Alvento 8

Page 1

BIMESTR ALE in edicola dal 13 dicembre 2019

a l v e n t o. c c

08

#

dicembre 2 019

90008 9 772531 739001

>


#8 QUANDO NESSUNO GUARDA È IL MOMENTO IN CUI STAI COSTRUENDO UN’ALTRA GRANDE STAGIONE. I NOSTRI CAPI SARANNO LÌ AL TUO SERVIZIO. ANCHE QUANDO NON C’È NESSUNO CHE GUARDA. CASTELLI-CYCLING.COM

der. di navigare ‘navigare’, col pref. circum-

QUANDO IN TRE ORE DI PEDALATA TRA LA NEBBIA NON INCONTRI ANIMA VIVA.

/cir·cum·na·vi·gà·re/

QUANDO APRI LA PORTA DI CASA E IL VENTO GELIDO TI FA CHIEDERE PERCHÉ LO STAI FACENDO.

circumnavigare

QUANDO NESSUNO GUARDA —

[Erri De Luca]

Navigare intorno a un'isola, a un continente, alla Terra, compiendone il periplo. Dal lat. circumnavigare,

Fai come il lanciatore di coltelli,
 che tira intorno al corpo.
 Scrivi di amore
senza nominarlo,
 la precisione sta
nell’evitare. Distràiti
dal vocabolo solenne,
già abbuffato,
punta al bordo, costeggia,
 il lanciatore di coltelli
tocca da lontano,
l’errore è
di raggiungere il bersaglio,
la grazia è
di mancarlo.


©Kåre Dehlie Thorstad

Pedala piano

«Non sono cattiva. Se solo riuscissi a smettere di impegnarmi al massimo. Se solo riuscissi a dire al mio corpo: arrenditi. Pedala piano, in fondo ci sono sempre le passeggiate della domenica pomeriggio. Ci sono i selfie su Instagram e i calzini che si intonano alla maglietta, le foglie d’autunno sui tetti umidi. Le vacanze al mare fuori stagione. Invece niente. Il mio cuore è come uno sciocco sughero da pesca che va giù e poi torna sempre a galla».


© Chiara Redaschi

cover story

Qualsiasi tipo di bici Tutta la stagione di ciclocross verso il Mondiale, le Classiche di inizio stagione, poi probabilmente la Coppa del Mondo di MTB e le Olimpiadi di Tokyo, sempre con la MTB. Mathieu van der Poel è il prototipo del ciclista moderno, non c’è più una disciplina a cui dedicarsi: c’è il ciclismo. A Silvelle ha fatto suo anche il Campionato Europeo di Ciclocross.


cover story

Pedalare all'aria

cover story

Ore intere passate a pedalare sui rulli come una silenziosa liturgia. Tre sere a settimana pedali chiuso in salotto mentre continui a rimanere fermo. Poi finalmente arriva il sabato ed esci in strada. C’è quella sensazione dell’aria che ti viene incontro, il rumore delle ruote che rotolano sopra alle foglie secche, qualche microscopico schizzo di fango che si deposita sulla tua faccia. Cosa sarebbe il ciclismo senza l'aria che ti viene incontro?

© Poci’s

8


editoriale

di Emilio Previtali

11

La tecnologia fa male. La bici fa bene

Ho appena letto su un giornale che nell’arco di quarantotto ore la rete genera la stessa quantità di informazioni che l’umanità ha prodotto dalla preistoria fino al 2003. 
La preistoria è l'epoca in cui gli esseri umani andavano in giro tutti nudi e hanno cominciato a utilizzare degli utensili, era circa 2,5 milioni di anni fa. Il 2003 è l'anno in cui la Renault Mégane è stata proclamata Auto dell'Anno e il Milan ha vinto la Champions League all'Old Trafford di Manchester giocando contro la Juventus, lo dico senza l'intenzione di riaprire vecchie ferite o prendermi gioco di nessuno (soprattutto dei francesi e della Renault, che per carità, ciascuno ha la sua Duna). E poi uno che in vita sua ha tifato per l'Inter, parlando di calcio, ha poco da fare lo spiritoso. Comunque a parte questo, seriamente, mi chiedevo: quarantotto ore è il tempo di un fine settimana. È mostruoso. Un altro dato: ho letto che le informazioni contenute nel DNA all'interno di uno spermatozoo corrispondono a circa 35 MB e il prodotto totale di una eiaculazione contiene una quantità di dati che ammonta a circa 1585 GB,

cioè un TB e mezzo. In un certo senso all'inizio sono rimasto un po' deluso da questi dati, voglio dire: 35 MB non sono mica poi tanti. Scatto delle fotografie in formato RAW certe volte, che sono grandi più del doppio. Trasmettere il mio patrimonio genetico a un discendente riassumendomi in soli 35 MB - non per vantarmi - però avevo idea di valere molto di più. Non so come spiegare: io mi sono sempre pensato come un essere complesso, unico, irripetibile, d'altronde come si pensano e come in effetti sono tutti gli esseri umani del pianeta. Il corpo umano è davvero una cosa meravigliosa. Pensare che tutta quella meraviglia che è la nostra vita, che è il risultato di millenni di evoluzione della specie e di spietata selezione naturale possa essere contenuta in soli 35 MB comunque, a me, ha lasciato un po' spiazzato. Deluso. Poi mi sono ricordato del mio primo computer, che mi sembrava una meraviglia fantascientifica.

L’avevo comprato usato all'inizio degli anni '90, era un Mac PowerBook portatile dotato di un disco fisso di soli 40 MB di spazio memoria. Adesso quando penso a quel computer preistorico e lo confronto a quelli di oggi, mi viene da ridere. Ho pensato che se questa identica notizia che in ogni spermatozoo ci sono 35 MB di dati me l'avessero data negli anni '90 - perché immagino che anche gli spermatozoi degli anni '90 contenessero la stessa quantità di dati che ci sono negli spermatozoi del giorno d'oggi - io invece che rimanere un po' spiazzato e deluso dalla notizia, un po' basito, sarei rimasto estasiata e sbalordito per la meraviglia della vita e della Natura. Ecco, volevo dire due cose: uno, la vita è questione di punti di vista, di vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto; due, secondo me a noi del genere umano avere a che fare con dei computer non ci fa mica tanto bene.

Ai vostri figli, invece di un iPad o di un telefonino, per Natale regalategli la bici.


Sommario 14

36

Record dell'ora

Record mondiale dell’inseguimento a squadre, individuale e dell’ora, quello che si chiude è un anno magico del ciclismo su pista.

40

Ciclocross

Il Campionato Europeo di Ciclocross di Silvelle ci ha detto cose che sapevamo su MVDP e cose che non sapevamo sul ciclismo. di Luca Saugo + Davide Bernardini / Suiveur

50

Six days in London

Ciclismo, spettacolo, vita, mondanità, grasso di catena e profumo di olio per massaggi si mescolano sul palcoscenico del ciclismo su pista. di Filippo Cauz

32

Le linee della pista

L'era glaciale

Sul ghiacciaio Balteo che non c’è più, in bicicletta. Un'avventura ciclistica nell’Anfiteatro Morenico di Ivrea. di Davide Marta


70

98

L'ultima buona occasione di Claudio Dancelli

108

VOLONTÁ[RI] IRONMAN Italy - Il ciclismo italiano non è fatto solo da atleti, amatori, direttori sportivi, giornalisti, organizzatori, sponsor che investono in cambio di pubblicità.

Ideale per le salite

di Federico Ravassard

86

NO EXTRA WATER NEEDED

Just Ride

Sulle strade della Sardegna nella scia di Daniel Oss. di Daniel Oss

118

Velodromo

w e N

120

Jeroboam

Speriamo

Gravel, ciclismo-avventura, voglia di stare insieme, desiderio di esplorare tra Lago d’Idro e Lago di Garda.

Il racconto di una vittoria italiana al Giro Rosa Iccrea 2019, fatto dalla mamma della vincitrice di tappa.

di Federico Damiani

di Lara Torresani

OFFICIAL NUTRITION PARTNER

FORNITORE UFFICIALE DELLE NAZIONALI ITALIANE DI CICLISMO

MAIN PARTNER MARATONA DLES DOLOMITES-ENEL


16

pista

cover story

Six days in London Testo Filippo Cauz

Foto Tornanti.cc

Poco dopo le 10 di sera di sabato 12 dicembre 1896, il costante rumorio di un affollatissimo Madison Square Garden si trasformò in un boato fragoroso. Teddy Hale aveva appena conquistato la Sei Giorni di New York, completando 3079,806 chilometri dopo 142 ore di corsa non-stop. Le cronache locali esaltarono il successo di una manifestazione che, per quanto monotona, aveva saputo esaltare un pubblico famelico di intrattenimento e di imprese. La folla aveva continuato ad accalcarsi senza pause, tanto che negli ultimi giorni gli organizzatori ne approfittarono per aumentare il prezzo di ingresso, senza che la cosa fermasse la caccia al biglietto. In quella giornata conclusiva al Madison Square Garden si contavano 15.000 spettatori, raddoppiando la capienza prevista per l'impianto. Le cronache locali però non riportano soltanto gli aspetti trionfali, ma anche

l'impietosa descrizione del vincitore al termine di una simile impresa: «Hale aveva l'aria di un fantasma, il viso bianco come un cadavere e gli occhi, di una fissità terribile, sembrava fossero rientrati nel cranio». Mentre gli altri partecipanti si andavano via via ritirando per collasso o allucinazioni, Hale aveva continuato a pedalare per oltre 10 miglia. Minacciava di non fermarsi finché gli organizzatori non gli avessero concesso il letto di piume che gli era stato promesso. Quel suo pedalare lungo il crinale che divide stanchezza e follia fece preoccupare non poco medici e autorità municipali,

17


pista

19

Spettacolo. Le Sei Giorni non sono solo sport, sono anche spettacolo e rituale ciclistico.

tanto che due anni più tardi si arrivò alla più clamorosa delle decisioni: le Sei Giorni non si sarebbero più potute disputare in quel modo, troppo era il rischio per gli atleti. Per non essere costretti a ridurre il programma da 24 a 12 ore, gli organizzatori si inventarono una soluzione geniale: le corse si sarebbero disputate a coppie. Non è dato sapere se Teddy Hale abbia avuto o meno il suo letto di piume, ma dalle visioni di quelle prime Sei Giorni di fine secolo nacque un formato di corsa unico e leggendario. La storia delle Sei Giorni è piena di leggende, di imprese e tragedie in pista, di accordi sottobanco, di sfide a poker, fughe d'amore, concerti più o meno improvvisati a centro pista. Soprattutto di pubblico entusiasta, trascinato da quella stessa fame di intrattenimento dei primi spettatori americani. La storia delle Sei Giorni ha attraversato tutto il Novecento a cavallo tra sport e spettacolo. Coppi, Van Steenbergen, Sercu, Merckx, Moser, Martinello, Zabel, Viviani, Cavendish... la lista dei campioni del ciclismo diventati più grandi grazie (anche) alle Sei Giorni è lunga. Così come la storia dei sold out di velodromi e palazzetti in oltre cento città del mondo: Parigi, Gent, Berlino, Zurigo, Rotterdam, Brema, Grenoble, Amsterdam, Monaco, Bruxelles... e naturalmente Milano, che nel 1980

raccolse al Palasport di San Siro 103.588 spettatori. Da una città all'altra un manipolo di corridori, agenti, massaggiatori, meccanici e semplici showmen portavano in giro per l'Europa uno spettacolo unico, come un circo su due ruote. In ogni velodromo una sfida, un aneddoto e una vicenda differente. Non vi è seigiornista al mondo che non abbia qualcosa da raccontare sulle sue avventure. Tom Simpson amava ricordare di quella volta in cui a Parigi riuscì a riposarsi mandando a pedalare un meccanico che gli assomigliava molto, ma fu ben presto smascherato per via del suo pessimo francese. I colleghi di Danny Clarke, pirata australiano delle piste amatissimo dal pubblico per le sue esibizioni canore sul palco insieme alla band di turno, ne ricordano le incursioni notturne ad abbassare le selle degli avversari per ostacolarli. Altri racconti si perdono nella leggenda. Come la caccia più lunga di sempre: l'attacco che gli svizzeri Hans Knecht e Ferdi Kübler lanciarono nel '47 a Parigi, innescando una bagarre che si protrasse dalle 14 alle 22. Meno fantasiosa ma altrettanto leggendaria fu invece un'esibizione a centro pista alla Sei Giorni di Milano del 1981, con ospite una giovane artista di nome Cicciolina. Un ordinario balletto tramutatosi presto in uno spogliarello in prima serata, con i funzionari del Palasport a inseguire l'artista sul

palco gettandole addosso i cappotti per coprirla. In pista o intorno, alle Sei Giorni lo spettacolo da raccontare non è mai mancato. La natura ibrida è il punto di forza di una Sei Giorni. Sport, spettacolo e intrattenimento creano da sempre una miscela in grado di attirare l'appassionato di ciclismo tanto quanto il curioso, le famiglie e i party-animals. Alle Sei Giorni si può andare per vedere una corsa ma anche solo per bere in compagnia. Parenti e amici dei corridori locali hanno l'occasione di fare il tifo da vicino ripetutamente, gli amatori possono cogliere nel dettaglio i trucchi da replicare alla successiva uscita in velodromo, i genitori ne approfittano per regalare uno spettacolo indimenticabili ai figli, con la speranza nemmeno troppo nascosta di avviarli così al ciclismo. Eppure, questo scenario ideale si è nel tempo affievolito, fino a rendere il concetto stesso di Sei Giorni un qualcosa di antico, riferito a un ciclismo che fu, ad un'epoca forse non eroica ma indubbiamente passata. La formula di gara si è trasformata profondamente col trascorrere dei decenni: dalle 24 ore delle origini agli attuali programmi serali, incentrati prevalentemente sulle americane, cui si alternano altre discipline altrettanto spettacolari come corse a punti, eliminazioni, scratch, derny, giri lanciati... disputate talvolta


20

pista

21

Format. Team di due atleti, uomini e donne, i migliori talenti U21 per sei giorni di corse.

in coppia e altre singolarmente. Ma nonostante le mutazioni, le Sei Giorni sembravano aver ormai imboccato un declino ormai irreversibile, testimoniato da un calendario via via più ristretto. Dopo le grandi capitali, che già avevano salutato i propri eventi negli anni '80, l'ultimo decennio ha visto chiudere persino Dortmund, Monaco, Grenoble, Amsterdam e Zurigo. In Italia dopo l'effimero rilancio di Milano a fine '90, sono rimaste soltanto la saltuaria kermesse di Torino e la travolgente passione di Fiorenzuola d'Arda, con la 23a edizione già programmata per il prossimo mese di luglio. Eppure, ogni crisi ha una soluzione, e anche le Sei Giorni sono finalmente pronte ad uscire da questa fase buia, attraverso due ricette abituali: innovazione e persistenza. L'inverno delle Sei Giorni è cominciato seguendo esattamente queste due strade: due modelli e due storie completamente diverse, che segnano insieme la strada – anzi la pista – da seguire per salvare e rilanciare la più antica delle competizioni ciclistiche.

È una storia lunga quella della pista britannica, che risale almeno in parte agli effetti del divieto di gareggiare su strada, rimasto in vigore in Gran Bretagna per tutta la prima metà del Novecento. Il risultato fu un fiorire di velodromi, molti dei quali ancora in uso nonostante i regolamenti moderni che li considererebbero obsoleti. È proprio Londra la sede della prima sfida assimilabile a una Sei Giorni nella storia: l'anno è il 1868, le biciclette sono ancora le penny-farthing, bicicli dotati di un'enorme ruota anteriore. La pista di Wembley ospita una Sei Giorni quasi ogni anno sino al 1980, stagione in cui anche in Gran Bretagna giunge l'oblio. Non definitivo, però, perché il rilancio del ciclismo su pista comincia presto e con un obiettivo chiaro: le Olimpiadi di Londra 2012. Per i Giochi di casa viene costruito un centro ciclistico invidiato da tutto il mondo, e in mezzo al Lee Valley VeloPark, tra circuiti per mountain bike e BMX, svetta The Pringle, il velodromo a forma di patatina fritta grazie al quale la storia delle Sei Giorni sta scoprendo una nuova pagina.

Parlare di ciclismo su pista oggi significa inevitabilmente guardare alla Gran Bretagna, luogo di riferimento per risultati, pratica, programmazione.

Nel 2015 Londra è tornata ad abbracciare la sua Sei Giorni all'interno del parco olimpico. A rilanciare il progetto è stata la Madison Group, società


22

pista

organizzatrice che ha voluto ripensarne il concetto in ottica moderna. James Durbin, l'amministratore delegato di Madison Sports, spiega che l'intento è sempre stato quello di «rilanciare l'amato formato dandogli un aspetto nuovo, che combinasse la corsa classica con un intrattenimento accattivante. Ma le Sei Giorni saranno sempre un omaggio a un'epoca d'oro del ciclismo: è importante salvarle ed educare il pubblico su questa storia. Fargli capire perché ci sono ancora le cabine per i corridori a centro pista, anche se non dormono più lì». E dentro al velodromo il nuovo approccio si coglie immediatamente: la pista è colorata da luci e loghi animati, il dj alterna per tutta la sera brani scelti apposta per ogni prova, le presentazioni avvengono su un palco con musica a palla e luci intermittenti, in tanti momenti sembra più di trovarsi in un club anziché in velodromo. È una forma diversa di festa applicata al ciclismo. La differenza la colgono bene i membri della Beefeater Band, instancabili animatori dei tapponi di montagna del Tour ma semplici spettatori a Londra: «Al Tour è tutta una questione di attesa: stai lì dal mattino per vedere 15/20 minuti di corsa. Qui

Nel 1878 a Londra un certo David Stanton dichiarò per scommessa di poter pedalare per 1000 miglia in sei giorni. Il giornale Sporting Life accettò la sfida e mise in palio £100. Alla London’s Agricultural Hall davanti a una folla in visibilio Stanton vinse la sua scommessa in soli 5 giorni.

la festa segue la corsa tutta la sera, la vedi crescere, l'atmosfera è elettrica». La novità portata da Madison non si limita al contesto, ma anche al programma. A Londra le gare sono corte, il programma si chiude prima delle 23, tutto va in diretta tv. Il risultato è che la gara non ha un attimo di respiro. «Più è veloce, più si divertono pubblico e corridori», commenta Magnus Bäckstedt, il vincitore della Roubaix del 2004, aggirandosi a centro pista. Un'impressione condivisa anche da Elia Viviani, l'uomo dalla bici d'oro: «La gara diventa durissima, più di un mondiale. Perché sali su e fai due ore a 120/130 pedalate al minuto per sei sere di fila. È una gara di altissimo livello, vi inviterei a salire». L'iridato di Rio quest'anno è tornato a Londra, in una città che ama tantissimo ma in un

Fan & Fun. Ciclisti appassionati e spettatori occasionali, questa la ricetta vincente delle Sei Giorni.


24

pista

25


velodromo che gli riporta ricordi infelici, quelli di un mondiale e di un'olimpiade sfumati in due giri di pista. «Sono emozioni forti. È bello rivedere il villaggio dove stavo alle Olimpiadi, ma all'ingresso del velodromo il magone è arrivato. Forse la cosa migliore è tornare per la Sei Giorni, perché in un ambiente simile è impossibile non divertirsi. E il pubblico inglese è affezionato a me dopo gli anni in Sky, la Sei Giorni sta cambiando il mio rapporto con questo velodromo, specie se dovessi vincerla». Divertirsi resta il primo scopo di tutti a una Sei Giorni, pubblico e corridori, ma per i secondi c'è di più. C'è il

naturale desiderio di vincere, in prove che una volta qualcuno sussurrava fossero sovente combinate ma mai facili per nessuno, e c'è l'obiettivo di costruire una relazione. Perché durante una Sei Giorni la pista diventa la sede di un esperimento sociale, il territorio di un rapporto di coppia. Gli abbinamenti delle kermesse sono stabiliti dagli organizzatori, con un occhio di riguardo rispetto ai desideri dei ciclisti. «Una volta – racconta il veterano Iljo Keisse – c'erano coppie fisse, come Martinello/Villa o Risi/Betschart, che facevano tutta la stagione. Ora ogni volta c'è una nuova combinazione. Per i ciclisti è più difficile, e anche il pubblico si affeziona meno». Viviani

ad esempio a Londra ha voluto correre con Simone Consonni, ricreando la coppia titolare della nazionale per le prossime Olimpiadi: «Abbiamo capito che c'è ancora molto lavoro da fare, e una Sei Giorni è il contesto ideale per creare l'intesa». È necessario un feeling per correre su pista, qualcosa che torna utile in ogni competizione ma che solo l'esercizio ripetuto in velodromo può dare. L'intesa sui cambi nella coppia, o quella più improvvisata con i guidatori di derny, figure quasi mitologiche del ciclismo su pista che animano le riunioni spingendosi a tutta velocità. Con i corridori il rapporto è fatto di Oh! (rallenta) e Alé! (accelera), ma è con il pubblico che i piloti di

Elia Viviani voleva vincere, per un velocista non c'è cosa più divertente di una vittoria. La magia di una Sei Giorni sta tutta in quello scatto finale, che si ripete da oltre un secolo. «Tutti sperimentano quel momento di vittoria o sconfitta contemporaneamente e tutta questa serie di emozioni convive nello stesso istante».


