Giornalino OAPPC_LI 3 2014

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N.3_2014

IL GIORNALINO

Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori di Livorno


Presidente: Arch. Roberta Cini Vicepresidenti: Arch. Sergio Bini Arch. Enrico Bulciolu Arch. Massimiliano Pardi

N.3_dicembre_2014

Segretario: Arch. Iunior Davide Ceccarini Vicesegretario Arch. Simone Prex Tesoriere: Arch. Daniele Menichini Vicetesoriere: Arch. Sibilla Princi Consiglieri: Arch. Daniela Chimenti Arch. Marco Del Francia Arch. Fabrizio Paolotti Segreteria: Barbara Bruzzi Sabrina Bucciantini Pubblicazione a cura di: ORDINE APPC LIVORNO Redazione: Arch. Gian Matteo Bianchi Arch. Roberta Cini Arch. Daniele Menichini Arch. Gaia Seghieri Grafica e impaginazione: Arch. Daniele Menichini Arch. Gaia Seghieri Pubblicazione a cura di: Ordine Architetti PPC Livorno Largo Duomo, 15 57123 Livorno Tel. 0586 897629 fax. 0586 882330 architetti@architettilivorno.it www.architettilivorno.it Copertina: La Biblioteca Municipale di Stoccarda

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Sommario. pagina 1

I Consigli di Disciplina.

di Roberta Cini pagina 4

Stampa 3D: Rivoluzione?

di Michelangelo Lucco pagina 6

PIT e non solo.

di Mauro Parigi pagina 12

Smart cities: La rivoluzione della progettazione urbanistica.

di Michela Schettino pagina 13

VivibilitĂ urbana. di Fulvio Bondi pagina 16

PerĂš, Cuba e Libano: Tre diverse emergenze. di Marta Niccolai pagina 18

Ri_percorsi di architettura.

di Gaia Seghieri e Umberto Davini pagina 23

Vyta Santa Margherita. Milano. di Daniela Colli pagina 25

Appunti di viaggio: Stuttgart. di Daniele Menichini pagina 30

Eventi.

di Matteo Bianchi


L’editoriale

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In crescita di Roberta Cini

Con la quarta uscita del nostro “Il Giornalino” è interessante riflettere e vedere com’è nato e come evolve un mezzo di comunicazione così simbolico e denso, quale sta diventando il nostro trimestrale. E’ in corso una vera e propria crescita. Ogni pagina esprime un diverso modo di porsi verso la nostra professione. Spaziamo dalla normativa alla pura descrizione architettonica, dal racconto di esperienze professionali e personali a quelli che sono gli eventi più importanti del momento. Si sa, alcune cose scritte, alcune foto, un certo tipo d’impaginazione, possono piacere o non piacere, ma quando s’inizia a sentire la varietà dei temi affrontati, e la partecipazione in aumento, anche da parte di Architetti non iscritti al nostro Ordine, il mero gusto personale passa in secondo piano, perché altri fattori stanno assumendo importanza. Il primo in assoluto è, ancora una volta, la relazione tra di noi e tra noi e la professione. Che cosa stiamo facendo per migliorarci? Ci stiamo mettendo in discussione? Stiamo cercando un

altro modo per comprendere come reinventare il lavoro di Architetto? Le risposte sono innumerevoli e gli articoli pubblicati su questo numero ne sono la rappresentazione. Gli articoli hanno una funzione importante, stanno esprimendo la nostra “voce architettonica e progettuale” che in alcuni casi non abbiamo la possibilità di esprimere su un file di Autocad o su un foglio bianco. Ogni parola scritta è un’occasione espressiva, proprio come il disegno; ogni segno, ogni sillaba crea nuove possibilità. Un altro fattore che sta emergendo, e di cui sempre più se ne parla, ai seminari, agli eventi e ai convegni, è il ruolo sociale dell’Architetto, la responsabilità degli Architetti. Riacquisire la propria responsabilità professionale non è un peso o un lavoro duro da affrontare, ma è la nostra libertà, è la più alta occasione di ripresa del nostro lavoro è un modo di riprendere forza e fiducia in noi stessi, affinché anche gli altri, le persone e i potenziali committenti, apprezzino la ns. attività ridandogli dignità.


I Consigli di Disciplina. di Roberta Cini La disciplina è un termine legato all’apprendimento, infatti, la parola deriva dal latino “disciplina” derivato di “discipulus” (discepolo). In Italia ha poi acquisito anche un significato nell’ambito morale e cioè la disciplina è il sistema di regole precise da osservare e da seguire per chi vuol far parte di una certa comunità (vedi norme deontologiche per le libere professioni). Per questo la disciplina è legata alla severità e non certo al permissivismo. Il Consiglio di disciplina è l’organo incaricato di vigilare che i regolamenti comportamentali siano rispettati e, in caso contrario, ha la facoltà d’infliggere le sanzioni. I Consigli di Disciplina sono stati istituiti con l’articolo 8 del DPR 137 del 7 agosto 2012 “Regolamento recante riforma degli ordinamenti professionali” che, con riferimento alla materia disciplinare, istituisce organi territoriali separati dagli organi amministrativi degli Ordini professionali. In sostanza i compiti d’istruzione e decisione sulle questioni disciplinari riguardanti gli iscritti all’albo non sono più affidati ai Consigli degli Ordini ma ai Consigli di Disciplina; da qui l’incompatibilità tra la carica di Consigliere e l’essere membro effettivo del corrispondente Consiglio di disciplina. E’ prevista la possibilità che entrino a far parte dei Consigli di Disciplina anche soggetti “terzi” cioè non iscritti all’Albo. I Consigli di Disciplina sono istituiti con il rinnovo dei Consigli degli Ordini territoriali. Per la designazione dei componenti i Consigli di Disciplina si rimanda ai regolamenti dei rispettivi Consigli Nazionali degli Ordini professionali che dovevano essere emanati entro 90 gg dall’entrata in vigore del succitato decreto, previo parere vincolante del Ministero vigilante. Il C.N.A.P.P.C. ha approvato il regolamento con delibera 16 novembre 2012 e il C.N.I. ha approvato il proprio regolamento nella seduta del 23 novembre 2012. Nei rispettivi regolamenti si prevede che i Consigli di Disciplina siano composti da un numero di membri pari a quello dei Consiglieri del corrispondente Consiglio pagina 1

dell’Ordine. Le funzioni di Presidente del C. di D. sono svolte dal componente con maggiore anzianità d’iscrizione all’albo o, quando vi sia un componente esterno, cioè non iscritto all’albo, dal componente con maggiore anzianità anagrafica. Le funzioni di Segretario sono svolte dal componente con minore anzianità d’iscrizione o, quando vi sia un componente esterno, dal componente con minore anzianità anagrafica. I Consigli di Disciplina possono essere anche articolati in Collegi composti da tre consiglieri la cui assegnazione è stabilita dal Presidente. I Consigli di Disciplina operano in piena autonomia organizzativa e indipendenza di giudizio, mentre i compiti di segreteria e di assistenza all’attività del Consiglio in questione, sono svolti dal personale del Consiglio dell’Ordine. I componenti del Consiglio di Disciplina sono nominati dal Presidente del Tribunale nel cui circondario ha sede il Consiglio dell’Ordine che li sceglie tra una rosa di nominativi indicati dal Consiglio stesso. Gli iscritti all’Ordine che intendono partecipare alla selezione per la nomina, devono presentare la loro candidatura entro 30gg successivi all’insediamento del nuovo Consiglio del rispettivo Ordine territoriale rispettando le cause d’incompatibilità e i requisiti richiesti. Il Consiglio dell’Ordine, nei successivi 30gg dal termine, delibera l’elenco dei nominativi da comunicare al Presidente del Tribunale. Tale elenco consterà del numero di nominativi doppio dei componenti il rispettivo Consiglio. Il Presidente del Tribunale nomina sia i membri effettivi del Consiglio di Disciplina che i componenti supplenti secondo un ordine di preferenza, nel caso si verificassero dimissioni, decesso o quant’altro. Qualora, per una qualsiasi motivazione, non fosse possibile designare un Consiglio di Disciplina provinciale, con richiesta al Ministero di Giustizia, sentito il Consiglio Nazionale, si può disporre la formazione di Consigli di Disciplina territoriali più ampi designandone la sede. Il Giornalino dell’Ordine degli Architetti PPC_Livorno


Se un membro del Consiglio di Disciplina è in conflitto d’interesse, ha l’obbligo di astenersi dalla trattazione del procedimento. Fino all’insediamento del Consiglio di Disciplina la funzione disciplinare è svolta dal Consiglio dell’Ordine e così pure saranno trattati da quest’ultimo, i procedimenti pendenti cioè non ancora conclusi. Il C.N.A.P.P.C. ha redatto e approvato, nella seduta del 18 dicembre 2013, la “Guida ai Procedimenti disciplinari 2013” che costituisce un utile e valido strumento per l’applicazione delle procedure che occorre seguire per instaurare un corretto procedimento disciplinare nel caso d’infrazione deontologica o presunta tale da parte di architetti iscritti. La Guida prevede anche gli adempimenti per eventuali ricorsi o reclami o impugnazioni. La Guida è divisa in sei capitoli. I. Procedimento disciplinare di competenza del Consiglio di disciplina territoriale. L’azione disciplinare può avere origine su iniziativa delle parti che ne hanno interesse o d’ufficio in seguito

a notizie di abusi e mancanze avute anche in via occasionale (articoli su stampa, etc.), commessi dagli iscritti. L’esercizio dell’azione disciplinare è soggetta alla prescrizione dei 5 anni. Nella fase preliminare si assumeranno tutte le informazioni necessarie e opportune anche accedendo agli atti in uffici pubblici e sentendo anche il professionista indagato. La fase preliminare può concludersi con l’archiviazione, nel caso non vi siano presupposti di violazioni di norme deontologiche, oppure con l’audizione dell’indagato e stilando apposito verbale. La mancata audizione dell’incolpato può comportare la nullità del procedimento. Nel caso si riveli fondata la violazione di norme deontologiche, si apre formalmente il procedimento disciplinare e si provvede a citare l’incolpato, tramite l’ufficiale giudiziario, convocandolo e precisando giorno e ora. La convocazione non può avere un termine inferiore ai 15 gg pena la possibilità di richiedere l’annullamento di tutto il procedimento da parte del ricorrente. Il giorno stabilito si celebra il procedimento disciplinare dove si svolge la discussione sui fatti oggetto del procedimento con gli interventi del relatore e dell’incolpato o del suo legale di fiducia. Il provvedimento disciplinare si basa su fatti accertati e non su sospetti pertanto deve essere ben argomentato e motivato. Le sanzioni disciplinari che il Collegio di disciplina può pronunciare sono a) l’Avvertimento, che esorta il colpevole a non ricadere nelle mancanze commesse b) la Censura, che dichiara le mancanze commesse e il biasimo incorso c) la Sospensione dall’esercizio della professione, cioè la cessazione dell’attività professionale per un tempo non maggiore dei sei mesi e di due anni nei casi previsti dall’art.29 del DPR 380/2001 (nota 1); nel caso di sospensione per morosità il provvedimento è a tempo indeterminato ovvero fino a che l’iscritto non sani la propria posizione versando i contributi e/o le quote non pagati d) la Cancellazione dall’albo, quindi cessazione dell’attività professionale a tempo indeterminato. La censura, la sospensione e la cancellazione dall’albo devono essere comunicati a tutti gli enti, uffici e quanti altri interessati. Anche il Consulente Tecnico d’Ufficio pagina 2


