Spagine della domenica 79

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spagine della domenica n°79 - 14 giugno 2015 - anno 3 n.0

Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri

Un omaggio alla scrittura infinita di F.S. Dòdaro e A. L. Verri


Immigrazione,

spagine

della domenica n°79 - 14 giugno 2015 - anno 3

l’opinione

siamo al disastro

C

erti cambi di vento si avvertono anche a non essere di pelle delicata. Qualche tempo fa – non moltissimo – chi parlava di pericolo immigrazione era solo la destra nelle sue varie articolazioni, dalla Lega a Forza Italia, a Fratelli d’Italia, a Casa Pound e giù di lì. Oggi ne parlano tutti, a gara a chi più lontano lancia l’urlo d’allarme. Non sono solo governatori e sindaci di destra ma anche governatori e sindaci Dem, convertiti ai richiami del popolo in progress d’incazzamento. Un esempio per tutti: Felice Casson, già magistrato d’assalto, alle prese col ballottaggio nella sua Venezia, ha detto basta, non c’è più posto. Le scene milanesi e romane, con le piazze, i piazzali, le stazioni, i giardini pubblici trasformati in corti dei miracoli, in scenari biblici, quasi set di un film in cui da un momento all’altro si debba ordinare “ciak, si gira”, sono la rappresentazione reale e diretta di un Paese, l’Italia, incapace di farsi rispettare in Europa e incapace di decidere da sé in un modo qualsiasi, ma fermo e deciso, per evitare lo scorno imperante. Inglesi, francesi, spagnoli, greci non ne vogliono sapere; presidiano le loro frontiere; se occorre sparano; addirittura si danno da fare per raccogliere migranti in mare e consegnarceli come se fossero roba nostra. Incredibile! E noi? Noi non sappiamo che fare. Duole – ma lo dico per dire! – sentire tanti soloni del giornalismo italiano, intellettuali, opinionisti, tuttologi, compiacersi quasi a contemplare il vicolo cieco in cui ci siamo cacciati. Sparare agli immigrati, assolutamente no; fermarli sulle coste libiche, nemmeno a parlarne; bombardare i barconi, figurarsi! E, mentre si insiste nel chiedere a Renzi di minacciare l’Europa per farsi carico del problema, un altro milione e mezzo di migranti è pronto a riversarsi sulle nostre coste, a bivaccare nelle nostre città, a creare nella gente un sentimento di panico, di impotenza, di mortificazione e di pietà. Non si capisce più quest’ultima, se per quei poveri disgraziati o per noi stessi. E speriamo solo che si tratti di percezioni emo-

tive, perché già si parla di malattie infettive (casi di scabbia e di malaria accertati). E i politici? Si scambiano battute e declinano le loro responsabilità come i ragazzini di una volta declinavano il “rosa-rosaerosae”. Certo, che i Dem – leggesi democratici sempre più democristiani e sempre meno comunisti – hanno una bella faccia tosta o da fessi nello scaricare ad altri responsabilità che sono di chi sta governando il Paese. Se pure è vero che la questione migranti è vecchia e che in passato se ne sono occupati anche i governi di centrodestra, è altrettanto vero che la situazione odierna non è paragonabile a quella di quattro-cinque anni fa; e dunque, se pure sono stati fatti errori in passato – ma a quanto risulta i Dem hanno sempre contestato al Centrodestra di essere insensibile verso i migranti – oggi ci troviamo in una situazione molto simile alla famosa “mentre a Roma si discute, Sagunto è espugnata”. A questo punto i Democratici dovrebbero difendere la loro politica nei confronti dell’immigrazione, che è stata sempre permissivissima, e se al momento non riescono a fare fronte a causa di un’Europa contraria e a un’ondata di migranti insostenibile, dovrebbero affrontare con piglio diverso l’emergenza o dire al Parlamento e al Paese: signori, non siamo in grado di decidere da soli, formiamo un governo di unità nazionale e occupiamocene insieme. Perché Renzi, il decisionista per eccellenza, non prende di petto la questione? Dice: non sta succedendo niente e chi strepita in realtà abbaia alla luna. La verità è che viviamo in un paese in cui si è condizionati dal papa, il quale fa il suo mestiere quando ricorda che non accogliere chi chiede asilo equivale a commettere un delitto. Pur mettendo da parte l’inopportunità di certe sortite papali, i politici italiani e in questo momento chi governa dovrebbero comportarsi da responsabili del Paese, senza preoccupazione di perdere l’elettorato cattolico o la simpatia del cardinale Bagnasco. Ma i politici non sono i soli chierichetti della situazione. Ci sono gli intellettuali, gli opinionisti, gli uomini di cultura, i quali fingono di non sapere che i flussi migratori ci sono

di Gigi Montonato

sempre stati nella storia e che vanno affrontati secondo statuti politici e non catechismi di fede. Viviamo in un mondo di ipocriti e di farisei. Qualche anno fa, in occasione dei centocinquant’anni dell’Unità d’Italia, si glorificarono giustamente tutti gli autori italiani che in qualche modo l’avevano auspicata nei secoli. Di tutti, meno del Petrarca. E sapete perché? Perché nella sua bellissima canzone “All’Italia” (Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno…), esempio insuperato di poesia civile, ricorda la difesa che i romani fecero respingendo l’invasione dei Cimbri e dei Teutoni, popolazioni germaniche, che in Italia venivano per migliori condizioni di vita, esattamente come dicono oggi i nuovi migranti. Cosa voglio dire? Che nei confronti dell’invasione dei giorni nostri – ché di invasione si tratta – chi dovrebbe raccontare la verità non la racconta e chi dovrebbe affrontarla non l’affronta. Stiamo assistendo da qualche anno in qua a cose incredibili. Sempre per ragioni ideologiche, mai considerate nei termini di realtà, ci troviamo – e nessuno lo dice con chiarezza – di fronte al disastro libico per colpa di un certo Sarkozy, l’ex presidente francese, che, con l’aiuto anche degli italiani, ha creato una situazione insostenibile nell’Africa del Nord e nel Mediterraneo vanificando anni e anni di buona politica italiana. Oggi i francesi presidiano la loro frontiera con l’Italia per impedire ai migranti di entrare nel loro paese. Oltre a Sarkozy, responsabili sono quegli italiani che ad ogni livello, pur di mettere in difficoltà Berlusconi che era contrario all’abbattimento del regime di Gheddafi, si misero al seguito dell’operazione politico-militare più infame e disastrosa di questo inizio di millennio. Spesso si ripete come un mantra esorcizzante “che fare?”. Semplice, smetterla con le ideologie buoniste, samaritane, e guardare in faccia la realtà delle cose; esattamente come fanno altri paesi. Non solo la Russia, evidentemente – l’orso che non ragiona e sbrana – ma anche tanti altri paesi europei, che nei confronti degli emigranti hanno detto “basta!” e non si sono limitati alle parole.


L

pensamenti

Ballottaggi, nell’Italia della mediocrità a condizione per elevarsi a rango di politico, oggi, è la mediocrità! Mediocri eletti da mediocri. Sennò alla mediocrità chi ci pensa? Per risultare intelligenti in politica basta imbattersi in un avversario più stupido di loro. Oggi siamo subissati da infinite, mortificanti dichiarazioni di missionari dell'impegno civile e sociale, se pur vissute a volte da qualcuno come disillusione. Finché l'esercitazione politica è diventata un allenamento di massa. Quest'impegno giovanilistico di uno sformato pensiero libero, sono sintomatiche emulazioni di qualcosa che i sedicenti avventurieri politici riten-

di Antonio Zoretti

gono 'valore sociale' (orrida voce). La "Società dei valori", magari bollati, artefatti, rubati! Le fonti democratiche ne sono più che responsabili, dal momento che hanno sempre proposto una politica comunicativa, edificante, a volte satura di demagogia smidollata, spacciandola impunemente come arte oratoria. Ecco! Ora son giunti i ballottaggi (dall'etimo: 'ballotta', diminutivo di 'balla' = palla). Un tempo si votava con le palline, uso oggi non del tutto scomparso. E proprio di questo si tratta: scegliere - nel secondo scrutinio nelle elezioni di due candidati - colui che ha proferito le minor 'balle' o palle! Auguri. E questa volta andate anche se piove.


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contemporanea

La politica del congelatore

l governo del “riformista” Renzi e il Parlamento hanno fatto cadere un pesante velo d’oblio sulle questioni eticamente sensibili. Già i precedenti esecutivi di Letta e del professor Monti avevano congelato l’agenda dei “nuovi diritti”. Evidentemente, per calcoli opportunistici, c’è chi rimanda ad oltranza tematiche dirimenti. L’ultimo acceso dibattito politico sul testamento biologico s’è avuto ai tempi del passato governo Berlusconi, senza peraltro che esso sortisse alcun esito positivo. Dopo la dipartita di Eluana Englaro, ricordiamo con sconcerto le prese di posizione di Roccella, di Quagliariello, di Gasparri, di Sacconi, che avevano, tra l’altro, la pretesa di portare in Parlamento un’ asfittica agenda etica, nella speranza di raggiungere addirittura “una maggioranza più ampia per una laicità adulta”. Come se la laicità necessitasse di aggettivazioni particolari. Come se non bastasse da solo il termine laicità a definire una praxis precisa. Purtroppo, ancora oggi, nelle stanze del potere, da frange del Pd e di Forza Italia, da Fratelli d’Italia alla Lega, per arrivare ai devoti centristi, si è molto sensibili ai cosiddetti “valori non negoziabili”. Certo, è fondamentale avere a cuore la centralità della persona e la tutela della vita; epperò, occorre avere una visione ad ampio spettro della realtà effettiva delle cose. Sicuramente, in uno Stato laico e liberale, possono risultare stucchevoli le dichiarazioni dell’ex ministro Sacconi, che vorrebbe pervenire ad “un’antropologia positiva”. Quanto zelo, quanta premura. Sarebbe sufficiente che il Nuovo centro destra e l’”ex rottamamtore” in camicia bianca sapessero tutelare semplicemente la laicità e l’avvento d’una antropologia rispettosa

