Dal guado al blue jeans - Memoria del tessile nell'Alta Valle del Metauro

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dal guado al blue jeans memoria del tessile nell’Alta Valle del Metauro

Riannodare i fili della memoria, ricostruire un percorso fatto di manualità, abilità, fantasia. Più che un dovere istituzionale una vera e propria missione che la CNA di Pesaro e Urbino si è data, in particolare in questi ultimi anni, per raccontare una storia - quella degli artigiani del tessile e dell’abbigliamento - che ha caratterizzato lo sviluppo di questa provincia a partire dagli inizi del secolo scorso. In un quadro economico che muta continuamente, con crisi che attraversano in lungo e in largo i mercati, recuperare i valori legati all’esperienza, al lavoro fatto con le mani, significa avere non solo il rispetto che si deve alla propria tradizione, ma dotarsi degli strumenti giusti per inventarsi il proprio futuro. Solo partendo dalla conoscenza e dalla consapevolezza della propria storia si possono gettare basi solide per il domani. La manualità ed il gusto dei nostri artigiani, veri e propri artisti del tessile, sono diventati nel tempo elementi di sviluppo, benessere, coesione sociale. Sono arrivati però tempi in cui tutto questo non è più bastato. Le regole di una modernizzazione sempre più bulimica hanno imposto nei decenni scorsi regole che hanno favorito la quantità piuttosto che la qualità. Per tanto tempo anche in questo territorio si è rincorso l’elemento della quantità e del basso costo della produzione come una sorta di ideologia. La globalizzazione e l’ingresso nel mercato della concorrenza dei paesi asiatici hanno dimostrato quanto tutta questa corsa ai grandi numeri fosse inutile quanto effimera. Recuperare oggi il valore della qualità, del fatto a regola d’arte, della fantasia e perché no, dell’invenzione e della fantasia, può rappresentare il nuovo Rinascimento di questa provincia. La CNA ritiene indispensabile recuperare la propria identità come elemento di sviluppo per il futuro. Proprio per questo l’associazione considera prezioso questo nuovo lavoro di ricerca e raccolta di testimonianze che costituisce un ulteriore importante tassello nel complesso mosaico che rappresenta il settore del tessile-abbigliamento in provincia di Pesaro e Urbino.

A poco più d’un anno dalla presentazione della seconda edizione di Pesaro, la moda e la memoria, il volume che ha concluso con successo la ricerca sulle sartorie pesaresi avviata nel 2007, CNA Pesaro e Urbino torna a indagare il mondo del tessile, ampliando l’orizzonte fino alla zona della jeans valley, l’Alta Valle del Metauro, dove per lungo tempo si sono concentrate molte delle industrie di questo settore attive nella nostra provincia. Industrie oggi purtroppo fortemente segnate dalla crisi generale, ma che hanno avuto un ruolo determinante nello sviluppo economico e sociale dell’entroterra e dell’intera regione: alla nascita della jeans valley si deve, per esempio, se le campagne della Valle del Metauro hanno risentito meno di altre dello spopolamento legato all’emigrazione, che nel Dopoguerra spingeva molti dei nostri connazionali a partire in cerca di lavoro. Non va dimenticato, inoltre, che furono proprio le ditte façoniste concentrate tra Sant’Angelo in Vado, Urbania, Fermignano e i paesi limitrofi a offrire a molte donne in cerca di un’occupazione la prospettiva di un lavoro che, sebbene impegnativo, garantiva alle famiglie una possibilità in più di stabilità e crescita. Come è già accaduto con Pesaro, la moda e la memoria e con Regine, il volume dedicato al lavoro delle donne nella nostra provincia, anche la ricerca sull’arte del tessile partita da Sant’Angelo in Vado prevede, dopo l’esposizione, la pubblicazione di un libro. Dunque, nel ringraziare tutti coloro i quali hanno contribuito alla realizzazione di questa prima tappa del progetto, il Comune di Sant’Angelo in Vado, i partner dell’iniziativa, la curatrice Cristina Ortolani e, naturalmente, i protagonisti della ricerca, invitiamo di nuovo tutti i visitatori a partecipare al nostro grande racconto, per renderlo ancora più completo e avvincente.

Giorgio Aguzzi

Alessandra Benvenuti

Vicepresidente nazionale CNA Presidente provinciale CNA

Camilla Fabbri

Segretario provinciale CNA

Responsabile provinciale CNA Impresa Donna

Moreno Bordoni

Responsabile provinciale CNA Federmoda

L’Amministrazione Comunale di Sant’Angelo in Vado ha aderito con entusiasmo all’iniziativa della ricerca sul tessile proposta da CNA Pesaro e Urbino. Dal guado alla jeans valley, come suggerisce il titolo dell’esposizione, il nostro territorio può vantare una lunga tradizione nelle arti tessili, attestata, oltre che dagli ormai consolidati studi sull’oro blu anche dai consistenti ritrovamenti archeologici degli ultimi anni. La particolare chiave scelta per questa prima fase della ricerca, che si è svolta capillarmente attraverso il coinvolgimento diretto dei protagonisti, dalle tessitrici alle sarte, dai cappellai agli appassionati di storia locale per arrivare agli imprenditori del jeans, conferma la nostra attenzione verso la cultura popolare, documentata nelle sue sfaccettature a noi più vicine. Non è casuale infatti la scelta di Palazzo Mercuri quale sede dell’esposizione, che si pone come temporaneo, ideale complemento del Museo dei Vecchi Mestieri ospitato nel seminterrato dello stesso palazzo. La raccolta di testimonianze orali, che si sommano agli spunti provenienti da fonti tradizionali, oltre a consentire di non disperdere un patrimonio prezioso, ha evidenziato le grandi doti di ingegno e operosità della nostra popolazione. Quasi tutti gli intervistati hanno infatti sottolineato la caparbietà e la passione necessarie a creare e portare avanti la propria attività, sia artigianale sia ai più alti livelli dell’industria. Un’operosità e una creatività che, ne siamo certi, potranno costituire l’elemento vincente per far ripartire l’economia del nostro territorio, affrontando le sfide poste dall’evoluzione dei mercati. Non ci resta dunque che ringraziare ancora una volta chi ha contribuito a realizzare l’esposizione, e augurare a tutti buona visione. Ubaldo Pompei

Assessore alla Cultura Comune di Sant’Angelo in Vado

Settimio Bravi

Sindaco di Sant’Angelo in Vado

con il sostegno di

Comune di Sant’Angelo in Vado


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Nata seguendo la suggestione di un colore, quel blu sotto la cui bandiera si unisce l’Europa, di più, che tinge di sé l’intera civiltà occidentale; un colore docile e morigerato che secondo Michel Pastoureau nasconde ancora molte risorse e segreti, la ricerca sulla memoria del tessile nell’alta Valle del Metauro intende offrire una panoramica su arti e mestieri che sembrano ormai appartenere a tempi lontani, tenendo conto del filo che li lega a esperienze più recenti e a prima vista dissimili. Sempre più spesso connotati con l’aggettivo vecchi, in realtà i mestieri artigianali tramandano gesti e modi dei quali, se appena si scava, si individuano radici forti e vitali, forse ignote ai più giovani, ma capaci di incantare anche il più frenetico techno-addict. Non sorprenda, dunque, l’accostamento tra artigiani e industrie del tessile: pur se difficilmente documentabile nel concreto delle carte (quasi nessuno di loro aveva o ha esperienza sartoriale), gli imprenditori che hanno fatto grande il distretto produttivo dell’alta Valle del Metauro sono testimoni di un saper fare del quale, prima o poi, riemerge la componente più schiettamente artigianale, una creatività che sconfina nell’arte tout court, e che fa tesoro della più avanzata tecnologia impiegandola in prodotti industriali dal sapore di pezzo unico. Da Penelope in poi fili e trame sono affare di donne, e la valle del Metauro non fa eccezione. Accanto al blu, dunque, il rosa delle prime operaie del nostro entroterra: appartengono ormai al mito fondativo della jeans valley le macchine da cucire fornite da don Corrado Catani alle vedove di guerra dell’O.D.A. di Urbania e, dopo le filandaie dei primi del ‘900, saranno le dipendenti della CIA di Fossombrone a far sentire la loro voce contro i licenziamenti negli anni Ottanta del secolo scorso. Senza contare le migliaia di giovani che dagli anni Sessanta trovarono impiego presso le imprese tessili della zona, garantendo alle loro famiglie un’entrata sicura in un periodo nel quale partire sembrava d’obbligo per poter lavorare. Ancora una volta ringrazio la CNA di Pesaro e Urbino, Camilla Fabbri, Giorgio Aguzzi, e naturalmente Alessandra Benvenuti e Moreno Bordoni, ormai quasi abituali compagni di lavoro, per avermi dato una nuova possibilità di approfondire temi sui quali da tempo mi interrogo e che molto mi stanno a cuore. Grazie poi al Comune di Sant’Angelo in Vado, per la sollecitudine con la quale amministratori e dipendenti hanno ‘adottato’ il progetto, in particolar modo al sindaco Settimio Bravi e all’assessore Ubaldo Pompei, che mi ha accompagnato passo passo nella ricerca. Infine, grazie davvero a tutti coloro i quali mi hanno accolto nelle loro case come una di famiglia, affidandomi racconti, oggetti, ricordi. Come sempre, a loro sono dedicate le ‘pagine’ che seguono. Cristina Ortolani

Grazie a Amministrazione Comunale Sant’Angelo in Vado Biblioteca “V. Lanciarini” Pro Loco Sant’Angelo in Vado Archivio di Stato di Pesaro Famiglia Baiocchi Donatella e Marzia Baldelli Annunzio Faggiolini e Angela Lapilli Giuseppina Gorgolini Dini e Famiglia Adelmo Dini Antonietta, Liana e Maria Giuseppina Dini Adamo Giannessi Rina Maciaroni Maroncelli Elia Marchetti e la sua Famiglia Ernesto Maroncelli Ermanno Massani e la sua Famiglia, Maria Massani Decia Negroni Garulli e la sua Famiglia Luciano Palini Graziana Pasquini e Famiglia Pasquini St. Germain des Prés - Luciano Donnini, Maria Cristina Sartini Donnini e Famiglia Donnini Lavanderia Centro Italia - Fabio Pedini Blueline (Urbania) - Franco Stocchi e la sua Famiglia, Francesco Lenti PROmo jeans - Andrea Sassi e la sua Famiglia Grazie anche a Monsignor Davide Tonti Francesco Belfiori Glauco Ceccarelli Massimo Guerra Walter Monacchi Giorgio Aguzzi Alessandra Benvenuti Moreno Bordoni Emilia Esposito Camilla Fabbri Massimo Galli Maria Grazia Nardini Remo Pugliese Claudio Salvi Paola Travagliati

Crediti concept, ricerche, testi e grafica Cristina Ortolani progetto realizzato in collaborazione con Comune di Sant’Angelo in Vado coordinamento organizzativo Alessandra Benvenuti e Moreno Bordoni - CNA Pesaro e Urbino in collaborazione con Comune di Sant’Angelo in Vado ufficio stampa CNA Pesaro e Urbino allestimento Comune di Sant’Angelo in Vado stampa SGA - Sant’Angelo in Vado Fonti e Tracce Le interviste con i protagonisti del nostro racconto sono state realizzate tra l’Agosto 2010 e il Febbraio 2011. Indicazioni bibliografiche Guida - Annuario della provincia di Pesaro e Urbino, Pesaro 1884 (copia, raccolta N. Faggiolini, Sant’Angelo in Vado). V. Lanciarini, Il Tiferno Mataurense e la provincia di Massa Trabaria, memorie storiche, ristampa anastatica dell’edizione originale (1890-1912), Sant’Angelo in Vado 1988. “El Campanon”, annate 1953-1994 (archivio Pro Loco Vadese). G. Tassoni, Arti e tradizioni popolari, vol. 9, Ist. Grafico Casagrande, Bellinzona 1973 Vecchio Album, Sant’Angelo in Vado 1986. Delio Bischi, Guado e macine a Forlimpopoli e dintorni (secoli XV – XVI), in “Forlimpopoli.Documenti e Studi”, vol. IV, 1995. Augusto Calzini, La valle dei jeans Urbania - S. Angelo in Vado - Mercatello sul Metauro - Peglio, Sant’Angelo in Vado 1995. R. Giorgi, Santi, Dizionari dell’arte, Mondadori Electa, Milano 2002. M. Pastoureau, Il blu, storia di un colore, Ponte alle Grazie, Baume-Les-Dames, 2002. G. Ceccarelli, G. Cippitelli, Parlàsm acsé - Trecento parole dialettali da salvare, Sant’Angelo in Vado 2008. G. Ceccarelli con G. Cippitelli e U. Pompei Ridèsm acsé - Antologia di storielle vadesi, Sant’Angelo in Vado, Amministrazione comunale, 2010. W. Monacchi, Testimonianze dell’industria tessile antica nell’alta e media valle del Metauro, in E. Catani - W. Monacchi, Tifernum Mataurense II - il territorio, Me Monacchi ed., Urbino 2010. Fonti d’archivio Telai della provincia di Pesaro e Urbino, 1877; Camera di Commercio di Pesaro, carteggio, busta 130, fasc. 3 (Archivio di Stato di Pesaro) Quesiti e risposte relativamente all’industria manifatturiera esistenti nel comune di Sant’Angelo in Vado; Delegazione Apostolica, busta 10, 1824 (Archivio di Stato di Pesaro) Editti e notificazioni, Archivio storico comunale Sant’Angelo in Vado. Siti web I jeans di Garibaldi: http://www.adnkronos.com/IGN/Altro/?id=3.0.342922392 (sito consultato il 21 febbraio, ore 12). Blue jeans - Blue de Gênes: http://it.wikipedia.org/wiki/Blue-jeans (25 Febbraio 2011, ore 14.25). I pionieri: intervista a Renzo De Angeli del 17 Agosto 2009, da http://www.api.pu.it; sito consultato il 25 Febbraio 2010, ore 17.20

Avvertenza per la lettura In corsivo sono riportate le citazioni e le parole degli intervistati. Il corsivo identifica anche titoli di libri, spettacoli, siti web ecc.; le testate giornalistiche sono riportate tra “ ”. Le fotografie e i documenti appaiono con l’autorizzazione dei proprietari e degli aventi diritto. Il materiale raccolto è stato inserito con la massima cura; tuttavia gli organizzatori della mostra sono a disposizione per eventuali involontarie omissioni o imprecisioni nella citazione delle fonti.


Dal guado al blue jeans il guado Il guado è una pianta erbacea le cui foglie, dopo la macinazione, venivano confezionate in pani. Questi, previa essiccazione, dal coltivatore venivano ceduti ad un conduttore di macero nel quale, ridotti in polvere, per un mese circa subivano la fermentazione. La polvere, così affinata, era trasportata in sacchi alle tintorie per tingere in azzurro i tessuti. […] L’industria del guado che ebbe il suo splendore nel sec. XV cominciò a declinare, come in altre parti d’Italia e d’Europa, a cavallo dei secc. XVI-XVII per l’introduzione del più conveniente indaco (Indigofora tinctoria), dall’Oriente (Delio Bischi). Secondo alcuni studiosi il toponimo Sant’Angelo in Vado sarebbe da ricondurre proprio alla produzione di guado, particolarmente fiorente in passato nel Montefeltro e nella città degli Zuccari. Toponimo o no, che il guado fosse tra XIV e XVII secolo parte importante dell’economia delle zona dell’alta Val Tiberina, della Valle del Metauro e del Candigliano è stato comunque confermato, oltre che dai documenti d’archivio, anche dalle ricerche dello storico locale Delio Bischi, il quale per primo seguì negli anni Ottanta le tracce delle antiche macine da guado nei nostri territori, arrivando a censirne oltre quaranta. Caratteristica delle macine da guado, così come si vede in una stampa tedesca della metà del sec. XVIII, è la presenza sulla ruota fissa di scanalature che dal foro centrale si diramano radialmente verso il bordo per lo scolo dei liquami di macinatura; la macina mobile, che ruotava verticalmente sulla fissa, presenta invece le scanalature sul bordo esterno. A Delio Bischi è oggi dedicato il Museo dei colori naturali di Lamoli, che ha sede presso l’Oasi di San Benedetto, a fianco dell’antica abbazia benedettina di San Michele Arcangelo.

