Spagine della domenica 72

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della domenica n°72 - 26 aprile 2015 - anno 3 n.0

Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri

spagine Un omaggio alla scrittura infinita di F.S. Dòdaro e A. L. Verri


25 aprile settant’anni dopo spagine

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ella ricorrenza del 25 aprile, settant’anni dalla Liberazione, i media hanno risposto alla grande: libri, servizi televisivi, dibattiti, film su tutti i canali e soprattutto il mantra: il 25 aprile è la festa di tutti gli italiani, che viene ripetuto al termine di ogni trasmissione, di ogni dibattito, di ogni intervista, lunga o breve che sia. Ecco, sul mantra si ha il sospetto che non sia proprio come si vorrebbe che fosse, ossia la festa di tutti gli italiani. Se lo è, perché ribadirlo, quasi per esorcizzarne il dubbio? Qualcuno, come il giornalista e scrittore Aldo Cazzullo, ha esplicitato l’importanza di ribadirlo dopo che certi libri di questi ultimissimi anni hanno ridimensionato in qualche modo la limpidezza della Resistenza, così ridotta, almeno nella sua fase conclusiva, ad una sorta di resa dei conti non sempre per ragioni nobili. Si riferisce, senza citare il nome, a Giampaolo Pansa, sostenitore di verità après saison col suo libro “Il sangue dei vinti”.

garet, ha più volte ribadito nei suoi libri, senza nulla rinnegare, il concetto che la sconfitta del fascismo fu un bene, un esito da preferire ad una sua vittoria, avvalorando implicitamente la tesi secondo cui chi combatté per Salò era dalla parte sbagliata. Lasciamo stare le parti, giuste o sbagliate. La storia – si sa – premia sempre chi vince e mortifica chi perde, non per un fatto di disonestà intellettuale da parte degli storici ma perché hegelianamente ciò che accade ha una sua razionalità. Lo storico analizza l’accaduto, non ciò che poteva accadere. Pure coloro che combatterono dalla parte “sbagliata” si sono poi riconosciuti nell’Italia uscita dalla guerra; e lo hanno fatto senza riserve, ipotizzando un dopoguerra fascista impreferibile rispetto al dopo - guerra democratico. Il ragionamento è stato semplice: abbiamo combattuto per l’onore dell’Italia, per dei valori nei quali credevamo; ora la partita è chiusa, viviamo con lealtà in questa Italia democratica. Si potrebbe dire che i fascisti che combatterono per il fascismo e persero abbiano trovato proprio nella sconfitta il vaccino immunizzante, facendo il paragone tra l’Italia dell’anteguerra e l’Italia del dopoguerra, con preferenza per quest’ultima. Paradossalmente sono stati proprio alcuni che si sono riconosciuti da sempre nel 25 aprile e dunque nella Resistenza a non essere contenti dell’Italia successiva. Le Brigate Rosse e le altre organizzazioni terroristiche di sinistra degli anni Settanta e Ottanta, hanno sempre ribadito il concetto secondo cui l’Italia repubblicana, democristiana e delle sue varie combinazioni partitocratiche, aveva tradito la Resistenza e che dunque bisognava riprendere le armi per concretizzare un’ipotesi politica che era nella prospettiva dei combattenti delle brigate partigiane di cifra comunista.

In verità il 25 aprile è la festa di tutti gli italiani, anche di quelli che per una diversa lettura della storia si collocano quanto meno border-line. Non dico avversi o convertiti. Oggi sono pochissimi i sopravvissuti di Salò e della Resistenza. Chi è nato e vissuto nella Repubblica Italiana non può non riconoscersi in essa e nella sua storia. Ma, come si hanno idee diverse su Crispi e Giolitti, Salandra e Sonnino, allo stesso modo è legittimo avere idee diverse su Mussolini e il fascismo e dunque anche sulla Liberazione, sulla fine della Monarchia, sui partiti politici e tutto il resto. E’ un discorso meramente storiografico, di analisi politica. Uno dei più sereni ed equilibrati reduci di Salò, combattente fino all’ultimo, oggi scomparso, Carlo Mazzantini, papà della scrittrice Mar- Oggi possiamo chiederci tutti che

di Gigi Montonato

cosa resta ancora delle posizioni variamente critiche del 25 aprile. E possiamo rispondere che non c’è più niente di significativamente estraneo e men che meno ostile. Non ci sono più reduci salodiani, o per lo meno sono talmente pochi da non costituire una componente politica; stessa cosa si può dire dei reduci della guerra partigiana. Il 25 aprile è perciò una data fondante nella quale gli italiani si riconoscono tutti, senza forzature né da una parte né dall’altra. Si può essere più o meno contenti di quest’Italia, ma non si può mettere in discussione il suo assetto costituzionale, le basi del suo essere una delle più importanti nazioni nel mondo, una protagonista assoluta delle vicende mondiali. Certo, il modo in cui la storia del Paese evolve non trova tutti d’accordo; ma questo è normale. Ci sono italiani che vorrebbero, senza essere fascisti, che l’Italia si facesse sentire di più in Europa e nel mondo. Ci sono altri italiani che, senza essere comunisti, ritengono che l’Italia faccia poco nel processo di liberazione e di fratellanza fra i popoli e gli individui. Ma nessuno in Italia ipotizza un Paese diverso da quello nato col 25 aprile. Ci sono valori che reggono alle più rapide o lente trasformazioni. L’Italia di oggi è profondamente diversa da quella di settant’anni fa, perché diversa è la realtà dell’Europa e del mondo; ma i principi fondanti della sua Costituzione sono gli stessi. E’ per questa ragione che la domanda se oggi il 25 aprile è la festa di tutti gli italiani tradisce un’incertezza e qualche dubbio, che certo non rafforzano la tenuta culturale e politica di questo nostro Paese. Proprio il riconoscersi tutti nel 25 aprile, perché non possiamo non riconoscerci, è garanzia di libertà di leggere la storia juxta propria principia, per dirla con Telesio, e non alla Pansa o alla Cazzullo.


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l’opinione

“Sono stati proprio alcuni che si sono riconosciuti da sempre nel 25 aprile e dunque nella Resistenza a non essere contenti dell’Italia successiva”

E

corsivo

Poveri cristi dal cuore fidente i cavalloni si alzano s’impennano si rincorrono, s’infrangono furiosi sui fradici legni carichi di umili cristi dal cuore fidente. Traballa il barcone e vacillano gli animi nella procella più cupa.

Non ci sono parole nella furia della tempesta, ci son solo occhi che fissano senza vedere, mani che stringono mani senza sapere e si avvinghiano al legno per non cadere, tra spruzzi di lacrime salate e come il fiele di Cristo amare. Poi lo schianto di un’onda sommerge, sovrasta i cuori, inabissa le grida d’aiuto e annulla animi e affetti tra gorgoglii effervescenti di terrore e di orrore sotto un cielo testimone silente e impotente di quelle onde che abbracciano e accolgono senza pietà gli spasimi di chi, pian piano si spegne. E alle croci invisibili, si aggiungono croci silenti che cullano deluse chimere in una notte buia come il tormento di chi cercava un appiglio, aggrappato a quell’acqua salata che tra le mani scivola e annulla. Quante croci traballano su quel mare di notte senza nessun lumicino che prega e senza che il sole di giorno le illumini. Sono croci trasparenti, cristalline come l’acqua che ha sommerso tanti nomi non nomi di poveri cristi.

E noi chi siamo? Chi è l’uomo che inabissa altri uomini? Su quella sponda che invia, ci sono uomini che spingono, incalzano per un tornaconto spregevole; sulla sponda, che dall’altra parte riceve, altri uomini accolgono, ma tra tanti benefattori, purtroppo, ci son quelli che di altri tornaconti allignano e s’impinguano. Già, siamo tutti uomini e brava gente, ma a guardare la trasparenza di quelle infinite croci che dondolano su un cimitero d’acqua, mi dico che, forse, tanto brava gente non siamo pur ricevendo e “aiutando”. C’è modo e modo di confortare e sostenere l’altra sponda, ci sono altri criteri di dare coraggio, ci sono altre bontà, altre carità. Non basta salvare tra le onde e accogliere. Si può anche farlo senza creare dissidi tra le genti delle due sponde! E mentre i politic-cristi “brava gente che non sa rinunziare a niente” si accapigliano e cercano gloria, le croci sul mare seguitano a dondolare aggiungendo numero a invisibile numero e l’abisso del mare senza fiatare, bravo mare! continua silente a gonfiarsi di bravi cristi, di urla strazianti che si aggrappano al nulla! di Maria Grazia Presicce


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La destra

e i nuovi diritti

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a tempo, l’associazione radicale Luca Coscioni e un gruppetto ristrettissimo di politici hanno avviato una campagna serrata per legalizzare la cannabis e per stimolare il Parlamento a legiferare doverosamente sul “fine vita”. Il senatore del Pd, Luigi Manconi, lamenta che su certe questioni di enorme importanza arrivino solo adesioni da sinistra. Effettivamente, la sinistra ha un Dna libertario ed è attenta particolarmente ai “nuovi diritti”. Purtuttavia, ci si attenderebbe che su alcune tematiche di fondamentale rilevanza ci sia una convergenza bipartisan, che vada oltre le “regole” stereotipate degli opposti schieramenti. Recentemente, sul Corriere della Sera, è intervenuto il senatore del Ncd, Maurizio Sacconi, già socialista, ex berlusconiano di ferro. Ha scritto il devoto senatore: “È la sinistra priva di orizzonti identitari, che si è rivolta ad un pensiero libertario lontano dalle sue radici e dalla sua vocazione d’uguaglianza. Pensiamo come difende il diritto al figlio”. E, in un moto d’entusiasmo, ha aggiunto: “La destra umanitaria e liberalpopolare è invece radicata nella tradizione nazionale e nell’antropologia naturale. Questo ci porta a difendere una società orientata alla vita. A rispettare la dignità d’ogni persona e a riconoscere rilevanza pubblica alla famiglia naturale orientata alla procreazione”. L’antropologia naturale, a cui tiene Sacconi, l’abbiamo potuta a pieno “apprezzare” quando l’ex socialista craxiano è stato al governo con Berlusconi. In compagnia dell’indomita Roccella, di Gasparri e di altri, è stato l’autore d’una surreale “agenda bioetica” di sapore acremente confessionale, che sembrava dettata passo passo dalle alte gerarchie ecclesiastiche. In nome della famiglia canonica, ritenuta ingiustamente minacciata, i politici di centrodestra si opposero a qualsiasi normativa a favore delle coppie di fatto omosessuali. Il Pdl, a un certo punto, si saldò intimamente con