di tutte le morali. Basterebbe che questa maggioranza contraddittoria sapesse guardare con attenzione agli eventi, cercasse di penetrare fra le pieghe della cittadinanza. Una supposta “antropologia positiva”, staccata dalle necessità del popolo, non vuol dire nulla: è solo un esercizio di stantia e vuota retorica, buono da ostentare per ottenere un certo proselitismo. Un politico assennato dovrebbe sempre saper tutelare la negoziabilità dei principi, dovrebbe difendere il pluralismo etico. Alcuni sondaggi mostrano come la gente sia favorevole alla formulazione d’un vero testamento biologico: nulla a che vedere con le sacrificate dichiarazioni anticipate di trattamento, che anni fa volevano ammannirci Berlusconi e compagnia. E anche sull’eutanasia, gli italiani vorrebbero quantomeno aprire un confronto sincero e sereno. Di certo, i cittadini non sono tanto dogmatici da asserire, ad esempio, che la ricerca sugli embrioni sovrannumerari debba essere vietata per normativa. Nessuno si sognerebbe di mettere un freno invalicabile alle tecnoscienze, rispondendo magari ad un’unica e irreversibile morale. Per “comprensibili” ragioni, i nostri bravi politici su certi aspetti vitali sminuiscono la pregnanza dell’etica pubblica, incatenandola ai dettami severi dell’etica tradizionale, siglando di fatto un solenne, abnorme e inconcludente patto di subordinazione alla Chiesa cattolica. Addirittura nel Ncd-Ap governativo ci sono esponenti che ripetono stancamente che i registri dei testamenti biologici sono illegittimi, sono “carta straccia”. Quando è evidente, invece, che essi sono una certificazione di un avvenuto atto da parte del cittadino, il quale comunica d’aver redatto un documento. Gli assertori fedeli ai valori “non negoziabili” ritengono si tratti di

di Marcello Buttazzo

“provocazione”, di “forzatura”, di “scelta ideologica”. È vero, forse essi hanno preminentemente un valore simbolico, non hanno significazione giuridica; purtuttavia, possono servire da stimolo a rappresentanti delle istituzioni distratti per cominciare a legiferare adeguatamente. Fuori da ogni complicanza ideologica, e al di là di qualsiasi inasprimento bipolare, ci chiediamo: perché non dovremmo poter essere liberi di poter sottoscrivere un testamento biologico vero, relativo ad ogni desiderio ultimo? A Piergiorgio Welby, anni fa, con un gesto d’amore venne sospesa una terapia sanitaria, gli venne staccato il ventilatore polmonare che gli spaccava la gola. Il funerale religioso negato ad un uomo buono, alla moglie Mina cattolica e generosissima, è ancora oggi una lacerante ferita. Cosa c’è di più umano che incontrare nostra Sorella Morte, quando il corso naturale degli eventi volge al termine? Non è , forse, cristiano trapassare fra le braccia della propria donna, carezzati dai ricordi, custoditi dagli occhi di chi più ci ha amato? Mina Welby ha più volte ripetuto questa frase: “Tutti vogliamo vivere e guarire, ma quando questo è impossibile dobbiamo rispettare chi sceglie di non soffrire più”. Tutti siamo legati tenacemente all’esistenza, purtuttavia le evenienze, gli accadimenti possono essere talvolta drammatici, possono esigere scelte drastiche. La politica dovrebbe mettere da parte alcune artefatte polemiche: nella quotidianità, non c’è affatto un “partito della vita” che fronteggia un “partito della morte”. Dovrebbero essere, per l’innanzi, finanziate doverosamente le cure palliative, ci si dovrebbe adoperare per redigere quanto prima una legge liberale sul testamento biologico, in sintonia pienamente all’autodeterminazione del soggetto.


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accade in città

“Chiediamo che per la sua importanza storica e culturale, per la valenza culturale dei materiali in esso conservati, per le importanti potenzialità anche economiche che un adeguato utilizzo potrebbe avere sull’economia salentina, sia valutata la possibilità di inserire il Museo Archeologico Provinciale di Lecce fra i Musei statali e di interesse nazionale all’interno del Polo Museale Regionale dello Stato”.


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Da “Vivere Lecce”un appello per il Museo provinciale di Lecce “Sigismondo Castromediano” All'On. Ministro dei Beni e della Attività Culturali e del Turismo Dario Franceschini Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo Al Direttore Generale Archeologia Dott. Gino Famiglietti Ai Signori Componenti della VII Commissione Permanente (Istruzione pubblica, beni culturali, ricerca scientifica, spettacolo e sport) del Senato Ai Signori Componenti della VII Commissione (Cultura, scienza e istruzione) Camera dei Deputati

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l Museo Archeologico Provinciale di Lecce intitolato al suo fondatore “Sigismondo Castromediano” è uno dei più importanti musei non statali della Puglia. E’ il più antico sorto sul territorio regionale, essendo stato fondato nel 1868, nonchè il più importante della Provincia di Lecce. Come tutti i beni di proprietà provinciale sta subendo le incertezze e le difficoltà connesse alla “cancellazione” delle Province con grave possibile pregiudizio per la fruizione delle collezioni archeologiche e storico-artistiche contenute al suo interno. Il Museo, infatti, ha diverse sezioni, tra cui emerge quella archeologica, che si basa sull’ingente patrimonio di antichità che il Duca Sigismondo Castromediano, donò ai suoi concittadini, costituendo il Museo di cui divenne il primo Direttore. La storia delle raccolte del Museo Provinciale di Lecce ha inizio nel 1868 quando, su iniziativa di Sigismondo Castromediano, la Provincia di Terra d’Otranto nomina una commissione di studiosi (Commissione di Archeologia e di Storia Patria di Terra d’Otranto), presieduta dallo stesso Sigismondo Castromediano con il compito di ricercare e promuovere la conoscenza della storia antica e del patrimonio archeologico e storico-artistico del territorio e di istituire un museo in cui depositare donazioni, acquisti ed i risultati delle stesse indagini archeologiche promosse dal Castromediano e dalla Prefettura. Dopo l’Unità d’Italia, con l’abolizione degli

ordini religiosi, molti conventi e monasteri si svuotarono di reperti, opere d’arte, testi antichi e arredi, che alimentavano il mercato dell’antiquariato. Proprio ad esso attinse il nascente Museo Provinciale, come risulta dalle Relazioni annuali redatte e presentate tra il 1869 ed il 1875 da Sigismondo Castromediano alla Commissione di Archeologia e di Storia Patria di Terra d’Otranto. Egli, principale animatore del museo, promosse anche scavi archeologici nei principali centri antichi del basso Salento, acquisendo, ad esempio, la gran parte dei vasi a figure rosse da Rudiae (patria del poeta latino Ennio), centro interessato dalle indagini archeologiche di C. De Giorgi (dal 1872) e del giudice L. G. De Simone (1877). Seguiranno poi le acquisizioni di importanti complessi funerari sempre da Rudiae, dal centro storico di Lecce, dal sito di Rocavecchia e da altri siti archeologici. Sigismondo Castromediano, patriota e uomo di grande spessore culturale, a lungo imprigionato per i suoi ideali di libertà, può definirsi il fondatore della ricerca storica e il primo illuminato assertore dell’importanza del patrimonio storico-archeologico della Terra d’Otranto a fini educativi ed economici, quasi un moderno promoter di fine ‘800 del patrimonio culturale della provincia salentina. Successivamente le collezioni museali furono incrementate grazie alle attività di personalità come Cosimo De Giorgi e nel corso della prima metà del ‘900 dei successivi direttori del Museo Provinciale quali M. Bernardini e G. Delli Ponti con gli scavi di Rudiae, Lupiae, Rocavecchia ecc.

Il Museo Provinciale di Lecce, dopo aver avuto sede storica per diversi decenni nel Palazzo del Governo (ex Convento dei Padri Celestini), fu trasferito nel 1967 con ingente spesa sostenuta dalla Provincia di Lecce nel prestigioso complesso dell’ex Collegio dei Gesuiti, ristrutturato su progetto dell’Arch. Franco Minissi. L’attuale area espositiva occupa circa 6.000 mq. e circa altri 4.000 sono occupati da parte della Biblioteca (anch’essa di grandissimo valore) in via di totale trasferimento nel prestigioso Convitto Nazionale

“Palmieri”, in fase di completa ristrutturazione e sede originale della Biblioteca stessa, e da uffici vari e sedi di enti o associazioni. I beni archeologici esposti, di enorme valore storico, in maggior parte di epoca messapica, quindi testimonianza della grande importanza di quel popolo italico, sono circa 6.000 e, probabilmente, altri 4.000 sono conservati nei depositi dello stesso museo. La Soprintendenza archeologica conserva altre migliaia di casse di materiali nei depositi all’interno del Castello di Lecce e nei depositi del Museo Nazionale di Taranto, tutti provenienti da scavi archeologici effettuati nella provincia leccese.

Anche l’Università del Salento conserva tantissimo materiale archeologico nei propri depositi del Dipartimento di Beni Culturali, frutto di ricerche e scavi effettuati fin dagli inizi degli anni ’70 dallo stesso Dipartimento e dalla Scuola di Archeologia (Lecce, Leuca, Ugento, Vaste, Cavallino, Rocavecchia ecc.). Tutti, ci risulta, dall’Università alla Soprintendenza archeologica della Puglia, sembrano avere problemi di spazio per la grande mole di materiali archeologici da conservare, di cui la gran parte mai presentata alle cittadinanze salentine.

Premesso ciò il Museo Provinciale di Lecce, nell’ottica della riforma del Ministero dei Beni Culturali e nell’ambito della riforma delle Province, vista l’importanza delle collezioni archeologiche e storico-artistiche conservate al suo interno, visto che la gran parte delle prime risultano essere di proprietà statale, in quanto acquisite successivamente alla prima legge di tutela delle “Antichità e Belle Arti” dello Stato unitario (L. n. 364 del 20 Giugno 1909), che sanciva l’inalienabilità dei beni archeologici e storico-artistici, vista l’attuale indefinita situazione delle Province, si fa appello alle cittadinanze salentine, al Segretariato Regionale del Ministero per i Beni Culturali e del Turismo per la Puglia, all’Università del Salento, alle Istituzioni tutte e agli Enti locali del basso Salento e alle Associazioni culturali affinchè il Museo Provinciale di Lecce entri a pieno titolo nell’ambito del-