(CTU) è assoggettato alla responsabilità disciplinare non solo perché iscritto all’Ordine Professionale ma anche nella veste d’iscritto all’albo dei Consulenti tecnici. II. Impugnazione dinanzi al CNAPPC. Contro i provvedimenti disciplinari deliberati e anche per eventuali irregolarità nelle operazioni elettorali per il rinnovo del Consiglio dell’Ordine possono essere presentate impugnazioni di fronte al C.N.A.P.P.C.; le impugnazioni si distinguono in A)Ricorsi che possono essere presentati solo dal professionista “interessato” e dal Procuratore della Repubblica; in ogni caso devono essere presentati o notificati presso il Consiglio di Disciplina dell’Ordine anche se diretti al Consiglio Nazionale Architetti. La decisione del C.N.A.P.P.C. sui ricorsi trattati può portare una delle seguenti conclusioni: Rigetto nel merito, Irricevibilità in quanto non presentato nei tempi e nei modi previsti, Inammissibilità del ricorso, Accoglimento del ricorso, Accoglimento parziale e quindi con riduzione della pena disciplinare, Decisione interlocutoria per acquisire ulteriori atti o documenti, Rimessione alla Corte Costituzionale di tutti gli atti. B) Reclamo elettorale che può essere proposto da uno o più iscritti anche con un unico atto e deve essere presentato nel termine perentorio di dieci giorni dalla proclamazione degli eletti. A seguito di trattazione il C.N.A.P.P.C. può decidere con il Rigetto del reclamo o con l’Accoglimento dello stesso annullando le operazioni elettorali e

procedendo con l’indizione di nuove elezioni da parte del Consiglio uscente. III. Trattazione del giudizio d’impugnazione. Si definiscono tutti gli adempimenti della Segreteria prima della trattazione dei ricorsi e dei reclami ed inoltre si definiscono tutte le fasi della trattazione da parte del C.N.A.P.P.C. compresa la nomina del Relatore. IV. Ricorsi avverso le decisioni del CNAPPC. Non è ammesso avverso le decisione del C.N.A.P.P.C. nessuna impugnazione né in via amministrativa né in via giurisdizionale se non ricorso davanti alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. V. Facsimile dei dispositivi. Modulistica da adottare nell’iter procedurale. VI. Legislazione essenziale in materia di procedura. Excursus sulla legislazione di riferimento. Purtroppo gli effetti della crisi economica si notano anche nel lavoro dei Consigli di Disciplina e nei loro conseguenti provvedimenti. Infatti, si riscontra che la norma deontologica più infranta è il non pagamento della quota d’iscrizione, o dei contributi previdenziali e fiscali, e quindi la violazione primaria è la morosità. La mancanza di committenti, la difficoltà delle riscossioni, non solo dai privati ma anche da parte delle P.A., fa sì che non venga pagata la suddetta quota, andando incontro, dopo proposte di rateizzazioni, solleciti e contraddittori, alla sospensione, almeno fino a quando non ci si metta in regola.

Nota 1) Art.29 - Responsabilità del titolare del permesso di costruire, del committente, del costruttore e del direttore dei lavori, nonché anche del progettista per le opere subordinate a denuncia di inizio attività 1. Il titolare del permesso di costruire, il committente e il costruttore sono responsabili, ai fini e per gli effetti delle norme contenute nel presente capo, della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano nonché, unitamente al direttore dei lavori, a quelle del permesso e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo. Essi sono, altresì, tenuti al pagamento delle sanzioni pecuniarie e solidalmente alle spese per l’esecuzione in danno, in caso di demolizione delle opere abusivamente realizzate, salvo che dimostrino di non essere responsabili dell’abuso. 2. Il direttore dei lavori non è responsabile qualora abbia contestato agli altri soggetti la violazione delle prescrizioni del permesso di costruire, con esclusione delle varianti in corso d’opera, fornendo al dirigente o responsabile del competente ufficio comunale contemporanea e motivata comunicazione della violazione stessa. Nei casi di totale difformità o di variazione essenziale rispetto al permesso di costruire, il direttore dei lavori deve inoltre rinunziare all’incarico contestualmente alla comunicazione resa al dirigente. In caso contrario il dirigente segnala al consiglio dell’ordine professionale di appartenenza la violazione in cui è incorso il direttore dei lavori, che è passibile di sospensione dall’albo professionale da tre mesi a due anni. 3. Per le opere realizzate dietro presentazione di denuncia di inizio attività, il progettista assume la qualità di persona esercente un servizio di pubblica necessità ai sensi degli articoli 359 e 481 del codice penale. In caso di dichiarazioni non veritiere nella relazione di cui all’art. 23 comma 1, l’amministrazione dà comunicazione al competente ordine professionale per l’irrogazione delle sanzioni disciplinari.

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Stampa 3D: rivoluzione? di Michelangelo Lucco Per molti è “una rivoluzione”, molti altri sono pronti a giurare che “sta cambiando il mondo”… forse sono esagerazioni, ma senz’altro la stampa 3D rappresenta qualcosa di nuovo che mai si era presentato prima nel corso della storia. Chi ha familiarità con Star Trek non avrà mancato di cogliere le analogie con il replicatore, un particolare congegno collegato al computer centrale che, grazie ad una non ben precisata tecnologia, è in grado di replicare qualsiasi cosa: oggetti di arredo, materiali da costruzione, parti meccaniche, ingranaggi, abiti e persino cibo, il tutto semplicemente riassemblando atomi presi dai rifiuti, dal riciclo dell’atmosfera eccetera. Chissà, magari ci arriveremo anche, intanto accontentiamoci della tecnologia odierna, che permette di realizzare oggetti fisici a partire da progetti digitali, producendo uno strato alla volta fino a giungere al prodotto completo. In realtà la stampa 3D esiste da decenni, e viene utilizzata dalle grandi industrie per i prototipi. E’ solo da poco che la tecnologia è alla portata di (quasi) tutti. Esistono già negozi specializzati nella realizzazione di oggetti realizzati in questo modo. Parlando di stampa 3D, ci si riferisce in realtà a un’insieme di tecniche assai differenti tra loro: la cosiddetta modellazione a deposizione fusa (FDM), la stereolitografia (SLA) e la sinterizzazione selettiva laser (SLS). La tecnologia che sembra essere diventata di moda attualmente è la FDM, che consente la creazione di oggetti mediante la deposizione di un materiale plastico fuso attraverso un estrusore, strato dopo strato fino ad arrivare all’oggetto finito. Le stampanti di questo tipo possono essere di vario tipo, dimensione, risoluzione (si va dal molto, veramente molto grezzo fino al dettaglio nell’ordine dei micron) e ovviamente costo. Avrete notato che adesso si può trovare anche in edicola il kit di costruzione, tanto per dire… Gli altri metodi, come la SLS e la SLA (ma non potevano trovare un acronimo migliore?)

usano invece il laser e sono utilizzate in ambito industriale e, almeno per ora, al di fuori delle tasche dell’utilizzatore “consumer”. Ancora non ci siamo arrivati, ma non sembra lontano il giorno in cui ognuno di noi potrà produrre da solo, in casa, quello che gli serve in maniera del tutto autonoma, semplicemente scaricando il modello 3D (o realizzandolo in proprio) e dare un semplice invio alla stampa. Ciò potrebbe significare la fine delle attività commerciali come le conosciamo? E’ troppo presto per dirlo, ma non è escluso che qualcosa possa cambiare sul serio: magari semplicemente il negozio potrebbe trasformarsi in una sorta di centro di stampa dove è possibile far realizzare on demand oggetti monocomponente come soprammobili, bigiotteria, giocattoli, e poi chissà che altro. Per ora la cosa riguarda principalmente i designers, che potrebbero realizzare in casa prototipi dei loro stessi progetti e verificarne la funzionalità, con un conseguente crollo dei costi da parte delle aziende, che plaudono quindi alla novità. I progettisti possono anche dialogare con colleghi e collaboratori oltre oceano… insomma, se non una rivoluzione, poco ci manca. La strada è ancora lunga, per quel che riguarda i materiali (per ora ci si orienta principalmente sull’ABS e sul PLA (Acido Polilattico, un termoplastico a base di amido di mais, e quindi biodegradabile), anche se esistono tecnologie che permettono di stampare con ceramiche, miscele di nylon e alluminio, materiali pietrosi e pure leghe di argento; ma è lunga anche per la completa fruizione della tecnologia, e ancora di più per poter giungere ad una vera compressione dei costi di produzione. Uno dei campi che potrebbero essere coinvolti è proprio quello dell’architettura: anche se difficile da credere, sono state approntate stampanti 3D grandi come una casa, in grado di riprodurre fisicamente un modello 3D di un piccolo edificio. Immaginate la scena: il giorno dell’apertura del cantiere viene montata pagina 4


la stampante, la quale inizierà a estrudere il materiale (nel nostro caso il cemento), mentre i pochi operai controlleranno che tutto proceda senza intoppi e apporranno le armature man mano che la stampante fa il suo lavoro. Utopia? Beh, certo, anche se esistono già delle piccole realizzazioni, una drastica riduzione dei costi e dei tempi ancora non è stata raggiunta. Attualmente però ci si sta orientando verso un differente approccio: cioè la stampa in cantiere di mattoni (o di elementi assimilabili ai mattoni) o di elementi prefabbricati. Come detto, siamo ancora lontani da un vero miglioramento almeno dal punto di vista dei costi e della velocità di esecuzione, ma si presentano alcune indiscutibili novità. Per esempio, gli operai possono avere a disposizione dei contenitori con la mistura ceramica secca e produrre i mattoni solo quando servono, evitando il ricorso a trasporti di camion con tonnellate di mattoni, con riduzione di inquinamento, anche acustico, e con totale annullamento degli sfridi, degli scarti

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di produzione e anche delle casseforme e delle centine. Anche dal punto di vista estetico potranno esserci interessanti sviluppi: i mattoni potranno essere tutti diversi, in qualsiasi foggia e fattura, e un edificio può venir realizzato con decine, se non centinaia, di tipi di elementi differenti, che possono costituire elementi decorativi. Ad Amsterdam lo studio DUS Architects sta lavorando al progetto di un edificio completamente stampato, che dovrebbe sorgere di fianco ad un canale nella città olandese. Non solo i mattoni, ma anche le strutture saranno stampate, e useranno una speciale stampante chiamata KamerMaker, alta più di sei metri. Lo studio sta studiando anche la possibilità di ampliare la gamma dei materiali usati, usando anche plastica riciclata e persino rifiuti opportunamente trattati. Per ora il tutto è molto lento e costoso, ma potrebbe rappresentare uno spartiacque nel campo della tecnologia edilizia.

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PIT e non solo. di Mauro Parigi L’adozione del piano paesaggistico ha dato origine a molte polemiche. A fronte di uno strumento che tende a risolversi in un panpaesaggismo, figlio della giusta intuizione del paesaggio quale fattore importante e determinante, per quanto non unico, per l’attrattività della Toscana nel campo del turismo, come in quello degli investimenti a fini produttivi, varie e preoccupate sono state le reazioni. Dai documenti e dal dibattito è emersa anche una cultura dirigista, propria degli ispiratori e redattori del piano, nonché della regione ormai indirizzata a riappropriarsi del potere di approvazione dei pieni poteri andando oltre la copianificazione. A giustificazione di questa impostazione culturale, non sembra riscontrarsi tuttavia una ricognizione culturale sufficiente ed una adeguata conoscenza del territorio e delle trasformazioni intervenute. Sembra essere stata dispersa la ricerca e la elaborazione di Emilio Sereni riassunta nel suo “storia del paesaggio agrario italiano”, ma, anche, a scala regionale, la ricchezza degli studi promossi prima da Edoardo Detti (negli anni sessanta/settanta del secolo scorso), quindi da Gian Franco Di Pietro con gli studi sulle trasformazioni del territorio rurale e gli insediamenti rurali già scandagliati da Renato Biasutti. Il quadro dello stato attuale, limitato ad analisi a grande scala ed iconografiche, non è apparso soddisfacente mentre, appare significativa, la mancanza di una qualsivoglia valutazione dell’esperienza di gestione dei vincoli, che, in molti casi ormai, hanno sessant’anni, mentre, i cosiddetti Galasso, ne hanno comunque 30. In più sembra si sia promossa una “torsione” del vincolo paesaggistico quale vincolo finalizzato ad impedire qualsiasi trasformazione, invece che a regolamentarla con i piani paesaggistici (che colpevolmente lo Stato prima, le Regioni dopo, non hanno predisposto), a condizionarla poi in sede di materiale di trasformazione del territorio, cioè di progetto, verificando pure questo. Molto è stato osservato sul PIT, in

