Ecco spagine della domenica 80

Page 1

della domenica n°80 - 21 giugno 2015 - anno 3 n.0

Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri

spagine

Un omaggio alla scrittura infinita di F.S. Dòdaro e A. L. Verri


spagine

Il risveglio

Renzi: ora teme di rivelarsi un bluff

I

del centrodestra

l ballottaggio di domenica scorsa, 14 giugno, ha fatto registrare qualche risveglio del centrodestra. Niente di eclatante, ma nell’enfasi d’ordinanza del centrosinistra e nell’umoralità depressiva del centrodestra, ha fatto gridare in quest’area al miracolo: a destra uniti si vince. Bum! E la novità in che consiste? Immagino che in un momento qualsiasi della preistoria qualcuno cercasse da solo di smuovere un sasso e non riuscendovi ritentasse con l’aiuto di un altro e – oh, miracolo! – il sasso si muoveva. Da allora si è capito che l’unione fa la forza. Oggi lo si scopre come una novità assoluta. Non ci si meraviglia della meraviglia. Ormai, dopo il nozionismo, sacrificato sull’altare di una malintesa democrazia, e dopo la cultura, è la volta della saggezza popolare. Non passerà molto e ci si sorprenderà perfino della pioggia e del vento, totalmente dimentichi del giorno prima. E’ il trionfo dell’uomo non nuovo e non vecchio, ma nato e non creato, come una volta si indicava il rimbambito. I politici italiani e i loro embedded sono proprio rimbambiti. Non hanno ancora smesso di prendere sul serio Matteo Renzi, un vagheggino, un po’ sbruffone e un po’ furbo. Se la politica fosse la scuola sarebbe come prendere un alunno discolo, saputello e sfrontato, e metterlo in cattedra ad insegnare ad alunni e professori. Una volta accadeva di carnevale, quando si metteva un asino al posto del prete o del vescovo ad officiar la messa. Ma era uno sfogo popolare tollerato,

semel in anno, una sorta di rovesciamento del mondo, ben spiegato dall’antropologo russo Bachtin. Il bischero fiorentino è infuriato, la sconfitta brucia. Basta primarie, allora; bisogna tornare a rottamare; via Marino dal Comune di Roma. Ma mal glien’è incorso. Le primarie – hanno reagito in tanti – caso mai vanno disciplinate. Quanto a rottamare ormai sono rimaste solo le macchine nate con un difetto di fabbrica, che sono tutte della ditta Pd. E da Roma Marino non si muove: lo dice Orfini, che è il presidente del partito, di cui Renzi è segretario. Insomma, Renzi, se pure volesse tornare a pazziare, come dicono a Napoli, non potrebbe. Ma la crisi c’è ed è grave, a destra come a sinistra, a parte gli umori più recenti. Fanno la voce grossa Salvini e Grillo, il primo a capo di un partito di fantasmi medievali, il secondo di tanti testimoni di geova. Sono sicuri gli uni e gli altri che Marino a Roma sta come d’autunno sull’albero una foglia (perdonami, Ungaretti! perdonatemi, caduti in battaglia!), che basta scuotere il tronco e vien giù. E loro pronti ad approfittarne. Non amo Marino. Ritengo che un bravo chirurgo dovrebbe fare il chirurgo e non il politico. Non lo amo perché un sindaco non deve mettersi alla testa del gay-pride e marciare sulla sua città, non deve sostituirsi alla legge e sfidarla rubando il mestiere ai centri sociali. Non lo amo perché esprime tutto il contrario di quel che è il mio patrimonio di idee politiche. Ma francamente non vedo – salvo

di Gigi Montonato

che non ci siano altre ragioni, dicono che non sa governare – perché dovrebbe dimettersi per “mafia capitale”. Mi dà l’impressione di un Celestino V e dell’avventura di un povero cristiano, come ebbe a definire Ignazio Silone la vicenda del suo conterraneo Pietro da Morrone, vittima di quel figlio di puttana di Bonifacio VIII. Se pure l’onda malavitosa – non parlerei di mafia a Roma – abbia lambito la sua maggioranza consiliare, non è sufficiente a renderlo responsabile di una situazione cancrenosamente pregressa. Si dice: ma è opportuno che si dimetta per evitare che il Comune di Roma venga commissariato, per evitare lo scorno mondiale. Ma quale scorno? Come se il mondo non sapesse già tutto di quel che sta travagliando Roma e l’Italia. Sto con Orfini, che ha risposto a muso duro al dittatorello fiorentino. Poi magari si scoprirà che è tutto un gioco delle parti; ma intanto teniamo cippo di lì. Sul fronte dell’immigrazione Renzi è stato insuperabile. Qui è stato proprio il re delle spacconate. Se l’Europa si rifiuta di accogliere gli immigrati, ho pronto il Piano B. E poi: faremo da soli. Ma quale Piano B, quale da soli? Ma si rende conto di quello che dice? Ormai sta diventando la barzelletta d’Europa. Certo, non tutte le colpe sono di Renzi. Lo sono nella misura in cui non guarda in faccia la realtà e cavalca le criticità come si può cavalcare una pecora. Siamo in un paese in cui il Capo dello Stato parla come il Capo della Chiesa, e fanno lo stesso il Presidente del Senato, il


della domenica n°80 - 21 giugno 2015 - anno 3

spagine

l’opinione

Presidente della Camera e chissà quanti altri presidenti di questa nostra repubblica. L’Italia è un paese teocratico camuffato da democrazia laica. In Italia comanda il Papa. Il quale fa il suo mestiere. Sono gli altri che non fanno il loro. Siamo precipitati indietro di diverse decine di anni. Presidenti del Consiglio cattolicissimi, come De Gasperi e Moro, avevano la dignità e il coraggio di mettersi contro il Papa quando questi pretendeva di imporre certe scelte.

pensamenti

Oggi pendono tutti dalle labbra di Papa Francesco, il più sgarrupato di tutti i papi da Giovanni Paolo I in poi. Non v’è dubbio che interpreta i tempi. Ma anche il Marino – Giambattista dico – era osannato come poeta immortale nel suo tempo ed oggi è appena citato per le sue stravaganze poetiche. C’è un grande vuoto politico che incomincia a preoccupare. Un’intera classe dirigente sta andando progressivamente scomparendo senza

mai aver preso le redini del potere. Mi riferisco ai sessantenni e ai cinquantenni, quelli che una volta davano il meglio delle capacità politiche; oggi si sono fatti “rottamare” senza reagire, col complesso di errori fatti dai loro padri. Ma il problema non è personale, è politico, è sociale, è generale. Un vecchio proverbio delle nostre parti recita: albero pecca e minchia paga. I minchia – a quante pare – siamo noi; noi popolo italiano.

La muta presenza

P

ROVOCAZIONE - della serie: "Il lavoro bisogna inventarselo." Mi propongo d'ora in poi come UOMO IMMAGINE, posto accanto alle molteplici presentazioni di testi letterari profuse dai sedicenti scrittori d'oggi (coatti assistiti, che non hanno nient'altro da fare, purtroppo). La mia muta presenza inserita durante le loro Conversazioni sarà impiegata come simbolo ambizioso ed esperto riguardo la Sapienza, la Sofia, Il Logos; e lieta sia

l'averla utilizzata alla loro ribalta effigiando l'odierno scrittore in azione. Possa dunque il significato dell'immagine servire di buon auspicio ai loro piccoli racconti. Bene! Ecco una di quelle idee che piovono in mente ad un disoccupato e piacciono più ad egli prima che possa prevedere l'accoglienza che le tributerà il pubblico, sommo giudice del momento. Spero che, con questa mia presentazione breve e sugosa, si dia subito inizio alle danze. Grazie! Antonio Zoretti


Scegliere la vita

di Gianni Ferraris

Ad illustrare una straordinaria opera dell’artista Yinka Shonibare Homeless Man, 2012 Manichino, cera olandese, cotone stampato tessile, valigie di cuoio, il globo e base in metallo. 320 x 80 x 115 centimetri. La fotografia è di Shaun Bloodworth


della domenica n°80 - 21 giugno 2015 - anno 3

spagine

nel tempo

Su quel pagliericcio, c'era morto un bambino, di fame. Danilo* decise di sdraiarsi lì sopra, decise di starci senza più mangiare nè bere, starci fino a morire. O fino a quando le autorità non avessero provveduto a fare dell'inferno di Trappeto un posto più degno nel quale vivere. A quanti domandavano a Danilo il senso di quel gesto lui rispondeva che non si può sopravvivere a qualunque cosa, perchè ci sono momenti nel quali la morte è preferibile a una vita che appaia oscena convivenza con una ingiustizia troppo grande" [...] Sicilia, 1952.

