GenerAzioni di scritture, anno I, gennaio 2015, n. 0

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Generazioni di

scritture

anno I ● gennaio 2015 n. 0

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generazioni di scritture

A questo numero hanno collaborato accadere culturale testi_Chiara Agagiù Federica Rizzo Giorgia Salicandro Elena Sbrojavacca

accadere culturale eventi_ Sergio Aversa Maria Rita Bozzetti Cosimo Metrangolo Teresa Romano Antonella Lippo Emilio Filieri Salvatore Luperto Dario Portaccio Antonio Lepore

rubrica la scrittura che gira intorno_Livio Romano

foto “incontro generazionale” di Sebastiano Sardo_p.3 di Mattia Dell’Anna (MATd)_p.17 di Aurora Mastore_pp.12 20

Generazioni di scritture Rivista a cura delle Edizioni Milella di Lecce Spazio Vivo s.r.l. Anno 1 - n. 0 - Gennaio 2015 REDAZIONE Direttore_Carlo A. Augieri Vicedirettore_Marco Gaetani Capo redattore, segreteria di redazione_Giorgia Salicandro Coordinamento recensioni_Chiara Agagiù Progettazione grafica_Emanuele Augieri Contatti e info www.milellalecce.it leccespaziovivo@tiscali.it giorgiasalicandro@gmail.com tel./fax 0832.241131


editoriale

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Perché la cultura sia generatrice generazionale di scritture Carlo A. Augieri

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isogna cogliere la differenza tra fare cultura e agire culturalmente, così come tra la pubblicazione di un libro, la sua promozione fruitiva e l’invito a riflettere sulla sua proposta di senso, essendo un libro un evento che va reso culturale, se viene promosso a testo su cui soffermarsi, su cui iniziare a riflettere motivandone la lettura. La motivazione con cui favorire, promuovere la lettura dei libri, presuppone un atteggiamento critico partecipe e tensivo, che parte da un presupposto non indifferente, perché implicativo di un credere responsabile, di un agire soprattutto etico, basato sul presupposto che “l’invito alla lettura” significa tendere a favorire una società che si accultura, si informa, riflette sul piano cognitivo del “prendere coscienza”. L’accrescimento critico e consapevole è alla base di ogni costruzione d’identità morale, così come è la premessa del superamento di ogni arrivismo particolare, su cui si fonda la forma di potere più retriva, dunque meno rispondente ai bisogni di una società implicata a saper corrispondere alle prove di crescita nel tempo presente. Favorire la lettura dei libri significa contribuire a far prendere coscienza di ciò che l’umano può significare e di ciò che è possibile significare umanamente: anche all’interno di una società ristretta nel suo abitato regionale, che proprio la lettura dilata ad un interesse critico nazionale e globale. La geografia e la storia diventano rispettivamente spazio abitato in modo cosciente e tempo vissuto in forma illocutiva, grazie alla mediazione dell’incontro con i libri, che “prestano” le parole con cui sapere, approfondire, moltiplicare i “punti di vista” indispensabili per conoscere, comprendere, dialogare secondo i ruoli complementari di “autore” e “lettore”. Compito di una Casa Editrice è promuovere la dialettica tra scrittura e lettura all’interno della comunità in cui essa opera, coinvolgendo istituzioni culturali fondamentali per la ricerca e la formazione, come l’Università e le scuole, e pure i soggetti pensanti ed autoriali, per la loro cultura critica e la loro esperienza di studio: la formazione, così come l’esperienza e la curiosità nel conoscere, sono beni culturali viventi, sui quali il processo intrecciato dello scrivere e del leggere opera come lievito per contribuire a maturare socialmente e pure per quanto pertiene l’intelligenza del comprendere. Ebbene, per quanto riguarda il Salento, ad esempio, la Casa Editrice Milella, da sempre sensibile nel rendersi “compagna di strada” di Docenti e Studiosi, Dottori di ricerca, Allievi e Studenti motivati, garantendo la sua ospitalità editoriale a quanti vogliono raccogliere in libro i loro lavori, intende coinvolgere i lettori in un’opera periodica di scrittura variamente inclusiva di generi e generazioni, allo scopo di stimolare

un’opinione pluralmente critica sugli eventi culturali che accadono nell’arco temporale di un trimestre, comprendendo la pubblicazione di libri nazionali e locali tra i più rappresentativi. Lo scopo è di incentivare l’interesse per la critica cosciente su ciò che accade e di focalizzare l’attenzione sui libri che si pubblicano, con recensioni, dialoghi, dibattiti riguardanti il discorso del testo e la sua significanza culturale. Il bimestrale, di cui il presente fascicolo segna la nascita, si intitola non a caso “Generazioni di scritture”, volendo indicare già nel nome l’intenzione che lo giustifica: incontro generazionale di giovani e uomini/donne di esperienza umana e culturale, che insieme generano scritture critiche, aventi come referenti di osservazione la cultura che scrive e la cultura che organizza eventi promozionali di lettura e di condivisione seminariale. Recensire ed osservare: questi due atteggiamenti critici sono ospitati in ogni contributo, che in un primo tempo sarà edito in formato on-line; in seguito ci sarà pure la versione “a stampa”, per permettere anche agli “analfabeti digitali” di poter leggere questo strumento di informazione critica. Ogni proposta editoriale non deve escludere, ma tendere a raggiungere la curiosità di tutti: del resto, il mezzo del comunicare non può essere causa di un limite per quanto riguada una sua fruizione; ogni motivo eteronomo di confine va sfumato, perché coinvolgere ed estendere il diritto di sapere è premessa civile, morale, di ogni gesto di cultura. Far dialogare con la parola critica più generazioni e diverse forme di attenzione intellettuale può significare andare “controcorrente”, perché si vuole vivacizzare qualcosa che oggi sembra assente nella società nazionale e regionale, centrale e pure periferica: la cultura nel suo farsi discorso d’autore ed evento di opinione. Ma solo ad una lettura superficiale ciò sembra coincidere con l’effettiva realtà della storia di questo periodo: oggi si sente molto il bisogno di cultura, anche tra i giovani, finanche tra i giovanissimi. Il numero crescente delle librerie nelle cittadine di provincia conferma questo dato, così come la nascita di sempre nuove iniziative editoriali, pure con l’aggiornamento telematico delle nuove forme di editoria alternativa: la verità profonda è che nessuno può fare a meno del bisogno di sapere, perché ognuno è implicato direttamente nel farsi discorso del senso. Nei cui confronti contribuire a discorsivizzare, interpretare ancora, fa parte di quell’opera di civiltà democratica, a partire dalla quale la cultura diventa etica del vivere utopico, realizzato nel pensare composito, plurale: in dialogo tra autore e lettore, tra generazioni di scritture e voglia di generare mai una parola conclusa, completa, definitiva. Perché tutto ciò che veramente compie è la dirompente tensione a far dire insieme e ancora.


generazioni di scritture

Accadere culturale: TESTI

Pazza d’amore e di poesia

“Io sono pazza. Voci dal mondo poetico di R. Durante, A. Merini e A. Rosselli” di C. Ancora; R. Rucco, pp. 128, Milella, Lecce 2014 Federica Rizzo

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omanzo insolito e audace questo di Rita Rucco e Clelia Ancora dal titolo Io sono pazza, in cui le due autrici si cimentano a raccontare la vita sospesa di tre grandi poetesse dello scorso secolo in un dialogo postmortem. Il nucleo portante del testo è la Follia, una follia “buona”, oggettiva. Ci troviamo su Licorrea, una delle cime più alte del Monte Parnaso dove Apollo, dio delle arti e dei mestieri, accompagnato dal coro delle sue nove Muse, indice un concorso poetico a tema “Il miracolo della Follia”. Tra le finaliste sono convocate a deporre, come in un canovaccio teatrale, la salentina Rina Durante, la milanese Alda Merini e la francese di nascita Amalia Rosselli. Ma non basta essere una divinità, e così, sotto il consiglio di Mnemosine, dea della memoria, l’arduo compito di giudicare con cura la “geniale alterità”, viene assegnato ad una commissione composta da un gruppo di esperti: Erasmo da Rotterdam, Sigmund Freud e Michel Foucault, studiosi che dedicarono l’intero ciclo della propria esistenza alla ricerca più profonda dei meccanismi oscuri che “sgregolano” la psiche. Nel testo, la poesia invocata dalle tre donne, accenna e racchiude in una cornice gli eventi che hanno segnato la loro vita. Avvilite da un presente sterile che non rispecchia il loro modo di vivere e amare, le poetesse urlano tutta la loro sofferenza: “io sono l’immenso dolore del mondo” sussurra Rina, mostrandoci tutta la sua solitudine e la sua angoscia più nascosta. La donna soffre perché sente gravare su di sé il peso di un abbandono: “Cristo, io lo so, tu fosti vicino a tutte le tristi creature. Ma di tante una sola (…) hai crudelmente dimenticato”. Dalle sue parole, trasudano con forza i suoi sentimenti che rivelano, così, la sfera più intima del suo dramma. Sente però una presenza profonda che l’acquieta. Annebbiata dai fumi delle sue mille sigarette Alda, l’unica ad essere lacerata dalla tragica esperienza della casa di cura, rievoca, attraverso il racconto del suo tempo interiore, il dolore della propria maternità incompleta. “In manicomio è una lunga e pesante catena che ti porti fuori” ripete ossessivamente pensando al tempo perduto. “Io sono la mia poesia ogni attimo è carne, e sangue e vita. Sola”. Anche Amalia avverte l’assedio minaccioso di un mondo inafferrabile di fruscii, di voci di fantasmi che percepisce e di cui si sente vittima. Il suo volto è rigato dal pianto dei resti d’ombra che nemmeno il vento riesce a sradicare. Ombra, si riduce a mera ombra della sua piuma. Tra gli estratti rubati, gli stati d’animo profondi e turbolenti, le considerazioni personali rivolte contro l’apparenza addomesticata dei “benpensanti”, l’unica certezza che rimane è la “lucida Follia” espressiva e creatrice, carica, vitale, motore che libera da ogni vincolo e si contenta di vivere nelle speranze nutrite dal ricordo della propria bellezza ideale, portando così alla Luce frammento di esistenza, di vita, d’amore.