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l’istituendo Polo Museale Regionale dello stesso Ministero dei Beni Culturali accanto ai diversi Musei statali presenti sul territorio regionale (Manfredonia, Altamura, Bari, Egnatia, Gioia del Colle, Ruvo di Puglia ecc.). In tale ottica il Museo Provinciale di Lecce può ritornare ad essere un centro di promozione culturale e di educazione alla comprensione della Storia e alla “bellezza” del patrimonio dell’antica Terra d’Otranto secondo gli intenti già delineati e affermati dal Duca Sigismondo Castromediano. Già le importanti attestazioni dell’Uomo preistorico nel basso Salento, provenienti dalle grotte salentine (Grotta Romanelli, Striare, Cipolliane, Grotta del Cavallo e Grotte della baia di Uluzzo, Grotta delle Veneri e Grotte del Capo di Leuca), sparse tra tanti Musei italiani, documentano la vita dell’Uomo di Neanderthal per poi raccontare dell’arrivo dell’Uomo moderno (Homo sapiens). Anzi il Salento, dopo anni di discussioni scientifiche e di recenti studi eseguiti sui materiali delle grotte preistoriche della Baia di Uluzzo di Nardò, pubblicati sulla prestigiosa rivista Nature, sembra ora riconosciuto come areale in cui sia provata la prima presenza di Homo sapiens in Europa e proprio nel Salento può aver convissuto con l’Uomo di Neanderthal. Proprio per l’importanza internazionale di tali temi di ricerca l’Università La Sapienza di Roma, a quasi 50 anni dagli ultimi scavi eseguiti in Grotta Romanelli, primo sito paleolitico italiano scoperto nel 1904 e primo sito italiano in cui sono state scoperte testimonianze di arte paleolitica, sta per iniziare nuove campagne di scavo al fine di ridefinire le sequenze culturali in grotta e la storia delle frequentazioni a partire dall’Uomo di Neanderthal e fino alle genti “romanelliane” dell’ultimo glaciale, quando il Salento presentava un clima freddo diverso dall’attuale, con animali di tipo freddo quali l’Alca, il pinguino boreale ritrovato in Grotta Romanelli. Ma di tutto ciò il Salento non conosce nulla o quasi, come pochissimo conosce degli insediamenti e delle grotte della preistoria più recente (Neolitico ed età dei metalli tra VI e II millennio a. C.): da Grotta dei Cervi a grotta Carlo Cosma con le loro famose pitture neolitiche del VI-IV millenio a. C. alla Grotta della Trinità o agli insediamenti dell’età del bronzo di Porto Cesareo, Otranto, Leuca. Un ricchissimo patrimonio di materiali archeologici preistorici, testimonianze della vita quotidiana di tante genti che per millenni hanno abitato la provincia leccese,

che è quasi sconosciuto alle cittadinanze salentine e ai tanti turisti che arrivano nel basso Salento. Buona parte di questo enorme patrimonio archeologico è sparso per tante Università e Istituti di ricerca (Genova, Verona, Firenze, Roma, Napoli, Bari) ma potrebbe tornare nella sua sede naturale salentina anche sotto forma di grandi eventi espositivi. Ma anche le testimonianze di vita delle città messapiche, da Alezio ad Ugento, da Vaste a Muro Leccese, da Soleto a Lecce, da Cavallino a Rudie con tutte le loro ricchissime necropoli, come pure le testimonianze degli abitati medievali indagati dall’Università del Salento, sono quasi sconosciute ai salentini. Basti pensare alla città messapica di Rudiae, limitrofa a Lecce e patria dimenticata di Quinto Ennio, che potrebbe divenire un vero parco urbano della città, dove solo in questi mesi, dopo anni di “battaglie” sono iniziati gli scavi archeologici estensivi, che stanno riportando in luce l’Anfiteatro di Rudiae, che, con l’Anfiteatro dell’età augustea di Lupiae (Lecce), rendono Lecce una città unica: con due anfiteatri romani sul proprio territorio. Ancora, l’area dell’antica città di Rudiae, di circa 100 ettari e appena posta sotto tutela anche del PPTR (Piano Paesaggistico Territoriale Regionale) per iniziativa della Associazione “Vivere Lecce” (le abitazioni moderne la lambiscono) è in buona parte tutta da scavare e può divenire un luogo di ricerca o laboratorio archeologico e parco archeologico già in parte attrezzato per visite pubbliche e didattiche ma anche luogo per spettacoli culturali all’aperto, in particolare nella suggestiva area dell’anfiteatro (Alleghiamo un depliant della IV Giornata di Rudiae). Un patrimonio di cultura di enorme importanza, che farebbe la gioia dei grandi musei americani, che potrebbe trovare posto anche sotto forma di grandi mostre tematiche nel Museo Provinciale di Lecce e costituire una grande risorsa economica di ritorno. Tra l’altro la “Convenzione europea per la protezione del patrimonio archeologico” di La Valletta del 16 gennaio 1992, finalmente ratificata nell’Aprile 2015 anche dall’Italia, e che per tutto quanto dalla stessa rappresentato e raccomandato, prevede che le testimonianze archeologiche siano restituite e comunque rese fruibili alle cittadinanze dei territori in cui sono state ritrovate. Per tutto quanto sopra esposto chiediamo che per la sua importanza storica e culturale, per la valenza culturale

dei materiali in esso conservati, per le importanti potenzialità anche economiche che un adeguato utilizzo potrebbe avere sull’economia salentina, sia valutata la possibilità di inserire il Museo Archeologico Provinciale di Lecce fra i Musei statali e di interesse nazionale all’interno del Polo Museale Regionale dello Stato.

Paul Arthur, Direttore Scuola Specializzazione Beni Archeologici, Ordinario Archeologia Medievale, Università del Salento. Isabella Càneva, Docente di Preistoria del Vicino Oriente, Università del Salento Antonio Cassiano, già Direttore Museo Archeologico Provinciale Sigismondo Castromediano, Docente Museologia, Università del Salento Vincenzo Cazzato, Ordinario di Storia dell’Architettura, Università del Salento. Socio onorario dell’Associazione Italiana di Architettura del Paesaggio (AIAPP). Membro del Comitato scientifico internazionale ICOMOS-IFLA sui paesaggi culturali Rosario Coluccia, Ordinario Linguistica Italiana, Università del Salento Ornella Confessore, Professore Emerito di Storia Moderna, Università del Salento Antonio Costantini, Studioso di Architettura e Paesaggio Rurale Francesco D’Andria, Università del Salento, Direttore della Missione Archeologica Italiana a Hierapolis Turchia Marina Falla Castelfranchi, Ordinario di Storia dell’Arte Bizantina, Università del Salento Sergio Fonti, Docente di Astrofisica, Università del Salento Lucio Galante, Ordinario Storia dell’Arte Moderna, Università del Salento Fabrizio Ghio, Architetto, Archeologo Maria Teresa Giannotta, Primo Ricercatore IBAM CNR Liliana Giardino, Docente di Urbanistica del mondo classico, Università del Salento Riccardo Guglielmino, Docente di Preistoria Egea, Università del Salento Elettra Ingravallo, Docente di Paletnologia Alessandro La Porta, già Direttore Biblioteca Provinciale Nicola Bernardini Mario Lombardo, Direttore Dipartimento Beni culturali, Ordinario di Storia Greca e Epigrafia Greca Corrado Notario, Responsabile Tecnico Scientifico Museo Diffuso di Cavallino Bruno Pellegrino, Professore Emerito di Storia del Risorgimento dell'Università del Salento Regina Poso, Docente di Storia e Tecnica del Restauro, Università del Salento Grazia Semeraro, Ordinario di Archeologia Classica Università del Salento Aldo Siciliano, Ordinario di Numismatica Antica e Medievale, Presidente Istituto Storia Archeologia della Magna Grecia. Benedetto Vetere, Ordinario di Storia Medievale, Università del Salento Donato Viterbo, Ordinario Geografia del Turismo e Politica dell’Ambiente, Università del Salento

Lecce, 9 giugno 2015


spagine

La “Convenzione europea per la protezione del patrimonio archeologico” di La Valletta del 16 gennaio 1992, finalmente ratificata nell’aprile 2015 anche dall’Italia, e che per tutto quanto dalla stessa rappresentato e raccomandato, prevede che le testimonianze archeologiche siano restituite e comunque rese fruibili alle cittadinanze dei territori in cui sono state ritrovate.

Museo Provinciale S. Castromediano Scultore salentino della prima metà del XVII secolo Santa Elena, provenienza Santa Croce (pietra leccese)

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Lettera aperta a Giovanni Sammali SOS SALENTO Paradiso perduto?

W le brigate

che salvano la terrà

G

iovanni, ceci n’est pas une recension à ton roman, questa non è una recensione al tuo romanzo (SOS SALENTO Paradiso perduto?, Lupo editore, 2014). È un insieme, piuttosto arruffato, di note a margine del tuo romanzo. Che in realtà è un esorcismo sotto le mentite spoglie di un romanzo. L’esorcismo trasuda un amore sconfinato per il Salento. Tale amore a me viene di associarlo alla lontananza. Con approssimazione forse non del tutto infondata, io credo che il tuo amore per il Salento sia grande come solo puo esserlo un amore da lontano. Un amore alimentato da un nucleo irriducibile che si potrebbe chiamare nostalgia.

Non credo sia improprio definire Mal di Salento il sentimento che ti lega a Salve e al Salento. Tu hai due patrie. Una è la Svizzera, il paese di tua madre, dove sei nato e dove vivi. L’altra è il Salento, la terra da cui tuo padre partì per andare a lavorare nella Svizzera francese. La tua condizione di essere un nativo svizzero, e di vivere sempre intriso di nostalgia, non è singolare. Nel tuo caso, tuttavia, a me pare di cogliere un eccesso. Nel tuo esempio, la singolarità si manifesta come una scissione che, giorno dopo giorno, ricomponi per creare una sorta di patria ideale yinyang: la Svizzera contiene il Salento, il Salento include la Svizzera.

Una maniera che attui per rendere sostenibile il tuo vivere in Svizzera e sognare il Salento, è di inseguire e di raggiungere un livello alto d’informazione sulla cronaca del Salento. Questo mi impressiona: sei informatissimo su quello che di rilevante succede nel Salento. Potresti gareggiare, il tono è

di Massimo Grecuccio

scherzoso ma il convincimento è serio, con i salentini residenti più informati e potresti giocartela alla grande. Nello specifico: le vicende dell’Ilva di Taranto, della Centrale Termoelettrica di Brindisi, dell’ecomafia che ha reso il Salento luogo del conferimento finale di rifiuti più o meno tossici. Tutti fatti che potrebbero avere una qualche relazione con l’aumento dei tumori tra i salentini. Tutti fatti che hanno un denominatore comune: vìolano l’immagine del “Salento come un paradiso”. Tutti fatti che rilucono nella vicenda che racconti in SOS Salento.

esce un fumo carico di veleni. Azioni simboliche perché sono una sorta di atto scaramantico. Un auspicio volto a far vedere il drago, ma che non può ucciderlo.

In definitiva, il romanzo è una sorta campagna di comunicazione promozionale (non è, la comunicazione promozionale, il tuo lavoro?). Quello che vuoi favorire credo che sia, oltre ad un’attenzione centrata sul problema ambientale, l’attivazione di un complesso di azioni curative di tale problema. Il romanzo è solo l’innesco, però. Mancano la miccia e il plastico (per restare ancorati alle vicende che tu hai narrato). Fuori di metafora, mancano gli attori delle azioni taumaturgiche per ripristinare l’aura paradisiaca del Salento. E cioè, gli uomini che raccolgono il testimone degli ecoterroristi e lo tramutano in atti di buona politica e di buona scienza, diffuse e sparse ampiamente sul territorio. Buona politica e buona scienza che, con scambi continui, attivano una civiltà ambientale. Ossia, un Salento, in cui le eco-mafie e i cattivi imprenditori sono marginalizzati fino alla scomparsa. Per tornare a essere il Salento paradiso. Quel Salento di un sogno della tua infanzia. Uno di quei sogni che sono gli ultimi a svanire.