l’inossidabile e trasversale “partito della vita”, sponsorizzando battaglie assolutamente fondamentaliste. Ricordiamo, ad esempio, all’indomani della dipartita di Eluana Englaro, che il Senato votò in maggioranza per affermare addirittura che l’alimentazione e l’idratazione forzate dovessero essere ritenute sempre “sostentamento vitale irrinunciabile”. Quando sappiamo che le Società nazionali e internazionali di Nutrizione artificiale ritengono che esse debbano essere considerate vere e proprie terapie sanitarie, suscettibili all’occorrenza di essere interrotte. Il governo Berlusconi ebbe l’ardire di fare approvare, in Senato, il ddl. Calabrò sul testamento biologico. Un testo, appoggiato apertamente dall’Udc dei Casini (Pierferdinando e Carlo), chiaramente illiberale, antiscientifico, forse anticostituzionale. Questa è la vita, che difende a spada tratta il meraviglioso Sacconi? Dopo la triste legge 40 sulla fecondazione assistita, che di fatto stabiliva il dominio dello Stato sul corpo della donna, un’altra statica e impraticabile normativa sulle dichiarazioni anticipate di trattamento di stampo paternalistico stava per nascere. Fortunatamente, però, s’arenò per sempre come corpo morto nelle secche del Parlamento. Ma come poteva un governo democratico (quello berlusconiano) confezionare una legge “rigorosissima”, che disciplinava il “fine vita” come se fosse un tremendo giudizio di Dio, come se si trattasse d’una “zona di confine” standardizzata e strettamente definibile con una “formula matematica” valida per tutti i cittadini. “La destra umanitaria si rivela in tutti i comportamenti regolatori portatrice d’una visione fiduciosa dell’uomo”, sostiene paradossalmente Sacconi. Una destra “tanto fiduciosa” nell’uomo e nella laica scienza, che ha sempre imbrigliato con normative inconcepibili le aspettative della donna e della ricerca scientifica. La famigerata legge 40 vietava l’eterologa

di Marcello Buttazzo

(oggi non più, grazie all’intervento della Consulta); e, ancora attualmente, impedisce tassativamente la manipolazione delle cellule staminali embrionali, che secondo la comunità scientifica internazionale rappresentano la speranza, il presente e il futuro della medicina rigenerativa. “Destra fiduciosa nell’uomo”, ripete come un mantra sbiadito l’ex ministro berlusconiano Sacconi. Certo, tanto fiduciosa, che nel 2006 formulò l’incredibile legge FiniGiovanardi sulle droghe (di recente dichiarata, ovviamente, anticostituzionale), che stabiliva con un arbitrio scientifico e classificatorio che tutte le droghe dovessero considerarsi pesanti. Una legge, evidentemente cara a Sacconi, che in questi anni ha contribuito a riempire fino all’inverosimile le celle dei già fatiscenti penitenziari. Serenamente, possiamo dire che, dopo anni e anni di politiche proibizionistiche, i rappresentanti delle istituzioni avrebbero dovuto testimoniare il fallimento del loro asfittico registro. Esistono droghe leggere e droghe pesanti: ognuna ha il suo ordine sistemico, la sua modalità d’azione, i suoi livelli di perniciosità. Non sono servite alla crescita civile del Paese la semplificazione e la faciloneria d’un passato governo Berlusconi, che, per obbedire ad una sottocultura securitaria, ha inventato di sana pianta nuovi reati e nuovi infidi “criminali”. Tanti anni fa, vinse il referendum portato avanti dai Radicali sulla depenalizzazione delle droghe leggere: ma è stato clamorosamente disatteso da una classe politica parlamentare sprovveduta. Anni fa, qualche politico della “destra umanitaria” addirittura avrebbe voluto sottoporre obbligatoriamente gli studenti, i ragazzi e le ragazze, al test anti-droga. Che dire? Se deputati della Repubblica sono attraversati da crisi esistenziali e sono in vena di mostrare al popolo italiano le loro fenomenali virtù morali, si sottopongano loro al test volontario o anche coatto antidroga.


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contemporanea

Sull’omosessualità

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n diverse parti del mondo, da tempo, sulle coppie di fatto sono state formulate adeguate normative. L’Italia su tale questione è fanalino di coda in Europa. In un tempo che è quello che è, che comunque vuole eguaglianza e pari opportunità, è legittimo appellarsi strettamente alla legge naturale per affermare che solo le unioni fra uomo e donna debbano essere considerate lecite? Ma cosa c’è di più umano e naturale dell’amore, della comprensione, del reciproco rispetto, indipendentemente dall’appartenenza di genere? Ma cosa c’è di più bello d’un diffuso sentimento fra esseri umani, che si amano alla luce del sole e si riconoscono in un sistema di diritti e doveri? Dovremmo cercare di oltrepassare e sconfiggere ogni possibile discriminazione. Dispiace che, da noi, non si riesca a proteggere opportunamente le coppie di fatto e non si riesca ad addivenire ad una necessaria legge contro l’omofobia. A diverse latitudini, la discussione è fervente. Tempo fa, la filosofa statunitense Martha Nussbaum si schierò a favore anche del matrimonio omosessuale e definì come un “privilegio” quello eterosessuale. Questa asserzione secca e radicale fece indignare il bioeticista Francesco D’Agostino, che rivelò come “la legislazione moderna in tema di diritto di famiglia tende a mostrare un volto di assoluto rigore, soprattutto quando il matrimonio va in crisi e bisogna regolare le micidiali pendenze

economiche e sociali che nascono dal divorzio”. Effettivamente, un vincolo governato da un sistema stringente di diritti e doveri non può essere assimilato a un privilegio. Ciononostante, c’ è qualcuno, però, che è addirittura convinto che “ciò che gli omosessuali richiedono non è di poter godere di vantaggi e utili sociali, cioè d’una serie di ipotetici privilegi oggi negati, ma di uno statuto simbolico”. Però i cittadini omosessuali non chiedono allo Stato solo un riconoscimento simbolico: essi rivendicano gli stessi diritti e doveri dei cittadini eterosessuali. Chiedono semplicemente di essere tutelati secondo giuste leggi, chiedono di non venir discriminati. Il professore D’Agostino è categorico: “Nessuno vuol sostenere che ciò che manca al rapporto fra omosessuali sia l’autenticità dei sentimenti: ciò che gli manca è un’obiettiva rilevanza sociale e generazionale”. Ma l’ uomo e la donna, indipendentemente dall’appartenenza di genere, vivono rapporti umani e relazionali, per le strade, negli uffici, nelle scuole, nelle fabbriche. Tutti siamo soggetti sociali, e come tali abbiamo manifesta rilevanza. Inoltre, in alcune contrade del mondo, gli omosessuali possono regolarmente adottare bambini o procreare mediante le tecniche di fecondazione assistita, e quindi di fatto possono perpetrare la specie in un abbraccio generazionale. di Marcello Buttazzo


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“Oh, Sergio non ho tempo di scriverti, ma d'altra parte non ti ho scritto mai, oh, sì, di cose qui ne succedono, ma ci illudiamo d'inventarle noi: siamo un passaggio di allodole: con un colpo andiamo giù; mentre cerchiamo di scegliere se volare a nord o a sud... e gli anni indietro, e gli anni Sergio, e quando c'eri tu... “

S

Canzone per Sergio - Roberto Vecchioni

ergio Torsello era un bell’uomo: lunghi capelli neri raccolti in una coda da cavallo e rughe appena accennate a solcare la sua faccia da indiano salentino. Soprattutto era un uomo bello: buono, profondamente altruista, umile e disponibile con tutti. Sergio Torsello era un valente studioso di tradizioni popolari, uno dei più preparati, competenti, appassionati. Amava visceralmente questa nostra terra di cui ricercava usi, costumi, storie; come un monaco cercantino, andava raccogliendo tutto ciò che venisse pubblicato anche di minore, di minimo. Lo conoscevo da tanti anni, impossibile non volergli bene, ci stimavamo. Tante e di altissimo livello erano le sue collaborazioni. Vastissima la sua produzione, invidiabile il suo curriculum. Leggeva “S/Pagine”, che io gli inviavo ogni domenica per email. Non era su facebook. Il tempo a disposizione, quando ci si incontrava, sempre poco, perché lui era uno di quelli con cui si poteva passare le notti a parlare di tutto, fra vino e sigarette. Può sembrare un’immagine troppo letteraria, ma era davvero così. I suoi studi salentini non avevano nulla di agiografico o campanilistico. La sua analisi era supportata da un metodo solidissimo perché severo e scientifico. Nei suoi lavori, il Salento diventava una piazza globale, uno scenario ampio, la storia locale si intrecciava con quella nazionale e mondiale. Sergio era un intellettuale militante e chiunque lo conosca sa che non abuso di questa definizione. Era di sinistra? Forse, ma a livello ideale, nemmeno ideologico. Giornalista pubblicista, vantava pubblicazioni sulle più prestigiose riviste salentine e nazionali.

Per Sergio

Non voglio scrivere un pezzo encomiastico, celebrativo. Quando ci si trova nell’immediatezza di un’emozione (l’improvvisa dipartita di Sergio ha lasciato sgomenti tutti), in genere non si scrive. C’è bisogno di lasciare sedimentare dentro un evento che ci ha colpito profondamente, un abrupto, un fatto tragico o lieto, prima di poterne fare trattazione. Aveva prodotto per me una bellissima postfazione per un mio vecchio libro. Avevo scritto per lui diverse brevi recensioni dei suoi. Aveva avuto per me bellissime parole in alcune presentazioni, in qualche posto del Salento. Lo avevo chiamato a parlare di tradizioni popolari anche nel mio paese, Ruffano, dove , insieme ad altri amici (Gigi Chiriatti, Ada Metafune e Biagio Panico) aveva tenuto una seguita conferenza. Mi aveva chiesto di portarlo da un grande vecchio della cultura salentina, Aldo de Bernart, e insieme, io e lui, seduti di fronte a de Bernart nel salotto della sua casa aristocratica nel centro di Ruffano, sembravamo due scolaretti, spauriti al primo giorno di scuola. Stessa situazione, a parti inverse, ad Alessano, dove fu lui ad accompagnarmi a casa di Antonio Caloro, un altro senatore delle lettere salentine. A me viene facile portare in omaggio a chiunque una copia dei miei libercoli, avendone ancora degli scatoloni pieni. Lui invece non aveva nessuna copia dei suoi libri, andati tutti venduti anche nelle successive ristampe. Sicché a volte si trovava nella curiosa necessità di doversi fermare in una libreria ed acquistare una copia per recarla in omaggio a qualcuno. Fece così pure con me e io risi molto. “Ma come?”, gli chiesi, “almeno, in quanto autore del libro, hai preteso uno sconto dal libraio?” “No”, rispose, “e perché mai, mica gli ho detto di essere