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blue jeans Oro blu, o del paese di Cuccagna La coltura specializzata del guado ha connotato società ed economia, incidendo significativamente l’esistenza di diverse figure artigianali, tanto da rinominare il guado oro blu. Il processo di lavorazione per la produzione di cilestre ricadeva su diverse attività di lavoro: coltivatori, macinatori, incettatori, vetturali, tintori, tessitori fino ai mercanti di tessuti. Tali attività erano strettamente regolamentate da leggi e statuti, a riprova della ricchezza indotta da tale filiera. Alternata alla coltivazione di cereali, la coltivazione di guado [Isatis tinctoria, crucifera a scansione biennale] inizia con la semina a fine febbraio; la prima raccolta delle foglie utili al colore cade a maggio, seguita da altre quattrocinque raccolte. Il raccolto era portato ai mulini, spesso condotti in forma associata, dove le macine riducevano la massa in poltiglia; modellata in palle [cocaigne, coques], la poltiglia era posta ad asciugare su graticci. Una volta essiccate, le palle erano raccolte dall’incettatore che le consegnava al macero, dove venivano sbriciolate, macerate con acqua e urina e lasciate fermentare; a fine macerazione, la pasta di guado era essiccata e ridotta in polvere. Infine, la polvere era prelevata dai vetturali e trasportata ai porti dell’Adriatico o venduta ai tintori dei tessili. Insieme con il guado e il tessuto jeans, il terzo elemento che scandisce il nostro itinerario nella memoria del tessile a Sant’Angelo in Vado e dintorni è un riquadro di tela spinata, il cui motivo tessuto si intravede sotto il colore: si tratta di un dettaglio della Madonna degli Angeli di Taddeo e Federico Zuccari, esposta insieme con altri capolavori nella mostra Sacro e profano alla maniera degli Zuccari (Sant’Angelo in Vado, Santa Maria dei Servi, 2010).

Wikipedia: Blue jeans Il termine blue-jeans designa propriamente il pantalone con taglio a cinque tasche, di cui le posteriori cucite sopra il corpo del pantalone, confezionato con il tessuto denim, un tipo di stoffa robusta un tempo riservata esclusivamente ai lavoratori e che oggi, pur avendo il proprio maggiore impiego nella produzione di questo tipo di pantaloni, non è disdegnata dagli stilisti neanche per i modelli classici. Il denim ha un’armatura di saia a tre, è realizzato in filato di cotone, la trama è di colore bianco o écru e l’ordito di colore blu. Prima dell’introduzione dei coloranti chimici, il colore blu veniva ricavato dalla pianta Isatis tinctoria (conosciuta con il nome di guado) o dalla pianta Indigofera tinctoria, l’indaco. Tecnicamente, il denim è molto simile al fustagno, di cui è probabilmente una derivazione. Blue de Gênes o blue de Nîmes? Secondo alcuni studiosi il termine inglese blue jeans, attestato sin dal XVI secolo deriverebbe da Blue de Gênes, ossia blu di Genova, termine con il quale si indicava un fustagno blu prodotto dal XV secolo a Chieri (Torino), utilizzato per i sacchi per le vele delle navi ed esportato dal porto di Genova. Contende la primogenitura del tessuto jeans/denim la città di Nîmes (de nimes - denim), nota per la produzione di un’analoga stoffa blu. Suggestiva resta comunque l’ipotesi che proprio a Genova sia stato confezionato per la prima volta un indumento di tela denim. I jeans di Garibaldi Impossibile ripercorrere nello spazio a disposizione l’intera storia dei jeans, connotati originariamente, nota Michel Pastoureau nel suo Il blu. Storia di un colore, più come indumento da lavoro che come icona ribelle e anticonformista. In questo 2011 nel quale si celebrano i centocinquant’anni dell’Italia unita ci limitiamo a ricordare i jeans di Giuseppe Garibaldi, conservati presso il Museo Centrale del Risorgimento di Roma. Con quei pantaloni, spiegano al Museo, Garibaldi sbarcò a Marsala e fece la guerra in Sicilia, nel Maggio 1860. Semplici e resistenti come il vero abbigliamento dei marittimi genovesi, i jeans di Garibaldi hanno una tasca per lato e una toppa sul ginocchio, che copre uno strappo dovuto, narra la leggenda, a un attentato. Nel biglietto in bacheca si legge: Tutti coloro che lo videro ricorderanno la pezza al ginocchio destro. Questi pantaloni furono dati a Galliano, suo cameriere, per essere donati al pastore a Caprera. Il Galliano li tenne per sé e lo disse al Generale e a vece gliene diede un paja di nuovi. Ammogliatosi il Galliano, indi caduto gravemente a terra e da me curato poi anche la moglie, per gratitudine me li regalò il 29 marzo 1863. T. Riboli.

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Uno sguardo al passato

Sant’Angelo in Vado, 1812. I figurini di Angelo Pistocchi Le immagini di questo pannello riproducono alcuni esempi di abbigliamento vadese dei primi dell’Ottocento e appartengono a una serie di figurini realizzati da Angelo Pistocchi, professore di disegno al Liceo di Urbino, per l’inchiesta promossa tra il 1805 e il 1811 nel Regno Italico. Come è noto, all’epoca del governo napoleonico, i territori compresi nei confini dell’attuale provincia di Pesaro e Urbino erano parte del Dipartimento del Metauro, con capoluogo Ancona. I figurini sono oggi conservati presso la Civica raccolta stampe Bertarelli di Milano. Ho l’onore di trasmetterle i figurini rappresentanti il volume di vestiario sì da festa, che giornaliero dei villici dei singoli circondari delle Comuni di questo Dipartimento. […] E’ costume generale in tutto questo Dipartimento, che i villici, quando lavorano in campagna vestano una specie di camicia detta volgarmente Guazzerone; la materia di cui è formata è una grossa tela di canape, che per lo più viene tessuta in paese, e nelle rispettive case da materia generalmente tratta dai fondi che coltivano. Quei vestiti indicati nei figurini come di materia detta Rigatini sono pure prodotto dell’industria di questi Dipartimenti; e sono i più grossi di semplice canapa, ed i più fini pei giorni festivi di canapa e lino misti. Il vestito poi giornaliero da inverno dei più comodi, ed anche il festivo dei meno agiati sono di così detta mezzalana, la quale è in un tessuto feltrato di lana in orditura, e canape in trama; e questa pure si fabbrica qua e là nel Dipartimento, traendo sì la lana, come il canape, dalla propria coltivazione. [...] I cappelli di varia forma, come si vede nei figurini, vengono da fabbriche del Dipartimento e segnatamente da quelle di Sant’Angelo in Vado. Le scarpe vengono lavorate generalmente nei diversi paesi, e sono di cuojo parimenti in gran parte conciato nella suddetta Comune di Sant’Angelo in Vado (Angelo Pistocchi, Urbino, 13 Aprile 1812).

L’Inchiesta Jacini, 1877-1885. Note sul vestiario Nella provincia di Pesaro l’allevamento [del baco da seta] di rado si fa nelle bigattiere, e quasi sempre nelle case coloniche e in molte case di città; anche i braccianti di campagna allevano per solito il baco. [...] Le donne specialmente, passano le sere d’inverno filando sia nella cucina, o sia, anche più frequentemente, nella stalla. Il vestiario in generale è di rascia, lana e filo di canapa, per l’inverno, e di rigatino, tutto filo, per l’estate, tessuti per lo più dalle donne di casa [...]. Le biancherie sono o di filo di canapa, o di cotone secondo che vennero o tessute in casa o acquistate al mercato. La qualità può ritenersi per buona; ma e per la poca frequenza onde vengono mutate, e per la nessuna cura onde vengono rammendate e imbiancate si rendono presto tutt’altro che igieniche. Nel circondario di Urbino le donne sono principalmente presso noi destinate alle cure domestiche. [...] Per vestire si usa il mezzolano o il rigatino lavorato in famiglia. [...] Il telaio è posseduto da quasi ogni famiglia per fare gl’indumenti occorrenti: del resto in generale non si hanno altre industrie casalinghe.

I bacarèli d’Flipàč Flipàč era un uomo ameno e burlone. Allevava anche lui, come allora molte famiglie vadesi, i bacarèli [bachi da seta]. Quell’anno, però, le cose erano andate male per il nostro eroe e gli amici non mancavano di dargli la ùccla [canzonatura]. Uno di questi un giorno gli chiese: - Com van i bacarèli? Al che Flipàč rispose: - Bnon! Van tutti a fior d’acqua!!! [Infatti i bachi da seta galleggiavano sull’acqua del Metauro, dove Flipàč li aveva gettati dalla finestra perché erano morti] (“El Campanon”, Agosto 1954).

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Provincia di Pesaro e Urbino, Notizie sui telai, 1877 I telai da canapa e lino di contro notati, eccettuati pochissimi, servono esclusivamente ai puri e semplici bisogni delle famiglie, le quali poi con telai medesimi fabbricano parimenti per loro uso la cosi detta rascia, ossia un tessuto grossolano di lana e stoppa di canapa per la fredda stagione. Un’indagine effettuata nel 1877, i cui risultati sono conservati presso l’Archivio di Stato di Pesaro, segnala nei Comuni della nostra provincia 16.179 telai da canapa e lino, ai quali si aggiungono 542 telai da lana, concentrati soprattutto nelle zone appenniniche. Telai da lana, canapa e lino esistenti nella provincia di Pesaro e Urbino, 1877 Comune Sant’Angelo in Vado Urbania Mercatello Urbino Sassocorvaro Piobbico Cagli Peglio Acqualagna Cantiano Pergola Fossombrone Fano Pesaro

Telai da canapa e lino 400 500 80 592 77 100 1.000 40 119 119 1.500 1.500 150 2.050

Telai da lana

32 500 1 1 9

Tifernum Mataurense, testimonianze dall’antichità Il nostro percorso dal guado al jeans non può non dare conto, almeno con un cenno, dei ritrovamenti che testimoniano l’attività della tessitura domestica nell’alta e media Valle del Metauro già in periodi precedenti l’età romana. A farci da guida è la penna di Walter Monacchi, tra i più conosciuti studiosi del Montefeltro, particolarmente legato agli scavi di Sant’Angelo in Vado e delle zone circostanti, autore di numerose pubblicazioni sull’antica Tifernum Mataurense. Tra i materiali rinvenuti nell’alta e media Valle del Metauro una costante è rappresentata dai reperti che si riferiscono all’industria tessile domestica. Essi si ritrovano sia nel centro urbano, sia negli insediamenti rustici, a testimonianza di una consistente attività domestica legata alla filatura e alla tessitura. Ma la presenza nelle fasi preistoriche e protostoriche vallive attesta una diffusione del tessile anche nei periodi preromani. […] La documentazione archeologica del lavoro tessile familiare è accertabile solo attraverso alcuni manufatti in terracotta, specialmente fuseruole, rocchetti e pesi da telaio, questi ultimi anche in pietra. [...] Gli altri strumenti per la tessitura, essendo in legno, non si sono conservati. Indubbiamente, però, la filatura e la tessitura della lana nel territorio vallivo affondano le loro radici in periodi precedenti l’età romana. link: nel Museo dei Vecchi Mestieri sono raccolti alcuni strumenti per la filatura e tessitura

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Sant’Angelo in Vado, 1824 Gli altari mantenuti dai falegnami, dagli orafi e dai calzolai e conciatori nella chiesa di Santa Maria dei Servi, una delle più belle della nostra provincia, testimoniano l’importanza e la qualità dell’artigianato di Sant’Angelo in Vado. Meno noti sono i fabbricatori di cappelli vadesi, la cui reputazione è tuttavia attestata ancora a metà Ottocento da Attilio Zuccagni Orlandini nel suo Dizionario topografico dei comuni compresi entro i confini naturali dell’Italia, edito a Firenze nel 1864: in ameno colle sorge questo borgo murato lambito alle falde dal Metauro. È assai ben fabbricato, possiede manifatture d’oro filato, concerie di pellami e fabbriche di cappelli. Le manifatture di cappelli, diffuse in particolar modo nella zona appenninica dell’attuale territorio provinciale e nell’intera Massa Trabaria, risalgono in realtà a tempi ben più lontani. Nel 1812 Angelo Pistocchi, autore dei figurini realizzati per l’Inchiesta napoleonica sui costumi e sulle tradizioni popolari nell’area del Dipartimento del Metauro scrive: i cappelli di varia forma, come si vede nei figurini, vengono da fabbriche del Dipartimento e segnatamente da quelle di Sant’Angelo in Vado. Le scarpe vengono lavorate generalmente nei diversi paesi, e sono di cuojo parimenti in gran parte conciato nella suddetta Comune di Sant’Angelo in Vado. Nel 1824, anno nel quale il Governo Pontificio promuove un censimento delle industrie manifatturiere, per il settore dell’abbigliamento risultano attive a Sant’Angelo in Vado, accanto a quattro fabbriche di Caligarie (Sante Bricca, Giambattista e Francesco Dini, Girolamo Ridarelli e Antonio Ridarelli), due Capellerie: entrambi i cappellai lamentano nelle considerazioni finali che in addietro vigeva l’arte in maggior floridezza che è al presente, sì perché vi era maggior numerario, sì perché le Dogane per quello abbisogno dall’Estero non erano tanto gravo-

se come al presente… sì perché li generi vendevansi con maggiore riputazione. Il non avere le strade di potere sortire con comodo fa in parte avilire il Comercio, aggiungono non troppo diversamente da quanto hanno rilevato nei nostri incontri alcuni imprenditori del jeans. Cappelleria Girolamo Dini. Dai Quesiti e risposte del 1824, conservati presso l’Archivio di Stato di Pesaro, apprendiamo dunque che la Capelleria Girolamo Dini impiegava otto uomini, tre donne e sei ragazzi, la cui paga giornaliera era rispettivamente di baj (bajocchi) 20, 6, 3. (La tutela del lavoro è argomento ancora pressoché sconosciuto, ma non si può non osservare almeno la disparità di trattamento tra operai e operaie). La produzione annua è di circa 2.000 cappelli, che si vendono nella Comune di Sant’Angelo in Vado e nelle limitrofe cioè n. 500 in questa e n. 1.500 circa nelle limitrofe, e Romagna al prezzo di baj 60, e 70 circa l’uno. Non si fa uso di macchine, e tutto viene fatto a braccio di uomini prescendendo dalle solite forme di legno, ferri e canne per conciare la lana; infine, niun lavoro viene fatto a cottimo, ma a giornate. Tra le materie grezze figurano lane di agnelli e pecore, fettuccia, mussolo colorato, campeggio [legno di campeggio o campeccio, da cui si ricavava una tinta scura, dai toni violacei], vetriolo, verderame, galla, e gomma si comprano nella Comune di Sant’Angelo in Vado, e nelle città limitrofe della lana, e del mussolo, delle fettucce; il campeggio in Senigallia, il vetriolo da Roma, la colla e gomma in questa Città, ed il verderame viene fatto dallo stesso fabbricatore. Costo materie prime: secondo gli anni, ma il suo prezzo è di baj 15 ai 18 una portante l’altra la lana di agnello e pecora, le fetuccie baj 1 il braccio, il mussolo baj 12 il braccio, il campeggio baj 20 il cento, vetriolo baj 10, la colla e gomma 5 il 100. Non si ricorre ad alcuna cosa all’Estero, ma il

