Il Sogno e la Storia n. 3

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Settimanale ~ E 3,00 N. 3 ~ 20 giugno 2009

SCORPIONE EDITRICE


n. 3 - 20 giugno 2009 © 2009 - Testo e disegni: Angelo R. Todaro – www.angelotodaro.it Collaborazione e consulenza storica-archeologica: Mario Lazzarini Edito da: Scorpione Editrice, via Istria 65d 74100 Taranto – Tel. fax 099 7369548 Email: info@scorpioneeditrice.it Web: scorpioneeditrice.it Grafica e impaginazione: Studio Puntolinea, Taranto: 099 7775843 Stampa: Stampasud S.p.A., Mottola (TA)

Settimanale ~ E 3,00 N. 3 ~ 20 giugno 2009

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Per i numeri arretrati € 3,00 cadauno. Rivolgersi all’Editore. Con il fascicolo n. 18 si completerà il 1° volume. Con il fascicolo n. 35 si completerà il 2° volume. Coloro che desiderano acquistare la copertina per la rilegatura dei due singoli volumi, oppure i due raccoglitori cartonati devono prenotarli presso l’Editore.

per la pubblicità su questa pubblicazione: 099 7775843 Settimanale ~E N. 4 ~ 27 giug 3,00 no 2009

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il prossimo numero

Il Tirreno conteso Riassunto dei capitoli pRecedenti Angelo, l’autore, compie inconsapevolmente e misteriosamente un viaggio nel passato nella Roma dell’anno 13 a.C. per il grande desiderio di voler conoscere Orazio Flacco e farsi raccontare da lui l’antica storia di Taranto, ma anche per capire perché il grande poeta latino ha spesso parlato nei suoi scritti in maniera entusiastica della città bimare. Incontra Orazio nella ricca casa romana di Mecenate, dov’è in corso un ricevimento al quale Orazio ha dovuto partecipare. Il poeta, interrogato da alcuni giovani su quale sia la strada migliore per raggiungere Brindisi, consiglia loro di scegliere la via Appia, poiché darebbe anche la possibilità «di poter ammirare e godere dell’antica città dei Lacedémoni», cioè Taranto. A quei giovani, sorpresi della risposta e digiuni di storia, Orazio consiglia di interessarsi maggiormente di personaggi quali Archita, Andronico, Quinto Ennio, Marco Pacuvio… (tutti tarantini o quasi) per scoprire molte cose interessanti sul passato della stessa Roma. Quando Orazio sta per lasciare la casa, Angelo lo ferma e gli chiede di continuare a parlargli di Taranto. Il poeta, quando apprende che Angelo è Tarantino e vorrebbe conoscere l’antica storia della sua città, contento della richiesta gli spiega che l’argomento è così vasto e importante che non può essere affrontato in breve tempo. Gli dà quindi appuntamento nella sua casa in Sabina dove sarà possibile continuare il dialogo. Il giorno seguente, Angelo raggiunge il poeta nella sua casa nei pressi di Tivoli. Seduti

ad un tavolo posto sotto un rigoglioso pergolato, dal quale pendono grossi grappoli d’uva rossastra non ancora matura, Orazio comincia a raccontare. Orazio parla di Taranto, città che divenne dorica quando Roma esisteva già da poco più di 46 anni, ma poiché «la storia di una città non sempre è disgiunta da quella delle altre» egli racconta della fondazione di Roma e pure dei Fenici, che con le loro case natanti s’avventurarono in mare per commerciare con gli indigeni italici. Narra poi dei Greci che navigarono nel Tirreno fondando Kymé sull’isola di Ischia, quindi Cuma sulla terraferma; di altri greci che in Sicilia fondarono altre colonie: Messana, Catana, Leontinoi, Himera, Siracusa, Gela e Akragas. E di altri ancora che edificarono Sibari e le altre città della Magna Grecia sulla costa ionica, Taranto compresa. Poichè il racconto si fa lungo, in quanto «per capire come Taranto sia giunta al suo fulgore – dice Orazio – dobbiamo risalire alle sue origini che portano alla città greca di Sparta», il poeta invita Angelo a restare. «Sei mio ospite – dice –. Ho fatto approntare una stanza. Ora è bene che mi ritiri un po’, le mie povere ossa non sopportano più la fatica di un lungo conversare». Il giorno seguente, Orazio ed Angelo fanno una breve gita nel bosco nei pressi della casa. È l’occasione per Orazio, seduti sulla riva di un ruscello, di raccontare la storia di Taranto iniziando da Sparta, dalla quale Fàlanto, per ordine del dio Apollo tramite la voce della sacerdotessa Pizia di Delfi, partì con la moglie

Etra e i suoi amici per raggiungere le coste italiche dello Ionio. «Il loro compito – disse la Pizia – sarà quello di espugnare Taras, fare grande quella città e divenire il flagello delle popolazioni locali!». Così Taras è presa ed inizia l’avventura.



L’uomo che sussurrava a Dio di Mario D’Anzi È un invito a riscoprire il senso della creatura che è in noi, riappropriarsi di una interiorità fatta di valori autentici che, istintivamente e coscientemente, ti avvicinano alla ricerca di Dio. Quel Dio di cui è pervasa la nostra esistenza e che è l’alito che dà vita a tutte le cose, che racchiude il mistero fascinoso dell’universo. Alla fine, scopri che il parlare con Lui dischiude la mente e ti arricchisce di intuizioni straordinarie. Così’, tutto acquista un senso: e la vita reale, difficile e dura, levita in una dimensione superiore, inimmaginabile e gratificante.

