Coworking ed economia collaborativa n°3

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[ Newsletter 3 del 9 giugno 2014 ]

COWORKING ED ECONOMIA COLLABORATIVA

dalla competizione alla condivisione

Mario Sironi

Ciclo di incontri e seminari, ad ingresso libero, presso “Millepiani”, via Nicolò Odero 13, Roma

Coworking e spazi pubblici: la rigenerazione urbana Il riuso degli spazi pubblici urbani inutilizzati come sfida per le Pubbliche Amministrazioni in tema di lavoro, di sviluppo, di coesione civile.

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2 I Coworking ed economia collaborativa

L’

attuale fase di profonda crisi economico-strutturale che stanno vivendo in particolare i grandi centri urbani dovrebbe liberare inedite energie progettuali e nuove elaborazioni principalmente sul tema degli spazi urbani, cuore del tessuto sociale e relazionale. Alle minacce di frantumazione per il benessere individuale di larghi strati della popolazione dovrebbe contrapporsi, in un’ottica di preservazione e di sostegno solidale, il rafforzamento della sfera e dei servizi sociali, strettamente connesso alla qualità della vita. Viceversa, la grave recessione in atto, con pochi segnali di uscita, sembra non affievolire le vecchie logiche speculative che sin dal dopoguerra hanno caratterizzato l’intervento edilizio soprattutto in una città come Roma, per decenni in forte espansione demografica. Anzi, l’indebolimento (e l’imbarbarimento) della politica finisce con il favorire l’assoluto controllo e l’abbrutimento dei luoghi-non luoghi da parte di coloro che con le proprie “discriminazioni spaziali” mirano ai facili e cinici profitti. Roma sembra ormai segnata – e lo è da decenni – dalle politiche urbanistiche dissennate, che hanno posto al centro della pianificazione territoriale gli interessi dei costruttori e della finanza. Se ciò ha prodotto effimero sviluppo, a caro prezzo per l’ambiente, oggi tali politiche residuali risultano più che mai anacronistiche, soprattutto incapaci di coniugare crescita e sostenibilità. Il tema degli spazi urbani e delle sei “r” (recupero, riuso, riqualificazione, rigenerazione, ricucitura, riequilibrio dell’edilizia esistente, senza ulteriore spreco di suolo da urbanizzare), è diventato quindi quanto mai centrale e strategico per le amministrazioni locali. Il “pubblico” si trova di fronte ad una scelta: o destinare questo patrimonio alla rendita speculativa, ripianando magari bilanci in sofferenza, o ragionare in termini strategici e di sviluppo sostenibile, guardando la realtà di chi vive la città nel quotidiano. Vecchi edifici pubblici ormai vuoti, caserme inutilizzate, fabbriche abbandonate possono oggi offrire una risposta alla crisi attraverso percorsi partecipati in grado di rispondere ai bisogni concreti dei cittadini. Meritori progetti di recupero organico, sul modello di quelli attuati in molte realtà urbane soprattutto del Nord Europa, possono non solo liberare le potenzialità creative delle comunità locali, ma soprattutto restituire dignità a termini quali economia (incentrata sulle persone), lavoro, diritti, ambiente, socialità, cultura, sport, integrazione. La crisi, in tal senso, può rappresentare un’occasione per restituire qualità al sistema sociale degli spazi urbani, caratterizzandolo in modo sostenibile, armonico e a mobilità lenta.

Coworking e spazi pubblici: la rigenerazione urbana [Andrea Catarci] pres. VIII Municipio [Carlo Infante] Stati Generali dell’innovazione [Marta Leonori] assessore alle Attività Produttive Roma Capitale [Paolo Masini] assessore alle Periferie Roma Capitale [Enrico Parisio] Millepiani [Andrea Santoro] pres. IX Municipio [Tommaso Spagnoli] SPQRWork [Carmelo Ursino] commissario straordinario LazioAdisu

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venerdì 13 giugno 2014 ore 17,00 Millepiani, via Nicolò Odero 13 Roma


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Referenti reali [Enrico Parisio]

