Il Sogno e la Storia n. 4

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Settimanale ~ E 3,00 N. 4 ~ 27 giugno 2009

SCORPIONE EDITRICE


n. 4 - 27 giugno 2009 © 2009 - Testo e disegni: Angelo R. Todaro – www.angelotodaro.it Collaborazione e consulenza storica-archeologica: Mario Lazzarini Edito da: Scorpione Editrice, via Istria 65d 74100 Taranto – Tel. fax 099 7369548 Email: info@scorpioneeditrice.it Web: scorpioneeditrice.it Grafica e impaginazione: Studio Puntolinea, Taranto: 099 7775843 Stampa: Stampasud S.p.A., Mottola (TA)

Settimanale ~ E 3,00 N. 4 ~ 27 giugno 2009

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Il volo della colomba Settimanale ~ E 3,00 N. 5 ~ 4 lugli o 2009

SCORPIONE

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Riassunto dei capitoli pRecedenti Angelo, l’autore, compie inconsapevolmente e misteriosamente un viaggio nel passato nella Roma dell’anno 13 a.C. per il grande desiderio di voler conoscere Orazio Flacco e farsi raccontare da lui l’antica storia di Taranto, ma anche per capire perché il grande poeta latino ha spesso parlato nei suoi scritti in maniera entusiastica della città bimare. Incontra Orazio nella ricca casa romana di Mecenate, dov’è in corso un ricevimento al quale Orazio ha dovuto partecipare. Il poeta, interrogato da alcuni giovani su quale sia la strada migliore per raggiungere Brindisi, consiglia loro di scegliere la via Appia, poiché darebbe anche la possibilità «di poter ammirare e godere dell’antica città dei Lacedémoni», cioè Taranto. Quando Orazio sta per lasciare la casa, Angelo lo ferma e gli chiede di continuare a parlargli di Taranto. Il poeta, quando apprende che Angelo è Tarantino e vorrebbe conoscere l’antica storia della sua città, contento della richiesta gli spiega che l’argomento è così vasto e importante che non può essere affrontato in breve tempo. Gli dà quindi appuntamento nella sua casa in Sabina dove sarà possibile continuare il dialogo. Il giorno seguente, Angelo raggiunge il poeta nella sua casa nei pressi di Tivoli. Seduti ad un tavolo posto sotto un rigoglioso pergolato, dal quale pendono grossi grappoli d’uva rossastra non ancora matura, Orazio comincia a raccontare.

Orazio parla di Taranto, città che divenne dorica quando Roma esisteva già da poco più di 46 anni, ma parla anche della fondazione di Roma e pure dei Fenici, che con le loro case natanti s’avventurarono in mare per commerciare con gli indigeni italici. Narra poi dei Greci che navigarono nel Tirreno fondando Kymé sull’isola di Ischia, quindi Cuma sulla terraferma, e di altri greci che in Sicilia fondarono altre colonie: Messana, Catana, Leontinoi, Himera, Siracusa, Gela e Akragas. E di altri ancora che edificarono Sibari e le altre città della Magna Grecia sulla costa ionica, Taranto compresa. Poichè il racconto si fa lungo, il poeta invita Angelo a restare. «Sei mio ospite – dice –. Ho fatto approntare una stanza. Ora è bene che mi ritiri un po’, le mie povere ossa non sopportano più la fatica di un lungo conversare».

Il giorno seguente, Orazio ed Angelo fanno una breve gita nel bosco nei pressi della casa. È l’occasione per Orazio, seduti sulla riva di un ruscello, di raccontare la storia di Taranto iniziando da Sparta, dalla quale Fàlanto, per ordine del dio Apollo tramite la voce della sacerdotessa Pizia di Delfi, partì con la moglie Etra e i suoi amici per raggiungere le coste italiche dello Ionio. «Il loro compito – disse la Pizia – sarà quello di espugnare Taras, fare grande quella città e divenire il flagello delle popolazioni locali!». In una cena organizzata da Orazio per altri suoi amici, tra una portata e l’altra il poeta parla ancora della Megale Hellas, cioè della Magna Grecia e delle città più importanti. Racconta che poiché Fàlanto governava da severo re venne in odio agli stessi Tarantini e fu costretto ad andare esule a Brindisi, dove poi morì. Così le popolazioni vicine a Taranto si fecero sempre più minacciose e turbolente. Peucezii, Iapigi e Messapi vinsero i Tarantini in una battaglia nei pressi di Mottola nel 473 a.C.. La tremenda strage portò ad una rivolta popolare che rovesciò il governo aristocratico e instaurò la democrazia, a capo della quale fu messo uno Stratega, eleggibile ogni anno, con pieni poteri. Nel 460 a.C. i Tarantini ripresero la guerra e in una decisiva battaglia misero definitivamente fuori combattimento sia i Messapi che i Peucezii. La cena si conclude con gli ospiti alquanto brilli.



L’uomo che sussurrava a Dio di Mario D’Anzi È un invito a riscoprire il senso della creatura che è in noi, riappropriarsi di una interiorità fatta di valori autentici che, istintivamente e coscientemente, ti avvicinano alla ricerca di Dio. Quel Dio di cui è pervasa la nostra esistenza e che è l’alito che dà vita a tutte le cose, che racchiude il mistero fascinoso dell’universo. Alla fine, scopri che il parlare con Lui dischiude la mente e ti arricchisce di intuizioni straordinarie. Così’, tutto acquista un senso: e la vita reale, difficile e dura, levita in una dimensione superiore, inimmaginabile e gratificante.

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Gli acquerelli di Louis Ducros Quattro gentiluomini, un pittore di paesaggi, la Puglia del Grand Tour, 1778. La Puglia negli acquerelli di Luois Ducros. Catalogo della mostra ospitata presso il Museo Archeologico di Taranto (30 dicembre 2008-30 marzo 2009). L’esposizione propone 80 acquerelli di Louis Ducros che raffigurano i dati significativi che caratterizzarono il Grand Tour del 1778 vissuto da quattro gentiluomini olandesi. Le opere provengono dal Rijksmuseum di Amsterdam e, in catalogo, sono corredate da interventi critici di: Cosimo D’Angela, Andrea Emiliani, Piero Massafra. Armanda Zingariello. Pagine 144 - formato 33x25 cm - tutto a colori - copertina cartonata e sovracoperta

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Louis Ducros stampe degli acquerelli 15 stampe a colori riferite ai comuni di Canosa, Canne, Trani, Giovinazzo, Bari, Monopoli, Brindisi, Lecce, Gallipoli, Manduria e Taranto. Le opere provengono dal Rijksmuseum di Amsterdam. Si possono acquistare le stampe a scelta.

