L'osservatore in cammino

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L’OSSERVATORE IN CAMMINO Numero speciale • Pe(n)sa differente. Festeggia il tuo peso naturale! • Giugno 2014

in/differenze


Contenuti Domanda di apertura • 3 Corale • 3 Il mio vestito • 4

SILVIA DONGIOVANNI

cos’è la persona? un insieme di tante cose.

Le cose di adesso • 5 Mauro Marino

ILARIA CAPRIOGLIO

Intervista a Ilaria Caprioglio • 7 - 8 ROSSELLA ASSANTI

L’essere in sé • 9 - 10 ANDREA SAGNI

La paura del vuoto • 11 MICHELA MARZANO

Apologia del selfie • 12 TOMMASO ARIEMMA

Oltre la materia • 13 - 14 IRENE ESTER LEO

Il diritto all’opacità • 15 - 16 MAIRA MARZIONI

Verifica di impatto umano • 17 - 18 ILARIA SECLÌ

Raccontare l’anoressia • 19 - 20 ROSSELLA ASSANTI

L’abito etico • 21 SANTA SCIOSCIO

L’AbeccedarIO • 21 Pe(n)sa differente • 22-23 CATERINA RENNA

C’è MadamaDoré • 22-23

L’Osservatore in cammino è un progetto Artlab, Atelier per l’espressione e la produzione creativa, all’interno del quale competenze, vocazioni, capacità s’integrano e cooperano insieme. In particolare, scrittura e illustrazione interagiscono per dar vita a una rivista che si muove sul doppio binario della comunicazione, quello verbale e quello visivo. L’Osservatore non è solo una rivista di informazione culturale ma, soprattutto un cantiere libero ed aperto all’incontro, per accogliere nuove vocazioni ed attitudini, un luogo dove sperimentare e mettere a frutto l’inventiva e le capacità comunicative di quanti desiderino aderire al progetto. Chiunque abbia voglia di partecipare a questa avventura trimestrale, può inviare i suoi elaborati (scrittura, grafica o illustrazione), in formato elettronico, alla nostra redazione: info@losservatoreincammino.it

Le illustrazioni di questo numero dell’O sono di Chiara Spinelli. Diplomata presso l’Istituto Statale d’Arte G. Pellegrino di Lecce in Decorazione Pittorica, prosegue il percorso di studi artistici presso il Corso di Grafica Editoriale dell’Accademia di Belle Arti di Lecce. Nel corso di questi anni, ricchi di esperienza e formazione, sviluppa e approfondisce il disegno: l’Illustrazione. Partecipa e segue corsi di formazione, concorsi e inuagura il 16 Marzo di quest’anno, la sua prima personale di illustrazione presso il SUM km97. “È un tratto che mi rappresenta, figure, simboli e colori che descrivono una realtà nascosta in ognuna di noi: l’infanzia.”

Corale CUT-UP POETICO Leggendo il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry Mi sarebbe piaciuto cominciare questo racconto come una storia di fate non è solo per la fiducia che ripongo nelle mie sorelle... È che la fiducia, è così debole in questa terra di granito... un sentimento che può tenerti a galla o farti sprofondare senza lasciarti il tempo di combattere. Gli uomini hanno delle stelle, lì guardano ma non sono sempre le stesse: alcune sono raggiungibili con due soli passi... altre, invece, possiedono una scala esterna, chiedono un lungo cammino… Per gli uomini, libero è colui che domina. Non si può ammettere di soffrire, significherebbe riconoscere la nostra impotenza davanti al mondo. Nessuno capisce, ne tenta di trovare il bambino nascosto dentro sè. Dobbiamo imparare a sostenere i legami concreti quelli che spingono le persone fuori dall’isolamento nel quale la società tende a rinchiuderle. Guardando dritto davanti a sè non si può andare molto lontano. Quando si è finito di lavarsi al mattino, bisogna fare con cura la pulizia del pianeta. Triste, dicono sia triste, dimenticare un amico... doloroso, struggente l’essere dimenticati. Così capita al Mondo… Siamo salpati tutti sulla stessa barca e nella tempesta nessuno può salvarsi da solo. Sono molto belli i tuoi ricordi ma le parole non mi interessano mai... l’immaginazione è stanca, stremata, instabile. Voglio che le mie disgrazie vengano prese sul serio. Il più bello e triste del mondo, mi sento una luce senza ombre sono, pura limpida, penetrante… che possa riscaldare questo gelido cuore artefatto... era così sola, aveva bisogno di un amico. Di amici… Vuoi vivere, ma non puoi accettare che possa essere questo! I legami concreti sono la nostra salvezza. Se un gruppo ha un obiettivo comune non importa quali siano le difficoltà per raggiungerlo sarà proprio la volontà di ogni singolo individuo nel gruppo che riuscirà ad arrivarci. Soltanto con l’appoggio e l’aiuto dei nostri più cari affetti riusciremo a vincere questo male.

L’identità personale si specchia nell’identità corporea • 6

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di Silvia Dongiovanni

Il mio vestito

V

estirti da me. Perché? Vuoi che ti presti quell’abito rosso che soffoca insieme agli altri in questa scatola che non può più chiamarsi armadio. Perché? A te sta così bene, e poi è un Valentino. È il mio vestito. No, non sono un’egoista! Vestiti da te. Lo dico per te. Apriamo il tuo armadio, apriamo il tuo gusto, indossalo, indossa quello che tu sei. A me quel Valentino fa schifo, non fraintendermi, è di un bel colore, gran taglio, ottima fattura, ma non è stato punzecchiato da mille aghi per il mio corpo. Ti dirò la verità: la vedi quella rouche? Non c’era. E quella balza asimmetrica nemmeno. Ce li ho messi io. Sì, sarà un Valentino sull’etichetta, ma è il mio vestito. Mi sta bene per questo, perché l’ ho rivestito di me. Apriamo il tuo armadio, amica. Vedi? Ma come schifo! Sei tu: quei fiori gipsy, quelle stampe coloratissime, quei jeans vintage. Ecco, questo è il tuo vestito. Ricordo quando la scorsa estate tua mamma te lo regalò per il compleanno, lo odiasti all’istante, ma è un Gattinoni. Però con quel giacchetto sfilacciato addosso ti stava da dio. E’ tuo. Parliamo piuttosto dell’odio per quel vestito, odio per lui o risentimento per tua madre, che spera di comprarti comprando. Odio per lui o per la 38 bionda occhi blu che lo indossa sul catalogo? Odio per le ultime due settimane di agosto in cui ti si vedeva la pancetta e non potevi più indossarlo. Lo sai che ora ti andrà un po’ largo, vero? Riesci a vederlo, a vederti? Guardati. E’ passato un anno e a me sembra sia passata una vita schifosa, triste, piena di vuoto, strabordante di pensieri acconciati come una chioma dalle mille trecce. Non sorridere così, non con me, non vestirti da me, non servirebbe a nulla. Io amo i tuoi abiti, amo te, ma se continui così non ti riconosco più. Strappa quel poster di Giselle, quello di Kate. Non è quella la moda. La moda è arte, l’arte è libertà, la libertà è persona, la persona sei tu. Non te la prendere con i vestiti, con le top, con la 38 capelli biondi occhi blu. Il vestito deve essere il tuo. Sono stanca ora, ho fame. Andiamo a fare merenda, magari va via quel grigio che hai in viso. Sarai stupenda stasera. Domattina porto cornetti a colazione, voglio che mi racconti tutto. E voglio trovarti col pigiamone, non con quella roba trasparente della pubblicità. Sei bella. Sei tu.

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Editoriale

di Mauro Marino

Le cose di adesso

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l tavolo è nella luce. Una nuova “casa” dove incontrarsi al mattino per sapere i giorni della cura. Quante passioni intorno a quel tavolo. Quanto cercare. Portano nomi e ogni nome suona una storia. Solisti che trovano luogo. Adesso son coro, tentano almeno divenirlo, un noi. Scambiano sguardi ed è bello vederli pian piano aprirsi, conquistare il sorriso, trovare parole di coraggio, di fiducia, valicare l’angusto del “no”. Farsi corpo, finalmente. Nascere sì, proprio nascere, accogliere la consapevolezza, mutarla in forza, farla méta, nuovo cammino. Le mani prese al fare “sconcertano” il pensiero, lo distraggono dall’assedio, dall’ossessione, dalla monotonia della malattia. Tutto può trasformarsi, anche una vita pensata storta, pensata tradendo il corpo. “Speriamo di farcela...”, “Ce la faremo!”... “Ce l’abbiamo fatta!” Ce l’ha fatta il Centro per la Cura e la Ricerca sui Disturbi del Comportamento Alimentare del DSM della Asl di Lecce - la fucina dove è nata questa rivista - da pochi mesi è nella sua nuova sede, lungo il viale dell’ex-Opis in quello che fu il II° Padiglione Donne. Un luogo liberato dallo “stigma” della follia, più volte attraversato negli anni – dal 1998 (anno della definitiva chiusura dell’Ospedale Psichiatrico di Lecce) ad oggi – dalla città con incontri, feste, appuntamenti dedicati alla conoscenza e alla sensibilizzazione sui temi dei Disturbi del Comportamento Alimentare, del pe(n)sare differente... Un nuovo cammino si è aperto, nuove opportunità, nuove possibilità, come la neonata MadamaDorè, associazione delle famiglie e degli amici di persone con problemi di anoressia, bulimia e disturbo da alimentazione incontrollata. Un altro passo nel nome del “noi”, un allargamento di fronte, un nuovo aiuto e un nuovo riconoscimento al lavoro sin qui fatto. Certo, c’è ancora tanto da fare, da migliorare! Questo numero dell’Osservatore in cammino aggiunge un tassello al confronto, alla discussione, alle proposte. Alla battaglia di ogni giorno per migliorare la vita di chi ha dimenticato la bellezza scegliendo di inseguire il fantasma della “perfezione”.

