Numero 1/2010

Page 1

1 Gennaio/febbraio 2010 – Anno XI

Reg. al Trib. di Napoli n. 5112 del 24/02/2000. Spedizione in abbonamento postale 70% Direzione Commerciale Imprese Regione Campania

Periodico della Fondazione Mezzogiorno Europa – Direttore Andrea Geremicca – Art director Luciano Pennino

QUALE BILANCIO DELLE “MACCHINE REGIONALI”?

QUANTITÀ DELLE RISORSE E QUALITÀ DEI RISULTATI

Biagio de Giovanni

Umberto Ranieri

Alla vigilia del voto, l’attenzione torna a convergere sul Mezzogiorno e sulla condizione di degrado molto seria in cui versa. Vien quasi da sorridere – se non fosse un sorriso assai amaro – pensando a tutte quelle ricerche e riflessioni che volevano convincerci che… …continua a pagina 3 Ê

Al presidente della Repubblica va il merito di aver riportato con il discorso su “Mezzogiorno e unità nazionale” pronunciato a Rionero in Vulture, il tema del superamento dei divari tra Nord e Sud al centro del dibattito politico. Nel suo recente intervento all’Accademia dei Lincei… …continua a pagina 5 Ê

Check up regioni Compariamo per le singole regioni gli indicatori riferiti all’economia, al mercato del lavoro, all’istruzione e alla sicurezza sociale nelle schede di indagine dell’Istat. A pagina 13 Ê

Il Mezzogiorno giunge al voto del 28 marzo in grave affanno Bd’I – Eurosistema Il Mezzogiorno e la politica economica dell’Italia Svimez Indagine conoscitiva sull’efficacia della spesa e delle politiche di sostegno alle aree sottoutilizzate Chiesa italiana e Mezzogiorno. Per un paese solidale Confindustria Il Sud aiuta il Sud Da pagina 23

Ê

Ivano Russo

Affanno economico, anzitutto, con la recente crisi che ha prodotto effetti più devastanti proprio laddove il tessuto produttivo nel suo insieme – imprese, banche,

mercato del lavoro, business home – si presentava già più debole e frammentato. Ma anche affanno politico, considerato… …continua a p. 7 Ê

La recensione di Marco Plutino

Il Convegno promosso da “Mezzogiorno Europa” e “FareFuturo”

Per una buona politica nel Mezzogiorno

Il patto che ci lega Per un profondo rinnovamento delle classi dirigenti a pagina 11

Ê

Giorgio Napolitano a pagina 41 Ê


Internet, telefono,Tv o cellulare? Tutti e quattro.

FASTWEB si è fatta in quattro per te, ora è il tuo momento. Non più solo internet, telefono e Tv: da oggi puoi fare un altro passo avanti. Come? Fatti il cellulare FASTWEB. Anche perché sottoscrivere quattro servizi con un unico operatore non solo semplifica la vita, ma conviene. Entra anche tu nell’unica famiglia che può darti tutto questo: FASTWEB.

www.fastweb.it

chiama

192 192

Per info su copertura, costi di attivazione, tcg e offerta, visita www.fastweb.it, chiama 192 192 o rivolgiti presso i punti vendita.


dalla prima pagina Ê

…il Mezzogiorno o andava “abolito”, o non costituiva più un problema complessivo e si colorava delle macchie del leopardo, o esauriva i propri tratti specifici in una generica globalizzazione germinante dal rigetto di ogni storicità. Ma la realtà è dura, e resiste ai tentativi di nasconderla. La storia replica duramente ai vari ideologismi. Ora il Mezzogiorno sta lì, davanti ai nostri occhi, nella asprezza delle sue condizioni, nei fallimenti delle politiche che lo riguardano, nella miseria generalizzata delle sue classi dirigenti, nel rischio di una marginalizzazione senza più vera speranza. Ricordiamo con qualche nostalgia la fase lunga dei grandi dibattiti che lo toccavano nel profondo della sua storia, e che comunque aggregavano intelligenze e formavano classi dirigenti. Ora, a un assordante silenzio di proposte concrete, si accompagna lo scomparire di gran parte del Sud in zona altamente depressa, in desertificazione della cultura, in “cultura” della criminalità organizzata, vero stato nello Stato, in fuga dei giovani, in scomparsa di un impegno

Il lavoro come elemento

33

»

35

»

41

»

44

Recensioni

Giorgio Napolitano Il patto che ci lega, Il Mulino

Marco Plutino

33

il 2013 sarà la data conclusiva per l’afflusso dei fondi strutturali europei, e che da quel momento le risorse del Mezzogiorno saranno solo quel- Se non si riscopre le provenienti dal centro o dalla sua il Mezzogiorno produttività interna. E su questo siamo ancora inchiodati a una domanda non c’è speranza che implica un giudizio storico e polie dato che non tico sulle classi dirigenti meridionali: perché sono fallite nel rapporto con esistono più partiti l’Europa? Perché mai non è avvenuin grado di farlo ta da noi la stessa cosa che altrove è possibile che ha prodotto processi di modernizzazione e di sviluppo? Eppure, la quanquesto compito tità di risorse giunte nel Sud è stata sia assunto superiore a tutte quelle del passato: un fiume di denaro senza precedenda Fondazioni ti che fa giustizia di tanti luoghi coattrezzate muni. La risposta ci fa entrare subito nella crisi meridionale: perché quel culturalmente risultato si producesse sarebbe stata necessaria una visione strategica Biagio de Giovanni del Sud nelle sue varie fisionomie, necessario –per fare forse l’esempio che più scotta- individuare un ruolo per Napoli, una ridefinizione della sua fisionomia dopo la conclusione della sua storia industriale. Solo a questa condizione, l’Europa poteva innervar- corrispondente, senza la dimensiosi in una strategia “locale”. Senza un ne della storicità dei problemi, mille pensiero strategico, e una cultura rivoli e canali e clientele e notabilati

sommario

portante della Repubblica e fattore di sviluppo del Paese

Antonio Duva

etico-politico che lo prenda ad oggetto di pensieri e di iniziative capaci di ricostituire il senso di una coscienza civile. L’Italia è più che mai divisa in due, la coesione nazionale è sempre più in pericolo, e l’unico partito italiano degno di questo nome, la Lega, è nato in definitiva sulle macerie di un meridionalismo sconfitto. Non posso nascondere che sono questi i pensieri che mi premono dentro, alla vigilia di un voto che dovrà rinnovare le amministrazioni regionali del Mezzogiorno e anche alla vigilia del centocinquantesimo dell’unità d’Italia, quando la memoria di quella grande rivoluzione nazionale che fu il Risorgimento sembra immergersi opacamente nell’ombra. Troppo pessimismo? Certo, a entrare nel merito di singole questioni e nelle differenze che pur ci sono tra singole regioni e città, il quadro sommariamente delineato potrebbe subire varie correzioni. La realtà non si tinge mai solo di nero. Ma è questo che veramente importa, o non importa piuttosto sollevare un vero grido di allarme per lo stato complessivo delle cose? Varrebbe ancora la pena di ricordare una ennesima volta che

Euronote

Andrea Pierucci

Le immagini che illustrano questo numero sono illustrazioni editoriali americane di autori vari.


erano pronti ad assorbire denaro e a mortificare competenze, tutto disperso in progetti insignificanti e senza capacità di indurre sviluppo. Così è avvenuto, e non poteva essere diversamente. E forse c’è un problema ancora più generale da mettere a fuoco. Quale bilancio si deve fare delle “macchine” regionali? L’impressione è che ci troviamo dinanzi a un fallimento abbastanza generalizzato, nel senso che le burocrazie regionali sono in generale più scadenti di quelle statali, più pletoriche e meno produttive. Un primo gran problema sarebbe quello di ricostituire delle élite burocratiche capaci di governo, ma l’Italia non è la Francia dove le grandi scuole di amministrazione permettono a quello Stato un continuo ricambio del ceto di governo nazionale e locale. A questo si aggiunge che la fine dei partiti, di quelli una volta innervati nel territorio e forniti di una cultura tagliata sui problemi del Mezzogiorno, ha implicato uno scadimento anche del ceto politico, composto spesso da boss senza patria e senza fede in una idea, e la qualità degli eletti (con le dovute eccezioni, ma sempre più rare) è precipitata a un livello per molti aspetti disperante e certo senza precedenti. Questi sarebbero i primi problemi da affrontare, giacchè è anzitutto dall’alto che si può avviare un rinnovamento politico-amministrativo. Per ora, non se ne vedono i segni, a dirla francamente. Ho l’impressione, per giungere all’oggi, e senza voler dare un giudizio generalizzato sulla qualità delle liste amministrative, che la campagna elettorale non abbia ancora prodotto quel tessuto minimo di idee concrete capaci di aggregare competenze e gruppi che lascino immaginare una vera discontinuità. Ma se non si rompe qualcosa nella macchina amministrativa, compatibilmente con i diritti costituzionali acquisiti, nulla può veramente cambiare. C’è una minima possibilità in questo senso? c’è una sia pur latente intenzione? E di chi? Bisognerà pur sollevare questo

4 tema ingrato, ma pesante, un tema che giunge a farci dubitare della democraticità delle “autonomie locali”, se vogliamo liberarci almeno per un momento dal “politicamente corretto”. E che cosa avverrà a federalismo imperante? Ci si rende conto che tutta l’ipotesi federalista è legata alla qualità delle classi dirigenti che lo governeranno? Meglio non pensarci, è cosa da incubi notturni. Insomma, da un lato il nostro territorio appare piuttosto vuoto, impresa e lavoro latitano, servizi e infrastrutture sono scadenti, le lungaggini della giustizia, e delle licenze per avviare impresa, impediscono investimenti dal Nord o dall’estero; dall’altro, in questo vuoto, si annida il nihilismo della criminalità organizzata (stato nello Stato, dicevo), che ha spesso collegamenti organici con i boss senza fede e senza patria. Il gioco fra economia legale e illegale diventa giorno dopo giorno più inquietante. Che cosa altro deve avvenire perchè scatti la campanella della salvezza, secondo il celebre verso del poeta? Ho nominato la parola “terrritorio”, parola anch’essa ingrata e ambigua, insieme neutrale e ideologica. La Lega ne ha fatto la sua bandiera, destinata a sventolare probabilmente su regioni e città. Ma bisogna riflettere. La Lega ha compreso sicuramente la fase di crisi del meridionalismo parassitario per insediarsi solidamente al governo di città, in una simbiosi di miti politici e riduzioni “ammnistrative” della politica, ma in un quadro strategico ben preciso. Il terrritorio ha giocato un ruolo assai importante per solide aggregazioni delle piccole patrie. Ma non dimentichiamo che la Lega ha una idea intorno alla quale è nata, e ha contribuito a creare intorno a essa un senso comune. La questione settentrionale e il rigetto del parassitismo, concentrato soprattutto nel Sud, hanno fatto da punto d’unione, fra mitologia padana e logos politico effettivo e realistico. Il territorio non ha dunque valenza per sé. Esso va pensato, e ci vuole un cervello per

pensarlo. C’è oggi un cervello politico pensante nel Mezzogiorno? Che possa pensare il territorio meridionale, le sue specificità, le sue connessioni, la sua capacità di relazione, le sue introversioni? Se non si riscopre il Mezzogiorno, non c’è speranza, e dato che non esistono più partiti in grado di farlo (da nessuna parte: anche qui esco dal “politicamente corretto”?) è possibile che questo compito sia assunto da fondazioni attrezzate culturalmente. Il Convegno sul Mezzogiorno che si è svolto a Napoli all’Unione industriali (in collaborazione tra Fare Futuro e MezzogiornoEuropa) ha dato indicazioni interessanti in questa direzione, ha aggregato forze, ha stabilito collegamenti, mostrato possibili vie di ricerca. È una strada da percorrere, e forse altra oggi non c’è. Nessuno sa precisamente che cosa è diventata la società meridionale, da quali sentimenti è effettivamente percorsa, quali vitalità si muovono nella profondità della sua crisi. Si riparta da qui, dall’ analisi. Dalla cultura. Dalle idee. Poi forse, chissà, si troveranno anche le gambe per farle camminare, gli uomini per renderle viventi passioni. Non saprei immaginare da dove verranno questi “homines novi”, ma forse verranno, dalle nuove generazioni, e dalle vecchie che si sono scoraggiate a appartate; aspettano un segnale, sanno che si è a un punto di svolta, che la crisi morde oltre ogni dire, che il Mezzogiorno rischia di sprofondare in quel mare Mediterraneo che tante volte (ma retoricamente) è stato indicato come luogo della sua salvezza, per apprendere, oggi, che Milano, non Napoli, è diventata città “mediterranea” per i rapporti che ha saputo istituire. Se non si terminasse con una parola di fiducia, si dovrebbe pensare che il mondo finisce, ma siccome non è così e un fondo

sembra che si sia toccato e forse non c’è molto da raschiare in questo fondo, è possibile che si ricominci a risalire e che la partita si riapra, e termino con questa un po’disperata speranza.