28

On-Off. Le Sei Giorni sono una continua alternanza di azione e riposo.

pista

29


30

pista

La storia delle Sei Giorni è piena di leggende, di imprese e tragedie in pista, di accordi sottobanco, di sfide a poker, fughe d'amore, concerti più o meno improvvisati a centro pista.

derny si esaltano. Un vocabolario fatto di accelerate rumorose, di gesti con le braccia a chiamare la ola sugli spalti, di smorfie e danze a centro pista. Se le Sei Giorni sono un circo, i piloti dei derny sono la più genuina incarnazione delle famiglie circensi, non a caso si tratta di un mestiere ereditario, come conferma Ron Zijlard, figlio e nipote di pacer, che di mestiere lavora al catering di famiglia ma che appena può scappa in velodromo. «Sono sempre pronto per una Sei Giorni», ammette con un sorriso che sintetizza passione e voglia di divertirsi. La Sei Giorni è un esperimento sociale, un gioco delle coppie aperto a triangoli e tradimenti. In ogni giornata in pista c'è spazio per più competizioni. Al programma ufficiale si affiancano omnium femminili, competizioni giovanili o paralimpiche, in alcuni casi – come a Londra – un torneo riservato agli sprinter con protagonisti di primordine. È un gioco in cui è fondamentale l'improvvisazione,

la capacità di rimodellare il programma in corso d'opera quando una caduta o un rallentamento fanno saltare le tabelle di marcia, talvolta anche di scombinare le coppie. Elia Viviani sostiene che ci vogliano almeno un paio di giorni per formare l'intesa in una coppia; al suo concittadino Michele Scartezzini è capitato di dover cambiare compagno alla terza sera della Sei Giorni di Gent. Due infortuni diversi, due corridori spaiati, una nuova coppia che si crea. La fortuna per Scartezzini è stata l'aver trovato nel nuovo compagno un veterano della pista e un vecchio amico, Moreno De Pauw, col quale il feeling era già nato. Quello che Scartezzini non poteva aspettarsi era di accompagnare De Pauw nella sua ultima corsa, culminata con un giro di pista attraverso un tunnel di bici alzate dagli avversari: «Mi emoziona, proprio perché siamo buoni amici. Quando ho saputo che era il suo ultimo anno mi è dispiaciuto, e immaginavo che l'ultima sarebbe stata in casa. Moreno qui ha un'intera

curva di tifosi, e alle Sei Giorni il pubblico si sente, soprattutto in Belgio, soprattutto a Gent. È una festa assurda». La festa assurda avviene ogni mese di novembre, quando il circo della pista si ritrova nel capoluogo delle Fiandre Orientali, in uno dei velodromi più celebri al mondo: 't Kuipke. Da fuori un anonimo palazzone grigio squadrato, dentro una pista/catino di soli 166 metri, che viene aperta per una sola settimana all'anno: quella della festa. Se la Sei Giorni di Londra rappresenta l'approccio nuovo a questa disciplina, quella di Gent è la persistenza della tradizione. Dal 1922 il Kuipke fa registrare ogni anno il tutto esaurito, senza avvertire crisi. Seimila persone che si accaparrano i biglietti con mesi di anticipo e che ogni sera riempiono il velodromo, soprattutto a centro pista. Perché i fattori che rendono unica la Zesdaagse di Gent sono diversi: la tradizione fiamminga, la storia gloriosa, la pista corta e velocissima, ma ciò che spicca è soprattutto il pubblico.


32

pista

Il Derny. È una gara di endurance dietro moto che si disputa su distanze tra 25 e 40 km.

Laddove negli altri velodromi stanno i tavoli dei vip, a Gent sta il popolo del ciclismo, le birre scorrono e i bicchieri vuoti vengono impilati in improbabili torri che gli spettatori alticci si divertono a saltare. Si dice che Gent sia una città che ama le feste: la Sei Giorni è la sua sagra invernale. Ogni gara si conclude con una marcetta, e a metà serata la corsa si ferma per lo spettacolo: cantano le celebrità locali, come alle Sei Giorni di un tempo, ma senza un palco. Girano in pista anche loro, al Kuipke la pista è il palco. «A Londra la storia va ancora creata, a Gent la senti quando entri – dice Viviani –. Il pubblico è sempre pauroso alle Sei Giorni, ma in Belgio si parla di una festa vera e propria. Tanto che al 70% delle persone quasi non importa nemmeno come vada a finire la gara». Una festa che Iljo Keisse, nato a un chilometro dal Kuipke e vincitore per sette volte della kermesse di casa, conosce come nessun altro: «Il pubblico è vicinissimo alla pista, lo percepisci e vedi come reagiscono immediatamente. Basta guardarsi intorno, non c'è nulla di simile al mondo». E anche quest'anno Keisse ci ha provato fino all'ultimo. Accoppiato con Mark Cavendish ha attaccato ad ogni prova, sino all'americana finale, quando a 30 giri dal termine l'accelerazione dell'eroe di casa provoca un boato che sconquassa il velodromo. Ma il pubblico a Gent può fare tutto tranne che decidere il risultato. Keisse e Cavendish vengono ripresi e sul contrattacco

33

sono due coppie fiamminghe a portarsi in testa, divise da un punto soltanto. Jasper De Buyst e Tosh van der Sande sono convinti di averla in tasca, ma è il guizzo sul traguardo di Kenny De Ketele (in coppia con Robbe Ghys) a spuntarla mentre l'impianto spara a tutto volume un remix di un valzer di Strauss. Sei giorni di corsa si decidono in pochi metri di volata. Proprio come a Londra, 20 giorni prima. Elia Viviani voleva ricucire il suo rapporto col velodromo di Lee Valley divertendosi, ma per un velocista non c'è cosa più divertente di una vittoria. Eppure, a tre giri dal termine dell'ultima caccia, Cavendish sembrava potercela fare a rovinargli i sogni un'altra volta. Un attacco secco, a bocca spalancata, capace di far alzare dai seggiolini tutto il pacato pubblico britannico. Un attacco risuonato nelle orecchie di Viviani come una campanella, come quella dell'ultimo giro. Viviani che risponde in progressione dalla coda del gruppo: al penultimo passaggio dal traguardo è già davanti ai rivali; non resta che un giro d'onore, velocissimo, a trasformare le emozioni sul volto del pubblico. Dall'euforia alla delusione, quindi alla più genuina incredulità. La magia di una Sei Giorni sta tutta in quello scatto finale, che si ripete da oltre un secolo. «Tutti sperimentano quel momento di vittoria o sconfitta contemporaneamente – osserva affascinato James Durbin – e tutta questa serie di emozioni convive nello stesso istante».


1/2

200 MT

LE D E L L A

INSEGUIMENTO

LI N E E P I S T A

D

LIN

IR IP OS O

TRAGUA R D O D ELL’

EA

CE

FA

LE ST E

LI

D

G

E

LI

ST

AY

ER

NE

AN ERA

DI M I S U R A Z I ONE (CORDA)

ROS LINEA

TRAGUA R D O D ELL’

INSEGUIMENTO TRAGUARDO

SA

I SC

A

E IV DE

LO

S CI

TI


2/2 Costa Azzurra o fascia di riposo

È una fascia di colore azzurro larga almeno il 10% della larghezza della pista. Non fa parte della pista per quel che riguarda la competizione, i corridori che durante le prove la solcano regolarmente vengono richiamati. Nella gara ad eliminazione chi la utilizza viene eliminato anche se non è l'ultimo corridore che transita sul traguardo. Durante le prove a tempo (inseguimento, chilometro, etc.) la fascia di riposo viene interdetta mediante l'apposizione di cuscinetti (in genere di gommapiuma, uno ogni 10 metri) per tutta la lunghezza delle curve. Solo nella velocità è permesso andare sulla fascia di riposo all'inizio della prova, quando le velocità sono così basse che stare su in curva sarebbe pericoloso.

Linea Nera dell'inseguimento o corda

È una linea nera larga 5 centimetri. tracciata a 20 centimetri. dal bordo interno della pista (cioè alla fine della fascia di riposo); su questa linea nera viene misurata la lunghezza pista. È numerata ogni 10 metri e marcata ogni 5. È la strada più corta per arrivare al traguardo ed è la linea che deve saper tenere un buon inseguitore.

Linea Rossa dei velocisti

È una linea rossa larga 5 centimetri. tracciata a 85 centimetri. dal bordo della pista (fine della fascia di riposo). Il suo nome deriva da tutta una serie di regole della specialità regina, la velocità, madre di tutte le prove in pista. All'interno della linea dei velocisti valgono delle specifiche regole di precedenza.

Linea Celeste degli Stayer

È una riga di colore azzurro/blu larga 5 centimetri. che dovrebbe trovarsi ad un terzo della larghezza della pista o comunque ad un minimo di 2,5 metri dal bordo interno. Il suo nome è ora piuttosto in disuso dopo che la specialità Dietro Moto è stata abbandonata. La linea torna comunque utile negli allenamenti, mentre si eseguono delle prove con alcuni corridori e agli altri viene ordinato di girare sopra oppure sotto la linea degli stayer.


38

pista

Gli angoli della mia vista stanno sfumando al nero, tutto quello che vedo è un’immagine fissa, una riga nera sul pavimento che tento di seguire, sono dentro una vecchia fotografia in cui il colore si è dissolto e dentro a cui io galleggio... Forse sto morendo.

record dell'ora Record dell’Ora Aguascalientes, Messico 16 Aprile 2019 Victor Campenaerts Velocità: 55,089 km Rapporto: 61x14T RPM: 101.3

39


40

pista

cover story

Fino alle 14:17 del 3 novembre 2019 il detentore del Record del Mondo dell’inseguimento su pista era l'americano Ashton Lambie con il tempo di 4’06”407, stabilito a settembre in Bolivia, in altura, nel corso dei Pan-American Championships. Fino a quel momento quella di Filippo Ganna (nella foto) di cimentarsi nel record dell’ora, era soltanto un’ipotesi. Un’idea. Nella mattinata di quel giorno a Minsk, in Bielorussia, nel corso della World Cup UCI su pista, si era disputata la prova di qualificazione e Filippo aveva già battuto il record del mondo con un tempo di 4'04"252, che corrisponde a una potenza di oltre 600w media. È pazzesco. Se non vi è chiaro in cosa consiste una gara a inseguimento, ecco qui: partenza da fermo, poi si corre da soli sulla distanza dei quattro chilometri. Filippo, già tre volte Campione Mondiale della disciplina e Campione Europeo durante la finale ritoccava

ulteriormente il record stabilito poche ore prima migliorandolo di quasi 2” secondi: 4'02"647 alla media di 59,345 km/h. Alle 14:18 il record era suo. «Se fossimo in altura il muro dei 4’ minuti sarebbe già caduto» ha dichiarato watt alla mano Marco Villa, c.t. azzurro della pista. 
Alle 14:45 del 3 novembre Filippo Ganna stava in piedi dal gradino più alto del podio e riceveva la sua medaglia d’oro. È in quel momento che probabilmente deve aver pensato per la prima volta che il Record dell’Ora, adesso, non è più soltanto una idea: è un obiettivo. E lo abbiamo pensato anche noi. Speriamo che presto diventi un progetto.

Un’ora di birra, gratis

Pochi istanti dopo aver stabilito il record dell'ora un Campenaerts ancora madido di sudore e scosso dal fiatone, ha voluto lanciare la sua prima dedica. «I miei tifosi sono tutti ad Anversa. Stasera troveranno birra gratis al Café Mombasa. Se non sei un fan, puoi tranquillamente diventarlo». Campenaerts non lo sapeva, ma le scorte al Mombasa erano già esaurite. Tanto che il proprietario del locale, suo zio Bob, dovette fare il giro dell'affollata piazza per chiedere in prestito a tutti i bar altri fusti di birra. 350 litri consumati in quella prima ora, altrettanti in quelle successive: «Abbiamo smesso con la birra gratis quando le persone non stavano più in piedi». A quanto ammontasse il conto finale, diviso equamente tra Victor, il bar e la Lotto-Soudal, non lo sa dire nessuno con precisione. Forse bisognerebbe chiedere alla gigantografia di Stan Ockers che campeggia all'interno del bar. O forse no, a quanto pare quella sera hanno brindato anche i muri».

41


42

cover story

cover story

Testo Luca Saugo / Suiveur

Foto Chiara Redaschi

ciclo cross «L’atmosfera e i fan sono davvero grandiosi. È stato bello correre il Campionato Europeo in Italia. Dovremmo correre più spesso qui». [Mathieu van der Poel]

43


44

ciclocross

L’Europeo Ciclocross di Silvelle ci dice che l’Italia deve assolutamente investire nel ciclocross: ce lo chiede il ciclismo.

Circa diecimila le persone giunte la scorsa domenica 10 novembre a Silvelle di Trebaseleghe, piccola cittadina nella campagna tra le province di Treviso e Padova, per vedere dal vivo il Campionato Europeo di Ciclocross. Numeri incredibili e ben superiori a quelli che fanno, per rimanere in zona, Treviso Basket e Benetton Treviso Rugby. Ma d’altronde il ciclocross, in Italia, ha sempre avuto un grande seguito. Ai Mondiali di Varese del 1965 ad esempio, c’erano ventimila persone ad assistere al duello tra il nostro Renato Longo e il tedesco Rolf Wolfshohl.

fantastico e spero che molti tra coloro che ci leggono abbiano avuto la fortuna di viverlo, proprio come l’ha avuta chi vi scrive. L’organizzazione è stata perfetta come lo sono stati i tifosi e gli spettatori. Ovviamente, loro, gli atleti, i grandi protagonisti di tutto ciò, non sono stati da meno. L’aggettivo che viene in mente è strepitosi. In sella e giù dalla sella. Perché ti rendi conto di assistere a qualcosa di speciale quando di fianco a te, a vedere la gara, c’è Sven Nys.

Silvelle ha anche una grande tradizione. Negli anni ’90 il Superprestige faceva tappa qui e per la Rai non la commentava la terza/quarta voce, ma nientemeno che il grande Adriano De Zan. Il quale, peraltro, ogni anno se ne usciva con la stessa, fantastica, gag per chiedere notizie su Pantani a qualche suo ospite: da Pontoni a Pantani il passo è breve e, allora, chiediamo: come sta il Pirata? (scusate, mi ero ripromesso che prima o poi lo avrei scritto per omaggiare il Maestro).

Un po’ come assistere a una partita di basket a lato di Michael Jordan. Oppure quando Yara Kastelijn, bardata con la sua sfolgorante maglia di campionessa d’Europa, va in mezzo alla gente per seguire la gara degli uomini Élite sul maxi schermo.

Ma qua si va oltre alla sola tradizione. Domenica il Veneto e l’Italia hanno urlato a gran voce che il ciclocross, qua, si ama. Ma lo si ama proprio tanto. Silvelle è stato un evento

Lo sapete chi è, Sven Nys?

E allora, viene da chiedersi se il cross e i crossisti italiani non meritino maggiore considerazione; le grandi prestazioni di Lechner, Arzuffi – okay, da lei ci si aspettava anche qualcosa in più, ma non è certo stata autrice di una brutta prova – De Pretto, Masciarelli, Realini e Baroni, non dovrebbero passare sottotraccia. Non possiamo certo organizzare un Europeo all’anno in Italia, ma una tappa di Coppa del Mondo o


Mecca italiana. Silvelle, in provincia di Padova, dal 1979 è il luogo più importante del ciclocross italiano.

Classifica Silvelle 2019 elite man 1. VAN DER POEL Mathieu (NED) 2. ISERBYT Eli (BEL) 3. SWEECK Laurens (BEL)

elite woman 1. KASTELIJN Yara (NED) 2. LECHNER Eva (ITA) 3. WORST Annemarie (NED)

U23 uomini 1. CRISPIN Mickael (FRA) 2. KIELICH Timo (BEL) 3. BENOIST Antoine (FRA)

U23 donne 1. DEL CARMEN ALVARADO Ceylin (NED) 2. KAY Anna (GBR) 3. NORBERT RIBEROLLE Marion (FRA)


ciclocross

Women. Tra le donne è Jara Kastejin a vincere il Campionato Europeo.

Superprestige assolutamente sì. Negli anni ’90 eravamo presenti in entrambe le competizioni, perché non riprovarci anche nel decennio che sta per iniziare? Questi tifosi hanno incitato tutti gli atleti, dal primo all’ultimo, con grandissima sportività: poi, va da sé, per van der Poel sono partiti – addirittura – boati di Pantaniana memoria; e con loro questi ragazzi e ragazze con la bici in spalla hanno dato tutto quello che avevano in mezzo a un lago di fango. Ecco: tutti questi, insieme, meritano che Silvelle non resti un caso isolato. Silvelle

49

deve essere un punto di partenza, anzi, di ripartenza. Un nuovo inizio per il cross italiano. Perché, alla fine, Silvelle ci dice questo: il ciclocross in Italia ha un futuro. Un futuro che poggia le sue fondamenta su una grande tradizione nata con Longo e Severini, proseguita con Pontoni e Bramati e ora portata avanti da Lechner e Arzuffi. E allora, chi di dovere, non giri la testa dall’altra parte e faccia in modo che il cross italiano torni definitivamente nel posto che gli compete, perché la passione della nostra gente per questa disciplina divampa più che mai.


Foto Chiara Redaschi

Testo Davide Bernardini / Suiveur

Van der Poel e il carro solare

Pur non dominando, van der Poel batte Iserbyt nell’Europeo di ciclocross. Il percorso di Silvelle, così come il piccolo paese di Silvelle, è tagliato a metà dal Dese, un fiume che secondo alcuni storici ha fatto in tempo persino a rientrare nella mitologia. La leggenda, infatti, vuole che nelle acque del Dese vi sia affogato Fetonte, reo d’aver perso il controllo del carro solare che il padre Helios gli aveva permesso di guidare per un giorno. Quando vide che a causa della sbandata vennero prosciugati i fiumi, bruciate le foreste e incendiato il suolo, Zeus colpì il carro con un fulmine facendo cadere Fetonte in acqua. Van der Poel adora recitare da Fetonte, o forse non recita proprio niente, limitandosi a compiere il suo destino. Oggi, tuttavia, una forma in divenire e la qualità del Belgio lo hanno limitato. L’aspetto più inquietante di Mathieu van der Poel è che non è imbattibile: se lo fosse, infatti, non apparterrebbe a questo mondo, dato che l’imbattibilità non esiste se non potenzialmente o utopisticamente, e se non fosse di questo mondo di cosa dovrebbero preoccuparsi i suoi rivali? E invece van der Poel è battibile, ma non perde quasi mai, da qui lo scoramento di tutti gli altri: è davvero di questo mondo, allora, e tutti se ne devono preoccupare. La vittoria nei campionati europei di ciclocross di Silvelle è emblematica, da questo punto di vista. Qualcuno, infatti, ha detto che ha vinto, certo, ma che non ha poi dominato; oppure che in testa alla corsa si sono avvicendati perlopiù atleti belgi; o che, ancora, mancava Van Aert, una sorta di criptonite per lui. Che abbia tenuto testa ai migliori crossisti del Belgio e che ridimensioni, ogni volta, il significato della vittoria, dovrebbe essere sufficiente a rammentare la sua unicità; se si vuol essere pignoli – e per parlare di una qualsiasi cosa bisogna sempre esserlo – si deve ricordare che questa prima è stata la sua seconda prova stagionale di ciclocross, che pochi giorni prima aveva vinto anche l'altra e che per metterlo in difficoltà c’è voluto Eli Iserbyt, un predestinato in stato di grazia. Di fulmini all’indirizzo di van der Poel ormai Zeus ne scaglia pochi, altrimenti ne rimarrebbe sprovvisto. Zeus ha imparato, col passare del tempo, che la tracotanza e la superbia sono deprecabili ma allo stesso tempo affascinanti, tanto da poter coincidere con la bellezza e l’appagamento dei sensi. E allora Zeus rimane seduto sul suo trono e osserva. Ultimamente, però, si racconta che sia più nervoso e irascibile del solito: è sicuro che sia nato l’uomo in grado di ribaltarlo e teme che il momento fatidico sia irrimediabilmente arrivato.


L'

era glaciale Testo Davide Marta Danilo Noro

Effetto drone. Il Canavese visto dal castello di Masino. Sullo sfondo il lago di Candia.

Foto Daniele Molineris

Non si può più percorrere con sci e pelli il ghiacciaio Balteo così come si presentava 130.000 anni fa, nel momento della sua massima espansione. Però si può percorrere ciò che è rimasto della sua presenza, l’Anfiteatro Morenico di Ivrea. E una bici gravel è il mezzo ideale per questo viaggio nel tempo.