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V

Il Tirreno conteso Una gita a Tivoli, tra storie di pirati etruschi e cartaginesi, commerci e strategie mercantili, da sud a nord, per mare e per terra

M

i sento scuotere, e odo una voce dire «Il padrone ti vuole… svegliati!». E infatti mi sveglio. Sono steso sul letto nella mia camera.

Grafica greca.

— Il padrone ti vuole… — continua la voce. Riconosco il servo di Orazio. Non mi sono ancora abituato al fatto che sono nella sua casa, al tempo di Ottaviano Augusto. Lo guardo con gli occhi di un assonnato. — Il padrone ti aspetta nel cortile innanzi alla casa — mi informa il servo. — Vengo subito — dico e mi metto a sedere sul letto. Il servo lascia la stanza mentre mi affretto a vestirmi. Non occorre molto tempo per indossare la tunica e i sandali datimi da Orazio. Quando raggiungo il cortile trovo Orazio in compagnia di Lucio Vario Rufo, il poeta suo amico. E ricordo anche la cena di ieri, con il terribile triclinio, terminata con tutti gli ospiti un po’ alticci per via del vino. — Ecco Angelo — dice Orazio. Sono entrambi vestiti di tutto punto, toga compresa. — Gli altri amici sono già andati via — continua Orazio — , avevano fretta e ti salutano. Vario ed io abbiamo invece deciso di trascorrere la giornata alle terme di Tivoli. Vieni con noi, vero? — Mi piacerebbe, Orazio, ma non ho denari con me. Meglio avvisare, perché certamente alle terme non ci si va gratis. — Ma tu sei mio ospite, caro Angelo — mi rassicura Orazio — . Il denaro non ti

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CAPITOLO V

serve. E poi, non possiamo fare a meno del nostro amico tarantino, vero Vario? — No di certo — interviene Vario. — Così avremo l’occasione di mostrarti che anche noi Romani, in fatto di terme, non siamo da meno di voi Greci — dice Orazio mentre si allontana — . Qualcosa abbiamo imparato… Vado a vedere se il calesse è pronto. — Il viaggio — aggiunge Vario — ci darà l’opportunità di parlare ancora della tua Taranto. — Ne sarò contento… Mentre attendo con Vario il ritorno di Orazio mi guardo attorno. La villa di Orazio è molto bella e ciò che egli chiama “orto” è in realtà un podere ricco, oltre che di vari tipi di ortaggi, di viti, numerosi alberi da frutta e cespugli carichi di prugne, di more e corniole vermiglie. Sullo sfondo vedo alberi di querce e lecci che, come dice Orazio offrono abbondanza di ghiande alle bestie e tanta ombra al suo padrone. E nei dintorni c’è anche una fresca e pura sorgente che genera il torrente che Orazio ed io abbiamo raggiunto ieri, che poi ingrossandosi va a sboccare nell’Aniene, uno dei due fiumi di Roma. Fanno da cornice a tutto ciò le montagne che s’alzano oltre gli alberi; la villa è praticamente in una valle verdeggiante. Pare venuta qui Taranto con tutto il suo verde, dice Orazio quando la descrive ai suoi amici… Ma dov’è ora il verde a Taranto? Mah! — Possiamo andare — ci urla Orazio gesticolando dal cancello della villa — , venite pure. Saliamo tutti su un calesse simile a quello col quale sono arrivato qui; qui lo chiamano cisium, ha grandi ruote ed è tirato da due cavalli. Iniziamo il viaggio per Tivoli, chiamata dai latini Tibur, che dovrebbe distare una decina di chilometri. — Possiamo approfittare del viaggio per parlare di Taranto… — continua Orazio. — L’avevo già detto io — interviene Vario. — Ah… Già… Ma dove eravamo arrivati? — Al momento in cui Taranto era divenuta una repubblica ed aveva sconfitto Messapi e Peucezii in una grande battaglia — dico per far ricordare Orazio. — Ah, sì… — Orazio si batte una mano sulla fronte — , Taranto infatti s’era ingrandita a tal punto da raggiungere i centomila abitanti. Ebbene, sai cosa fecero i Tarentini una ventina d’anni più tardi?

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IL TIRRENO CONTESO

Anatra e leone nella grafica dei Greci di Rodi.

«Finché c’era da lottare contro un nemico comune, come quando l’Ellade fu invasa dai Persiani, Sparta ed Atene facevano causa comune… altrimenti bisticciavano.

— No. Cosa fecero? — chiedo. — Beh… fondarono anch’essi una colonia: Heraclea, presso le foci del fiume Siri. — Evidentemente la città scoppiava di gente… — Non solo per questo — continua Orazio — . Heraclea diveniva un’ottima barriera per difendersi dai popoli posti a sud-ovest, anche dagli Elleni. — Dai Greci? Cosa avevano da temere i Tarantini dai Greci? — chiedo sorpreso. — A Turi, pochi chilometri più in là, gli Ateniesi avevano fondato una loro colonia, per stabilire una loro testa di ponte nel golfo ionico. E tra i Tarantini Dori e gli Ateniesi non correva buon sangue. — Infatti — continua Vario — proprio in quel periodo nel Peloponneso scoppiò la guerra tra Sparta e Atene. — Già… mi pare di ricordare… — aggiungo — una guerra che durò trenta anni. — Finché c’era da lottare contro un nemico comune — aggiunge Vario — , come quando l’Ellade fu invasa dai Persiani, Sparta ed Atene facevano causa comune… — … altrimenti bisticciavano — riprende a spiegare Orazio — . Comunque nella guerra del Peloponneso le colonie italiche furono coinvolte, anche se Taranto si affrettò a dichiararsi neutrale. Siracusa, invece, si affiancò più energicamente a Sparta, tant’è che in Atene Alcibiade organizzò una spedizione navale contro di essa. — Ma guarda un po’… tra fratelli… — Fratelli? — chiede Orazio.