5 dalla prima pagina Ê

…inoltre, Giorgio Napolitano ha ricordato che “la condizione del Mezzogiorno pone il più preoccupante degli interrogativi per il futuro del Paese” e ha insistito sul fatto che lo sviluppo del Sud è “una condizione…essenziale per garantire all’Italia un più alto ritmo di sviluppo e livello di competitività”. Sarebbe necessaria una svolta nella politica del governo verso il Mezzogiorno. È altamente improbabile tuttavia che il governo, condizionato da un movimento come la Lega, possa produrla. A conferma di ciò basti ricordare quanto di paradossale è accaduto negli ultimi due anni. Dal maggio del 2008 il governo nazionale ha finanziato parte dei propri interventi con tagli alla spesa per investimenti nel Sud. A conti fatti circa 20 miliardi di euro. Che la ricostruzione in Abruzzo sia quasi totalmente finanziata da fondi destinati alle regioni in ritardo di sviluppo, che con gli stessi fondi siano state pagate le multe per le “quote latte” dei coltivatori del Nord, sembra non suscitare alcuno scrupolo al Nord! La verità è che non c’è una politica del governo per il Sud. Il piano per il Mezzogiorno annunciato dal ministro Scajola come imminente è stato ancora rinviato. Il governo cerca di farsi un po’ di propaganda a buon mercato insistendo su due punti: un progetto generico e vago di Banca per il Sud che nasconde, come sostiene Mariano D’Antonio, il rischio di un ritorno alle esperienze non brillanti degli istituti di credito di diritto pubblico nel Mezzogiorno; un po’ di retorica sul federalismo fiscale malgrado allo stato attuale manchino i dati in gradi di quantificare gli effetti del federalismo in termini di redistribuzione territoriale delle risorse. Non c’è consapevolezza nel centro destra che l’avanzamento economico e civile dell’Italia non può prescindere dalla persistenza di un divario territoriale di eccezionale dimensione e durata. Stenta a farsi strada la convinzione che non c’è alternativa al crescere

Il governo resta prigioniero della vecchia idea che sia sufficiente far ripartire la locomotiva del Nord per rimettere in moto il Paese Umberto Ranieri

insieme di Nord e Sud, che senza il recupero allo sviluppo delle regioni meridionali, l’obiettivo di uscire dal ristagno dell’ultimo decennio elevando il tasso di crescita dell’economia italiana appare del tutto velleitario. Il governo resta prigioniero della vecchia idea che sia sufficiente far ripartire la locomotiva del Nord per rimettere in moto il paese. Per sconfiggere tali orientamenti e affermare l’idea del carattere prioritario del superamento del divario, occorre tuttavia rispondere ad un interrogativo: perché, nonostante il volume di risorse investite nel corso degli anni, il divario tra Nord e Sud si aggrava? Intendiamoci, la spesa pubblica in conto capitale destinata al Mezzogiorno è stata negli ultimi anni inferiore a quanto programmato e tuttavia questo dato non può oscurare il fatto che, negli anni 2000/2006, le risorse finanziarie attri-

buite all’area meridionale mediante i Fondi strutturali siano state cospicue: oltre 46 miliardi di euro. E gli stanziamenti destinati al Mezzogiorno negli anni tra il 2007 e il 2013 ammontano a quasi 101 miliardi. Il paradosso è che, mentre altre regioni europee in ritardo di sviluppo hanno recuperato terreno crescendo del 3% annuo, il Sud dell’Italia è rimasto fermo ad appena lo 0,3% annuo. Come si spiega? La verità è che i Fondi europei sono stati spesi poco e male. In questa situazione, una battaglia per il Sud che ruotasse unicamente intorno al tema della carenza di risorse non condurrebbe molto lontano. Occorre spostare, come suggerisce Mario Draghi, l’accento nella politica per il Sud, dall’enfasi sulla

quantità delle risorse alla qualità dei risultati e impegnarsi per far fruttare appieno le risorse disponibili. Un rilancio della battaglia politica e culturale per il Sud dovrebbe fare leva sui risultati delle ricerche di quegli studiosi che hanno sottolineata l’esigenza di superare una lettura eccessivamente economicistica dello sviluppo del Mezzogiorno. Come sostiene Carlo Trigilia “occorre guardare alla cultura, alla società, alle istituzioni”. Lo sviluppo è un fenomeno che ha cause non solamente economiche. È l’offerta inadeguata di beni pubblici di base come sicurezza, giustizia, cultura civica, qualità della pubblica amministrazione, all’origine della debolezza che ha soffocato l’economia del Mezzogiorno, ha reso più bassa la propensione all’imprenditorialità, più alto il costo del credito. Come hanno scritto in un loro recente libro Luca Bianchi e Giuseppa Provenzano, due giovani e valorosi studiosi della realtà meridionale, “ i servizi pubblici devono essere considerati


elementi fondanti delle condizioni di competitività del Mezzogiorno nel medio e lungo periodo”1. Innalzare i livelli di conoscenza e di competenza dei giovani migliorando la qualità dell’istruzione, aumentare l’offerta di servizi per l’infanzia e dei servizi socio sanitari per le persone non autosufficienti, migliorare il servizio idrico integrato e la qualità dell’ambiente a cominciare dalla gestione dei rifiuti, diffondere valori civici, combattere l’illegalità. Questa la strada per promuovere lo sviluppo del Mezzogiorno. Questa è anche la strada per attirare nel Sud nuove risorse private: solo lo 0,7 degli investimenti diretti giunti in Italia negli ultimi due anni si è indirizzato al Mezzogiorno. Senza la capacità di attrarre investimenti dal Nord e dall’estero, il Sud non conoscerà un processo autonomo di sviluppo. Si tratta insieme, di accrescere la dotazione di servizi di base nelle regioni meridionali e di lavorare per giungere ad una fiscalità di vantaggio che faccia da leva allo sviluppo. Di fronte alle conseguenze della crisi economica, le istituzioni comunitarie potrebbero adottare una maggiore flessibilità circa la possibilità di applicare politiche fiscali differenziate nel Mezzogiorno. In questo quadro andrebbe valutata la proposta avanzata da Pierluigi Bersani di introdurre per dieci anni un credito di imposta stabile ed automatico per gli investimenti nel Sud che creano occupazione. Per quanto riguarda le risorse necessarie per operare in tali direzioni, una risposta può venire dal reintegro delle risorse in questi anni sottratte al Sud, e da una riprogrammazio-

6 ne dei fondi europei in funzione del potenziamento del capitale sociale nel Sud. Sul punto delle risorse tuttavia occorre essere chiari: il federalismo fiscale è una sfida che il Mezzogiorno intende raccogliere. Esso può rappresentare, come ha spesso ripetuto Giorgio Napolitano, un banco di prova della capacità di autogoverno delle popolazioni meridionali. Il federalismo tuttavia non può ridursi ad una sorta di passaggio delle consegne per abbandono da parte dello Stato centrale. Le Regioni devono perseguire obiettivi e risultati nel campo dei servizi pubblici, far fruttare appieno le risorse, ma lo Stato centrale deve farsi carico delle situazioni

di svantaggio e fornire le risorse aggiuntive necessarie. Una nuova politica per il Sud non può eludere il nodo della riforma nelle regioni meridionali dell’agire politico. Va combattuta nel Sud la politica che si trasforma in macchina per l’acquisizione di consenso attraverso la distribuzione di benefici particolaristici. Va cancellata la piaga sociale della “intermediazione impropria” esercitata dal ceto politico. In realtà, come scrivono acutamente Bianchi e Provenzano, “la politica ha svolto nel Mez-

zogiorno funzioni da cui avrebbe dovuto astenersi e si è astenuta da quelle che avrebbe dovuto svolgere”. Occorre che la politica torni al suo ruolo originario: indirizzare; definire le regole entro cui agiscono i soggetti sociali; assumersi la responsabilità di scelte nel nome degli interessi generali. Va promosso infine un personale politico locale orientato a dare risposte a problemi collettivi. Da questo

punto di vista non è questione secondaria la revisione dello status di quanti sono eletti nelle assemblee rappresentative. Su questo punto è difficile non convenire con quanto sostenuto da Mariano D’Antonio: “Quando le indennità degli eletti e degli amministratori della cosa pubblica sono eccessivamente alte rispetto al reddito medio della popolazione, quando i benefici accessori di cui godono i politici sono generosi e il tutto non è giustificato dalla necessità di assicurare la loro autonomia dai gruppi di pressione, quando si crea una casta di ben pagati, i politici sono indotti a cercare ossessivamente i consensi per essere rieletti attivandosi nel promettere e nel concedere benefici a gruppi di elettori piuttosto che a tutta la cittadinanza. I politici perciò si dedicano all’intermediazione impropria”. Non è scandaloso che un consigliere regionale della Campania o di altra regione del Sud riceva una indennità mensile di oltre tredicimila euro? Il vero problema è costruire nel Sud le condizioni di una politica più orientata all’interesse generale. Chi sperpera denaro pubblico va sanzionato sempre e in modo automatico senza discrezionalità fino alla ineleggibilità degli amministratori locali responsabili di dissesto finanziario. Serve inoltre un governo centrale interessato all’efficienza della spesa locale. Il contrario di quanto accaduto nell’ultimo anno, quando il governo nazionale ha trovato i soldi per finanziare lo sfascio di Catania e Palermo ed evitare il commissariamento della sanità in Sicilia per mantenere equilibri politici nazionali. Se questo è l’andazzo, per quale ragione un governo locale in una situazione difficile come il Mezzogiorno dovrebbe sobbarcarsi alla fatica di migliorare la qualità dei servizi? 1 Luca Bianchi, Giuseppe Provenzano, Ma il cielo è sempre più su?, Alberto Castelvecchi Editore, Roma 2010.


7 dalla prima pagina Ê

…che i due principali contrapposti schieramenti non sono riusciti ancora né a maturare una compiuta nuova proposta politico amministrativa meridionalista, né a proporre all’elettorato una rinnovata e più qualificata classe dirigente in grado di interpretarla. Nell’ultimo anno non c’è stato studio o rapporto sul Mezzogiorno – da Banca d’Italia a Confindustria, da Civicum a Svimez e fino alle rilevazioni Istat – che non abbia segnalato quanto, anche su materie di stretta competenza regionale o laddove le regioni abbiano ricevuto enormi risorse per mettere in campo politiche pubbliche (formazione, sanità, ambiente, turismo, cooperazione territoriale) i risultati non siano stati sostanzialmente negativi. Certo, sarebbe una scorretta semplificazione non sottolineare anche talune diversità tra regioni e regioni, o non dare il giusto risalto ai tanti elementi di eccellenza che pure costellano qua e la il territorio. Ma se per scelta politica e culturale ci si approccia al tema Sud considerando questo una macroregione europea e non la sommatoria di quattro – cinque distretti amministrativi confinanti, non è possibile non partire da un critico e preoccupato sguardo di insieme. Pur parlando di ritardo del Mezzogiorno e di “economia duale”, in premessa, sarebbe utile sottrarsi in questa riflessione al dibattito un po’ semplificatorio tra esclusivi censori delle classi dirigenti meridionali e prevalenti fustigatori del progressivo disinteresse nazionale nei confronti del Sud che pure è innegabile, certificato, documentato. Le due cose stanno insieme in un perverso rapporto di causa – effetto, dove l’una è diventata la capziosa motivazione dell’altra, ma dove entrambi i fattori – considerato che gli errori si sommano e non si annullano – finiscono per scaricarsi negativamente sulle spalle e sul futuro dei cittadini. Sulla scorta dell’ultimo Rapporto Svimez sull’economia meridionale,

È chiaro che nel Mezzogiorno qualcosa non ha funzionato nell’ultimo decennio Ivano Russo

presentato nel 2009, si provi anche a guardare “dentro” il Mezzogiorno per capire – a parità quindi di condizioni complessive Sud-Sud – come stavano andando le cose prima della crisi. A livello regionale la Campania mostra una diminuzione del PIL particolarmente elevata ( – 2,8%), le altre regioni presentano perdite più contenute, e tra queste la Puglia risulta essere la meno colpita (-0,2%). In agricoltura, positiva è stata la performance della Basilicata (+ 24%), bene anche i dati di Abruzzo, Molise e Puglia, crescita solo lieve per la Sicilia (+2,9%), segno meno, invece, per la Calabria (-0,8%) e vero e proprio tonfo della Campania (-1,8%). Il trend generale abbastanza positivo della crescita dell’export, guidato dai risultati di Molise (+105%) e Basilicata (+ 98%), registra tuttavia un netto distacco tra questi due territori e la restante parte – ben più poderosa ed estesa – del Mezzogiorno e stesso discorso vale per il settore turismo: Sardegna e Puglia hanno trainato la crescita del comparto con rispettivi +12,5% e +11,2% e la Campania ha fatto registrare un più modesto +3,3%, pur ospitando circa la metà dei grandi attrattori turistici meridionali. Ma tale

comparto potrebbe, quasi da solo, fare da driver per l’intero PIL meridionale, se ovviamente messo in valore con modalità sistemiche e industriali in termini di servizi avanzati, innovazione di prodotto, integrazione territoriale. Al contrario, la rigenerazione e salvaguardia del patrimonio naturale e del territorio – precondizione per qualunque politica seria sul turismo – sembra non essere una priorità. Due dati su tutti: la Campania è la regione con la più alta percentuale di acque non depurate (11,5%), nonché terzultima in merito alle azioni di contrasto rispetto al rischio sismi, frane ed erosioni che comunque devastano l’intero Sud, da Ischia a Messina. Nel comparto energia, poi, sempre la Campania è al poco invidiabile secondo posto per tasso di interruzione di energia elettrica e addirittura penultima nel Sud – dopo Molise, Calabria, Basilicata e Puglia – per diffusione di fonti rinnovabili. In tema di servizi innovativi e infrastrutture immateriali offerti ad imprese e cittadini, il Mezzogiorno è ben lontano dal dotarsi di un piano regolatore delle reti, della banda larga, della connettività, fattori oggi considerati cruciali per poter competere sui mercati delle nuove produzioni. Per quanto attiene poi ad alcune specifiche funzioni legate alla Pubblica Amministrazione, ad esempio “per progettare e affidare i lavori di una infrastruttura, sono necessari in Italia 900 giorni risultanti dalla media di diversi valori regionali”: prima la Lombardia (583 giorni), ultime Campania e Sicilia (con 1.100 giorni e 1.582 giorni). Ovviamente anche le prestazioni pubbliche ed i servizi legati al welfare, a partire dalla sanità, sono i peggiori nel rapporto costi – benefici per i fruitori.

