, quindi, pur senza mai perdere il suo carattere strumentale rispetto al processo di merito, risulta essere un passo avanti (47), raggiungendosi tramite essa obiettivi che sembravano in (45) Cfr. G. TARZIA, Considerazioni comparative sulle misure provvisorie nel processo civile, in Riv. dir. proc., 1985, 249 a tale riguardo osservava come « credo che occorra essere ben coscienti del fatto che, nel nome del principio di effettività, si è arrivati alla creazione non soltanto di una procedura sommaria, ma di una tutela giudiziaria alternativa alla giurisdizione ordinaria, che è in grado di realizzare, per mezzo di una pronuncia sovente ad effetti irreversibili, il “diritto probabile” del richiedente ». (46) Circa il carattere nuovo ed autonomo del processo cautelare già nei primi anni ottanta cfr. A.M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli 1982, 1290; R. VILLATA, Esecuzione delle ordinanze di sospensione e giudizio di ottemperanza, nota a Cons. Stato, Ad. Plen.. 30 aprile 1982, n. 6 e Cons. Stato, Ad. Plen., 11 giugno 1982, n. 12, in questa Rivista, 1983, 103, che afferma che « il giudizio cautelare è venuto ormai acquistando, rispetto all’azione principale, una piena autonomia procedimentale »; U. POTOTSCHNIG, La tutela cautelare, ne Il processo amministrativo: quadro problematico e linee di evoluzione, Milano, 1988, 210. In giurisprudenza cfr. oltre alla Cons. Stato, Ad. Plen., 30 aprile 1982, n. 6 già citata, più incisivamente l’Ad. Plen., 20 febbraio 1985, n. 2, in questa Rivista, 1985, 591, ove si legge che: « L’evoluzione normativa ... tende a costruire il giudizio cautelare come fase strumentale autonoma ... tale da svilupparsi, secondo una sua autonoma linea di coerenza logica e formale, verso l’approdo di un provvedimento decisorio suscettibile di formare giudicato su di un punto controverso della lite ». (47) Su tale punto si rifletta sulla differenza intercorrente fra il giudizio di me-


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precedenza irraggiungibili. Per tale ragione i poteri del giudice cautelare risultano essere molto più ampi di quanto si immaginava in precedenza, e, di conseguenza, il contenuto dell’ordinanza cautelare, pur nascendo essa come un provvedimento provvisorio, di temporanea salvaguardia degli interessi del ricorrente, può acquisire una importanza molto superiore e concretarsi in effetti che perdurano nel tempo, anche oltre ed indipendentemente dalla decisione nel merito del ricorso. Per comprendere l’importanza assunta dalla tutela cautelare e l’ampiezza del contenuto dell’ordinanza cautelare è opportuno riflettere innanzitutto sull’interesse sostanziale che funge da presupposto necessario per azionare la tutela giurisdizionale. Come è noto, infatti, presupposto necessario per azionare la tutela giurisdizionale è un interesse sostanziale che è stato leso ed in relazione al quale l’annullamento del provvedimento illegittimo si pone solo con funzione di semplice mezzo, necessario per la restaurazione dello stesso ma che certo non si identifica con esso (48): è opportuno identificare esattamente quale sia questo inrito, nel quale arrivati ad una sentenza di annullamento, ove la stessa non sia autoesecutiva e l’Amministrazione non ottemperi a quanto ivi sancito vi è necessità di instaurare un giudizio di ottemperanza, ed il giudizio cautelare, nel quale sono stati attribuiti direttamente al Giudice che ha pronunciato l’ordinanza cautelare i poteri di intervenire in via esecutiva riguardo ad essa. Sui poteri del giudice amministrativo di reintervenire con altra ordinanza e conseguente nomina di un Commissario per l’esecuzione dell’ordinanza di sospensione, cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 14 maggio 1993, n. 349, con nota di R. CHIEPPA, Sull’adempimento delle ordinanze di sospensione, in Foro amm., 1993, 1002 ss.; Cons. Stato, Ad. plen., 30 aprile 1982, n. 6, con nota di E. FOLLIERI, Esecuzione delle ordinanze cautelari del giudice amministrativo, in Foro amm., 1982, I, 629 ss. e la successiva ordinanza nella stessa questione Ad. plen., 1 giugno 1983, n. 14, con nota di A. SCOLA, Brevi note in tema di tutela cautelare nel giudizio amministrativo, in Foro amm., 1984, n. 2034 ss.; Tar Puglia - Bari, 9 dicembre 1982, n. 531, con nota di N.A. CALVANI, Brevi osservazioni in tema di esecuzione delle ordinanze di sospensione, in Foro amm., 1982, I, 2245. (48) Cfr. al riguardo G. MINIERI, Il giudizio cautelare nella prospettiva dell’avvocato, cit., 18, che sottolinea l’impossibilità di « raffigurare un interesse alla tutela unicamente in relazione alla verifica di legittimità dell’atto o del comportamento della P. A. » evidenziando come anche nel processo amministrativo occorra sempre considerare che « è pur sempre la lesione di un interesse sostanziale a fungere da presupposto necessario per il sorgere dell’interesse ad azionare la tutela giurisdizionale », e fa riferimento alle varie nozioni di interesse ad agire nel processo civile identificate da: G. CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1936, 162, secondo il quale


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teresse sostanziale sotteso perché a tutela di esso solo è strumentalmente volta la misura cautelare. 4. Si ha un esempio di interesse sostanziale leso ed in relazione al quale l’annullamento del provvedimento illegittimo si pone solo con funzione di semplice mezzo, necessario per la restaurazione dello stesso ma che certo non si identifica con esso, in tutte le ipotesi in cui venga chiesto un provvedimento cautelare nei confronti di un provvedimento di diniego. In tali ipotesi, infatti, la posizione giuridica soggettiva del ricorrente risulta lesa dal provvedimento negativo — di diniego — ma l’interesse sostanziale sotteso non coincide con quello al mero annullamento del provvedimento negativo ma si identifica in un qualcosa di diverso, ovvero nell’interesse del ricorrente a che, mediante l’annullamento del diniego, si possa riaprire il procedimento amministrativo che si era concluso con un provvedimento sfavorevole. Verificato, quindi, che il nostro ordinamento giuridico ammette la tutela cautelare anche nei confronti dei provvedimenti negativi, e che tale tutela può attuarsi anche mediante misure a contenuto « positivo » (49), occorre ricostruire quali siano i limiti « l’interesse ad agire non consiste soltanto nell’interesse a conseguire il bene garantito dalla legge — ciò forma il contenuto del diritto — ma nell’interesse a conseguirlo per opera degli organi giurisdizionali »; P. CALAMANDREI, Istituzioni di diritto processuale civile, Padova, 1943, 139, che distingue tra l’interesse processuale ad agire e a contraddire in giudizio e interesse sostanziale al conseguimento di un bene che costituisce il nucleo del diritto soggettivo; S. SATTA, Interesse ad agire e legittimazione, in Foro it., 1954, IV, 159 ss., che nega ogni fondamento alla « contrapposizione che si vuole stabilita tra interesse sostanziale, cioè diritto, e interesse processuale » in quanto la stessa si fonderebbe « su un presupposto concettuale arbitrario, e cioè sull’idea che esista un diritto come realtà naturale, originaria, assolutamente inutile » alla quale il processo ed il suo risultato vanno rapportati come un contributo. Minieri nota come, invece, nel processo amministrativo l’interesse ad agire venisse ricollegato generalmente all’utilità del provvedimento, nel senso che esso sussisterebbe unicamente ed in quanto il provvedimento del giudice sia di qualche utilità al ricorrente. A tale riguardo Minieri richiama: ALESSI, Interesse sostanziale e interesse processuale nella giurisdizione amministrativa, in Arch. giur., 142, 132 ss.; P. VIRGA, La tutela giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione, Milano, 1966; F. CARNELUTTI, Diritto e processo, Napoli, 1959. (49) Cfr. R. GAROFOLI, La tutela cautelare degli interessi negativi. Le tecniche del remand e dell’ordinanza a contenuto positivo alla luce del rinnovato quadro normativo, in questa Rivista, 2002, 857 ss., in particolare 860 evidenzia come « con la disciplina


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del potere cautelare del giudice amministrativo la cui identificazione si ricollega, necessariamente, a tale possibilità. In un giudizio che ha per oggetto l’impugnazione di provvedettata dall’art. 3 della l. n. 205 del 2000 si è inteso in primo luogo por mano al definitivo superamento — per vero già frutto di una meritoria, ancorché non sempre lineare, evoluzione pretoria — della angusta ed asfittica identificazione della misura cautelare adottabile dal giudice amministrativo nella sola sospensiva dell’esecuzione dell’atto impugnato, evidentemente inadeguata ad assicurare una effettiva e piena tutela interinale delle posizioni soggettive diverse dagli interessi legittimi di tipo conservativo o oppositivo » introducendo l’atipicità delle misure cautelari anche nel processo amministrativo. Nel definire « angusta ed asfittica » la limitazione della tutela cautelare alla semplice possibilità di sospendere l’efficacia del provvedimento impugnato l’Autore si rifà ad una definizione che è di A. ROMANO, Tutela cautelare nel processo amministrativo e giurisdizione di merito, cit., 2491 ss., che definisce proprio « intollerabilmente asfittica » la limitazione alla sola sospensiva della tutela cautelare nel processo amministrativo. Dello stesso Autore cfr. A. ROMANO, Il giudizio cautelare: linee di sviluppo, in Riv. amm., Roma, 1987, 49 ss., in particolare 64-65, nel quale l’Autore evidenzia come, contrariamente a quello che era il dettato normativo al momento vigente (lo scritto si riferisce ad una relazione in occasione di una giornata di studio sulla tutela cautelare tenutasi a Brescia il 4 maggio del 1985), di fatto le ordinanze cautelari non si limitavano ad ordinare la semplice sospensione del provvedimento impugnato, posto che amplissimi sono i poteri del giudice amministrativo in sede cautelare, tali da spingere l’Autore ad affermare che « le misure cautelari che il giudice amministrativo può adottare sono esattissimamente quelle, soprattutto sostitutive dell’attività dell’amministrazione, che il medesimo giudice amministrativo può disporre in sede di giudizio di ottemperanza ». L’Autore perviene a tale conclusione mediante un’osservazione attenta della realtà, egli infatti evidenzia come pur se spesso « l’incisività reale di tanti dispositivi di quelle ordinanze frequentemente è velata da una notevole cautela formale » in realtà in molti casi le ordinanze cautelari concesse ove siano impugnati dei provvedimenti di diniego « producono effetti costitutivi di situazioni vantaggiose per il ricorrente, troppo simili a quelli che deriverebbero dai provvedimenti positivi che l’amministrazione avrebbe emanato, se alla istanza di tale ricorrente, viceversa, non avesse opposto l’impugnato diniego ». Romano sottolinea, quindi, come sotto queste « coperture verbali » determinate da « comprensibili esigenze di cautela » relative ad una disciplina che non sembrava ammettere l’esistenza di provvedimenti cautelari cosı̀ innovativi, si delinei una realtà nella quale « il giudice amministrativo sempre più spesso adotta in via cautelare una misura mediante la quale produce, sia pure a titolo provvisorio, la situazione vantaggiosa richiesta dal ricorrente », ovvero una realtà nella quale i giudici amministrativi hanno eliminato quel limite, quell’ostacolo alla pienezza della tutela attuabile in via cautelare che consisteva nella restrizione di essa alla sola sospensione del provvedimento impugnato. Da tale ricostruzione Romano, quasi venti anni or sono, già ricostruiva l’esistenza in capo al giudice amministrativo della cautela di poteri « di sostituzione dell’amministrazione », ovvero di poteri uguali a quelli riconosciuti al giudice dell’ottemperanza, giungendo cosı̀ a proporre « di qualificare il giudizio cautelare come un caso, sia pure non legislativamente cosı̀ definito, di giurisdizione estesa al merito ». (La Cac-


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dimenti negativi, si ha, infatti, un’ordinanza cautelare che permette di rientrare nel procedimento e che può imporre la rinnovazione dello stesso (50). Il problema sorge dal fatto che, come evidenziato in prececiavillani — in Giudizio amministrativo e legittimità e tutele cautelari, cit., 201 — evidenzia come l’enunciazione dell’inclusione del giudizio cautelare nella giurisdizione di merito era stata già effettuata, in precedenza, anche da F. CAMMEO, L’impugnabilità dei decreti di sospensione emessi da una G.P.A., in Giur. ital., 1911, III, c. 15 ss.) Più o meno nel medesimo periodo storico e normativo su tale aspetto R. VILLATA, Esecuzione delle ordinanze di sospensione e giudizio di ottemperanza, cit., 97, sottolineava come la corrispondenza tra tutela cautelare e giudizio di ottemperanza costituisse giustificazione per l’intervento sostitutivo del giudice amministrativo anche in sede cautelare. A tale riguardo non era di interesse alcuno stabilire se l’intervento sostitutivo si realizzasse nella prima fase della tutela cautelare ovvero solo in sede di esecuzione della pronuncia cautelare, anche perché tale distinzione comunque non inciderebbe sull’ampiezza della tutela cautelare e sulla definizione del suo ruolo nel processo amministrativo, posto che comunque l’esecuzione della pronuncia cautelare non si risolve in un giudizio concettualmente distinto, come accade fra giudizio di ottemperanza e sentenza di annullamento, ma si realizza sempre all’interno della stessa sede cautelare. (50) In relazione alla capacità delle decisioni prese in sede cautelare di incidere sul procedimento amministrativo cfr.: F. CINTIOLI, L’esecuzione cautelare tra effettività della tutela e giudicato amministrativo, cit., 73-74, il quale, analizzando l’esecuzione cautelare e ciò che essa comporta nei rapporti tra processo e procedimento, sottolinea come « l’arretramento dei poteri di sostituzione del g.a. e l’estensione delle misure di esecuzione a provvedimenti non ancora coperti da giudicato sostanziale è altresı̀ indice del rafforzamento dei collegamenti tra procedimento e processo: il processo, capace di influenzare il procedimento già grazie all’esposizione delle doglianze del ricorrente, con le misure cautelari proietta immediati effetti sull’azione amministrativa, che, ancor prima della decisione di merito, deve orientarsi secondo le indicazioni impartite con l’ordinanza, ammettendosi che il giudice possa intervenire con strumenti esecutivi che possono spingersi fino al metodo dell’esecuzione surrogatoria. Il giudice diviene l’interlocutore necessario dell’amministrazione e rende più strette le influenze reciproche tra realtà procedimentale e realtà processuale ... ». L’Autore conclude, quindi, precisando come fra i due modelli possibili dei rapporti tra giurisdizione amministrativa e amministrazione la scelta sembra essere ormai compiuta decisamente verso il rapporto « ispirato ad una visione integrata delle attività in vista della effettività della tutela », avendo trovato « il punto di equilibrio tra funzione amministrativa e funzione giurisdizionale » nella riduzione dell’indipendenza e dell’autonomia dell’amministrazione « non solo in funzione del principio di legalità, ma, per l’appunto, in funzione dell’effettività della tutela giurisdizionale. » A tale fine il giudice amministrativo ha « il potere di ingerirsi due volte nell’attività dell’amministrazione: dapprima imponendole una linea di condotta e poi effettuando il controllo su di essa, munito di poteri di sostituzione coattiva ». L’Autore ritiene dunque ormai annullata l’idea della radicale separazione tra le due funzioni (giurisdizionale ed amministrativa), in ragione della reciproca e seria influenza che sussiste tra procedimento e processo ed insieme della introduzione dei poteri di esecuzione


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denza, la tutela cautelare nel processo amministrativo è caratterizzata dalla sua strumentalità, ovvero dal suo essere nata per la specifica finalità di mantenere un determinato assetto degli interessi in gioco, in modo tale da evitare che l’interesse di una parte venga pregiudicato dalla durata del processo. Corollario della strumentalità della tutela cautelare dovrebbe essere, quindi, la necessaria provvisorietà e reversibilità dell’assetto di interessi predisposto mediante essa; in realtà, però, come già evidenziato in precedenza, ciò non sempre accade, posto che le misure cautelari possiedono anche una certa autonomia rispetto al processo principale ed hanno, talora, la capacità di produrre effetti giuridici definitivi (51). La giurisprudenza più recente, infatti, è piena di esempi di misure cautelari che, permettendo di riaprire il procedimento, mediante i quali, già dalla fase cautelare, è possibile attuare « la sostituzione del giudice all’amministrazione ». (51) Cfr. circa l’ampio dibattito sulla tutela cautelare nei confronti dei provvedimenti negativi si possono richiamare lo studio di E. FOLLIERI, Giudizio cautelare amministrativo e interessi tutelati, Milano, 1981; dello stesso Autore anche: E. FOLLIERI, Sentenza di merito « strumentale » all’ordinanza di sospensione di atto negativo; « effetto di reciprocità » e adozione, da parte del giudice amministrativo, dei provvedimenti ex art. 700 c.p.c. per la tutela degli interessi pretensivi, in Riv. proc. amm., 1986, 117 ss.; ID., La cautela tipica e la sua evoluzione, in Studi per il centenario della IV Sezione del Consiglio di Stato, nonché in questa Rivista, 1989, 646 ss.; ID., Sospensione degli atti negativi, in Foro amm., 1981, I, 628 ss.; U. FANTIGROSSI, Giudizio cautelare amministrativo: si ampliano i poteri del giudice amministrativo, in questa Rivista, 1984, 291; E. STICCHI DAMIANI, Sulla sospendibilità dei provvedimenti negativi, in Riv. proc. amm., 1984, 413 ss.; E.M. BARBIERI, Sulla sospensione degli atti negativi della Pubblica Amministrazione, in Riv. dir. proc., 1980, 295 ss.; ID., I limiti al processo cautelare amministrativo, in Riv. proc. amm., 1986, 200 ss.; ID., La tutela cautelare nel processo amministrativo: prospettive e limiti, in Rass. Giur. Enel, 1996, 544 ss.; ID., Sulla sospensione dei dinieghi e dei silenzi della Pubblica Amministrazione, in Foro amm., 1996, 3527 ss.; ID., Sul giudizio cautelare nel processo amministrativo, in Riv. dir. proc., 1983, 246 ss.; ID., La sospensiva del provvedimento amministrativo nel giudizio di primo grado, in Riv. amm., Roma, 1987, 35 ss., ove l’Autore indagando su quali siano i possibili contenuti della sospensiva evidenziava come essa « abbia, per sua natura, una rigidità di contenuti difficilmente eliminabile, che discende dalla sua collocazione interna al processo e dalla sua finalizzazione alla salvaguardia degli effetti della sentenza emanando »; una rigidità di contenuti, quindi, che derivava dal fatto che essa fosse « non un momento di realizzazione della tutela delle posizioni soggettive sostanziali garantite dall’ordinamento, ma soltanto uno strumento dato per assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale » e dal fatto che l’accesso alle competenze dell’Amministrazione era consentito al giudice amministrativo solamente in sede di esecuzione del giudicato, ovvero in quel momento in cui « l’amministrazione abbia abdicato colposamente alla pro-


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producono esse stesse effetti irreversibili, e di fatto assicurano una tutela anche maggiore di quella ottenibile con la decisione nel merito. Si pensi, tra i provvedimenti negativi, ad un’ipotesi di provvedimento di diniego di esonero dal servizio militare (52), esonero che era stato richiesto in ragione di alcune patologie mepria funzione »; G. ABBAMONTE, Silenzio rifiuto e processo amministrativo, in questa Rivista, 1985, spec. 43 ss.; F. CUOCOLO, Sulla possibilità di sospensione dell’annullamento di atti immediatamente eseguibili, in Foro amm., 1981, I, 1007 ss.; A. TRAVI, Recenti orientamenti in tema di tutela cautelare nel processo amministrativo, cit., 293 ss.; ID., La tutela cautelare nei confronti dei dinieghi di provvedimenti e delle omissioni della P.A., in questa Rivista, 1990, 329 ss.; ID., Misure cautelari di contenuto positivo e rapporti tra giudice amministrativo e pubblica amministrazione, in questa Rivista, 1997, 168 ss.; D’AMICO CERVETTI, La sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato tra riflessioni teoriche e applicazioni giurisprudenziali, in questa Rivista, 1988, 199 ss.; MONETA, L’evoluzione involutiva della tutela cautelare amministrativa, in questa Rivista, 1994, 382 ss.; C. CACCIAVILLANI, La tutela cautelare nei ricorsi avverso il diniego di provvedimento e l’inerzia della P.A., in questa Rivista, 2002, 91 ss.; D. DE CAROLIS, Atti negativi e misure cautelari del giudice amministrativo, Milano, 2001; F. FRACCHIA, Osservazioni in tema di misure cautelari di carattere dispositivo nel giudizio amministrativo, in Foro it., 1998, III, c. 308 ss.; G. BOZZI, Sono sospendibili i provvedimenti negativi?, in Trib. amm. reg., 1996, II, 73 ss.; G. CARUSO, La giustizia cautelare: i provvedimenti negativi e le ordinanze « propulsive » del Tar, in Giur. amm. siciliana, 1994, III, 470 ss.; F. CURATO, Nuove prospettive in tema di sospensive di atti negativi, in Riv. amm., 1995, II, 102 ss.; R. NOBILI, Riflessioni sulla sospensione cautelare dei cosiddetti « provvedimenti negativi », in Foro amm., 1995, 2476 ss.; M. ORO NOBILI, Tutela cautelare in relazione ai dinieghi della P.A., in Rass. giur. en. elettr., 1995, II, 963 ss.; F. SAITTA, Un ulteriore esempio di sospensione di atti negativi, in Trib. amm. reg., 1986, II, 421 ss.; G. SAPORITO, Esame di maturità per la sospensiva di atti negativi, in Foro it., 1983, III, 41 ss.; ID., Nuovi orientamenti della tutela cautelare: il giudizio sul rapporto, in Riv. amm., 1983, I, 503 ss.; ID., Oss. A Cons. St., As. Plem. 5 settembre 1984, n. 17, in Foro it., 1985, III, 51 ss.; ID., Sospensione del silenzio della p.a. e di atto di controllo negativo, in Foro it., 1985, III, 41 ss.; C. VARRONE, Discrezionalità amministrativa e inibitoria degli atti a contenuto negativo, in Foro amm., 1996, II, 731. (52) Al riguardo vi è stata una decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, innanzi alle quali il Ministero della Difesa aveva proposto regolamento di giurisdizione sostenendo che il Consiglio di Stato avrebbe sostanzialmente invaso, con la sospensione del provvedimento di diniego, il campo proprio dell’Amministrazione, di fatto finendo per concedere la dispensa negata in prima battuta dall’amministrazione, con la quale la Corte di Cassazione, confermando la correttezza dell’impostazione seguita dal giudice amministrativo, ha sostenuto l’idoneità del provvedimento di diniego di dispensa a produrre effetti innovativi e l’interesse, quindi, del destinatario di quell’atto a ricorrere in sede cautelare per paralizzare l’attività amministrativa che lo aveva assoggettato al servizio militare. La decisione è: Cass. Sez. un., 25 ottobre 1973, n. 3732, in Cons. Stato, 1973, II, 1333. Al riguardo in dottrina cfr.: L. CUONZO, Sospendibilità in sede di giurisdizione amministrativa dei c.d. provvedimenti negativi: in parti-