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CAPITOLO V

— Diciamo cugini? — provo a dire. — Comunque sia — continua Orazio — durante la traversata dello Ionio la flotta atenesiese incappò in una tempesta, ma riuscì a raggiungere le acque di Taranto. L’ammiraglio chiese ai Tarentini di poter entrare nel porto per approvvigionare e riparare le navi, ma il permesso fu negato e gli ateniesi dovettero riparare a Metaponto, città amica. — Beh, ognuno con i suoi… — Infatti. Poco più tardi giunse a Taranto una flotta spartana comandata da Gilippo; anche questa era incappata in una tempesta ma fu accolta dai Tarentini; i marinai poterono riparare le navi prima di raggiungere la Sicilia per soccorrere Siracusa e Selinunte, entrambe assediate dagli Ateniesi. — E come andò a finire? — Come saprai — continua a raccontare Orazio — Atene perse la guerra e la supremazia

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«…durante la traversata dello Ionio la flotta atenesiese incappò in una tempesta, ma riuscì a raggiungere le acque di Taranto. L’ammiraglio chiese ai Tarentini di poter entrare nel porto per approvvigionare e riparare le navi, ma il permesso fu negato…».


IL TIRRENO CONTESO

nell’Ellade… — Intendevo dire… con le due flotte rivali. — Ah!… a quel punto l’assedio di Siracusa fallì. Settecento ateniesi furono imprigionati nelle cave di pietra. E per l’aiuto ricevuto dai Tarentini, tra Siracusa e Taranto si instaurò un profondo rapporto di amicizia che durò a lungo. Anzi, la vittoria in Sicilia ringalluzzì i Siracusani… ed anche i Tarentini, che inviarono proprie navi in aiuto della flotta spartana nel mar Egeo. — Taranto aveva deciso, alla fine, da che parte stare… — concludo.

Moneta con testa di leone e retro liscio della città etrusca di Popluna (Populonia) del 380-350 a.C. circa. Era l'unica città etrusca sorta lungo la costa, con la parte alta estesa sul promontorio di Piombino.

Stiamo percorrendo la via Tiburtina, quando vedo un assembramento di gente vicino ad una specie di altare. Discutono piuttosto animatamente, poi alcuni si stringono gli avambracci e si abbracciano. — Cosa fanno quelle persone? — chiedo. — Quella è un’ara ad Hercules — mi risponde Orazio. — Hercules? — Certo, Hercules. Voi Elleni lo chiamate Heracle, ma qui da noi è conosciuto anche come Herclus, o Hercoles, il dio del guadagno rischioso e delle ricchezze straordinariamente aumentate. — Heracle… ma non era un uomo? Dotato di forza sovrumana, ma pur sempre uomo… — Un semidio — continua Orazio — , dal momento che si dice fosse figlio della mortale Alcmena sedotta da Zeus con l’inganno. Ma poi, proprio a me dici queste cose? Dopo che voi Tarentini avete innalzato, in suo onore, templi stupendi e fondato persino una città? — Heraclea…, è vero. Ma non mi hai detto cosa fanno là quegli uomini. — Sicuramente sono dei naviganti; usano stringere contratti mercantili presso l’ara di Hercules, rafforzandoli col giuramento. Guai a non mantenere la parola data. Hercules si adirerebbe. Per questo motivo il capitano gli offre, sull’altare massimo del mercato dei buoi, un decimo della preda fatta, ed il mercante un decimo dei beni acquistati. Ma i Romani d’oggi non ricordano che il culto di Hercules ha sostituito in qualche modo quello per l’antico dio latino della fede mantenuta, il deus fidius. Comunque, non sorprenderti se il culto di Hercules si è diffuso anche presso i Romani; egli è onorato in ogni luogo d’Italia, e i suoi altari sorgono dappertutto, tanto nelle vie delle città, quanto sulle strade maestre. — Eh, già. Dimenticavo l’ellenizzazione di Roma… Ma a proposito… cosa avveniva a Roma in quel momento? — chiedo mentre lasciamo alle spalle il gruppo di uomini — . Quando Taranto era grande ed importante… Roma era già importante anch’essa? — Macché — risponde Orazio — Roma passava ancora i suoi guai con gli Etruschi. Ma anche gli Elleni campani e siciliani ne avevano. Sempre in lotta con le navi etrusche per il possesso del Tirreno e del mare Gallico. — Mare Gallico? Qual era? — Beh, quello a nord della Corsica. I Liguri non erano ancora scesi in Italia, cosicché