Il canto lungo della distanza “Alle radici di Eva” di B. Epifani, pp. 80, Milella, Lecce 2014 Giorgia Salicandro

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marti sempre / – mia amante – è follia e innocenza / che rinasce sul giorno / che traspare e declina / sui passi giammai stanchi / di raggiungerti / da questa lontananza di meridiana”. È il 1978, Bruno Epifani scrive in una stanza solitaria che si affaccia sulla notte stellata di Barcellona. È arrivato in città alcuni mesi prima, con un incarico di insegnante di italiano. Sono trascorsi tre anni dal primo esilio forzato, autoimposto, oltre i confini tegumentari del mar Mediterraneo. A quel tempo Bruno aveva speso pensieri e lettere nel ricordo della propria terra salentina, contemplando i “muri a picco” della “città disperata” al di là del mare – il Cairo – eppure la rotta del ritorno finirà per condurlo nuovamente lontano. È intrecciata a questi luoghi la storia di Alle radici di Eva, opera postuma, a cura di Maria Rosaria Savoia e Maurizio Mazzotta (Milellla 2014) che raccoglie venticinque poesie dell’autore originario di Novoli, prematuramente scomparso nel 1984. La parola poetica non nasce mai per caso, ma sgorga dalle radici dell’emozione in un luogo e in un tempo che ne abbiano preparato il terreno, come un reagente chimico di antica sapienza. Qui sgorga la voce poetica di Bruno Epifani: alla giusta distanza dalla terra d’origine, da occhi familiari talmente chiari e conosciuti da specchiare con troppa luce l’uomo in cerca di se stesso. Partire, allora. Ripercorrere a ritroso la distanza per ritrovare Le radici di Eva. Solo oltre i confini dei continenti e dei silenzi, l’uomo-poeta può nuovamente mettersi a fuoco, ritrovare la direzione del sentiero di carne tracciato sui propri palmi, “riannodare i fili” della propria fisionomia. Non deve essere stato semplice. La domanda aperta, rivolta alla terra, ricorda la dolorosa invettiva lanciata alcuni anni prima da Vittorio Bodini, “Qui non vorrei morire dove vivere / mi tocca, mio paese / così sgradito da doverti amare” (La luna dei Borboni): in È sorta la luna Epifani ribalta il celebre verso bodiniano, e tuttavia ne rimane intatta l’irrequietezza, “A che vale / continuare a vivere / dove morire ci è dato”.


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Accadere culturale: TESTI

Dove cercare le radici di Eva? Certamente negli “occhi neri / come olive di Puglia” di sua moglie, incarnazione di molte muse, mogli e amanti di artisti e poeti, spose molto amate e mal amate, condannate loro malgrado al gioco delle distanze per radicarsi più forti nell’anima dei loro compagni. Ma Eva è anche un amore più vasto. È il principio di realtà nato “nel grembo della madre”, che si ripresenta nell’odore di ulivo e di melograno. Eva è il continente visto dal Cairo, calibrato e messo a fuoco attraverso il potere specchiante della “notte di gelsomino”: è l’archetipo di tutti gli approdi. Se è vero, come scrive Carlo Alberto Augieri nella prefazione alla raccolta, che “il richiamo poetico è sempre la traccia di un radicamento”, per Bruno Epifani la presenza di questa traccia, ricordata o bramata, si manifesta attraverso la ricerca di un altrove di conoscenza, che tuttavia non smette di sognare il momento in cui possa chiudersi il cerchio del proprio peregrinare: “Il vento indugia / tra le foglie del mandorlo / dammi la mano: traverseremo il mare”.

L’interiorità della lingua

“Evocazione e parola enunciativa” di Carlo A. Augieri, pp. 216, Milella Lecce 2014 Chiara Agagiù

I

l presente volume, inserito nella collana “Per un’ermeneutica militante”, esprime “l’esigenza di recepire l’ermeneutica come istanza di relazione aperta tra interprete e testo, fondata su una lettura che, pur avvalendosi di strumenti scientifici, non si lascia irretire nei limiti di una scienza del testo”; rivendica, inoltre, una critica che sia “tutta immanente all’opera”, condividendo espressamente la prospettiva di Leo Spitzer. Con Evocazione e parola enunciativa Carlo Augieri presenta una raccolta di otto differenti interventi, accomunati dal “concetto di testo letterario come messa in opera della lingua, sua messa in forma come capacità trasformatrice sul piano compositivo ed enunciativo del senso”. I primi tre contributi mettono in relazione i pensieri di Charles Bally, Gianfranco Contini ed Emile Benveniste ed intendono sottolineare la stretta relazione tra utilizzo del linguaggio e trasformazione del senso. Augieri si sofferma, in primo luogo, sulla stilistica ballyana, ritenendo che possa costituire uno strumento utile alla comprensione del senso: soltanto in superficie, infatti, essa concerne gli elementi formali di un testo; se si vede però la stilistica come uno strumento utile all’analisi dei modi espressivi dell’interiorità, allora la prospettiva si amplia notevolmente rispetto ad un’analisi ferma allo stadio testuale. È quindi il rapporto dinamico tra enunciazione ed evocazione ad essere messo in evidenza, perché “nella scrittura letteraria la parola non nomina, ma evoca”. Ciò permette di collegare l’approccio della stilistica evocativa alle considerazioni critiche di Benveniste e alle letture variantistiche di Contini e, dal momento che l’uomo si costituisce come soggetto proprio a partire dal linguaggio, l’analisi linguistica non può che implicare una più profonda riflessione sulla sfera della soggettività. L’analisi testuale si avvale, dunque, di specifici strumenti d’indagine, come lo studio della grammatica nell’esempio continiano. Muovendo dall’esempio di Jakobson, studioso in cui già si afferma una stretta relazione tra dimensione fonica e universo semantico del testo, Augieri afferma che “in questo entroterra tra Saussure e Benveniste si pone l’attenzione continiana verso lo studio delle varianti, a cominciare dalle variazioni grammaticali”. L’esperienza speculativa di Contini, nell’emblematico rapporto con l’opera proustiana, testimonia la volontà di comprendere “il perché semantico di ogni minima correzione in ambito grammaticale, di ogni minimo ritocco di vocaboli pure isolati”. La ricerca si sposta, dunque, sulle motivazioni individuali dello scrivente, che sono di carattere soggettivo ma anche culturale: soffermandosi, nel quarto

capitolo, sulla dimensione soggettiva dell’atto ermeneutico, Augieri riprende l’esempio di lettura dei testi sacri ad opera di Sant’Agostino, dove il testo risponde a chi, leggendolo, lo interpreta. Secondo la terminologia echiana, il libro collabora con il suo lettore “modello”, il quale attivamente si traduce attraverso le parole che incontra, poiché gli viene offerta, nel dialogo silenzioso, la possibilità attiva di creazione del senso, addirittura il potere di risvegliare il testo stesso (Eco direbbe che il testo è, di per sé, una “macchina pigra”; soltanto il lettore, con la sua interpretazione, è in grado di metterlo in moto). Nel quinto capitolo, muovendo dalla dimensione individuale a quella collettiva e condividendo l’approccio lotmaniano sul condizionamento culturale espresso in Tipologia della cultura, l’autore prende in analisi esempi narrativi in conflitto con l’ideologia ufficiale. Attraverso le metafore narrative del sottosuolo dostoevskijano della tana kafkiana, l’autore indaga su quelle immagini di un segreto narrativo che “rompe con la comunicazione, volendo rimanere soltanto contenuto di senso espressivo da proteggere nel sottosuolo di sé”. E nel capitolo successivo, Augieri riflette ancora sul rapporto tra parola e potere in cui gioca un ruolo fondamentale il sentimento della paura, tanto di chi scrive che è condizionato da possibili ritorsioni, quanto di chi impone il divieto. Secondo l’autore, i roghi delle biblioteche, la censura, la riduzione al silenzio nei campi di sterminio, altro non sarebbero che la manifestazione del timore verso una parola diversa, contraria, rivoluzionaria, in grado cioè di scalfire l’ordine precostituito. “La verità tenuta nascosta, ovviamente, è un’altra ed è quella di cui il potere ha paura: le parole dei libri sono semi “aurorali” e pure evocativi per ogni nuova generazione di lettori, in quanto esse «ci ricordano», conservando la memoria, la storia, la tradizione di una cultura; ci fanno pensare diversamente, dandoci, ad esempio, la cultura ironica e festosa del riso, là dove il potere impone la cultura della rigidità e della serietà univoca, basata sulla paura e sulla punizione”. Anche il riso, dunque, costituisce un elemento sovversivo tanto del potere quanto della fisiognomica tradizionale: nel settimo capitolo l’autore ricorda l’esperienza di Adso, protagonista de Il nome della rosa che incontra il divieto della lettura del secondo libro della Poetica di Aristotele (sulla commedia, appunto). Nell’ottavo e ultimo capitolo della raccolta Augieri dialoga con Barthes a proposito del pianto, della natura espressiva dello sguardo, in una dimensione che precede la parola, dove il volto diventa emblema del dialogo, luogo di azione e reazione, ricezione ed espressione, metafora di un universo interpretativo tutto basato sull’ascolto della parola dell’altro.


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Accadere culturale: TESTI

L’attualità di cotini

“Ermeneutica letteraria”, n. 10, a. X, 2014, pp. 210, Fabrizio Serra, Pisa-Roma 2014 Elena Sbrojavacca

«Ermeneutica letteraria» festeggia il decimo anniversario della sua fondazione sotto l’egida di uno dei suoi ispiratori ideali, Gianfranco Contini. Su di lui verteva il convegno veneziano del 2000 Gianfranco Contini tra filologia ed ermeneutica, terreno – come spiega Paolo Leoncini nel suo editoriale – in cui sono germogliati i semi di quella comunanza di intenti che ha portato alla costituzione del comitato direttivo, con il critico domese da subito assunto come «punto di riferimento privilegiato». A lui sono dedicati anche i numeri VI e VII della rivista, celebranti il ventennale della morte. Questo decimo numero è costituito dagli Atti del “Colloque” Gianfranco Contini entre France et Italie: philologie et critique, tenutosi all’Università Blaise Pascal di Clermont Ferrand fra il 30 maggio e l’1 giugno 2013: giornate “bilingui”, che hanno confermato, mettendone in evidenza il ruolo di tramite fra cultura francese e italiana, la statura europea di Contini, di cui il volume, bilingue anch’esso, dà un convincente saggio. Vi si passano in rassegna alcuni fondamentali aspetti del suo magistero, quali l’eterodosso rapporto con la storia, il legame con alcuni autori-chiave come Dante, Proust e Montale, la fecondità del metodo variantistico; vi sono poi significative incursioni in territori meno esplorati, come la dimensione del Contini poeta. Nel suo editoriale, Leoncini scrive che Contini e Debenedetti «sono stati i fautori, i creatori della dimensione del testo, nel Novecento – secondo percorsi che non separano il testo dal mondo dell’azione, ma accomunano testo e mondo all’insegna dell’esperienza temporale» (p. 11). Nel suo decennio di attività, dunque, «Ermeneutica letteraria» ha cercato di tenere il polso, proustianamente, ad una «realité directement sentie» (ibidem), in una continua «tensione correlativa autore-testo-lettore» (ibidem); nel solco di questa istanza la rivista ha proseguito il suo percorso, perennemente a ritroso, alla ricerca del nucleo originario di ogni testo, in un’oscillazione ideale tra il debenedettiano «rifare il cammino» e il continiano ricongiungimento al «germe vital». A orientare le sue pubblicazioni è stata la convinzione, già di Ricoeur, che il dire e il leggere non siano separati dall’agire, secondo una fede nella superiorità dell’istanza interpretativa sulla referenza scientifica: è in questa convinzione, secondo Leoncini, che risiede anche il segreto per sfuggire ai rischi dell’arbitrio interpretativo. Leoncini cita ancora, fra i suoi auctores, l’ultimo Barthes, con l’idea di una critique pathetique, fondata su elementi affettivi; lo stesso Barthes può dirsi vicino al recentemente scomparso Filippo Secchieri, collaboratore della prima ora della rivista e fautore di un’idea ‘relazionale’ della critica, condivisa

