Il Sogno e la Storia n. 1

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Settimanale ~ E 3,00 N. 1 ~ 6 giugno 2009

SCORPIONE EDITRICE


N. 1 - 6 giugno 2009 Testo e disegni: Angelo R. Todaro – www.angelotodaro.it Collaborazione e consulenza storica-archeologica: Mario Lazzarini Edito da: Scorpione Editrice, via Istria 65d 74100 Taranto – Tel. fax 099 7369548 Email: info@scorpioneeditrice.it Web: scorpioneeditrice.it Stampa: Stampasud S.p.A., Mottola (TA) © 2009 - Testo e disegni: Angelo R. Todaro Per i numeri arretrati € 3,00 cadauno. Rivolgersi all’Editore. Con il fascicolo n. 18 si completerà il 1° volume. Con il fascicolo n. 35 si completerà il 2° volume. Coloro che desiderano acquistare la copertina per la rilegatura dei due singoli volumi, oppure i due raccoglitori, devono prenotarli presso l’Editore. Settimanale ~ E 3,00 N. 1 ~ 6 giugno 2009

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Gli Autori: Angelo R. Todaro Ha una lunga esperienza di disegnatore e illustratore ed ha anche scritto diversi saggi storici. Ha iniziato l’attività di disegnatore nel 1964, dopo essersi trasferito da Taranto a Roma. Nella sua carriera ha affrontato tematiche di ogni genere e disegnato per Paesi diversi. Ha disegnato anche fumetti con personaggi americani: ad esempio Mandrake e L’Uomo Mascherato, editi dalla Casa editrice Fratelli Spada di Ciampino, Roma. Ha disegnato storie western e poliziesche per la Casa editrice Bastei di Colonia, Germania; storie di guerra e di sport per la Editrice IPC Fleetway di Londra e, in collaborazione con l’artista Alberto Giolitti, storie di Turok, son of Stone e Star Trek per la Western Publishing di New York. Per l’Italia ha disegnato storie di ambientazione storica (comprese illustrazioni sulla storia di Roma antica e sulla Magna Grecia), favolistica, di attualità e di fantascienza. Ha anche realizzato un fumetto didattico, su testi di Mario Lazzarini, sulle Olimpiadi nella Grecia antica con personaggi tarantini (Ikko, famoso atleta) le cui tavole ingrandite sono state esposte nel Museo Nazionale Archeologico di Taranto in occasione della mostra “Atleti e Guerrieri”. E per il Museo Nazionale Archeologico di Taranto, tramite la Scorpione Editrice, ha collaborato alla realizzazione dei cataloghi riguardanti i ritrovamenti archeologici; come anche alla realizzazione di materiale informativo (cataloghi, manifesti, brossure, ecc.) usato per esposizioni museali riferite alla Magna Grecia e non solo in Taranto. Alla produzione artistica Todaro unisce quella letteraria, avendo scritto vari saggi storici già editi da altri editori, con titoli come: Hitler il preludio; Arma totale (la storia dell’energia atomica che condusse alla realizzazione della prima bomba atomica); Tobruk; El Alamein. Sono libri ancora in vendita e rintracciabili nelle librerie ed anche su Internet. Ora ha in produzione il libro La Via della Seta, ieri e oggi. Mario Lazzarini Insegna latino e greco nei Licei Classici dal 1969. Si è sempre interessato di archeologia e storia della Magna Grecia e di storia della navigazione antica, pratica ricerche di archeologia subacquea. Ha pubblicato testi di esercizi latini per le Scuole Medie superiori (Vertendo Discimus, 1990 ed. Scorpione, 2ª edizione 1994; More Antiquo, 1995, ed. Scorpione), e testi didattici per la conoscenza di storia, usi e costumi della Magna Grecia destinati agli studenti delle scuole elementari e medie (La Magna Grecia, 1990, ed. Scorpione; Giorni di Magna Grecia, 1995, ed. Scorpione), questi ultimi in buona vendita anche presso siti archeologici extraregione (Paestum, Reggio Calabria, Metaponto). È autore delle ricerche, dei testi e della sceneggiatura della prima parte (storia greco-romana) della Storia di Taranto, 198283, ed. Scorpione, e del fumetto Ikko, 1994, ed. Scorpione, sulle Olimpiadi nell’antica Grecia. Ha collaborato e collabora con articoli di storia ed archeologia subacquea a riviste specializzate (Magna Graecia, Cosenza), divulgative (CariPuglia Magazine, Bari) e scolastiche (L’Arengo, rivista di studi classici del Liceo “Quinto Ennio” di Taranto, della quale è anche segretario di redazione), ed a quotidiani locali. Ha pubblicato Saturo sotto le acque (1997), una sintesi specialistica di proprie ricerche archeologiche subacquee nella baia di Saturo (TA).


Il Sogno e la Storia Presentazione dell’opera La storia di Taranto, Roma, la Magna Grecia, la Grecia e Cartagine in due grandi volumi 35 fascicoli, ciascuno di 24 pagine a colori, in carta patinata (ma il numero 1 è eccezionalmente doppio), contenenti centinaia di disegni a colori di grande formato, in vendita a cadenza settimanale al prezzo di € 3,00. La parte centrale di ogni fascicolo è estrapolabile e contiene 16 pagine (eccetto i numeri 1-18-35 che ne hanno 32) con numerazione progressiva. A raccolta completata i fascicoli dal n. 1 al n. 18 formeranno il primo volume di 320 pagine. I fascicoli dal n. 19 al n. 35 formeranno il secondo volume di 288 pagine. I lettori che lo desiderano possono già prenotare presso l’Editore la copertina cartonata e risguardi per far rilegare il primo volume, oppure richiedere il contenitore cartonato per conservare i fascicoli così come sono. Il fascicolo n. 18 sarà di 36 pagine e conterrà anche l’indice del primo volume e la Timeline, cioè la cronologia degli eventi narrati nel primo volume, suddivisa per data. Il fascicolo n. 35 sarà di 36 pagine e conterrà l’indice del secondo volume e la Timeline relativa agli eventi narrati nel secondo volume; inoltre conterrà gli indici dei termini greci e latini, dei luoghi e dei nomi dei personaggi presenti nei due volumi, in modo da facilitare la loro ricerca successivamente. In coda ai fascicoli, così come in questo, saranno presenti schede fronte-retro (volutamente in bianco-nero per facilitarne la riproduzione a scopo didattico) che possono essere ritagliate e conservate. Le schede informeranno il lettore dell’architettura, l’abbigliamento, le acconciature, gli oggetti d’uso quotidiano, le armi e tanti altri aspetti del mondo del Greci e dei Romani. In questo primo numero è allegata la scheda sull’ordine architettonico dorico greco; seguiranno l’ordine ionico e l’ordine corinzio.

I fascicoli settimanali Primo volume 1

Dove il miele è più dolce

2

Falanto e gli Spartani

3

A cena con Orazio

4

Il Tirreno conteso

5

Il volo della colomba

6

Molle et imbelle Tarentum

7

Nella grande Roma

8

Atleti e gladiatori

9

Roma-Taranto, vigilia di guerra

10 Le falangi dell'Aquila 11 La pace di Pirro 12 I carri di fuoco 13 Lo sbarco in Sicilia 14 E PIrro se ne andò 15 Sotto il piede di Roma 16 Verso la Sicilia 17 Roma impara a navigare 18 La sconfitta di Regolo Secondo volume 19 Via dalla pazza folla 20 Quadrighe al galoppo 21 Profumo d’Annibale 22 Annibale passa le Alpi 23 Matrimonio alla romana 24 La sposa era bellissima 1 25 La sposa era bellissima 2 26 La carneficina di Canne 27 La tomba di Archimede 28 Annibale a Taranto 1 29 Annibale a Taranto 2 30 Verso Tivoli 31 Il flamen dialis 32 Chi d’inganno ferisce… 33 La fine del sogno 1 34 La fine del sogno 2 35 Il risveglio



Il Sogno e la Storia


Testo e disegni di Angelo R. Todaro Web: www.angelotodaro.it Š 2009 per il testo e i disegni Angelo R. Todaro

Collaborazione e consulenza storico-archeologica Mario Lazzarini docente di Latino e Greco al Liceo classico Quinto Ennio di Taranto

Edito da Scorpione Editrice Via Istria 65d – 74100 Taranto Tel./fax 099 7369548 E-mail: info@scorpioneeditrice.it Web: www.scorpioneeditrice.it


ANGELO R. TODARO

Un viaggio impossibile

Il Sogno e la Storia Storia di Taranto e di Roma al tempo della Magna Grecia raccontatami da Orazio Flacco

Primo volume

SCORPIONE EDITRICE


La macchina del tempo di Mario Lazzarini Si può narrare la storia in tanti modi: con un saggio, con un romanzo, con un trattato, con un fumetto, con un film; per gli accademici o per il vasto pubblico, per gli adulti o per i ragazzi. Comunque è sempre come salire sulla macchina del tempo e ritrovarsi all’improvviso in uno ieri più o meno lontano, dove tutto può essere diverso eppure tutto ci è spesso così familiare, così distante e così intimamente vicino. Angelo Todaro su quella macchina del tempo c’è salito, portandosi appresso le sue matite e i suoi colori di abile disegnatore. Ma soprattutto non ha dimenticato di mettere nella ventiquattrore il suo cuore di tarantino, di innamorato di Taranto e della sua storia, dei suoi luoghi belli o brutti, della sua gente bella o brutta. Perché quando si ama si amano anche i difetti. Alla fine del tunnel spazio-temporale (non si dice così nei racconti di fantascienza si è ritrovato a pochi anni dalla nascita di Cristo, quando sul mondo dominava Roma e Ottaviano Augusto proclamava la pax augustea inaugurando l’Ara Pacis. E con Augusto un gruppo di grandi ingegni, di quelli che hanno lasciato nella cultura del mondo impronte gigantesche: Mecenate, Agrippa, Virgilio, Properzio, Livio, Ovidio, Orazio… E proprio in Orazio, il grande e semplice poeta, s’imbatte per caso (ma esiste il caso o chiamiamo caso i reconditi desideri del cuore?) il nostro Todaro tarantino; Orazio è il poeta latino che più di tutti ha celebrato nella sua poesia, con profondo affetto, la dolcezza di Taranto antica, del suo clima, dei suoi frutti, della incantevole semplicità delle sue cose. Orazio era lucano, di Venosa; un meridionale, quindi, cresciuto nella terra arida, presso l’Ofanto, ai margini di una Puglia che per lui sapeva di grecità antica, di spendida cultura, di raffinata eleganza, sapeva insomma di Taranto. E a Taranto venne certo più volte, e se ne innamorò pure lui, tanto da ricordare questa nostra terra come “l’angolo del mondo che più mi sorride”. Un’intervista al grande Orazio, ecco cos’è questo lungo racconto di Angelo Todaro; una chiacchierata varia e piacevole, familiare e colta, tra due innamorati di Taranto e della sua antica storia. Dai primi Greci in Magna Grecia a Falanto spartano, dalle guerre coi Messapi alla grandezza di Archita, fino ai re mercenari come Archidamo, come Pirro; e poi l’incontro con Roma e con Annibale, e lo splendido tramonto nella storia, rosso e rosa e viola come quello che s’ammira qui d’estate, sul lungomare. Leggenda e cronaca, mito e storia s’intrecciano nelle parole di Orazio, il sapiente, il parco, il sorridente e paziente poeta dei semplici amori, dai gusti contadini. E ci sono pure le foto! Quelle possibili ai tempi di Orazio, naturalmente: disegni perfetti, attenti all’ambiente, ai costumi, alle cose di allora. Frutto di immaginazione, è ovvio, ma anche ricostruzione esatta e verosimile, frutto di studio accorto sui testi e con le matite. Strano racconto, insomma, questo, che va seguito, letto e guardato; alla fine saremo più ricchi, più consapevoli e, forse, più innamorati della nostra città.

