Spagine della domenica 62 0

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Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri

Un omaggio alla scrittura infinita di F.S. Dòdaro e A. L. Verri

spagine

della domenica n°62 - 1 febbraio 2015 - anno 3 n.0

PPP in una foto di Sandro Becchetti


Sergio Mattarella è il nuovo Presidente della Repubblica, però…

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no che in democrazia dice non vi offro una rosa di nomi, dalla quale scegliere il presidente della repubblica, ma un nome secco, e aggiunge che non avrebbe accettato veti da nessuno, o è un fesso o agisce in un mondo di fessi. Come si fa a saperlo? Semplice: se quell’uno alla fine non la spunta vuol dire che si tratta proprio di un fesso; se, invece, l’ha proprio vinta, vuol dire che è il mondo che lo circonda ad essere abitato da fessi. Ma in questo secondo caso non si può più parlare di democrazia. Quell’uno, che è Matteo Renzi, ha ordinato di votare Sergio Mattarella; e quel mondo che lo circonda ha eseguito. Dunque, si capisce a chi spetta la qualifica di fesso. Ora nel mondo che circonda quell’uno, per la carica politica che ricopre di alto profilo rappresentativo, non può non riconoscersi ogni cittadino di questa disgraziata repubblica, che aborre la qualifica di fesso tanto quanto quella di dritto. Personalmente mi sarebbe piaciuto che l’esito della partita dell’elezione del suo presidente mi avesse risparmiato l’una e l’altra qualifica per sentirmi cittadino di una repubblica dove non ci sono né dritti né fessi. Così, purtroppo, non è stato. Pazienza. Ci sono stati altri nella storia di questo paese prima di Renzi e altri ce ne saranno dopo a fare fessi gli italiani con modalità diverse. Intendiamoci, il neoeletto presidente Sergio Mattarella è fuori discussione. Questi, come già accaduto per tanti altri suoi predecessori, potrà far conoscere negli anni a venire una dimensione di sé diversa da quella finora nota. Nei presidenti della repubblica italiana spesso alla dimensione jekylliana è seguita, in senso anche buono, quella hydiana. Segni, Cossiga, Scalfaro, Napolitano hanno saputo ge-

stire, ora in bene ed ora in male, le due dimensioni. Ognuno potrà dire quale e quando in bene e quale e quando in male. In politica tuttavia non si fa arte divinatoria e perciò Mattarella lo consideriamo per quello che conosciamo: un uomo della sinistra democristiana, scaduto come politico da un pezzo e congelato in uno di quei freezer- dispensa di lusso della repubblica in attesa di essere rietichettato, un grigio uomo d’apparato, mediaticamente insignificante, nominato da quell’uno di cui si parlava in apertura non per la sua qualità ma per la sua inoffensività. Ad oggi, presunta, domani chissà. Berlusconi, uno che gli italiani li ha fatti fessi, sia pure saltuariamente, per una ventina di anni, si è doluto per essere stato fatto fesso da Renzi. Ma come si fa – dico io – ad essere improvvisamente così fessi da pretendere che un lupo si comporti come una volpe o viceversa? Ci voleva tanta intelligenza per capire che nel momento in cui non ci fosse stato più bisogno di certi numeri per far trionfare il “nome secco”, Renzi avrebbe fatto da solo mandando a puttane patti veri o presunti? Machiavelli ipotizzava l’ideale del principe in una bestia che fosse volpe e leone insieme, a seconda dell’occorrenza; non si può, sapendo di stare tra volpi e leoni, non prendere le dovute precauzioni. In politica è bravo chi vince, anche se lo fa mancando di parola. Lo sleale, chi inganna e vince viene osannato come grande, abile e capace, mentre l’ingannato fa la figura penosa e umiliante del fesso. Ora Berlusconi prende scoppole e umiliazioni a non finire. Condannato, decaduto, ridotto a mendicare una licenza di pochi giorni per espletare al meglio il suo esercizio politico, peraltro negatagli, speranzoso che prima o poi qualcuno gli conceda la grazia, che lo recuperi alla normale vita politica, continua a credersi un combattente, mentre è solo un pove-

di Gigi Montonato

raccio, soldi a parte. Dà l’idea, in un contesto diverso, di un Gheddafi insultato e colpito a calci e pugni, a sputi e a schiaffi, prima di essere finito da quelli che per diversi decenni aveva fatto fessi, come la televisione ci fece impietosamente vedere qualche anno fa in Libia. Berlusconi è sotto linciaggio. E con lui tutto il suo seguito di persone che hanno abdicato alla propria coscienza e alla propria intelligenza per un malinteso senso di coerenza e di lealtà. E con loro tutto quell’elettorato, che per interessi, per cultura, per sensibilità non si riconosce nell’universo della sinistra, né moderata né radicale, né cattolica né atea e continua a stare con lui. La questione, ché tale ormai è diventata, è come ora uscire dalla condizione di fessi. Chi è a destra o chi di destra si ritiene non può più votare per quella formazione politica guidata da Berlusconi; non può riconoscersi più negli uomini che continuano a tenergli stupidamente bordone, non può continuare a querelarsi ogni giorno per i torti e gli affronti subiti in una mistica del piagnisteo. A nessuno può imporsi una condizione di fesso sine die. Ricordiamo che la parola jacquerie, che vuol dire sollevazione contadina contro i signori feudali, come accadde nella Francia del Trecento, prende la parola dal contadino simbolo Jacques bonhomme, il contadino buono, aduso a subire senza mai ribellarsi, il fesso, insomma, che sa di essere fesso ma non sa ribellarsi e quando alla fine lo fa succede il finimondo, appunto la jacquerie. Oggi, in Italia, non si può invocare una jacquerie a destra se non come metafora per indicare una reazione forte e chiara, non più tollerante dei suoi inetti rappresentanti. I quali continuano a prendere sganassoni e a far prendere sganassoni ai loro rappresentati solo per difendere un signore, si fa per dire, che ormai, dopo aver fatto fessi gli altri, è in una condizione di fesso ad interim.


diario politico

della domenica n째62 - 1 febbraio 2015 - anno 3 n.0

Letizia Battaglia - Omicidio di Piersanti Mattarella, presidente della Regione Sicilia. Palermo, 6 gennaio 1990.


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a ricerca sulle cellule staminali, nel mondo, procede alacremente. La medicina rigenerativa, verosimilmente, nel XXI secolo vivrà una piena rivoluzione liberale. Nonostante le promesse delle biotecnologie, c’è chi pervicacemente continua a scatenare una falsa contrapposizione: da una parte i sostenitori unicamente della ricerca sulle staminali adulte, ritenute “etiche” o capaci addirittura di fare “miracoli”; dall’altra parte i fautori della sperimentazione sulle staminali embrionali, considerate da certuni “immorali”. Si tratta, ovviamente, d’una questione dogmatica, perché è evidente che scientificamente tutte le strade vanno battute. La Chiesa cattolica ha una visione sullo Statuto ontologico dell’embrione troppo rigida. Molti osservatori laici affermano che la cosiddetta “sacralità dell’embrione umano” basi la sua impalcatura filosofica su tesi molto fragili. Lo stesso Jacques Maritain, grandissimo pensatore cattolico, era categorico nel prospettare che la supposta dignità antropologica dell’embrione umano fosse nient’altro che un falso filosofico. A varie latitudini, si sperimenta sugli embrioni. In Italia, vige per la famigerata legge 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita, voluta fortemente dagli allora “devoti” berlusconiani e dall’agguerrito e trasversale “partito della vita”, un divieto tassativo a manipolare embrioni autoctoni. Eppure, la speranza è una mansione prettamente umana, non è un artificio. L’America, da un po’di anni, grazie alla linea innovativa di Obama, ha dato il via libera alla sperimentazione, nell’uomo, con cellule staminali embrionali. Fra i bioeticisti cattolici c’è la tendenza a vedere come “ostinata” e “ideologica” la “pretesa” a manipolare e a distruggere embrioni, “sventolando strenuamente la bandiera della libertà di ricerca scientifica”. La manipolazione degli embrioni, però, non ha nulla di ideologico, ma con carenze di risorse, con forzature religiose, avviene in alcuni parti del mondo semplicemente per motivi scientifici. Dagli embrioni, con opportune tecniche, si possono ricavare cellule totipotenti, bambine, di fatto “immortali”, in grado di differenziarsi in tutti i tipi di organi e di tessuti dell’organismo. Le cellule embrionali sono cellule malleabili: non sono certamente la panacea che tutto risolve. Anni fa, il Nobel Renato Dulbecco dichiarò: “Gli embrioni sovrannumerari possono rappresentare una nuova speranza per i pazienti colpiti da malattie per cui non c’è possibilità di cura. La speranza è il centro della vita. Non distruggia-