Venendo al tema “mercato del lavoro”, per il terzo anno consecutivo, sempre nel 2008, si registrano risultati positivi per Molise (+1,6%), Puglia (0,3%), Abruzzo (3,2%), mentre crollano gli occupati in Campania (-2,2%) e Calabria (-1,2%) e negli ultimi due casi, in particolare e in controtendenza, si registra il crollo anche degli occupati del settore servizi (-1,4%). La Campania detiene i non invidiabili primati del più alto numero in valore assoluto di lavoratori irregolari e “in nero” (329 mila) e il record delle emigrazioni verso il Nord o l’Europa di lavoratori e giovani talenti alla ricerca di una opportunità professionale (25 mila nel solo 2008, circa 270 mila nel decennio 1997 – 2008). In tutto il Sud, infine, lavora meno del 40%


della popolazione, e le donne in attività sono solo 4 su 10, in questo caso il record negativo spetta alla Sicilia. Le più recenti rilevazioni, per quanto frammentate e non ancora in grado di fornirci un quadro di insieme, ci dicono tuttavia che, come era ampiamente prevedibile, la crisi economico-finanziaria del 2009 ha livellato verso il basso, quasi appiattito, tutti gli indicatori ed oggi, in un Paese complessivamente in difficoltà e dove la ripresa stenta a mostrarsi, la sua parte più debole sconta condizioni di sostanziale arretratezza oramai quasi non più recuperabili. È chiaro che qualcosa non ha funzionato nell’ultimo decennio. E decidiamo di prendere in considerazione tale arco temporale di riferimento anzitutto perché caratterizzato da ben due cicli di spesa dei fondi strutturali: Agenda 2000 e la programmazione 2007 – 2013. E il primo grande tema da porre è proprio quello della qualità della spesa dei fondi europei che, chiudendosi il Ciclo 2000 – 2006 con il cofinanziamento di 245 mila progetti di importo medio pari a 220 mila euro, lascia ovviamente molto a desiderare in termini di strategicità, lungimiranza, utilità e sovraregionalità degli interventi prodotti. Tra l’altro, come segnalava il Rapporto Eurispes del marzo 2009, le regioni meridionali – già in regime di proroga – hanno rischiato di perdere circa nove miliardi di euro, solo in parte poi recuperati, per progetti mai presentati a Bruxelles. Anche sulla spesa 2007 – 2013 ci sono gravi ritardi, se è vero che di vera e propria “cantierizzazione” di interventi non vi è ancora traccia e che anche il solo semplice “impegno di spesa” è fermo, nell’insieme delle Regioni Obiettivo Convergenza, ad una percentuale di poco inferiore al 5%. Ciò rende ovviamente più difficile anche qualsiasi azione rivendicativa sulla redistribuzione delle risorse lungo le direttrici politiche Europa – Sud, e Nord – Sud Italia. Uguali limiti si sono registrati sul tema, in parte attinente, della più com-

8 plessiva qualità delle strutture amministrative locali. Dieci, quindici anni avrebbero potuto rappresentare un tempo oggettivamente sufficiente per modernizzare gli apparati burocratici regionali e delle grandi città del Sud. Ovviamente inserendo strutturalmente ove possibile giovani laureati, competenze, saperi, professionalità, in grado di aiutare i livelli istituzionali locali a misurarsi con le complesse sfide del governo di oggi: internazionalizzazione, cooperazione internazionale, strumenti di finanza locale, progettazione comunitaria, innovazione tecnologica, attrazione di capitali. Lasciando troppi di questi ambiti di intervento, invece, in gestione più o meno esterna a vecchi carrozzoni locali para pubblici, società controllate, agenzie, o a consulenze estemporanee, si sono sostanzialmente aggravati i costi per la collettività, con scadenti risultati, e senza nessun accrescimento reale di competenze dentro le amministrazioni. Anche sulla formazione professionale nel Mezzogiorno, probabilmente, occorrerebbe tentare strade nuove. Nel corso degli ultimi dieci anni si è alimentato un mercato delle preferenze piuttosto che un mercato del lavoro, la formazione professionale è stata utilizzata come una sorta di ammortizzatore sociale aggiunto, e le nuove risorse del FSE andrebbero utilizzate – sul modello di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna – con il principio della “dote alla persona”. Consentendo cioè al lavoratore espulso di rivolgersi liberamente, per il proprio percorso di riqualificazione e reinserimento occupazionale, a soggetti pubblici o privati, enti di formazione o agenzie per il lavoro, e vincolando rigidamente l’assegnazione – erogazione del voucher formativo solo al momento della reale ricollocazione del lavoratore stesso. Infine, non essere riusciti a creare un meccanismo virtuoso di circolazione delle informazioni e affiancamento per le imprese e gli altri attori economici, sociali o culturali, sulle opportunità europee, ha rappresentato forse uno dei limiti più gravi del sistema di

governance pubblica locale. Abbandonando qualunque cultura competitiva e incentrata sul merito della progettazione, ci si è adagiati su una visione “bancomat” dei soli fondi strutturali. In questo modo i Programmi a Sportello Bruxelles, i Progetti legati alla rete MEDA, i Twinning, i Programmi Quadro per la Ricerca e l’Innovazione, i fondi per la Politica di Vicinato, il Fondo UE per contrastare gli effetti distorti della globalizzazione, l’Erasmus per i giovani imprenditori e tante altre opportunità sono rimaste ampiamente, nel Mezzogiorno, chances sconosciute, solo in minima parte utilizzate, e mai comunque in una logica di sistema. Recentemente il Governatore Draghi ha assunto sull’insieme della condizione meridionale oggi posizioni limpide: “ occorre spostare l’enfasi dalla quantità delle risorse alla qualità dei risultati e fare fruttare le risorse che ci sono già”, e inoltre: “la spesa pubblica primaria che viene convogliata a vario titolo nel Sud è imponente, al confronto delle risorse utilizzate per le politiche regionali”, e che queste hanno ottenuto comunque “scarsi risultati” indebolite da “localismi, frammentazione degli interventi, difficoltà ad individuare priorità, sovrapposizioni delle competenze dei vari enti pubblici”. Caso eclatante, quello della sanità, dove “il divario deriva chiaramente dalla minore efficienza del servizio reso, non da una carenza di spesa”, e altri casi simili riguardano il trasporto locale, la gestione dei rifiuti, la distribuzione idrica, il mercato del lavoro, “la minore efficacia della Pubblica Amministrazione”. Ancora più nette le riflessioni proposte al dibattito pubblico, nelle ultime settimane, dal Professor Trigilia. Secondo questi, nel Mezzogiorno un’attività redistributiva di massa intermediata impropriamente dalla politica, ha diviso spesso le risorse tra gruppi clientelari e interessi particolaristici piuttosto che concentrarle su grandi obiettivi impersonali legati al bene comune: a partire da ambiente e istruzione.

Avrebbe preso così corpo un “capitalismo politico” tipico delle realtà a basso capitale sociale, e che alimenta, nel Sud, “il circolo vizioso” tra la modalità di raccolta del consenso, l’assenza di un voto esigente, la scarsa qualità della politica e dell’amministrazione. In questo schema, “la politica” – mal’intesa come manovra autoreferente e posizionamento tattico di ceto, forze, partiti, preferenze, clientele – è tutto, al contrario “le politiche” – cioè le concrete scelte di governo – non interessano a nessuno. Le considerazioni del Governatore Draghi sulla totale “mancanza di qualità” nella spesa pubblica locale, gli spunti offerti da Trigilia sul “consolidamento di un vero e proprio blocco politico sociale clientelare attorno alle risorse destinate al Sud dal Centro e dall’Europa”, le analisi di Barucci “sull’intermediazione politica impropria” dilagante nei territori, le stesse considerazioni di Salvati sulla “politica” nel Mezzogiorno ormai “parte del problema e non possibile soluzione”, rappresentano una robusta cornice culturale di riferimento. Perché una nuova stagione per il pensiero meridionale, che non rinunci alla critica dura rispetto a posizioni e comportamenti incoerenti da parte dei Governi nazionali, ha bisogno quindi di autorevolezza e credibilità. Ovviamente serve rivendicare un’adeguata politica nazionale per il Mezzogiorno, ma se le risorse ordinarie trasferite dal centro – per quanto insufficienti – sono utilizzate male, quelle derivanti dalla fiscalità locale ancora peggio, e i fondi europei dissipati, ha poca credibilità la stessa rivendicazione. E infatti, demagogicamente, sta diventando senso comune il convincimento per cui “meglio sprecare 5 che sprecare 10”, e quindi sarebbe inutile continuare dal Centro a riversare risorse pubbliche in una “pentola bucata”. L’affermazione, a livello politico decisionale, di una simile e rozza visione propagandistica rappresenterebbe la pietra tombale per qualunque speranza di emancipazione del Mezzogiorno.




11

La preoccupante e generale caduta di attenzione nei confronti del Mezzogiorno vede, più o meno inconsapevolmente, lo stesso Mezzogiorno in buona parte corresponsabile. Se è vero che negli ultimi dieci anni i trasferimenti dal centro verso le aree tradizionalmente in ritardo di sviluppo – così come i grandi investimenti pubblici – si sono rivelati ampiamente insufficienti, è pur vero tuttavia che le risorse nazionali, endogene, o europee gestite localmente sono state in larga parte poco e male utilizzate. Occorre spostare l’attenzione dalle rivendicazioni quantitative alla qualità dei risultati prodotti. Il Sud Italia cresce meno, proporzionalmente alle risorse impiegate, delle altre regioni Obiettivo Convergenza dell’Unione a 27, e qui si annidano tutti i maggiori casi, nazionali ed in parte europei, di inquietante asimmetria trai costi medi dei servizi pubblici e la loro qualità, tra i costi degli apparati amministrativi e la loro efficienza, tra l’impiego di risorse pubbliche a sostegno di processi – spesso solo virtuali – di modernizzazione, crescita, attrazione di investimenti, buona occupazione. La drammatica crisi economica in corso rischia, tra l’altro, di provocare effetti peggiori proprio laddove il tessuto economico – produttivo appare più fragile, con conseguenze sociali difficilmente immaginabili e gestibili. Il capitale sociale è ai minimi storici, così come la fiducia dei cittadini nelle istituzioni, e gli spazi lasciati vuoti dalla buona politica e da un corretto funzionamento del mercato vengono riempiti impropriamente e aggressivamente dalla criminalità organizzata e dalle sue sempre più inquietanti e moderne articolazioni. Una classe dirigente diffusa che, dopo quindici anni, presenti un simile bilancio complessivo rischia di non avere autorevolezza e credibilità per opporsi a scelte, “anche le più perverse “, che potrebbero riguardare alcune fuorvianti interpretazioni del federalismo fiscale, della destinazione dei grandi investimenti nazionali per le opere pubbliche, dell’utilizzo dei fondi per le aree sottosviluppate, dell’impiego del Fondo Sociale Europeo. Se non si da il senso di una profonda autocorrezione, dal Mezzogiorno, nelle scelte, nelle pratiche, negli orientamenti, e nelle politiche di governo locale, diviene impossibile il rilancio, in termini culturali e dialettici prima ancora che economici e istituzionali, di una nuova e moderna Questione Meridionale che abbia l’ambizione di parlare

I temi trattati nel Convegno promosso da FareFuturo e Mezzogiorno Europa

Per una buona politica nel Mezzogiorno Per un profondo rinnovamento delle classi dirigenti all’intero Paese ponendosi anche come grande tema geoeconomico continentale. Per questo occorre rinnovare, nel Sud, le istituzioni, la politica e le classi dirigenti, recuperando uno spirito, una capacità di progettazione, una vocazione realizzativa e stili oggi diffusamente inadeguati. Basta con il pigro continuismo, la stanca gestione fine a se stessa della spesa pubblica, la mera denuncia e la proclamazioni di nuovi obiettivi che, seppur giusti e condivisibili, restano sempre inattesi. È improcrastinabile un radicale cambiamento per scongiurare l’inasprimento del solco che va approfondendosi con il resto del paese ed impedire che il Mezzogiorno continui a frenare lo sviluppo dell’intero paese. Le questioni principali da affrontare possono essere individuate nelle seguenti: 1. Miglioramento della qualità delle istituzioni per affrontare la questione cruciale della riforma della governance regionale, in grado di assicurare una corretta amministrazione del territorio, una responsabilità fiscale delle autonomie locali, una gestione efficiente dei servizi 2. Contrasto all’illegalità e al sommerso, non solo attraverso le forme tradizionali di repressione, ma migliorando la qualità dello sviluppo economico e sociale per affrontare in modo nuovo e indipendente dalle clientele la scelta e le modalità di finanziamento dei progetti. per contrastare l’illegalità e combattere il sommerso 3. Sostegno al capitale umano per far crescere la responsabilità degli individui e promuovere una crescita economica dal basso, più stabile, duratura e, specie, condivisa. È giunto il momento del cambio di rotta perché, tra il nuovo ciclo di spesa 2007‑2013, l’avvio dei programmi legati alla neonata Unione per il Mediterraneo, la riprogrammazione del FSE e il dibattito sulla territorializzazione della fiscalità, siamo di fronte ad un contesto difficile di azioni e strumenti, nazionali ed europei, che va affron-

tato con serietà, idee strutturate, scelte politiche precise, competenze. Occorre maturare una visione di insieme della macroregione Mezzogiorno, e da essa farne discendere pochi, integrati, misurabili programmi di sviluppo. Occorre individuare tre/quattro grandi opere infrastrutturali sovraregionali che incrocino le politiche europee dei Corridoi e delle Reti. Puntare sul trasferimento tecnologico e su robuste iniezioni di conoscenza nel processo produttivo, sperimentare strumenti finanziari innovativi che accompagnino sul mercato idee e brevetti, saper attrarre capitali e investimenti puntando sulle eccellenze del territorio, mettere in valore le grandi risorse turistiche, naturali ed ambientali, con un approccio dinamico e competitivo. È altresì indispensabile scegliere l’asset Energia e il grande campo della green economy per una storica sfida di riconversione di parti significative del tessuto produttivo locale. E, ancora, occorre stringere sul decollo delle Zone Franche Urbane, mettere in campo il coraggio di produrre robuste riforme degli apparati amministrativi, preparare una vera e propria rivoluzione del settore della formazione professionale affinché vi siano, finalmente, vere e utili politiche attive per il lavoro caratterizzate da qualità, legalità, trasparenza. Altre priorità su cui concentrare l’attenzione: pari opportunità, Agenda di Lisbona, banda larga e innovazione tecnologica, internazionalizzazione: è necessaria una Politica che parli il linguaggio della modernità. Infine: meno regole, ma più stringenti, e automaticità degli incentivi e della maggior parte delle politiche pubbliche contro l’eccessiva e clientelare intermediazione politica. Di tutto ciò vorremmo discutere il prossimo 5 marzo, in uno spazio di confronto e riflessione libero da condizionamenti, lontano dalle logiche della ricerca del consenso ad ogni costo, teso ad offrire spunti e contributi ad un Mezzogiorno che non intende rassegnarsi ad un destino di cupo e ineluttabile declino.