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tutto si provvede in questa città o nelle limitrofe. Ogni libbra di lana lorda dà un capello ordinario. Cappelleria Gaspare Longarini. Più consistente appare l’attività della Cappelleria Longarini, che impiega dodici uomini, dodici donne e tre ragazzi: la paga per gli uomini è la stessa della Cappelleria Dini (20 bajocchi), mentre le donne sono pagate 10 bajocchi e i ragazzi 4. Anche qui si dichiara che gli operai non lavorano a cottimo, mentre la produzione ammonta a circa 4.000 cappelli l’anno: gli articoli si smerciano in Pesaro, in Fiera di Senigallia nel primo n. 1.500 circa e nel secondo n. 1.600 circa in ragione di baj 140 l’uno, cioè i ordinarj baj 80, i mediocri 50 e i fini 20 restando sempre in magazzino qualcuno invenduto. Di nuovo, non si usano macchine perché i lavori vengono fatti dalle braccia degli uomini. Tra le materie prime utilizzate si segnalano anche il pelo di Camelo (se ne utilizzano 1.500 libbre l’anno, al costo di 40-60 baj la libbra) e il tafetà di Camerino (braccia 200 l’anno, baj 30 il braccio). L’Elenco di tutti i negozianti domiciliati nella parte montana della provincia di Urbino e Pesaro (Urbino, 1849), comprende tra gli altri per Sant’Angelo in Vado un negoziante di drappi, Giambattista Ferri; due negozianti di corami, Dini Giovanni, (anche calligaro) e Dini Francesco di Girolamo (con calzoleria), e due negozianti di cappelli, Dini Filippo di Pietro e Longarini Zefirino. Nel 1884, la Guida - Annuario della Provincia di Pesaro e Urbino edita da Federici segnala a Sant’Angelo in Vado cinque fabbriche di cappelli (Filippo Dini, Dini fratelli fu Domenico, Nazzareno Dini fu Domenico, Ferdinando Jori, Marino Dini), oltre a quattro sarti (Celestino Massani, Luigi Venturi, Luigi Romanini, Domenico Lesinini) e una sarta, Anna Ercolani. Approfondiremo in una prossima occasione lo studio delle cappellerie vadesi; per ora aggiungiamo solo che due rami della Famiglia Dini resteranno attivi in questo campo fino agli anni Ottanta del ‘900, passando dalla produzione alla vendita.

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Cappelleria Angelo Dini Non sono mai entrate in fabbrica, precisano, e la vita le ha portate lontano da Sant’Angelo in giovane età: hanno solo sbirciato, dicono, ma i loro ricordi conservano tutta la magia dello sguardo dei bambini, e le loro mani possiedono per natura la sapienza antica delle generazioni che le hanno precedute. Antonietta, Liana e Maria Giuseppina Dini sono infatti discendenti di Filippo, uno dei rami di quella Famiglia Dini che a Sant’Angelo in Vado (ma anche nei dintorni) è sinonimo di cappellai. Non potevamo entrare nei locali della fabbrica, anche perché per delle bimbe sarebbe stato pericoloso esordiscono quasi all’unisono Antonietta e Liana Dini, due delle tre figlie di Angelo, nipoti di Ottavio. Ricordo, nei sotterranei dell’edificio dove era situata la fabbrica di cappelli, un grande caldaio che fu consegnato nella raccolta del rame per la Patria [tra il 1935 e il 1936, durante la guerra italo-etiopica, in seguito alle sanzioni economiche decise dalla Società delle Nazioni, il regime fascista promosse una raccolta di oro e altri metalli che proseguì anche negli anni successivi] riprende Liana, mentre Antonietta aggiunge il feltro era preparato su grandi dischi di ottone, con pelo di lepre o di coniglio bagnato, stirato e poi fissato. Per verificarne la compattezza lo si guardava controluce: non doveva presentare zone trasparenti. In fabbrica lavoravano tanti operai, non saprei dire esattamente quando fu avviata l’attività ma di certo i Dini erano cappellai almeno da duecento anni. Con passione e competenza rare le sorelle Dini ci spiegano le diverse fasi della lavorazione, illustrando anche la differenza tra i vari tipi di feltro: dopo quello di lana, il feltro di coniglio era il più economico, poi c’era la lepre e, infine, per i capi più preziosi il feltro di visone, leggerissimo. Attiva fino al 1987, la Cappelleria Angelo Dini cessa la produzione negli anni successivi alla I guerra mondiale, dedicandosi in seguito alla vendita, prevalentemente di cappelli maschili, tra i quali i celeberrimi Barbisio: si acquistavano le ‘cappelle’ [basi di feltro senza pieghe]

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“Oggi la gente nasce senza testa, i cappelli non servono più.”

già pronte, i feltri arrivavano ‘ a forma piena’ e si lavoravano per ottenere le diverse fogge; mio padre andava personalmente ad acquistare i cappelli, e ricordo che tornava sempre con qualche ‘cappellina’ femminile, che poi sistemava per noi sorride Liana, che ancora oggi ama personalizzare i propri copricapi con l’abilità e il gusto di famiglia. Anche in questo periodo, una parte importante del lavoro era la ripulitura dei cappelli, che venivano rinfrescati e foderati di nuovo da nostro zio, riprende Antonietta che, insieme con le sorelle, conserva oggi gran parte degli strumenti e arredi della Cappelleria Angelo Dini (alcuni oggetti sono stati donati al Museo dei Vecchi Mestieri). Da ricordare anche che, come si legge sia nel marocchino (il nastro di cuoio che rifinisce internamente i cappelli) sia su alcune inserzioni del “Campanon”, la Cappelleria Angelo Dini aveva una succursale in Urbania, rimasta distrutta nel bombardamento del 23 gennaio 1944.

san Giacomo, patrono dei cappellai Narra la leggenda che nelle sue peregrinazioni per testimoniare la dottrina del Cristo, Giacomo di Zebedeo (detto Maggiore per distinguerlo dall’omonimo apostolo Giacomo di Alfeo), fratello di Giovanni evangelista, per rendere più confortevoli i suoi poveri sandali ne foderasse la pianta con i ciuffi di pelo di montone trovati lungo la via. Compattati da pressione e umidità, i ciuffi formarono un morbido sottopiede che segnò la nascita del feltro, prodotto ancor oggi per mezzo di un processo di agglutinamento. Le prime corporazioni di cappellai scelsero come protettore san Giacomo, festeggiato dalla chiesa cattolica il 25 Luglio, presentato dall’iconografia tradizionale nelle vesti del viandante: sulle spalle un mantello logoro, in mano il bastone del pellegrino e in testa un cappello, ornato della conchiglia utilizzata per bere, divenuta nel tempo simbolo del pellegrinaggio sulla via di Santiago di Compostela, la località galiziana dove secondo la tradizione san Giacomo è sepolto. Nell’immagine: Georges de la Tour (1593-1652), San Giacomo Maggiore .

Alcuni strumenti da lavoro del cappellaio, provenienti dalla Cappelleria Angelo Dini (raccolta Antonietta, Liana e Maria Giuseppina Dini); sullo stampo riprodotto al centro si legge “Fabrica di Filippo Dini”.

link alcuni strumenti provenienti dalla Cappelleria Angelo Dini sono stati donati dalle sorelle Dini al Museo dei Vecchi Mestieri di Palazzo Mercuri

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Cappelleria Adelmo Dini Lunedì: Sant’Angelo in Vado; Martedì: Pesaro; Mercoledì: Rimini o Piandimeleto o Carpegna (oggi Fano); Giovedì: Montecchio di Sant’Angelo in Lizzola (Pesaro il primo Giovedì del mese); Venerdì: Riccione; Sabato: Urbino. Giuseppina Gorgolini (Tajulìn è il soprannome della sua famiglia, il padre Augusto, eccellente capomastro, è ricordato anche per gli stucchi che abbellivano diversi palazzi vadesi: molti ‘negativi’ delle sue creazioni sono oggi visibili nel Museo dei Vecchi Mestieri) snocciola senza esitazioni il calendario dei mercati che per oltre quarant’anni ha girato con il banco di cappelli della Famiglia Dini, insieme con il marito Adelmo prima e da sola poi. Pensare che non avevo nemmeno la patente…: quando mio marito ha cominciato a sentirsi poco bene mi ha consigliato di prenderla, e sa perché? Solo per non perdere troppo tempo a fermarci lungo la strada. Soffriva di cuore, e aveva bisogno di fare delle pause durante la guida. Nel 1966, Adelmo Dini scompare prematuramente, lasciando Giuseppina con quattro figli piccoli: se non avessi avuto il lavoro… il pensiero di un’attività da mandare avanti mi ha aiutato molto, continua. Una vita faticosa, certo, fatta di levatacce e di lavoro duro (mi alzavo alle quattro, alle cinque, per raggiungere i luoghi più lontani, dovevo arrivare presto perché altrimenti non sarei riuscita a passare con il camion), ma che Giuseppina - per tutti Peppina - non rimpiange: se tornassi giovane rifarei lo stesso, commenta. Ancora nei paesi qua intorno si ricordano di me, sa… mi mandano i loro saluti quando incontrano mio figlio da qualche parte. E non c’è da stupirsi, vista la carica di simpatia e comunicativa che la figura di Giuseppina trasmette da subito: un entusiasmo davvero contagioso traluce dalle sue parole.

Fiere e mercati rappresentavano per i commercianti di un tempo un’importante occasione di scambio: le grandi fiere si tenevano all’inizio di ogni stagione, aggiunge Giovanni Dini, secondogenito di Giuseppina che porta lo stesso nome del nonno, ed erano un’occasione privilegiata per fare affari. Senza contare l’aspetto legato all’aggregazione: si trattava di luoghi d’incontro prima ancora che di commercio. Riprende Giuseppina: negli anni del Dopoguerra, prima dell’acquisto della “Balilla”, alle fiere (ancora non erano attivi i mercati settimanali) si andava con il carro trainato dal cavallo. Qualche volta partivamo insieme ad altri commercianti su uno stesso carro, la merce in due casse che abbiamo ancora, una per gli ombrelli e una per i cappelli. Per le fiere più lontane (Carpegna, Pugliano, Villagrande di Montecopiolo) si partiva il giorno prima e si dormiva da affezionati clienti diventati amici. Da sempre i Dini si occupano di cappelli: la memoria va oggi a Marino, nonno di Adelmo, ma di certo risalgono almeno ai primi dell’Ottocento i forni ritrovati nei sotterranei di Palazzo Santinelli durante recenti lavori di ristrutturazione, dei quali riferisce Giovanni. Del resto, come abbiamo già sottolineato, la storia qui è di casa: la grande cucina dove Giuseppina e Giovanni ci accolgono è proprio sotto la camera dove ha dormito Garibaldi, nella sua sosta vadese del 1849. Una bella foto dell’immediato Dopoguerra ritrae Adelmo in piedi davanti alla vetrina del negozio, situato al piano terra dello storico palazzo: gli arredi della cappelleria e gran parte degli strumenti di lavoro sono stati donati dalla Famiglia Dini al Museo dei Vecchi Mestieri. Per quel che ricordo, aggiunge Giuseppina, con mio suocero Giovanni lavoravano quattro donne, impegnate nelle fasi di cucito dei cappelli, e due uomini. Giuseppina è una delle poche persone in grado oggi di rinfrescare un cappello, operazione un tempo assai comune ma quasi dimenticata con il diffondersi di articoli industriali a poco prezzo: per diversi anni un grossista di Montappone [patria dei cappelli di paglia, in provincia di Fermo] mi inviava i cappelli di alcuni suoi clienti per ripulirli. Ripulire un cappello di feltro è un lavoro lungo e complesso, in realtà significa quasi rifarlo da nuovo: li mettevo a bagno nel ranno [miscu-

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glio di acqua bollente e cenere, utilizzato in passato per il bucato] per sgrassarli bene, li risciacquavo diverse volte, poi si ripetevano le operazioni fondamentali, partendo dalla rimessa in forma. Lo spazio non consente di riproporre qui per intero il racconto di Giuseppina e Giovanni: rimandiamo alla prossima pubblicazione, ricordando solo che la tradizione dei Dini continua oggi con Marino, fratello di Giovanni, che dopo gli studi ha deciso di portare avanti l’attività di famiglia. A sinistra: anni Quaranta del ‘900, Adelmo Dini davanti alla cappelleria di famiglia; qui sotto: da sinistra, Giovanni e Marino Dini (raccolta Giuseppina Gorgolini Dini e Famiglia Adelmo Dini, Sant’ Angelo in Vado); in alto a destra, inserzione pubblicitaria dal “Campanon”, 25 Dicembre 1953. Per noi Giuseppina Gorgolini Dini ha ripercorso le fasi della lavorazione del feltro, dalla lana al cappello finito, pressoché invariate dai tempi del Dizionario delle arti e de’ mestieri compilato da Francesco Griselini nel 1768. Riproponiamo qui, con pochissime modifiche dovute a ragioni di spazio, i suoi appunti. Si comperava la lana di pecora dai contadini; si andava al fiume per lavarla e si lasciava asciugare sui sassi. Quando era asciutta si bagnava di nuovo, e si batteva forte su delle pietre finché ne usciva come un tappeto. Tagliato a quadretti, si appendevano bagnati su dei pali, in modo che prendessero una forma concava. Una volta asciutte, queste ‘campane’ si stiravano sopra una forma di legno con un ferro infuocato (un blocco di ferro con un manico per prenderlo): si legavano intorno alla ‘testa’ di legno con uno spago, e con il ferro rovente si ‘rimangiavano’, cioè si spianavano, le grinze che si erano formate nel legarlo. Le forme delle teste erano di legno, per fare le diverse misure si adoperavano gli ‘zuccotti’ [le calotte] dei cappelli vecchi non più utilizzabili. Le forme erano del 53 (con gli zuccotti servivano per le misure dal 53 al 55) e del 55 (dal 56 al 58); la forma del 58 con uno zuccotto in più serviva per il 59, con due zuccotti per il 60, con un altro per il 61, che era la misura più grande. [Ricordiamo che le misure dei cappelli corrispondono alla circonferenza della testa]. Prima di mettere i cappelli sugli zuccotti, si preparava una miscela di acqua tiepida e colla tedesca (erano piccole palline di color arancio), che si spandeva sul feltro con uno straccio. Parte integrante del cappello da uomo era il marocchino, ossia il nastro, in pelle per i cappelli di lepre, in cartapesta per quelli di lana, che rifiniva internamente la calotta, sul quale era impresso il nome del produttore. link mobili e strumenti provenienti dalla Cappelleria Adelmo Dini sono stati donati dalla Famiglia Dini al Museo dei Vecchi Mestieri di Palazzo Mercuri