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CAPITOLO V

tutto quel mare lo si chiamava Gallico, anche se, sulle coste della Gallia, gli Elleni Focei avevano occupato un villaggio fenicio chiamandolo Massalia, quello che oggi chiamiamo Massilia. Nel frattempo era diventato un importante centro marinaro. E che noi nel Duemila chiamiamo Marsiglia, mi viene da pensare. Ma non parlo. — Allora si sarebbe dovuto chiamare mare Massalio o Massaliota — dico scherzando. — Già. Ma dicevo… Roma passava i suoi guai con gli Etruschi. Aveva cacciato il suo ultimo re e i Tarquini, ma senza una guida valida era caduta nel disordine e nella debolezza. La lega tosca ne approfittò. Il re etrusco Lars Porsenna da Clusium ritornò all’attacco di Roma e se ne impossessò, costringendola a cedere ai limitrofi comuni toschi non solo tutti i possedimenti sulla riva destra del Tevere ma anche tutte le armi… — Infatti — continua Vario — i Romani dovettero promettere di non servirsi d’allora in poi del ferro se non del vomero per arare la terra. — Ma così non fecero — concludo io. — Eh, no — riprende Orazio — . I Romani se ne stettero buoni buoni nella loro terra. E l’esercito etrusco penetrò nel Lazio per far pagare il conto ai villaggi latini che avevano sostenuto Roma. Ma sotto le mura di Aricia essi trovarono… — Trovarono?… — chiedo. — Pensa un po’… — sorride — trovarono l’esercito greco giunto da Cuma a difesa degli Aricini. Non so come terminò la lotta, e se Roma fin d’allora interruppe la vergognosa pace. So per certo che anche questa volta gli Etruschi dovettero rientrare sulla destra del Tevere. — Ma perché i Cumani, che erano Greci, intervennero in aiuto dei Latini. Che interesse avevano in quella battaglia? — Amico mio, Cuma era già in conflitto con gli Etruschi residenti in Campania. Essi non potevano accettare un’occupazione del Lazio da parte dei Toschi. — La Campania era occupata dagli Etruschi? Credevo che stessero soltanto a nord di Roma. — Gli Elleni occupavano soltanto le falde del Vesuvio. Ma tra gli Elleni, e accanto ad essi, imperavano gli Etruschi; così in Anzio ed anche in Sorrento che, se pur d’origine siracusana, era caduta in mani etrusche. Anche la scoscesa e inaccessibile Capri, che pare proprio una rocca di pirati fungente da vedetta del mar Tirreno, era anch’essa in potere degli Etruschi. E tu dimentichi Populonia ed Aethalia, dove gli etruschi erano riusciti a respingere i coloni elleni. — Insomma anche i Greci erano circondati dagli Etruschi. — L’hai detto! Non era facile sopportare quei vicini che corseggiavano il mare a tal punto che il nome dei Tirreni divenne terrore dei Greci. Né fu senza motivo che i Greci considerarono invenzione etrusca l’àncora d’abbordaggio, e che chiamarono mare Tirreno tutto il mare italico occidentale. Rapidamente e furiosamente questi pirati estesero il loro dominio. — Poveri Greci! — sentenzio. — Sì, ma attenzione. Gli Etruschi non erano tutti dei pirati. Conducevano

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«…l’esercito etrusco penetrò nel Lazio per far pagare il conto ai villaggi latini che l’avevano sostenuta. Ma sotto le mura di Aricia essi trovarono… l’esercito greco giunto da Cuma a difesa degli Aricini».


IL TIRRENO CONTESO

anche un pacifico commercio con qualche popolo greco, tant’è che Populonia, a cominciare dall’anno 200 di Roma, proprio per meglio commerciare fu costretta a far coniare proprie monete in argento su modelli ellenici e sulla misura ellenica; ma poiché prevaleva la sua ostilità ai Greci italici queste monete non imitavano le didramme della Magna Grecia, bensì quelle attiche, allora in corso nell’Attica e in Sicilia. — Gli Etruschi erano quindi commercianti come i Fenici? — chiedo. — Altroché. Gli Etruschi si trovavano per il commercio nella più favorevole situazione, di gran lunga migliore di quella di Roma. Essi dominavano nel Tirreno ma anche sulla foce del Po, e controllavano, oltre che la Campania, anche il nord d’Italia, compresa la via di terra che conduceva da Pisa, sul mar Tirreno, a Spina sull’Adriatico. In loro mano erano le principali materie dell’esportazione italica, il ferro dell’Elba, il rame di Volterra e della Campania, l’argento di Populonia

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CAPITOLO V

e persino l’ambra che ad essi giungeva dal mar Baltico. Sotto la protezione della loro pirateria, il commercio fioriva e portò loro un lusso smisurato e insensato, nel quale la forza dell’Etruria sarebbe andata prematuramente logorandosi. — Beh, così va sempre a finire, quando si è grassi. Impacciati nei movimenti si smette di lottare! — aggiungo. Vedo altra gente accalcata in un piccolo spazio con altra che va e viene.

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«…quando gli Elleni Focei, intorno all’anno 217, si stabilirono sull’isola di Corsica, dirimpetto a Cere, improvvisamente nella rada comparve la flotta unita degli Etruschi e dei Cartaginesi…».


IL TIRRENO CONTESO

Grafica greca.

— E quelle persone cosa fanno? — chiedo a Orazio. — Ah, niente in particolare — mi risponde prontamente — . Gente che si reca all’edicola. Quando siamo più vicini, mi accorgo che tutti si dirigono verso una piccola costruzione, una specie di mini-tempietto, all’interno del quale scorgo una statuetta. Poi mi ricordo che aedicula, per i Romani, non è un posto dove si va a comprare giornali e riviste. È proprio una cappella dove la gente va ad adorare il suo dio. E così evito un’altra figuraccia, anche perché Orazio riprende il suo racconto. — Quindi possiamo dire — continua Orazio — che per molto tempo gli Etruschi imperarono a nord e i Cartaginesi a sud e ad ovest, verso l’Iberia. Infatti essi erano alleati e si dividevano il territorio. — Quindi le due grandi potenze di allora erano alleate. — Certo. Pensa che quando gli Elleni Focei, intorno all’anno 217 di Roma, si stabilirono sull’isola di Corsica o Cyrnos, come la chiamavano loro, dirimpetto a Cere, improvvisamente nella rada comparve la flotta unita degli Etruschi e dei Cartaginesi, forte di 120 vele, con l’intento di farli sloggiare; la battaglia navale tutto sommato finì a favore degli Elleni, ma i Cartaginesi e gli Etruschi raggiunsero ugualmente lo scopo che si erano prefisso: i Focei rinunziarono alla Corsica e si stabilirono su una meno esposta spiaggia del sud. E così la Corsica fu occupata dagli Etruschi. I Cartaginesi, invece, occupavano già parte delle coste della Sardegna. — Eh già, perché, come hai già detto, Orazio, da buoni amici essi si dividevano il territorio. E Taranto? — chiedo io — Non era una città importante? — Certamente. Unica eccezione era Taranto, che importava anche oggetti di lusso dall’oriente, tanto ricercati dagli Italici. Tutte le altre città greche lottavano per l’esistenza, anche se alcune città etrusche e fenicie, come Spina, alla foce del Po, e Cere, nell’Etruria meridionale, avevano buoni rapporti con gli Elleni. — Infatti — interviene nel discorso Vario — dice Strabone che i Ceriti erano tenuti in gran conto presso gli Elleni per il loro valore e per la loro giustizia, e perché si astenevano dal predare. — Non penso che i Ceriti si siano astenuti dalla pirateria di mare — riprende Orazio — direi piuttosto che Cere era una specie di porto franco per i Fenici quanto per gli Elleni. Il commercio di Cere acquistò per gli Elleni importanza maggiore che quello di Roma, che pur era un grande emporio, il mercato generale del Lazio; ma in sostanza Roma non era una piazza mercantile, come Cere e Taranto; era, come dire… una importante fiera d’un paese d’agricoltori. I Latini dell’epoca mancavano di tutti i principali articoli d’esportazione, perciò erano costretti a procurarsi dagli Etruschi il rame e quant’altro di cui avevano assoluto bisogno, in cambio di bestiame e schiavi, che passava attraverso il dazio di Roma. Risultato: Cere aumentava la sua potente condizione commerciale e la ricchezza, mentre il Lazio continuava a rimanere un paese agricolo. — Potenza del commercio marittimo! — aggiungo.