Corsivo

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Incontri

di Ilaria Caprioglio

APPArE QuANTO MAI urGENTE AIuTArE A rICOMPOrrE IL CONFLITTO INTErIOrE FrA IL MODELLO IDEALE IrrAGGIuNGIBILE E LA rEALTÀ, COSTITuITA DALLE PECuLIArITÀ COrPOrEE CHE CArATTErIZZANO OGNI INDIVIDuO

di Rossella Assanti

Intervista con Ilaria Caprioglio

L’identità personale

Nell’ombra della moda

nell’identità corporea

Anoressia, bulimia, sono i principali disturbi del comportamento alimentare. Sono una guerra combattuta sul proprio corpo, il controllo sprofonda in quella bilancia dove i numeri continuano a scendere e diventano un obiettivo, un traguardo. E’ la guerra di quel silenzio dove il corpo muta in parole, sfiorare la propria magrezza è sentire come una lama tagliente la sofferenza dell’anima. Ilaria Caprioglio, avvocato e modella, ci ha raccontato la sua esperienza in quel tunnel apparentemente senza fine, asfissiante che è l’anoressia.

I

n passato gli specchi erano piccoli, rari, preziosi e adornavano i palazzi dell’aristocrazia: i volti e i corpi, in un mondo senza specchi, venivano percepiti solo attraverso lo sguardo altrui, «dallo sguardo allo specchio sono derivati non solo il gusto per l’apparenza ma anche una nuova geografia del corpo che dona immagini sconosciute e accende il sentimento della coscienza di sé». (1) Un sentimento spesso tormentato, poiché il rapporto che l’uomo instaura con la sua immagine riflessa, quando in questa non si riconosce appieno, si risolve inevitabilmente in un rapporto conflittuale. Non riusciamo più a prescindere dal riflesso di noi stessi: lo ricerchiamo anche attraverso le fotografie che scattiamo e immediatamente controlliamo sulla macchina digitale o sul cellulare. Stiamo vivendo in un’epoca nella quale, come sostiene il politologo Giovanni Sartori, il video ha trasformato l’homo sapiens in homo videns, (2) nella quale cioè l’immagine ha spodestato la parola e di conseguenza l’immagine del corpo ha assunto un ruolo centrale nella costruzione dell’autostima di ciascun individuo. Il nostro aspetto è sempre stato il primo biglietto da visita speso nell’approccio con l’altro ma, ormai, sembra essere diventato anche l’unico: orfani come siamo del tempo e della volontà di andare oltre, ponendoci all’ascolto, coltivando il silenzio. Per questo motivo la ricerca dell’identità personale passa, spesso, attraverso l’identità corporea: «il corpo è diventato il luogo dove si esprime il potere e si esercita la repressione». (3) Risulta difficile emanciparsi da questa costruzione sociale di bellezza sinonimo di magrezza e gioventù. È diventata, dunque, un’esigenza improcrastinabile far comprendere, soprattutto ai giovani, che la centralità della persona consiste nel sentirsi unici senza bisogno di essere copie conformi a un modello prestabilito. Un modello che, spesso, induce a vivere il corpo con imbarazzo, a causa della sproporzione fra l’immagine socialmente richiesta e la propria che si rispecchia negli sguardi e nelle reazioni altrui, ricevendo da queste ultime un immediato e, talvolta, impietoso feedback. Appare quanto mai urgente aiutare a ricomporre il conflitto interiore fra il modello ideale irraggiungibile e la realtà, costituita dalle peculiarità corporee che caratterizzano ogni individuo. L’univocità del modello quotidianamente proposto è evidente: sarebbe quindi necessario educare i giovani a una visione corretta delle immagini che li bombardano sin dalla più tenera età. Il mondo adulto, sempre più fragile e privo di regole, dovrebbe assumersi l’onere di adottare una tipologia alternativa di vera libertà che non derivi dall’essere in possesso di qualcosa, siano essi mezzi economici o requisiti fisici, bensì che appartenga all’essere, «alla grandezza del suo desiderio, vero propulsore della vita e delle opere, capace di dilatare il campo delle possibilità, andando oltre il limite, tramutando l’ostacolo in punto di leva, trovando sempre nella mancanza l’opportunità». (5) Ma anche le generazioni alle quali spetterebbe questo compito si sono uniformate e non sono più in grado di fornire l’esempio che sta alla base di ogni processo di identificazione.

1 Sabine Melchior-Bonnet, Storia dello specchio, Dedalo, Bari 2002 2 Giovanni Sartori, Homo videns, Laterza, Roma-Bari 2000 3 Simonetta Marucci, Laura Dalla Ragione, L’anima ha bisogno di un luogo, Tecniche Nuove, Milano 2007. 4 Pierre Bourdieu, Il dominio maschile, Universale Economica Feltrinelli 2009. 5 AA.VV., Ricomporre Ipazia, Tribaleglobale Primary Art, Genova 2010.

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Le andrebbe di raccontarmi la sua storia? La mia esperienza come modella, iniziata nel 1988 con la vittoria del concorso internazionale Super Model of the world, sono solita definirla con luci e ombre. Le luci, come i flash dei fotografi accanto alla pedana di una sfilata o la perfezione profusa nelle riviste patinate, abbagliano chi osserva dall’esterno quel mondo. Le ombre, invece, sono meno glamour e, difficilmente, vengono percepite all’esterno: nel mio caso sono scaturite dal senso di solitudine, dovuto allo sganciamento dagli affetti familiari, e dall’incontro con i disturbi del comportamento alimentare. Ammalarsi di anoressia svolgendo un mestiere che si avvale della magrezza eccessiva non sorprende, anche se ritengo corretto sottolineare come non tutte le modelle siano anoressiche. Tuttavia è sufficiente una frase, un commento insinuato con noncuranza da uno stilista o dall’agente che ti rappresenta per gettare, su un terreno fertile, il seme dal quale germoglierà la malattia. Il corpo rappresenta lo strumento di lavoro, già perfetto ma sempre perfettibile, e la perfezione diventa una questione di centimetri: quelli del seno, della vita, dei fianchi. Ero cresciuta senza curarmi troppo delle mie misure ma, quando mi accolsero in agenzia con il metro per verificarle e riportarle sul composit diventarono presto la mia ossessione. Capii immediatamente che se riuscivo a “limare un po’ il fianco” potevo sfilare per uno stilista in più nella settimana della Milano-Collezioni. Iniziai così ad alleggerire i pasti tagliando i carboidrati, la pasta, il pane, i dolci e poi proseguii eliminando le proteine, i condimenti, i latticini fino ad arrivare a nutrirmi di mele e yogurt. Più l’ago della bilancia scendeva e il metro si stringeva intorno ai miei fianchi, più l’autostima saliva e il delirio di onnipotenza, nel constatare che riuscivo a modificare il fisico con la ferrea volontà, aumentava. Vivevo un delirio di onnipotenza che non mi permetteva di cogliere i segnali d’allarme che il corpo in riserva mi stava lanciando: la scomparsa del ciclo mestruale e il senso di spossatezza che costantemente mi attanagliava. Ero malata di dismorfofobia, percepivo in modo errato la mia immagine riflessa nello specchio: vedevo una perfetta indossatrice e non una giovane donna ormai ridotta a pelle e ossa. Dopo aver lavorato a New York e Parigi, arrivai a Monaco di Baviera e a quarantasei chili per centottantuno centimetri di altezza, la mia granitica forza di volontà si sbriciolò lasciandomi sola in balia di un intenso freddo fisico e psichico, di un improvviso vuoto interiore da colmare con il cibo. Il desiderio di cibo, in precedenza rimosso, divenne la mia ombra, il pensiero fisso che mi accompagnava durante gli scatti del fotografo o i provini. Lo assecondavo entrando nelle pasticcerie per comprare i dolci più ricchi di calorie che avrei divorato, al riparo da sguardi indiscreti, in totale solitudine. Mangiavo senza piacere, con voracità e rabbia, sforzandomi di terminare tutto quello che c’era finché il senso di nausea mi assaliva e io mi addormentavo con un sentimento di inadeguatezza e il proposito che quella sarebbe stata l’ultima volta. “Da domani smetto” mi ripetevo, sapendo di mentire a me stessa, mentre il peso aumentava e diminuiva, proporzionalmente, la forza di volontà. Raggiunsi i settanta chili e la convinzione del mio totale fallimento: a quel punto la depressione mi incontrò e in sua compagnia consumai qualche anno della mia esistenza.