Contemporanea

della domenica n°62 - 1 febbraio 2015 - anno 3 n.0

La morale delle cellule

di Marcello Buttazzo

mola”. Nel nostro Paese, per ragioni confessionali, finanche la ricerca sugli embrioni sovrannumerari congelati è totalmente vietata per normativa. Da noi, è “più cristiano” buttarli nei water, nei lavandini dei laboratori, o lasciarli morire in azoto liquido, piuttosto che impiegarli per la sperimentazione. Su questa nuova frontiera della medicina, la condanna della Chiesa cattolica è netta: “L’utilizzazione dell’embrione umano riceve un giudizio completamente negativo non solo dalla morale cattolica ma da chiunque rispetti l’individuo umano, la persona umana”. Cattolici e laici non sono ancora riusciti ad edificare rudimenti d’una bioetica quantomeno parzialmente condivisa. Soprattutto lo Statuto ontologico cattolico dell’embrione umano è molto austero, lontanissimo da quello laico, molto più morbido e flessibile, che trova comunque rispondenza nella scienza embriologica. Su principi antitetici, conflittuali, è di fatto impossibile trovare punti di contatto, vie di compromesso praticabili. Negli Usa, l’amministrazione Obama, finanziando la ricerca sugli embrioni con fondi pubblici, ha seguito una condotta più lineare, più coerente rispetto alle chiusure

del predecessore George W. Bush. Gli uomini di Stato hanno l’obbligo di non penalizzare la ricerca scientifica. In un’ottica di etica pubblica, la scienza dovrebbe procedere sempre in quadri rigorosi, con ampi gradi di libertà, senza venire frustrata da impedimenti religiosi. E, forse, negli esperimenti di questi ultimi anni, in Inghilterra e in America, il problema etico non si pone nemmeno: pare che gli scienziati riescano a ricavare cellule staminali embrionali senza distruggere gli embrioni. Siamo all’inizio d’una nuova era. La scienza s’instrada per tentativi e fallimenti, prima di giungere a qualche successo apprezzabile. Una questione che si pone dirompente è la socializzazione delle conoscenze. Le aziende proprietarie dei brevetti sulle cellule staminali non dovrebbero essere troppo chiuse, refrattarie alla libera circolazione e divulgazione delle notizie. Nell’era di Internet, è un controsenso assoluto essere proibizionistici, arroccati nei fortini delle proprietà intellettuali. La senatrice a vita Elena Cattaneo, straordinaria staminalista italiana, ritiene che “in questo campo sarebbe necessaria una ricerca pubblica più attiva. Una ricerca, cioè, condotta nell’interesse del malato”.


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Di papà e di Bella

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il ricordo

della domenica n°62 - 1 febbraio 2015 - anno 3 n.0

Silvio Nocera, Io e la civetta, Spagine edizioni Fondo Verri

La vita bambina sui sentieri di cave, il mirto il timo il rosmarino un paesaggio di sogno. I fioroni da cogliere con amore, cibo degli dei. La vita contadina d’oro e d’argento di sofferenza e di fatica di devozione e di terra. Terra rosso sangue. Eppoi lei, la sacra civetta con gli occhi dolci di lucerna. L’animaletto familiare, incontrato da Silvio prima dell’alba, quando il cielo promette lucori e cadono gli ultimi spaventi. Marcello Buttazzo

di Sara Nocera

crivere di papà e per papà, è sempre un grande travaglio per me. Era così anche per lui, ogni volta che doveva dipingere. Aveva l’idea in mente, il soggetto, i colori, i materiali… Era tutto lì, a portata dalle sue belle mani, ma c’era una fatica interiore agli altri incomprensibile. Si isolava nei suoi silenzi e poi lentamente creava… Per voi, Silvio è un’artista; per alcuni, un amico; per altri un conoscente, per altri ancora un collega. Ma per me è Papà… E non è mai facile raccontare o parlare delle persone che si amano… perché l’amore, merita la preziosità dei “luoghi silenziosi”… Se ci pensate gli amanti (inteso come: prediletti per qualcuno) bastano sempre a se stessi. E’ un incantatore papà… uno di quegli illusionisti capaci di magiche incongruità; come ad esempio far uscire della polvere di tufo da una tela, modellare l’argilla, forgiare il bronzo e scrivere una favola sull’amicizia. Un'amicizia elettiva inserita nello schema della favola, che ci ricorda che la realtà è ben diversa. Però, come insegna l'esempio che ci dona, un racconto leggendario può guidare una vita, basta crederci. Basta attraversare il mare che ci divide dall'ignoto e capire che la differenza non è un segno di sottrazione, ma uno scrigno di “addizioni preziose”. Una favola luccicante, per raccontare la cecità del pregiudizio e l'ottusità della superstizione. In questo gioco di specchi e porte gemelle, a ognuno il turno di “riflettersi” e riflettere su legami importanti e trasformativi. A papà un giorno capita di "incontrare" Bella, e per un naturale destino lui vuole crescere con Lei. Con "Lei" trova una vita nuova. E come sempre accade in qualunque innamoramento, Lui e Lei, si scoprono l'un l'altra, si raccontano l'uno all'altra, si arricchiscono l'uno dell'altra. Tutto splende, nel loro rapporto. Senza necessariamente aver bisogno di parole! Come se attraverso il loro “linguaggio segreto” scrivessero lettere d’amore per chi è invece incapace di trovar parole per i propri sentimenti. Papà inventa e crea amore: il suo amore per Bella e l'amore di Bella per sé. Ogni sua parola nuova suscita una nuova ”parola” di lei. E vale anche il contrario: con i suoi gesti, con ogni differente stridio,Bella inventa e crea il proprio amore per lui. La storia dell'uno scrive la storia dell'altra e ne è scritta. Papà e Bella vivono insieme ancor più, che se fossero entrambi di carne. A che cosa può tendere di meglio, un legame d’amore? Mentre scrivevo di questo amore e del mio amore per lui (e vi assicuro, che ci ho messo giorni interi) per qualche strana connessione inconscia ho pensato all’attentato a Parigi di pochi giorni fa, e per qualche rara coincidenza fra qualche giorno è il Giorno della Memoria. Forse perché questa favola evoca una possibilità. La possibilità di integrazione e la capacità di Riflessione, intesa come un rimando di luce (conoscenza) in ciò che è sconosciuto e quindi “spaventoso”. È una storia di amicizia e di amore che oggi, diventa appello civile e morale in questo momento storico, in cui la MEMORIA non ci ha concesso ancora nessun insegnamento. Papà e Bella ci offrono una zona franca, in cui scambiarsi emozioni, ricaricare il cuore e risollevare lo spirito. Nonostante la cultura abbia costruito fra di loro una barriera invalicabile, (Bella nella tradizione popolare è simbolo di malaugurio) le ragioni del cuore li ha uniti, allentando i ruoli, aprendo la possibilità di guardarsi in modo diverso e progredendo verso una reciproca comprensione. E non è forse quello a cui ognuno di noi, ogni più minuta parte del mondo, dovrebbe anelare? Concludo con una splendida frase di Lao Tze che ci riporta a ciò che è il vero senso di ogni rapporto: “I legami più profondi non sono fatti né di corde, né di nodi, eppure nessuno li scioglie…”.


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Tra cristiani

e politic-uomini D

olore e sdegno mi opprimono e se non lo verso su queste tersi, innocenti fogli non riuscirò a darmi pace. Sono comunque consapevole che anche dopo che questo torrente di emozioni, animandosi in segni indelebili, qui sosterà, stenterò a prendere sonno e il mio riposo non sarà certo tranquillo. Ho l’animo in subbuglio e ogni mio istante è un fiume in piena di immagini di disperazione di una moltitudine di cristiani costretta a condurre una vita di stenti, di fatiche inutili, di disagio, di angoscia, di abissale sofferenza e desolazione. Mi riferisco a quella multiforme umanità affranta e vessata indotta ad un esodo forzato che arranca e s’angustia e come uno scarabeo spinge fardelli di misericordia trasformati “in fagotti scellerati puzzolenti d’ infamia e d’ obbrobrio”. Scarabei umani prostrati, rotolano zavorre inumane per provare a dare un senso alla vita e cercare di assaporare briciole di libertà! Ma come può l’essere umano dirsi “ci-

vile” e rimanere inerte di fronte a tanto sfacelo? Come può questa società del benessere, rimanere impassibile all’inumano stillicidio di cuori? Quanto è più dignitoso lo scarabeo e quanto deve essere più piacevole per lui arrotolare e spingere quieto la sua tenera palla di sterco! Mi hanno trafitto l’animo il cuore la mente le immagini documentario della7 in tv nella trasmissione “Fortezza Europa”. Angosciata annichilita disgustata son voluta, comunque, “restare” per riscontrare fino a che punto l’essere umano è INUMANO! L’uomo, spesso, è l’animale più abietto e spietato che esista su questo suolo oltraggiato! E non si tratta di essere di un partito o di un altro, di appartenere a correnti e correntine diverse. Non c’è colore politico che regga e non aspiro a far parte di nessuno spiffero insulso, mi rendo sempre più conto, però, che l’unica vera “corrente” tra gli uomini è quella truce dell’avere a tutti i costi anche a costo del sangue e del sacrificio di chi non ha nulla per difendersi, se non la propria dignità di essere

di Maria Grazia Presicce

uomo alla faccia di tanti politic-uomini che la rispettabilità l’hanno completamente persa dietro effimere facciate di buonismo stucchevole. Continuo a interrogarmi come possono i granpolitic-uomini stimarsi tra loro, ossequiarsi e stringersi mani, ignorando le efferate umiliazioni che l’umano, semplice popolo di qualsiasi razza e colore è costretto a subire per il loro fare, spesso, insensato e dissennato. Avrei voglia di urlarlo questo livore che non trova pace e dal profondo mi sconquassa, vorrei sputarlo in faccia a questa falsa europeaggine che continua a difendere il nulla a parole, sprecando ingenti risorse per stupidate, mentre là fuori un’umanità silenziosa s’affanna soffre muore. Dov’è questa sorda europa salvifica che hanno a tutti i costi voluto? Oltre che sorda, è cieca, è illusoria se non ode le urla strazianti di quella tanta, troppa gente sfruttata seviziata costretta a imbarcarsi su fradici legni, spingere miserevoli “fagotti” per conquistarsi il nulla e dopo questi sacrifici orrendi, è pure abbandonata a mar-