Web Application Web Solution

E-commerce

www.kiui.it

Mobile Application

Siti e Portali aziendali

Web-tv

Web marketing Web design

Vuoi rinfrescarti sul Web

?


Check up regioni Per offrire una panoramica della situazione economica-sociale del Mezzogiorno in un quadro d’insieme dei diversi aspetti economici e sociali del nostro Paese, e delle differenze regionali che lo caratterizzano, riportiamo alcune schede di indagini condotte dall’Istat (ultimi aggiornamenti dati feb­braio 2010). Gli indicatori prescelti si riferiscono all’economia, al mercato del lavoro, all’istruzione e alla sicurezza pubblica.


14

Istruzione

25-64enni con istruzione secondaria inferiore Popolazione in età 25-64 anni che ha conseguito al più un livello di istruzione secondaria inferiore per regione – Anni 2004-2008 (valori percentuali) REGIONI RIPARTIZIONI GEOGRAFICHE

2004

2005

2006

2007

2008

Differenze 2004-2008

Abruzzo Molise Campania Puglia Basilicata Calabria Sicilia Mezzogiorno Italia

47,0 51,2 57,7 60,4 53,0 53,5 59,5 57,7 51,9

44,5 49,7 57,4 60,0 51,0 52,5 58,6 56,9 50,3

43,5 49,2 56,8 57,9 49,9 51,9 57,4 55,7 49,2

45,7 47,7 56,8 56,4 49,2 51,7 56,9 55,2 48,2

43,5 47,4 56,6 56,4 47,5 51,0 56,2 54,7 47,2

-3,4 -3,8 -1,1 -4,0 -5,5 -2,4 -3,4 -3,0 -4,7

Fonte: Istat, Rilevazione continua sulle forze di lavoro

Un miglioramento con diverse velocità Dal 2004 al 2008 l’indicatore mostra un miglioramento in ogni ambito territoriale, anche se con diverse velocità. I bassi livelli di istruzione della popolazione adulta decrescono infatti nel periodo di 3 punti percentuali nel Mezzogiorno. Regioni del Mezzogiorno quali Campania, Puglia e Sicilia mostrano, invece, quote più consistenti (intorno al 56 per cento) di popolazione adulta con livello di istruzione secondaria inferiore. Solo Basilicata e Molise si avvicinano al valore medio nazionale, mentre l’Abruzzo rappresenta una eccezione positiva (43,5 per cento).

Scolarizzazione superiore dei 20-24enni Tasso di scolarizzazione superiore della popolazione in età 20-24 anni per regione – Anni 2004-2008 (valori percentuali) REGIONI RIPARTIZIONI GEOGRAFICHE Abruzzo Molise Campania Puglia Basilicata Calabria Sicilia Mezzogiorno Italia

2004

2005

2006

2007

2008

Differenze 2004-2008

80,3 80,0 67,2 66,1 76,9 75,5 64,3 67,7

78,7 84,2 66,9 67,2 76,3 78,3 65,2 68,0

79,2 79,1 67,2 68,7 82,2 76,8 67,9 69,5

80,7 80,2 66,8 69,8 81,8 74,3 69,6 70,3

80,4 80,3 71,1 72,1 84,0 76,3 69,1 72,2

0,1 0,3 3,9 6,0 7,0 0,8 4,9 4,5

72,3

73,0

74,8

75,7

76,0

3,6

Fonte: Istat, Rilevazione continua sulle forze di lavoro

Il divario permane ma il Mezzogiorno è in movimento Il Mezzogiorno, pur presentando il più basso valore dell’indicatore in ciascuno dei cinque anni, fa registrare il più alto incremento del tasso nel periodo 2004‑2008: 4,5 punti percentuali, a fronte di incrementi nell’ordine dei 3 punti percentuali negli altri grandi ambiti territoriali. Spicca il risultato della Basilicata (di 8 punti superiore alla media nazionale), la regione in cui il tasso assume il valore più elevato in assoluto nel 2008.


15

Iscritti all’università Iscritti all’università per regione – Anni accademici 2001/02-2006/07 (in percentuale della popolazione di 19-25 anni) REGIONI RIPARTIZIONI GEOGRAFICHE Abruzzo Molise Campania Puglia Basilicata Calabria Sicilia Mezzogiorno Italia

2001/02

2002/03

2003/04

2004/05

2005/06

2006/07

42,1 29,2 33,7 23,5 11,3 22,2 30,9 29,5 35,9

45,6 32,4 35,6 24,8 12,8 24,5 32,5 31,2 38,1

50,1 35,0 36,3 28,0 14,0 26,3 33,5 32,7 39,7

55,5 35,8 36,8 29,7 14,3 28,0 35,2 34,2 40,4

62,1 36,4 37,7 30,5 14,7 28,8 35,6 35,4 41,2

60,6 36,5 36,9 30,3 14,8 29,3 36,6 35,4 41,4

Fonte: Elaborazione su dati Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca

Forti capacità attrattive dei territori Forte capacità attrattiva grazie alle università presenti sul proprio territorio anche Umbria e Abruzzo (con un valore dell’indicatore superiore al 60 per cento nel 2006/07); in quest’ultima regione tra il 2001/02 e il 2006/07 i corsi di laurea sono quasi raddoppiati.

Abbandono delle scuole secondarie superiori

Tasso di abbandono alla fine del primo anno delle scuole secondarie superiori (secondarie di secondo grado) per regione Anni scolastici 1997/98-2006/07 (valori percentuali) REGIONI RIPARTIZIONI GEOGRAFICHE Abruzzo Molise Campania Puglia Basilicata Calabria Sicilia Mezzogiorno Italia

1997/98 1998/99 1999/00 2000/01 2001/02 2002/03 2003/04 2004/05 2005/06 2006/07 9,4 12,1 14,8 11,5 10,4 10,0 16,3 13,9 12,6

8,0 5,8 8,1 8,8 8,0 6,2 12,0 9,2 9,1

8,3 5,8 10,3 9,9 5,7 7,3 13,2 10,4 9,9

8,9 7,6 13,1 11,3 8,7 11,0 13,3 12,4 11,6

8,9 7,5 16,4 13,8 9,6 11,9 16,1 14,7 12,8

8,8 6,1 15,4 13,9 10,3 12,5 16,7 14,2 12,7

8,3 6,7 14,7 12,9 9,6 12,4 14,9 13,4 11,7

8,6 8,5 15,2 11,9 7,7 11,1 14,8 12,9 10,9

7,7 8,0 14,1 11,5 9,2 13,4 15,2 13,1 11,1

8,4 6,9 13,9 12,1 8,4 10,7 15,7 13,3 11,4

Fonte: Istat, Statistiche sull’istruzione fino all’a.s. 1998/99 – Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca dall’a.s 1999/00

Alto tasso di abbandono nel Mezzogiorno Il Mezzogiorno già nell’anno scolastico 2001/02 si caratterizza come l’area geografica in cui gli studenti abbandonano di più al primo anno delle superiori, questo profilo si conferma nel 2006/07, con oltre il 13 per cento di abbandoni. Confrontando i tassi di abbandono al primo e al secondo anno delle scuole superiori, emerge come la scelta di rinunciare agli studi avvenga principalmente al primo anno di corso, sia a livello nazionale, sia in ciascuna ripartizione geografica. La differenza tra i due tassi è di 8,6 punti percentuali se si considera la media per l’Italia (il valore nazionale passa infatti dall’11,4 per cento al 2,8 per cento) ed è più marcata nel Mezzogiorno dove la differenza tra le percentuali di abbandono è pari a 9,6 punti.


16 Pil pro capite Pil pro capite per regione – Anni 2000-2008 (euro, valori concatenati anno di riferimento 2000 e variazioni percentuali) REGIONI RIPARTIZIONI GEOGRAFICHE

Euro (valori concatenati)

Variazioni percentuali

2000

2008

2000

2001

2002

2003

2004

2005

2006

2007

2008

Abruzzo

18.022

17.810

5,9

1,8

-0,4

-2,3

-3,1

1,2

2,1

0,9

-1,2

Molise

15.237

16.448

3,6

2,3

0,6

-1,8

1,5

0,5

3,5

1,9

-0,6

Campania

13.202

13.497

3,7

3,1

1,9

-1,1

-0,2

-0,5

1,2

0,8

-2,9

Puglia

13.876

14.123

3,3

1,4

-0,4

-1,4

0,6

-0,4

2,5

0,0

-0,3

Basilicata

14.699

15.186

1,6

0,0

0,5

-1,3

1,6

-1,0

4,2

0,9

-1,6

Calabria

12.922

13.671

2,3

4,0

0,0

1,2

2,3

-1,6

1,9

0,0

-1,9

Sicilia

13.381

14.115

2,9

3,9

0,2

-0,4

-0,5

2,2

1,1

0,3

-1,3

Mezzogiorno

13.934

14.380

3,3

2,7

0,4

-0,6

0,1

0,2

1,6

0,5

-1,6

Italia

20.917

21.336

3,6

1,8

0,1

-0,8

0,5

-0,1

1,5

0,8

-1,8

Fonte: Istat, Conti economici regionali

Il livello del Pil pro capite nel Mezzogiorno È nettamente inferiore a quello del Centro Nord. Le regioni del Mezzogiorno presentano livelli del Pil pro capite nettamente inferiori rispetto a quelli del Centro-Nord. Inoltre, a differenza di quanto avviene in Europa, in Italia non si sta assistendo a una convergenza dei valori del Pil pro capite a livello regionale. Nel periodo 2000-2008 il divario di crescita dell’indicatore tra il Centro-Nord e il Mezzogiorno è molto contenuto e non consente quindi di ridurre la distanza tra le regioni in ritardo di sviluppo e quelle più ricche. Le regioni con Pil pro capite più basso sono Campania e Calabria (rispettivamente poco meno di 13.500 e 13.700 euro per abitante), precedute da Sicilia e Puglia (che superano di poco i 14mila euro per abitante).

Credito bancario Tassi di interesse sui finanziamenti per cassa del settore produttivo per durata e regione Anni 2005-2008 (media dei 4 trimestri) REGIONI RIPARTIZIONI GEOGRAFICHE

Da oltre un anno fino a cinque anni

Oltre cinque anni

Fino ad un anno

2005

2006

2007

2008

2005

2006

2007

2008

2005

2006

2007

2008

Abruzzo

5,5

5,0

5,1

5,5

4,4

4,4

5,1

5,6

4,9

5,6

6,4

6,9

Molise

5,3

5,2

5,4

5,9

5,2

5,1

5,6

6,0

5,4

6,0

6,8

7,3

Campania

5,5

5,4

5,0

5,8

4,9

5,2

5,7

6,4

5,4

5,9

6,7

7,3

Puglia

5,5

5,4

5,5

5,8

4,8

4,8

5,5

6,1

5,2

5,8

6,6

7,1

Basilicata

5,3

5,1

5,2

5,5

5,1

4,9

5,8

6,3

5,0

5,7

6,5

7,1

Calabria

6,0

5,6

5,6

5,7

4,7

5,3

6,0

6,6

5,7

7,0

7,0

7,6

Sicilia

5,2

5,1

5,4

5,8

4,9

5,2

6,2

6,5

5,1

5,7

6,5

7,0

Mezzogiorno

5,5

5,3

5,2

5,8

4,8

5,0

5,7

6,2

5,2

5,8

6,6

7,1

Italia

4,7

4,8

5,1

5,6

3,6

4,0

4,9

5,3

4,5

5,1

6,0

6,5

Fonte: Banca d’Italia, Base informativa pubblica


17

Mercato del lavoro Maggiore rischiosità del finanziamento nel Mezzogiorno

Con riferimento al tasso di decadimento per cassa, l’insolvibilità delle imprese che sono ricorse al finanziamento bancario è sistematicamente superiore per le regioni del Mezzogiorno rispetto a quelle del Centro-Nord. La maggiore rischiosità del finanziamento nel Mezzogiorno si riflette sui livelli dei tassi d’interesse: con riferimento ai tassi attivi sui finanziamenti per cassa, indipendentemente dalla durata, nei quattro anni considerati, un’impresa meridionale che desideri finanziare i propri investimenti tramite il ricorso al prestito bancario deve sostenere mediamente un tasso di interesse di un punto percentuale più elevato rispetto a un’impresa del Centro-Nord. Chiaramente le banche tendono a cautelarsi dalla maggiore rischiosità connessa alle operazioni di finanziamento nel Mezzogiorno praticando tassi d’interesse più elevati. Tuttavia, negli ultimi anni il divario territoriale tra tassi d’interesse a lungo termine si è notevolmente ridotto. In conclusione, un mercato finanziario caratterizzato da queste eterogeneità territoriali causa maggiori difficoltà nell’accesso al credito da parte delle imprese del Mezzogiorno e accresce il divario tra le regioni più arretrate e quelle più ricche, rallentando l’auspicabile convergenza nella crescita economica.