si specchia

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L’intervista

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Tematica

Quanto crede che influiscano negativamente sulle ragazze o sui ragazzi i media, i quali spesso ritraggono persone che “incarnano” apparentemente la “perfezione”? Erodoto scriveva “Portano il malato in un luogo di mercato affinché le persone che hanno sofferto di qualcosa di simile lo possano consigliare” e io utilizzo sovente questa frase per giustificare la mia titolarità a parlare di pressione mediatica e disturbi del comportamento alimentare durante i convegni medici o gli incontri con gli studenti. Il progetto di educazione alimentare per le scuole “Mi nutro di vita”, realizzato dall’omonima associazione della quale sono vice presidente e che è promotrice della Giornata Nazionale del Fiocchetto Lilla, è finalizzato alla sensibilizzare dei giovani sui problemi legati ai disturbi alimentari e all’alimentazione scorretta indotti dallo specchio deformante della nostra società e a illustrare, in seguito, i principi alla base di una corretta alimentazione, non omologata o imposta da cattivi maestri. Cattivi maestri sono la televisione, il mondo del web e della moda che, complice l’agonia delle istituzioni famiglia e scuola, hanno assunto ormai una funzione didattica proponendo un modello corporeo al quale tutte le generazioni tendono ad aderire, percependo il proprio aspetto come inadatto e inaccettabile. In questi anni trascorsi con gli studenti, ma anche con i miei tre figli, ho ritrovato in loro le vulnerabilità della mia adolescenza, quell’ingrato periodo di transito che ci traghetta dall’infanzia all’età adulta. Un momento nel quale le incertezze dominano la vita affettiva e il futuro professionale appare lontano e confuso: solo il corpo viene percepito come una proprietà di cui poter liberamente disporre per rendersi visibili e individuarsi nella società. Mi rivolgo a loro per far comprendere quanto siano fallaci i modelli proposti e di come sia importante portare avanti con orgoglio e consapevolezza le proprie qualità fisiche e le proprie attitudini mentali. Sorprendentemente i giovani ascoltano, desiderosi di rintracciare finalmente nel mondo adulto dei modelli coerenti e autorevoli ai quali ispirarsi. Eppure quella tempesta interiore si placherà un giorno, il cibo non sarà più il nemico da combattere, il corpo non sarà più un foglio bianco sul quale segnare i chili che separano dalla vita. La solitudine, l’assenza di un punto fermo, il vuoto, non stringeranno più così forte. Da quelle profonde ferite dell’anima nascerà una primavera di parole e vita. La guerra sarà finalmente finita.

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L’essere in sé

ALLA RICERCA DI UN’IDENTITÀ PERCORRIBILE? MEGLIO PARTIRE DALL’INDEFINITO Nella nostra società, è sempre più raro interrogarsi sul significato delle parole, soprattutto le più utilizzate, quelle che a prima vista paiono fornirci definizioni certe e rassicuranti. Ed è sempre più difficile accettare ciò che è indefinito. In generale, si ha la tendenza a cercare certezze, baluardi sicuri cui aggrapparsi, definizioni date una volta per tutte in grado di incasellare il reale. Ed ecco che in questa nostra epoca, dove precarietà, alterità, discontinuità, costituiscono una costante sfida per il pensiero, alcune nozioni prendono il sopravvento in virtù della rassicurante – e fittizia - capacità di far risuonare in noi certezze definitive. Tra queste, la nozione di identità pare un’evidenza: ognuno ha la propria o, almeno, deve costruirsene una, per potersi affermare. Un’individualità completa, compatta, possibilmente indiscutibile. Ma che cosa vuol dire “identità”? Raramente ce lo si chiede. Quello che importa è raggiungere quel senso di pienezza e di autosufficienza cui questa nozione rinvia. Un “Io” monolitico che si crede assolutamente indipendente e che pare essere in grado di definirci, di catturarci in una posa. E laddove non si riesce a darsi una cosiddetta “identità”, si è spesso disposti ad ancorarsi a quella che ci danno gli altri. Perché senza di essa, crediamo di mancare di consistenza, privi di strumenti per far fronte alla paura dell’indefinito, di ciò che è più specificatamente umano. Perché, a ben guardare, l’identità con l’umano centra ben poco. Basti pensare al fatto che, come fa notare l’antropologo François Laplantine, la nozione di identità nasce a partire dai discorsi medievali della filosofia scolastica che designava con essa gli attributi della divinità: la sua onnipotenza, la sua eternità, la sua immutabilità. Una nozione che prese forma nell’ambito della teologia, dove l’identitas designava l’essere in sé - semper idem e semper unum - sempre uguale a se stesso e al di fuori del tempo: un’unità completa che nulla ha di molteplice e plurale. Ecco allora che le difficoltà sorgono nel momento in cui si tenta di trasportare ciò che è stato pensato nel dominio della teologia in quello della psicologia e della sociologia.Certo, dal punto di vista delle scienze umane, la nozione si è per così dire evoluta. Ma nel pensiero comune si ha la tendenza a credere, che per realizzarsi come persone, quest’identità vada affermata quasi fossimo delle divinità autosufficienti e cristallizzate. L’identità nega il carattere cangiante, plurale e contraddittorio dell’umano. Rifiuta l’infinità dei punti di vista su ciò che è potenzialità o divenire, mettendo spesso a tacere tutto quello che possa metterla in discussione, come quell’alterità che ci abita, quelle contraddizioni e fratture, con cui è difficile fare i conti. E allora si teme il vuoto, che va a tutti i costi colmato, perché bisogna sempre essere completi. Si ha paura del corpo, che va controllato e manipolato, in modo che sfugga ai segni del tempo e della nostra finitezza. Si rifugge tutto ciò che costringe a ripensarci, neutralizzando l’insolito, cancellando l’indefinito, affibbiando o accettando etichette. Si nega la precarietà del vivere, quasi fossimo delle essenze piuttosto che delle esistenze. Ma per quanto questa volontà di controllare tutto sia forte, c’è sempre qualcosa che ci sfugge. Ed ecco allora che quando quell’io monolitico cui ci si era aggrappati crolla, crolliamo anche noi. Precipitando talvolta nel baratro della disperazione.

Cosa l’ha spinta a rinascere, a scegliere la vita? Quando ha iniziato a vedere il cibo non più come un nemico, come uno strumento sul quale scaricare tutti i dolori dell’anima, ma come un nutrimento? Vent’anni fa si parlava poco di disturbi del comportamento alimentare, erano considerati il capriccio delle ragazze viziate non una malattia vera e propria: si soffriva in clandestinità, provando uno sconfinato senso di vergogna e di sconfitta. La paura di confidarmi, mettendo a nudo le mie fragilità innalzò un muro fra me e il mondo. Da quel totale isolamento, dall’apatia di giornata trascorse a interrogarmi sul senso della mia vita e a rovistare fra gli avanzi di cibo, mi strapparono poche frasi pronunciate, con smisurata dolcezza e accorata partecipazione, da chi quella strada l’aveva già percorsa tutta. La scintilla, che mi rimise al mondo, scoccò con chi aveva vissuto lo stesso disagio e con lo sguardo mi spiegò che non mi giudicava, bensì mi comprendeva e ascoltandomi mi sosteneva nella rinascita. Il percorso di guarigione è stato lento, simile alla marcia di un granchio tuttavia, consapevole della mia vulnerabilità, avevo ormai affinato le tecniche per fronteggiarla. Uno degli strumenti dei quali mi sono servita è stata la scrittura autobiografica che mi ha aiutato a far chiarezza in me stessa. Annotavo le mie esperienze di sofferenza, cercando di riordinare le sensazioni che mi opprimevano attraverso la narrazione di cosa stavo vivendo. Avevo tracciato un punto fermo su ciò che era stato, smettendo finalmente di ripetermi sempre domani, domani mi impegnerò a riemergere. Potevo rileggere quanto avevo scritto e trovare la forza per urlare mai più. Dopo aver pubblicato il libro “Milano Collezioni andata e ritorno” (Liberodiscrivere edizioni) mi sono resa conto che altri si riflettevano nelle mie parole di dolore, comprendendo di non essere soli nel loro cammino di rinascita. Scrivere la propria storia rappresenta un sollievo per chi la narra e un’inestimabile risorsa per chi la legge, rendendo il sapere dell’esperienza prezioso e ponendolo al servizio degli altri.

di Andrea Sagni

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di Michela Marzano

CHI DI NOI NON È MAI PERSEGUITATO DALL’ASSENZA DI QUALCOSA O DI QUALCUNO? CHI DI NOI POTREBBE AFFERMARE CON CERTEZZA DI “AVERE TUTTO” E DI “ESSERE TUTTO”?