contemporanea

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Ad illustrare due fotografie di Francesca Speranza

cire in campi lager diretti da squallidi figuri che sfruttano quest’esodo senza nessuna pietà, approfittandosi persino dell’altrui sfacelo. Quest’europa dal volto salvifico è pronta a proteggere solo la corte dei suoi componenti, perdendosi dietro stupidi cavilli di misurazioni di carote e banane mentre di là dalle loro confortevoli sale, per la gente comune, la realtà e tutt’altra cosa. E così, senza tregua, uomini donne ragazzi vecchi e vecchie sdentate e cieche storpi malandati continuano a spingere balle, cercando di varcare sbarramenti, ammassandosi come mosche sul miele, ferendosi a sangue, mutilandosi, crepando per un pugno di sogni. Sono tanti i muri della vergogna su questo suolo che si dice “civile” e sono troppe le tombe di chi non riesce a scavalcarli! E anche chi, dopo tante traversie, ce la fa e immagina di aver raggiunto l’ambita meta, trova sì un po’ di ristoro per le sue membra spossate, ma invece della sperata serenità riceve solo fatui aiuti e ancora patimento. Riman-

gono là in attesa, sospesi come anime in pena in un purgatorio immondo, si rigano di lacrime amare i loro volti sgomenti e implorano misericordia a qualsiasi Cristo che dalla croce, pure lui grida allo scempio, all’inganno. Siamo nel 2015, l’era del progresso che invia satelliti a esplorare lo spazio, ma poco è mutato dal tempo di Cristo se il politic-umano non s’accorge di questo disastro e continua a concordare parlare parlare e sbafare intorno a tavole rotonde quadrate rettangolari, spoglie, però, di valide risoluzioni e allora mi chiedo davvero cos’è questa europa senza il rispetto dei semplici diritti umani. Ma di quale umanità discutono su quelli scranni, intorno a quei lucidi tavoli? Chissà se quando blaterano, hanno mai dinanzi agli occhi le facce di quelle donne violentate, di quei padri affranti, di quei ragazzi indifesi che seguitano senza sosta a scappare, spingendo “fagotti” di dolore. Io, misera mortale che nulla posso se non dolermi, non riesco a togliermi dal cuore quei visi emaciati, quegli occhi gonfi, quelli sguardi straziati, quelle

braccia tese nell’ultimo sforzo, quei piedi nudi graffiati scorticati, quei corpi stipati sui battelli tra le onde, incolonnati nel deserto tra sole e sabbia, arrampicati sugli sbarramenti, piegati a spingere spingere fino allo spasimo, ammassati come sacchi di crusca nei centri di accoglienza e non so capacitarmi come si possa rimanere statici davanti a quest’umanità vessata. I convegni, intanto, si sprecano, i presenti si perdono dietro assurde congetture, confabulano, polemizzano con la pancia piena, l’orologio al polso, il vestito impeccabile, le scarpe lustrate e s’ergono a giudici su un piedistallo arrotolando balle di parole per questa umanità “grulla” che continua a fantasticare, credere e sperare ancora nelle loro balle! Quanto sarebbe meglio per loro e per tutti, se ogni tanto cominciassero a tacere e meno apparire e, dando voce alla coscienza, operassero. Solo quello dovrebbe essere, in effetti, il loro senso di dovere civile verso questa fragile umanità che attende!


Ildellarumore memoria A Lucugnano si fa “sterminio” di rose nel giardino Casa Comi

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Memoria - singhiozzo più spesso: un ricordo del caldo di allora nella valle di luce d’estare rutilante a traverso me stesso; lago di azzurro scolpito nel riposo delle foreste -

mi risale l’ardore smarrito strozzato nel pianto del cuore -

Di tutta la flora beata d’allora, porto il profumo: (una bionda conca di ritmi sprofondata nell’estate ubriaca) ... Soggiorno lungo o passeggiata di qualche istante: lo ignoro

il corpo è ancora tutt’oro di vegetalità illimitata.

di Giuliana Coppola

Il rumore della memoria”….ma come poteva una gru meccanica sentire il rumore della memoria? Invece, perché il rumore della memoria non è stato ascoltato da coloro che la guidavano la gru? Perché hanno deciso di “non sapere, non vedere, non capire”? Perché? Se lo chiede l’alberello superstite dalla decimazione di massa qui, nel giardino di casa Comi a Lucugnano; se lo chiede mentre sente ritornargli lungo il tronco sottile, brivido d’angoscia e di paura, ché, anche lui, d’un tratto ha capito che davvero era arrivato il momento; gru meccanica, guidata da mano d’uomo, divorava ad uno ad uno i suoi fratelli alberi, le rose sue sorelle e nulla rimaneva a testimone d’un’utopia, d’un sogno, d’un progetto, d’una speranza. Sulle macerie della seconda guerra mondiale era nato ed era attecchito quel giardino di rose, il giardino delle rose a Lucugnano, ad immagine del giardino delle rose di Parigi; chè là aveva vissuto Girolamo Comi, proprio ad un passo dal giardino delle rose, frequentato dai suoi amici, i poeti francesi; “i rosai di qui – biondo/ clamore di calde spalliere/ di luce – vivai di raggiere/ di porpora e viola profondo…”. Versi su versi dedicati a un fiore simbolo di poesia, di giovinezza, del mistero racchiuso in un colore, in un petalo, in un profumo; ed intorno alle rose, quasi a proteggerle, il glicine e l’oleandro, i viburni e i ligustri e i cipressi e il melograno; nei vasi, gli alberelli d’ulivo, testimoni anche loro dell’illusione d’un poeta. Si illudeva Girolamo Comi che la poesia avrebbe dato forza alle radici della sua terra, avrebbe ingentilito e ricreato duro lavoro dei campi; olio e poesia, Minerva e Venere, a proteggere generazioni presenti e future del paese di Lucugnano, eletto a dimora d’armonia; quando arrivava febbraio, forte e deciso nella sua timidezza, il profumo delle viole annunziava il ritorno “dei violini del sole”… “Sento i violini del sole/ in archi – viola – di suoni/ ardere sulle corolle/ ed incendiarne gli aromi…”. Come fa gru meccanica, guidata da mano d’uomo, a sentire rumore di memoria? Me lo chiedo oggi che qui, in un angolo ad osservare l’alberello superstite, non posso neppure avvicinarmi a consolarlo. Come fa a sentire rumore di memoria un paese che ha deciso di “non sapere, non vedere, non capire?” Intanto rumore di gru distruggeva sinfonia di violini e profumo di rose che avevano il nome di Maria Corti, Oreste Macrì, Vittorio Pagano, Rina Durante, Salvatore Toma, Stefano Coppola… la scrittura travolta dal silenzio. Ecco, in fondo, l’aveva già scritto Girolamo Comi, in tempi non sospetti “Memoria – singhiozzo più spesso: - un ricordo del caldo di allora… mi risale l’ardore smarrito/ strozzato nel pianto del cuore”… Così è stato a Lucugnano… non sapere, non vedere, non capire e poi? Singhiozzo più spesso, memoria.


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accade nel salento

della domenica n°62 - 1 febbraio 2015 - anno 3 n.0

Come un giardino schiuso a me daccanto - di cui non toccherei fiore nè frutto tu, respirando, in me generi un canto che mi riempie e m’illumina tutto. Gioia di un giorno, la tua ala trema nella memoria come se volesse arricchire l’attesa del mio essere d’una germinazione non terrena. Tu sei la primavera che aspettavo, oh visione musica e figura di un’arcana armonia da cui ricavo

l’essenza della mia gioventù futura: fremito di un mattino che m’investe con l’alito di tutto il suo celeste.

Girolamo Comi


IMI Internati Militari Italiani

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Ippazio Antonio Luceri – Deportati Salentini Leccesi nei lager nazifascisti – Grafiche Giorgianni della domenica n°62 - 1 febbraio 2015 - anno 3 n.0

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opo l’otto settembre 1943, l’armistizio di Cassibile l’esercito italiano si ritrovò sbandato, senza più ordini. Il Re e Badoglio fuggirono vilmente a Brindisi lasciando l'Italia intera senza guida. I militari avevano due possibilità: aderire alla Repubblica di Salò e rimanere alleati dei nazisti, oppure prendere altre strade, ribellarsi, sbandarsi, salire in montagna con i partigiani. La stragrande maggioranza decise di abbandonare la sciagura della guerra e l’infamia del nazifascismo, solo il 10% accettò l’arruolamento nella bande di Mussolini e Hitler, molti si aggregarono ai partigiani, chi riuscì tornò a casa, moltissimi vennero disarmati e considerati dai nazisti “prigionieri di guerra”. Per loro era valida la Convenzione di Ginevra, i nazisti, nella loro viltà, decisero di non rispettarla chiamando i prigionieri IMI (Internati Militari Italiani) e deportandoli nel lager, la Germania di Hitler aveva bisogno forza lavoro a costo zero. Infami nell'infamia. Quanti furono gli IMI italiani ce lo dice uno studio di Pamieri e Avagliano: «In pochi giorni i tedeschi disarmarono e catturarono 1.007.000 militari italiani, su un totale approssimativo di circa 2.000.000 effettivamente sotto le armi. Di questi, 196.000 scamparono alla deportazione dandosi alla fuga o grazie agli accordi presi al momento della capitolazione di Roma. Dei rimanenti 810.000 circa (di cui 58.000 catturati in Francia, 321.000 in Italia e 430.000 nei Balcani), oltre 13.000 persero la vita durante il brutale trasporto dalle isole greche alla terraferma. Altri 94.000, tra cui la quasi totalità delle Camicie Nere della MVSN, decisero immediatamente di accettare l’offerta di passare con i tedeschi. Al netto delle vittime, dei fuggiaschi e degli aderenti della prima ora, nei campi di concentramento del Terzo Reich vennero dunque deportati circa 710.000 militari italiani con lo status di IMI e 20.000 con quello di prigionieri di guerra. Entro la primavera del 1944, altri 103.000 si dichiararono disponibili a prestare servizio per la Germania o la RSI, come combattenti o come ausiliari lavoratori. In totale, quindi, tra i 600.000 e i 650.000 militari rifiutarono di continuare la guerra al fianco dei tedeschi».