Tasso di occupazione totale Tasso di occupazione della popolazione in età 15-64 anni per sesso e regione – Anno 2008 (valori percentuali) Regioni

Tasso di occupazione 2008 Uomini 71,2 66,7 64,4 64,2 63,6 59,6 58,0 57,6 70,3

Totale 59,0 54,1 52,5 49,6 46,7 44,1 42,5 44,1 58,7

Abruzzo Molise Sardegna Basilicata Puglia Sicilia Campania Calabria Italia

Donne 46,7 41,5 40,4 34,9 30,2 29,1 27,3 30,8 47,2

Fonte: Istat, Rilevazione continua sulle forze di lavoro

Crollo al sud dell’occupazione femminile Nelle regioni del Mezzogiorno l’incremento è stato contenuto a 2,4 punti. Per contro Campania, Calabria e Sicilia non raggiungono il livello del 45 per cento e la media del Mezzogiorno è pari a 46,1. Ancora più accentuate le differenze nei tassi di occupazione femminile: nel 2008 in Campania e Sicilia risulta occupato meno del 30 per cento delle donne in età lavorativa, mentre tale percentuale raddoppia in Emilia-Romagna (62,1) e nelle regioni settentrionali raggiunge mediamente il 57,5 per cento.

Tasso di disoccupazione Tasso di disoccupazione per regione – Anni 1999-2008 (valori percentuali) REGIONI RIPARTIZIONI GEOGRAFICHE Abruzzo Molise Campania Puglia Basilicata Calabria Sicilia Mezzogiorno Italia

1999

2000

2001

2002

2003

2004

2005

2006

2007

2008

12,9 12,2 20,0 18,1 15,3 21,3 24,5 19,7 11,0

10,8 10,0 20,0 16,3 14,5 19,3 24,1 18,9 10,2

9,0 9,8 18,8 14,1 14,7 19,3 22,0 17,3 9,1

9,4 8,9 17,5 13,5 13,5 18,1 20,7 16,4 8,6

8,4 10,6 16,9 15,0 13,2 16,5 20,1 16,2 8,4

7,9 11,3 15,6 15,5 12,8 14,3 17,2 15,0 8,0

7,9 10,1 14,9 14,6 12,3 14,4 16,2 14,3 7,7

6,5 10,0 12,9 12,8 10,5 12,9 13,5 12,2 6,8

6,2 8,1 11,2 11,2 9,5 11,2 13,0 11,0 6,1

6,6 9,1 12,6 11,6 11,1 12,1 13,8 12,0 6,7

Fonte: Istat, Rilevazione continua sulle forze di lavoro

Permane il divario territoriale Nord Sud Le differenze che si osservano tra le regioni italiane sono consistenti. Il divario territoriale tra Mezzogiorno e Centro-Nord permane, anche se nel decennio 1999-2008 sono le regioni del Mezzogiorno quelle che hanno sperimentato il più consistente decremento: in Sicilia e Calabria nel 1999 il tasso di disoccupazione superava il 20 per cento, mentre nel 2008 è sceso rispettivamente al 13,8 e 12,1 per cento. Anche i differenziali tra uomini e donne risultano elevati: più marcati


18 nel Mezzogiorno dove il tasso di disoccupazione femminile (15,7 per cento) supera di 5,7 punti percentuali il corrispondente maschile. Nel 2008 il tasso di disoccupazione femminile supera il 15 per cento in tutte le regioni meridionali a eccezione di Abruzzo e Molise, mentre i tassi più bassi si registrano nelle regioni settentrionali, dove le donne in cerca di occupazione sono poco più del 5 per cento.

Tasso di disoccupazione giovanile Tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) per regione – Anni 1999-2008 (valori percentuali) REGIONI RIPARTIZIONI GEOGRAFICHE

1999

2000

2001

2002

2003

2004

2005

2006

2007

2008

Molise

36,4

29,7

21,1

13,3

26,3

31,9

31,8

28,0

23,8

28,8

Campania

48,3

49,2

45,8

44,9

40,0

37,7

38,8

35,4

32,5

32,4

Puglia

40,2

38,4

31,9

31,0

35,4

35,4

35,4

32,2

31,8

31,6

Basilicata

49,0

40,2

44,4

43,0

36,8

35,6

36,6

32,0

31,4

34,6

Calabria

48,5

44,8

41,3

39,8

41,7

40,5

46,1

35,5

31,6

34,5

Sicilia

53,1

51,5

48,1

44,8

46,5

42,9

44,8

39,0

37,2

39,3

Mezzogiorno

46,1

44,7

40,6

39,0

39,4

37,6

38,6

34,3

32,3

33,6

Italia

28,7

27,0

24,1

23,1

23,7

23,5

24,0

21,6

20,3

21,3

Fonte: Istat, Rilevazione continua sulle forze di lavoro

Nel Mezzogiorno il tasso di disoccupazione giovanile È molto superiore a quello medio nazionale. Nel 2008 tutte le regioni del Mezzogiorno presentano tassi di disoccupazione giovanile di molto superiori a quello medio nazionale, a eccezione dell’Abruzzo (19,7). Nel corso del decennio 1999-2008 il calo più marcato del tasso di disoccupazione giovanile (nell’ordine dei 14-16 punti percentuali) ha interessato la Campania, l’Abruzzo, la Basilicata, la Calabria e la Sicilia.

Crimini violenti

Crimini violenti denunciati per regione – Anni 2004-2007 (per 10.000 abitanti, variazioni percentuali) Crimini violenti REGIONI

Valori per 10.000 abitanti

RIPARTIZIONI GEOGRAFICHE

di cui: lesioni dolose (%)

di cui: rapine (%)

Variazioni (%)

di cui: lesioni dolose (variazioni %)

di cui: rapine (variazioni %) 2004-2007

2004

2005

2006

2007

2007

2007

2004-2007

2004-2007

Abruzzo

15,9

16,1

16,7

17,3

68,8

23,5

11,1

9,8

14,3

Molise

12,9

12,2

12,4

11,4

80,3

9,9

-12,3

-14,1

-30,8

Campania

35,4

36,6

40,1

38,0

26,9

68,3

7,6

57,0

-5,2

Puglia

16,9

16,5

15,9

17,5

58,4

32,2

3,4

14,8

-16,2

Basilicata

11,0

11,2

11,4

13,8

83,5

7,6

24,2

28,0

-1,6

Calabria

14,1

15,2

15,0

15,4

63,3

24,1

9,2

11,0

10,2

Sicilia

16,4

17,5

19,8

21,6

42,8

50,0

31,8

32,6

34,3

Mezzogiorno

21,2

21,8

23,3

23,6

Italia

18,2

18,9

20,1

21,0

42,8

50,2

11,4

25,7

0,9

51,1

41,2

17,7

22,7

10,7

Fonte: Elaborazioni su dati Istat, Ministero dell’Interno, Delitti denunciati dalle forze dell’ordine all’autorità giudiziaria


19

Giustizia e sicurezza Crimini violenti Crimini violenti denunciati per regione – Anni 2004-2007 (per 10.000 abitanti, variazioni percentuali) Crimini violenti REGIONI

Valori per 10.000 abitanti

RIPARTIZIONI GEOGRAFICHE Abruzzo Molise Campania Puglia Basilicata Calabria Sicilia Mezzogiorno Italia

2004 15,9 12,9 35,4 16,9 11,0 14,1 16,4 21,2 18,2

2005 16,1 12,2 36,6 16,5 11,2 15,2 17,5 21,8 18,9

2006 16,7 12,4 40,1 15,9 11,4 15,0 19,8 23,3 20,1

2007 17,3 11,4 38,0 17,5 13,8 15,4 21,6 23,6 21,0

di cui: lesioni dolose (%)

di cui: rapine (%)

Variazioni (%)

2007 68,8 80,3 26,9 58,4 83,5 63,3 42,8 42,8 51,1

2007 23,5 9,9 68,3 32,2 7,6 24,1 50,0 50,2 41,2

2004-2007 11,1 -12,3 7,6 3,4 24,2 9,2 31,8 11,4 17,7

di cui: lesioni dolose (variazioni %) 2004-2007 9,8 -14,1 57,0 14,8 28,0 11,0 32,6 25,7 22,7

di cui: rapine (variazioni %) 2004-2007 14,3 -30,8 -5,2 -16,2 -1,6 10,2 34,3 0,9 10,7

Fonte: Elaborazioni su dati Istat, Ministero dell’Interno, Delitti denunciati dalle forze dell’ordine all’autorità giudiziaria

In Campania l’indice più elevato di crimini violenti Il Mezzogiorno e il Nord-ovest sono le ripartizioni con i valori dell’indice più elevati (rispettivamente 23,6 e 21,6). Fra le regioni, la Campania mostra il valore dell’indice più elevato (38,0) associato a una quota molto elevata di rapine (oltre 68,3 per cento), peraltro in diminuzione rispetto all’anno precedente. Le altre regioni del Mezzogiorno, con l’eccezione della Sicilia, presentano valori dell’indicatore inferiori a quello medio nazionale.

Delitti commessi da minori Minori denunciati per regione – Anni 2004-2007 (per 1.000 persone di 10-17 anni e valori percentuali) Minori denunciati REGIONI RIPARTIZIONI GEOGRAFICHE

Abruzzo Molise Campania Puglia Basilicata Calabria Sicilia Mezzogiorno Italia

2004 10,5 8,4 5,7 6,7 6,1 6,4 10,4 7,8 9,1

2005 9,8 8,4 5,5 6,5 6,9 6,2 10,9 7,8 8,8

2006 9,9 8,9 5,5 7,2 8,4 7,2 9,1 7,8 8,7

2007 8,8 7,1 6,3 7,4 10,2 6,5 9,2 7,8 8,4

Di cui: Di cui: femmine stranieri % %

Di cui: in età < 14 anni %

Per 1.000 minori in età 10-17

2004 11,6 22,6 14,9 12,4 12,2 12,8 10,5 12,5 16,0

2005 9,6 24,2 14,5 10,6 13,8 8,3 10,1 11,3 15,3

2006 12,1 12,0 15,4 11,6 13,7 11,9 9,2 11,6 16,2

2007 10,6 20,4 13,8 14,7 17,3 12,4 11,2 13,0 17,0

2007 15,7 12,7 13,1 8,2 3,3 11,4 7,7 10,2 16,4

2007 20,2 8,3 6,4 5,7 4,8 5,4 8,8 7,5 27,2

Fonte: Elaborazione su dati Ministero della giustizia – Dipartimento per la giustizia minorile

Nel Mezzogiorno un panorama variegato Anche nel Mezzogiorno (con un valore medio dell’indicatore pari a 7,8) il panorama è abbastanza variegato: Basilicata e Sardegna superano abbondantemente il valore medio delle regioni del Nord, mentre Campania e Calabria sono tra le regioni con valori più bassi dell’indicatore.


20 Problemi prioritari del Paese secondo i cittadini Persone di 14 anni e più che considerano disoccupazione e criminalità come problemi prioritari del Paese per regione Anni 2005-2008 (per 100 persone con le stesse caratteristiche) Disoccupazione

REGIONI RIPARTIZIONI GEOGRAFICHE

2005

2006

2007

2008

Abruzzo

80,8

81,6

70,7

Molise

86,9

86,6

Campania

88,2

88,3

Criminalità 2005

2006

2007

2008

71,4

49,2

56,4

54,8

55,3

81,7

74,4

56,0

50,0

50,6

56,9

85,3

75,5

74,5

72,3

75,5

68,3

Puglia

86,7

87,8

82,0

84,4

60,0

62,6

64,7

58,1

Basilicata

87,9

87,9

86,5

88,7

53,3

50,8

45,2

45,4

Calabria

90,5

90,5

86,5

86,2

53,0

51,1

58,8

53,0

Sicilia

91,5

88,7

86,9

83,2

56,6

61,3

59,3

56,5

Mezzogiorno

88,4

87,9

84,1

81,0

Italia

72,4

70,1

64,3

61,3

60,4

61,6

63,3

58,6

56,5

58,7

61,8

60,5

Fonte: Istat, Indagine multiscopo sulle famiglie “Aspetti della vita quotidiana”

Nel Mezzogiorno priorità al lavoro Nel Centro Nord alla sicurezza L’esame della percezione dei problemi considerati prioritari dalla popolazione di 14 anni e più rivela una differente sensibilità tra Nord e Sud del Paese. In tutte le regioni del Mezzogiorno è, infatti, la disoccupazione che occupa il primo posto della graduatoria, mentre in molte regioni del Nord il tema della criminalità è maggiormente sentito. Nel dettaglio, l’81 per cento dei residenti nel Mezzogiorno segnala il problema della disoccupazione, in calo rispetto al 2000 (90,3 per cento). Nel Mezzogiorno la criminalità è considerata problema prioritario dal 58,6 per cento della popolazione; la regione dove appare più rilevante è la Campania, con il 68,3 per cento delle indicazioni (è il valore più elevato a livello nazionale), mentre per le regioni del Centro-Nord lo è in Emilia-Romagna (67,6), in Veneto (63,8 per cento) e in Piemonte (63,3 per cento).