di Paolo Vincenti

l’autore!”. Il libro era “La tela infinita”. “Ad uno che si occupa di bibliografie dovrebbe far piacere avere un libro che tratta proprio di bibliografie (sul tarantismo mediterraneo dal 1945 al 2006)”. Fu un complimento bellissimo per me, una dedica non scritta pari ad una promozione sul campo. Diceva di approvare l’operazione di cui io mi ero fatto portatore, ossia quella di pubblicare i profili dei personaggi illustri viventi di Terra d’Otranto. Anche lui lo faceva ogni tanto con i grandi studiosi. “Echeccazzo”, mi confortava, “non bisogna mica aspettare che un personaggio di questi sia deceduto per tributargli il giusto riconoscimento. Quando si tratta di studiosi di chiara fama, va benissimo, anzi è opera meritoria, anzi è proprio un dovere divulgare il loro curriculum. Bravo, fai bene, fregatene di quelli che hanno qualcosa da ridire. Se devi fermarti e rimettere tutto in discussione ad ogni critica che ricevi, non scrivi più. Non puoi aspirare al consenso universale” . E io provavo un senso di rivalsa pensando a certe serpi che strisciano nel sottobosco dell’ambiente culturale salentino. L’ironia della sorte è che, proprio animato da queste intenzioni tante volte condivise con lui, avevo cominciato a raccogliere i suoi materiali con l’intenzione di tracciare un suo profilo bio-bibliografico. Quando lo avrei pubblicato non so, e la storia che sto raccontando non lo dice. Qualche volta lo andavo a trovare al Comune di Alessano, dove lavorava. Tirava fuori il suo pacchetto di sigarette, me ne offriva una, e si iniziava a parlare di tutto. Lui era un vulcano in eruzione, una fucina di idee, un ribollire di iniziative, ma non sbandierava niente, aveva molto più interesse a sapere di te che a dirti di sé. “Ecco i pezzi da novanta” , scherzavo


quando lui arrivava in un posto e Sergio sorrideva sornione e non rispondeva. Mi riferivo al suo incarico, certo gravoso ma anche di grande visibilità mediatica, di direttore artistico della Notte della Taranta. Una grande intrapresa, il concertone di agosto di Melpignano. Non gli ho mai chiesto di farmi entrare nel backstage, di avere i pass per poter assistere più comodamente al concerto. Non volevo metterlo in imbarazzo, a fronte delle tantissime richieste della stessa natura che dovevano pervenirgli. Negli ultimi anni era sempre più oberato. Una volta gli chiesi di presentare il mio ultimo libro in qualche data promo-

zionale, mi rispose che non poteva. Glielo chiesi un’altra volta. Provò ad incastrare gli impegni ma non ci riuscì. Glielo chiesi una terza volta: impossibile, ogni data che gli proponessi di lì a tre mesi risultava per lui occupata. Ci rimasi male, me la presi molto. Non lo cercai più per un po’. Lui ogni tanto mi scriveva ed io gli rispondevo laconico, freddo, distaccato, volevo fargliela pesare. Ero e sono un idiota, naturalmente. Poi, un giorno, leggendo un suo bellissimo pezzo sul “Quotidiano di Puglia”, abbandonai il disappunto, lo chiamai e ci rincontrammo. D’altra parte, io ero un signor nessuno

qualunque e lui uno studioso di caratura nazionale, chiaro che dovesse essere molto più impegnato di me. Ora Sergio non c’è più. Se ne è andato in un giorno di sole, quando tutto uno si può aspettare tranne che una ferale notizia come questa. Quando tutto uno può immaginare, in una giornata di sole spalancato e di lucertole impiccate al primo caldo tiepido, meno che un brivido di gelo, uno sprofondo di voragine che si apra sotto i piedi. Eppure, Sergio se ne è andato in un giorno così. Se c’è un senso a questo, è troppo presto per capirlo.


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“IL CORPO E L’ALBERO”

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la fotografia

(a favore della campagna di sensibilizzazione contro l’eradicazione degli alberi di ulivo) Progetto di Massimiliano Manieri Fotografia di Pablo Peron


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ncora parole e immagini dalla terza edizione del progetto Art-icoliamo Senza Barriere, vincitore del bando di concorso Guardo, Penso, Scrivo... Senza Barriere, indetto dall'Istituto Comprensivo Leonardo da

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mms-arte

Vinci di Cavallino-Castromediano. Il progetto è interamente finanziato dal Comune di Cavallino. Come nelle precedenti edizioni, sono coinvolte le classi terze della scuola primaria. Tutti i bambini guidati dall'esperta e promotrice del progetto Monica Marzano, tramite le loro immagini e poesie, raccontano esperienze dirette e indi-

rette sul mondo della Solidarietà, dell'Amicizia della Tollerenza e della Fratellanza narrando di un mondo in cui è estremamente indispensabile abbattere ogni forma di barriera materiale e mentale che possa pregiudicare l'attuazione di tali civici e sociali propositi.

litigi inutili che fanno dell'amicizia quel sentimento vero e sincero che perdura nel tempo, una sorta di esperienza, giustamente, indimenticabile. La piccola Giulia è stata rapita dalla frase "Amicizia è... Cuscini che volano!" E chi, infatti almeno una volta nella vita non si è beccato una bella cuscinata da un suo amico o viceversa non abbia lan-

ciato un cuscino in faccia all'amico, scatenando quella allegra e amichevole guerra di cuscini? Nel disegno coloratissimo quei cuscini appaiono coriandoli che leggeri volano in aria per planare soffici sui sorrisi divertiti di chi difficilmente potrà dimenticare quei momenti di spensieratezza.

cia d'amore che ha quasi il magico potere di colpire contemporaneamente più bersagli, perché all'amicizia non si deve dare un limite... In amicizia si può sbagliare ma quando si è animati dalla sincerità e dalla bontà, basta saper chiedere scusa e quella stretta di mano suggellerá

per sempre questo sentimento. La piccola Lucrezia ha voluto dare importanza a questa catena di mani amiche "per sempre" perché la freccia d'amore ha bersagliato tutti i cuori con un solo colpo creando un girotondo di felicità.

L’amicizia, freccia d’amore

L

a parola "speciale" scelta dagli alunni della terza A della scuola primaria di Cavallino è AMICIZIA. Il piccolo Gabriele dà una serie di definizioni sull'amicizia, utilizzando la tecnica dell'acrostico, frasi che cantano di gioia, di armonia, di affetto, di unione e dell'azzeramento totale dei

Q

uesta volta la piccola poetessa Benedetta ha preferito dedicare un suo pensiero all'amicizia, utilizzando versi liberi e incantevoli nella loro semplicità... Benedetta vede l'amicizia come una frec-


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Amor armeno

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MAMMA LI TURCHI! (MEMENTO )

hi ricorda il famoso spot della Levis degli anni Ottanta, saprà che l’autore di quella straordinaria canzone, “When a man loves a woman”, era Percy Sledge, scomparso da pochi giorni all’età di 74 anni. La canzone era del 1966 ma presto diventata un classico, evergreen. Così, chi ha letto il bellissimo libro “Memoria del fuoco”, ha appreso in questi giorni della scomparsa del suo autore, l’uruguayano Eduardo Galeano, che gli amanti del calcio conosceranno anche per un’altra famosa opera, "Splendori e miserie del gioco del calcio" del 1997. Ma perché scrivo queste note? Non mi appassionano i necrologi. Lo faccio solo per affermare, una volta di più, il grande valore della memoria. Nessuno può negare che Percy Sledge sia stato un grande cantante, nessuno che Galeano sia stato un enorme scrittore. In questi giorni è tornato di attualità il massacro degli Armeni compiuto dai Turchi nel 1915. La strage di questo popolo è stata commemorata il 24 aprile. Così nessuno può negare che quello sia stato un “genocidio”. Il genocidio degli Armeni, operato dall’esercito turco, è una triste pagina di storia del Novecento e si configura come una sorta di terribile preludio allo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti. Nelle persecuzioni, persero la vita moltissimi poveri armeni, anche se le cifre esatte non sono conosciute e anzi sono materia di scontro fra gli studiosi. Fra la cifra di un milione e mezzo di cui parlano gli Armeni e i cinquecentomila dichiarati dal governo turco, la verità dovrebbe stare nel mezzo, dunque si potrebbe parlare di ottocentomila morti. In realtà gli Armeni erano perseguitati già dall’Impero ottomano nell’Ottocento. Ma nel periodo immediatamente precedente la Prima Guerra Mondiale, precisamente nel-

di Paolo Vincenti

l’aprile del 1915, iniziò una lenta ma decisa oppressione, prima nei confronti degli intellettuali armeni, che vennero deportati in Anatolia e massacrati, poi, la persecuzione si allargò a tutta la popolazione, da sempre mal tollerata dai Turchi. Vennero chiuse scuole, chiese, e i sacerdoti massacrati all’interno di esse. Si iniziarono così delle deportazioni, chiamate “marce della morte”, in cui persero la vita, per fame e stenti, o perché fucilati, una larga parte della popolazione armena. I soldati dell’esercito oppressore e principali responsabili delle fucilazioni, erano conosciuti come “Giovani Turchi”: essi avevano preso il potere nel 1909 ed erano giovani indipendentisti e rivoluzionari che contestavano il vecchio regime ottomano e che, sebbene liberali e costituzionali, finirono per essere sommersi dal caos che imperversava nella nazione in quella temperie storica e per macchiarsi anche di orrendi delitti. (Il fatto che un gruppo di dissidenti interni all’attuale Partito Democratico italiano abbia adottato questo nome, non fa certo onore alla stessa corrente di partito). Il governo turco non ha mai riconosciuto la responsabilità di quella strage ed essa è sempre stata una delle maggiori cause di tensione fra la Turchia e l’Europa. In particolare, la questione armena, oltre ad essere al centro di un lungo e infuocato dibattito politico e ideologico, ha portato molti europei, contrari all’ingresso della nazione turca nell’UE, a sostenere la tesi dell’incandidabilità. Bisogna dire infatti che pure gli studiosi si sono divisi in riferimento al genocidio. Gli storici turchi sono totalmente negazionisti, e addirittura ad Ankara viene punito con il carcere chiunque affermi l’esistenza del genocidio. Gli studiosi della comunità internazionale invece sostengono con forza l’atrocità e la programmatica persecuzione operata ai danni del popolo armeno. Recentemente il dibattito si è riacceso in occasione di alcune dichiarazioni del Papa Francesco I che ha parlato esplicitamente di “genoci-

dio”. Il Papa ha sostenuto una inequivocabile verità, chiedendo di pregare per i tanti cristiani armeni trucidati. In occasione del centenario del massacro, questo fatto diventa di tutta evidenza. Le reazioni del governo turco sono state immediate e violente. Un durissimo attacco del Presidente Erdogan ha messo a repentaglio le relazioni internazionali fra il Vaticano e la Turchia. Ma l’uscita di Papa Francesco ha colpito nel segno, andando a toccare una ferita aperta, una piaga ancora purulenta. In questo, Bergoglio è stato in continuità con il suo predecessore Giovanni Paolo II che pure parlò di genocidio quando, nel 2001, firmò una dichiarazione congiunta con il Patriarca Karekin II. I debiti con la storia vanno saldati e alla memoria riconosciuto il grande valore che essa ha per i popoli e per le generazioni avvenire. Le ritorsioni della Turchia non tarderanno e infatti Erdogan ha già dichiarato che saranno espulsi 100.000 armeni. “Ha ferito la nostra società”, ha affermato l’ambasciatore presso il Vaticano, Adnan Sezgin, costretto prontamente a tornare in patria; “un attacco vergognoso” lo ha definito Erdogan, “avverto il Papa di non ripetere questo errore, e lo condanno”. Lo sceriffo turco lancia l’anatema sul vicario di Pietro. Anche Antonio Gramsci l’11 marzo del 1916, su “Il Grido del popolo” dedicò un articolo al genocidio. Era, il suo, un monito affinchè quanto successo in Armenia non cadesse nell’oblio. “L’indifferenza è figlia dell’ignoranza”, dice Gramsci. Nei campi di sterminio, venne attuata una operazione di pulizia etnica, in quanto gli armeni erano considerati dei sovversivi poiché di religione cristiana e di etnia diversa, dunque difficilmente omologabili nello stato ottomano, a fatica “gestibili”. Il loro sterminio venne programmato dai Giovani Turchi con furore nazionalista. Nel loro progetto panturco, non vi poteva essere posto per culture e lingue diverse, quindi anche per i Greci e per i Curdi. Il massacro