Pagg. 96 – formato 11 x 17 cm

E 12,00

Strana storia tarantina mijnze a sande galantome e malevijrme di Enzo Risolvo Enzo Risolvo raccoglie tasselli, simboli della tarantinità, quella di un tempo e quella di oggi, tratteggiati sempre con leggerezza di colori tenui e delicati, tipica di questo cantore di Taranto. La sua cultura popolare, che parte dai vicoli del Borgo Antico, vuole scoprire con interessata curiosità ogni angolo nascosto, ma soprattutto vuole cogliere l’essenza di quegli abitanti odorosi di mare, di quel mare che è nel sangue di questi uomini bruciati dal sole e dalla salsedine marina. Quanta storia e quante storie al di là e al di qua del ponte Girevole! Pagg. 340 con foto b/n – formato 17 x 24 cm

E 19,00

Viaggio attraverso la fede e la pietà popolare a Taranto di Antonio Fornaro II nostro sarà un viaggio per ricordare i momenti più importanti e aggreganti delle nostre processioni, per conoscerne lo svolgimento, la storia, la tradizione rappresentata da questo a da quel «personaggio» tipico, dal dolce o dalla pietanza di stampo popolare legata alla festa, brevi cenni sul «luogo del rito» o della chiesa da cui parte la processione, per non dimenticare detti e proverbi legati alla festa. Insomma, forti della «passione e dell’amore» con cui i nostri padri seppero trasmetterci questi riti, vogliamo perpetuarne la memoria in questo nostro semplice lavoro. Pagg. 232 con foto b/n – formato 13 x 20 cm

E 18,00

Libri acquistabili in libreria oppure presso l’editore: Scorpione Editrice, via Istria 65d, Taranto – Tel. fax 099 7369548. È possibile acquistarli anche via Internet sul sito web: www.scorpioneeditrice.it


A CENA CON ORAZIO

«Quando raggiungo la casa vedo che Orazio è in compagnia».

partecipare alle cene speciali, e quanto ami invece il cibo semplice e la vita frugale. Staremo a vedere. Intanto il mio stomaco rumoreggia, non essendosi ancora abituato agli usi locali. Tiro qualche fico dall’albero. Ah, quanto sono profumati, gustosi, dolci e saporiti questi fichi, specialmente quando si ha fame. Odo una voce, mi volto. Un servo mi fa dei cenni. Evidentemente la cena è pronta. Quando raggiungo la casa vedo che Orazio è in compagnia. — Ah, ecco qui il mio amico tarantino — dice, indicandomi agli altri — . Ha un nome particolare: Angelo. — Ave — dico, e tutti all’unisono mi rispondono — ave! — Ti presento i miei amici — continua poi Orazio indicandone uno — . Ecco il mio caro amico Lucio Vario Rufo, grande poeta. — La mia poesia non raggiunge la tua, caro Orazio — interviene Vario tendendomi il braccio destro. Mi viene in mente l’usanza romana e anziché stringere la sua mano gli afferro l’avambraccio, subito ricambiato. — Troppo buono, Vario — riprende Orazio. — Se non fosse come ho detto, Augusto non ti avrebbe incaricato di occuparti della pubblicazione della più grande opera di Virgilio, che non era del tutto compiuta. — Virgilio? — chiedo io, non avendo capito. — Il nostro rimpianto Virgilio Marone, morto qualche anno fa a Brindisi per un


CAPITOLO IV

colpo di sole mentre rientrava da Atene. A Vario, e all’altro amico poeta Plozio Tucca, Virgilio lasciò i suoi scritti… — Ma la sua volontà, lo sai bene — interviene Vario — , era che non venissero pubblicati quelli incompiuti… Non so se abbiamo fatto bene a… — Senza l’intervento di Augusto — continua Orazio — l’Eneide non sarebbe venuta alla luce. Tu e Plozio avete fatto un grande e ottimo lavoro! — L’Eneide — dico, mentre mi si schiarisce la mente — il più bel poema della cultura latina, certamente un grande capolavoro epico… — Ah! — chiede meravigliato Vario — il libro è già arrivato a Taranto? — Sì, certo. L’abbiamo anche a Taranto. Vario non può certo immaginare che nel frattempo, per la mia epoca, sono passati più di duemila anni e che l’Eneide la si studia anche a scuola. Ma il nostro dialogo si svolge nell’anno 13 prima della nascita di Cristo, Virgilio è morto da sei anni e l’Eneide è stata pubblicata l’anno seguente. — Vario vive a Neapoli, — riprende Orazio — ma in questi giorni è a Roma. Ecco qui un altro caro amico: Filippo, è un rètore, cioè insegnante di retorica e grande oratore. È greco ma viene da Damasco in Siria… Altra stretta di mano, pardon, di avambraccio. — Angelo, eh?… la parola è greca, ma non è nome di persona — dice Filippo. — Eppure è il mio nome — taglio corto io. Forse avrei dovuto dire ad Orazio un nome differente, che fosse più… adatto alle circostanze. — Costoro invece — riprende Orazio — sono Butta, Setticio e Sabino, tre miei amici… come posso dire… di bisboccia? Risata generale mentre ci stringiamo gli avambracci. Orazio mi si fa più vicino fingendo di bisbigliarmi, invece parla con voce sostenuta mentre indica l’ultimo dei tre. — L’età avanza anche per lui, ma Sabino, più degli altri, è stato ed è un gran donnaiolo, e ama partecipare alle feste… — Ma dài, Orazio! — obietta Sabino, che ha sentito benissimo, mentre gli altri riprendono a ridere. — Così mi presenti ai tuoi amici? — Questo è niente, mangione! — poi, rivolgendosi a me, quasi sottovoce — ma è anche un gran

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«Ecco il mio caro amico Lucio Vario Rufo, grande poeta».

«Ecco qui un altro caro amico: Filippo, è un rètore, cioè insegnante di retorica e grande oratore. È greco ma viene da Damasco in Siria…».