(da: La Mossa del riccio, Davide Mattiello - Add Editore, 2011)

L

a Dichiarazione Universale dei diritti umani recita: Articolo 5 - Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizione crudeli, inumani o degradanti. Articolo 6 - Ogni individuo ha diritto, in ogni luogo, al riconoscimento della sua personalità giuri-

dica. La domanda di Danilo Dolci è attualissima: si può sopravvivere come se nulla fosse di fronte alla tragedia di persone alla quale assistiamo ogni giorno? In particolare nei nostri luoghi, l’Europa e l’Italia che dovrebbero essere culle di democrazia e civiltà e si dimostrano, nei fatti, annientatori dei diritti essenziali delle persone? La tragedia degli immigrati ci si propone con una crudeltà delle istituzioni che ricorda da vicino altri momenti, altri “campi di lavoro". Altri genocidi. Nei fatti siamo colpevoli non di non saper gestire un’emergenza che non si può più chiamare tale, parliamo piuttosto di omicidi plurimi premeditati. L’emergenza si cavalca con misure emergenziali ed ha durata limitata nel tempo, se questa dura da un decennio almeno si chiama improvvisazione, incapacità o peggio, premeditata volontà di mettere in mano alle mafie, ai corrotti, le vite umane di quelle persone che cercano solo dignità. Le parole e i comportamenti di governi sedicenti civili come quello Francese, quello Svizzero, quello britannico che respingono immigrati che vogliono solo passare sui loro territori per andare altrove, oppure, che il caso dell'Inghilterra, rifiuta di accogliere, sono inquietanti pensando ai destini dell'Europa che non vuole trovare una soluzione ad un'emergenza epocale, che rimanda le decisioni di mese in mese mentre i profughi sbarcano di ora in ora. Questi governi violano gli accordi che hanno sottoscritto con la dichiarazione universale dei diritti umani. Mentre sono rigidi con la Grecia e con l'Italia imponendo la legge dell'economia da far pagare ai più poveri, sono molli a fronte delle convocazioni urgenti per pianificare come salvare vite umane, sono inesistenti. Mentre sono guerreggianti esportando democrazia, sono colpevolmente impotenti nel praticarla a casa loro. Colonialisti d’accatto, complici nei fatti con le mafie internazionali. E in Italia assistiamo ad una barbarie degna di altri tempi, di un altro ventennio. Governatori indecenti rifiutano di accogliere, minacciano di lasciare i loro comuni virtuosi allo sbando, così ha detto Maroni, così plaudono Zaia e l’altro, il servo muto di Berlusconi, l’automa, dalla Liguria. Maroni nei fatti minaccia di tagliare i servizi ai cittadini lombardi. Quando dice che bloccherà i versamenti ai comuni che accolgono, sta dicendo esattamente questo: cari cittadini, non concordo con il vostro sindaco, quindi

*Danilo Dolci, Sesana, 28 giugno 1924 - Trappeto 30 dicembre 1997 Sociologo, Poeta, Educatore, Attivista non violento

taglio i fondi alla vostra sanità, ai vostri servizi essenziali, alla vostra vita. Un tempo si chiamava rappresaglia! Queste porcate nulla hanno a che vedere con la Democrazia e con la Costituzione. Come si può sopravvivere a tutto ciò? Come si può permettere a qualche imbecille di chiamare "buonismo" la banale accoglienza? Questi analfabeti nostrani non conoscono neppure la lingua italiana, così il vocabolario Treccani spiega la parola "buonismo": buonismo s. m. [der. di buono]. – Ostentazione di buoni sentimenti, di tolleranza e benevolenza verso gli avversarî, o nei riguardi di un avversario, spec. da parte di un uomo politico; è termine di recente introduzione ma di larga diffusione nel linguaggio giornalistico, per lo più con riferimento a determinati personaggi della vita politica. Bene, noi non ostentiamo nulla, gli immigrati non sono nostri avversari, anzi. E con personaggi come i tre governatori del nord, i corrotti, gli esponenti inetti di un governo accattone non esterniamo neppure tolleranza, solo gelido disprezzo. Definire "emergenza" un traffico di esseri umani è follia pura, è voler negare l'innegabile: la responsabilità dei governi italiani! Negli anni hanno, di fatto, favorito le mafie e i corrotti di estrema destra e di sinistra. Coop sedicenti "rosse" che taglieggiavano, criminali di varia natura diretti da un nazista legato a sua volta alle mafie dei pacchetti di voti e via dicendo. Ora Alemanno va in TV a dire che lui non c'entra con i voti che gli arrivavano chissà come e chissà da dove. Ora il PD di Renzi scarica Marino e sostiene a spada tratta De Luca. Giusto per segnare il territorio forse. Il tutto sulla pelle di migliaia di esseri umani. Nessuno ha diritto di chiamare emergenza un movimento voluto, foraggiato, creato e gestito dai signori del crimine ("rende di più l'accoglienza del traffico di cocaina" diceva un criminale della mafia romana), e gestito sotto l'ala protettrice di governanti ad ogni livello al servizio di questi corrotti, di questo malaffare. Il governo Renzi si limita, colpevolmente, a cavalcare quella che chiama emergenza ma che le persone normali chiamano quotidianità. Fino a quando? Fino a quando ci vedremo costretti a vedere immigrati derubati dalle mafie, depredati anche della dignità in cambio di “cinquanta centesimi l’uno a l giorno mi bastano”, ed ora scaricati in una stazione o sugli scogli di Ventimiglia come pacchi? L’emergenza finirà quando avrà termine la pazienza. In questa fanghiglia viscida gestita da un governo incapace, inetto, nei fatti colluso, esiste solo una piccola luce, sta negli occhi dei ragazzi, delle donne, dei bimbi che riescono a sbarcare.


della domenica n°80 - 21 giugno 2015 - anno 3

spagine

“Anni fa, diversi anni addietro, ebbi a scrivere un pezzo in cui auspicavo un gran rogo da cui salvare poche cose, prima fra tutte la grundnorm, madre del diritto positivo, da accordare con i principi del diritto naturale e dar vita (nuova) a un (nuovo) corpo di norme estremamente sintetico e chiaro… che avesse sostanza comprensibile a tutti e certezza fattuale per tutti Utopia? Forse sì...”

nel tempo

Meno di un cent...

S

e la vita vale meno d’un cent è perché la ricchezza si misura con le banconote, con quella carta filigranata (che detta così sembra una cosa bella, ma è sudicia…) con cui si dà grasso agli ingranaggi del potere, quello bieco e cieco, quello dei circoli viziosi, quello che si può spezzare soltanto sparando o scrivendo. Sparando in tanti. O scrivendo da soli. Un tempo ho manifestato, urlato, occupato... e ho visto chi ci ha speculato… Ormai non sopporto più le speculazioni. Non sopporto più nessuna speculazione. Sulla guerra. Sulla fame. Sul sesso. Sulla lingua. Sulla carestia. Sui migranti. Sull’economia. Sulla morte. Anzi, sulle morti. Su tutte le morti. Si specula su tutto. Soprattutto sulla vita. E sulla morte. E non sopporto più chi lo fa. Nutro una fortissima idiosincrasia verso tutti quelli che speculano sulla vita e sulla morte… odio tutti i programmi che della vita (anzi, delle esistenze) e della morte (anzi, delle morti) fan spettacolo... Se la vita vale meno d’un cent è perché la ricchezza si misura coi soldi. Quelli che in tasca tintinnano e chiudono l’amore in una bara di metallo. Quelli buoni soltanto per lasciarli cadere per terra, sperando che a trovarli sia uno più disperato di te. Oppure un bambino. Quelli che stringi nel pugno della mano e liberi in un angolo di marciapiede, go-

dendo della gioia di chi li raccoglierà, confidando che a trovarli sia uno più disperato di te. Oppure un bambino. Un altro, comunque, che sappia che il tempo tra il primo vagito e l’ultima parola è un viaggio, breve o lungo non importa, verso l’eternità. Un altro inconsapevole, cui - per una moneta hai raccontato un sogno. Se la vita vale meno d’un cent è perché la ricchezza si misura col danaro. È troppo tempo ormai che non sopporto tante, molte, troppe cose. È da tanto che ne scrivo. È da molto che ne scrivo. È da troppo che ne scrivo. Fors’anche per questo, negli ultimi tempi, scrivo (pubblicamente) pochissimo. Fors’anche per questo, negli ultimi tempi, m’ammorbano quasi tutti quelli che scrivono. Fors’anche per questo, negli ultimi tempi, la stanchezza ha spento quasi ogni entusiasmo. Mi salva il quasi. C’è sempre qualcosa o qualcuno che mi salva. C’è sempre una possibilità. Una via d’uscita. Un’altra vita. Un altro mondo. Un altro inizio. Non lo scordo mai. Non rinnego nulla. Non mi vanto di niente. Ma ne ho abbastanza. Quasi di tutto. Quasi. C’è che, oggi (più di ieri), se la vita vale meno d’un cent è perché la ricchezza si misura con quel che hai e non con quel che sei. Quasi sempre. Non è una resa. È una presa d’atto. È guardarsi dentro. È vedere intorno. È ascoltare ogni voce. È la possibilità d’approcciarsi alla realtà obiettiva-