Fonte dati Istat Elaborazioni di Luisa Pezone




23

’interesse e l’impegno della catena di subfornitura che si origina dalle imprese analisi a disposizione della Commissione parlaBanca d’Italia in quella che del Centro Nord; anche al Sud si sono allungati mentare di inchiesta sul fenomeno della mafia e un tempo si sarebbe detta molto i termini di pagamento, sono peggiorate le sulle altre associazioni criminali, per una indagine la “questione meridionale” condizioni di accesso al credito. sul costo economico della criminalità. sono di antica data. DonaNel 2008 la contrazione del PIL meridionale Alla radice dei problemi del Sud stanno la cato Menichella, Governa- è stata più severa di quella del Centro Nord: -1,4 renza di fiducia tra cittadini e tra cittadini e istitore della Banca dal 1948 contro -0,9 per cento. Nel secondo trimestre del tuzioni, la scarsa attenzione prestata al rispetto al 1960, fu nel ristretto 2009 l’occupazione è calata nel Mezzogiorno del delle norme, l’insufficiente controllo esercitato gruppo di nuovi meridionalisti che, fondando la 4,1 per cento rispetto all’anno precedente; nel dagli elettori nei confronti degli amministratori SVIMEZ nel 1946, avviarono l’intervento straor- Centro Nord è scesa dello 0,6 per cento. Il divario eletti, il debole spirito di cooperazione: è carente dinario nel Mezzogiorno. Gli economisti di questo riflette anche la minore tutela offerta in concreto quello che viene definito “capitale sociale”. QueIstituto hanno continuato da allora a sviluppare le dalla Cassa integrazione guadagni al Sud a causa sti elementi richiedono una maggiore attenzione loro analisi sui divari territoriali. da parte di economisti e statistici. Accurate inUn sentiero di crescita più elevaformazioni quantitative su questi to di quello dello scorso decennio è fenomeni, sulla loro evoluzione nel essenziale per la stabilità finanziaria; tempo, sono essenziali per valutare per abbattere il debito pubblico; per quali innovazioni, anche istituzionali, BANCA D’ITALIA • EUROSISTEMA potenziare le nostre infrastrutture: siano in grado di modificare lo stato l’istruzione, la protezione sociale, la delle cose. giustizia; per ridurre il prelievo fiscaI nostri dati mostrano che non le. Questo è lo scopo delle ricerche ci sono marcate divergenze nell’anche presentiamo oggi: riesaminare damento del credito bancario tra il il problema che ha segnato la stoCentro Nord e il Mezzogiorno. Con ria economica d’Italia fin dalla sua la crisi i prestiti alle famiglie hanno Unità. Abbiamo tutti bisogno dello rallentato fortemente in entrambe le sviluppo del Mezzogiorno. aree territoriali, continuando tuttaDa lungo tempo i risultati economici del via a crescere di più al Sud. I prestiti alle imprese Intervento d’apertura del Governatore Mezzogiorno d’Italia sono deludenti. Il divario di e il costo del credito hanno avuto, pur partendo della Banca d’Italia Mario Draghi PIL pro capite rispetto al Centro Nord è rimasto da livelli diversi, dinamiche simili nelle due aree. Roma, 26 novembre 2009 sostanzialmente immutato per trent’anni: nel Vale anche per il Sud la considerazione che an2008 era pari a circa quaranta punti percentuali. diamo facendo dall’inizio dell’anno con riferimenIl Sud, in cui vive un terzo degli italiani, produce della differente struttura produttiva. Il Mezzogior- to all’intero sistema bancario italiano: in questi un quarto del prodotto nazionale lordo; rimane no sconta la debolezza della sua economia. tempi di straordinaria difficoltà per le imprese il territorio arretrato più esteso e più popoloso Il divario tra il Sud e il Centro Nord nei ser- è anche sulla capacità dei banchieri di valutare dell’area dell’euro. vizi essenziali per i cittadini e le imprese rimane e selezionare il merito di credito con prudente Il processo di cambiamento è troppo lento. ampio. Le analisi che presentiamo oggi rivela- lungimiranza che si giocano le sorti delle nostre Mentre le altre regioni europee in ritardo di svilup- no scarti allarmanti di qualità fra Centro Nord e imprese migliori e della nostra competitività nel po tendono a convergere verso la media dell’area, Mezzogiorno nell’istruzione, nella giustizia civile, lungo periodo. il Mezzogiorno non recupera terreno. I flussi mi- nella sanità, negli asili, nell’assistenza sociale, nel I divari tra Centro Nord e Mezzogiorno, che gratori verso il Centro Nord sono di nuovo ingen- trasporto locale, nella gestione dei rifiuti, nella permangono nelle condizioni di accesso al credito ti, coinvolgono molti giovani anche con elevati li- distribuzione idrica. In più casi – emblematico è e nel costo dei finanziamenti, sono dovuti in larga velli di scolarizzazione, impoveriscono il capitale quello della sanità – il divario deriva chiaramente misura alla diversità strutturale delle economie umano del Sud. Il tasso di attività nel mercato del dalla minore efficienza del servizio reso, non da reali e alla maggiore debolezza nel Mezzogiorno lavoro resta tra i più bassi d’Europa, soprattutto una carenza di spesa. Svolgere un’attività pro- delle istituzioni che tutelano il rispetto dei conper i giovani e per le donne. Un quinto del lavoro duttiva in Italia è spesso più difficile che altrove, tratti. Nascono nel Sud tante nuove banche quanè ancora irregolare, più del doppio che nel Centro anche per la minore efficacia della Pubblica am- te ne nascono nel resto d’Italia, tenuto conto dei Nord, che pure presenta valori superiori a quelli ministrazione; nel Mezzogiorno queste difficoltà pesi economici relativi. di Francia, Germania e Regno Unito. si accentuano. Le politiche regionali – quelle esplicitamente L’integrazione del Mezzogiorno nel sistema Grava su ampie parti del nostro Sud il peso finalizzate a promuovere lo sviluppo delle aree in economico internazionale è modesta; da que- della criminalità organizzata. Essa infiltra le pub- ritardo, con interventi specifici – nell’ultimo desta area, escludendo la raffinazione dei prodotti bliche amministrazioni, inquina la fiducia fra i cit- cennio si sono volte anche all’obiettivo di innalpetroliferi, viene meno di un decimo delle espor- tadini, ostacola il funzionamento del libero mer- zare il capitale sociale, attraverso miglioramenti tazioni italiane. La crisi internazionale ha quindi cato concorrenziale, accresce i costi della vita nella trasparenza informativa, nella rendicontatrasmesso i suoi impulsi soprattutto attraverso la economica e civile. La Banca ha messo risorse di zione, nel controllo e nella valutazione dei risultati

L

Il Mezzogiorno e la politica economica dell’Italia


dell’azione pubblica, ma hanno ottenuto risultati scarsi. Ne hanno indebolito l’azione i localismi, la frammentazione degli interventi, la difficoltà di individuare le priorità, la sovrapposizione delle competenze dei vari enti pubblici. Se ne può trarre un insegnamento: le politiche regionali possono integrare le risorse disponibili, consentirne una maggiore concentrazione territoriale, contrastare le esternalità negative e rafforzare quelle positive. Ma non possono sostituire il buon funzionamento delle istituzioni ordinarie. Non è quella delle politiche regionali la via maestra per chiudere il divario tra il Mezzogiorno e il Centro Nord. Occorre dirigere l’impegno soprattutto sulle politiche generali, che hanno obiettivi riferiti a tutto il Paese, e concentrarsi sulle condizioni ambientali che rendono la loro applicazione più difficile o meno efficace in talune aree. Politiche pubbliche uniformi producono infatti effetti diversi a seconda della qualità delle amministrazioni e del contesto territoriale. Nel definire la normativa e le risorse si deve tenere conto di questi aspetti; si devono anche prevedere meccanismi correttivi, che operino quando la qualità del servizio fornito alla collettività è inadeguata. È un assunto che può essere illustrato con tanti esempi, come emergerà dal convegno. Nel caso dell’istruzione, dove varie iniziative sono già in corso, non si può non tenere conto della minore capacità delle scuole e delle università del Sud di stimolare l’apprendimento degli studenti: occorre studiare incentivi e introdurre valutazioni volti a migliorare l’efficienza di ciascun istituto, ma anche prevedere un potenziamento delle attività didattiche per gli studenti che ne abbiano bisogno. Considerazioni analoghe possono essere effettuate per il mercato del lavoro. Un assetto normativo e contrattuale che consente elevati tassi di occupazione in molte regioni d’Italia si accompagna nel Mezzogiorno con tassi di occupazione tra i più bassi d’Europa. In alcune regioni il rapporto tra occupati e cittadini in età lavorativa è inferiore al 45 per cento; in alcune i lavoratori irregolari superano il 20 per cento del totale. Una maggiore articolazione dell’assetto generale in relazione alle situazioni locali attraverso lo sviluppo della contrattazione integrativa può contribuire ad accrescere l’occupazione e a ridurre lo spreco di risorse umane. Ma c’è un altro motivo per concentrare l’attenzione sulle politiche generali: la spesa pubblica primaria che viene convogliata a vario titolo nel Sud è imponente al confronto delle risorse utilizzate per le politiche regionali, che ne rap-

24

presentano solo il 5 per cento. Oggi una politica che persegua l’obiettivo di accelerare lo sviluppo del Mezzogiorno non deve sovrapporsi alle politiche generali; deve essere in primo luogo la consapevole e sapiente declinazione di queste ultime sul territorio. Questo è dunque il messaggio che la nostra ricerca affida alla discussione: affinché il Mezzogiorno diventi questione nazionale, non retoricamente ma con ragionato pragmatismo, ogniqualvolta si disegni un intervento pubblico nell’economia o nella società occorre avere ben presenti i divari potenziali di applicazione nei diversi territori e predisporre ex ante adeguati correttivi. Interventi di politica regionale tradizionale potranno dare un contributo solo se congegnati in coerenza con gli interventi generali. Le nostre analisi mostrano che i sussidi alle imprese sono stati generalmente inefficaci: si incentivano spesso investimenti che sarebbero stati effettuati comunque; si introducono distorsioni di varia natura penalizzando frequentemente imprenditori più capaci. Non è pertanto dai sussidi che può venire uno sviluppo durevole delle attività produttive. Insomma, occorre investire in applicazione, piuttosto che in sussidi. Tradurre questa impostazione in atti concreti di governo non è facile. Si deve puntare a migliorare la qualità dei servizi forniti da ciascuna scuola, da ciascun ospedale e tribunale, da ciascun ente amministrativo o di produzione di servizi di trasporto o di gestione dei rifiuti. Per questo è, innanzi tutto, necessario misurare e valutare i risultati dell’azione pubblica, in ogni campo, dalle grandi opere infrastrutturali fino alla performance del singolo addetto. I lavori presentati oggi danno conto di alcuni progressi compiuti in tale direzione. Molto resta da fare. Servono rilevazioni in-

dipendenti, sistematiche, frequenti, su cui misurare i progressi delle amministrazioni, stabilire un corretto sistema di incentivi, indirizzare le risorse pubbliche. “Conoscere per deliberare” è massima aurea, dall’attualità permanente, che dobbiamo al primo Governatore della Banca d’Italia nel Paese liberato, Luigi Einaudi. Ovviamente, occorre poi deliberare. Si tratta di reimpostare norme e prassi antiche. Spostando l’enfasi dalla quantità delle risorse alla qualità dei risultati e facendo fruttare le risorse che ci sono già, che i bilanci pubblici trasferiscono dalle aree più ricche. I lavori presentati oggi mostrano che i margini per un utilizzo più efficiente delle risorse pubbliche sono significativi, in particolare nel Mezzogiorno. La spesa pubblica pro capite per i farmaci è per esempio in questa area largamente maggiore che al Centro Nord. Nel contempo, bisognerebbe riconoscere e premiare il merito di coloro che servono il Paese con distinzione in un ambiente particolarmente difficile. Con il federalismo fiscale la maggiore autonomia si coniuga con una maggiore responsabilità: sarà un’occasione per rendere più efficace l’azione pubblica solo se l’imposizione e la spesa a livello decentrato premieranno l’efficienza, solo se gli amministratori locali saranno capaci di indirizzare le risorse verso gli usi più produttivi e le priorità più urgenti. Nel Sud questi obiettivi sono più difficili da raggiungere, ma se raggiunti i benefici saranno grandi, probabilmente maggiori che nel resto del Paese. Altrimenti i divari si aggraveranno. A Sud come a Nord lo scopo del nostro agire deve essere garantire la funzione pubblica per eccellenza, quella che definisce una cornice, un clima uniformi nel Paese: scuole, ospedali, uffici pubblici che assicurino standard comuni di servizio da un capo all’altro d’Italia.