Da dove partire allora per ricercare un po’ di consistenza? Forse, si potrebbe incominciare prendendo in considerazione proprio il nostro carattere indeterminato, costituito da tutte quelle possibilità e quei limiti che ci caratterizzano e da quella capacità di libertà che proprio da questa indeterminatezza proviene. Prendendo in considerazione la nostra vulnerabilità, il nostro essere sempre incompleti e la conseguente dipendenza strutturale dal riconoscimento dell’altro, vedremo come questa nostra condizione di esposizione alla precarietà e al vuoto, della quale non siamo responsabili, crei al tempo stesso le basi sulle quali possiamo assumerci la responsabilità di ciò che diveniamo. Si tratta di riconoscere il proprio valore, la novità di ciò che si è, a partire dalla propria incompletezza e dall’incapacità di poter rendere pienamente “conto di sé”, definendosi una volta per tutte. Si tratta della promessa, ogni giorno rinnovata, di essere fedeli a se stessi, accettando di mettersi in discussione, aprendosi alla coesistenza con e per l’altro. Non un impegno cieco nei confronti di un’identità data o che dovremmo darci, ma un dispiegamento di sé che ci fa essere soggetti sempre in divenire. Quella fragile promessa di essere se stessi, che non è altro che la consapevolezza del proprio valore, al di là di ogni definizione.

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La paura del vuoto

Viviamo in un’epoca in cui niente sembra farci più paura del “vuoto”. Ecco perché siamo disposti a fare qualunque cosa pur di non sentirlo. Con frenesia e accanimento. Anche quando corriamo il rischio di smarrirci, e di perdere di vista il senso della nostra vita. Tutto, tranne il vuoto! Tutto, tranne quel terrore di scivolare nell’abisso, in quella frattura che si apre in noi all’improvviso e che potrebbe risucchiarci. Senza renderci conto che è proprio quel vuoto che talvolta sentiamo sorgere in noi che ci permette di vivere e di creare, di trasformarci e di desiderare. Perché se fossimo veramente “pieni” non avremmo più bisogno di niente. E ci soddisferemmo di un eterno presente, senza più speranza e senza più futuro. In una lettera al fratello Paul, Camille Claudel scrisse un giorno che c’era sempre “qualcosa di assente” che la perseguitava. Riuscendo così, in poche parole, a darci una delle più belle definizioni della condizione umana. Chi di noi, d’altronde, non è mai perseguitato dall’assenza di qualcosa o di qualcuno? Chi di noi potrebbe affermare con certezza di “avere tutto” e di “essere tutto”? Il vuoto è un segno d’umanità. È il segno tangibile della nostra vulnerabilità e dei nostri limiti. È la traccia di quel desiderio che ci portiamo dentro e che ci spinge ad incontrare gli altri, ad avere dei progetti, a fare di tutto per realizzarli. Forse è per questo che non lo si potrà mai colmare completamente. E che l’unica cosa che l’essere umano possa fare per imparare a convivere con il vuoto che si porta dentro, è cercare di “attraversarlo” insieme ad un’altra persona. Anche lei consapevole delle proprie mancanze e delle proprie fratture. Il vuoto ci accompagna. Ed è solamente quando la smettiamo di combatterlo, che può diventare un luogo fertile: una piega in cui l’anima si rifugia per generarsi e trovare nuove energie; una frattura da cui scaturiscono il pensiero e la scrittura, anche semplicemente per trovare le parole giuste per nominare quello che ci manca e che ci mancherà per sempre. Un sorriso. Una carezza. Un figlio. Tutto quello che non si ha e che si vorrebbe avere. Nonostante si abbia già tanto.

Michela Marzano è nata a Roma, dopo aver studiato alla Scuola Normale Superiore di Pisa e avervi conseguito un dottorato di ricerca in filosofia, è diventata professore ordinario e Direttore del Dipartimento di Scienze Sociali (SHS - Sorbona) all’Università Paris Descartes. Autrice di numerosi saggi e articoli di filosofia morale e politica, ha curato il Dictionnaire du corps (2007) e il Dictionnaire de la violence (2011). Fra i suoi libri, alcuni dei quali tradotti in diversi paesi: Penser le corps (2002), La fidélité ou l’amour à vif (2005), Je consens, donc je suis... (2006), La mort spectacle (2007), L’éthique appliquée (2008), Visage de la peur (2009) e Le contrat de défiance (2010). Con Mondadori ha pubblicato Estensione del dominio della manipolazione (2009), Sii bella e stai zitta (2010), Volevo essere una farfalla (2011), La fine del desiderio (2012) e Avere fiducia (2012). Nel 2013 con Utet ha pubblicato L’Amore è tutto – è tutto ciò che so dell’amore. Dirige una collana di saggi filosofici per le Edizioni PUF e collabora alla «Repubblica». Attualmente è deputato del Parlamento italiano. Twitter: @MichelaMarzano

SI TRATTA DI RICONOSCERE IL PROPRIO VALORE LA NOVITÀ DI CIÒ CHE SI È

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di Tommaso Ariemma

Scritture

di Irene Ester Leo

COME LO SPECCHIO, L’AuTOSCATTO O LA FOTO DI SÉ DIVENGONO STruMENTI PEr ESAMINArSI ALLA LuCE DEI CANONI CIrCOLANTI

FOrSE NON OCCOrrE SOLO VEDErE, COSÌ FOSSE SArEBBE SOLO uN VIrTuOSO ESErCIZIO DI rICONOSCIMENTO ESTETICO IL GuArDArE, E PEr TALuNI LO SArÀ. MI PIACE PENSArE CHE LA VISTA SIA uN VALOrE AGGIuNTO NON uN VINCOLO

Apologia del selfie

Oltre la materia Oltre - la materia #1

Tommaso Ariemma, dottore di ricerca in Filosofia, insegna Estetica presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Immagini e corpi. Da Deleuze a Sloterdijk (Aracne 2010); Contro la falsa bellezza. Filosofia della chirurgia estetica (Il melangolo 2010); Estetica. Manuale per giovani artisti (Aracne 2012); Il mondo dopo la fine del mondo. Facebook, l’arte contemporanea, la filosofia (et al. 2012); Estetica dell’evento. Saggio su Alain Badiou (Mimesis 2012); Il corpo preso con filosofia. Body building, chirurgia estetica, clonazioni (Il Prato 2013); Canone Inverso. Per una teoria generale dell’arte (Villaggio Maori 2014).

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Quanto ci affidiamo ai nostri sensi?

Alla vista, soprattutto alla vista. Ci basta vedere per ipotizzare di aver capito. La vista è veloce e pratica, simultanea al pensiero, quasi. Privi di vista non potremmo gustare un bellissimo quadro, sfiorarne con lo sguardo le cromie o leggere un libro o inviare una lettera, un messaggio. Non potremmo guardare il profilo di chi amiamo, la sua carnagione, il colore dei suoi capelli, ma ancora quanto ne siamo influenzati? Tutto quello che ci passa sotto lo sguardo bombarda la nostra corteccia cerebrale di messaggi subliminali o anche poco subliminali. Siamo nell’era dell’occhio.

Oltre - la convenzione costante #2 Una formica sotto la scarpa di un uomo non ha la più pallida idea di come sia un volto umano. E noi, di fronte al volto di un uomo ignoriamo nella stessa maniera come sia il suo cuore. Milena Jesenská (1896-1944), donna amata da Kafka, scriveva così e celebri furono le lettere scambiate con l’amato suo uomo e scrittore che noi conosciamo bene per i suoi trascorsi letterari fatti di punte e veli, di materia insondabile ma bellissima, sincera. Pensavo di fronte a queste parole alla piccolezza dell’agire, alla supponenza con la quale spesso ci accostiamo agli altri (e con ‘’altri’’ non intendo una persona specifica, o forse tutti), ognuno di noi crede, immagina, il cuore della persona che ha di fronte. Può scorgere una ruga d’espressione agli angoli delle labbra ed allora sa che è felice, può vederla diventare rossa, allora immagina provi imbarazzo, può guardarle gli occhi che lasciano scivolare lente lacrime e intuisce un dolore. Ma questo ‘’immaginare, sapere, intuire’’ è relativo. Il cuore resta lontano e nascosto e subentra un vizio di comunicazione prima e interpretazione poi dannatamente pericoloso. Quello che si vede non sempre è. Perchè è chiaro che siamo ciò che gli altri vedono di noi, e questa immagine a volte è concava a volte convessa, a volte solo di rado coincide con il vero, quando subentra non lo sforzo di capire ma quello di sospensione: la sospensione di giudizio. Allora in quell’istante non cercando nell’altro pregi o difetti che in realtà sono nostri, ci appare nella sua interezza. Ed il cuore che è legato all’anima che è legata alla pelle che è legata alle ossa che sono legate alla mente...si apre come in un meccanismo lento ma prezioso, si apre e forse era sempre aperto. Solo che noi ci ostinavamo a non guardare l’altro ma noi stessi. * Marta Toraldo - Vie fuggitive è edito da I libri di Icaro