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Il piacere dell’immagine di Piero Massafra Un romanzo? Una storia? Un album che inserisce e propone parole come pretesto per suscitare immagini? Questa “cosa”, spontaneamente, senza preordinate intenzioni, fonde diversi generi, e appassionanti. E il tutto avviene per naturale germinazione, perché, laddove si tratti di storia, di archeologia, di “traffici”, e soprattutto del passato di una grande città del Mediterraneo, e della storia, è inevitabile che tutti i segni della scrittura e della fantasia… documentata si vogliano togliere qualche... sfizio. Ma la verità è che si è voluto proporre al mondo contemporaneo ormai scaltrito, smaliziato e… annoiato da tanti suoni, effetti speciali, da turbinosi movimenti d’immagini che sembrano rinunciare al proprio specifico, negandosi quasi alla vista, allo sguardo e alla contemplazione, qualcosa che riaccendesse la curiosità e il desiderio di guardare per “vedere”, e quindi immaginare. Come avveniva una volta, nell’infinito tempo preistorico-pretelevisivo. E perciò in questa raccolta, l’immagine illustra il testo ma va oltre e, con qualche ruffiana suggestione, intende sprigionare la fantasia che si arrogherà il compito di muovere quelle figure, agitare il paesaggio, evocare il rumore del passato, sentire il pianto dei dolenti e la risata disturbante dei fortunati e dei vincitori… Naturalmente, non anticiperemo nulla della trama, se non che l’opera si muove tra antichi eroi e dei, nei pressi di autentici monumenti, alcuni dei quali offrirono la prima forma “civile” all’Italia preromana, e che si spera soprattutto di valorizzare il meridione greco-romano, nella convinzione che in quel passato giace anche un po’ della nostra possibile futura ricchezza. Una trama ricca di fatti, intrigante, nella quale si muovono i personaggi veri della storia vera che, con la loro oggettiva pregnanza, riescono a rendere verosimile ogni apporto della fervida “invenzione” di cui si dota il nostro autore, che si fa viaggiatore curiosissimo in un mondo d’immagini che stanno lì, come iscritte in un cerchio che, centro nell’antica Taranto, stringe per rapporti concentrici le grandi protagoniste del mondo classico, fino a Roma, un tempo situata alla… periferia di Taras. Insomma, si racconta “una” storia ma, quasi con accanimento, sempre s’insegue “la” storia, quella grande, e non certo per sfoggio o vanità, solo forse nella speranza (sempre avvertita) di imporle un impossibile diverso itinerario, più rispettoso di tutte le grandi protagoniste del passato. Prima tra tutte l’antica città di Archita, davvero così “paesana” nel suo aspetto “diurno-contemporaneo”, e così prestigiosa nei suoi “inferi” archeologici, nelle storie dei suoi antichi eroi e popolani, di alcuni dei quali soprattutto si parla in questo “romanzo popolare in testo e figure” e che hanno scelto di dare appuntamento ai… discendenti ogni settimana, sia per tentare di farsi desiderare, che per riproporre, con il dipanarsi dell’attesa e del tempo, il muoversi lento ma inesorabile della storia.

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ANTEPRIMA

Taranto, regina della Magna Grecia di Angelo R. Todaro Un mio viaggio nel passato è lo spunto per il racconto di questo libro. È tale il mio desiderio di voler conoscere la storia della città di Taranto che, senza rendermene conto, mi ritrovo catapultato nella Roma del 13 a.C. per incontrare il poeta latino Quinto Orazio Flacco. Come mai proprio lui? Nei suoi scritti Orazio cita spesso Taranto e addirittura in una Ode ci comunica che il suo più grande desiderio sarebbe quello di andare a morire nell’antica città spartana. Infatti egli scrive: “…Se gli dei avversi mi terranno da qui lontano, andrò verso le correnti del Galeso gradite alle morbide greggi, andrò verso la pianura di Taranto su cui un tempo regnò lo spartano Fàlanto. Quell’angolo di terra fra tutti mi sorride: là è il miele più dolce, laggiù le bacche dell’ulivo sono più lievi che altrove. Laggiù il cielo concede lunghe primavere e miti inverni, e i colli cari a Bacco per nulla invidiano i vigneti di Falerno. Quei luoghi arroccati sui monti chiamano me e te: là, con le tue lacrime pietose, bagnerai la tiepida cenere del tuo amico poeta”. Come mai, mi chiedo, Orazio parla così bene di Taranto ad un suo amico quando, nello stesso tempo, egli la definisce «molle ed imbelle»? Come mai ha di essa una così grande considerazione quando alla sua epoca la città era ben lontana da essere ricca e opulenta come nei secoli precedenti, quand’era d’esempio e guida all’intera Magna Grecia? All’epoca di Orazio Taranto, ormai romanizzata da quasi due secoli anche se non completamente, era praticamente diventata un luogo di villeggiatura per i Romani che contavano, per i Vip dell’epoca, i quali ne esaltavano i paesaggi e l’incanto dei suoi due mari, la mitezza del clima, la raffinatezza gastronomica e la bellezza delle sue donne. Ma niente di più. E si può ipotizzare che alla maggior parte dei contemporanei di Orazio fosse sconosciuto il fatto che Taranto avesse avuto un passato tanto glorioso ed egemonico. Solo Orazio può darmi la risposta: ecco quindi il mio viaggio nel passato per incontrarlo. Trovo il poeta a Roma in un banchetto offerto da Mecenate, coinvolto proprio in una discussione su Taranto; egli inizia a raccontare agli astanti la vera storia di quella città, esaltandone i pregi e l’importanza che essa ebbe nel passato e per la stessa Roma. Il racconto di Orazio su Taranto prosegue poi in “forma privata”, in una specie di lunga chiacchierata tra me, desideroso di apprendere, e Orazio, che ben volentieri mi parla della fondazione di Taranto e della sua storia. Ma raccontandomi di Taranto, Orazio non può fare a meno di parlarmi della storia di altre importanti città, Roma in testa, poiché la storia di ogni città non può essere disgiunta da quelle delle altre. E così apprendo anche la storia di Roma, di altre città della Magna Grecia e della Sicilia, e di Cartagine, la grande rivale. Apprendo la vita e le gesta di tanti personaggi più o meno noti, tarantini e non, tra i quali anche Pirro e Annibale, che con Taranto e Roma ebbero molto a che fare. E poi, mentre Orazio mi parla di storia, io vivo con lui nella Roma della sua epoca; quindi il racconto del libro si snoda in un mix di “storia antica” e di “storia attuale” (in una fiction, come si dice oggi), così che scopro anche il modo di vivere dei Romani all’epoca di Augusto. Quindi Orazio ed io andiamo a bagnarci alle terme di Tivoli, ad assistere ai giochi gladiatori nell’anfiteatro di Statilio Tauro, ci rechiamo al Foro romano

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ANTEPRIMA

pieno di gente di vario tipo e con varie occupazioni, al Circo Massimo, ad un campo militare romano, assistiamo ad un funerale, partecipiamo anche ad un matrimonio e persino alla vendemmia nella festa dei Vinalia rustica; Orazio, in ogni occasione, è sempre pronto e contento di spiegare al “tarentino” quel che avviene e perché, e cosa c’è di diverso tra il mondo greco e quello romano. Così, con continui flashback tra il presente della storia (anno 13 a.C. – Orazio aveva 52 anni ed aveva ormai scritto tutto) e il passato (la storia di Taranto greca comincia nel 706 e termina nel 209 a.C., mentre quella d’inizio di Roma è datata ufficialmente al 21 aprile del 753 a.C.) l’avventura si snoda in maniera fascinosa fino a che quasi dispiacerà, ai lettori, che la Storia si sia evoluta in questo modo, con la distruzione quasi totale, da parte dei Romani, della bellissima ed opulenta città di Taranto (e non solo lei, perché nel computo ci sono Cuma, Capua, Siracusa e tante altre), della quale ci è rimasto soltanto qualche misero resto archeologico. La narrazione dei fatti è impostata con criteri scientifici storicamente validi, rispondente ai più rigorosi studi sull’antichità classica, con anni di ricerche nelle opere degli antichi scrittori greci e latini (Polibio, Tito Livio, Dionigi di Alicarnasso, Cornelio Nepote, Svetonio e tanti altri), e si basa anche sui più recenti risultati della ricerca storico-archeologica su Roma, Taranto e la Magna Grecia in generale. Inoltre le illustrazioni, realizzate anch’esse con criteri storici attendibili, consentono contemporaneamente al lettore di “vedere” com’era la gente di cui si parla nelle varie epoche, com’erano l’abbigliamento, le calzature, gli accessori, le acconciature, l’arredamento, l’architettura, le armature, gli oggetti e i personaggi che man mano si incontrano. Anche se a molti di noi il termine “Magna Grecia” sembrerebbe contrassegnare una cosa perduta nel tempo, ad uso esclusivo degli archeologi e forse poco interessante (associata a qualche rudere che ci è rimasto di quell’epoca, o alle ceramiche e alle statue esposte nei musei archeologici), in realtà Magna Grecia è modo di vivere, cultura, avventura, arte, mistero, mitologia, guerra, e quant’altro di importante e fascinoso ci ha lasciato in eredità il nostro passato, che è alla base della nostra civiltà e della nostra cultura. Taranto, sia pure fondata quasi per ultima tra le grandi colonie greche in Italia, divenne la “capitale” della Magna Grecia. Città d’origine spartana era ricca e potente, al centro di traffici commerciali fra l’Oriente e l’Occidente, praticamente uno scalo chiave nella navigazione di cabotaggio dell’epoca per qualsiasi rotta nel tempo in cui Roma era ancora fatta di capanne di legno. Grande era la raffinatezza dei banchetti tarantini, allietati da esibizioni di flautiste e danzatrici, da declamazioni di versi e poemi, persino da piccole rappresentazioni teatrali. A Taranto si faceva largo uso di legni pregiati e di metalli quali bronzo, argento, oro (considerate gli “Ori di Taranto” esposti nel Museo tarantino); ma anche vasellame pregiatissimo (dapprima d’importazione dalla Grecia, ben presto di superiore qualità prodotto localmente a Taranto), balsami e profumi, finissime vesti, con grande spreco di porpora e bisso, tessuti molto ambiti prima che arrivasse la seta dall’Oriente. Ma i Tarantini erano anche tenaci guerrieri, abili marinai e soprattutto eccellenti cavalieri, tanto che «tarantinon» era un tecnicismo per designare, nel mondo greco, proprio un militare di cavalleria. Spesso i guerrieri tarantini intervennero per dare man forte a Sparta in lotta contro Atene, oppure per proteggere le città alleate dagli attacchi dei barbari (Romani compresi). Pertanto essi erano temuti e rispettati anche dai Romani, che con fatica alla fine riuscirono a domarli. Ma Taranto era anche il centro culturale dell’epoca. Nel 388 a.C., in occasione di un viaggio a Siracusa, altra importante città dorica, il grande filosofo greco Platone si fermò