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Il colore dei chiodi

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La stampa a ruggine della Famiglia Baiocchi E’ un segreto tramandato di generazione in generazione la formula che permette di ottenere la stampa a ruggine, una sapiente miscela di ingredienti grazie alla quale i disegni si mantengono pressoché inalterati nel tempo. Conosciuta dall’antichità, presente nelle tradizioni artigianali di molti paesi dall’Africa all’Asia, nei nostri territori la stampa a ruggine è diffusa dal secolo XVIII in diverse zone tra Marche e Romagna (notissime sono le stampe di Gambettola, in provincia di Forlì-Cesena). Nel Montefeltro questa tecnica è legata soprattutto a Carpegna e Sant’Angelo in Vado, dove fino a non molto tempo fa era praticata dalla Famiglia Baiocchi. Di questi artigiani ci parla Annunzio Faggiolini, familiarmente chiamato Nunzio, appassionatissimo cultore di storia del suo paese, fonte autorevole anche per via delle sue ricerche sul campo: in qualità di consigliere dell’Archeoclub Faggiolini è stato tra i primi a segnalare i ritrovamenti della Domus del Mito, considerata oggi uno dei più importanti siti archeologici dell’Italia centrale, e non si finirebbe mai di ascoltarlo quando racconta le mille storie della sua Sant’Angelo. Dalla sua vasta e variegata collezione Nunzio ha estrapolato per noi una tovaglia stampata della fine dell’Ottocento, già esposta nella mostra che costituì il nucleo dell’attuale Museo dei Vecchi Mestieri: un pezzo piuttosto raro, del quale colpisce la precisione esecutiva oltre che il perfetto stato di conservazione. Vede, qui (Nunzio indica un’impercettibile cesura nella sequenza di motivi): per ottenere un disegno di queste dimensioni bisogna ripassare più e più volte sul tessuto, e non è facile far combaciare i moduli. Per non parlare dell’abilità necessaria a intagliare gli stampi, tutti fatti a mano. Gli stampi, generalmente realizzati dagli stessi stampatori, sono ‘inchiostrati’ con un colore composto da vari ingredienti (tra i quali farina, aceto, chiodi arrugginiti) e successivamente battuti con un mazzuolo sul tessuto (cotone, canapa o altre fibre naturali). Una volta asciugato il colore, il tessuto viene immerso in una sostanza fissativa (anche qui, ciascuna famiglia ha il proprio segreto) e, infine, lavato. Il colore, il cui ingrediente principale è dunque la vera ruggine, si lega indissolubilmente attraverso questi procedimenti alle fibre del tessuto, acquistando resistenza al lavaggio e all’usura del tempo.

Qui sopra, a sinistra: alcuni stampi per la stampa a ruggine di proprietà della Famiglia Baiocchi conservati presso il Museo dei Vecchi Mestieri; a destra: due particolari della tovaglia realizzata dai Baiocchi (raccolta Nunzio Faggiolini). A sinistra, nel testo, la stampa a ruggine nel Museo dei Vecchi Mestieri.

link nella sezione Materiali sono esposti alcuni stampi e la tovaglia realizzata dalla Famiglia Baiocchi; altri stampi utilizzati per la stampa a ruggine, sempre di proprietà della Famiglia Baiocchi, sono visibili nelle sale del Museo dei Vecchi Mestieri

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Penelope e le altre

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Una tovaglia per don Tommaso Pompei

Ofelia Dini, laboratorio di ricamo

Il visitatore della Cattedrale di Sant’Angelo in Vado può notare sull’altare della cappella dedicata a monsignor Torquato Dini, arcivescovo di Dara e Delegato Apostolico per l’Egitto, Arabia, Palestina e altri paesi mediorientali (1893-1934) una bella tovaglia ornata da un’alta fascia di pizzo a rete Modano (filet). Con un po’ di attenzione si scorgono sul lato due iniziali, P.G.: la tovaglia, racconta Nunzio Faggiolini, è stata realizzata interamente a mano da mia madre Giovanna Pompei, che ultimò il lavoro nel 1924. Giovanna era nipote di don Tommaso Pompei, ordinato sacerdote nel 1903, e aveva imparato a lavorare all’uncinetto presso Rosina e Amelia Rinaldi, ricamatrici molto conosciute a Sant’Angelo, che avevano il laboratorio in via Zuccari. Inizialmente destinata alla chiesa di Santa Maria dei Medici, tra Sant’Angelo e Piobbico, la tovaglia venne recuperata e portata in Cattedrale insieme con gli altri arredi della chiesa, oggi purtroppo in abbandono. Giovanna Pompei e la sua tovaglia offrono l’occasione per ricordare le ricamatrici vadesi della prima metà del ‘900, tra le quali Ofelia Dini e Argia e Tilde Tiribelli. Più indietro nel tempo, non vanno dimenticati il Convitto di Santa Chiara e l’Educandato delle Grazie, che figurano alla voce “Ricamatrici” sulla già citata Guida-Annuario del 1884.

Alta, esile, eterea, diafana come l’eroina shakespeariana di cui portava il nome: Ofelia Dini aleggia nei racconti di chi la conobbe come una signorina gozzaniana o una creatura di fiaba. Dal suo laboratorio di ricamo, gestito insieme con la madre Teresa, uscirono molti preziosi corredi, oltre al gonfalone comunale; non solo: come si legge su questi ritagli del “Campanon”, molte furono le vadesi che impararono a “tirar di filo” sotto la sua esperta guida. Dal “Campanon”: un articolo apparso sul numero di Dicembre 1989 (ma riferibile ad almeno vent’anni prima), e un’inserzione del Laboratorio femminile di ricamo pubblicata sul numero del 25 Dicembre 1955. A sinistra e sotto: la cassettiera per i fili 3C e il ferretto per rimagliare le calze provengono dalla raccolta di Nunzio Faggiolini, come le immagini della tovaglia a filet; Il micio dispettoso è apparso sul “Campanon” del 22 Aprile 1962.

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Penelope e le altre. Elia Marchetti Non finiva mai per aspettare il marito. Con pragmatismo tutto femminile Elia Marchetti liquida in poche parole la paziente attesa di Penelope: del resto sa quel che dice, Elia, ha trascorso la vita a tessere coperte, tovaglie, tappeti, e oggi il telaio sul quale ha a lungo lavorato è uno dei pezzi forti del Museo dei Vecchi Mestieri di Palazzo Mercuri. Gesti arcaici dal sapore di rito si intrecciano nel suo racconto a elementi caratteristici della cultura contadina, restituendoci un quadro le cui linee fondamentali si tramandano immutate dalla notte dei tempi. Come sul pane, anche per preparare l’ordito si tracciava un segno della croce, in più le tessitrici recitavano una preghiera a santa Lena, perché ci aiutasse a essere precise [Sant’Elena è tra una delle sante invocate come patrone dalle tessitrici]. Si inseriva anche un filo rosso, contro la sfortuna. Non si può sbagliare a fare l’ordito, perché poi il lavoro non si recupera. Ogni filo deve tornare al suo posto. “Fare l’ordito” era nella tessitura artigianale un’operazione preliminare alla vera e propria tessitura che coinvolgeva più donne della famiglia o addirittura gli uomini, impegnati a tirare i fili intorno ai pioli dell’orditoio. Originaria di Mercatello sul Metauro (località Col di Roccia, precisa), Elia Marchetti impara da ragazza a filare la canapa, utilizzata per le lenzuola: la compravamo, sottolinea, perché lassù non c’era l’acqua [i fusti delle piante di canapa erano immersi in vasche o in maceratoi ricavati nei pressi di corsi d’acqua per favorire la macerazione delle fibre]. Usavamo anche il lino, ma più raramente, perché costava di più. Io ho imparato a tessere da una tessitrice delle mie parti, Adelina, detta la Scartocina... Ma in famiglia abbiamo sempre tessuto, mia madre faceva le lenzuola, e aveva imparato da sua madre, mia nonna, che aveva un telaio a sei licci. Chi a Natale non fila tutto l’anno sospira. Chi a Pasqua non ha fatto il panno sospira tutto l’anno. La conversazione di Elia è scandita dai

detti popolari, che confermano, se ce ne fosse bisogno, quanto l’attività della tessitura fosse radicata nella vita di un tempo. Erano attività dell’inverno, quando non si poteva lavorare nei campi, continua; con la stoffa ricavata in primavera poi si cucivano i vestiti, una camicia e un paio di pantaloni per gli uomini, e un vestito per le donne. Mia madre tagliava, e io cucivo. In seguito ho anche fatto un corso da sarta, le donne della famiglia di mia madre, a Mercatello, erano tutte sarte. Anche a domicilio: armate di macchine da cucire portatili, le sarte di un tempo soggiornavano nei casolari o nei borghetti delle campagne, dove realizzavano vestiti per l’intera famiglia. Dalla metà degli anni Ottanta Elia, la cui attività era dapprima limitata alle esigenze di famiglia e amici, comincia a vendere le proprie creazioni, e a lavorare su commissione: tappeti, tovaglie, coperte, che riprendono gli schemi decorativi caratteristici delle nostre zone. L’Adelina mi ha passato le rimesse [gli schemi], per la maggior parte lavoravo il cotone bianco, quello colorato lo tingevo in casa. Non potevano mancare infine nel ‘catalogo’ di Elia i tradizionali tappeti coi pignoli, ossia tappeti tessuti su un ordito di filo di cotone con bioccoli di lana (i pignoli), una lavorazione tipica del Montefeltro, in particolare di Piobbico. I pignoli li compravo in Urbino, già pronti, ma ho lavorato anche la lana di pecora, ripulita e cardata, del suo colore naturale, bianca, ma anche grigia o addirittura nera. La passione per il telaio è arrivata sino alle più giovani generazioni delle donne di casa Marchetti: la figlia di Elia, Fiorella Pazzaglia è stata infatti per qualche tempo titolare di un quotato laboratorio di tessitura artigianale, tra le cui creazioni si ricorda un grande tappeto decorato con la cartina d’Italia.

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Elia Marchetti e le sue tele in alcune fotografie degli anni Settanta. Qui sotto e al centro le ‘rimesse’, gli schemi per relizzare i diversi motivi, passati a Elia da Adelina ‘la Scartocina’. Al centro, un copriletto tessuto da Elia Marchetti.

link il telaio utilizzato da Elia è esposto nella sala dedicata alla tessitura del Museo dei Vecchi Mestieri di Palazzo Mercuri

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“Vecchio Album” Nel 1986 l’Amministrazione comunale, la Pro Loco e il cinefotoclub “Barocci” di Sant’Angelo in Vado unirono le forze per dare alle stampe un’opera rimasta nel cuore (e nelle case) di tutti i vadesi. Vecchio Album, così s’intitola il volume, riunisce oltre cent’anni di fotografie raccolte proprio dagli album di famiglia. Dalle sue pagine estrapoliamo alcune immagini particolarmente significative per quanto riguarda l’abbigliamento degli anni tra la fine dell’ ‘800 e il secondo decennio del ‘900, non senza sottolineare ancora una volta il potere evocativo di volti e gesti, per niente appannati dalla stampa un po’ fané.

Dall’alto: Andrea Topi, 1915; un’immagine dei primi del ‘900.

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Vestivamo alla vadese piccolo glossario semiserio Acajóla Agoraio (astuccio in legno con tappo a vite, usato per riporre gli aghi da cucito). Armulì Ripulire, vestire per la festa, tirare a lucido (anche rifl.: armuliss). Brétta Berretto, cappello (ma anche scapaccione di moderata intensità). Corgióli Lacci da scarpe in cuoio. Coroija Panno avvolto su se stesso, poi ritorto in forma tondeggiante, che le donne si mettevano in testa per appoggiare la tavola con i panni da lavare nel fiume [cercine]. Cromatina Lucido per scarpe. Gonèl Parte superiore di abito femminile d’altri tempi, simile a una camicetta. Guplè Fare un fagotto o un pacco, avvolgere, avvoltolare, coprire (Gùpplt, ch’è fredd = copriti, che fa freddo!). Orel orlo. Paranànsa Grembiule. Sinèl Grembiule. Torscèl Telo di lenzuolo, tessuto con il telaio di casa. Tronchetti Grosse scarpe da inverno, portate sia da uomini sia da donne. (Da G. Ceccarelli, G. Cippitelli, Parlàsm acsé - Trecento parole dialettali da salvare, Sant’Angelo in Vado 2008).

Dall’alto: in prima fila, a sinistra, Famiglia Bricca, 1920; a destra: Famiglia Cocchi, 1910. Al centro, a sinistra: Famiglia Brandinelli, 1901; a destra, sopra: Adriano e Teresa Giovagnoli, 1920; sotto: Cesare e Ildegonda Podrini, 1899. Qui sopra, a sinistra: Decia Negroni insieme ad alcuni coetanei, 1928; a destra: la Famiglia del farmacista Augusto Mercuri, 1901.

Calzolai vadesi, 1910. Da sinistra: Augusto Garulli, Giuseppe Dominici, Aurelio Ghirotti, Francesco Massani e Margherita Ricci.

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Sartoria Alfredo Pasquini L’albero di Natale addobbato insieme con le lavoranti, le chiacchiere sommesse intorno al grande tavolo dove le ragazze cucivano, la radio in sottofondo, l’ora del Rosario (ma qualcuna delle più giovani era un po’ restia): l’atmosfera di un gruppo affiatato, quasi una famiglia, è il primo ricordo che Graziana Pasquini conserva della sartoria del padre Alfredo, attiva a Sant’ Angelo in Vado dal Dopoguerra fino alla metà degli anni Ottanta. Nato nel 1910, Alfredo Pasquini (all’anagrafe Ernesto) impara il mestiere da giovanissimo, presso una sartoria di Ancona, dove risiedevano alcuni suoi parenti, ai tempi del regime fascista. Appena tornato a Sant’Angelo mio padre si è messo in proprio, prosegue Graziana: nel 1947 si è sposato con Clementina Rossi, mia madre, e hanno aperto il laboratorio in una stanza del loro appartamento, all’angolo tra piazza Umberto I e via XX Settembre, finché si sono trasferiti in un’abitazione più spaziosa, sempre in via XX Settembre. Addetta, come molti dei figli di sarti, alla ripetitiva operazione di passare i fili lenti (una sorta di filza a punti lunghi, utilizzata per tracciare sul tessuto i contorni del modello), Graziana racconta con vivacità affettuosa tutti i passaggi del lavoro paterno: c’erano tre tavoli, uno lunghissimo per il taglio, uno per il cucito e uno per la stiratura. Avevamo anche tre macchine da cucire, ognuna era riservata a un particolare tipo di tessuti. Ogni lavorante, ricordo che nei periodi più impegnativi erano cinque, tutte donne tranne un uomo, aveva un compito diverso. Le rifiniture erano particolarmente delicate, le asole, per esempio: tutto era fatto a mano. Ero una bambina, ma ho ancora davanti agli occhi il modo in cui mio padre, con il ferro, mo-

dellava il collo delle giacche. “Ci sono troppi punti nel mestiere di sarto, per guadagnare”, diceva sempre. Già, perché il mestiere di sarto è soprattutto fatica: orari senza tutele per rispettare le consegne (la puntualità era ingrediente imprescindibile della reputazione di un artigiano, e molti sorridono pensando al cestino che Alfredo calava dalla finestra per non perdere tempo prezioso scendendo a ritirare la posta), strumenti pesanti e talvolta pericolosi (i vecchi ferri da stiro a gas, tanto per dirne uno), tutta la famiglia impegnata al tavolo da lavoro, compresi i bambini, che al ritorno da scuola spesso e volentieri collaboravano con le mansioni più facili o portando a domicilio i capi finiti. E poi il rispetto. Il rispetto per il lavoro, per il cliente, che si manifestava anche nelle vesti di un rigore formale: una costante nella pratica artigianale, che emerge con forza dalle parole di quanti abbiamo intervistato. Alfredino, qui lo chiamavamo tutti così interviene Dino Pompei, presente a tutti i nostri incontri con i protagonisti di questa ricerca, era sempre elegante, con i capelli imbrillantinati; sì, conferma Graziana, quando riceveva i clienti mio padre indossava giacca e cravatta, si presentava sempre in ordine, “è una forma di rispetto”, diceva. Si ricorreva ad Alfredino per gli abiti destinati alle occasioni speciali, aggiunge ancora Dino: fare da lui ‘la muta da sposo’ era una questione di prestigio. Come quasi tutti i sarti per uomo, Alfredo Pasquini confezionava anche tailleurs e pantaloni per signora. Per quelle signore particolarmente emancipate, s’intende, che non temevano il giudizio altrui nel presentarsi in pubblico con un look che - sembra incredibile, sì - fino a non troppi anni fa specie in provincia destava scalpore.