A CENA CON ORAZIO

simpaticone. — Lo vedo — confermo. — Quest’altro simpaticone, invece, e Claudio Cicirro e viene da Sinuessa. È simpatico solo perché quando viene a trovarmi porta sempre un ottimo vino. È suo quello che berremo oggi. — Da Sinuessa? — chiedo non sapendo dove si trovi. — È nel golfo di Gaeta — spiega Claudio — . Ho una tenuta a vigneto vicino al monte Massico. — Ottimo vino il Massico — afferma Orazio, come se lo stesse già assaporando. — Suvvia, andiamo, è ora di cenare. Ci muoviamo verso un lato della casa. Vicino al pergolato vedo preparata la tavola, o meglio il triclinio, come si usa qui, con davanti un basso tavolino già pieno di coppe. Sinceramente, la vista dei tre divani non mi fa tanto piacere. — Al vostro posto, amici cari — incoraggia Orazio. Resto fermo. — Al nostro ospite — continua Orazio indicandomi — il posto d’onore. Mi addita il divano centrale. — Qui, suvvia!… sul medius. Io ti sarò al fianco. Come seppi più tardi ognuno dei tre divani ha un nome. A cominciare da destra: summus, medius e imus e il posto d’onore viene detto imus in medio, vale a dire a sinistra del divano centrale. Vedo gli altri che si sistemano sui divani. Prima di sdraiarsi, però, si tolgono i saldali. Un servo fa il giro per prelevarli. Mi piego all’usanza e tolgo anche i miei, poi mi sdraio sul divano. Orazio si adagia al mio fianco, mentre il terzo posto resta vuoto. — Ci sarebbe un altro posto — mi dice Orazio — ma poi il gregge soffoca e puzza. — Ah!, ah!, ah! — ride la comitiva alla battuta di Orazio. Arriva un altro servo con un vassoio che pone sul tavolino. Ci sono delle uova sode, olive e insalate varie; riconosco anche la lattuga. — Un po’ d’antipasto prima di iniziare — dice Orazio. E afferra un uovo. — Queste uova di forma allungata — continua — sono più saporite di quelle più tonde. Hanno l’albume più chiaro che contiene un tuorlo maschio, vero Sabino? — Intendi dire che quest’uovo allungato avrebbe potuto generare un galletto? — chiedo. — Proprio così — risponde Sabino. — Ma Aristotele non è tanto d’accordo con questa teoria, Sabino — interviene Vario. — Infatti — conferma Orazio — . Ma così dicono i buongustai romani… che queste uova sono più buone al palato. Gli ospiti si avventano sulle uova e sulle insalate. Evidentemente sono affamati anch’essi. Una ragazza comincia a versare del vino da un’anfora nelle coppe poste sul tavolo. — Del vinello leggero delle mie vigne per cominciare. Il Marsico, ben più corposo, lo berremo più in avanti — continua Orazio. — Oh, il vino, che meraviglia! — dice Sabino sollevando la coppa. — Sono d’accordo — interviene Orazio — . Apre i cuori, avvera speranze, spinge

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CAPITOLO IV

il vile all’attacco, ma anche toglie il peso dell’angoscia e ispira l’arte. A proposito, il nostro amico tarantino è un’artista: disegna. — Ah, un altro che si è dato alla Musa! Ma cosa disegni? — mi chiede Vario. — Beh, diciamo che illustro e coloro scene di vario tipo, anche storiche — spiego. — Il tarantino è qui, amici — continua Orazio — perché gli parli della Taranto del passato, di quand’essa era magnifica, grande e potente. E così ne ho narrato le origini, ho parlato di Taras che costruì quella città e dello spartano Fàlanto che la conquistò. — Beh, Taranto era forse bella duecento, trecento anni fa, ma oggi… mi ha proprio deluso — interviene con aria schifata Filippo — . Di greco ha ormai poco, neanche la lingua, perché vi si parla quasi sempre latino. Le mura abbattute e i templi in pessimo stato le danno un aspetto da città in declino… — Il nostro amico Filippo — mi informa Orazio — venendo dalla Siria si è fermato per qualche giorno a Taranto, dov’è sbarcato. — C’è ancora qualche edificio di bell’aspetto — continua Filippo — specialmente sul promontorio, dov’è l’Acropoli. Ma nell’agorà e nella parte dell’abitato la maggior parte degli edifici monumentali greci, di cui parlano gli antichi scrittori, non ci sono più. E né ci sono le magnifiche statue. C’è rimasto il teatro, qualcos’altro… E il porto, poi… uno squallore! Un’accozzaglia di piccole barche puzzolenti e qualche nave che vi arriva per sbaglio. — Mi sembra che tu sia troppo severo nel tuo giudizio, Filippo — interrompe Orazio. — E i greci? dove sono i greci? — continua imperterrito Filippo — La gente di Taranto è un miscuglio di razze, italiche e non. E ci mancavano anche i Ro-

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«Come seppi più tardi ognuno dei tre divani ha un nome. A cominciare da destra: summus, medius e imus e il posto d’onore viene detto imus in medio, vale a dire a sinistra del divano centrale».


A CENA CON ORAZIO

mani, con la loro colonia Neptunia che s’ingrandisce sulle rive del mare interno, a ridosso di quella che doveva essere la città greca, a complicare le cose. Per cui quando incontri qualcuno non sai bene se stai parlando ad un greco, ad un latino o a qualcun’altro. — Beh, non mi sembra che ai Greci della Grecia ed anche ai Siriani stia andando meglio — intervengo io — . Se non sbaglio, i Romani hanno fatto la festa anche a voi! — Questa te la sei proprio meritata, Filippo — dice Orazio sorridendo — . Puoi forse dirci che la Grecia è ancora quella di un tempo? — Beh, no… ma… cerchiamo di difendere la nostra cultura, almeno — conclude Filippo — . I Tarantini si sono proprio arresi, completamente integrati nel mondo romano. — Certo — continua Orazio — oggi Taranto è una città tranquilla e senza velleità, ma proprio per questo mi piace. Dedita in prevalenza all’agricoltura e alle risorse del mare. Lasciamo ai romani la politica e gli affari militari, vero amico mio? — e Orazio mi dà una gomitata. — A noi piace il buon vino — continua a dire — , e a Taranto ce n’è del migliore; a noi piace il buon vivere, piace il suo dolce miele, l’olio profumato, le pregiate e finissime lane tinte con il rosso strappato ai murici che si pescano nel mar piccolo, i bei campi verdi e il suo splendido clima. Questo ci piace. Eppoi, il porto di Taranto è ancora importante, tanto che ci sei arrivato anche tu, caro Filippo… Risatina generale, a parte il serioso Filippo. — … E lo è anche dal punto di vista militare. Dimentichi forse che a Taranto, qualche anno fa, si incontrarono Ottaviano e Antonio? — Dimmi — mi chiede Orazio — , eri a Taranto quando vi giunsero le navi di Antonio? — No, ero in viaggio — rispondo prudentemente, non sapendo dove Orazio intende arrivare. — Ah, allora ti sei perso uno spettacolo grandioso, Angelo! — Quale? Quale spettacolo? — Quello di trecento navi ormeggiate nel porto di Taranto. — Sì, ma solo perché furono cacciate da Brindisi — interviene bruscamente Filippo. — Non ricordo quell’episodio — continuo io. — Avvenne una ventina di anni fa… — informa Orazio. — Ventiquattro, per l’esattezza… — corregge Vario. — Ah, già. Tu ricordi, vero Vario? — Ricordo che tu, Mecenate, Cocceio e Fonteio Capitone foste