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ella mia attività di designer freelance sono spesso chiamato per appuntamenti di lavoro presso strutture associative a livello nazionale. Ricordo che dieci, quindici anni fa questi uffici erano un via vai di persone chiassose, volontari, dirigenti, funzionari che passavano da una riunione all’altra, da un treno all’altro. Stanze piene di poster, volantini, pacchi in cartone ed io, freelance come oggi, che giocavo in proprio, un po’ con l’orgoglio dell’indipendenza del “saper fare”, un po’ con l’incertezza precaria nell’anima. Riandando oggi negli stessi posti, trovi un gran silenzio, veneziane abbassate e computer spenti. Pochi dirigenti, che non capiscono più quello che devono dirigere, visto che non c’è nessuno da dirigere. I giovani non ci sono perché nessuno li ha mai assunti, e dopo un po’ anche quelli a progetto sono andati via, perché esaurito “il progetto”. Uno di questi dirigenti sopravvissuti con il quale avevo appuntamento, mi diceva che si stava guardano intorno per trovare qualche alternativa, ma da una rapida indagine si era subito reso conto – diceva – che per conservare il reddito attuale avrebbe dovuto lavorare almeno in tre progetti diversi, cioè in tre luoghi diversi, con tre strutture diverse. Io sono stato un freelance per scelta trent’anni fa, poi c’è stata la generazione che aveva solo questa scelta per cominciare, ora ci sono quelli che da freelance devono ri-cominciare senza alcuna vocazione. Ho sempre lavorato per strutture, all’inizio piccole, poi sempre più grandi. Ora quelli che erano i miei referenti in queste strutture sono come me, freelance, e le strutture si liquefanno: ora forse ho tante persone con cui condividere una condizione esistenziale, ma nessun interlocutore “solido” a livello lavorativo, “solido” in quanto rappresentante di qualcuno o qualcosa di altro da sé... I miei trent’anni di attività freelance in questa situazione ora non servono a granché, nella stessa misura per cui l’esperienza del mio amico dirigente di qualcuno/qualcosa non serve a granché senza dei qualcuno/qualcosa… L’unica cosa che rimane ad entrambi è il fatto che ci conosciamo. Le città di oggi sono abitate da lavoratori senza il lavoro. Viviamo degli spazi che erano stati progettati per altri cittadini che non siamo più noi, che avevano altre esigenze, altri bisogni, altre prospettive, altri ideali. Ci sono le strade asfaltate per auto che non possiamo/vogliamo più

usare, ci sono grandi scuole per bambini che non nascono più, ci sono fabbriche che non producono merci perché le acquistiamo dall’estero, ci sono grandi caserme ma non c’è più la leva obbligatoria… Ci sono tanti vuoti nello spazio urbano, non sono solo fisici. I grandi assenti sono le imprese e il welfare. Le prime ci sono sempre (meno),

ma non assolvono più quella funzione sociale di redistribuzione delle risorse attraverso il salario: i profitti, laddove ci sono, remunerano i capitali finanziari, non i lavoratori. La retorica delle startup innovative, delle eccellenze digitali ci racconta di pochi “vincenti” con “idee vincenti”, che segue a pag. 4

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Le sostanziali sfide per l’Europa: quando la filosofia batte la politica [Giampiero Castellotti]

La disgregazione dei sistemi politici, confermata dall’ultima tornata elettorale europea, affida ai soli pensatori la lettura e le indicazioni per affrontare con un minimo di strategia la quotidianità sociale ed economica.

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l voto delle elezioni europee in Italia ha confermato la sua “valenza” politica prevalentemente nazionale. Del resto le non proprio esaltanti tematiche di casa nostra – un bel po’ usurate dalla permanenza nel limbo delle idilliache intenzioni e degli eterni propositi - hanno lungamente sovrastato quelle comunitarie nel corso della stessa campagna elettorale. La polarizzazione quasi esclusiva degli analisti sui tre principali protagonisti dello scontro in atto è andata in questa direzione. Perpetuando, pure qui, una tendenza degli ultimi anni. Dopo un’epoca di referendum pro o contro Berlusconi, le ultime competizioni elettorali hanno confermato l’esasperata personalizzazione (e americanizzazione) della politica che finisce, spesso, con l’imporre analoghi cliché ai principali candidati. Fenomeno, del resto, ormai globalizzato. La Rete, il telemarketing, il merchandising con magliette e spillette vettori di slogan, la semplificazione (e banalizzazione) dei programmi, il ritorno dei comizi nelle piazze come fattori di spettacolarizzazione, ma soprattutto la “arcaica” televisione, che si prende però puntualmente il suo riscatto, inducono ad analoghe strategie, seppur con maschere talvolta contrapposte ed argomenti di ostracismo reciproco. La tecnicizzazione della politica, del resto, rappresenta una conditio sine