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diche certificate: in tale caso l’ordinanza cautelare non si limiterà a sospendere l’efficacia del diniego, illegittimamente rilasciato dall’Amministrazione, ma, verificata l’illegittimità dello stesso in ragione di una illegittimità della procedura mediante la quale si è arrivati all’emanazione di tale provvedimento, ordinerà alla stessa amministrazione di effettuare nuovi accertamenti sanitari, al fine di valutare se la domanda di esonero dovessero essere ammessa o rigettata. In tale ipotesi, quindi, mediante la decisione cautelare si potrà rinnovare il procedimento amministrativo, correggendone il percorso. È evidente che, ove in seguito al nuovo accertamento sanitario effettuato dall’Amministrazione in adempimento a quanto sancito dall’ordinanza cautelare, la stessa dichiari che le patologie indicate sussistevano e che, quindi, l’esonero doveva essere concesso, la tutela della posizione giuridica soggettiva del ricorrente sarà attuata già in questa sede, ed a nulla servirà procedere ulteriormente nella decisione di merito (53). Stessa situazione si verifica nel caso, ad esempio, dei provvedimenti di non ammissione (= dinieghi di ammissione) agli scritti dei concorsi (in colare del provvedimento del Ministero della Difesa che nega la dispensa dal servizio militare, in Cons. Stato, 1974, II, 719. Nello stesso senso: Cass., Sez. Un., 7 ottobre 1974, n. 2622, in Giust. civ., Mass., 1974, 1184; Cass., Sez. Un., 28 ottobre 1974, n. 3198, in Giust. civ., Mass., 1974, 1402. Tale aspetto viene richiamato anche da R. GAROFOLI, La tutela cautelare degli interessi negativi. Le tecniche del remand e dell’ordinanza a contenuto positivo alla luce del rinnovato quadro normativo, cit., 872, il quale rimanda, per un’ampia disamina anche a M. ANDREIS, Tutela sommaria e tutela cautelare nel processo amministrativo, Milano, 1996, che osserva che « la peculiarità di tale atto negativo consiste nel suo collocarsi al centro di un procedimento in itinere e quindi porsi come presupposto per una ulteriore, ma distinta, costrizione della sfera giuridica dell’interessato. La sospensione del diniego pregiudica l’attività futura, ma in senso preclusivo: viene imposto all’Amministrazione un divieto di proseguire il procedimento di chiamata ». (53) Cfr. C. CALABRÒ, Inaugurazione anno giudiziario 2004 del Tar Lazio, Relazione del Presidente Corrado Calabrò, Roma, 10 febbraio 2004, 15, evidenzia come nei casi di specie, una volta effettuata la verificazione o la consulenza tecnica richiesta dal Tar « se all’esito l’aspirante » prima illegittimamente ritenuto inidoneo « viene riconosciuto idoneo, il ricorso viene accolto; o se l’Amministrazione abbia già provveduto in conformità, viene dichiarata la cessazione della materia del contendere (ma il vario modo d’interferenza della pronuncia giurisdizionale con la riedizione del potere amministrativo può anche portare alla dichiarazione del sopravvenuto difetto d’interesse », posto che la tutela della posizione giuridica soggettiva del ricorrente è stata già attuata e si vuole evitare una pronuncia inutile.


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magistratura o per il notariato) conseguenti all’esito negativo della procedura di preselezione informativa, nella quale ipotesi le ordinanze cautelari di ammissione con riserva agli scritti hanno comportato la riapertura del procedimento amministrativo di selezione dei più meritevoli (54): posto che la funzione dei procedimenti di preselezione è quella di accertare la sussistenza del requisito minimo di preparazione per partecipare al successivo concorso (cfr. il parere del Consiglio di Stato Adunanza plenaria 23 gennaio 1997, n. 5), il successivo svolgimento delle prove, ove comporti una valutazione positiva da parte della Commissione giudicatrice, dovrebbe comportare l’inutilità dello svolgimento ulteriore del giudizio non sussistendo più alcuna ragione di pronunciarsi sul merito del ricorso (avverso il diniego di ammissione), giungendo cosı̀ per riconnettere degli effetti definitivi alle stesse ordinanze cautelari di ammissione con riserva. Ciò avviene perché è stata recepita e consacrata sul piano (54) Cfr. C. CACCIAVILLANI, Giudizio amministrativo di legittimità e tutele cautelari, cit., 195 ss., la quale, all’interno dell’« ampio e apparentemente omogeneo genus rappresentato dagli atti negativi », distingue fra due species di dinieghi: una prima in cui « il diniego è un provvedimento meramente negativo, o diniego puro, che nega l’emanazione di un atto, avente effetto costitutivo o innovativo, richiesto da un soggetto che adduca di avere titolo giuridico al suo rilascio » ed una seconda species che consista in quelle ipotesi in cui « al diniego conseguono determinati effetti innovativi o modificativi ». L’Autore, in relazione ai dinieghi di ammissione, sottolinea come ad essere sospeso non sia il diniego bensı̀ « l’effetto innovativo che da esso consegue ». Distinzione simile all’interno degli atti negativi sembra fare A. TRAVI, La tutela cautelare nei confronti dei dinieghi di provvedimenti e delle omissioni della pubblica Amministrazione, in questa Rivista, 1990, 343 e 352-353, che sembra porre una differenziazione fra le categorie di provvedimenti negativi nei confronti dei quali è storicamente concessa una tutela cautelare (rinnovo concessioni amministrative, dispensa dal servizio militare e partecipazione ad un concorso) e gli altri provvedimenti negativi. L’Autore, infatti, ritiene che « le ragioni rilevate a sostegno della possibilità di una tutela cautelare nei confronti dei provvedimenti negativi delle tre categorie in esame (rinnovo concessioni amministrative — dispensa dal servizio militare — partecipazione ad un concorso) non possono essere estesi ai provvedimenti negativi nel loro complesso »; posto che « una tutela cautelare nei confronti della generalità di questi provvedimenti è configurabile solo nei termini di un intervento sostitutivo del Giudice rispetto all’Amministrazione », ma poiché « alla giurisdizione amministrativa spetta giudicare, e non amministrare, ... il Giudice amministrativo, in definitiva, non può sostituirsi all’Amministrazione, rispetto a scelte o a valutazioni che sono infungibili, perché l’ordinamento e la stessa Costituzione le riservano all’Amministrazione stessa ».


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normativo l’idea del procedimento come di un continuum nel quale « l’atto terminale o finale non costituisce sbarramento all’introduzione delle garanzie non attuate », un continuum tra giurisdizione ed amministrazione, creandosi, quindi, un procedimento aperto all’interno del quale l’intervenire di un provvedimento finale non impedisce l’apertura « ad interessi successivamente introdotti (perché non considerati o inadeguatamente considerati) sia attraverso l’intervento del giudice sia in sede di autotutela » (55). Attualmente l’esistenza di effetti definitivi prodotti dalle ordinanze cautelari è stata indiscutibilmente ammessa tanto dalla giurisprudenza amministrativa, che di fatto l’ha introdotta, tanto dal legislatore, in quanto la legge 205 del 2000 ha ampliato l’ambito della tutela cautelare, ammettendola anche nelle ipotesi di inerzia della pubblica amministrazione. 5. L’art. 21 della legge Tar, cosı̀ come innovato dalla legge n. 205 del 2000, di fatto cristallizzando un’evoluzione giurisprudenziale che negli anni aveva oltremodo esteso l’ambito della tutela cautelare ha sancito definitivamente la possibilità di ottenere qualsiasi misura cautelare, atipica, che sia « idonea ad anticipare (55) Cfr. R. GAROFOLI, La tutela cautelare degli interessi negativi, cit., 892, che si riporta a F. PUGLIESE, Nozione di controinteressato e modelli di processo amministrativo, Napoli, 1989, 298 ss. Sull’integrazione tra procedimento e processo cfr.: V. CAIANIELLO, Rapporti tra procedimento amministrativo e processo, in questa Rivista, 1993, 241; ID., Riflessioni sull’art. 111 della Costituzione, in Riv. dir. proc., 2001, 53; G. ABBAMONTE, Interesse alla pianificazione e tutela giurisdizionale, in questa Rivista, 1986, 581, il quale osserva che la funzione giurisdizionale « si inserisce in modo dinamico nel divenire della funzione pubblica »; P. STELLA RICHTER, Per l’introduzione dell’azione di mero accertamento nel giudizio amministrativo, in Studi in onore di Massimo Severo Giannini, Milano, 1988, 875, ad avviso del quale « la più peculiare caratteristica del nostro processo (è) di costituire ... non già una rigorosa separazione ma un produttivo continuum tra giurisdizione e amministrazione ». Rileva che ormai risale ad un quarto di secolo fa l’idea della discontinuità tra procedimento amministrativo e processo: S. CASSESE, Le autorità indipendenti: origini storiche e problemi odierni, in I Garanti delle regole, a cura di S. Cassese e C. Franchini, Bologna, 1996, 222; in particolare l’autore osserva che « non vi è procedimento amministrativo di qualche rilevanza che non termini in un processo amministrativo, stabilendo una continuità procedimento-processo che finisce inevitabilmente per coinvolgere il g.a. nell’amministrazione ».


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in via provvisoria una statuizione che prevedibilmente sarà oggetto di una successiva sentenza di accoglimento del ricorso » (56). Le « moderne » misure cautelari differiscono dalla originaria tutela cautelare, oltre che per la loro atipicità, anche per il fatto che non sono predisposte al fine esclusivo di tutelare l’interesse pubblico, ma elemento centrale e determinante diviene la posizione giuridica del soggetto ricorrente, che non costituisce più, quindi, un mero presupposto processuale, necessario per richiedere una tutela cautelare ma assume un ruolo primario, posto che per la tutela di essa viene concessa la misura cautelare. Si è passati, dunque, a delle misure cautelari effettivamente rivolte a tutela della posizione giuridica soggettiva del soggetto e che, come è già stato sottolineato, possono permettere di ottenere una tutela della posizione giuridica soggettiva del ricorrente anche più ampia (e, comunque, « indipendente ») rispetto a quella ottenibile mediante la sentenza di merito. Ciò ha comportato, necessariamente, un ampliamento del contenuto della tutela cautelare, posto che al fine di rendere effettiva la tutela giurisdizionale anche in sede cautelare (57), il con(56) Secondo l’interpretazione che dell’art. 21 della legge Tar è stata data dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 1 del 30 marzo 2000. È evidente come in tal modo l’Adunanza Plenaria manifesti il suo orientamento nel senso che l’art. 21 costituisca la fonte normativa generale del potere cautelare del giudice amministrativo e che essa debba essere interpretata nel senso di attribuire al giudice qualsiasi potere cautelare, esercitatile anche in forma diverse dalla sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato, che appaia idoneo ad assicurare in via provvisoria gli effetti della decisione di accoglimento del ricorso. (57) F. CINTIOLI, L’esecuzione cautelare tra effettività della tutela e giudicato amministrativo, cit., 68, sottolinea come dato qualificante della fase cautelare fosse proprio il principio di effettività della tutela e che per la suddetta ragione i poteri del giudice cautelare sono stati cosı̀ ampliati dalla giurisprudenza (poi riconfermata dalla legge 205 del 2000) perché « non potrebbe esservi una misura cautelare degna di questo nome che non fosse suscettibile di essere attuata e che non vincolasse in concreto l’azione dell’amministrazione ». A tale proposito l’Autore evidenzia come « il primo parametro che l’interprete deve utilizzare per ricostruire il sistema di esecuzione cautelare è quello dell’effettività della tutela cautelare » e richiama ampia dottrina che si è occupata di tale aspetto: M.P. CHITI, L’effettività della tutela giurisdizionale tra riforme nazionali e influenza del diritto comunitario, in questa Rivista, 1998, 499; A. TIZZANO, La tutela dei privati nei confronti degli Stati membri dell’Unione Europea, in Foro it., 1995, V, 13;


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tenuto dell’ordinanza cautelare è divenuto tale da essere in grado di eliminare effettivamente qualsiasi inconveniente determinato dai tempi del processo, non potendo più essere limitato all’effetto di mantenere lo status quo ante, ma tramutandosi in tutto ciò che possa permettere al ricorrente di ottenere giustizia (immediata), senza che l’effettività della tutela sia di fatto resa nulla dalla durata del processo. Questa « rivoluzione » della stessa funzione dello strumento cautelare, da mezzo di conservazione ad effettivo mezzo con cui viene conseguita la tutela, è stata determinata dal fatto che ampliandosi enormemente, con l’istituzione dei tribunali amministrativi regionali, la giustizia amministrativa ed il numero di processi sottoposti alla cognizione del giudice amministrativo, si sono, conseguentemente ed in modo direttamente proporzionale (e, quasi, « esponenziale »), allungati i tempi processuali (58), finendo cosı̀ per privare di effettività la tutela giurisdizionale fornita dal giudice amministrativo, posto che la decisione perveniva in tempi sempre più lunghi; conseguentemente, proprio al fine di porre rimedio a tale inidoneità del giudizio amministrativo a fornire una tutela adeguata, si è avuto il grande sviluppo della tutela cautelare e la « rivoluzione » dei suoi contenuti (59). D.U. GALLETTA, Giustizia amministrativa italiana e diritto comunitario: problemi e prospettive di sviluppo nell’ottica di una giustizia amministrativa europea, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1999, 1003; R. CARANTA, Diritto comunitario e tutela giuridica di fronte al giudice amministrativo italiano, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2000, 81; ID., Tutela giurisdizionale(italiana, sotto l’influenza comunitaria), in Trattato di diritto amministrativo europeo, Milano, 1997, 653; M. MARESCA, Principi generali di diritto comunitario sulla disciplina del processo, in Dir. un. eur., 1997, 341. (58) Cfr. F. LUBRANO, Intervento, alla Tavola Rotonda Giustizia amministrativa: una riflessione concreta tra esigenze e prospettive, Tar del Lazio, Roma, 10 febbraio 2004, il quale evidenziava come negli anni sessanta gli studiosi e gli operatori del diritto amministrativo si lamentavano che per arrivare ad una definizione conclusiva del processo (con decisione di merito del Consiglio di Stato) ci volessero ben due anni; attualmente i tempi necessari per ottenere certezza del diritto a seguito di una decisione nel doppio grado di giudizio sono triplicati. (59) Per uno sguardo « storico » sull’evoluzione, di matrice giurisprudenziale, del giudizio cautelare amministrativo si veda ciò che negli anni ’80 osservavano al riguardo alcuni esponenti della dottrina: F.G. SCOCA, Modello tradizionale e trasformazione del processo amministrativo dopo il primo decennio di attività dei Tar, in questa Rivista, 1985, 262 ss.; BIAGI, I provvedimenti cautelari nel giudizio amministrativo, in


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Se in origine si riteneva che potesse derivare un pregiudizio dalla esecutività di un provvedimento amministrativo ritenuto illegittimo e, quindi, era stata ammessa la sospendibilità dello stesso, attualmente, avendo il nuovo art. 21 della legge Tar riconosciuto il potere cautelare del giudice nei ricorsi concernenti comportamenti inerti, il legislatore ha finito per ammettere che un pregiudizio grave ed irreparabile (e per questo idoneo a fondare il potere cautelare del giudice) possa discendere anche dalla semplice inerzia della pubblica amministrazione (60), in quanto costituisce violazione del dovere dell’amministrazione di provvedere. È chiaro che se danno possa derivare dalla mera inerzia, e quindi in relazione ad essa sia concesso al giudice amministrativo in sede cautelare il potere di porre in essere qualsiasi misura in qualche modo idonea ad evitare la formazione di tale pregiudizio, ciò deve necessariamente riconnettersi anche alle ipotesi in cui il pregiudizio derivi al ricorrente dall’emanazione, da parte della pubblica amministrativa, di atti negativi, in relazione ai quali il giudice cautelare ha, parimenti, il potere di sancire qualsiasi misura idonea a scongiurare il danno evidenziato dal ricorrente. Se cosı̀ non fosse, infatti, verrebbe ad essere seriamente pregiudicata l’effettività della tutela in tutte le ipotesi in cui la posizione giuridica soggettiva fosse stata lesa da atti negativi, in relazione all’emanazione dei quali non verrebbe concessa al ricorrente alcuna tutela cautelare per il timore, immotivato, che tale misura cautelare produca effetti irreversibili (61) che ne alterino la natura, necessariamente strumentale ed interinale. Trib. amm. reg., 1984, II, 351 ss.; CAVALLARI, La tutela cautelare nel giudizio amministrativo, in Trib. amm. reg., 1984, II, 403 ss. (60) Sull’argomento cfr.: C. CACCIAVILLANI, La tutela cautelare nei ricorsi avverso il diniego di provvedimento e l’inerzia della P.A., in questa Rivista, 2002, 91 ss. (61) Cfr. sulla « irreversibilità » degli effetti delle misure cautelari: C. CACCIAVILLANI, La tutela cautelare nei ricorsi avverso il diniego di provvedimento e l’inerzia della P.A., cit., 120 ss., che, sottolineando come non si possa ritenere superato il limite intrinseco delle misure cautelari sui dinieghi, derivante dalla strumentalità e dalla interinalità delle stesse pronunce cautelari, dalla norma, contenuta nell’art. 21 novellato, che prevede la possibilità che derivino effetti irreversibili dalla esecuzione del provvedimento cautelare, evidenzia come sia possibile distinguere, in tema di esecuzione della pronuncia cautelare sui dinieghi, fra modificazioni irreversibili che siano compatibili con la natura interinale della pronuncia e modificazioni irreversibili che non siano compatibili


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La rilevanza fondamentale e necessariamente caratterizzante della strumentalità e della interinalità della tutela cautelare sembra volere snaturare la stessa, fino ad annullarne la valenza e rendere, quindi, nulla l’effettività della tutela. Come è stato accennato in precedenza, invece, nel corso degli anni il procedimento cautelare ha assunto una valenza sua propria, cosı̀ come una certa autonomia, unita a delle caratteristiche, acquisite per via giurisprudenziale e determinate dalla necessità di assicurare effettività alla tutela giurisdizionale, ed è profondamente cambiato, nella natura e negli effetti conseguenti: da semplice mezzo di conservazione dello status quo ante, predisposto a tutela del solo interesse pubblico, a mezzo propulsivo concesso in considerazione della posizione giuridica soggettiva del richiedente (ricorrente o controinteressato che sia), da mera sospensione provvisoria a qualsiasi misura cautelare idonea ad assicurare gli effetti della decisione di merito. Tali e tanti cambiamenti non possono essere ignorati, né tradotti nel nulla al fine di con tale natura. L’Autore, infatti, evidenzia delle ipotesi in cui vengono prodotti degli effetti irreversibili ma non definitivamente irreversibili, ovvero degli effetti che, pur potendosi definire irreversibili, non sono di ostacolo alla concessione delle misure cautelari perché vengono comunque a cessare con la sentenza che rigetta il ricorso. L’esempio portato dalla Cacciavillani chiarirà meglio come e perché possa parlarsi di un « effetto irreversibile ma non definitivamente irreversibile ». Si pensi alla « ipotesi di impugnazione del diniego di svolgimento di una determinata attività, sul quale sia intervenuta una misura cautelare sostitutiva, dalla quale deriva la legittimazione allo svolgimento dell’attività: in caso di rigetto del ricorso, l’atto emanato in esecuzione dell’ordinanza viene travolto, il titolo allo svolgimento dell’attività viene meno e questa non può più essere esercitata, ma nondimeno, nelle more della definizione del giudizio, essa è stata svolta: e questo è un effetto irreversibile ». L’Autrice sottolinea come il suddetto effetto sia « irreversibile sı̀, perché quod factum est infectum fieri nequit ma non è definitivamente irreversibile se esso è suscettibile di cessare una volta che la misura cautelare sia travolta, venga meno in forza della sentenza di rigetto del ricorso ». Una distinzione, quindi, tra effetti prodotti dall’ordinanza cautelare che possano definirsi « irreversibili ma non definitivamente irreversibili » ed altri effetti, invece, « non suscettibili di cessare autonomamente con la sentenza che rigetti il ricorso » perché tali effetti determinano la modificazione della situazione di fatto. In relazione a tali ultimi effetti la Cacciavillani evidenza come la permanenza di essi anche oltre la decisione di merito, determinando una sorta di ultraviviscenza della misura cautelare, posto che non tutti gli effetti ad essa collegati cesserebbero automaticamente con la sentenza di rigetto, non possa essere sottovalutata, in quanto rappresenta « il principale ostacolo alla loro emanazione ».