dalla linea di redazione, per cui testo e lettura sono un’unica creatura bifronte (cfr. p. 13). Gli studiosi che in questo decennio vi hanno collaborato, pur impegnati su fronti diversi, dall’ermeneutica filosofica alla teoria della letteratura, dalla filologia alla critica letteraria, sono accomunati, secondo Leoncini, da un’alta concezione della lettura come «atto ermeneutico-performativo», in contrasto con certe «intelaiature metodiche» novecentesche, «più rigide che rigorose» (p. 19). Il decimo numero si apre con un articolo di Carlo Ettore Colombo sulle origini del Contini filologo romanzo, dallo studio delle opere di Bonvesin de la Riva alla pubblicazione di Arnaut Daniel e Bertran Carbonel. L’autore illustra il costituirsi della sua cultura romanza, dal soggiorno parigino sotto la guida di Clovis Brunel, Joseph Bédier e Alfred Jeanroy allo studio della lingua occitana, che porterà alla teorizzazione di una personale metodologia di critica testuale nel periodo fra 1933 e 1939. Metodologia con cui Contini affronterà anche il «maggior poeta»: Giuseppe Sangirardi mostra infatti come il dantismo continiano abbia prodotto un modello ermeneutico duraturo e innovativo, introducendo i concetti di ‘memoria interna’ e di ‘sperimentalità’. Il saggio di Antonio Montefusco si colloca sulla stessa linea, proponendosi di tratteggiare il profilo rivoluzionario del Contini dantista, che guardò al Fiore e al suo antistilnovismo come «nodo» fondamentale nel percorso formativo di Dante. Montefusco intende valutare come Contini si situi nel panorama degli studi danteschi contemporanei, facendo risaltare in modo particolare il rapporto con Michele Barbi e la «paradossale fedeltà crociana» dimostrata dall’ostinazione con cui sostenne la paternità dell’opera. In Gianfranco Contini sur le «discrimen» DantePétrarque Donatella Bisconti guarda invece ai pochi scritti continiani su Petrarca, mettendone in luce l’apparente contraddizione fra il riconoscimento della grandezza del genio (e della longevità del modello poetico) e la netta preferenza accordata a Dante. Soprattutto, tramite l’analisi delle varianti di RVF CCCXXII e il confronto con il modello dantesco, la studiosa intende mostrare che il metodo di Contini ha come implicito bersaglio polemico Benedetto Croce, il maestro da cui prendere le distanze attraverso le evidenze pragmatiche delle indagini filologiche. Claude Perrus ci porta in un territorio diverso, riflettendo sulla vocazione storica del Nostro. La studiosa parte da una sua curiosa dichiarazione di Contini sul Port-Royal di Sainte-Beuve contenuta nella lunga intervista con Ludovica Ripa di Meana Diligenza e voluttà. Vi si racconta come il «gran desiderio della


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sua vita» fosse quello di scrivere un libro su Manzoni in cui si potesse passeggiare come nell’opera del francese; questo desiderio, che in parte si porrebbe in contrasto con l’amore per l’espressionismo e la rarefazione mallarmeana, è secondo Perrus una spia delle istanze «storiche» e «pedagogiche» di Contini. Il saggio mette dunque a confronto, indagando i reciproci legami, Manzoni, Tommaseo e Rosmini; Manzoni, Gadda e Contini; Contini, Gadda e Longhi, sulla base di un condiviso posizionarsi sulla linea dell’eros historicus manzoniano (cfr. p. 85). Carlo Alberto Augieri indaga invece la «ricezione metodologica» della linguistica di Bally e Benveniste riscontrabile negli scritti continiani, che dimostrano la consapevolezza dell’inestricabile legame fra grammatica e semantica. Nel suo approccio a Proust, che Augieri, citando Vossler, Spitzer e Auerbach, definisce «lo scrittore più studiato dalla critica stilistica» (p. 87), Contini mostra di riconoscere il profondo significato ad ogni piccolo dettaglio testuale, che il critico-ermeneuta deve saper individuare ed interpretare. Rimanendo nel campo della linguistica, Elisabeth Kertesz-Vial indaga i rapporti fra D’arco Silvio Avalle e Contini, dapprima con uno sguardo sull’originale metodo strutturalista di Avalle, poi con un approfondimento sul dialogo epistolare intercorso fra i due studiosi tra il 1966 e il 1973. Il saggio si conclude con un riconoscimento dell’originalità di quel metodo filologico italiano di cui maestro e allievo furono alfieri, che si distingue dai contemporanei études génétiques francesi per l’approccio storicistico. Pietro Gibellini riflette poi sulla propria esperienza personale, evidenziando l’importanza della variantistica continiana nella sua attività di studioso; con una serie di esempi tratti dai suoi lavori su Parini, Belli, Manzoni e d’Annunzio, mette in luce alcune acquisizioni della metodologia continiana che rimangono fondamentali anche a distanza di tempo – in particolar modo la nozione di ‘sistema’ variantistico –, e gli aspetti su cui la ricerca andrebbe invece approfondita, come il rapporto tra variantistica e critique génétique, oggetto per altro, di recente, di una riflessione di Franco Suitner. Leoncini studia invece il rapporto Contini-CecchiMontale-Proust, mettendo dapprima in relazione gli scritti degli anni Trenta su Cecchi e quelli su Montale, poi considerando questi ultimi come la prefigurazione di quelli proustiani del ventennio successivo. Questi saggi sono visti alla luce delle istanze etico-religiose di Contini, poiché critica delle varianti e «critique religieuse» sono per lui coimplicate. Ancora tra Proust e Montale si colloca il Contini di Ilenia Antici: in Comment Montale est devenu proustien si evidenzia, secondo l’autrice, la duratura ricezione ‘proustiana’ degli Ossi, largamente

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influenzata dalle interpretazioni di Contini, che vedeva una stretta correlazione fra «intermittenze del cuore» e «istanti privilegiati» montaliani. Sul rapporto intensissimo fra il critico piemontese e il poeta ligure si interroga anche Marie-José Tramuta, che studia le reciproche influenze fra i due sulla base della corrispondenza che segue il reportage di Contini sulle «Rencontres internationales» di Ginevra del 1946. Su una diversa sfera della produzione continiana si concentra Alfredo Luzi, che ripercorre le scelte fatte per l’antologia La letteratura dell’Italia Unita (18611968), evidenziandone la distanza dal canone attuale, con esclusioni significative come quelle di Primo Levi o Andrea Zanzotto e il ridimensionamento di autori come Salvatore Quasimodo o Italo Calvino. Al Contini antologista guarda anche Alessandra Giappi, che si volge però soprattutto ai tentativi poetici del filologo, pubblicati per Aragno nel 2010. Il volume del ’68 e quello postumo dimostrano secondo la studiosa il fondamento etico e il portato civile del sistema di pensiero continiano, lungi da qualsivoglia forma di estetismo autocelebrativo. Ripercorrendo numerosi contributi, antologici e non, scritti da Contini a partire dalla seconda metà degli anni Quaranta, Ilaria Crotti analizza Il canone del fantastico continiano tra Francia e Italia. Emerge così la variegatezza del suo catalogo, squisitamente soggettivo, che si presenta come un complesso insieme disomogeneo, spesso agitato dal vento dell’idiosincrasia. Sulla stessa materia scrive Beatrice Sica, che si propone di rovesciare la tradizionale interpretazione dell’antologia Italie Magique del 1946, generalmente vista come antitesi al neorealismo dominante. Invece, la silloge di racconti fantastici sarebbe stata concepita da Contini con l’intento di risemantizzare le categorie di ‘magico’ e ‘umoristico’, al tempo, secondo lei, fatte proprie rispettivamente dal surrealismo bretoniano e dal fascismo, con lo scopo di inserire l’Italia appena uscita dalla dittatura in una più ampia dimensione europea. Chiude il volume il contributo di Lucrezia Chinellato, che guarda alle fondamentali osservazioni di Contini sul plurilinguismo letterario, da Dante a Gadda; il delicato rapporto fra lingue ufficiali e vernacoli è per la studiosa un tema di centrale importanza anche nell’attualità, come dimostra la sua interessante carrellata sulla poesia italiana contemporanea. Agli esempi italiani si accompagnano delle proposte dalla coeva letteratura francese in lingua minoritaria. La rivista offre dunque un vasto caleidoscopio di immagini continiane, che rende viva testimonianza dell’incidenza che il lavoro del gran domese ha avuto e continua ad avere sugli studi contemporanei, in Italia e all’estero.


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Accadere culturale: EVENTI

L’agone culturale, mediatico, economico per il titolo di “capitale” e il più importante evento di marketing editoriale del Salento con i quali si è chiuso il 2014, ma anche lo spirito comunitario da affidare al nuovo anno e altri importanti progetti legati alla lettura e alla scrittura. Per questo primo numero, che esce a cavallo tra “vecchio e nuovo” tempo - concepito negli ultimi mesi dell’anno appena trascorso, pubblicato agli inizi del nuovo - abbiamo chiesto ai nostri collaboratori - professionisti e studiosi - di approfondire alcune delle questioni più pregnanti del nostro divenire culturale.