qua non per gestire il consenso, al di là dei contenuti e della risoluzione di problemi. Citando il sociologo inglese Colin Crouch nel suo celebre “Postdemocrazia”: “Anche se le elezioni continuano a svolgersi e a condizionare i governi, il dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente controllato, condotto da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche di persuasione e si esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da questi gruppi. La massa dei cittadini svolge un ruolo passivo, acquiescente, persino apatico, limitandosi a reagire ai segnali che riceve”. Persino il previsto e “bonario”

segue “Referenti reali”

sviluppano prodotti e servizi utili e funzionali, ma a favore di chi, se l’accesso ad essi è comunque mediato dal reddito? Allora strumenti come il reddito di cittadinanza si affacciano timidamente nelle aule parlamentari, nuovi diritti universali, sganciati dai contratti di lavoro. Il “sistema pubblico” è così da una parte incalzato dal basso, poiché incapace di concepire forme di welfare che diano risposte ai cittadini liquidi, ma anche e soprattutto dall’alto, dai flussi di merci,

di informazioni, di capitali, di imprese immateriali transnazionali, che si fanno beffe delle gabelle locali, ridefinendo completamente il concetto di sovranità e il suo legame storico con il territorio. Ha ragione Aldo Bonomi: dopo la fabbrica fordista, dopo il capitalismo molecolare, oggi viviamo una sorta di “non ancora”, di sospensione tra un sistema economico sociale che non c’è più e i segni di un sistema che verrà, ma sono segni per ora senza referenti. Ci sono le “parole”, le “cose” e le

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“affezioni dell’anima”, pensava Aristotele definendo il “triangolo ermeneutico”, cioè la struttura attraverso cui l’umanità comunica tramite il linguaggio. Noi oggi abbiamo tante “parole” e innumerevoli “affezioni dell’anima”, ma manca una gamba a questo triangolo zoppo: “le cose”, i referenti reali a cui i segni fanno riferimento. Le case sono vuote, le fabbriche sono vuote, le caserme sono vuote, ma che i segni rimandino solo ad altri segni è ben più preoccupante.