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ANTEPRIMA

a Taranto e visitò i locali circoli pitagorici rimanendone fortemente influenzato. Molti furono i Tarantini illustri che contribuirono a diffondere la grecità nel mondo di allora e persino ad affinare la lingua latina, che era ancora piuttosto grezza. Infatti il poeta Andronico, tarantino, condotto schiavo a Roma dopo la guerra di Pirro, fu poi liberato e, assumendo il nome latino di Livio, inventò, praticamente dal nulla, la letteratura latina; tenne cattedra di lingua, compose i primi testi «scolastici» della latinità, tradusse in latino molti passi dell’Odissea e scrisse molti testi teatrali. Ma parleremo anche di Archita, filosofo e matematico; di Quinto Ennio, messapico ma di cultura tarantina, che dopo essersi trasferito a Roma divenne, dopo l’inventore Andronico, il padre nobile delle lettere latine; l’atletico Ikko, che a Taranto dette vita ad una grande scuola di atletica e fu vincitore alle Olimpiadi; Filolao, medico e matematico, che si occupò di vari rami delle scienze, e di tanti altri. Insomma, i personaggi di cui parlo sono tanti e non solo tarantini. Quel che è certo è che la scienza, l’agronomia, la medicina, l’arte, la gastronomia, i culti e la pratica dei ludi, insomma tutta la cultura greca giunse a Roma da Taranto e da ciò che restava dell’orgoglioso mondo delle poleis greche. Dopo le due tragiche guerre romane nelle quali il mondo magnogreco fu coinvolto, quella contro Pirro e contro Annibale (che stette a Taranto diversi anni), conquistando Taranto i Romani fecero la loro fortuna: anch’essi subirono il fascino del mondo greco e restarono contagiati dai “germi” della cultura, perché, come mi dice Orazio, «la magia d’Afrodite non comincia ad operare se non quando la lancia è spezzata e l’elmo e lo scudo sono deposti». In breve i Romani acquisirono le basi per divenire una potenza intellettuale, oltre che militare, volta alla conquista del mondo intero.

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I

L’intervista A colloquio con un personaggio tutto da scoprire, alla ricerca di notizie e impressioni sulla gloriosa Taranto del passato

M

i aggiro per un bellissimo palazzo. Qui abbonda il marmo e gli elementi decorativi sono fastosi e coloratissimi. Sulle pareti diversi dipinti raffigurano scene mitologiche, illuminate dalla luce di caratteristiche lampade di bronzo a colonna. Ce ne sono dappertutto, e sono accese perché è sera. Nella casa c’è molta gente ed altra ancora ne sta entrando, sulla mia scia. La loro eleganza denota l’appartenenza ad un ceto sicuramente agiato. Belle vesti ed un aspetto piuttosto curato. Gli uomini sono avvolti nelle loro capienti toghe, il drappo semicircolare di lana col quale coprono parzialmente la sottostante tunica, bianca o colorata, a volte decorata con fili d’oro o di porpora. Hanno tutti capelli corti, riccioluti o meno, e qualcuno porta la barba, per lo più corta. Alcuni indossano una toga bordata di una stretta fascia rossa a simboleggiare la loro appartenenza al rango di cavaliere. Le donne, invece, sono più variamente abbigliate e acconciate. Portano tuniche lunghe fino ai piedi, di un bel tono caldo, arricchite sulle spalle e sulle braccia da fibule d’oro di varia forma che tengono insieme i due lembi della veste. Sulla tunica indossano la palla, una specie di toga più corta e rettangolare. La portano a mo’ di mantello, con la sola spalla sinistra coperta, oppure come la toga degli uomini, ma con la parte posteriore sollevata a coprire parzialmente il capo. Alcune donne, di età più matura, dimostrano il loro alto lignaggio portando sulla tunica, sotto il mantello, la stola, un lunga e morbida veste drappeggiata alla maniera greca. Non manca, a completamento del ricco abbigliamento femminile, un grande sfoggio di collane, orecchini, braccialetti ed anelli. I capelli sono lasciati lunghi, anche se arricciati o sistemati in grosse ciocche,

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CAPITOLO I

oppure acconciati sul retro della testa e tenuti insieme con spilloni d’avorio. Sono affascinato da tutto ciò che vedo e, quasi intimidito, mi pongo di lato lasciando sfilare questa gente che, incurante di me e del mio inconsueto abbigliamento, anche perché tutta presa nelle chiacchiere, si avvia verso il fondo della sala svanendo al di là di una porta aperta. Cosa faccio, proseguo? mi chiedo. La mia ritrosia è ovvia poiché sono e mi sento un intruso. E lo sareste anche voi al mio posto. Perché… cosa fareste se in un bel momento vi veniste a trovare, come capita ora a me, nella casa di Caio Cilnio Mecenate, nella Roma dell’anno 13 avanti Cristo, secondo il nostro calendario? Per quelli che vivono quest’epoca si tratta invece dell’anno 740 dalla fondazione di Roma, da quando cioè la città (ma era piuttosto un villaggio) venne fortificata con una cinta muraria quadrata e per questo nominata Roma quadrata.

Nella casa c’è molta gente ed altra ancora ne sta entrando…


L’INTERVISTA

…vedo passare davanti a me un uomo in uniforme, … Data la sua giovane età è sicuramente un tribuno…

Non so bene come io abbia fatto ad arrivare in quest’epoca, in un passato così fascinoso e ricco di storia, ma conosco benissimo il perché. Ma ciò non è sufficiente a farmi stare tranquillo, e non mi sprona a decidere di continuare il mio viaggio. Comunque, se sono qui, un motivo c’è. La mia titubanza aumenta quando vedo passare davanti a me un uomo in uniforme, che ancor di più mi fa accostare al muro. Indossa una corta corazza su una tunica altrettanto corta, con due gonnellini fatti di pteryges sovrapposti, praticamente delle fasce protettive in cuoio. Alla vita spicca una fascia di colore rosso, simbolo del suo grado di ufficiale. Sulle spalle un corto mantello rosso che pende maggiormente verso la spalla sinistra. Porta anche le gambiere sugli stinchi e un elmo con un pennacchio di crine di cavallo che stringe sotto un braccio. Data la sua giovane età è sicuramente un tribuno, un aristocratico che ricopre la carica di ufficiale militare come trampolino di lancio per la sua futura carriera politica. Ecco perché egli è giunto qui indossando la sua bella divisa e non il più comodo abito civile. Di solito un tribuno ambisce più a proporsi per una magistratura, piuttosto che alla carriera militare. Ma è ovvio che costui preferisce mostrarsi con la vistosa uniforme: gli dà maggiore autorità e prestigio, è un valido supporto nei contatti sociali. Mi decido. Seguo l’ufficiale e raggiungo una grande sala piena di gente. È in corso un banchetto alla maniera romana, con numerosi ospiti stesi sui letti conviviali, qualcuno seduto su scranni ma lontano dai tavoli, altri in piedi. Uomini e donne formano tanti gruppetti tutt’intorno alla sala e discutono, ridono e scherzano tra loro, mentre mangiano. Ogni gruppetto è formato da un triclinio, cioè da tre letti (o, se volete, divanetti) disposti attorno ad un tavolo quadrato e capace, ognuno, di tre persone che vi stanno coricate. I tavoli sono pieni di ogni ben di dio: pietanze di ogni tipo e calici pieni di vino. Come facciano a mangiare in quella posizione è sorprendente e non me la sentirei di provare. Al centro della stanza vedo delle ballerine danzare al suono di alcuni musicanti seduti sul fondo, su un lato. I servi vanno e vengono nella sala, con la loro corta tunica, portando nuove pietanze o versando il vino nei calici degli ospiti. Proseguo in cerca della persona che vorrei incontrare. Nonostante questa sia la casa di Caio Mecenate non è il cavaliere romano il mio obiettivo. Costui è sicuramente un personaggio illustre e degno d’attenzione, piuttosto importante nella sua epoca, essendo stato ministro di Ottaviano. È amico e consigliere, quindi, di quell’Ottaviano che alla morte di Cesare, avvenuta 31 anni prima, tenne un lungo e accorato discorso funebre d’elogio davanti al corpo ancora sanguinante del suo padre adottivo, e che ora, dopo un periodo di guerra civile, governa col nome di Caio Giulio Cesare Augustus, primo imperatore di Roma. Mecenate era stato molto vicino ad Ottaviano e lo aveva aiutato attivamente nella sua ascesa politica, ma ora, all’età di 56 anni (molti per l’epoca) si dedica soltanto ai suoi amici artisti e letterati, dei quali è il protettore, grazie anche al beneplacito e all’aiuto di Augusto. Ecco perché ancora oggi definiamo “mecenate” colui che sostiene economicamente un artista, un letterato, uno scienziato… Roma vive, in questi anni, un periodo felice, così come la letteratura latina grazie a personaggi del calibro di Virgilio, Properzio, Orazio, tutti facenti parte del circolo di Mecenate. Ma non è Mecenate colui che cerco; bensì qualcun altro che tuttavia non co-

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CAPITOLO I

nosco, non posso averlo visto. Mi muovo nella stanza cercando un uomo piccolo, dalla pancia prominente e dagli occhi cisposi, secondo la descrizione tramandataci, e che dovrebbe avere una cinquantina d’anni. Vedo un gruppo di persone mature. Sarà tra loro? Indossano tutti una tunica bianca e una toga anch’essa bianca, ma bordata di una fascia rossa, più spessa di quelle viste in precedenza. Poi noto che anche sulla tunica hanno una fascia verticale di porpora rossa, che i latini chiamano laticlavio, un vistoso contrassegno dell’ordine senatoriale. Sono tutti dei senatori, quindi, e colui che cerco non è un politico. Scorgo un altro gruppo di persone di varia età, alcuni stesi altri in piedi, e mi avvicino. Sono intenti in una vivace discussione. — Io dico che conviene lasciare a Benevento la via Appia e prendere la via Minucia… — dice uno. — Niente affatto… è preferibile conti-