Oltre la logica del “do ut des” Solidarietà/1 ◆ Cosimo Metrangolo

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olidarietà: sentimento di fratellanza e di vicendevole aiuto materiale e morale esistente tra membri di una società o di una collettività. Del termine si è fatto uso e disuso tanto da rischiare di cadere nella banalità e nella retorica. Il valore ideale della solidarietà, però, assieme a quello di pace e giustizia, rimane uno dei valori universalmente condivisi. Nel nostro tempo e nel nostro contesto socioculturale, in cui dominano la tecnologia, il ritorno economico, l’indifferenza verso la comunità ed il bene comune, è indispensabile trovare la giusta motivazione per discutere di una “Nuova Solidarietà”. “Nuova” perché capace di realizzare e perfezionare interventi assistenziali, più efficaci ed efficienti, non attraverso singole iniziative, ma con la partecipazione di tutta la comunità. La parola trova la sua origine nella terminologia giuridica ed indica la situazione di chi, debitore o creditore, può sostituirsi ad altri nell’assolvimento o nella pretesa di assolvimento di una obbligazione. Essere obbligato in solido significa, appunto, essere stretto ad altra persona da un vincolo così forte da poterne prendere il posto. Qui è già evidente il valore che la parola ha assunto nel tempo, quando è divenuta usuale nel linguaggio comune della vita quotidiana, per indicare un rapporto d’interdipendenza tra l’agire del singolo e le esigenze del gruppo di appartenenza. Risulterebbe particolarmente utile, proprio nel settore medicoassistenziale, un’educazione alla solidarietà tecnicamente informata sui risultati delle ricerche medico-scientifiche e della medicina clinica. è un risultato clinico conclamato l’efficacia dei supporto affettivo sul decorso di alcune patologie comuni, tanto da rendere l’etica e la professionalità categorie fondamentali nella formazione assistenziale. In passato, la solidarietà era subordinata a regole di giustizia commutativa e sociale: “do ut des” = “io do, tu mi dai”. Oggi si pone in evidenza che è la realtà della persona stessa ad esigere dei rapporti di solidarietà con gli altri. In passato, ognuno era ritenuto responsabile dei suoi atti: tutto ciò che accadeva al di fuori delle sue spettanze poteva, al più, stimolare

attenzioni pietosamente caritatevoli, senza diretta compromissione. L’uomo, però, è in contatto costante con Dio, con il prossimo, con le cose. Si evolve e raggiunge la sua maturità e la presa di coscienza di sé solo in rapporto con gli altri; si completa, sente se stesso, sente le sue esigenze e ne ha soddisfazione solo ed unicamente se si relaziona con l’altro, con il “tu”. L’ideale del “vivre pour autrui” deve animare tutta l’esistenza umana non tanto come dovere quanto come sviluppo d’una predisposizione fondamentale. La solidarietà è una “virtù sociale” che può essere acquisita attraverso un autosuperamento delle qualità naturali e di quelle ricevute attraverso la socializzazione. Ognuno di noi ha costante bisogno dell’altro e per essere solidale, per esercitare la solidarietà, è necessario conoscerla attraverso i suoi tratti più caratterizzanti: Prossimità, Gratuità, Concretezza. Avvicinarsi alle necessità del prossimo non è solo il guarire, il soddisfare i bisogni della gente, l’essere accanto ai malati, ai poveri, agli emarginati, ma è anche avere la capacità di entrare in comunione con quei soggetti, comprenderli prima di aiutarli, infondere loro fiducia prima della cura. Solidarietà è l’agire non utilitaristico, è quell’agire che rompe gli schemi del “do ut des”, che non ha scopi reconditi: è quell’agire, fine a se stesso, che non cerca gratificazioni. è il farsi prossimo promuovendo tutte le individuali caratteristiche dell’altro. Tratto conclusivo e caratterizzante la solidarietà è la concretezza intesa come atto che si realizza attraverso la riabilitazione della persona. L’atto, per essere concreto, deve essere intelligente e programmato, deve attuarsi attraverso l’individuazione del bisogno reale verso cui è diretto il proprio agire in modo da evitare sprechi ed inutili interventi. Enunciare questi principi potrebbe essere un modo efficace di realizzare la filosofia della “Nuova Solidarietà” che deve avere, come primo intento, la formazione etico-deontologica del personale sanitario, al fine di riconoscere il malato nella sua dimensione, prima ancora che clinica, personale ed umana. “Io sono stato creato in dono a chi mi sta vicino e chi mi sta vicino è stato creato in dono per me”.


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Per una nuova prospettiva del dono

anno I ● gennaio 2015 n. 0

Solidarietà/2 ◆ Maria Rita Bozzetti

E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova. La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. (San Paolo Prima lettera ai Corinzi, 13 1-13)

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e parole di San Paolo inducono a rivisitare con umiltà i moti di solidarietà con cui ci relazioniamo con la povertà. Quando diventa povero il nostro prossimo è altro, diverso da noi, e come il malato non è come noi. Questo muro che inevitabilmente ci innalza, cambia la prospettiva del dono che dovrebbe essere una cosa tra pari, un modo per ingraziarsi l’attenzione e insieme un mezzo di reale aiuto per chi ha bisogno e diventa invece un patto che ci separa e ci fa sperare di restare sempre divisi, perché la miseria, nella sua impossibilità a comprare il necessario, terrorizza il fragile nostro cuore e lo fa correre lontano. Ignorare l’indigenza aiuta a vivere più tranquilli. E forse la voglia di fuggire accelera ogni buona azione: prima doniamo l’indispensabile che i mass media ci impongono e prima possiamo parlare di altro, e prima possiamo superare da bravi borghesi il giudizio della folla facendo mostra del nostro potere economico che si priva anche di considerevoli somme di denaro. Agli occhi pragmatici di un ragioniere abituato a monetizzare ogni atto, poco interessa cosa o chi ci sia dietro la mano che ha sborsato l’obolo. Poco serve sapere quale pensiero ha spinto il gesto: e la solidarietà può diventare un business; sui fondi raccolti molte volte abbiamo saputo di speculazioni che hanno offeso la nicchia etica che ci accompagna da bambini, oltre a togliere ogni dignità alla massa informe di potenti, ormai impoverita di ogni rispetto. Non si può separare la mano che dona dalla mente che impone il dono: occorre collegarle con un cuore forte e lucido che valuti le vere dalle false povertà ma anche così magnanimo da saper ascoltare le esigenze morali, spirituali oltre che materiali dell’altro. La carità inizia con il vicino di casa, con il parente: il capire la sua temporanea debolezza e continuare ad amarlo come prima, quando la sua forza aumentava la

Solidarietà/3 ◆

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nostra. E poi solidali con i malati: essi non sono altro ma siamo noi stessi proiettati in un tempo diverso, perché la malattia è comune come la salute, e può per un disegno ignoto e sempre presente apparire sul nostro orizzonte e concederci solo giorni di dipendenza, di lento allontanamento dalla vita. È autentica solidarietà il venire incontro non per apparire buoni, ma solo per condivisa emozione, per misericordia, per quella carità che ci fa abbracciare ragioni non nostre come se lo fossero, un sentire un fiume di uguaglianza che tutti avvolge e dove il bene di tutti è la sola certezza da desiderare. La generosità mossa da sincera carità aiuta lo Spirito e anche chi è ateo conosce la meravigliosa sensazione di benessere che si prova quando si divide un panino con uno sconosciuto affamato, quando il mantello di San Martino riscalda due o più persone, quando in trincea si spartisce anche l’acqua e nella divisione del poco bene nel comune disagio ci si senta fratelli e per tutta la vita. Emozione di uguaglianza che imprime nell’essere un codice genetico nuovo: quello dell’amore. Diventare una cosa sola accresce la propria umanità: è l’intenzione che ci migliora, il solo gesto senza volontà del cuore può restare incapace anche di un sorriso. San Paolo insiste su questo intendimento perché aiuta a migliorarsi dentro e fuori e, come un virus, contagia altri a comportarsi in modo caritatevole e per questo immuni dalla vanità che esibisce nei circoli la generosità come una merce di scambio, come un potere per mettere in soggezione i poveri. La solidarietà non è solo una parola che evoca elargizione di moneta, ma è un atto spontaneo, mosso da cuore e cervello convinti da un moto misericordioso, una azione solitaria e nascosta che può essere manifestata solo come esempio, da imitare per alleggerirsi dai pesi del proprio egocentrismo. È una emozione che parte dal “cuore” per tornare in esso carica della gioia di aver donato.

C’è anche chi spegne i fuochi

Sergio Aversa n giorno dello scorso luglio, la batteria della macchina mi ha mollato all’improvviso, mentre ero al mare in casa di uno dei miei fratelli. Per poter ripartire, abbiamo chiamato al telefono un suo vicino provvisto dell’attrezzatura necessaria e che, molto cortesemente, ci ha raggiunti con la sua vettura. Quando ha aperto il baule per prendere i provvidenziali “cavetti”, ho notato, all’interno, la presenza di una decina di bottiglie già usate, piene d’acqua. Non conoscendolo, e giusto per fare una battuta rompi ghiaccio, gli ho chiesto se la sua macchina avesse problemi di surriscaldamento. Ha sorriso e mi ha risposto che lui, d’estate, viaggia sempre attrezzato in quel modo e che, quell’acqua, la utilizza per spegnere i piccoli principi di incendio che scorge numerosissimi sul ciglio delle tante strade, percorse, per motivi di lavoro, durante tutto il corso dell’anno. Ho pensato subito a quanti mozziconi ho visto lanciare dalle macchine che mi sono state davanti. Ma non solo a quelli. Ho pensato alle gomme da masticare “sputate” sul basolato della “mia” bella città, alle buste piene di pattume appese agli alberi delle “mie” ombrose pinete, alle bottiglie di plastica dimenticate sulle “mie” tanto decantate spiagge. E nello stomaco ho avvertito subito quella rabbia impotente che normalmente avverto davanti alla stupidità umana. Quella stupidità che impedisce alla gente, di sentire “suo”, ciò che appartiene anche a tutti gli altri. Che altro dire? Nulla, se non: grazie amico mio. Da parte mia e di tutti quelli che non hanno il piacere di conoscerti. Grazie per questi piccoli grandi gesti che, purtroppo per noi, ti fanno appartenere ad una razza rara, ormai in via di estinzione: quella delle persone civili.


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generazioni di scritture

Rubrica ◆ Livio Romano

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La scrittura che gira intorno

o scrittore Giulio Mozzi, uno dei pochi della generazione dei narratori cinquantenni che con ogni probabilità resterà nella storia della nostra letteratura, è uno dei più straordinari talent scout italiani, ma non solo. È anche uno dei primissimi insegnanti di quella misteriosa disciplina generalmente denominata “scrittura creativa”, un uomo che a ritmo molto serrato tiene corsi e laboratori e seminari in tutta la penisola e che sull’argomento ha scritto fondamentali manuali e “ricettari”. Forte di questa sua lunga esperienza all’interno del ventre molle di quel che nel nostro Paese si scrive incessantemente, ha da ultimo pensato di metter giù una sorta di (voluminosissimo) catalogo ragionato di quella che, con una definizione pop, e parafrasando Ivano Fossati, potremmo definire la scrittura che gira intorno. Si dice spesso che siamo un popolo di scrittori. Che son più quelli che scrivono che quelli che leggono. Andrebbe sfatato questo luogo comune dal momento che si scrive tanto a ogni latitudine, e forse di più: basti osservare gli studenti del Nord Europa in viaggio: al contrario degli italiani che non staccano gli occhi dagli smartphone, oltre ad avere sempre con sé buoni libri hanno sovente anche taccuini sui quali scrivono a mano con una qual frenesia, oppure fogli di word processor invece che schermate di social network. A mio avviso quel che fa la differenza è il desiderio di pubblicare, spesso a ogni costo, quel che si scrive. L’assenza di senso del ridicolo, di consapevolezza letteraria, la voglia di assumere lo status di scrittore e le lusinghe generalmente legate a questa categoria dello spirito semplicemente dando alle stampe un volumetto attraverso una delle moltissime vanity press, come gli americani chiamano a ragione gli “editori a pagamento”. Ma, al di là del fenomeno sociologico, e soprattutto al di là della qualità letteraria dei testi narrativi, si chiede Mozzi: cosa si scrive in Italia? Quali topoi son maggiormente frequentati, quali stili, quali generi? Indipendentemente se le centinaia di migliaia di manoscritti che circolano in Italia in forme cartacea o digitale approdino o meno a una pubblicazione, e indipendentemente dalla qualità di questa eventuale pubblicazione (dalla tipografia di Alliste che ti fornisce anche un ISBN, passando per le autopubblicazioni on line e gli e-book su Amazon, fino ad arrivare alle oneste piccole case editrici, su per le medie e approdando infine alle potenti, ancorché in crisi nera, major): i moltissimi estensori di dattiloscritti, come scrivono? Quali sono i loro ascendenti letterari, a chi si ispirano, che tipo di storie narrano, quale lingua decidono di utilizzare? Lo scrittore padovano ha spesso compilato gustose partizioni regionali, sulla letteratura inedita (lo ripeto: sia quella che resti tale, sia quella che approdi a una qualche forma di pubblicazione). L’ultima impresa sarà di sistematizzare scientificamente questo patrimonio di scrittura che potremmo dire, con un’espressione à la page, liquida.