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l’osceno del villaggio

venne stabilito ed attuato con una mobilitazione massiccia dell’esercito e con i conseguenti delitti di torture, stupri, umiliazioni di ogni genere, islamizzazione forzata dei cristiani armeni e loro seppellimento nelle fosse comuni. L’obiettivo degli ottomani era la cancellazione della comunità armena come soggetto storico, culturale e soprattutto politico. I loro beni e le loro terre vennero sequestrate, le donne superstiti al massacro inviate negli harem e cancellata anche scientemente la loro memoria. Il genocidio armeno fu riconosciuto, nel 1985, dalla sottocommissione dei diritti umani dell’Onu, e nel 1987 dal Parlamento europeo. I Paesi che riconoscono il genocidio sono 20, tra cui l’Italia, dopo una risoluzione votata dalla Camera nel novembre 2000. Una interessante posizione di mediazione fra le due tesi contrapposte è sostenuta sull’ “Internazionale” di aprile 2015 dal reporter Gwinne Dyer , il quale, dopo aver esaminato moltissimi documenti, afferma che la verità non sta tutta da una parte o dall’altra. “L’impero ottomano” sostiene Dyer, “ nel novembre del 1914 era incautamente entrato nella prima guerra mondiale a fianco della Germania. L’esercito turco aveva marciato verso est per attaccare la Russia, allora alleata di Regno Unito e Francia. Quell’armata fu annientata in mezzo alla neve vicino alla città di Kars e i turchi furono presi dal panico. Per un errore strategico i russi non contrattaccarono subito, ma se avessero deciso di farlo ai turchi non sarebbe rimasto quasi niente per fermarli. I turchi si sforzarono di mettere insieme una qualche forma di linea difensiva, ma alle loro spalle, nell’Anatolia orientale, c’erano dei cristiani armeni che da qualche decennio stavano lottando per l’indipendenza dall’impero ottomano. Vari gruppi di rivoluzionari armeni avevano preso contatto con Mosca, offrendosi di provocare delle rivolte alle spalle dell’esercito turco nel momento in cui le truppe russe fossero arrivate in Anatolia. Quando ricevettero la no-

tizia che l’esercito turco era in rotta, alcuni di loro pensarono che i russi stessero arrivando e agirono prima del tempo. Analogamente i rivoluzionari armeni del sud, vicino alla costa mediterranea, erano in contatto con il comando britannico in Egitto e avevano promesso di scatenare un’insurrezione in coincidenza con gli sbarchi britannici previsti nella costa meridionale della Turchia, vicino ad Adana. All’ultimo momento Londra decise di spostare l’invasione molto più a ovest, ma anche in questo caso alcuni rivoluzionari armeni non ricevettero il messaggio e scatenarono comunque la ribellione. Il governo turco andò nel panico. Se i russi fossero penetrati nell’Anatolia orientale, tutti i territori arabi dell’impero sarebbero stati tagliati fuori. Per questo ordinarono la deportazione di tutti gli armeni nell’est della Siria, attraverso le montagne, d’inverno e a piedi, dato che non c’era ancora una ferrovia. E poiché non c’erano soldati regolari disponibili, furono soprattutto le milizie curde a scortare gli armeni verso sud. Molti miliziani curdi approfittarono dell’occasione per violentare, rapinare e uccidere. La mancanza di cibo e il clima fecero il resto, provocando la morte di quasi la metà dei deportati. Per quanto non sia chiaro fino a che punto il governo turco fosse informato di questa tragedia, di certo non fece nulla per fermarla. Altri armeni morirono a causa del clima torrido e delle malattie nei campi in cui furono ammassati in Siria. Fu un genocidio commesso attraverso il panico, l’incompetenza e l’incuria deliberata, ma non può essere paragonato a quanto successe agli ebrei europei”. Questa posizione di Dyer è certamente controcorrente e si presta a feroci critiche sia da una parte che dall’altra. Il Segretario dell’Onu Ban Ki Moon ha definito il massacro degli armeni “crimine atroce”, mentre il Presidente degli Stati Uniti Obama ha parlato prudentemente di “massacro” per non compromettere i delicati rap-

porti con lo stato turco. Ma un conto è la diplomazia e un conto la verità storica. La stampa mondiale non è d’accordo con Dyer e continua a parlare di “genocidio”. In Turchia la situazione è davvero esplosiva. Fuori da ogni ipocrisia linguistica ed accomodamento, quella di Erdogan è una dittatura. I diritti umani sono spesso calpestati come Amnesty International denuncia da anni. Ci sono movimenti di protesta violenti, come quello dei nazionalisti curdi e inoltre una guerra non dichiarata con la Siria. Aggiungiamo l’annosa questione di Cipro che da tempo immemore divide la Turchia dalla Grecia sul possesso di quell’isola. Con tutto questo, e anche con altro, si vorrebbe far entrare Ankara nell’Ue, cioè un paese a libertà controllata, un regime, in un consesso democratico come l’Unione Europea. È un modo per tenerla a bada, qualcuno dice, per controllarla. Mah! Sono tre milioni gli abitanti dell’Armenia ma questo popolo, quasi come quello ebreo, ha subito negli anni una enorme diaspora. Secondo le fonti ufficiali, gli armeni nel mondo sono circa 8,5 milioni, dei quali la maggiore concentrazione si trova in Russia e in Usa, con 1 milione in entrambi i paesi. In Italia, risiedono stabilmente 2000 armeni. Il silenzio a volte può essere davvero assordante. Io spero che, a cento anni dal massacro del popolo armeno, almeno nel nostro paese si possano debitamente ricordare quel sacrificio e commemorare le vittime. Cento anni di oblio sono davvero troppi. La ragione e la pietà umana dovrebbero andare al di là della fede religiosa e portare anche il governo turco a fare un mea culpa, chiudendo i conti con il passato. Del resto, basta ascoltare le musiche tradizionali armene, come a me è capitato qualche giorno fa attraverso la radio che commemorava l’olocausto, per commuoversi al suono del duduk, il tipico strumento musicale armeno, e della voce sgraziata ma toccante dei loro canti di dolore.


spagine

Incontro con Gramsci Iancu. Iancu. Marcinelle. Nero. Piazze. Luce. Accecanteassoluto. Vuoto. Assenza. Carcere. Antonio detto Nino. Gramsci. Le miniere della storia. Di carbone, di prigione. Miniera voci buio, memorie ossidate, ingrate. Ingrato paese distratto falso. La globalizzazione stermina. Stermina memoria e calma, pazienza e ricordo, fatti di odori e nomi, sapori, suoni. Fatti dei padri. Globale europeo occidentale. Veloce veloce rumore valanga di cose e fatti distratti. Distratti. Il cuore stordisce e dice no. Gli occhi pure. È di pace e silenzio che siamo orfani. Di storie. Ladri. Ladri. Qualcuno veglia. Tanti ulivi, tanti Getsemani. Li illumina e li fa parlare. Fabrizio Saccomanno. Creatura che sa, vigile. Attenzione e cura. Mogli figlie sorelle gridano con voce che non sa arrivare al buio del mondo, caverna di noi stessi, miniera, Ade. Ti aspetto fuori, esci. Esci! Ti voglio vivo, esci! Anche scuro scuro di carbone, anche ferito. Pochissimi ce la fanno. Esilii. Emigranti. Migranti. Naufraghi. Mare che non sei più mare. Non è la legge dei grandi numeri. Darwiniana legge dei primi mondi contro i terzi, i quarti. Ultimi. Padron ‘Ntoni lo stato ti ruba i più giovani. Perverso stato delle cose. Lunga trama della storia che cuce i vinti di sempre. Vinti. Cuore del nostro cuore. Il diritto è dovere di prostrarsi. Alla storia, al nord, al potente. Non ci sono paragoni possibili col mondo animale. Cattiveria e sfruttamento non sono contemplati negli altri mammiferi. La loro è legge di necessità. Il nostro un affare squallido. Affare di Stati. Lì si ferma, Fabrizio col suo teatro. Promette ai titani di questo tempo di non dimenticare. E non lo fa. Ricorda. Trasmette. Evoca. Ripete le loro parole. Lettere a Tatiana, a Giulio, a Delio. Lettere a Giulia.Antonio Gramsci detto

di Ilaria Seclì

Nino. Altro nato a sproposito, imperdonabile. Figlio di un paese bello e ingrato. Lo fa con imponente umiltà, come lo facevano le nonne ai bordi della via. Gli occhi non avevano ancora occhi per smartphone. Altre prigioni, altre prigionie. Rose parate e spine. Iancu. Rose parate e spine.Quella piazza del mondo.Memoria e voci. Infanzia. E cattiveria di provincia quasi santa. Forza purissima innocente, determinazione. Quel libero arbitrio che il paese non perdona. Rosa parata ianca. Iancu che acceca e uccide. Corali solitudini.Infelicità spietate. Quanto venne raccolto, è nelle ceste. Fa’ che io ancora mi pieghi dalla vetta, fa’ ch’io veda la prima nevicata. Per sempre vagando con cuore affamato. Per la vita da bere fino alla feccia. Non si dà pace, Fabrizio. Ulisse del terzo millennio. Non se ne danno i suoi occhi cosmici, catino espanso umanissimo, compassionevole, a misura di strazio e bellezza. Forza e miseria umana. Sua grandezza. Non si dà pace. La misura di una voce è stretta. Averne mille per disseppellire canti, incanti, disperazioni, grazia. Storie. Mille corpi, mani. Il coro eterno e lungo, bava dei millenni che registra umori, prodigi, orrori. La fine del tempo umano è la fine dei racconti tra generazioni. Il padre al figlio, il nonno al nipote. Orfani. Di storie. Di umanità. Fabrizio, tu ereditie incarni un dire di aedo e bardo. Testimoni e presti voce sguardo cuore. Perfezione. Dono che non si misura. Racconta ancora, Fabrizio. Racconta sempre. Ripopola di sedie i bordi delle strade. Rifai silenzio. Ti ascoltiamo.


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la città e le “cose”

Lo re, le gioie i resti di Bisanzio Un’immagine posterizzata da I resti di Bisanzio, film di Carlo Michele Schirinzi

T

uo bianco di banda e giglio. Gioia. Mandorlo di Giappone. In the mood for love con i capelli raccolti raccolti e l’onda dei monsoni. La vita ci accompagna allegra mentre la bendiamo con un prosecco. È contenta. Miglior sorte la sua. Pensa, un inglese la darebbe al suo ombrello, e non è cavalleresco, e nemmeno divertente. Tanto poi parliamo sempre di lei, sorella sposa nemica complice. Strega, fata. Quella trappola preferita, monella, ferita. Da lì la conta più riuscita a nascondino.