La tua passionalità, il lato salentino della tua identità, non si rassegna a questa violazione. La reazione è il romanzo in cui, con uno strano impasto di realismo e di fantasia, insceni l’ideazione e l’attuazione di atti di eco-terrorismo. Le azioni terroristiche non hanno strascichi di vite umane interrotte. Fanno solo danni materiali: ai due aeroporti di Bari e di Brindisi, alla ferrovia che collega Lecce con il resto d’Italia, all’Ilva. La tua esposizione piana dichiara tutto esplicitamente, l’intenzione di non fare vittime e la finalità degli attentati, che è quella di accendere i riflettori del mondo intero anche sul lato oscuro del Salento. Sul lato luminoso, il Salento lanciato nell’empireo del turismo mondiale, i riflettori Termino con un mantra che percorre il ci sono già, sparati. tuo romanzo. Sciamu nnanzi. Le Brigate del Salento, cosi chiami il manipolo di uomini che fanno gli atten- Giovanni Sammali, giornalista, attualmente è tati, guidati da Stefano (il tuo alter ego?) responsabile della comunicazione nella sua organizzano una serie di attentati che citta, La Chaux-de-Fonds, capitale mondiale degli orologi (e anche la citta di Le Corbusier). equivalgono a una sessione di esorci- SOS SALENTO paradiso perduto? è il suo smo. Nello stesso tempo, organizzano primo romanzo, pubblicato in Svizzera nel e compiono azioni reali, gli attentati; e 2014 dalle Editions G d’Encre. Il titolo originale azioni simboliche per favorire la cac- suona Salento, destination cancer. Maria Luisa ciata dell’anticristo, che ha assunto le Bianco lo ha tradotto dal francese all’italiano. sembianze di ciminiere altissime da cui


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della domenica n°71 - 19 aprile 2015 - anno 3 n.0

É stato presentato a Lecce, sabato 6 giugno, alle Officine Culturali Ergot il libro di Giuliano Naria e Rosella Simone in libreria dopo trent’anni dalla prima edizione per le edizioni Banditi senza tempo. Nella serata con l’autrice - in queste pagine il suo intervento - i contributi di Piero Fumarola, Agrippino Costa, Mario Fracasso e Paola Leone

Storie di “bravi ragazzi”

La casa del nulla” ha due autori: Giuliano Naria che è lo sguardo e il narratore, ed io che, da giornalista, metto in moto il ricordo, chiedo, incito, registro e, con lui, scrivo. É stato scritto quasi trenta anni fa e racconta una popolazione carceraria che non esiste più, quella degli anni settanta dove, per una serie di congiunture politiche e sociali, nelle carceri speciali appena istituite, si erano incontrati due soggetti ”nuovi”: prigionieri politici e banditi, i “bravi ragazzi di galera”. E non è un libro “per bene”, racconta la realtà di quel carcere e il suo paradosso, senza nascondere quanto c’era, e credo ci sia ancora oggi, di spietato e brutale. L’obiettivo era, ed è, che il lettore si chieda: a cosa serve il carcere? Cosa serve tenere chiusi in spazi murati uomini e donne? Ma il mio compito qui è raccontare come è nato. Bisogna fare un salto a ritroso di 30 anni, agosto 1985, quando ci siamo ritrovati, dopo 9 anni e 6 mesi di separazione coatta, io, Giuliano e i suoi genitori nella casa che era stata di mia nonna a Garlenda, paesino minuscolo dell'entroterra ligure, praticamente tutte e quattro (si fa per dire!) agli arresti domiciliari. Giuliano usciva dall'Ospedale Le Molinette di Torino dopo 9 anni e 6 mesi di carcere, pesava 40 chili. Imputato di Br e di aver attentato al Procuratore della Repubblica Francesco Coco, per anni aveva resistito poi non ce l’aveva più fatta e aveva trascorso gli ultimi 2 anni di detenzione a lottare contro il proprio corpo; voleva uscire e aveva forzato gli eventi intraprendendo un durissimo sciopero della fame. Io lasciavo Milano lavoro e casa per stare con lui. Per 9 anni e 6 mesi, a parte l'anno e mezzo di detenzione, lo avevo seguito ogni fine settimana per tutti le carceri italiane e sostenuto dall'esterno la sua battaglia per uscire dal carcere. Nel frattempo avevo perso, dopo il primo arresto, il lavoro presso una società di ingegneria; dopo il secondo l'insegnamento ed ero riuscita a campare scrivendo racconti porno per Le Ore e di economia per un mensile di managment che, per mia fortuna, aveva

per direttore un ex dirigente di Servire il popolo. Da poco ero approdata a Marie Claire. Ma il mio primo exploit da “giornalista” era stato nel 1980, durante la seconda carcerazione. Ero stata la “corrispondente dall'interno” di San Vittore per la rivista femminista Grattacielo.

Eravamo dunque a Garlenda e il tema era “cosa fare”? In principio i ritmi erano quelli della galera: sveglia, ginnastica, lettura. Pausa pranzo, e di nuovo studio, allora c'era il trip della linguistica, cena e scrivere. Scrivere cosa? Di carcere naturalmente, dopo tanti anni separati era rimasto l’unico terreno comune tra noi. Volevamo raccontare al “fuori” storie di “persone” non di criminali e terroristi. Ma, soprattutto, volevamo raccontare quella particolare contingenza che negli anni settanta aveva messo in contatto mondi diversi: quello dell’extralegalità e quello dei prigionieri politici, rossi e neri. Non solo era divertente ma era anche una sorta di sberleffo al potere che aveva pensato con le carceri speciali di sopprimere ogni forma di ribellione e invece aveva contribuito a costruire, proprio per la durezza della istituzione, una saldatura, una solidarietà, un’amicizia. Il carcere degli anni settanta aveva una popolazione molto particolare che rifletteva, come sempre fa il carcere, la particolare composizione sociale che c’era al di fuori, nelle periferie delle città e del potere e che era, contemporaneamente, un effetto e una reazione alle trasformazioni sociali in atto: dalla globalizzazione, alla introduzione delle nuove tecnologie, all’avvento dispiegato del capitale finanziario e, tutto ciò, in piena guerra fredda. Per cui il neoliberismo si scontrava allora con le legittime aspirazioni dei popoli sostenute, in molto casi, dall’imperialismo sovietico e cinese. Tutto ciò terremotava la politica mondiale provocando rovesciamenti brutali e vittorie straordinarie. In Italia erano i tempi della strage di piazza Fontana, degli attentati ai treni, di Gladio e del golpe Borghese. Nel mondo era un susseguirsi di golpe militari e resistenza. Dal Cile di Allende alla presa di Saigon. Questo per dire

di Rosella Simone

che per chi era giovane e faceva politica negli anni settanta alla violenza non c'era scelta, o almeno così sembrava. “Il Vietnam vince perché spara” si gridava nei cortei. E grida oggi grida domani poi devi passare ai fatti. E’ questione di coerenza. Tanto la galera ti aspetta comunque. É in questo contesto che molti giovani di allora hanno scelto la lotta armata e qualche anno dopo si sono trovati in carcere con altri ragazzi che negli stessi anni, per una sorta di “entusiamo consumistico”, avevano deciso, partendo da zero lire, armi in pugno, di fare il miliardo. Due mondi diversi solo fino a un certo punto. Perché per chi era giovane negli anni a cavallo tra i sessanta e i settanta non c’erano solo la rivoluzione alla Marx, Lenin, Mao Tse Tung. C’era anche un’idea di rivoluzione irriverente e beffarda, che miscelava la lettura del Capitale e i film di banditi alla José Giovanni e alla Jean Pierre Melville. Una rivoluzione che aveva lo sguardo intenso e triste del Che e lo sberleffo di James Coburn - nel film di Sergio Leone – che percorre il Messico in motocicletta per lasciarsi alle spalle passato e patria, aprendosi la pista a colpi di dinamite annunciando, perentorio e laconico, “Giù la testa, coglione!”. Per quello che ne so io, in molti compagni di allora la rivoluzione andava a braccetto con la grande avventura. C’era il rivoluzionario e c’era il bandito. Come desiderio di esplorare una libertà senza limiti e rivoltare il mondo come un calzino per vedere da dove sarebbero usciti i vermi. Perché il mondo di compromessi nel quale ci era toccato vivere non era sanabile, bisognava farne un altro, completamente diverso e dai confini espansi, anche dall’Lsd, sino alla frantumazione delle classi, delle razze, dei generi. Rifondare il mondo con tutta la forza, l’energia, la prepotenza anche, di chi allora aveva 20 anni. “La casa del nulla” nasce con questo sguardo che ero lo sguardo che aveva fatto da collante tra me e Giuliano in quel tempo lontanissimo nei vicoli di Genova, noi “operai e studenti uniti nella lotta”. Quando, oscillando tra ortodossia militante e voglia di smarronare, percorrevamo di notte i vicoli bui del centro storico, super-