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CAPITOLO V

— In Cere — continua Orazio — comparvero sepolcri di stile greco, ma eretti ed abbelliti con lusso non greco, mentre nel Lazio bastava una semplice zolla di terra per coprire qualunque cadavere. Tra gli Etruschi si diffuse anche l’uso di mettere stoviglie attiche dipinte nelle tombe. Gli Etruschi cominciarono anche a fabbricare oggetti di lusso secondo il modello ellenico, che trovarono smercio anche nel Lazio e persino nell’Ellade stessa. Infatti nell’Attica i candelabri di bronzo e i nappi d’oro tirreni divennero presto articoli ricercati, come anche le monete d’argento di Populonia. — Con questo vuoi dire che pure gli Etruschi cominciarono ad ellenizzarsi? — chiedo. — Ma no. È che, da furbi commercianti, gli Etruschi conoscevano e apprezzavano i prodotti e la cultura degli Elleni, che ammiravano. A testimonianza di ciò, Angelo, ti chiedo… Ricordi chi fu, fra tutti i barbari… e sai che gli Elleni chiamavano barbari tutti gli stranieri, così come facciamo noi… — Certamente — rassicuro. — Ebbene, dicevo… ricordi chi fu, fra tutti i barbari, il primo che offrì doni a Zeus olimpico in Grecia? — Mah, non so… un Romano, forse? — No, fu il re etrusco Arimno, il quale lo fece sicuramente per mantenere buoni i rapporti tra Etruschi ed Elleni… — Una drittata, insomma. — Probabilmente sì. E pensa che Spina e Cere, le due città delle quali abbiamo parlato prima… avevano nel tempio di Apollo Delfico i loro propri tesori, come gli altri stati che erano in regolare rapporto col santuario. E questo per delle città barbare non era poco, anzi direi… piuttosto raro. — Capperi! — Tuttavia i Ceriti avevano una visione tutta loro della spiritualità. Ad esempio, durante la battaglia navale contro i Focei in Corsica essi fecero dei prigionieri… — Ebbene? — incalzo io. — I Ceriti lapidarono i prigionieri Focei sul mercato di Cere, ma in seguito, per espiare il misfatto, inviarono messi all’Apollo delfico. — Che figli di put… — Ma in definitiva, con Spina e Cere gli Italici vivevano pacificamente, trafficando amichevolmente col mercante straniero. I veri scali per le merci elleniche erano inizialmente qui e non a Roma, così lo furono pure per i germi della civiltà ellenica. — Va be’, ma Taranto? — Anche i Tarentini trasportavano qui le loro merci e quelle che importavano dall’Oriente, e comunque trafficavano molto bene con gli altri Italici che li circondavano e con la Sicilia. Passiamo accanto ad un disteso campo di fiori rossi, dove alcuni contadini stanno raccogliendoli. — Ma quelli sono papaveri? — chiedo indicando il campo. — Certo — risponde Vario. — Ma cosa ci fate coi papaveri? Non ne ho visti mai così tanti.

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«Infatti nell’Attica i candelabri di bronzo e i nappi d’oro tirreni divennero presto articoli ricercati…».

Elmo etrusco, circa 800-750 a.C.


IL TIRRENO CONTESO

— Ah, beh… Servono per i doni votivi a Giove. Al re del cielo si offrono capi di cipolle e di papaveri perché scateni i suoi fulmini su di essi invece di volgerli sulle teste umane. — Ma guarda! — dico sorpreso — anche i papaveri vanno bene a Giove — continuo sottovoce per non sollevare la suscettibilità dei miei ospiti. — Insomma — riprendo a dire — bei furbetti questi Etruschi. — Tuttavia — continua Orazio — tra Etruschi ed Elleni italici non correva buon sangue. Tant’è che per bloccare i pirati etruschi e punici Anassilao, signore di Reggio e di Zancle, si decise a chiudere lo stretto siciliano con una flotta permanente. Gli animi di questi tre popoli si inasprirono ulteriormente e si arrivò alla guerra. Gerone e TePrincipali popolazioni presenti in Italia intorno all’anno 500 a.C.

Moneta d’argento da 20 assi della città etrusca di Popluna (Populonia) del 211-206 a.C. Sul fronte della moneta è incisa la testa della Gorgone, mentre il retro è liscio.

Moneta di Himera in Sicilia del 420-408 a.C. Sul dritto la testa della ninfa Himera; sul rovescio, 6 globetti in corona d'alloro. La città di Himera sarà distrutta nel 408 a.C. dai Cartaginesi comandati da Annibale, nipote di Amilcare, per vendicare la sconfitta subita dello zio nel 480 a.C.