Sperare ci prenda e sfuggirla anche, per quei brividi strani. Sequestri e abbandoni. Sequestri e abbandoni. Tu irrompi sempre senza anticipo, non come le rondini. Dal 10 al 18 del terzo mese, e non si scappa. No, tu no. Arrivi come il tuono di Vivaldi o con un secco colpo di fiati. Poi dobbiamo tracannare veloce veloce. La casa le cose il lavoro i resti di Bisanzio. E darci e dirci, in un attimo l’oceano nel secchiello. E no che non la facciamo penetrare nella nostra vita… E no che non scriviamo se poi tutto si dilegua… E sì che questa luce e la paura. Ma è questo il gioco, è chiaro. Apparire scomparire. Il tempo di una conta

alla corteccia, di una corsa, mosca cieca, l’intemporale tempo dei millenni, delle cose. Date eterne le mai del tutto nate. O nate in tutto e infinite. I resti di Bisanzio. Taniche e benzina, le camerette intatte, si sfrena fuori l’impagliato dentro. I pranzi muti come i santi nei graffiti. Tutto fatto salvo, così scomposto e oro. Dato al mondo ma per sbaglio. È altro il regno destinato. Ma è questo l’esatto spazio. Vedi in quanti siamo? Proprio tanti anche se dispersi. Un esercito di santi. Noi e le nostre collanine di perle colorate e la neve sui ciliegi. Assalti. Assalti. Tanti.

di Ilaria Seclì


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storie e storia

La rivolta degli schiavi neri di Haiti, una rivoluzione dimenticata

"Eh Eh! Heu! Heu! Canga, bafio tè! Canga, mouné de lé! Canga, do ki la! Canga li!

L

’eco della rivolta degli schiavi neri di Haiti, una rivoluzione dimenticata, che portò nel 1804 alla fondazione della prima repubblica nera del pianeta è stata vastissima. Anche in letteratura e filosofia possiamo trovare importanti riferimenti alla rivoluzione haitiana. Nel 1855 Melville scrive Benito Cereno sullo sfondo la ribellione dei neri del centroamerica; le celebri pagine sulla dialettica servo-padrone della Fenomenologia dello Spirito (1807), secondo Susan Buck-Morss, hanno come palinsesto i fatti di Haiti, Hegel, infatti, ne poteva leggere sulla rivista storico-politica “Minerva”, già nota al filosofo tedesco dagli anni del suo soggiorno a Berna. Ma anche Manzoni, in contatto con la Société des amisdes Noirs, rivela qualche legame con Haiti. In una delle varianti della Pentecoste, edita nel 1822, leggiamo "del bellico/ coltivator d’Haiti/ fido agli eterni riti/canta, disciolti il piè". Nella redazione finale i versi che si richiamavano alla lotta per la libertà degli haitiani s’inabissano per lasciare spazio a una notazione da Lonely Planet come "l’irta Haiti" e così i lettori della versione ultima, scriverà Fortini in un tesissimo saggio del 1973, "non hanno mai saputo che cosa stesse dietro quel nome di libertà". Ogni discorso sulla rivoluzione di Haiti però non può prescindere da un classico come I giacobini neri di Cyril Lionel Robert James, uscito nel 1938, e che Derive Approdi adesso ristampa con l’introduzione di Sandro Chignola.

Haiti è la colonia più ricca e redditizia dell’emisfero occidentale: 500.000 schiavi al servizio di circa 40.000 proprietari di piantagioni lavorano in condizioni disumane per la maggior gloria della Francia. Nel 1789 la rivoluzione dissolve l’ancien régime e nel 1791 anche le Antille francesi entrano in subbuglio, si ribellano e iniziano una guerra di liberazione. Un paio date decisive: l’instabile abolizione della schiavitù nel 1794 da parte della Convezione Nazionale e il 1804, anno dell’indipendenza dalla Francia. Il voodoo s’incrocia con la Marsigliese: "Eh Eh! Heu! Heu! Canga, bafio tè! Canga, mouné de lé! Canga, do ki la! Canga li! Giuriamo di distruggere i bianchi e tutto ciò che posseggono; moriremo piuttosto che infrangere questo voto". Commenta James: "i coloni ben conoscevano questo canto e si sforzarono di reprimerlo insieme al culto Voodoo al quale si ricollegava. Inutilmente. Per duecento anni gli schiavi intonarono quell’inno nelle loro adunanze, così come gli ebrei a Babilonia cantavano di Sion". Cyril Lionel Robert James (scomparso nel 1989), storico di

di Sebastiano Leotta

Trinidad, esperto di cricket, militante terzomondista, romanziere, traccia il grande affresco di una rivoluzione dai tratti prometeici, che affrontò in sequenza Napoleone e il suo tentativo di ripristinare la schiavitù nel 1801, l’Inghilterra e la Spagna, e che si presentò, in seguito, come un modello per tutti i movimenti anticoloniali a venire. "Gli schiavi distrussero metodicamente e instancabilmente. Come i contadini della jacquerie o della sommossa dei Luddisti essi cercavano la propria salvezza nel modo più ovvio, cioè con la distruzione di ciò che sapevano essere la causa delle loro sofferenze e se distrussero tanto fu perché avevano tanto sofferto". La violenza rivoluzionaria che attraverserà l’isola per più di un decennio inquietò i bianchi perché capovolgeva l’immaginario coloniale dello schiavo nero buono remissivo, ubbidiente o, che è l’opposto speculare, del nero subumano, crudele e logicamente incapace; tuttavia essa non rimase al livello di una sanguinosa insorgenza o di una violenta ordalia contro i bianchi (come quella vista nel Django Unchained di Tarantino). La rivoluzione haitiana, infatti, non fu solo l’inaudita attualizzazione di una potenzialità eversiva da parte di una popolazione oppressa ma anche l’edificazione di un nuovo ordine sociale che realizzava, al di là dell’Atlantico, i valori universali della Rivoluzione Francese. Descrivendo la complessa stratificazione sociale di Haiti, divisa tra proprietari e manovalanza bianca, mulatti, neri affrancati e la moltitudine degli schiavi, James mostra come nell’isola, e come in ogni meccanismo rivoluzionario, si generò ben presto una durissima polarizzazione tra padroni e schiavi (una sorta di proletariato coloniale), interpretata dall’autore come un moderno scontro di classe non riconducibile esclusivamente a una dialettica razziale tra bianchi e neri. Il marxista James, che non dimentica il ruolo della personalità nella storia, esalta, non senza rilevarne importanti contraddizioni, la personalità e la politica di Toussaint L’Ouverture, il nero libero che dal caos haitiano "avrebbe gettato le basi di uno stato negro che perdura ancora oggi", ma ad essere enfatizzata è soprattutto la capacità di Toussaint di rappresentare i bisogni e le aspirazioni della grande massa degli schiavi. Maddison Smart Bell nella sua biografia, uscita nel 2007, parla di catalytic role di Touissant in grado di mettere la Francia di fronte ai limiti dell’universalismo della libertà e dei diritti limitati all’Europa: "capo di una massa arretrata e ignorante, egli fu comunque all’avanguardia del grande movimento storico del suo tempo. I neri stavano facendo la loro parte nella


distruzione del feudalesimo europeo iniziata con la Rivoluzione Francese, e libertà e uguaglianza, le parole d’ordine della rivoluzione, significano molto più per loro che per qualsiasi francese" James, ma si ricordi Black Reconstruction di W.E. du Bois del 1935, inaugura conI giacobini neri la messa in crisi della storiografia eurocentrica fondata su una visione geometrica tra periferia e centro e su una visone gerarchica tra cuore della storia universale e marginalità subalterna, e fa di una colonia dell’Atlantico la punta più avanzata delle idee illuministe, più della stessa Francia, tanto che lo stesso storico dirà in seguito che nessuna storia occidentale può escludere dal proprio racconto la storia delle Antille Francesi e del loro formidabile appropriarsi dei principi rivoluzionari. Diversamente da V.S. Naipaul, premio Nobel nel 2001 e mag-

gior scrittore di Trinidad, per il quale nelle Indie occidentali non è mai stato creato niente di interessante, per James, che non cadrà mai in una sorta di etnocentrismo alla rovescia, Haiti ha una storia e la deve a figure come Toussaint, Henry Christophe, Jean-Jacques Dessalines. Dirà James in una conversazione del 1986: "Mi ero stancato di leggere che gli indo-occidentali erano oppressi, che eravamo neri e miserabili, che eravamo stati deportati dall’Africa, che vivevamo lì e che eravamo sfruttati, e dissi – lo dissi quando vivevo ancora nei Caraibi – mi sono stancato di tutto questo. Ci deve essere qualcosa sugli indooccidentali a parte essere sfruttati. E allora mi sono detto, devo scrivere la storia della rivoluzione di Haiti". http://www.unipd.it


Il medium

spagine

e il messaggio

M

arco, io trovo sorpassato il dilemma che tu esponi nel gesto artistico dal titolo “1938 / 2014” (nella mostra Ipotesi, Palazzo Vernazza Catromediano, dal 28 marzo al 15 aprile 2015, a cura di Lorenzo Madaro). L’inattualità, però, nel distacco, dona prospettive che aggiungono contributi inaspettati alle pratiche attuali. Tu ti muovi (anche se un’opera è troppo poco per dirlo) sul crinale tra parola e immagine (mi viene da dirti: sei un ibrido). E costruisci prove che possono anche essere un depistaggio. DEL FIUTO NON POSSO FARE A MENO, IL FIUTO NON BASTA Il tuo gesto, di primo acchito, era stato muto per me. La tua trappola (costruita ad arte) è un cortocircuito. Hai provocato un corto circuito e ora esibisci una specie di enigma della Sfinge. Un libro aperto è appeso come un quadro, una serie di 10 pellicole autosviluppanti polaroid sono disposte sul tavolo di fronte.

QUEL CHE SI VEDE È QUEL CHE È? La tua installazione è fatta di due inversioni (così a me sembra). Il libro aperto, che dovrebbe stare sul tavolo o tra le mani, è appeso alla parete. Le pellicole polaroid vergini (mai impressionate), le immagini potenziali (i quadri che dovrebbero stare sulla parete), sono sul tavolo. Le due inversioni del gesto mostrano una valenza sia in atto che in potenza. A un tempo, l’una parla e l’altra tace. A un tempo, sono due eclissi parziali, in cui la fonte di luce e lo schermo si alternano i ruoli. Poiché le cose non stanno al loro posto, anche le funzioni sono capovolte (il capovolgimento scaturisce dalla semplice delocalizzazione). L’immagine scura è la

di Massimo Grecuccio

didascalia del libro aperto e appeso come un quadro. Le due pagine del libro aperto e appeso alla parete sono un’immagine (i cui segni sono le parole).

IL COLLEZIONISTA DI RELIQUIE Il titolo, “1938/2014”, intanto. La prima data (1938) è quella della pubblicazione del libro che tu esponi, La nausea di Jean Paul Sartre; e anche la data del lancio del miglioramento delle Polaroid (nate circa dieci anni prima) che conquistò il mercato. La seconda data (2014), è quella della composizione del tuo gesto artistico. Perché le hai accentate? Più che marcare, come fanno gli storici, un’epoca, credo che tu abbia voluto indicare un arco di tempo, un’ellissi. In questo intervallo, per esempio, le Polaroid sono nate e morte. E neanche il libro cartaceo, che nel 1938 godeva buona salute, ora sta tanto bene. Tu li richiami (indicando la data di nascita) e li esponi come reliquie. Un’ellissi e due reliquie (di carta). Reliquia ed ellissi, funghi inattesi (del sottobosco della lingua), li raccolgo.