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rispettare strettamente i caratteri della strumentalità ed interinalità della tutela cautelare. 6. Le attuali misure cautelari hanno, infatti, assunto un ruolo fondamentale nel processo amministrativo, dato anche che la lunga durata dei processi di merito e la necessità di aversi tutela immediata le ha rese talora indispensabili al fine di potersi definire « effettiva » la tutela giurisdizionale, posto che le decisioni nel merito pervengono con un ritardo tale da comportare di fatto, anche ove siano favorevoli, una violazione del principio di effettività della tutela. Se quindi l’originaria impostazione della tutela cautelare poteva portare ad ammettere che ruolo fondamentale e determinante fosse riconosciuto al carattere strumentale e necessariamente provvisorio della stessa, finendo per escludere tutte quelle forme di tutela che in qualche modo oltrepassassero questi caratteri, le misure cautelari intese in senso moderno non possono più essere cosı̀ « costrette » e limitate nella loro portata, pena l’effettività della tutela. L’art. 21 della legge Tar (62), infatti, pur confermando i connotati della strumentalità ed interinalità del provvedimento cautelare, ha anche affermato l’ampiezza di potere del giudice amministrativo in sede cautelare, evidenziando come questi possa adottare le misure cautelari « che appaiono, secondo le circostanze, più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso ». La norma, quindi, pur ribadendo i caratteri della necessaria coerenza effettuale del provvedimento cautelare rispetto alla decisione di merito e della interinalità dell’assetto di interessi ivi determinato, ha evidenziato insieme l’ampiezza dei poteri del giudice cautelare, ampiezza determinata innanzi tutto dal fatto che (62) Per un commento sulla disciplina della tutela cautelare dopo le modifiche introdotte dalla legge n. 205 del 21 luglio 2000 cfr.: M. CLARICH, La riforma del processo amministrativo: introduzione, in Giorn. dir. amm., 2000, 1069 ss.; A. PANZAROLA, Il processo cautelare, Il processo davanti al Giudice amministrativo, commento sistematico alla legge n. 205 del 2000, a cura di B. Sassani e R. Villata, Torino, 2001, 19 ss.; R. DEPIERO, Commento all’art. 3 l. 205 del 2000, in La Giustizia amministrativa, commenti a prima lettura coordinati da V. Italia, Milano, 2000, 32 ss.


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la semplice sospensione poteva valere nel « vecchio » processo amministrativo, volto solo all’accertamento della legittimità dell’atto amministrativo impugnato, ma non era più sufficiente nel « moderno » processo amministrativo, che ha per oggetto il rapporto intercorrente tra parte privata e parte pubblica (63) ed è volto, quindi, all’accertamento della fondatezza sostanziale della posizione giuridica soggettiva di cui è portatrice la parte privata, a cui darebbe idonea tutela. Occorre, quindi, armonizzare i caratteri della necessaria strumentalità ed interinalità della tutela cautelare con la nuova forma di tutela offerta dal giudice amministrativo: non più limitata alla cognizione della legittimità dell’atto ma rivolta all’accertamento (63) Sul contenuto del giudizio amministrativo, se trattasi ancora di un giudizio sull’atto o se sia divenuto un giudizio sul « rapporto » intercorrente fra parte privata e parte pubblica cfr.: M. ANNUNZIATA, Azioni esperibili nei confronti della pubblica amministrazione e poteri del giudice, Napoli 1970; S. CASSESE, Verso la piena giurisdizione del giudice amministrativo. Il nuovo corso della giustizia amministrativa italiana, in Giornale di dir. amm., 1999; A. DE ROBERTO, Ampliamento della giurisdizione del giudice amministrativo (artt. 33, 34 e 35 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80), in Nuova giurisdizione del giudice amministrativo, Atti del Seminario di Studi (Roma, marzo 1999), Torino 2000; A. ELEFANTE, La discriminazione della competenza fra giudice ordinario e giudice amministrativo, in Cons. St., 1970, II; M.S. GIANNINI e A. PIRAS, Giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria nei confronti della pubblica amministrazione, in Enc. dir., vol. XIX, Milano 1970, sottolineano che una tutela giurisdizionale effettiva richiede per la sua realizzazione (e per potersi, quindi, definire « effettiva ») « un’attività del giudice di sostanziale disposizione del rapporto » controverso dedotto in giudizio; A. PIRAS, Interesse legittimo e giudizio amministrativo, Milano, 1962; O. RANELLETTI, Dei confini tra legittimità e merito del provvedimento amministrativo e dei vizi dell’atto nei riguardi del sindacato giurisdizionale, in Foro amm., 1928, II, ora in Scritti giuridici scelti, vol. II, Napoli 1992; E. REGGIO D’ACI, L’intervento del potere giudiziario nell’esercizio dell’attività amministrativa, in Foro amm., 1981; A. ROMANO, Giurisdizione amministrativa e limiti alla giurisdizione ordinaria, Milano 1975; ID., I caratteri originari della giurisdizione amministrativa e la loro evoluzione, in questa Rivista, 1994; B. SASSANI, Impugnativa dell’atto e disciplina del rapporto. Contributo allo studio della tutela dichiarativa nel processo civile e amministrativo, Padova, 1989, 117 ss.; F. SATTA, Giurisdizione ordinaria, giurisdizione amministrativa, giusto ristoro, in Atti del Convegno di Napoli del 1983, Milano, 1985; ID., Giurisdizione esclusiva, in Enc. dir., VI aggiornamento, 408 e ss., Milano, 2002; ID., Giurisdizione, in Enc. dir., vol. XIX, Milano, 1970, 231, che evidenzia come il fine ultimo della tutela giurisdizionale sia la « reintegrazione del diritto » che è la massima espressione dell’ordinamento, poiché in essa « l’ordinamento si fa azione »; R. VILLATA, L’esecuzione delle decisioni del Consiglio di Stato, Milano, 1971, 405 ss.; ID., Nuove riflessioni sull’oggetto del processo amministrativo, in Studi in onore di Antonio Amorth, I, Milano, 1982, 706 ss.


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della legittimità dell’intero rapporto sottostante (64), fra parte privata e parte pubblica, e volta a dare giusta ed efficace tutela anche alla posizione giuridica della parte privata; è necessario, quindi, giungere ad una soluzione di compromesso che, senza alterare completamente le caratteristiche proprie, ed originarie, (64) Cfr. R. GAROFOLI, La tutela cautelare degli interessi negativi. Le tecniche del remand e dell’ordinanza a contenuto positivo alla luce del rinnovato quadro normativo, in questa Rivista, 2002, 893, richiama: B. MAMELI, Atto introduttivo e attività istruttoria, in Il nuovo processo amministrativo, a cura di F. CARINGELLA-M. PROTTO, Milano, 2000, e sottolinea come l’Autrice abbia osservato che il legislatore della riforma sembra confermare la qualificazione del giudizio amministrativo come giudizio sul rapporto, imponendo, con la previsione dell’obbligo di impugnare i provvedimenti adottati in pendenza del ricorso tra le stesse parti, connessi all’oggetto del ricorso stesso, mediante proposizione di motivi aggiunti, l’abbandono della concezione del giudizio amministrativo come giudizio sull’atto. Affermare il sindacato sul rapporto comporta l’ampliamento dell’oggetto non più coincidente con l’atto amministrativo impugnato, ma esteso a tutti gli atti amministrativi succedutesi nel tempo i cui effetti possono incidere nel rapporto sottostante all’atto impugnato. In quest’ottica si superano facilmente tutti gli ostacoli frapposti dalla presenza nel processo amministrativo della figura della improcedibilità per sopravvenuto difetto di interesse, quale effetto dell’emanazione di un nuovo atto amministrativo che venga a regolare il rapporto controverso, a nulla rilevando il persistere della lesione che, con il ricorso avverso l’atto originario si intendeva eliminare. Dello stesso avviso: F. CINTIOLI, L’esecuzione cautelare tra effettività della tutela e giudicato amministrativo, in questa Rivista, 2002, 61, che sostiene che la legge n. 205 del 2000 abbia segnato « il momento in cui il legislatore ha recepito le trasformazioni profonde del processo amministrativo, che ne hanno radicalmente mutato la prospettiva: da un controllo giurisdizionale sulla legittimità dell’atto, nei limiti di un giudizio meramente demolitorio in cui l’interesse pubblico restava in origine il punto di orientamento del giudice, con prevalenza sull’interesse del singolo ricorrente, ad un giudizio sul rapporto controverso, che affida al giudice la definizione di tutti gli interessi in gioco. Se ciò per un verso avvicina la giurisdizione amministrativa a quella ordinaria, per un altro verso conferisce al giudice amministrativo un ruolo ancor più penetrante sull’ordinario svolgimento dell’azione amministrativa ». Secondo l’Autore le innovazioni introdotte dalla legge n. 205 del 2000, tra cui la tutela cautelare atipica, rendono il giudice amministrativo un « interlocutore necessario per l’amministrazione », che, in ragione del rafforzamento e della più chiara definizione dei suoi poteri di intervento, diviene un « vero e proprio organo regolatore della funzione amministrativa ». Per una visione d’insieme del dibattito dai primi anni ’60 ai primi anni ’80 della concezione del giudizio amministrativo come di un giudizio « sul rapporto » cfr. oltre a R. VILLATA, L’esecuzione delle decisioni del Consiglio di Stato, cit.; M. CLARICH, Giudicato e potere amministrativo, Padova, 1989, 65 ss.; C. CONSOLO, Per un giudicato pieno e perentorio a prezzo di un procedimento amministrativo all’insegna del principio di preclusione, in questa Rivista, 1990, 174.


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della tutela cautelare non ne limiti eccessivamente l’ampiezza, rendendola di fatto inutile. Si pensi all’ipotesi di una ammissione ad una procedura concorsuale: se la misura cautelare fosse costretta, in ragione della sua necessaria strumentalità e interinalità e del « terrore » che essa possa produrre effetti irreversibili, nel suo contenuto e non si potesse, mediante essa, rientrare nel procedimento amministrativo, ordinando all’Amministrazione di correggere il suo operato e di andare avanti nel procedimento, si avrebbe di fatto una denegata tutela. Inutile e tardiva sarebbe, infatti, qualsiasi decisione di merito presa anni dopo, cosı̀ come priva di senso sarebbe una misura cautelare che si limitasse a sospendere l’efficacia del provvedimento impugnato ma non permettesse di dare effettività della tutela, ovvero di anticipare realmente gli effetti della sentenza al momento in cui venga concessa l’ordinanza cautelare, impedendo di riaprire il procedimento viziato, ed impedendo il prodursi degli effetti conseguenti allo svolgimento del concorso (quali potrebbero essere, ad esempio, lo svolgimento delle successive prove concorsuali ed anche, in caso di esito positivo, l’assunzione del ricorrente nel posto messo a concorso). Un attaccamento teorico eccessivo alle caratteristiche proprie della tutela cautelare finirebbe per sancire delle limitazioni ai poteri del giudice amministrativo in sede cautelare che sarebbero nettamente contrastanti con la realtà fattuale e con l’effettività della tutela che con tale strumento sarebbe importante assicurare (65). Naturalmente il problema che si porrà, a seguito dell’ulteriore svolgimento del giudizio e della decisione del merito del (65) Cfr. C. CALABRÒ, Inaugurazione anno giudiziario 2004 del Tar Lazio, Relazione del Presidente Corrado Calabrò, cit., 14, evidenzia come fra i principi caratterizzanti il processo amministrativo debba trovarsi la necessaria contemporaneità fra processo amministrativo e correzione dell’attività procedimentale conseguente, al fine di rendere effettiva la tutela assicurata dal giudice amministrativo. L’Autore, infatti, sottolinea come « tale sistema funziona adeguatamente solo se il giudizio amministrativo è concomitante allo svolgimento in atto dell’azione amministrativa e interagisce con essa. Sua primaria funzione, infatti, è di orientarla, correggendola in quanto occorra. E orientamento e correzione sono tanto più efficaci quanto più tempestivi: è questa l’effettività del sistema della giustizia amministrativa, il quale solo cosı̀ giustifica la ragione per cui è stato istituito, con una missione differenziata rispetto a quella del giudice ordinario. Si


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ricorso sarà se e in che limiti questa possa incidere sull’assetto di interessi determinatosi a seguito dell’esecuzione della pronuncia cautelare, problema che potrà avere soluzione diversa (pur nella identità dell’ulteriore svolgimento procedurale) a seconda del diverso contenuto del provvedimento impugnato e quindi della sua diversa incidenza sullo svolgimento ulteriore del procedimento che è stato « riaperto » dalla procedura concorsuale: evidentemente, infatti, se la mancata ammissione alla procedura concorsuale era stata determinata dall’accertamento della inidoneità del titolo posseduto dal ricorrente per la partecipazione alla procedura stessa, la misura cautelare, pur con effetto sull’ulteriore attività della pubblica Amministrazione, avrà sempre un carattere meramente « conservativo » essendo tesa ad impedire che si concretizzi l’effetto lesivo conseguente alla mancata ammissione alla procedura, ma, una volta che il provvedimento originario venga ritenuto legittimo a seguito della decisione di merito, gli effetti prodottisi a seguito dell’esecuzione dell’ordinanza cautelare dovranno essere necessariamente eliminati; ma ove, invece, alla base del provvedimento di non ammissione ci sia un fatto « valutativo » della personalità del candidato che debba poi formare oggetto di valutazione in sede concorsuale, non c’è dubbio che la valutazione positiva, espressa nella sede propria della procedura concorsuale a seguito dell’esecuzione dell’ordinanza cautelare, possa avere un rilievo in ordine al giudizio concernente la legittimità del provvedimento di non ammissione posto che il giudizio di merito del ricorso non può essere tale da portare ad un esito « sostanziale » della questione direttamente contrastante con la valutazione posta in essere dalla stessa Amministrazione in sede di esecuzione dell’ordinanza cautelare. Applicando tale considerazione ad un caso quale quello in esame si può dire che un’eccessiva preoccupazione circa la definitività degli effetti conseguibili mediante la tutela cautelare finirebbe per privare la stessa di ogni valenza pratica. Nel caso di specie, infatti, il Tar Calabria, valutata ai soli fini del giudizio tratta di una differenziazione qualitativa, categoriale, riconosciuta a livello costituzionale, con riflessi sullo stesso principio della separazione dei poteri ».


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cautelare il proposto ricorso avverso la non ammissione agli orali di avvocato, con misura cautelare ha ordinato che venisse rinnovato il giudizio impugnato integrandone la motivazione. Se si volesse dare applicazione restrittiva ai caratteri di strumentalità ed interinalità della tutela cautelare una misura siffatta non dovrebbe ritenersi ammissibile, posto che è idonea a determinare il verificarsi di effetti che vanno oltre la stretta strumentalità alla misura cautelare e che, in quel continuum esistente tra procedimento e processo (66), sono determinati dalla riapertura del procedimento avutasi per via cautelare. Effetti, dunque, in parte indipendenti dalla stessa misura cautelare — perché determinati dall’agire della pubblica amministrazione e non direttamente derivanti da un ordine impartito dal giudice in sede cautelare — in parte autonomi rispetto alla stessa decisione di merito — in quanto presentano un carattere « valutativo » nuovo che si sostituisce a quella precedente oggetto del ricorso —, determinando cosı̀ una situazione nella quale non si possono confondere gli effetti derivanti direttamente dalla misura cautelare da quelli che derivano dalle ulteriori fasi procedimentali dello stesso procedimento conseguenti alla sua « riapertura » disposta in sede cautelare. 7. L’ordinanza del Tar Calabria, che ha dato origine al giudizio cautelare conclusosi con l’ordinanza ivi annotata, aveva ritenuto il ricorso « ad un primo esame fondato sotto il profilo del difetto di motivazione », l’aveva accolto ed aveva, conseguentemente, ordinato la « rinnovazione del giudizio impugnato da parte di diversa sottocommissione e con adeguata motivazione da effettuarsi entro sessanta giorni dalla notificazione della presente ordinanza a cura di parte ». La misura cautelare utilizzata nel caso di specie, quindi, non si era limitata a sancire la sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato ma, in applicazione dei più ampi poteri riconosciuti al giudice amministrativo in sede cautelare dalla giuri(66) Cfr. M. NIGRO, Giustizia amministrativa, Bologna, 1983, 306, afferma che « ... Il processo amministrativo si trova inevitabilmente ad essere inserito nel flusso dell’attività amministrativa, a porsi come un momento intermedio fra l’esercizio passato e l’esercizio futuro della potestà ».


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sprudenza prima e dallo stesso legislatore poi, aveva ordinato la riapertura del procedimento amministrativo. L’Amministrazione, in ottemperanza a quanto sancito dal giudice amministrativo, aveva ricorretto gli elaborati del ricorrente, riaprendo il procedimento amministrativo e giungendo ad un esito differente: in seguito alla nuova correzione il candidato era risultato idoneo ed è stato ammesso a svolgere le prove orali dell’esame di abilitazione (67). Gli effetti sinora esaminati — sospensione dell’esecuzione del provvedimento di esclusione e rinnovazione della fase procedimentale ritenuta illegittima — sono indubbiamente effetti diretti dell’ordinanza cautelare: se si applicasse rigorosamente il criterio della strumentalità della misura cautelare rispetto alla decisione nel merito del ricorso ed alla tutela della posizione giuridica soggettiva del ricorrente, potrebbe sembrare corretto (in quanto necessariamente conseguente) affermare che essi siano destinati ad essere caducati ove questa decisione venga riformata, in sede di (67) Cfr. C. CALABRÒ, Inaugurazione anno giudiziario 2004 del Tar Lazio, Relazione del Presidente Corrado Calabrò, cit., 15 ss., analizza i casi in cui, in sede d’impugnazione di prove abilitanti o concorsuali (esami di avvocato, come nel caso di specie, o concorsi per notaio o per uditore giudiziario), il giudice amministrativo, ove accolga l’istanza cautelare, adotta un provvedimento propulsivo ordinando alla stessa Commissione esaminatrice (in diversa composizione e con accorgimenti idonei a salvaguardare l’anonimato) di riesaminare le prove dei ricorrenti. L’Autore evidenzia le apparenti incongruenze della situazione che si determina in tali casi e le spiega; evidenzia, infatti, come l’esito del processo di impugnazione possa apparire singolare, poiché è lo stesso sia che il candidato venga ammesso agli orali sia nell’ipotesi opposta e consiste nella dichiarazione del sopravvenuto difetto d’interesse. Nel primo caso perché, attraverso una nuova valutazione dell’Amministrazione, il ricorrente ha conseguito il risultato cui praticamente tendeva; nel secondo perché c’è una nuova valutazione sfavorevole che sostituisce la prima, non potendo essere considerata meramente confermativa. Ma anche per l’Amministrazione deve ritenersi che normalmente sia venuto meno l’interesse alla prosecuzione del processo. L’Autore sottolinea come evidentemente questo risultato non possa essere raggiunto con la semplice proposizione del ricorso, posto che affinché il giudice in sede cautelare possa ordinare la verificazione/ricorrezione degli elaborati è necessario « che siano addotti elementi e/o argomenti che facciano dubitare seriamente della legittimità dell’operato dell’Amministrazione ». L’Autore evidenzia anche come, di fatto, questo esito del processo di merito sia necessitato, poiché una volta che la rivalutazione sia stata effettuata, la vicenda processuale non può non tenere conto di tale evoluzione della vicenda sostanziale.