E il Salento leccese come è stato interessato dai deportati IMI? Finalmente c'è materiale di studio, Ippazio Antonio Luceri con una colossale opera di 600 pagine ha elencato nomi, schede e numeri della sciagura. "Deportati Salentini Leccesi nei lager nazifascisti" restituisce memoria e dignità a questi patrioti, i numeri impressionanti. La dettagliata presentazione di Maurizio Nocera inquadra storicamente gli eventi, mette in fila le date della sciagura del ”secolo più violento” il ‘900. In particolare ci ricorda come la storia dei campi di concentramento non fosse stata solo nazista, ma riguardò l’Italia.

di Gianni Ferraris

Estrapolo il passaggio di Nocera in proposito: “5 settembre 1938, R.d.l. n. 1390, Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista; 23 settembre 1938, Rdl. n. 1630, Istituzione di scuole elementari per fanciulli di razza ebraica; 17 novembre 1938, Rdl. n. 1728, Provvedimenti per la difesa della razza italiana; 15 novembre 1938, Rdl. n. 1779, Integrazione e coordinamento in un unico testo delle norme già emanate per la difesa della razza nella scuola italiana; 9 febbraio 1939, Rdl. n. 126, Norme di attuazione relative ai limiti di proprietà immobiliare e di attività industriale e commerciale per i cittadini di razza ebraica. 4 settembre 1940, Mussolini emana il decreto definitivo che istituiva i primi 43 campi di internamento per gli ebrei, gli antifascisti, i rom e i sinti, gli omosessuali e i minorati. Furono immediatamente recuperati differenti luoghi di detenzione, spesso dei reclusori isolati dalle città e dai luoghi di vita civile.

È superfluo descrivere com’erano fatti questi luoghi di confinamento, perché la letteratura in merito è molto ricca e basta fare un semplice clic su internet per leggere l’abnorme livello di miseria e di abbandono. In Italia furono alcune decine di migliaia gli internati nei 400 campi di concentramento prima di venire spediti nei lager nazisti tedeschi. Alcuni di questi campi sono ormai noti e su di essi non mancano gli studi di approfondimento specifici. Eccone qui elencati alcuni: Agnone, Aosta, Alberobello, Ariano Irpino, Bagni di Lucca (Lucca), Bagno a Ripoli, Bioano, Calvari di Chiavari, Campagna (Salerno), Casacalenda (solo femminile), Casoli, Castel di Guido (Roma), Città Sant’Angelo (Pescara), Civitella della Chiana (Arezzo), Civitella del Tronto, Colfiorito di Foligno (Perugia), Corropoli, Fabriano, Farfa Sabina (Rieti), Ferramonti di Tarsia (Cosenza), Ferrara, Fertilia (Sassari), Forlì, Fraschette di Alatri (Frosinone), Gioia del Colle (Bari), Isernia (Campobasso), Isola del Gran Sasso, Istonio (Chieti), Lama dei Peligni, Lanciano (Chieti) (due campi, uno maschile e l’altro femminile), Lipari (Messina), Manfredonia (in un ex mattatoio), Montalbano (Firenze), Montechiarugolo (Parma), Monteforte Irpino, Nereto, Notaresco, Piani di Tonezza (Vicenza), Petriolo (Macerata) (solo femminile), Pisticci (Matera), Pollenza (solo femminile), Ponticelli Terme (Parma), Roccatederighi (Grosseto), Sassoferrato (Ancona), Scipione di Salsomaggiore, Solofra (Avellino) (solo femminile), Servigliano (Ascoli Piceno), Sforzacosta Sondrio, Tollo (Teramo), Tortoreto, Tossicia, Treia (solo femminile), Trieste, Tremiti (Foggia), Urbisaglia (Macerata), Ustica (Palermo), Vinchiaturo (Campobasso) (solo femminile), Verona, Vo’ Vecchio (Padova). Il più noto fra tutti questi campi fu la famigerata Risiera di San Sabba a Trieste, in un primo momento classificato come campo


il libro

di polizia e di transito, dove si perpetrarono torture, esecuzioni capitali e lo sterminio di ebrei e comunisti (oltre 5000) infornati e cremati nel forno di cui era provvisto quell’impianto industriale. Altri campi di polizia e di transito verso la Germania furono quelli di Fossoli, Gries e Bolzano e provincia, attraverso i quali transitarono più di 11 mila deportati italiani”… E così Ippazio Antonio (Pati per gli amici) elenca un rosario che pare infinito: 7158 nomi, cognomi, schede compilati da Pati. 581 deceduti fra questi: 421 in prigionia nei campi di concentramento nazisti; 156 morti nei naufragi delle navi: Petrella, Donizetti, Oria, Sinfra partite dai porti di Rodi, Creta, Cefalonia, Leros, Scarpantos, Coo; 4 vennero fucilati mentre tentavano la fuga; 6 morti al loro ritorno in patria per malattie contratte a causa della detenzione. Queste ricerche hanno impegnato Pati per lunghi anni, ha spulciato archivi storici, Istituti Storici della Resistenza, Archivi Vaticani ecc. e questo è suo il terzo volume dedicato agli antifascisti, partigiani, combattenti e deportati salentini. Come si evince dai numeri siamo di fronte ad una vera e propria sciagura, una strage perpetrata con metodo. Gli IMI vennero ignorati per molto tempo, anzi, in molti casi, al loro ritorno in Patria, vennero definiti “imboscati” come dice Luceri nella prefazione, invece, secondo l'autore, erano: “RESISTENTI, a tutto tondo, pur essendo stati etichettati come “imboscati”, per molto tempo, con affermazioni a dir poco umilianti, offensive, ancora una volta disumane, soprattutto quando ci si accorgeva che, per molti ma soprattutto per il potere costituito, il loro sacrificio era stato inutile, come ha ben documentato il Lazzero Ricciotti. Che non avevano collaborato con i nazifascisti ma non

La resa di un soladato italiano e la copertina del libro

avevano nemmeno impugnato un’arma per combatterli e continuo, sempre con il Ricciotti, “I partigiani parlano nelle piazze di combattimenti e di nemici sterminati. Gli scampati, invece, parlano soltanto della fame che li ha sterminati”. Un libro importante per la memoria, dedicato a quanti nel mondo stanno soffrendo la galera, le torture per una società equa. Fra questi Luceri cita nella presentazione: “… i nomi di BIASCO Rocco di Alliste, COSTA Alberto di Alezio, COSTA Umberto di Matino ed ELIA Pantaleo di Vernole. Sono i nomi di quelli che non ce l’hanno fatta, essendo stati scoperti e pertanto fucilati, durante il tentativo d’evasione…”. Per quanto riguarda il prezzo il discorso è apertissimo, Pati Luceri vuole diffondere e divulgare, scrive nella prefazione: “il libro si aggira intorno alle 600 pagine e il prezzo per un libro di tal formato e dimensioni, nelle librerie si aggira intorno alle 100 euro. Ho ricevuto un contributo di 2800 euro e ciò mi permette di abbassare i costi di 28 euro. Ma la mia ricerca non è finalizzata a lucrare su chi ci HA DONATO la LIBERTÁ e pertanto lo diffonderò a prezzo politico. Mi si dia - come dico SEMPRE quello che si può e si vuole dare e se qualcuno non può permetterselo e ci tiene a farlo divulgare, LO CHIEDA GRATUITAMENTE: (questo è il numero telefonico: 339.8277593)”.

Gli altri volumi di Pati Luceri editi da Grafiche Giorgianni: Partigiani, antifascisti e Deportati di Lecce e Provincia Partigiani e antifascisti in Terra D’Otranto


spagine

della domenica n°62 - 1 febbraio 2015 - anno 3 n.0

L’abecedario di Gianluca Costantini e

Maira Marzioni

Mi marcarono come misero si millantavano nei maestosi mantelli nelle mense mangerecce si mostravano migliori mielosi magnati del magazzino Mondo

Non negavo nulla non avevo necessità di noiosi notabili ero nato natura lì mi nutrivo lì negoziavo il mio nome.

Per molti ero nessuno per me ero nobile Mulo.