NON FACCIO QUELLO CHE TU VUOI Mi alzo, mi vesto / è solo un pretesto / per far di due pagine / un mio manifesto. (Qui ho variato una poesia di Anna Cascella; la pesco dalla memoria; l’originale riporta righe al posto di pagine.) Le due pagine de La nausea, che tu hai attaccato alla parete, sono un manifesto. Le due pagine, esibite come manifesto, sono isolate. Non c’è il prima, non c’è il dopo. Hai prelevato un frammento (il più denso di significato? per te, forse). Col tuo gesto chiedi allo spettatore di non guardare soltanto, ma anche di leggere (tra il tavolo e la parete c’è spazio sufficiente per collocarsi a debita distanza dal libro e leggere). Posso guardare senza leggere (guardare senza leggere nulla, è possibile?). Oppure, posso guardare e

leggere. Il tuo è un invito, non un obbligo (non puoi obbligarmi). (La tua è un’opera visiva, verbale o verbo-visuale?)

LA LETTERA NON È NASCOSTA Cedo (posso non tenere conto del senso letterale?) e leggo le due pagine (le uniche). Qui (ma, ripeto, non sappiamo né l’antefatto né l’epilogo) è messo in scena, dalla voce narrante, il dilemma: o si vive o si racconta (e la “o” è un aut). Gli attimi fuggitivi dell’esperienza sono nel flusso indifferenziato dei giorni (senza capo né coda), ed è solo il racconto che li strappa da lì. È solo il racconto che dà loro la patina dell’avventura (e li rende così memorabili). Il racconto e l’avventura spezzano le catene della monotonia (questa è l’immagine che espongono le due pagine stampate?). E le polaroid, allora, che non sono state impressionate? La luce non le ha fecondate e non mostrano alcuna immagine (non raccontano alcuna avventura). Sono buie, sono nere. Sono ancora vive? Per le polaroid, vivere equivale a essere impressionate. E quando sono impressionate, fanno nascere un’immagine (una delle forme dell’umano raccontare). Quando l’immagine (una sola) si è cristallizzata, la polaroid non può raccontare un’altra avventura. Si può dire che muore, dando alla luce un racconto senza parole. Il suo è una specie di sacrificio (un parto mortale). Il libro alla parete sembra fornire le parole alle immagini latenti (le possibilità di avventure, in primis artistiche) sul tavolo. Forse non è azzardato sostenere, qui, che le parole (programmatiche?) precedono i racconti visivi. Io, qui, distinguo una specie di connubio tra parole (datate) e immagini (non ancora nate). I medium del connubio sono differenti, ma sembrano potersi aggan-


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lettera aperta a Marco Vitale

Sul crinale tra parola e immagine, “1938/2014” una “Ipotesi” proposte da Lorenzo Madaro nella mostra tenuta a Palazzo Vernazza dal 28 marzo al 15 aprile u.s. per CreArt - Giornata Europea della creatività

ciare. I due sono vivi in territori ben distinti e tuttavia confinanti. E ci sono continue violazioni degli spazi, incursioni che vivificano (alla lettera: che concimano) ognuna delle due terre alternativamente violate.

senso si azzera del tutto. Il gesto che fu, però, con la perdita progressiva del senso, diventa una reliquia. La metamorfosi dell’atto artistico in reliquia documenta la riduzione continua di senso (fino all’azzeramento?).

L’ELLISSI, LA RELIQUIA, L’AMULETO, Marco, il tuo gesto (ora, lo percepisco) è LA SCARAMANZIA anche sia un amuleto (dovrebbe allontaL’ellissi temporale del tuo gesto solleva la nare la paura della pagina bianca) che domanda sul ciclo di vita del senso. una scaramanzia (un atto di scongiuro Quanto dura il senso? Il senso ha la sca- verso l’essere muto). Il tuo lavoro, così, denza? Il senso è legato al medium (il ha una valenza autobiografica. È singomedium è il messaggio). Ma anche: Il lare, e degno di nota, che il tuo rituale medium e il messaggio. Se il medium non scaramantico sia all’inizio della tua carscompare del tutto (se anche permane riera artistica. L’arte, in molti la vogliono, chi può possederla per intero? L’arte solo come traccia mnestica), neanche il

Le polaroid di “1938 / 2014”

chiede continua dedizione (un lavoro di quotidiano artigianato, in cui si può insinuare l’ispirazione). Una dedizione che può essere scelta di vita, da essa non separata. Una dedizione-humus in cui coltivare avventure (racconti) memorabili da condividere. Massimo Grecuccio

Marco Vitale studia pittura all’Accademia di Belle Arti di Lecce (ma non dipinge con pennelli e colori). È vicino alla laurea. Sta ultimando la tesi, dal titolo “L’impulso Autobiografico”, dove tratta l’uso dell’archivio e il legame di questo con l’autobiografia nelle pratiche contemporanee (questo lavoro di tesi è ispirato dal lavoro critico di Hal Foster, in particolare dal lavoro di questi sull’impulso archivistico).


Tu... tu... tubiamo? Il Castello di Corigliano fra tubi e restauri spagine

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l’arte di costruire la città

di Fabio A. Grasso

S

ono recentemente apparse sul web una serie di molto criticate immagini relative al cortile del castello di Corigliano d'Otranto (Lecce). Nel resoconto filmato fatto da un privato cittadino quello che colpisce è il vedere le mura storiche del castello bucate in modo “singolare” da tubature, probabilmente quelle dell'antincendio. La singolarità sta nel fatto che questi buchi e tubi sembrerebbero essere collocati prescindendo dal valore storico dell'edifico. La vicenda pone a tutti una serie di domande che si sono raccolte e rigirate al responsabile della locale Soprintendenza ai Beni Architettonici e Paesaggistici, architetto Francesco Canestrini. Il restauro di un edificio storico (tanto più quando si tratta di un'opera pubblica) - se vogliamo attestarci a quello che è un principio ormai acquisito in modo diffuso riassumibile tanto nel motto “La cultura che vince” quanto nelle linee guida fornite e sollecitate, seppur nel suo pur breve mandato, dal Ministro Massimo Bray - è questione di natura culturale che riguarda lo status di “cittadini” e ad essa nessuno dovrebbe sottrarsi. Discutere pubblicamente aiuta tutti, cittadini e tecnici, a capire di più, a controllare meglio nonché ad elaborare linee guida di intervento comuni e condivise che evitino il ripetersi di casi simili a quello di Corigliano. Aprire i cantieri di restauro è un bene; agevolare gli studi storici, soprattutto quando la Soprintendenza non può farli è un bene; impedire, ostacolare le ricerche sugli edifici storici, sempre da parte di qualche architetto della Soprintendenza (ed è accaduto proprio a Lecce almeno un caso paradossale e clamoroso che riguarda proprio il palazzo storico che ospita la Soprintendenza oggi in corso di restauro) è cosa contro-natura che si traduce sempre in un pessimo intervento di restauro. 1) E' prassi della Soprintendenza nominare un suo responsabile interno destinato a seguire ogni progetto di restauro. Sarebbe estremamente importante per tutti sapere in modo diretto perché questo architetto della Soprintendenza potrebbe

avere autorizzato la realizzazione di impianti che, sintetizzando il pensiero di molti, sembrerebbero “devastanti”. Si potrebbe sapere il nome dell'architetto che ha seguito per conto della stessa Soprintendenza da Lei diretta questi lavori di restauro? 2) Per realizzare un impianto, tanto più se in edificio storico, è necessario preparare disegni di progetto i quali devono essere depositati presso la Soprintendenza competente in questo caso quella di Lecce. Se tali disegni sono stati effettivamente consegnati ed approvati dall'architetto incaricato di controllare il progetto di restauro si pone evidentemente un problema generale serio e non indifferente visto che il risultato finale appare molto discutibile. Può dirci se questi disegni sono in Soprintendenza? 3) Se tali elaborati grafici non sono stati presentati in Soprintendenza e quest'ultima è all'oscuro delle modalità con cui è stato realizzato l'impianto nasce un altro problema ovvero quello della vigilanza cui è tenuta la stessa Soprintendenza sugli interventi di restauro. Sono stati eseguiti controlli? E se sì perché non si è ancora rimediato a quella che sembra una scarsa attenzione storica degli “impiantisti” nell'eseguire i lavori? 4) Nell'ipotesi peggiore, ovvero quella che l'architetto della Soprintendenza abbia approvato “questi impianti” oppure non abbia vigilato mentre gli stessi venivano eseguiti in modo cosi come oggi si vedono, che certezza abbiamo che si non ripeta lo stesso errore? Quali lavori di restauro questo architetto della Soprintendenza sta seguendo adesso?

La risposta del Soprintendente ai Beni Architettonici e Paesaggistici, architetto Francesco Canestrini: “Stiamo facendo i necessari accertamenti su quanto autorizzato. In seguito ad apposito urgente sopralluogo si chiariranno le questioni e si prenderanno le decisioni in merito”.


1° maggio a Kurumuny spagine

della domenica n°72 - 26 aprile 2015 - anno 3 n.0

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Foto di Vincenzo Finamora Foto vincitrice della III edizione del concorso fotografico “Uno scatto per il primo maggio”

enerdì 1 maggio, a Martano, località Kurumuny (ingresso con tessera sociale 5 euro) si terrà la "Festa del Primo Maggio a Kurumuny" appuntamento tradizionale organizzato dall'omonima casa editrice in collaborazione con l’Associazione Ambrò e con il patrocino del Comune di Martano. La quattordicesima edizione è dedicata alla memoria dell’amico, collaboratore e operatore culturale Sergio Torsello, recentemente scomparso. Giornalista, saggista, appassionato studioso di storia locale, della cultura orale e delle tradizioni popolari con i suoi miti e riti sociali, religiosi e musicali, attento e scrupoloso aveva sempre il polso della situazione culturale sociale e politica del Salento, con lo sguardo sempre rivolto al panorama nazionale e internazionale. Al Primo Maggio a Kurumuny si celebra il lavoro, che dovrebbe essere la festa di tutti perché “un uomo che vuol lavorare e non trova lavoro è forse lo spettacolo più triste che l’ineguaglianza della fortuna possa offrire sulla terra” (T. Carlyle). Una lunga giornata che comincerà con le prime luci del mattino e proseguirà fino al tramonto, tra musica, arte, solidarietà, libri, vino, pane e carne arrosto. Sin dalla prima edizione, l’intento è stato quello di legare la memoria a un avvenimento che presenta tutti i requisiti di una grande festa popolare per celebrare la fatica quotidiana dei lavoratori. Festa del lavoro e dei lavoratori che naturalmente si apre sino a comprendere il tema della multiculturalità, dei diritti dell'altro e la necessità della salvaguardia delle radici. Da qui sono passate migliaia di persone e centinaia di musicisti, scrittori, danzatori e danzatrici, cantanti, intellettuali, politici e il premio Nobel per la Pace Rigoberta Menchú. Il pranzo è autogestito dai singoli partecipanti mentre l’organizzazione offre vino (finché ce n'è) e pane e mette a disposizione di tutti bracieri per gli arrosti. Tra i partecipanti quest'anno il Circolo Mandolinistico di San Vito dei Normanni che si propone di tutelare l’antica tradizione musicale della terra di San Vito dei Nomanni (BR) attraverso la reinterpretazione di brani popolari, con particolare attenzione all’impiego del mandolino e della chitarra; Melegari & i suoi compari un viaggio nella musica di tradizione orale del Salento, un omaggio alla memoria degli Ucci, personalità emblematiche del mondo popolare, testimoni e “alberi di canto” della cultura contadina. Si esibiranno con pizziche pizziche, “canzoni di festa”, stornelli, ballate, tarantelle, uno spettacolo frutto del rapporto personale con i cantori e musicisti di Cutrofiano, oltreché di un attento ascolto delle ricerche sul campo realizzate da Luigi Chiriatti; Antonio Marotta