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CAPITOLO IV

inviati a Brindisi da Ottaviano per incontrare Antonio e cercare di far rappacificare i due litiganti. — E in occasione di quel viaggio ci incontrammo proprio a Sinuessa, ricordi Vario? — continua Orazio — . Con te c’erano Virgilio e Plozio. Che abbracci furono i nostri e che gioia… — E come finì il viaggio? — chiedo. — Beh — riprende a dire Orazio — arrivammo a Brindisi attraverso la via Minucia, quella che passa per Canosa e Bari, ma di Antonio non c’era traccia. Brindisi, per evitare lo scontro, gli aveva chiuso le porte ed egli si era diretto con le trecento navi a Taranto, che invece gli aprì le sue porte. — Quali porte? — interviene Filippo ironico — Non c’erano porte da aprire! — Intendo dire — continua Orazio — che Taranto accolse ben volentieri Antonio nella speranza che si potesse evitare la guerra civile. E pace fu. Infatti lì giunse anche Ottaviano che, sollecitato da Ottavia, sua sorella e moglie di Antonio, acconsentì a far pace col rivale. Per il momento la guerra era stata scongiurata. — Tuttavia la tregua non durò molto. — aggiunge Vario. — Già. Sai come andò a finire, vero, Angelo? — mi chiede Orazio. — Mi pare di sì — rispondo — . Qualche anno più tardi le flotte di Antonio e Cleopatra furono battute ad Azio da quella di Ottaviano, e i due amanti tornarono

«…Taranto accolse ben volentieri Antonio nella speranza che si potesse evitare la guerra civile. E pace fu. Infatti lì giunse anche Ottaviano che, sollecitato da Ottavia, sua sorella e moglie di Antonio, acconsentì a far pace col rivale. Per il momento la guerra era stata scongiurata».


A CENA CON ORAZIO

DIVINITÀ PRINCIPALI DELLA GRECIA E DI ROMA Nome greco

Nome romano

Attributi

Zeus Hera Poseidone Apollo o Febo Àres Ade Persefone Demètra Estia Atena o Pallade Artèmide Afrodite Efesto Èrmes Diòniso Asclepio Crònos Leto Heracle Castore e Polluce

Giove Giunone Nettuno Apollo Marte Plutone Proserpina Cerere Vesta Minerva Diana Venere Vulcano Mercurio Bacco Esculapio Saturno Latona Ercole Castore e Polluce

Signore del cielo e della terra, degli Dei e degli uomini Moglie di Zeus e regina degli Dei, protettrice dei legami coniugali e dei parti Dio del mare e dei terremoti Dio della luce, della poesia, della musica, della bellezza e della profezia Dio della guerra Dio degli Inferi, del mondo sotterraneo Moglie di Ade, regina degli Inferi. È chiamata anche Kore Dea delle messi Dea del focolare e della vita domestica Dea della saggezza Dea della caccia e del mondo selvatico Dea dell’amore e della bellezza Dio del fuoco È il messaggero degli Dei. Dio dei mercanti, dei ladri, dell’eloquenza Dio del vino, del teatro e dell’ambiguità Dio della medicina Padre di Zeus, rappresenta il Tempo Madre di Apollo e Artèmide Dio della forza e dei buoni affari Figli di Zeus e Leda, protettori dei combattenti, dei naviganti e degli atleti

Apollo Hyakinthos è raffigurato su questa moneta di Taras del periodo 510-500 a.C. Infatti egli stringe un giacinto con una mano e una lira a quattro corde con l’altra. Sul retro l’immagine risulta incussa.

in Egitto dove poi si uccisero. Ne hanno fatto anche un film con Richard Burton ed Elizabeth Taylor. — Film? Che film? — chiede sorpreso Orazio. Anche gli altri mi guardano perplessi. — Ah, beh… è una specie di teatro… (accidenti! dimentico spesso dove sono, mi viene da pensare). — Sì, ma non parliamo di questi fatti tristi — interviene fortunatamente Sabino per ravvivare la discussione — io ho fame. E poi, vorrei dell’altro vino — dice sollevando la coppa, subito riempita dalla schiava con l’anfora. — Bene, continuiamo la nostra cena — approva Orazio, e fa un cenno al servo che si allontana. — Parliamo della Taranto del passato — propongo guardando Orazio — . Cosa avvenne dopo che Fàlanto conquistò la città Taras? — Sì, Orazio, parlaci di Taranto — sollecita Claudio Cicirro — . Anche noi vogliamo sapere. — Bene. Sotto la guida di Fàlanto — inizia a raccontare Orazio — , Taras divenne in pochi decenni ricca e potente e si ingrandì. Dalla madre Sparta i Tarantini presero tutto: la lingua, infatti a Taranto fu sempre parlato il natìo dialetto dorico… almeno fino alla visita di… Filippoooo… Orazio gli lancia un’occhiataccia mentre pronuncia ad alto volume il suo nome. — Da Sparta presero anche le istituzioni politiche e alcuni culti. Ad esempio, furono eretti templi a Poseidone, che sarebbe il nostro dio del mare Nettuno, e ad Apollo Hyakinthos, dalla ambigua sessualità. In grande onore furono Diòniso, il nostro dio del