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CAPITOLO V

rone, signori di Siracusa e di Agrigento, vinsero presso Himera l’immenso esercito punico-etrusco del generale cartaginese Amilcare, figlio di Magone. Ancora, Gerone di Siracusa e i Cumani riportarono pochi anni dopo una importante vittoria presso Cuma contro le navi tirrene, in aiuto delle quali i Cartaginesi invano tentarono di accorrere. — Quella vittoria — aggiunge Vario — fu cantata da Pindaro nella sua prima ode pitica, e un elmo etrusco fu spedito da Gerone ad Olimpia con l’iscrizione: “Gerone Deinomeneo e i Siracusani a Zeus, spoglia tirrena di Cuma”. — Dopo la vittoria Gerone occupò l’isola Aenaria e interruppe così la comunicazione tra gli Etruschi della Campania e quelli del settentrione. Insomma, proprio nel periodo in cui i Tarentini buscavano la loro più micidiale sconfitta dai Messapi e Peucezii, i Greci campani e siciliani battevano i Tirreni. — Eh, beh, non ne potevano più, evidentemente… — Infine, per distruggere definitivamente i corsari etruschi, venne fatta un’apposita spedizione da Siracusa, con la quale si mise a sacco l’isola di Corsica, si devastarono le spiagge etrusche e fu occupata l’isola Aethalia. — Fine degli Etruschi? — chiedo. — Diciamo fine della pirateria. Ormai Cartaginesi ed Etruschi non tenevano più il primo posto nelle acque italiche. Nel mar Tirreno padroneggiavano i Siracusani, nel Gallico i Massalioti, nel mar Adriatico e nel mar Ionio i Tarentini. — E intanto Roma… — … era impegnata a far guerra di sopravvivenza con qualche cittadina latina. Ma anch’essa cominciava ad interessarsi agli Elleni. Anzi, già prima degli avvenimenti che abbiamo ricordato Roma aveva cominciato ad innalzare nella propria città templi agli Dei ellenici. Il più antico fu il tempio dei Dioscuri. — Dei Dioscuri? Come mai? — Una leggenda ne fu la causa. Narra che due giovani di bellezza e di statura sovrumana erano stati veduti combattere nelle file dei Romani durante la battaglia che il console Aulo Postumio vinse contro i Latini sulle rive del lago Regillo. Subito dopo la battaglia, i due giovani portarono i loro cavalli grondanti di sudore ad abbeverare alla fonte di Iuturna nel Foro Romano, dove annunziarono la grande vittoria riportata… — Mi sembra simile alla leggenda greca. — Infatti. Si disse che i due giovani erano i Dioscuri, Castore e Polluce. Così si mandarono legazioni all’Apollo delfico e fu consacrato un tempio nella città. Una cinquantina d’anni più tardi Roma consacrò in città un proprio tempio dedicato ad Apollo delfico. Ma non credere che ciò avvenisse senza contrasti, Angelo. C’era pur sempre in Roma chi protestava vivacemente contro l’intrusione degli dèi stranieri e incitava alla conservazione delle tradizioni etrusche. — Ma nonostante tutto ciò — chiedo — so che ad un certo momento la potenza etrusca cominciò a vacillare e a decadere… — Sì, ma avvenne per altri motivi. Ne parleremo più tardi. Guarda, stiamo per arrivare a Tibur.

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Quest’elmo in bronzo con iscrizione in greco fu ritrovato presso il santuario di Olimpia. Faceva parte del bottino che Gerone di Siracusa prelevò agli Etruschi nella battaglia di Cuma del 474 a.C..

Moneta di Siracusa del tempo della prima democrazia (circa 510-485 a.C.). Sul fronte un auriga guida una quadriga; sul retro, un qudrato suddiviso in quattro con, al centro, la testa di Aretusa, ninfa della fonte cara ai Siracusani e soprattutto simbolo della città. La mitica fonte fu cantata da molti poeti, Virgilio compreso.


IL TIRRENO CONTESO

Fronte e retro di due monete della greca Massalia (attuale Marsiglia). Nella moneta in alto, un obolo del IV sec. a.C., è raffigurata la testa di un giovane Apollo; sul retro, una ruota a quattro raggi con le lettere M e A. La moneta in basso è una dracma che riporta sul fronte il busto di Artemide, con arco e faretra sulla spalla e sul retro un leone.

Vedo già le prime case di Tivoli. Siamo su un altopiano e percorriamo una strada oltre la quale si ammira lo splendido paesaggio della campagna romana. A destra vedo l’Aniene precipitare a valle con una serie incredibile di cascate. Ovviamente, ancora non esiste la bella villa rinascimentale del cardinale Ippolito d’Este, che ho visitato nella mia epoca; quella famosa per le tante e fantasiose fontane realizzate incanalando l’acqua del fiume. Ma il panorama è stupendo, con tutte le villette e le case contadine sparse nella campagna. Adesso capisco perché Orazio asserisce convinto che se non gli sarà possibile passare la vecchiaia e morire a Taranto, allora preferirebbe farlo a Tivoli. Passiamo tra le basse case, dove la gente è piuttosto indaffarata, con molti mercanti che espongono la loro merce sulle bancarelle, segno che Tivoli è una cittadina attiva e prosperosa. Quindi Orazio indica un edificio. — Ecco, ci siamo. Il calesse si ferma davanti ad una porta, dalla quale esce un uomo; mentre scendiamo a terra l’uomo si esibisce in una serie di inchini, poi ci apre la strada verso le terme. All’interno un altro uomo si avvicina. — O che gioia! — dice mostrando tutti i denti in uno sgargiante sorriso — Vario Rufo viene a trovarci… Quando poi s’avvede di Orazio… — Oh, che vedo… anche Orazio Flacco è qui. Che gioia, che gaudio! Due grandi nostri poeti nelle mie terme, oggi. Quest’uomo mi sembra proprio arrivato al settimo cielo e saltella agitando le braccia come un pinguino. Circonda i due uomini di attenzioni e moine mentre continua a parlare e a lodarli. Sembra quasi non notarmi, come se io fossi trasparente. Poi indica in direzione di un ingresso vicino al quale una lapide riporta l’iscrizione apoditerium. Là ci dirigiamo tutti, mentre altri uomini si inchinano al nostro passaggio. — Vieni, Angelo — mi dice Orazio che si è voltato — . Andiamo a spogliarci. Velocemente lo raggiungo. — Noto con piacere, Orazio, che sei molto ben considerato, com’è giusto che sia… — Non crederci, Angelo. Costoro in realtà lodano il mio denaro e la mia amicizia con Mecenate e Ottaviano. Altro che poesia… — Vuoi dire che è tutta una farsa? Pensi che essi non apprezzino la tua poesia? Orazio continua a camminare e intanto spiega. — Nessuno è profeta in patria, amico mio, lo sai bene. E in quanto alla poesia… vuoi che un commerciante se ne interessi? È solo contento del fatto di poter avvicinare un uomo che ha amicizie… diciamo… politicamente importanti. Che potrebbe essergli utile… Ma è anche contento perché sa che posso pagarlo. — Possibile? — Credi a me, è così. Ma non gli do colpa. I Latini, per tradizione, non sono mai stati molto amanti della poesia, né della letteratura, né dell’arte in genere… — Mi dispiace… Abbiamo raggiunto delle panche dove scorgo alcuni asciugamani. Sopra a queste, ricavate nel muro, ci sono tante nicchie dove poter stipare i propri abiti. Orazio e Vario cominciano a spogliarsi.

