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il richiamo dell’oriente

NOTA DI TRADUZIONE

Subhuti Anand Waight è un ex giornalista politico inglese e il suo retaggio professionale si ritrova spesso nello stile arguto e sarcastico della sua scrittura, come non manca egli stesso di ricordare. La sua narrazione è intrisa di giochi di parole, omofonie, consonanze, allitterazioni e sottigliezze retoriche che a tratti rendono il testo un’autentica sciarada di rimandi e allusioni dal gusto inconfondibilmente anglosassone e come tale pressoché intraducibile in una lingua romanza.

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Pur consapevoli di ciò, confido che si apprezzerà il tentativo di conservare intatto lo spirito brillante, acuto e intuitivo del messaggio dell’opera dell’autore, nonostante la pungente sagacia verbale, per cui egli si contraddistingue tra i discepoli originari di Osho, risulti diminuita dalla domesticazione delle parole tradotte, a vantaggio di una più agevole e immediata comprensione del testo da parte del pubblico italiano.

Per sottolineare il fatto che l’autore ha scritto questo libro per rispondere alle domande lasciate in sospeso dalla docuserie Wild Wild Country di Netflix, si è scelto di lasciare invariata in tutto il testo l’espressione wild wild guru, che ad oggi rimane forse l’epiteto più adeguato per tentare di descrivere l’attitudine all’insegnamento spirituale estremo e senza compromessi di Osho.

Mariavittoria Spina

Prima parte

IL RICHIAMO DELL’ORIENTE

Fame di potere

Io e Steve Jobs non ci siamo mai incontrati ma abbiamo una cosa in comune: entrambi abbiamo preso l’lsd e scoperto, come disse Jobs, che «esiste un altro lato della medaglia». In altre parole, abbiamo utilizzato la droga per aprire le nostre menti e arrivare a realizzare che c’è di più nella vita che istruirsi, fare carriera, mettere su casa e famiglia e lavorare nove ore cinque giorni alla settimana per pagare le bollette.

Jobs proseguì il suo cammino per creare i computer Apple, divenne enormemente ricco e poi morì di cancro al pancreas. Io andai avanti per scoprire la meditazione, diventare estremamente povero e, al momento della stesura di questo libro, essere ancora vivo.

Ecco come avvenne.

Nei primi anni ’70, mentre lavoravo come reporter politico apparentemente “normale” a Westminster, avevo anche una seconda vita da hippy che si svolgeva nel fine settimana. Non appena arrivava il venerdì sera, saltavo in macchina con una manciata di amici capelloni, disoccupati, macrobiotici e mi lasciavo alle spalle Londra, guidando tutta la notte diretto verso un piccolo e accogliente cottage sprofondato nella campagna della Cornovaglia. Arrivavamo di buon’ora, prendevamo qualche respiro profondo di pura aria di campagna, srotolavamo i sacchi a pelo sul pavimento del bungalow e crollavamo addormentati. Al risveglio al mattino facevamo colazione con porridge di cereali integrali, prendevamo una pasticca di acido (il California Sunshine) e trascorrevamo il resto della giornata in qualche riparata caletta cornovagliese, sdraiati nudi sulla spiaggia, a guardare le onde smeraldine che si infrangevano sulla battigia e i gabbiani che volteggiavano scrutandoci dall’alto con curiosità.

Oppure vivevamo qualche altra avventura, come andare a cavallo a perdifiato nelle foreste mentre eravamo strafatti.

Ho trascorso dei momenti interessanti, come intrattenere un’intima conversazione con il dio indù Vishnu, che mi apparve improvvisamente sul fianco di una collina dall’altra parte della valle del mio cottage, sotto forma di un gigantesco serpente. So che i puristi vi diranno che è Shiva il dio indù associato ai serpenti, che infatti porta un cobra attorno al collo, ma dopotutto quella era la mia visione, non la loro.

Sebbene sia sempre riuscito a riportare il mio corpo esausto e la mia mente sovraccarica a Londra in tempo per l’ora delle interrogazioni parlamentari alla Camera dei Comuni del lunedì mattina, era chiaro che non avrei potuto reggere quella doppia vita molto a lungo. Divenne ovvio anche che le droghe, pur offrendo un barlume di stati alterati, non potevano portare a un livello di coscienza ampliato che fosse stabile e duraturo.