Secondo l’autorevole Oxford Dictionary, “Selfie” è la parola del 2013. Stigmatizzata per lo più dagli studiosi, la diffusa pratica dell’autoscatto fotografico fatto circolare sui social media rappresenta l’ultima forma di ciò che filosofi come Michel Foucault e Thomas Macho hanno chiamato rispettivamente tecnologie del sé e tecniche di solitudine. A differenza delle antiche tecniche di solitudine, miranti alla costruzione della celebre cittadella interiore, la pratica del selfie ne rappresenta piuttosto la versione pop, nella misura in cui si fa carico della ricerca dell’indistinzione, tra celebrità e persona comune, propria della visione del mondo della Pop Art. In questo senso essa è, curiosamente, l’unica tecnica di solitudine capace di soddisfare il motto, molto apprezzato da Montaigne: “Necessiti soltanto, quando sei solo, si essere popolo a te stesso”. Una tale pratica si situa in quella dimensione dove si incontrano tecniche dell’immagine e tecniche del corpo, dove si gioca cioè la costruzione della nostra identità corporea e la sua condivisione estetica e sociale. C’è sicuramente una linea rossa che unisce l’autoritratto artistico e la pratica del selfie. Hanno, innanzitutto, un’origine comune: non tanto l’impulso narcisistico, ma un’esposizione di sé come “risposta” a un’invasione di immagini. All’origine dell’autoritratto artistico c’è l’esigenza per l’artista, in epoca moderna, si separarsi dall’artigianato e dall’asservimento della sua capacità di produrre immagini. In epoca postmoderna, questa capacità di produrre immagini di sé e di condividerle si è enormemente diffusa, ma non ha cambiato la sua ragione: una resistenza alla produzione incessante delle immagini, che veicola modelli, icone, e che negli anni è stata all’origine di sofferenze simboliche per tutti quei soggetti che non avevano le caratteristiche dei modelli dominanti (magrezza, tonicità, muscolosità, prosperosità). Certo, fin dalla nascita della fotografia gli individui hanno avuto presto la capacità di produrre immagini di sé, ma questa produzione, in mancanza di una distribuzione capillare, era funzionale alla pressione del modello imposto e diffuso: forniva piuttosto la prova oggettiva che non si assomigliava all’icona. Come lo specchio, anch’esso diffusosi progressivamente, l’autoscatto o la foto di sé divengono strumenti per esaminarsi alla luce di canoni circolanti. La propria foto non poteva competere con la popolarità, i ritornelli, delle icone della società dello spettacolo. Adesso, con la complicità della diffusione dello smartphone, unito alle potenzialità dei social network, l’effetto sociale della pratica del selfie è sorprendente. Come giustamente ha osservato Boris Groys: “Ai pochi scelti che proponevano immagini e testi a milioni di lettori e spettatori sono subentrati milioni di produttori che emettono altrettante immagini e parole per uno spettatore, il quale non ha mai avuto tanto poco tempo per osservare”. Alimentando la varietà e un più democratico contagio estetico, nella pratica del selfie viene promossa una tecnologia del sé esposta ai luoghi e agli stili, a quell’essere insieme che ci indefinisce.

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di Maira Marzioni

PER GUARDARE POSSO ANCHE SMETTERE DI VEDERE. ORA SENTO Siamo ancora in grado di procedere ad occhi chiusi?

Ascoltavo Camille Saint-Saens, (Danse Macabre), ho cominciato ad immaginare, ad ogni salire o scendere della musica mi sono prefigurata una proiezione unica di colori e profumi, pronta a farsi spazio nel nero della creazione simbolica della mente. Eppure quanto fa battere il cuore stringere al buio nel silenzio della notte la persona che amiamo, senza vederla. Percorrerne la pelle solo con il tatto, ridisegnarla e fissarla in maniera più profonda attraverso l’epidermide. Affidarci all’olfatto per ritrovare la strada di casa, sentire l’odore della panetteria all’angolo della strada, dell’erboristeria accanto all’edicola fino alla pioggia che ha reso vivo il respiro dei pini baciati dall’acqua. E poi il sapore dei biscotti caldi che slega tutta una serie di morbide sensazioni dell’infanzia. Forse non occorre solo vedere, così fosse sarebbe solo un virtuoso esercizio di riconoscimento estetico il guardare, e per taluni lo sarà. Mi piace pensare che la vista sia un valore aggiunto non un vincolo. Questo mi dico mentre scrivo alcuni versi sul mio taccuino viola che sarebbe viola anche se non lo vedessi, avrebbe l’odore dell’ambra e delle violette, il sapore delle more e la voce del vento di tramontana tra le sterpaglie. Il serissimo gioco della sinestesia così caro agli artisti è così straordinariamente fascinoso e radicato... Sarebbe bello, svegliarsi un giorno vedendo il suono delle cose, gustando il sapore del cielo, sentendo la fresca immagine della gioia. Un noto critico scrisse che per amare un’opera d’arte occorre guardarla ma per comprenderla occorre chiudere gli occhi. Io stessa mentre scrivo, penso che il salto verso l’ignoto delle cose si muove su due livelli quello “visto’’ e quello “immaginato’’...e penso che le mie parole potrebbero somigliare se non avessero immagine iconografica convenzionale (consonanti e vocali) a questa musica. Mi fermo un secondo ad occhi chiusi a percepire l’ora di questo pomeriggio, sentire la luce delle quattordici come una carezza di velluto piano e morbido, ha il sapore dell’uva rotonda nella forma anche, con quel lieve effluvio di rosa. Per assurdo la scrittura mi ha indotto alla cecità del plausibile. Ora per guardare posso anche smettere di “vedere’’. Ora “sento’’.

IN DEFINITIVA NON C’È NIENTE DI DEFINITO. L’INDEFINITO CONDUCE AL MOVIMENTO, PORTA AL CAMBIAMENTO. DEFINITO È IL NIENTE

Il diritto dell’opacità S

e mi chiedono se lavoro la risposta è indefinita, se mi chiedono cosa faccio anche. È difficile sostenersi quando non si sta nelle definizioni, lo è ancora di più quando al contrario dentro e nel corso dei giorni si ha dimestichezza con la forma molle di sè, ne si conoscono i confini, seppur mutevoli. So che cos’è per me lavoro, lo costruisco da anni e da poco ho anche imparato da me stessa dove voglio mettere le energie, il tempo, in cosa voglio crescere, cosa voglio imparare, dunque si direbbe che io sia definita, eppure mi tocca sempre tergiversare davanti alla domande secche e anti-materiche delle persone. Chiedermi: «Lavori adesso?» è una domanda fuori dal tempo, non ha sostanza, è una domanda che aleggia su un livello fumoso, senza corpo. Allora la risposta diventa una serie di proposizioni, di specificazioni, si apre la vasta gamma delle possibili risposte. A volte semplicemente dico un no, definito, secco, lo dico pure con una certa spocchia, tiè, no non lavoro; ancora più bello è quando decido di affermare che sono contro il lavoro, che poi è vero, ma vai a spiegare…allora a volte non spiego e lo butto lì, una bella pietra. Quando lo faccio e se lo faccio è perché ho voglia di provocare qualcosa, metto un definito lì dove non c’è, per giocare alle differenze e vedere poi cosa accade, ma è un gioco pietra su pietra che spesso rimane duro, non costruisce ponti molli o scale a dondolo, di solito genera il successivo silenzio della relazione. Occorrerebbero domande più leggere per consentire risposte a capriola, proposizioni friabili.

L’oltre - l’indefinito dell’essere #3

Irene Ester Leo, nasce nel 1980 nella provincia di Lecce, dove vive. Laureata in Storia dell’arte moderna, è maestro d’arte (scultura e modellazione materie plastiche), critico d’arte, illustratrice. Ha pubblicato: Canto Blues alla deriva (Besa, 2006); Sudapest (Besa, 2009); Io innalzo fiammiferi (LietoColle, 2010) con prefazione di A. Anedda, Premio Letterario Nazionale di Calabria e Basilicata I^ Edizione 2010 - Città di Trebisacce - primo classificato; Una terra che nessuno ha mai detto (Edizioni della Sera, 2010) con prefazione di A. Leone; Cielo (La Vita Felice, 2012) con prefazione di Davide Rondoni; Senza ombre (Magazzino di Poesia di Spagine, 2014). www.ireneleo.wordpress.com

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L

a massa corposa di me, quella che subisce mutazioni continue, a seconda dei vestiti, del momento, del ciclo, della capigliatura, della stagione è la bussola della definizione, dell’unica possibile; è lei che risente e risponde, lei sa, lei sì, mi indica: sbruffa, s’arraffa, deride, sussulta, grida, definisce il mio sentire. Santa massa corporea, perché fai da àncora alla mente, perché salvi dalla complessità per forza e ovunque… e santa materia altrui! La materia delle cose, santa e ineludibile: il ghiaccio del marmo di una panchina e invece il calduccio nel sedere che dà il legno, la liberazione dei piedi dai calzetti d’estate, la pastosità del cioccolato sotto la bocca, la goduria della schiena sull’erba, il battesimo dell’acqua gelida di maggio. L’indefinito si arresta sulle cose, sulla materia sensibile di cui è fatto ogni momento, a volersene accorgere.

La premura dell’edera ha sottilissimi fili di seta, un anello di luce dono del giorno, canta e cammina lenta sulla superficie rischiosa, ha fede nel vento che la sposa e le solleva i verdi appigli. Nel vuoto più totale vola come non potrebbe, salva. E così noi, dal nero il germoglio che è il passo, il silenzio del respiro, la bellezza della nostra essenza, la salvezza ha il suono della prima parola, oltre.