25

’Ecclesiaste ci ha insegnato in conto capitale, ordinarie e straordinarie; il 30% pevolezza – ha affermato il Presidente – necesche c’è “un tempo per ta- di quelle solo ordinarie; l’85% di localizzazione al saria anche per reagire all’accrescimento dell’incere e un tempo per parla- Sud delle risorse aggiuntive per le aree meno svi- certezza sulle risorse disponibili e, insieme con re”. Dopo tanti silenzi sul luppate d’Italia. Ma numeri e riserve hanno finito esse, «l’incertezza del quadro di riferimento delle Mezzogiorno, sui suoi ri- presto col diventare vaghi proclami e mancate politiche per il Mezzogiorno», in un contesto in cui tardi, sui fattori della sua promesse, di cui si è dimostrata nel tempo l’in- la crisi economica rende più difficile il bilanciamencrisi e sulla problematici- capacità del rispetto, politico e tecnico, da parte to tra i diversi e conflittuali obiettivi della politica tà del suo futuro, ed alla di chi – governando – doveva darsene carico. Ed economica nazionale. vigilia dei 150 anni dal formale avvio all’Unifi- è certo responsabilità politica non aver previsto Proprio in tale ottica, riteniamo possa essere cazione giuridico-istituzionale della Nazione nel allora e poi vincoli e sanzioni, ancor oggi neces- di grande utilità la presente “Indagine conoscitiva 1861, è forse il tempo, e comunque questa ap- sari e non definiti. sull’efficacia della spesa e delle politiche di sopare a noi della SVIMEZ come un’occasione per Tutto ciò è avvenuto in un contesto di “politi- stegno alle aree sottoutilizzate”, promossa dalla “non tacere”. Camera dei Deputati, alla quale la SVIMEZ è onoLa definitiva fine – nel 1993 – del rata di poter offrire il contributo di positivo “intervento straordinario” alcune sue riflessioni. per il Sud avviatosi nel 1950, che Ho consegnato pertanto agli era entrato dai primi anni ’70 in un Uffici della Commissione – per la ventennio di incertezze [a causa delpubblicazione degli Atti ufficiali – un la crisi petrolifera, ma anche per le articolato testo, di cui tuttavia mi Indagine conoscitiva mutate strategie di politica econoriservo di dare qui oggi, per esigensull’efficacia della spesa mica nazionale tradottesi nella Legze di concisione, solo una selettiva e delle politiche di sostegno ge 675 – nordista – sulla “ristruttulettura. razione e riconversione industriale”, La ripresa negli ultimi mesi di un alle aree sottoutilizzate ed insieme per il ruolo assegnato alle dibattito – pur non privo di genericità neonate ed impreparate “regioni a ed approssimazioni – sui temi dello statuto ordinario” anche nella gesviluppo meridionale, non può che Roma, 3 febbraio 2010 stione interna della “Cassa per il Mezzogiorno”], essere accolta con compiacimento. Comm. Vª: Bilancio, Tesoro e Programmazione segnò a fine Secolo una caduta profonda nei ritmi Molte delle notazioni e dei temi che la SVINino Novacco, Presidente della Ass. per di crescita della necessaria accumulazione produtMEZ ha trattato, anche con tenacia, nel corso di lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno tiva e dell’occupazione nell’area meridionale. La questi anni di silenzio e rimozione [il divario Norddecisione del Ministro Ciampi di dar vita ad una Sud; il Mezzogiorno come macro-area; il Mezzo“Nuova Politica Economica”, ed alla costituzione ca regionale europea” che non ha saputo cogliere giorno come questione nazionale; la necessità di ed operatività del “Dipartimento per le politiche le differenze presenti – quanto ad arretratezza una forte revisione della programmazione delle di sviluppo e coesione”, venne sminuita – rispetto relativa dei territori nell’Europa che [dai 6 iniziali politiche per il Sud; eccetera], sono tornati di una alla loro attesa incisività – dall’approccio dispersi- Paesi, ai 27 di oggi] è cresciuta più sulle speci- certa attualità. Ciò è stato confermato dal prestivo dei localismi, e dalle “cento idee” di Catania, cui ficità dei “localismi” che sulla comprensione dei gioso Convegno di studi che il 26 novembre scorla SVIMEZ non venne allora neppure invitata. fenomeni “dualistici”, che a diverso titolo Italia e so la Banca d’Italia ha dedicato al Mezzogiorno e Le corrette scelte quantitative fatte dal DPS Germania – soli Stati in Europa – hanno presen- alla politica economica dell’Italia, presentando un nel quadro della citata “Nuova Politica Economi- tato e conosciuto, ma rispetto ai quali quantità e ampio numero di documentate analisi, che esperca” si sono presto scontrate con i limiti della “ca- qualità del rispettivo impegno è stato straordina- ti prevalentemente settentrionali hanno peraltro pacità di spesa” di Ministeri e di Amministrazioni, riamente diverso, giustificando così le differenze voluto ricondurre – con qualche evidente forzatue soprattutto con l’incapacità programmatica e nei risultati registrati nei due Paesi. ra – quasi solo alla storica assenza del “capitale realizzativa delle Regioni e dei poteri locali (per sociale” nel Sud, macro-regione che non ebbe mai non parlare della pressione delle “leghe” che da Ritornare a parlare di Mezzogiorno a conoscere l’autogoverno. allora condizionano in modi impropri il Governo Il Presidente della Repubblica Italiana GiorIl giudizio sulle politiche per il Mezzogiorno si dell’economia e del Paese, facendo pesare una gio Napolitano, nel messaggio da Lui rivolto il 16 è fatto più critico con riferimento a quelle relatiirrealistica “questione settentrionale”, incom- luglio 2009 in occasione della presentazione del ve agli ultimi dieci anni. Il clima è a nostro avviso parabile con la storica e strutturale “questione “Rapporto SVIMEZ 2009”, ha indicato come indi- positivamente mutato: la presa d’atto degli assai meridionale”). spensabile lo «sviluppo di un confronto naziona- insoddisfacenti risultati di tale recente esperienSotto la spinta di Carlo Azeglio Ciampi e di le, aperto ed approfondito», capace di accresce- za ha dato luogo ad una favorevole riconsideraFabrizio Barca, si ebbe certo – da parte del Gover- re «la consapevolezza, nelle Istituzioni ed in tutta zione di politiche “aggiuntive” e “speciali” per il no e del DPS – il coraggio politico di parlare con la società italiana, del carattere prioritario e della Sud, sia pure con intonazioni diverse ed alternai “numeri” e con i valori di “riserve” economico- portata strategica dell’obiettivo del superamento tive, che necessitano di approfondita riflessione politiche: il 45% al Sud delle totali spese nazionali dei divari tra Nord e Sud». Una maggiore consa- politica e tecnica.

L

Svimez


La prospettazione, nel “Rapporto SVIMEZ ” presentato nello scorso luglio, dei dati relativi al processo di deterioramento, a livello di capitale fisso sociale e produttivo, in atto nel Mezzogiorno, e ai pesanti effetti di esso sul mercato del lavoro e sulla ripresa di una rilevante fuoriuscita migratoria (commisuratasi nell’ultimo decennio in oltre 700 mila persone), ha concorso, forse in misura non piccola, al rilancio della discussione. Oggi – mi pare che ormai si possa dire – siamo usciti da una lunga stagione di silenziosa rimozione. Ma occorre avere la consapevolezza che mentre siamo di fronte ad un senz’altro positivo mutamento di clima, esso non è del tutto consolidato o irreversibile. È ancora molto forte e diffusa, infatti, in gran parte del Paese – a partire dalle élites politiche ed economiche – la convinzione che i problemi dell’Italia coincidano in realtà con quelli delle sue zone forti, e che basti rimettere in moto la locomotiva del Nord per fare ripartire l’Italia. Permane, dunque, il rischio di una nuova progressiva rimozione della natura nazionalmente determinante dei macro-problemi meridionali, e dell’indebolirsi del convincimento che sia necessario assicurare, al perseguimento dell’obiettivo dello sviluppo del Sud e della coesione del Paese, un impegno macro­economico certo e duraturo nel tempo. È ancora insufficiente, d’altra parte, l’attenzione delle classi dirigenti meridionali alla dimensione strutturale e macro-regionale dei fattori che sono alla base del gap di crescita registrato rispetto al resto del Paese, ma anche rispetto alle altre regioni deboli dell’Unione Europea. Il rischio è che permanga la tendenza a privilegiare micro-interventi diffusi sul territorio, in grado di accontentare le esigenze locali e/o congiunturali, rispetto ad interventi di più ampio respiro sulle condizioni – strutturali ed infrastrutturali – del contesto economico e produttivo. Laddove è certo, invece, che ogni disegno strategico per lo sviluppo del Mezzogiorno potrà avere successo solo se i responsabili delle Istituzioni e degli Enti locali e territoriali saranno capaci di adottare comportamenti che radicalmente si distacchino dalle in-

26

soddisfacenti esperienze del passato, che hanno largamente concorso a screditare le politiche meridionaliste, a causa degli sprechi nella gestione delle cospicue – ancorché insufficienti – risorse

loro assegnate, e dell’intrinseca debolezza di non poche delle scelte adottate nel merito degli interventi […] […] Le considerazioni avanzate evidenziano un quadro di grande complessità, che ripropone l’esigenza di un franco confronto nazionale di politica economica, da cui emergano impegni strutturali sul futuro del Mezzogiorno e dell’Italia. Nel dibattito politico che ha seguito e concluso la presentazione dell’ultimo annuale “Rapporto SVIMEZ ”, abbiamo appunto perciò rinnovato la richiesta ai poteri pubblici di organizzare una “Conferenza Nazionale sul Mezzogiorno”. Al dibattito

da approfondire, la SVIMEZ, come di consueto, ha cercato anche qui di offrire un contributo, che vorremmo sintetizzare con queste cinque finali affermazioni. L’eccessivo ritardo dell’Italia – rilevante, di fatto, soprattutto per gli interventi pubblici nazionali ed europei a favore del Mezzogiorno – nell’avviare il ciclo 2007-2013 di utilizzo dei fondi UE, impone di trovare soluzioni urgenti e più efficaci che in passato. Vi è la necessità di rafforzare – in sede di Governo, ma anche nel Parlamento – l’unità e la qualità del luogo (soggetto, autorità) capace di assicurare il coordinamento delle politiche di sviluppo e di coesione; tale luogo deve essere capace di garantire strategie ed ottiche macroeconomiche. Occorre evitare quel che è avvenuto nel 2009 in ordine allo spiazzamento territoriale (trasferimenti illegittimi, e non marginali) di risorse destinate al Mezzogiorno su Fondi FAS ed altri. Vi è l’esigenza che la “Conferenza Stato-Regioni” accentui i momenti di considerazione del Mezzogiorno come “grande regione debole dell’Italia”. Occorre comunque che le posizioni delle nostre macro-regioni – che sarebbe bene fossero rappresentate come tali nella “Conferenza” – vengano evidenziate e valorizzate, costituendo esse oggetto di necessaria decisione, ed insieme discrimine politico-sociale, produttivo ed occupazionale. È comune e diffuso il convincimento che – nella concreta attività di programmazione e di gestione della spesa pubblica – vi sia una grande responsabilità delle Amministrazioni regionali e locali. Esse in effetti non hanno né sufficienti pregresse esperienze, né autonomia di giudizio tecnico-economico. Da questo punto di vista, la prospettiva di introdurre in Italia (e specie nel Sud) dosi di “maggiore federalismo” – che possono tradursi in dosi di “maggiore localismo” – non può non preoccupare, ed impone di ricercare ed applicare soluzioni adeguate e conformi alla natura dei problemi strutturali presenti nei territori meridionali della Nazione.


27

La Chiesa in Italia e la questione meridionale vent’anni dalla pubblicazione del documento Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno, vogliamo riprendere la riflessione sul cammino della solidarietà nel nostro Paese, con particolare attenzione al Meridione d’Italia e ai suoi problemi irrisolti, riproponendoli all’attenzione della comunità ecclesiale nazionale, nella convinzione «degli ineludibili doveri della solidarietà sociale e della comunione ecclesiale […] alla luce dell’insegnamento del Vangelo e con spirito costruttivo di speranza»1. Torniamo sull’argomento non solo per celebrare l’anniversario del documento, né in primo luogo per stilare un bilancio delle cose fatte o omesse, e neppure per registrare con ingenua soddisfazione la qualificata presenza delle strutture ecclesiali nella vita quotidiana della società meridionale, ma per intervenire in un dibattito che coinvolge tanti soggetti e ribadire la consapevolezza del dovere e della volontà della Chiesa di essere presente e solidale in ogni parte d’Italia, per promuovere un autentico sviluppo di tutto il Paese. Nel 1989 sostenemmo: «il Paese non crescerà, se non insieme»2. Anche oggi riteniamo indispensabile che l’intera nazione conservi e accresca ciò che ha costruito nel tempo. Il bene comune, infatti, è molto più della somma del bene delle singole

A

perare le inadeguatezze presenti nelle classi dirigenti. Questi aspetti rendono difficile farsi carico della responsabilità di essere soggetto del proprio sviluppo. Sul versante pastorale, vogliamo anche cogliere l’occasione per incoraggiare le comunità stesse, affinché continuino a essere luoghi esemplari di nuovi rapporti interpersonali e fermento di una società rinnovata, ambienti in cui crescono veri credenti e buoni cittadini. A richiamare, poi, la nostra attenzione – e non per ultime – sono le molteplici potenzialità delle regioni meridionali, che hanno contribuito allo sviluppo del Nord e che, soprattutto grazie ai giovani, rappresentano uno dei bacini più promettenti per la crescita dell’intero Paese. Facciamo appello alle non poche risorse presenti nelle popolazioni e nelle comunità ecclesiali del Sud, a er un paese solidale una volontà autonoma di riscatto, alla necessità di contare sulle prohiesa italiana prie forze come condizione insostitue ezzogiorno ibile per valorizzare tutte le espressioni di solidarietà che devono provenire dall’Italia intera nell’articolazione di una sussidiarietà organica. La prospettiva della condivisione e Documento dell’impegno educativo diventa in questa ottica dell’Episcopato italiano l’unica veramente credibile ed efficace. […]