54

gravel

Circa un milione di anni fa il clima subì un deciso cambiamento: le precipitazioni si fecero più numerose e si distribuirono con maggiore regolarità lungo l’arco dell’anno, mentre le temperature medie estive subirono un deciso abbassamento. Il mutamento climatico provocò la nascita e l’espansione dei ghiacciai alpini che, durante la fase del loro massimo sviluppo, colmavano quasi completamente le valli, lasciando emergere solo le cime più elevate. Le lingue glaciali spesse alcune centinaia di metri fluivano lungo le valli, approfondendole e allungandole, spingendosi in alcuni casi fino allo sbocco in pianura. Qui depositavano il materiale detritico prelevato a monte, edificando imponenti anfiteatri morenici.

È un sintetico riassunto della storia geomorfologica dell’Anfiteatro Morenico di Ivrea, la zona del Canavese in cui vivo. Approfondisco. Leggo che l’unico ambiente che oggi può lontanamente ricordare quella situazione è visibile in certe zone dell’Alaska, con i rilievi completamente ricoperti di neve e ghiaccio e solo le vette rocciose più alte ad emergere dal bianco. Alaska? Neve? Ghiaccio? Per uno sciatore queste parole, stampate su un volantino informativo, sono come benzina sul fuoco, altroché era glaciale. Montagne ricoperte di ghiaccio e neve… Alaska. Dove l’ho già letto? Mi torna in mente un passaggio della biografia del freerider americano Doug Coombs, il primo ad aver esplorato, sci ai piedi e dall’alto verso il basso dopo aver raggiunto le cime con l’elicottero, le montagne inviolate attorno a Thompson Pass, in Alaska.

«L’elicottero si alzò in volo, sorvolando una montagna strabiliante dietro l’altra. Prendete i Teton, le Rocky Mountains e la Sierra, mischiate tutto e otterrete le Chugach Mountains dell’Alaska, una catena incredibilmente vasta dove si è registrato il record per la quantità di neve caduta in un anno negli USA - quasi venticinque metri. Qui tempeste apocalittiche provenienti dal Golfo dell’Alaska si incagliano nei rilievi, scaricando neve umida che ricopre i pendii più ripidi come sciroppo denso. Un fronte di aria gelida si riversa dall’entroterra trasformando quello sciroppo in zucchero polveroso. Era per solcare questo ben di Dio con le proprie solette che gli amanti dello sci lasciavano tutto quello che avevano, soldi e affetti, dormivano in trune di neve e vivevano arrabattandosi ai limiti della sussistenza. Sciare questa powder era meglio del sesso, creava dipendenza più della droga e valeva ogni singolo

Ombre e luci. I boschi sono una costante delle morene canavesane, ne sono completamente ricoperte.


centesimo speso per viaggiare fino alla parte più remota degli Stati Uniti, dove la vita era spartana e l’aria densa di un’energia selvaggia che ti faceva pensare che nulla fosse impossibile». Ho raccontato questa storia al mio amico Danilo. Ci siamo guardati per un attimo, ognuno viaggiando con la fantasia indietro nel tempo. Forse solo quelli come noi che amano tanto sciare in montagna aperta riescono a trovare un fascino così travolgente nell’idea di vallate ricoperte di ghiaccio e neve. Le nostre vallate, per di più. Entrambi, in quel momento, abbiamo immaginato il Canavese tutto bianco, sotto una coltre di materia bianca di qualche centinaio di metri, a filo con il margine superiore della maestosa Serra d’Ivrea. Una specie di Alaska, ancora di

più, dati i rilievi anche maggiori dell’arco alpino occidentale rispetto alle Rockies. In fondo viviamo proprio in una delle zone più caratteristiche, da questo punto di vista. «Chi, attraversate le Alpi giunge per la prima volta nella zona d’Ivrea, pensa di non avere mai visto delle vere morene prima», scrisse nel 1909 uno studioso tedesco, arrivato in questo territorio per studiarne la conformazione. Io l’ho scoperto con una ricerca su Google, mica lo sapevo prima. E non sapevo nemmeno tante altre cose di questo straordinario territorio, che ho poi imparato approfondendo la questione. Danilo ormai lo conosco bene. Stava pensando la stessa cosa che pensavo io. Voleva sciarlo questo ghiacciaio, voleva tornare indietro di 130.000

Montagne, sempre. Tutto dove ti giri è impressionante la presenza di montagne che in autunno sono spesso già imbiancate.

anni, al momento di massima espansione, per affondare nel ghiaccio le punte dei ramponi e delle piccozze all’altezza del lago di Viverone e risalire, tra formazioni ghiacciate e detriti di roccia, fino al culmine della Serra. Poi mettere le pelli e andare avanti, sfidando il dislivello, i crepacci, il vento e le condizioni meteo proibitive. Raggiungere le zone più alte, per poi rilassarsi finalmente, spingendo lo sguardo tutto attorno, osservando la pianura padana laggiù aprirsi oltre il ghiaccio. E infine, come Doug Coombs sul Dimond Peak, calzare gli sci e lasciarsi andare giù nella powder, per chilometri e chilometri, planando su tutta la base della vallata per poi imboccare i ripidi canali che riportano alla base del ghiacciaio. La sciata della vita, di una vita fa. Nelle giornate serene e fredde, con il cielo terso

e il Monviso laggiù che pare una sentinella, te la immagini davvero quell’atmosfera glaciale. Poi ti guardi in giro e di quel paesaggio non c’è più nulla. O meglio, non c’è più il ghiaccio, tra un po’ non ci sarà nemmeno più sopra i 3.000 metri, purtroppo, ma rimane indelebile l’impronta lasciata dal suo passaggio. Rimane solo quello. «La grande fiumana di ghiaccio proveniente dall’attuale Valle d’Aosta esercitò una immane forza espansiva sul cono di deiezione che si era formato allo sbocco della valle, scaricando nella pianura un’enorme massa di pietrame, ciottoli e sabbie. Le misure del ghiacciaio erano gigantesche. Una lunghezza di 120 chilometri, un’altezza di 800 metri, una superficie di oltre 500 chilometri quadrati, un diametro di 30 chilometri


58

cover «Passiamo vicino alstory Ciucarun, un curioso campanile romanico della chiesa di San Martino di Paerno, un paese che si è spopolato ed è sparito nel 1700».

gravel

e una circonferenza di 110 chilometri che ne fanno ancora oggi una tra le unità geomorfologiche di questo tipo meglio conservate al mondo. La morena laterale sinistra dell'antico ghiacciaio, la Serra di Ivrea, è la più grande formazione di questo genere esistente in Europa e si dirige con un percorso quasi rettilineo verso sud-est (pendenza media in cresta 2,7%) per circa 20 chilometri, sfrangiandosi poi nelle alture che circondano il lago di Viverone. Nella sua corsa a valle il ghiacciaio Balteo levigò e arrotondò i fianchi delle montagne che si trovavano sul suo percorso trasportandone i materiali di corrosione, i quali formarono un incredibile miscuglio di fango, sabbia, ciottoli e massi enormi, che trasportato dalla massa glaciale si depose sul fronte e sui lati del ghiacciaio formando il maestoso Anfiteatro Morenico di Ivrea».

Ciucarun. Un passaggio obbligato, poco sopra l'abitato di Bollengo.

Wow! E lì ci viene un’idea. Allora si può percorrere. Qualcosa è rimasto. Una traccia, uno scheletro esiste! Danilo ed io sappiamo anche come fare. Una bici gravel è quanto di più vicino possa esserci allo spirito dello scialpinismo freetouring, dove il concetto di esplorazione viaggia di pari passo con stile, estetica e pulizia della traccia. Una gravel non ha la potenza della mountain bike, non ha la leggerezza e la velocità della bici da strada, però ti permette di muoverti su tutti i terreni dell’Anfiteatro, tra strade bianche attorno a fiumi e laghi e tracce nei boschi, collegando le zone di depressione pianeggiante - la pancia del ghiacciaio che fu - con i margini più elevati della morena, composta dai detriti. Scivolare sulla neve dell'era glaciale non è come mordere lo sterrato con pneumatici da 38, ma questa è la

59

nostra possibilità. E, a dirla tutta, è una possibilità di gran lusso. Non c'è stato bisogno di troppa pianificazione, ci siamo messi al lavoro in fretta per tracciare un anello su strada sterrata coerente con lo stile gravel e che toccasse tutti i punti significativi dell'Anfiteatro. Ognuno ha iniziato a pedalare nella sua zona, lui attorno a Settimo Vittone, dove la Valle d’Aosta incontra il Canavese e dove ha sede il suo negozio XL Mountain, io attorno a Piverone dove invece c’è il quartier generale della casa editrice. Tra scorribande notturne sai che pedalare nei boschi di notte è un'esperienza da sciamano? -, tanti errori di percorso, qualche deviazione in mezzo ai campi di granoturco o ravanage in mezzo ai rovi, il percorso ha preso forma, seppur non quella definitiva. Quando è stato il momento di tirare le somme, eravamo stupefatti dai posti che avevamo scoperto, abbiamo trascorso ore a raccontarci di quella traccia nel bosco che improvvisamente diventava panoramica o della qualità di uno sterrato lungo un naviglio dimenticato. La sensazione di perdersi a pochi chilometri da casa, magari infilando quel bivio che passando ogni giorno con la bici da strada si vede inerpicarsi nei boschi, è qualcosa di sempre più raro. Eppure è proprio così, come quando si scollina un panettone bianco con le pelli, pensando di iniziare la discesa nella valle a fianco, e invece si apre davanti agli occhi uno scenario inaspettato, tutto da scoprire e da tracciare. Gravel e scialpinismo, ghiaccio, polvere e fango. Pensando che quel fango, magari, è lì perché l’ha trascinato il ghiacciaio Balteo da chissà dove, su nelle valli. Poi abbiamo finalmente deciso di mettere


60

gravel

Terrazza. Sbucando nei giardini del magnifico castello di Masino, proprietà del FAI.

Il Gesiun. Quel che resta e che è stato ristrutturato della chiesa dell'anno 1000 tra le vigne di Piverone.

«Plego»

Il giorno che abbiamo scattato le foto del servizio con Daniele Molineris ci siamo spostati in auto tra alcuni dei punti più significativi del giro. Era l’unico modo per fare un lavoro ben fatto. L’unica brevissima pausa è stata in un bar a Borgomasino, addocchiato scendendo dal castello di Masino. Come tanti esercizi del genere nei nostri paesi, è gestito da una famiglia cinese. La signora, gentilissima, ci ha accolti chiedendoci in un perfetto italiano cosa volessimo. Poi siamo scivolati sul più classico dei luoghi comuni. «Panino? Volete folmaggio? O plosciutto? O plosciutto e folmaggio?». Noi ridevamo sotto i baffi, come dei liceali un po’ stupidi. Poi siamo andati in bagno. Il cartello con «Prego lasciare il bagno pulito» era stato corretto da qualcuno con «Plego». Abbiamo capito che in giro c’era qualcuno più stupido di noi.


62

gravel

insieme i pezzi, di provarci. Lo abbiamo fatto un mercoledì mattina di inizio novembre, con la temperatura vicina allo zero, il cielo sereno, il Monviso (manco a dirlo) laggiù come una sentinella silenziosa e la corona di montagne tutto attorno imbiancate dalla prima, abbondante, nevicata di stagione. Non poteva, davvero, andare diversamente. La luce, qui, quando le montagne sono cariche di neve, è diversa. Tutto assume una tonalità che si può apprezzare pochi giorni l’anno. Una volta doveva essere sempre così. Immaginavamo di trovarci qui imbacuccati nei nostri piumini, con gli sci ben fissati allo zaino, gli scarponi in modalità walk e tutta l’attrezzatura con noi, invece eravamo in sella alle nostre Grail con le sacche piene di tutto quello che

cover story

poteva servirci e delle espressioni in volto un po’ preoccupate. Ce la faremo? Si parte. Lasciamo Piverone lungo la Francigena, in direzione di Palazzo e Bollengo, terreni mossi dall’ultimissima spinta del ghiacciaio, dopo che il grosso si era già ritirato. Si inizia presto a salire e a togliersi il freddo umido di dosso, le rampe della Serra mordono subito i polpacci. Passiamo vicino al Ciucarun, un curioso campanile romanico della chiesa di San Martino di Paerno, un paese che si è spopolato ed è sparito nel 1700, mentre lui, il suo campanile, è rimasto da solo a presidio di una vasta zona pianeggiante. Si tratta di una delle tante terrazze di kame dell’Anfiteatro, come sono definiti i ripiani che si formavano dal deposito delle acque di scolo che poi via via si riassorbivano. Sono zone fertili, che si trovano

Navigli. Le vecchie care cartine sono fondamentali per cucire i vari tratti di percorso, mentre a destra si pedala sui navigli che conducono alle chiuse della Dora sotto il castello di Mazzè.

63


«Non vero (e bello) come in uno smalto a zone quadre, apparve il Canavese: Ivrea turrita, i colli di Montalto, la Serra dritta, gli alberi, le chiese; e il mio sogno di pace si protese da quel rifugio luminoso ed alto»
 [Guido Gozzano - La signorina Felicita]

Livello del ghiaccio. Il lago di Viverone rappresenta il punto più basso dell'Anfiteatro. Il ghiaccio raggiungeva il livello della Serra (visibile sulla destra).


66

gravel

67

Night dream. Farsi cogliere dal buio è una piccola grande magia di un giro gravel da 200 chilometri.

su tutta la morena, e spesso vengono coltivate anche in mezzo ai boschi. Poi su, faticando un bel po’, verso la dorsale della Serra. Lassù si può raggiungere il single track in cresta, tanto caro ai biker, o salire in mezzo ai boschi per un tratto di asfalto non trafficato, tra luci e ombre di una fitta boscaglia antica. Qua e là si vedono residui di insediamenti, questa era una zona abitata, di grande importanza strategica per i Salassi, la cazzutissima popolazione canavesana che fu sottomessa dai Romani solo nel 350 a.C. dopo numerosi tentativi e gravi perdite di uomini. Ecco Andrate, una formidabile terrazza sul Canavese, ma anche su tutto il Piemonte in una giornata così, tappa selfie obbligata. Ancora di più San Giacomo, che si raggiunge con un tiro ripido che mette a dura prova la preparazione tardo autunnale, di noi ciclisti non esattamente professionisti. E via in falsopiano verso Trovinasse, per poi scendere in picchiata sul versante orografico di destra della bassa Valle d’Aosta, verso Cornaley e Settimo su asfalto, per godersi la velocità della discesa, e come filano le gravel anche su strada! L’aria fredda sul volto ci fa immaginare di tirare curve in neve fredda, polverosa, vergine, sul versante che non prende luce, con gli sluff tutto attorno ad accompagnarci nella discesa. Abbiamo percorso cinquanta chilometri, belli impegnativi, con panorami mozzafiato. Siamo stanchi, ma nessuno dei due osa dirlo. Saltiamo la Dora Baltea, la fiancheggiamo in direzione Ivrea lungo gli argini e tra i campi fino a Fiorano, dove si attacca la spalla sinistra dell’Anfiteatro, quella che si appoggia alla terminale della Valchiusella. È uno dei tratti più antichi della Morena insieme alla Serra, uno di quelli che

non è stato spazzato dai successivi cicli di glaciazione che hanno coinvolto il letto di avanzamento dei ghiacci. Si sale nei boschi, soffiando, faticando più di quanto pensassimo, ma tutto attorno è bellissimo e la bici va su agile come una moto da trial. Si scollina a Lugnacco e senza nemmeno tirare il fiato via ancora tra castagni, querce e noccioli fino a Brosso. Il percorso ci porta a scendere su Traversella, attraversare il Chiusella, arrampicarci (che ripido, mannaggia) in direzione della Bossola, ma solo fino a Pian Benecchio - per non sconfinare troppo in terreno da mtb e portage - per poi iniziare a scendere e buttarci su sterrato verso Rueglio. Qui possiamo tirare il fiato. Le energie iniziano a mancare, ci consola il pensiero che non incontreremo più tratti così tosti ma siamo consapevoli di non essere nemmeno a metà della traccia che avevamo ipotizzato. Non c’è tempo per le esitazioni: giù veloci in discesa ed eccoci di nuovo in pianura, pronti a percorrere una decina di chilometri tra boschi e campi, su strade fangose, vista la stagione, alternate a brevi tratti di asfalto su strade secondarie, ed ecco rialzarsi i rilievi morenici, a partire da Agliè, dove non ci siamo fatti mancare una sosta selfie davanti al meraviglioso palazzo ducale, residenza estiva dei Savoia. Per scollinare ci siamo arrampicati sulla morena di Vialfrè, anche qui alternando strappi di salita con incredibili pianori coltivati. Su questi prati, numerosi giorni l’anno, capita di vedere decine di falchi appollaiati tra l’erba. Li vedi alzarsi in volo come fossero corvi al tuo passaggio e ti domandi che cosa li abbia attirati a terra, tra l’erba brulla autunnale, loro così abituati a volare in alto. Sembra un regalo per noi, per incitarci a proseguire: pedalare con i falchiche ci volano attorno.

«Il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità, o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia da qualche parte, solo allora diventa un proposito, cioè qualcosa di infinitamente più grande». [Adriano Olivetti]


68

gravel

«Ivrea la bella che le rosse torri specchia sognando a la cerulea Dora nel largo seno, fosca intorno è l'ombra di re Arduino» [Giosuè Carducci] Prossimo obiettivo il lago di Candia (via Cuceglio, Montalenghe, Orio e Barone), eccezionale da circumnavigare spingendo la bici su sterrati che nulla hanno da invidiare alla Toscana. Di strada ne abbiamo già fatta tantissima, l’anello sembra legarsi in modo quasi naturale con un continuo di saliscendi dolci. Ci interroghiamo spesso su cosa sia veramente adatto al gravel e cosa

sia invece un po’ troppo spinto, regno più della mountain bike che del gravel. In fondo questo progetto è ancora work in progress e ci sarà tanto da fare, l’importante era buttare giù una traccia credibile e coerente. Dal lago di Candia ci spingiamo verso Mazzè, salutando il borgo medievale, il coreografico castello e filando giù verso le chiuse della Dora

Baltea. Lì, lungo un meraviglioso naviglio, pedaliamo su terreno gravel deluxe per almeno dieci chilometri, costeggiando Moncrivello e Maglione, ci portiamo alla base della morena su cui troneggia il castello di Masino, riportato ai fasti che furono dalla recente ristrutturazione del FAI. Saliamo, già belli avvelenati nelle gambe e spinti solo dall’entusiasmo di arrivare sulla terrazza con ancora sufficiente luce e - anche se ufficialmente non si potrebbe - lungo la strepitosa salita delle carrozze; attraversiamo la parte esterna dei giardini del castello godendo di una vista sull’arco alpino senza eguali. Ma ormai inizia ad imbrunire. La stagione è avanzata, possiamo solo immaginare la bellezza di questo posto a primavera inoltrata o in una lunga serata estiva. Durante le ricognizioni delle settimane scorse, quando abbiamo scattato le foto del servizio qui a Masino, ad est abbiamo notato dei rilievi bianchi emergere dalla foschia: sono il Cengalo, il Badile e il Disgrazia. Una meraviglia, per noi sciatori ancora di più, una botta di vita e una scarica di

69

adrenalina per proseguire. E allora avanti verso Cossano, quindi un taglio ancora su stupende strade in terra e ghiaia verso il lago di Viverone, il principale specchio d’acqua rimasto dal ritiro del grande ghiacciaio Balteo. È buio, procediamo con le luci accese, ma vogliamo completare il nostro giro. Siamo vicini ai 200 chilometri e le forze ci hanno abbandonati da ore. È solo l’entusiasmo a tenerci in sella. L’andatura ormai è blanda, l’attenzione cala, ci sono pozzanghere, qualche pietra e radici a cui prestare attenzione. Risaliamo da Cavaglià verso Roppolo, poi attacchiamo la Francigena in direzione di Piverone, il cielo è sereno e la luna piena ci accompagna, il lago di Viverone torna a farsi vedere nel punto più basso dell’Anfiteatro. Superiamo i ruderi del Gesiun, entriamo in Piverone come se avessimo appena vinto la Parigi Roubaix. Ma ci siamo solo noi, oltre a qualche passante che ci guarda un po’ stranito.


cover story

A quel punto non ci resta che toglierci gli sci e sederci su una roccia. Anzi no, poggiare le biciclette al muro della redazione, sederci sugli scalini di ingresso e guardarci un po’ increduli. Siamo in giro da 12 ore in paesaggi di cui conoscevamo l’esistenza, ma dove non avevamo mai provato ad addentrarci per davvero. Il nostro giro, al momento, misura 204 chilometri. Non l’abbiamo percorso interamente, abbiamo fatto qualche taglio per non perderci nella notte e per ottimizzare le forze. Ora però, lo vogliamo rifinire e cesellare. In primavera inviteremo un gruppo di persone per un giro di prova, poi potrebbe diventare qualcosa di più, un evento o un raduno, chissà. Ma soprattutto rimarrà come traccia disponibile per tutti, con varianti concentriche di chilometraggi inferiori e altre davvero incazzate per chi cerca un’esperienza gravel ai limiti della mtb.