particolare per quanto riguarda la mancata ricognizione dei vincoli della legge 431/1985 e la mancata individuazione della aree gravemente compromesse o degradate, attività che avrebbero condotto a certificare uno stato di fatto del territorio, ma anche l’esito dell’esperienza gestionale sin qui esperita, di cui portano responsabilità preponderante, le Soprintendenze (anche per continuità di funzione), nonché le commissioni per il paesaggio e, prima ancora, i pianificatori e chi i piani li approvava e li ha approvati. La Provincia di Livorno, in merito, è un caso emblematico perché ci sono interi territori comunali assoggettati a vincolo per decreto dagli anni 1952 – 53 (i comuni dell’isola d’Elba, mentre tutta la costa è sottoposta alla legge 431/85 ), ci sono infine vincoli più recenti di cui si comprende relativamente la funzione (un esempio per tutti Casa Staggiano in comune di Collesalvetti). Se per esempio ripercorriamo le vicende delle trasformazioni territoriali dell’isola d’Elba, si può facilmente rilevare che fino al 1967, in assenza di piani regolatori, moltissimi progetti, quasi tutti di ville suburbane in prevalenza ad uso vacanze, sono state realizzate acquisendo prima l’approvazione della soprintendenza per poi ottenere la licenza comunale, mentre dopo si otteneva prima il parere comunale, quindi quello della soprintendenza, ma sempre intervenendo a livello edilizio, di singolo progetto. I pareri della soprintendenza hanno costituito, e spesso sono ancora, veicolo per l’affermazione di una architettura, forse sarebbe più corretto dire edilizia, di maniera. Cioè sono stati avallati stilemi vagamente riconducibili alle caratteristiche delle architetture originarie che il tempo aveva trasmesso, limitandosi ai soli aspetti formali, tralasciando qualsiasi riferimento tipologico d’impianto. L’esito è sotto gli occhi di tutti. Una varietà edilizia in genere di scarso o nullo valore architettonico, banale, come in una qualsivoglia periferia pagina 6


urbana. Un’architettura spesso arretrata anche tecnologicamente. La colpa sarà anche dei progettisti, degli interessi speculativi, ma è indubbio che su quei progetti, su quelle trasformazioni, ci sono pareri che esprimevano una valutazione positiva, il consenso alla trasformazione giudicata quindi compatibile con il vincolo che recita in genere: “Il territorio predetto, nel suo complesso, offre aspetti di particolare bellezza naturale e comprende anche dei punti di vista accessibili al pubblico dai quali si godono dei quadri di singolare bellezza”. Cioè fa riferimento generico a bellezze naturali non identificate e a punti di vista che possono anche non esistere più. Se si rapporta la vicenda gestionale del vincolo al PIT, le parti mancanti di questo, non solo possono essere giudicate come una omissione tale da pregiudicarne la legittimità, come qualcuno ha evidenziato, ma si risolvono in una limitazione della comprensione dell’intervento, o, peggio ancora, ne determinano anche l’inaccettabilità culturale. Infatti, ammettendo che sia coerente, con la fonte legislativa, pervenire a stabilire pure impedimenti pregiudiziali di qualsivoglia trasformazione, disciplinarmente sarebbe corretto disporre di appropriate, per dettaglio cognitivo e scala, rappresentazioni delle perimetrazioni. L’indisponibilità ideologica nei confronti di qualsiasi trasformazione sembra manifestarsi nell’omessa individuazione delle aree degradate o compromesse, ma naturalmente non può che determinare una reazione uguale e contraria, parimenti di profilo ideologico. Come dire, che se c’è una critica fondata da rivolgere alla Regione, questa è relativa alla mancanza di percorsi finalizzati alla qualificazione del prodotto progettuale del PIT in un rapporto cooperativo con gli enti locali (bollati spesso come mallevadori o vassalli della speculazione e del cemento), dei progettisti degli interventi di trasformazione e/o riqualificazione dell’esistente. Qualcuno, per questo, ritiene che il PIT rappresenti un cedimento alle soprintendenze, conseguente alla necessità di ottenere il viatico del Ministero dei Beni Culturali sul piano stesso, oppure una accondiscendenza alle pagina 7

posizioni di movimenti di opinione e Opinion Leader che, in Toscana, sono stati e sono molto presenti. Probabilmente sussistono sia l’uno che l’altro fattore, ma, se così fosse, sarebbe facile invocare la debolezza di disegno politico del PIT. Cioè, dello scenario sociale ed economico attuale in cui il piano si inserisce, dello scenario futuro da realizzare. Potrebbe dunque non apparire retorico domandare a chi giova questo piano? La qualità del paesaggio certamente ha un valore attrattivo e va tutelata, ma una industria, anche ad alta tecnologia, innovativa, poi necessità di spazi, di edifici, di strade per arrivarci; può insediarsi ristrutturando l’esistente ma rimangono analoghe necessità, sempre che, la speculazione immobiliare, non impedisca per soli costi di acquisto l’operazione. Ovvero, non può risolversi tutto alla scala regionale del PIT ed in

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forme rigide e intrinsecamente generiche a meno che la volontà sia quella di portare le decisioni ad un livello diverso da quello comunale, livello dove gestire il PIT e le sue eventuali limitazioni o impedimenti, ma anche le variazioni degli strumenti urbanistici. Volendo invece affondare il coltello nella piaga della sciatta gestione dei vincoli, non sfugge agli osservatori attenti neppure la singolarità di un piano di cui il Ministero, tramite le soprintendenze, è tanta parte, ma sconta, riconoscendolo esplicitamente, buchi clamorosi circa l’indefinita perimetrazione di alcuni vincoli, mentre occulta una interpretazione soggettiva del vincolo medesimo per 60 anni. A fin di ben, si commenterà, sicuramente, ma sussiste anche il dovere della certezza del diritto, mentre non è ammissibile, a maggior ragione per i

funzionari pubblici, l’interpretazione soggettiva della norma, l’ignoranza della medesima e dei documenti costituenti la stessa, perché potenzialmente si potrebbe profilare un possibile abuso di potere. Insomma, il vincolo è stato gestito burocraticamente, e, probabilmente, a prescindere dalle concrete fattispecie territoriali e paesaggistiche. D’altra parte che l’impostazione culturale a cui si ispirano i “conservazionisti”, sia questa, è ben illustrato dal dibattito attorno al decreto “sblocca Italia”. Si ha una generalizzata levata di scudi di movimenti ambientalisti o di tutela del paesaggio che si ritrova anche a difesa delle soprintendenze contro la riforma del MIBAC. Tutto è discutibile, ma se è condivisa l’opposizione all’affidamento, allo stesso soggetto attuatore di grandi interventi infrastrutturali, del ruolo di commissario, con relativi poteri straordinari di approvazione e realizzazione dei progetti, non appare condivisibile gridare allo scandalo per la SCIA estesa ai frazionamenti; per la possibilità di ricorrere contro i pareri delle soprintendenze (di cui non vorremmo mai essere costretti a formarne un regesto, per carità di patria e tutela di operatori spesso oberati di oneri burocratici e da impedimenti cognitivi del territorio). Se le categorie produttive sono critiche fino all’aspra polemica (vedi il caso dei vignaioli e degli agricoltori in genere, ma anche dei cavatori o degli operatori turistici, dei professionisti del settore), non si può ritenere che non capiscano, o siano male informate (l’onere della prova spetta all’emittente, non al ricettore); si deve verificare se non ci si è espressi male; forse non si è riusciti a farsi comprendere, altrimenti si torna al punto di partenza: il panpaesaggismo imposto da culture elitarie riemerse dagli anni sessanta e settanta del secolo scorso, cioè quelle per le quali le masse, al di là della loro capacità cognitiva e consapevolezza, dovevano essere guidate, da gruppi, elite appunto, il cui farsi si concretizzava anche, e soprattutto, per mera prassi cooptativa Non si sfuggirebbe a questo punto dal sospetto che queste elite rappresentino una classe di “proprietari” a Bibbona come in Vald’Orcia, o in Chianti, per fare esempi, che non hanno altro interesse che tutelare il paesaggio perché tutelano i propri personali beni, anzi li valorizzano. Si pagina 8


dirà, questa è una provocazione, forse, ma non appare possibile negare che, ragionando attorno a queste vicende, la posta in gioco sia ben più ampia di quella relativa alla gestione dei vincoli, al PIT, all’adeguamento di piani urbanistici. Ovvero sia connessa ad una vera e propria lotta di classe, diversa da quella del passato, perché le classi sociali sono oggi diverse ed anche mimetizzate nel contesto di una società liquida e frazionata, difficilmente incasellabile in blocchi caratterizzati da una propria inerzia storica; una lotta, semplificando e correndo ogni rischio, tra trasformatori e produttori da una parte e utilizzatori dall’altra. Se si vuole attualizzare questo aspetto non va dimenticato che, seppure con ampie giustificazioni per sprechi , misfatti ambientali e consumo di suolo, è in essere una manipolazione del “vincolo” da parte di movimenti che finiscono per tradurlo come assoluto impedimento alla trasformazione. La materia del contendere finisce così per interrogare la competenza di sociologi o politologi, e, forse, sarebbe da indagare la composizione sociale di questi movimenti per comprendere meglio le cose, verificando magari la sussistenza di un altro campo di confronto tra un neo-conservatorismo, che di fatto sembra essere la nuova faccia di molte avanguardie di 30 - 40 anni fa, e un pragmatismo, che di fronte alla crisi ed alla stagnazione e all’espulsione dai cicli produttivi di masse crescenti di lavoratori, non rinuncia alla tutela, ma intende, seppure con incertezze e magari errori, confrontarla con le necessità più ampie dell’intera collettività. A tal proposito e quale cartina di tornasole circa l’affermazione di luoghi comuni o di un ambientalismo pregiudiziale, appare significativa la vicenda, citata in apertura, del vincolo apposto nel 1999 su Casa Staggiano in Comune di Collesalvetti. Casa Staggiano è un rudere di una casa colonica palesemente realizzata in tempi successivi e con materiali diversi ed eterogenei, allo stato priva di qualità rilevabili, caratterizzata anche da un viale di accesso coronato da cipressi (come ce ne sono molti in Toscana e che lo stesso PIT classifica di maniera e da evitare di riprodurre). L’etimologia del toponimo è probabilmente antica, romana, pagina 9

ma oggettivamente ad oggi, salvo prova contraria, non sembra ravvisarsi un valore eccezionale, e questo non sembra si possa rilevare neppure nelle motivazioni del decreto di vincolo. Però c’è un vincolo, da 15 anni non si è concretizzato nessun intervento di recupero, ne da parte della proprietà (comportamento che può essere ritenuto colpevolmente omissivo, ma non perseguito), ne da parte dello Stato, con le procedure previste, se il bene è così significativo da meritare il vincolo. Anzi, tutto attorno, per un piano di escavazione precedentemente autorizzato, si è scavato in profondità, Casa Staggiano è così una sorta di penisola in un mare di argille. La conseguenza è che si rischia l’apertura di un nuovo sito di cava in un contesto ancora integro caratterizzato da coltivazioni in espansione ed agriturismi, da una economia sostenibile, per alimentare la fornace