È vero che i miei trip con l’lsd mi aiutarono a riscoprire l’innocenza, l’amore per la natura e la semplicità dell’esistenza, preziose qualità umane che avevo assaggiato da bambino ma che in qualche modo, entrando nel mondo degli adulti, avevo accantonato come irrilevanti. Purtroppo però questa meraviglia nei confronti della vita si disperdeva presto, questa volta dentro un labirinto di allucinazioni mentali indotte dalla droga. Non c’era mai una netta distinzione tra esperienza personale autentica e fantasia allucinogena. Mi hanno detto che Charlie Manson aveva un problema simile.

In me c’era una domanda più profonda che mi assillava: che cosa stavo cercando nei miei viaggi lisergici? Che cosa mi aspettavo di vedere o di comprendere? Qualche anno prima i Beatles avevano colto lo spirito ribelle di una generazione assumendo lsd, fumando erba e producendo nel 1967 il pionieristico disco Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, con all’interno canzoni che descrivevano esplicitamente le esperienze fatte con la droga, come A Day in the Life e Lucy in the Sky with Diamonds, entrambe censurate dalla bbc. Molti altri artisti pop, rock e folk stavano sfornando canzoni che affrontavano argomenti simili. Come fece notare Bob Dylan, certamente erano temi di cambiamento e lo spirito dell’epoca sembrava promettente, ma quale era esattamente la loro promessa? Rivoluzione sociale? Amore libero? Pace sulla Terra? Fratellanza tra gli uomini? Suonava bene, ma integrare quegli ideali nella vita quotidiana sembrava una sfida ardua.

Mi ricordo una sera, nel nostro bungalow in Cornovaglia, in cui decidemmo di giocare a Monopoli e ci facemmo prendere così tanto dalla smania di vincere che ogni sentimento di comunione e di armonia andò a finire fuori dalla finestra insieme al fumo dei nostri spinelli. All’improvviso non si trattava più di fratellanza, ma di chi sarebbe stato il re del castello. In superficie cercavamo di mantenerci calmi, ma era una farsa. Con l’intensificarsi delle fasi del gioco e il raggiungimento dell’apice della tensione, potevo percepire distintamente la nostra ostilità inespressa pulsare nella stanza. Alla fine fui io a vincere, portando alla bancarotta gli altri con i miei hotel in Bond Street, Oxford Street e Regent Street, ma il prezzo che pagai fu il mio idealismo hippy.

Come osservò una volta enigmaticamente John Lennon: «Amo l’umanità, sono i singoli esseri umani che non sopporto».

Nel frattempo, di ritorno a Londra, il mio punto di vista personale e ravvicinato sulla politica britannica stava per presentarmi qualche interessante intuizione. Durante una pausa pranzo feci due passi nella Camera dei Comuni, che era vuota, a parte un gruppetto di turisti ai quali la loro guida stava mostrando le lunghe file di seggi in pelle verde.

In qualità di corrispondente politico del Birmingham Post avevo un lasciapassare della stampa, e i due poliziotti in servizio mi conoscevano, per cui avevo accesso libero, tranne, ovviamente, durante le sedute parlamentari, quando dovevo rimanere nella galleria riservata alla stampa o all’esterno della Camera, nell’atrio. D’impulso vagai per la Camera semideserta fino a raggiungere il banco frontale del governo e mi sedetti al posto solitamente occupato dal Primo Ministro. Dopo un momento, mi sembrò del tutto normale scivolare indietro nella poltrona, sollevare le gambe e appoggiare i piedi sul tavolo posto tra i banchi del governo e quelli dell’opposizione, là dove sono collocate le due cassette dei dispacci. *

* Le despatch boxes (cassette dei dispacci, cassette postali) erano originariamente utilizzate dai membri del Parlamento per trasportare documenti nella Camera dei Comuni. Due di essere sono oggi collocate in modo permanente nell’Aula, sul tavolo centrale, e vengono utilizzate dal Primo Ministro, dal leader dell’opposizione e dai ministri per appoggiare le note relative al proprio discorso e altri documenti mentre si rivolgono alla Camera. [N.d.T.]