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CAPITOLO V

— Sai cosa diceva Catone, amico mio? Diceva che il mestiere di poeta a Roma non era pregiato; se qualcuno lo esercitava, o s’introduceva nei banchetti come tale, era considerato un vagabondo. E così i danzatori, i musicanti e i saltimbanchi… erano tutti molto riprovati. A simile gente addirittura si vietava di votare nelle adunanze politiche. Insomma la danza, la musica e la poesia erano esercitate dalle infime classi dei cittadini, anzi quasi interamente dagli stranieri. — È mai possibile? A Roma? — Beh, questa era la Roma al tempo di Catone il Censore, al tempo della guerra contro Annibale, in un periodo, quindi, relativamente vicino a noi. Solo la situazione del teatro si salvava un po’, per merito del tarantino Andronico, come ricordi. Certo oggi la cultura è più diffusa… tra la gente di cultura. E di Mecenate ce n’è uno solo. Ma la massa a malapena accetta la poesia di Gneo Nevio, Marco Pacuvio e di Quinto Ennio. Immagina invece cosa pensa degli scrittori odierni… Ma tu, non ti spogli? — Ah, sì, subito. Inizio a togliermi la tunica. — Mi pare di ricordare — dico ad Orazio — che questo pensiero tu lo abbia anche scritto… Sì, nelle tue Epistole. — Hai letto le mie Epistole? — mi guarda sorpreso Orazio — Ma se le ho pubblicate di recente… — Già… — mi sforzo di ricordare — in una lettera scritta ad Ottaviano hai parlato della situazione dei poeti d’oggi… — È vero — dice Orazio, mentre mi mette un braccio sulle spalle — . Andiamo, la vasca ci attende e non vedo l’ora di esserci dentro. Ci dirigiamo verso l’ingresso di una sala attigua e penso alla lettera di Orazio. Non è cambiato molto, il mondo, in questi duemila anni, per quanto riguarda il riconoscimento del valore degli artisti contemporanei, di quelli veri e significativi, intendo, e non di coloro tirati su abilmente dai mercanti d’arte. Sentite questo passo della lettera di Orazio ad Ottaviano circa lo scarso valore che si dà in genere alla letteratura del proprio tempo, e poi ditemi se non siete d’accordo con me: «Cesare… Se come il vino il tempo migliora la poesia, vorrei sapere quanti anni ci vogliono perché un’opera abbia valore. Vediamo. Uno scrittore morto da cent’anni è già perfetto e antico, oppure è scarso e ancora troppo moderno? Si dovrà pur seguire un criterio per stabilire la questione. Allora diciamo: “Cent’anni sono giusti per poter dire che uno scrittore è antico e quindi valido”. Ma se, mettiamo, a quei cent’anni mancasse un mese, oppure un anno, dove lo collochiamo quello scrittore? Fra gli antichi o fra quelli che il nostro tempo (e quello futuro) disprezza? “Ma fra gli antichi, è naturale, e con onore”, direte voi. Allora approfitto di tale concessione e, come se strappassi ad una coda di cavallo un pelo dopo l’altro, tolgo un anno e poi un altro finché, col beffardo gioco del mucchio di grano che

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Guerriero apulo del IV secolo a.C.


Oplita spartano del V sec. a.C. Oplita proviene dal greco oplon, ovvero scudo rotondo, che divenne il termine per indicare i soldati della fanteria pesante. La loro armatura (panoplía) era costituita dalla corazza, elmo e schinieri in bronzo, da una corta spada in ferro, dalla lancia e da uno scudo bronzeo rotondo. Gli Spartani erano gli unici opliti greci professionisti.