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appello cautelare o definitivamente con la decisione nel merito del giudizio. Ciò non toglie che all’interno della « categoria » contenente gli atti posti in essere dalla Pubblica Amministrazione in adempimento di una ordinanza cautelare è necessario effettuare delle distinzioni relativamente all’oggetto di questi atti ed alla natura di essi (68), in relazione alle quali vedremo diversamente atteggiarsi la Pubblica Amministrazione e le parti coinvolte, potendo cosı̀ distinguere le ipotesi nelle quali la caducazione sia conseguenza necessaria ed imprescindibile da quelle in cui l’esito del giudizio di merito non possa avere un’incidenza per cosı̀ dire « automatica » sull’efficacia degli atti procedimentali posti in essere in seguito ad essa. Come già chiarito, infatti, mediante l’ordinanza cautelare il giudice amministrativo può ordinare la riapertura del procedimento amministrativo che era stato viziato dall’atto illegittimo impugnato e sospeso. La efficacia e la natura di tali « nuovi atti procedimentali » posti in essere in esecuzione dell’ordinanza propulsiva non è sempre la medesima ma occorre distinguere tra le diverse ipotesi possibili, perché in relazione alla natura degli atti posti in essere in seguito ad ordinanze sospensive si potranno evidenziare differenti conseguenze (69). Come si è accennato, in precedenza, quindi, necessariamente dovranno ricondursi effetti di(68) Circa la natura degli atti posti in essere dall’Amministrazione in seguito ad un provvedimento del giudice amministrativo cfr. M. ANDREIS, L’attività successiva alla sentenza di annullamento tra acquiescenza e principio di assorbimento, in questa Rivista, 2003, 1201 ss., che evidenzia l’irrilevanza della qualificazione dei propri atti da parte dell’amministrazione e sottolinea come sia rilevante esclusivamente ciò che in concreto tali atti predispongono, per identificarne correttamente la natura. A tal fine l’Autore evidenzia l’esistenza di una giurisprudenza cosı̀ orientata: da ultimo Cons. Stato, Ad. plen., 27 febbraio 2003, n. 3, annotata nell’articolo cui si riferisce, cui si aggiungono anche Cons. Stato, Sez. V, 15 gennaio 1982, in Cons. Stato, 1982, I, 24, Tar Sicilia, Catania, Sez. I, 21 giugno 1990, n. 476, in Giur. amm. sic., 1990, 422. (69) Cfr. M. ANDREIS, L’attività successiva alla sentenza di annullamento tra acquiescenza e principio di assorbimento, cit., 1202, che analizza la relazione fra processo e procedimento definendola una relazione ad « andamento circolare » in quanto « il processo incide sul procedimento in quanto la decisione del giudice amministrativo spesso impone una successiva attività da parte dell’amministrazione » e sottolinea, quindi, i diversi modi in cui può atteggiarsi l’attività dell’amministrazione in relazione alla decisione del giudice amministrativo, distinguendo fra le ipotesi in cui « detta atti-


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versi a quell’ordinanza che sospende l’esecuzione di un provvedimento di non ammissione ad un concorso che era stata determinata dalla mancanza di un titolo necessario e l’ordinanza che sospende un provvedimento altrimenti incidente sulla partecipazione del soggetto al concorso in quanto emanato per una diversa ragione, ad esempio per una valutazione negativa delle prove svolte: poiché diversi saranno gli effetti della sentenza di merito e le conseguenze ove essa sia di rigetto e quindi non confermi il contenuto dell’ordinanza. 7.1. Nel primo caso infatti, la decisione di merito che sancisce definitivamente la legittimità della non ammissione di un soggetto alle prove concorsuali accertando in via definitiva che il ricorrente non era in possesso del titolo richiesto, determinerà, necessariamente, la caducazione dell’atto di ammissione con riserva e travolgerà cosi tutti gli atti procedimentali conseguenti, relativamente al quale l’ammissione con riserva ha avuto valore di atto di presupposto (70). 7.2.

Nel secondo caso invece, una decisione di merito che

vità può rimanere in uno stato di dipendenza rispetto al processo (in quanto soggetta ad essere travolta in caso di riforma della decisione di primo grado o di decisione nel merito difforme rispetto alla misura cautelare) » ed altre ipotesi in cui, invece, l’attività posta in essere dalla pubblica amministrazione possa « configurarsi come autonomo riesercizio del potere e, in tal caso, per cosı̀ dire chiudere il cerchio, determinando il superamento delle condizioni che avevano consentito il radicamento del processo ». (70) Tra i vari esempi giurisprudenziali possibili a sostegno di tale tesi cfr., ad esempio, Tar Sardegna, 4 marzo 2003, n. 256, in www.giustizia-amministrativa.it, relativa ad una fattispecie di concorso a posti di referendario della Corte dei Conti, in relazione al quale il ricorrente che non aveva conseguito in sede di valutazione dei titoli sulle « doti di capacità e rendimento » il punteggio minimo e, dunque, era stato escluso dal concorso, essendo stato ammesso con riserva allo stesso ed avendo superato le prove concorsuali, aveva invocato il principio dell’assorbimento, chiedendo fosse dichiarata la sopravvenuta carenza di interesse al ricorso. In tale fattispecie il Tar Sardegna aveva respinto la suddetta richiesta di improcedibilità, motivando in base al fatto che la procedura concorsuale per titoli ed esami « si articola in due fasi distinte, l’una prodromica all’altra, per le quali devono, entrambe, di necessità concludersi positivamente in quanto relative ad accertamenti aventi oggetto diverso. Nella prima vengono apprezzate le doti di capacità e rendimento del candidato sulla base dell’attività professionale o di studio svolta e dei titoli culturali acquisiti. Nella seconda costituisce oggetto di valutazione il bagaglio tecnico-pratico posseduto dal candidato nelle materie d’esame ». Impossibilità, dunque, di ritenere assorbito il primo giudizio in ragione dell’esito


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rigetti l’impugnativa non potrà travolgere gli atti procedimentali conseguenti all’ordinanza cautelare che ha disposto la rinnovazione della valutazione. Una valutazione di merito, infatti, non avrebbe ragione d’essere in quanto il nuovo giudizio, pur effettuato dalla Pubblica Amministrazione in adempimento di un’ordinanza, acquista una forza sua propria ed è indipendente dalle ragioni che lo hanno provocato, posto che il nuovo atto valutativo diviene esso stesso atto procedimentale che si sostituisce al precedente e che, quindi, produce i suoi effetti indipendentemente dall’esito del processo che ne ha determinato l’esecuzione: ciò che rileva, infatti, non è cosa abbia determinato questo nuovo giudizio (se un provvedimento di autotutela e un’ordinanza di sospensione) ma il contenuto innovativo dello stesso che necessariamente si sostituisce all’attività precedentemente posta in essere dalla Pubblica Amministrazione (71). Non sarebbe, dunque, corretto affermare la caducazione di tutti gli atti procedimentali conpositivo del secondo, dunque, in tutte le ipotesi in cui i due atti costituiscano presupposti autonomi ed entrambi necessari ai fini dell’esito finale del procedimento. (71) La sussistenza di un nuovo giudizio che si sostituisce a quello precedente si può avere in due ipotesi tra loro differenti: la prima è quella del caso ivi analizzato, ovvero una nuova valutazione dell’elaborato in precedenza erroneamente ed illegittimamente giudicato, la seconda è quella « classica » del superamento dell’esame di maturità a seguito di una ammissione con riserva. Nella prima ipotesi la Commissione effettua una nuova valutazione dell’elaborato che, necessariamente, va a sostituirsi a quella precedentemente effettuata, quale che ne sia il contenuto (ovvero anche se la nuova valutazione sia comunque negativa e tale giudizio sfavorevole sia accompagnato da valutazioni molto più ampie e lesive del precedente), in quanto atto nuovo, con un proprio contenuto favorevole al ricorrente o autonomamente lesivo della posizione giuridica dell’originario ricorrente che esprime una scelta discrezionale della pubblica amministrazione. L’ipotesi del superamento dell’esame di maturità in seguito ad un’ammissione con riserva allo stesso è stata risolta dalla giurisprudenza maggioritaria in modo favorevole all’esaminato che abbia superato l’esame, in ragione del fatto che è stato attribuito rilievo determinante all’esito delle prove di esame, nei confronti delle quali il pregresso curriculum di studio e con esso il giudizio di ammissione sono stati ritenuti meri strumenti sussidiari, da tener presente solo nei limiti in cui essi, secondo la Commissione esaminatrice, siano idonei a compensare alcune incertezze o deficienze delle prove stesse, posto che sussistono differenze qualitative e quantitative tali fra il giudizio di ammissione e quello di maturità che il primo è stato ritenuto un minus rispetto al secondo. Fra tale giurisprudenza maggioritaria si ricorda: Cons. Stato, Sez. VI, 25 novembre 1994, n. 1699, in Cons. Stato, 1994, I, 1638; Cons. Stato, Sez. II, 28 giugno 1995,


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seguenti ad un’ordinanza il cui contenuto sia stato travolto della decisione di merito, in quanto è necessario distinguere all’interno di tale categoria — atti procedimentale successivi ad un’ordinanza propulsiva — fra quegli atti che hanno un contenuto strettamente dipendente dall’ordinanza che li ha « provocati » e che quindi sono necessariamente provvisori, e quegli atti, invece che, pur essendo successivi alla ordinanza cautelare, hanno una portata ulteriore e rispetto ai quali l’ordinanza è stata solo uno stimolo a porli in essere ma non è in grado di influenzarne la validità o l’efficacia, posto che essi concernono una attività discrezionale della Pubblica Amministrazione del tutto autonoma da essa ed i cui efn. 1484/94, in Cons. Stato, 1997, I 1763; Cons. Stato, Sez. II, 25 ottobre 1995, n. 2292/ 94, in Cons. Stato, 1997, I, 1295; Cons. Stato, Sez. VI, 7 dicembre 1994, n. 1740, in Cons. Stato, 1994, I, 1799; Cons. Stato, Sez. Vi, 18 marzo 1994, n. 393, in Cons. Stato, 1994, I, 465; Tar Toscana, Sez. I, 9 settembre 1996, n. 662, in Toscana giur., 1996, 1257; Tar Campania, Sez. IV, 26 aprile 1996, n. 292, in Trib. amm. reg., 1996, I. 2665; Tar Sicilia, Sez. Catania, 23 marzo 1995, n. 771, in Giur. amm. sic., 1995, 373, sostanzialmente motivate in base al fatto che l’esame di maturità si pone come circostanza esterna e sopravvenuta rispetto al giudizio di non ammissione, che sostituisce a tutti gli effetti ed in ogni sua parte, con la conseguenza che nessun vantaggio deriverebbe dall’eventuale annullamento del giudizio di ammissione, quando rimane fermo quello di maturità. Tale scelta giurisprudenziale è stata determinata dall’applicazione del criterio dell’assorbimento, in base al quale l’esito della prova successiva ricomprendeva e superava il giudizio precedentemente espresso; in pratica il superamento dell’esame di maturità dimostrava l’illegittimità della valutazione precedente di non ammissione. Tale giurisprudenza risulta ormai per cosı̀ dire « superata » in quanto nel nuovo ordinamento il giudizio di ammissione agli esami di stato non è più richiesto, eccezion fatta per i candidati esterni che non risultino in possesso della promozione all’ultimo anno di scuola (legge 10 dicembre 1997, n. 425). Contra la giurisprudenza minoritaria che riteneva che il giudizio di ammissione non fosse un minus rispetto al giudizio di maturità e quindi comunque permane l’interesse alla decisione di merito sul provvedimento di non ammissione, cfr.: T.R.G.A. Trentino Alto Adige, Trento, 17 gennaio 1991, n. 29, in Trib. amm. reg., 1991, I, 981, il quale osserva che « permane l’interesse all’annullamento del giudizio di non ammissione agli esami di maturità da parte del soggetto che successivamente li abbia superati a seguito dell’ammissione con riserva disposta in via cautelare dal giudice adito, e ciò in quanto il giudizio di ammissione ha natura diversa da quello di maturità non solo perché emesso da organo diverso ma anche perché è fondato sulla valutazione del curriculum degli studi, sulla frequenza e sul profitto scolastico in tutte le materie dell’ultimo anno, laddove il giudizio di maturità è riferito al solo risultato delle prove d’esame », dello stesso avviso anche Cons. Stato, Sez. VI, 11 luglio 1994, n. 1154, in Cons. Stato, 1994, 1, 1106.


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fetti persistono indipendentemente ed oltre l’ordinanza cautelare. Esempio tipico di questi atti è, come si è visto, l’attività di rivalutazione di un determinato atto, ovvero tutte quelle attività nelle quali l’Amministrazione risulti essere stata sollecitata a riesercitare un proprio potere discrezionale, in ragione del fatto che il precedente esercizio dello stesso potere discrezionale sembrerebbe essere stato esercitato in modo illegittimo: le risultanti di tale attività permangono comunque e prescindono da quale sia stata la causa che ha determinato tale attività valutativa, proprio perché costituiscono l’esito di una attività discrezionale legittimamente effettuata dalla Pubblica Amministrazione (72). In questo (72) Cfr. C. CALABRÒ, Inaugurazione anno giudiziario 2004 del Tar Lazio, Relazione del Presidente Corrado Calabrò, cit., 16-17, spiega e giustifica il perché l’esito del processo debba essere necessariamente l’affermazione del sopravvenuto difetto di interesse, ed evidenzia come l’ordinanza cautelare non porti « a un esito del ricorso diverso da quello determinabile con la sentenza: o le censure sono fondate e allora il ricorso va accolto o non lo sono e allora va respinto ». È evidente che il problema di fondo rimane come conciliare questa situazione con un esito del processo di merito che potrebbe essere opposto a quello cautelare e potrebbe, quindi, come sostenuto nell’ordinanza ivi annotata, travolgere gli atti procedimentali conseguenti, determinandone la caducazione. A tale ipotesi l’Autore contrappone delle valutazioni di fatto, dalle quali emerge la spiegazione del perché ciò non potrebbe e non dovrebbe legittimamente accadere, ovvero egli evidenzia come nelle loro pronunzie i giudici del Tar abbiano sempre « ritenuto che anche un’attività amministrativa indotta da un’ordinanza propulsiva possa interagire col processo in corso se ha portato a una valutazione non spontanea sı̀ ma tuttavia autonoma, non essendo stata la rivalutazione predeterminata dal giudice nei suoi contenuti e nel suo esito ». Infatti, come ivi evidenziato, « le censure deducibili col ricorso sono in effetti solo sintomatiche e strumentali » e se il giudice amministrativo « non può ricorreggere il compito (come in sostanza vorrebbe il ricorrente) » comunque « può farlo correggere nuovamente dall’Amministrazione (o da un consulente tecnico ». Ora premesso che su impulso dell’ordinanza cautelare è la stessa pubblica amministrazione ad aver effettuato la ricorrezione se all’esito di tale ricorrezione si desse nessun valore, perché ritenuta attività meramente strumentale i cui effetti non possono divenire definitivi ma devono necessariamente essere travolti, cadutati a seguito di decisione di merito successiva « perché dunque sarebbe stata disposta? » A ciò si aggiunga che il giudice amministrativo è un giudice che sta divenendo « sempre più attento al fatto » e che la consulenza tecnica d’ufficio mira « a superare la barriera che impediva di ficcare lo sguardo nella discrezionalità tecnica ». In conclusione l’Autore sottolinea come se per assicurare l’effettività della tutela offerta dal giudice amministrativo è necessario che questi possa interagire con l’attività dell’Amministrazione non si possa tradurre nel nulla l’attività svolta dall’Amministrazione in seguito ad un « ordine » del giudice amministrativo; il suddetto ragionamento


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quadro ricostruttivo potrebbero anche rientrare come appartenenti alla seconda categoria le ipotesi in cui, pur non sussistendo una perfetta corrispondenza tra le due valutazioni poste in essere dall’Amministrazione, la prima (quella negativa) abbia un carattere preliminare rispetto alla seconda (in ipotesi positiva) e sia destinata ad essere da questa superata nell’ulteriore svolgimento del procedimento: a questa ipotesi si è fatto riferimento in passato per il giudizio si ammissione agli esami di stato e potrebbe attualmente farsi riferimento per il giudizio (negativo) circa l’esito della prova di prequalificazione informatica rispetto alla partecipazione al concorso poi superato a seguito della disposta ammissione con riserva (73). 8.

Oltre alla suddetta distinzione deve, però, necessaria-

porta quindi anche ad « ammettere che il gioco processuale e l’interazione tra le pronunzie interinali del giudice e l’azione amministrativa possono portare anche a esiti diversi da quelli che — senza l’interazione — sarebbero conseguiti dalla sentenza definitiva », conseguenza che seppure costituisce un « salto non ... piccolo » comunque non è cosı̀ insormontabile posto che « ostacoli normativi e concettuali ben maggiori (addirittura di livello costituzionale: il principio della separazione dei poteri) sono stati affrontati e superati dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato quando ha introdotto e sviluppato in tutte le sue potenzialità il giudizio di ottemperanza al giudicato ». (73) Cfr. M. ANDREIS, L’attività successiva alla sentenza di annullamento tra acquiescenza e principio di assorbimento, cit., 1234, evidenzia l’impossibilità di legittimamente rinnovare la prova preselettiva preliminare ai concorsi pubblici, « sia pure in forma emendate dai vizi denunciati, quando il superamento degli esami previsti abbia fornito la prova inconfutabile che il candidato disponeva della preparazione necessaria ». L’Autore arriva alla suddetta conclusione basandosi sul presupposto che « l’oggetto dell’accertamento delle prove preliminari sia completamente sovrapponibile a quello delle successive e più analitiche prove scritte ed orali » per cui, in ragione del principio della continenza, l’esito delle prove preselettive debba ritenersi « assorbito » da quello delle successive prove concorsuali. A sostegno di tale tesi l’autore richiama anche alcuna giurisprudenza del Consiglio di Stato, ovvero: Cons. Stato, Sez. IV, 11 aprile 2001, n. 2190, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Lazio, Sez. I, 21 novembre 2000, n. 9850, in Giust. civ., 2001, I, 1429, con nota di G. CASSANO, Concorso notarile: una sentenza senza parte soccombente, il quale rileva che « la tesi non viene scalfita neppure dalla considerazione che gli esami sono stati sostenuti in esecuzione di ordinanza di sospensione del provvedimento impugnato. Ed infatti il giudizio favorevole riportato nelle prove di esame costituisce un fatto nuovo, un nuovo valore giuridico entrato nel patrimonio del ricorrente, capace di produrre autonomamente gli effetti che la legge ad esso ricollega, e che l’eventuale annullamento della prova in sede di esame del merito, non potrebbe comunque travolgere ».


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mente farsi una differenziazione aggiuntiva tra i suddetti effetti, conseguenti alla misura cautelare, e l’attività ulteriore posta in essere dalla Amministrazione nell’esercizio della propria discrezionalità, che non costituisce adempimento dell’ordinanza cautelare e che si pone rispetto a questa in posizione del tutto autonoma ed indipendente (74). Nel caso di specie questa attività ulteriore si è concretizzata nello svolgimento degli orali: in nessun modo, infatti, è dato di evincere dall’ordinanza del Tar Calabria un ordine che riguardi lo svolgimento delle prove orali, che sono, invece, state effettuate dalla stessa Commissione esaminatrice nell’esercizio dei propri poteri discrezionali. È evidente, dunque, che data la piena autonomia dei provvedimenti suddetti rispetto a quanto sancito con ordinanza cautelare essi « vivono di vita autonoma », non subiscono le sorti del provvedimento cautelare, perché non dipendono da esso, e, ove lesivi, devono essere autonomamente impugnati, per(74) Cfr. M. ANDREIS, L’attività successiva alla sentenza di annullamento tra acquiescenza e principio di assorbimento, cit., attraverso l’analisi della decisione dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, n. 3 del 27 febbraio 2003, fissa dei punti fermi nel tema del rapporto tra processo e procedimento amministrativo, cercando di ricostruire quale sia la natura ed i limiti di efficacia dell’attività dell’amministrazione successiva alla pronuncia del giudice amministrativo. L’Autore ritiene, infatti, che la pronuncia del giudice amministrativo costituisca semplicemente un elemento che si inserisce nella catena causale, posto che l’esito della riapertura del procedimento dipende da una serie di variabili, fra le quali nei procedimenti di selezione una variabile, di carattere preponderante, è la capacità del privato che viene riammesso in competizione (mediante l’ammissione con riserva). Ciò che rileva è il modo in cui si orienta il successivo percorso procedimentale: se esso, infatti, si orienta in modo deviante rispetto al percorso iniziale questo finisce per influire sul processo nel senso di rendere inutile la decisione. Questo fenomeno assume un rilievo particolare nell’ipotesi in cui, come nel caso di specie, la successiva attività procedimentale abbia un esito favorevole per il ricorrente (es. il superamento delle prove per chi era stato ammesso con riserva). Infatti ammettere che lo svolgimento del procedimento possa rendere inattuale la definizione del giudizio significa di fatto assumere sia la possibilità che il riesercizio del potere amministrativo determini effetti irreversibili, sia che il processo diventa incapace di stabilire la regola da applicare, ovvero diviene inutile prima ancora di arrivare alla sua conclusione: la decisione nel merito. Di fondamentale importanza diviene, quindi, stabilire quando il comportamento successivo della pubblica amministrazione dia luogo ad una vicenda procedimentale autonoma rispetto a quella originaria (e quindi idonea a determinare effetti suoi propri ed irreversibili).