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esistente che intanto ha licenziato circa metà degli addetti. La domanda che si pone è: questa è tutela del paesaggio? E comunque, il paesaggio è immutabile, o è qualcosa in continuo divenire e per questo la pianificazione deve essere in grado di valutare quali siano le reali convenienze, fino anche a prevedere la revoca di un vincolo in quanto superato dai fatti? Di fronte a questa ipotesi non mancherà qualcuno pronto a gridare allo scandalo, ma lo può fare solo ragionando in astratto. Siamo proprio sicuri che sia peggio affrontare il problema in sede di pianificazione invece che non registrare, come ha fatto lo stesso PIT, che interi ambiti territoriali sono stati “stravolti” con “bolli e ceralacca pure delle soprintendenze”, rinviando ad altra fase l’individuazione delle

aree degradate o compromesse? Le soluzioni ovviamente non sono, ne facili, ne scontate, in un seno o nell’altro. Tuttavia appare evidente che se non si ha il coraggio di mettere le questioni sul tavolo, il risultato è un continuo rimpallo di dichiarazioni e accuse tra il fronte dei conservazionisti e quello opposto che si tende ad omogeneizzare nel termine “cementificatori”. Ma forse quel fronte di critici, strumentalmente fatto oggetto di una definizione semplificata, è molto articolato e sicuramente contiene al suo interno posizioni ragionevoli, non necessariamente meno funzionali alla conservazione, alla decisa limitazione del consumo di suolo, che la politica ha il dovere di ascoltare, ampliando il campo del confronto, oltre manifestazioni sempre più caratterizzate da forme di comunicazione unidirezionale. Non possiamo non dire con chiarezza che la gestione dei vincoli si è risolta in una manovra regressiva per il paesaggio (per esempio con il banale inselvatichimento di vaste zone agricole), in banali urbanizzazioni a partire dagli anni 50 del secolo scorso in quanto si guardava il dito (il singolo edificio) e non la luna (il contesto) come dimostrano gli insediamenti sulla collina di Montenero, a Castiglioncello, o in altre aree costiere, la compressione dell’architettura moderna e contemporanea, che in Italia non esiste o quasi, il mancato ricorso a tecnologie attuali figlie della cultura della sostenibilità e del risparmio energetico nelle costruzioni. Così il vincolo apposto a tutela delle bellezze naturali è stato travolto da realizzazioni autorizzate in ragione del bello o del brutto soggettivo di un funzionario della soprintendenza, il recupero e la riqualificazione sono rimasti una petizione di principio perché si tende a storicizzare di tutto di più (compreso edifici pubblici realizzati dopo la seconda guerra mondiale e spesso poveri per qualità di materiali e non solo per l’architettura), perché non ci sono incentivi, e perché, se ci sono, magari, si discetta di modifiche dello sky line e di incidenza di questo sul paesaggio, senza valutare se quel palazzo più alto rispetto al precedente riproduce suolo libero piantumato, consuma meno energia, produce meno emissioni in atmosfera, recupera pagina 10


le acque piovane e non solo, è fatto di muri verdi, magari insiste su di un’area ex industriale già distrutta un secolo fa da una cultura e da una attività allora giudicate utili per il progresso delle comunità, cioè, forse è meglio di quanto esistente. Insomma, è evidente che il tema è complesso, ampio; forse lo stesso PIT, in qualsiasi forma venga approvato, non sarà ne risolutivo ne decisivo, forse dovrà essere cambiato in fretta perché improvvisamente si presenterà un’altra “IKEA”. Ma se è così, non ci abbandona un punto di domanda: per quanta utilità politica possa esservi nel PIT, perché accusare chi critica di portare solamente un attacco politico, di essere un cementificatore, non già espressione della polis che, se l’obiettivo è la condivisione di un futuro, invece che l’imposizione di un futuro, ha necessità, direi obbligatoriamente, di discuterne anche a lungo,? La risposta potrà essere: ma il PIT impone solo la revisione degli strumenti urbanistici. Vero, ma innanzitutto si applica un vasto complesso di salvaguardie che tendono comunque a centralizzare a livello regionale anche l’approvazione dei piani attuativi che sono a tutti gli effetti strumenti gestionali, non modificativi degli strumenti urbanistici. In seconda istanza l’adeguamento degli strumenti urbanistici, previsto entro 2 anni dall’approvazione del PIT, in assenza di elementi cognitivi condivisi relativi alla perimetrazione delle aree degradate o compromesse e dei vincoli Galasso, in presenza di sempre più fragili strutture tecniche dei comuni e della stessa regione, appare un auspicio più che una certezza. Cioè, si teme che la realtà sarà diversa, che ci vorranno 2 anni e non poche risorse umane e finanziarie per revisionare P.S. e R.U., mentre poi ci vorrà tempo, modificazioni ed integrazioni, conferenze tecniche, per ricevere l’approvazione della Regione e del Ministero. Ce la faremo in 4 anni? Se anche così fosse (teniamo conto che è stata approvata nel frattempo anche la nuova legge urbanistica regionale che richiede ulteriori aggiornamenti degli strumenti urbanistici) saremo riusciti a garantire oltre la capacità attrattiva della Toscana, la reale attrazione e concretizzazione degli investimenti? pagina 11

Oppure come sospetta qualcuno saremo giunti a realizzare 2 Toscane: una, quella delle tutele, l’immagine positiva, lo spot promozionale, che però rischia comunque di decadere perché la storia è in continua evoluzione come l’economia e lo è di più nel mercato globale ed impone sempre aggiornamenti; la seconda, quella dove si fa e si disfa, e si concentreranno masse crescenti di investimenti e poi di masse, a qualsiasi titolo, che qualche riflesso sull’altra comunque l’avranno. Queste riflessioni critiche, che possono essere errate e magari scontano incertezze conoscitive, richiamano infine una necessaria sottolineatura, conseguente alla pubblicazione di un articolo, su una delle nostre maggiori testate giornalistiche, dove si parla di “formazione dei sindaci”, come dire “rieducare i Sindaci”, sarà una allocuzione sfuggita, ma ricorda la “rieducazione”, che è sempre stata una prerogativa ed un impegno anche accanito di regimi e movimenti che niente avevano a che fare con la democrazia. Scritta su di un giornale la cosa preoccupa, quantomeno perché se un giornale vuole avere un ruolo, non solo deve informare, raccontare cosa accade, ma deve fare in modo che una società cresca nel confronto, alimentandolo, invece che sparare “sentenze”, che, come insegnano le cronache, per avere una logica debbono essere sostenute dall’accertamento dei fatti o dalla impossibilità a farlo. Questo non significa che i Sindaci abbiano ragione. Ci sono colpe dei sindaci, come di altri, perché i piani regolatori sono stati approvati prima dal Ministero dei Lavori Pubblici fino al 1976 e poi dalle Regioni, perché i progetti realizzati in zone vincolate sono tali perché approvati dalle soprintendenze. Questo non significa che non si debba puntare al recupero ed alla riqualificazione dell’esistente, tutt’altro, significa che se si vuole procedere in una ragionevole prospettiva di limitazione del consumo del suolo e di tutela del paesaggio, non sono i diktat pregiudiziali che fanno la differenza, ma un complesso di azioni che permeano la società a più livelli a partire da quello culturale per poi passare a quello economico, in un contesto aperto di ampia disponibilità al confronto. Il Giornalino dell’Ordine degli Architetti PPC_Livorno


Smart cities.

La rivoluzione della progettazione urbanistica. di Michela Schettino Ci sono cittadini che portano con loro un profondo cambiamento nel vivere e abitare le città: sono i nativi digitali, ma anche i loro genitori che ormai sono immigrati nel web e che, continuamente, senza neanche farci caso, utilizzano il digitale in modo molto concreto, lasciando segni tangibili nel vivere quotidiano. Le nostre città sono avvolte da una densa rete di informazioni direttamente costruita e gestita dai cittadini/fruitori. Come architetti il nostro compito progettuale è di incanalare questa moltitudine di informazioni e creare degli agganci per far muovere in modo intelligente, smart, gli utenti. Grazie alle due fasi sensing e actuating, così individuate da Carlo Ratti, architetto ingegnere ricercatore dello sviluppo delle città al MIT, le città ci parlano e rendono il nostro vivere più semplice. La prima fase fa si che gli oggetti ci parlino (sensori, totem, qr code...) la seconda permette di attuare una risposta ai messaggi ricevuti e far si che si creino coscienze nuove. Ad esempio Ratti, con il progetto trash track, ha sperimentato che, conoscendo il percorso dei rifiuti, gli utenti consapevoli dell’energia usata che sta dietro al loro “buttar via”, dimostravano un’attenzione diversa per questa pratica, fino a portarli ad un cambiamento del loro stile di vita. Perché farlo? Ratti risponde dando i numeri: 2, 50, 75, 80. Le città occupano il 2% della superficie terrestre; sono abitate dal 50% della popolazione; consumano il 75% dell’energia mondiale producendo l’80% di CO2. Risulta quindi evidente che il più piccolo cambiamento in città provoca a catena un enorme risultato in termini di consumo di energia e produzione di anidride carbonica. Le città italiane possono diventare veramente smart? Ci sono diversi punti da rispettare per essere intelligenti: prima di tutto noi architetti dobbiamo attuare le informazioni sentite dai cittadini, progettare quindi dal basso senza

preconcetti o idee totalizzanti. Ciò apre la mente per ascoltare più attori/autori accogliendo molte discipline. L’utente deve essere partecipe, condividere le proprie informazioni per il buon funzionamento della progettazione ed essere quindi consapevole del sistema in cui è immerso e che contribuisce a modificare. Bisogna perciò appoggiarsi alle nuove tecnologie, alla rete e alla capacità reale di utilizzarla e nel contempo rispondere al problema tutto italiano, di avere città con secoli di storia, nelle quali potrebbe essere difficile cablare e modificare reti per l’enorme stratigrafia storica che nasconde il nostro sottosuolo. Per fare questo Ratti propone una smart dust, se non è possibile una vera e propria rete è possibile avere una polvere di informazioni alla quale agganciarsi per sfruttare al meglio le città storiche: interventi nelle piazze o in punti strategici, edifici pubblici o luoghi di ritrovo. La rivoluzione è quindi già iniziata: non più l’idea dell’architetto che propone “dall’alto” e impone la propria visione, ma piuttosto una visione che può nascere e crescere partendo dall’insieme di tutti noi.

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Vivibilità urbana. di Fulvio Bondi Parto da una riflessione: spesso sulla stampa locale leggiamo articoli, lettere, scritti che mettono in evidenza il degrado della città. Abbiamo foto che mostrano strade e marciapiedi sconnessi, muri imbrattati, resti di mobili ed elettrodomestici abbandonati ai cassonetti dell’immondizia e simili amenità. E’ vero che una città si caratterizza per i suoi spazi, per le sue architetture, per il suo sistema di verde, di trasporti pubblici, di arredo urbano ed altro, ma pure per come tutto questo viene vissuto e, direi, mantenuto. Il concetto di “mantenere” implica, necessariamente, sia il concetto di “godimento” (in questo caso collettivo in quanto si parla di città, vale a dire di un “insieme” a disposizione della collettività) che quello di “rispetto”, sapendo che ciò di cui godiamo ed usufruiamo noi oggi (costruito con i soldi di tutti) è corretto che sia tramandato alle future generazioni perché abbiano la stessa possibilità. Non è che le piazze, ad esempio (1), vengano realizzate frequentemente: sono il frutto di una pianificazione urbanistica, di una edificazione del sito e quindi nascono questi spazi collettivi anch’essi studiati, progettati e realizzati. Vi sono, anche in questo caso come in ogni settore dell’attività umana, realizzazioni più o meno felici, più o meno soddisfacenti (e qui si apre un mondo di riflessioni sulla progettazione, sui materiali, sulla gestione, sull’opportunità, sulla cultura … che per ora evito con l’intenzione di riprendere in un secondo tempo). Quindi il “godere” di una piazza significa vivere, a seconda delle proprie esigenze, delle proprie sensazioni e momenti emotivi, quello che lo spazio ci può offrire: stare a conversare con gli amici, stare seduti su una panchina scaldati dal sole e leggere un giornale od un libro, stare seduti al bar di quella piazza ad osservare la gente e degustare un caffè, pranzare o cenare al ristorante che si affaccia su quello spazio godendo del clima mite etc. etc. E’ evidente che questo “godimento” del pagina 13