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CAPITOLO IV

vino Bacco; Afrodite, la dea dell’amore che noi chiamiamo Venere; ed Asclepio, il dio della medicina da noi chiamato Esculapio. E poiché la città viveva di traffici e commerci fu innalzato un tempio anche ad Èrmes, il nostro dio Mercurio, protettore dei commercianti. Presso il promontorio (il Pizzone n.d.a.), sul mar piccolo, fu eretto un importante santuario di Persefone, regina degli Inferi e dea della vegetazione, da noi chiamata Proserpina. Erano venerati anche Hera, cioè Giunone, sposa di Zeus, protettrice dei legami coniugali e dei parti; Atena, cioè Minerva, dea della saggezza e delle arti; i due fratelli Dioscuri, Castore e Polluce, fratellasti di Elena di Sparta, più nota come Elena di Troia. Altamente venerato era, ovviamente, il padre degli dei, Zeus, il nostro amato Giove. In suo onore il grande Lisippo aveva innalzato a Taranto un colosso bronzeo di 40 cubiti, la statua più grande dopo il colosso di Rodi. Faccio un rapido calcolo. Quaranta cubiti romani dovrebbero essere all’incirca 18 metri. — Capperi! Una gran bella statua! — esclamo. — Ma come! I Tarantini adoravano i nostri stessi dei! — commenta sorpreso Claudio Cicirro. — Beh, non è propriamente esatto, Claudio. Siamo noi che adoriamo i loro dei! Noi Romani abbiamo, in tempi antichi, seppellito gli antichi dei italici ed etruschi ed abbiamo adottato quelli greci. Non tutti, a dire il vero. Ad esempio Marte e Giove sono sempre stati adorati dai Romani, ma… come dire… hanno subìto qualche modifica dopo che siamo entrati in contatto col mondo magnogreco, li abbiamo “avvicinati” ad Ares e Zeus. Già nell’epoca in cui Roma terminò di essere monarchica per divenire repubblicana i Romani cominciarono a guardare con onore al culto greco e in particolar modo agli oracoli greci. — Perché mai? — chiede Sabino. — Questo perché in fatto di oracoli gli antichi dèi romani erano alquanto… silenziosi. Tant’è che c’era l’abitudine di “gettare a sorte” quando si dovevano prendere decisioni importanti. I più loquaci dèi greci, invece, davano seri responsi. E così si cominciò a frequentare la Sibilla cumana, indovina sacerdotessa d’Apollo che, poiché era in Campania, in territorio greco, non distava molto da Roma. Addirittura, il re Tarquinio riuscì ad ottenere dalla Sibilla una raccolta di libri oracolari. Un’ottima occasione per conoscere il destino futuro. Ma quei libri erano dif-

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«Altamente venerato era, ovviamente, il padre degli dei, Zeus, il nostro amato Giove. In suo onore il grande Lisippo aveva innalzato a Taranto un colosso bronzeo di 40 cubiti, la statua più grande dopo il colosso di Rodi».


A CENA CON ORAZIO

Moneta di Cuma del 420380 a.C. Sul fronte, testa di donna con diadema; sul verso, sotto la scritta KYMAION, è raffigurata Scilla, la ninfa tramutata in mostro marino circondato da sei cani feroci, che divora tutto ciò che transita nei suoi paraggi. Secondo la leggenda abitava lo stretto di Messina insieme al mostro Cariddi. Di entrambi i mostri parla anche Omero nell’Odissea.

ficoltosi da interpretare perché scritti in un greco piuttosto oscuro. Per decifrarne il significato il comune fu costretto a predisporre un apposito collegio di due savi che avevano a disposizione due schiavi pratici della lingua greca. — E ci riuscirono? — chiedo ad Orazio. — Beh, in molte situazioni critiche dello Stato quei libri furono molto utili. Solitamente, però, la Sibilla cumana non dava libri, bensì usava consegnare il responso in un’altra maniera: scriveva le parole su tante foglie d’albero, che poi deponeva all’ingresso del tempio. Dovevano essere raccolte in fretta, prima che il vento le disperdesse. — Meglio non andare in una giornata ventosa, allora — dice Lavinio. — Tuttavia in moltissimi altri casi i Romani preferirono inviare legazioni direttamente all’oracolo di Delfi, così come si fa anche oggi. Arrivano due servi dalla cucina. Questa volta portano due vassoi: vedo della carne, in umido e arrosto. Una ragazza ha un altro vassoio colmo di verdure e varie salse, mentre un’altra ha un cesto con pezzi di pane che sembrano piuttosto di focaccia. — Cos’è questo, cicogna? — chiede Sabino indicando il contenuto di uno dei vassoi. — Polli da me allevati — risponde Orazio — . Perché, non ti garba il pollo? Prendi il manzo, allora — e indica l’altro vassoio. — No, no, chiedevo soltanto… — risponde Sabino allungando la mano verso il vassoio del pollo, afferrandone un buon pezzo. — Caro Angelo — mi dice Orazio — devi sapere che qui a Roma la gente è sempre pronta ad adottare le novità, anche quando quelle risultano idiote! Le cicogne vivevano tranquille e sicure finché Sempronio Rufo si accorse che i suoi piccoli erano gustosi da mangiare. Così diceva lui. Da allora, divorare cicogne è divenuta una moda. — Sono squisite, altro che moda! — replica Sabino. — Però quando Sempronio si presentò poi candidato alla pretura e fu bocciato, la gente assennata cominciò a deriderlo — continua Orazio sorridendo. — Perché mangiava le cicogne oppure perché era stato bocciato? — gli chiedo. — Perché si era diffusa la voce che il suo insuccesso era la vendetta del popolo delle cicogne! — Ah!, ah!, ah! — ridiamo tutti a crepapelle. — Ma tornando a Fàlanto — riprende a raccontare Orazio — dobbiamo considerare che l’episodio della conquista di Taras non fu certo un caso isolato. Era consuetudine, per i Greci di quel periodo, emigrare dalla loro regione sovrappopolata in cerca di fortuna in terre migliori e la loro meta preferita divenne l’Italia meridionale. — Questo lo avevo capito — aggiungo io — . Italia, terra promessa ed invidiata anche oggi. — Come t’ho detto stamattina, Angelo, tra gli otto e settecento anni fa nei territori bagnati dallo Ionio e dal basso Tirreno sorsero numerose città greche, organizzate secondo usi e costumi greci. Insieme formarono quella che fu chiamata Megale Hellas, cioè Magna Grecia. Molte colonie greche furono fondate anche in Sicilia, che i Greci chiamavano Sikelìa, ma che, comunque, restò sempre distinta dalla Magna Grecia. In Sicilia tuttavia i Greci dovettero lottare non solo con gli indigeni ma anche con i Car-