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Fondamentali per la riuscita del lavoro erano poi i tessuti: mio padre si serviva dalle ditte più importanti, racconta ancora Graziana, c’erano i venditori, i rappresentanti, dai quali si acquistavano fili, forbici, tessuti, insomma, tutto l’occorrente per la sartoria. Qualche volta si fermavano anche a pranzo. Spesso accadeva che mio padre trascorresse la Domenica a tagliare il tessuto, per avere il lavoro pronto il Lunedì, all’arrivo delle ragazze. Sempre che, aggiunge Graziana, non ci fosse in programma qualche partita della Vadese: Alfredino era infatti un accanito fan della squadra di calcio locale, che seguiva in ogni trasferta con immutata passione. Quasi giocava dalla tribuna, ricorda Graziana, si immedesimava nell’azione dimenticando tutto il resto. Nel 1985 la Sartoria Pasquini cessò l’attività, non così Alfredino, che dopo aver rifiutato l’offerta di lavoro di una delle prime ditte di jeans della zona continuò a rimpannucciare figli e parenti, tanto per non dimenticare l’antica passione per il proprio lavoro.

Due immagini della Sartoria Pasquini negli anni Sessanta del ‘900 e, in alto a destra, auguri di Buon Natale dal “Campanon” del 25 Dicembre 1953

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Sartoria Rina Maroncelli Impeccabile nel suo completo crema e blu, filo di perle al collo, Rina Maroncelli ci accoglie nella sala che per anni ha ospitato il suo laboratorio, insieme con un bel gattone nero: ho lavorato molto, esordisce, e credo di aver lavorato bene. E come contraddire questa signora che per oltre vent’anni ha vestito le vadesi con stile ed eleganza davvero à la page? Non era da tutti farsi cucire un vestito dalla Maroncelli, ci hanno confermato le sue clienti. Lo raccontiamo a Rina che sorride, e riprende: sì, so che le clienti bisticciavano per assicurarsi i miei capi, servivo delle signore anche di fuori, di Roma, per esempio. Spesso sono andata a Roma con la valigia piena di tele da provare, anche a confezionare, qualche volta. Le “tele”: dopo aver preso le misure, e aver realizzato il modello dell’abito su carta, le tecniche della sartoria tradizionale prevedono che si passi a provarne una versione tagliata e cucita in una tela di cotone ordinaria, e su questa si apportano le ultime modifiche, in modo che il modello da tagliare nel tessuto dell’abito sia più preciso possibile. Anche il tessuto era trattato prima del taglio con particolari accorgimenti: era inumidito all’interno di una tela, e successivamente asciugato mediante un’accurata stiratura. Questo procedimento garantiva miglior riuscita nella confezione e nella conservazione del capo. Insomma, quando il vestito era finito, era perfetto. Certo, la qualità dei tessuti è importante, prosegue Rina: io mi servivo a Como, a Bologna, dalle ditte migliori, mi sono rimaste le mazzette [i campionari n.d.r.] e con quelle della lana vergine ci spolvero i mobili. Vengono benissimo, conclude civettuola. Anche per i figurini e i modelli avevo degli ottimi fornitori. Ho sempre guardato alla riuscita del capo finito, la qualità era la prima cosa per me, anche se a volte ci ho rimesso, qualche cliente non pagava, una è scappata… ma sono cose che succedono.

Rina Maciaroni Maroncelli impara il mestiere da adolescente, presso Irma Storti, rinomata sarta di Mercatello: si era appena usciti dalla guerra, non c’erano prospettive, molte di noi ragazze cercavano di lavorare da sarte. Alcune poi hanno fatto una bella carriera, la Paola Pompei, per esempio, è arrivata addirittura a Roma dalle Sorelle Fontana. Ricordo un’altra ragazza di Sant’Angelo che ha trovato lavoro a Pesaro, dalla Iolanda Secchiaroli… la Secchiaroli la conoscevo bene, mi ha cucito l’abito da sposa, era di shantung rosa, aggiunge Rina, ricordando una delle più conosciute sarte pesaresi del Dopoguerra, che ebbe tra le sue clienti anche Ave Ninchi oltre a gran parte delle dame dell’alta borghesia cittadina. Io ho aperto quasi subito la mia attività, prosegue Rina, avevo sì e no vent’anni. A ventisette mi sono sposata con Leonardo Maroncelli, e per più di vent’anni ho lavorato qui, in questa sala. Mia mamma mi ha sempre aiutato, sono arrivata ad avere fino a dodici lavoranti, ma nessuna ha continuato su questa strada, forse era troppo faticoso: ci mettevo l’anima, io, per me è sempre stata una passione ma questo è un lavoro che richiede molti sacrifici. Non c’è orario, sgobbare forte, a tutte le ore. Una responsabilità, anche nei confronti di chi lavorava con me: ma era parte della vita prenderci le nostre responsabilità, era importante fare e fare bene, soprattutto. Responsabilità, fare bene: di nuovo quella cultura del lavoro che è forse l’aspetto più prezioso da valorizzare quando si parla di memoria e artigianato. Per me le clienti erano tutte uguali, anche se qualcuna era davvero troppo esigente, certe pignolerie che oggi non ci si può immaginare. Anche perché, aggiungiamo noi, spesso si trattava di piccole manie, che richiedevano da parte della sarta grande pazienza, un

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pizzico di abilità di psicologa e molta, molta diplomazia. Qual era il capo che preferiva realizzare? chiediamo a Rina. Il tailleur, sì, è un pezzo che mi è sempre piaciuto molto sia indossato sia da lavorare. Ma ho fatto anche molti abiti da sposa, e anche quelli erano di grande soddisfazione. E il tessuto più difficile da trattare? Ah, la seta, senz’altro. Quando lavoravo la seta chiudevo la porta e nessuno poteva entrare: la seta vola! In effetti, solo chi ha provato a tagliare e cucire la lieve consistenza della seta più fine può comprendere appieno l’abilità necessaria per ottenerne un prodotto a regola d’arte, al riparo da sbavature e imprecisioni. Il pomeriggio volge al termine, ma c’è ancora spazio per aneddoti ed episodi divertenti, come quella volta che una signora è andata a Messa con una fettuccia sfilacciata al posto della cinta…, qui la Messa di mezzogiorno era un’occasione per mostrarsi in pompa magna, e una cosa così era imperdonabile. Ma la signora era venuta a misurare la Domenica mattina, e tra una chiacchiera e l’altra mi sono scordata di toglierle il cordino che utilizzavo per le misure... per di più questo cordino sfilacciato era rosso, sul bianco ci cantava!

In alto a sinistra: Rina Maroncelli durante la prima intervista realizzata per questa esposizione, il 31 Agosto 2010; in bianco e nero, Rina e le ragazze della sartoria in gita negli anni Cinquanta - Sessanta del ‘900; qui sopra, a destra: Rina Maroncelli mostra una tela per una giacca; una serie di figurini degli anni Settanta-Ottanta del ‘9oo (raccolta Rina Maroncelli)

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dall’archivio del “Campanon” Dal primo numero, uscito il 15 Agosto 1953, esattamente un anno dopo la costituzione della Pro Loco, il periodico “El Campanon”, edito dalla stessa Pro Loco Vadese racconta ininterrottamente la storia e le storie di Sant’Angelo in Vado. Il titolo stesso - il nome popolare e familiare con cui i vadesi designano la vecchia ardita torre in cui si identificano un po’ il volto e il cuore di Sant’Angelo - è un programma, una efficace sintesi del suo significato e delle sue finalità: chiamare a raccolta idealmente come nel passato la Civica Campana convocava i cittadini a Parlamento, tutti i vadesi per riunirli e stringerli attorno alla amata Città per risvegliare o ravvivare in ognuno “la pietà del natìo loco”… Per i lontani sarà la voce che giunge, come una eco delle nostre armoniose campane, dalla patria lontana… (Ai lettori, da “El Campanon”, 15 Agosto 1953). La pietà del natìo loco, la Patria lontana: non poteva mancare, nel nostro itinerario alla riscoperta dell’arte del tessile nell’Alta Valle del Metauro, uno sguardo al passato tra le righe di questa gloriosa testata, nel ricordo di chi ha lasciato sulle sue pagine la propria testimonianza.

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A sinistra, nel testo: la prima pagina del primo numero di “El Campanon” (15 Agosto 1953); qui sopra, da sinistra: 25 Dicembre 1956, 25 Dicembre 1953, 15 Agosto 1957, 31 Agosto 1961. A destra: la pagina degli annunci pubblicitari dal numero del Dicembre 1977.

Da sinistra: annunci pubblicitari (18 Aprile 1954); Cappelleria Dini Pietro (15 Agosto 1953); Bravi Cleofe (25 Dicembre 1953); Cappelleria Dini Giovanni, Il tuo paese, Ditta Marchetti Alba (15 Agosto 1953); Maglificio Iside (26 Marzo 1967).

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‘vecchia Singer’ Giovanni Garulli e i corsi Singer Dicono che nelle case donne pallide sopra la vecchia Singer cuciano gli spolverini di percalle, abiti che contro il vento stiano tesi e tutto il resto siano balle, vecchio lavoro da cinesi eh eh Paolo Conte, Novecento (1992)

Nel 1951 sono all’incirca 400.000 le casalinghe che seguono corsi di cucito presso i Singer Sewing Centres nel mondo. Anche Sant’Angelo in Vado fa la sua parte, con le lezioni organizzate dall’agente Singer Giovanni Garulli e sua moglie Decia Negroni. Tovaglie e tovaglioli ma anche camicette, gonne, abitini per bambine: decine di ragazze hanno imparato l’abbiccì del taglio e cucito su una vecchia Singer, e c’è ancora chi custodisce gelosamente il grembiulino ricamato a colori allegri in quegli anni Sessanta, nei quali esibire in salotto una macchina da cucire a pedale rappresentava segno sicuro di emancipazione. I corsi erano tenuti da personale della Singer, di solito arrivavano da fuori, da Ancona, per esempio, noi ospitavamo l’insegnante, le spese erano ripartite in parti uguali tra mio marito e la Singer. Le ragazze si fermavano a pranzo: che confusione! Era una rivoluzione, ma era bello avere tanta gente intorno. E’ pieno di brio il racconto di Decia Negroni Garulli, e nelle sue parole risuona il cicaleccio di quelle giovani che ogni due anni invadevano la casa affacciata sul ponte sopra il Metauro, di fronte alla chiesa di Santa Maria dei Servi: per ringhiera c’è una canna di fucile, opportunamente addomesticata, e all’angolo c’era un tempo una pompa di benzina, che si intravede nelle vecchie fotografie. Nato nel 1914, Giovanni Garulli cominciò la propria attività di rappresentante di macchine Singer negli anni del Dopoguerra, dopo una brillante carriera nell’esercito: mio padre fu anche istruttore al-

l’Accademia militare di Modena, aggiunge Fabio, figlio di Giovanni e Decia, mentre ci mostra una bella immagine del padre intento a saltare un ostacolo in groppa a un destriero scattante, e finì la guerra da maresciallo di Cavalleria. La Singer organizzava questi corsi per incentivare la vendita delle macchine e degli articoli di merceria: fili, telai, aghi, insomma, tutto il necessario, riprende Decia. Generalmente programmate nell’Autunno-Inverno, le lezioni si tenevano nel locale attiguo all’appartamento della Famiglia Garulli, un grande ambiente destinato a negozio: a volte arrivavano con le scarpe tutte infangate, piene di neve… sa venivano a piedi dalla campagna, molte di loro. I corsi duravano circa un mese, e alla fine quasi tutte le ragazze sapevano fare qualcosa, le più portate riuscivano anche a confezionarsi una gonna, una camicetta.

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In alto a sinistra: Giovanni Garulli e Decia Negroni nel 1939; nel testo: una scatola di fili per il ricamo a macchina, alcuni opuscoli per le allieve dei corsi Singer e, in secondo piano, un ritaglio dal “Campanon” degli anni Cinquanta-Sessanta. Qui sopra e a fianco, foto di gruppo degli anni 1955-1961. Qui sopra, in alto: al centro, Giovanni Garulli con il soprabito di pelle (raccolta Decia Negroni Garulli e Famiglia Garulli). Sotto, da sinistra: un grembiule realizzato durante uno dei corsi da Angela Lapilli; a destra: una tovaglia ricamata a macchina da Decia Negroni.

link nella sezione Materiali alcuni ricordi dei corsi di cucito Singer organizzati da Giovanni Garulli e sua moglie Decia Negroni

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Sartoria Baldelli Audaces fortuna iuvat, recita spavaldo il motto inciso sulla mensola di legno che corre intorno al camino: chissà quante storie potrebbe raccontare quel camino, siamo nel cuore della Sant’Angelo più antica, a pochi passi dal palazzo della Ragione, dalla torre civica con il Campanon, e dalla casa dove nacquero Taddeo e Federico (Zuccari, ma per tutti qui sono Taddeo e Federico). Qui abitava un sacerdote spiegano Donatella e Marzia Baldelli, che hanno raccolto l’eredità della madre, la sarta per signora Teresa Cecchini. Il grande tavolo è ingombro di modelli tagliati, dalle pareti, accanto al cappello piumato del nonno Domenico Baldelli, bersagliere (ha fatto la I guerra mondiale e la guerra di Libia, quel cappello!), si affacciano le foto di alcune spose vestite da Teresa e dalle sue figlie; ovunque fili, forbici, macchine da cucire: insomma, l’allegra confusione e l’armamentario di una sartoria, oggi purtroppo una rarità. Fino a poco tempo fa compravamo quasi tutto dal rappresentante di una ditta specializzata in articoli per sarti, Giuseppe Begni di Brescia, oggi è in pensione. Riforniva un po’ l’intera zona, anzi, agli inizi i sarti vadesi si organizzavano per fare un acquisto unico, tutti insieme, un paio di volte l’anno. Vendeva tutto il necessario, forbici, spilli, spallini, fili… Nostra mamma ha sempre lavorato in questa stanza, da piccole l’aiutavamo, in casa dei sarti è inevitabile non imparare almeno le basi guardando i genitori. Poi abbiamo frequentato diversi corsi, per aggiornare le tecniche di taglio: è importante per chi fa questo mestiere perfezionarsi continuamente, anche se la pratica continua a essere il vero addestramento per gli artigiani. Teresa Cecchini, vadese, apre il proprio laboratorio negli anni Sessanta, dopo un periodo di apprendistato presso una sarta di Fano. Aveva due o tre lavoranti, le clienti erano soprattutto signore di Sant’ Angelo ma anche dai paesi vicini, Lunano, Belforte, Borgopace, Pian-

dimeleto… ancora oggi molte delle nostre clienti arrivano dai dintorni. Teresa tagliava e cuciva ogni genere di capi, dal vestitino estivo al cappotto agli abiti da sposa, che sicuramente per una sarta rappresentano il lavoro di maggior soddisfazione, proseguono le sorelle Baldelli; dai primi anni Settanta prese anche la licenza per la vendita dei tessuti, si riforniva da una ditta di Milano del Gruppo Ratti, erano materiali di qualità molto alta, come oggi non se ne trovano più. Di nuovo la qualità che, insieme con passione, serietà, impegno sembra costituire la parola chiave del racconto dei nostri artigiani. Donatella e Marzia sottolineano poi un altro aspetto di questo mestiere: la sartoria è l’arte della tensione, intanto perché bisogna fare attenzione a ogni minimo dettaglio, poi perché il sarto è continuamente in ritardo, il tempo non basta mai, e soprattutto perché con i clienti occorre avere molto tatto, essere un po’ psicologi. E oggi? Cosa significa tenere aperta una sartoria in questi tempi dominati dall’usa-e-getta? La crisi nella quale ci troviamo ormai da qualche anno ha per caso cambiato qualche abitudine, chiediamo, non è che magari si butta meno e si ripara di più? Eh, certo è sempre più difficile lavorare da artigiani, oggi, anche perché nessuno vuole più imparare il mestiere, forse proprio perché è faticoso. La crisi? Sì, forse si fa qualche capo nuovo in meno e qualche riparazione in più, ma il vero problema, in ogni settore, è che ci sono meno possibilità.