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ché hanno un’efficacia ulteriore e differente rispetto a quella degli atti originariamente impugnati ed in relazione ai quali è stata emanata la misura cautelare. Trasponendo ciò al caso di specie si rifletta sul fatto che, senza dubbio alcuno, ove la attività procedimentale autonomamente posta in essere dalla Amministrazione (= lo svolgimento delle prove orali) avesse avuto un esito negativo, il provvedimento conclusivo di tale attività avrebbe dovuto essere impugnato nel termine di decadenza, in quanto autonomamente lesivo della sfera giuridica del suo destinatario. Non si potrebbe, infatti, prescindere da questa autonoma impugnazione del provvedimento, anche perché, se si ammettesse la possibilità di avere un esame giudiziale dello stesso ben oltre i termini processuali di decadenza, ciò verrebbe a contrastare con i principi di accelerazione e concentrazione processuale e con la stessa certezza del diritto, che verrebbe a scomparire ove si potesse esaminare la legittimità di un provvedimento senza un’apposita impugnazione dello stesso e ben oltre i termini perentori sanciti dalla legge (75). Anche nei limiti in cui per i provvedimenti che l’Amministrazione abbia adottato al fine specifico di dare esecuzione all’ordinanza stessa può avvenire che essi subiscano le sorti della decisione di merito, finendo per essere consolidati, ove il ricorso ve(75) Cfr. al riguardo: F. CINTIOLI, L’esecuzione cautelare tra effettività della tutela e giudicato amministrativo, cit., 86, che con riferimento ai nuovi atti emanati dall’Amministrazione nell’esercizio della propria discrezionalità ed in un momento successivo a quello in cui è stata emanata l’ordinanza cautelare cui sono connessi (pur se indipendenti da essa) afferma che essi « parrebbe siano solo eventualmente annullabili: essi devono essere impugnati nel termine di decadenza e potranno essere esaminati dal giudice davanti al quale pende la causa nell’ambito di un giudizio che risulterà la naturale prosecuzione del processo cautelare ». Cintioli ritiene che la suddetta conclusione sia, infatti, « coerente con i principi di concentrazione ed accelerazione processuale, che sarebbero messi in pericolo se si ammettesse l’esame giudiziale del nuovo provvedimento, considerato nullo perché elusivo dell’ordinanza cautelare, ben oltre il decorso del termine di decadenza ». L’Autore evidenzia anche come l’onere di rispettare il termine decadenziale di impugnazione per i suddetti provvedimenti sia comunque « compensato dai benefici della semplificazione, che consente al ricorrente di impugnare il nuovo provvedimento mediante proposizione di motivi aggiunti: in modo che anche questo aspetto della controversia viene attratto in un rapporto processuale unitario, destinato a chiudersi con la pronuncia di un’unica sentenza ».


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nisse accolto, e travolti ove, invece, venisse rigettato (76), diversa è senz’altro la posizione degli atti che l’Amministrazione abbia posto in essere successivamente alla decisione cautelare ma non al fine di adempiere a quanto ivi sancito ma nell’esercizio del proprio potere discrezionale. Nulla esclude, infatti, che l’Amministrazione, anche perché sollecitata dalla proposizione del ricorso avverso un suo atto procedimentale e dalla ordinanza propulsiva rivoltale dal giudice amministrativo in sede cautelare, rivaluti e corregga il proprio operato, adottando dei nuovi provvedimenti. È evidente che ove questi nuovi provvedimenti siano nuovamente lesivi della posizione giuridica dell’originario ricorrente su questi graverà l’onere di autonoma impugnazione degli stessi; ove, invece, l’Amministrazione abbia rivisto il proprio operato in senso favorevole per il ricorrente e pienamente soddisfattivo per costui, ponendo in essere delle attività e/o adottando degli atti in precedenza ingiustamente negati, e lo abbia fatto nel pieno e consapevole esercizio del proprio potere discrezionale, non vi è dubbio che il giudizio originario sia destinato ad estinguersi per sopravvenuta carenza di interesse, (salvo in caso in cui l’originaria controparte non impugni, nei termini, i nuovi atti mediante motivi aggiunti). In tale ultima ipotesi sarà, dunque, l’operato dell’Amministrazione a travolgere il ricorso e tutti gli atti processuali conseguenti, e non l’opposto, (ovvero le successive decisioni processuali a travolgere l’operato successivo della pubblica amministrazione). Le decisioni processuali successive, quindi, possono avere astrattamente l’idoneità a travolgere ed assorbire tutti gli atti posti in essere in esecuzione delle misure cautelari (77), (salvo naturalmente la rilevanza del carattere « valutativo » e sostitutivo (76) Cfr.: Tar Campania, Napoli, Sez. I, 25 gennaio 1993, n. 17, in Foro amm., 1993, fasc. n. 10, ove viene precisato che: « l’esecuzione, da parte dell’amministrazione, della tutela cautelare ordinata in sede giurisdizionale, non produce la cessazione della materia del contendere; la sorte degli effetti precari derivati dall’ordinanza di sospensiva, infatti, è strettamente legata all’esito conclusivo del giudizio, sicché gli atti doverosamente adottati in dipendenza di essa sono destinati ad essere consolidati, se e quando il ricorso dovesse essere accolto, ovvero, in mancanza, ad essere travolti ». (77) In realtà è opportuno distinguere, caso per caso, quando l’attività posta in essere dalla P.A. sia in adempimento di una pronuncia del giudice (di merito o cautelare


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del nuovo provvedimento rispetto al precedente) ma al contempo gli atti procedimentali ed i provvedimenti posti in essere dall’Amministrazione successivamente all’ordinanza cautelare nell’esercizio della propria discrezionalità e dei propri poteri di autotutela, ove non impugnati tempestivamente, determinano necessariamente l’estinzione del giudizio originario per sopravvenuta carenza di interesse, posto che vanno a sostituirsi all’originario atto impugnato, superandone il contenuto e gli effetti (78). 9. Nel quadro procedentemente delineato deve valutarsi la decisione annotata, che, accogliendo l’appello avverso l’ordinanza cautelare, ha conseguentemente ordinato la « caducazione di tutti gli atti adottati a seguito della predetta ordinanza ». Da un lato, infatti, si pone il problema del carattere « valutativo » del nuovo atto posto in essere dalla Commissione giudicatrice e come tale sostitutivo della precedente valutazione, posto che evidentemente non si può essere allo stesso tempo idoneo o che sia) e quando, invece, tale attività, pur indirettamente conseguente ad una pronuncia del giudice amministrativo, non possa ritenersi esecuzione di essa. La suddetta distinzione è evidenziata da: F. LUBRANO, Il giudizio di esecuzione delle decisioni amministrative, Roma, 1992, 154 ss., che inquadra « come forma anomala di esecuzione l’ipotesi in cui l’attività della pubblica amministrazione, pur indirettamente conseguente ad una pronuncia del giudice amministrativo, non possa intendersi in senso stretto come di esecuzione della decisione stessa ma costituisca esercizio dello stesso (o di altro) potere che si rende in un determinato momento necessario in conseguenza dell’intervento demolitorio di una decisione di annullamento: ciò avviene soprattutto nella ipotesi in cui l’effetto dell’annullamento abbia conseguenze direttamente rilevanti solo per il passato, nel senso di eliminare un effetto giuridico già prodottosi, senza però comportare un onere di « ripristino » della stessa situazione con riferimento al passato ma solo un intervento di nuovo attivo dell’amministrazione in funzione di un risultato nuovo da realizzare per il futuro ». (78) Cfr. R. GAROFOLI, La tutela cautelare degli interessi negativi. Le tecniche del remand e dell’ordinanza a contenuto positivo alla luce del rinnovato quadro normativo, cit., 889, che sottolinea « la necessità di verificare in concreto che il nuovo provvedimento pienamente satisfattorio sia stato effettivamente adottato dall’Amministrazione non già in esecuzione della cautela, ma con la acquisita consapevolezza di ovviare all’illegittimità commessa e di riesercitare, dunque, ex novo ed autonomamente il proprio potere » e precisa come « la sopravvenuta inutilità della decisione di merito non è riconducibile alla tecnica cautelare utilizzata dal giudice amministrativo, ma all’esercizio, con effetti di piena soddisfazione dell’interesse del ricorrente, di un’attività di autotutela sempre spettante all’amministrazione ».


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non idoneo e che non può ripristinarsi la precedente valutazione in contrasto con quella successiva del resto più completa nella sua forma; ma d’altro canto si deve considerare l’ulteriore autonomo svolgimento del procedimento a seguito di iniziativa dell’Amministrazione, trattandosi di una serie di atti posti in essere autonomamente dalla Commissione, nell’esercizio del proprio potere discrezionale, e che, ove ritenuti illegittimi, avrebbero dovuto essere autonomamente impugnati (79). Posto che il ricorrente non aveva interesse alcuno ad impugnare i suddetti atti, né tale interesse è dato rinvenirsi nella Commissione esaminatrice che li ha emanati, e verificato comunque che essi, in quanto non impugnati da alcuno nei termini, hanno acquisito definitività e non possono essere ulteriormente posti in discussione in sede giudiziale, non si vede in base a quale ragione giuridica il Consiglio di Stato abbia potuto annullare anche tutti questi ulteriori provvedimenti, che non possono certo definirsi attività conseguente alla emanazione dell’ordinanza cautelare, ma costituiscono un’attività autonoma, posta in essere nell’esercizio dello stesso potere pertinente alla pubblica amministrazione (80). (79) A favore della necessità di un’autonoma impugnazione dei provvedimenti successivi a quello oggetto di impugnativa e che abbiano in sé un contenuto (autonomamente) lesivo cfr.: F. SATTA, Giustizia amministrativa, cit., 461, che puntualizza come « nel caso di una pluralità di provvedimenti successivi a quello annullato ... se sono stati tutti impugnati nulla quaestio: cadono tutti per illegittimità derivata. Ma se questo zelo è mancato, gli atti successivi hanno acquistato una propria autonoma inoppugnabilità, consolidando la lesione provocata con il primo atto impugnato ed annullato ... in questi casi, il sistema degli atti disciplinatori di una certa fattispecie si è formato; non solo, ma di norma creando anche posizioni particolari in capo a terzi. La situazione è certamente paradossale: gli atti successivi sono logicamente condizionati dal primo e quindi dal giudizio negativo di legittimità pronunciato su di esso; godono per altro di un regime giuridico autonomo, in quanto hanno acquistato una propria inoppugnabilità ... è chiaramente impossibile superarla: l’inoppugnabilità c’è o non c’è ». Ne consegue che anche gli atti procedimentali successivi a quello impugnato ove non vengano autonomamente impugnati dalla parte che li ritiene illegittimi acquisiscono una propria inoppugnabilità e non possono cadere per illegittimità derivata: non vengono, quindi, automaticamente caducati. (80) Cfr. F. LUBRANO, Il giudizio di esecuzione delle decisioni amministrative, in Riv. amm., Roma, 1992, 155, che inquadra « come forma anomala di esecuzione l’ipotesi in cui l’attività della pubblica amministrazione, pur indirettamente conseguente ad una pronuncia del giudice amministrativo, non possa intendersi in senso stretto come di


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Ne consegue che, pure nei limiti in cui risulti ammissibile che una decisione in sede di appello cautelare travolga anche tutti i provvedimenti posti in essere in esecuzione della decisione cautelare di primo grado, tale efficacia « travolgente » dovrebbe comunque escludersi nei confronti di atti successivi posti in essere dalla Amministrazione interessata nell’esplicazione dei propri poteri: tale determinazione costituisce, infatti, una scelta discrezionale dell’Amministrazione, non sindacabile se non mediante autonoma impugnazione nei termini decadenziali (81). Nella specie, comunque, l’intervento correttivo del giudizio esecuzione della decisione stessa ma costituisca esercizio dello stesso (o di altro) potere che si rende in un determinato momento necessario in conseguenza dell’intervento demolitorio di una decisione di annullamento ». Analogo discorso può applicarsi al caso di specie, ove l’attività posta in essere dalla Commissione esami non può definirsi come esecuzione della decisione cautelare del giudice amministrativo, pur se indirettamente consegue ad essa, ma è nuovo esercizio dello stesso potere originariamente in possesso della Commissione stessa, e che è stato da essa riesercitato in seguito all’intervento cautelare: in seguito ma non per questo necessariamente in esecuzione di esso. (81) Che tale attività costituisca attività autonoma, discrezionalmente effettuata e non vincolativamente eseguita è stato chiaramente ed indiscutibilmente precisato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, n. 3 del 2003, con la quale è stato chiarito come ove, indipendentemente dalla dizione utilizzata, la Commissione d’esame abbia « intrapreso un percorso diverso da quello della mera esecuzione della decisione » ovvero abbia deciso « di sostituire la valutazione data in precedenza, non di giustificarla soltanto con una motivazione “in chiaro” o meno sintetica di quella numerica » (in una ipotesi in cui, invece, l’ordinanza cautelare eseguita conteneva esclusivamente l’ordine di integrare la motivazione) tale sopravvenuta valutazione debba essere « considerata come un quid novi, che ha sostituito il precedente giudizio negativo perché: a) discrezionalmente decisa, non vincolativamente eseguita; b) adottata nell’esercizio della medesima funzione; c) incompatibile con la prima e, poiché posteriore, appunto sostitutiva del primo giudizio » e determinerebbe necessariamente l’improcedibilità del giudizio, posto che « l’Amministrazione non ha perciò interesse alla riforma della sentenza di annullamento di un atto che, posteriormente alla pronunzia giurisdizionale, ha essa stessa sostituito, con autonomo provvedimento, determinando un nuovo assetto del rapporto controverso ». Per un commento accurato della suddetta decisione e delle implicazioni connesse cfr.: M. ANDREIS, L’attività successiva alla sentenza di annullamento tra acquiescenza e principio di assorbimento, cit.; l’Autore evidenzia i due punti focali della decisione della Sezione IV, ovvero se il provvedimento adottato dall’amministrazione in diretta esecuzione della sentenza di primo grado sia soggetto a caducazione in caso di riforma della sentenza di annullamento e quali siano i limiti del c.d. effetto espansivo esterno della riforma della sentenza di primo grado sugli atti e provvedimenti che da tale sentenza si possano dire dipendenti, ovvero « se l’effetto caducante dell’eventuale decisione di riforma in appello si estenda a tutti gli ulteriori atti adottati dall’amministrazione a


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di appello era senz’altro da escludere in considerazione del carattere « valutativo » del successivo intervento della pubblica Amministrazione per quanto concerne sia l’esecuzione dell’ordinanza cautelare sia, soprattutto, la valutazione ulteriore autonomamente posta in essere dalla stessa Amministrazione. In effetti la fattispecie presenta una particolarità che necessariamente la differenzia dalle ipotesi « note » di ammissione con riserva posto che, mentre in queste ultime la selezione costituisce fase preliminare il cui superamento non costituisce requisito di ammissione dal momento che ha lo scopo di accertare un livello minimo di preparazione che renda utile la partecipazione alle prove concorsuali, l’ipotesi ivi considerata è costituita da un procedimento di esami, attraverso più prove tra loro autonome e non sovrapponibili, in relazione al quale non si pretendeva di dichiarare improcedibile il ricorso sulla prima prova basandosi sul presupposto che la seconda prova d’esame era stata brillantemente superata, ma veniva in seguito della sostituzione del provvedimento annullato in primo grado », che nella specie erano l’espletamento della prova orale e la valutazione di questa. Secondo l’autore il primo quesito viene posto dalla Sezione IV all’Adunanza Plenaria nella forma di una domanda retorica, posto che la stessa Sezione nella sua ordinanza richiama il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale la mera esecuzione della sentenza di annullamento non si configura quale acquiescenza alla medesima da parte dell’amministrazione, ma è al contempo l’unico quesito preso in considerazione dall’Adunanza, posto che è di per sé sufficiente alla decisione. Da ciò si ricava agevolmente, ed è sottolineato dallo stesso Andreis, che la decisione n. 3 del 2003 pur fornendo la regola di giudizio da applicarsi nel caso esaminato non fornisce « integrale risposta alle questioni sottoposte dalla ordinanza di rimessione », per cui non è idonea a fornire un criterio guida applicabile a tutti i casi simili, ma ha una valenza limitata alla fattispecie esaminata. In particolare evidenzia quale sia il problema di fondo, ovvero « la questione della forza espansiva del riesercizio del potere » che con la stessa forza « si pone in tutte le ipotesi in cui un provvedimento giudiziale — sia pure interinale o comunque instabile — si inserisca, per riprendere l’espressione di Mario Nigro (vedi nota 54), nel flusso dell’attività amministrativa, come una parentesi tra il precedente esercizio del potere e quello successivo ». Il problema non cambia a seconda del fatto che l’attività rinnovata consegua ad una pronuncia di merito, passata in giudicato o meno, o ad una pronuncia cautelare, in quanto il problema è rappresentato dalla irreversibilità degli effetti, e si verifica in tutte le ipotesi « in cui prima ancora di pervenire alla riforma della decisione gravata il nuovo svolgimento procedimentale sostituisce — in ipotesi — un intero tratto di attività precedente ». L’Autore evidenzia come si tratti, di fatto, « della stessa prospettiva, ma rovesciata, utilizzata nel processo civile ... in forza dell’art. 336 c.p.c. che regola le conseguenze (effetto espansivo esterno) della riforma o cassazione della sentenza in relazione alla sorte degli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata ».


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evidenza la complessa attività valutativa posta in essere dall’Amministrazione anche nell’esercizio del proprio potere discrezionale (82), attività che comunque non poteva essere travolta dalla decisione di merito posto che si era concretizzata in una nuova attività valutativa della Commissione esaminatrice, attività che, al di là ed indipendentemente dalle ragioni che l’hanno determinata, continua a mantenere la sua efficacia e non può non sovrapporsi alla precedente attività valutativa svolta dalla stessa amministrazione, alla quale, anzi, si sostituisce senza alcun limite oggettivo.

(82) Cfr. M. ANDREIS, L’attività successiva alla sentenza di annullamento tra acquiescenza e principio di assorbimento, cit., 1230-1231, sottolinea come attività preliminare da svolgersi sia l’identificazione del tipo di attività svolta dall’amministrazione, differenziando fra mera attività di conformazione alla sentenza ed attività ulteriore, ovvero si tratta « di definire compiutamente il contenuto della sentenza e di esaminare il primo atto esecutivo per stabilire se ciò che esso dispone si pone all’interno o all’esterno di quanto la sentenza imponeva all’Amministrazione di fare ». Identificata quella attività che possa definirsi diversa o ulteriore rispetto al contenuto della sentenza, e che l’Autore definisce « deviante » rispetto all’ambito di influenza del processo sul procedimento, in quanto autonomamente determinata, si potrà stabilire il discrimine: tutti gli atti ulteriori non risulteranno coperti dalla decisione (sentenza, passata in giudicato o meno o ordinanza cautelare), saranno quindi autonomamente impugnabili ed idonei ad acquistare stabilità, in quanto non subiranno l’influenza del processo sul procedimento. L’Autore sostiene le sue argomentazioni anche richiamando l’orientamento dottrinale che ha indicato proprio nel contenuto della sentenza il criterio del discrimine fra atti esecutivi della decisione del giudice ed attività ulteriore dell’amministrazione: R. VILLATA, Riflessioni in tema di giudizio di ottemperanza ed attività successiva alla sentenza di annullamento, in questa Rivista, 1989, 383-384, il quale rileva come « l’area della discrezionalità residua dell’amministrazione dopo una sentenza di annullamento è esterna rispetto all’ottemperanza, che concerne le statuizioni imperative nascenti dal giudicato, e pertanto non incide (non può incidere) sull’ambito di operatività della garanzia processuale previsto per il rispetto dell’ottemperanza stessa ».


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recensioni

notizie

LA CONCRETIZZAZIONE DELL’INTERESSE PUBBLICO NELLA RECENTE GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA IN TEMA DI ANNULLAMENTO D’UFFICIO

SOMMARIO: 1. L’autotutela amministrativa: fondamento giuridico e premessa teorica. — 2. L’annullamento d’ufficio: nozione. — 3. L’annullamento doveroso (interesse pubblico in re ipsa) nella giurisprudenza amministrativa: natura del fenomeno e ipotesi tradizionali. — 4. Enucleazione di nuove ipotesi di annullamento doveroso nella giurisprudenza recente. — 5. Una ratio decidendi comune. — 6. La giurisprudenza nazionale in tema di annullamento d’ufficio dei provvedimenti contrastanti col diritto comunitario a confronto con la giurisprudenza della Corte di Giustizia. — 7. Conclusioni e critica.