bene è tanto più soddisfacente quanto più questo sia ben progettato, ben costruito e ben “mantenuto”. Sul ben progettato e ben costruito mi ricollego mentalmente a quanto scritto poco sopra sul “mondo di riflessioni” da svolgere in altro momento. Sul “ben mantenuto”, è ovvio che la manutenzione di un bene dipende sostanzialmente dalla cura della proprietà (cura che deve avere pure nel momento di progettazione e realizzazione) e dal comportamento del fruitore. Nel caso in esame, vale a dire un bene pubblico, di fatto la proprietà ed il fruitore corrispondono o, meglio, fanno parte della stessa categoria ma sono entità diverse. Mi spiego meglio: la proprietà è pubblica ma è rappresentata da un ente (ad esempio Comune piuttosto che Regione o Stato); il fruitore è il pubblico, vale a dire i cittadini, la collettività. L’ente (pubblico) ha quindi il compito di reperire i fondi, progettare, realizzare la piazza e di intervenire per la cura (pulizia ed opere di manutenzione). Sappiamo tutti benissimo che la pulizia è un impegno costante, e la manutenzione un impegno da programmarsi negli anni, considerando la normale usura. Sottolineo normale usura da non confondersi con opere di ripristino a seguito di episodi di vandalismo e di comportamenti asociali che spesso avvengono nelle città). Il fruitore (i cittadini, vale a dire il fruitore pubblico) ha la possibilità di utilizzare il bene ed il compito di rispettarlo, vale a dire usarlo godendone giorno dopo giorno. E’ ovvio che per godere di un bene il fruitore deve utilizzarlo rispettandolo, altrimenti il giorno dopo non ne può più usufruire: che senso ha stare comodamente seduti su di una panchina a leggere o conversare con un amico od abbracciato alla compagna se quando ti allontani la distruggi? E’ ovvio che il giorno dopo nessuno potrà sedersi ed usufruire di quel bene. E qui entra in Il Giornalino dell’Ordine degli Architetti PPC_Livorno


ballo la sensibilità, l’educazione, la cultura dei cittadini, del fruitore. Se il fruitore si rapporta esclusivamente al bene pubblico come se fosse un bene privato si sente autorizzato a viverlo, anche a seconda della propria “cultura” od “incultura”, ponendosi solo il problema della fruizione egoistica. Questo può portare, in taluni casi e non necessariamente (ma spesso accade), all’atteggiamento dell’usa e getta, al non porsi la questione del rispetto e del tramandare il bene alle generazioni successive. Può essere pure che, come mi ricordava un amico, si sia perso il concetto dell’uso corretto, del rispetto per far conoscere ai nostri successori il mondo che è stato, le tradizioni: in sostanza che si sia perso il senso civico inteso come valorizzazione della propria cultura, delle proprie vestigia, delle proprie tradizioni e della propria città. Quindi mi domando: possibile che in questa città avanzi il degrado, la caduta del senso civico, la caduta del rispetto degli altri? Possibile che non si comprenda che vivere in un ambiente sano, pulito, curato, dove si rispettano le regole rappresenta un valore di buona vivibilità, di civiltà? Se ognuno nella propria casa non pulisce e continua a sporcare giorno per giorno, non mantiene gli ambienti salubri, è evidente che la casa va rapidamente in rovina ed il ripristino, oltretutto, ha costi notevoli. Le opere di manutenzione straordinaria hanno costi superiori

rispetto a quelli delle opere di manutenzione ordinaria: il bene è notevolmente deteriorato a causa dei mancati semplici interventi a costi limitati. Mi sembra un ragionamento ovvio. Quindi se ci lamentiamo che la città mostra segni evidenti di degrado fisico/ambientale, significa o che la proprietà (ente pubblico) non opera in modo adeguato o che il fruitore (i cittadini) operano in modo scorretto. O entrambe le cose. Visto che i fondi pubblici a disposizione dei vari enti sono sempre minori si può comprendere che, talvolta, vi siano delle deficienze da parte della proprietà. Mi pare, comunque, che, in linea di massima, la proprietà cerchi di mantenere il decoro e la fruibilità dei beni. Dall’altra parte mi pare che il fruitore spesso non si ponga il problema di un “godimento corretto” e non consideri il bene come oggetto da tutelare e conservare: vale a dire non si curi troppo degli altri e del bene di cui possono godere tutti. Quante volte assistiamo a spettacoli tipo il non raccogliere gli escrementi dei cani, del mancato utilizzo dei cestini stradali per depositare carte e quanto altro. Quante volte la domenica mattina ci imbattiamo in lattine, bicchieri e/o bottiglie abbandonate per strada nelle zone della “movida” del sabato notte. In seconda battuta assistiamo alle

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lamentele del “fruitore” perché la città è sporca, perché i preposti non puliscono a sufficienza. Mi viene una semplice osservazione: se ognuno di noi rispettasse le regole, se depositasse i rifiuti nei cestini e nei cassonetti, se non depositasse materassi, resti di mobili ed elettrodomestici per strada, forse le energie e le risorse (soldi di tutti) destinate alla pulizia quotidiana sarebbero sufficienti e, forse, avanzerebbero per altri servizi utili alla collettività. Quante volte assistiamo a motorini e biciclette che viaggiano in senso opposto al senso di marcia, anche in strade strette e pericolose oppure che si insinuano in zone pedonali. Tempo fa era in discussione una legge per permettere all’interno delle città l’uso indiscriminate delle biciclette in ogni strada ed in ogni senso di marcia. l progetto di legge non è passato - se non erro - in considerazione della pericolosità che si sarebbe creata in tutta la città: una serie di strade strette e tortuose. Mi pare che nella nostra città questa legge, comunque, sia in vigore!!!…e non solo per le biciclette!!! … Il rispetto delle regole, il rispetto degli altri, la cultura del bene collettivo e la politica “delle finestre rotte” non sarebbero da disdegnare. La politica delle “finestre rotte”: tempo fa mi è capitato di leggere un articolo e, successivamente, incuriosito ne ho letti altri. Peraltro ho scoperto, per mia ignoranza, che tale filosofia (con conseguenti esperimenti di studiosi del comportamento e del concetto di vivibilità urbana) non è proprio degli ultimi anni. Risale, salvo il vero, alla fine degli anni sessanta, durante i quali furono condotti esperimenti vari (2). In sostanza, se ho ben capito, il concetto è semplice: se un edificio disabitato e/o semiabitato mostra segni di decadenza, ad esempio mostra vetri rotti di una o più finestre, automaticamente il semplice cittadino, in un qualche modo, si sente

autorizzato a spaccarne altri, vale a dire viene a cadere il concetto di rispetto del bene poiché lo stesso appare abbandonato. Contrariamente, se i vetri rotti vengono subitaneamente riparati, nessuno si sente in dovere di spaccarne altri. Proseguendo su questa falsa riga sono stati condotti esperimenti che hanno dimostrato che, facendo rispettare semplici regole della vita collettiva (anche con controlli inizialmente costanti e con provvedimenti opportuni – sanzioni e richiami - ) come il pagare il biglietto della metropolitana, il non imbrattare muri con scritte e similari, il “fruitore” ha, complessivamente, migliorato il proprio senso civico, il rispetto delle regole e del bene collettivo. In sostanza - ho letto/sentito da qualche parte un altro esempio - se ognuno di noi viene invitato in un appartamento in disordine, sporco e mal tenuto non si sente in imbarazzo se sporca e/o lascia cadere la cenere della sigaretta al di fuori del posacenere. Al contrario, se viene invitato in un appartamento pulito, ordinato e curato si sente in dovere di usare un atteggiamento adeguato, di rispetto dell’ambiente. Penso che, nelle città – e nella nostra a maggior ragione –, iniziando a far rispettare le regole più elementari di buona educazione, rispetto degli altri e delle normative che regolano la quotidiana vita collettiva, ognuno di noi avrebbe da guadagnare sia per un buon “godimento” degli spazi pubblici che per la consapevolezza che, grazie al “rispetto e mantenimento”, altri, dopo di noi, potranno fare altrettanto. Inizialmente saranno da mettere in atto atteggiamenti/comportamenti di informazione, educazione, coinvolgimento, controllo e, dove necessario, repressione. Penso che, in seguito, il processo di crescita collettiva possa avvenire rapidamente e tranquillamente. Potrebbe essere un suggerimento ed una sfida per la nuova amministrazione civica della nostra città.

(1) La piazza è presa ad esempio come “classico” spazio pubblico. L’esempio può farsi per altri spazi e/o strutture pubbliche: le strade, il verde urbano, i parchi, le scuole e qualsiasi altro edificio pubblico – intendendo per pubblico un qualcosa realizzato con i soldi della collettività e da questa usufruito più o meno gratuitamente. (2) Vedere ad es.: 1969 esperimento dello psicologo dell’Università di Standford, Philip Zimbardo (“La Repubblica” 16/09/2007); esperimenti dell’Università di Groningen anni 2007 e 2008.

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Perù, Cuba e Libano: Tre diverse emergenze. di Marta Niccolai Il problema, in se, non sono i terremoti o gli uragani e, per certi versi, anche i conflitti armati, che non possono essere evitati, ma la capacità dell’uomo e della società di far fronte a questi eventi. Molto spesso le emergenze, sia quelle di carattere naturale che quelle di carattere antropico, riescono a evidenziare le problematiche e le carenze di un determinato contesto, in maniera più palese di qualsiasi analisi socio-economica. In questo scenario, la disciplina dell’architettura riveste un ruolo molto importante; non solo attraverso l’opera di ricostruzione o di riqualificazione di un contesto architettonico od urbano, ma anche perché potrebbe fornire punti di slancio, per incrementare lo sviluppo locale ed umano. Il più delle volte, l’architettura, che è in grado di mostrare subito un risultato concreto, viene usata invece, come strumento di visibilità, per interventi isolati e puntuali, che non riescono, però, a migliorare la capacità della popolazione di far fronte ad un’altra emergenza simile. In PERU’, dopo il terremoto di Ica del 2007,

alcune organizzazioni, avevano cominciato la costruzione “a regola d’arte” di alcune piccole abitazioni in cemento. Di sicuro quelle abitazioni, costruite in maniera corretta, con materiali idonei, erano perfettamente anti-sismiche; ma accanto alle 30 nuove abitazioni in cemento armato, ce ne erano altre migliaia, di altri cittadini, che a causa della precarietà economica, erano state costruite con semplici mattoni in terra cruda, che non avrebbero resistito ad un’altra, seppur minima, scossa tellurica. Nel progetto di cooperazione a cui ho collaborato, fu deciso, insieme all’amministrazione locale di una cittadina della regione di Ica, di non costruire prototipi di abitazioni antisismiche, ma di capire insieme a loro quali accorgimenti si potevano fornire, alle persone che si stavano costruendo una nuova abitazione, per impedire la costruzione di nuove “tombe”. Lo studio si è concentrato nel capire come, con i materiali disponibili e comunemente utilizzati, che non possono essere definiti antisismici (mattoni di terra cruda, canne di bambù, paglia, reti metalliche), potevamo progettare un