Seconda parte

L’ASHRAM DI PUNE

La palla di energia

Appena scesi dall’aereo a Mumbai, qualcosa in me si rilassò. Non so perché. Forse fu il caos che incontrai al ritiro dei bagagli: c’era un unico nastro scorrevole, sul quale diversi facchini vestiti di bianco, che indossavano tutti dhoti* e copricapo a bustina alla Gandhi, salivano liberamente, afferrando i bagagli mentre noi attendevamo pazientemente nella saletta affollata.

Nel marzo del 1976 l’aeroporto di Mumbai era piccolo e ridotto all’essenziale, diversissimo dall’imponente edificio di oggi. Gli spazi angusti e la confusione endemica avrebbero potuto frustrarmi, invece in modo piuttosto sorprendente ebbero su di me un effetto calmante. Era come se, entrando in un mondo così alieno, i miei soliti atteggiamenti venissero messi da parte, sostituiti da uno stato di innocente meraviglia.

Non mi era concesso di portare la mia valigia. Uno dei facchini la afferrò e si fece strada con fare veemente fuori dall’aeroporto, conducendomi fino a un malconcio taxi giallo e nero. In cambio di qualche rupia il facchino, che strategicamente si rifiutava di lasciarmi la valigia prima di essere pagato, mi diede le sue benedizioni e così il mio taxi partì, lanciato nelle strade densamente trafficate verso la più vicina stazione ferroviaria.

La corsa fu una rivelazione. Lungo il percorso costeggiammo Dharavi, che perfino oggi probabilmente è tra i quartieri poveri più

* Indumento tradizionale usato dagli uomini in India, di fattura e utilizzo simile a un pareo. [N.d.T.]

estesi al mondo, e che certamente erano gli unici bassifondi che avessi mai visto, e ci facemmo strada in mezzo a orde di ciclisti e di pedoni, per non parlare di vacche, capre, cani, mendicanti, carretti trainati da buoi e file di minuscoli negozi stracolmi di merci che sembravano straripare sulla strada.

Fui impressionato dalle regole del traffico. Erano inesistenti.

Fui impressionato dalla calura dentro l’abitacolo. Non c’era aria condizionata.

Fui impressionato dalla mia rilassata e serena accettazione di tutto ciò che stava succedendo. Entrando in questo mondo alieno in cui la reincarnazione veniva data per scontata, mi domandai se avessi già vissuto in India. Forse era soltanto il jet lag. Ma poi, durante gli anni successivi, sentii i racconti di molti altri occidentali che, arrivando in India per la prima volta, nel mezzo del caos, avevano provato sensazioni simili al mio gradevole senso di “ritorno a casa”. Forse eravamo tutti delle anime antiche che ritornavano in questa terra santa per avere un’altra possibilità di illuminazione.

Però c’era anche qualcos’altro di completamente inaspettato che solo gradualmente mi divenne chiaro. Mi sentivo sbalordito da un travolgente senso di anonimato, sapendo che avrei potuto scomparire in quel paese, svanendo nella calca ribollente di persone, e nessuno lo avrebbe saputo o ci avrebbe fatto caso. Tutta la rete di welfare statale che in Occidente diamo per scontata – assicurazioni, previdenza sociale, assegno di disoccupazione, assistenza sanitaria – lì non significavano assolutamente niente. C’era qualcosa di molto attraente in questo.

Mentre il mio treno usciva lentamente da Mumbai e iniziava ad attraversare i campi in aperta campagna, fui incuriosito dalla vista di uomini mezzi nudi, accovacciati vicino ai binari della ferrovia. Mi chiesi se stessero meditando, poi mi resi conto che stavano defecando. Stavamo attraversando il loro bagno.

Presto ci ritrovammo a salire lentamente un lungo pendio che si innalzava dalla pianura costiera dell’India verso l’altopiano del Deccan, mentre il nostro passaggio veniva osservato attentamente da gruppi di piccole scimmie sedute vicino alle rotaie nella speranza di carpire qualcosa che veniva svogliatamente gettato dai finestrini. Venditori ambulanti si facevano strada continuamente lungo il corridoio centrale del mio scompartimento, offrendo tazzine di sweet chai zuccherato, bar-

rette di noccioline chiamate chikki e tramezzini alla frittata dall’aspetto ambiguo. Io mi limitai al chai.