In quanto narratore pubblicato, è capitato anche a me di leggere molti manoscritti. Un 30% dei quali mi è stato spedito, nel corso degli anni, da autori che vivono fuori dalla Puglia, ma è la scrittura inedita salentina, quella con cui maggiormente mi son confrontato, quella che ho spulciato spesso meticolosamente, altre volte con più fretta, allo scopo di rintracciare una qualche perla degna d’esser segnalata ad amici editor, agenti, critici, editori. Per tre volte, in quasi vent’anni, ho rinvenuto dell’ottimo materiale e per tre volte son riuscito a convincere qualche editore che valeva la pena pubblicarlo -uno di questi è stato tradotto anche in Francia. Questo mi propongo di raccontare nella mia rubrica: ogni mese uno o più inediti che mi siano stati sottoposti in lettura. La loro trama, il loro stile, i personaggi, l’ambientazione, le descrizioni. Lo farò sottacendo il nome dell’autore, naturalmente, e ometterò l’idea che mi son fatto sulla qualità dell’opera. Perché è dell’immaginario trasferito su carta che mi propongo di render conto. I temi che spingono le persone a scrivere e la loro eterogeneità legata all’età anagrafica, al retroterra socio-culturale ed economico. Quali influenze ho identificato, e se ne ho identificate (un ragazzo alla mia domanda «qual è il tuo scrittore preferito?», mi rispose candidamente: «Io non leggo gli altri, sennò la mia scrittura si contamina»). Come prima volta, e con estrema brevità, un agile romanzetto sul mondo del calcio, scritto da un ex professionista che non è rimasto nel giro, alla fine della carriera, bensì ha preferito dimenticare un ambiente che non tollerava più e mettersi a fare l’animatore nei villaggi turistici. Immaginerete che non ha più di cinquant’anni. Ha scritto un romanzo pieno zeppo di dialoghi, e quel che ho trovato strepitoso e rarissimo (tornerò spesso sull’artificiosità dei dialoghi) è che quello che mette in bocca ai personaggi è molto reale, vivido, mimetico. La fabula è esile ma l’intreccio è ben congegnato. Alterna una narrazione al presente a continui flashback che dicono del come si sia giunti alla situazione dell’oggi. Ovviamente i salti all’indietro dicono di un passato da calciatore professionista che ha militato in squadre dalla serie A alla C. Il lessico e le costruzioni sintattiche son piuttosto dimessi ma perfettamente acconci a una narrazione in prima persona singolare nella quale si dà voce a un personaggio semplice, dotato di un’istruzione di base. Il forte attaccamento al padre, il bisogno di una sua benedizione sulla scelta di abbandonare il rutilante mondo dello sport professionistico e la catarsi finale ne fanno senz’altro un romanzo di formazione. Una nota degna di attenzione è che l’autore non ha alcuna aspirazione a esser pubblicato e distribuito ma ha bisogno che questa storia assuma la forma di libro cartaceo all’unico scopo di esser venduto alla fine dei monologhi “teatrali” nei quali egli si produce all’interno dei villaggi turistici.


anno I ● gennaio 2015 n. 0

Accadere culturale: EVENTI

La politica dell’happy hour non ha pagato Lecce2019/1 ◆ Antonio Lepore

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i fa piacere tornare, dalle pagine di questa rivista e distante dai fatti, sull’esperienza della candidatura di Lecce a capitale europea della cultura 2019 alla luce di alcune riflessioni che mi hanno stimolato: soprattutto i commenti successivi al verdetto di bocciatura del progetto della nostra città. Innanzitutto una considerazione sulla natura del programma europeo di eventi, o meglio su alcuni rischi connessi alla sua stessa natura, che ha dato via via origine ad un processo fortemente competitivo di marketing urbano (territoriale), nel quale gli aspetti economici e commerciali legati a diversi attrattori hanno finito per prevalere sul carattere artisticoculturale dell’iniziativa. L’idea iniziale di un grande progetto che nel lungo termine (non solo l’anno della nomina ma tutto il periodo di preparazione) consentisse di ridefinire l’immagine e la dimensione europea di una città, a partire dalla sua più vera e profonda identità culturale, si è andata confondendo con la ricerca di azioni di stimolo per flussi unicamente legati ad attività economiche e turistico-commerciali. Lo sviluppo di iniziative artisticoculturali interessanti, nuove e di qualità è stato sostituito da programmi stereotipati, spesso importati e altrettanto spesso simili tra loro, che si immaginano dotati di quella che qualche autore ha definito “profittabilità”, avendo quali soli, veri obiettivi risultati quantificabili in termini di attrazione verso la città, dimenticando quasi sempre il coinvolgimento delle comunità locali e il contributo che la manifestazione deve dare alla valorizzazione della loro identità in una dimensione europea. In sostanza il programma, se legato solo a suggestivi eventi di forte richiamo (e a più o meno sostenibili interventi urbanistico-edilizi che li

accompagnano) non permette di garantire una vera crescita culturale e sociale e lo si vuole sempre più funzionale all’attenzione dei media e dei visitatori esterni: la formula che si cerca è oramai quella del rito dell’happy hour. Un modello a cui, sotto molti aspetti, sembra oggi ispirarsi un evento a noi salentini assai familiare coma la Notte della Taranta; un festival di matrice antropologico-culturale che ha ottenuto ed ottiene un grande successo sia in termini di contributo all’attività economica locale che di capacità di richiamo e di intrattenimento ma che, in realtà, non stimola alcun tipo di coinvolgimento sostanziale del retroterra culturale reale, trasformando così, di fatto, l’esperienza partita da linguaggi tradizionali (musicali, visivi, letterari) in colore locale e l’evento culturale in una festa a tema confondendo l’offerta di tolleranza con il consumo culturale. Lo stesso paradigma si potrebbe ritrovare fermandosi ad analizzare la vita notturna che anima la città (la movida), un fenomeno spesso valutato favorevolmente sotto l’aspetto della vivacità della vita culturale di alcune aree del centro, per le ricadute positive sull’immagine urbana, per la promozione di stili di vita innovativi, in sostanza per l’attrattività che essa esercita nei confronti di grandi masse di giovani e di turisti in genere ma che finisce per minare l’identità culturale della città omologandola a quella di qualsiasi altra e perdendo di vista uno degli obiettivi principali di una seria politica culturale: garantire coesione sociale e partecipazione, spazi urbani più inclusivi e più ricchi di personalità. È questo, in sostanza, a mio avviso, il primo e fondamentale errore in cui è caduto il progetto di candidatura a capitale europea di Lecce che ha inseguito una formula globalizzata, prefabbricata, e di

potenziale (presunto) successo solo per il suo carattere evocativo, ignorando l’insieme degli aspetti spirituali, materiali, intellettuali, emozionali che dovrebbero contraddistinguere culturalmente un ambito sociale. Si è probamente pensato che ci potesse essere una sorta di “taglia unica” di programma adattabile anche alla nostra città, in cui è stata utilizzata una ricetta studiata a tavolino senza capire che la forza di una seria politica di rigenerazione culturale di un luogo e, quindi, il suo successo è determinato piuttosto dai suoi caratteri distintivi e dalle sue specificità. Dovrebbero? E qui è il problema più delicato e serio, soprattutto in prospettiva futura. Quale è la vera intelligenza del genius loci, la vera rappresentazione della nostra realtà culturale su cui la candidatura a capitale europea della cultura avrebbe dovuto fondarsi: il fallimento della candidatura non è forse il fallimento del sistema dei valori e dei modi di vita della comunità locale e di anni di politiche culturali dirigiste ed elitarie? Potevamo illuderci che l’affabulazione di qualche pifferaio magico o che “la bellezza del barocco tirato a lucido e la festa di piazza” (una sorta di carnevale salentino), senza idee capaci di dare vita e nutrire la qualità e la peculiarità del luogo, una classe creativa autoreferenziale (parsa attenta solo a raggiungere visibilità e successo temporanei) potesse stimolare apprezzamento per la cultura e dare vita a forme culturali capaci davvero di arricchire e rivitalizzare la comunità locale: per le persone la cultura deve avere valore e significato in sé stessa e non come mezzo per il raggiungimento di benefici per qualcuno. Lecce non ce l’ha fatta perché non è più capace di stimolare e far crescere forme d’arte e cultura radicate in modo organico nel suo tessuto sociale, non è in grado di dare forma e futuro ai suoi desideri.