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libri

fatti di vino e di maria, a cercare astromo- della luna. O il Pinella incontrato sul barstri. cone che trasferiva parenti e detenuti all’Asinara. Ricordo che era stato per le I carruggi di Genova ci contenevano tutti: proteste di noi parenti che, durante una beoni e portuali, mendicanti e banditi, ma- traversata di mare particolarmente agitato, oisti e bohemienne, compagne e puttane, l’avevano tirato fuori dalla stiva, pallido militanti e drogati. Eravamo tutti lì ciascuno come farina bianca ma senza un lamento. a tessere le trame della propria vita, fatta Insomma avevamo a disposizione dei perdi solo presente In fondo eravamo un po’ sonaggio straordinari che avrebbero fatto tutti arrivati da qualche periferia, geogra- gola a qualunque scrittore. fica o sociale o caratteriale; gente decisa Altro che Edmond Dantès e Jean Valjean! e seria ma, soprattutto, giovani. E vole- E poi non ne potevamo più delle lamentazioni carceraria, della compassione caritavamo tutto. Giuliano ed io eravamo come dire d'epoca tevole nei confronti dei carcerati, del e avevamo in comune quello stesso pathos del “famigliare del detenuto”, volesguardo sul carcere, almeno sino a quel vamo raccontare qualcosa di più vivo e vi1985. Forse non ci amavamo più anche se vace. Non c’erano in Italia modelli letterari ancora non avevamo la lucidità e le parole a cui rifarsi ma c’era un filone culturale per dircelo ma almeno su quello eravamo, molto interessante che ha fornito la traccia per quello che poi, con grande imprucome dire , “consanguinei”. Ma “La casa del nulla” era anche un modo denza forse, abbiamo osato noi. per provare a parlarci. Non ci amavamo La storia orale ha una grande tradizione in abbastanza per fare un figlio ma forse po- Italia, parte da Ernesto de Martino e contitevamo fare un libro. Ci abbiamo provato nua con Gianni Bosio, Cesare Bermani, tutte le sere per qualche mese seduti sulla Alessandro Portelli, e soprattutto con il Damoquette verde della sala della casa di nilo Montaldi della Autobiografia della leggera. Mischiare l’antropologia con la Garlenda. Sarebbe giusto chiedere perché tu Rosella narrativa e raccontare non tanto la verità non hai scritto del femminile e lui del ma- ma qualcosa di più interessante, almeno schile così da rendere più evidente i nostri per noi, un mondo, un modo di vivere, una diversi contributi? Allora non ci ho pensato, cultura e un incontro tra i bravi ragazzi di era avida di conoscere quei quasi dieci galera e “terroristi”. anni in cui era stato rinchiuso altre il muro. C’era, naturalmente, anche tutta una E poi quei ragazzi di cui volevamo narrare lunga bibliografia di letteratura dei neri io li avevo conosciuti ai colloqui, accolti in americani: I fratelli Soledad e Col sangue casa quando erano riusciti a uscire di ga- agli occhi di George Jackson, Anima in lera come Vincenzo quando abitava da ghiaccio di Eldrige Cleaver, ma anche I me la sua prima moglie, Renato invece lo Dannati della terra di Franz Fanon ma conoscevo dai tempi in cui era studente non meno importante per noi era stata la dell'istituto Tecnico Ferrini di Albenga passione condivisa e per nulla casuale per quando avevo 15 anni. O Agrippino che, Alfred Jarry e la patafisica “La scienza quando ce l'ha fatta a scrollarsi di dosso la delle soluzioni immaginarie”. galera, veniva a raccontarmi che voleva, La scienza del paradosso, quella dei visioa tutti costi, partire per l'India per la festa nari dei narratori dei carcerati. E, soprat-

tutto, non volevamo dare giudizi. A quello ci aveva già pensato la legge. Quando alla fine Giuliano è stato assolto anche della condanna a 17 anni per la rivolta di Trani e sono finiti gli arresti domiciliari siamo venuti a Milano, nella mia casa di allora, bilocale in affitto in Viale Pisa 3. E' lì che il libro è stato materialmente scritto. Ha scritto lui e ho scritto io, cercando, dalla giornalista che sono, di rispettare nel testo la sua ironia, il suo gusto per l'eccesso, per lo splash e anche la sua crudeltà. Una scrittura che è stata anche un combattimento tra noi, all'ultimo sangue. E quando il libro è finito era finita anche la nostra storia. Ecco è tutto. Aggiungo solo che oggi la popolazione carceraria di cui parla “La casa del nulla” non esiste più, forse c’è stata nel passato, forse ci sarà nel futuro, non lo so, ma oggi la popolazione carceraria è altra. In questo ciclo di presentazioni ho incontrato OLGa, acronimo di “É ora di liberarsi dalle galere”, pubblicano un opuscolo dove è raccontata attraverso lettere e documenti dal carcere una nuova possibile coalizione tra le diverse componenti della attuale popolazione carceraria. Oggi non ci sono più i banditi con le loro paranze di amici fidati ma migranti con costumi, codici, lingue diverse da noi e tra loro, oggi non ci sono più neanche bande armate organizzate come le Br o i Nap o PL ma ci sono ancora prigionieri politici. Comuni e politici hanno, per ora, meno anni da scontare ma sono oppressi dalla stessa brutalità, sollecitati dagli stessi bisogni e obbligati a condividere lo stesso luogo di pena. Da lì qualcosa può di nuovo nascere. Forse un incontro tra mondi diversi e una idea del fare politica adatta al tempo presente.


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Aneddoto

Ovvero essere inedito e starci

N

ell’ovvero di un titolo, contrassegnato, sono e sto per scrivere l’altra storia, quel che spesso utilizzo per transitare ed essere nella mia metafora, starci. Per il vocabolario della lingua italiana, non vi dirò su quale dei tanti, leggo dell’aneddoto. La lingua italiana mi dice ch’è “Storiellina breve e curiosa, talvolta salace. S’è vero in toto, il significato, nell’esclusivo deve essere più nel breve e anche il non talvolta salace, (ch’è del lascivo, eccitante, volgare). Vi confesso che me ne dispiace, profondamente, per aver appreso quell’apprezzamento tra il talvolta curioso, “ch’è sì curioso”. Proseguo con il dichiarare ch’è nella radice greca con il caratteristico privativo (an) e “fuori” (ek)e alla loro natura del non “essere”, col verbo al greco ekdidónai, pubblicare. Se preferite, tanto per cambiare o aggiungere, può essere anche un (ana), un sopra-pubblico. Gli aneddoti quindi? Sono il non pubblicato non pubblico. Sono L’Inedito". Sono l’ancor più dell’ignoto o dell’interdetto ai più ed è la strana sorte toccata per il divenuto, il non reso, oppure per il divenuto non accessibile in un difetto di conoscenza ai molti. M’intriga. Potrei essere io stesso un aneddoto e, con questa affermazione inseguo il mio “scherzoso”. (no martini–no party) A pensarci bene e senza tanto sorriderci sopra, l’aneddoto è un esempio di quotidiano ch’è lì sospeso ed è lì ad “essere” nel “sopra” e nel “fuori” e nel “non” di un “in tanto di vero”. Anche Storia? Se così, mi ritorna l’intrigo. “È vero!”, direbbe l’aneddoto, “sono anomalo e preferisco l’essere nel mio, nel meglio del mio, essere anomalo con l’altrettanto privativo seguito da un uguale”. Continuando a dire e detto senza perifrasi: “mi preferisco in quell’esprimere il sovrapposto ed inedito in una singlossia: Aneddoto=Anomalo.” Sempre lungi da ogni perifrasi: “sono quel ch’è solo il mio o dei pochi”. Come vedete s’è espresso da sé e non in maniera indiretta, ma nella maniera più idonea per trarre dal proprio paradigma il tema da alterare in un descrivere, ad esempio quando: una mela ch’è verde, ne diventa rossa nel suo intimo, nella polpa. In questo caso? (perifrasi indispensabile) Nello scriver d’aneddoto ho il piacere del precisare, così, dal momento che, i sospesi sono in attesa (punto)

di Francesco Pasca

Scrivo per smentire, parzialmente, ciò ch’è il relegare nel talvolta che non ha quantificazione e lo scambio volentieri come si fa nel fatuo, nell’esser o creder che sia “storia”, in non puro sollazzo, sebbene, sinora, me ne sia già sollazzato io stesso e con il gusto del mio scrivere.

Scusate, avevo promesso di esprimere l’aneddoto in maniera diretta. Lo farò, non dubitate, ma è doveroso giustapporreil cappello sul fondo della sedia prima di sedervisi. Fatto! Dunque l’aneddoto di cui voglio raccontare è il seguente. (Perifrasi). S’era giovani una volta, s’era giovani per studio e per ventura, s’era in una facoltà che di aneddoti se ne raccontavano tanti. Orbene. Firenze 1967, facoltà di architettura, esami di Geometria descrittiva 1 e 2. Esami tosti, astrusi per certi versi, ch’erano per scriver di segno con strani modi per una proiettiva. Poco contemplativi, indubbio, ma da studiare nel certo e che rappresentassero le filosofie del descrivere il piano nel volume ch’è lo spazio. Dirò dell’uguale e del diverso, di quel ch’è di una scrittura e ch’è del dirigerne il senso oppure del fare un dipinto al qual si dà nel contenuto forma. Punto, Piano e retta (punto) Se poi la retta fosse stata anche del dire quel ch’è:“retta limite” s’era proprio nel veramente e nel tanto e da far almeno un poco di quel certo, s’era nell’incubo pei tutti. Il nome? OMOLOGIA. Per render chiaro l’oggetto definisco Omologia quale risultato per un doppio di una prospettività. Nel breve: l'immagine di un immagine. Un Esempio chiave? La mia ombra sul piano, beninteso anche la vostra. Il concetto era del far variare il centro di una proiezione. Supponiamo il variare del Sole e, della relativa proiezione di un oggetto, farne anche il viceversa, quel che potrebbe diventare. Oppure partire dal quel ch’era diventato per giungere a quel ch’era nel veramente. Lo so, state anche voi restando nell’immutata visione del ch’è per voi l’esser il reale. Non importa, seguitemise possibile nell’uguale perché ho da fare unpo’ di manfrina, la devo pur fare se so d’essere in un Aneddoto = Anomalo. L’operazione, dunque, consiste dapprima nel far da un centro di proiezione improprio, ad esempio come s’è detto il nostro Sole, la corrispondenza biunivoca tra oggetto reale e la sua im-