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edificio che permettesse agli abitanti, in caso di sisma, di avere il tempo necessario per rendersi conto della situazione e fuggire di casa. Il risultato è stato la definizione di alcune semplici regole, adottate poi dal Comune come Prescrizioni Tecniche, che riguardavano principalmente: - il dimensionamento dell’abitazione e in particolar modo degli spazi interni; - il posizionamento e le dimensioni delle aperture verso l’esterno; - i giusti tempi di essiccazione dei mattoni in terra cruda; - il posizionamento delle canne di bambù come elementi di copertura . E dei piccoli accorgimenti per rendere l’involucro edilizio più “antisismico”: - impacchettamento dei muri perimetrali con l’uso di una semplice rete metallica, per impedire l’immediato collasso della muratura, - concatenamento dei muri perimetrali con materiali economici. Nel caso di CUBA, isola caraibica in una situazione di emergenza socio-economica, si è affrontato il tema di come, attraverso la riqualificazione ed il restauro di un monumento sia possibile intraprendere un percorso virtuoso, di sviluppo umano e locale. L’embargo americano, insieme alle ristrettezze economiche, non permettono la salvaguardia dell’immenso patrimonio storico architettonico, presente sull’isola. Il risultato è che la gran parte dei monumenti e degli edifici storici, versano in condizioni precarie, non solo a causa della mancata manutenzione, dopo innumerevoli sismi ed uragani, ma anche per il sovraffollamento negli edifici, dovuto alla carenza di abitazioni idonee e sicure. Quando la popolazione ha a disponibilità qualche risorsa economica in più, preferisce demolire le vecchie case fatiscenti e ricostruirle in cemento (poco) armato, oppure sopraelevare con un piano, sempre in cemento (poco) armato, le vecchie costruzioni. Oggi molti programmi della Cooperazione Internazionale a Cuba prevedono, come attività principale, il restauro e la riqualificazione di monumenti, che in alcuni casi, sono dei veri pagina 17

manuali di tecnologia storica a cielo aperto. L’approccio al restauro di un monumento viene interpretato come cantiere pilota per la formazione (attraverso workshop, corsi professionalizzanti e master post-laurea) di tutte quelle professionalità (architetti, ingegneri, falegnami, muratori), che saranno poi in grado di intervenire in maniera adeguata anche sull’edificato minore. In questa maniera Cuba, sta riscoprendo e riqualificando piano piano gran parte del suo patrimonio storico-architettonico, che fa dell’isola, una delle principali mete del turismo mondiale e rappresenta una delle principali risorse economiche del paese. In Libano dopo decenni di guerre civili e non, la situazione di emergenza sembra in gran parte superata, se si considera la ormai avvenuta ricostruzione delle principali infrastrutture e dell’edificato abitativo: il Libano e Beirut, in particolare, vuole riscattare il suo status passato di “Parigi del Medio Oriente”. La voglia di dare al paese una immagine più “europea” e moderna ha favorito la cancellazione di molte testimonianze del passato, anche attraverso la distruzione di parte del patrimonio storico-architettonico. Centri storici, un tempo gioielli architettonici del periodo mamelucco, si sono trasformati in asettici quartieri moderni, oppure, fatta eccezione per quei siti già protetti dall’UNESCO, come patrimonio mondiale dell’umanità, versano in uno stato di abbandono. La relativa stabilità politica del Libano degli ultimi anni ha consentito un incremento del turismo nell’area e molte realtà libanesi (Università, Municipalità), si sono rese conto del potenziale economico di questa attività ed hanno cominciato a riconsiderare il modello di sviluppo urbano, in favore di una maggiore protezione e salvaguardia dei beni storici ed architettonici. L’architettura non ha capacità taumaturgiche ma, in contesti, dove la relazione tra uomo e territorio sembra venire meno, a causa di calamità naturali o di conflitti armati, se usata in maniera saggia e non come semplice esercizio stilistico, può individuare e valorizzare quei segni che ancora riescono a rappresentare un Luogo e la sua Identità. Il Giornalino dell’Ordine degli Architetti PPC_Livorno


Ri_Percorsi di Architettura. di Gaia Seghieri e Umberto Davini Ho conosciuto l’architetto Umberto Davini nel 2007, grazie ad una coincidenza di interessi personali. Umberto non solo è architetto, ma anche una persona molto al di fuori degli schemi convenzionali. Con gli anni l’ho visto sempre mantenere, sia nei confronti della vita che della professione, un grande entusiasmo ed una volontà di rimettersi sempre in gioco. Il suo esempio mi ha aiutato a comprendere che è molto importante, nonostante il periodo storico attuale, di crisi globale, un atteggiamento di riscoperta quotidiana delle nostre risorse, capacità e talenti senza dimenticare la motivazione e l’entusiasmo iniziali che ci hanno fatto intraprendere la professione di Architetto, e soprattutto mantenendo una forma, oserei dire, di rispetto, nei confronti della nostra esperienza passata di studi e professione. Le possibilità di reinventarsi esistono per tutti, ciascuno di noi ha punti di forza e capacità da riscoprire o, addirittura, scoprire totalmente, e a riguardo, penso che, i professionisti come l’architetto Umberto Davini, possano costituire

un forte input in questa riscoperta personale e professionale. Ho chiesto all’architetto Umberto Davini di parlarmi della sua esperienza. Poter intraprendere un percorso di studi artistici dopo la maturità media è sempre stato il mio sogno di adolescente. All’epoca purtroppo nella mia città, Lucca, non esisteva una sede del Liceo Artistico, quindi ho dovuto, mio malgrado, frequentare una scuola che non mi piaceva affatto e che, potendo, non avrei certamente scelto: il Liceo Scientifico. Mi son sentito fin dall’inizio come un pesce fuor d’acqua. Solo in seguito avrei compreso che vivere questa esperienza mi avrebbe insegnato a apprezzare fino in fondo le opportunità che ci vengono offerte dall’esistenza, come quella, per l’ appunto, di poter frequentare una scuola che ci piace e che corrisponde alle nostre predilezioni. Immerso nella controcultura degli anni sessanta, raggiunta la maggiore età, ho iniziato a

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viaggiare: Milano, Parigi, Barcellona e infine Granada. Queste esperienze sono state per me di grande stimolo e hanno rappresentato un primo importante passo verso la scoperta di nuovi orizzonti e nuove realtà e quindi un prezioso nutrimento per la mia crescita personale. Erano gli anni ‘70, avevo appena compiuto vent’anni, tornando da Londra nasce l’idea di metter su con un amico un negozio di abiti vintage americani. Lo realizzammo e funzionò da subito. Questo mi permise di iscrivermi alla facoltà di architettura di Firenze: ciò che davvero volevo fare. Il programma di studi comprendeva esami obbligatori che superai brillantemente grazie alla mia preparazione scientifica e esami facoltativi che scelsi a misura dei miei gusti e interessi. Perduto sognatore, come al tempo venivo definito dagli amici, al contrario della maggior parte dei miei compagni di studio, che erano orientati a seguire il classico programma proposto dall’ateneo ( forse perché pensavano che fosse l’unica strada o la più semplice, che avrebbe permesso loro di arrivare prima, senza perder

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tempo e senza correre rischi..), io seguii ciò che mi entusiasmava di più. Nella vita come negli studi, pur non avendo figure di riferimento (che in realtà avrei bramato incontrare), ho sempre evitato di seguire passivamente la strada maestra, il più delle volte mi sono sentito spinto a mettere alla prova le mie capacità, avventurandomi in spazi sconosciuti. Il vero lusso, ne ero certo, consisteva nell’avere la possibilità di conoscere chi siamo e del tempo a disposizione da dedicare alla realizzazione di se stessi. E’ stato di fondamentale importanza il mio incontro con Osho, mistico e maestro spirituale indiano. Era l’ottobre del 1978 , avevo appena raggiunto Puna, in India, entusiasta di poter finalmente mettere alla prova me stesso, facendo luce su spazi interiori mai svelati prima e esplorando i miei stessi limiti. Gli anni dell’università sono stati pervasi di entusiasmo per la ricchezza delle esperienze vissute e io ero sempre più convinto che il nozionismo scolastico non poteva rappresentare l’unica forma legittima e riconosciuta di

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formazione, per me troppo schematica e a senso unico. Ero venuto a conoscenza di alcune storie fantastiche su alcuni personaggi stranieri venuti a vivere per qualche tempo nella mia città; accolti con tutti i riguardi, esercitavano la loro professione di architetti in modo per me alquanto singolare. Venni a sapere che una nota famiglia lucchese, per esempio, si diceva avesse dato a uno di loro l’incarico di risistemare il parco della villa di proprietà. Sembrava che si fosse stabilito da mesi nella dependance della villa stessa e lì lavorasse, prendendosi tutto il tempo necessario per esplorare con calma ogni stanza, osservarne i caratteri, le forme e le proporzioni. Certi pomeriggi era stato visto seduto per ore nella loggia dell’antica dimora, intento a consultare vecchie carte e documenti storici della villa, altri, passeggiare assorto nel parco, intento a trarre spunto dall’atmosfera dei luoghi e dagli elementi del paesaggio circostante. Tutto questo mi sembrava così favoloso e così lontano dai modelli sino ad allora da

me conosciuti... ciononostante segretamente sognavo in cuor mio di poter un giorno vivere anch’io questo tipo di esperienze e poter lavorare in questo modo. Sentivo che avrei dovuto avere pazienza e aspettare il momento giusto, ero consapevole che le mie scelte controcorrente avrebbero potuto rallentare il mio percorso professionale e eventualmente comportare anche dei rischi, ma dentro di me ero certo che ce l’avrei fatta, e a modo mio, come sognavo... L’ obbiettivo in quel momento era conseguire innanzitutto una laurea, per la quale mi stavo impegnando a fondo; finiti gli esami, ancora una volta il mio carattere curioso e ribelle si manifestò nell’ennesima sfida, la scelta dell’argomento della tesi. Mi proponevo di prendere in esame gli elementi essenziali che, fin dai tempi più remoti, sono alla base del concetto di abitazione, prendendo come esempio e oggetto di indagine approfondita le cuevas di Sacromonte, insediamenti abitativi primordiali, rappresentati da alcuni villaggi di grotte

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scavate nella roccia nei pressi di Granada, in Spagna. E a quel punto, con un audace salto oltreoceano, andavo a stabilire un confronto con il fenomeno dell’architettura spontanea, rappresentato dai barrios piratas (quartieri moderni nati al di là di una qualsiasi forma di pianificazione territoriale ) a Bogotà in Colombia. Superata la tesi con il massimo dei voti, si palesava la sfida più importante: iniziare a costruirmi un futuro per poter provvedere a me stesso. Dopo aver preso in considerazione ogni genere di possibilità, alla fine decisi di andare a fare un esperienza di lavoro di alcuni mesi in Germania. Pensai di non trattenermi più dello stretto necessario, e, dopo un primo periodo di tempo trascorso a Stoccarda, stavo già per rientrare in Italia. Fu allora che venni a conoscenza di alcune interessanti opportunità di lavoro a Colonia, e senza pensarci su due volte, accettai l’invito, feci i bagagli e mi trasferii. Cominciai a calarmi sempre di più nella vita di un paese straniero noto per la serietà, la puntualità

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e l’efficienza organizzativa , cimentandomi con le prime esperienze specificatamente legate alla mia professione di architetto, collaborando con alcuni studi che si occupavano di grafica editoriale, ristrutturazione di negozi, case e appartamenti, sistemazione di terrazze e piccoli giardini. E’ stato in questa occasione che ho potuto veramente comprendere l’importanza di progettare in sinergia nella stesura e nella realizzazione di un progetto. Ho potuto sperimentare che riuscire a unire assieme diverse competenze e lavorare in team , naturalmente in un tipo di rapporto basato sulla fiducia e sul rispetto reciproco, mette in moto una dialettica che può condurre a risultati impensati. In questo modo, in virtù del confronto tra singoli talenti e tra diverse visioni e esperienze, potranno emergere soluzioni ottimali che andranno a costituire un vero e proprio valore aggiunto per uno studio. A seconda dei casi, potranno addirittura fare la differenza per riuscire ad ottenere o no un incarico. Solo dopo cinque anni feci rientro in Italia, fu allora che la collaborazione con il rettore della facoltà di architettura dei giardini di Genova, mi dette l’opportunità di approfondire l’altro tema che