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Poesia

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Verifica d’Impatto Umano ma potrei metterci vasi di fiori rossi su questi fianchi larghi inutilizzati o bordarli di centrini tirolesi o farne autostrade d’accoglienza per poeti frustrati barboni puttane una centrale di morte corale per bruciare feticci di umanità pagliaccia e deficiente. o un cimitero di macchine e di memorie o un ufficio delle cose perdute o incompiute o una calda sala d’accesso su confortevoli trampolini per incipienti apnee o salvifiche morti o una bocca a precipizio sul mondo per salmodiare vomitare defecare o una tavola rotonda per sottoporre a mia Verifica progetti ad elevatissimo corrosivo letale Impatto Umano

non guarda non tocca non vuole a sé non non con cede non non solo […] Non data fuga divisa amare e non avere cuore cuore che non ama e cura per separazione vola di fiore in spada. fiore del suo proprio sconosciuto fiore. vola fiore ingenerato fiore eterno mai dato. trafitto occhio e non riposa. luce luce sollazzo ombra truce cosa intransitiva tersa mai stante tra arti e cosa che li tiene è stato il mare - sta riposa, ronfa, muove, scuote, gonfia, alza si alza, impera, minaccia, copre, rovescia i cieli mischia abissi e terre, trasforma gli elementi fa dell’aria acqua e la respira e non germoglia e non riduce il canto canta di questo cantami questo fiore eterno eterna resa eterna cosa disfatta e santa, cosa eterna cosa non detta, cosa che sgretola e rovina cosa che non muore, rosa nera, rosa vuota rosa e vento, sposa, sposa, aria. prendi, tieni, è questo, solo questo sappi, dimmi, canta, la tua voce è questa cosa stanca, non aspetta, stanca sposa, buia e bianca riposa sola. e dice non aspetto e aspetta un canto cantalo è un fiore, il fiore che non muore. e vuole e non vuole. cosa ferma, rosa al vetro, petalo prestato reliquia del tempo che non è. non si tocca non si vede è cosa lieve e pesa, è cosa lieve e pesa è lieve cosa e pesa e canta, canta di questo, dì che vedi hai visto, sai, senti. è ciò che non arriva né proviene riconosci, riconoscila. riconosci e canta cantami questo fiore eterno eterna resa eterna cosa disfatta e santa, cosa eterna cosa non detta, cosa che sgretola e rovina cosa che non muore, rosa nera, rosa eterna e resa Il mio amore ha radici d’ acqua

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na delle mie migliori letture di sempre è stata “Poetica del diverso” di Edouard Glissant in cui lo scrittore e antropologo creolo rivendica per tutti il diritto all’opacità, parlando di identità e appartenenze. L’opacità lungi dall’essere un pappone senza senso è una gustosa mistura di sostanze. A Martano, i monaci Cistercensi producono un liquore giallo e trasparente che chiamano Gocce imperiali, D’Annunzio le descriveva come opale iridescenza: qui due consistenze materiche definite (in questo caso liquore a novanta gradi e acqua nella mistura base, con infinite variazioni: caffè, amaro, ghiaccio) collidendo ne formano un’altra che ne contiene entrambe, seppur in altra forma. Le due trasparenze inglobandosi diventano poetica opacità. L’opacità salva il pensiero dal rischio di considerarsi assoluto, mono-originato, uni-direzionato, l’opacità rende possibile l’abitare più stanze interne, l’essere originati da vari luoghi, da vari cuori, da differenti paesaggi, senza che questo faccia sfumare quel paesaggio, quel luogo, quel cuore, quell’interno. È una mescolanza che mantiene il senso delle parti, ma facendole incontrare genera il nuovo. Riflettevo pochi giorni fa, « Non è più necessario “comprendere” guardando i miei parenl’altro, cioè ridurlo al modello della ti, di come una delle più mia stessa trasparenza, per vivere con fortunate evoluzioni della lui o per costruire con lui » specie sia stato l’uscire dal sistema endogamico: Edouard Gliassant quanta fortuna c’è nel mescolarsi a chi è diverso, a chi non appartiene alle stesse abitudini mentali e familiari, alle medesime idiosincrasìe, è garanzia di evoluzione e cambiamento costante, perché da ogni sprofondamento tra diversi uscirà qualcosa di inaspettato, un indefinito che prenderà la forma di qualcosa che prima non c’è mai stato. L’opacità è nodosa, non pulita, complicata, tiene insieme apparenti opposizioni, disturba la lucidità e la rigidità, smuove le linee che congiungono i punti, rende possibili in ordini sparso: le traversate, i trans, le maschere, le lumache, il pomodoro nero, la pelle color cannella, l’ironia, il salto con l’asta, il suminagashi, il sushi, la pasta alla siciliana, il mare dalla punta di Leuca, la pizza con l’ananas, il colore viola, la bossa nova, la fase rem, la chantilly, la lingua, la musica, l’arte, l’ombelico… In definitiva, quando l’indefinito è generato da due o più diversi materici affari, oggetti, accadimenti, quando è con questi giocato, rischiato, allora diventa ciò che salva, conduce al movimento, all’“oltre”, allo sgomento.

di Ilaria Seclì

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Letture

Padre che vegli questo corpo in cristalli di viete vicinanze e con me avanzi a farne canto e preghiera se quieto è il tempo quando diciamo ricco il niente e lo spazio vuoto tra pelle e pelle lo chiamiamo aria e vento e non feriscono i barbari sapendo che li muove la voglia della patria che non hanno. Padre che vegli questo corpo sapermi orfana non ti dà pace ma ti prego di curarla, vederla questa cosa inconsolabile mostrami cosa diventa lo spazio di tanta lontananza.

Poiché il frutto del tuo seno lo conosco poiché il frutto del tuo seno è muto non alzi la mano al mio saluto sai sempre dove sono ma non chiami riempi i resti da buttare ma non dividi il pane casa scoperchiata che non fai restare mia insonnia che non mi dormi accanto differita tra presente e vita, esilio, apnea sedile vuoto accanto al mio, qui qui tra quello che vedo della pioggia e quello che non cade, assente puntualissimo tra l’uno e l’altro civico, tra letti e calanchi bagagli spersi, chiavi, nulle proprietà. Poiché il frutto del tuo seno lo conosco museo del silenzio, sovrano del sottratto e poco resto, insinuato vuoto tra un disegno e l’altro, tra ciò che siamo e cosa diventiamo quando i bimbi se ne vanno e torna un vociare di sbeccati esordi ma non tornano i respiri né le mani. Poiché il frutto del tuo seno lo conosco non ti sfido e non ti odio, ancora aspetto.

Ilaria Seclì, è nata a Ginevra, nel 1975. Vive e lavora tra Lecce, Parabita e Massafra dove insegna nella scuola primaria. Ha pubblicato D’indolenti dipendenze, Besa, 2005. Chiuderanno gli occhi, con Antonio Diavoli, Quaderni di Cantarena, 2007; dello stesso anno lo spettacolo teatrale, con Adamo Toma, tratto dalla raccolta inedita La sposa nera. Del pesce e dell’acquario, LietoColle, 2009. Nel tempo prima dei comandi, Magazino di Poesia di Spagine, 2014.

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Raccontare I

l disturbo alimentare ti chiude in una prigione di giorni, mesi, anni di parole non dette, di sentimenti schiacciati, lacerati da un silenzio assordante. Quando si è pronti a guardarsi, scavarsi dentro, ad entrare negli spazi più reconditi dell’anima e lasciare che tutto ciò che vi era nascosto veda la luce, allora si rinasce, ci si riscopre e le parole non diventano un nemico, una colpa, una paura ma diventano figlie di un parto più grande che è l’amore verso se stessi, che è la vita. Da questo meraviglioso parto talvolta nascono libri che restano nel tempo come “Briciole” di Alessandra Arachi, dove anoressia e bulimia si incontrano e si scontrano in Elena, la protagonista, dove la vita e la morte sono appese all’ago di una bilancia che continua a scendere. Prigioniera e vittima di un mostro creato con le sue stesse mani Elena ‘convive’ con il disturbo alimentare per anni, lasciando nel piatto l’amore non ricevuto, vomitando la sua inadeguatezza, digiunando l’oppressione della madre. “Soltanto scheletrica pensavo che avrei potuto avere il mondo ai miei piedi. E a pensarci ora non mi sarebbe nemmeno bastato”, leggiamo tra le pagine autobiografiche dell’Arachi. Ed eccola l’anima bulimica, affamata di attenzioni e di amore dei quali avrebbe potuto nutrirsene compulsivamente fino a sentire l’anima sazia, fino a volerne ancora, sempre di più. Il corpo poi è tutt’altro, è dall’altra parte del disturbo alimentare, quella che rifiuta il nutrimento fino a che manca quello dell’anima. Elena ce la fa, dopo anni di guerre interiori, dopo i silenzi, i digiuni, le abbuffate e due dita in gola per gettare fuori tutto quello che non c’era. Dopo aver sfiorato la morte per aver così tanto digiunato dalla vita, l’attenzione di qualcuno di inaspettato la salva. Un’ emozione, essenziale, vitale. La lettere di quell’amico che a quel vizio mortale della droga non sapeva rinunciarvi, non voleva, al costo di tutto, anche al costo della vita. Quelle pasterelle condivise per un periodo troppo breve ma molto intenso, quelle pasterelle che finalmente acquistano un sapore, così come la vita per Elena, perché infondo come lei stessa conclude: “Qualcuno deve pur farcela…”