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astensionismo e la qualità delle candidature per Bruxelles, spesso pescate, per debiti di gratitudine, tra vecchi e discussi amministratori di enti locali, vanno in tale direzione. Se la politica, quindi, ha di fatto abbandonato il suo ruolo storico, succube soprattutto di poteri finanziari che hanno scalzato persino il capitalismo industriale-produttivo (è lo stesso personale degli istituti finanziari a sostituire i funzionari politici alla guida degli Stati), per focalizzare le sfide e gli snodi che attendono l’Europa è necessario ricorrere all’interessante dibattito tra due tra i più importanti filosofi del nostro tempo: Wolfgang Streeck (l’ultimo suo libro è “Tempo guadagnato” edito da Feltrinelli) e Jurgen Habermas (il suo testo è intitolato “Nella spirale tecnocratica”, edito in questi giorni da Laterza). I due, pur provenendo dalla stessa scuola di Francoforte e auspicando la disgiunzione tra capitalismo e democrazia, hanno una posizione diametralmente opposta su quello che è il nodo centrale della crisi europea: il ruolo della sovranità nazionale degli Stati e del rapporto tra politica e mercato. Streeck, ovviamente, rinnova le feroci critiche ad un neoliberalismo globale, che con le sue spallate ha allentato tutti i vincoli di protezione sociale, accentuando le disuguaglianze nella distribuzione del reddito e trasformando gli Stati democratici in Stati debitori e fiscali (con il circolo vizioso tra il salvataggio di banche dissestate da parte degli Stati, i quali a loro volta sono spinti alla rovina dallo stesso potere bancario). Ma il filosofo tedesco arriva ad una conclusione abbastanza originale per un fine intellettuale di sinistra: smontare la costruzione europea, pilotata dagli interessi finanziari sopranazionali, e tornare nelle “fortezze nazionali” per “difendere e riparare per quanto possibile i resti di quelle istituzioni politiche grazie alle quali forse si potrebbe modificare e sostituire la giustizia del mercato con la giustizia sociale”. Il filosofo va oltre nella sua singolare posizione. Per il 68enne intellettuale tedesco, direttore dell’Istituto Max Planck di Colonia (prima di lui lo stesso Habermas e Offe) e membro dell’Accademia delle Scienze di Berlino, l’Europa autoreferenziale, epicentro del radicalismo neoliberale, dei poteri della liberalizzazione economica e delle ingerenze nell’iniziativa politica degli Stati, va infatti smontata. Streeck se la prende soprattutto con gli euro-idealisti di sinistra, caduti vittime di un abbaglio avendo dato via libera alla costruzione di un edificio mostruoso. Auspica, viceversa, il ritorno ai mercati territoriali, più controllabili ed etici, all’immediato rafforzamento di ciò che rimane delle prerogative statali e alla riconquista della sovranità nazionale. Tra le intromissioni ricorda il vertice di Cannes, quando il premier greco Papan-

dreu fu costretto a ritirare un referendum che aveva appena annunciato. Scrive Streeck: “Il consolidamento della finanza pubblica europea avviato come risposta alla crisi fiscale va a parare in un riassetto del sistema degli Stati europei coordinato dagli investitori finanziari e dall’Unione europea, in una nuova forma della democrazia capitalistica europea che cementa i risultati di tre decenni di liberalizzazione economica”. L’autore ammonisce che “il potere degli investitori [si basa] principalmente sulla loro forte integrazione internazionale e sull’esistenza di efficienti mercati glob a l i ” . Quindi la globalizzazione e l’allentamento dei confini giocherebbero a favore proprio del neoliberismo. Quale potrebbe essere l’alternativa, secondo il filosofo tedesco? “Creare istituzioni che possano riportare i mercati sotto un controllo sociale: mercati del lavoro che lascino spazio per la vita sociale, mercati dei beni che non distruggano la natura, mercati del credito che non diventino soltanto luoghi di produzione in grande stile di promesse irrealizzabili”. Da parte sua Jurgen Habermas,