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Ambiente e qualità della vita le priorità da cui ripartire Lecce2019/2 ◆ Dario Portaccio

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a Capitale europea della cultura è uno strumento per portare al cambiamento, una palestra per il futuro, la possibilità di diventare ciò che siamo davvero”. Questo, almeno, quanto riportato sul sito web lecce2019.it. Tutto era sorto nel “lontano” 1985, innanzitutto con lo scopo di avvicinare gli abitanti dell’Unione Europea valorizzando le differenze; in secondo luogo per dare un nuovo significato alla sua storia e ai monumenti di cui è circondata e, anche, all’ambiente in cui essi sono situati, in modo tale da rinvigorire il rapporto dialogico tra il luogo in cui viviamo e noi stessi, i cittadini. Già, ma a questo punto sorge una domanda (o, quantomeno, dovrebbe sorgere). Perché, tra le tante città europee è stata scelta Lecce? Be’, la risposta è tanto semplice quanto non banale: perché punto d’incontro tra Oriente e Occidente, permettendo, così, comunicabilità tra di essi e un accrescimento culturale vicendevole. E la cultura, che cos’è? Un po’ di storia. Innanzitutto, il termine cultura trae la sua origine dal latino colere, cioè coltivare, poi esteso a significare cura verso gli dei per poi giungere alla definizione attuale, con la quale si fa riferimento a un insieme di conoscenze, credenze, opinioni e comportamenti (acquisiti e tramandati di generazione in generazione) di un definito gruppo sociale. Per Lecce 2019 la cultura è stata interpretata con otto utopie. Vediamo assieme, in breve, di cosa si tratta: Democratopia, l’utopia centrale e predominante sulle altre, volta a riflettere sulle priorità da affrontare e a realizzare una democrazia in dialogo costante tra cittadini e pubbliche amministrazioni; Polistopia, un nuovo modo di intendere e vedere la città e chi ci vive, basato sull’inclusione sociale e sulla riduzione al minimo dell’emargina-

zione, in modo da coinvolgere tutti e in cui le esigenze di ognuno son considerate al pari di perle preziose (perciò son molto importanti); Edutopia, cioè un ideale e nuovo modello di educazione e istruzione per raggiungere le precedenti utopie, basato su una partecipazione attiva dei cittadini che saranno in grado di possedere una coscienza critica, volta a considerare le proprie conoscenze e valori come non assoluti, ma inseriti e facenti parte di un contesto più ampio, plurale, aprendo i cittadini al mondo, riconoscendo, altresì, i loro talenti e facendo leva proprio su di essi, valorizzandoli; l’istruzione sarà intesa in modo non tradizionale, cioè “verticale” (maestro-discente), ma orizzontale, in cui ognuno si trova sullo stesso piano proprio in quanto ognuno ha qualcosa da insegnare e apprendere dall’altro; Talentopia: è lo sviluppo del proprio talento, creando una “Comunità del Sapere”, che si amplierà con l’integrazione delle esperienze; Profitopia: un nuovo concetto di economia, che punta sul soddisfacimento dei bisogni sociali traendo profitto dalla messa in opera del proprio talento, in modo da far sì che tutti possano realizzare la vita che, da sempre, hanno sognato ma che mai, prima d’ora, hanno avuto la possibilità di realizzare; Ecotopia, o rispetto dell’ambiente, messo a dura prova dal turismo e da un commercio insostenibile; con tale utopia ci si prefigge di creare un equilibrio tra bisogni umani e naturali e, non in secondo piano, di umanizzare la medicina; Esperientopia che consiste nel valorizzare uno stile di vita lento, controcorrente rispetto a quello attuale, basato perlopiù sull’istantaneità (giacché siamo circondati dai media, la cui caratteristica peculiare è, per l’appunto, la velocità), integrando lo sport, il tempo libero e la gastronomia con le tradizioni, riscoprendole;

Artopia: ovvero arte, che è l’elemento comune a tutte le utopie, permettendo di porle in un continuo scambio tra di loro proprio grazie al ruolo dell’artista, in grado di coinvolgere la società nella sua interezza. Non è tutto oro quello che luccica. O forse sì? Affascinante tutto ciò, non è forse vero? “Ah, finalmente la vita che, sin da bambino ho sempre sognato di vivere!”, verrebbe da esclamare, dalla lettura delle utopie da realizzare. Bella vita, non c’è che dire. Ma è davvero stato realizzato, almeno in parte, tutto questo? Evidentemente no, data la sconfitta della nostra città e la preferenza data a Matera. Ma riflettiamo, per un attimo, su ciò che è stato fatto e, soprattutto, su ciò che non lo è stato. Osserviamo. Certo, son state realizzate svariate installazioni artistiche, esposizioni come quella della “Lecce del futuro” (un’esposizione di progetti che rappresentavano i cambiamenti futuri della città dal punto di vista estetico relativi, in particolare,alle due piazze principali e ai vari quartieri, come il quartiere Leuca oggetto, tutt’ora, di un progetto di rigenerazione urbana) ma tutte della durata, appunto, di un’esposizione e non intese, invece, come parte integrante e perciò duratura della città. Pura apparenza per poter esser scelti come possibili vincitori della competizione che era in atto fino a qualche tempo fa. Ed ecco uno dei probabili motivi per cui, di riflesso, è stata preferita Matera, luogo in cui “l’apparenza” è poca: i Sassi son lì, sempre presenti (non come opera transitoria quindi) con il loro fascino e sapore d’antico che li contraddistingue, testimoni di un’epoca lontana ma che, comunque, ha caratterizzato la nostra Storia, e, dunque, plasmato in modo indelebile la cultura del nostro Paese. Cosa si poteva fare, ma non si è fatto, e che si può ancora realizzare.


anno I ● gennaio 2015 n. 0

Accadere culturale: EVENTI

Certo, tanti eventi e installazioni sono stati realizzati per poter vincere quel desiderato titolo, quale, ad esempio, l’opera “Ba*Rock*Roll” degli artisti portoghesi “Fahr0213”, la quale intendeva dare un occasione per dialogare, per confrontarsi, cercando di realizzare una delle caratteristiche comuni alle otto utopie: uno scambio di conoscenze e punti di vista differenti, integrandoli l’un l’altro per un accrescimento culturale collettivo. Ma c’è ancora tanta strada da fare. È impensabile, ad esempio, una mancanza di un’educazione al rispetto dell’ambiente in cui quotidianamente viviamo ma che, dato il mancato rispetto dello stesso, lo trascuriamo, dimenticandoci del fatto che ciò si ritorce contro noi stessi. Esempi di catastrofi ambientali e degli effetti negativi dell’inquinamento (che impatta direttamente su noi stessi e sulla nostra salute) li possiamo conoscere dai media, che, nella maggior parte dei casi, non fanno altro che mostrare i disastri invocando l’aiuto delle cosiddette “élite tecnocratiche”, cioè élite di coloro che sanno, sottraendo le decisioni da loro prese dal controllo e dal dibattito democratico. Ecco, allora, che si delinea ciò che i media non hanno fino ad ora fatto (creando unicamente fittizi allarmismi) e ciò di cui anche Lecce ha peccato e pecca tutt’ora: la mancanza di un coinvolgimento diretto del cittadino, per-

ché molto dipende da ognuno di noi e dalle scelte che compiamo ogni giorno, in ogni istante. Un esempio? La cosiddetta raccolta differenziata che sembra tutto tranne che tale. Si voleva essere la capitale europea della cultura, ma i nostri cassonetti erano e sono tutt’ora indifferenziati. E infatti, ciò che si nota (purtroppo!) è la presenza di rifiuti umidi e plastica nei bidoni della carta e, anche, la triste presenza di carta nei contenitori del vetro e/o dell’umido. Ma, come se non bastasse, anche gli operatori ecologici contribuiscono a questo errato comportamento. Non è possibile credere che tutta questa “indifferenziazione” sia voluta: se così fosse sarebbe uno sfregio compiuto nei confronti di un mondo che è e sarà abitato dai nostri figli (o futuri tali!). Credo, al contrario, che tali azioni dipendano da una mancata conoscenza delle conseguenze dirette di questo comportamento. Sarebbe stato necessario un intervento dei nostri amministratori locali per sensibilizzare i cittadini ad una corretta differenziazione dei rifiuti, se volevamo essere capitale europea della cultura, cosi’ come sarebbe stato necessario sensibilizzare le persone all’uso dei mezzi pubblici o della bicicletta al posto dell’auto. È su tali ultimi punti che intendo, infine, porre l’attenzione. La scarsa presenza di aree atte esclusivamente alla circolazione delle biciclette è una delle pecche quanto mai imper-

donabili per una città come Lecce, in cui, ad ogni passo, ci si sente quasi obbligati a fermarsi per osservare i vari monumenti storici che la circondano, i viali alberati, contemplandone la straordinaria bellezza; in molti casi, però, questo risulta impossibile da fare, per la mancanza di una rete ciclabile idonea. Si potrebbe benissimo ribattere che i tratti riservati al transito delle sole biciclette ci sono, ma sono così tanto brevi, alle volte, da terminare improvvisamente con un marciapiede (come si può notare facilmente nei pressi della libreria Pensa); oppure ci si immette direttamente nella circolazione, come accade nei pressi della stazione in viale Gallipoli o in viale Otranto, mentre addirittura manca una pista ciclabile in aree centralissime della città, come viale Cavallotti, o, ancora, viale dell’Università, viale Marche… la lista è lunga, ma il punto centrale è la mancanza di interesse su aspetti fondamentali come questo. E che dire dei bus di città, mai o quasi mai in orario? Se lo fossero ci sarebbero meno auto in circolazione e, forse, anche questo avrebbe potuto dare qualche chance in più di vincita alla nostra città. In definitiva, Lecce ha ancora molta strada da percorrere, se intende porsi come faro europeo della cultura, dal momento che un’occasione è stata persa. Si spera in una seconda che avverrà solo se si punterà l’attenzione a risolvere i vari problemi coinvolgendo tutti.


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Ecco cosa ci ha insegnato Matera Lecce2019/3 ◆ Salvatore Luperto

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distanza di circa un mese dall’esito negativo e inaspettato di Lecce Capitale Europea della Cultura, ancora si cercano, con rabbia mai decantata, spiegazioni e giustificazioni plausibili per capire un tale insuccesso. Ora però è il momento dell’individuazione delle aggravanti che hanno determinato il negativo giudizio. Non si possono più accettare attenuanti ma si devono individuare le vere cause che hanno impedito agli operatori e ai curatori dello staff Lecce2019, nonostante l’impegno profuso, di cogliere la grande occasione, offerta al nostro territorio, per un futuro più ricco e culturalmente più redditizio per le nuove generazioni. Dopo le riflessioni diffuse dai mezzi di comunicazione, dai politici, dagli addetti stampa, dagli intellettuali del luogo si può facilmente giungere ai motivi della bocciatura di Lecce. Tra le tante opinioni vi è quella del presidente dei sostenitori degli Enti privati del Forum Lecce2019, Mauro Marino, il quale sostiene alcune ipotesi senza dubbio interessanti riguardo all’esito negativo condizionato soprattutto “dalla mancata spinta della politica e dei Big”. Mentre il Presidente della Regione Nichi Vendola ha evidenziato l’alta professionalità dello staff guidato da Airan Berg, soprattutto nell’impostazione dei lavori che secondo il Presidente sono “un investimento che può implementare la qualità della vita e la coscienza della bellezza, la coscienza storica ed estetica”, che rientra nel concetto di una “cultura attuale più avanzata” la quale scaturisce dall’unione della cultura storica (il barocco, la bellezza del territorio salentino e più recentemente la pizzica) con la cultura contemporanea di Lecce. Purtroppo è proprio questo lavoro che non c’è stato negli ultimi decenni nel Salento, un solido lavoro sulla “cultura più evoluta” contemporanea da parte degli operatori