«Chai... chai... chai wallah...» era l’eterno richiamo distintivo della ferrovia nazionale indiana.

Alla fine del viaggio il mio bagaglio venne nuovamente afferrato da un facchino e seguendolo mi feci strada fuori dalla stazione fino a una fila di risciò motorizzati, un mezzo di trasporto pubblico molto popolare che somiglia vagamente a una motocicletta, ma che ha tre ruote, un sedile posteriore per due passeggeri e un tettuccio in plastica.

«Rajneesh ashram?» domandai al conducente, in piedi accanto al primo risciò. Lui ondeggiò con la testa, muovendola da lato a lato nel classico gesto indiano che ovviamente significa “sì”, ma io lo fraintesi, prendendolo per un “no”.

«Rajneesh ashram?» domandai, rivolto al conducente del secondo risciò.

«Yes!» rispose lui e così salii sul suo mezzo di trasporto. Il guidatore del primo risciò non protestò. Gli stranieri sono gente strana, deve aver pensato.

Sobbalzando sulle vie sterrate della città ci facemmo strada verso un sonnolento sobborgo, che un tempo era stato elegante, di nome Koregaon Park. Era pieno di ampi bungalow e case, alcune dalle dimensioni simili a quelle di un palazzo; il parco da cui prendeva il nome in origine era stato realizzato per gli ufficiali dell’esercito britannico e dopo l’indipendenza era passato nelle mani dei principi indiani impoveriti, cadendo perciò lentamente in uno stato di raffinata decadenza gentilizia.

L’ashram era costituito da due o tre di questi bungalow, acquistati e assemblati insieme, che coprivano all’incirca un acro e mezzo di terreno. Non c’erano mura a delimitare la proprietà, soltanto una recinzione di filo spinato per metà caduta e un cancello male in arnese. Quando scesi dal mio risciò, un signore grande e barbuto che indossava il turbante da sikh e una tunica arancione mi fece entrare, assicurandomi che si sarebbe preso cura del mio bagaglio, e indicò l’ufficio.

Nell’ufficio incontrai Laxmi, la segretaria di Bhagwan, una donna minuta seduta in un’ampia poltrona dietro a una grande scrivania, affiancata sulla sinistra dalla sua segretaria personale. Laxmi aveva una pelle marrone pallido, un abbagliante sorriso smagliante e occhi scuri, profondi e fieri. Nella sua veste arancio rossastra con velo abbinato

trasmetteva un naturale senso di autorità e si esprimeva in merito a qualsiasi cosa con assoluta certezza.

Laxmi stava parlando con una coppia tedesca di mezza età e così mi sedetti e ascoltai, in attesa del mio turno. Non riesco a ricordare come andò la conversazione, ma mi ricordo bene che dopo un po’ cominciai a rendermi conto che le domande poste dalla coppia in qualche modo non coglievano nel segno. Non penso che lo espressi, nemmeno a me stesso, ma era chiaro che fossero superficiali e intellettuali e per lo più, ricordo, riguardanti le differenze tra le credenze cristiane e quelle induiste. Sorgevano dal desiderio di apprendere, non dalla sete di esperienza. Ma Laxmi era paziente, rispondeva a ogni domanda come meglio poteva e finalmente la coppia si alzò, la ringraziò e se ne andò.

Laxmi attese che fossero fuori portata d’orecchio, poi scosse una mano in un gesto di allontanamento. «Puah!» esclamò con disgusto, rivolta all’assistente seduta accanto a lei, «gente mentale, tutta testa».

Girò la poltrona e mi guardò diritto negli occhi: «Peter qui invece è una persona di cuore».

Bum! Ecco che un’invisibile palla di energia, calda e soffice, venne sparata attraverso la scrivania e colpì il mio cuore con un tonfo fragoroso. Da parte mia non ci fu nessuna resistenza, perché tutto avvenne così in fretta che mi colse completamente di sorpresa. Il mio cuore accolse quella palla di energia ricevendola come un dono inatteso, un qualche tipo di nutrimento da tempo dimenticato.