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pur inseguendo lo stesso obiettivo di difendere gli spazi della democrazia, dei diritti e della solidarietà rispetto a quelli dei nuovi mercati tecnocratici, giunge ad un conclusione opposta rispetto a quella del collega-allievo e connazionale: occorre più Europa. E assolutamente solidale, termine che deriva dalla “secolarizzazione umanistica di un concetto religioso”. Secondo il filosofo 85enne, erede di Adorno e Marcuse, gli Stati dovrebbero cedere all’Unione ulteriori quote di sovranità, restando però più autonomi di quanto non accada ai partner di uno Stato federale, che lui non valuta positivamente per l’Europa. Inoltre l’unione monetaria si dovrebbe trasformare al più presto in una vera e propria unione politica, con una comune azione fiscale (tra le priorità indica la lotta all’evasione, fattore antisolidale per eccellenza), di bilancio ed economica. Auspica quindi la ridefinizione dei poteri del Parlamento europeo, i trasferimenti finanziari da uno Stato all’altro e una comune gestione del debito. Senza ciò, “si acuiscono le notevoli differenze di sviluppo e di competitività tra le varie economie nazionali”, stremando ulteriormente le economie dei paesi deboli e portando al fallimento lo stesso progetto dell’euro e le residue garanzie del welfare. Il filosofo, però, riconosce l’assoggettamento della politica europea ai mercati finanziari. Scrive: “Non era mai successo che governi eletti del popolo venissero sostituiti senza esitazione da persone direttamente portavoce dei mercati: si pensi a Mario Monti o a Loukas Papademos. Mentre la politica si assoggetta agli imperativi del mercato, dando per scontato l’aumento della disuguaglianza sociale, i meccanismi sistemici si sottraggono progressivamente alle strategie giuridiche stabilite per via democratica. Questo trend non potrà essere rovesciato se non nell’ipotesi – tutt’altro che garantita – che la politica riconquisti un suo potere di azione sul piano europeo”. Rinunciare all’Unione europea, per Habermas, equivarrebbe a prendere congedo dalla storia mondiale. La stimolante contrapposizione tra i due pensatori, richiamata recentemente dallo stesso Habermas anche sulle colonne del quotidiano “La Repubblica”, investe altre tematiche che dovrebbero essere al centro della politica, di quella che dovrebbe essere impegnata anche ad accompagnare le esigenze del mondo produttivo e alla riqualificazione degli spazi comuni, specie di quelli dimessi, se avessimo una classe politica all’altezza di tali voli meditativi. Streeck, ad esempio, pone la questione dell’eterogeneità storica dei paesi europei, sulla quale hanno inciso le differenti culture economiche (tra gli esempi cita il nostro Mezzogiorno), richiama la fragile integrazione sociale di “Stati nazionali incompiuti” (cita il Belgio degli eterni conflitti tra Valloni e Fiamminghi, o la Spagna dei Catalani), mette in guardia dal tentativo di assimilazione politica dall’alto delle culture economiche del Sud a quelle del Nord, che comporterebbe anche il livellamento delle rispettive forme di vita (omogeneizzazione forzata dei contesti di vita), teme la marginalizzazione delle culture minoritarie se la sostanza egalitaria dello Stato di diritto democratico venga realizzata al di fuori del-

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l’appartenenza nazionale. Anche qui Habermas oppone le sue ragioni: secondo il filosofo tedesco, gli Stati nazionali si basano su una forma altamente artificiale di solidarietà tra estranei generata dal costrutto giuridico dello status di cittadino. Cioè siamo in presenza di convenzioni. Viceversa, le diversità socio-culturali delle regioni e delle nazioni rappresenterebbero una ricchezza che distingue l’Europa da altri continenti, non una barriera che le impone un’integrazione politica basata su piccoli Stati. Le presunte identità “naturali”, basate su stirpe, regione, linguaggio o nazione, riemergono in situazioni di crisi economica o di rivolgimento storico, cioè in condizioni di insicurezza. Le contraddizioni e le contrapposizioni della nostra quotidianità, di cui vorremmo sentire parlare dalla politica con riflessioni articolate e di spessore (e non ridotte a slogan urlati) sono tutte qui, nelle valutazioni di questi due filosofi. Nel “Manifesto del Partito comunista” del 1848, Karl Marx e Friedrich Engels scrivevano profeticamente che i filosofi si limitano ad interpretare in modi diversi il mondo. E aggiungevano: “Si tratta ora di trasformarlo”. Il problema, per l’Europa, è capire chi lo farà.


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Smart Working: la creatività connettiva del coworking urbano

[Carlo Infante] Urban Experience e Stati Generali dell'Innovazione

Intervengo in relazione all'incontro Coworking e spazi pubblici: la rigenerazione urbana sia come Urban Experience di cui sono presidente sia come Stati Generali dell'Innovazione, come co-fondatore e membro del Direttivo.