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Crisi o no, le parole di Marzia e Donatella, accanto a quelle degli altri intervistati, lasciano trasparire una passione per il lavoro che già di per sé rappresenta un esempio, mentre le loro mani tagliano un tessuto percorso dall’armonioso tracciato dei punti lenti.

Donatella e Marzia Baldelli in sartoria; in alto a sinistra, con la madre Teresa Cecchini in un’immagine degli anni Settanta del ‘900. In bianco e nero, due abiti realizzati da Teresa Cecchini: nella foto grande, la sposa Patrizia Lapilli (1971, il modello fu confezionato su disegno di Angela, sorella della sposa); nelle foto piccole: la sposa Emma Montani (1967).

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La valle del Jeans. I pionieri Don Corrado Catani, ‘don jeans’ Raccontare la storia del distretto del tessile sviluppatosi nel Montefeltro tra Sant’Angelo in Vado, Urbania, Fermignano, Peglio e Mercatello sul Metauro significa prendere le mosse dall’opera di un sacerdote intraprendente e lungimirante che, negli anni del Dopoguerra, creò in Urbania la prima, rudimentale esperienza di confezione conto terzi della zona. Da tutti indicato come ideale ‘fondatore’ della jeans valley, don Corrado Catani (noto anche come don jeans) nella seconda metà degli anni Cinquanta aveva infatti avviato, attraverso l’Opera Diocesana di Assistenza, un piccolo laboratorio creato per dare lavoro alle donne del posto, perlopiù vedove di guerra. Il passo successivo fu per don Corrado l’introduzione delle prime macchine industriali, cui fece seguito la ricerca di clienti: tentativi coronati dal successo, che indussero altri imprenditori a investire nel settore del tessile. Come hanno confermato anche alcuni dei nostri intervistati, inizialmente i laboratori si dedicarono all’abbigliamento da bambino o classico e semiclassico, il jeans arrivò solo intorno alla fine degli anni Sessanta: da allora fino alla metà degli anni Duemila, sebbene con alti e bassi, la jeans valley fu leader nella produzione di sportswear e jeanswear. Levi’s, Carrera, Pop 84, Jesus, Rifle, Wrangler: sono solo alcuni dei marchi prodotti dalle industrie dell’Alta Valle del Metauro dove, secondo alcune stime, negli anni Settanta-Ottanta del ‘900 trovavano lavoro circa 12.000 addetti, per una produzione che si aggirava intorno ai 40.000 capi. Così un’indagine Censis del 2005 sintetizzava l’evoluzione delle ditte del territorio, che condividono una storia comune: la nascita per gemmazione dall’impresa madre, l’avvio dell’attività come façonista per un unico committente, poi l’attività di terzista per più committenti; progressivamente qualificatesi per la

fornitura di servizi sempre più diversificati, dalla ricerca ai trattamenti, dalla stiratura ai ricami alla commercializzazione le imprese della jeans valley nel 1995, anno in cui fu dato alle stampe La valle del jeans di Augusto Calzini, fatturavano complessivamente 160 miliardi di lire. Come è noto, il settore del tessile ha risentito pesantemente della crisi generale, ancor prima di quel Settembre 2008 che segna uno spartiacque nell’economia mondiale: delocalizzazione, cassa integrazione, licenziamenti, disoccupazione diventano anche qui parole all’ordine del giorno. Ciononostante non sono pochi, oggi, gli esempi di successo di imprese in piena attività, con casi eclatanti di sviluppo e crescita, e non manca nemmeno chi ha provato a reinventarsi per far fronte ai mutamenti del mercato, nella certezza che il know-how maturato in mezzo secolo non possa andare perso.

Licia Pioggia e le modelliste

Create soprattutto, come vedremo, per impulso di imprenditori lungimiranti, generalmente però sprovvisti di basi tecniche, le ditte della jeans valley determinarono la nascita di una figura allora inedita nel nostro panorama professionale: la modellista, nella quale il saper fare artigianale della sarta si unisce alla capacità di ottimizzare le esigenze della produzione su vasta scala. Tra le prime modelliste della jeans valley degli anni Sessanta - Settanta ci fu senz’altro Licia Pioggia che, dopo un’esperienza da sarta, si avvicinò al taglio industriale collaborando con gran parte delle imprese tessili della zona, dalla CIA di Fossombrone a St. Germain des Prés. Mia madre svolgeva anche la mansione di capolinea, cioè organizzava la produzione per le operaie racconta oggi Luciano Palini, figlio di Licia. Ricordo di averla vista preparare i prototipi, che poi venivano utilizzati per il taglio in serie: uno degli aspetti fondamentali, quando si lavora per l’industria, è la disposizione del modello sul tessuto, gli scarti devono essere ridotti davvero al minimo. Vera pioniera del modellismo, Licia Pioggia ebbe rapporti con numerose ditte di confezioni in tutta Italia, dalla INGRAM di Arezzo a Pancaldi di Bologna fino a Valentino.

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Per lungo tempo a fianco di don Corrado Catani all’interno della Commissione sindacale di Uniontessile, Renzo De Angeli, consulente del lavoro e secondo la sua stessa definizione sindacalista delle imprese, ripercorre in un’intervista rilasciata nel 2009 al sito dell’Associazione Piccole e Medie Industrie della Provincia di Pesaro e Urbino gli esordi della jeans valley. Ne proponiamo un brano, nel quale la figura di don Corrado emerge in tutta la sua abilità imprenditoriale. La storia è nota: tutto è nato in modo singolare, proprio da un’intuizione intelligente di don Corrado Catani, maestro di cappella del Vaticano, sacerdote di formazione umanistica, che nei primi anni Cinquanta, tornato da Roma, aveva avuto l’incarico di occuparsi dell’amministrazione dei beni ecclesiastici nel territorio ed era per questo diventato competente in problematiche fiscali e amministrative. All’epoca si era creata una situazione incresciosa in un convento femminile di Modena, dove le suore ricevevano sovvenzioni dell’ancora vigente Piano Marshall per la ricostruzione. Questi contribuiti venivano utilizzati per cucire abiti destinati agli orfani. Uno zelante funzionario statale mise nei guai le suore per presunte irregolarità fiscali e amministrative. Le suore si rivolsero al Vaticano per districarsi dal problema e il Vaticano inviò a Modena don Corrado, vista la sua competenza nel ramo fiscale. Don Corrado fece un sopralluogo e notò che le suore impiegavano per la loro attività di beneficenza macchine da cucire industriali e non quelle a pedale o a manovella che il sacerdote aveva messo a disposizione delle donne rimaste vedove di guerra o con difficoltà di sussistenza nel territorio di Urbania per la confezione di abiti e grembiuli per conto dell’ODA. Ecco, l’illuminazione! Don Catani adottò lo stesso tipo di macchine per la “sua” attività di confezioni ancora artigianale e gettò il seme per un’attività industriale, che diventerà remunerativa, in un territorio ancora agricolo, privo di risorse di reddito consistenti. Le cantine della diocesi furono attrezzate con queste macchine, don Corrado cercò e trovò le commesse e il lavoro cominciò a fiorire. Certo è che don Corrado faceva l’imprenditore “perché me l’ha chiesto il Vescovo” diceva, ma è indubbio che lo facesse con altrettanta passione della sua missione sacerdotale e con grande capacità. Aveva una vera e propria vocazione. (...) Don Corrado all’inizio non produceva jeans, ma abiti. Furono altri imprenditori che, visto il successo della sua attività, lo imitarono nell’uso di macchinari industriali e aprirono la strada del denim. Sulla quale anche don Corrado si attestò in un secondo momento. Nacquero così la PAMM, poi la Garcia Isabel, che arrivò ad avere 200 dipendenti, la Marvel a Mercatello sul Metauro... Era la fine degli anni Sessanta e la moda del casual tirava moltissimo, fino alla crisi degli ultimi anni Ottanta.

In alto a sinistra: un dettaglio di un paio di jeans Levi’s, l’etichetta metallica di un paio di jeans D&G. Qui a sinistra: l’etichetta di carta di un capo POP84, tutti marchi prodotti dal pantalonificio GAIL (raccolta Andrea Sassi). Al centro, in alto, la celebre pubblicità dei jeans Jesus, prodotti nella jeans valley. Firmati da Oliviero Toscani ed Emanuele Pirella, i manifesti Jesus apparvero nei primi anni Settanta e nel 1973 furono commentati anche da Pier Paolo Pasolini nell’articolo Il folle slogan dei jeans Jesus, apparso sul “Corriere della Sera” il 17 Maggio 1973 e ripubblicato poi tra gli Scritti corsari.

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dal guado al blue jeans memoria del tessile nell’Alta Valle del Metauro

Dall’arte sartoriale alla jeans valley: se quasi tutti gli imprenditori del tessile che abbiamo intervistato provengono da esperienze manageriali più che artigianali, e con ago e forbici hanno poco o nulla a che fare, il jeans e il ‘su misura’ trovano un anello di congiunzione nell’esperienza di Ermanno Massani, sarto che negli anni Sessanta insieme con il fratello Vito fonda una delle prime ditte a façon della zona. All’epoca qui non c’erano grandi possibilità di lavoro, e così all’inizio degli anni Cinquanta ho deciso di spostarmi a Bologna, poi a Firenze, dove ho imparato il mestiere da Mario Tabacchini, un sarto originario di Urbania che là aveva un laboratorio piuttosto conosciuto. Vivevo con la sua famiglia, anche: al piano superiore c’era l’abitazione, sotto il laboratorio. Dopo un paio d’anni d’apprendistato sono tornato a Sant’Angelo in Vado, e ho avviato la mia attività in proprio. Sono gli anni dell’affermarsi delle ‘confezioni’, il prêt-à-porter che cambia radicalmente le abitudini vestimentarie degli italiani, segnando l’inesorabile declino delle sartorie artigianali: la sartoria cominciava a essere in crisi, e così, su iniziativa di mio fratello Vito abbiamo deciso di orientarci verso la produzione di confezioni conto terzi. Siamo nel 1964, l’alta Val Metauro non è ancora caratterizzata dal blu del jeans, colore connotato come ribelle se non rivoluzionario, e l’intuizione di Vito Massani contribuisce in modo decisivo ad aprire una strada: abbiamo cominciato nello stesso periodo di don Corrado Catani di Urbania, abbiamo aperto subito con dieci operaie, tutte donne, in quattro locali nel centro storico di Sant’Angelo (ex trattoria Da Lucia, Bubù), con una produzione di

jeans e abbigliamento semiclassico. In breve tempo il lavoro aumenta, e il pantalonificio Massani si trasferisce nella zona industriale di Ca’ Maspino, dove prende il nome di MF 2000, arrivando a impiegare un centinaio di addetti. Alla catena hanno sempre lavorato soprattutto donne; quasi tutti i passaggi della lavorazione erano svolti internamente, accadeva di rado che dovessimo coinvolgere personale esterno, solo in periodi particolarmente impegnativi. Tagliare i fili, per esempio, era uno dei passaggi che affidavamo fuori. Anche la sorella di Ermanno e Vito, Maria, collaborò per un periodo all’azienda di famiglia: fissavo i rivetti, seguivo il controllo qualità oppure le spedizioni, ricorda; forse questa era la parte più faticosa, un paio di pantaloni pesava quasi un chilo, e alla fine della giornata mi passavano per le mani qualcosa come duemila paia di jeans… molti andavano anche all’estero, in Russia, per esempio. Come altre ditte della jeans valley, anche la MF 2000 produceva quasi esclusivamente per un unico committente, in questo caso la Rifle: dal nostro stabilimento usciva una media di 1.000-1.200 pantaloni al giorno, a volte anche 1.500, e la Rifle esigeva un rapporto di esclusiva, anche se in realtà non garantiva quasi nulla, tant’è che quando cominciò a delocalizzare la produzione da una settimana all’altra il numero di capi prodotti calò drasticamente, osserva Ermanno. Ma, gli chiediamo, come affrontò la produzione in serie un sarto cresciuto in un atelier fiorentino come lei, abituato all’accuratezza delle rifiniture e al taglio personalizzato dell’alta sartoria? Naturalmente si tratta di due lavori molto diversi, commenta, anche nella confezione industriale ci sono molti passaggi, è una routine impegnativa, ma il lavoro artigianale è infinitamente più complicato, non fosse altro per la quantità di punti dati a mano. Per tagliare e cucire una giacca potevo impiegarci anche una settimana! La MF 2000 cessò l’attività negli anni Ottanta, dopo la prematura

scomparsa di Vito, e fu rilevata da un’altra industria del settore. Ciononostante, i fratelli Massani sono da tutti riconosciuti tra i precursori dell’industrializzazione che negli anni Sessanta del ‘900 favorì in modo decisivo lo sviluppo di questo territorio. Di Vito, infine, oltre allo spirito imprenditoriale i vadesi ricordano con grande affetto la generosità, nel rapporto con i dipendenti (credeva nel garantire alle maestranze una giusta paga, ci hanno detto), e con il paese di origine: non faceva mai mancare il suo sostegno agli eventi e alle iniziative pubbliche.

Ermanno Massani con alcuni strumenti da lavoro e una giacca realizzata negli anni Ottanta (in basso, il dettaglio del taschino). In alto a sinistra, dal “Campanon”: operaie del pantalonificio Massani (Dicembre 1966) e due inserzioni pubblicitarie (Aprile 1969 e Aprile 1987).