Asinerie spagine

N

l’osceno del villaggio

della domenica n°62 - 1 febbraio 2015 - anno 3 n.0

“Ah, formidabile / Il tuo avvocato è pro- mia la responsabilità di quegli strafalprio un asino /no, certe cose non si cioni. Asino io, dunque, prima e più di scrivono / che poi i giudici ne soffrono” tutti. Pagato questo debito di onestà intellettuale, passiamo alla categoria degli Parole d’amore scritte a macchina - Paolo Conte asini pubblici, cioè dei personaggi famosi la cui asinità, a loro maggior danno, el numero precedente viene accentuata proprio dalla sovraeparlavo di asini. In senso sposizione mediatica: tanto più è in alto proprio e in senso figula posizione che occupano nella scala rato, nel senso degli anisociale, tanto più sarà fragorosa la camali e nel senso degli duta. Ma così va la vita (“O quam cito uomini. Dalla parte degli transit gloria mundi"). animali, sempre. Infatti, come si fa a non Avevo proposto ai lettori di scegliere fra i amare il simpatico ciuchino, non fosse tre personaggi più di spicco nella vita altro che per solidarietà con la sua vita pubblica del 2014: Papa Francesco, Matnon certo facile, maltrattato e angariato teo Salvini e Matteo Renzi. Da un soncome è sempre stato. Per quanto ridaggio molto poco professionale (non guarda gli esseri umani poi, ce ne sono sono mica la Ghisleri!) condotto fra i letdi simpatici e ce ne sono di detestabili. tori e gli amici, al primo posto assoluto è Ma non sarei coerente e credibile se non risultato essere Matteo Salvini. cominciassi da me medesimo. Il mio Il super arrabbiato esponente della Lega libro “NeroNotte. Romanza di amore e Nord, infatti, oltre a collezionare una morte”, pubblicato qualche tempo fa, serie incalcolabile di errori grammaticali, contiene un certo numero di svarioni, lessicali e di organizzazione delle frasi grammaticali intendo, che tacer non nei suoi interventi pubblici, dovuti forse posso. alla foga con cui esala la propria vis poA farmeli notare è stato il solito profeslemica, ha conquistato il poco invidiabile sore del tempo che fu, di quelli che oggi record di politico che legge di meno nella bisogna cercare col lanternino come famedia già sconfortante degli altri. Preceva Diogene: un professore vecchio messo che la nuova classe politica nastampo, rigoroso quanto severo, che zionale, se l’ attentato alla consecutio sulla forma giustamente non transige e temporum fosse un reato, sarebbe già al quale porto in visione il libro sempre tutta agli arresti, Salvini ha innescato in troppo tardi (ossia quando è già pubblimondovisione una polemica con Renzi cato), per paura del suo implacabile giuproprio sui rispettivi livelli culturali. dizio. Ebbene, anzi purtroppo, di fronte a Nel suo intervento al Parlamento euro“un idiota” scritto con l’apostrofo, “sopeo,in occasione della chiusura del sevrappensiero” scritto con una sola “p” e mestre di presidenza italiana, Matteo “orticarie” invece di “orticaria” (queste le Renzi ha citato Dante Alighieri, esattaperle collezionate da quello sciagurato mente il canto di Ulisse nell’Inferno. E sumio libercolo), non ci sono scuse. bito cori di “buuu” si sono sollevati dalle Hai voglia ad attribuire la responsabilità file della Lega Nord. «Capisco che legalla tipografia oppure alla casa editrice, gere più di due libri è difficile, per ala dire che di vere case editrici non esicuni...» ha velenosamente osservato stono qui nel Salento, con un comitato di Renzi. lettura e un editor preparato che eviti alE Salvini, di rimando, gli ha rinfacciato il l’autore certe figuracce. fatto di poter leggere perché non Hai voglia a chiamare in causa il titivillus, avrebbe nulla da fare, mentre lui, novello cioè il demonietto delle tipografie (AntoAtlante che porta il mondo sulle spalle, nio Verri ci intitolò anche una rivista), sarebbe impegnato tutto il giorno a risolquel folletto dispettoso che porta i refusi, vere i problemi del paese. E come? oppure ancora dar la colpa al computer Schizzando a velocità supersonica da o alla trasmissione elettronica che fa una trasmissione televisiva all’altra, da sballare i dati. La firma sul libro è mia e mattina presto fino a notte inoltrata? Egli

di Paolo Vincenti

infatti è, fra i leaders politici, il più presente sui media. Ma per non farsi passare la mosca sotto il naso, il “celodurista” Salvini, che è pure collegato permanentemente in contemporanea su tutti social network del globo, ha inserito l’immagine dei due ultimi libri che avrebbe letto: “Sottomissione» di Michelle Houellebecq e «Mondo nuovo» di Aldous Huxley. Passi per Huxley ( ma il dubbio viene), ma come avrebbe potuto leggere il libro di Houellebecq (che immagina nell’immediato futuro una Francia conquistata dall’Islam con un presidente musulmano) che era appena stato quel giorno distribuito in Italia? Lettura veloce? “Ma mi facci il piacere!” . Il cappello con le orecchie d’asino dunque è super meritato dal Salvini nazional popolare. E a proposito di asinerie televisive, davanti al confronto, svoltosi qualche giorno fa nella trasmissione televisiva “Di Martedi”, fra Massimo D’Alema e Marine Le Pen, ovvero l’astro decaduto della sinistra italiana e quello nascente della destra francese, chi, dico chi, non ha immediatamente pensato al noto detto popolare “l’asino dice al bue cornuto”?. Peccato che il siparietto sia durato molto poco perché poi la trasmissione condotta da Giovanni Floris è tornata ad occuparsi di politica interna e di corruzione e malaffare. Il somaro, inteso come equide, ci fa sbollentare la rabbia e ci riporta il sorriso (guardare in rete il filmato dell’asino che ride per credere). Nel film “Asini” con Claudio Bisio, la storia è ambientata in un collegio francescano dove si trovano ragazzi un po’ disagiati, asini a scuola, insieme ad asini veri, e dove il protagonista Bisio viene mandato a fare l’insegnante di ginnastica. Ma, come ho già scritto, ci sono somari e somari. Ci sono quelli simpatici, che ispirano affetto e tenerezza e ci sono quelli antipatici,pedanti: la carota ai primi, il basto ai secondi. E quelli simpatici possono decorare spillette, magliette e gadgets vari ed anche aiutare l’uomo multiproblematico. infatti esiste la onoterapia. Il ciuchino dunque sia la mascotte delle giornate più liete.


Nel fotti fotti spagine

“Paese di zucchero, terra di miele/ Paese di terra di acqua e di grano/ Paese di crescita in tempo reale/ E piani urbanistici sotto al vulcano/ Paese di ricchi e di esuberi/ e tasse pagate dai poveri Paese di banche, di treni di aerei di navi che esplodono/ Ancora in cerca d'autore/ Paese di uomini tutti d'un pezzo/ Che tutti hanno un prezzo / e niente c'ha valore!”

Tempo reale – Francesco De Gregori

C

apita di passare mattinate intere dietro alla burocrazia. La legislazione degli ultimi anni in materia di semplificazione amministrativa avrebbe dovuto rendere la vita più facile al cittadino, invece l’ha complicata ulteriormente. Ci vuole una marca da bollo anche per andare al gabinetto. “Chi siete? Cosa portate? Un fiorino!”. Come fotografava bene, questa scena esilarante del film “Non ci resta che piangere” (già il titolo era profetico), l’ottusità del burocrate tipo il quale, quando non è a casa per malattia o a donare il sangue, ti presta attenzione e si premura di evadere la tua pratica solo se gli allunghi una generosa mancia. Ma è l’Italia, bellezza, e il supermagistrato Cantone dovrà farsene una ragione (già uno che si occupi di lotta alla corruzione con l’accento napoletano è un ossimoro, vogliamo dirlo?). Certo, il politicamente corretto impone di non generalizzare, per rispetto nei confronti di quei dieci onesti su un milione di mariuoli, e noi allora, che siamo sensibili alle minoranze protette, non generalizziamo (e viva la foca monaca!). Comunque nel fotti fotti endemico di questo paese, ognuno cerca di arrabattarsi come può. E imbrogli, malaffare, raccomandazioni e bustarelle hanno talmente inquinato il sistema che uno non pensa nemmeno che ci potrebbe essere un’altra via, diciamo più trasparente, per ottenere le cose. Chiunque dà per scontato che ci si debba rivolgere all’amico, al compare, insomma al facilitatore di turno, per ottenere qualcosa che gli spetta di diritto, e la filosofia del “ tirare a campare” sembra connaturata al modus vivendi italiano. Un giorno della settimana scorsa, mi trovo a Lecce per l’odioso quanto consueto disbrigo di pratiche amministrative. Quando è ormai mezzogiorno, dopo essermi sciroppato tre file in tre diversi uffici, mi accingo a scalare il quarto. “Scalare”, in senso letterale, poiché in mancanza di ascensore, fermo per un guasto, devo percorre ben cinque piani a piedi. Lungo i gradini essudanti in un’umidità davvero mefitica che conferisce alla tromba delle scale un odore nauseabondo, penso che prima o poi mi trasferirò in Svizzera o in Germania, insomma in uno di quei climi freddi e secchi del nord che ti riconciliano con la vita. “Burocrazia” è un termine coniato nel Settecento dall’economista Vincent de Gurnay, (da “bureau”, ufficio e “crazia”, potere). Giunto nella sala d’attesa dell’ufficio in questione,

di Paolo Vincenti

trovo a precedermi un gruppuscolo disassortito di varia umanità. C’è l’anziana signora che in un deliquio mistico impiega il tempo recitando preghiere a mezza voce, il pensionato affetto da Parkinson che sfrega furiosamente il braccio sul cappotto liso, lo pseudo intellettuale che legge un libercolo di cui non riesco a intravedere il titolo. Un giovane ciccio bombo col cappellino, che assomiglia a Chris, il figlio dei Griffin, solo che questo è marezzato e allupato e non stacca gli occhi dalle gambe generosamente accavallate della “gnocca” di turno. E su tutti si staglia giunonica lei, la vamp, una bambolona dipinta e vanesia, con minigonna e tacchi a spillo (come cavolo avrà fatto ad arrampicarsi sulle scale per cinque piani..) che ascolta il vaniloquio di un ruffiano accompagnatore (capisco che i due sono insieme perché esibiscono un unico numerino), un giovinastro ben vestito e pettinato, che mi ricorderebbe un dandy fuori stagione se non ostentasse un atteggiamento alquanto effeminato. E ad una battuta di quello, la bambolona prorompe in una risata uterina. Tutti volgono lo sguardo nella direzione dei due e nell’espressione del cicisbeo si coglie un moto di imbarazzo per aver destato quella malvoluta attenzione. Un avventore esce dall’ufficio e subito il pensionato tremens infila il corridoio per prenderne il posto. Altri stami infecondi di esistenza vanno e vengono. Poi è la volta della Circe col suo Ulisse all’acqua di rose, ma l’attesa per me è ancora lunga. Non ho l’abitudine di smanettare col telefonino se non il minimo necessario e dunque mi cerco qualcosa da leggere per poter ammazzare il tempo. Ma, a parte una copia spiegazzata del Quotidiano di Lecce, che io ho già letto la mattina presto, sul tavolino malfermo della saletta giacciono, in ordine sparso: un “Oggi” vecchio di qualche mese, un “Vero” ancora più vecchio, un “Di più” e una ”Diva e donna” di cui non leggo la data. Ok, mi connetto col telefonino. Apro e da “Il Fatto Quotidiano on line”, su cui ho impostato da qualche tempo la mia home page, leggo che l’Italia è prima in Europa per corruzione, sopra la Bulgaria e la Grecia, dati 2014.