U

rban Experience sta operando da anni per promuovere innovazione territoriale e una creatività sociale attraverso originali format di comunicazione pubblica interattiva nell'interazione tra web e territorio, con geoblog (mappe attraverso cui scrivere storie nelle geografie) e walk show (esplorazioni urbane e conversazioni nomadi). Iniziative che tendono ad “accendere la partecipazione”, orientando la creatività digitale in contesti che amiamo definire “palestre dell'attenzione e dell'empatia” per attivare processi di cittadinanza attiva coniugati alle potenzialità di auto-narrazione delle comunità territoriali, cercando di sollecitare una staffetta intergenerazionale, tra le esperienze dei più anziani e le nuove competenze multimediali dei più giovani. Indicazioni precise che rivolgiamo verso l'idea potenziale di spazi pubblici di coworking urbano che possa rivelarsi come poli produttivi di una cultura dell'innovazione che possa contribuire ai piani di rigenerazione urbana con particolari competenze digitali e di co-progettazione culturale. Rilancio l'incipit elaborato in occasione dell'open talk promosso da Stati Generali dell'Innovazione, nell'ambito del progetto Roma Smart City, svolto a Millepiani il 7 marzo scorso, dal titolo Smart Working: la creatività connettiva del coworking urbano. Associare l’idea di Smart City alla creatività delle nuove forme d’impresa è centrato sul fatto di ripensare gli spazi pubblici, con particolare attenzione a quelli rivolti all’aggregazione giovanile, perché diventino luoghi di vera e propria produzione di innovazione urbana, associando le opportunità della connettività internet a quelle dell’auto-organizzazione e dell’innovazione sociale e della sperimentazione di nuovi modelli produttivi. In quest’ottica si tratta d’incentivare la realizzazione di centri di telelavoro, coworking e piazze telematiche in ogni quartiere e comune della città metropolitana, definendo accordi con aziende e amministrazioni pubbliche per favorire la mobilità intelligente, promuovere showroom dell’innovazione, per sollecitare una relazione prossima tra cittadinanza e giovani imprese creative caratterizzate per i modelli sostenibili ed innovativi, atti a stimolare la nascita di “smart communities”. Si tratta di affermare il valore della creatività come leva di cambiamento costruendo

dei luoghi di emersione dei fenomeni di creatività sommerse, per attivare connessioni tra le diverse reti sociali. In questo senso si tratta di istituire progetti di social networking territoriale che possano promuovere, nell’ambito dei diversi Municipi, le modalità di creatività sociale espresse non solo dalle associazioni culturali ma dalle agenzie formative ed educative, rivolgendo particolare attenzione alla dispersione scolastica da parte dei più giovani nelle periferie. Piattaforme funzionali alla connettività logistica e centri per l’Innovazione che favoriscano sia giovani start up sia reti d’impresa locali, innescando processi virtuosi nei quali le Piccole medie imprese possano stimolare nuova ricerca di base, favorendo il trasferimento di competenze tecnico - scientifiche multidisciplinari.

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Stimolare allo spirito imprenditoriale: le sollecitazioni della Commissione europea

[Maria Di Saverio]

La Comunicazione “Entrepreneurship 2020 Action Plan” dedica la prima linea d’azione del piano al miglioramento dell’istruzione e della formazione all’imprenditorialità, considerata fattore chiave per la competitività e la crescita.

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timolare lo spirito imprenditoriale tra i giovani attraverso attività educative nelle scuole e campagne di sensibilizzazione, offrire materiali specifici e moduli di formazione per gli insegnanti e assicurare agli studenti – coinvolgendo anche gli imprenditori nei programmi di insegnamento – l’esperienza concreta di un progetto imprenditoriale prima di concludere il percorso formativo: questo, in sintesi, quanto sollecita la Commissione europea nella Comunicazione “Entrepreneurship 2020 Action Plan”, che dedica la prima linea d’azione del piano al miglioramento dell’istruzione e della formazione all’imprenditorialità, considerata fattore chiave per la competitività e la crescita. La cipriota Androulla Vassiliou, commissaria europea per l’istruzione, la cultura, il multilinguismo e la gioventù, sostiene che “l’educazione all’imprenditorialità è un motore di crescita e l’Europa, per continuare ad essere competitiva, deve investire sui suoi cittadini, sulle loro abilità e sulle loro capacità di adattamento e innovazione. Ciò significa incoraggiare l’adozione di una nuova mentalità europea incentrata sull’attitudine all’imprenditorialità fin dalle tappe iniziali del sistema scolastico”. Ancora la Commissione, nella relazione “Entrepreneurship Education at School in Europe”, evidenzia come in Italia non esistano specifiche strategie nazionali per l’educazione all’imprenditorialità. In questo contesto s’è inserita, dal 2012, la ricerca Isfol sull’educazione all’imprenditorialità, finanziata dal Fse 2007-2013 nell’ambito del progetto “Formazione ed impresa formativa” della struttura Sistemi e servizi formativi. Conclusa l’indagine di campo, che ha approfondito alcune significative esperienze sull’educazione all’imprenditorialità e ha analizzato la documentazione in materia, negli scorsi mesi è stato organizzato un workshop a Roma, per elaborare indicazioni utili allo sviluppo di politiche condivise sull’educazione all’imprenditorialità nei giovani. I partecipanti hanno convenuto sulla necessità di creare una rete in Italia e di mettere a sistema le diverse esperienze maturate sul territorio nazionale, attualmente poco dialoganti tra loro. È stata istituita una task-force sull’imprenditorialità di con il contributo