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fin da adolescente mi aveva molto affascinato: il giardino. Progettare il verde è un compito ambizioso, significa riuscire a costruire un ponte tra la casa e il paesaggio circostante. La difficoltà, in questo caso, è quella di dover intervenire e lavorare dovendosi necessariamente avvalere di una materia non statica e inerte, ma vivente, con caratteristiche del tutto diverse dai classici materiali da costruzione: necessità di luce o di ombra, del calore per sopravvivere e svilupparsi, di terra, di aria, di acqua e, soprattutto, di nutrimento. La scommessa è con il tempo, con la mitezza o l’inclemenza del clima, con tutta una serie di elementi che faranno sì che il giardino possa nascere, cresca e si mantenga negli anni, oppure si trasformi in un opera che ci deluderà. Tutto ciò presuppone oltre che una passione innata, una sensibilità particolare, in grado di poter valutare un’infinità di fattori e di esigenze del materiale vegetale, essenziali per la realizzazione del nostro giardino. Non ultimo, di poter optare per la scelta migliore, la più adatta al singolo caso, tra le innumerevoli specie e varietà di piante disponibili che oggi è in grado di offrire il mercato vivaistico. Scelta che dovrà tener conto, oltre che del volume e del portamento, dell’abbinamento dei colori, della compattezza, della morbidezza , della rusticità e della necessità di cure di ogni singola essenza. Ritornando al periodo in cui ho vissuto lontano dall’Italia, questa esperienza mi ha permesso, una volta rientrato, di apprezzare con occhi nuovi la straordinaria bellezza del mio paese, quella bellezza che da giovane davo quasi per scontata, e senza rendermene nemmeno conto, non consideravo affatto o quantomeno, sottovalutavo. Quante volte, camminando piacevolmente senza fretta per le strade delle nostre città, sono stato folgorato dalla bellezza dei giardini, dei palazzi …. e dalla straordinaria attualità di alcune soluzioni architettoniche o decorative, frutto del genio e dell’ingegno creativo di veri e propri artisti e artigiani che hanno reso il nostro paese una scuola di cultura a cielo aperto. Se sono riuscito a crescere e a

realizzarmi a modo mio nella mia professione è anche grazie a questo, all’opportunità di poter attingere e lasciarsi permeare, attraverso una diretta conoscenza, dalle forme armoniose delle architetture o dalla poeticità dei paesaggi, per poi trarne insegnamento, sia per un arricchimento culturale personale, sia per una più completa formazione professionale. Devo anche ammettere che, alcuni incontri (con addetti ai lavoro e non) sono stati per me importanti, perché mi hanno aperto la strada verso nuovi mondi, permettendomi di vedere le cose da angolature diverse e, a seconda dei casi, facendomi ricredere su alcune mie personali certezze, oppure, al contrario, incoraggiandomi a proseguire per la strada che avevo intrapreso. Se è vero che “non si nasce imparati”, ma ai più fortunati è riservata la straordinaria opportunità di sviluppare il proprio talento, io mi considero tra questi ultimi. Ogni talento è unico, è di per sé prezioso. Se il musicista giocando con il suo strumento in un assolo potrà emozionarci eseguendo una dolce melodia, accompagnato ad altri, potrà regalarci il piacere di ascoltare e apprezzare una vera e propria sinfonia. Quando anni fa ho accettato l’incarico di ristrutturare un piccolo borgo sulle colline lucchesi, mi sono reso conto che l’unico modo per ottenere un risultato era necessariamente quello di lavorare in equipe. In virtù delle esperienze acquisite, mi sono sentito pronto e capace di creare un team che corrispondesse perfettamente alle esigenze del progetto. Di volta in volta ho preso le decisioni avvalendomi il più possibile di validi collaboratori, capaci di comprendere e contribuire, ognuno a modo suo secondo le proprie competenze, alla corretta esecuzione delle opere. E’ li che, per la prima volta, mi sono sentito nelle vesti di un vero e proprio direttore di orchestra, capace di valutare, team-coordinare e guidare le maestranze, in grado di trasmettere la visione di ciò che tutti assieme stavamo per realizzare, e, soprattutto, di condividere con entusiasmo la preziosa opportunità e la straordinaria avventura di poter realizzare con passione un opera creativa. pagina 22


Vyta Santa Margherita. Milano.

di Daniela Colli Vyta Santa Margherita offre i prodotti più antichi, in uno dei luoghi più rappresentativi della nostra società, il pane ed il vino all’interno dell’atrio monumentale della stazione ferroviaria di Milano Centrale, luogo emblema della velocità della vita metropolitana. ‘Attraverso gli elementi semplici offerti dalla Natura come acqua, fuoco e terra, la mano esperta, la pazienza e la creatività dell’uomo hanno creato per millenni forme e sapori, profumi e aromi dando vita al pane ed al vino, alimentazione dell’umanità antica e moderna’ è la food philosophy che ha ispirato il concept architettonico. L’immagine contemporanea per i prodotti più ‘minimali’ della nostra tavola scaturisce da un rigore formale ed un’eleganza innovativa privata del superfluo e frutto di un ricercato minimalismo e della riduzione all’essenziale.

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Il progetto alterna contrasti materici e cromatici: legno di rovere e corian come rappresentanti della tradizione e dell’innovazione, connubio tra natura e artificio. L’alternarsi della morbidezza del rovere con il colore nero nelle varie declinazioni materiche crea un ambiente emozionale, teatrale, dove il calore della texture naturale viene esaltato grazie al contrasto con le superfici ed i volumi di colore nero lucido: come il gres porcellanato a grandi lastre per il pavimento, il corian per il banco, ed il polimero nero per tutte le pannellature verticali che racchiudono il locale come uno scrigno. Il bancone ha una forma fluida, una morbida linea curva enfatizzata da una vela sospesa al soffitto, realizzata con doghe a sezione variabile in legno di rovere naturale, che rievocano l’intreccio delle tradizionali ceste per il pane.

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La parete del retro-banco, solitamente spazio funzionale, diventa una nuova forma di intrattenimento, attraverso l’installazione di videowall: un filmato perpetuo in slow-motion, celebra gli ingredienti caratterizzanti i prodotti Vyta Santa Margherita come: acqua, vino, olio, grano, farina, mozzarella pomodoro e fuoco. L’illuminazione genera scenari morbidi ed accoglienti ed è concentrata sul banco: esalta la cappa attraverso l’illuminazione a riflessione di sorgenti luminose ad incasso a ioduri metallici minimal, diviene protagonista sulle pareti retroilluminate incorniciando le bottiglie di vino Santa Margherita e la loro storia, celebrate come sculture, diviene tecnologica per esaltare il pane ed i suoi derivati con i led. Il volume dell’atrio monumentale è rimodulato alla scala dell’uomo attraverso la realizzazione di ‘ombrelloni tecnologici’ realizzati a disegno in metallo di colore nero, dotati di lampada infrarossi a basso consumo energetico, illuminazione led, diffusione sonora e presa elettrica per ricaricare smartphone e tablet,

rendendo lo spazio dedicato alle sedute intimo, evocando la socialità del mangiare insieme, rito antico, sempre meno diffuso, ma sempre più necessario nella vita del terzo millennio. SCHEDA DESCRITTIVA Ubicazione: Stazione Milano Centrale Superficie: 180 mq Progetto: COLLIDANIELARCHITETTO – Roma in collaborazione con ROBILIANTASSOCIATI – Milano Committente: Retail food s.r.l. Foto: Matteo Piazza - Milano

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Appunti di viaggio: Stuttgart.

di Daniele Menichini L’11 ed il12 settembre ho avuto l’occasione di essere invitato, insieme ad altri 7 architetti italiani, ad un viaggio promozionale, organizzato dalla Hafele a Stoccarda, ed è stata una occasione ghiotta anche per riconciliarsi con l’architettura, dato che in Italia ormai se ne fa e se ne vede troppo poca. Mi sono sentito come uno studente universitario in gita per la prima volta in una specie di “paese delle meraviglie”. Oltre a visitare lo stabilimento dell’azienda ospitante, ci hanno fatto fare un bel giro nella città, con la visita ad importanti opere del tessuto urbano, sia ormai storicizzate che in assoluto divenire e parte del progetto “città del XXI secolo”. Il giro per la città inizia dal bellissimo museo della Mercedes progettato da UN STUDIO, e che trae l’ispirazione dalla scocca fortemente “disegnata”, di una vettura, in cui il rapporto tra metallo, vetro e curve è sapientemente dosato

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così come si farebbe con la carrozzeria di una splendente auto sportiva; la bellezza del progetto di architettura è come sempre soggettiva per ognuno di noi, ma così non può essere per il progetto degli interni e dell’allestimento museale che, in un percorso fatto di grandi rampe emicircolari, raccorda tutti i momenti salienti della produzione della casa automobilistica, a partire dal primo motore a scoppio sino ad arrivare ai più bei ed avveniristici prototipi futuristici. Un atmosfera fatta di luci, ombre ed accenti sui vari oggetti esposti, sapientemente dosate e che emozionano lungo tutto il percorso sia che uno sia appassionato, come me, di automotive, che per il semplice visitatore. Il percorso attraverso le architetture della città, continua con la visita che più mi ha riportato al bel tempo degli studi, quando tutti eravamo più spensierati, felici di intraprendere

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la professione e meno compressi sotto la scure della crisi e della morte dell’architettura; un luogo, quello del Weissenhoff che anche oggi lascia senza fiato, soprattutto quelli che come me fanno del Bauhaus un principio ispiratore della propria cultura progettuale. Poter visitare la “città bianca” è stato veramente emozionante, un quartiere, questo, nato dalla cooperazione di 17 architetti che hanno fatto scuola per l’architettura moderna: il primo vero esperimento di social-housing e di case a basso costo, principalmente realizzate in cemento armato. Un esperimento che oggi sarebbe molto difficile ripetere sia in Germania e, figuriamoci, in Italia: pensare infatti di portare così tanti architetti, che oggi sarebbero definiti “archistar”, a lavorare su uno stesso progetto che coinvolge anche la municipalità, sarebbe una utopia, soprattutto pensando al fatto che è stato sviluppato in un solo anno nel 1926. La visità al quartiere si conclude con la casa progettata da Le Corbusier che oggi è sede del museo del quartiere stesso, e dove è possibile prendere conoscenza di documenti, progetti dell’esposizione oltre

a visitare uno degli appartamenti restaurato e conservato integralmente. All’interno del museo, è molto particolare, la stanza in cui si trova il plastico del quartiere con tutte le abitazioni, comprese quelle distrutte durante la seconda guerra mondiale e non ricostruite in seguito. Oggi, le abitazioni rimaste nel quartiere, e quasi tutte restaurate da associazioni private con l’aiuto dello stato, sono abitate da dipendenti e dirigenti della municipalità di Stoccarda, quale benefit dovuto dallo stato stesso o affittate a canoni di locazione concordata molto convenienti, così come nel suo spirito originario. Visto che a pranzo dovevamo fermarci da qualche parte, tanto valeva approfittare del ristorante “Cube” che si trova sul roof top del Kunstmuseum, e che con il suo enorme cubo di vetro domina la piazza quando si è fuori, ed il paesaggio quando si è dentro, un gioco di trasparenze tra gli elementi interni ed esterni, separati dalla sottile “pellicola di vetro”; il museo d’arte contemporanea è stato progettato dagli architetti HASCHER e JEHLE che pagina 26


all’interno di questo semplicissimo cubo hanno organizzato una serie di sale raccordate da un sistema elaborato di tunnel, un progetto sobrio e raffinato che ha a disposizione circa 5000 mq di superficie espositiva, in cui, a rotazione, vengono organizzate le mostre delle opere d’arte di proprietà della municipalità di Stoccarda. Dal kunstmuseum ci siamo poi spostati in uno dei nuovi quartieri in costruzione. e che è dominato dalla Libreria Municipale progettata, da YI ARCHITECTS e caratterizzata da una forma cubica semplicissma, la cui facciata è scandita da moduli quadrati in vetro cemento con una apertura che consente l’affaccio, questa semplice facciata è in realtà una seconda pelle dell’edificio che consente la ventilazione ed aereazione naturale, così come l’illuminazione diffusa ed omogeneizzata. Come tutte le biblioteche il vero progetto è quello di allestimento interno con le sue sale ed i suoi percorsi e, certo, qui il progettista si è sbizzarrito anche dal punto di vista concettuale. Entrando si arriva ad un enorme spazio cubico vuoto, che è caratterizzato da pareti scandite pagina 27

da aperture e che ci fa sentire come se si fosse in una austera corte interna bianca, in cui l’unico elemento colorato è una piccola vasca, con un led blu, al centro del pavimento, e che rappresenta la “concentrazione”, anche, del vertice della piramide rovesciata, che è il vero e proprio tema della libreria; attorno a questa corte si sviluppano i piani della biblioteca che non sono visibili dall’interno e che hanno invece la loro risorsa nel contatto con l’esterno. La parte più interessante della biblioteca è quella agli ultimi piani in cui l’ispirazione ad Escher è molto forte, e viene rappresentata dai ballatoi che collegano le sale con un percorso dotato di scale che collegano i vari piani, e che si restringe ad ogni piano per disegnare proprio la piramide rovesciata che porta luce attraverso il grande soffitto semi opaco anche alla piazza d’ingresso. Inutile dire che mi sono fatto tutti i piani e ballatoi a piedi, per entrare in ogni sala e vederne anche l’allestimento ed i contenuti, ci è voluta una mattinata intera e nel completo silenzio tipico delle biblioteche ho scattato un centinaio Il Giornalino dell’Ordine degli Architetti PPC_Livorno