La classifica, Corruption Perception Index, è stilata da una non meglio precisata Transparency International, che riporta le valutazioni degli osservatori internazionali sul livello di corruzione di 175 paesi del mondo. L’indice 2014 colloca il nostro paese al 69esimo posto nella classifica


l’osceno del villaggio

della domenica n°62 - 1 febbraio 2015 - anno 3 n.0

“Italia si' Italia no Italia gnamme, se famo du spaghi. Italia sob Italia prot, la terra dei cachi”

La terra dei cachi - Elio e le Storie Tese mondiale, come negli anni precedenti. La corruzione ammonterebbe a 60 miliardi di euro. Non so se questa cifra (riportata anche dal blog di Beppe Grillo) sia esatta. Infatti su “Corriere.it” c’è una secca smentita. Si tratta di una cifra inventata, dice il Corriere, che non si basa su dati scientifici tanto che anche il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon, ne ha confermato l’infondatezza . Purtroppo questa curiosa storiella continua a circolare di bocca in bocca, o meglio di media in media, e finisce per essere accreditata come ufficiale. Certo è che, se fosse vera, o anche verosimile, sarebbe una notizia stratosferica. Quante cose si potrebbero fare con 60 miliardi? Quante opere pubbliche si potrebbero completare? Quante strade, quanti asili, quanta nuova edilizia popolare in quartieri meno degradati? E quanta ricerca scientifica si potrebbe finanziare nella lotta a quelle malattie, come il cancro, che non hanno ancora una cura certa? Viene il mal di testa. Invece di migliorare i trasporti pubblici, eliminare le barriere architettoniche nelle città, creare servizi più efficienti, alcune migliaia di funzionari e politici pensano ad ingrassare alle spalle dei milioni di pirla che invece tirano la carretta. E si dedicano ai loro loschi affari, alle piccole e grandi convenienze, alle scalate a banche e società di Stato. Intanto guardo il presunto intellettuale chino sul suo libercolo e penso che per avere successo dovrei scrivere dei libri per quel genere di persone che, quando leggono, muovono le labbra. Escono la vamp in minigonna e tacchi a spillo con accompagnatore, ed entra il ragazzotto simile a Crhis Griffin che lancia un’ultima infuocata occhiata alla signorina tutta curve.

Ad un certo punto, mentre credo di dover ancora attendere, odo una voce oltretombale che richiama la mia attenzione. La voce fa proprio il mio nome. Ma mi inganna la tromba di Eustachio o è reale? Nessuno mi aspettava, o almeno nessuno dovrebbe conoscermi in questo posto. Percorro il corridoio e mi sento un po’ Fantozzi quando sale nell’ufficio all’ultimo piano del mega direttore galattico. Ad un certo punto, un viso conosciuto mi viene incontro. Un mio vecchio amico, che è diventato direttore di quel posto e, avendomi visto entrare, ha pensato bene di favorirmi mettendomi un impiegato a disposizione. Lassù qualcuno mi ama.

Dopo i convenevoli di turno, mi infilo nell’ufficio indicatomi. Il depravato impiegato, che evidentemente non era al corrente della mia vista, spegne fulmineo il pc su cui stava guardando un porno e si mette a mia disposizione. In breve, evado la pratica, ringrazio la mia buona stella e mi affaccio all’ufficio del direttore per un ultimo saluto. “Entra, entra” mi invita l’amico e io penso che aver usufruito di una corsia preferenziale è stato del tutto inutile. “Come va, come va?”, mi si rivolge mellifluo. Così ci aggiorniamo sulle rispettive vite privare. Mi dice di essere spostato anche lui ma separato, con due figli piccoli. “Mi dispiace” asserisco, “sono cose che capitano. È davvero preoccupante quanto sia aumentato il numero di separazioni e divorzi negli ultimi anni.” “Già”, fa quello con un’espressione trita e contrita. “Comunque io e la mia ex moglie manteniamo un rapporto civile, almeno fino a domenica scorsa”. “Perché, cosa è successo?” domando. “Sai, ci siamo riuniti per il pranzo. Ogni tanto lo facciamo, per amore dei figli”. “Eh..” “ Solo che io ho avuto un lapsus freudiano e lei è montata su tutte le furie. Invece di dire «Carla passami il sale», ho detto «Maledetta puttana mi hai rovinato la vita!»”. “Urka!” strabilio. Si crea un silenzio di imbarazzo e, dopo un po’, quello inizia a digrignare i denti e quindi prorompe in una risata grassa “Ma sto scherzando, minchione, ahhhaahh! è una battuta, l’ho sentita ieri sera in televisione, a Zelig!”. “Ma vaffanculo!”. Il silenzio si squaglia come cera che ci cola sulle teste. Avevo dimenticato, dopo averlo perso di vista per alcuni annetti, quanto questo amico fosse un buontempone e un amante degli scherzi pesanti. “Con mia moglie andiamo d’amore d’accordo”, mi rassicura, “ed è tutto ok!” “Bene”. Finalmente ci salutiamo e io mi metto in macchina per ritornare a casa. I dati sulla corruzione in Italia continuano a ballonzolare nella mia testa. “Ladri, ladri, ladri!”, una vocina esce dai precordi ed ha la voce di Pannella. È davvero una vergogna detenere un primato del genere. Quel che è peggio, ma non voglio fare vieta retorica, è che questo sistema continua ad alimentarsi da sé, come dire per partenogenesi, nella connivenza, collusione, compiacenza di molti, e nell’acquiescenza, nella supina accettazione di altri ( “si è sempre fatto così. Munnu era e munnu ete”). È la mentalità della gente che dovrebbe cambiare. Ma si sa, tra il dire e il fare c’è di mezzo “e il”, come dicono Elio e le storie tese. Il paese dovrebbe cambiare con atti concreti, dal basso, non con pistolotti come rischia di apparire questo mio articolo. Così non si può continuare. Per dirla con Corrado Guzzanti , “per cambiare veramente le cose ci vogliono le idee. Io ci metto questa”.


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della domenica n°62 - 1 febbraio 2015 - anno 3 n.0

I galloni del narrastorie

Rocco Boccadomo, L’asilo di donna Emma, AGM Non possiedo galloni di penna da richiamo, né, tanto meno, di fonte di cultura e di opinione. Sono soltanto un comune narrastorie… e così osservo, rifletto su ciò che accade: chiaramente, snocciolo un rosario senza fine di vicende, minuscole ed enormi….”: questo scrive Rocco Boccadamo, in Spagine della domenica n. 60, parlando naturalmente di sé e m’ha fatto pensare, naturalmente, che se la Madonna di Marittima legge questa spagina – anche la Madonna, io penso, s’interessa ai fatti nostri – lei, la Madonna, rifletterà su questa storia e non sarà molto d’accordo con Rocco; infatti, prima di lui, nessun narrastorie con galloni di penna da richiamo l’ha mai notata e quindi descritta su trainella, mentre, davanti a puteca, gustava profumo di vino; chè là sostava, attendendo mesciu Miliu; lui sì chè s’era bagnate le labbra, parcheggiando Madonna su trainella. Bastano i particolari, a volte, per guadagnarsi tanto di galloni al merito, perché non ci si stanchi mai di snocciolare quest’altro “rosario senza fine di vicende, minuscole ed enormi” che Rocco Boccadamo ci regala e che oggi ha per titolo “L’asilo di donna Emma”. “Asilo”: chissà se deriva da auxilium, questo sostantivo; l’ho continuato a pensare mentre, pagina dopo pagina, incontravo le storie, i personaggi, i profumi di terra mia e non solo, le sfumature dei monti d’Albania, il sorriso di boccioli senza tempo, Abano e l’abbraccio dei fanghi mescolato all’abbraccio dei ricordi; asilo – auxilium della memoria; la scrittura in aiuto alla memoria, perché non svaniscano stati d’animo, sensazioni, emozioni, il passo di un nipote alla scoperta di mondi nuovi, mano nella mano del nonno osservatore e