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scritture

magine. Non vi pare che per far ciò è necessaria una rappresentazione e definire qual è l’approssimare di un segno? Dirò l’aneddoto (punto) Un (il) terribile professore amava così condurre a volte l’esame e gli allievi nel conoscerlo con un già essere aneddoto non volevano, certamente, sperimentarlo. Se ne narrava e s’era nel perché di un non soddisfatto, nel perché di una sì strana richiesta con: “O’ via la mi disegni una retta!” L’ignaro così è che s’apprestava, nell’immanente, a tirare la sua bella linea sul nero vulcanico e piano di una lavagna già infuocata. Così pare che venisse poi esortatoil malcapitato, col perentorio: “La mi stia a sentire. Siccome s'ha d’essere in esame e da passare mi disegni codesta retta. Oh vvia, non voi tu arrivare dopo i fochi o voi tu cercare un cece in Domo? La sia più lunga codesta, la sia più retta, più lunga, più lunga, più lunga e me la si disegni bene." Al poveraccio toccava continuare e poi ancora continuare sino ad uscire persino dai bordi di quel liquido di lavagna ormai magmatico. Poi, finalmente, fuori da quel nero si fermava. Dicono che s’avea lasciato il segno persino sul muro, lì era il tratto. Poi a quel segno s’aggiunto l’eco di: “Più lunga, più lunga, più lunga”. Così l’aula echeggiava. L’ormai interdetto e conscio d’esser lì giunto al suo limite di retta era solo il raccattare il suo libretto, già sfregato con altra retta, e via da quella porta alla quale v’era appena giunto con il suo segno. Naturalmente, varcata quella soglia, giungeva: “… e quando l'avrà finita codesta sua retta col su' segno la torni, io qui l'attendo." Mai aneddoto, per noi, che s’augurasse a nessuno e in un poi accadere. Mai si voleva essere nel consapevole di un sì poco “curioso” epilogo in aneddoto. Ci chiedevano solo il vero senso di quel fare e se era soprattutto vero quello che si raccontava. Sapevamo tutti che causa scatenante poteva essere, forse lo era veramente, il SE più grande. Cioè, il SE, l’asse (a) dell’omologia e il punto B’ si dovesse portare ad una certa distanza dallo stesso asse; viceversa, anche SE, in corrispondenza e ad una particolare distanza del punto (B), dall’asse (a), il punto (B’), potesse essere quel fuggire ad una distanza infinita. Vi assicuro. Nella nostra mente si introducevano non solo le due “rette limite” volute. Per la sicura non richiesta del tracciare una retta, il dovuto era

con la prima delle rettee l’essere consci di avere la (r’l), retta immagine appartenente al piano e anche la corrispondente alla retta impropria r (del piano p). Conseguenza, dunque, per noi era che, SE(B) si fosse allontanato nella distanza infinita, (B’), avrebbe potuto posizionarsi su tale retta. La seconda retta, la (rl), la retta oggetto avrebbe potuto, invece, esser appartenente al piano (p), avere quindi come immagine la retta impropria (r’?`), il che, anch’essa, si sarebbe allontana all’infinito. L’aneddoto, quindi, pretende le due rette limite a seconda che la retta all’infinito sia considerata appartenente al primo insieme o al secondo di quei piani. Messa in quel modo s’era veramente nel difficile di un approccio ad un primo esame o meglio alla mai conseguenza di poterne fare un secondo, ch’era la fine di un aneddoto retta (punto) Allora, alla luce di tanto, con cosa si può completare l’aneddoto? Mi soffermo e spero si soffermi anche chi legge sulle conseguenze filosofiche di questa situazione, su quel che riguarda l’ampio rapporto del linguaggio con il significato e come si stratifichi. S’è voluto dire, con le rappresentazioni visive effettuate o se preferite con le intenzioni dispiegate dalla scienza o ancor meglio dalla ragione, per sottolinearne il peso del linguaggio sul logos, farlo retrospettivamente. L’ostacolo è stato la retta e come ogni schermo del linguaggio se ne può anche cancellare l’operazione. Sicché, ogni rappresentazione, anche l’aneddoto, avrà la sua, si comporterà sempre all’interno del sistema ordinato di un linguaggio e non come una qualsiasi retta che non potrà mai essere disegnata.Il SE, il più grande è con la sua logica di convenzionale esistenza. Ma qual è dunque? Solo nell’ovvio, solo quando si determina la sua traccia sul piano e la proiezione di essa sullo stesso e sia anche altro punto ch’è la sua fuga in traccia, l’andare all’infinito. Esattamente come dovrebbe essere l’aneddoto per diventare storia. Per farlo, ovviamente, avremmo dovuto assumerlo inclinato (incline) a quel piano, a quella nostra storia. Ma in un aneddoto quanto conta una storia s’è come la retta ® ch’è da essere parallela a quel piano e non ne può aver la sua, di traccia? Questo è l’aneddoto che non è il “curioso”.


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Casa 19 della domenica n°79 - 14 giugno 2015 - anno 3

in agenda - arte

Al via lunedì 15 giugno, a Galatina “Casa 19” residenza artistica per bambini che si concluderà domenica 5 luglio alle 19.00 con una mostra di fine percorso

C

L’arte approda alle case Ina

asa 19 è un progetto artistico che vede come protagonisti i bambini e si svolgerà a Galatina in via Chieti n. 19, dal 15 giugno al 3 luglio (dal lunedì al venerdì dalle 9:00 alle 12:30) in un contesto particolarmente significativo: una casa popolare Ina fine anni “50, situata in un quartiere che ancora conserva caratteristiche comunitarie, relazioni di prossimità ricche di scambi e significati di buon vicinato. In diversi momenti del progetto il vicinato verrà coinvolto dai bambini a partecipare alle attività che avranno anche una ricaduta relazionale e sociale sull’intero quartiere. La residenza, a cura dell’artista e designer Adalgisa Romano, permetterà ai più piccoli di contaminare liberamente con la propria creatività un’abitazione disabitata; attraverso il gioco trasformeranno se stessi e il contesto che li ospiterà, scopriranno che l’apprendimento è un atto emotivo e sociale insieme e che l’infanzia è il momento di maggiore espressione artistica delle tante età e fasi dell’uomo; attraverso l’arte, che per il bambino è un suo modus vivendi che si esprime attraverso il gioco, conosceranno l’altro, i contesti, gli oggetti, creeranno congetture e metteranno insieme realtà distanti, si esprimeranno, comunicheranno, rafforzeranno la consapevolezza di sé e liberaranno le proprie potenzialità creative creando mondi possibili. E ancora creerano artefatti per accrescere la propria consapevolezza del reale, la capacità di leggere se stessi e gli altri, di interpretare i contesti e di sapersi muovere all’occorrenza. L‘artista Sara De Carlo, poi, attraverso il gioco delle immagini, documenterà l’avventura di questi piccoli uomini e donne in divenire.


Pensiero sull’arte e sugli artisti

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L

'altro giorno ero in piazza Sant'Oronzo a Lecce, avevo il sole in faccia, che a dire il vero un po' mi infastidiva. Ero seduto con alle spalle "Il Sedile", struttura architettonica di fine cinquecento. Mi pare ci fosse una foto anche nel mio manuale di Storia dell'Arte, il Briganti-Bertelli. Nelle due pagine dedicate a Lecce. Di fronte a me un banner verticale che la miopia e gli occhiali da sole un po' rigati non mi facevano apprezzare in pieno. Riflettevo sui miei ventuno anni di attività artistica cosciente, riflettevo che nel mio cervello e nei miei pensieri c'è sempre quella cosa che per semplificazione l'uomo chiama arte. Io non ho mai saputo descriverla se non come una specie di presenza dietro al collo. Una presenza costante, che non mi abbandona mai, neppure durante il sonno. In questo scorrere del tempo ho incontrato persone, differenti, differenti in tutto da me e differenti tra loro, estimatori, adulatori (quelli con cui vado meno d'accordo, per natura), stronzi opportunisti (quelli che combatto con tutti i mezzi), furbi (quelli che con pazienza mi lavoro per vedere dove possono arrivare), fanfaroni (quelli che il loro ego immenso mi fanno ridere di gusto), e tante tantissime persone normali, comuni, semplici (quelle di cui mi circondo maggiormente). In mezzo a quest'ultima categoria c'è un particolare gruppo di persone con cui mi relaziono volentieri, e sono gli artisti, o forse è più corretto dire quelli che io reputo tali, per un "sentito" e non per un sentito dire. Badate bene che non sono quelli simili a me, anzi la maggior parte delle volte sono differenti da me. Molti la pensano in maniera particolare, e questo mi affascina, come quando da bambino stimavo il capocannoniere della squadra di calcetto, o come quelli che

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da facebook

ad illustrare un’opera di Massimo Pasca

montavano sul tagadà e si mettevano al centro. Io sul tagadà non ci salivo, avevo timore, ma ero affascinato da quelli che ci salivano e dalla struttura meccanica di questa sorta di mostro del ritmo. Questa categoria, gli artisti li ho sempre frequentati e credo di essere stato tra i pochi ad averli anche aiutati, ho speso tutti i miei saperi e i miei consigli, ci ho sempre litigato, ma soprattutto se avevo qualcosa, e in questo termine quando si parla di arte c'è nascosto un mondo, l'ho sempre diviso. Come si divide il pane se ad aver fame siamo un tanti e di pane c'è penuria. Gli artisti tra loro sono sempre stati gelosi dei loro "contatti" (cosi si chiamano nell'ambiente), dei loro mecenati. La maggior parte di loro se entra in contatto con qualcuno che ha uno spazio per farti esporre o suonare non ti darà mai una dritta per condividerlo. La maggior parte davanti ti dice: "bah... non lo so... mi hanno chiamato", quando invece ha leccato il culo per mesi. Alcuni addirittura li ho visti depistare altri. Atteggiamenti da brookers. Mica da artisti. Io no. Io ho condiviso tutto quello che avevo, fino ad organizzare centinaia di volte per altri, per questa sorta di Dio che io venero e si chiama espressione artistica, un Dio (sempre in discussione) con suoi discepoli, motivo per il quale anche di un grazie mi è sempre interessato poco. Mi chiedo però, come mai esista una buona fetta di persone che pensa che io sia presuntuoso e me la tiri, soprattutto tra gli artisti toscani un tempo e pugliesi oggi. Me lo chiedo e mi do anche la risposta. La risposta è semplice : "Perchè Io non vi cago!", "non mi interessate". Siete indifferenti al mio sentire, per me fate cose brutte, poco comunicative, oppure fate cose interessanti (non belle) ma con il piglio dei bottegai, e il mio umore ne ri-

sente. O ancora siete presuntuosi, siete smaniosi di arrivare e nel vostro percorso tralasciate i particolari. E questo non piace, avere un gusto personale non piace. Vi conosco artisticamente uno ad uno, perchè prima di parlare bisogna capire. Conosco tutto l'ambiente. Quando andavo alle scuole medie vidi per la prima volta nel parco del mio paese la scritta: "Rispetta l'ambiente" e non mi pare ci fosse scritto: "Questo ambiente ti deve piacere per forza!" Ecco io vi rispetto, ma non mi piacete. Alle scuole medie mi hanno licenziato con sufficiente ma qualcosa ho imparato. Agli amici che mi sostengono e che sostengo, che spesso mi dicono "Massi ma te ti sottovaluti!" rispondo con affetto che non sono io a sottovalutarmi ma molti a sopravvalutarsi. Ognuno ha la sua concezione della vita e i suoi gusti. Vi assicuro che senza il mio sostegno si vive benissimo, e anche se non ve lo meritate vi do anche un suggerimento: parafrasando Guccini mi vien da dire: "godetevi l'insuccesso godetevelo finché dura che il vostro pubblico ammaestrato prima o poi vi farà paura". Sono parole difficili ma qualcuno le deve pur dire

PS Alla fine in piazza a Lecce sono risuscito a leggere il banner! C'era scritto: "Lecce Capitale Italiana della Cultura", il sole era tramontato e con esso il dubbio se ci fosse una "O" o una "U" nell'ultima parola della frase. Io che sono una via di mezzo tra la coltura (diplomato all'Istituto Tecnico Agrario di Lecce) e la cultura (laureato in Beni Culturali a Pisa ) mi sono avviato felice e carico di speranze verso una birra al "Cin cin" Bar, perchè la cosa più importante è la...: "Salute!". Massimo Pasca