Fu un’esperienza sbalorditiva, completamente al di fuori del mio sistema di riferimenti. Non sapevo che cosa farci con quell’energia e mi concentrai sulle parole di Laxmi. Si era fatta carico di portare avanti la conversazione, avendo in qualche modo visto attraverso di me o dentro di me, e comunque non riuscivo a credere a quello che le avevo appena sentito affermare.

Io? Una persona di cuore? Proprio io? Il sarcastico giornalista politico? Io, l’osservatore cinico e distaccato che nessun ciarlatano, politico o guru poteva mai sperare di ingannare?

«Vorrei vedere Bhagwan» spiegai, cercando di rimanere in carreggiata.

«Sì, stasera!» Laxmi si girò verso la sua assistente: «Segnati il suo nome per il darshan».

Compresi che darshan era il nome che veniva dato alle riunioni serali con Bhagwan, in cui i visitatori potevano incontrarlo faccia a faccia e fare delle domande.

L’assistente alzò lo sguardo con aria interrogativa. «Prenderà il sannyas?» domandò.

Sapevo già che sannyas era il termine che Bhagwan utilizzava per intendere l’iniziazione al discepolato. Era un’idea proveniente da una lunga tradizione indiana di cercatori spirituali, uomini e donne, che scelsero di “rinunciare al mondo” e vestire abiti arancioni come segno della loro condizione di religiosi, diventando sannyasin.

Prima che aprissi bocca, Laxmi aveva la risposta: «Ovviamente prenderà il sannyas!» replicò. Di nuovo non ci fu alcuna resistenza da parte mia, perché anche da un punto di vista intellettuale lei aveva ragione. Dopotutto, non avevo preso un volo diretto dall’altra parte del mondo per non prendere il sannyas.

Non che avessi un’idea reale di quale fosse la versione di sannyas di Bhagwan, tranne per il fatto che avrei dovuto indossare degli abiti arancioni e una collana di grani di legno chiamata mala con appeso un medaglione contenente il ritratto del mistico. Ma comprendevo bene che quel gesto, o rituale, o cerimonia avrebbe stabilito in qualche modo misterioso una connessione tra me e lui.

Da quel momento in poi sarei stato un discepolo di Bhagwan e lui sarebbe stato il mio maestro spirituale, qualsiasi cosa potesse significare. Avrei dovuto provare per poterlo sapere. Comprendevo intuitivamente che quella era una delle cose, come prendere l’acido, per le quali prima bisogna tuffarsi nell’esperienza e poi mettersi a pensarci sopra.

E quindi si trattava di quello. Ancor prima di aver incontrato Bhagwan, il messaggio esistenziale essenziale era già stato consegnato da Laxmi. Ciò che rese quell’incontro notevole, a parte la mistica della fisica implicata nel riuscire a scagliare una palla di energia attraverso una scrivania senza il minimo sforzo, fu che mi diede un assaggio di una nuova caratteristica, qualcosa che posso soltanto descrivere come “amor proprio”.

Fu quello che provai quando la palla colpì il mio petto, e nei tre giorni successivi. Non era amore per Laxmi e non era amore per Bhagwan, anche se sembrava qualcosa che proveniva da loro. Nella mia espe-

rienza era amore per me stesso. E questo, credo, è il segno di un vero mistico: non finisci per amare lui o lei. Finisci per amare te stesso.

Questo potrebbe spiegare un’affermazione molto strana che avrei sentito dire da Bhagwan diverse settimane dopo: «Il mio lavoro è togliere quello che non avete e darvi quello che avete già».

Non ha alcun senso? Ebbene, è un inizio promettente per questo libro, perché alla fine è probabile che niente della mia storia abbia senso. Quando la si mette insieme, si abbracciano tutti i paradossi, l’unica conclusione logica è un gran mal di testa.

Tenendolo a mente, andiamo avanti...