Quello che ci piacerebbe trasmettere con questo progetto, però, è la voglia di esplorare, di scoprire anche le zone vicino a casa propria. Di prendere tanti piccoli pezzi e unirli in un unico anello che abbia una sua logica, una sua storia per realizzare un percorso coerente con l’idea iniziale. Noi lo abbiamo fatto e pensiamo che tutti lo possano fare. Insomma, seduti su quegli scalini al buio, io e Danilo siamo rimasti per un po’ in silenzio. Le scarpe ricoperte di fango, il casco in testa da 12 ore, le gambe ormai insensibili. Freddo nelle ossa. Poi, lui, ad un certo punto mi ha detto: «Chissà, con il tempo pazzo che c’è, magari una volta che fa un metro di neve in pianura riusciremo davvero a farlo con gli sci e le pelli questo giro». Noi sciatori siamo fatti così, incorreggibili sognatori.

Back in Piverone. È il paese dove ha sede la nostra casa editrice. Qui parte il nostro giro, qui l'abbiamo concluso un po' provati alla sera.


cover story

cover story

IRONMAN

ITALY EMILIA ROMAGNA

73


74

cover story

oltre lo sport

75

Volontà[ri] Nessuna gara ciclistica e di triathlon al mondo sarebbe possibile senza l’aiuto dei volontari. Volontario ha a che fare con volontà.

Testo e foto Federico Ravassard

Sono le 6 del mattino e a Cervia, sulla Riviera Romagnola, fa insolitamente freddo per essere settembre. Undici gradi, più o meno. Sto camminando in direzione del lungomare da cui tra poco partiranno gli atleti dell’Ironman, guardandomi intorno per cercare volti familiari anche se non credo che ne incontrerò parecchi. Per farla breve, sono finito qui perché Emilio, forse neanche troppo seriamente, mi aveva chiesto se fossi curioso di assistere ad un Ironman, forse per capire quale potesse essere la percezione di una persona completamente estranea a questo strano mondo fatto di ruote lenticolari e gente che cerca di infilarsi body attillati nel minore tempo possibile. Intorno a me c’è una folla variegata, composta da figure già schiacciate nelle loro mute, ansiosi che si stanno riscaldando, pignoli che controllano ancora una volta la pressione delle gomme prima di lasciare la pompa al disgraziato di turno - quasi sempre mogli, mariti, partner vari abbindolati per l’occasione - che dovrà scarrozzersela in giro per il resto della giornata. Qualcuno è in acqua, dove effettivamente si sta meglio che fuori, come posso capire da solo quando, tolte le scarpe, faccio qualche metro in mare per portarmi più avanti rispetto alla linea di partenza. In prima linea gli élite sono già schierati, dietro di loro, a scaglioni, tutti gli altri. Hanno tutti una cuffia azzurra, e la scena

vista da fuori ha un che di comico. Immaginate centinaia di persone con delle mute nere e la testa color puffo che saltellano una a fianco all’altra dentro un recinto bandellato, aspettando il loro turno per iniziare a diventare uomini di ferro. Sparo in aria, si parte. Nei primi cinquanta metri l’acqua è troppo bassa per nuotare, e già questo crea una separazione tra gli esseri umani e gli alieni: essenzialmente, solo i secondi mantengono una certa eleganza nel correre con l’acqua alle ginocchia. Qualcun’altro, invece, si tuffa troppo presto, si distrugge le nocche dopo una bracciata contro il fondale e zitto zitto si rialza e ricomincia a correre, forse sperando di non essere stato notato da nessuno. Quando i primi escono dall’acqua io sono a fare colazione, ma in fondo mi interessa fino a un certo punto: oggi sono curioso di vedere come si comportano gli altri, quelli che a questa gara partecipano non per vincerla contro figure terze, ma contro loro stessi, più che altro. Una signora guarda incuriosita dall’altra parte delle transenne


cover story

La partenza vista da fuori ha qualcosa di comico: immaginate centinaia di persone nervose e saltellanti, aspiranti uomini di ferro con in testa una cuffia color puffo. e mi chiede se quello lì davanti è il traguardo, e tra quanto arriveranno. Signora mia, il tempo di pedalare centottanta chilometri e correrne quarantadue e saranno subito lì, vorrei dirle. La prima transizione è forse quella che mentalmente ti mette più alla prova. Voglio dire, è mattina presto, sei appena uscito dall’acqua, e dal numero di bici ancora presenti in zona cambio è facile capire come sei messo. Le biciclette degli ultimi hanno qualcosa di triste e malinconico,

mentre se ne stanno appese solitarie in attesa che qualcuno ci salti sopra. Più sei in fondo alla classifica, e più sola si sentirà la tua bicicletta, lasciata indietro rispetto alle altre. Mentre i primi hanno superato la barriera del centesimo chilometro io mi avvio a piedi lungo il circuito che verrà affrontato per quattro volte durante la maratona. Il freddo del mattino ha lasciato il posto al sole della riviera e a intervalli regolari compaiono le postazioni dei rifornimenti, resi riconoscibili dai

colore rosso Enervit. L’atmosfera presente tra i volontari è quella della quiete prima della tempesta: sanno che dal momento in cui spunterà il primo concorrente - Cameron Wurf, che in bici sta spingendo come un dannato - dovranno stare in ballo per parecchie ore, fino a quando sarà transitato anche l’ultimo. Tra i volontari la fauna è varia. Ci sono i pensionati, i familiari di chi sta partecipando alla gara ma anche tanti bambini. Ci si aiuta a vicenda a preparare i bidoni di sali e le barrette, già aperte e tagliate a metà per evitare morti da soffocamento. Poco più in là si stanno riempendo d’acqua i secchi per le spugne. Una signora sta mostrando a due ragazzini come porgere il bicchiere a chi sta correndo (scommetto che non ci avevate pensato: va accompagnato, altrimenti il contenuto si rovescia quando viene

77

afferrato). La macchina dei ristori di un Ironman è praticamente la versione scientifica di una sagra di paese, moltiplicata cento: ti servono tantissimi volontari delle pro loco, ma allo stesso tempo bisogna farli lavorare con esperti della nutrizione per capire come allestire efficacemente i ristori. I numeri di Enervit nei due giorni di gara fanno un certo effetto: 23.400 litri di Sport Isotonic Drink, che corrisponde a circa 150 vasche da bagno riempite di sali; 26.200 Enervit Sport Gel, ovvero più di 600 litri di gel energetici; 18.900 Enervit Sport Competition Bar, ovvero quasi due milioni di calorie sotto forma di barrette. Le radio gracchiano comunicando la posizione del gruppo di testa. Wurf arriva con una corsa leggera, gli altri sono lontani. Prende due bicchieri di integratore, uno lo beve e l’altro se lo rovescia in


78

cover story

oltre lo sport

79

Spugnaggio. Prendere una spugna dalle mani di un bambino è un modo di dire Grazie.

I numeri di Enervit nei due giorni di gara fanno un certo effetto: 23.400 litri di Sport Isotonic Drink, che corrisponde a circa 150 vasche da bagno riempite di sali; 26.200 Enervit Sport Gel, ovvero piĂš di 600 litri di gel energetici; 18.900 Enervit Sport Competition Bar, ovvero quasi due milioni di calorie sotto forma di barrette.


80

oltre lo sport

testa. Vabbè, Cameron, con quel passo rimani un figo lo stesso anche se ti fai la doccia con l’Enervit. I passaggi si fanno più frequenti, anche se per animare la scena ci vorranno ancora parecchie ore, quando gli élite, ormai già docciati, verranno sostituiti dalla pancia del gruppo lungo il percorso. 
 Il triathlon non è come il ciclismo, non esistono molti atleti conosciuti dal pubblico a bordo strada: quando passa il Giro è facile urlare forza Vincenzo, perché anche se non ne mastichi di corse ci sono nomi che da qualche parte hai già sentito. E allora a Cervia le incitazioni sono più di pancia, si urla ai personaggi, a chi incarna un’idea. Le donne in gara, ad esempio, che spesso sorridono più degli uomini. E poi c’è Zanardi, curvo su quella che chiamare sedia a rotelle sarebbe un eufemismo, intento a recuperare posizioni a testa bassa, un po’ per la fatica, un po’ perché su quel mezzo non è che ci siano molte altre posizioni possibili. Quando lo si vede arrivare si sente la folla esplodere in un boato, e perché nella corsa è nelle primissime posizioni,e perché Alex è la versione reale dei supereroi della Marvel, impersonificata da due occhi azzurri e due avambracci spessi come prosciutti. Corre oggi, e correrà anche domani: assieme all’équipe di ricerca Enervit si sono fatti venire la brillante idea di sottoporre il suo fisico allo sforzo di un Ironman e un mezzo Ironman in due giorni, per capire a che punto sia possibile recuperare nell’arco di una notte o poco più. Durante il terzo giro della maratona Super Alex affianca Wurf, che sta correndo da solo. Nel nuoto e nella bici Zanardi paga qualcosa ai normodotati, e

voi direte che è anche abbastanza ovvio. Andando a vedere i tempi parziali, però, è incredibile quanto le sue prestazioni non si distacchino poi più di tanto, e lui è il primo a scherzarci sopra, dicendo che è facile galleggiare quando non bisogna trascinarsi dietro le gambe. Chi lo ha visto in bici racconta di come farsi sorpassare in discesa da quel missile terra-aria faccia un certo effetto, specialmente perché la sua fronte è a mezzo metro dall’asfalto. Nella corsa è invece lui a dire la sua, perché sulla carrozzina può viaggiare a una media molto superiore. Comunque, eravamo rimasti ad Alex e Cameron che procedono affiancati: si guardano un attimo, letteralmente dall’alto verso in basso, poi l’uomo dalle braccia spesse come prosciutti apre il gas e parte via. Cameron prova a stargli dietro per qualche metro, ma capisce che non c’è storia, allora si gira verso il cameraman che li sta seguendo in moto e con un’espressione che sta a metà fra la sorpresa e l’ammirazione fa un gesto a indicare che quello lì è matto da legare. Con l’italiano di chi ha corso nella Liquigas di Basso esclama impressionante!, come se fosse uno spettatore a bordo strada e non l’atleta che sta vincendo a mani basse l’Ironman di Cervia. I volontari ai ristori continuano nel loro lavoro, concentrati come se fossero anche loro in gara. Hanno addosso una pettorina gialla con su scritto ciò che possono offrire: sali, barrette, acqua, e urlano le stesse parole quando i concorrenti arrivano ai ristori. Credo che si sentano veramente parte di qualcosa, mentre porgono gel e spugne ai concorrenti che iniziano a farsi più numerosi. Qualcuno si lancia poi il bicchiere alle spalle, altri invece rallentano il poco che basta per gettarlo

Parco chiuso. Migliaia di bici per un valore di milioni di euro, controllate dai volontari.


82

cover story

cover story

I volontari sanno che dal momento in cui spunterà il primo concorrente dovranno stare in ballo per parecchie ore, fino a quando sarà transitato anche l’ultimo. Tra loro la fauna è varia, ci sono i pensionati, i familiari di chi sta partecipando alla gara e tanti bambini.

nei bidoni: è buffo come la persona che siamo veramente si denoti così chiaramente in situazioni apparentemente banali, anche se probabilmente la maratona di un Ironman non è poi così banale. È quel tipo di contesto in cui non puoi mentire agli altri e nemmeno a te stesso, perché il cronometro

è lo stesso per tutti. Se ti sei allenato nel modo sbagliato te ne accorgi dalle gambe che iniziano a vibrare in preda ai crampi, se hai provato a fare il fenomeno con i tuoi amici montando le lenticolari ci penserà il vento a tirare fuori lo sfigato che c’è in te. Ognuno è qui con un differente obiettivo, ed

è il Dio cronometro a parlare per te: prima passano quelli con ambizione di classifica, quelli che o finiscono entro un certo tempo oppure hanno sprecato mesi della loro vita. Poi, con il passare delle ore, iniziano a comparire quelli che sono lì per finire e basta e che magari fino a quando non compariranno sulla passerella dell’ultimo chilometro non sanno neanche loro cosa significhi correre un Ironman. 
 La tipologia di spettatori a bordo strada che si danno il cambio varia con lo scorrere del tempo: al pomeriggio ci sono quelli che sono venuti a supportare quelli forti, che mentre sventolano uno striscione calcolano mentalmente le proiezioni sul tempo finale per capire se l’amico/fidanzato/ fidanzata/familiare potrà giocarsi la possibilità di andare a Kona ad ottobre dell’anno prossimo.

83

Quando il sole inizia a tramontare invece arriva il momento delle persone normali, quelle che hanno davanti a sé ancora un bel po’ di chilometri da correre e sono cosci del fatto che al loro ritmo non ci vorrà poco. Quando qualcuno inizia a camminare il pubblico lo incita ancora di più, in un misto di empatia e inconsapevole sadismo: quando sei al quindicesimo chilometro e le gambe ti hanno già salutato da un pezzo vorresti farti piccolo mentre decine di persone ti urlano di non mollare, come se ai muscoli gliene importasse qualcosa. La mia idea di endurance è legata alla montagna e all’alpinismo, perché di fatto è quello il mio sport. Questo significa che per me è normale concepire uno sforzo prolungato di una giornata intera, ma a differenza del triathlon non è una performance


84

cover story

E poi c’è Zanardi su quella che chiamare sedia a rotelle è un po’ eufemismo, curvo, per la fatica e perché su quel mezzo non è che ci siano molte altre posizioni possibili. Quando lo si vede arrivare si sente la folla esplodere in un boato, un po’ perché nella corsa è nelle primissime posizioni e sta per raggiungere il migliore dei normodotati e un po’ perché Alex è la versione reale dei supereroi della Marvel, impersonificata da due occhi azzurri e due avambracci spessi come prosciutti.


86

oltre lo sport

«Stiamo bassi, calcoli un valore medio di 3000 euro per ogni bicicletta, qui dentro al parco chiuso ce ne sono più di 3000. Ha capito in cosa consiste il lavoro di un volontario qui?» agonistica o comunque in un ambiente protetto: vuol dire che quando subentra la stanchezza devi andare avanti comunque ma per motivazioni esterne, perché non vuoi passare la notte fuori o comunque infilarti in situazioni, come dire, parecchio scomode. Quelli che vedo passare davanti a me invece stanno sfidando solo se stessi, se dovessero decidere di fermarsi non rischierebbero di dover chiamare un elicottero del soccorso alpino, al più incapperebbero in una grossa delusione. Se da un lato può sembrare confortante, dall’altro vuol dire che lo stimolo a stringere i denti è più difficile da trovare, specialmente se dall’altra parte delle transenne c’è chi sta mangiando un gelato mentre tu vai avanti da tredici ore a gel e barrette e hai deciso consapevolmente di auto-distruggerti. In questo, a differenza dell’alpinismo, serve un grandissimo autocontrollo: potresti fermarti in qualsiasi momento, in un Ironman. La tentazione è lì, a farti toc-toc sulla spalla, specialmente quando sai che ti mancano ancora parecchi chilometri di corsa o, nel caso degli ultimi, di camminata. Insomma, se per i primi l’Ironman è una gara contro il tempo, per gli ultimi è una competizione contro la tentazione di dire basta, e forse tra le due la più ammirevole è quest’ultima. Alcuni di quelli che mi passano davanti in questi momenti hanno gli occhi lucidi, altri si fermano a prendere

87

in braccio i propri figli, altri ancora una bandiera di un paese o una fondazione. Una svedese inciampa, spaf, rumore di carne sull’asfalto, ai -200 metri. Io la trovo una scena di una tristezza infinita, lei invece non fa una piega, sorride e si rialza. Effettivamente se sei arrivato fino a quel punto non sarà certo una facciata a fermarti, penso. I volontari hanno le occhiaie come se avessero corso, ed è stato un po’ così anche per loro. A chi si presenta stremato nel parterre di arrivo non viene chiesto nulla, gli si dà qualcosa da mangiare, un telo termico per coprirsi e va bene così. I volontari invece devono continuare a sorridere, ad essere presenti con atti di gentilezza gratuiti verso degli sconosciuti sudaticci che a volte non hanno neanche più la forza di parlare. Sul lungomare di Cervia sono le 11 di sera e i passanti si mischiano ai concorrenti che si trascinano legnosi verso il proprio albergo, spingendo la propria bici nonostante la tentazione di lasciarla lì. È difficile spiegare a parole la sensazione che si prova dopo dieci o quindici ore di fatica continua culminata con il raggiungimento di uno scopo, vetta o traguardo che sia poco cambia. Si tratta di una specie di equilibrio fra il cedimento fisico e l’euforia del momento, uno stato di trance che ti fa sorridere come un idiota nonostante tu non riesca neanche più a slacciarti le scarpe. Una persona oggettiva si limiterebbe a giustificare il tutto con l’azione delle endorfine, che non per nulla hanno proprietà e struttura simili agli oppiacei. Cerchiamo di essere onesti, però: una persona oggettiva non si iscriverebbe mai ad un Ironman, e probabilmente il sorriso di chi lo finisce arriva da qualcosa più profondo, nascosto da qualche parte sotto l’arco di arrivo. È un sorriso che i bambini hanno quando la loro curiosità viene soddisfatta, quando hanno imparato qualcosa: la stessa espressione di chi scopre che può fare fatica per così tanto tempo, o capisce che il suo corpo, per quanto imperfetto, sia in realtà una macchina creata apposta per esplorare i propri limiti.


88

avventura

cover story

JERO -BOAM Testo Federico Damiani

Foto Nicola Da Monte

In scienze sociali il framing è un fenomeno teorizzato da Erving Goffman secondo cui lo schema interpretativo, la cornice, è in grado di influenzare la percezione di un concetto. Di un controfiletto di manzo, ad esempio, si può dire che è grasso al 23% oppure magro al 77%. Presentata con la prima cornice, la vostra bistecca vi farà sentire decisamente in colpa; con la seconda vi sentirete dei salutisti in pace con la vostra coscienza. Eppure, la bistecca sarà sempre la stessa.

89


90

avventura

Se il ciclismo fosse un manzo, la bistecca di gravel sarebbe decisamente quella più soggetta al fenomeno del framing. Di strada e mountain bike ormai c’è poco da discutere, ma sulle percentuali di grasso di un filetto gravel il discorso è ancora aperto. C’è chi vive e pedala sugli argini dei fiumi e sulle strade di campagna e c’è chi usa una bici gravel per spingersi a esplorare montagne e sentieri più impegnativi. Insomma, ognuno è abituato a una bestia diversa; più o meno grassa, più o meno magra. Come la Chianina è diversa dal Wagyu giapponese. Una è più buona dell’altra? Non è questo il punto, dipende dai gusti e nessuno ha ragione. La questione però è che quando ci approcciamo a un evento gravel lo interpretiamo con la nostra cornice e ci facciamo un’idea che non necessariamente corrisponde alla realtà. Nella sua versione lunga, Jeroboam Gravel Challenge è una bistecca di 300 chilometri e 7.000 metri di dislivello che da Erbusco si sviluppa nelle valli e sulle montagne tra i laghi di Idro e Garda per arrivare allo stesso, bellissimo, villaggio di partenza. Jeroboam come la bottiglia da tre litri di spumante, per rendere il giusto omaggio alla zona del Franciacorta che attraversa. Ma lasciamo un attimo da parte il vino e torniamo alla portata principale e al suo frame. La prima edizione, 2018, mi ha ingolosito parecchio. Un’immagine e una comunicazione fresche

e una sfida impegnativa ma, mi sembra, fattibile. C’è tutto quello che serve e decido di iscrivermi insieme a Nic. Non ci sono molte indicazioni sull’interpretazione del concetto di gravel da parte degli organizzatori e noi applichiamo la nostra, di cornice. Peccato che è una cornice barocca su un Fontana Tre Tagli. Un pugno in un occhio. E un po’ anche nelle palle, visto che è tutto bellissimo, il percorso è fantastico ma giusto un tantino più duro e disastrato di quello che ci aspettiamo e va a finire che ci ritiriamo miseramente. 2019. Uno dei tracciatori tra Niccolò e Michele deve aver investito gli ultimi dodici mesi per acquisire una seconda laurea in scienze sociali. Il frame, questa volta, è costruito alla perfezione, perché il pre-Jeroboam è tutto un brulicare di post Facebook e comunicazioni per spiegare come sarà il percorso, che gomme utilizzare, quali rapporti. Insomma, è tutto ben inquadrato - un po’ di terrorismo psicologico, bisogna


92

avventura

93


94

dirlo, ma giustificato - e c’è poco spazio per sbagliare su cosa ci aspetta sabato 21 settembre ad Erbusco. Venerdì sera ritiro la 3T Exploro che Carlo mi ha assegnato e incontro tanti amici al villaggio. C’è Federico, alle prese con il nuovo, complicatissimo, gazebo eventi di Fulcrum, c’è Erica, che sistema le nuove scarpe gravel di Fizik allo stand, e c’è Nure, con l’immancabile divano Missgrape. Tra i partecipanti c’è un po’ quell’atmosfera da notte prima degli esami. Nessuno con un pianoforte sulla spalla, ma uno con la chitarra c’è e suona mentre il cantante si agita in un costume gonfiabile da lottatore di sumo e tutti si divertono insieme, con qualche birra in mano. Tutti

avventura

però con quel retropensiero sulla traccia dell’indomani, a confrontarsi e fare supposizioni. Come con il titolo del tema della maturità. Tornare in camera mentre in tanti si infilano nelle tende montate al villaggio vuol dire che è tempo per l’attività più stressante e bella di tutti gli eventi di questo tipo: il setup della bici. È il mio momento preferito, perché ti mette di fronte a delle scelte definitive, quello che scegli te lo porti fino alla fine. Forse è anche un po’ un allenamento per la vita quotidiana: non ci siamo più abituati, alla definitività delle cose. L’indomani partenza alle ore 7.00. Il mio compagno di viaggio, Davide, mi aspetta in un parcheggio e arrivo mentre prepara il suo bolide. Deve

Portage e salite. Alla Jeroboam il terreno è vario e il percorso mai banale.