culturali, dei politici distratti che non hanno saputo cogliere le opportunità offerte dalle personalità dell’arte, della letteratura, dello spettacolo e della scienza che con le loro iniziative sollecitano e producono cultura. Conoscenza, competenza, capacità sono le tre qualità (basilari nel mondo della scuola per una buona formazione) che classificano la “cultura più evoluta” e non l’attivismo frettoloso e il presenzialismo (“qualità” queste che non producono esiti durevoli nel tempo) che caratterizzano gli amministratori culturali e politici del territorio. Ha vinto Matera proprio perché coloro i quali hanno gestito la cultura della città lucana hanno saputo cogliere quelle opportunità che il territorio offriva, le hanno valorizzate dapprima con il recupero dei Sassi, delle chiese rupestri e dal 1959 con le iniziative del Circolo della Scaletta. Dal 1978 sono state avviate attività di respiro nazionale con mostre di grandi nomi dell’arte contemporanea e la continua valorizzazione delle indiscusse personalità che hanno vissuto o lavorato nel passato a Matera. Grande rilievo è stato dato a Carlo Levi, alla sua arte e ai luoghi e ai personaggi del Cristo si è fermato a Eboli, così come per Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini e così pure per il pittore spagnolo Josè Ortega (vissuto in esilio a Matera dal 1973 al 76) la cui casa dal 28 settembre 2014 è sede del museo delle Arti Applicate in cui è esposto il ciclo pittorico Muerte y Nascimento e Pesaron del 1975. Nel frattempo i Sassi sono stati dichiarati dall’UNESCO patrimonio dell’umanità (1993) e sono stati istituiti due Musei nazionali e una fondazione, riportati nel catalogo generale dei musei d’interesse nazionale I luoghi del Contemporaneo 2012 del MIBAC (Ministero Beni Architettonici Culturali):


Accadere culturale: EVENTI

Il MUSMA (Museo della Scultura Contemporanea Matera) inaugurato nel 2006, interamente dedicato alla scultura dalla fine dell’Ottocento a oggi. Ha sede nel palazzo Pomarici e nei vasti ipogei scavati; Il Museo Nazionale Arte Medioevale e Moderna della Basilicata, allogato nel Palazzo Lanfranchi a ridosso dei Sassi, si compone di quattro sezioni tra cui Arte Contemporanea in cui figurano opere di Carlo Levi tra le tante il grande pannello Lucania ’61; La Fondazione SoutHeritage per l’arte contemporanea, fondata nel 2003, dell’Azienda Agraria Grani Cavalli di Matera che organizza mostre, progetti speciali, seminari e pubblicazioni e promuove giovani talenti attraverso il Projet Room Next Heritage collegando i giovani artisti con l’ambiente europeo. Tra le grandi mostre quelle dedicate a Joseph Beuys e a Michelangelo Pistoletto. Anche nel Salento vi sono nomi importanti della cultura internazionale tra cui, uno per tutti, Carmelo Bene la cui poetica andrebbe approfondita con pubblicazioni, mostre e convegni istituzionali tali da coinvolgere visitatori da tutta Italia così com’è stato fatto a Matera quest’anno con P. Pasolini per il cinquantenario del film Il Vangelo secondo Matteo (1964). Sono spesso singoli studiosi a valorizzare personaggi del calibro di C. Bene e i recenti volumi di Simone Giorgino e di Bruno Putignano ne sono la prova. Nel Salento esiste il Museo Arte Contemporanea Matino (MACMa), un museo di portata nazionale che, come quelli di Matera, è riportato nel catalogo I luoghi del contemporaneo 2012. Inaugurato nel 2011, pochi lo conoscono malgrado siano state informate le istituzioni preposte alla cultura della Provincia e del Comune di Lecce, dei dipartimenti dei Beni Culturali dell’Università e della Facoltà di Lettere e Filosofia del Salento.

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Il MACMa, situato all’interno di due scuderie, di cui una interamente affrescata, del settecentesco Palazzo Marchesale Del Tufo, fa delle sperimentazioni verbovisive privilegiato ambito d’indagine e conta circa 600 opere tra dipinti, collage, libri d’artista, sculture, serigrafie provenienti dalle donazioni Vittorio Balsebre, Enzo Miglietta, Mirella Bentivoglio e di vari autori verbo-visivi tra cui Eugenio Miccini, Lamberto Pignotti, Michele Perfetti, Lucia Marcucci, Roberto Malquori, Emilio Isgrò, Franco Vaccari, Maria Lai, Irma Blank, Emilio Villa, Vitaldo Conte. è conosciuto nel territorio nazionale negli ambiti dei settori verbo-visuali ed è apprezzato per le sue attività svolte dal 2006 e che purtroppo sono ferme al 2013 per mancanza di fondi e forse anche per il disinteresse degli stessi amministratori di Matino. Altri musei come il MACMa e altre personalità del Salento come Carmelo Bene meriterebbero l’attenzione delle istituzioni, mentre la miopia di chi gestisce i beni culturali, in modo diretto o indiretto o di chi potrebbe sollecitarli (intellettuali e stampa), spesso sono indifferenti alla “cultura più evoluta” che Matera, con i suoi esponenti politici e culturali, c’insegna. Solo se si amministra la cultura con impegno e passione e si sanno sfruttare le opportunità che il territorio offre, partendo dalla valorizzazione e dal potenziamento continuo delle proprie ricchezze, allo stesso modo in cui procedono piccole realtà cittadine come Rovereto con il MART, oppure Gallarate con il Maga e di tante altre realtà di ambiti culturali diversi, dall’economia alla scienza, dallo spettacolo all’imprenditoria si può ben sperare nei risultati di una “cultura più evoluta”.


generazioni di scritture

Accadere culturale: EVENTI

Lune e falò

Nascita di una Collana Milella Emilio Filieri

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volte la nascita di una Collana di Letteratura italiana risponde a individuate necessità di impresa nutrite di aspettative editoriali, in correlazione con specifiche competenze disciplinari, ma in estensione di campo per avvertite esigenze di mercato. A volte la nascita di una Collana di Letteratura italiana risponde a insorgenti intuizioni, a desideri e a idee di singoli e gruppi, legati da comuni e vivaci interessi culturali e da passioni critiche (e non solo su opere e aspetti poetico-narrativi), interessi e passioni resi disponibili all’incontro e alle convergenze. Nell’ambito delle attività della “storica” (e per molti aspetti gloriosa) editrice Milella, la nascita di “Lune e falò. Collana di Letteratura italiana” risponde alla necessità di dare voce a studiosi impegnati nella ricerca storico-letteraria, giovani preparati e d’ingegno accanto a protagonisti di matura e confermata esperienza, in grado di assicurare spazi significativi al dibattito critico, anche nel confronto ermeneutico fra “regione” e “nazione”. In tal senso la Collana intende coltivare il terreno talvolta impervio della storiografia letteraria fra Seicento e Novecento, su opere e autori attivi nel loro lungo dialogo con il mondo, senza mai obliare la formazione e la costruzione dell’Italia e degli ‘Italiani’, fra poesia e ideologia, in proposizioni individuali e in prospettive civili, con attenzione alle culture degli stati preunitari, dalle spinte innovative alla memoria collettiva. Come Collana di “Studi e Testi”, ogni volume può rappresentare una puntata approfondita e correlata di un discorso ermeneutico lungo i secoli della modernità letteraria, come corda sottesa fra i ricordati poli temporali (SeicentoNovecento). Una volta abbandonata la presunzione di abbracciare l’intero arco della letteratura italiana dalle origini a Dario Fo, permane l’ambizione di intraprendere un viaggio critico significativo, per procedere dai significati della “meraviglia” barocca al delta della reazione arcadica, dall’innervamento della coscienza illuministica alle voci e all’affermazione della civiltà romantica, dal ribellismo scapigliato alle nuances simboliste, sino alla società di massa, nel riconoscimento della crisi dell’intellettuale e nell’emersione di istanze di rinnovamento all’alba del XX secolo. Con il piacere e il bisogno della scoperta, la collana intende anche offrire la possibilità di avvicinare testi emergenti dal mare dell’incognito, nell’assunzione di responsabilità proprie di una critica militante, senza

ideologismi giustapposti, ma con vivo sentimento di apertura alla circolazione intellettuale e alla comunità interpretante. Certamente il panorama appena delineato appare ricco e in movimento, e proprio nella discussione delle relative problematiche di correnti e di periodi storico-letterari la Collana intende illustrare figure rappresentative e momenti caratterizzanti, fra ricezione e fortuna, nella tramatura in cui minori e maggiori si arricchiscono di distinzioni e al tempo stesso si aprono a inclusioni e integrazioni, fra dimensione nazionale e respiro europeo. Il titolo “Lune e falò” rivela subito quel tanto e non poco di suggestione pavesiana: richiama alla mente riferimenti mitici al ciclo delle stagioni, nel segno della “Luna” in grado di scandire tempi e modi del lavoro contadino. E richiama anche i falò, con il riferimento al calore vitale e alla dimensione sodale, nel procedere inarrestabile di una natura ritmica e forse amica, per cui l’accensione del fuoco diveniva rito propiziatorio in vista della stagione della raccolta, per piante e per frutti di nutrimento e di sostentamento. In più, la declinazione al plurale delle ‘Lune’ implica il passaggio e la trasformazione, il volto del cambiamento e la “mutabilità” connessi con le fasi e con l’influenza del satellite sui mari del pianeta; al contempo i falò rischiarano l’oscurità, illuminano la notte e presuppongono la luce dell’intelligenza e della ragione, luce in cui balenano immagini e vivono pure le idee e le emozioni. In tal senso la Collana intende dare spazio al discernimento dell’immaginario, a partire da diversi significati, per giungere a una coscienza condivisa e per attraversare i sentieri lungo i quali parole e metafore, immagini e simboli si associano e assumono senso, con la disponibilità a modificare la realtà, nella capacità di proporsi agli altri e di guardare il vissuto con occhi diversi, sensibili e profondi. Tra coscienza del mutamento e fiducia nella ragione, tra percezione diacronica e sentimento del tempo coevo, con il rigore del metodo e con l’intelligenza del lettore, la Collana punta a storicizzare investigazioni e scavi critici fra autori e opere di Letteratura italiana, in cui l’esegesi filologica e la testualità siano correlate alla dinamica sociale, senza negarsi la problematicità, al crocevia di culture in dialogo, in un’analisi ricca anche di apporti pluridisciplinari e pronta a cogliere l’autonomo sguardo dell’autore e lo svolgimento dipanato di relazioni civili, non di rado significativi per l’irto presente.