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È in corso un banchetto alla maniera romana, con numerosi ospiti stesi sui letti conviviali…


…Sono tutti dei senatori, quindi, e colui che cerco non è un politico.

nuare per la via Appia — ribatte un altro.. In quel momento si avvicina al gruppetto un uomo di piccola statura e dall’aspetto mite. — Ecco. — fa il primo — Chiediamolo ad Orazio, il nostro grande poeta, che ha viaggiato numerose volte verso sud. — Sì, Orazio, tu puoi esserci d’aiuto. L’uomo che è sopraggiunto è proprio Quinto Orazio Flacco, colui che sto cercando. Colui che, pur trascorrendo la gioventù combattendo nell’esercito repubblicano di Bruto, è divenuto in seguito un uomo di pace, un letterato, uno dei grandi poeti latini. L’uomo che volevo conoscere e intervistare è qui davanti a me e sono emozionato. Ma resto al mio posto. Orazio risponde al gruppetto di uomini. — Qual è il problema che arrovella le vostre menti, giovani signori? — Ci chiedevamo se, per raggiungere Brindisi, fosse conveniente lasciare a Benevento la via Appia e prendere la via Minucia. Orazio si siede su un triclinio parzialmente vuoto. — Be’, l’ho fatta anch’io tanti anni fa… la strada che, attraverso i monti della Daunia, penetra direttamente nel cuore dell’Apulia fino a Brindisi… Guardo affascinato Orazio che parla agli astanti, mentre prende un grappolo d’uva e ne stacca un chicco. — …sì, ma perché perdere l’occasione di poter ammirare e godere dell’antica città dei Lacedémoni?… Me lo aspettavo. Ecco che parla dei Lacedemoni, cioè gli abitanti della Laconia, vale a dire Spartani. Vuoi vedere che?… — Parli di Taranto? Tu sei di quelle parti, vero? — incalza il primo. — Ma no — interviene un terzo dall’aria saputa — lo sanno tutti che Orazio è lucano, di Venosa. — Vedo che tu sei bene informato, mio giovane amico — continua compiaciuto Orazio — ma Taranto… l’antica città di Fàlanto, con le sue alte torri risplendenti ai rosei raggi solari… ebbene, posso considerarla come la mia seconda patria. Interviene un altro giovane aristocratico: — Ah, la mia famiglia possiede una villa in quella zona e mio padre vi si reca spesso. — Certo, oggi per i Romani Taranto è un incantevole luogo di villeggiatura, — riprende Orazio — per i suoi riposi agresti ameni e salutari, con

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«Ecco. Chiediamolo ad Orazio, il nostro grande poeta, che ha viaggiato verso sud numerose volte».

il suo lento e ombroso fiume Galeso… Il gruppo di uomini si mette a ridere. — Per il suo gustosissimo vino e le bellissime donne, vero, Orazio?! Ah! ah! — Ah! Ah!, ridono gli altri. Ecco, proprio di questo volevo sentir parlare: di Taranto. Orazio continua il suo discorso mentre porta alla bocca alcuni acini d’uva. — Certo, anche per quello. Per le sue piantagioni di viti e di ulivi non inferiori a quelle del Venafro o per il miele pari a quello dell’Imetto, il monte dell’Attica… Ma anche per le sue pinete affascinanti e salubri, l’incanto dei suoi due mari, la mitezza del clima, la raffinatezza della gastronomia… Il gruppetto è sempre più interessato alle parole di Orazio e neanche il leggero volteggiare delle ballerine distrae più questi uomini. — Tutto ciò che può ristorare il corpo affaticato di un viaggiatore stanco per la lunga via è là — continua Orazio — , per rendere più confortevole il suo soggiorno. Ecco perché è preferibile continuare per la via Appia, per raggiungere quei luoghi di fronte ai quali si erge l’odierna molle et imbelle Tarentum… — Perché due mari? Che vuol dire? Orazio intinge un dito in un calice e di-

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`«…sì, ma perché perdere l’occasione di poter ammirare e godere dell’antica città dei Lacedémoni?…»


L’INTERVISTA

«Perché Taranto è situata in un luogo incantevole, una terra da dèi… con un grande mare davanti e uno piccolo all’interno, come un lago, ottimo rifugio per le sue navi».

«Orazio, vedo che sei tornato ancora sul tuo argomento preferito: Taranto». «Ah, sei tu, Mecenate…»

segna sul tavolo la pianta del mar piccolo e mar grande. — Perché Taranto è situata in un luogo incantevole, una terra da dèi… con un grande mare davanti e uno piccolo all’interno, come un lago, ottimo rifugio per le sue navi… — Ma Taranto — continua Orazio — la città che fu di Archita, amico del filosofo Platone, un tempo fu anche forte delle sue armi e della sua grandezza economica. — Ma come… — interviene uno dei giovani — Archita era di Taranto? Credevo che fosse greco! — Era di Taranto, così come Andronico, Filolao e Quinto Ennio, che nacque da quelle parti. A questi uomini noi Romani dobbiamo molto. Senza questi Tarantini, la nostra lingua latina e la nostra letteratura non sarebbero oggi così belle ed evolute… Mentre Orazio parla s’avvicina un altro uomo che lo interrompe. — Orazio, vedo che sei tornato ancora sul tuo argomento preferito: Taranto. — Ah, sei tu, Mecenate… Ecco quindi giunto il padrone di casa. È un uomo elegante e distinto, con pochi capelli. Sorride, mentre dà una pacca cordiale alla spalla di Orazio. — Dillo anche tu che quanto sto asserendo è la verità… — sollecita Orazio — . Dopotutto sei stato a Taranto diverse volte, e vi è stato anche il nostro compianto Virgilio che ha tanto decantato quei luoghi ameni… Mecenate si pone al fianco di Orazio. — È vero, a Taranto ci siamo andati anche insieme. È certamente un luogo incantevole, amici, se il nostro caro Orazio spera di trascorrere là i suoi ultimi giorni… — Raccontaci di Taranto, Orazio. È vero che quella città fu grande quanto Roma? — Ma sì — continua divertito Mecenate, spronando Orazio — parla di Taranto. Questi giovani vogliono sapere, e tu non ne sarai certamente dispiaciuto. — Ebbene, miei giovani amici, dovete sapere che Taranto era la più popolosa e la più estesa città di tutta l’italica penisola, ed una delle più grandi del mondo… Questo avveniva più di quattrocento anni fa, quando Roma era ancora formata di capanne di legno. — Per Bacco! — Dici davvero? — Certo. Allora l’estensione di Taranto era pari a quella di Atene. C’erano templi superbi, grandi altari… Questo volevo sentire. Orazio mentre parlava di Taranto. Ed

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ora me ne capitava l’occasione. — …una sterminata agorà, un grande teatro, un lussuoso ginnasio e statue colossali, come quelle di Eracle e Zeus erette dal grande scultore Lisippo in persona. Erano le più grandi di tutto il mondo di allora, dopo il Colosso di Rodi. Ma i Tarantini erano anche tenaci guerrieri, abili marinai e soprattutto eccellenti cavalieri, tanto che si diceva tarantinon per designare, nel mondo greco, proprio un militare di cavalleria… Uno dei giovani interrompe il racconto di Orazio. — Be’, forse non erano tanto forti se Fabio Massimo li ha poi battuti! Ah! ah! — È vero, Taranto fu conquistata dai Romani in occasione della guerra contro Annibale, ma usando la corruzione e il tradimento! Senza questo espediente, chissà… E poi, ci furono anche altri motivi… Un attimo di silenzio, poi Orazio riprende il racconto. — Vedete, miei giovani amici, un conto è la forza, l’astuzia, e un’altra la cultura. Roma, allora, possedeva la forza militare, ma la nostra cultura di oggi la dobbiamo in buona parte ai greci e in particolar modo alla Magna Grecia. Perché alcuni di quei Tarantini che allora furono condotti prigionieri qui a Roma hanno fatto la nostra fortuna. Ma non addentriamoci nei meandri della storia, giovani amici, perché ci porterebbe lontano. Orazio si solleva dal triclinio per allontanarsi. — Avremo modo, miei signori, di parlare di Taranto. Per ora vi chiedo di interessarvi maggiormente ai personaggi che vi ho citato: Archita, Andronico, Quinto Ennio, Marco Pacuvio… e scoprirete molte cose interessanti del nostro passato. La storia è fonte di conoscenza e di saggezza. Orazio lascia il gruppo e si dirige nella mia direzione. Non resisto alla tentazione di fermarlo…

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«Ebbene, miei giovani amici, dovete sapere che Taranto era la più popolosa e la più estesa città di tutta l’italica penisola, ed una delle più grandi del mondo… Questo avveniva più di quattrocento anni fa, quando Roma era ancora formata di capanne di legno».


L’INTERVISTA

Grafica di Rodi.

Antica bambola di Cipro.

— Ave — dico. — Ave — mi risponde Orazio, inizialmente distratto. Poi mi guarda con sorpresa. — Ho ascoltato i vostri discorsi che mi hanno molto interessato… — continuo. — Ma, signore, da che parte del mondo voi provenite? — Beh, da Taranto… — Ah!… Certo non posso dirgli che provengo da una Taranto che non può conoscere, ben diversa da quella del suo tempo, ma che ha voluto porre in segno di gratitudine, per la stima che Orazio aveva per la nostra città, una lapide in piazza Castello, nei pressi delle due colonne doriche. La lapide dice, molto semplicemente: “Orazio a Taranto”. Poi riporta alcuni versi estrapolati da una delle sue Odi: “Quell’angolo di mondo a me più di ogni altro sorride”. Non c’è dubbio che Orazio avesse di Taranto una grande considerazione. Ma di quale Taranto? Di quella del suo tempo o quella del suo passato, della Taranto storica, con tutto ciò che rappresentò? E chi meglio dello stesso Orazio può darmi questa risposta? — A Taranto, oggi, vestono così? — riprende a dire Orazio, guardando sorpreso la mia camicia e i miei jeans. — Beh, non proprio… Sì e no. Tuttavia di Taranto mi piacerebbe parlare. Ad esempio, com’è oggi quella città e cosa ne pensate… — Ragazzo mio, tu dici di venire da Taranto e a me chiedi com’è? — No. Voglio dire, conosco benissimo la Taranto del mio tempo, perché ci vivo. Ma non altrettanto bene la Taranto del passato. Ti ho sentito dire che era una città grandissima e fiorente. Ma quanto era grande e come lo divenne? — Certo, lo era… quand’era greca. Oggi è un municipio romano e integrandosi con i latini ha perso quella caratteristica che la distingueva, ed anche altro… Questa è una storia molto lunga, amico mio. E non abbiamo il tempo, ora, per parlarne. Vuoi sapere di Taranto? Bene. Ma, per capire com’era Taranto nel pieno del suo fulgore, perché fu tanto importante e come vi sia giunta, dobbiamo risalire alle sue origini, tornare indietro nel tempo, addirittura alla città greca di Sparta… cioè quasi 700 anni fa. Orazio riprende a camminare dirigendosi verso l’uscita. Mi affretto a seguirlo, anche perché egli continua a parlarmi. — Ragazzo mio, tu capisci che non possiamo affrontare adesso quest’argomento così vasto e importante, come ho già detto a quei giovani poco fa. Hai visto. Essi, purtroppo, poco si interessano alla nostra storia, alle nostre origini. Amano divertirsi e villeggiare. Quasi dimenticano chi era Giulio Cesare e quanto egli ha fatto per la nostra grande Roma, tutti avvenimenti molto vicini a noi, e vuoi che sappiano delle guerre puniche? Dopotutto, sono già trascorsi ben duecento anni dalla sconfitta di Annibale e di Taranto, quindi diverse generazioni. — Ti capisco… — Ma voglio accontentarti, perché sei Tarentino… però per me si è fatto tardi. Sono qui per l’amico Mecenate, per non aver voluto declinare il suo invito, ma è ora che io rientri. Vieni a trovarmi nella mia casa in Sabina. Ti farò assaggiare un gustoso vinello della mia vigna. E parleremo di Taranto. Lo vedo allontanarsi e sparire oltre la porta. Già freme all’idea di rientrare nella sua