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CAPITOLO IV

taginesi, che occupavano la parte occidentale dell’isola. Ma se la dorica Taranto, pur essendo tra le ultime colonie greche, cresceva rapidamente e splendidamente, quelle più settentrionali, poste ai piedi del Vesuvio, crescevano più modestamente. I Cumani avevano edificato presso un colle sul mare una seconda patria, dotata di un porto di mare; fu chiamata Dicearchia, che più tardi cambiò nome in Puteoli. Infine essi edificarono Neapòlis, nuova città. — Cosicché — intervengo sorpreso — questa è l’origine di Napoli. Antica città cumana, quindi ionica. — Già. Ma per forza o per volontà propria i Neapoletani rimasero, più dei Tarantini, limitati nel loro angusto territorio, accerchiati, com’erano, dagli Etruschi, che i Greci chiamavano “selvaggi Tirreni”, dal greco Thyrrenoi, cioè pirati, proprio perché avevano la fama di pirati efferati, e dagli Osci. Impararono, comunque, a trattare e trafficare con gli indigeni pacificamente, creando una propria esistenza ed, anzi, divenendo in pratica i primi missionari della civiltà greca in Italia. — Tirreni! Ecco perché quel mare si chiama Tirreno — asserisco — È come dire mare degli Etruschi, quei piratoni! — Certamente. Le navi etrusche vi scorrazzavano a loro piacimento ancor prima di quelle greche e di quelle romane… I Greci, quindi, fondarono colonie in tutto il sud Italia, ma stranamente nessuna colonia greca apparve sulle coste del mare Adriatico, che gli antichi Greci avevano sempre chiamato “seno ionico”, finché la fondazione di Adria, città umbro-etrusca, cambiò il suo nome in mare Adriatico. Tuttavia, a parte Adria e Spina, che si trovavano però sulla foce del fiume Po, nessun altro porto poteva accogliere i naviganti nel mar Adriatico. Era gioco-forza sbarcare le proprie merci a Taranto, oppure a Hydrus (Otranto, n.d.a.) che era in possesso dei tarantini.

«Tornando a Taras, la città crebbe quindi ricca e potente, ma poiché Fàlanto la governava da severo re, imponendo una forse troppo rigida osservanza delle leggi, presto venne in odio agli stessi Tarantini».


A CENA CON ORAZIO

Garum.

Moneta di Neapolis del 325-241 a.C. circa. Sul fronte una testa di ninfa con diadema; sul verso uun toro con testa umana, sormontato da una Nike (Vittoria) in volo che va ad incoronare il toro.

— E Brindisi? — chiedo. — Fiorì molto più tardi, al momento era un piccolo villaggio messapico. Tornando a Taras, la città crebbe quindi ricca e potente, ma poiché Fàlanto la governava da severo re, imponendo una forse troppo rigida osservanza delle leggi, presto venne in odio agli stessi Tarantini. — I primi guai, quindi — commento. — Ma assaggia questa salsa — mi dice Orazio mentre ne versa una cucchiaiata sulla carne — è squisita. — Cos’è? — chiedo. — Garum, una specialità romana… — Cioè? — Pesce fermentato al sole. Blah!, penso mentre me ne verso un po’ anch’io. Ma fortunatamente Orazio riprende a raccontare. — Alla fine Fàlanto fu costretto ad andare esule a Brindisi. — Perché proprio a Brindisi? — In quella città Fàlanto pensava di radunare i malcontenti, che erano molti, e marciare in armi su Taranto. Non correva buon sangue tra Greci e Messapi. Ma presto Fàlanto si quietò. Ormai era anziano e sentiva prossima la morte. Così chiese ai Brindisini che alla sua morte le sue ceneri fossero sparse nell’immensa agorà dei Tarantini. «Fatelo, amici miei», disse Fàlanto, «poiché un oracolo ha predetto che se ciò accadrà, Taras cadrà rovinosamente. In questo modo gli Spartani perderanno il possesso di quella bella terra». — Fàlanto tradì la sua gente? — chiede meravigliandosi Claudio Cicirro. — I Brindisini credettero alle parole di Fàlanto e così fecero — continua Orazio —. Alla sua morte un sacerdote implorò il suo dio. «O Zis Batas, padrone del cielo e dei fulmini, fa’ che quanto ci ha detto Fàlanto si avveri!». Poi alcuni uomini partirono per Taranto e, utilizzando una borsa di pelle bucata, sparsero le ceneri di Fàlanto nella grande piazza, mentre in cuor loro essi ripetevano: «Che possano Tàras e gli Spartani sprofondare negli Inferi!». — E allora? — continua a chiedere Claudio, che si mostra interessato quanto me. Vedo che buona parte degli invitati è in attesa della risposta di Orazio, che invece afferra un cosciotto di pollo e lo addenta. — Allora? — insistono Setticio e Sabino — Cosa accadde? — Restarono delusi, gnam, gnam — conclude Orazio masticando il cosciotto. — Cioè non accadde nulla o cos’altro? — chiedo per non essere da meno. — I Brindisini si chiesero: «Abbiamo fatto quanto ci ha detto Fàlanto. Ma Taras è sempre lì. Come mai?». — Già. Come mai? — chiediamo tutti in coro. — Taras, infatti, continuò ad esistere, e come! L’oracolo, in realtà… gnam, gnam… aveva predetto il contrario! Alla fine i Brindisini capirono l’inganno: «Siamo stati fregati! E noi idioti!, a credere ad uno Spartano!». «Che Fàlanto possa contorcesi per l’eternità!». «Con quel gesto abbiamo reso più forte la già forte città dei Greci!».

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CAPITOLO IV

— Ah!, ah!, ah — si leva da tutti noi una fragorosa risata. — Grande, Fàlanto! — dice Sabino — Nonostante tutto aveva pensato al bene della sua gente. — Andiamo, Orazio! — intervengo. — Questa è un’altra delle tue assurde leggende! — Tu dici? — Orazio mi guarda sorridendo — . Resta però il fatto che quando i Tarantini seppero del gesto di Fàlanto, commossi e pentiti gli decretarono grandi onori. — Era il minimo che potessero fare — dice Sabino. Decidiamo di fare un brindisi a Fàlanto. La ragazza versa nei calici il vino, che questa volta mi sembra di colore più scuro. — Ecco il Marsico del nostro amico Claudio Cicirro — spiega Orazio. Apprezzatene l’aroma e il gusto, amici. C’è chi ama mescolarci del miele, ma a me piace così com’è, al naturale. Bevuta generale. — Cosa avvenne poi? — chiede Sabino. — Le popolazioni vicine a Taranto — riprende Orazio — si fecero sempre più minacciose e turbolente, costrette, com’erano, a restare nelle regioni più interne perché continuamente respinte dalla superiore organizzazione militare dei Greci. Nelle varie schermaglie molti indigeni venivano ridotti in schiavitù e costretti ai lavori nei campi. Ciò nonostante, i Peucezii, gli Iapigi e i Messapi, popoli che vivevano attorno a Taranto, sentivano il fascino culturale dei Tarantini, e ciò favoriva gli scambi commerciali. Essi barattavano con i Greci grano, lana, legname e schiavi in cambio di olio, profumi, vino, armi, gioielli e stoffe. E, tra una guerra e l’altra, vivendo a contatto con i Greci, gli indigeni impararono, ad esempio, ad usare il tornio per modellare vasi di buona qualità… — Tutto sommato, conveniva avere per vicini quei Greci — commenta Setticio. — Certo che sì. Imitando i Greci, gli indigeni cominciarono anch’essi a vivere in

«…vivendo a contatto con i Greci, gli indigeni impararono, ad esempio, ad usare il tornio per modellare vasi di buona qualità…».