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cui faranno parte, oltre all’Isfol quale punto di riferimento, anche i partecipanti al workshop e altri stakeholder attivi sul territorio nazionale. La rete avrà il compito di aggiornare e portare le proprie esperienze nel quadro dei processi di riforma che investono i sistemi dell’educazione, della formazione e del lavoro, al fine di sviluppare indicazioni di policy che potranno adattarsi ai continui cambiamenti del mondo imprenditoriale e formativo. Il termine “educazione all’imprenditorialità” è inteso secondo i principi dell’Agenda di Oslo, come formazione di una mentalità e di un comportamento proattivo. La "Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006" relativa alle competenze chiave per l'apprendimento permanente individua lo "spirito di iniziativa e imprenditorialità" come una delle otto competenze chiave da tener presente in ogni fase di istruzione e formazione. Per ulteriori informazioni: www.isfol.it/temi/Formazione_a pprendimento/educazione-allimprenditorialita-1/educazioneallimprenditorialita


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Integrazione dei mondi reale e digitale. È questa la strada dell’innovazione [Pierino Vago]

Dall’estero si moltiplicano le analisi sul nostro Paese. Non c’è solo l’elenco dei primati negativi. Anzi, si cerca, con molta concretezza, d’individuare punti di forza e possibili strade per la ripartenza...

U

n lettore del “Corriere della Sera”, in una lettera al quotidiano di via Solferino, concentra in poche righe una sacrosanta verità sul tema dell’innovazione. Scrive: “Siamo all’inizio di una nuova rivoluzione tecnologica basata sulla maggiore integrazione di mondo digitale e mondo reale (il cosiddetto “Internet of things”), dove piccole ditte possono essere vincenti se forniscono prodotti innovativi al momento giusto. Questo è solo uno dei tanti settori dove ditte italiane possono vincere oltre a quei campi dove l’Italia è ancora forte (settore aerospaziale, navale). Inoltre l’industria ad alta tecnologia fornisce anche altri benefici: stipendi più alti, meno inquinamento, impatto su settori industriali tradizionali. In queste cose, il governo può fare molto: reti di lavoro tra industria ed accademia, armonizzazione ed integrazione tra i vari progetti regionali e nazionali, public-private partnerships. Gli strumenti ci sono e hanno già avuto successo in altre parti del mondo (vedete come è cresciuta Cambridge, Massachusetts negli ultimi dieci anni nel settore biomedico). Basta applicarli”. Il problema è che quasi sempre la politica di casa nostra è altrove ed il dibattito sulla crisi si sofferma, ad esempio, sugli 80 euro “utili ad una professoressa per comprarsi un libro”, o sugli alti stipendi dei manager pubblici o, peggio ancora (dalle opposizioni), sul referendum sull’euro o sull’immigrazione. Eppure, soprattutto all’estero, vengono prodotte interessanti analisi sul nostro Paese dove spesso emergono elementi comuni. Ad esempio, proprio di fronte ad un’economia italiana definita a livello internazionale “il caso disperato d’Europa”, ci si domanda come sia possibile che il Paese inventore del “made in Italy” possa essere piombato negli abissi. Si cerca quindi, con molta concretezza, di individuare punti di forza e possibili strade per la ripartenza.