di Vito Antonio Conte

mente e dire per quel che sei e ciò che senti con la propria voce. La novità e la bellezza stanno nell’autenticità. L’omologazione dovrebbe essere contemplata tra i reati penali e punita con una pena desueta: non più carcere (che, invero, è soltanto una pena per chi sta fuori e barbarie per chi sta dentro…), ma una tetra isola deserta dove manderei tutti quelli che - previa confisca dei beni da riutilizzare immediatamente… - si sono arricchiti rubando. Condannati a spaccare pietre, piantumare alberi e prendersi cura – per una volta – di qualcosa di buono. Per il resto dei loro giorni. Altro che continuare a succhiare risorse a chi ha sempre pagato e a chi verrà dopo di noi. Sarebbe bellissimo. Per la prima volta nella (…) storia, dei parassiti che, invece di nutrirsi del nostro sangue, sboccano il loro (sangue) per rinverdire un pezzo di Terra. Ce ne sarebbe da dire, oh se ce ne sarebbe… Utopia? Forse sì. E, a volerci ragionare su, son costretto a ripetermi: ce ne sarebbe da dire! Ma ripetermi, lo sapete, non mi è mai piaciuto. C’è che ci hanno martellato i coglioni per anni con la crisi: ebbi a dire che la crisi non esiste, ch’era soltanto la giustificazione al fallimento d’un modello economico sociale e politico (Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all'infinito in un mondo finito è un folle, oppure un economista – Kenneth Boulding) per continuare a


fotterci. Poi, ci hanno anestetizzato le gonadi a furia di spot sull’incapacità dei politici di trovare soluzioni al degrado istituzionale… Adesso ci stanno massacrando le palle con la corruzione imperante… Anni fa, diversi anni addietro, ebbi a scrivere un pezzo in cui auspicavo un gran rogo da cui salvare poche cose, prima fra tutte la grundnorm, madre del diritto positivo, da accordare con i principi del diritto naturale e dar vita (nuova) a un (nuovo) corpo di norme estremamente sintetico e chiaro… che avesse sostanza comprensibile a tutti e certezza fattuale per tutti Utopia? Forse sì. Ma, senza scomodare né sposare filosofia alcuna (e, meno che mai, far riferimento a qualche ideologia…), tra tutto il ciclico reiterare di ricette politiche e pseudo tali, non sarebbe il caso di praticare un vecchio istituto del diritto romano? Quale? La dittatura! Un attimo, non quella che genera la tirannide e il dispotismo. Non quella di tante nefaste pregresse (e attuali...) esperienze di governo totalitario. Ma quella cui i Romani ricorrevano in situazioni di emergenza (le più note erano quelle del dictator seditionis sedandae causa e del dictator rei gerendae causa), dando un potere illimitato per un tempo limitato (sei mesi) al dittatore per la difesa dello Stato e della costituzione… Si potrebbe azzerare quel che non va in questo SISTEMA, per ripartire dal

buono che c’è, praticando moderazione e giustizia… Utopia? Forse sì. Ma quel che, sin dal 1972, accade in Bhutan (ne ho scritto altrove…) è realtà! Non credo sia un modello imitabile (ogni luogo è tale per le peculiarità che lo caratterizzano…), ma un modo di vivere secondo cui ha fondamentale importanza l’esistenza individuale e i rapporti con l’altro, un modo di vivere cui tendere… Diceva bene Bukowski, imparo molto di più da un dialogo con un meccanico che da una lezione d’un cattedratico… Io non ho lezioni da dare a nessuno, però quando scrivo non lo faccio soltanto per me. Tra i diversi libri accumulati sul comodino prendo quello di Kapuściński ché, grazie a dio, leggere è sempre un viaggio, anche se prima mi piacerebbe… Mi piacerebbe dirvi d’un vecchio marinaio irlandese. D’una casa di pochissimi metri quadrati. La sua. Un paio di minuscoli ambienti. Stracolmi d’oggetti, di carte, d’utensili, di tele colorate, di vita. Un vecchio marinaio irlandese in pensione. Capace di vivere in solitudine. Tra le sue cose. Quelle d’un’esistenza intera. Raccolte in giro per il mondo. Sulle navi mercantili. E d’una donna australiana. Che voleva sposare. Che non l’aspetta più, ormai. Alla quale nemmeno lui più pensa, come si può pensare a qualcosa che riguarda il futuro. Mi piacerebbe parlarvi della sua stufa a legna e del fornello dove si fa da mangiare. E mi piacerebbe

Ad illustrare una fotografia di Henri Cartier-Bresson

sfogliare una copia del suo libro stampato in cento esemplari e fermarmi sulle pagine di quella sua vita (come tante sconosciute). Chissà, un giorno capiterò da quelle parti. So che abita nel quartiere adiacente quello di case a due piani tutte uguali, dove, per riconoscere la propria, i portoni sono uno giallo, l’altro rosso, l’altro ancora azzurro e via dicendo. Lì dove il colore (della porta d’ingresso e soltanto quello) ti dice: entra, sono casa tua, t’aspetto. Forse svicolerei ancora un po’, nella strada del commercio, dove c’è un negozio di, no, non provate a chiedere di cosa, vi risponderebbero ch’è un negozio, nient’altro, un negozio e basta. Un negozio di niente, dove si vende tutto, esclusa Sophie. Tutto e niente. Proprio come la parola negozio. Proprio come ogni parola. Quando la si ripete tante volte. Come un gioco. Come una musica. Come il funk. Come quello che adesso è nell’aria. Come quello che sto ascoltando. E (dal suono) le immagini, le meravigliose immagini, immagini (oltre tutto) d’energia pura: Rufus Thomas che si esibisce sulle note di Funky Chicken nell’indimenticabile edizione di WattStax di non ricordo quale anno, ma fa niente, ché quel che conta non è chi canta bensì chi balla e lì ballavano tutti…


della domenica n°80 - 21 giugno 2015 - anno 3

spagine

contemporanea

Quale carcere?

Ad illustrare una fotografia di Robert Mapplethorpe

I

n questi giorni, il presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha lanciato un appello affinché si rimettesse mano alla riforma penitenziaria del 1975. Secondo l’autorevole parere di Napolitano, è necessario intraprendere un nuovo corso per le carceri italiane, dal momento che non c’è solo un problema normativo, ma anche “culturale” da affrontare. La gente continua a sopravvivere in carceri sovraffollate, sporche, con servizi igienici carenti. I suicidi, purtroppo, si susseguono. Dopo la Serbia e la Grecia, l’Italia è il paese del Consiglio d’Europa con il maggiore sovraffollamento. L’Italia è anche al terzo posto per numero assoluto di detenuti in attesa di giudizio, dopo Ucraina e Turchia. I Radicali sono, da sempre, sensibili a tale tematica e diffondono periodicamente documenti specifici. Da un recente dossier, redatto dai politici di via di Torre Argentina, emergono dati molto allarmanti. Dall’analisi complessiva del “pianeta carcere”, compiuta in questi anni, è palese una vera e propria situazione emergenziale di sfascio della legalità. Negli ultimi dieci anni, la popolazione carceraria è cresciuta dell’80%. Gli spazi e le strutture sono rimasti pressoché invariati, e quindi invivibili. Ci sono carceri come Poggioreale, Regina Coeli, San Vittore davvero in pessime condizioni. E un po’ dappertutto le prigioni sono vecchi stabili costruiti nel