in agenda

napoletano, musicista, cantante e suonatore di tammorra, ideatore di spettacoli di teatromusica ispirati alle tradizioni popolari campane, eseguirà un repertorio di canti di lotta e di lavoro della sua terra; La Rocha band nata nella primavera del 2011 con l’idea di mettere insieme diverse esperienze musicali, dal rock al punk, dal reggae alla patchanka, alla musica popolare, cercando di avere rispetto nella mescolanza dei diversi generi; dj set di Ricky Rock conduttore della trasmissione Borderò su ZeroWebRadio che proporrà pezzi pop e rock degli anni 70/80/90. Anche per questa edizione Kurumuny propone l’iniziativa “Il peso della cultura: libri al chilo”. In occasione della festa del Primo Maggio sarà possibile acquistare una sporta di libri al chilo. Il peso dei libri è il simbolo della certezza fisica e materiale del peso della conoscenza e dell’informazione, perché chi legge ha una marcia in più, perché leggere rende liberi, perché i libri diventino compagni irrinunciabili. Nel corso della giornata si terrà una piazza tematica aperta sul tema del disseccamento rapido degli ulivi. Ci sarà inoltre un punto informativo con distribuzione di materiale sull’argomento. Sono previsti i contributi delle associazioni maggiormente impegnate sul tema: Forum ambiente e salute, Forum terzo settore, Agricoltura è salute, Coordinamento salentino salviAmo gli ulivi, Consulta ambiente csv Salento, Lilt, Arci territoriale Lecce, Coordinamento per il territorio di San Pietro Vernotico, SOS Costa Salento, Mujmunè, Nuova Messapia, reAzione Castrì, Comitato ambiente sano Veglie, Casa dei popoli Copertino. La foto del manifesto è di Vincenzo Finamora, vincitore della terza edizione del concorso "Uno scatto per il Primo Maggio". La giuria composta da Andrea Morgante, Lorenzo Madaro e Luigi Chiriatti, ha premiato il fotografo con la seguente motivazione "Lo scatto di Vincenzo Finamora rivela una stretta connessione con i linguaggi della comunicazione visiva della contemporaneità, in particolare la street art rinunciando, con coraggio, alla retorica della fotografia che racconta il lavoro attraverso la fatica umana. Colpisce inoltre l’ironia con cui l’autore ha scelto di rappresentare il mondo del lavoro e i suoi paradossi e il tempismo felice dello scatto." Le immagini più significative dei partecipanti al concorso sono raccolte nel booklet sfogliabile qui. Kurumuny si trova nelle campagne di Martano (seguire le indicazioni presso tutti gli ingressi del paese), nei pressi dell'uscita per Castrignano de' Greci sulla SS16 Lecce-Maglie. Per maggiori informazioni Uff. +39 0832 801528 - Mob. +39 329 9886391 www.kurumuny.it • info@kurumuny.it FB: Kurumuny


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Venerdì 3 maggio, alle 19.30, sarà presentato a Marittima, nella sede dell’Associazione Culturale “Arch. Saverio Nuzzo, al n° 34 di Piazza Principe Umberto, il libro "Compare, mi vendi una scarpa? - Luoghi, vicende e volti di un cantastorie salentino” di Rocco Boccadamo edito da Capone. Interverranno la scrittrice Giuliana Coppola, lo storico Salvatore Coppola e la poetessa Eliana Forcignanò. Nel corso dell’incontro tre giovani marittimesi Giulia, Chiara e Lorenzo daranno voce ad alcuni brani del libro.

È

La narrazione di Rocco Boccadamo

dal resistere all’esistere

esistenza e resistenza la narrazione. Si tratta dell’atto più felice che l’individuo possa compiere nei confronti di se stesso e della propria comunità di appartenenza, un atto dovuto anche quando ciò che s’intende narrare non sembra avere contorni allegri, tuttavia, se attribuiamo credito alla nozione cassireriana di uomo quale “animale simbolico”, il raccontare e il raccontarsi, collocando il proprio Io in un contesto spazio-temporale ben definito, costituiscono linfa vitale che ci consente non soltanto di riesaminare il nostro passato, bensì anche di comprendere le radici del presente e di progettare i sogni del futuro, ma – come scriveva Agostino – il passato non è più e il futuro deve ancora venire, dunque solo il presente esiste: esso ha un’entità, com’è inscritto nel participio praesens il cui suffisso prae- è seguito proprio dal sostantivo ens la cui traduzione è univoca: “ciò che è”. Ora, se il presente è ciò che immediatamente è, anche il passato può tornare all’essere e l’unica strategia per ottenere questo passaggio è la narrazione, vero luogo di presentificazione del passato, benché – secondo quanto insegnato dalla scuola psicoanalitica freudiana – il passato non sia mai davvero morto: esso dimora sovente nell’abisso dell’inconscio che, liberandosi a volte dalle strette maglie della censura, riesce a provocarne l’emersione. Jung è, invece, del parere che non la censura di per sé, bensì la nostra attenzione, rigorosamente selettiva, lasci in ombra determinati contenuti associati a complessi profondi o a costellazioni archetipiche irrisolte. Uno psicoanalista alle prime armi interpreterebbe, forse, i racconti di Rocco Boccadamo come un tentativo di riscatto dalla modesta vita di provincia che l’Autore ha condotto fino al termine dell’adolescenza, ma sbaglierebbe il nostro psicoanalista a pensarla in questo modo, poiché ciò che a tutta prima appare un morso al freno del passato è esattamente il contrario. Boccadamo ricorda la sua infanzia e adolescenza trascorse nel piccolo, modesto borgo di Marittima non per compiacersi dei successi professionali e sociali ottenuti in seguito, bensì tentando di proporre al lettore un quadro veridico della vita dei piccoli ceti e contadini e manifatturieri che, pur vivendo con poco, riuscivano a esprimere costantemente la loro creatività e la gioia di esserci (l’heideggeriano Dasein) di stare al mondo. C’era davvero poco allora per molti, ma prevaleva il senso di comunità che rendeva il borgo una grande famiglia come l’Autore scrive chiaramente nel racconto dedicato a Valeria e Angelo, una modesta coppia di lavoratori che, al pari dei vicini, lasciavano la porta di casa aperta quasi a voler accogliere l’altro nella piena osservanza del rituale di ospitalità vissuto nell’antica Grecia e infranto da Paride che rapì la stupenda Elena per portarla a Troia. I riferimenti mitologici, per il racconto di Angelo e Valeria, sono d’obbligo: questa donna che non ha potuto concepire un figlio e ora cuce la dota per la prole delle altre compaesane ha in sé, pur nell’estrema semplicità con la

di Eliana Forcignanò

quale è tratteggiato il personaggio, qualcosa di ancestrale che richiama due figure mitologiche: Penelope, moglie del viaggiatore Ulisse, e Lucrezia, moglie di Collatino. Penelope rappresenta la figura dell’attesa e del rimpianto che non può trovare argine quando si vede improvvisamente costretta a sposare uno dei Proci; Lucrezia rappresenta, invece, la figura della dignità: questa donna, violentata brutalmente dal figlio di Tarquinio il Superbo, è costretta a darsi la morte, non prima di aver denunciato al marito la vergogna che ha dovuto patire. Attesa e dignità, dunque, sono i tratti peculiari del carattere di Valeria, benché occorra precisare che anche gli uomini, nei racconti di Boccadamo, siano parimenti capaci di attendere per anni un figlio disperso in guerra o di mantenere la dignità nonostante manchino i soldi per ricomprare un paio di scarpe. L’estrema curiosità del titolo di questo libro – Compare, mi vendi una scarpa? – meritoriamente edito da Capone, non è semplicemente un paradosso, un motto di spirito, ma la simbolizzazione della necessità. La trama del racconto che dà il titolo al volume è semplice, ben costruita, perché Boccadamo ha uno stile che è, nel medesimo tempo, fluido e ricercato quanto basta per non cadere in un linguaggio arcaico che toglierebbe vitalità alle narrazioni. Un contadino accompagna in treno fino a Napoli il figlio che deve arruolarsi. A bordo del treno che lo ricondurrà a Lecce, il padre del ragazzo tenta, esausto, di prender sonno e si slaccia le pesanti scarpe di cuoio che gli servono per il lavoro ed, eventualmente, per le rare volte in cui si concede una passeggiata. È il suo unico paio di scarpe e può considerarsi fortunato, perché la maggior parte dei contadini cammina a piedi scalzi. Al risveglio, ancora a bordo del treno, il contadino si accorge di avere una scarpa sola. L’altra gli è stata sottratta e non c’è modo di riaverla. Si reca, allora, al mercato sperando di trovare chi sia disposto a vendergli una scarpa sola. Nessuno intende spaiare le scarpe in vendita e il protagonista rimane per lungo tempo “monco” di una scarpa. Un racconto, uno squarcio di vita – giacché è questo l’atteggiamento letterario di Boccadamo: non una scrittura di lungo respiro, ma squarci brevi e incisivi, non la novella ma il quadro che l’Autore ritocca con abili pennellate stilistiche – uno squarcio di vita, si diceva, che suscita ilarità e tristezza insieme. Perdere una scarpa può apparire agli occhi di un lettore contemporaneo una situazione limite fra divertissement letterario e antico dramma satiresco. Boccadamo, però, racconta la verità: una verità dolce e amara al tempo stesso. Se è dolce questo padre che accompagna il figlio fino a Napoli per salutarlo prima che sia arruolato, è struggente la descrizione di quest’uomo che chiede di poter comprare una scarpa sola, perché, probabilmente, non ha i soldi per comprarne un paio. Eppure, vi è lievità nel racconto, spira una calma olimpica che scaccia ogni patetismo. Rocco Boccadamo sembra dirci: “Un tempo era così, ma non angustiatevi troppo, perché alla povertà materiale


in agenda

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della domenica n°72 - 26 aprile 2015 - anno 3 n.0