La Rina, torna a Teramo spagine

Un ritorno a casa speciale”, questo il titolo della serata che avrà luogo a Teramo il prossimo giovedì 18 giugno. A tornare idealmente nella città abbruzzese è Rina Durante. La nostra cara Rina c’era già stata nel 1963, quando per il “Premio Teramo”, le era stata assegnata la menzione speciale per il racconto “Il Tramontana” che nel 1965 sarebbe diventato il primo lungometraggio di Adriano Barbano. La Durante racconta la storia di Flavio. Il ragazzo ha sedici anni, fa parte di una famiglia povera e per la sua vivacità porta il soprannome de il Tramontana. I genitori emigrano in Svizzera, ma non possono portarlo con sé ed affidano il ragazzo ai monaci. Padre Biagio invoglia Flavio alla vita conventuale. Ma la lontananza dalla famiglia provoca una crisi. Il ragazzo di nascosto abbandona il convento e

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in agenda - fuori porta

ritorna in paese alla sua casa, ma la trova vuota e chiusa, quindi ritorna sui suoi passi. Il film è il primo in assoluto girato in provincia di Lecce. ll “Premio Teramo per un racconto inedito” è stato fondato da Giammario Sgattoni nel 1959, si rivolgeva sia agli autori affermati che ai giovani e agli esordienti . Il "Teramo" già dalla seconda edizione, quella del 1960, si affermò come Premio letterario di rilievo nazionale, con una giuria di cui fecero parte Diego Valeri come presidente, Carlo Betocchi, Carlo Bo, Giacomo Debenedetti, Enzio Di Poppa Vòlture, Raffaele Passino con lo stesso Sgattoni in veste di segretario. Nella serata gli interventi dell’assessora alla cultura Francesca Lucantoni, della direttrice del polo museale Paola Di Felice, di Rita Alberga e di Caterina Gerardi. A seguire la proiezione de “L’isola di Rina” di Caterina Gerardi e de “Il Tramontana” di Adriano Barbano.

in agenda - musica

Da Anima Mundi in uscita un concept album dell’Officina Zoè

Dedicato al mare

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irene, pescatori, naviganti, esploratori e sognatori rievocano il Mediterraneo in un concept album sul mare. Canti d'atmosfera e pizziche da trance in gran parte inediti per l'ottavo disco dell'Officina Zoè. Mamma sirena è l'ottavo disco dell'Officina Zoè, uno tra gli ensemble di musica popolare più amati estorici del Salento. Sirene, pescatori, naviganti, esploratori e sognatori rievocano il Mediterraneo con canti d'atmosfera e pizziche da trance in un concept album sul mare per riscoprire un elemento centrale della cultura e della vita salentina, luogo di incontri, inclusività e scambi tra civiltà differenti. Il lavoro è frutto di una lunga e accurata ricerca sui testi tra-

dizionali e di un raffinato collage di frammenti attinti da fonti diverse dalla voce del gruppo Cinzia Marzo. Lo stile è quello inconfondibile degli Zoè, fedele alla tradizione ma calato nel presente, attento alle sottili influenze che nel corso del tempo hanno arricchito la cultura del Salento senza però mai perdere la rotta e il forte legame con la propria terra. In copertina il pesce a formo di uroboro dal “Missale gelonese” dell'VIII sec, mentre il libretto contiene oltre ai testi dei canti anche alcuni dialoghi di sirene tratte dal romanzo di Maria Corti Il canto delle sirene (Bompiani, 1989) e pregevoli illustrazioni medievali di sirene. L'Officina Zoè nasce nel '93 ed è subito una delle forze motrici del movimento di rinascita

del Salento che ne ha portato alla ribalta internazionale la musica di tradizione. Il primo album Terra, autoprodotto nel 1997 e riedito nel 2005 dall'etichetta Anima Mundi, è diventato un modello seguito da moltissimi gruppi più giovani. Il successo è dovuto anche alla stretta collaborazione con il regista salentino Edoardo Winspeare, nei cui film i musicisti compaiono come attori e autori delle colonne sonore: Pizzicata (1996), Sangue vivo (2000) e Il miracolo (2003). L'ensemble ha pubblicato 8 album e ha partecipato a importanti festival come Womex (Italia), I suoni delle Dolomiti (Italia), Voix des Femmes (Belgio), Stimmen (Germania), Festival dei Popoli (Italia), e tenuto diversi tour in USA, Giappone, Corea del Sud, Turchia ...


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spagine

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arà consegnato a Sandro Ruotolo - che da maggio vive sotto scorta dopo aver ricevuto minacce a causa delle sue inchieste sul traffico di rifiuti tossici in Campania - il "Premio Giornalistico Maurizio Rampino alla carriera". La manifestazione, da nove anni, ricorda la figura del giornalista salentino prematuramente scomparso il 14 giugno 2006, la sua indipendenza di giudizio, il suo coraggioso saper andare controcorrente e anticipare i tempi, il suo osservare quello che accadeva e saperlo riportare con puntualità e obiettività e "prosegue" il suo lavoro. Nel corso della cerimonia, che si terrà martedì 7 luglio (dalle 19.30) nella piazzetta antistante la chiesa dell'Assunta a Trepuzzi, saranno anche assegnati i premi per i migliori articoli, servizi e reportage editi e inediti sul tema “Immigrazione tra integrazione, speranza, solidarietà e intolleranza”. Dal 2011 è stato istituito anche il “Premio Giornalistico Maurizio Rampino alla carriera” che nel corso di questi anni è andato ad Antonio Padellaro (2011), Luca Telese (2012), Riccardo Iacona (2013) e Corrado Formigli (2014).

in agenda - giornalismo

A Sandro Ruotolo il “Premio Giornalistico Maurizio Rampino alla carriera” M’appuntamento a Trepuzzi martedì 7 luglio

Scrittura resistente

Sandro Ruotolo ha iniziato l'attività giornalistica nel 1974 con Il Manifesto. Nel 1979 entra in Rai e alla fine degli anni ottanta inizia la collaborazione con Michele Santoro che, passando da Rai a Mediaset sino a La7, prosegue ancora. Samarcanda, Il rosso e il nero, Tempo reale, Moby Dick, Moby's, Circus, Il raggio verde, Sciuscià, Annozero, Servizio Pubblico sono tutte contrassegnate dalle inchieste e dai collegamenti del giornalista campano. Nel corso della sua lunga carriera è stato insignito di numerosi premi, da ultimo quello di "Articolo21- Fnsi" perchè "Giornalista da sempre impegnato a combattere mafie, camorre e malaffare. A questo impegno professionale, etico, civile e politico, ha dedicato tutta la sua vita, senza fare sconti a nessuno, usando lo stesso metro verso ogni governo ed ogni potere". “O Vogl’ squartat’ viv”: è la recente minaccia del capo dei Casalesi Michele Zagaria, direttamente dal carcere e per la quale il prefetto di Roma, Franco Gabrielli, ha deciso la protezione per il giornalista televisivo. Nel mirino dei clan camorristici un reportage sul traffico di rifiuti tossici in Campania realizzato per Servizio Pubblico e, in particolare, un’intervista al pentito Carmine Schiavone. Il Premio giornalistico Maurizio Rampino è organizzato e promosso dal Comune di Trepuzzi e dall'Associazione "Amici di Maurizio" in collaborazione con La Gazzetta del Mezzogiorno e con il patrocinio e il sostegno dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti, dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia, di Coldiretti Lecce, del GAL Valle Della Cupa, dell’Unione dei Comuni del Nord Salento e dell'Arif.

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Spagine Fondo Verri Edizioni

Spagine è un periodico di informazione culturale dell’Associazione Fondo Verri esce la domenica a cura di Mauro Marino è realizzato nella sede di Via Santa Maria del Paradiso, 8.a , Lecce come supplemento a L’Osservatore in Cammino iscritto al registro della Stampa del Tribunale di Lecce n.4 del 28 gennaio 2014 Spagine è stampato in fotocopia digitale a cura di Luca Laudisa Studio Fotografico San Cesario di Lecce Programma delle Attività Culturali della Regione Puglia 2015 Artigiana - La casa degli autori


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in agenda - prossimamente

Corpi, inganni, movimenti

La dodicesima edizione della Festa di Cinema del Reale a Specchia dal 22 al 25 luglio

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ella bellissima cittadina di Specchia dal 22 al 25 luglio 2015 torna la Festa di Cinema del Reale che alla sua XII edizione sarà ispirata da tre parole chiave: Corpi / Inganni / Movimenti. Quattro giornate dedicate al cinema più spericolato, curioso, inventivo che si possa vedere ed ascoltare La Festa di Cinema del reale è un evento culturale e creativo ideato dalla società cooperativa Big Sur in collaborazione con le associazioni culturali OfficinaVisioni e Cinema del reale, realizzato dalla Fondazione Apulia Film Commission, cofinanziato dall'Unione Europea con il sostegno del Comune di Specchia e il patrocinio della Provincia di Lecce (Assessorato alla Cultura) per promuovere e sviluppare le narrazioni del reale e il cinema documentario realizzato in Italia, nei paesi del Mediterraneo e nel mondo. Ospiti d’onore provenienti dalla Grecia con un focus dedicato alle produzioni degli ultimi anni e una sezione italiana delle autrici e degli autori più spericolati e innovativi del panorama del cinema del reale italiano. Aperitivi musicali e proiezioni fino a notte fonda, installazioni, performance, colazioni con gli autori invitati, incontri di poetiche/pratiche, crisi, amori e follie cinematografiche… L’edizione 2015 darà spazio all’idea di creare un villaggio sociale di Cinema del reale, con seminari e laboratori che saranno attivati prima dei quattro giorni della Festa e saranno rivolti alla sperimentazione, al cinema accessibile e alla coesione sociale.