1700- 1800, decadenti, privi di spazi di socialità, di aree verdi, di strutture sportive. È vero, ci sono anche strutture più nuove, come ad esempio le “carceri d’oro”, costate miliardi di lire ai cittadini negli anni ’80, progettate per fronteggiare l’emergenza terroristica. La situazione sanitaria è raccapricciante. Quasi tutte le carceri hanno bagno e cucina nello stesso locale; il cambio delle lenzuola avviene dopo molti giorni. Il personale è insufficiente. Sono pochi gli assistenti sociali, gli educatori, gli psicologi, i medici. L’assistenza sanitaria è deficitaria. Il diritto alla salute dei detenuti è rimasto sulla carta. Una situazione particolarmente grave riguarda i tossicodipendenti e i sieropositivi. Solo un numero limitato di ospiti delle patrie galere ha la possibilità di svolgere un lavoro. Duole davvero il cuore sapere di uomini e donne, stipate in luoghi fatiscenti. Si può accettare che un essere umano stazioni, umiliato, in celle di due metri quadrati? Ma quanto vale un uomo? Espiare la pena non vuol dire affatto subire ammende “non umane”. Detenuti, direttori, operatori, guardie penitenziarie sono le vittime sacrificali d’un sistema malato, che andrebbe curato con una terapia d’urto sostenuta. L’emergenza non si risolve con misure magiche, miracolistiche, ma solo affidandosi alla programmazione e al buon senso. Ristretti Orizzonti lavora in contatto diretto con i direttori degli istituti di esecuzione penale. Bisognerebbe ripartire dall’uomo, dalle

di Marcello Buttazzo

sue necessità, dalla sua fragilità, tenendo conto che tanta sofferenza può essere quantomeno tamponata, lenita. Costruire, ad esempio, nuove prigioni senza concentrare energie per sistemare quelle già esistenti è un eccessivo sperperio di risorse. Bisogna solo ricominciare dall’uomo, capirlo nel profondo, nella consapevolezza che ogni patimento non può essere mai una irreversibile landa desolata: nei fatti ogni ferita merita d’essere ascoltata, nutrita. Da tempo, l’Europa condanna il nostro Paese per il mancato rispetto dei diritti umani nei penitenziari. Anche la nostra coscienza di uomini liberi sbraita, si lamenta. Se un essere umano non è più un essere umano, s’approfondisce un vulnus nel connettivo democratico. Eppure, con misure ordinarie di lungimirante amministrazione, i nostri parlamentari potrebbero revisionare ancora più radicalmente alcune leggi dichiarate incostituzionali dalla Consulta (quella FiniGiovanardi sulle droghe e quella BossiFini sull’immigrazione), introducendo le pene alternative, in alcuni casi la depenalizzazione e gli arresti domiciliari. Si potrebbe davvero decongestionare un sistema avvelenato, rendendo più accettabile l’esistenza degli uomini. E’ fondamentale diventare razionali, propositivi, mirare alla funzione primaria della rieducazione: il carcere non può diventare una terribile e definitiva condanna.


della domenica n°80 21 giugno 2015 - anno 3

contemporanea

spagine

I

Con stupore bambino!

n un’era di turbolenze, di sconquassi, di avanzante crisi lavorativa e economica, di polverizzazione d’ogni certezza, possiamo sempre fermarci ai bordi del mondo e misurare il tempo che ci lambisce. In questa società contraddittoria, di tecnicismi esasperati, di comunicazione contraffatta e manifestamente abnorme, non ci resta davvero che recuperare parti sensibili di noi: quel nucleo radiante che tutto muove, da cui sorgono desideri, attese, speranze, passioni. Quel nocciolo che emerge alla luce del sole, e ci dona quotidianamente un ventaglio di sentimenti ambiti: fragilità, sensibilità, ansietà, grazia, bellezza, amicizia, corrispondenza d’amorosi sensi. Sensazioni diversificate, di varia umanità, che caratterizzano un dominio ben definito, all’interno del quale ci muoviamo e “recintiamo” la nostra vita senza barriere. È vero, attraversiamo attualmente una profonda manchevolezza antropologica, di principi e di valori, siamo troppo frammentati fra interessi troppo dispersivi. Ma al cospetto d’una frattura evidente, possiamo sempre attivare le risorse più sotterranee e farle prosperare per nutrirci di linfa vitale, per bere a mani unite sorsi d’acqua fresca. Gli scenari che sommuovono le nostre fibre e scuotono le membra sono innumerevoli: ognuno ha la sua significazione, il suo passo. Anche ciò che nella vulgata comune viene identificato come un limite, per noi anime pure e adamantine può diventare un patrimonio di inesausto sapore. La fragilità, che a certuni appare un’imperfezione, un lato debole, qualcosa da tenere nascosto, in realtà può divenire un punto di riconoscimento, un bel segno identitario. Fragilità dinanzi ad una quotidianità sovente vorticosa, divorante, che non si cura di noi. Fragilità dei nostri vissuti che non riescono ad uniformarsi al pensiero domi-

nante dei cosiddetti strati vincenti, di chi detiene invasivamente e volgarmente il potere. La fragilità non è un accidente, non è una iattura, non è una landa di desolazione: essa è connaturata all’essere precipuo di alcuni di noi. Essa è tenerezza, comportamento delicato, dolce e virtuoso, è sapienza, è riconoscimento del limite. È spazio soave entro cui oscillare, tralucere, farsi riconoscere dall’altro. La fragilità è uno strumento formidabile, di coesione, che ci mette in contatto empatico con l’altro da sé. Di converso ad essa c’è l’arroganza, la superbia, di chi ritiene artificiosamente di poter piegare sempre il mondo e l’esistente al proprio volere. La fragilità è sinonimo di umiltà, di bellezza, è stagione di sogno. E i sogni sono variabili e fragili. Fragile è la nostra timidezza, altra virtù capitale. La nostra riservatezza è fragile, destino dei giorni azzurri, quando attendiamo albe solitarie e frementi per abbracciare il mondo. Fragile e benedetta è la nostra ansia esistenziale. Che, se malauguratamente raggiunge livelli insostenibili di guardia, può diventare perniciosa, invalidante. Ma se l’ansia viene mantenuta a livelli accettabili, fisiologici, può essere finanche una panacea, un’ancora di salvezza. Una molla che ci sospinge e ci invoglia ad affrontare gli accadimenti con animo rinfrancato. L’ansia è intimamente legata all’amore, e alla sensazione di vuoto e di pieno. La madre che partorisce il suo bimbo o la sua bimba si svuota d’una interiorità che aveva in grembo. Ora ha il suo bimbo (o la sua bimba) che le dà pienezza, ma dentro nell’anima le rimane un’impressione di vuoto. Un altro baluardo inespugnabile è l’amicizia, che fra i beni non consumistici è forse quello più ricercato. A volte, più delle storie d’amore, l’amicizia ci fa contattare gioie e dolori, notti e improvvisi lucori.

Come poi non provare stupore bambino, meraviglia, quando ci troviamo a costeggiare la grazia e la bellezza. Il bello, in tutte le sue molteplici forme, è un antidoto potente contro le brutture. La nostra costellazione minimalistica s’arricchisce della semplicità, che è un gene del Dna codificato contro l’altezzosità e l’insolenza di certuni, che tendono quotidianamente a stuprare il vivente in corsa e ad enfatizzare pateticamente le loro “meravigliose gesta”. Ciò che accomuna gli umani è l’esperienza amorosa. L’amore vissuto, o anche quello solo vagheggiato, vezzeggiato. L’amore per una donna o per un uomo è una mirabilia, che ti fa cogliere la straordinarietà della Natura e dell’Universo. I palpiti del sole, i tenui bagliori delle stelle, i trasalimenti rossicci del crepuscolo, l’armonia della sera serena. L’amore per un uomo o per una donna ti fa vincere la morte, ti dà una luce d’eterno. L’amore per un uomo o per una donna è slancio vitale, è alba che barbaglia sempre. Anche quando l’amore è assente, c’è l’attesa che esso possa tornare impreveduto e prepotente, perché l’amore è dentro di noi. I poeti hanno dedicato il loro sangue a tratteggiare la fragile bellezza e l’amore. Come Dino Campana, che celebra una donna genovese: Tu mi portasti un po’d’alga marina/ Nei tuoi capelli, ed un odor di vento,/ Che è corso di lontano e giunge grave/ D’ardore, era nel tuo corpo bronzino:/ -Oh la divina/ Semplicità delle tue forme snelle-/ Non amore non spasimo, un fantasma,/ Un’ombra della necessità che vaga/ Serena e ineluttabile per l’anima/ E la discioglie in gioia, in incanto serena/ Perché per l’infinito lo scirocco/ Se la possa portare./ Come è piccolo il mondo e leggero nelle tue mani!/

Marcello Buttazzo


spagine

Onore

Su “Fratello narrastorie” da Spagine il ricordo di Giorgio Cretì

R

occo, ho letto uno solo dei tuoi scritti (Fratello narrastorie!,Spagine Fondo Verri Edizioni, 2015) e mi viene da dire che mi piace la tua lingua perchè contiene una buona dose di anacronismo (non è una dichiarazione assoluta, non può esserlo; sarebbe troppo azzardato). Già l’introduzione al tuo ricordo di Giorgio Cretì è punteggiata di parole, qua e là, con macchie di ruggine. Queste parole ossidate, tra altre più lucide, perché di uso corrente, indicano in modo marcato un distacco.

“Dei passi indietro rispetto all’attualità?”, ho subito pensato, proseguendo. L’esperienza di lettore mi suggerisce, tra tante possibilità, che le parola scritte in un ipotetico presente, alcune volte indietreggiano e altre si portano avanti. Nulla di trascendentale, per carità (forse sto solo esprimenendo preconcetti). Sono maniere, mi sembra, che la parole scritte perseguono nella loro tensione verso la letteratura. Verso qualcosa, cioè, che ambisce a durare poco più dello spazio di un mattino della rosa poetica. Qualcosa che, magari, emani fotoni anche singoli a perturbare lievemente il presente.