L’incontro con lui

Erano le sette di sera e c’era già buio mentre giravamo l’angolo sul retro di casa sua. Bhagwan era seduto su una poltrona sopra un piedistallo di marmo bianco in quello che una volta era stato il portico di una rimessa per auto. Mentre ci avvicinavamo, mi parve di poter vedere un’aura di luce arancione che riluceva soffusa attorno alla sua testa e alle sue spalle... ma poteva essere dovuta al riverbero delle lampade della tettoia.

Bhagwan ci accolse con un grande sorriso e ci fece segno di sederci attorno a lui sul pavimento. Aveva una barba brizzolata a ciuffi, testa calva con capelli lunghi e sottili che scendevano ai lati del viso e sulla schiena. Parlò individualmente con ciascuno di noi, eravamo una dozzina. I suoi profondi occhi marroni sembravano guardarti diritto nell’anima, sarebbe stato spaventoso se non fossero stati così guizzanti di scintille di ilarità. Aveva quarantaquattro anni, era senza età, appariva come un bambino oppure tutte e tre queste cose insieme.

Quando venne il mio turno di avanzare e sedermi direttamente davanti a lui, mi sorrise e domandò: «Per quanto hai intenzione di rimanere?»

«Per sempre» mi sentii rispondere: sembrava una cosa molto strana da dire e per niente in linea con quello che avevo programmato. Ma pensai che andasse bene, perché se era lui l’originale non aveva senso cercare da qualche altra parte. Inoltre non mi sentivo costretto dalla mia risposta. Per me era un’espressione di come mi sentivo in quel mo-

mento, non un voto vincolante per l’eternità. Non era come prendere gli ordini monastici, scomparire dentro un monastero e non uscirne mai più.

Al contrario, nel corso del mio tempo con Bhagwan potevo sentire che la libertà era il valore più alto, sia per lui che per me. Avrei potuto andarmene in qualsiasi momento e non sarebbe stato un problema. Eppure quella risposta era il riconoscimento da parte mia di aver bisogno di una guida spirituale e di essere pronto a impegnarmi in una relazione tra maestro e discepolo con lui.

Bhagwan rise alla mia risposta e mormorò: «Molto bene», poi mi iniziò al sannyas, dicendomi di stare seduto in silenzio con gli occhi chiusi, mentre lui scriveva il mio nome su un foglio di carta da lettere intestata.

«Ascolta l’uccello» mi disse, riferendosi al canto di un uccellino notturno, invisibile perché nascosto nell’oscurità del giardino circostante. Dentro la pozza di energia silenziosa che sembrava averci inghiottito nel portico, quel canto si innalzava cristallino e le sue note sembravano danzare in uno spazio ampio, anche se era difficile stabilire se quel senso di spaziosità si trovasse dentro o fuori di me.

La mia mente non sopportò il silenzio a lungo.

«Al diavolo l’uccello e al diavolo Bhagwan!» mi sentii pensare. Era uno shock, ma non mi sorprese per niente. Sapevo già che la mia mente aveva una vita propria, era impossibile da controllare e amava fare osservazioni ciniche in momenti inappropriati, il giornalista in me non aveva intenzione di lasciar spazio al sannyasin tanto facilmente.

Bhagwan mi mise una collana di grani di legno attorno al collo e mi toccò delicatamente con il pollice tra le sopracciglia, nel punto che sapevo essere il cosiddetto “terzo occhio”, considerato in India come la porta di accesso allo spazio interiore o alla coscienza. Non ero certo di credere nell’esistenza di questo misterioso centro energetico, ma ovviamente non avevo intenzione di obiettare al metodo con cui Bhagwan mi iniziava. Non ricordo nessuna esperienza speciale evocata dal suo tocco. D’altro canto l’intera cerimonia sembrava già abbastanza esotica.

Ma stavo già indossando l’abito arancione, per cui quella parte era fatta. Poi mi diede il nome di Swami Anand Subhuti.

«Anand significa beatitudine» spiegò. «Subhuti era il nome del discepolo principale di Buddha. Il significato letterale è “qualcuno ben noto”... famoso, hmm?»