narratore; in aiuto alla memoria si snocciola il rosario di Rocco, che non annoia mai perché non è come un ripetere continuo di ave, padre e gloria, ma è un rinnovarsi di volti, luoghi, tradizioni e voci e sinfonie, quelle che per un istante gli sono appartenute e che Rocco decide di regalare agli altri perché diventino patrimonio di comunità e non se ne perda il profumo. Ecco perché, io penso, la Madonna della trainella di mesciu Miliu, di tanto in tanto se la va a rileggere la sua storia a pagina 79 di “L’asilo di donna Emma”; ha voglia anche lei che tutto sa e tutto può, di staccare un attimo gli occhi dal male del mondo; di sorridere un attimo e di pensare ad “una notte leggera” prima che ritorni il rito d’una processione, d’un canto, d’una preghiera; rosario di nostalgie e di pensieri ed è ancora una volta scrittura di Rocco che se li guadagna sul campo i suoi galloni, in questo suo andare con la mente, con l’anima e col cuore, lungo le strade dell’esistenza che non stanca mai se si riesce a guardarla nella minuzia, appunto, di un particolare per scoprire quella smagliatura nella rete dei misteri che lei ci offre; così varia l’esistenza da meritare d’essere raccontata; in questo momento mi perdo nella nuvola di fumo del mezzo sigaro toscano che Stinu ‘u Pativitu “gustava, fumava e consumava col contagocce”; ritorno a leggere la storia per risentirne profumo; mi sarebbe piaciuto regalare a Stinu, giorno dopo giorno, la sua porzione di quel cibo che non ha mai potuto gustare, perché non glielo permettevano i suoi spiccioli…. Un’altra pagina, fra le tante, da leggere e meditare e snocciolare come grane di un rosario diverso, il rosario della vita. di Giuliana Coppola


C’è

spagine

La cultura dei Tao... al Fondo Verri, un audio libro che è necessario acquistare e conservare nella propria biblioteca per ascoltare la "fiaba" contadina di Antonio L. Verri... e per sostenere l'attività del Fondo a lui intitolato.

L

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della domenica n°62 - 1 febbraio 2015 - anno 3 n.0

La cultura dei tao in una fotografia di Santa Scioscio

lista a narrarvi di un cuecolo di neve che molto tempo fa dei ragazzi festosi, goliardi, furenti, cominciarono ad appallottolare nella piazza bianca” . Nelle affabulazioni e con le affabulazioni, in questa cultura, passa anche la vita vera perché, oltre la durezza del lavoro, il sudore della fronte e il sacrificio, c’è sempre la ricerca di un “altrove”, c’è sempre, in questo universo, la tensione di una ricerca, pur nell’apparente immobilismo, fosse anche solo per mitigare un’esistenza grama e difficile, per rendere più accettabile la fatica del vivere quotidiano. Cogliere, respirare, vivere, interiorizzare le storie di questo mondo contadino attraverso la madre perché “è lei la depositaria, è lei la rappresentante di questo mondo” è stato naturale, per Verri, nel tempo della sua infanzia e adolescenza così come è stato naturale far tesoro di tutte le storie che “sono cariche di quella lusione, …storie intorno al tavolo, col fuoco, …” e recuperarle, trasfigurandole, e inserirle, mitizzate e trasformate, metaforiche e nascoste, negli scritti successivi. Osserva, ascolta, trasforma. Crea sogno e immaginazione. “Parlava, la mar, di freddo, di neve, mi raccontava la storia dei tre giorni della merla…io ci legavo il pane, la meraviglia della pasta che cresceva”. La cultura della madre che è la cultura del mondo contadino di questo nostro Salento dell’altro ieri, conserva e tramanda, accanto ad elementi di vita materiale, anche elementi favolistici come i tao, spiritelli che vivono a mezz’aria, buoni e dispettosi che incutono leggeri timori ma anche rispettose riverenze, elementi di cui ci si fida e che sono dappertutto: sui comignoli delle case, vicino al fuoco, sui campanili dei paesi. I tao, accompagnano anche le storie dei “narratori di cunti”, le quali mitigano il dolore, i dolori della gente comune, facendola volare con la fantasia verso una vita diversa, meno dura e faticosa, anche solo semplicemente sognata. In tutto ciò Verri è stato “impastato” sin dall’infanzia; l’ascolto di narrazioni semplici e complesse insieme, favolistiche, fantastiche hanno senza dubbio aiutato a costruire, costituire il “sé narrabile dello scrittore-poeta di Caprarica di Lecce se è vero quello che scrive Adriana Cavarero che “ ogni essere umano, senza neanOsserva e ascolta! Ascolta i racconti, le storie di questa cultura che volerlo sapere, sa di essere un sé narrabile immerso nell’aucontadina, la quale comunica con la forza, l’efficacia, il colore e il tonarrazione spontanea della sua memoria…”. La ricchezza, l’originalità, l’inventiva, l’estro dello scrivere di Ancalore dell’oralità senza la mediazione della scrittura. tonio Verri passano anche per questa via. Scrive Verri: “Durano conti…Parole rugose, cantilenanti, sogni, di Oronzina Greco costruzioni le più audaci (da far impallidire scrittori di professione)… Ecco, durano i conti… e ci sarà sempre un povero favo-

o scritto “ La cultura dei tao”, del 1986, composto per il catalogo pubblicato in occasione della mostra La cultura contadina” curata dal distretto 42 di Maglie, mi spinge ad interrogarmi su quanto Antonio L. Verri abbia preso e interiorizzato dalla cultura contadina nella quale era nato e cresciuto (a Caprarica in provincia di Lecce). C’è, in questo testo(dalla scrittura piana e di agevole lettura) , la nostra gentecon le sue aspettative e le sue malinconie,la madre con i suoi ammalianti racconti e i luoghi con le loro misteriose bellezze, popolatida esseri fascinosi e dispettosi. La gente di qui viene definita da Verri “ stupenda” e presenta “l’umore di questa terra, ad essa confida i suoi mali, le sue gioie, i suoi dubbi, le sue ondulate tristezze”. I luoghi sono “paesi che sembrano piantati tra gli ulivi, paesi dai pozzi profondi, dalle infinite cisterne per grano, per olio, per tutto…”. Cito solo questi, ma diversi sono i passi che parlano di gente e luoghi e la sensazione che ne ricavo, leggendo ciò, è che Antonio abbia colto il senso profondo della terra che influenza e plasma il pensiero degli uomini e soprattutto il pensiero di chi sa raccogliere, custodire e far rivivere echi e segreti che essa racchiude. Dalle narrazioni di questa gente, egli coglie lo spirito autentico e profondo, il valore immenso e immutabile, il respiro della terra e lo fa diventare mitico. La vita del piccolo paese contadino di Caprarica di Lecce, archetipo della vita di tutti i paesini, specialmente del Sud, in un certo senso lo ispira. Egli osserva e descrive tutto: gli ulivi, i rigidi inverni, il pane fatto in casa per distribuirlo il giorno di Sant’Antonio, la doppia cotta di pane per i matrimoni, la fiera di San Marco, le squadre per la monda… Da tutto questo prende l’avvio e, su questo, Antonio Verri costruisce, costruisce il nuovo. Dalla letteratura di questa gente egli prende “pane” e nutrimento per la mente, per farlo crescere e vivere in altri posti e contesti, per creare stupore e organizzare eventi che aggregano e fanno discutere. “Carismatico tessitore di nuove trame di fili rosso Salento” dice di lui Raffaele Nigro in un articolo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”.


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“Un girovagare pressoché quotidiano, specie durante le stagioni miti, fra tutti i centri – cittadine, paesi e paesini – del Salento, nelle ricorrenze delle festività patronali e paesane in genere”

Tra Calimera e Marittima

la saga dei nuciddrari

E

sistono, nel Salento, due località, distinte e anche un po’ distanti, che però formano un tutt’uno ai fini dell’ambientazione, dello scenario naturale e delle radici della semplice, antica e ancora viva storia proposta in queste righe. La prima è Calimera, buongiorno in greco, uno dei nove paesi, in un certo senso il cuore, della Grecìa Salentina, insieme di comunità e tradizioni ormai assurto a notorietà internazionale, se non addirittura mondiale, sia per il particolare e straordinario substrato di cultura di cui trovasi permeato, sia per talune eccezionali manifestazioni folcloristiche e di spettacolo, a cominciare dalla pizzica o ballo della “taranta”. L’altra è Marittima, luogo di nascita di chi scrive, piccolo e ameno paese del Sud Salento, a ridosso di una costiera rocciosa assai suggestiva e carica di magici richiami e affacciato su distese d’onde che si snodano in un’autentica miriade di colori e sfumature: come dire, un sublime abbinamento fra natura e i più delicati profumi che possano immaginarsi e gustarsi. Nella popolazione di Calimera risulta abbastanza diffuso il cognome Di Mitri. Immediatamente dopo la seconda

di Rocco Boccadamo

guerra mondiale, intorno al 1948-1950, arrivò a stabilirsi a Marittima, in una modesta abitazione ubicata dietro la chiesa e presa in affitto, un omone sui cinquantacinque/sessanta anni, tanto robusto, quanto cordiale e buono, originario giustappunto di Calimera, tale Nicola Di Mitri, esercitante un duplice mestiere. Venditore di nocciole, arachidi, mandorle, ceci e fave abbrustoliti, semini, datteri e castagne; inoltre, acquirente di uova fresche (in dialetto, perciò, “ovaluru”) direttamente dalle famiglie, in singole partite minute, finanche minime, a seconda del numero di galline che ogni nucleo possedeva, uova che poi rivendeva all’ingrosso a industrie dolciarie. Nella nuova residenza, il buon Nicola soggiornava spesso da solo, provvedendo quindi anche alla cucina e alle faccende domestiche, mentre saltuariamente era raggiunto dai familiari, vale a dire dalla moglie (ricordo il nome, Lucia) e/o da gruppi dei numerosi figli e figlie (mi vengono a mente Biagio, Gino e l’ultimogenita Rita), che lo coadiuvavano nell’attività di “nuciddraro”. In realtà, la sua non era per niente una vita stanziale, bensì un girovagare pressoché quotidiano, specie durante le stagioni miti, fra tutti i centri – cittadine, paesi e paesini – del Salento, nelle ricorrenze delle festività patronali e paesane in genere.