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CAPITOLO I

casa di campagna, poco amante com’è della vita cittadina. Per Orazio la campagna dà più respiro all’anima, stenebra i pensieri, invita alle gioie più raccolte e più vere, mentre, al contrario, il crogiuolo dell’eterna insoddisfazione umana è proprio la città. Sì, la vita cittadina non fa per il povero Orazio. Incontri sgraditi ad ogni passo lungo la via: impegni rammentati, raccomandazioni da passare al potente Mecenate, assistenza agli imputati nei processi, tentativi di estorsione di segreti di stato che Orazio, nonostante sia a contatto con i grandi di Roma, non conosce né vuole conoscere, attirandosi per questo mormorazioni e invidie di quanti non gli perdonano la sua fama. Certo è facile comprendere perché Orazio preferisca la tranquillità della campagna alle “tristi giornate di Roma”. Lo raggiungerò, quindi, nella sua villa di campagna, quella regalatagli proprio da Mecenate per accontentare il suo desiderio di possedere “un’isola per il suo ozio”. Ed effettivamente è piuttosto isolata e tranquilla, là nella campagna sabina, oltre Tivoli. Questo podere rappresenta, per sua ammissione, più di quanto egli possa aver desiderato dalla vita. In realtà, la vita stessa di Orazio è stata la dimostrazione che egli restò libero dal contagio del possesso cercato in ogni modo e custodito gelosamente: egli non nascose mai le sue povere origini e le sue modeste ambizioni. Solo così poteva permettersi il lusso di segnare a dito personaggi noti, facoltosi e folli, di Roma. Sentite cosa scrisse di un noto politico dell’epoca: “Se la natura ci consentisse di ritornare, dopo un certo tempo, al passato e di sceglierci i più alti casati, io tornerei a volere la mia povera casa: pazzo per gli altri, ma non per te, Mecenate: perché così rifiuterei di portare un peso molesto cui non sono abituato. Dovrei subito accrescere i denari, le visite, avere una o due persone di scorta, stallieri, cavalli, carrozze. Ora, invece, se voglio andare a Taranto su un povero mulo mansueto, nessuno mi dice: — Guarda che avaraccio porco — ; come dice la gente a te, Tillio, quando sulla strada di Tivoli, tu pretore, ti fai seguire appena da cinque schiavi che ti portano la seggetta e il barile di vino. Per questo e per moltissime altre cose io vivo, illustrissimo senatore, molto più comodamente di te...”. Che satira, ragazzi, meglio di Forattini! In effetti Orazio non approva negli uomini la bramosia del possesso, il continuo essere scontenti della posizione occupata nella società e l’invidia per quella occupata dagli altri. Sentite questa: “Ecco, poniamo un caso, immaginiamo un dio che chiami davanti a sé quattro malcontenti: un soldato, un mercante, un avvocato, un contadino, e dica loro: — Tu navigante sarai soldato, tu soldato sarai navigante, tu avvocato sarai contadino... Ecco fatto: scambiatevi il posto... Avanti! — . E quelli, fermi come pali. Il padre eterno avrebbe mille ragioni di gonfiare le gote e incollerirsi: — Ah, così? Adesso sono sordo e i vostri lamenti non li ascolto più. Ma perché si affatica la gente? Il contadino, il bettoliere imbroglione, il soldato, il marinaio perché si danno tanto da fare? Perché — dicono — si possa vivere tranquilli in vecchiaia, provveduti di quello che occorre: come la formica della favola, che d’estate mette in serbo per l’inverno. Già: ma la formica d’inverno almeno riposa; per te, uomo, non c’è né estate né inverno, né fuoco né mare né ferro che ti trattenga dal guadagno. Un’altra è la ragione di questa tua vita senza pace: non il pensiero cauto della vecchiaia, ma l’assillo insensato della ricchezza, che vuole aumentare sempre e non è bastevole mai...”.

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L’INTERVISTA

Sentito cosa pensa Orazio? Non notate una consonanza con la filosofia buddista, secondo la quale il dolore dell’uomo sta proprio nel suo desiderio? Porre la ricchezza in cima ai propri pensieri equivale a condannarci a un’esistenza inquieta e delusa, perché sempre davanti ai nostri occhi ci saranno altri più ricchi di noi; inoltre ciò equivale a toglierci la gioia di godere ciò che la vita ci offre, perché considereremo intoccabili i nostri averi, custodendoli come cose sacre. In verità, non c’è alcuna differenza fra un pazzo e un avaro... E per dimostrare ciò che afferma, Orazio ci fa un esempio: “Un tale, senza nessuna vocazione musicale e poetica, fa collezione di cetre; uno, che non è calzolaio, compera trincetti e forme; un terzo, negato al commercio, acquista vele mercantili: tutt’e tre pazzi. Come quello che nasconde oro e denari: e a toccarli crede sia sacrilegio. Un tale se ne sta sdraiato, con un lungo bastone, a guardia del frumento ammassato; ma un chicco per suo uso, lui che è il padrone, non lo tocca: e si ciba di erbe amare; nella sua cantina ci sono barili di vino raro e vecchio: beve aceto. Un altro di settantanove anni dorme sulla paglia, mentre le sue coperte marciscono nel cassone a scialo di scarafaggi e di tignole. Questi due, a quanti appaiono pazzi? A pochi, naturalmente: perché i più sono anch’essi malati, come loro”. Questo racconto mi ricorda qualcuno che ho conosciuto negli Stati Uniti. Una famiglia di italiani del Sud i cui componenti, pur avendo tutti un ottimo lavoro con ottimo stipendio, mettevano da parte la maggior parte del denaro guadagnato nella vana speranza di rientrare in Italia, ed intanto gli anni passavano e continuavano a vivere lì in una misera casetta di legno, privandosi di tutto. Vana speranza perché, come accade di solito, i figli, che intanto erano lì nati e cresciuti, e ancor più quando si sarebbero sposati, avrebbero fatto in modo che il rientro in patria non avvenisse mai. A meno di non volerli abbandonare e tornare senza di essi. Quando chiesi: — Da quanto tempo non vi recate in Italia? La risposta fu: — Da quando siamo venuti qui in America, quasi vent’anni. — Perché? — Perché bisogna risparmiare. Se no, come facciamo a rientrare in Italia? Eh, sì! Personaggio interessante, questo Orazio, vero? Andrò ad incontrarlo. Per parlare di Taranto. Anche se ormai è più preoccupato dei suoi acciacchi che degli echi della storia. Infatti la sua produzione letteraria è giunta all’apice, con la pubblicazione del secondo libro delle Epistole e il quarto delle Odi che, per volontà di Augusto, celebra i fasti dell’Impero. Questo primo incontro con Orazio è stato già proficuo. Sono sicuro che, nonostante la sua ricerca di serenità, vorrà accontentarmi nel mio desiderio di conoscere la Taranto dei miei avi. Ho visto un luccichio nei suoi occhi, prima, quando parlavamo di Taranto.

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II

Dove il miele è più dolce A colloquio col poeta Orazio nella sua villa di campagna, dove si parla di Roma e della Magna Grecia, delle prime colonie greche, di Taranto e degli inizi della letteratura latina

S

ono in viaggio nella campagna sabina, tra campi coltivati e contadini al lavoro, incorniciati, sui colli, da una densa foresta che si perde all’orizzonte. Mi dirigo al villaggio di Mandela, ad una quarantina di chilometri da Roma in direzione di Pescara, dove, nei pressi, sorge la casa di Quinto Orazio Flacco, che ho conosciuto a Roma nella casa di Mecenate. Ripeto che non so bene come io abbia fatto ad arrivare qui, in questo tempo lontano. Sarà per il mio grande desiderio di conoscere i fatti di quest’epoca e ancor più quelli della Taranto del passato, di quando essa era ricca e potente. Comunque è per questo motivo che mi accingo a raggiungere Orazio nella sua casa. Chi meglio di lui saprà parlarmi della storia e delle vicissitudini, belle e brutte, della mia città? Siedo su un cisium, un calesse dalle grandi e agili ruote tirato da una coppia di cavalli. Il guidatore, seduto più in basso davanti a me, ha aperto un grande ombrello per ripararmi dal sole ed ora fischietta allegro, mentre con un sottile giunco batte sui dorsi dei cavalli; quand’ecco che finalmente lo vedo indicare verso una casa posta a metà di un leggero colle. — È quella — mi dice. Raggiungiamo la casa della quale vedo soltanto il tetto di tegole rosse, nascosta com’è da un alto muro che mostra soltanto un piccolo ingresso con un cancello di ferro. Un uomo, un servo a giudicare dall’abbigliamento e dai modi, senza dire una parola mi fa cenno di seguirlo. Evidentemente ero atteso. Lo seguo di stanza in stanza fino a quella che credo sia lo studio di Orazio: vedo grandi ceste piene di papiri arrotolati;

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Moneta fenicia di Arado (nell’attuale Libano) risalente agli inizi del IV sec. a.C. Sul diritto è incisa la testa barbuta di Melkart, sul rovescio una nave con l’occhio a prora. In alto, antico Fenicio.