1. Il termine autotutela (1) si riferisce ad una pluralità di manifestazioni del potere amministrativo tra loro abbastanza diversificate a seconda che si tratti di autotutela decisoria, di autotutela esecutiva, di autotutela su atti o provvedimenti, di autotutela diretta o indiretta (2). (1) Una definizione di carattere generale si trova nello scritto di F. BENVENUTI, Autotutela (dir. amm.,), in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 539: « per autotutela s’intende quella parte di attività amministrativa con la quale la pubblica amministrazione provvede a risolvere i conflitti, potenziali o attuali, insorgenti con gli altri soggetti, in relazione ai suoi provvedimenti e alle sue pretese ». La peculiarità della funzione amministrativa starebbe tutta nella realizzazione dei precetti amministrativi (op. cit., 540). Si ricorda anche la definizione data da A. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, 196: l’autotutela « viene posta dall’ordinamento al servizio della soddisfazione degli scopi istituzionali delle pubbliche Amministrazioni (ha quindi carattere sussidiario), e consiste nella possibilità, per l’ente, di farsi ragione da sé (naturalmente secondo diritto) per le vie amministrative (e salvo ogni sindacato giurisdizionale: art. 113 Cost.) ». (2) Il tentativo più completo di sistematizzazione si deve ancora a F. BENVENUTI, Autotutela (dir. amm.), cit., 540, il quale, in linea di massima, ha proceduto a distinguere le varie forme di manifestazione di questo genere di poteri amministrativi in due grandi settori: quello dell’autotutela provvedimentale, che si sostanzia in un giudizio di se-

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DIRITTO PROCESSUALE AMMINISTRATIVO

Negli ordinamenti degli Stati (3), si è discusso sul fondamento giuridico del potere di autotutela, considerato in tutte le sue diverse espressioni: la dottrina prevalente (4) ha ritenuto che l’autotutela concreti il principale privilegio rimasto all’amministrazione dopo il passaggio dallo Stato di polizia assolutistico allo Stato di diritto ottocentesco ed esprima un fenomeno di attrazione di funzioni materialmente giurisdizionali da parte della pubblica amministrazione. Invero, nel nostro ordinamento (5) manca una base normativa che legittimi positivamente i poteri amministrativi che si ascricondo grado sulla validità degli atti oggetto di riesame, e quello dell’autotutela non provvedimentale, che concerne le ipotesi di esecuzione forzata amministrativa. (3) Dà conto della problematica dell’autotutela anche nel sistema italiano, francese e tedesco F. MERUSI, La problematica dell’annullamento d’uffıcio, in Buona fede e affıdamento nel diritto pubblico. Dagli anni trenta all’alternanza, Milano, 2001, 92 ss.; più specificamente nell’ordinamento italiano, N. BASSI, Principio di legalità e poteri amministrativi impliciti, Milano, 2001, 362 ss.; inoltre, con riferimento alla stessa tematica negli ordinamenti degli Stati membri si veda J. SCHWARZE, European administrative law, Londra, 1992, 258 ss. (4) Ancora fondamentali, per i profili generali dell’autotutela e per l’impostazione storico-dogmatica, le riflessioni di F. BENVENUTI, Autotutela (dir. amm.), op. cit., 541: « Ciò che qualifica questi atti è piuttosto la loro natura materialmente giurisdizionale e cioè la loro attitudine (o causa generica) a soddisfare in caso di conflitto l’interesse del loro autore attraverso l’assicurazione dei risultati perseguiti dai suoi atti o garantiti dalle norme che lo riguardano; assicurazione ottenuta mediante una riaffermazione del diritto, ossia mediante un controllo sulla sua applicabilità nel caso oggetto di attuale o potenziale contestazione ». (5) Sull’autotutela come poteri che rientrano nella consuetudine del diritto amministrativo italiano si vedano L. RAGNISCO, Revoca ed annullamento di atti amministrativi, in Foro it., 1907, III, 303; V.M. ROMANELLI, L’annullamento degli atti amministrativi, Padova, 1939; G. CODACCI PISANNELLI, L’annullamento degli atti amministrativi, Milano, 1939; E. MIELE, In tema di annullamento d’uffıcio degli atti amministrativi illegittimi, in Giur. compl. cass. civ., XXVI, 1947, 1132; F. BENVENUTI, Appunti di diritto amministrativo, Padova, 1955; U. BALDI PAPINI, L’annullamento d’uffıcio degli atti amministrativi invalidi, Firenze, 1956; SANTI ROMANO, Annullamento (Teoria del) nel diritto amministrativo, in Nss. dig. it., Torino, 1957; E. CANNADA BARTOLI, Annullabilità e annullamento, in Enc. dir., II, Milano, 1958, 484; F. BENVENUTI, Autotutela (dir. amm.), in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 537; F. CAMMEO, Corso di diritto amministrativo, Padova, 1960, 653; M.S. GIANNINI, L’attività amministrativa, Roma, 1962; M. NIGRO, Decisione amministrativa, in Enc. dir., XI, Milano, 1962, 819; A. SANDULLI, Funzioni pubbliche neutrali e giurisdizione, in Riv. dir. proc., 1964, 200; S. CASSESE, I beni pubblici. Circolazione e tutela, Milano, 1969; G. Coraggio, Autotutela (dir. amm.), in Enc. giur., Roma, 1988, IV.


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vono all’area dell’autotutela (6). Ne segue un inevitabile difetto del sistema sotto il profilo della legalità dell’azione amministrativa, il quale imporrebbe che ogni potere sia soggetto e regolato da una disciplina normativa o, al limite, da una sola norma attributiva del potere, come fonte legittimante dello stesso. Tuttavia, l’autotutela, e l’esercizio delle potestà ad essa connesse, fanno ormai parte, indiscutibilmente, degli strumenti di cui l’amministrazione può avvalersi nell’ambito della sua attività di imperio e rientrano, infatti, nelle modalità di tutela dell’interesse pubblico ammesse dalla prassi del diritto amministrativo. In assenza di una disciplina normativa a riguardo (7), i requisiti e le regole che legittimano tali poteri vanno rinvenuti nella giurisprudenza del Consiglio di Stato. Perciò, in questo contesto, è basilare lo studio degli orientamenti interpretativi che hanno modulato, nel tempo, i poteri di autotutela, tenuto conto soprattutto della cresciuta rilevanza delle istanze di protezione degli interessi dei privati coinvolti dal procedimento di eliminazione degli atti amministrativi. (6) L’aspetto della carenza di legittimazione formale dell’azione amministrativa di autotutela è stata approfonditamente analizzata da N. BASSI, Principio di legalità e poteri amministrativi impliciti, cit., 363 ss. Secondo l’Autore, tuttavia, la legittimità dell’esercizio del potere di autotutela deve essere rinvenuta nella « sussumibilità del potere di primo grado e di quello di secondo grado entro l’ambito della medesima fattispecie di autorizzazione » (op. cit., 382). Viceversa, ritiene che si debba « sgombrare il campo da una problematica tradizionale in tema di annullamento d’ufficio: quello del suo fondamento giuridico », F. MERUSI, Buona fede e affıdamento nel diritto pubblico. Dagli anni trenta all’alternanza, cit., 93-94. Ciò in quanto il potere di ritirare i propri atti viziati spetta all’amministrazione da tempo ed è connaturato all’esercizio del potere amministrativo negli ordinamenti a diritto amministrativo: « Il privilegio di ritirare i propri atti viziati è connaturato all’amministrazione negli ordinamenti ad atto amministrativo. Ma proprio per il fatto che il potere di ritirare i propri atti viziati (...) si è dovunque manifestato come un privilegio connaturato alla Pubblica Amministrazione, rientrante come species nel più vasto fenomeno dell’autotutela amministrativa, i contorni dell’annullamento d’ufficio sono venuti delineandosi più ad opera della giurisprudenza che della normazione legislativa », (op. cit., 92). (7) Questo vale fatte salve le disposizioni di settore che sono tuttora presenti nel nostro ordinamento giuridico e che regolamentano talune fattispecie di annullamento d’ufficio, si pensi per esempio alla disciplina dell’annullamento governativo. Con ciò la disciplina legislativa dell’annullamento d’ufficio è decisamente frammentaria e non può certo dirsi esaustiva.


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2. Tra i poteri di autotutela, quello che presenta maggiori profili di interesse, per un’analisi che consideri le recenti innovazione giurisprudenziali sul tema, è l’annullamento d’ufficio (8). Con tale espressione ci si riferisce ai provvedimenti di secondo grado, ad esito eliminatorio, che si sostanziano appunto nell’eliminazione di un provvedimento invalido ed importano la rimozione ex tunc degli effetti da esso prodotti. Già da questa definizione elementare emerge che l’annullamento d’ufficio si caratterizza per il fatto di togliere stabilità ad un provvedimento già eseguito, al fine di espungerne taluni aspetti patologici. Il primo ed essenziale presupposto dell’annullamento d’ufficio è, dunque, l’accertamento dell’invalidità di un atto per la sussistenza di uno dei vizi di legittimità (9); il secondo è la verifica della presenza di un interesse pubblico, diverso ed ulteriore rispetto a quello originario, che prevalga sull’interesse del destinatario alla conservazione dell’atto e ne importi la rimozione (10). Tale rimedio può venire esercitato in ogni tempo, purché sussista, come si è detto, oltre all’illegittimità del provvedimento oggetto di riesame, anche un interesse pubblico alla sua eliminazione (11). (8) Sul tema dell’annullamento d’ufficio si segnalano, in particolare, i contributi di: L. COEN, Annullamento d’uffıcio, in Studium iuris, 2003, 387; P. GRASSANO, L’annullamento di un atto amministrativo illegittimo. Da attività discrezionale ad attività imposta, in Nuova rass. leg. dottr. giur., 2002, 385; F. MERUSI, La problematica dell’annullamento d’uffıcio, in Buone fede e affıdamento nel diritto pubblico, cit., 92 ss.; V.M. ROMANELLI, L’annullamento degli atti amministrativi, cit.; E. CANNADA BARTOLI, Annullabilità e annullamento, cit.; U. BALDI PAPINI, L’annullamento d’uffıcio degli atti amministrativi invalidi, cit. (9) Per tutti i vizi di legittimità, si veda per esempio Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 11 febbraio 1986, n. 16, in Cons. St., 1986, I, 224; in passato anche per vizi di merito cfr. SANTI ROMANO, Annullamento (Teoria del) nel diritto amministrativo, cit., 643; oggi la non opportunità dell’atto è più propriamente da collegarsi alla revoca. (10) A questo proposito, le oscillazioni della giurisprudenza riguardano specifiche vicende relative alle modalità con cui si concreta l’interesse pubblico, non essendo in tutti i casi agevole individuare quale sia l’interesse dotato dell’attualità e concretezza tale da prevalere sull’interesse del destinatario dell’atto alla conservazione del medesimo. (11) Non è chiaro cosa s’intenda dire riferendosi ad un interesse pubblico particolare che sarebbe soddisfatto dall’atto di autotutela; in dottrina le posizioni sono divise: autorevolmente è stato affermato che « l’atto di autotutela deve essere giustificato dalla


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Sembrerebbe, quindi, che il rispetto della legalità amministrativa non sia il solo fattore decisivo per guidare la volontà dell’amministrazione nel riesame del provvedimento e che l’annullamento d’ufficio diventi un momento di discrezionalità amministrativa. Qualificare l’autotutela nel genere delle attività discrezionali è conforme con il fondamento dogmatico della medesima: sono esemplari sul punto le osservazioni del Benvenuti, il quale riteneva che l’attività di autotutela fosse sempre e comunque un’attività amministrativa, sia nel senso del valore formale dei suoi atti, sia nel senso del loro valore sostanziale. Nella tematica dell’annullamento d’ufficio cosı̀ ricostruita si inseriscono le osservazioni che seguono, dedicate ad approfondire quelle situazioni in cui la giurisprudenza amministrativa ritiene sufficiente, per legittimare l’attività amministrativa di annullamento, il primo dei requisiti sopra elencati, ossia l’accertamento dell’illegittimità di un provvedimento. Alle regole generali sopra ricordate, infatti, fa eccezione il cosiddetto annullamento d’ufficio doveroso: la casistica cui ci si riferisce si basa cioè, eccezionalmente appunto, sull’operare dell’equazione logica « ripristino della legalità-doverosità del ritiro dell’atto ». Data la natura estremamente caratteristica delle fattispecie che si ascrivono all’area dell’annullamento doveroso e l’interessante casistica a riguardo, si circoscrive questa rassegna di giurisprudenza alle predette ipotesi. 3. Come si anticipava, per annullamento doveroso s’intende quel tipo di annullamento d’ufficio la cui validità è esclusivamente legata al riscontro dell’illegittimità, sotto un qualche prosoddisfazione di un particolare interesse, diverso sia da quello dell’atto che ne è oggetto, sia da quello che attiene, più genericamente, all’Amministrazione, e che ne costituisce la causa propria », cfr. F. BENVENUTI, Autotutela (dir. amm.), cit., 544; secondo il M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, Milano, 1993, II, 827 ss., l’interesse pubblico attuale che giustifica l’annullamento dipenderebbe da una precisa evoluzione nell’interpretazione giurisprudenziale; si veda anche E. CANNADA BARTOLI, Sulla discrezionalità dell’annullamento d’uffıcio, in Rass. dir. pubbl., 1949, II, 562.


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filo, del provvedimento riesaminato. Secondo taluno (12) l’automaticità della caducazione dell’atto, legata al mero accertamento di un vizio, farebbe propendere per un’assimilazione dell’annullamento doveroso all’esercizio di una funzione di controllo ed alla qualificazione dell’attività amministrativa in questione come attività vincolata. L’annullamento doveroso muove dall’assunto secondo cui si riscontrano delle situazioni ove il provvedimento dell’amministrazione, volto a rimuovere dall’ordinamento una situazione altrimenti permanentemente antigiuridica, porterebbe con sé (in re ipsa appunto) la soddisfazione di un interesse pubblico di natura indisponibile, consistente nel ripristino della legalità violata. A partire da questa premessa teorica, la giurisprudenza, nella casistica di cui si dà conto, ha perciò introdotto delle eccezioni, seppure in casi particolari, alla regola della necessaria valutazione di un interesse pubblico ulteriore alla mera illegalità dell’atto Si è ritenuto cioè che in determinate condizioni, il mero riscontro dell’illegittimità dell’atto possa giustificarne l’annullamento. La giurisprudenza recente presenta una casistica molto articolata, non totalmente riconducibile alle ipotesi che si rinvengono nelle categorie concettuali impiegate dalla manualistica tradizionale. Le situazioni in cui la manualistica del diritto amministrativo (13) parla di annullamento doveroso sono quelle dell’ottemperanza ad una decisione del giudice ordinario passata in giudicato in cui un atto amministrativo sia stato ritenuto illegittimo (art. 4 All. E l. 1865); della decisione negativa di un’autorità di controllo (12) Cosı̀ si è espresso E. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2002, 488: « Vengono poi individuate alcune situazioni in cui l’annullamento sarebbe doveroso, quindi non discrezionale ed indipendente dalla valutazione di interessi pubblici e privati, assumendo caratteri assai prossimi all’esercizio di una funzione di controllo ». (13) Si vedano, per tutti, le ricostruzioni delle ipotesi tradizionali di annullamento doveroso fornite da A. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, cit., 151 ss. e 494 ss.; R. VILLATA, L’atto amministrativo, in AA.VV., Diritto amministrativo, a cura di L. MAZZAROLLI-G. PERICU-A. ROMANO-F.A. ROVERSI MONACO-F.G. SCOCA, Bologna, 1998, 1581; E. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, cit., 488-489; V. CERULLI IRELLI, Corso di diritto amministrativo, Torino, 2002, 609.


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cui non competa direttamente il potere di annullamento; dell’annullamento di un atto consequenziale come necessaria conseguenza dell’annullamento (giurisdizionale o amministrativo) dell’atto presupposto. In tutti questi casi, si è ritenuto che l’amministrazione dovesse procedere in sede di autotutela annullando l’atto amministrativo di cui si era verificata l’illegittimità o la cui illegittimità derivasse dall’invalidità di un atto ad esso connesso, senza in nessun modo indagare su motivi di interesse pubblico, ritenuti insiti (quasi presunti) nelle fattispecie considerate. Si noti che, principalmente, la doverosità dell’annullamento era la conseguenza giuridica della carenza di potere cassatorio diretto del giudice ordinario e della Corte dei Conti, perciò (14) « quello di annullare gli atti amministrativi invalidi veniva configurato come un vero e proprio dovere giuridico dell’autorità che avesse posto in essere gli atti stessi » (15). Secondo il Sandulli, questo potere restava sı̀ caratterizzato da una qualche discrezionalità, ma in negativo, nel senso che non occorreva un interesse pubblico specifico all’annullamento, bensı̀ un interesse pubblico specifico per evitare l’eliminazione dell’atto. Dalle ipotesi appena ricordate si diversificano molto quelle che vengono ricondotte all’annullamento doveroso nella giurisprudenza più recente, che non paiono connotate dalla totale assenza di poteri valutativi nelle amministrazioni che procedono al riesame. 4. Come si accennava, accanto alle ipotesi tradizionali appena riferite, l’analisi della giurisprudenza mostra una casistica complessa ed interessante anche per il numero significativo delle decisioni del Consiglio di Stato sul punto e che, si ripete, hanno poco in comune con i casi classici appena ricordati. Cercando di individuare i filoni conduttori delle decisioni raccolte, si ritiene di potere raggruppare in un unico punto quelle sentenze in cui l’annullamento è ritenuto dovuto in considerazione dell’importanza assunta dal fattore tempo. (14)

Si veda in particolare, A. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, cit.,

(15)

A. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, cit., 506.

505.


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La regola, che si trova comunemente affermata nelle decisioni a riguardo, vuole che il principio secondo cui l’annullamento d’ufficio di un provvedimento debba essere sorretto da autonome ed attuali ragioni di interesse pubblico varrebbe solo ove l’annullamento vada ad incidere su interessi che risultino consolidati in capo ai privati, per il tempo trascorso dall’emanazione del provvedimento oggetto di riesame e per l’affidamento sulla sua legittimità ingenerato nei destinatari (16). In sintesi, la giurisprudenza amministrativa chiarisce che il tempo intercorso dal momento che separa quello dell’emanazione dell’atto da quello dell’esercizio del potere di autotutela diviene significativo per l’operare della tutela del legittimo affidamento. A ciò si aggiunge la rilevanza di un principio interessante e spesso trascurato dalla nostra dottrina, cioè quello della conservazione degli atti giuridici (17): quest’ultimo, secondo la citata giurisprudenza, sarebbe da tener presente anche nel diritto amministrativo ed imporrebbe la prevalenza della conservazione dello status quo, sfavorendo l’annullamento d’ufficio, solo qualora sia trascorso un lasso temporale non irrilevante dall’emanazione dell’atto. A contrario, perciò, la regola della conservazione non osterebbe all’eliminazione del provvedimento riesaminato qualora ciò avvenga in un momento vicino a quello della sua emanazione. Ne segue che il principio di legittimo affidamento e quello della conservazione tendono entrambi a consentire un annullamento automatico nell’imminenza della giuridica venuta ad esistenza dell’atto. Parrebbero riconducibili al predetto filone interpretativo anche quelle decisioni che reputano legittimo un annullamento doveroso, motivato solo in relazione all’illegittimità del provvedi(16) Questa regola, con variazioni praticamente irrilevanti, si ritrova consolidata nella giurisprudenza recente: cfr., Cons. St., Sez. IV, 7 novembre 2002, n. 6113, in Foro amm. Cds, 2002, 2825; Tar Lombardia, Milano, Sez. I, 15 novembre 2002, n. 4425, in Foro Amm. Tar, 2002, 3550; Tar Liguria, Sez. II, 29 agosto 2001, n. 899, in Ra. giu. san., 2002, 126; Tar Piemonte, Sez, II, 13 novembre 1999, n. 556, in Ra. giu. san., 2000, 53. (17) Cons. St., Sez. V, 9 maggio 2000, n. 2648, in Riv. giur. edil., 2000, I, 942; Tar Veneto, Sez. III, 31 agosto 2000, n. 1506, in Ra. giu. san., 2001, 51.