scompare, stendo al tappeto chi ragiona solo in termini di calendario, misura il valore in anni e ammira solo colui che è morto. Ennio, il sapiente, il forte, il secondo Omero, come dicono i critici, può stare tranquillo… E Nevio? Non lo leggono tutti? Lo sanno a memoria come fosse uno scrittore d’oggi. Eh, beata sacralità della poesia antica! E ogni volta che si discute chi valga di più, Pacuvio si becca la fama di erudito antico, Accio di sublime, il romano Afranio degno di Menandro, Plauto… (e qui Orazio elenca una serie di antichi poeti latini). …Questi sono i classici che la potente Roma legge e ammira a teatro dal tempo di Livio ad oggi…”. Quindi Orazio aggiunge: “…Se i Greci avessero contrastato tanto il nuovo, dove sarebbe oggi l’antico? Che cosa avrebbe da leggere e rileggere oggi la gente? La Grecia, cessate le guerre, si dette a divertirsi e il benessere la sprofondò nei capricci: s’appassionò per atleti e cavalli, per gli artisti del marmo, del bronzo o dell’avorio. La mente del greco si estasiò davanti alla pittura, gioì per la musica e per il teatro, così come una bambina che gioca con la tata desidera tanto una cosa, ma quando la ottiene se ne stanca e la lascia in un angolo. Credi forse immutabili i gusti?…». Eh, no, caro Orazio. A me pare che non sia cambiato niente anche oggi. Egli continua: «…A Roma invece per lungo tempo ci si è svegliati di buon mattino, ci si è preoccupati di fare la casa, spiegare le leggi alla gente, di come fare investimenti con prudenza, di riverire gli anziani, mostrare ai giovani come accrescere la proprietà e come limitare i danni dei piaceri. Poi di colpo la gente cambiò, ed ecco che tutti si misero a scrivere. Ragazzi e austeri signori, con l’alloro sulla fronte, fanno versi a pranzo e a cena…». Per Bacco, è come a Taranto oggi! Dove nessuno fa nulla, ma quando qualcun altro inventa qualcosa oppure avvia una nuova buona attività, ecco che tutti si mettono ad imitarlo, così che quella novità viene subito inflazionata e non ha più valore! E sui poeti romani di un tempo, sentite cosa dice Orazio: «… Poi conquistammo la Grecia, ma la Grecia conquistò noi e portò le arti nel nostro Lazio contadino. L’orrido verso saturnio scomparve e l’eleganza vinse sulla rozzezza campagnola. Ma tracce perdurarono a lungo e sopravvivono anche oggi…». Beh, potremmo immaginare quei versi simili agli stornelli che ascoltiamo ancora oggi nelle trattorie romane. Simpatici e divertenti, ma non è certo poesia. «Ci rivolgemmo infatti tardi all’opera dei Greci. Solo dopo le guerre puniche e la pace si cominciò a vedere l’utilità di un Sofocle, di Tespi, di Eschilo. Il nostro ingegno tentò di tradurli come si deve…». Bene, basta per ora. Ormai abbiamo raggiunto la vasca colma d’acqua e ci accingiamo ad immergerci. Il resto della storia al prossimo capitolo.

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VI

Il volo della colomba Tra un bagno caldo e un massaggio, alle terme di Tivoli si parla dei ferocissimi Galli e degli Etruschi sconfitti, di splendori e saccheggi, del saggio Archita e del suo amico Platone

S

ono a Tivoli, o meglio nella latina Tibur, in compagnia di Orazio e Lucio Vario. In questo momento siamo nelle terme, dove i due poeti intendono trascorrere la giornata. Qui mi piace, perché, oltre ad avere la possibilità di apprendere altre notizie sulla storia di Taranto, direttamente da due illustri personaggi del passato, avrò modo di vedere com’erano le terme dei Romani. Infatti, dopo aver depositato gli abiti e gli oggetti personali, affidati alle cure di un capsarius, che ha appunto questo compito, stiamo lasciando lo spogliatoio, l’apoditerium (così riporta una lapide all’ingresso), un ambiente già sufficientemente riscaldato per consentirci di spogliarci senza problemi. Con un asciugamano intorno ai fianchi, oltrepassata una porta sulla quale un’altra lapide reca la scritta calidarium, entriamo in una sala. È un ambiente molto grande, di almeno 20 metri per 10, con una grande piscina che la occupa quasi interamente. Sia la vasca per il bagno che le pareti sono rivestite da lastre di marmo, mentre, tutt’intorno, c’è una successione di nicchie quadrate alternate ad altre a semicerchio, tutte munite di panche. C’è gente, tutti uomini; alcuni parlano in piedi fuori dall’acqua, altri nella vasca, altri ancora seduti sulle panche nelle nicchie. La profondità della piscina dovrebbe essere non superiore ad un metro e venti, poiché vedo che gli uomini immersi nell’acqua, oltre a nuotare, camminano nella vasca senza difficoltà. — Ma le donne non vanno alle terme? — chiedo ad Orazio. — Certamente. Ma sono nell’altro lato della struttura — mi risponde. — Le vorresti

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Grafica celtica.


BASE

FUSTO

CAPITELLO

ARCHITRAVE

FREGIO

CORNICE

L’ordine corinzio greco L’ordine corinzio apparve in Grecia verso la fine del V secolo. Si distingueva dallo ionico in modo particolare per il capitello; infatti ha una forma speciale, a campana e ornato da due file di otto foglie d’acanto di due diverse grandezze, disposte a corona su due file sovrapposte attorno alla campana. Per ideare questo capitello probabilmente i Greci si ispirarono all’Egitto, dove già ce n’erano a forma di calice; tuttavia i Greci dettero al loro capitello corinzio la grazia perfetta che mancava in quello egizio, utilizzando foglie di acanto anziché le foglie di papiro o di palma. Con le stesse foglie di acanto i Greci ornarono anche le stele, gli acroteri e molto altro. Oltre al classico capitello con foglie sovrapposte, i Greci adottarono pure capitelli dalle forme più disparate, come quelle riportate in basso a destra. La trabeazione, invece, differisce di poco da quella ionica; anche qui l’architrave è suddiviso in tre parti e il fregio è simile allo zoòforo ionico. Le modanature sono invece ricchissime di intagli. Il canone corinzio fu quello più utilizzato dai Romani, seppure modificato (come vedremo quando parleremo di quello romano), poiché meglio rispondeva alla loro ricerca del fasto, indice di ricchezza e potenza, specialmente in epoca imperiale.


Tempio greco di ordine misto

opisthòdomos

A Basse, in Arcadia, si trova uno dei più importanti templi di età classica dedicato dagli abitanti ad Apollo Epicurio (Epikourios) come segno di gratitudine per aver salvato la città dall’epidemia di colera durante la guerra del Peloponneso. La particolare caratteristica di questo tempio, costruito con la locale pietra calcarea grigia, è dovuta al fatto che in esso vengono rappresentati insieme i tre ordini: dorico, ionico e corinzio. L’esterno ha struttura e colonne doriche, l’interno ha colonne ioniche (sia pure incastrate nei muretti) e ha un’unica colonna corinzia, quella al centro tra l’adyton e il naos. Nella pianta, l’adyton era lo spazio precluso ai fedeli perché riservato agli officianti del culto, il naos era la cella, la principale camera interna del tempio, il prònaos era il portico anteriore, l’opisthòdomos il portico posteriore.

adyton

naos

pronaos

Dettaglio del capitello corinzio.




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