«Con l’aiuto di architetti greci innalzarono mura difensive poderose…».


A CENA CON ORAZIO

«Un giorno Messapi e Peucezii organizzarono un esercito di ventimila uomini… …e si scagliarono sull’esercito di Taranto…».

vere città con case di pietra e mattoni invece che delle capanne. Con l’aiuto di architetti greci innalzarono mura difensive poderose, appresero l’uso dell’alfabeto e della scrittura, la coltivazione della vite e l’arte di fare il vino. Ma a volte la convivenza diventava insopportabile e si scatenavano feroci battaglie. Un giorno Messapi e Peucezii organizzarono un esercito di ventimila uomini… — Accidenti! Poveri Tarantini — dice Sabino. —…e si scagliarono sull’esercito di Taranto — continua Orazio — che intanto era stato rinforzato con truppe inviate da Reggio. Dopo una lotta accanita i Messapi riuscirono a dividere in due l’esercito tarantino che si dette a fuga precipitosa ed incontrollata. I Messapi rincorsero i fuggitivi e fecero grande strage, in particolare di guerrieri della classe aristocratica. Fu la più grande strage di Greci che si conosca di quel periodo (lo scontro avvenne forse nei pressi di Mottola nel 473 a.C., n.d.a.). — E fu la fine di Taranto! — sentenzia Setticio. — Certo che no — rassicura Orazio. Ritorna il servo vivandiere. Aggiunge sul tavolo un grande vassoio con del pesce immerso in uno strano sugo. — Vi sono dei branzini ed anche delle triglie. Tu che sei un buongustaio, Sabino, preferisci le triglie, non è vero? — Sono più gustose — risponde Sabino. — Anche tu sei dello stesso parere, Angelo? — chiede Orazio. — A me piace anche il branzino — rispondo prudentemente. — Ecco il vero intenditore. Branzini pescati in alto mare! — conclude soddisfatto Orazio. Poi continua. — Tuttavia la batosta ebbe forti ripercussioni su Taranto. Ci fu una rivolta popolare che rovesciò il governo aristocratico e instaurò la democrazia. A capo della repubblica


CAPITOLO IV

fu messo uno Stratega, eleggibile ogni anno, con pieni poteri. Dopo alcuni anni, riavutisi dalla sconfitta, i Tarantini ripresero la guerra ai Messapi, i quali subirono pesanti sconfitte. I greci effettuarono incursioni punitive alla maniera di Sparta, combattendo con selvaggio furore. — Il carattere dei Tarantini stava riemergendo — dico. — Fu attaccata anche Carbina (l’odiena Carovigno. Era il 465 a.C., n.d.a.) dove alcuni guerrieri violentarono e uccisero le giovani donne che avevano trovato scampo in un tempio. Ma lo stupro indignò gli dei, tanto che le saette di Zeus si abbatterono sugli empi folgorandoli. Quando i loro compagni entrarono nel tempio videro che alcuni erano lì per terra, carbonizzati. «Cos’è successo?», chiesero. Poi capirono. «Zeus li ha puniti per aver profanato il tempio. Questo sacrilegio ci porterà sventura!», urlarono e fuggirono via. — In un bel guaio si erano cacciati i Tarantini — commenta Claudio Cicirro dondolando la testa — violentare ragazze in un tempio! Non si fa. — Per riparare l’indegna azione, ogni anno in Taras, nell’anniversario dell’eccidio, si offrivano sacrifici espiatorii a Zeus Katabàites, ovvero “il saettante”. E coloro che si erano macchiati d’infamia, sopravvissuti all’ira di Zeus, furono pubblicamente disonorati. Su colonne poste davanti alle case dei sacrileghi vennero incisi tutti i loro nomi. In questo modo i sopravvissuti non poterono contrarre matrimonio né, alla loro morte, godere di onoranze funebri. — Beh! Se l’erano meritata, la loro sorte — aggiunge Sabino. — Tuttavia — riprende a dire Orazio — la vittoria fu solennemente festeggiata. I Tarantini consacrarono a Delfi alcuni cavalli in bronzo e alcune statue preziose del celebre scultore Agesilao di Argo. Poi, non soddisfatti della vittoria clamorosa, i Tarantini mossero anche contro i Peucezii. E i Messapi, sempre pronti a combattere contro i Tarantini, tornarono al fianco dei loro alleati Peucezii. Le lotte ripresero furibonde. — Ma quando finisce ‘sta storia? Io ho fame — supplica Sabino. — Ancora? — interviene Filippo — Io sono sazio come un’otre! — Ebbene — continua invece a raccontare Orazio — erano passati cinque anni dalla distruzione di Carbina, quando una decisiva battaglia mise definitivamente fuori combattimento sia i Messapi che i Peucezii (era il 460 a.C., n.d.a.). Così, risolta la questione militare, Taranto mise in atto un programma che procurasse tranquillità e benessere ai suoi cittadini. La città s’ingrandì ulteriormente raggiungendo il numero di centomila abitanti. — Capperi, non male per l’epoca — concludo io.

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Statere d’oro di Taras del periodo 465-455 a.C., con sul dritto Fàlanto che cavalca il delfino e un ippocampo sul rovescio.


A CENA CON ORAZIO

«Fu attaccata anche Carbina, dove alcuni guerrieri violentarono e uccisero le giovani donne che avevano trovato scampo in un tempio».

— Ed ora, per finire, un po’ di frutta del mio campicello — dice Orazio. Ma noto che quasi tutti hanno smesso di stare sul gomito e si sono stesi sui divani. Sabino agita in aria un dito a disegnar cerchi, Filippo comincia a canticchiare in greco. — È il Marsico che comincia a fare il suo effetto — mi dice Orazio — . Non perdona, se ne bevi un po’ di più. — Lo vedo. — Vado a dare istruzioni ai servi. I miei ospiti dormiranno qui, questa notte. Orazio indossa i sandali che un servo gli ha portato, poi si allontana. Meno male che questa cena è terminata. Sì, è stata molto istruttiva, ma il braccio sinistro non lo sento più. Mi si è anchilosato!