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e la fa anche Emma Woolf, dopo quasi 14 anni di anoressia e quella che lei stessa definisce “ortoressia” - la quale è sempre una branchia dei disturbi del comportamento alimentare - partorisce “Alla fine di un lungo inverno” e proprio da lì, proprio da quel gelido inverno che si espande al confine tra corpo e anima, Emma ripartirà, metterà con le spalle al muro “la bestia” attraverso la forza delle parole per cercare di “demonizzare l’anoressia”. Ossessionata dal peso, dal suo corpo, dalla fine di una storia che aveva generato dolore e rifiuto. Emma sentiva che il suo corpo era stato rigettato, rifiutato e proprio

Emma Woolf Alla fine di un lungo inverno TEA, 2013

Alessandra Arachi Briciole Feltrinelli, 2002

non ditegli che è disperso o annegato o incerti imprevedibili percorsi. Non dite. Nella sabbia battono le sue vene e i tronchi, non dite che non li trovate ha forza di tuono ma sono mani a migliaia aperte e le bocche spalancate al cielo. Non può un nome - non sfama né disseta – è altro il destino e altrove nell´ogniccosa che respira bassa e muta l´ogni destino minuto e sovrano che qui ti porta, canto lontano che muove montagne e le porge alla tua guancia e porta il vento d´oro che bagnerà la bocca se accovacciato e muto il respiro gli sorprendi e la sua insonnia

di Rossella Assanti

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Lab/oratori per questo doveva essere punito. Il disturbo alimentare è anche una punizione che dai a te stessa, per quella che sei…o forse per quella che non sei, per quella parte di te che non va al ritmo del mondo o degli altri, per quella nota stonata che si prende tutto e spezza ogni corda fino a far cessare la melodia. Emma rifiutava il cibo per rifiutare se stessa. Chilometri di strada a correre, a schiacciare l’asfalto nel tentativo futile di calpestare la rabbia, la delusione, il dolore, la paura. Impossibile non averne. Quella parte sana schiacciata e minacciata dalla malattia ha costantemente paura di quegli artigli pronti a graffiare, in qualsiasi momento. Ci sarà sempre una parte che lotterà per la vita, nascosta in qualche angolo di cuore dove le pulsazioni non cesseranno di mandare in circolo quella flebile voce, che diventa un eco, che il disturbo alimentare cercherà sempre di prendersi, di fare terra bruciata di tutto quello che di buono c’è. Ma non ce la fa, non è una guerra ad armi pari, eppure non si può che vincere. E’ un mostro che nasce dai punti deboli, ignaro del fatto che un giorno quelli forti avranno la loro rivincita. Per questo Emma ce la fa, unisce cibo e amore. Curerà il corpo iniziando ad assumere tutto quello che precedentemente le faceva più paura per riuscire ad essere al tempo stesso balsamo per l’anima, insieme a quell’amore che non colmerà i vuoti ma creerà altri spazi vitali, quelli fondamentali, necessari a riprendersi la vita e lentamente cercare di crearne un’altra che sarà quella di un figlio, non appena il corpo sarà pronto per essere una culla sicura. Emma ora non raccomanda altro: “Take care of your self…”

QuANDO LA BELLEZZA È VErA NON È PErFETTA O IDEALE, PuÒ DurArE IN ETErNO, CI PErMETTE DI INNAMOrArCI DELL’IMPErFEZIONE, DELLA FrAGILITÀ

L’abito etico uN LAB/OrATOrIO CONDOTTO DA SANTA SCIOSCIO

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l laboratorio “Abito Etico” – avviato nello scorso mese di maggio all’interno del Centro per la Cura e la ricerca sui Disturbi del Comportamento Alimentare della Asl di Lecce - è nato con il presupposto di far incontrare due ambiti apparentemente diversi e lontani: Alimentazione e Moda. In comune, un solo e fondamentale denominatore: il Corpo. Nelle attese, nei tentativi, nei sospiri, nella predisposizione al ricevere, nell’intimo d’ognuno, nell’incompiuto consumato nel lungo tempo della fragilità, vedo la bellezza: autentica, sussurra l’unicità, la genuina qualità, la spontaneità. Mi sembra possibile ricomporre il significato profondo: portare il senso del sé dallo stato latente alla vita, nel momento in cui scorgo il sorriso e la meraviglia dei ragazzi nel vedere tradotta e restituita la loro identità, in forme e colori. Si meravigliano del sé che si manifesta, si palesa con il fare. Gli occhi non tradiscono! Quando la bellezza è vera non è perfetta o ideale, può durare in eterno ci permette di innamorarci dell’imperfezione, della fragilità. Nel voler dare forma all’abito etico ho chiesto in prestito ricordi, vissuti, emozioni. L’imprevisto, l’asimmetria, l’irregolarità, la deviazione, l’imprecisione, la cicatrice sono proprietà intrinseche al vissuto, all’umano e contribuiscono a rendere speciale ogni persona. Segni descrittivi d’identità, che disvelano e confermano il sé attraverso il filo, la cucitura. La superficie tutt’altro che superficiale diviene il testo che vestirà il corpo. una texture che racconta l’essere con originalità e singolarità.

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l disturbo del comportamento alimentare è un mondo vasto fatto di infinite sfumature, di storie differenti eppure legate da un filo invisibile, lo stesso che ci porta ad unire “Volevo essere una farfalla” di Michela Marzano con “Per fortuna c’erano i pinoli” di Margherita De Bac. Entrambe le protagoniste dei libri hanno sul corpo i segni di una lunga guerra che sembrava segnare la fine ed invece ha solo generato un nuovo inizio. Entrambe si giocavano la vita a numeri di bilancia, tra le parole non dette e muri pronti ad alzarsi contro tutto il resto. Per entrambe, come per tutti coloro che soffrono di un disturbo alimentare, il cibo sembra essere il miglior monologo da avere con il mondo. Alla fine ce la fanno, affondano una bandiera di pace su quel terreno fertile che segna il confine tra se stesse e gli altri. Sarà la vita a cantare vittoria ed il corpo non sarà più un perfetto estraneo, un nemico, ma finalmente avrà il posto di amante dell’anima.

AbeccedarIO LAB/OrATOrIO FrAGILE NELL’AMBITO DI “GAP, LA CITTÀ COME GALLErIA D’ArTE PArTECIPATA” CONDOTTO DA MAURO MARINO IN COLLABOrAZIONE CON FRANCESCA MARCONI E COOrDINATO DA FRANCESCO MAGGIORE PrESSO LE MANIFATTuTE KNOS E IL CENTrO PEr LA CurA E LA rICErCA SuI DISTurBI DEL COMPOrTAMENTO ALIMENTArE DEL DSM DELLA ASL DI LECCE

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Michela Marzano Volevo essere una farfalla Mondadori, 2011

Margherita De Bac Per fortuna c’erano i pinoli Newton Compton, 2014

i sono luoghi dove la parola non abita, non ha agibilità, abilità e si confonde, presa dal mormorare delle mente, ostaggio del malessere che spesso rende muti, lontani dall’ascolto. Ci sono luoghi dove la coscienza perde la mira, ritrovarla è atto di creatività, implica lavoro, condivisione, nuovo nutrimento... Ci sono luoghi dove la “fragilità” abita muta, dove il valore diventa pena; lì c’è un piccolo giacimento di narrazioni da scovare da riportare in luce… ripartire dall’alfabeto, dalle lettere che lo compongono è un modo utile per rifondare le parole, il discorso, per dare verbi all’agire, al fare, al farsi pagina… un laboratorio allora, un laboratorio delle “fragilità” per mettere a confronto esperienze. un gioco, una prova di coralità, di armonia: accordarsi per elaborare il “noi” e per poter porre rimedio alla “mancanza di fiducia” nelle proprie virtù spesso mai sondate, sconosciute, tradite, poco valorizzate… per dare e darsi energia. Primo atto del laboratorio la realizzazione di un alfabeto, una collezione di caratteri che, nel corso del lavoro, permetterà al gruppo di accordare la ricerca e di creare parole. Parole essenziali, necessarie. La scrittura è il motore del lavoro, una scrittura intesa come segno evocativo capace di rappresentare senso ma valorizzata anche nella sua valenza estetica e formale. una scrittura finalizzata alla realizzazione di “artefatti comunicativi”, oggetti d’arte (libri, pubblicazioni, t-shirt, magneti, oggetti di design) riproducibili e da poter commercializzare ai fini della sostenibilità del laboratorio stesso. Il gruppo di lavoro si incontra ogni giovedì dalle 15.00 alle 18.00 alle Manifatture Knos di Lecce

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Eventi

di Caterina Renna

LA SETTIMA EDIZIONE DELLA CAMPAGNA E DELLA MANIFESTAZIONE INTERNAZIONALE DI SENSIBILIZZAZIONE SU ANORESSIA, BULIMIA, OBESITÀ E ALTRE IN/DIFFERENZE. UN PROGETTO DI SALOMÈ E BIG SUR

Pe(n)sa differente.