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In Vitro: l’amore per la lettura sin dai primi mesi di vita Antonella Lippo

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iccoli lettori crescono attraverso un progettolaboratorio, aperto e interattivo, che porta un nome emblematico, “In Vitro”, e che è approdato a Lecce e provincia, scelta con altri cinque luoghi, direttamente dal Centro per il libro e la lettura del Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo. Le aree coinvolte dall’iniziativa interessano l’intero territorio nazionale con le province di Biella, Ravenna, Nuoro, Lecce, Siracusa e un’unica regione, l’Umbria. Anche nel nostro territorio la prima fase del progetto si concluderà nel mese di gennaio e già si possono offrire spunti di riflessione su quelle che sono le ricadute di questa iniziativa. Il primo dato riguarda il coinvolgimento ampio di tutti i protagonisti della filiera del libro a partire da genitori ed educatori per riguardare anche i medici pediatri e quindi i bibliotecari e i librai. L’impegno assunto fra la Provincia e il Ministero è stato siglato da un vero e proprio Patto per con lo scopo di offrire ai bambini e alle loro famiglie gli strumenti necessari per accostarsi in maniera naturale ai libri. Come? Ad esempio attraverso una lettura ad alta voce, che diventa momento di relazioni, nutrimento, condivisione. E tale iniziativa ha ricevuto consensi autorevoli e acceso un dibattito a più voci sulla valenza pedagogica della lettura. Se per il giornalista e scrittore Corrado Augias la lettura diventa un atto seduttivo nel quale il genitore ogni sera leggendo una favola induce il bambino ad associare al libro la possibilità di nutrirsi di un mondo magico, altrimenti inesprimibile, per Francesco Sabatini presidente onorario dell’Accademia della Crusca i bambini vedono nella lettura una meravigliosa attività dei grandi, che li affascina i cui frutti di possono vedere nel tempo. E ancora, lo scrittore Mauro Corona sottolinea il valore pedagogico della lettura, che salva dalla marginalità e dalle situazioni a rischio, affermando che se nella casa di molti detenuti ci fossero stati dei libri e si fosse praticata la lettura alcune di queste persone oggi non sarebbero lì. E su questi temi abbiamo pensato di raccogliere le testimonianze di esperti che operano sul nostro territorio animando un dibattito intorno all’iniziativa di respiro nazionale. Per Mauro Marino instancabile operatore culturale e direttore con Piero Rapanà di un vero e proprio cantiere di riflessioni e conoscenza di poeti e scrittori, qual è il Fondo Verri a Lecce, “l’opportunità della lettura è sempre generante”. Lo è anche molto l’esperienza di un laboratorio di narrazione, che Marino segue in carcere, dove i detenuti raccontano la propria vita innalzando così il grado di consapevolezza sul proprio vissuto; riappropriandosi del valore della scrittura e della lettura ad alta voce. Esperienze analoghe sono state portate in carcere in più fasi e in alcuni casi si è passati anche dal gruppo di lettura alla drammaturgia dell’opera, così da rendere ancora più partecipi i lettori. Lo scrittore Livio Romano ha voluto rimarcare l’importanza della trasmissione del piacere della lettura: “nonostante possa sembrare apodittico parlare del valore dei laboratori di lettura ad alta voce con i bambini, ce n’è davvero un gran bisogno poiché sono proprio i bimbi i primi a lasciarsi molto coinvolgere dalle storie

lette bene e quindi questa dovrebbe essere una pratica quotidiana familiare, cosi come i libri stessi devono essere percepiti come oggetti di uso comune, che si possono quasi profanare, per sentirli veramente propri”. L’evoluzione e le fasi di questo progetto nazionale ci sono state spiegate invece dalla dott.ssa Valeria Dell’Anna referente di “In Vitro” per la Biblioteca Provinciale Nicola Bernardini: “la scelta è ricaduta su Lecce per varie ragioni. La prima risiede nel fatto che c’è una collaudata rete bibliotecaria provinciale; c’è anche un fattore geografico di cui tenere conto e una precedente esperienza acquisita con il progetto Nati per leggere. Per questo nuovo progetto In Vitro è stato previsto un coinvolgimento ampio del territorio; non solo asili nido, scuole, biblioteche, ma anche studi pediatrici che, se pure in numero minore rispetto agli altri soggetti, hanno aderito all’iniziativa. è importante rafforzare queste collaborazioni poiché il pediatra, ad esempio, è la figura che può spiegare meglio a livello scientifico il beneficio della lettura dai neonati in su. La risposta più interessante sotto il profilo numerico è stata data dalle biblioteche (40 in tutto) e dalle scuole dell’infanzia (73) e si sono create ben 75 piccole reti territoriali. In queste strutture sono stati distribuiti i primi kit di libri destinati ai bimbi dai 0 a 3 anni presso queste strutture. Si tratta di uno scaffale virtuale da cui da cui attingere letture di qualità, appositamente scelte da una èquipe nazionale. Genitori, bibliotecari, insegnanti e tutti coloro che sono impegnati nella diffusione della lettura tra i più giovani, trovano qui una bibliografia raccomandata, arricchita di informazioni e suggerimenti per ricerche e percorsi di lettura. Questa raccolta ha lo scopo di aiutare gli adulti ad orientarsi in un panorama variegato di proposte, per offrire ai più piccoli i prodotti migliori, nella consapevolezza che i primi anni di vita sono decisivi. Lo step successivo è quello di proseguire con la distribuzione dei kit di libri fino a sei anni e di formare gli operatori, anche puntando sulla figura del promotore della lettura per la quale si stanno avviando corsi di formazione proprio in questo periodo. Il momento clou finale di questa prima fase del progetto sarà quello di gennaio 2015 in cui si assisterà alla distribuzione alle famiglie di ben 4000 kit di libri da donare come benvenuto a tutti i nati del 2014”. Questo è tutto ciò che è garantito dall’avvio di questo importante progetto nazionale, ma come giustamente ha voluto ricordare Valeria Dell’Anna, l’aspetto su cui dover lavorare è la continuità da offrire rispetto all’iniziativa per garantire un servizio a tutti i neonati e bimbi; solo così si potranno crescere lettori felici. Questo l’auspicio per favorire la lettura nel nostro paese, che risulta essere fra i meno attivi e agli ultimi posti delle classifiche di vendite e letture dei libri. E per ricordare ancora il valore della lettura vorrei “adottare” una frase di Daniel Pennac: «L’uomo costruisce case perché è vivo ma scrive libri perché si sa mortale. Vive in gruppo perché è gregario, ma legge perché si sa solo. La lettura è per lui una compagnia che non prende il posto di nessun’altra, ma che nessun’altra potrebbe sostituire» (Come un romanzo, Feltrinelli, 1992)


generazioni di scritture

Accadere culturale: EVENTI

In vent’anni di Città del Libro

il Mare Nostrum delle lettere Teresa Romano

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are Nostrum”. Ovvero: “Storie di navigatori, santi e poeti”. Raccontate nel Salento, da vent’anni a questa parte, dalla Città del libro di Campi Salentina, la rassegna internazionale degli editori e degli autori del Mediterraneo. L’11 dicembre scorso il taglio del nastro nel centro fieristico di Campi, che ha dato il via a quattro giorni di appuntamenti, laboratori, presentazioni, incontri con gli autori e tutto quel che può essere riassunto sotto l’hashtag #machetipassaperlatesta? che quest’anno ha caratterizzato la manifestazione. Fabio Sirsi è il presidente della Fondazione Città del Libro, la onlus che organizza la rassegna. Lo abbiamo intervistato all’apertura di questa nuova edizione. Vent’anni di Città del libro: quale bilancio? Quali prospettive? “Il bilancio è complessivamente positivo dal punto di vista della costante crescita di partecipazione, soprattutto delle scolaresche, del livello dell’offerta culturale proposta e soprattutto dell’attenzione mediatica che ogni anno riceve la rassegna. Tuttavia, è inutile nascondere la polvere sotto il tappeto, le criticità di risorse e di bilancio sono importanti e determinanti nel tarpare le ali a una manifestazione che si potrebbe candidare ad essere di primaria rilevanza nazionale ed internazionale. Le prospettive, invece, sono strettamente legate a una necessaria caratterizzazione dell’evento che non può più essere generalista ma deve guadagnarsi una sua peculiarità. La mia idea è che si internazionalizzi, che da Campi Salentina parta un ponte sul Mediterraneo che unisca l’Italia a tutti i Paesi che si affacciano sul Mare Nostrum, che la Città del Libro sia un’occasione di approfondimento delle criticità sociali e politiche di tali nazioni, dove si possano conoscere autori stranieri testimoni delle proprie realtà, dove si cerchi di incidere sulle politiche editoriali attraverso convegni e dibattiti altamente qualificati. Con il libro al centro del dibattito”. E il territorio come risponde a una manifestazione di questo tipo, in un momento in cui il mondo dell’editoria, e non solo, è in crisi? “Il territorio purtroppo risponde con diffidenza, atteggiamento dettato dalla contingenza delle difficoltà di ogni giorno dovute alla crisi globale che stiamo subendo. Ma il libro, a mio avviso, dovrebbe servire anche a dare speranza, a far viaggiare la fantasia per fuggire dalla dura realtà, dovrebbe servire a far riflettere e, attraverso la riflessione, ognuno di noi dovrebbe interiorizzare una propria crescita, una sensibilità e un senso civico attraverso il quale contribuire a migliorare il Mondo. Con questo spirito cerchiamo di sconfiggere questa diffidenza, creando un’atmosfera di gioia e di festa intorno al libro”.


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In che misura enti, mondo accademico e associazioni partecipano alla rassegna? “Questa è un’altra criticità rilevante. Purtroppo bisogna, dopo vent’anni, fermarsi e riflettere sul ruolo che hanno avuto in passato e sul ruolo che dovrebbero, invece, avere. Bisognerebbe costituire una rete stabile e queste realtà culturali e sociali dovrebbero costruire insieme alla Fondazione la rassegna e non subirla passivamente. Per far ciò dobbiamo però cambiare il nostro statuto, ormai obsoleto, e studiare un metodo di coinvolgimento permanente”. Pur essendo da anni gestita da una Fondazione, la manifestazione non si è mai staccata dalla politica. Non crede che anche questo le abbia impedito di decollare come avrebbe potuto? Quanto la politica influenza le scelte della Fondazione? “Non credo che questo le abbia impedito di decollare, credo però che ciò rappresenti il più grosso limite culturale. Le ha sicuramente causato instabilità, ma questo aspetto si potrà sicuramente affrontare in fase di redazione del nuovo statuto. Certo è che la politica va tenuta a bada ma non si può prescindere da essa poiché, ad oggi, la Fondazione non ha la forza né l’autorevolezza per camminare con le proprie gambe”. Se qualcuno le chiedesse perché oggi un autore e un editore dovrebbero partecipare alla Città del Libro, cosa risponderebbe? “Perché non parteciperebbero semplicemente a una rassegna, ma a un’idea. Condividerebbero un progetto di riscatto del territorio e sarebbero accolti dalla rinomata ospitalità pugliese in un contesto culturalmente stimolante, di arte diffusa, di gioia intorno al Re Libro. E parteciperebbero a un evento con un notevole afflusso di pubblico e un’importante attenzione mediatica che la tradizione dei vent’anni ha ormai consolidato”.



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