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di foto in ogni punto e di ogni dettaglio, proprio perchè questa sua forma minimale e semplice non è così banale come si potrebbe pensare. L’ultima parte della visita alla città non poteva che essere l’altro grande museo dell’automobile, ovvero, quello della Porsche, anche questo parte integrante del parco di edifici produttivi della casa automobilistica di Stoccarda. Ci troviamo davanti ad una architettura molto imponente e materica, con un enorme parte a sbalzo sulla zona d’ingresso che pare ci possa cadere in testa in ogni attimo, e la cui parte inferiore è rivestita con lastre a specchio per farla sembrare più leggera. Tutta l’architettura, progettata dall’architetto ROMAN DELUGAN, si regge su una serie di pilastri giganteschi ed obliqui, che fanno anche da tiranti, completamente cavi all’interno, al fine di utilizzare questo spazio come elevatore per tutti gli elementi che vengono posizionati nelle sale allestite con le automobili. L’architettura degli spazi interni ed esterni è fatta prevalentemente con l’utilizzo di superfici bianche ed altri

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elementi materici incolori, sempre neutri, come il grigio ed il nero; tutto si gioca sull’ottenimento di spazi pieni e vuoti fatti da volumi e linee sghembe, una geometria che è completamente e nettamente in contrasto con le linee del noto marchio. Certo, conclusa la visita ai due musei delle più importanti case automobilistiche tedesche, è stato mentalmente inevitabile confrontare anche le due architetture museali che contengono e raccontano la loro storia. ­Attraversando la città da una parte all’altra, è stato naturale passare davanti ad un altra opera di architettura molto simbolica per la città, e per quella che i critici hanno definito architettura “post moderna”, parlo del progetto di James Stirling per la Neue Staatsgalerie, un progetto che caratterizza una parte lunghissima della strada centralissima su cui si affaccia, e realizzato in due stralci e che, a causa proprio della sua dimensione, non è stato possibile visitare nel dettaglio e che mi ha lasciato il desiderio di ritornare in questa città in piena evoluzione.

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Eventi. di Matteo Bianchi IGOR MITORAJ, GLI ANGELI (Complesso monumentale di Piazza dei Miracoli – Pisa)

MARC CHAGALL (Palazzo Reale, Piazza del Duomo 12 MILANO)

Fino al 25 aprile 2015 La mostra dello scultore polacco rientra tra le celebrazioni del 950° anniversario della Cattedrale di Pisa ed è allestita nel nuovo spazio dedicato alle esposizioni temporanee, che arricchisce l’offerta culturale del complesso monumentale di Piazza dei Miracoli. A pochi metri dalla Torre Pendente si possono ammirare le suggestive sculture che rappresentano i disagi e le sofferenze dell’uomo di oggi, gli “eroi perdenti”, (nella foto: Icaro). Sono esposte circa 100 opere tra cui bronzi, fusioni in ghisa, gessi, disegni e sculture monumentali.

Dal 16 SETTEMBRE 2014 al 1 FEBBRAIO 2015 Al Palazzo Reale di Milano la più grande retrospettiva mai allestita in Italia del pittore russo, con oltre 220 opere esposte – alcune inedite – che evidenziano il lungo percorso artistico di Chagall, dal suo primo quadro fino alle ultime monumentali opere degli anni ’80. La mostra ci aiuta a leggere, attraverso le vicende personali dell’artista, l’evoluzione del suo stile inconfondibile che sintetizza passione, fantasia e leggerezza.

Orari di apertura: da novembre al 24 dicembre: 10.00-17.00 dal 25 dicembre al 6 gennaio: 9.00-18.00 Biglietto d’ingresso: Intero: € 3,00 - Ridotto: € 2,00 ragazzi sotto i 10 anni: gratis

Orari di apertura: lunedì: 14.30-19.30 mart., merc., ven. e domenica: 9.30-19.30 giovedì e sabato: 9.30-22.30 Biglietto d’ingresso: Intero: € 11,00 - Ridotto: € 9,50 Minorenni e scuole: € 5,50

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PICASSO E LA MODERNITA’ SPAGNOLA (Palazzo Strozzi, Piazza degli Strozzi FIRENZE) Dal 20 SETTEMBRE 2014 al 25 GENNAIO 2015 Picasso e la modernità spagnola accoglie circa 90 opere della produzione di Picasso e di altri artisti tra dipinti, sculture, disegni, incisioni e una ripresa cinematografica, grazie alla collaborazione tra la Fondazione Palazzo Strozzi e il Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía di Madrid. Tra le opere esposte sono presenti celebri capolavori come il Ritratto di Dora Maar, la Testa di cavallo e Il pittore e la modella di Picasso, Siurana, il sentiero di Miró e inoltre i disegni, le incisioni e i dipinti preparatori di Picasso per il grande capolavoro Guernica, mai esposti in numero così elevato fuori dalla Spagna. Orari di apertura: Tutti i giorni (inclusi festivi): 10.00-20.00 Giovedì: 10:00-23:00 solo su prenotazione: 09:00-10:00 Biglietto d’ingresso: Intero: € 10,00 - Ridotto: € 8,50 ragazzi dai 7 ai 18 anni: € 4,00

AMEDEO MODIGLIANI ET SES AMIS (BLU, Palazzo d’Arte e Cultura, Lungarno Gambacorti 9 – Pisa) Dal 3 ottobre al 15 febbraio 2015 In mostra al Palazzo Blu di Pisa una selezione di opere provenienti dal Centre Pompidou e da altre collezioni pubbliche e private, per ripercorrere la stupenda esperienza artistica di Amedeo Modigliani, dal periodo della formazione livornese fino al trasferimento a Parigi. Accanto alle opere di Modì saranno esposti altri capolavori dei maggiori artisti coevi, come Picasso, Soutine, Chagall, Braque ed altri. Orari di apertura: da lunedì a venerdì 10.00-19.00 sabato e domenica 10.00-20.00 Biglietto d’ingresso: Intero: € 10,00 - Ridotto: € 8,50 Scuole: € 4,00/studente www.palazzoblu.it

www.palazzostrozzi.org

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TIEPOLO, I COLORI DEL DISEGNO (Musei Capitolini, Palazzo Caffarelli, – Roma) Dal 3 ottobre al 18 gennaio 2015 La mostra allestita ai Musei Capitolini descrive, in maniera organica, la personalità e la straordinaria visione pittorica di Giambattista Tiepolo, che è considerato uno dei maggiori grafici del Settecento veneziano. I disegni e le acqueforti sono suddivisi in quattro sezioni, in base a nuclei tematici salienti: progetto, pensieri, ricordi, e divertimenti. Orari di apertura: da martedì a domenica: 9.00-20.00 solo su prenotazione: 09:00-10:00 Biglietto d’ingresso: Intero: € 15,00 - Ridotto: € 13,00 www.museicapitolini.org

CAPOLAVORI CHE SI INCONTRANO (Museo di Palazzo Pretorio – Piazza del Comune - Prato) Dal 5 ottobre al 6 gennaio 2015 Nel Museo di Palazzo Pretorio a Prato (riaperto in aprile dopo quasi vent’anni di restauri) si ospitano 86 opere d’arte (tra tele e tavole) della collezione della Banca Popolare di Vicenza, alcune delle quali sono esposte per la prima volta; tra queste, vi sono capolavori di grandi protagonisti della pittura dal Quattrocento al Settecento, come Filippo Lippi, Bellini, Tiepolo, Caravaggio. Orari di apertura: aperto dalle ore 10,00 Biglietto d’ingresso: Gratuito www.fondazionericcardocatella.org

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DISEGNI DELL’800 e DEL ‘900 (Gallerie dell’Accademia di Venezia)

VAN GOGH, L’UOMO E LA TERRA (Palazzo Reale, P.zza del Duomo 12 - Milano)

Dall’11 ottobre all’11 gennaio 2015 La mostra presenta un’accurata selezione di ben 110 fogli del fondo grafico dei Disegni e Stampe delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, curata dal direttore Annalisa Perissa. Si tratta di opere grafiche dell’Ottocento e del Novecento, di artisti ed architetti italiani (Hayez, Vedova, Appiani, Giacomo Quarenghi, Carlo Scarpa).

Dall’8 ottobre all’8marzo 2015 Palazzo Reale di Milano torna ad esporre, dopo 62 anni, le opere di Vincent Van Gogh. Nella mostra si potranno ammirare oltre 50 capolavori di Van Gogh, provenienti dai musei di Amsterdam, Otterlo, città del Messico, Utrecht e anche da collezioni private; tra questi, l’”Autoritratto” del 1887 e il “Paesaggio con covoni di grano e luna che sorge” (1889).

Orari di apertura: lunedì 8.15 -14.00 martedì - domenica 8.15 -19.15 Biglietto d’ingresso: Intero: € 11,00 - Ridotto: € 8,00 www.gallerieaccademia.org

Orari di apertura: lunedì: 14.30-19.30 martedì, mercoledì, venerdì e domenica: 9.30-19.30 giovedì e sabato: 9.30-22.30 Biglietto d’ingresso: Intero: 12,00 € - Ridotto: 8,00 € Gruppi: 10,00 € - Scuole: 6,00 € www.ticketone.it

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STEVE MCCURRY, OLTRE LO SGUARDO (Villa Reale, Viale Brianza, 1 - Monza) Dal 30 ottobre al 6 aprile 2015 La Villa Reale di Monza espone, dal 30 Ottobre al 6 Aprile 2015, una selezione di 150 immagini e video del grande fotoreporter e fotografo contemporaneo Steve McCurry. La mostra, oltre a esporre foto di Steve Mccurry, scattate in tutto il mondo (India, Birmania, Africa, Cambogia, Giappone, Brasile, Italia), vuole raccontare l’avventura professionale e personale di questo incredibile fotografo, e la sua capacità di cogliere attraverso l’obiettivo le emozioni ed i sentimenti più estremi dell’uomo, dalla sofferenza più cruda fino alla gioia più grande. Orari di apertura: martedì-venerdì: 10.00-18.00 sabato, domenica e festivi: 10.00-19.00 Biglietto d’ingresso: Intero: € 12,00 - Ridotto/Gruppi: € 10,00 Scuole/Minori: € 4,00 www.mostrastevemccurry.it

GRATTANUVOLE (Fondazione Riccardo Catella, Via Gaetano De Castillia 28 - Milano) Dal 6 novembre al 6 dicembre 2014 La Fondazione Riccardo Catella ospiterà, dal 6 Novembre al 6 Dicembre, la mostra “Grattanuvole, un secolo di grattacieli a Milano”, curata da Alessandra Coppa, docente di Storia dell’Architettura del Politecnico. Saranno esposti 80 edifici – tra torri e case alte – che caratterizzano il tessuto urbano milanese, con disegni originali, foto, video, plastici, dal “gratta- nuvole” dell’Ing. Achille Manfredini (1910) ai progetti di Porta Nuova, dalle mitografie futuriste di Antonio Sant’Elia ai virtuosismi tecnologici di Cesar Pelli. Orari di apertura: Da lunedì a venerdì 10.00-19.00 sabato e domenica e festivi 10.00-20.00 Biglietto d’ingresso: Intero: € 11,00 www.capolavorichesiincontrano.it

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Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori di Livorno


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