È una storia di fratellanza, quella di cui tu hai scritto. Nel ricordo di Giorgio Cretì, i dati biografici sono accostati alla presentazione per frammenti di alcuni suoi scritti (Faccellavatu, L’eroe antico, Pòppiti). E tra questi inframezzi brani di tuoi racconti. Così evidenzi la comunanza di temi nella rievocazione della vita contadina nelle periferiche plaghe del Basso Salento.

ai padri!

Per tornare all’anacronismo di cui scrivevo all’inizio, osservo come la tua prosa, non casualmente fané, qualche volta ha un andamento placido, che restituisce per allusione i ritmi lenti dei tempi passati; altre volte subisce rapide accellerazioni e condensa in pochi righi anni di biografia.

Alla fine del tuo ricordo di Cretì, indichi per la letteratura il ruolo di maestra di vita, ossia di formare e guidare le coscienze. Ora, leggo abbastanza spesso giaculatorie sulla fine dei libri di carta. Se questa paura si avvera, si azzererà la funzione dei libri di essere maestri di vita. Io non credo molto in questa funzione della letterature e sono integrato, non apocalitico, riguardo alla fine dei libri. Sono aumentati i supporti, i medium, su cui leggere. Mi piace leggere e io li uso tutti. E questo credo che capiti a buona parte delle persone che amano leggere. Nella chiave di volta del tuo ricordo, però, hai indicato nel mal di Salento la molla che ha spinto Giorgio Cretì a scrivere racconti ambientati nel Salento. Ricordare, annotare, scrivere, queste le tre azioni che poni alla base della scrittura, che unisce precisione e rigore descrittivo, di Cretì. Più che letteratura maestra di vita, qui mi sembra che sia la letteratura come testimonianza, la letteratura come estremo baluardo all’erosione implacabile del presente. Maestra di vita o testimonianza, quanti compiti che sono assegnati alla letteratura! (E la letteratura, come una coperta che è tirata da più parti, nel mentre copre meglio una zona forse ne lascia meno coperta un’altra.)

La guida per le giovani coscienze è un compito posticcio rispetto alla testimonianza, io credo. Penso però anche che la testimonianza, per me una funzione fondamentale, possa avere come cascame quella di fornire un esempio formativo. Sia la tua scrittura che quella di Cretì hanno il mal di Salento. Tra i due mali c’è una bella differenza. Il tuo è a chilometro zero, ed è originato dalla nostalgia per la scomparsa della vità contadina, che così splendidamente rievochi nell’introduzione. In quello di Cretì, che dopo il servizio militare si stabilisce in Lombardia, a questa nostalgia si aggiunge quella della lontananza geografica. Mi viene in mente, a proposito della testimonianza, quello che ha scritto Primo Levi in I sommersi e i salvati. Se ricordo bene, non ho il libro sottomano, lì Levi dice che i veri testimoni dell’orrore di Auschwitz sono coloro che sono morti, non i sopravvissuti. Sembra un paradosso, ma non lo è. Al cospetto della testimonianza delle persone che sono morte e che non possono più parlare, le parole dei sopravvissuti sono una testimonianza parziale. Tutte le testimonianze della letteratura, e non solo, sono parziali. Non fa niente.

Ben venga l’antologia degli scritti di Cretì. Io auspico però la pubblicazione integrale, se non di tutti, di almeno uno dei suoi libri, di cui tu hai fornito piccoli assaggi di scrittura. Una scrittura d’altri tempi. Ma di un buon valore letterario, a giudicare dagli stralci. Massimo Grecuccio

nella fotografia Giorgio Cretì ritratto da Antonio Chiarello


della domenica n째80 - 21 giugno 2015 - anno 3

lettera aperta a Rocco Boccadamo


spagine

Pingula, pingula...

Un’antica filastrocca e la “chiapparata” del camposanto

L

di Rocco Boccadamo

eggibilmente, “pingula, pingula, barbaria (traduzione sconosciuta), vedi che dice la mia maestra, la mia maestra, la Pignatara, vedi che dice il cucchiaio, il cucchiaio pulisce pulisce, vedi che dice la trombetta, la trombetta che fa tuu, tuu, esci fuori perché

tocca a te”. Una filastrocca alla buona, vuota di significati e nessi e, perciò, leggera, autenticamente d’altri tempi, sopravvissuta a stagioni, abitudini, modi d’essere, soli e cieli lontani. E però, ricca della forza del tramando orale fra generazioni, lessico dialettale rigorosamente salvaguardato nella terminologia d’origine. Circa sessantacinque anni fa, andava di tanto in tanto sciorinandomela nonno Cosimo, classe 1879 e omega a centodue primavere e mezzo, e, ora, m’accorgo che, per incanto, senza il minimo preordino d’idee, sono io, con i miei settanta e passa calendari, che, all’ombra della veranda o al fruscio lieve dei pini della casetta al mare, la dico e ripeto alla bimba bionda, figlia della figlia, che, d’anni, aspetta di compierne sei. Nonno Cosimo, il quale, dopo aver avuto per prima zita la vicina di casa Marta, passò ad amoreggiare, si fa per dire, altri tempi, con una seconda giovane del rione “Ariacorte”, di poi sposandola, ecco nonna Consiglia, e procreando insieme ben sei eredi. Durante la guerra mondiale 1915/1918, nonno Cosimo era stato soldato a Belluno, esperienza di cui soleva raccontare a guisa, sullo stesso piano e genere delle impressioni ed emozioni che, di lì a tanti decenni, sarebbero state riferite dai primi cosmonauti sbarcati sulla luna. Ritornato incolume dalla trincea al lavoro nei campi al paesello, mentre brandiva la familiare falce d’una mietitura, in un esercizio, quindi, banale, gli capitò, purtroppo, di perdere un occhio, letteralmente devastato dalla penetrazione di una spiga. Così che, dovette portarsi avanti una fila di lunghe stagioni con l’unico rimastogli, a sua volta, per la verità, a causa del carico di sforzi, a un certo punto compromesso e ridotto al lumicino da un’invasione di cataratta. Ad ogni modo, nonno Cosimo, sia pure con un fievole barlume di luce davanti a sé, non si fermò, né si lascio andare, sino al raggiungimento del ragguardevole traguardo di genetliaci accennato all’inizio. Restò contadino a tempo pieno, già ottantenne e passa, più volte al giorno faceva su e giù da casa al vicino piccolo fondo di “Monticelli”, sovente, alla controra, vi si tratteneva a interrompere la lunga quotidianità di fatica attraverso un riposino sotto la tettoia, rilassandosi in breve a corpo morto: così assopito, in un’occasione, dai muri della casupola campagnola si calò e discese un serpentello, infilandosi direttamente in una manica della camicia. S’immagini il brusco ridestarsi a soprassalto del povero uomo e l’indumento da

lavoro, con relativo ospite, strappato d’addosso con forza e ridotto a brandelli! Sorpresa, brutta sorpresa per nonno Cosimo, tuttavia non paura vera e propria. Occupazioni agricole, non solamente a “Monticelli”, ma anche in altri minuscoli terreni di proprietà assai più distanti, “Marina di Diso”, “Marina d’Andrano”, nonché in appezzamenti di maggiore estensione condotti in regime di mezzadria, “Magno”, “Bosco dell’Acquaviva” e “Frasciule” nei pressi di Castro, accanto al Casino del titolare del fondo, don Gustavo, immancabile destinatario e beneficiario delle primizie degli alberi da frutta delle “Frasciule”, che nonno Cosimo gli omaggiava di persona nel palazzotto di villeggiatura, giustappunto a Castro. Dal rione Aracorte alle “Frasciule” si stendevano un paio di chilometri, che, talora, chi scrive, a 6/7 anni, aveva agio di coprire a cavalcioni sulle spalle dello zio Vitale, rigorosamente coprendosi gli occhi, con le palme delle mani, intorno al passaggio davanti al cimitero, bastavano, infatti, quei cipressi a suscitargli dentro agitazione e paura. C’era, alle “Frasciule”, una grande vasca scoperta (pilune) ricolma d’acqua piovana, regno permanente di rane e rospi gracidanti, ma, talvolta, luogo di sosta di qualche biscia e, allora, via a gambe levate. Nella casetta di pietre, si consumavano, al fresco, i poveri, ma sani e genuini pasti del tempo, in genere acqua e sale con “friselle” inzuppate e una cria d’olio, per cucchiai i gambi robusti di cipollotti appositamente sagomati e arrotondati alla base inferiore, onde poter attingere allo spartano alimento nell’unica scodella per l’insieme dei commensali. Nella remota fanciullezza, l’attuale ultra settantenne dai capelli scarsi e bianchi, provava un senso d’impressione al semplice transito lungo il muro di cinta del camposanto. Adesso, non succede più, quel sito, con i cipressi che, in parte, sono rimasti gli stessi, gli sembra naturalmente familiare, forse perché, ivi, sono presenti le tracce di nonno Cosimo e, ancora più, i volti dei genitori che fanno capolino uno accanto all’altro. Una novità a sorpresa, si è appalesata in occasione di una recente visita alla dimora dei trapassati: sotto la soglia d’una cappella di famiglia, è spuntata e cresciuta rigogliosa una verde pianta di cappero, come ve ne sono tante, fra terra e rocce, nelle marine di queste plaghe e, finanche, sulle attigue scogliere profumate di salmastro. Notandola e soffermandomi un attimo con lo sguardo e i pensieri, ho voluto immaginare la provvidenziale opera d’un refolo di vento che ha spostato, proprio in quel punto e in quel luogo, un seme della pianta in discorso, quasi a voler porre un ricordo di vita a contatto di un’umanità, come nonno Cosimo, che, da breve o lungo tempo, è intenta ad arare, coltivare e percorrere campi e strade, finalmente con desueta leggerezza e senza il peso della stanchezza.