Jeroboam è una bottiglia da tre litri di spumante e una bistecca di 300 km e 7000 metri di dislivello che da Erbusco si sviluppa nelle valli e sulle montagne a cavallo tra i laghi di Idro e di Garda.

95


avventura

97

Vino. Si pedala nei vigneti, sui sentieri, in salita e se necessario si cammina.

essere bello - penso - preparare e pedalare una bici che hai progettato e visto nascere; insomma pedalare su una tua idea. Davide progetta le bici per Colnago e questo gli capita tutti i giorni. Un po’ lo invidio. Abbiamo anche il tempo per la colazione. Edi è dietro al bancone a fare caffè mentre tutti attingono a un buffet che tanti hotel a quattro stelle se lo sognano. Tempo di mettere una banana nella tasca dei miei Supergiara - regola numero uno per gli eventi lunghi: cibo in ogni dove, che comunque non è mai abbastanza - e si parte. Mi trovo senza saperlo nel primo gruppo. Oltre a Davide c’è Mattia, uno che quest’anno, per dirne un paio, ha vinto la Transdolomitics Way e ha fatto secondo alla Oetzaler, e pochi altri che non conosco, tra cui Niccolò, il tracciatore del percorso. Insomma, il ritmo è quello che si può immaginare da quest’allegra banda di criminali, io c’entro come Quintana alla Roubaix e arrivo al primo checkpoint dopo 25 chilometri ben al di sopra del ritmo che posso sostenere per 300. Timbro, clic dei pedali e via. Cento metri e buco entrambe le gomme. Finisco le imprecazioni contemporanee e inizio a inventarne di futuristiche, ma tempo dieci minuti io e la Exploro siamo come nuovi. Si riparte e io Davide abbandoniamo il percorso per cercare un negozio di bici e prendere un paio di camere d’aria. Via di nuovo, direzione Passo delle Sette Crocette, mentre

controlliamo sulla mappa quanto abbiamo perso dai primi. Il mio tracker risulta in mezzo al lago, quello di Davide neanche lo troviamo. Decidiamo che è meglio pedalare e basta, senza farsi troppe domande. La salita alle Sette Crocette è una di quelle su cui a metà, dopo già qualche chilometro di sterrato cattivo in cui con il 42-42 sviluppi una trentina di pedalate al minuto, incontri un signore che lavora in giardino che ti chiede dove vai in bici, glielo spieghi e ti risponde pacifico in dialetto bresciano che è impossibile, che lui abita lì da quarant’anni e là in cima non ci ha mai visto nessuno in bicicletta. Molto bene. Alla cima però ci si arriva, dopo una buona mezz’ora a spingere la bici. La vista e il sentiero in costa che seguono valgono tutta la fatica della salita. La giornata è bellissima, non una nuvola, non un accenno di foschia. Il silenzio, il vento che soffia e il rumore delle gomme sullo sterrato sono la colonna sonora celestiale per l’ascesa al check della capanna Tita Secchi. Un paradiso, con Andrea a fare da San Pietro. Senza le chiavi, ma con salame nostrano e coltello. Gli abbiamo voluto tanto bene, in quel momento. Grazie alla sosta siamo di nuovo con i primi. Giù in picchiata sul lago e si riprende subito la seconda grande salita di giornata. Le nostre ombre sono già belle lunghe sullo sterrato e ci rendiamo conto che arriveremo al prossimo


98

avventura

Panorami fantastici e sentieri a fil di cielo. In cielo non c’è una nuvola, non un accenno di foschia. Il silenzio, il vento che soffia e il rumore delle gomme sullo sterrato sono la colonna sonora della giornata.

checkpoint con il buio. Che è un peccato, ci dice Niccolò, perchè da lì la vista sarebbe stata bellissima. Aggiunge anche che dal punto in cui stiamo avendo questa conversazione al ristoro saranno - cito testualmente - al massimo due o tre chilometri, tutti in falsopiano. Sono cinque e sono tutti al 15%. Glielo rinfacceremo a vita. Ci sono almeno tre cose belle di essere nel primo gruppo alla Jeroboam. Uno, che dodici ore prima non ci conoscevamo, ma sono tutti simpatici e mi aspettano anche se sono una palla al piede. Due, che c’è chi ha fatto la traccia e quindi non si sbaglia strada. Tre, che ai ristori non c’è ancora passato nessuno e ci sono teglie di pizza, pasta fredda e focaccia da stare male. Facciamo il pieno mentre un alpino fa il suo ingresso con una bottiglia di grappa in tasca dicendo che lui una volta ha fatto la Milano-Sanremo, ma è arrivato a Nizza. Non osiamo chiedere di più e ripartiamo. Ci aspetta la discesa verso il lago e gli ultimi 100 chilometri di pianura per tornare a Erbusco. La notte fila via liscia con Mattia che ci trascina a spasso per la provincia di Brescia costantemente sopra ai 30 all’ora. Si passa da una discoteca, intorno alle 2, e un gruppo di ragazze tirate da gara ci squadra come se fossimo alieni.

Ci squadrano ancora di più quando entriamo in un bar di Brescia. Sei persone coperte di terra, puzzolenti e affamate in fila per una brioche alle 3 di mattina devono essere bruttissime, effettivamente. Nessuno comunque chiama i servizi sociali, ripartiamo e gli ultimi 30 chilometri li passiamo a chiederci se il nostro sarà un arrivo trionfale a quell’ora oppure no. Alle 4.15 scopriamo che no, ci dobbiamo accontentare di Carlo che dorme su un divano. A noi basta e avanza lui che ci spina sei birre per brindare a 300 chilometri di paesaggi bellissimi, risate, imprecazioni. Di gente che ci dice che in cima non si va e di gente che ci guarda male. Se sia possibile mettere davvero una cornice per definire una volta per tutte cosa sia il gravel non lo so. Forse il gravel nemmeno esiste. Di certo però la Jeroboam 2019 è stata un quadro di bellezza rara. Di quelli difficili da interpretare (e da pedalare) ma che sono capaci di lasciare il segno e farti venire voglia di andare in fondo alle cose. Di fare fatica, quando ne vale la pena. Di percorrere anche quel sentiero lì. Quello che sembra un po’ troppo per la tua bici, ma non vuoi andare a vedere cosa c’è dietro quella curva ad aspettarti?

Mangiare tanto. Alla Jeroboam il termine rifornirsi è riduttivo.


storie

Galleggiare. Galleggiare sulle ascensionali del pomeriggio. Deve essere qualcosa di simile a questo. Adesso mi vedo da fuori. 
Galleggio a dieci metri da me stesso. Vedo la mia schiena sudata e magra. È tutto silenzio e luce bianca. Sarà suggestione. Sì, sarà per colpa di quegli articoli del Mucchio Selvaggio sugli anni Settanta che mi leggo. I ragazzi che usavano LSD avevano l’impressione di uscire dal loro corpo, di vedersi da fuori. Mi è rimasto in mente. Devo smetterla di leggere cose così, mi suggestiono troppo. E poi capitano queste cose. 
Devo proprio smetterla, chi è che legge il Mucchio fra i corridori in bici? 
No, devo cambiare qualcosa. È ora di farlo. Devo decidere.

Claudio Dancelli

l'ultima buona occasione

LSD

101


102

storie

della bocca. Gli occhi ancora freschi. Il nuovo campioncino si annunciava agli occhi di tutti. La scena era sua. Brillava. Sarebbe presto uscito da quel mucchio di mezze calzette. Due ore prima aveva letteralmente distrutto la corsa. E con lei le ultime illusioni di Michele.

In fuga

Premiazioni Inversione termica. Pensò.

Michele guardò in alto. Dietro la pensilina del Bar Sport, le montagne. Campiture verdi dei boschi e manciate di rocce. Sopra le creste, i primi vapori del pomeriggio, preparavano di certo qualcosa. - Ottavo posto, ritira il premio…. Vediamo questo numero otto: ha sforbiciato l’acetato della tuta per farne degli shorts: bellino! Dozzinale polo verde pisello. Si avvicina caracollando al tavolo. Faccia brufolosa da segaiolo. Lo sguardo non tradisce un millimetro di attività cerebrale. Troppo stanco. Si guarda attorno spaesato, stringe una mano e si ferma per la foto, inclinato verso la via di fuga. Non gli scappa nemmeno di pronunciare un mezzo grazie. Ancora sette di questi. E poi a casa. Si raccolse a rubricare le

deficienze del settimo arrivato. Era un passatempo snob e odioso, da borghese del cazzo, ma in questi casi funzionava. Si giustificò apertamente. Non era un passatempo. Era una terapia. Quanto alla sociopolitica, non era il momento di pensarci. Domani sarebbe uscito con la Kefiah cenciosa e la camicia fuori dai pantaloni. Ecco il settimo: tracagnotto, gambe da calciatore, dita grosse e unghie nere. Apprendista meccanico? Espressione fissa, ottusa. Canna di brutto i congiuntivi, si vede. Soffiò fuori dalle mani giunte aria appiccicosa. La domenica finiva lì. Nel pomeriggio avrebbe raggiunto l’amico Luca, ascoltato l’ultimo disco dei Jane’s Addiction. Poi, magari, una passeggiata a Desenzano. Qualche vasca a passo lento, sotto i portici. Gelatino di frutta. Lumare un paio di acidelle in tiro e poi via. Una cosa così. Fine. La serata sarebbe trascorsa male. Cena, tivù.

Un crescente e stanco nervosismo. Non vedeva l’ora di arrivare a lunedì mattina. Presto sul pullmann, ripasso veloce che la prof avrebbe interrogato sui Preraffaelliti e poi la classe, i compagni, i disegni, le tipe, gli altri prof. Tutto il suo mondo. L’altro, quello con la bici, crollava. Rovinato da lui stesso, dalla sua inadeguatezza. Veniva meno, semplicemente. Ogni domenica un pezzo della messa in scena cadeva, sbriciolandosi sul palco. Le corse in bici sparivano dall’orizzonte. Non era mai stato così chiaro. Quante repliche ancora? Quanta noia per tutti. Vada in figa il fottuto ciclismo. Io, senza, starò certamente meglio. I compagni della Gavardo si facevano notare rumorosamente, a due passi da lui. Il risultato della gara lo concedeva ampiamente. Al centro di tutti Ivan. Alto e scavato. L’espressione risoluta, ma calma. Un principio di herpes all’angolo

Valtrompia, strada 345 - fine luglio 1987 - Oh, Miky, attacchiamo? - Cosa? - Andiamo a turno. Prima parto io. - Cosa dici? No, no. - Perché no? Dai, parto per primo io. - Ivan, ma perché? - Andiamo troppo piano. - Ma, cosa!? - Allora a turno, okay? - No, no! - Non ce la fai? - Sì che ce la faccio, ma….aspetta, aspetta. Ascolta, ascoltami:mancano 60 chilometri al traguardo e abbiamo quattro minuti di vantaggio! - E allora? - Come allora? Ivan, ragiona, non ci raggiungeranno mai capisci? Dobbiamo aspettare. Il vantaggio continua a crescere. Siamo in venti corridori, cazzo! Ci sono tutte le squadre qui in fuga. Capisci?. Nessuno ci insegue. Guarda come giriamo. Cinquanta all’ora come minimo, ti rendi conto? - Siamo troppi però. - No! Va bene così. Nel finale c’è la Forcella, per due volte. Due volte negli ultimi quindici chilometri. - E allora?

- Coma “allora”? Cazzo, con la forma che hai, puoi staccarci tutti in salita. Non ha senso farlo ora. - Boh, non capisco, io andrei adesso. - Adesso!? Adesso vuoi scattare? Mentre scendiamo dalla Valtriumplina? Sei matto o cosa? Ti verranno a prendere facile. E rischiamo di spezzare l’armonia del gruppetto. No, guarda, io non attacco. - Va bene. Fa niente dai, faccio io. Rompigli qualche cambio okay? - Ma no, aspetta, Ivan! Ivan cambiò rapporto e si mise a superare la doppia fila di ciclisti sul lato sinistro. Dalla coda Michele si sporse per vedere meglio. Forse non lo fa. Non può farlo. Ivan pedalò seduto fino a tre quarti del gruppetto. Poi si alzò sui pedali, scartò a sinistra invadendo la corsia opposta. Superò tutti in progressione, guadagnando una decina di metri sulla testa. Ogni venti pedalate si sedeva, allungava il rapporto e si alzava di nuovo. Tutti lo videro con comodo. Passava relativamente adagio. Bedussi, che era in testa, lo giudicò un azzardo e si spostò a dare un cambio normale. Da dietro un tizio di Verona allungò il proprio turno per chiudere con facilità su Ivan. La fila si spostò a sinistra. Da doppia divenne singola. Sollevò lo sguardò, rallentavano, si allargavano. Ecco, appunto. Vide Ivan sfilarsi, maneggiare con la levetta del cambio e ripartire uguale a prima. Stavolta guadagnò anche meno. Gli altri entrarono subito nella sua traccia. Si fermò. Gli altri rallentarono ancora. Alcuni bevvero. Il caldo era insopportabile. In quel punto la strada era enorme. Un mare nero sotto il sole. Un posto

103

orrendo. La Valtrompia rovesciava edilizia profana al bordo strada. Villette col timpano giallo, case a quattro piani, depositi agghindati di postmoderno, pizzerie con ampio parcheggio, mobilifici orizzontali e illuminotecniche aperte anche il sabato pomeriggio. L’asfalto parve ribollire quando Ivan partì per la terza volta. Il gruppo esitò. Sorpreso dalla spocchia di quel terzo scatto. Trenta metri di vantaggio. Come niente. Un affondo lentissimo. Un allungo graduale sotto i semafori accesi. Michele lo vide sedersi e aumentare la spinta. Si distendeva. La strada digradava sempre leggermente. Da dietro qualcuno partì alla riscossa. Ripresero metà del vantaggio, ma con difficoltà. Il primo corridore esaurì l’abbrivio a quindici metri da Ivan. Il secondo guadagnò pochissimo. Non si agganciava. Il terzo rifiutò il cambio. Sbandarono. In fuori. Persero velocità e il gruppo si appiattì sul lato destro, sfiorando una fila di Mercedes parcheggiate davanti a una gelateria. Ottimo! Abbiamo degli scienziati qui! Noi all’esterno e lui alla corda, guadagnerà cento metri senza forzare. Max Baglioni fu il primo a capire. Si gettò all’inseguimento. Uno scatto secco, la ruota posteriore scodò saltellando. Il gruppo si spezzò in due con un rimbalzo indietro del secondo troncone. Proprio come una corda spezzata. Passarono davanti a un oratorio. Bambini che correvano sciamando vicino a un prete giovane, con gli occhiali e la frangetta sudata. Max rinvenne su Ivan due chilometri dopo. Dietro di lui sette ciclisti. Michele chiudeva il gruppetto respirando forte. Il fiato usciva con un tonfo sordo dalla bocca e dal naso. Distinse nettamente il


104

storie

martello cardiaco squadernare la cassa toracica. La vibrazione riverberò in gola e dietro gli occhi. Alzò al testa sperando di vedere il proprio compagno desistere. Pensò di allucinare. Invece no, era vero. Ivan ripartì. Sempre più lento. Laborioso. Rullando e vibrando al centro della carreggiata. Le schiene curve si piegarono di più, ondeggiando. Vide gomiti abbondare all’esterno e traballanti mani che cambiavano posizione. Stava accadendo. La corsa compiva il suo passo decisivo. Fra poco, fra pochissimo, uno di quella fila avrebbe smesso di pedalare, aprendo davanti a se uno spazio incolmabile. E lui, Michele, avrebbe dovuto farsi carico della tattica difensiva. Stoppare i contrattacchi. Lo sapeva, era la natura stessa delle corse a stabilirlo. Si sentì prigioniero. Due chilometri dopo, quando Michele vide le sagome di Ivan e Baglioni guadagnare decisamente terreno, ebbe la certezza che era finita. Ritornò ai pensieri fatti al cinquantesimo chilometro e disperò. La grande euforia di un’ora prima era ormai lontana.

cover story

di forma sorprendente. Dopo un inizio

avrebbe avuto buon gioco a tenere un

difficile, nelle ultime gare era sempre

comportamento passivo. Si sarebbero

andato migliorando e la domenica pre-

esauriti. Il toro davanti e gli altri a inseguire. Lo avrebbero ripreso di certo, ma si sarebbero annullati. Lui davanti e gli altri ad inseguire. Michele il colpo lo avrebbe sferrato a un chilometro dall’inizio della salita. Lo avrebbero lasciato guadagnare metri su metri. Poi ci avrebbe messo del suo. Questo non lo preoccupò. Era pronto a devastarsi sulla Forcella per mantenere il vantaggio. Si convinse di poterlo fare. Vide le immagini e si figurò il boato del pubblico in salita. Quella era una zona di appassionati e sul muro ci sarebbe stato il pienone. Uno stadio sulla strada. L’urlo della folla gli sarebbe entrato nelle vene, diventando ossigeno.

cedente aveva vinto la prima gara della sua vita dopo una condotta strepitosa. Tutto il giorno in fuga. A parte l’invidia, quando se lo era trovato al fianco nella doppia fila, Michele aveva gioito. È buona. Guarderanno tutti Ivan, si mette bene. Era vero. La gara si offriva benissimo. Avrebbero compiuto l’andata e ritorno in Valtrompia con regolarità, senza forzare i tempi, una novantina di chilometri da gestire con calma e poi i due giri del circuito finale di San Vigilio. La gara si sarebbe giocata sulle rampe della Forcella. Un chilometro e mezzo oltre il tredici per cento. La pettata centrale era un muro, sfiorava il diciannove. Arrivarci in quella condizione era il massimo. Michele avrebbe sfruttato tutta la sua esperienza e la sua attenzione per risparmiare ogni energia. Avrebbe mangiato e bevuto perfettamente. Avrebbe limato ruote e gomiti nella doppia fila per proteggersi la sagoma dal muro d’aria.

In fuga – due

105

Si sentì benissimo. E forte. E poi c’era la doppia Forcella. Con Ivan presente la corsa era semplice. Lui era il faro. Bisognava solo agire di conseguenza.

Erano in fuga dai primissimi chilome-

Quel toro avrebbe aggredito la prima

tri. Venti corridori, di tutte le squadre.

ascesa. Con la condizione che si ritrova-

Una fortuita sequenza di progressioni

va nessuno gli avrebbe tenuto la ruota.

e rientri nel fondovalle verso Gardone

Calcolò un decina di secondi di margine

V.T. Da subito c’era stato accordo e il

sulla cima, poi un gruppetto di sette-ot-

vantaggio era salito. Sopra i due minuti

to. Non c’erano scalatori fortissimi e lui,

dopo dieci chilometri. La cosa andava

Michele, avrebbe facilmente scollinato

benissimo. In fuga con lui c’era Ivan,

in coda a quel gruppetto. La gara si sa-

suo compagno di squadra. Più giovane

rebbe decisa nei quindici chilometri fra

di un anno, Ivan, era in un momento

le due ascese. Con il compagno in fuga

Un boato, un boato assordante. E lui che passava in mezzo tirando, il manubrio come un sollevatore. Più cattivo di un picchiatore, più risoluto di un mattoide! Poteva farlo. Avvertì la pelle d’oca sulle braccia e sorrise. Sì, lo faccio. Si fece sfilare dal gruppo e tolse un pacchetto di stagnola dalla tasca. Ne uscì una coppia di Pavesini ripieni di marmellata. Come erano buoni! Buono, come sono buoni. Era felice. Prese anche un quarto di mela, la scartò e ne mangiò un terzo. Come gli faceva bene. Sì. Era tutto a posto. Le gambe giravano rotonde. Si sentì rilassato ed elastico. Era la sua giornata, finalmente. Prese la borraccia. Ruotò il polso per ritrovarsela capovolta davanti alle labbra. Staccò il beccuccio con gli incisivi e operò una piccola pressione

con indice e pollice. Bevve acqua a sorsetti. Lasciava ogni sorsata in bocca qualche secondo. Ad intiepidire. Non deve scendere fredda, mi fa male. Devo stare attento ai dettagli. Tutto perfetto. Nessuno sbaglio. Oggi o mai più.