DOVE IL MIELE È PIÙ DOLCE

Sono in viaggio nella campagna sabina, tra campi coltivati e contadini al lavoro…

su una parete una scaffalatura, colma di papiri, tavolette e pergamene, seminascosta da due sportelli; sul fondo, al fianco di una piccola finestra, un tavolo con altri papiri, vari tipi di penne, calamaio e un’artistica lampada ad olio. Intento a scrivere nella semioscurità ecco colui che mi ospita, Orazio, che solleva lo sguardo dal foglio e mi accenna un sorriso. — Ah, ecco qui il nostro amico tarantino. — Ti ringrazio per avermi accolto nella tua casa. Sono desideroso di conoscere quanto ti ho chiesto… — … il fascinoso passato di Taranto, lo so. Orazio si alza dal suo scranno e mi afferra un braccio. — Vieni. Lasciamo questa stanza polverosa ed andiamo alla luce. Oggi è una bella giornata. Circondati dal verde, ci sediamo ad un tavolo posto sotto un rigoglioso pergolato dal quale pendono grossi grappoli d’uva rossastra non ancora matura. — Questo è il mio angolo di paradiso — dice Orazio. — Più di quanto abbia potuto desiderare dalla vita. Questo pergolato è il luogo ideale per meditare e per dialogare… ed anche per parlare di Taranto. — Sai… sono qui per conoscere la sua origine. Perché fu fondata e da chi. — Nessuna città è stata fondata in un sol giorno, caro amico, nonostante quanto ci narrano le leggende. Come Roma, a dispetto della leggenda di Romolo che solcò con un aratro la circonferenza della città che avrebbe fondato, neppure Taranto fu edificata

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da Fàlanto in un giorno. Queste due città hanno radici più antiche e complesse. Ma se proprio vogliamo dare una data alla loro fondazione possiamo dire che Taranto divenne dorica quando Roma esisteva già da poco più di 46 anni. Faccio un rapido calcolo mentale. Essendo stata datata la nascita di Roma nell’anno 753 avanti Cristo, Taranto avrebbe allora visto la luce nel 706. — Ma potremmo dire che queste due città hanno avuto qualcosa che le univa — continua Orazio. — Dici davvero? — In un certo senso è così. I principi albani Romolo e Remo si insediarono in una rocca preesistente situata sul monte Palatino, dove i contadini e i pastori del luogo usavano celebrare la “festa del lupo”, e qui pensarono di stabilirsi. Ai contemporanei sembrò essere una pazzia: il terreno circostante era poco fertile, la vite e il fico non allignavano bene e scarseggiavano le sorgenti, essendo, quelle esistenti, povere di acqua. Che genere di agricoltura o pastorizia si sarebbe potuto attuare in quella zona? Nelle vicinanze scorreva il Tevere, vero, ma quello straripava di frequente a causa del basso pendio del terreno, allagando la campagna tra i colli e trasformandola in una palude malsana… — Capperi, che bel posto, eh? — mi viene da commentare. — Già, nessuno avrebbe scommesso sul futuro di quel villaggio che stava sorgendo su un terreno così sterile e malsano, eppure Roma giunse ad una eminente posizione politica nel Lazio. — Come mai? — Perché non era una città solo di contadini e pastori, come tutte le altre città latine. Il Tevere era la naturale strada commerciale del Lazio e, con la costa priva di porti, la sua foce divenne il necessario ancoraggio. Inoltre il fiume divideva naturalmente il territorio: gli Etruschi a nord, i Latini, Volsci ed altri popoli italici a sud. Occupando le due sponde del fiume, Roma divenne presto l’emporio del commercio fluviale e marittimo, ma anche terrestre grazie ai suoi ponti. — Romolo aveva visto giusto, allora. — Che l’avesse previsto? Non so. Certo è che Roma visse di traffico commerciale. Fondando il porto di Ostia e controllando il transito, Roma faceva pagare un dazio per tutte le merci che entravano, ma, nello stesso tempo, essendo situata all’interno, la città era sufficientemente al sicuro dalle scorrerie dei pirati del mare. Una cattiva

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«Questo è il mio angolo di paradiso. Più di quanto abbia potuto desiderare dalla vita. Questo pergolato è il luogo ideale per meditare e per dialogare… ed anche per parlare di Taranto».


DOVE IL MIELE È PIÙ DOLCE

Moneta fenicia di Byblos del tempo di re Adramalek, IV sec. a.C. Sul fronte una nave con due opliti e sotto un ippocampo; sul retro un leone atterra un toro.

Moneta fenicia di Sidone del 435-420 a.C. Sul fronte una nave che sormonta due onde; sul retro il re della Persia mentre tende un arco, tra la testa del dio Bes a sinistra e la testa di una capra a destra.

zona per l’agricoltura, che pure si praticava, ma ottima per gli scambi commerciali. In breve l’antico territorio romano, circa 300 chilometri quadrati, raggiunse la più densa popolazione del Lazio, ma di cittadini. Dico cittadini perché, al contrario delle aperte città latine, Roma si circondò di mura divenendo la Roma quadrata, dalla forma quadrangolare del colle Palatino, e ciò generò negli abitanti un forte spirito cittadino che li distinse dagli altri. — Tutto questo è interessante. Ma cosa c’entra con Taranto? È di questa città che vorrei sentir parlare. — Pazienza, caro amico. La storia di una città non sempre è disgiunta da quella delle altre. Così come Roma fu la più giovane e prosperosa delle città latine e si nutrì del commercio esercitato nell’Italia centrale, Taranto, forse la più giovane delle città elleniche fondate in Italia, divenne anch’essa forte e prosperosa grazie al commercio che si praticava nel sud. Ma, al contrario di Romolo, i Tarantini scelsero il territorio migliore fra tutte le colonie elleniche. La posizione eccellente, l’unica veramente buona su tutta la costa del grande golfo ionico, rese Taranto l’approdo naturale del commercio meridionale, e fra l’Italia e l’Ellade. Coloro che per commerciare provenivano dal Mediterraneo orientale trovavano conveniente sbarcare a Taranto, perché più vicina e dotata di un ottimo porto. — Roma e Taranto: due grossi snodi commerciali, quindi. — Ed è evidente che, crescendo, prima o poi esse sarebbero arrivate ad uno scontro, così come avvenne anche con Cartagine, la grande città fenicia in Libia. — Ho capito. Ma perché i Greci cominciarono a fondare colonie in Italia? — Beh, amico mio, questo ci riporta nella notte dei tempi. Quando un popolo cresce e la terra non basta più a sfamare le tante bocche, restano due sole cose da fare: muovere guerra ai propri vicini e annettere i loro territori, oppure… — … oppure emigrare — concludo io. — Appunto. È sempre stato così. Ma appena cento anni prima della nascita di Roma, l’Italia era pressoché sconosciuta agli Elleni. Però altri popoli navigavano già per il Mediterraneo… — I Fenici? — Già. I Fenici, che con le loro case natanti s’avventurarono in mare, prima per pescare, poi per commerciare. Anche gli Egizi navigarono lungo le sponde dell’Africa, ma non ebbero alcuna influenza sulla gente italica. I Fenici, invece, raggiunsero persino l’Iberia, ma per quanto riguarda l’Italia, soltanto la Sicilia e le rive del Tirreno, facili da raggiungere dalla Libia. Essi fondarono fattorie e stazioni commerciali dappertutto. Non una vera colonizzazione, quindi: esse servivano soltanto ad agevolare gli scambi commerciali con i nativi. Costruirono fattorie persino in Egitto e in Grecia… quindi quasi dappertutto, ma non sulle coste ioniche dell’Italia. — Dove invece arrivarono i Greci — intervengo. — Sì. Come ho già detto, all’epoca dei canti di Omero nessuno sapeva cosa ci fosse ad ovest dell’Epiro, ed i poeti si sbizzarrivano ad immaginarvi di tutto, persino la sede degli Inferi. — Ah! Come per il Mare Atlantico al tempo di Colombo… — Cosa?

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CAPITOLO II

— Oh, no. Sarebbe un po’ lungo spiegare… Ma allora, chi svelò per primo l’esistenza della penisola italica al di là del mare conosciuto? — Dimmi, come si chiama il mare che bagna Taranto? — Beh, mare Ionio. — L’hai detto. Per tutti gli Elleni le acque che si stendevano al di là dell’Epiro divennero note col nome di “mare degli Ioni” o “mare Ionio”. — Sarebbe? — Un antico popolo ellenico che si era stabilito sulle coste egee della Grecia e dell’Asia Minore, e sulle tante isole comprese nel mezzo. Popolo di marinai, un po’ mercanti e un po’ pirati, quindi. Sicuramente alcuni navigatori Ioni, spinti dalle tempeste nel mare occidentale, avranno poi portato in patria la notizia dell’esistenza di altre terre ad ovest. Notizia raccolta anche da Omero, che ambientò in quei luoghi sconosciuti il lungo viaggio di Ulisse… Beh, amico mio, tutto questo parlare mi ha seccato la gola… Vedo Orazio fare un cenno diretto alle mie spalle. Nel voltarmi scorgo il servo di prima accennare un inchino per poi allontanarsi sparendo al di là di una porta. Ma il mio desiderio di sapere è impaziente e non do respiro ad Orazio. — Quindi, furono gli Ioni a fondare la prime colonie in Italia? — Sì. Furono Ioni calcidesi, provenienti dall’isola Eubea, ad insediarsi per primi nel golfo di Neapolis. E la prima città edificata fu Kymé, originariamente fondata sull’isola di Ischia, il cui nome era stato preso a prestito dall’omonima città posta sulla spiaggia dell’Asia Minore. — Non ebbero molta fantasia… Ma perché ad Ischia? Come mai così lontano dalla Grecia? — Può sembrar strano ma è così — continua Orazio — . I più antichi colonizzatori preferirono costruire i loro villaggi sulle isole e sulle spiagge del Tirreno anziché, ad esempio, sulle coste dello Ionio. Più che agricoltori erano infatti mercanti e artigiani, interessati all’acquisto e alla lavorazione dei metalli, allora rarissimi. E il commercio dei metalli si concentrava in quei tempi nel Tirreno, tra la Sardegna e l’Etruria. Successivamente Kymé fu spostata sul continente antistante, su uno scoglio ripido e ben difeso. Qui Kymé, che i latini chiamavano Cuma, divenne presto un importante centro commerciale della Campania, e fu nota anche per un’altra cosa… — Non saprei… — Mai sentito parlare della Sibilla Cumana? Uno dei santuari più venerandi dell’Italia antica. Ne ha parlato

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Moneta fenicia di Tiro del 430 a.C. circa. Sul diritto un delfino salta su tre linee di onde che sormontano un murice; sul retro un gufo con dietro un bastone e un flagello di ispirazione egizia.

«I Fenici, che con le loro case natanti s’avventurarono in mare, prima per pescare, poi per commerciare…».


DOVE IL MIELE È PIÙ DOLCE

Le zone di influenza dei Fenici e dei Greci.