spagine

Pingula, pingula, barbaria, vi ce dice la mescia mia, la mescia mia, la Pignatara, vi ce dice la cucchiara, la cucchiara netta netta, vi ce dice la trummetta, la trummetta tuu, tuu, essi fori, ca tocca a tu.

della domenica n째80 - 21 giugno 2015 - anno 3

racconti salentini


della domenica n°80 - 21 giugno 2015 - anno 3

spagine

C

in agenda - videoarte

ala il telo su Washing by Watching, la rassegna dedicata alla videoarte e alla fotografia contemporanea curata dall’associazione DamageGood all’interno della Lavanderia Jefferson di Lecce. Domenica 21 giugno spetta a canecapovolto, collettivo attivo in Sicilia dagli inizi degli anni Novanta, chiudere la seconda stagione di un progetto curatoriale che ha accolto, tra gli altri, gli interventi di The Cool Couple, NastyNasty©/blisterZine e Cyop&Kaf. Si tratta di quattro collettivi “ibridi”, per filosofia e tipologie di ricerca artistica, che attraverso il talk informale – strumento principe degli appuntamenti in calendario – si sono confrontati su metodi e pratiche collaborative, rappresentazione, spazio pubblico e paesaggio, main core della rassegna, approntando anche diversi interventi installativi all’interno di questa location d’eccezione, la Lavanderia Jefferson, per l’appunto. Ospiti dell’ultimo appuntamento canecapovolto. In una continua sperimentazione, supportata dall'uso di vari mezzi quali film acustici, video, installazioni, happening, collage, il gruppo sviluppa un'indagine sulle possibilità espressive della visione e sulle dinamiche della percezione, adoperando tecniche originali di trattamento e manipolazione dell'immagine. Partendo dal cinema, dunque da esperimenti visivi e sonori inizialmente legati al cortometraggio in super 8, canecapovolto ricorre a diverse pratiche di produzione audio-video, "sabotando" l'immagine mediatica di partenza con l'intento di attuare strategie di spiazzamento, rivolgendo grande attenzione alla matrice scientifica della comunicazione e alla risposta nello spettatore. Per Washing by Watching volume quattro il collettivo approfondirà gli aspetti legati alla loro produzione di film acustici ed altri modelli di narrazione sonora all’interno della sezione speciale Spin Cycle della rassegna, che come ogni edizione, chiude il cerchio nella rassegna. L’appuntamento è alle 19, in via Egidio Reale, a Lecce. A seguire, alle 21, l’afterparty con il djset a cura di Federico Primiceri che si terrà presso Il Baroccio, a pochi passi dalla lavanderia.

Mia spitta no coração

In uscita, da Anima Mundi, l’album di Roberto Licci e Marco Poeta

in agenda - musica

L

Il brano Comu è bellu è su www.suonidalmondo.com

a saudade portoghese incontra la malìa dei canti tradizionali salentini, tra le corde della guitarra portuguesa di Marco Poeta, ambasciatore del fado in Italia, e Roberto Licci, voce fatata e storica del Salento, fondatore dei Ghetonìa. Il disco, il cui titolo tra portoghese e griko salentino significa una scintilla nel cuore, è un incontro tra due terre più simili di quanto possa sembrare. Dalle sonorità delle lingue (portoghese e dialetto

salentino romanzo) all'ariosità dei canti d'amore e nostalgici della Grecìa Salentina. Arrangiamenti delicati e calibrati, suoni caldi e tanto pathos fanno di quest'album una vera chicca. Marco Poeta e Roberto Licci Dalla bossa nova al fado, dalle collaborazioni con jazzisti come Franco D'Andrea, Franco Cerri, Enrico Intra, Ares Tavolazzi ai cantautori Finardi, Dalla, Servillo, Bubola, Bindi, Francesco di Giacomo ma soprattutto Sergio Endrigo. Marco Poeta è un eclettico chitarrista di cui è noto il suo amore per la gui-

tarra portuguesa e il fado, per il quale in Italia è un ambasciatore. Roberto Licci è invece una voce unica e storica della musica tradizionale salentina. Cantante solista prima del Canzoniere Grecanico Salentino e dal 1992 leader dei Ghetonìa, famoso ensemble dallo stile raffinato e il repertorio in griko, idioma della Grecìa Salentina. I due si incontrano per la prima volta qualche anno fa ed esordiscono con il disco Mia spitta no coração (AnimaMundi) pubblicato grazie al sostegno di “Puglia Sounds Record 2015".


della domenica n°80 - 21 giugno 2015 - anno 3

spagine

in agenda - giornalismo

Tra San Cesario e Lecce il 3 e il 4 luglio il numero zero della rassegna

“Io non l’ho interrotta

La seconda Repubblica parla troppo?"

M

arco DamiRiclano, cardo Luna, Marianna Aprile, Alessia Rotta, Massimo Bray, Vittorio Alvino, Luca Bottura sono alcuni degli ospiti di “Io non l’ho interrotta. La seconda Repubblica parla troppo?", rassegna dedicata al giornalismo e alla comunicazione politica che si terrà venerdì 3 e sabato 4 luglio tra San Cesario di Lecce e Lecce. Il numero zero della rassegna - che vedrà la partecipazione di docenti universitari, giornalisti, esperti di comunicazione, social media manager, politici - vuole indagare, tra il serio e il faceto, l'attuale situazione della comunicazione politica in Italia attraverso l'analisi del linguaggio e dei social, delle parole e dei comportonamenti dei giornalisti e della classe politica ma soprattutto analizzare le contraddizioni tra "il dire" e "il fare". La manifestazione sarà suddivisa in due fasi: un seminario mattutino e una rassegna serale. Nel corso delle due serate del 3 e 4 luglio (dalle 20.30 alle 23.30 circa) l'ex Distilleria De Giorgi di San Cesario di Lecce ospiterà alcuni incontri per discutere di giornalismo e politica, comunicazione e social network.

*

Spagine Fondo Verri Edizioni

Tra gli ospiti (il programma è ancora in fase di completamento) Riccardo Luna (giornalista e Digital Champion), Marco Damilano (giornalista l’Espresso – Gazebo), Massimo Bray (Direttore editoriale Treccani), Alessia Rotta (responsabile comunicazione del Partito Democratico), Elisabetta Piccolotti (responsabile comunicazione Sinistra Ecologia e libertà), Marianna Aprile (giornalista Oggi), Vittorio Alvino (presidente dell’associazione Open Polis), Gennaro Pesante (giornalista), Stefano Cristante (sociologo), Dino Amenduni (esperto in comunicazione politica), Luca Bottura (voce storica di Radio Capital), Adelmo Monachese (autore di Lercio), Antonello Taurino (attore, autore e regista), Fulvio Totaro (giornalista TgrPuglia), Ubaldo Villani Lubelli (giornalista e ricercatore universitario), Serena Fortunato (esperta di comunicazione), Alessandra Lupo (giornalista Nuovo Quotidiano di Puglia), Gabriele De Giorgi (giornalista LeccePrima.it e direttore Salento Review) e Giorgio Scolozzi (blogger). Sabato 4 luglio (dalle 10 alle 12) nell’Open Space di Palazzo Carafa a Lecce si terrà, invece, il seminario Open Data: Leggere, Comprendere, Informare. Cosa sono gli open data? Cos’è che rende questi dati davvero aperti e accessibili? Di quale tipo di dati stiamo

parlando? Cosa devono fare i giornalisti per leggere, comprendere e trasferire ai propri lettori/utenti le informazioni nel miglior modo possibile? A queste e altre domande risponderà Vittorio Alvino, presidente dell'Associazione Open Polis che, da quasi dieci anni, lavora con gli open data, fa progetti open source, promuove l’open government. Costruisce polis su internet, comunità politiche autonome e libere in cui ogni abitante partecipa alla vita collettiva e alla costruzione del bene comune, come nelle città stato della Grecia antica, la forma più antica e più pura di democrazia (Info www.openpolis.it). Il seminario è organizzato in collaborazione con l’Ordine dei giornalisti della Puglia e darà diritto a 2 crediti per tutti gli iscritti all’Ordine dei giornalisti. La manifestazione è organizzata da (Ri)Generazione Politica e l’Alambicco in collaborazione con Xoff. Conversazioni sul Futuro e Cooperativa Coolclub, con il patrocinio e il sostegno del Comune di San Cesario di Lecce, del Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione dell'Università del Salento e di alcune aziende private. Si può sostenere la rassegna con una piccola "promessa" su Produzioni dal basso.