L’evento si avvale della direzione artistica del filmaker Paolo Pisanelli e si svolgerà nel suggestivo castello Risolo di Specchia e nella piazza antistante, coinvolgendo gli abitanti del paese, turisti, studenti, autori e appassionati di cinema, mirando a una grande partecipazione di pubblico. * * * La Festa di Cinema del reale è un evento dedicato agli autori e alle opere cinematografiche e video che offrono descrizioni e interpretazioni personali e singolari delle realtà passate e presenti nel mondo e rivelano generi documentari differenti: film sperimentali, film-saggio, diari personali, film di famiglia, grandi reportage, inchieste storiche, narrazioni classiche, racconti frammentari… Opere di autori riconosciuti o meno noti, con diversi orizzonti geografici, politici e culturali, sono espressione di un cinema che in genere dispone di limitate risorse economiche ma è dotato di grandi capacità inventive e comunicative. La Festa di Cinema del reale è una manifestazione culturale unica in Italia perché ha una formula originale, non è una competizione cinematografica, né tanto meno una semplice rassegna, ma una “festa” intesa come scambio culturale creativo. È un’occasione di incontro e di scambio tra il pubblico, gli autori, i produttori e gli operatori culturali che rappresenta ormai un evento stimato e molto conosciuto in Italia da tutte le realtà di produzione e le associazioni operanti nel settore, ma anche dalla “gente comune”. Oggi in Italia le occasioni per la produzione e la distribuzione di film documentari sono molto difficili, la televisione pubblica quasi ignora questo cinema che

crea opere spericolate, curiose, inventive e capaci di raccontare in modo originale ed efficace la vita reale e le trasformazioni della società. Grazie anche al coraggio di alcuni produttori italiani, negli ultimi anni un gruppo di filmaker documentaristi di talento è riuscito ad emergere, ma bisogna insistere e creare un “circuito doc”, ovvero un'adeguata rete di distribuzione e di festival che si curi della promozione e diffusione del cinema documentario.

La Festa di Cinema del reale si propone di: promuovere e diffondere il cinema documentario; mostrare i film documentari, dar loro visibilità e affermare la necessità di produrli per una distribuzione nei cinema e su tutti i mezzi di diffusione possibili, proponendo una selezione della migliore produzione italiana del presente e del passato; mettere in relazione i film documentari italiani con alcuni dei migliori documentari internazionali distribuiti nelle sale cinematografiche. L'Archivio di Cinema del reale è luogo di scambio, recupero e diffusione di film e documenti audiovisivi finalizzato principalmente a favorire l'attività di filmaker, studiosi e appassionati. Si propone di divenire un luogo di fruizione pubblica di vari generi di cinema documentario. All'Archivio aderiscono e contribuiscono con i loro film tutti gli autori e gli ospiti annualmente invitati alla Festa di Cinema del reale. L'Archivio svolge la sua attività nel campo degli audiovisivi (cinema, video, multimedialità) per favorire la costruzione di una memoria collettiva sulle realtà del mondo, dedicando particolare attenzione alle opere che raccontano aspetti sociali, ambientali, politici e culturali dell'Italia e dei paesi del Mediterraneo.


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racconti salentini

Meris e nonno Michele

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anca poco affinché prendano il via i frenetici e assordanti concerti delle cicale. Intanto, i primi fichi fioroni, da queste parti chiamati culummi di S. Giovanni, si vanno facendo tondi, molli e gustosi e pure le albicocche prendono a tingersi delle nuance rivelatrici della maturazione. D'intorno, un'atmosfera luminosa e, nello stesso tempo, ancora ovattata, in attesa della vivacità tipica della piena estate, clima caldo ma gradevole, a portata di mano, sullo sfondo, la distesa azzurra che sembra rivolgere ammalianti inviti per nuotate, tuffi e immersioni. Il porticciolo d'approdo e stazionamento delle minuscole e colorate vele di chi scrive appare già pullulante, anzi gremito, di legni barchette, gommoni, motoscafi e qualche yacht - che i marinai addetti, sorvolando sulla distinzione per censo, lusso e stazza, sono soliti appellare semplicemente stozzi. In tanta cornice, mi è concesso il piacere di conoscere Meris, una stupenda cascata di riccioli, sorriso pronto e largo emanante da due occhioni neri e brillanti. Buona fortuna, piccola, di vero cuore! E, con la creatura, incontro i suoi genitori Michela e Fabrizio, convenuti a Castro, in compagnia di un drappello di familiari e congiunti, nella bellissima villetta per le vacanze di loro proprietà, sul mare, circondata da vasti terrazzamenti piantumati, dotata di discesa privata e accesso diretto alla scogliera demaniale, in un tratto di costa terminante in aggraziati picchi e calette, su cui spandono carezze, quando

di Rocco Boccadamo

non s'infrangono con forza e sonoramente, le sequenze di onde, incontaminate, cristalline e trasparenti, che sono la caratteristica per eccellenza, la prerogativa basilare della Perla del Salento. La residenza in questione - angolo, rifugio da paradiso - non è anonima, di serie, vanta, al contrario, una sua storia radicata: non è, dunque, per niente casuale l'appellativo di "Villa Meris", a ricordo di colei che, a suo tempo, l'ha voluta e realizzata e, ora, a suggello ideale del perpetuarsi, della continuità di un nome. Viepiù indietro, nella "storia", si stagliano, in mano alle generazioni pregresse, fazzoletti di marine inframmezzati da fichi e fichidindia, alberelli di vite o cippuni, carrubi e coltivati a patate e altri ortaggi. Così, sino alla titolarità di alcune particelle in capo a Nonno Michele e alle stagioni in cui, qui, il turismo era un fenomeno pressoché sconosciuto e/o marginale e non la realtà, importante e vitale, degli ultimi decenni, che ha dato luogo alla trasformazione delle medesime marine in preziose aree adatte a valorizzazioni edilizie. Nonno Michele, dicevo, una figura parimenti non anonima, contraddistinta, bensì, da un percorso di vita dinamico e intenso: da giovanissimo paesano a arruolato volontario nella Regia Marina Militare, apprezzabile progressione di carriera sino al grado di Maresciallo di 1^classe. Innumerevoli imbarchi, a lungo di base, e residente con la famiglia, in Istria (all'epoca territorio italiano), una serie di crociere per il mondo, compresa quella, lunghissima, in Cina, nel periodo che annoverava, in rappresentanza dell'Italia, la presenza in quel Paese

del conte Galeazzo Ciano e della moglie Edda Mussolini. Nonno Michele, accostatosi al congedo pressoché in concomitanza della riannessione di Fiume alla Jugoslavia e, di conseguenza, soggetto ai correlati momenti sopraggiunti per tutti gli italiani che si trovavano lì. Infine, il ritorno al paese natio, l'acquisto di un carretto e di un cavallo, onde poter raggiungere agevolmente Nonno Michele, di nuovo contadino - i piccoli poderi di terreno posseduti, fra cui il "Bosco", comprendente un trullo con annessa cisterna di preziosa acqua piovana, posto proprio alla sommità, a stregua di corona, della magica insenatura Acquaviva, le "Scarpe" e la "Marina di Diso", dove, poi, è stata edificata la villetta accennata all'inizio. Nonno Michele, dopo la parentesi del carretto trainato da quadrupede, alla guida di un'autovettura Fiat "Giardinetta". Nonno Michele, il quale non parlava in dialetto salentino, ma, in genere, si esprimeva in corretto italiano, e ciò per effetto del suo consistente girovagare, da sud a nord, oltre che all'estero, quando possibile insieme con la moglie Candida e la figlia Meris. Com'è facile notare, c'è una lettera dell'alfabeto che ricorre pressoché in ogni capoverso delle presenti note: “M”, iniziale del nome proprio di una giovane mamma e del suo nonno materno, “M”, iniziale del nome proprio di una bambina e della sua, di nonna materna, “M”, infine, iniziale della denominazione che individua un'amenissima villetta di Castro, stella del Basso Salento.


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della domenica n°79 - 14 giugno 2015 - anno 3

in agenda - fotografia

A San Cesario di Lecce, fino al 22 giugno il Festival della Fotografia in Puglia

Omaggio ai padri

Fotografie di Fernando Bevilacqua

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in agenda - community dance

volte non ci si può esprimere con le parole. E quello che si prova, che sia felicità, tristezza, rabbia o sofferenza, rimane lì a logorare l'io interiore… Il disegno nella sua forma più semplice di espressione, dà la possibilità di esprimersi e di raccontarsi. Questo è accaduto negli incontri nei laboratori attivati dall’Associazione Barriere al Vento. E con il disegno, la scrittura, la danza, la musica, l’andare in barca a vela, le piccole costruzioni di artigianato. Tutto il fare possibile e tutti insieme a mettere su cartoncino con il pennarello nero case, alberi, cieli stellati… e anche le fastidiose macchine… C'è anche chi s’è lasciato andare con il pennarello, libero di tracciare tratti che si son trasformati in disegni astratti che esprimevano pienamente lo stato d'animo i chi li realizzava e dei ragazzi… È stata un'esperienza molto intensa.. Non c'è bisogno di essere un bravo disegnatore per fare arte o un danzatore per sentire che danzi... Viviana Indraccolo

otoArte è il “festival diffuso” della fotografia che si tiene ogni anno, da dodici anni, in alcuni comuni della Puglia, con molti appuntamenti e progetti, tra mostre, seminari e workshop, diluiti nei mesi dell’assolata estate del Sud. In una terra storicamente assetata di acqua e al contempo di vita, di cultura, di conoscenza, FotoArte si fa promotore della creazione di un network e di momenti di socialità, di esperienze positive di crescita e di interazione. Un evento ormai radicato e atteso nel Sud della Puglia e che ha visto numerosi ospiti illustri della fotografia: Gianni Berengo Gardin, Letizia Battaglia, Uliano Lucas, Lorenzo Pesce, Bruno Taddei, Ferdinando Scianna, Franco Fontana; le loro opere e le loro esperienze hanno impreziosito il nostro territorio, le nostre passioni e la nostra gente, sempre molto ricettiva e calorosa. Migliaia di donne e uomini hanno interagito con FotoArte in questi 12 anni: visitatori curiosi, fotografi professionisti di fama nazionale e internazionale, fotoamatori e appassionati hanno avuto la possibilità di incontrarsi, discutere, imparare. Tutto questo è stato possibile con il lavoro di alcune associazioni pugliesi impegnate nell’organizzazione e coordinate dal circolo fotografico il Castello di Taranto, fondatore della manifestazione, in interconnessione con le istituzioni: la Regione Puglia, che dà il patrocinio, il Comune e la Provincia di Taranto, il Comune e la Provincia di Lecce, il Comune e la Provincia di Brindisi, e ancora i Comuni di Statte, Salice Salentino e San Cesario e PugliaPromozione

http://fotoartepuglia.it/ Dal 17al 23 giugno, dalle 19.30-20.30, la CHIESA DI SAN GIOVANNI EVANGELISTA, in via Caponic, a San Cesario di Lecce, ospita l’ “Omaggio ai padri” di Fernando Bevilacqua. L’inaugurazione, mercoledì 17 giugno, alle 19.30, con la libera chiacchierata del fotografo Fernando Bevilacqua con Salvatore Masciullo, Salvatore Colazzo, Antonio Errico e pubblico partecipante. e incontro con l’autore.


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