In fuga – tre Il ricordo della tremenda concentrazione con cui aveva affrontato quelle fasi si trasformò. Ivan era ormai distante. Irraggiungibile. Michele venne colpito da uno spasmo allo stomaco. Succhi gastrici ruscellarono in profondità. Potenti, aspri e rumorosi. Una fitta acida, risali tutto lo sterno accompagnata da una impressione di calore. Sputò un arco di saliva da sotto l’ascella.

Non si dava pace. Tutto rovinato. Tutta una maledetta illusione. Era bastata la forza selvaggia di Ivan a ribaltare ogni cosa. Ora doveva coprire l’iniziativa del compagno e le sue ambizioni di vittoria sarebbero scemate prestissimo. Come le sue energie. Sentì la rabbia caricare e avvolgerlo. La gola pulsava. Metallica. La crisi di nervi lo scavava dentro. Voleva piangere, nascondersi in un viottolo, smettere di pedalare, buttarsi seduto e lasciarsi andare. Sentì gli occhi riempirsi e bruciare. Stava per scoppiare quando un atleta del Pedale Bresciano si alzò sui pedali, due posizioni davanti a lui. Dominò le lacrime e partì a sua volta. Chiuse facilmente il disavanzo di spazio e l’attaccante, accortosi del fallimento si rialzò. Un altro sfilò a sinistra, abbastanza veloce. Michele ripartì sui pedali ondeggiando il

telaio a destra e a sinistra per rilanciarsi. Dio, adesso sarà tutta così. È finita. Riprese anche questo. Trasse un sospiro e roteò la testa disperatamente. Decise di abbandonarsi alla lotta. Buttare nel cesso ogni pensiero cattivo e immergersi nella battaglia. Rincorse tutti. Arrivò a contare dodici scatti furenti e consecutivi. Sempre inseguendo avversari di Ivan. Erano già sconfitti, avrebbe voluto dirlo, ma sapeva che non sarebbe servito. Alla fine guardò avanti. Ivan e Max avevano guadagnato almeno quattrocento metri. Ad ogni strappo seguiva un rallentamento più lungo, che li allontanava dai fuggitivi. Fissò i due la davanti. Ivan non chiedeva nemmeno il cambio. Mio Dio. - Basta. Non vedete! Basta! È finita. Si rivolse agli altri, la voce implorava,


106

cover story

storie

un documentario. Vide le contrazioni farsi più profonde e allungate nell’esofago, fino alla trachea. Un minisommergibile navigava nell’addome. Un colpo di tosse interruppe le trasmissioni e rivide tutto normalmente. La microcamera era tornata a riprendere da un punto fra le orbite. Verso l’esterno. Adesso la faccia del tipo, aveva ripreso colore. Rabbioso, lo minacciava da vicino con il pugno. Gli sembrò un orsacchiotto del luna park, l’audio era ancora staccato e tutti pedalavano lenti come in un cicloturismo. Gli venne, senza senso, da ridere. Percepì la contrazione salire come una cannonata. Il primo fiotto di vomito gli riempì la bocca chiusa e spruzzò una raffica dalle narici. I suoni, i colori, i movimenti e le urla esplosero in accelerazioni simultanee.

ma in quello uno spilungone lo superò zigzagando. Rantolò una bestemmia lanciandosi all’inseguimento. Sibilava per la rabbia. Sotto sforzo, rischiando lo schianto del cuore. Inveiva e bestemmiava. Raggiunse il tipo. Lo affiancò. - Cosa fai?! È finita. È finita! - ’Azzovuoi oh! ‘ - Ah! Zioccaneee! Trasalì. La follia lo invase. Deragliò verso il tipo, perse il controllo e lo urtò di spalla. Rimbalzarono un paio di metri, ognuno ancora in equilibrio sulla propria bici. L’altro, allibito, non reagiva. Michele era pazzo. Lo colpì sul casco, con forza, a mano aperta.

Vide il ciclista occhieggiare e sbandare. Il caschetto spostato sull’orecchio, stava per cadere. Bianco per lo spavento, aprì la bocca per bestemmiare a sua volta. Ma, adesso, non sentiva più le sue parole. Provò a immaginare la cadenza milanese, ma non udiva nulla. Solo un ronzio. Le immagini divennero opache, liquide. I rumori della strada scomparvero. Tutto rallentava e gli sembrò di canticchiare. Si vide da fuori. Da sopra, come nelle riprese del Giro dall’elicottero. Magro, nero e solo. Sulla strada. Vide il movimento suo e degli altri, che decelerava. Uno spostamento umido. Accaldato. La strada come un fiume. Galleggio a dieci metri da me stesso. Vedo la mia schiena sudata e

magra. È tutto silenzio e luce bianca. La telecamera si spostò da sopra al fianco. Era una steady-cam adesso e correva sul marciapiede. Si vide di profilo, senza riconoscersi. La bocca aperta e segni neri sulle guance che dovevano essere delle rughe. Poi l’inquadratura mentale girò di un altro angolo retto, ma stavolta sul piano orizzontale, spostandosi con un raggio uguale davanti a lui. Puntò la gola. Zoomata. - Dettaglio del corpo ansimante. - Ancora più vicino. - Primo piano. Vide il mento passare sopra e distinse la vecchia cicatrice. Di quando era bambino e cadde nel cortile. Più in basso, entrò nel corpo. Nero e flash rossastri. Vischiosità di pareti, aderenze, come in

Tutto il mondo recuperò i secondi persi come in un Fast-Forward. Il secondo sbocco esplose fuori dai denti con un rumore di strisciata, invadendo il manubrio e le mani. Alcune gocce erano ricadute all’indietro. Allungando tracce liquide sul fumè delle lenti della mascherina Oakley. La vista delle macchie bluastre gli provocò un ultimo conato. Nausea che montava. Rigurgitò ancora. In serie. Come dei piccoli singhiozzi, o colpi di tosse stizzosa. Sbandò a destra, urtando un altro ciclista e rischiando lo schianto. Nel colpo inghiottì qualcosa. Udì un tlac-tlac. Perse il contatto dei pedali. Gli attacchi Look erano troppo laschi. Si erano allentati con l’uso. L’aveva notato in settimana. Avrebbe dovuto prendere la piccola brugola in dotazione e dargli un quarto di giro in senso orario. Questo pensiero concreto e pratico lo riportò a uno stato di coscienza più consapevole.

107

Accantonò lo schifo che provava, agganciò i piedi e comprese il significato delle parole che gli venivano rivolte dagli altri ciclisti. - Oh, merda! - Stai male? Eh? - Che schifo.

in fuga. Vide l’ammiraglia gialla e nera e si fermò. Nessuno gli chiese nulla. Tolse gli indumenti. Puzzavano orribilmente. Si cambiò, lavandosi con cura a una fontana. Vomitò ancora, ma solo acqua e saliva.

Si sciacquò la bocca, pulì gli occhiali col dorso del guanto e si defilò dalla testa del gruppetto. Vuotò la borraccia in gola e sputò. Sputò tutta la saliva che gli rimaneva in bocca. Lo fece con tanta forza da rimanere senza fiato e con la testa dolorante. Il gruppetto aveva smesso la sequenza degli attacchi, disgustato e forse conscio della sconfitta. Lo spilungone lo raggiunse in coda. Michele si preparò a difendersi. Il tizio misurò le parole e le mise fuori con una voce più calma del previsto. - La prossima volta, ricorda, la prossima io ti ammazzo!- …… - Hai capito? Rispondimi! - Ho capito. - Ok. Figlio di troia. Vuoi acqua? Rispondi Cazzo! Vuoi acqua? Pulisciti dai, prendi qua. Prese l’acqua e si pulì. Restituì la borraccia vuota senza una risposta e senza mettere giù uno sguardo feroce. Il tizio scosse il capo, cambiò espressione e riprese la testa del gruppetto. Il male alla testa aumentava e una debolezza infinita lo invase. Calcolò che mancavano venti chilometri alla fine del primo giro. Passando sotto il traguardo si sarebbe ritirato. In quel momento decise. Ancora tre mesi di quell’ orrore e tutto sarebbe finito. Il gruppetto si ricompattò, spezzandosi poi nuovamente. Lui rimase nel secondo blocco. Furono ripresi dal gruppo all’imbocco del circuito finale. Ne fu felice. Era impossibile ritirarsi essendo ancora

Epilogo - Quarto posto, ritira il premio... Max lo salutò con il solito affetto. - Michele, mi hanno detto che sei stato male? - Un po’. - Come mai? - Boh, il caldo forse. - Uh, peccato, eri in gara oggi. Ti vedevo bene. - Fino a lì lo ero. Dopo no. - Sì, incredibile. Dovevi vederlo. Gli avrò dato sette o otto cambi in tutto. - Te li chiedeva? - Macchè, passavo io, per rallentare. Gli ho anche detto di aspettarmi. Gli dico, stiamo insieme, non faccio scherzi. Niente. Sembrava posseduto. Al primo passaggio è partito. Mi ha preso dieci metri e non l’ho più visto. Ho dovuto morire da solo fino all’arrivo per difendere il secondo posto. Oh, mi ha dato quasi due minuti. Due minuti! - Ho visto, ho visto. - Ma da dove esce questo mostro qua? Dove la tenevate la belva? È l’ultimo arrivato, ma va come un treno. - Sì, l’ultimo, e ora è il primo. Che storia neh? - Davvero. Okay allora, vado, fra poco mi chiamano. - Vai, tranquillo. Ciao, complimenti. Tornò ad osservare i premiati, - Terzo posto, Alessandro Pellegrini, dalla provincia di Milano, ritira il


premio… Lo spilungone gli passò accanto. Il tizio della sberla. La prima persona (e l’ultima, sperò) che aveva mai picchiato in vita sua. Pellegrini prese la coppa e allargò un bel sorriso sulla faccia stanca. Ciondolava leggermente le braccia, ma teneva la testa ben alta. La ruotava mantenendola in asse, bloccata sul piano orizzontale. Le labbra si mossero verso lo speaker. Guardò la giovane Miss annoiata. Dovette dire qualcosa di vivace, perché la tipa smise il broncio per accennare mezzo sorriso. Lo vide allontanarsi e lo seguì. Uscì dal folto delle premiazioni nella direzione in cui doveva trovarsi il giovane Pellegrini. Lo vide di spalle. Allargava la sporta curiosando i prodotti da portare a casa. Sembrava contento. Non era così alto, ma le gambe erano magre e diritte.

Si fermò. Esitava. Cristo, ma che ti frega! Strinse le spalle. Girò sui talloni puntando il gruppo colorato delle premiazioni. Fece un passo. Un altro e si fermò ancora. Ristette. Si girò di scatto con un saltello. Allungò la falcata. Correva. Balzò dall’altra parte della strada. Piombò su Pellegrini stringendo i pugni. Gli prese la spalla e gliela voltò con forza. - Oh, Pellegrini, tu non sei di zona e non ti incontrerò mai più, ecco, per quanto riguarda prima, io-io non avrei voluto e mi spiace che sia successo a te, ma comunque lo sai, non accadrà più. Davvero. - Guarda io… - No. Fammi finire, ecco, non dovevo, non succederà più. Ed ecco, quindi… Scusa, scusami. Davvero.

Foto di Matteo Dunchi

brand 100% italiano di abbigliamento e calzature, con produzione propria in Europa

storie

SEARCHING A NEW WAY

Tu tieni duro, sei forte, ti ho visto. Grazie per l’acqua. Davvero, grazie. Girò lo sguardo prima della risposta e scivolò lontano. Sentì che Pellegrini lo richiamava, ma era abbastanza, per quella giornata. Represse un impulso prepotente di piangere. Camminò spiccio verso i suoi. Ebbe voglia di cioccolato fondente per oltre cinque secondi. Ficcò i pugni intasca e si diresse al furgone. Guardò in alto, dietro le montagne. Nuvoloni spiralavano verso l’alto in piano-sequenza. Inversione termica. Pensò. Fra poco, lassù, avrebbe cominciato a piovere. STUDIO BI QUATTRO

108

www.montura.it


110

viaggio

J R S G

U S T I D E A R D E N A

Una serata fresca di novembre, una di quelle lente, pigre, scure come la birra che stiamo bevendo io e il mio amico Franz al pub all’Oca qui vicino casa, a Riva del Garda. Chiacchiere sulla vita, cosa va e cosa non va. Ci piace filosofeggiare e confrontarci, specialmente sullo sport. Spizzicando due tartine e due olive arriviamo a parlare di ciclismo. Racconto come era andata la stagione, quello che avrei fatto la successiva, i miei sogni e obiettivi per il futuro. Alla fine sospiro, come di stanchezza. Franz mi chiede cosa avessi ed io, come non aspettassi altro, butto fuori tutto quello che mi gira per la testa da un po’. Confesso una certa stanchezza, racconto di come a volte vorrei di più e di come a volte vorrei fosse diverso. Adoro il ciclismo in tutto, nel bene e nel male, ma a volte provo una certa frustrazione nel vedere tutto così uguale e ripetitivo. Voglio di più, ricordo di aver detto a Franz. Bevo l’ultimo sorso della mia Kilkenny e mi viene un’idea. Appoggio il bicchiere al tavolo, ordino un terzo giro e dico: Voglio fare un viaggio

Testo Daniel Oss

Foto Alice Russolo

in bici. Lui mi guarda e intuisco che ha già capito tutto. Just Ride era appena nato. L’idea è uscita cosi, per evadere dalla routine, dalla noia ed è evoluta con la voglia di avventura, di scoprire un modo di vivere, di viaggiare e di allenarsi, senza programmare troppo la rotta, senza farsi troppi pensieri, senza numeri che indicano velocità, watt, TSS, VAM, senza nessuna sigla o teoria su come migliorare, dimagrire, senza orari di partenza o di arrivo, senza record da battere, senza niente. Solo andare. Just Ride non vuole dire eliminare la gara o l’allenamento per sostituirlo con qualcos’altro, ma piuttosto connettere, o meglio, riconnettersi con una sensazione che credevo di aver messo da parte.


112

viaggio

Il ciclismo di oggi è fatto di obblighi, di routine, di obbiettivi, di traguardi nudi e crudi da raggiungere, di watt, di record, di numeri, estremizzato verso una gestione scientifica che non lascia più niente al caso. Nulla viene più fatto senza fare calcoli, senza considerare le cifre dopo le virgole. La cosa buffa è che tutto questo io lo amo. Amo il mio sport, amo come sono arrivato fin qui, amo come mi spinge a fare e ad impegnarmi per ottenere. Amo la grinta che mi tira fuori la caparbietà e la dedizione che metto in strada, questo ciclismo mi ha insegnato l’educazione, il rispetto, la voglia di vivere. Mi ha dato amicizia, amore, famiglia, mi ha dato anche tanti pugni allo stomaco, certo, tante delusioni. Ma anche tante tante gioie. E non mi basta. Just Ride è un viaggio alla scoperta di me stesso, è un’avventura che mi fa sentire vivo! Mi fa conoscere gente, mi fa esplorare posti meravigliosi, mi fa mangiare, bere, mi tiene in forma e mi rende felice! Felice! Questa per me è la terza edizione e ho scelto la Sardegna. Il perché è molto semplice: voglio isolarmi, viaggiare lontano e un’isola calza a pennello con l’idea di isolamento. Ero stato in Sardegna qualche anno fa quando correvo con la Liquigas per i ritiri di dicembre, ma si sa, nei ritiri si pensa ad allenarsi e non a godersi il panorama. Si pedala spesso sulle solite strade comode e sicure, e via di chilometri su chilometri. Questa volta la Sardegna sarebbe diventata per me terreno d’ avventura, esplorazione pura. Non sapevo cosa aspettarmi ed ero curioso come un bambino. Non avevo pianificato le tappe, solo qualche check point. Ero libero di andare e di fare quello che volevo.

TENETE A MENTE ITAC A

Partiamo. Raggiungiamo Livorno e dopo una notte di navigazione sbarchiamo ad Olbia carichi come non mai. Ritrovo fissato al classico bar del porto per il primo briefing. Poi pronti, attenti e via.

«Bevo l’ultimo sorso della mia Kilkenny e mi viene un’idea. Appoggio il bicchiere al tavolo, ordino un terzo giro e dico: Voglio fare un viaggio in bici». PRIMA TAPPA Il faro di Capo Testa

È come essere dentro a un film, a una vacanza da sogno. Strade semideserte, spiagge solo per me. Ho il morale alle stelle e le gambe vanno da sole, non mi sembra nemmeno di essere in bici. Sono nel mio mondo, totalmente immerso nei paesaggi. Facciamo un piccolo pit-stop con birra Ichnusa, frittura mista di pesce e altre sfiziosità. Tre di tutto e via, si riparte: direzione Santa Teresa di Gallura. Su e giù, mare, colline leggere e arrivo a Capo Testa, appena dopo Santa Teresa. A sinistra ho il mare illuminato d’oro con il sole pronto a tramontare, nuvole grigie e tanto vento. Non resisto: mi fermo subito dopo il ponte e cerco accesso alla spiaggia. Mi butto a mare, l’acqua è gelida, ma è così liberatorio. Faccio due bracciate ed esco. Uno tizio in spiaggia mi dice che a un chilometro c’è un faro molto figo da vedere. Parto.


viaggio

A volte mi sembra di essere negli Stati Uniti e a volte in Australia. Mi fermo in alcune piazzole a sgranarmi gli occhi perché penso di aver bevuto troppa Ichnusa. Scogliere altissime a strapiombo su rocce di granito di ogni forma. Il mare le ha modellate con tutte quelle forme a punta, quasi da far paura. Una meraviglia. Da lontano si vedono onde alte qualche metro infrangersi su spiagge e massi».

A un certo punto trovo un parco, un cancello e continuo sul sentiero. C’è un faro vecchissimo su delle rocce lisce e levigate tanto da sembrare finte. Il tramonto davanti a me si alterna a nuvole cariche di pioggia. Il vento viene dal mare con una forza incredibile. Sono sconvolto dalla bellezza di quello che sto vedendo. La mia bici mi ha portato fin lì, la voglia di andare un po’ più in là e di fermarmi ogni tanto a curiosare mi sta dando quello che cercavo. Semplicemente pedalando».

SECONDA TAPPA Scorta di Pecorino

«Parte con un’alba che nemmeno a Narnia o nella savana di Re Simba s’era mai vista. Mi sveglio e mi svesto subito da bici, conosco i miei polli.

Thilo, Alice e Franz sono pronti a catturare l’attimo nei loro apparecchi fotografici ed io sono già pronto ad andare. Mi aspetta una tappa lunghissima. Destinazione Bosa, a circa 190 chilometri. La sera prima avevo tracciato una rotta, ero gasatissimo. Volevo assolutamente vedere sia la costa nord, scendere nell’entroterra e poi sbucare a Bosa, nota cittadina portuale carina e coccolosa. L’obiettivo, prima di tutto, era di comprare e mangiare qualcosa di tipico sardo». Dopo un breve riscaldamento per uscire da Santa Teresa, percorro la strada principale SP 90 che costeggia la costa nord. Se il giorno prima ho visto il classico paesaggio quasi stereotipato sardo, quel giorno la mia testa è totalmente confusa. Non so più dove mi trovo: sto percorrendo una strada in Sardegna con il mare alla mia destra ma mi sembra di essere in California!

In lontananza scorgo una casa. È in mezzo ad un campo e sembra abbandonata. Nemmeno una pecora, una persona, un’automobile, niente. Mi avvicino e leggo a caratteri cubitali formaggio. Bomba! Il piazzale davanti alla casa è spazioso, mi fermo ad una decina di metri dalla porta per vedere meglio. Esce un omone dallo sguardo cupo, con dei classici vestiti da pastore. Lo guardo e lui mi fa cenno di entrare, nel frattempo arrivano anche i ragazzi. La casa ospita un piccolo negozietto Formaggi sardi da Mario. Burbero Mario, ma estremamente cordiale e simpatico, amichevole. Ci racconta un po’ della sua storia e della sua vita, io gli racconto la mia. Facciamo scorta di formaggi e di pecorino da riportare a casa, saluto Mario e proseguo. Mario nei nostri cuori. Dopo una valanga di chilometri arrivo a Bosa. Troviamo un b&b, ci riposiamo un po’, editiamo il materiale prodotto e io prenoto la cena. Quella è stata la sera della famosa fregola di mare: una goduria, e dormo come un sasso. Adoro quelle serate, fatte di risate, di confronto, di programmi, di obiettivi, di voglia di vivere, di voglia di fare. Fatte di emozioni, di post, di discussioni e di viaggi. Condividere tutto questo con un gruppo di amici così non ha prezzo e pensare che tutto questo lo vedono anche centinaia di persone su internet è ancora meglio!