Si spostava mediante un traino, dalle altissime ruote a raggi, tirato da un prestante cavallo, attrezzato di cavalletti e assi di legno con cui allestiva la sua bancarella, di lampade ad acetilene, bilance e una cassettina di legno dove riporre gli incassi e, ovviamente, fornito di una serie di sacchi e sacchetti di iuta e di cartone ricolmi dei vari prodotti (sapientemente mantenuti tiepidi grazie a strati di teli di iuta e di coperte incerate che li ricoprivano durante i viaggi), venduti agli avventori nei classici piccoli cartocci di color marrone. Rammento un particolare: mandorle, nocciole, arachidi e la restante frutta secca erano tostate con un procedimento naturale, lento ed efficace, all’interno di un vano in pietra, detto fornello, che sovrastava ciascuno dei tre forni a legna, per la cottura del pane, esistenti ed attivi nel paese. Nicola riponeva a rotazione la sua mercanzia nel fornello e la ritirava tranquillamente bella e pronta dopo alcuni giorni: niente lucchetti, niente porte chiuse a chiave, bastava solo l’occhio della fornaia perché tutto restasse integro al suo posto, fino all’ultimo semino. Davvero altri tempi! Con una bancarella a parte, più piccola, girava per le feste anche un fratello di Nicola, Brizio: si potrebbe parlare, quindi, di una vera e propria piccola dinastia di “nuciddrari”. Da notare che in


racconti salentini

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tutte le località che raggiungeva, Nicola, grazie alla sua lunga storia di commerciante e alla stima di cui godeva diffusamente, occupava con la sua baracca invariabilmente il posto più centrale ed “ambito”, attiguo alla “cassarmonica” su cui si esibivano le bande musicali, un punto dove la gente presente alla festa o transitava o si fermava. In verità, di venditori di noccioline, a parte Nicola (e il fratello), n’esistevano altri, ma quella bancarella emanava una sorta di speciale attrazione, quasi che fosse una calamita, sia per la simpatia della persona, sia per la buona qualità della merce. Nei saltuari spazi tra una festa e l’altra, Nicola – il quale, è bene ricordarlo, doveva mantenere una famiglia assai numerosa, anche se taluni componenti gli davano una mano – a cavallo di una vecchia bicicletta e con due grosse ceste di vimini appese ai lati del manubrio, girava, più spesso a piedi e raramente inforcando il mezzo, per le strade e i vicoli di Marittima, richiamando l’attenzione dei residenti con la sua voce possente:” Ove, ci tene ove!”. Ad ogni sosta o incontro con i paesani d’elezione, un saluto cordiale, una piccola chiacchiera. Chi scrive, da piccolo, la domenica mattina era solito sostare accanto alla baracca di Nicola e ascoltava i suoi discorsi con gli acquirenti, talvolta fatti

anche di confidenze e particolari circa i risultati del suo lavoro e le sue sostanze finanziarie. Di quei tempi, il massimo, come ricchezza, in un piccolo centro del sud, veniva considerato il possesso di una somma pari a un milione di lire; ebbene, un giorno, ricordo nitidamente, mentre si discorreva sul tema, il bravo “nuciddraro” ebbe a confessare che, se non avesse dovuto far fronte ad alcuni gravosi esborsi per ragioni di salute in famiglia, anche lui sarebbe arrivato a possedere il mitico milione di lire. L’ultimogenita di Nicola, Rita, una bella e dolce ragazzona dai capelli biondorossi, era pressoché mia coetanea: tra noi correva una buona intesa confidenziale anche perché Rita si era innamorata, con la pudicizia dell’epoca, di un mio amico. Da allora, non l’ho mai rivista e, purtroppo, ho recentemente appreso che, ormai tanti anni fa, ancora giovane, se n’è andata con il suo sorriso: ad ogni modo, nel mio immaginario, lei trovasi tuttora presente e viva come la simpatica ragazza di ieri conosciuta e frequentata in tempi ricchi d’entusiasmo e appaganti, e ciò anche perché io stesso mi sento esattamente, anzi null’altro che un ragazzo di ieri. Da più lunga pezza, il capo famiglia Nicola non abita più, né a Marittima, né a Calimera; probabilmente, anzi ne sono pressoché sicuro, è salito a vendere

noccioline e ad acquistare uova nel villaggio degli angeli, con la sua bancarella allestita tra esclusive luminarie di fichidindia e in prossimità di uno chapiteau di arcobaleni. Per chi è rimasto, la realtà bella e, diciamo così, miracolosa è che, in ogni caso, questa saga familiare continua a distanza di oltre mezzo secolo: nelle feste paesane che resistono e a cui mi capita di avvicinarmi, ritrovo, infatti, allestita al solito nel posto migliore e con la mercanzia più gustosa, la baracca dei Di Mitri, con Gino, il giovane dei miei ricordi, e suo figlio Leo intenti a vendere. Certo, ora, essi non si muovono con il traino, sostituito man mano da un moto furgoncino, un camioncino sino all’ultimo comodo furgone, ma, per il resto, la scena ed il rito sono immutati. Oltre che nelle feste, incontro Gino e Leo, con la bancarella, puntualmente la domenica mattina nell’affascinante piazzetta di Castro città e, ogni volta, è per me come fare un bagno nella distesa frizzante e profumata della fanciullezza. Di fronte, il fantastico spettacolo del Canale d’Otranto e spesso le montagne dell’Albania come sfondo. Può essere, la presente narrazione, uno spunto, a beneficio dei lettori, per eventuali partecipazioni alle feste paesane del territorio salentino e per una visita a Castro?


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in agenda

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Un mostro senza storia, feroce della ferocia barbarica che compie le sue persecuzioni... ...tutto questo ho trovato nascendo, e subito mi ha dato dolore: ma un dolore glorioso, quasi, tanto m’illudevo che il cuore potesse trasformare ogni dato, dentro, in un amore unificante…

Pier Paolo Pasolini, Il glicine da La religione del mio tempo

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“Tutto questo ho trovato nascendo”

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omaggio alle visioni di PPP al Fondo Verri il 6 e il 7 febbraio

e arti, il desiderio espressivo, si mischiano in “Tutto questo ho trovato nascendo – Omaggio alle visioni di Pier Paolo Pasolini” (Bologna, 5 marzo 1922 – Roma, 2 novembre 1975), le due serate che Massimo Pasca e Mauro Marino propongono il 6 e il 7 febbraio dalle 19.00, al Fondo Verri in via Santa Maria del Paradiso a Lecce, nel quarantesimo anno della tragica morte del poeta. La poesia, l’illustrazione, la fotografia e ancora la poesia in un gioco di rimandi tutti finalizzati all’incontro. Sei componimenti di Pier Paolo Pasolini - tratti da “Le ceneri di Gramsci”, “La religione del mio tempo, Poesia in forma di rosa” - sono stati scelti e affidati - omettendo titolo e autore - ad altrettanti illustratori; le matite e i pennelli Giu-

Spagine Fondo Verri Edizioni

seppe Apollonio, Gianluca Costantini, Adriano Imperiale, Valeria Puzzovio, Chiara Spinelli hanno creato la materia per una nuova ispirazione poetica… l’invito è stato “consegnato” a sei poeti: Marcello Buttazzo, Stefano Donno, Alessio Errico, Gabriele Leopizzi, Maira Marzioni e Ilaria Seclì. Ma non è bastato… come tutti sanno le immagini sono state materia fondante della complessa poetica di Pasolini: il cinema pagina su cui scrivere la radicalità del suo immaginario… Per rendere omaggio a questa qualità che ha reso unico e singolare Pasolini nel panorama intellettuale e creativo del suo Tempo ma anche dopo, sino a noi - Gabriele Antonio Albergo, Brizzo, Lorenzo Papadia e Giacomo Rosato sono stati invitati a dare ulteriori “luoghi” – con le loro fotografie - alle visioni

proste nelle due serate a questi si aggiunge (nella serata di sabato 7 gennaio dedicata al cinema pasoliniano) Massimiliano Manieri con la performance “Memoria dalle superfici: astinenza & redenzione”. Un percorso creativo di creativi per sostanziare l’urgenza di trovare nella contemporaneità riferimenti capaci di chiarirla per dare energia alla necessità - sempre aperta - del cambiamento: «“Un essere nel proprio tempo, nel quale la retorica - strumento dell'argomentare, del persuadere, dell'insegnare, leva essenziale di ogni "passione e ideologia" - è esibita, non velata, non nascosta, non lenita da strumenti di "sordina"». Si ringraziano per la collaborazione Ada Manfreda per la scelta dei testi e Giuseppe Arnesano per la nota critica che accompagnerà le illustrazioni.

Spagine è un periodico di informazione culturale dell’Associazione Fondo Verri esce la domenica a cura di Mauro Marino è realizzato nella sede di Via Santa Maria del Paradiso, 8.a , Lecce come supplemento a L’Osservatore in Cammino iscritto al registro della Stampa del Tribunale di Lecce n.4 del 28 gennaio 2014 Programma delle Attività Culturali della Regione Puglia 2015 Artigiana - La casa degli autori


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