Spagine è un periodico di informazione culturale dell’Associazione Fondo Verri esce la domenica a cura di Mauro Marino è realizzato nella sede di Via Santa Maria del Paradiso, 8.a , Lecce come supplemento a L’Osservatore in Cammino iscritto al registro della Stampa del Tribunale di Lecce n.4 del 28 gennaio 2014 Spagine è stampato in fotocopia digitale a cura di Luca Laudisa Studio Fotografico San Cesario di Lecce Programma delle Attività Culturali della Regione Puglia 2015 Artigiana - La casa degli autori


della domenica n°80 - 21 giugno 2015 - anno 3

spagine

in agenda - musica

Vento

da Workin’family

I

l 19 giugno è uscito il singolo “Vento”, canzone scritta a sei mani da Irene Scardia, Daniele Vitali e Carolina Bubbico e interpretata dal collettivo musicale Workin’ Family. L’idea nasce dalla partecipazione dell’etichetta pugliese Workin’ Label al bando “Salento in Musica” indetto da Puglia Sounds nel 2014 allo scopo di incoraggiare la produzione di musica che interpretasse una visione di cambiamento e di valorizzazione del territorio. Entusiasti dell’idea gli autori si sono messi al lavoro concependo la canzone “Vento” che, tra strofe rap e andamento funk, si fa portavoce di nuove idee, positività ed energia vitale. “Dalle pietre del Barocco soffia dolce il cambiamento. Io ci sono dentro!” canta il refrain della canzone immaginando, lontani da intenzioni campanilistiche, che il vento portatore di cambiamento e di buone visioni provenga dalla terra salentina, la cui immagine è sintetizzata nella pietra leccese. “Vento” arriva in breve tempo nelle sale di Sudestudio, noto studio di registrazione salentino, e prende forma negli arrangiamenti di Carolina Bubbico e i suoni di Filippo Bubbico, sound engineer nella sessione di registrazione e dei musicisti che hanno composto il collettivo Workin’ Family: Fabrizio Palombella al basso, Mimmo Campanale alla batteria, Roberta Mazzotta interprete degli archi e una sezione fiati composta da Emanuele Coluccia sax, Gaetano Carrozzo trombone e Alessandro Dell’Anna tromba; le voci sono della stessa Carolina Bubbico e di Daniele Vitali.

Nella foto Carolina Bubbico ritratta da Bursomanno


della domenica n°80 - 21 giugno 2015 - anno 3

spagine

in agenda - musica

Donne in black

Esce oggi la compilation a cura di Alessandra Margiotta In ottobre la presentazione al #NuovoMei di Faenza

E

sce oggi Donne in black la compilation che raccoglie le voci femminili italiane di black, soul e reggae music. Il progetto nasce da un’idea di Alessandra Margiotta a cui in questa pagina rivolgiamo alcune domande. La giornalista salentina - redattrice del sito Music in Black con il quale promuove tutta la black music - ha cercato e selezionato le tredici cantanti della compilation. Il progetto è supportato dal Mei e dall’etichetta discografica Irma Records. La track list è composta tutta da voci femminili e presentano tutte brani originali. La compilation sarà presentata da Alessandra Margiotta e Giordano Sangiorgi durante il #NuovoMei che si svolgerà dal 1 al 4 ottobre 2015 a Faenza. Perché e da cosa nasce questa compilation di voci black femminili e quale il motivo che muove il progetto? È un’idea che avevo da diverso tempo ed aspettavo il momento giusto per poterla realizzare. Ne ho parlato un giorno al fondatore del Mei Giordano Sangiorgi, che ha accolto il mio progetto con entusiasmo e da lì è iniziato il mio lavoro di ricerca e scoperta di queste voci femminili. Il motivo di questa compilation è principal-

mente quello di mettere la donna al centro della musica dove spesso ricopre un ruolo marginale soprattutto nella black music. Voci promettenti e piene di talento che spesso si trovano a fare solo le coriste o, addirittura, ad abbandonare la musica. Basta guardare ad esempio i gruppi musicali, quante donne vediamo suonare in ogni band? Davvero poche. Spero che questa compilation sia di aiuto ad ognuna di loro dal punto di vista della visibilità che possono trarne e che possa essere uno stimolo per fare sempre di più, per non sottovalutare il proprio talento e per lottare al raggiungimento dei propri obiettivi. Spero che ognuna possa realizzare il proprio ‘sogno nel cassetto’. Le protagoniste che hai scelto sono tutte italiane? C’è una scena che nasce dai movimenti migratori? Le artiste che ho scelto sono italiane ed alcune straniere ma in ogni modo sempre legate al nostro Paese. Il motivo è voluto dal fatto di voler valorizzare artiste italiane perché l’Italia è ricca di talenti nascosti tutti da scoprire… basta solo cercare. Ne approfitto per citarle tutte, sono tredici: Azzurra, Francisca, Jahba, Jennifer Villa, La Marina, La Nena, Layla Yallow, Simple Momy, Sista Namely, Sistah Awa, Tizla, Vahimiti e Valentina Benaglia. Le voci femminili sono sempre state

organiche alla scena black italiana? Se no, quando hanno iniziato ad emergere? Di talenti femminili ne abbiamo davvero tanti, c’è chi è riuscito ad emergere ma ce ne sono tante che invece avrebbero bisogno di aiuto. Donne in Black nasce anche per questo, per aiutare a dar loro un po’ di visibilità sulla scena. Tu sei un’attenta osservatrice di tutto ciò che suona in Italia. Puoi raccontarci la scena black in Italia? L’Italia è un Paese con grandi potenzialità, abbiamo validi artisti e musicisti nella black music e spesso questi talenti non nascono dai talent show. Mi accorgo spesso però che gli italiani guardano maggiormente e supportano gli artisti stranieri a discapito di quelli della nostra terra. Va bene guardare oltre i confini ma che sia uno sguardo costruttivo e che aiuti nella crescita musicale, e non una forma denigratoria nei confronti dei prodotti italiani. Dobbiamo prima valorizzare, con sguardo critico, i talenti che abbiamo noi e poi guardare oltre i confini in modo costruttivo. Mauro Marino www.musicinblack.org

Link per ascoltare Donne in Black su Deezer:

https://www.deezer.com/album/10618370


della domenica n°80 - 21 giugno 2015 - anno 3

La tradizione tra partecipazione e cambiamento

spagine

Il 23 e il 24 giugno a Zollino per la Fiera di San Giovanni

in agenda

T

A

Zollino mercoledì 24 giugno, dalle 21.30, in Piazza San Pietro l’Associazione culturale Papagna presenta l’Orchestra Popolare di Via Leuca. L’orchestra è il risultato di un anno di ricerca musicale e antropologica tenutasi nel quartiere Leuca della città di Lecce. L’indagine che ha avuto come fine la creazione di un’orchestra musicale appartenente al quartiere, ha messo in evidenza le diverse entità etniche e spirituali che lo abitano: dall’etnia indiana di religione Sikh con il loro tempio sito nel quartiere, al coro di religione cattolica dell’associazione Migrantes di Lecce, che accoglie le sonorità africane del Kenia ed i canti cattolici cantati in lingua malawi, passando per l’antica danza sufi del lato arabo del Mediterraneo. L’orchestra riassume lo scambio tra culture, mescolando alla spiritualità culturale la convivenza e la condivisione tra gli abitanti del quartiere, mettendo in evidenza l’antico spirito di accoglienza del Salento. L’orchestra popolare di via Leuca, vede nella sua compagine: Richard Gathiomi Murigu, rappresentanti dal Coro Migrantes, Antonio Castrignanò, Meli Hajderaj, Ramis Muthupitchchi, Giuseppe Spedicato, Gianni Gelao, Laura De Ronzo. La direzione artistica è di Raffaella Aprile; la direzione musicale è di Rocco Nigro. Produttore esecutivo Emanuela De Giorgi.