La campagna contadina in una foto di Antonio Chiarello e la copertina del libro

odierna che insiste in forme più larvali e subdole, era preferibile quella del Secondo dopoguerra in cui la speranza di un cambiamento era all’ordine del giorno”. Oggi non speriamo più: il panorama di macerie è costantemente sotto i nostri occhi. Da lì dobbiamo trarre la forza per ricostruire, ma quando? Chiudo il mio intervento con una nota di colore suggeritami dal racconto Un matinée al Santa Lucia: dietro i due adolescenti protagonisti che marinano la scuola per rifugiarsi in questo cinema, da qualche anno, purtroppo dismesso, c’è tutto il profumo dell’amore in tenera età: le attenzioni, la voglia di un’innocente trasgressione, la leggerezza che solo quell’età vissuta in quella particolare temperie storica potevano garantire. E poi, Lecce – secondo il racconto di Boccadamo – era

una città diversa: il Santa Lucia è chiuso da non molti anni, ma confesso che, pur avendolo vissuto poco per ragioni anagrafiche, ogni volta che mi accade d’incrociarlo sulla mia strada, percepisco una stretta al cuore. Quante estati sono trascorse e quanto rimpiango le proiezioni all’aperto, i cineforum, le rassegne! Chiudono i cinema, le biblioteche, i teatri. Chiudono. Ecco perché raccontare è resistere alla piattezza di una vita che ci vorrebbe consumatori felici e ordinati o macchine da guerra dietro a un computer. Di fronte a quest’alienazione, dobbiamo trovare non una forma di sopravvivenza, ma di esistenza: io credo, con l’amico Rocco Boccadamo, di averla individuata nel racconto. E voi?

in agenda - ammirato culture house


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della domenica n°72 - 26 aprile 2015 - anno 3 n.0

in agenda - A 100 gallery

Le mani alla carta

Un’opera di Nicola Carrino

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Una mostra alla A100 Gallery dedicato a opere realizzate su carta o con l’ausilio della carta a cura di Lorenzo Madaro

l progetto It’s all about paper a cura di Lorenzo Madaro propone negli spazi della A100 Gallery, piazza Alighieri 100, a Galatina - 2 maggio al 30 settembre 2015 - un focus dedicato a opere realizzate su carta, o con l’ausilio della carta, da una serie di artisti italiani e stranieri di respiro internazionale. In mostra ppere di Carla Accardi, Kengiro Azuma, Giuseppe Capitano, Eva Caridi, Nicola Carrino, Giacinto Cerone, Daniele D’Acquisto, Fernando De Filippi, Michele Guido, Alina Kalczyńska, Bogumil Ksiazek, Giancarlo Moscara, Hidetoshi Nagasawa, Giuseppe Negro, Christos Pallantzas, Guido Strazza e Costas Varotsos.

Supporto apparentemente secondario, proprio per via delle sue caratteristiche intrinseche, è da sempre il materiale con cui gli artisti hanno saputo esprimere idee e progetti, studi e riflessioni, instaurando un contatto diretto tra concetto riflessivo e opera compiuta. Le opere degli artisti in mostra appartengono a generi decisamente differenti tra loro: si va dal concettuale al minimalismo, dal rigore assoluto del disegno al calore mediterraneo della pittura; dalla tenue leggerezza dell’acquerello alla forza espressiva di materiali eterocliti come rame e ferro, carbone e legno. All’interno di sezioni specifiche il pubblico potrà orientarsi su fronti diversi, che includono anche l’installazione site-specific e il libro d’artista, la scultura e il video: lin-

guaggi eterogenei che consentiranno al visitatore di scoprire un mondo sfaccettato, ampio e denso di piacevoli sorprese. Opere ormai storiche – concepite negli anni Sessanta – saranno affiancate a progetti inediti, concepiti appositamente per questo progetto ideato e coordinato da A100 Gallery che ha deciso di puntare su maestri consolidati e giovani proposte. A100 Gallery pubblicherà prossimamente un libro di Lorenzo Madaro, con testi di Nunzia Perrone e Andrea Zizzari, dedicato agli artisti protagonisti della mostra. (La mostra sarà visitabile tutti i giorni dal martedì al venerdì dalle 18 alle 21 e su appuntamento).


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DamageGood con blisterZine Un laboratorio sul libro d’artista al Fondo Verri

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Spagine Fondo Verri Edizioni

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della domenica n°72 - 26 aprile 2015 - anno 3 n.0

in agenda

i chiama Soaproof la sezione di Washing by Watching dedicata ai progetti editoriali indipendenti. La rassegna incentrata sul video e la fotografia contemporanea, a cura dell’associazione DamageGood, ampia i confini tematici con un laboratorio sul libro fotografico e d’artista tenuto dai NastyNasty, videoartisti ed editori indipendenti sotto il nome di blisterZine. Il laboratorio si apre alle 15.30 di venerdì 8 maggio, presso il Fondo Verri di Lecce. Con NastyNasty, Emiliano Biondelli e Valentina Venturi, sperimentano e ricercano attraverso vari media e linguaggi, dal video all’editoria indipendente con il nome di blisterZine, più che una casa editrice, un progetto editoriale, davvero unico nel panorama del self publishing italiano. Dalla promozione della fotografia all’arte contemporanea, blisterZine lavora sulla promozione e produzione editoriale creando una vera e propria collezione di “oggetti d’arte” formato libro, molti dei quali realizzati a mano, numerati e prodotti in tiratura limitata. La loro pratica legata all’autoproduzione sarà approfondita nel corso della sessione Soaproof, novità di quest’anno legata a Washing by Watching. con il laboratorio incentrato sul libro fotografico e d’artista che i due autori terranno al Fondo Verri di Lecce. Durante il workshop teoricopratico, Biondelli e Venturi parleranno del libro fotografico e del libro d’artista, mettendo in luce storia, differenze e punti in comune. La loro disamina prenderà in esame artisti e realtà editoriali eccellenti e di ricerca come Karma e Mack Books, senza sorvolare il settore main stream. Il laboratorio sarà anche occasione per entrare nel vivo del progetto libro, discutendo di finalità, scelta della struttura e ottimizzazione del messaggio. In questa fase, i partecipanti sono infatti invitati a presentare i propri dummies (maquette), o progetti editoriali in forma di prototipo, per discutere insieme al duo di formati e taglio editoriale. Gli iscritti possono presentare il materiale sia in formato digitale che analogico. Il laboratorio, che avrà inizio alle 15.30 e durerà sino alle 20, sarà ospitato all’interno del Fondo Verri, associazione culturale da oltre trent’anni attiva nell’ambito dell’autoproduzione e della diffusione del libro d’artista, con attività come il “Gran bazar dell’editoria”, Presidio del Libro, fondo letterario e “resistente” realtà culturale, in Santa Maria del Paradiso a Lecce. Per partecipare al workshop l’iscrizione è obbligatoria. Posti limitati. Per informazioni e prenotazioni: infodamagegood@gmail.com; oppure contattare il numero +39 3204567267.

Il laboratorio anticipa di qualche giorno l’incontro nella lavanderia Jefferson di Lecce, dove l’appuntamento con i NastyNasty è previsto per domenica 10, sempre alle 19. In questa location d’eccezione, lo screening riguarderà sia la loro produzione fotografica sia video, per approfondire anche metodi e pratiche messe in campo dal duo sul versante della produzione artistica.

Spagine è un periodico di informazione culturale dell’Associazione Fondo Verri esce la domenica a cura di Mauro Marino è realizzato nella sede di Via Santa Maria del Paradiso, 8.a , Lecce come supplemento a L’Osservatore in Cammino iscritto al registro della Stampa del Tribunale di Lecce n.4 del 28 gennaio 2014 Spagine è stampato in fotocopia digitale a cura di Luca Laudisa Studio Fotografico San Cesario di Lecce Programma delle Attività Culturali della Regione Puglia 2015 Artigiana - La casa degli autori


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Alla Nero Gallery di Roma la personale di Massimo Pasca

della domenica n°71 - 19 aprile 2015 - anno 3 n.0

arte

Quando il segno suona

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a Nero Gallery di Roma ospita, dal 2 al 23 maggio 2015, Over The Pop prima personale capitolina di Massimo Pasca. Over the Pop, curata da Giuseppe Amedeo Arnesano, è un’idea che racconta l’interessante ricerca condotta dal pittore pugliese per oltre venti anni di attività artistica. La pittura di Massimo Pasca, che vive anche nel rinnovamento colto del segno di Keith Haring, si esprime attraverso una singolare rappresentazione iconica fortemente Pop e impegnata. Over the Pop raccoglie una ragionata ed aggiornata selezione delle opere pittoriche e illustrative riunite nello spazio della giovane e intraprendente galleria di Pigneto. Nel 2012 per le edizioni EST viene pubblicato il libro “Keith Haring a Pisa”, Cronaca di un murales (introduzione di Omar Calabrese e intervista di Carlo Venturini) nel quale, dopo una lunga intervista dedicata a Massimo Pasca, il pittore salentino è considerato uno dei prosecutori stilistici del segno dell’artista americano. Le sperimentazioni di Pasca, vissute in maniera totale dalla musica alla pittura, con l’esperienza decennale dei Working Vibes, le numerose collaborazioni con i Negrità, (per i quali illustra l’album Helldorado) e fino alle centinaia di live painting in tutta Italia, (dal Macro di Roma al Festival della Creatività di Firenze, passando per i maggiori club italiani), lo caratterizzano come uno dei protagonista più attivi della scena live nazionale. Proprio in occasione Over the Pop Massimo Pasca, come un maestro di cerimonie, si esibirà in uno “Spoken word”, una performance ritmica che coniuga il dub, la parola e la poesia.

Massimo Pasca (Nardò - Lecce,1974) è pittore, illustratore, live painter tra i più attivi in Italia. Negli anni si è dotato di uno stile in bilico tra pop art e fumetto, dal forte sapore surrealista che lo ha portato ad esporre in Italia e all’estero realizzando numerose performance di pittura dal vivo durante i concerti di gruppi come, Negrita, Marta sui Tubi, Le luci della centrale elettrica, Joy Cut, Esquelito, Andrea Mi, Finaz (Bandabardò). Tra i luoghi nei quali ha performato ci sono Il Macro di Roma, Mandela forum di Firenze ,Piper Club, Il Circolo degli artisti, il MAT, Link di Bologna, il Museo dell’Alto Tavoliere di San Severo. Ha collaborato con i Negrita, realizzando le illustrazioni del cd ”Helldorado” ed illustra per riviste come Il Mucchio, Collettivo Mensa, Todo Magazine, Lungarno, e l’etichetta discografica Alfa Romero e la marca d’abbigliamento Merry Autumn. Nel maggio 2011 la marca di borse di dischi Proel gli commissiona la decorazione di dieci borse per i migliori Dj’s europei di musica da club. Tra le ultime esposizioni di rilievo nel 2011 espone a Otranto nella mostra di Salvator Dali’dove in una area del Castello Aragonese espone più di venti lavori di grandi dimensioni. Nel mese di Ottobre 2012 esce il libro “ Keith Haring a Pisa” Cronaca di un murales, per le edizioni ETS, nel libro ci sono quattro pagine di intervista a Massimo Pasca considerato uno degli eredi del segno del pittore americano. Per maggiori info: www.massimopasca.it


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