Chi era Apollo

M

essa incinta da Zeus, Letó cercava un luogo dove poter partorire. Poiché era perseguitata dalla gelosa Hera, nessuna città della Grecia, per timore della regina degli Dei, voleva accoglierla. Infine Letó giunse nella sterile isola di Delo, e là nacquero Apollo e Artemide. Appena Apollo vide la luce, l’isola divenne incandescente e splendida, anzi l’intero mondo cominciò a splendere. Era infatti nato il dio della luce. Da adulto Apollo compì grandi imprese. Quando liberò Delfi dal cattivo drago Pitone, uccidendolo con le sue frecce, egli fu osannato e chiamato Apollo Pitio. Proprio a Delfi egli stabilì il suo oracolo e le sue sacerdotesse furono chiamate Pizie (o Pitonesse). Per lui si cantava il Peana, un inno sacro, per esaltare la sua grande vittoria e conferirgli l’appartenenza dell’oracolo che fino ad allora era stato della dea marina Teti. Da quel momento Apollo fu elevato anche a dio della profezia. Compito delle Pizie era quello di annunciare agli uomini gli oracoli incomprensibili del dio che, nel frattempo, per purificarsi dell’uccisione di Pitone, si era esiliato nella valle di Tempe in Tessaglia. Poiché era bello, alto e ben fatto Apollo ebbe frequenti avventure romantiche con ninfe e donne mortali. Infatti egli era anche il dio della bellezza. Nonostante ciò non sempre gli andava bene. Una volta Apollo si innamorò della ninfa Dafne, figlia del dio fluviale Peneo, che (udite, udite) proprio non voleva ricambiare le sue attenzioni. Come spesso facevano gli dei, Apollo riuscì ad intrappolare Dafne, ma costei disperata prese ad implorare il padre affinché salvasse la sua verginità. Detto, fatto, la ninfa fu trasformata nella pianta di alloro, che in greco porta ancora il suo nome. Da quel momento l’alloro fu sacro ad Apollo, tant’è che prese a crescere spontaneamente dovunque, anche a Delfi. Un’avventura finita male non evitò certamente che Apollo divenisse padre di molti fanciulli, anche perché non tutte le ragazze la pensavano come Dafne. Infatti egli ebbe Asclepio da Coronide, Lino da Psamate, Aristeo da Cirene, Orfeo e Imeneo da Calliope, e tanti altri. A proposito di Imeneo, costui divenne il dio delle nozze, la personificazione del canto nuziale durante la preparazione della sposa, praticamente dell’inno di addio alla sua femminile verginità (dal suo nome deriva “imene”, la membrana vaginale). Tuttavia, si dice che Apollo fosse un dio dalla ambigua sessualità. Già, perché egli aveva un debole anche per i bei giovanotti, che, inoltre, quando morivano (essendo essi mortali) subivano una metamorfosi. Ad esempio, il grazioso Giacinto si trasformò in un fiore e Ciparisso in un albero. Apollo era anche bravo nella musica e nella poesia, semplicemente perché egli era anche dio di quelle arti, e sue accompagnatrici furono sempre le Muse, le nove figlie di Zeus spesso invitate alle feste degli dei e degli eroi perché allietassero i convitati con canti e danze. Ma dato che Apollo, come abbiamo visto, aveva una certa abilità nello scoccare frecce dal suo arco d’argento, venne considerato anche un dio guerriero piuttosto temibile, dal momento che poteva dare una morte amara oppure dolce, a sua discrezione. Per tutte queste caratteristiche, sia i Greci che i Romani gli attribuirono gli onori più alti, dedicandogli in vari luoghi sontuosi templi e sacrifizi. Si celebravano persino giochi atletici in suo onore, i giochi Pitici, appunto. Molti animali furono considerati suo simbolo e perciò a lui dedicati: il lupo, il cigno, il corvo e l’aquila, dal cui volo si interpretava il volere del dio. Anche il delfino era caro ad Apollo; infatti si disse che il dio fosse giunto a Delfi sotto forma di delfino, “travestito” (diciamo così), per non farsi subito scoprire da Pitone.

In alto, Apollo in un bronzo del V sec. a.C. A lato, Letó con Apollo e Artèmide.


TRABEAzIONE

Lo stile ionico apparve in Asia Minore nel VI sec. a.C. e fu adottato insieme al dorico oppure da solo. La colonna, quasi sempre con scanalature, più profonde di quelle della colonna dorica, è anche più slanciata ed ha un capitello con volute appoggiato su una base. Il fusto è leggermento rastremato in alto. Il fregio (zoòforo) è formato da una fascia solitamente decorata con festoni, ornati o figure in bassorilievo, ma a volte può essere vuota, come nel tempio di Athena a Priene, città greca dell’Asia minore oggi in Turchia. La trabeazione è meno pesante della dorica, meno alta rispetto alla colonna e con l’architrave suddiviso in tre fasce che sporgono di poco l’una rispetto all’altra. La cornice è suddivisa in due parti.

STILOBATE

BASE

FUSTO

CAPITELLO

ARCHITRAVE

FREGIO

CORNICE

FRONTONE

L’ordine ionico greco

Alcune colonne ioniche. Da sinistra: tempio dell’Illisso in Atene; tempio di Athena Polias in Priene; tempio di Athena Polias in Atene.


L’ordine ionico greco Il capitello ionico a volute appare sostanzialmente diverso se si guarda di fronte o di lato, perché mentre la facciata mostra le spirali, il fianco mostra il cordone a nastro che terrebbe il “cuscino” arrotolato. Questi due aspetti del capitello crearono problemi quando il capitello era posizionato all’angolo dell’edificio. Dal IV sec. a.C. in poi si risolse il problema adottando il cosiddetto capitello diagonale, con le due volute d’angolo disposte diagonalmente a punta, come è visibile nella figura a sinistra, che mostra il capitello d’angolo di fronte e in pianta. La trabeazione qui sotto, che è quella del tempio di Athena Nike in Atene, mostra la composizione e la parte alta decorata con ovuli e perle.

Capitello diagonale

Sezione della colonna con capitello visto dal basso.

Capitello e base della colonna ionica greca.

Trabeazione ionica



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