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mento riesaminato o motivato solo superficialmente con riferimento ad un interesse pubblico ulteriore, qualora esso esplichi un effetto abrogativo nei confronti di provvedimenti non ancora efficaci o dotati di stabilità provvisoria (18). In quest’ottica, ad esempio, il Tar Lombardia (19) ha di recente ritento legittimo l’annullamento d’ufficio di un’aggiudicazione provvisoria basato su di una motivazione estremamente generica in quanto la situazione di vantaggio invocata dall’interessato non risultava ancora sufficientemente consolidata e, quindi, doveva ritenersi prevalente l’intesse al buon andamento dell’azione amministrativa (20). Ciò in quanto « il principio secondo cui l’annullamento d’uffıcio necessita di specifica motivazione in ordine all’attualità del pubblico interesse alla rimozione dell’atto illegittimo, trova applicazione soltanto qualora, a causa del tempo trascorso tra l’adozione del provvedimento e il suo annullamento, si siano determinate situazioni giuridiche soggettive consolidate in capo agli interessati, non invece quando, come nella specie, la rimozione dell’atto avvenga nel corso del procedimento e prima della sua conclusione ». Peraltro in casi siffatti, l’annullamento dell’aggiudicazione provvisoria non lederebbe in maniera significativa il legittimo affidamento del soggetto destinatario del provvedimento eliminato, specialmente in quanto questi potrà far valere il proprio interesse nella fase di rinnovo della gara a cui l’impresa potrà ancora partecipare (21). (18) (19)

Cons. St., Sez. IV, 7 novembre 2002, n. 6113, cit. Tar Lombardia, Sez. III, 11 marzo 2003, n. 435, in Foro amm. Tar, 2003,

839. (20) « Tutto questo a prescindere dalla questione della necessità di una particolare motivazione ai fini dell’annullamento d’ufficio dell’atto di aggiudicazione provvisoria, ben potendosi ritenere, in conformità all’orientamento giurisprudenziale in materia, che l’illegittimità dell’atto costituisca requisito da solo sufficiente a legittimare l’esercizio del potere di autotutela ». Cfr., anche Cons. St., Sez. IV, 12 settembre 2000. n. 4822, in Urb. e app., 2000, 1382; Cons. St., Sez., V, 26 luglio 1999, n. 508, in Cons. St., 1999, I, 1148; contra Tar Abruzzo, Pescara, 6 luglio 2001, n. 609, in Foro it., 2001, III, 2. (21) Nella recente giurisprudenza amministrativa, resta ferma l’applicabilità anche all’amministrazione del principio di buona fede nelle trattative di cui all’art. 1337 cc., per cui l’annullamento dell’aggiudicazione o l’annullamento in toto della gara indetta può far ipotizzare una responsabilità precontrattuale dell’amministrazione che, an-


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Procedendo nell’analisi della giurisprudenza sul tema dell’annullamento doveroso, si segnala un’altra serie di decisioni che escludono la necessità di una motivazione in punto di interesse pubblico del provvedimento di autotutela, argomentando in relazione alla situazione soggettiva del destinatario dell’atto: in sostanza, qualora questi sia in mala fede, ai fini dell’annullamento d’ufficio, non occorre specificare la preminenza di ragioni di interesse pubblico oltre all’accertamento dell’illegittimità dell’atto (22). Si tratta, perlopiù, di casi in cui il rilascio del provvedimento oggetto di riesame sia conseguito ad un’inesatta rappresentazione della realtà da parte del richiedente, evidenziata dall’amministrazione nell’esercizio del potere di autotutela. Una casistica del tutto particolare concerne, poi, le illegittime attribuzioni di status ai dipendenti pubblici che implicano illegittimo esborso di denaro pubblico (23). In simili vicende, si considera sussistente in re ipsa un interesse pubblico tale da giustificare l’annullamento in via di autotutela, poiché evitare l’esborso senza titolo di pubblico denaro costituirebbe sempre un interesse pubblico attuale e concreto idoneo a giustificare l’autotutela. Ne segue un’indubbia preferenza accordata all’interesse per l’economicità della gestione delle casse dello Stato e delle amministrazione pubbliche in generale, con conseguente sacrificio dell’affidamento del privato (24). che nel caso in cui il provvedimento di autotutela debba reputarsi legittimo, sanzioni un comportamento scorretto del soggetto pubblico, cfr., Tar Abruzzo, Pescara, 6 luglio 2001, n. 609, cit. (22) Tar Lombardia, Milano, Sez. I, 15 novembre 2002, n. 4425, in Foro amm. Tar, 2002, 3550; Tar Emilia Romagna, Bologna, Sez. II, 10 giugno 2002, n. 854, ivi, 2002; Tar Lombardia, Milano, Sez. I, 15 novembre 2002, n. 4425, ivi, 3550; Cons. St., Sez. V, 9 maggio 2000, n. 2648, in Studium iuris, 2000, 912. (23) Cons. St., Sez. V, 16 gennaio 2002, n. 213, in Foro Amm. Cds, 2002, 96; Cons. St., Sez. VI, 12 agosto 2002, n. 4159, ivi, 2137; Cons. St., Sez. VI, 38 ottobre 2002, n. 5893, ivi, 2577. (24) Nel caso in cui il provvedimento oggetto di riesame comporti l’indebita erogazione di benefici economici a danno delle finanze pubbliche, in dette ipotesi « la motivazione del provvedimento adottato in sede di autotutela è data in re ipsa, sul piano dell’interesse pubblico, dalla necessità di evitare le conseguenze finanziarie negative derivanti dalla determinazione originaria, senza che assuma rilievo in senso contrario la determinazione del tempo », Cons. St., Sez. VI, 38 ottobre 2002,. n. 5893, cit.


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Più complessa la giurisprudenza relativa all’annullamento in sede di autotutela dei provvedimenti di concessione edilizia. A questo proposito parte della giurisprudenza amministrativa (25) ascrive tali fattispecie all’annullamento doveroso, altra parte utilizza i canoni ordinari dell’annullamento d’ufficio, richiedendo una dettagliata motivazione in ordine all’interesse pubblico che possa giustificare l’effetto abrogativo (26). Il primo indirizzo, secondo cui l’annullamento d’ufficio di una concessione edilizia, non necessitando di una specifica motivazione circa l’interesse pubblico concreto ed attuale alla rimozione, è sufficientemente giustificato dall’enunciazione del vizio che inficia la concessione medesima, fa leva sulla prevalenza quasi automatica del c.d. interesse urbanistico, cioè sull’interesse della collettività a tutelare il rispetto della normativa urbanistica, correlato alla disciplina paesaggistica vigente, a profili di tutela dell’ambiente e degli interessi storico-architettonici. Il secondo indirizzo secondo cui, invece, è da ritenere illegittimo l’annullamento d’ufficio della concessione edilizia qualora il provvedimento non sia abbia adeguatamente motivato circa l’interesse pubblico specifico, attuale e concreto all’annullamento stesso, richiama il principio per cui il potere di autotutela rientra nell’ambito dell’attività discrezionale dell’amministrazione. Invero, la differenza tra i due orientamenti segnalati è meno drastica di quanto parrebbe ad una prima analisi: infatti, le ipotesi in cui la giurisprudenza amministrativa ammette l’annullamento non motivato, sono situazioni nelle quali il provvedimento di autotutela segue ad un breve arco di tempo il momento dell’ado(25) Cons. St., Sez. V, 2 settembre 2002, n. 4392, in Foro Amm. Cds, 2002, 2055; Cons. St., Sez. IV, 21 giugno 2001, n. 3334, in Riv. giur. edil., 2001, I, 984; Cons. St., Sez, VI, 20 gennaio 2000, n. 278, in Foro amm., 2000, 116; Cons. St., Sez. V, 9 maggio 2000, n. 2648, cit. Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 21 marzo 2002, n. 1189, in Foro amm. Tar, 2002, 825; Tar Veneto, Sez. II, n. 2254, in Foro amm. Tar, 2003, 1195; Tar Sicilia, Palermo, Sez. I, 7 febbraio 2002, n. 359, in Foro amm. Tar, 2002, 727. (26) Tar Lombardia, Brescia, 23 giugno 2003, n. 873, in Foro amm. Tar, 2003, 1872; Tar Abruzzo, L’Aquila, 16 giugno 2003, n. 388, ivi, 2001; Cons. St., Sez. V, 2 settembre 2002, n. 4392, in Foro amm. Cds, 2002, 2055; Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 21 marzo 2002, n. 1189, in Foro amm. Tar, 2002, 825.


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zione del provvedimento autorizzatorio, o casi in cui l’edificio non sia stato ancora realizzato, piuttosto che vicende in cui il soggetto destinatario della concessione versava in stato di male fede (27). Rientra nella casistica relativa all’annullamento doveroso anche l’annullamento d’ufficio di un provvedimento amministrativo conforme a norme nazionali che siano tuttavia in contrasto con la disciplina comunitaria (28). Specialmente a partire dal 1996, infatti, si è affermato un orientamento, ad oggi uniforme, nella giurisprudenza del Consiglio di Stato che ritiene sussistente l’interesse pubblico alla rimozione dell’atto ogni qual volta esso sia il prodotto di una violazione, indiretta (29), dell’ordinamento comunitario. In siffatta evenienza, il contrasto tra la statuizione concretata nel provvedimento amministrativo ed i dettami di fonte sovranazionale deve essere espunto. Perciò, la violazione della legge comunitaria è trattata come una super violazione di legge, tanto importante da implicare in re ipsa la prevalenza del ripristino della legalità comunitaria sulle situazione di legittimo affidamento dei destinatari in buona fede del provvedimento riesaminato (30). (27) In questo senso si è espresso R. CAMERO, Ancora incertezze sulla motivazione dell’annullamento di concessione edilizia, in Urb. e app., 1998, 1008. (28) Cons. St., Sez. IV, 18 gennaio 1996, n. 54, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1997, 117: « di fronte alla necessità di adempiere agli obblighi comunitari può recedere ogni altro interesse pubblico o privato »; Cons. St., Sez. V, 18 aprile 1996, 447, ivi, 186: « l’interesse pubblico prevalente è quello di evitare l’irrogazione di sanzioni a carico dello Stato da parte delle istituzioni comunitarie per violazione del diritto comunitario »; Cons. St., Sez. IV, 5 giugno 1998, n. 918, in Urb. e app., 1998, 1343. (29) Indiretta nel senso che il contrasto tra il provvedimento amministrativo nazionale ed il diritto comunitario si verifica non direttamente, cioè attraverso una violazione immediata della normativa di fonte sovranazionale, ma indirettamente, cioè per il tramite di una legislazione interna contrastante col diritto dell’Unione. Ovviamente la problematica si inquadra nel più ampio tema della qualificazione dell’invalidità degli atti amministrativi nazionali in violazione del diritto comunitario. Sul punto si rinvia alle ricostruzioni di G. COCCO, Le liaisons dangereuses tra norme comunitarie, norme interne e atti amministrativi, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1995, 667; G. GRECO, Fonti comunitarie e atti amministrativi italiani, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1991, 31; R. MURRA, Contrasto tra norma nazionale e norma comunitaria: nullità assoluta degli atti amministrativi di applicazione della norma nazionale?, in questa Rivista, 1990, 284. (30) Perciò si è affermato in dottrina, a commento della giurisprudenza succitata,


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Dunque, qualora l’amministrazione accerti che il provvedimento riesaminato sia viziato per « non comunitarietà », si esclude l’obbligo di contemperare l’interesse pubblico alla rimozione dell’atto con l’interesse del privato alla conservazione del medesimo. Infine, una situazione del tutto particolare, e decisamente interessante dal punto di vista pratico, concerne le interazioni tra la stazione appaltante, che proceda all’espletamento di una gara d’appalto, e l’Autorità antitrust, che si occupi di accertare un illecito anticoncorrenziale realizzato da uno o più dei partecipanti alla gara medesima: a tal proposito, la giurisprudenza del Consiglio di Stato (31) ha ritenuto, con alcune debite precisazioni, che « sarebbe doverosa la valutazione, da parte del soggetto pubblico, della sussistenza dei presupposti per l’esercizio dei poteri di autotutela e, di riflesso, ammissibile l’impugnativa proposta dal concorrente pretermesso avverso il diniego di esercizio dell’autotutela, ovvero contro l’aggiudicazione definitiva ». La citata giurisprudenza preserva la competenza esclusiva dell’Autorità antitrust nell’applicazione della L. 287/1990 e, quindi, nella proibizione dei comportamenti anticoncorrenziali e nell’irrogazione delle relative sanzioni. Tuttavia, si possono presentare diverse fattispecie in cui la stazione appaltante è tenuta ad applicare alle operazioni di gara le determinazione compiute dall’Autorità garante; in queste eventualità, l’amministrazione, in via doverosa appunto, esercita i poteri di autotutela ordinaria. L’autotutela si configura come doverosa nelle quattro ipotesi seguenti: 1. qualora il comportamento anticoncorrenziale derivi direttamente da un vizio della lex specialis del procedimento, in parche « constata l’illegittimità derivante dalla violazione di norme di origine comunitaria, l’autorità amministrativa deve sempre procedere all’annullamento d’ufficio, posto che tanto l’attualità e la concretezza dell’interesse pubblico alla rimozione, quanto la sua prevalenza sulle eventuali ragioni favorevoli alla conservazione, derivino automaticamente ed aprioristicamente dalla natura stessa del vizio che inficia l’atto », R. GAROFOLI, Concessione di lavori: discrezionalità del potere di annullamento d’uffıcio e vincoli comunitari, in Urb. e app., 1998, 1344. (31) Cons. St., Sez. IV, 28 ottobre 2002, n. 5714, in Foro Amm. Cds, 2002, 3162 con nota di S. VALAGUZZA, Discrezionalità nell’individuazione delle offerte e conseguenza dei comportamenti anticoncorrenziali sulle operazioni di gara.


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ticolare, dai criteri di valutazione delle offerte: in questo caso, l’amministrazione sarà tenuta ad esercitare i propri poteri di autotutela, in alternativa, il giudice amministrativo potrà procedere all’annullamento dell’aggiudicazione definitiva; 2. qualora il comportamento anticoncorrenziale di un concorrente venga apprezzato dall’Antitrust nel corso di una gara: allora la stazione appaltante dovrà procedere regolarmente nelle proprie determinazioni, tuttavia, all’esito dell’accertamento, dovrà riesaminare i propri provvedimenti, nell’esercizio dei poteri di autotutela; 3. qualora durante lo svolgimento della gara intervenga una decisione dell’Antitrust che accerti un illecito anticoncorrenziale: l’amministrazione, ricorrendone i presupposti, dovrà esercitare i propri poteri di autotutela, annullando l’eventuale provvedimento di aggiudicazione; 4. qualora durante lo svolgimento della gara intervenga una sentenza della Corte d’Appello che accerti un illecito anticoncorrrenziale: l’amministrazione, ricorrendone i presupposti, dovrà attivare i propri poteri di autotutela, in relazione all’eventuale provvedimento di aggiudicazione. Nelle ipotesi suddette, l’illecito anticoncorrenziale deve essere apprezzato dall’amministrazione appaltante in corso di gara; per raggiungere questo obiettivo la giurisprudenza amministrativa ha introdotto dei casi di autotutela doverosa: è doveroso cioè che ogni singola stazione appaltante adatti la vicenda reale agli accertamenti compiuti dall’organo titolare del potere di controllo della libera concorrenza, ripristinando la parità delle condizioni concorrenziali a prescindere da altri interessi. Anche la libertà del mercato, allora, diviene un interesse da massimizzare, che si sottrae ad ogni ulteriore comparazione, stando alle indicazioni degli orientamenti attuali del Consiglio di Stato. Tuttavia, sebbene nella sentenza cui si fa riferimento non viene specificato quale si la species dei poteri di autotutela che l’amministrazione è tenuta ad esercitare, pare che la valutazione doverosa che l’amministrazione deve compiere possa rientrare non tanto nell’annullamento d’ufficio, quanto piuttosto nella re-


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voca. Mancherebbe, infatti, nella specie, un’illegittimità specifica del provvedimento amministrativo di aggiudicazione, escludendo il Consiglio di Stato che si possa ravvisare un vizio della lex specialis della gara: le censure che riguardano una condotta anticoncorrenziale hanno ad oggetto non gli atti amministrativi emanati da una amministrazione, bensı̀ comportamenti illeciti delle imprese concorrenti. Infatti, la strumentalizzazione dei criteri di aggiudicazione o, comunque, la distorsione dei principi della concorrenza implicano, se accertati, l’illiceità del comportamento dei concorrenti interessati, ma non l’illegittimità degli atti di gara. Mancando l’illegittimità di un provvedimento dell’amministrazione, mancherebbe un requisito essenziale dell’annullamento doveroso e potrebbe invece ravvisarsi nella situazione in esame l’unico caso di revoca doverosa, cioè di una abrogazione legata alla sopravvenuta inopportunità dell’atto che si sostanzierebbe nella necessità di eliminare un provvedimento che osti con la libertà di concorrenza. 5. A fronte di questa disamina dei diversi filoni interpretativi che descrivono la giurisprudenza del giudice amministrativo in tema di annullamento doveroso, è utile intendersi su quale sia, sempre che sia possibile rinvenirne una, la ratio decidendi che accomuna gli orientamenti appena riassunti. Innanzitutto, l’eccezione alla regola generale dell’annullamento d’ufficio riguarda una casistica molto diversificata, certamente diversa, per natura e caratteri, dalle tre ipotesi richiamate usualmente nella manualistica. La peculiarità delle situazioni enucleate rispetto a quelle tradizionali suggerisce l’utilità di una sistematizzazione che tenga conto delle citate novità giurisprudenziali. Un primo tentativo in questo senso ci porta ad affermare che l’annullamento è considerato doveroso nelle vicende in cui il legittimo affidamento del privato nella prosecuzione del rapporto con il soggetto pubblico manca o è affievolito al punto tale da non avere rilevanza giuridica, almeno non nel contemperamento degli interessi. Questa impostazione spiega ampia parte della casistica


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citata: si pensi alle situazioni di mala fede del destinatario dell’atto o agli annullamenti d’ufficio che riguardino atti palesamente invalidi: in queste ipotesi, mancando la buona fede in senso soggettivo, è di certo carente anche un affidamento legittimo da tutelare; si considerino, poi, gli atti non esecutivi o ad efficacia interinale o quelli eliminati ad un breve lasso di tempo dal momento dell’emanazione: qui potrebbe parlarsi di legittimo affidamento, ma si tratterebbe di un affidamento troppo debole per far ritenere che sia maturata in capo al privato una posizioni giuridiche rilevante. Restano fuori da questa sistematizzazione, l’annullamento doveroso legato alle illegittime attribuzioni di status ai dipendenti pubblici, quello relativo ai provvedimenti di concessione edilizia e, infine, quello che travolge i provvedimenti amministrativi che contrastino con la disciplina comunitaria. Questi casi parrebbero contraddire la logica appena ricostruita. Tuttavia, sembrerebbe sussistere un’altra ratio comune al secondo gruppo di decisioni, che consiste nell’intento di affermare la prevalenza di taluni interessi pubblici, considerati particolarmente sensibili, e di sottrarli a qualunque forma di contemperamento con gli interessi privati. Detto in altri termini, l’interesse pubblico all’economicità ed alla correttezza della gestione delle finanze delle amministrazioni, l’interesse pubblico alla esatta applicazione della normativa urbanistica e l’interesse pubblico alla conformità dell’ordinamento con i principi comunitari paiono intrinsecamente prevalere nelle considerazioni della giurisprudenza amministrativa. In questo senso, quindi, l’annullamento doveroso raggrupperebbe quelle vicende in cui la giurisprudenza ha a che fare con interessi pubblici di particolare valore, di cui, in un particolare momento storico, si intende riconoscere il primato. Ciò conferma la relatività del concetto di annullamento doveroso e la sua origine prevalentemente giurisprudenziale. 6. Pare criticabile l’orientamento seguito dal Consiglio di Stato che, come si è accennato, ritiene legittimo e doveroso l’annullamento in sede di autotutela del provvedimento amministra-


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tivo che violi la normativa comunitaria, a discapito dell’interesse del privato e della protezione di un suo eventuale legittimo affidamento. La prevalenza che la giurisprudenza amministrativa ha ritenuto di dover riservare al diritto di fonte sovranazionale non è giustificabile, specie se si considera che la violazione del diritto comunitario non viene sanzionata tanto severamente nemmeno dai giudici comunitari. Infatti, la disciplina dell’autotutela interna all’ordinamento sovranazionale, che si può ricostruire dall’analisi della sentenze della Corte di Giustizia, è ispirata principalmente proprio a proteggere i destinatari del provvedimento da atti di ritiro arbitrari e ingiustificati dal punto di vista dell’interesse pubblico concreto, lungi dal richiedere necessariamente il ripristino della conformità formale tra provvedimento amministrativo e dati di legge. È necessario premettere infatti che, in sede comunitaria, la disciplina dell’autotutela è, come nel nostro ordinamento, prevalentemente giurisprudenziale: la Corte di Giustizia ha assunto cioè il compito di elaborare i limiti di ammissibilità della « revocation » degli atti amministrativi e, a tali fini, ha fatto uso di principi non scritti del diritto comunitario, intersecandoli con le esigenze di legalità dell’azione amministrativa e della protezione dei diritti quesiti. Come la giurisprudenza nazionale, anche quella comunitaria ha distinto tra revoca di atti amministrativi legittimi e revoca di atti contra ius; essa ha inoltre separato una revoca con effetto retroattivo (quello che chiameremmo annullamento d’ufficio secondo i canoni del diritto interno) da una revoca con effetti non retroattivi, o altrimenti detta abrogazione. La sentenza Algera (32) (1957) è considerata il leading case sul tema in oggetto: con essa la Corte ha ripercorso, applicando il metodo comparativo tra i sistemi nazionali (33), gli elementi essenziali dei principi dell’autotutela decisoria propri degli Stati al(32) Corte Giust., sentenza, 12 luglio 1957, Algera e a. c. Assemblea comune della Ceca, cause riunite 3, 4, 5, 6, 7/56, in Racc., 1957, 81. (33) Espressamente dalla motivazione della citata decisione: « la Cour de Justice


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lora membri dell’Unione. In seguito all’analisi cosı̀ orientata, il collegio ha finito per concludere, da un lato, che un act administratif legal creant des droits subjectifs ne peut pas en principe être rapporté unilateralment e, dall’altro, che le retrait d’un act illegal de la nature indiquée peut en principe entervenir dans un delai raisonable. In sostanza, attraverso l’analisi comparatistica, di cui si dà ampiamente conto nella citata decisione, i giudici comunitari concludono che nel diritto degli Stati membri la necessità di tutelare i diritti acquisiti dai destinatari degli atti amministrativi legittimi e quella di stabilità del rapporto creatosi spesso prevalgono sull’interesse dell’amministrazione a ritirare la propria decisione e, conseguentemente, ne traggono la regola di diritto comunitario per cui in via di principio è da escludersi la revoca di atti amministrativi che abbiano determinato un legittimo affidamento qualora essa sia motivata da vizi di merito o dalla sopravvenuto inopportunità dell’atto. Per quanto concerne, invece, il potere di annullamento d’ufficio, dunque relativamente ai casi in cui l’atto amministrativo oggetto di riesame sia illegittimo, i diritti degli Stati membri ammettono, seppure con diverse condizioni, la possibilità di revocation. Si è verificato che, generalmente, i limiti all’eliminazione dell’atto derivano dal principio di buona fede (treu und glauben), che si oppone ad un ritiro tardivo, che intervenga cioè in data sensibilmente successiva al momento dell’emanazione dell’atto stesso. A riguardo la Corte, accogliendo i principi vigenti negli Stati membri, ha finito per circoscrivere il potere di annullamento d’ufficio entro un termine di tempo « ragionevole », qualora si tratti di provvedimenti conferant droits subjectifs, cioè qualora il provvedimento sia di tipo costitutivo. La genericità dell’espressione « ragionevole lasso di tempo », non ha avuto, invero, un’interpretazione univoca: essa lasciava all’amministrazione una certa libertà d’azione e, correlativamente, attribuiva al giudice comunitario un margine considerevole di opinabilità che emerge dall’analisi della casistica a tale proposito. Nella doit trancher la question en s’inspirant des regles reconnues par les lois, la doctrine et la jurisprudenza des Etats Membres ».