115

TERZ A TAPPA

Il video al contrario e spiagge Putzuidu e Guspini

La mattina della terza tappa mi sveglio prestissimo, tipo alle 6, ho voglia di una classica colazione all’italiana: cornetto e cappuccino. Sveglio Franz e andiamo insieme, facciamo due passi lungo il fiume e arriviamo al bar. Non pariamo molto, ci assaporiamo la brezza mattutina, l’alba e soprattutto il cornetto e cappuccino caldo del bar del paese. Dopo un paio di sorsi la caffeina fa il suo effetto e mi viene in mente un vecchio progetto che volevamo realizzare con Franz: un video reverse. Franz, ma facciamo o no quel video all’indietro? Immagina che figata in bici, spiaggia, sole, onde. Però io voglio camminare in avanti. Qui esplode un brain-storming di idee tale che subito andiamo in hotel a svegliare tutti e a buttare giù questa cosa. Oltre alla rotta abbiamo pianificato il video al rovescio, e non è stato facile. Andate a vederlo sul mio profilo e provate a rifarlo, se siete capaci! Ad ogni modo quella tappa è stata un toccasana. Inizio collinare vista mare e poi montagna. Prima di iniziare a salire incontro due persone, un papà con sua figlia che pedalano. Mi riconoscono e cominciamo a chiacchierare: stupendi

«Era come essere dentro a un film: strade semideserte, spiagge solo per me. Avevo il morale altissimo e le gambe andavano da sole, non mi sembrava nemmeno di essere in bici».


116

cover story

viaggio

Mare e montagne. La Sardegna è un po’ montagna alpina, un po’ Australia e un po’ California.

questi incontri, trovi gente che si connette a te in pochi secondi, come fossimo amici da sempre. Il ciclismo fa anche questo, o sarà Just Ride? Comunque, ad un certo punto chiedo: Raga, so che in Sardegna siete numeri uno nella produzione di coltelli… Detto, fatto. Mi danno l’indirizzo di una famiglia che realizza coltelli di ogni forma e dimensioni da quattro generazioni. Mi ci fiondo, siamo letteralmente affascinati dal racconto del mastro coltellinaio che ci mostra il laboratorio. Fatto scorta anche di coltelli… Proseguendo a pedalare il paesaggio cambia e si trasforma da montagnoso a collinare in pochi chilometri. Da grandi alberi di sughero mi trovo circondato da fichi d’India. Mi sto avvicinando al mare, il cielo si apre e tutto torna chiaro con quel profumo di salsedine. Perdo i ragazzi, vorrei una foto con i fichi d’India, ma sono spariti tutti. Vabbè, punto Villa Putzu e mi godo la tappa. Dopo un’oretta arrivo e trovo tutti lì a prendere il sole, con computer accesi e Ichnusa stappata. Che grandi! Ragazzi fatemi posto! Insieme pranziamo e montiamo il video reverse.

117

della rotta prestabilita e parto: Sant’Antioco è nel mirino. Tempo 10 chilometri e mi becca il primo acquazzone, una bomba acqua senza troppo freddo. Diciamo che mi sveglia per bene, mi rimette nel mood soffri corridore, devi soffrire. Pedalo veloce, costeggiando un po’ la costa che mi ricorda, a seconda degli scorci, quelle californiane o quelle irlandesi: ogni 10 chilometri mi sembrava di cambiare stato o continente, addirittura. Trovo pochissima gente per strada ma tutti quelli in bici mi riconoscono e ancora increduli vogliono chiacchierare e fare dei selfie insieme. Arrivo veloce con il vento in poppa a Sant’Antioco, un isolotto a sud ovest della Sardegna dal sapore tutto portuale. Pranziamo in una piccola locanda davanti alle barche e subito dopo faccio due pedalate per digerire e incontro una bancarella della frutta. Mi faccio insegnare come si sbuccia un fico d’India e felice mi gusto il mio dessert.

QUARTA TAPPA

QUINTA TAPPA

Al mattino ci svegliamo tutti un po’ stanchi, ma non sappiamo il perché, forse il cielo grigio forse la crisi del quarto giorno o forse l’abbuffata di curlungiones e seadas della sera prima. Ad ogni modo, the show must go on e dico ai ragazzi che là vicino c’è una location meravigliosa che dobbiamo assolutamente vedere: le dune di Piscinas.

Manca qualche chilometro alla destinazione di oggi e mi avvio. Dopo mezz’oretta incontro un uomo con un ragazzino in bici, li saluto, si girano e mi seguono. Stupiti mi dicono che mi stavano aspettando ed io cado dal pero: come mi aspettavano? Finiamo insieme la piccola salita e in cima trovo una decina di persone che mi accolgono con applausi. Era un gruppo di amici che sapevano del mio arrivo grazie alla condivisione sui social e mi hanno aspettato. Fantastico, non ci volevo credere. Viva lo sport, viva il ciclismo!

Dune di Piscinas e Sant’Antioco

Il sole mangia le ore e dopo un po’ si riparte: Igor mi aiuta a riprendere la strada principale

Cagliari e costa sud


118

cover story

JR2020. JustRide è diventato un format, quale sarà la destinazione del prossimo anno?

Saluto con tanti abbracci carichi di energia, tanta da farmi continuare ad alta velocità. Non mi fermo, costeggio il mare e poi la strada rientra un po’, per poi tornare sul mare e uscire ancora. Punto un paesino che vedo sulla mappa e con una breve ricerca trovo un agriturismo in mezzo ad un vasto campo di vigne ed olivi. Arrivo e una signora anziana siede su una panchina fuori dalla reception. Esce una signora che presumo essere la figlia e ci accoglie a braccia aperte: ci mostra tutto, le stalle, la porcilaia, le galline, le carpette, una proprietà bellissima e purissima. Ci scambiamo i convenevoli, tante risate e dopo aver diviso le camere, prima di andare a fare la doccia chiedo il menu per la sera: tutto tipico, con piatto forte il porceddu. La cena migliore del viaggio.

SESTA TAPPA

paura ad entrare, non lo so, come se stessi invadendo un territorio. Silenzio, pace.Il cielo apre uno spiraglio di sole, m’illumina come a dirmi qualcosa. Subito dopo si richiude in un nero pece e capisco cosa volesse dire, parti Daniel, che sta per diluviare! Metto una mantellina e schizzo via.

Direzione Orgosolo

E fu cosi che alla sesta tappa arrivarono le montagne vere. Parto deciso direzione Jerzu, ma non è il mio terreno. Inizio questa salita, ma non vedo la cima, guardo indietro e vedo il mare allontanarsi. Il cielo si sta incupendo, diventa grigio, prima chiaro poi sempre più scuro, l’aria si fa fredda e il vento soffia piano. Mi fermo in un bar ad Ulassai e con una soda e un panino ascolto la storia del barista. Mi racconta la sua vita, io gli racconto la mia. Mi racconta che lì vicino, per colpa di una brutta alluvione, c’è una vecchia città abbandonata. Pago, saluto e mi ci fiondo: sono curioso. Gairo, un paesino di macerie e fantasmi dall’aspetto incredibilmente affascinante. Ho quasi

SETTIMA TAPPA

Orosei e arrivo a Sas Linnas Siccas Non avevamo notato la sera prima che Orgosolo era tappezzata di murales… Wow! Al mattino, come sempre, mi alzo presto e vado a fare colazione nel bar in piazza: caffè, due foto, due video e parto ad esplorare qualche viuzza. Ovunque murales, per lo più politici, mi rendono più curioso del solito e decido di entrare in edicola. Compro un giornale e chiedo al signore di raccontarmi un po’ la storia del paese: non si fermava più. Riassumendo, Orgosolo sarebbe dovuta

diventare una base militare ma il popolo è insorto avendo la meglio, senza violenza ma inneggiando e battendo i pugni per difendere i propri diritti. Da tutto questo si sono poi sviluppate delle forme d’arte, tra cui la street art sui muri della città. Ora è un patrimonio bellissimo, di cui tutti vanno fieri. E bravi, è una figata! Uno in particolare mi colpisce, anche perché credo che calzi a pennello per descrivere la mia avventura, un estratto rivisitato di una poesia di Cavafis...

«Quando parti per fare un viaggio verso Itaca, devi pregare che il cammino sia lungo, pieno di avventure, pieno di conoscenze. Tieni sempre nel cuore l’idea di Itaca».


120

storie

cover story

Velodromo Qualche giro di pista in un velodromo tornerebbe molto utile a chiunque di noi, per certi versi è un’esperienza illuminante.

Non c’entra solo il ciclismo. Le bici da pista sono semplicissime nella costruzione e nel funzionamento, sono tutte rigorosamente senza freni e questa è paradossalmente la condizione essenziale per la sicurezza di tutti i ciclisti nel gruppo: non frenare. Mai. Pedalare in pista avendo a disposizione i freni consentirebbe a chiunque in qualsiasi momento di sentirsi autorizzato a usarli, in caso di emergenza. Ognuno ha una propria idea soggettiva e arbitraria di emergenza e la sicurezza personale è per natura una questione legata all’esperienza o alla percezione personale. La sicurezza collettiva invece, è un affare diverso. Alcuni di noi (nella vita di tutti i giorni, non solo nel ciclismo) pretendono di pensare alla sicurezza collettiva come una somma di diritti personali, qualcosa che comporta soltanto vantaggi e nessuno svantaggio o nessun rischio, nessun tipo di rinuncia. Molti pensano alla sicurezza come a una serie di limiti da non oltrepassare mai. Ma non è così che funziona, i divieti non bastano. La sicurezza pedalando in gruppo in pista non è mai da dare per scontata, è una possibilità, un obiettivo comune. È la somma algebrica di un calcolo che tiene conto di rischi e possibilità, di metodo e improvvisazione, di abilità e di imprevisti. I velodromi, proprio

Testo Emilio Previtali

come ogni ambiente naturale o spazio condiviso, non sono luoghi esenti da rischi: si pedala veloci, a distanza molto ravvicinata, ci si sorpassa e ci si insegue e le curve sono piuttosto inclinate, andando piano è perfino difficile restare in equilibrio. Pedalare in pista per un neofita è piuttosto destabilizzante, difficile. E poi, appunto, le bici sono senza freni. Per pedalare in un velodromo ed evitare di farsi male bisogna accettare un certo grado di rischio e farlo proprio, prendere o lasciare. Minimizzare i rischi vuol dire in realtà accoglierli e gestirli, non eluderli o aggirarli. Non eliminarli. Si fa sempre fatica a spiegare a certi che pretenderebbero di decidere per tutti che non è vero che in nome della sicurezza ogni divieto, ogni regola o limite imposto è utile allo scopo. Leggi, regolamenti, divieti, norme, aggeggi tecnologici, controllo esterno, limiti, freni sulle biciclette. Se chiedete a uno che non ha mai pedalato in un velodromo se è più sicura una bici senza freni o una con i freni, cosa volete che vi risponda? Percezione e realtà non sono la stessa cosa. La sicurezza certe volte ha a che fare con il fare di più, con il controllare, con l’aggiungere. Certe altre volte invece ha a che fare con il non frenare, con l’improvvisare e con il togliere. I freni, ad esempio.

Il velodromo di Montichiari. Unico velodromo italiano coperto, è chiuso al pubblico dal luglio del 2018.

121


122

giro rosa

SPERIAMO 8 luglio 2019, sembra un giorno come tanti altri, caldo asfissiante come i tre giorni già trascorsi dall’inizio del Giro Rosa. Da grandi appassionati di sport in generale e soprattutto di ciclismo, quest’anno io e mio marito decidiamo di seguire le dieci tappe del Giro d’Italia a cui partecipa per la prima volta anche nostra figlia Letizia, che corre con la squadra toscana Aromitalia Basso Vaiano. Testo Lara Torresani

Foto Flaviano Ossola / Aromitalia

La nostra è un’avventura in camper a supporto non soltanto di Letizia ma di tutte le ragazze della squadra, facendo da appoggio in zona partenza e arrivo, rifornimento e cambi borracce quando serve, il tutto in un bel clima amichevole e familiare, non sempre facile - anzi, raro - da trovare. Il Giro Rosa rispetto alle altre gare ha un’atmosfera diversa, particolare, contraddistinta da incontri con persone lungo la strada che segnano le tappe di quest’avventura sportiva. Ricordo volentieri il giorno della prima tappa, poco prima della partenza: mio marito ed io ci trovavamo in area sosta camper ad Aqui Terme e abbiamo conosciuto una coppia di signori di Settimo Torinese. Di loro non ricordo neppure il nome.

Erano lì a vedere la gara, si sono dimostrati subito molto accoglienti e interessati alla storia di Letizia e ai buoni risultati ottenuti. Abbiamo condiviso, tra genitori, il racconto dei tanti anni di vita, dei viaggi a seguito delle gare, delle spese sostenute, dei sacrifici nostri e di nostra figlia combinati con lo studio, parlando in generale della passione che ci lega al ciclismo. 
Di tanto in tanto la signora, con un bell’accento meridionale mi interrompeva dicendo: «Speriamo che sua figlia vinca almeno una tappa!». 
«Sì, speriamo», rispondevo io, accennando un sorriso sulle labbra, però dentro di me pensavo: è troppo difficile, Letizia è giovane, è alla sua prima esperienza in una gara a tappe così lunga. Ci sono molte atlete forti e mature, è difficile. 
Ma dopo un po’ che


124

giro rosa

parlavamo e mentre mi spiegavo, la signora mi ribatteva: «Beh, comunque speriamo che vinca almeno una tappa!». «Sì, speriamo» ripetevo io. Lei ci credeva più di me in quel momento. 
Quella frase ripetuta più volte mi è sempre rimasta incollata nella mente durante tutti quei giorni. Bisogna crederci, sempre, è vero. È proprio così. Il giorno della quarta tappa da Lissone a Carate Brianza sembrava uno come tanti altri, con il solito caldo asfissiante che ha poi contraddistinto tutte le dieci giornate del Giro, invece si è rivelata una sorpresa eccezionale e inaspettata. Letizia, rimasta purtroppo fuori dai giochi per la conquista della maglia bianca delle giovani a causa di una foratura nella seconda tappa, dove aveva perso parecchi minuti, aveva già deciso di attaccare e provare a mettersi in mostra. Subito gara durissima dai primi chilometri, i forti squadroni delle atlete di punta avevano improntato un forte ritmo poiché si diceva fosse l’unica tappa adatta alla volata per le velociste, quindi

cover story

niente fughe ma gara tirata e controllata dall’inizio all’arrivo. Questo almeno ci si aspettava. Invece no, succede il contrario. Mi trovo al secondo cambio borraccia, dopo circa 40 chilometri di gara e riconosco tra le prime la sagoma di Letizia: Sì, è lei! Riconosco il suo stile, la pedalata, la maglia con i colori del suo team, è in fuga insieme ad altre due atlete: Chiara Perini e Nadia Quagliotto. Viaggiano forte, collaborano, è un attimo di felicità assoluta, un sussulto al cuore. Passano e continuano a pedalare forte su e giù per i colli brianzoli sotto il sole cocente. Il vantaggio è grande ma la gara è ancora lunghissima: una sessantina di chilometri in tre atlete soltanto è un’ardua impresa, ma la speranza resta sempre viva. Durante quelle interminabili ore spero, cerco di parlare con le persone che ho intorno per dare e darmi coraggio, leggo continuamente gli aggiornamenti sui tempi, e perfino prego.

Prego come ogni mamma per scongiurare incidenti, come si fa ogni giorno quando ci sono sia allenamenti che gare, sulla strada è sempre un pericolo. Prego la Madonna del Ghisallo, protettrice dei ciclisti, perché tenda la sua mano su mia figlia che ha scelto di fare questa vita da corridore, di praticare questo sport tanto bello quanto pericoloso. Il traffico e gli incidenti sono sempre in agguato. Sono ore interminabili, con il camper sbagliamo anche strada e ci ritroviamo alle spalle della corsa, rischiamo di non arrivare in tempo al traguardo. Il caldo mi attanaglia, non si ragiona più in modo lucido, l’ansia la fa da padrona, finisce che ti scordi pure di bere e pensi solo a lei, in fuga inseguendo un sogno fatto e rifatto mille volte. Sarà l’occasione buona?

125


126

giro rosa

cover story

«Riconosco tra le prime tre in fuga la sagoma di Letizia: Sì, è lei! Riconosco la pedalata, la maglia del suo team, è un attimo di felicità assoluta, un sussulto al cuore». Sai che tua figlia si è preparata con cura, ci metterà l’anima da vera guerriera com’è sempre stata, forte e resistente, amante delle corse dure, soprattutto quelle del Nord, le grandi e lunghe classiche con il pavé, i muri, il freddo e spesso anche la pioggia. Non si arrenderà facilmente al caldo e all’afa ma soffrirà, questo è sicuro. Il gruppo alle loro spalle recupera, le squadre di

punta si organizzano ma non riescono ad annientare il vantaggio, mia figlia e le altre due compagne di fuga non mollano mai. A pochi chilometri dal traguardo hanno circa un minuto però iniziano a guardarsi, tirano solo in due, inizia lo studio snervante delle atlete e noi finalmente abbiamo ritrovato la strada e siamo al traguardo, a Carate Brianza. Salgo in bici e vado

verso l’arrivo, percorro veloce l’ultimo chilometro per visionare l’arrivo e poter dare, casomai servisse, qualche indicazione a Letizia quando passerà davanti a me. Il cuore batte a mille e anche le mie gambe spingono più veloci che mai, mi ritrovo a bordo strada una grande folla di spettatori come si vede in televisione con le gare maschili, è la tappa più importante del Giro Rosa, la tappa regina. Mi fermo. Poso la bici, mi posiziono dietro le transenne e dopo un attimo vedo spuntare le tre atlete, Letizia c’è. Conosco quell’espressione, sembra concentratissima, vorrei leggere nel suo pensiero. Riesco ad urlarle l’arrivo è un po’ in discesa, non partire per prima,

127

forse non serve ma tu da mamma vorresti dirle tante cose che lei sa già di sicuro, ma è così che siamo fatte, noi mamme, ogni occasione è buona per voler consigliare. E visto che sono una mamma sportiva e un po’ me ne intendo di fatiche e di sofferenze, voglio poter dare il mio contributo. Il passaggio davanti a me dura un istante, io continuo a correre verso il traguardo, zigzagando tra la gente, tutti esultano, non si capisce chi ha vinto, c’è incertezza. Mio marito Giuseppe sta parcheggiando il camper, si è perso lo spettacolo. Non chiedo niente a nessuno, voglio sognare in grande, qualcosa mi


128

giro rosa

dice che devo far presto ad arrivare al traguardo, ma non vedo niente, non vedo Letizia, è pieno di pubblico. Sono tutti in festa! Finalmente dopo la linea d’arrivo scorgo i colori delle compagne di Letizia ammassate addosso a lei che esultano, ridono, piangono, gridano. Ho il cuore in gola. Non ci posso credere, è successo. Il sogno è diventato realtà. Vittoria! La gioia è incolmabile, scoppiano le lacrime, per un attimo esulto insieme agli altri e alle ragazze e poi mi ritiro da sola in un angolino, guardo tutti e tutto da lontano e ringrazio il cielo. Per Letizia è il giorno più bello della vita, perlomeno così dice lo speaker, forse è proprio così. Sul palco premiazioni, insieme a lei ci sono ciclisti famosi come Gianno Bugno e Claudio Chiappucci, non l’ho mai vista così felice e sorridente! Quel sorriso semplice e spontaneo che viene dal cuore

quando vedi la tua fatica ricompensata. Carpe diem, Letizia, cogli l’attimo. Goditi il tuo giorno grazie all’occasione che ti sei costruita e goditi la festa. C’è anche una bella e significativa coincidenza: insieme al trofeo a Letizia viene consegnato il gagliardetto della Madonna del Ghisallo, lo stesso ricevuto tre anni prima per la vittoria nella gara junior, conquistata sempre in fuga, ma solitaria, proprio sul traguardo al Santuario del Ghisallo. Era un segno! Sembrava un giorno come tanti altri, l’8 luglio 2019, un giorno caldo e asfissiante. E invece per noi, per la nostra famiglia, per mio marito e per me, per mia figlia Letizia, quel giorno sarà indimenticabile. Dopo due anni un’atleta italiana vince una tappa al Giro Rosa, una giovane di appena vent’anni: è lei, è la mia Letizia. Mi risuona sempre nella mente e mi commuove la frase della signora di Acqui Terme: «Speriamo che vinca almeno una tappa!». Bisogna crederci, sempre.

129

Campioni. La foto di rito prima della premiazione con Claudio Chiappucci e Gianni Bugno.


1966. Ricordi in bianco e nero, Ernesto con Gianni Motta vincitore del Giro d'Italia 1966.

cari amici C’è chi festeggia la ricorrenza del compleanno e chi quella del primo giorno di lavoro della vita con la stessa enfasi. Ernesto Colnago fa così, da sempre. Il 25 novembre di tutti gli anni, con gioia, condivide con collaboratori e dipendenti della sua azienda il ricordo di quel giorno. Anche quest’anno – era un lunedì mattina e pioveva – è arrivato in ufficio prima degli altri. Ha scritto una letterina al computer e poi l’ha stampata e l’ha appesa alla macchinetta del caffè con un pezzo di scotch trasparente. I dipendenti l’hanno trovata e letta durante la pausa delle undici.