Nell’autunno scorso, ad esempio, il settimanale inglese “The Economist” ha dedicato un’ampia inchiesta alla produttività italiana. Pur nel quadro generale di malessere economico, che viviamo sulla nostra pelle, il giornale evidenzia l’ottima performance delle esportazioni, che durante la crisi hanno retto sorprendentemente bene per un Paese visto con seri problemi di competitività. Positivi soprattutto il tessile, l’abbigliamento e la pelletteria, ma anche le macchine non elettroniche, per le quali l’Italia conserva il secondo posto al mondo per export dietro solo alla Germania. Ciò è collegato proprio alla capacità di fare innovazione. Qual è il problema, allora? I nodi sono altrove e in gran parte li conosciamo. Ribadendo indicazioni del Fondo monetario internazionale, il settimanale inglese cita in partico-

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lare la burocrazia, il sistema bancario disfunzionale, l’apparato giudiziario lumaca e i ritardi della politica. “Un aumento di innovazione tecnologica o design – sottolinea The Economist - potrebbe aumentare i salari grazie alla creazione di posti di lavoro altamente qualificati che garantirebbero benefici ad un’economia più innovativa e competitiva”. Il settimanale nota, inoltre, come tutto ciò s’inserirebbe in un quadro di competitività di fondo non proprio malvagio grazie all’attuale avanzo di bilancio primario dello Stato: al di là del debito pubblico, l’attuale deficit fiscale al di sotto del 3% del suo Pil rappresenta una rarità in gran parte dell'Europa. L’articolo della prestigiosa rivista inglese ricalca (e cita) lo studio dell'economista Andrew Tiffin, intitolato "European productivity, innovation and competitiveness: the case of Italy". Il testo insiste proprio sulla necessità di imboccare pienamente la strada dell’innovazione, soprattutto sul fronte ricerca e tecnologia, per garantire una ripresa al Paese. La bassa innovazione, conferma lo studio, influisce negativamente in particolare sull’export, che pure ha trainato l’economia durante la grande crisi. Il documento offre una valutazione completa della competitività italiana, concentrandosi proprio sul ruolo dell'innovazione e rapportandola all'evoluzione della quota di mercato delle esportazioni. Nel complesso, l'Italia mantiene un mix di esportazione di alta qualità, e l'adattabilità dei piccoli ditte specializzate è ancora un punto di forza. Ma le ridotte dimensioni d'impresa costituiscono però un freno nel confronto internazionale, nel dover fronteggiare una concorrenza tecnologica ormai a livello mondiale. Inoltre i settori più innovativi sono appesantiti dalle barriere strutturali che hanno depresso la produttività in senso più ampio. Insomma la competitività delle imprese italiane si può preservare soltanto puntando su capacità innovativa e crescita dimensionale legate all'export. In effetti, analizzando i dati sull'andamento dell'export italiano degli ultimi anni, emerge uno scenario emblematico: superata la fase più acuta della crisi economico-finanziaria (export -20,9% nel 2009), il 2013 ha visto il recupero delle nostre esportazioni rispetto ai valori pre-crisi ed ora si cominciano ad intravedere confortanti segnali per il futuro. L’Istat a marzo 2014 ha registrato una crescita tendenziale dell'export nazionale dell'1,2%, trainato dalla forte espansione delle vendite verso l'area

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Ue pari a 5,2%. Tale risultato positivo, secondo il Fondo monetario, è in buona parte il risultato dell'inventiva dei cosiddetti “fornitori specializzati” italiani. Cioè aziende, per quanto di dimensioni ridotte – ma spesso organizzate intorno a una rete imprenditoriale o a distretti industriali - "con una marcata capacità di progettare, sviluppare e produrre innovazioni incrementali e con un range diversificato di prodotti di alta qualità, ad alto valore aggiunto". L'innovazione è quindi alla base delle "storie di successo" delle aziende italiane, che sono riuscite a collocarsi in contesti internazionali caratterizzati dal forte dinamismo. Queste eccellenze stanno rafforzando la reputazione globale del “made in Italy”, indicando strategie e soluzioni e rafforzando le speranze di ripresa. “E’ questa la sfida su cui il governo deve lavorare e questa sfida non si risolve solo con la flessibilità del lavoro ma soprattutto con un maggiore supporto per la ricerca applicata basato su sinergie tra università ed industria – scrive ancora il lettore del “Corriere della Sera”. Come dargli torto?


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