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sentenza Alpha Stell (34), per esempio, la Corte, considerando rispettato il requisito del tempo ragionevole, ha reputato legittimo l’annullamento di un atto adottato ad oltre un anno di distanza dall’emanazione del medesimo (35).Viceversa, qualche anno dopo, la Corte (36) ha deciso che trascorsi due anni dall’emanazione dell’atto, si fosse lasciato trascorrere un tempo troppo lungo, tale da frustrare il legittimo affidamento riposto dal privato nella stabilità del rapporto. Il caso da ultimo citato anticipa che, oltre al fattore tempo, è stato necessario individuare altri requisiti in grado di limitare l’esercizio del potere di abrogazione. Invero, già nel caso Snupat (37) si precisava che poiché l’annullamento ex post dell’atto fosse legittimo, occorreva individuare un interesse pubblico alla rimozione, che prevalesse sulla tutela dell’affidamento: il provvedimento di annullamento con effetto retroattivo è ammesso solo quando « tenuto conto delle circostanze, l’interesse pubblico consistente nel far salvo il principio di legalità prevalga sull’interesse dei beneficiari al mantenimento di una situazione che essi avevano il diritto di ritenere stabile. (...) La valutazione della rispettiva importanza degli interessi contrapposti e, di conseguenza, la decisione di revocare o meno con effetto retroattivo il provvedimento viziato spettano in primo luogo all’organo che ha emanato l’atto ». Occorre tenere ben presente che la giurisprudenza comunitaria ha tenuto distinta l’eliminazione, da un lato, dei provvedimenti di tipo costitutivo e, dall’altro, dei provvedimenti di tipo dichiarativo. In quest’ultimo caso, infatti, diminuisce il rigore delle condizioni richieste per legittimare l’annullamento. Quando l’annullamento riguardi un provvedimento amministrativo di tipo dichia(34) Corte di Giustizia, sentenza, 3 marzo 1982, Alpha Stell c. Commissione, in Racc., 749. (35) Nella fattispecie appena citata, peraltro, si è concluso per la legittimità della revoca anche in considerazione del fatto che nel processo davanti al giudice comunitario si era data prova dell’assoluta carenza di legittimo affidamento nel destinatario dell’atto annullato. (36) Consorzio Cooperative d’Abruzzo c. Commissione, causa 15/85, in Racc., 1987, 1005. (37) Corte di Giustizia, sentenza, 22 marzo 1961, Snupat c. Alta Autorità della Comunità europea, cause riunite 42 e 29/59, in Racc., 1961, 99.


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rativo, la revocation è ammissibile (sempre a condizione che vi sia una comparazione tra gli interessi di segno diverso coinvolti nella situazione reale) anche qualora sia trascorso un lasso di tempo maggiore di quello ragionevole (38). Cosı̀, nella sentenza Hoogovens (39), avrebbe dovuto escludersi l’ammissibilità dell’annullamento d’ufficio della decisione amministrativa, considerando che era certamente trascorso quella che nella causa Algera veniva individuato come il termine ragionevole di ritiro dell’atto: si trattava infatti della revoca assunta nel 1961 di una misura presa nel dicembre del 1957, che riconosceva esente l’impresa dal pagamento di determinate tasse. Se non che, l’avvocato generale, seguito poi dalla Corte nella sua decisione definitiva, aveva segnalato che nel caso esaminato, il fattore tempo non doveva ritenersi particolarmente rilevante, in quanto l’annullamento riguardava un provvedimento di tipo dichiarativo, e cioè un caso in cui il provvedimento amministrativo di primo grado non aveva costituito diritti, ma semplicemente accertato una situazione di fatto. Quindi, trattandosi di una decision ricognitive, non poteva individuarsi una situazione di legittimo affidamento da tutelare. Riassumendo, l’impostazione dualistica che divide la « revoca » a seconda che riguardi provvedimenti legittimi o provvedimenti illegittimi si arricchisce di un’ulteriore importante decisione: nel diritto amministrativo europeo, la disciplina dell’autotutela varia anche a seconda che si tratti di provvedimenti che conferiscano diritti soggettivi o analoghi vantaggi, oppure che venga riesaminata una decisione dal contenuto meramente ricognitivo. In quest’ultima ipotesi « si deve tener conto della situazione concreta degli interessi degli amministrati » e « il principio (38) Nel caso Algera, infatti, la Corta ha trattato la questione dell’autotutela in relazione a provvedimenti che conferivano incarichi di servizio o attribuivano diritto ad ottenere una determinata retribuzione e, quindi, in relazione a provvedimenti costitutivi; successivamente, invece, il problema si è posto relativamente ad atti dichiarativi o di semplice accertamento, concernenti, per esempio, il range di riferimento per determinare il pagamento di certi contributi fiscali: in tali evenienze, il fattore temporale è stato ritenuto meno significativo, visto il minore grado di affidamento posto dal privato nell’attività amministrativa non accrescitiva della sua sfera giuridica. (39) Corte di Giustizia, sentenza 12 luglio 1962, Hoogovens c. Alta Autorità, C-14/61, in Racc., 473


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per il quale la revoca ex tunc potrebbe essere fatta valere soltanto entro un termine ragionevole, ha scarso rilievo (...); in tali ipotesi esso costituisce solo uno dei criteri di cui si deve tenere conto nel raffronto degli interessi ». Perciò « una motivazione va ritenuta adeguata ai sensi degli artt. 15 e 33 del Trattato, qualora consenta agli amministrati ed alla Corte di rintracciare i lineamenti essenziali del ragionamento » svolto dall’autorità amministrativa competente. Approfondendo il concetto di legittimo affidamento, la giurisprudenza comunitaria ha ritenuto legittimi alcuni casi di annullamento d’ufficio in cui i beneficiari avrebbero dovuto avvedersi dell’illegittimità del provvedimento, avendola direttamente procurata tramite dichiarazioni false o reticenti; viceversa è stato considerato, invece, illegittimo l’annullamento nei casi in cui il vizio dell’atto sia dipeso da un apprezzamento erroneo da parte dell’autorità amministrativa competente ovvero dalla sua negligenza o imprecisione (40). I principi sopra descritti valgono estensivamente per tutti gli ambiti delle statuizioni di soggetti pubblici, ogni qualvolta sia configurabile un potere di autotutela, ivi compresi gli atti non formalmente amministrativi che promanino da soggetti pubblici (41). Queste conclusioni vengono confermate anche dalla giurisprudenza più recente in tema di autotutela (42), solo con qualche precisazione. Si segnala che nella causa De compte, la Corte ha attuato una gradazione tra fattore tempo e legittimo affidamento: la citata decisione, infatti, considera illegittimo il ritiro dell’atto qualora non emergano dalle circostanze del caso motivi di ordine pubblico che debbano prevalere su quello del destinatario a conservare una situazione che egli poteva considerare stabile. Detto questo, la motivazione non si pronuncia sulla questione del ri(40) Corte di Giustizia, sentenza 13 luglio 1965, Lemmerz-Werke c. Alta Autorità, C-111/63, in Racc., 1965, 972. (41) Corte di Giustizia, sentenza 16 giugno 1966, Forges de Chatillon, causa 54/ 65, in Racc., 1966, 382. (42) Corte di Giustizia, sentenza 17 aprile 1997, De Compte c. Parlamento, C90/95, in Racc., I-1999; Corte di Giustizia, sentenza 27 marzo 1990, Cargill e a c. Commissione, C- 229/88, in Racc., 1990, I-1303.


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spetto del termine ragionevole di revoca che, peraltro nel caso in esame era particolarmente breve (3 mesi). Rielaborando gli orientamenti della giurisprudenza comunitaria possiamo osservare che, in primo luogo, la distinzione tra revoca di atti legittimi, generalmente non ammessa, e annullamento di atti illegittimi, generalmente consentito, risponde alla logica del principio di legalità, che impone la conformità dell’azione amministrativa alla legge. In secondo luogo, il diritto comunitario pare propendere comunque per riconoscere la prevalenza agli interessi dei privati che abbiano posto il loro affidamento nella certezza del rapporto istauratosi in seguito all’emanazione del provvedimento amministrativo. Per cui, sebbene in generale l’interesse alla legalità degli atti amministrativi dovrebbe prevalere, costituiscono un’eccezione a tale regola basilare i casi in cui ciò comporterebbe un ingiusto sacrificio della sfera giuridica del privato. Dunque, l’approccio interpretativo della giurisprudenza comunitaria relativamente all’ammissibilità dei poteri di autotutela si basa principalmente sulla considerazione delle circostanze del caso oggetto del giudizio: ai fini di valutare la legittimità di una decisione di annullamento di un precedente atto illegittimo, deve essere dato rilievo agli interessi privati delle parti coinvolte, al carattere del provvedimento amministrativo oggetto del riesame in relazione al suo contenuto, alle ragioni che spingono all’eliminazione dell’atto e all’obiettivo che s’intende raggiungere con la sua abrogazione ex tunc. Non basta cioè, in questo contesto, un’adeguata motivazione in ordine all’interesse pubblico all’eliminazione dell’atto illegittimo, come accade spesso nel nostro ordinamento interno: tale motivazione è comunque recessiva rispetto all’affidamento posto dal privato nella legalità dell’azione amministrativa e nella stabilità del rapporto creatosi in seguito alla decisione assunta dall’autorità. In sostanza, il bilanciamento dell’interesse pubblico con la tutela del legittimo affidamento del privato in un atto costitutivo risulta essere il punto nodale delle decisioni in ordine alla legittimità dell’esercizio dell’autotutela. Cosı̀ riassunti gli elementi fondamentali della disciplina co-


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munitaria dell’autotutela, si capisce che la presa di posizione della nostra giurisprudenza finisce per punire più gravemente di quanto non accada nell’ambito giurisprudenziale europeo la violazione del diritto comunitario, senza che ciò sia necessitato da esigenze di provenienza europea. In conclusione, l’orientamento dei giudici italiani pare criticabile in quanto realizza un risultato opposto a quello cui mirano le sentenze della Corte di Giustizia: esso implica un ingiustificato ed incontastabile sacrificio delle istanze legittime di affidamento del privato e perciò solo dovrebbe essere disatteso. Ciò vale a maggior ragione se si considera che, giudicando della legittimità o meno di una decisione amministrativa di autotutela che procuri il ripristino della legalità comunitaria violata, il giudice italiano svolge, in parte qua, una funzione giurisdizionale collaborativa coi giudici comunitari che hanno il compito, in via primaria, di sanzionare la violazione del diritto comunitario. Con ciò s’intende dire che il giudice italiano, riferendosi a situazioni che non riguardano esclusivamente lo stato del diritto interno, dovrebbe attenersi al canone interpretativo adottato dai giudici comunitari, pena una mancanza di uniformità sul territorio europeo. In concreto questo implicherebbe che la logica del primato del legittimo affidamento che, come si è visto, ispira la giurisprudenza comunitaria, dovrebbe essere trasposta nelle situazioni che concernono l’eliminazione di un provvedimento per contrasto con il diritto dell’Unione. 7. Alcune considerazioni critiche. In primo luogo, si osserva l’imprecisione della terminologia utilizzata per descrivere la casistica relativa all’annullamento d’ufficio non assistito da adeguata motivazione. Si condivide quell’osservazione di autorevole dottrina (F. TRIMARCHI BANFI) che ricorda come, a rigore, ogni potere amministrativo sia doveroso, non solo quello legato all’accertamento delle illegittimità provvedimentali. Parrebbe allora forse preferibile contrapporre all’annullamento c.d. facoltativo un annullamento necessitato, per esprimere la consequenzialità al mero riscontro della legalità violata.


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In secondo luogo, occorre domandarsi se colga nel segno quella dottrina che ritiene l’annullamento necessitato, o doveroso che dir si voglia, espressione di un potere vincolato (43) per quel che concerne i casi emersi nella giurisprudenza recente. Sul punto è necessario riflettere (A. TRAVI) se non sia forse improprio parlare di attività vincolata, in quanto la casistica attuale in tema di annullamento doveroso riguarda situazioni in cui, in concreto, manchino gli interessi secondari da contemperare con l’interesse primario, ma ciò concerne le peculiarità della situazione fattuale, e non cambia i connotati dell’attività svolta dall’amministrazione, che resta discrezionale, per il solo fatto che l’annullamento d’ufficio, anche doveroso, si basa sempre e comunque sulla considerazione di un interesse pubblico, pur se non contemperabile con altri, e non su di un risultato preconiato dalla legge. In sostanza, le peculiarità del casi concreti non potrebbero modificare l’essenza del potere. La natura discrezionale dell’annullamento sarebbe inoltre confermata dalla necessità, emergente dalla giurisprudenza, che il suo esercizio rispetti quegli oneri procedimentali, tra cui in particolare la comunicazione d’avvio, che restano fondamentali nel sindacato sui poteri non vincolati. In terzo luogo, è qui opportuno sottolineare che l’annullamento d’ufficio offre lo spunto per considerare la posizione che assume, sotto il profilo dinamico, il principio di legalità dell’azione amministrativa posto in relazione con altri principi essenziali degli ordinamenti giuridici moderni, quali la certezza del diritto e il principio della stabilità dei rapporti giuridici di diritto pubblico. La tensione tra i principi summenzionati è intuitiva: laddove prevalga il principio di legalità, infatti, prevarrebbero la logica della doverosità del ritiro dell’atto e l’assunto secondo il quale l’annullamento in sede di autotutela dovrebbe porre rimedio a situazioni altrimenti permanentemente antigiuridiche (44). Qualora, invece, prevalessero il principio di certezza del diritto e (43)

Ad esempio il già citato E. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, cit.,

488. (44) Optano, infatti, per un annullamento doveroso coloro che ritengono che l’annullamento facoltativo realizzi un’inconcepibile contrapposizione tra legittimità e


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quello di stabilità dei rapporti di diritto pubblico, la necessità di restaurare l’ordine giuridico violato dovrebbe quanto meno essere contemperata con il principio di conservazione degli atti amministrativi e con l’interesse del destinatario dell’atto alla permanenza dell’assetto di interessi a lui favorevole. Come si è visto, la nostra giurisprudenza amministrativa (45) pare essersi orientata nel senso di dare priorità alla buona fede del destinatario del provvedimento amministrativo favorevole ed alla permanenza nel tempo del rapporto istaurato grazie all’azione amministrativa. Infatti, i casi (46) in cui si consente all’amministrazione di annullare in legalità (Anche sulla suggestione degli studiosi tedeschi e, in particolare, del pensiero giuridico di FORSTHOFF si sono espressi in tal senso V.M. ROMANELLI, L’annullamento degli atti amministrativi, cit.; F. CAMMEO, Commentario delle leggi sulla giustizia amministrativa, Milano, 1911; E. CANNADA BARTOLI, Annullabilità e annullamento, cit., 489): il vincolo del rispetto della legge, proprio dello Stato di diritto e di un’amministrazione che si dica soggetta al principio di legalità, imporrebbe in ogni caso all’amministrazione di intervenire per restaurare l’ordine giuridico violato. (45) Tra le più recenti, cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 7 novembre 2002, n. 6113, in Foro amm. Cds, 2002, 2825; Cons. Stato, Sez. IV, 17 luglio 2002, n. 3997, ivi, 1657; Cons. Stato, Sez. V, 15 febbraio 2002, n. 903, ivi, 410; Cons. Stato, Sez. V, 25 gennaio 2002, n. 408, ivi, 410; Cons. Stato, Sez. IV, 8 febbraio 2001, n. 555, in Giur. it., 2001, 1262; Cons. Stato, Sez. IV, 1 febbraio 2001, n. 399, in Foro amm., 2001, 280. Tar Molise, 30 giugno 2003, n. 502, in Foro amm. Tar, 2003, 2009; Tar Campania, Salerno, Sez. II, 20 gennaio 2003, n. 24, ivi, 260; Tar Lombardia, Milano, Sez. III, 18 giugno 2002, n. 2528, ivi, 1916. (46) Riassumendo la giurisprudenza citata, la casistica recente di annullamento dovuto automaticamente in seguito al riscontro dell’illegittimità dell’atto è particolarmente variegata: si segnalano a) in tema di illegittima attribuzione di status a pubblici dipendenti e, in generale, illegittimo esborso di denaro pubblico: Cons. St., Sez. V, 4 febbraio 2003, n. 516; Cons. St., Sez. V, 16 gennaio 2002, n. 213; Cons. St., Sez. IV, 7 luglio 2000, n. 3805; Tar Puglia, Bari, Sez. I, 19 marzo 2003, n. 1271 (in tale situazione l’economicità della gestione delle finanze pubbliche è ritenuta sempre prevalente sulle esigenze di tutela della buona fede del privato); b) sull’importanza del fattore tempo si veda, per tutte, Cons. St., Sez. V, 9 maggio 2000, n. 2648 (il principio generale espresso è che l’annullamento a breve distanza di tempo dall’emanazione dell’atto sia consentito senza ponderazione di interessi, cfr. in particolare, la casistica sui provvedimenti non divenuto efficaci Cons. St., Sez. IV, n. 6113/2002 e sull’annullamento d’ufficio dell’aggiudicazione provvisoria Tar Lombardia, Sez. III, 11 marzo 2003, n. 435; c) la buona fede è totalmente assente qualora si provi la mala fede soggettiva del destinatario V.: Cons. St., Sez. V, 9 maggio 2000, n. 2648; Tar Lombardia, Sez. I, 5 novembre 2002, n. 4425; atto consequenziale e atto presupposto (Cons. St., Sez. V, 9 novembre 2001, n. 5771: annullamento dell’affidamento di incarichi professionali e conseguente annullamento incarico di direzione lavori); a volte anche il contrasto con la disciplina urbani-


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sede di autotutela senza individuare un interesse attuale e concreto, ulteriore e diverso dalla semplice rimozione dell’atto, che giustifichi il sacrificio dell’interesse del privato alla conservazione dell’atto, sono situazioni in cui la vicenda reale non pone problemi di buona fede, in quanto manca un legittimo affidamento, o esso è particolarmente affievolito. A prima vista, tale orientamento potrebbe provocare un sacrificio insopportabile del principio di legalità. Tuttavia, a chi ritiene che il principio di legalità imponga di instaurare un regime di annullamento automaticamente legato al riscontro dell’invalidità dell’atto, si potrebbe obiettare che tale principio non ha valore assoluto, ma, fin dalle sue origini, convive con altri principi ritenuti fondamentali, quali il principio di certezza del diritto e quello della stabilità dei rapporti giuridici di diritto pubblico. Inoltre, il principio di legalità nel diritto amministrativo non implica che l’amministrazione sia soggetta soltanto alla legge, come se fosse un giudice: infatti, detto principio non osta a che la legge attribuisca all’amministrazione dei poteri anche discrezionali, cioè dei poteri in forza dei quali competa al soggetto pubblico effettuare una comparazione tra i diversi interessi coinvolti nella vicenda reale. Piuttosto, un problema di legalità, semmai, potrebbe porsi in relazione alla totale assenza di norme che legittimino l’esercizio del potere di autotutela. Almeno tale aspetto sarebbe risolto laddove la modifica della legge sul procedimento amministrativo riconoscesse la possibilità per l’amministrazione di procedere all’annullamento d’ufficio qualora ne sussistano ragioni di interesse pubblico e purché l’annullamento avvenga entro un termine ragiostica è inteso tanto importante da rendere necessario l’annullamento, Cons. Stato, Sez. VI, 20 gennaio 2000, n. 278; conforme Cons. St., Sez. V IV, 21 giugno 2001, n. 3334; Cons. St., Sez. V, 9 maggio 2000, n. 2648; Tar Veneto, II, n. 2254/2003, contra Tar Abruzzo, L’aquila, n. 388/2003; Cons. St., Sez. V, 2 settembre 2002, n. 4392; Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 21 marzo 2002, n. 1189; d) si ritiene inoltre doveroso l’annullamento di un atto amministrativo conforme a norme nazionali, ma in contrasto con la disciplina comunitaria (Cons. St., Sez. VI, n. 54/1996: « di fronte alla necessità di adempiere agli obblighi comunitari può recedere ogni altro interesse pubblico o privato »; Cons. St., Sez. V, 18 aprile 1996, 447: « l’interesse pubblico prevalente è quello di evitare l’irrogazione di sanzioni a carico dello Stato da parte delle istituzioni comunitarie per violazione del diritto comunitario »).


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nevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati. Resterà da verificare, a quel punto, se sia ancora ammissibile quella giurisprudenza amministrativa che legittima l’annullamento d’ufficio a prescindere dalle ragioni di pubblico interesse concreto ed attuale. Se cosı̀ fosse, potrebbe verificarsi un’ulteriore discrasia tra poteri di autotutela e principio di legalità, sotto una nuova prospettiva. SARA VALAGUZZA



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