131


storie italiane

MM2019 –Muretti Madness

Testo Matteo Pierattini

Foto Tornanti.cc

133

È una limpida mattina di fine ottobre, sono circa le 6 e mezza ed il sole sta per sorgere. Al centro della scena c’è la Cupola del Duomo, enorme, ancora addormentata con la sua corazza di tegole rosse. Intorno c’è Firenze, con i tetti a falda e le strade in pavé lucide di umidità notturna.

Sui confini della città i palazzi lasciano velocemente spazio agli ulivi ed ai boschi di cipressi che ricoprono i versanti dei colli circostanti, attraversati da strade che salgono ripide e dritte o che si snodano come serpenti in tornanti stretti e nervosi. Sopra a tutto il cielo, che sta schiarendo alle prime luci dell’alba. Sulle strade, giù in città, una, due, dieci, cento, cinquecento biciclette stanno arrivando al punto di raduno, con le loro luci rosse intermittenti. Tutti spingono sui pedali per arrivare alla partenza di un’altra edizione della Muretti Madness, la coincidenza organizzata per sadici di salite ideata dai Cicloidi che dal 2014 si corre tutti gli anni l’ultimo sabato di ottobre. I partecipanti sanno che non si tratta di una gara e che alla fine della giornata non sarà proclamato un vincitore: per questo motivo la partenza è un momento nel quale ci si incontra, ci si saluta, ci si conosce, si discute del percorso, perché anche quest’anno gira voce che questa sarà l'edizione più dura di sempre. E poi si parte ovviamente, alla francese. La MM ha una sola regola: si pedala per circa 110 chilometri dentro Firenze e sui versanti delle colline più prossime su una traccia che include il piatto forte di queste parti: i Muri. Se è vero che un muro è definibile come una salita corta e ripida, è altrettanto vero che Firenze offre diverse varianti di questo genere di salita, temuta e rispettata da ogni ciclista. I muri di Firenze sono tanti, tantissimi e di tipologie e forme diverse. Dai muri cittadini, quelli dentro il tessuto storico, quasi sempre brevi e bruschi, pavimentati con pietra serena, che corrono lungo mura, chiese, vecchie case e talvolta accanto a capolavori di medioevo e Rinascimento, come


134

cover story

Muretti Madness si tiene a Firenze ogni anno ad ottobre, fa smadonnare, sudare e faticare come bestie da soma. Non è una gara ma una coincidenza collettiva per sadici delle salite.

il muro di Via di Belvedere, 300 metri al 14% che corrono accanto ad uno dei pochi tratti di mura di Firenze sopravvissuti alle demolizioni ottocentesche; fino ai muri della prima campagna, più lunghi, spietati e verticali, quasi sempre rinchiusi tra vecchi muretti di pietra dai quali si intravedono gli ulivi dei campi retrostanti, punteggiati di case, casette, chiese, chiesine, altari votivi, vecchi alberi, come il muro di Monteripaldi, 500 metri al 15% di pendenza media che non ti permette di avere la minima esitazione, pena cadere tra le grinfie dei crampi. E per finire i muri dell’aperta campagna che diventano spesso salite

cover story

Muretti. Alcuni strappi sono incassati tra le case o chiusi da muri laterali.

135

vere e proprie, nervose, che vanno su a strappi violenti, immerse dentro boschi di cipressi o di querce, attraversando gruppi di vecchie case in pietra popolate di gatti, con l’asfalto pieno di buche e ghiaia, e che non ti fanno mai prendere il ritmo, come via di Pisignano, 1 chilometro al 13% di pendenza media che ti costringe a ripensare seriamente al tuo rapporto con la bicicletta. Il percorso, diverso ogni anno, offre un cocktail micidiale di muri di vario genere, garantendo sempre 3.000 metri di dislivello totali. Il repertorio di muri è talmente ampio che permette di inserirne di nuovi ad ogni edizione, per portare i ciclisti su strade e stradine mai viste, perfino da chi a Firenze pedala da una vita. Questa formula garantisce che ogni Muretti risulti diversa dalla precedente, che ci sia sempre una ragione per tornare anno dopo anno, e che sia normale pensare che il muro più duro debba ancora essere scalato. La MM è anche un modo di scoprire una città ed un territorio che nasconde gioielli segreti al 20% di pendenza che ogni amante della salita non si dovrebbe perdere per nessuna ragione al mondo. Infatti vengono a pedalare sui Muri di Firenze da tutta Italia e ora, anche dall’estero. La VI edizione della MM si è svolta il 26 ottobre scorso sotto un sole a


136

cover story

cover story

La stagione giusta per la MM è l’autunno. L’estate è troppo calda, l’inverno troppo umido e bagnato per garantire l’aderenza necessaria alla ruota posteriore in salita.

137

martello che ha portato le temperature sui 28 °C nella parte centrale della giornata, provocando una tempesta di crampi tra i cinquecento partecipanti come non si era mai visto da queste parti. Anche quest’anno, il clima non ancora autunnale ha graziato i partenti, regalando a tutti una splendida Firenze, languida nella calda luce dell’autunno. Quando nacque l’idea della MM, la data fu quasi una scelta naturale. L’estate è troppo calda da queste parti per una pedalata così dura, così come spesso anche la primavera. L’inverno invece è troppo umido e bagnato per pensare di salire e scendere su questi percorsi in gruppo. Fine ottobre offre una coda mite dell’estate, con l’aria fresca e limpida che esalta le prospettive continue su città e campagna, godendo di una luce pazzesca. L’idea primigenia della MM è nata attorno ad una specie di utopia: accumulare quanto più dislivello possibile pedalando sui muri attorno a Firenze senza perdere mai di vista la Cupola del Brunelleschi. Una teoria ciclistica che si sovrappone alla teoria urbanistica brunelleschiana, un manifesto programmatico di ciclo-urbanismo situazionista da far tremare i polpacci. Una teoria nata dentro la Facoltà di Architettura di Firenze da un gruppo di amici con la passione del ciclismo che, salita dopo salita, hanno fondato i Cicloidi, si sono laureati ed hanno dovuto fronteggiare il


138

cover story

problema primigenio di ogni ciclomaniaco: come conciliare lavoro ed allenamento? La risposta sono stati i Muri, il Big Bang di tutta questa storia. Allenamenti brevi ed intensi, su e giù per le strade meno conosciute di Firenze, ad ammirare a bocca aperta (dalla meraviglia e dal fuorisoglia) luoghi mai visti prima. Dopo anni di allenamenti, ricerche, scoperte, è emerso uno spartito magico composto di dislivello e paesaggi, che doveva essere trasformato in qualcosa. E quel qualcosa è stata la Muretti Madness. Alla partenza si trovano tutti i tipi di partecipanti, con svariati tipi di bici, ma con il comune denominatore di corone compatte e pacchi pignoni ampi ed attrezzati verso i numeri più elevati in commercio, per salvare la gamba quanto più a lungo possibile e riuscire ad arrivare alla parte finale del percorso con ancora un livello di lattato decente nelle gambe. Questo perché il percorso è studiato per creare un crescendo che sfocia sempre in un Gran Finale, costituito generalmente da un trittico di muri da affrontare intorno al centesimo chilometro, quando ormai si hanno quasi 3.000 metri di dislivello nelle gambe. Fiesole offre spesso lo spot ideale per

cover story

Lastricato. Le salite sono a volte asfaltate e a volte lastricate in pietra. murettimadness.it

139

questo tipo di conclusione, posizionata com’è su una collina alta e ripida proprio di fronte al capoluogo toscano. Nell’edizione 2019 un trittico di muri micidiali attendeva i partecipanti proprio intorno al chilometro 100, portando la carovana su uno dei picchi fiesolani più alti, con il Muro di Sant’Apollinare che chiudeva le fatiche di giornata con i suoi 300 metri al 14% di pendenza media su una strada stretta e chiusa tra due muri in pietra che non ti lascia scampo e sul quale si sono difatti consumate scene epiche di sofferenza tra i più affaticati. Anche quest’anno i fotografi che seguono i ciclisti si sono posizionati nei punti strategici, dove le pendenze fanno più male, per cogliere fino all’ultima goccia di sudore caduta dalle fronti madide, fino all’ultimo dente digrignante. Sant’Apollinare ha chiuso le fatiche di questa edizione, aprendo le porte della discesa che da Fiesole riporta a Firenze, una delizia per occhi e polpacci. Ed il muro di Sant’Apollinare è stata anche l’ultima salita del Trittico 2019, la tripletta di eventi di ciclismo dal basso che comprende Martesana Van Vlanderen, Coppa Asteria e Muretti Madness, che regala una medaglia a chi completa le tre prove nell’arco di una annata.


140

allenamento

141

fare spazio La missione in cui sei riuscito è stato ricavare uno spazio nel caos, non soltanto nel tuo ripostiglio. A pensarci bene gli spazi che hai creato sono due, uno è un luogo fisico, è al piano di sopra di casa tua. Ci tieni gli sci, gli snowboard, gli scarponi da sci, la roba per andare in montagna, tutto un po’ in disordine, adesso ci tieni anche la bicicletta.

TACX Neo 2T Smart Analisi della pedalata Modalità isotonico e isocinetico [ERG Mode] Nessuna calibrazione richiesta Indicatori di connessione a LED Compatibile con tutte le bici tramite adattatori Rumorosità minima > 61dB Tipo: Direct drive Potenza max: 2.200 W Pendenza max simulabile: 25% Peso: 21.5kg Ruota libera: Virtual Prezzo: 1299€

È montata sul rullo, ci sta precisa con il tavolinetto su cui appoggiare il computer portatile. L’altro spazio che hai liberato dal caos è un luogo mentale, quando sei al lavoro durante il giorno hai cominciato ad andarci spesso. Pensi a quell’ora di fatica e sudore che ti aspetta la sera quando rientrerai a casa, è un appuntamento con te stesso. Prima quando tornavi dal lavoro andavi dritto in cucina e ti sgranocchiavi qualcosa. Poi immancabilmente tutte le volte ti sedevi sul divano e cominciavi a scrollare il display dello smartphone e a mangiare qualcos’altro, andava sempre a finire che restavi lì a cazzeggiare e arrivava l’ora di cena. A quel punto la giornata era andata, quella di lavoro e anche quella sportiva. In estate decidersi a pedalare è più facile, le giornate sono più lunghe e avere voglia di uscire di case è normale. E poi nella bella stagione ci sono sempre gli amici, basta una telefonata, farsi trovare all’orario giusto al solito posto e un compagno di allenamento lo trovi sempre. In inverno invece, pedalare e restare motivati è più dura. Avevi sempre detto che i rulli non li avresti mai usati. Mai e poi mai - dicevi. Poi ti hanno regalato questo. È facilissimo da installare, ti hanno spiegato mentre lo sfilavi dalla scatola, tu non sei uno che ama sprecare il suo tempo a leggere caratteristiche tecniche, manuali di istruzioni e modalità di set-up. In effetti una volta montata la bicicletta sui rulli non restava altro che pedalare. Niente calibrazioni, procedure di avvio o accoppiamenti di strumenti recalcitranti, il trainer che

hai fa tutto da solo, a parte pedalare. Quello devi farlo tu. Adesso che è inverno torni a casa dall’ufficio e vai direttamente a cambiarti. Sei motivato. Fa un certo effetto girare per casa vestito da bici in maglietta e pantaloncini, come d’estate, quando fuori fa freddo. Accendi la musica e ti metti in sella. Certe volte ti godi semplicemente la pedalata e se vuoi vedere sullo schermo del computer o dello smartphone a che punto stai sulla salita che stai scalando, c’è pure una Tracx app che te lo dice. Certe volte invece ti connetti con Zwift e pedali in compagnia, è come un videogioco, per quanto tu nel tuo ripostiglio sia lì da solo. È strano. Certe volte invece non fai altro che seguire un programma di allenamento, alterni la fabbricazione di watt a momenti di recupero, nel frattempo ti guardi una serie tv. Chissà se funziona davvero l’allenamento sui rulli? Certo che funziona, anche meglio di quello in gruppo, per certe cose. A primavera collauderai la tua preparazione in strada ma a parte questo un risultato si vede già: Il tuo ritorno a casa dopo il lavoro è diventato un’altra cosa. Prima l’inverno era la brutta stagione del ciclismo, adesso è la stagione dell’allenamento. L’uscita lunga è riservata al sabato o alla domenica, la fai ancora più volentieri. La salita che hai dietro casa una volta la chiamavi semplicemente salita, adesso la chiami salita-test. Migliorarti è diventato il tuo hobby, a certi piace il modellismo, a te che sei un ciclista piace fare fatica e provare ad andare più veloce. O magari soltanto più lontano, l’allenamento in fin dei conti è a questo che serve: a godere di più.


tappo/circuito!

ANDREAS GRAF

CALEB EWAN

ELIA VIVIANI

SHANNON MCCURLEY

MARIA AVERINA

MARC CAVENDISH

DA 10 A 99 ANNI. DA 2 A 20 GIOC ATORI.

n su u essi neo, e dei g con n omog ta deve is terra no e in che se to. La p 0 cm n 1 n gnar Dise duro, a piacime minimo miti di o li i fond rcorso a hezza d ci sono e g un p una lar cm. Non e aver simo 20 a pista. s ll e ma ezza de h lung

SIMONA FRAPPORTI

RACHELE BARBIERI

INCOLL A QUI

Regole del gioco Per decidere chi inizia si può procedere in due modi: 1 / Si sceglie un ordine, possibilmente il più strampalato possibile (ad esempio dal nome più lungo al più corto, in caso di parimerito inizia chi ha l’iniziale di nome prima nell’ordine alfabetico, oppure da chi ha percorso più chilometri in bici nell’utimo anno, etc etc) 2 / Si gioca a chi si avvicina il più possibile (senza contatto) al muro con il lancio del tappo.

Una volta stabilito l’ordine di partenza si gioca a turno, facendo un tiro alla volta. Ovviamente vince chi arriva per primo al traguardo. Chi esce dal percorso deve tornare dal punto in cui è stato fatto l’ultimo lancio. Quando si va nella casella foratura si salta un turno. Quando si va nella casella ammiraglia si può tirare un’altra volta. Se con il proprio corridore si tocca un altro corridore, entrambi cadono: il proprio si ferma due turni, l’altro per uno.


direttore DAVIDE MARTA davide.marta@mulatero.it

Alvento #8. In copertina, Six Days London foto di Tornanti.cc.

via Giovanni Flecchia, 58 10010 Piverone (TO) tel 0125 72615 www.mulatero.it - mulatero@mulatero.it

BIMESTR ALE in edicola dal dicembre 2019

08

6 eu ro a l v e n t o.c c

08

#

d i c e m b re 2 019

90008 9 772531 739001

>

RIVISTA BIMESTRALE

Collaborare

Direttore Responsabile Luca Giaccone Fondatore e Direttore Editoriale Emilio Previtali emilio.previtali@alvento.cc

Le collaborazioni che cerchiamo funzionano secondo il sistema delle submissions.

Pr, Informazioni e Pubblicità info@alvento.cc Redazione Andrea Chiericato, Gabriele Pezzaglia, Claudio Primavesi Amministrazione Simona Righetti simona.righetti@mulatero.it Segretaria di Amministrazione Elena Volpe elena.volpe@Mulatero.it Logistica e magazzino Federico Foglia Parrucin magazzino@mulatero.it Progetto grafico e Impaginazione tundra visit@tundrastudio.it Hanno scritto su questo numero: Davide Bernardini, Filippo Cauz, Ernesto Colnago, Federico Damiani, Claudio Dancelli, Michela Dezza, Davide Marta, Daniel Oss, Matteo Pierattini, Federico Ravassard, Luca Saugo, Lara Torresani. Hanno fotografato su questo numero: Chiara Redaschi, Federico Ravassard, Tornanti.cc, [Francesco Rachello e Eloise Mavian], Bettiniphoto.net, Nicola Da Monte, Daniele Molineris, Kåre Dehlie Thorstad, Poci’s Foto, Emilio Previtali, Flaviano Ossola, Alice Russolo, Franz Perini, Alessandro Turci.

distribuzione in edicola MEPE - Milano - tel 02 89 5921 stampa STARPRINT srl - Bergamo

Autorizzazione del tribunale di Ivrea n. 1 del 27/06/2018 (Ruolo generale 1904). La Mulatero Editore è iscritta nel Registro degli Operatori di Comunicazione con il numero 21697.

© Mulatero Editore Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa rivista potrà essere riprodotta con mezzi grafici, meccanici, elettronici o digitali. Ogni viloazione sarà perseguita a norma di legge.

Mandateci una storia intera che vorreste vedere pubblicata su Alvento con testo, foto e disegni se ce ne sono, oppure mandate un intro o un pezzetto di testo che sia un assaggio della storia che volete raccontare, in quel caso bastano 1800 caratteri, non di più. Se siete fotografi e volete collaborare vale lo stesso sistema: fate una selezione di immagini, mettetele in una cartella e condividetele con noi attraverso Dropbox o inviatecele con Wetransfer. Non mandate centinaia di fotografie, fate una selezione, il lavoro di fotografo è anche questo. Non mettete watermark sulle foto. L’indirizzo a cui dovete scrivere è quello del Direttore Editoriale, cercatelo nel colophon.

Dove trovarci

Non è facilissimo costruire il piano di distribuzione per una nuova rivista, fare in modo cioè che sia reperibile in tutte le edicole. Ci vuole un po’ di tempo, ma il nostro distributore ce la sta mettendo tutta. Per cui, se qualche edicola dove vi piacerebbe comprarla non fosse rifornita, segnalateci indirizzo, nominativo del gestore e codice rivendita con una mail a info@alvento.cc. Poi ci pensiamo noi. Se invece preferite ricevere la vostra copia direttamente a casa, basta andare sul sito della nostra casa editrice (mulatero.it) e scegliere una delle proposte di abbonamento.


146

ultimo chilometro

La curva perfetta Testo Michela Dezza

Un giorno capita che sei in discesa, scendi dalla tua salita preferita e fa caldo, molto caldo. Talmente caldo che guardandoti in giro e facendo caso agli altri ciclisti sei l'unica che ha la giacca a vento indosso, tutti gli altri scendono in maglietta. Fa davvero caldissimo, in effetti. Ti viene da ridere. Una risata genuina, spontanea, dentro a cui riesci a sentirti un po’ ridicola e a prenderti in giro. Davvero, sei unica. Siccome stai ridendo non sei concentrata sulla discesa come dovresti, quindi arrivi al primo tornante più veloce del solito, molto più veloce del solito. Troppo. Eri concentrata a ridere e a sentire la tua giacca giallo fluo appiccicata addosso come se fosse una seconda pelle e ormai è troppo tardi per frenare. Cerchi di inclinarti, provi a non invadere l’altra carreggiata e di proiettarti al centro della curva e il risultato è una linea perfetta, meravigliosa, percorsa al doppio della velocità con cui di solito percorri i tornanti. Appena fuori dalla curva guardi il contachilometri e ricominci a ridere un’altra volta: proprio quando non ci stavi pensando, è arrivata la curva che vai cercando da una vita. Non ci puoi credere. Questa è un'altra delle curve che ricorderò – pensi – una da mettere nel cassetto delle curve perfette. Dentro di noi c'è un posto dove teniamo le curve riuscite bene, ce l’hanno tutti quel cassetto segreto. Dentro, in tutto, ci stanno quattro o cinque curve al massimo. Ci avevi provato e riprovato tante volte, ad ogni occasione. È difficile riuscire a farla, quella curva che immagini e che vorresti sentire, ma non viene mai fuori. È perché non lo sai neanche tu cosa stai cercando, esattamente. Eppure nella tua testa un’idea di come dovrebbe essere, di come dovresti sentirti, c’è. E poi finalmente arriva il giorno. Succede anche nello sci. Di solito capita per una combinazione di ragioni, per via della neve giusta, perché ci hai provato mille e mille volte e perché hai smesso di pensarci, finalmente ti ritrovi sullo spigolo, conduci gli sci e provi una sensazione di libertà e di velocità bellissima. Poi ci provi e ci riprovi di nuovo ma la curve che ti vengono fuori dopo non sono più le stesse. Non sono come quella davvero magica che hai fatto prima, quella era unica. Eppure quella sensazione che hai provato adesso risiede dentro di te, non la puoi più dimenticare. Ce l’hai. Adesso lo sai che esiste ed è per quello che ci riproverai ancora. 
 E ancora. E ancora. E ancora.

NATALE CON I TUOI, PEDALA CON CHI VUOI. Il pranzo, i regali sotto l’albero, lo zio che urla tombola al secondo numero estratto. A Natale ci sono momenti a cui non si può mancare. Poi c’è tempo per pedalare, per infangarsi su una strada sterrata, per una pausa caffè con gli amici di sempre. Per tutte quelle cose che ci fanno sentire felici. Quest’anno regalati un po’ di tempo in sella: sarà bellissimo. Buon Natale da Sportful.


A D D I C T G R AV E L

FIND YO U R S E L F, GET LOST NO SHORTCUTS A volte la libertà sembra lontana. Conquistala con una bici. Addict Gravel è pronta a tutto: asfalto, strade bianche e persino single tracks. Salta in sella e inizia il tuo viaggio.

SCOTT-SPORTS.COM © SCOTT SPORTS SA 2019.20 | Photo: Brazo de Hierro


Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.