La Fenicia, attuale Libano.

anche Virgilio nell’Eneide. — Ah, sì… Ma poi cosa avvenne? — Fiorirono altre colonie, come ad esempio Nasso in Sicilia, fondata dagli Ioni emigrati dalla Nasso greca. — Sempre con meno fantasia, questi Ioni. Nel frattempo sopraggiunge il servo. Porta un vassoio con due coppe e una brocca. Appoggia il tutto sul tavolo; noto che ci sono anche delle ciotole con olive, fichi secchi e del pane. — È vino delle mie vigne — precisa Orazio, riempiendo entrambe le coppe — . Non sarà pari al Falerno, ma piace. — Poi cosa accadde? — chiedo mentre prendo dalla sua mano la coppa di vino. — La strada per le nuove terre era ormai aperta — riprende Orazio — . Così venne il momento degli Achei, dei Locresi, Rodii, Corinzi, Megaresi, Messeni e infine degli Spartani. Già, pensai portando un sorso di vino alle mie labbra, così come avvenne dopo la scoperta dell’America, quando le nazioni europee fecero a gara per prendere dimora nel Nuovo Mondo. Dopo che era stato scoperto, però. Non quando Colombo si affannava a promuovere il viaggio. Ma mi guardo bene dal parlarne. — Cosicché — chiesi, — ognuno di questi popoli greci costruì città nel meridione d’Italia? — Infatti. Orazio spezza un pezzo di pane, ma pare più una focaccia, e lo intinge nel vino. — Dopo Cuma — continua — sorsero altri villaggi ionici ai piedi del Vesuvio, altri ancora in Sicilia, come Messana, Catana, Leontinoi

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CAPITOLO II

e Himera. Gli Achei fondarono Sibari e la maggior parte delle città della Magna Grecia, definita la terra “del vino e dei buoi”. I Dori fondarono alcune delle colonie siciliane, tra le quali Siracusa, Gela e Akragas… — E Taranto? — Città dorica! L’unica fondata dagli Spartani sul continente, a parte Heraclea sua colonia. Ultima e fortunata… Ti piace questo vino? Prendi anche questi fichi del mio frutteto. — Volentieri — . Allungo la mano e poi continuo — Ti ho sentito dire, là nella casa di Mecenate, che Taranto era la più popolosa e la più estesa città di tutta l’Italia, addirittura una delle più grandi del mondo… e questo più di quattrocento anni fa, quando Roma era ancora fatta di capanne di legno. Ho sentito bene? Come mai? Nata ultima e subito così grande ed importante. — Sì, amico mio, c’era una grande differenza, a quel tempo, tra le città italiche e quelle greche — risponde Orazio portandosi in bocca un fico come se si trattasse di un pasticcino. — I coloni greci si tennero sempre in stretta relazione con la madre patria; essi prendevano parte alle feste nazionali partecipandovi di diritto in quanto Elleni a tutti gli effetti. Anche se tra le varie colonie greche ci fu pure qualche differenza e ostilità, tutte trasferirono sulle coste italiche la cultura e la civiltà greca. Per Roma fu differente. La città era un crogiolo di Latini, Sabini, Etruschi, Osci e quant’altro offriva il panorama circostante, ma, a parte qualche sporadico contatto con la cultura greca, essa commerciava soprattutto con gli Etruschi, e tramite loro con i Galli e altre popolazioni del nord. Nel periodo in cui regnarono i sette re, dei quali gli ultimi tre furono etruschi, Roma raggiunse una grande prosperità economica, è vero, ma la cultura e la civiltà non potevano giungere dal nord. Quando fu cacciato l’ultimo re, Tarquinio definito il Superbo perché regnava con tirannia, Roma cominciò ad assumere una propria

Nave greca da trasporto.

Sicuramente alcuni navigatori Ioni, spinti dalle tempeste nel mare occidentale, avranno poi portato in patria la notizia dell’esistenza di altre terre ad ovest. Notizia raccolta anche da Omero, che ambientò in quei luoghi sconosciuti il lungo viaggio di Ulisse…


DOVE IL MIELE È PIÙ DOLCE

Distribuzione dei popoli della Grecia.

Triobolo (mezza dracma) di Sibari del 445-440 a.C. circa. Sul fronte è visibile la testa di Atena che indossa un elmo crestato attico decorato con corona d’alloro; sul verso un toro.

fisionomia, e si accorse che una cosa le mancava… — Cosa? — La cultura, amico mio, la cultura… Ma prendi pure qualche oliva… Suvvia!… Beh, erano trascorsi ben quattro secoli dalla sua fondazione, ma Roma non poteva vantare una propria arte, o architettura, letteratura, e non aveva neanche una lingua propria. Quando la città si scrollò di dosso gli etruschi, che pure avevano lasciato la propria influenza per certi versi positiva, i cittadini romani adottarono come lingua il latino, cioè quella parlata dalla parte più umile della popolazione, che costituiva, tuttavia, il nerbo dell’Urbe. — E intanto le città greche prosperavano. — Nelle città greche si costruivano templi, palestre, teatri ed edifici grandiosi alla maniera greca, tuttavia… — Orazio afferra una manciata di olive e le porta alla bocca. — Tuttavia?… — Non tutte le città greche crescevano spiritualmente allo stesso modo. Gli Achei, ad esempio, fondarono la lega Achea per preservare meglio la loro identità, il loro dialetto affine al dorico e l’originaria ortografia, ma specialmente per proteggersi dalle popolazioni indigene. Questa lega era formata dalle città di Siri, Pandosia, Metaponto, Posidonia, Crotone, eccetera eccetera. Ma tutte queste città non avevano veri porti, a parte Crotone che disponeva di una rada appena passabile; erano città agricole e la popolazione indigena fu obbligata a lavorare per esse e a fornire loro clientela e servitù. Prima ancora che sorgesse Taranto, Sibari era già una città grande che imperava su quattro tribù barbare. Ne veniva una grandissima rendita economica, come del resto avveniva per tutte le città della lega. Ciò è dimostrato dalla loro maggior forma d’arte… — Quale forma d’arte? — Le monete, amico mio. Bellissime monete d’argento che avevano una loro precisa caratteristica. Contrariamente a quelle che si coniavano in Grecia, queste erano sottili ed erano coniate su entrambe le facce, in rilievo, e riportavano sempre una iscrizione. Ciò rendeva difficile la contraffazione. Tuttavia questo rapido prosperare degli Achei non portò a nulla. — A nulla? — Già. Perché anche a questi Greci mancò un po’ la creatività. Nessuno degli splendidi nomi dell’arte e della letteratura greca onora gli Achei italici. — Vuoi dire che si occuparono poco d’arte? — Voglio dire che questo popolo, il cui spiedo era sempre bello carico di carni ad arrostire e il vino non mancava certamente, non si è distinto in nulla fuorché nell’atletica, al contrario degli Achei residenti in patria. Invece la Sicilia può vantare molti nomi illustri, come Stesicoro e Gorgia da Leontinoi, Reggio vanta Ibico, mentre la do-

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rica Taranto ebbe Archita. — Archita! Beh, c’è da esserne fieri. — Come Tarantino? Sicuro. — Un sorriso appare sul suo volto. — Cuma la ionica e Taranto la dorica ebbero un grado d’importanza elevato per l’incivilimento d’Italia. Anche Roma, quando entrò in contatto con il mondo magnogreco, avvertì la necessità di possedere una propria arte e una propria letteratura da contrapporre a quella greca. Solo così essa avrebbe potuto godere pienamente di tutti i beni, altrimenti inutili, conquistati con le armi. — Quindi, come hai detto in casa di Mecenate, Roma deve la cultura di oggi in buona parte ai greci. — Certo. Come possiamo dimenticare, ad esempio, Livio Andronico, tarantino, condotto a Roma schiavo dopo la prima sconfitta di Taranto, ma poi liberato. Fu colui che rappresentò nell’Urbe il primo dramma, per celebrare, pensa un po’, la vittoria romana nella prima guerra punica. Andronico scrisse diversi drammi di stampo greco, approntò in latino una tradizione artistica dell’Odissea di Omero, e il suo lavoro non fu certo facile dovendo rendere duttile l’ancora impacciata lingua latina. Ma Roma gli fu grata, concedendogli la presidenza del Collegium scribarum histriomumque, che raggruppava attori e autori di teatro… ed anche una bella dimora sull’Aventino. Iniziava con lui, con Andronico, la letteratura latina. — Va bene. Ho capito che i Greci ed anche Taranto sono stati importanti per l’Italia e per Roma. Ma per quanto riguarda Taranto, mi piacerebbe conoscere la sua storia precedente, da chi fu fondata, come arrivò al suo splendore e come si giunge alla guerra con Roma. — Parlare di tutto ciò non è cosa che si possa fare in breve tempo, anche perché, come ti ho già detto, per capire come Taranto sia giunta al suo fulgore dobbiamo risalire alle sue origini che portano alla città greca di Sparta… quasi 700 anni fa. Sei mio ospite, resta qui. Ho fatto approntare una stanza. Ora è bene che mi ritiri un po’, le mie povere ossa non sopportano più la fatica di un lungo conversare.

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«Andronico scrisse diversi drammi di stampo greco…»

La vite.


DOVE IL MIELE È PIÙ DOLCE

Maschere treatrali.