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La valle del jeans. I pionieri Ernesto Maroncelli e la PAMM Appartenente a una delle famiglie più conosciute del territorio vadese (vivissimo è ancora per molti il ricordo del padre, el Sor Romolo), Ernesto Maroncelli è stato un pioniere del distretto del jeans, insieme con don Corrado Catani. Ho iniziato nel 1968, con le confezioni da bambino. Allora anche don Corrado e le ditte che gli gravitavano intorno si dedicavano all’abbigliamento infantile. Sono stato tra i primi, nel 1970, a orientare la produzione verso il jeanswear. Come gran parte degli imprenditori del jeans, anche Maroncelli arriva al tessile da un’esperienza lavorativa in tutt’altro campo: per otto anni e mezzo ho lavorato come rappresentante per la CGE, Compagnia Generale Elettricità, poi con un socio esperto nelle confezioni ho aperto il primo laboratorio. Col tempo si sono aggiunti altri due soci, e abbiamo fondato la PAMM, con sede a Urbania (il nome deriva dalle iniziali del cognome dei quattro soci). Io, per la mia formazione, ho sempre seguito la parte amministrativa e commerciale, tenevo i contatti con i clienti in tutta Italia, il lavoro era tanto, con molte prospettive di sviluppo. Fino agli anni 1978-’79 dal nostro stabilimento usciva una media di 2.000 capi al giorno. Un periodo di grandi risultati, ma non privo di episodi spiacevoli, come il furto subito dalla ditta nel 1972, che fece epoca per l’ingente valore della refurtiva: legarono il custode al letto, e ci portarono via materiale per oltre 100 milioni di lire dell’epoca (corrispondenti a quasi 800.000 euro). La PAMM ha sempre lavorato da terzista, realizzando capi (pantaloni, soprattutto) per conto di grandi marchi del settore, uno su tutti Benetton, che sin dagli inizi affidò parte della propria produzione alla ditta vadese. Arrivava in ditta il tessuto, prosegue Maroncelli, e il lavoro passava attraverso le varie fasi, dal modello al taglio alla confezione fino alla stiratura, i capi poi venivano imbustati e consegnati. Il camion ritornava con i rotoli di tela, e il ciclo ricominciava.

Gli anni Sessanta del passaggio dall’agricoltura all’industria rivivono nel racconto di Maroncelli, che sottolinea spesso il ruolo svolto dalle aziende locali nello sviluppo dell’economia vadese e, in generale, della nostra provincia: erano gli anni dell’emigrazione, le campagne si spopolavano, e le industrie che cominciavano a nascere rappresentavano un’occasione importante per poter scegliere di restare. Molti tornavano in patria, vedendo che anche qui c’era la possibilità di lavorare. Nel 1982 la ditta si scioglie (i miei soci avevano preferito altre strade, io dopo la chiusura sono tornato a seguire l’azienda agraria di famiglia) non senza aver formato, però, alcune delle figure che con le loro competenze e la loro intraprendenza traghetteranno la valle del jeans verso più ampi orizzonti, proiettandola al mercato globale. Molti dei dipendenti della PAMM come di altre industrie nate in quei primi anni, spiega Maroncelli, dopo aver imparato il mestiere hanno aperto attività proprie, alcuni si erano specializzati nella riparazione delle macchine, altri nel settore della modellistica o, ancora, nella confezione. E’ stato un bel periodo, di grandi soddisfazioni, conclude Maroncelli. Il lavoro era faticoso, ma si respirava una bella atmosfera, la correttezza era tutto, nei rapporti con le persone, con i dipendenti; anche con don Corrado, le nostre attività erano in concorrenza, ma agivamo nella stessa direzione, per far crescere la nostra terra, si partiva insieme per cercare le commesse di lavoro, e ancora mi ricordo i viaggi in auto con lui, le ore passate a scambiarci pareri e consigli. Il sor Romolo e la sua numerosa famiglia ci guardano dalla bella foto sulla parete, e sembrano annuire.

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dall’archivio del “Campanon” Dall’archivio del “Campanon”, ecco alcune inserzioni degli anni 1980 - 1994 che ricordano i protagonisti dell’epoca d’oro della jeans valley. Puoi completare il nostro racconto con documenti, ricordi, testimonianze: utilizza l’ultimo pannello di questa esposizione, dove trovi anche i recapiti ai quali rivolgerti per le tue segnalazioni. Di tutto il materiale pervenuto daremo conto nel volume di prossima pubblicazione. Grazie!

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‘El Nobile’ e il jeans ‘used’ Era la metà degli anni Ottanta, i lavaggi tradizionali, lo stone washed o il bleach, erano ormai superati e il mercato chiedeva nuovi trattamenti. Con alcuni imprenditori del jeans pensammo di proporre qualcosa di diverso, e provammo la sabbiatura. I primi pantaloni furono letteralmente polverizzati dal getto d’aria compressa. La chiacchierata con Adamo Giannessi, titolare insieme con il fratello Settimio della 2G sabbiatura offre uno spaccato inedito della lavorazione del jeans, portando l’attenzione su un aspetto che, dopo lo sviluppo della façon degli anni Settanta, ha caratterizzato il settore tessile dell’industria vadese: la ricerca intorno ai trattamenti nei quali alcune ditte della zona hanno nel tempo maturato un know-how unico al mondo. La finitura ‘used’ [= usato] si stava affermando come cifra stilistica di un periodo, dopo gli anni del boom economico il mercato si orientava verso mobili, edifici, e anche abiti il cui aspetto richiamasse la patina lasciata dallo scorrere del tempo, e il jeans non poteva sottrarsi a questa tendenza. La 2G ha sempre lavorato nel settore della sabbiatura edile e dei metalli: dalla metà degli anni Ottanta l’attività si è spostata, concentrandosi quasi esclusivamente sulla sabbiatura dei tessuti, anche perché, dopo i primi esperimenti sui pantaloni, l’effetto si estese al total look, ossia a tutti i capi prodotti in jeans. Naturalmente col tempo la tecnica fu affinata, il getto di sabbia fu alleggerito, utilizzando compressioni meno violente e abrasivi più delicati. Giannessi sottolinea l’abilità manuale necessaria per ‘consumare’ un capo a regola d’arte: prima di lavorare i jeans destinati al cliente, gli operai effettuavano un periodo di addestramento, per imparare a gestire bene gli strumenti: insomma, è un po’ come dipingere, ma al posto del pennello si ha un ugello ad aria compressa.

Venne poi la moda della ‘baffatura’, ossia la scoloritura del jeans a imitazione dell’usura del tessuto, più pronunciata in alcuni punti, che asseconda le pieghe determinate dai movimenti di chi l’indossa. Anche qui Giannessi introduce l’argomento con un aneddoto: vidi un signore intento a lavorare nel suo orto, era El Nobile, un personaggio conosciuto qui a Sant’Angelo. Notai nei suoi vecchissimi pantaloni da lavoro delle striature tra la cinta e la gamba, dove il tessuto era più consumato e più chiaro. Pensai che poteva essere un effetto apprezzato dagli stilisti del jeans e così gli chiesi di darmi quei pantaloni da studiare. Lì per lì non fu entusiasta, anzi, fu decisamente ruvido nella sua reazione. Poi però capì, e fu contento quando gli portai in cambio dei pantaloni nuovi. Anche la baffatura divenne una tecnica assai sofisticata: per creare l’effetto si lavoravano i pantaloni sopra delle maschere di silicone, quasi un calco che riproduceva i movimenti del corpo. Portammo i nostri prototipi anche nelle principali fiere del tessile, destando un interesse notevole aggiunge Giannessi. La 2G proseguì la propria attività nel settore jeans fino al 2004: per quasi vent’anni dal suo stabilimento uscirono quotidianamente dai sei agli ottomila capi, gestiti da una quarantina di dipendenti. La crisi, che dagli anni Novanta si è sempre fatta sentire a fasi alterne, dal 2004 ha stretto la morsa, e molte ditte del nostro distretto hanno cominciato già allora ad avere cali significativi nella produzione. Oggi il mercato esige una ricerca continua, e questo incide sui costi. Ancora una volta si sottolinea il know-how accumulato dagli operatori della jeans valley, un patrimonio di conoscenze e creatività che nel mondo, sostiene Giannessi, ha pochi rivali; l’imprenditore non esita ad ampliare la prospettiva confrontandosi con

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altri modelli di sviluppo: oltre alla delocalizzazione incise la difficoltà di trovare manodopera, ma probabilmente ci è un po’ mancata anche la capacità di ‘fare rete’. Ricordo che tentammo di costituire un consorzio, creare un marchio che consentisse alla nostra jeans valley di confrontarsi con altri e più grandi distretti del tessile, ma fu un’esperienza isolata. In realtà, conclude, occorrerebbero anche maggiori tutele per il made-inItaly: offrire prodotti di qualità davvero superiore è forse una delle poche chances che abbiamo per tornare a far funzionare l’economia, e non disperdere le competenze create in questi quarant’anni.

I trattamenti: piccolo glossario Negli anni Sessanta i ragazzi ‘scolorivano’ artigianalmente i loro jeans con energiche strofinate di carta vetrata. Le tecniche si sono evolute, ma la creatività nell’uso dei materiali è rimasta la stessa. Ecco un piccolo glossario dei trattamenti più diffusi. Unwashed (non lavato): tessuto denim allo stato originale, rigido e di colore blu molto scuro, rilascia al lavaggio molto colore. Onewashed (un lavaggio): sottoposto ad un solo lavaggio il tessuto risulta più morbido al tatto, anche se sempre piuttosto rigido e sempre di colore blu scuro. Stone washed (lavaggio alla pietra): lavaggio effettuato con pietra pomice; l’aspetto del jeans è il caratteristico usato diffuso e il colore è più chiaro dei precedenti. Bleach (lavaggio con candeggina): attualmente si usano altri sistemi ma il nome è rimasto a identificare un jeans azzurro molto chiaro, lavato con candeggina (l’effetto sbiancante del cloro sfuma il tessuto fino all’azzurro chiarissimo). Stone bleach (lavaggio con pietre e candeggina): l’azione combinata del cloro e della pietra pomice toglie uniformità al colore che si presenta chiaro ma a chiazze irregolari. Sand blasting (sabbiatura): sono accentuate artificialmente le zone in cui normalmente si nota l’usura del capo indossato. Whiskers (baffi): sono riprodotte artificialmente le strisce chiare fra la gamba e il busto che si creano con l’uso.

In alto a sinistra: Adamo Giannessi al lavoro nel suo stabilimento; sotto: jeans sabbiati. Qui a fianco: dettaglio di una brochure promozionale della 2G. link: nella sezione Materiali un paio di jeans used e alcuni strumenti per la sabbiatura

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St. Germain des Prés Juliette Grèco, Sartre e Simone de Beauvoir, il cinema della Nouvelle Vague: tra esistenzialismo (ma la loro moda ha fatto del colore una bandiera) e note jazz, la Famiglia Donnini con il maglificio St. Germain des Prés porta a Sant’Angelo un pezzetto della fascinosa Parigi del dopoguerra. Se la ditta prende il nome dall’omonimo quartiere della Ville Lumière, la qualità del prodotto è però da sempre tutta italiana. Con una scelta coraggiosa, infatti, rarissima se non unica nel panorama industriale nazionale, St. Germain des Prés da sempre segue la strada della produzione a ciclo integrale. In pratica, dal filato al capo finito tutte le fasi della lavorazione sono effettuate internamente, per garantire al prodotto una qualità eccellente sotto ogni punto di vista. Abbiamo cominciato sul finire degli anni Sessanta, esordisce Luciano Donnini, a capo dell’azienda insieme con la moglie Maria Cristina Sartini e i figli Gianluca e Gianmatteo, con il maglificio Iside, un piccolo laboratorio situato nel centro di Sant’Angelo. Non pensavo di dedicarmi all’abbigliamento, la mia formazione è prettamente manageriale, e appena laureato ero destinato a un posto di dirigente in un’importante azienda di un altro settore, lontano da casa. La vita ha voluto però che restassi qui, su questo territorio, e alla fine sono stato ripagato per la mia decisione. Siamo stati i primi a investire nella zona

industriale di Sant’Angelo in Vado, prosegue Donnini, la nostra sede si è ampliata in breve tempo, e abbiamo acquisito uno stabilimento attiguo al primo, con un grande vantaggio per la qualità del prodotto: questo ci permette infatti di controllare da vicino la lavorazione dei capi. L’area occupata dalla ditta copre oggi oltre 8.000 metri quadrati: nei periodi di maggiore impegno la produzione ha toccato i 200.000 capi all’anno, e i quarant’anni di attività sono stati celebrati nel 2010 con la creazione di una nuova linea, contrassegnata con l’etichetta Gold. Altro traguardo importante è la certificazione ISO 9001, che la ditta ha guadagnato sin dal 1994. Determinante nello stile che ha fatto conoscere St. Germain des Prés in tutto il mondo è l’eccezionale conoscenza delle macchine e delle diverse tecniche di lavorazione del filato sviluppate negli anni, che consentono una grande ricchezza di effetti; anche l’occhio meno esperto, poi, è colpito dal senso del colore davvero raffinatissimo, dalla capacità di associare filati di diversa resa in un mélange che è divenuto negli anni la cifra distintiva del marchio. Quasi sempre adattiamo le macchine per la tessitura alle nostre esigenze, spiega Maria Cristina, anima creativa della ditta. Anche se oggi la concorrenza è agguerrita, è difficile che i nostri capi possano essere riprodotti in tutti gli aspetti, proprio perché su ogni lavorazione, su ogni combinazione di filati c’è la nostra impronta. Maestra di tessitura, Maria Cristina Sartini conosce perfettamente i segreti del suo lavoro, e racconta con passione il percorso che

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dal filo conduce al capo finito. Al magico mix di fili e colori si aggiunge l’unica fase della lavorazione che talvolta è affidata all’esterno: molti modelli sono infatti ulteriormente impreziositi da applicazioni (utilizziamo solo strass Swarowski e accessori di prima qualità, sottolinea Gianluca), intarsi crochet o ricami, realizzati rigorosamente a mano. Una componente artigianale che si respira anche tra i macchinari più sofisticati, come quelli basati sulla tecnologia Wholegarment®, in grado di creare un capo finito, senza cuciture. Prima di salutarci, Gianluca ci accompagna in visita allo stabilimento, dove incontriamo Claudio Sartini, fratello di Maria Cristina e anch’egli a lungo collaboratore dell’azienda di famiglia. Mi ricordo ancora le donne che tessevano nelle nostre campagne, commenta sorridendo: e quasi sembra di vedere i loro gesti antichi nei tessuti ad altissima tecnologia firmati St. Germain des Prés.

A sinistra, in alto: lo stabilimento St. Germain des Prés nel 1970 e in una foto attuale. Al centro, in basso: alcuni passaggi della lavorazione dei capi St. Germain des Prés; in alto: un modello della stagione Autunno-Inverno 2010-2011 e l’etichetta della linea “Gold”. Qui sotto: due ritagli dal “Campanon” del 1980 e 1981.