Festeggia il tuo peso naturale! I DCA sono patologie psichiatriche emergenti che si stanno diffondendo con notevole rapidità e riguardano fasce sempre più ampie di popolazione determinando un impatto economico sempre più consistente sul Servizio Sanitario Nazionale. Affliggono all’incirca 3.000.000 di persone in Italia e rappresentano la seconda causa di morte tra gli adolescenti di sesso femminile dopo gli incidenti stradali. Si è abbassata l’età di esordio della patologia e sono aumentati i casi di cronicità con un aggravamento della prognosi e la necessità di un trattamento differenziato e complesso. Appare, pertanto, quanto mai urgente elaborare e coordinare interventi preventivi, terapeutici e riabilitativi che affrontino patologie mentali gravi spesso croniche e che presentano complicanze fisiche e comorbidità psichiatriche, gestite spesso ancora oggi da personale non specializzato e in luoghi non idonei con notevole dispendio di risorse economiche e scarsi risultati. Pe(n)sa differente. Festeggia il tuo peso naturale! è campagna e manifestazione internazionale di sensibilizzazione, informazione e formazione su anoressia, bulimia e obesità (e altre in/differenze) che ha preso l’avvio nel 2008 all’interno del progetto ministeriale nazionale ‘Le buone pratiche di cura e la prevenzione sociale dei DCA’ - Protocollo di Intesa tra Ministero della Gioventù e Ministero della Salute / programma nazionale ‘Guadagnare la Salute. Rendere facili le scelte salutari’. Ideata e organizzata da ONLUS Salomè, associazione scientifico-culturale e Big Sur, laboratorio di comunicazione con la direzione scientifica di Caterina Renna e la direzione artistica di Francesco Maggiore, si configura quale azione di prevenzione universale e selettiva dei disturbi dell’alimentazione e dell’obesità e propone campagne di comunicazione sociale, approfondimenti scientifici, culturali, sociali e artistici che abbracciano i temi dell’alimentazione, della cultura, dell’arte e dello sport. Pe(n)sa differente. Festeggia il tuo peso naturale! promuove la cura di sé e vuole essere un invito a un percorso di costruzione personale

che passi attraverso la resistenza alle attuali forme di mercificazione e omologazione. Una celebrazione della soggettività che si manifesta come diritto al pensiero critico, alla differenza e alla variazione. Per valorizzare l’unicità e la novità che ogni persona essenzialmente è, con le sue potenzialità espressive, l’unicità dell’essere persona e la bellezza autentica che non sono determinate da un numero sulla bilancia quanto piuttosto dall’accettazione del sé inteso come unità psichica, fisica, emozionale e intellettuale che ha bisogno del giusto nutrimento in termini di alimenti, attività fisica, esperienze sociali e culturali che aiutano a maturare la propria autonomia accrescendo l’autostima. La manifestazione, evento unico in Italia, in linea con manifestazioni di altri Paesi quali il Canada Eating Disorder Awareness Week, l’Inghilterra International No Diet Day e gli Stati Uniti I’m beautiful the way I am, si propone di celebrare la differenza fisica, mentale ed emozionale, inneggiare al pensiero libero da ogni omologazione, festeggiare la bellezza in tutte le sue forme, perché ogni persona è unica, ogni bellezza è autentica e ogni ‘differenza’ è un valore. Rappresenta un momento di incontro tra la popolazione e le differenti professionalità in ambito scientifico, culturale e artistico, in cui competenze diversificate collaborano alla creazione di una rete che sappia mettere in dialogo forme integrate di prevenzione e trattamento. L’obiettivo è quello di sensibilizzare sul concetto del peso naturale, sulla sana alimentazione, sull’attività fisica salutare, sui messaggi ambigui relativi all’immagine corporea proposti dai media, sulle mistificazioni dell’industria della dieta, della moda, dello spettacolo e della bellezza, sulle opportunità di cura. Tratto distintivo di Pe(n)sa differente! è la capacità di mettere in relazione l’approccio scientifico con quello divulgativo, scegliendo una modalità di comunicazione informale, diretta e coinvolgente. La parola del claim ‘Pe(n)sa’ contiene in sé due accezioni, l’una si riferisce al peso che è determinato da molti fattori tra i quali quelli genetici e che quindi non può essere un numero ideale valido per tutti, l’altra si riferisce alla necessità di pensare, ciascuno con la propria testa, al fine di elaborare il proprio modo originale di essere nel mondo. Il marchio/ simbolo di Pe(n)sa differente è una corona di carta che suggerisce un atto performativo: indossarla e portarla con sé per ‘festeggiarsi’ per quello che si è e mostrare a tutti ‘la regalità della propria bellezza autentica’. Questo numero de L’Osservatore in cammino è dedicato alla 7a edizione di Pe(n)sa differente. Festeggia il tuo peso naturale! che ha luogo a Lecce (Italy) il 12/13/14 giugno 2014

UN NUOVO STRUMENTO PER PORRE ARGINE AI DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE

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L’illustratrice argentina Bela Abud è ospite della settima edizione di Pe(n)sa differente

e la raccolta di donazioni da destinare ai suddetti servizi per attivare, sviluppare e mantenere attività di assistenza e riabilitazione in favore di persone affette da queste problematiche. Cari a MadamaDorè anche i temi della prevenzione e della ricerca, l’Associazione si prefigge nelle norme statutarie di stimolare e sostenere le iniziative di prevenzione primaria e secondaria ed eventi di sensibilizzazione, informazione e formazione e di predisporre e favorire la pubblicazione di libri, riviste e notiziari atti alla diffusione delle informazioni e delle conoscenze sui temi.

Si è costituita a Lecce, l’Associazione di Promozione Sociale MadamaDorè, presieduta da Anna Lucia Graziuso riunisce familiari, amici e pazienti che insieme si propongono, come compito primario, di sostenere e aiutare concretamente le persone affette da Disturbi del Comportamento Alimentare e da Obesità, le loro famiglie e quanti vivono vicino a chi presenta queste problematiche, di tutelarne i diritti combattendo i pregiudizi e promuovendo azioni dirette per sensibilizzare l’opinione pubblica relativamente alle problematiche dei disturbi del comportamento alimentare, dell’obesità e del disagio esistenziale. Altro impegno, nello statuto dell’Associazione, il voler sollecitare l’attenzione dello Stato, della Regione e degli Enti Locali e delle forze politiche affinché promuovano e sostengano iniziative atte a migliorare le condizioni di assistenza e di vita delle persone affette da DCA e da Obesità, attraverso azioni legislative, normative e assistenziali a sostegno dei servizi attivi sul territorio. Una sollecitazione alle Istituzioni che non esclude il mutuo aiuto, l’Associazione infatti si impegna a collaborare con i servizi preposti alla cura e all’assistenza per favorire la presa in carico, la continuità terapeutica e riabilitativa e di sostenere le attività dei servizi per il trattamento dei DCA e dell’obesità attraverso la collaborazione diretta

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Dall’anoressia, dalla bulimia e dagli altri disturbi dell’alimentazione si può guarire! Parlane con la tua famiglia e col tuo medico o chiedi informazioni a: Centro per la Cura e la Ricerca sui Disturbi del Comportamento Alimentare Tel. 0832.215697

Campagna di informazione e sensibilizzazione sui Disturbi del Comportamento Alimentare Anoressia, bulimia e altri disturbi dell’alimentazione a cura di ASL Lecce Dipartimento di Salute Mentale Centro per la Cura e la Ricerca sui Disturbi del Comportamento Alimentare

L’osservatore in cammino ANNO I - n° 1

Editore: Big Sur s.c.r.l. Direttore responsabile Mauro Marino Responsabili progetto Caterina Renna (Salomè Onlus) Sergio Quarta, Francesco Maggiore (Big Sur)

Progetto grafico Francesco Maggiore Impaginazione Enrico Rollo Illustrazioni Chiara Spinelli

In redazione Le ragazze e i ragazzi del ‘Centro per la Cura e la Ricerca sui Disturbi del Comportamento Alimentare’ (DSM, ASL LE) Rossella Assanti, Silvia Dongiovanni, Maira Marzioni, Caterina Renna, Andrea Sagni, Santa Scioscio

Big Sur, immagini e visioni Sede legale: via A.G. Coppola n°3 73100 Lecce Tel. 0832.346903 mail: info@bigsur.it www.bigsur.it

Hanno collaborato alla realizzazione di questo numero: Tommaso Ariemma, Ilaria Caprioglio, Irene Ester Leo, Michela Marzano, Ilaria Seclì

Chiuso in redazione il 05/06/2014 Iscritto al Registro della Stampa del Tribunale di Lecce n. 4 del 28 gennaio 2014

Pubblicità: Big Sur – immagini e visioni Tel./fax 0832.346903 – Mobile 347.1040009 e-mail: produzioni@bigsur.it

Stampa: Arti Grafiche Panico. Galatina (Le) losservatoreincammino.it

losservatoreincammino.it pensa-differente.it


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