— Capisco… — Della Taranto spartana parleremo domattina. Ci vediamo più tardi per la cena, e non per parlare di Taranto. Anzi no, forse me ne parlerai tu, se ti aggrada. È da tanto che non mi reco in quella città. Così dicendo Orazio si alza dal tavolo e conclude. — Fatti pure un giro nel mio giardino. Non è grande, ma mi dà tutto quello di cui ho bisogno. Ammira la mia vigna, i miei alberi da frutta e l’orto, che posseggo grazie alla magnanimità del mio amico Mecenate. Mentre mi aggiro nella vigna penso alle sue parole. Parlare io di Taranto ad Orazio? E cosa mai potrei dire? Di cosa dovrei parlare? Del fatto che vi è rimasto ben poco degli splendidi edifici di un tempo? Dovrei parlare della campagna circostante, che è cambiata notevolmente? Dell’Ilva, della Cementir, dell’Agip e del traffico che contribuisce ad inquinare l’aria che respiriamo? Del fiume Galeso ridotto a discarica? Perché dovrei turbare la sua serenità d’animo riferendo ciò di un luogo che egli ricorda come un paradiso, un luogo lontano dal tumulto della vita e che per questo motivo gli dà nostalgia? Ecco infatti come Orazio descrive i luoghi di Taranto in una sua ode, della Taranto del suo tempo: “O Settimio, che saresti pronto a venire con me sino a Càdice, sino ai Cantabri che si ribellano al nostro dominio, sino alle Sirti desertiche, dove sempre rumoreggia il mare africano, io vorrei che Tivoli, fondata da un colono d’Argo, fosse finalmente il riposo della mia vecchiaia, il porto del mio errare per terra e per mare, fra le armi…”. Voi direte: ma allora Orazio inneggiava a Tivoli, altro che Taranto! No, invece. Tivoli era soltanto più vicina. Sentite come continua: “Se gli dei avversi mi terranno da qui lontano, andrò verso le correnti del Galeso gradite alle morbide greggi, andrò verso la pianura di Taranto su cui un tempo regnò lo spartano Fàlanto. Quell’angolo di terra fra tutti mi sorride: là è il miele più dolce, laggiù le bacche dell’ulivo sono più lievi che altrove. Laggiù il cielo concede lunghe primavere e miti inverni, e i colli cari a Bacco per nulla invidiano i vigneti di Falerno. Quei luoghi arroccati sui monti chiamano me e te: là, con le tue lacrime pietose, bagnerai la tiepida cenere del tuo amico poeta”. Capperi! Voi credete che se descrivessi la Taranto di oggi, Orazio confermerebbe queste sue parole, al punto di voler addirittura andare a morire in «quell’angolo di terra che fra tutti gli sorride», come asserisce? Certo, gli alberi d’ulivo ci sono ancora (sempre meno), così pure la vigna, per fortuna… ma il resto? E mi chiedo: come mai Orazio, e non solo lui, parla del Galeso in maniera così appassionata? Un fiume che non può certo reggere il confronto con il Tevere e che ha deluso più di qualche visitatore, chiunque vi sia stato, attratto dalla descrizione pervenutaci dai poeti latini. Forse che un tempo la sua sorgente fosse più a monte dell’attuale e che pertanto il fiume stesso scendesse nel Mar piccolo più imponente? O, forse, la campagna tutt’intorno era così splendente e rigogliosa da far ritenere ininfluenti le modeste dimensioni del fiume? Mah! Certo il Galeso non era vittima dell’inquinamento odierno. Quindi questo pomeriggio non parleremo di Taranto, ma vorrei comunque sentir parlare Orazio. Parlare di poesia più che di storia. Della sua poesia

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dalla quale traspare l’amore per la natura, per la vita che pur trascorre, e che invita a godere di tutta la felicità che ci è benevolmente concessa, foss’anche di una sola ora. E per un pagano, secondo il quale al di là della vita terrena non c’è vita migliore, ciò è il massimo a cui egli possa aspirare. Non resta, quindi, che afferrare di giorno in giorno tutto ciò che la vita, avara, ci dà di buono, senza affaticarsi per accaparrare quello di cui non si ha bisogno. Sentite questa: “Vedi come il monte Soratte si erge tutto bianco per la spessa neve, come i rami ricurvi della foresta non ne reggono più il peso, e i fiumi si sono fermati sotto il ghiaccio tagliente. Amico mio, getta molti ceppi sul focolare, scaccia il freddo, e ancor più generosamente versa da un’anfora il vino invecchiato…”. Beh, cosa si può volere di più in una giornata simile? Un bel fuoco acceso e del vino per scaldare le ossa. Orazio continua: “… Rimetti ogni cosa alla volontà degli dei: essi comandano ai venti di placarsi, e il mare si quieta, e i cipressi e i vecchi frassini si immobilizzano. Non cercare di sapere che cosa sarà domani; considera un dono qualsiasi giorno ti concede il destino. Ma, amico mio, non trascurare la bellezza dell’amore e delle danze, finché sei giovane, fino a quando la lenta vecchiaia sarà lontana dai tuoi anni fiorenti…”. Sì, perché non dobbiamo pensare che Orazio sia stato un eremita dedito soltanto alla contemplazione dei paesaggi agresti e che abbia sempre cercato la solitudine. Che diamine, è stato giovane anche lui, ed ha cantato anche l’amore, sia pure non come violenta passione. Egli scrisse: “Mettimi in una desolata pianura dove nemmeno un albero si muove alla brezza dell’estate, in una regione del mondo oppressa dalle nebbie e da un cielo maligno. Mettimi vicinissimo sotto il cocchio del Sole, in una terra inabitabile… “. Secondo voi cosa farebbe Orazio in questo caso? “… lì canterò l’amore per Làlage che dolcemente ride, dolcemente parla…”. Beh, signori miei, esistono anche le donne, così come la bella Clori che, secondo Orazio, è “candida come la limpida luna che splende sul mare notturno”. Sapete… non si vive di sola Ilva, anzi!

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«…andrò verso le correnti del Galeso gradite alle morbide greggi, andrò verso la pianura di Taranto su cui un tempo regnò lo spartano Fàlanto».


III

Fàlanto e gli Spartani Con Orazio, durante una piacevole passeggiata nel bosco, si parla di Sparta e dei suoi guerrieri, di Fàlanto e dei Parteni, di Taras, di miti, di oracoli, di storia e di leggenda sulla fondazione di Taranto

S Donna cretese.

ono dentro una stanza semibuia. Aprendo gli occhi ho subito notato di essere in un ambiente per me insolito, una stanzetta priva di finestra, con la luce del mattino che entra da un ingresso parzialmente nascosto da una tenda semitrasparente. Sulla parete opposta noto un affresco: una scena pastorale con ninfette danzanti e fauni muniti di flauto. Ma dove mi trovo? Questa non è la mia stanza — penso, continuando a guardarmi attorno un po’ allarmato. Poi, un lampo percorre la mia mente. E ricordo. Ma sì, è vero, non sono nella mia casa di Taranto bensì in un’altra nei pressi di Roma. E non mi trovo neanche nella mia epoca! Ora tutto mi sembra normale, per quanto la mia situazione possa essere definita normale. Ma mi rassereno. Anche se non è l’anno 2009, anno del Signore, bensì il 13 avanti Cristo, e questa è la stanza assegnatami da Orazio Flacco, il grande poeta latino che ieri ho qui incontrato per la seconda volta. Mi sollevo sul letto e continuo a guardarmi attorno. Che ora sarà? — mi chiedo come se mi importasse davvero. Non ho nulla con me che identifichi la mia epoca, neanche un orologio. E i miei abiti possono tutt’al più apparire eccentrici a costoro che sono abituati a vedere gente proveniente da ogni parte dell’Impero romano e che veste in maniera del tutto differente. Ma cosa ci faccio qui, in una villa nei pressi del villaggio di Mandela, nella Sabina, lo so benissimo. Sono venuto ad incontrare Orazio affinché mi parli di Taranto, della

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Taranto che egli conosce e di quella del passato. Già, dove sarà ora Orazio? Si sarà alzato? Mi starà aspettando? Sarà bene che mi affretti e lo raggiunga. Su una sedia è adagiata una tunica romana e per terra ci sono due sandali. Sorrido. Evidentemente ad Orazio i miei jeans blu e la mia camicia non sono piaciuti. Questo è sicuramente un invito a cambiami d’abito… Oppure si tratta di una normale cortesia di ospitalità? Non so, comunque penso che farei bene ad adeguarmi alle usanze locali. Indosso la tunica. È di lana leggera e con maniche corte, data la buona stagione, di un color bianco avorio, e mi arriva fin oltre il polpaccio. Lungo i bordi della maniche e dell’ampia scollatura c’è una decorazione fatta con sottili fili color ocra. La tunica ha un aspetto un po’ grezzo, se la confrontiamo con i tessuti d’oggi, ma mi appare bella per via della sua fantasiosa decorazione. La stringo alla vita con una cinghia di cuoio che ho trovato sulla sedia. I sandali sono anch’essi in cuoio, con delle larghe e lunghe stringhe. Intuisco come vanno indossati, o meglio, come le stringhe devono essere prima attorcigliate attorno alla caviglia e poi terminate con un fiocco. Non c’è uno specchio per guardarmi, ma, capperi!, mi sento un perfetto romano. Mi piace. Esco dalla stanza. Non vedo nessuno. Mi dirigo verso il giardino, forse sono tutti all’aperto. Ricordo il percorso per averlo fatto più volte ieri. Attraverso diverse stanze, tutte vuote, e raggiungo una specie di patio. Ecco, laggiù a destra dovrebbe esserci il pergolato dove ieri mattina ho a lungo conversato con Orazio. C’è infatti, e c’è anche Orazio, seduto sotto gli amati grappoli d’uva rossastra. Lo raggiungo. — Salve! — gli dico. — Salve! — mi risponde Orazio — Dormito bene? — Benissimo, grazie. — Serviti pure — continua Orazio indicandomi un cesto di frutta poggiato sul tavolo.

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«Ma cosa ci faccio qui, in una villa nei pressi del villaggio di Mandela, nella Sabina, lo so benissimo».


L’ordine dorico greco

CAPITELLO

ARCHITRAVE

FREGIO

CORNICE

FRONTONE

Gli ordini architettonici che fiorirono in Grecia sono tre: dorico, ionico, corinzio. Il più semplice e il più antico dei tre è quello dorico. Ma anche se questo è il suo nome ciò non significa che sia stato inventato dai Dori, né che siano stati soltanto essi ad adottarlo. Anzi, l’ordine dorico fu usato indistantamente da tutti i Greci e pure dai Romani, sia pure in maniera minore. Ad esempio, basti dire che il più famoso monumento eretto in questo ordine è il Partenone, tempio dorico che fu costruito nella ionica Atene. Pare che sia stato chiamato dorico per distinguerlo da un nuovo stile, quello ionico, che arrivava dall’Asia minore, dove si era sviluppato. Nell’ordine dorico le colonne poggiano direttamente sul piano (stilobate) sul quale è costruito il tempio, senza alcuna base o piedestallo, eccetto che nel tempio di Giove ad Agrigento e in quello di Minerva a Siracusa. Le colonne sono scanalate; quelle più antiche erano rigonfie nel mezzo, ma poi furono rastremate dal basso verso l’alto. Il capitello è formato da una serie di anelli (anuli), da una struttura trapeziodale-curva (echino) e da una lastra squadrata (abaco). Alcune colonne doriche. Da sinistra: del tempio di Paestum; Partenone in Atene; tempio di Zeus in Nemea.

FUSTO

Base della colonna con scanalature ad angolo vivo.

abaco

echino anuli epitrochelio (collare)

fusto STILOBATE

STEROBATE


L’ordine dorico greco

Gocce

Gocce

Fregio: due triglifi e una metopa

Il fregio sopra l’architrave era suddiviso in triglifi (con tre solchi verticali, due interi e uno diviso a metà e collocato al lati) e metope, spazi che nei templi piÚ antichi furono lasciati vuoti ma successivamente riempiti con bassorilievi o altorilievi. Nella parte superiore, sugli angoli esterni e al culmine del frontone nei templi, veniva messo un plinto chiamato acroterio (akroterion) sul quale era poggiata una figura, o un tripode, vaso o palmetta. Invece sulla testata delle travi del tetto, o ad occlusione dei canali terminali delle tegole, venivano collocate le antefisse.

Antefissa

Acroterio



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