St. Germain des Prés, dall’archivio del “Campanon” Sin dai tempi del Maglificio Iside, la Famiglia Donnini ha rappresentato un fondamentale punto di riferimento, un motore di sviluppo per l’industria della zona. Ecco alcuni ritagli da “El Campanon”, il glorioso periodico della Pro Loco di Sant’Angelo in Vado (a destra: Dicembre 1980; a sinistra: Aprile 1981). link nella sezione Materiali un pannello realizzato con tessuti St. Germain des Prés e un capo dalla collezione Autunno-Inverno 2011 - 2012

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Blue Line Project Una mattina mi sono svegliato con l’idea di passare al settore dell’abbigliamento, mi sono trovato un socio esperto nel cucito, e abbiamo iniziato. Così, con noncuranza e arguto understatement Franco Stocchi, presidente della holding Blue Fashion Group S.p.A, riassume gli inizi della sua attività di imprenditore del jeans. Una storia, come tutte quelle raccontate nel nostro percorso, che parla innanzitutto del valore del lavoro quotidiano, della capacità di intuire il futuro, affrontando le sfide dei tempi con gli strumenti tutti concreti - e i sacrifici - di chi è partito da un piccolo laboratorio artigianale. Una storia che in poco più di trent’anni ha portato Franco Stocchi ai più alti livelli dell’industria italiana. Appena finita la scuola, era la fine degli anni Sessanta, ho passato due anni in Svizzera come fresatore, cercando di imparare il più possibile. Poi sono tornato qui, e ho impiantato un’officina meccanica, per la produzione di telai per moto e altri articoli: in poco tempo l’attività si è ampliata, quando ho deciso di passare all’abbigliamento e fondare la Blue Line di Urbania, insieme con mio fratello Mario, avevo una dozzina di operai. Siamo alla metà degli anni Settanta, e il distretto del tessile nato intorno al jeans si va rapidamente sviluppando, diventando elemento di traino per il settore indu-

striale marchigiano: nel giro di un anno siamo arrivati ad avere cinquanta dipendenti, la produzione già allora si aggirava intorno ai 7.000 capi al giorno, che negli anni di maggiore attività sono arrivati fino a 20.000. Da subito abbiamo deciso di puntare sulla fornitura di un prodotto finito, per differenziarci e garantire al cliente un servizio unico, dalla progettazione ai trattamenti: abbiamo lavorato per quasi tutti i grandi marchi del jeans e dello sportswear, Rifle, Wrangler, Levi’s, Banana Republic, Biagiotti, Pooh, Cotton Belt… Impossibile citarli nel dettaglio: ricordiamo solo che tra gli innumerevoli successi di Stocchi c’è anche la gestione per l’Europa del marchio Parasuco cult, amato dalle star di Hollywood. Blue Line conta oggi settantanove dipendenti, età media 35 anni (circa 2.500 le persone impiegate nell’indotto che ruota intorno al gruppo); la produzione si avvale di diversi stabilimenti dislocati tra Urbania e Fermignano su un’area di oltre 22.000 metri quadrati e, nonostante le attuali difficoltà del settore, realizza una media di 15.000 capi al giorno, gran parte dei quali destinati al mercato estero. Lavoriamo molto col Nord Europa e con la Cina, aggiunge Francesco Lenti, genero di Franco Stocchi e amministratore delegato della ditta; da sempre Blue Line ha rivolto molta attenzione al mercato estero, e grazie al nostro know-how i clienti stranieri ci commissionano, oltre ai capi finiti, anche studi e ricerche di stile. Un successo che Stocchi condivide con la famiglia (oggi il fratello Mario è presidente di Blue Line Project), ma soprattutto con la moglie Anna, da sempre al suo fianco: il mio braccio destro, commenta, e anche le due figlie maggiori collaborano alla gestione dell’azienda. Io sono nato qui, conclude indicando la campagna ai piedi della luminosa sede centrale realizzata nel 2000, e ho

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voluto che anche la mia attività restasse radicata su questo territorio, sia il settore legato all’abbigliamento sia quello della meccanica, che non ho mai abbandonato (la SGM, ditta del gruppo operante nel settore della meccanica, è tra l’altro uno dei maggiori fornitori della TechnoGym, leader mondiale nella produzione di attrezzature sportive). E alla fine ho anche imparato a cucire i pantaloni.

Mr. Jeckerson Un giorno, era il 1993 o il 1994, arriva in ditta un signore tutto vestito di giallo canarino [Alessandro Chionna, n.d.r.], e mi presenta il prototipo di un pantalone: cercava una ditta in grado di produrre un migliaio di capi, arrivava da una precedente esperienza che lo aveva lasciato insoddisfatto. Ma c’era un problema, non inusuale, per la verità: il potenziale cliente aveva scarse risorse economiche. Ho intuito che quel nuovo modello avrebbe potuto essere un successo, e così gli ho proposto di entrare in società. Quel prototipo era uno dei primi esemplari del pantalone che sarebbe divenuto celebre in tutto il mondo col nome di Jeckerson, nato dall’intuizione di un giocatore di golf che, per evitare di perdere tempo e concentrazione prima dello swing, aggiunge due inserti sulle cosce sui quali asciugarsi le mani. Il marchio Jeckerson è stato ceduto a un gruppo inglese nel 2008, per 150 milioni di euro, ma Blue Line ha mantenuto la produzione dei capi, grazie ai quali si continua a diffondere quella sapienza made in Italy che ha fatto grande il nostro distretto del tessile. link nella sezione Materiali un paio di Jeckerson dagli archivi Blue Line

A sinistra: la sede operativa di Blue Line (Urbania); un dettaglio di lavorazione dei Jeckerson; l’interno dello stabilimento di Fermignano. Al centro: jeans tagliati, in attesa di essere assemblati; un dettaglio di lavorazione. Qui sopra: la gamma cromatica dei Jeckerson.

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Lavanderia Centro Italia

Pietra pomice, resine dalla composizione misteriosa, ampolle piene di liquido colorato che ribolle: no, non siamo nell’antro di un mago ma nella sede della Lavanderia Centro Italia di Ca’ Maspino di Sant’Angelo in Vado, leader mondiale nel trattamento (nobilizzazione, dicono qui) del jeans e, oggi, di molti altri tessuti. Se tradizionalmente la produzione del jeans è associata alla zona compresa tra Urbania, Sant’Angelo e Mercatello, tutti i passaggi che intercorrono tra il jeans tagliato e cucito e la sua commercializzazione sono affare prettamente vadese: ricamo, lavaggio e trattamenti, stiratura sono infatti i settori nei quali si sono specializzate nel tempo le ditte del distretto industriale della città degli Zuccari. Ho iniziato nel 1970 come lavoratore dipendente e nel 1977 ho aperto la mia stireria, che nel 1986 è diventata Lavanderia Centro Italia, esordisce il titolare Fabio Pedini. Oggi la ditta impiega circa 150 persone, la media dei capi lavati giornalmente si aggira intorno alle 10.000 unità, mentre la tintoria lavora circa 2.000 pezzi. Con vezzo da imprenditore Pedini, degno erede della tradizione dei mercanti di guado che fecero grande Sant’ Angelo (suo fratello Bruno, prematuramente scomparso, fu tra i primi a studiare l’isatis tinctoria e a reintrodurne nella zona la coltivazione), continua a chiamare lavanderia la sua ditta, che in realtà offre una gamma di trattamenti davvero vastissima, talora addirittura impensati. Oltre allo stone washed, il classico lavaggio con la pietra pomice, l’ufficio stile di Lavanderia Centro Italia ogni giorno propone agli stilisti nuove lavorazioni, nelle quali la tecnologia più avanzata si

fonde con strumenti e spunti che arrivano da arcaiche tradizioni. Un addetto leviga il denim con mano gentile, passandovi sopra un tampone di carta vetrata, un altro spruzza il colore in una cabina per la verniciatura dei mobili, adattata dalla creatività del titolare alle esigenze del tessuto; l’antica spazzola per cardare la lana aggiunge un quid vintage a un tessuto spalmato dai riflessi metallici, mentre resine e colle applicate con tocco sapiente rovinano ad arte una t-shirt o un giubbotto. C’è anche chi, armato di affilatissimo ‘bisturi’, modella tessuti proprio come nei farsetti rinascimentali, legando in un gesto cinquecento anni di storia: ogni capo è lavorato singolarmente, e gli esemplari più ricercati diventano davvero artworks da esposizione. Intuizione imprenditoriale ma anche creatività e capacità di evolversi sono alla base dell’attività di Pedini: dal 1998, anno in cui abbiamo cominciato a sperimentare i trattamenti più complessi, non utilizziamo mai i prodotti nella loro formulazione originale, racconta, ma interveniamo sempre per personalizzarne la composizione, oppure sovrapponiamo tecniche e ‘ingredienti’, per offrire al cliente un effetto sempre inedito. Fondamentale sottolineare che nel ciclo produttivo si impiegano esclusivamente prodotti e processi basati su sperimentate caratteristiche di sostenibilità ed ecompatibilità, testati dai laboratori di ricerca leader nel settore. Ripercorrere con Pedini l’archivio della ditta, composto da oltre 15.000 capi, gran parte dei quali catalogati e inventariati secondo il tipo di lavorazione è come compiere un viaggio nella sto-

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ria del costume: una vera e propria enciclopedia del jeans e dello sportswear, che comprende i più importanti nomi della moda: Moschino, Versace, Gucci, Cavalli, Angelo Marani, Balmain, senza dimenticare John Galliano. I trattamenti saranno tutti segretissimi e brevettati chiediamo a Pedini. Sì, ogni tanto ci pensiamo, ma la moda corre, e qualunque brevetto è superato in men che non si dica, ci risponde con un sorriso, guardando i capi ‘storici’ che si affacciano dalle pareti, incorniciati come veri e propri capolavori. Dopo aver celebrato nel 2006 i vent’anni di attività con una memorabile sfilata tra le lavatrici giganti, affollatissima di vip (Eva Cavalli, Michelle Hunziker, Maria Grazia Cucinotta tanto per fare qualche nome), Fabio Pedini produce ora anche una propria linea di abbigliamento, Lapstar: dinamica, provocatoria ma mai eccessiva, con la grinta del jeanswear ma con l’originalità di materiali e dettagli studiati con l’attenzione dell’artista. In alto, da sinistra: la tintoria; lavatrici e forni e un’immagine dell’archivio della Lavanderia Centro Italia. Qui sopra, a destra: un capo trattato link nella sezione Materiali alcuni campioni di tessuti nobilitati e la pietra pomice utilizzata nei trattamenti

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PROmo jeans PROmo®. Il jeans che ti salva la pelle. In un anno è riuscito a piazzare il suo PROmo® jeans in settanta negozi in tutta Italia, vendendo oltre 2.000 capi che hanno destato la curiosità degli addetti ai lavori e hanno saputo guadagnarsi un pubblico di aficionados in attesa dell’ampliamento della linea. Dai modelli al sito web, ha fatto tutto da solo Andrea Sassi, figlio di uno dei primi imprenditori del jeans di Sant’Angelo in Vado, indicando grazie alla propria creatività una strada per reagire alla crisi che attanaglia il settore, incidendo particolarmente sulle ditte di dimensioni medie come quella della Famiglia Sassi. Il pantalonificio GAIL è nato alla fine degli anni Settanta: mia madre Luisa iniziò come magliaia; dopo un po’ insieme con mio padre Giancarlo e altri soci hanno aperto un piccolo laboratorio di jeans, chiamato Ambra, nato in un ex pollaio, e da quell’esperienza è nato il pantalonificio GAIL. Come molti nella zona, ricorda divertito Andrea, anche la mia famiglia aveva avviato un allevamento di galline; e come molti, vedendo che il jeans era divenuto in breve tempo il settore trainante della nostra economia anche loro decisero di passare al tessile. Pop 84. Levi’s, Dolce & Gabbana, Cavalli, Versace… anche qui, l’elenco dei committenti ripercorre la storia del jeans e dello sportswear italiano: in quegli anni era tutto più facile interviene Giancarlo Sassi, riecheggiando un pensiero espresso da molti imprenditori nel nostro percorso. La GAIL lavorava soprattutto per la Ittierre di Isernia, dal nostro stabilimento usciva una media di 2030.000 capi a stagione, prodotti da una trentina di operai, mentre abbiamo iniziato con una quindicina di addetti. Quando il discorso va sulla crisi, che ha messo in difficoltà il settore sin dai primi anni Novanta, Giancarlo sottolinea uno dei problemi più annosi per le manifatture italiane: c’è poca tutela per il made-in-Italy, nonostante tutto; oggi per avere il marchio made-in-Italy basta che un

solo passaggio della lavorazione, la stiratura, per dire, o anche solo una rifinitura, sia effettuato in Italia… senza contare che è quasi impossibile trovare qualcuno disposto a lavorare in fabbrica, con conseguenze gravi dal punto di vista delle capacità artigianali, è un know-how che rischia di perdersi per sempre. Un know-how che fortunatamente la Famiglia Sassi ha saputo invece conservare, come dimostra l’intuizione di Andrea: nel 2009, seguendo la propria passione per la moto, prova a realizzare un pantalone in grado di proteggere dalle cadute, con in più il look inconfondibile del prodotto italiano. Il jeans PROmo® è infatti dotato di rinforzi in kevlar©, il tessuto utilizzato per i giubbotti antiproiettile, cuciti nelle zone più a rischio per i motociclisti, le ginocchia, i glutei e i fianchi delle cosce; per una maggior sicurezza, poi, alcuni modelli hanno una ‘tasca’ nella quale alloggiare protezioni in poliuretano semirigido di tipo omologato. Neanche a dirlo, tutti i materiali utilizzati sono italiani, e tutte le fasi della lavorazione sono svolte in Italia: insomma, un made-in-Italy reale. Ho cominciato quasi per scherzo, prosegue Andrea mentre ci mostra i dettagli dei suoi jeans: ho fatto delle prove con il tessuto, le ho inviate ai laboratori specializzati per i test, e poi ho provato a integrare questi inserti ‘tecnici’ in un pantalone di taglio attuale, alla moda. Resistente a oltre 70.000 cicli di abrasione secondo il test Martindale (un normale tessuto jeans di cotone resiste al massimo a 10.000), il pantalone progettato da Andrea è stato sottoposto a ulteriori prove, che simulano l’effet-

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to di una strisciata sull’asfalto, secondo la normativa UNI 13595, resistendo a 7.15 secondi di abrasione. Non ci credeva nessuno... conclude Andrea con legittimo orgoglio… io per primo, ammette Giancarlo: e invece sono proprio intuizioni come quella di Andrea, che uniscono tecnologia e caparbietà artigianale, a dare in questi nostri tempi un piccolo ma concretissimo segnale positivo.

Sopra: dettagli della lavorazione dei jeans per motociclisti PROmo®; jeans e felpa; il modello Texas, con evidenziate le zone rinforzate. Qui a destra: jeans PROmo® pronti per la vendita. A sinistra: lo stabilimento della PROmo jeans (e, prima, della GAIL).

link nella sezione Materiali alcuni capi dalla collezione PROmo jeans

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il lavoro continua

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Come più volte sottolineato, questa esposizione è solo la prima tappa di un itinerario sulle arti tessili nell’Alta Valle del Metauro. Se volete segnalare storie, fotografie, ricordi; se avete notato qualche imprecisione o se desiderate lasciare un vostro commento, utilizzate questo spazio o rivolgetevi ai recapiti sotto indicati: di tutto terremo conto, e il materiale raccolto costituirà la base per la pubblicazione prevista a compimento della ricerca. Grazie! Info e segnalazioni: Comune di Sant’Angelo in Vado: 0722 819914 - cultura@comune.sant-angelo-in-vado.ps.it www.cnapesaro.com; info@cristinaortolanistudio.it

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