Terza parte

WILD WILD WEST

Una casa tutta nostra

Potreste pensare che da qualche parte, su un pianeta delle dimensioni del nostro, sarebbe stato possibile per un manipolo di persone ritrovarsi a vivere insieme, anche se sono un po’ matte. Potreste pensare che ci sarebbe stato almeno un paese con abbastanza fede nella propria forza per garantire a un mistico sovversivo un piccolo appezzamento della sua terra.

Ma non c’era. Non per noi. Motivo per cui Bhagwan non aveva mai voluto lasciare l’India. Non voleva per il semplice fatto che non avrebbero potuto deportarlo, almeno non dal suo paese natale. Lo spiegò in risposta a una delle mie domande durante i discorsi.

Gli chiesi: «Perché non lasci l’India? Quegli idioti a Delhi saranno gli ultimi a comprendere la tua opera». (Era il periodo in cui Morarji Desai era Primo Ministro.)

«Per me è difficile lasciare l’India» replicò, poi fece notare che alcuni dei suoi sannyasin stavano avendo delle difficoltà con i governi di vari paesi.

«Se lascio l’India la situazione si ripresenterà ovunque. Ovunque i miei si riuniranno in un paese, ci saranno dei problemi. Qui possono crearvi dei problemi che si possono gestire facilmente, ma non ne possono creare a me. Almeno non possono buttarmi fuori dal paese! Per cui non posso lasciare l’India. So che i politici indiani saranno le ultime persone al mondo a comprendere che cosa sta succedendo davvero qui. No, non saranno nemmeno le ultime, non lo capiranno mai».

Tre anni dopo, invece, se ne andò. Per quale motivo? Perché non poteva creare quello che voleva in India. Voleva un posto dove potessimo vivere tutti insieme, lavorando e meditando all’interno delle

mura dell’ashram, mentre a Pune eravamo dispersi nel sobborgo di Koregaon Park e anche oltre, in altre parti della città.

Voleva avere una pentola a pressione in cui tenerci dentro tutti, su cui avrebbe potuto chiudere il coperchio per poi metterla sulla stufa e accendere il fuoco, era quello il suo metodo di lavorare con i suoi discepoli. Potrebbe sembrare un’eccessiva semplificazione o perfino un’idea rozza, ma era quella situazione a creare intensità e senza intensità secondo Bhagwan non succede niente in termini di trasformazione.

«Non serve nient’altro, nessun metodo o tecnica» ci spiegò una volta, «se l’intensità è grande sarà quella a fare il lavoro. In effetti, tutti i metodi e le tecniche aiutano soltanto ad aumentare la vostra intensità. È quell’intensità a tagliare il nodo, a diventare una spada. In un colpo solo non siete più la persona di prima, diventate una persona nuova».

Se Bhagwan avesse potuto fare a modo proprio, sono sicuro che saremmo finiti tutti nella valle del Kashmir a vivere dentro una grande comune. Lui amava il Kashmir, con i suoi paesaggi spettacolari e il clima temperato, ma il Kashmir non lo amava, gli avevano chiuso la porta in faccia già negli anni ’60, e forse fu un bene, perché i fondamentalisti islamici che regolarmente lanciano degli attacchi terroristici per tutto lo stato sicuramente ci avrebbero preso di mira.

Non fu soltanto il Kashmir a rifiutarlo. Trovare un posto si dimostrò difficile ovunque in India, a causa della fama di Bhagwan. Nondimeno, a un certo punto, arrivammo molto vicini a trasferirci a Kutch, un’area rurale vicino al mare nel Gujarat. Avevamo tutti sganciato ottanta rupie per il viaggio in treno, ma vi fu un fattore prioritario che uccise il progetto: la zona era troppo vicina al confine con il Pakistan per consentire a un manipolo di sannyasin anarchici di stabilirvi la loro residenza.

Per cui, quando Sheela subentrò a Laxmi esautorandola con garbo dal potere, e invitò Bhagwan negli Stati Uniti, in cui nessuno poteva impedirci di acquistare un terreno, lui prese una decisione repentina. Be’, lui decideva sempre repentinamente, per cui non sorprende che disse: «Ok, andiamo».

Il colpo di stato di Sheela fu allestito durante l’assenza di Laxmi. La minuscola segretaria di Bhagwan si trovava nel nord dell’India a nego-