utti in sella a una biciletta con il Ciclotour di San Giovanni! L’iniziativa di Città Fertile (Gruppo Tecnico Orizzontale per le Strategie Urbane Partecipate) è il fiore all’occhiello della Fiera di San Giovanni, a Zollino il 23 e il 24 giugno. L’appuntamento è per mercoledì 24 giugno, con ritrovo in via Vittorio Emanuele (presso Palazzo Raho) alle 16.15, per un suggestivo percorso lungo 18 chilometri tra pietre e acqua. Coloro che non dispongono di una bicicletta potranno prenotarla inviando una mail a salentobici@gmail.com entro il 23 giugno o comunque presentandosi entro le 16.00 in piazza san Pietro. Sempre in piazza sarà allestita una ciclo-officina mobile dove poter riparare la propria bici. L’escursione rientra nel progetto «Stone.trad», finanziamento Interreg Stone and Tradition, l’arte della pietra tra Grecìa ed Epiro. All’organizzazione, con Città Fertile, Salento Bici Tour, In-Cul.tu.re - Futuri Possibili, Puglia Megalitica, Meditfilm, Ciclofficina popolare Bicivetta. Non è tutto: entrambi i giorni della festa vedranno protagonista la comunità. La sera del 23 giugno, dalle 21, il Laboratorio urbano To Kalò Fai - Salento Km0 dell’associazione Meditfilm, propone un dialogo tra i rappresentanti di diverse realtà locali e la giornalista Tiziana Colluto sul tema: Coltivatori di cambiamento. Per una nuova cultura rurale. Il 24 invece, dalle 21.30 il progetto di ricerca In-Cul.tu.re presenta una tavola rotonda con Gabriele Miceli dal tema: Coltivatori di cambiamento. Pratiche di sostenibilità, alla quale parteciperà anche Città Fertile. Sempre il 24 giugno a Palazzo Raho sarà inaugurata una sezione espositiva per gli esperimenti di comunità, due progetti in itinere ideati e attuati dal Comune di Zollino e da Città Fertile: «Aleola» e «Topos = Logos». Aleola è un percorso didattico realizzato con l’istituto scolastico di Zollino insieme all’illustratore Alberto Giammaruco e della designer Donata Bologna per la definizione di un’immagine identitaria del paese. Topos=Logos è una ricerca sulla toponomastica storica del territorio comunale realizzata con l’ etno-antropologa e linguista Manuela Pellegrino. Una ricognizione di tutte le fonti scritte per la ricostruzione della mappa dei toponimi delle campagne zollinesi, una georeferenziazione con la tecnologia gis e la ricostruzione dell’apparato etimologico.

Info: https://www.facebook.com/Fiera.San.Giovanni.Zollino Città Fertile al numero: 3287345384


della domenica n°80 - 21 giugno 2015 - anno 3

in agenda - natura

In cammino nel Parco Rupestre

Domenica 5 luglio un’escursione in zona Fasano

E

scursione turistica, molto facile e adatta a tutti con pochi Km di percorrenza, visto il caldo. Il percorso che Meditazioni in Movimento propone sarà volto alla conoscenza di Lama d'Antico e del tempietto di Seppannibbale in zona Fasano. Il Parco Rupestre Lama D’Antico ospita uno dei più suggestivi insediamenti rupestri della Puglia; all’interno di esso è possibile esplorare le diverse strutture che dovevano far parte del villaggio (X-XVI secolo d.C.): l’imponente chiesa scavata nella roccia, le grotte abitazioni e quelle legate al lavoro. Nell’area del Parco rientrano anche le incantevoli chiesette rupestri di San Lorenzo e San Giovanni dalle splendide e vivaci decorazioni pittoriche. L’intero percorso si svolge all’interno di un incantevole paesaggio naturale animato da uliveti e profondamente immerso nella macchia mediterranea. Successivamente ci sposteremo con le macchine per visitare il tempietto di Seppannibale. Terminata la visita tutti in acqua a Savelletri. E per chi ne avesse piacere, al tramonto ci possiamo fermare

per una frittura di pesce in riva al mare. Nel parco rupestre di Lama d’Antico, San Giovanni e San Lorenzo è riconoscibile un insieme di temi intrecciati tra loro, la cui varietà interpreta la complessità e la ricchezza del sito. La lama sui cui fianchi si aprono le grotte che compongono il villaggio rupestre offre una rara isola di naturalità: inattesi percorsi di natura si svolgono tra la macchia e le colture; straordinario è il paesaggio agrario storico in cui è immerso il villaggio tra cui spicca un giardino degli ulivi in cui ciascun albero appare unico per forma e forza evocativa. Sulle pareti delle grotte e sulla roccia è scritto il racconto della pietra, con la sua ricchezza di fossili, segni e storia Il villaggio rupestre rileva le tracce del vivere quotidiano e delle attività domestiche nelle grotte, tra gli innumerevoli segni del lavoro dell’uomo legati alle attività produttive del villaggio e le tracce delle vie dell’acqua, laboriosamente create per soddisfare il bisogno primario di raccogliere e conservare la preziosa risorsa. Accanto ai segni della vita quotidiana e del lavoro, appaiono, straordinarie e inaspettate, le chiese rupestri: magistrale è la sapienza con cui sono state scavate le

forme del sacro, cui si associano i colori e le espressioni delle vivaci ed intense decorazioni pittoriche che le arricchiscono. E non solo segni nella roccia, ma anche reperti, tracce del passato restituite alla ricerca archeologica, che attestano la millenaria frequentazione del sito da parte dell’uomo. Temi e suggestioni si lasciano scoprire poco alla volta, un dettaglio dopo l’altro, e ogni volta da angolazioni e con sfumature differenti, mutevoli nel corso della giornata e delle stagioni.

Note tecniche: Difficoltà: facile/ turistica Lunghezza del percorso: 3/4 Km Dislivello: trascurabile Durata: 5 ore Attrezzatura richiesta: scarpe da trekking, pantaloni lunghi, giacca a vento, cappello, crema solare, costume da bagno, telo mare, ricambio (pantaloni, maglietta, calzini, etc), zaino giornaliero con acqua e pranzo al sacco, macchina fotografica, torcia.

Quota di partecipazione: € 12 per chi è già socio. +€10 per chi non è ancora socio (necessario per aderire alle iniziative dell'associazione, comprensive di iscrizione e polizza assicurativa)

Partenza: ore 13:30 presso Bar Liberty di Brindisi. Oppure 14:30 appuntamento presso il parco Lama D'Antico.

Guida: Luigina Geusa 320/9771234


spagine

della domenica n°80 - 21 giugno 2015 - anno 3

in agenda - l’appuntamento

Segni di una comunità

Oggi a Galatina, l’Associazione Barriere al vento propone “Arti e inclusione sociale: primo evento di Community Dance”

L

'Associazione Barriere al Vento presenta domenica 21 giugno, dalle 19.00, alle Officine Martinucci a Galatina, sulla via per Sogliano, “Segni di una comunità - Arti e inclusione sociale: primo evento di Community Dance” una performance a cura della coreografa Chiara Dollorenzo. "Le parole non dicono tutto, l’arte nelle sue molte forme, dà la possibilità di esprimersi, di raccontarsi, di conoscerci... Questo accadrà! Tutti insieme nel grande gioco della pittura e della danza...” così recita l’annuncio dell’iniziativa che coinvolgerà persone con diversa abilità. Una dimensione corale che costruisce “aiuto” e solidarietà attraverso il contatto e il movimento. Ecco di seguito uno stralcio del diario di lavoro redatto da Viviana Indraccolo: “Tutti seduti. Nessuna differenza tra chi è su una sedia a rotelle e chi su una normale. Ci si saluta, si

sbadiglia, ci si stiracchia. Movimenti leggiadri con mani e braccia in alto a toccare il cielo e poi schhh in giù verso terra per ricevere riposo. Si piegano, si allungano in movimenti sinuosi a tramare forme nello spazio. Mani si trovano, braccia si cercano. Si muovono come fossero serpenti. S'intrecciano, ruotano. È una danza esotica. S'iniziano a formare le lettere con il corpo e si aggiunge anche la voce... T, braccia aperte; O, chiuse a cerchio; I, in verticale. Braccia che scendono piano, schhh, come una pioggia che scroscia. Fragilità, equilibri mantenuti dal sostegno del compagno... La fiducia, il lasciarsi andare tra persone incontrate per la prima volta. In un presente che chiama tutti a mettersi in gioco. Un vortice di corpi. Una moltitudine di corpi che si muove. Non è così nel Mondo? C’è da sperare accada in pace. Sorridendo!


Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.