P

1 Conferenza Episcopale Italiana, Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno, 18 ottobre 1989, n. 1. «Tale documento – disse Giovanni Paolo II il 9 novembre 1990 a Napoli, incontrando la popolazione in piazza Plebiscito – può ben essere considerato la traduzione non solo pastorale, ma anche politica, nel senso più alto del termine, del progetto di organizzazione della speranza nella vasta area del Mezzogiorno» (n. 3). Esso richiamava, a distanza di quarant’anni, la Lettera collettiva dell’Episcopato dell’Italia meridionale del 25 gennaio 1948 I problemi del Mezzogiorno, che, a sua volta, dopo aver analizzato la religiosità delle popolazioni del Sud, poneva in evidenza le profonde esigenze di giustizia nei rapporti di lavoro soprattutto in riferimento all’economia agraria meridionale, auspicando una «religione più pura ed una giustizia più piena» (n. 1). 2 L’espressione fu desunta dal documento del Consiglio Episcopale Permanente La Chiesa italiana e le prospettive del Paese, 23 ottobre 1981, n. 8.

parti3. Ci spingono a intervenire la constatazione del perdurare del problema meridionale, anche se non nelle medesime forme e proporzioni del passato, e, strettamente connessi, il nostro compito pastorale e la responsabilità morale per le Chiese che sono in Italia. A ciò si aggiunge la consapevolezza della travagliata fase economica che anche il nostro Paese sta attraversando. Questi fattori si coniugano con una trasformazione politico-istituzionale, che ha nel federalismo un punto nevralgico, e con un’evoluzione socioculturale, in cui si combinano il crescente plurali-

C    M

smo delle opzioni ideali ed etiche e l’inserimento di nuove presenze etnico-religiose per effetto dei fenomeni migratori. Non si può, infine, tralasciare la trasformazione della religiosità degli italiani che, pur conservando un carattere popolare, fortemente radicato soprattutto nel Sud, conosce processi di erosione per effetto di correnti di secolarizzazione. Affrontare la questione meridionale diventa in tale maniera un modo per dire una parola incisiva sull’Italia di oggi e sul cammino delle nostre Chiese. Tanti sono gli aspetti che si impongono all’attenzione: anzitutto il richiamo alla necessaria solidarietà nazionale, alla critica coraggiosa delle deficienze, alla necessità di far crescere il senso civico di tutta la popolazione, all’urgenza di su-

3 Secondo le parole di Benedetto XVI, nella Lettera enciclica Caritas in veritate, 29 giugno 2009, il bene comune è «il bene di quel “noi-tutti”, formato da individui, famiglie e gruppi intermedi che si uniscono in comunità sociale. Non è un bene ricercato per se stesso, ma per le persone che fanno parte della comunità sociale e che solo in essa possono realmente e più efficacemente conseguire il loro bene» (n. 7).

.

Il Mezzogiorno alle prese con vecchie e nuove emergenze Che cosa è cambiato in venti anni […] Profondi cambiamenti hanno segnato in questi ultimi venti anni il quadro generale internazionale, nazionale e anche quello del Mezzogiorno. In Italia, è cambiata la geografia politica, con la scomparsa di alcuni partiti e la nascita di nuove formazioni. È pure mutato il sistema di rappresentanza nel governo dei comuni, delle province e delle regioni, con l’elezione diretta dei rispettivi amministratori. L’avvio di un processo di privatizzazioni delle imprese pubbliche, il venir meno del sistema delle partecipazioni statali e la fine dell’intervento straordinario della Cassa del Mezzogiorno, di cui non vogliamo dimenticare gli aspetti positivi, hanno determinato nuovi scenari economici. È cambiato il rapporto con le sponde orientali e meridionali del Mediterraneo. La massiccia immigrazione dall’Europa dell’Est, dall’Africa e dall’Asia ha reso urgenti nuove forme di solidarietà. Molto spesso proprio il Sud è il primo approdo


della speranza per migliaia di immigrati e costituisce il laboratorio ecclesiale in cui si tenta, dopo aver assicurato accoglienza, soccorso e ospitalità, un discernimento cristiano, un percorso di giustizia e promozione umana e un incontro con le religioni professate dagli immigrati e dai profughi4. Il contrastato e complesso fenomeno della globalizzazione dei mercati ha portato benefici ma ha anche rafforzato egoismi economici legati a un rapporto rigido tra costi e ricavi, mutando profondamente la geografia economica del pianeta e accrescendo la competizione sui mercati internazionali. Infine, con l’allargamento dell’Unione Europea, si sono dovuti riequilibrare gli aiuti, prevedendo finanziamenti in favore di nuove zone anch’esse deboli e depresse. La Chiesa non ha mancato di seguire con attenzione questi cambiamenti. Essa si sente chiamata a discernere, alla luce della sua dottrina sociale, queste dinamiche storiche e sociali, consapevole della necessità di raccogliere con responsabilità le sfide che la globalizzazione presenta5. Il Vangelo ci indica la via del buon Samaritano (cfr Lc 10,25-37): per i discepoli di Cristo la scelta preferenziale per i poveri significa aprirsi con generosità alla forza di libertà e di liberazione che lo Spirito continuamente ci dona, nella Parola e nell’Eucaristia. Uno sviluppo bloccato La complessa e contraddittoria ristrutturazione delle relazioni tra le istituzioni nazionali e il merca-

4 Cfr Conferenza Episcopale Siciliana – Facoltà Teologica di Sici-

28

to non ha interrotto le politiche di aiuti per il Sud, veicolate attraverso nuovi strumenti e competenze a livello locale, soprattutto regionale, anche se resta da verificare se e come queste risorse siano state effettivamente utilizzate. Con rinnovata urgenza si pone la necessità di ripensare e rilanciare le politiche di intervento, con attenzione effettiva ai «portatori di interessi»6, in particolare i più deboli, al fine di generare iniziative auto-propulsive di

lia , Per un discernimento cristiano sull’Islam, Palermo 2004.

5 Cfr Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Centesimus annus, 1° maggio 1991, nn. 22-29. Cfr anche Caritas in veritate, n. 37.

sviluppo, realmente inclusive, con la consapevolezza che «sia il mercato che la politica hanno bisogno di persone aperte al dono reciproco»7, di una cultura politica che nutra l’attività degli amministratori di visioni adeguate e di solidi orizzonti etici per il servizio al bene comune. Il cambiamento istituzionale provocato dall’elezione diretta dei sindaci, dei presidenti delle province e delle regioni, non ha scardinato meccanismi perversi o semplicemente malsani nell’amministrazione della cosa pubblica, né ha prodotto quei benefici che una democrazia più diretta nella gestione del territorio avrebbe auspicato. Accenti di particolare gravità ha assunto la questione ecologica: nel quadro dello stravolgimento del mondo dell’agricoltura, sono progressivamente venute alla luce forme di sfruttamento del territorio che, come dimostra il fenomeno delle ecomafie, spingono con evidenza a prendere in considerazione, in tutti i suoi aspetti, l’«ecologia umana»8. La globalizzazione, poi, vedendo accresciuta la competizione sui mercati internazionali, ha messo ancor più a nudo la fragilità del territorio, anche solo a motivo dell’allocazione delle industrie o comunque dei modelli economici adottati.Il complesso panorama politico ed economico nazionale e internazionale – aggravato da una crisi che non si lascia facilmente descrivere e circoscrivere – ha fatto crescere l’egoismo, individuale e corporativo, un po’ in tutta l’Italia, con il rischio di tagliare fuori il Mezzogiorno dai canali della ridistribuzione delle risorse, trasformandolo in un collettore di voti per disegni politico-economici estranei al suo sviluppo. […] 7 Ib., n. 39.

6 Ib., n. 40.

8 Ib., n. 97.


Europa e Mediterraneo […] In questo processo di incompiuta modernizzazione, il Mezzogiorno – collocato all’incrocio tra l’Europa e il Mediterraneo – si è trovato fortemente sollecitato dal già menzionato fenomeno della globalizzazione9. L’allargamento dell’Unione europea ha posto il Mezzogiorno di fronte a nuove opportunità ma anche a rischi inediti: da un lato, ha permesso l’accesso a canali finanziari e commerciali più ampi, dall’altro ha accresciuto la concorrenza, a causa dell’ingresso massiccio di Stati a basso reddito medio, più attraenti per le imprese in ragione del minor costo della manodopera. Purtroppo i dati statistici mostrano che il Mezzogiorno non coglie gran parte delle nuove opportunità per una scarsa capacità progettuale, una ancor più bassa capacità di mandare a effetto i progetti e mantenere in vita le nuove realizzazioni e, comunque, una radicale fragilità del suo tessuto sociale, culturale ed economico e, non per ultimo, la frequente mancanza di sicurezza. Eppure le sue vaste risorse, tuttora non valorizzate, potrebbero diventare opportunità di sviluppo nel grande mercato europeo, aprendo maggiori possibilità di sbocco per le imprese meridionali e promuovendo una nuova centralità geografica del Mediterraneo. Università e centri di ricerca, come anche imprese ed entità amministrative, hanno già stabilito in questi anni una serie di rapporti con realtà rivierasche affini sia europee sia nord-africane, in un confronto di modelli culturali, sociali ed economici tendenti a costruire una sorta di cittadinanza “aperta”, che può realizzarsi intorno al comune denominatore del Mediterraneo. In questa ottica, esso accentua la centralità del Mezzogiorno per la movimentazione delle persone e delle merci provenienti dal Medio Oriente e dagli altri Paesi asiatici. Le nuove potenzialità di sviluppo diventano, così, occasioni concrete, soprattutto se accresciute dalle necessarie infrastrutture, anche per innescare effetti moltiplicativi sul territorio in termini di reddito e di investimenti. Possiamo pertanto considerare quella del Mediterraneo una vera e propria opzione strategica per il Mezzogiorno e per tutto il Paese, inserito nel cammino europeo e aperto al mondo globalizzato.

9 Cfr Caritas in veritate, n. 57.

29

Per un federalismo solidale «Il principio di sussidiarietà va mantenuto strettamente connesso con il principio di solidarietà e viceversa, perché se la sussidiarietà senza la solidarietà scade nel particolarismo sociale, è altrettanto vero che la solidarietà senza la sussidiarietà scade nell’assistenzialismo»10. La prospettiva di riarticolare l’assetto del Paese in senso federale costituirebbe una sconfitta per tutti, se il federalismo accentuasse la distanza tra le diverse parti d’Italia. Potrebbe invece rappresentare un passo verso una democrazia sostanziale, se riuscisse a contemperare il riconoscimento al merito di chi opera con dedizione e correttezza all’interno di un “gioco di squadra”. Un tale federalismo, solidale, realistico e unitario, rafforzerebbe l’unità del Paese, rinnovando il modo di concorrervi da parte delle diverse realtà regionali, nella consapevolezza dell’interdipendenza crescente in un mondo globalizzato. Ci è congeniale considerarlo come una modalità istituzionale atta a realizzare una più moderna organizzazione e ripartizione dei poteri e delle risorse, secondo la sempre valida visione regionalistica di don Luigi Sturzo e di Aldo Moro. Un sano federalismo, a sua volta, rappresenterebbe una sfida per il Mezzogiorno e potrebbe risolversi a suo vantaggio, se riuscisse a stimolare una spinta virtuosa nel bonificare il sistema dei rapporti sociali, soprattutto attraverso l’azione dei governi regionali e municipali, nel rendersi direttamente responsabili della qualità dei servizi erogati ai cittadini, agendo sulla gestione della leva fiscale. Tuttavia, la corretta applicazione del federalismo fiscale non sarà sufficiente a porre rimedio al divario nel livello dei redditi, nell’occupazione, nelle dotazioni produttive, infrastrutturali e civili. Sul piano nazionale, sarà necessario un sistema integrato di investimenti pubblici e privati, con un’attenzione verso le infrastrutture, la lotta alla criminalità e l’integrazione sociale. L’impegno dello Stato deve rimanere intatto nei confronti dei diritti fondamentali delle persone, perequando le risorse, per evitare che si creino di fatto diritti di cittadinanza differenziati a seconda dell’appartenenza regionale. In questo senso, l’imminente ricorrenza del centocinquantesimo anniversario dell’unità nazionale ci ricorda che la solidarietà, unita alla sussidiarietà, è una grande ricchezza per tut-

10 Ib., n. 58.

ti gli italiani, oltre che un beneficio e un valore per l’intera Europa11. Proprio per non perpetuare un approccio assistenzialistico alle difficoltà del Meridione, occorre promuovere la necessaria solidarietà nazionale e lo scambio di uomini, idee e risorse tra le diverse parti del Paese. Un Mezzogiorno umiliato impoverisce e rende più piccola tutta l’Italia. […]

11 Cfr Giovanni Paolo II, Discorso al Parlamento italiano in seduta pubblica comune, 14 novembre 2002.


a difficile congiuntura ha avuto, tra i vari effetti, quello di mettere per l’ennesima volta in luce lo squilibrio che esiste nel nostro paese tra un sistema imprenditoriale che non perde occasione di palesare, anche nei momenti più critici, la sua intrinseca robustezza e solidità, ed un sistema pubblico che, al contrario, non riesce a superare limiti di funzionalità e di efficienza in cui versa da anni. E ciò non solo e non tanto, con riferimento alla capacità di trovare rapide ed adeguate risposte alle esigenze che di volta in volta provengono dal corpo sociale. Ma soprat­tutto nel creare quelle condizioni di contesto indispensabili a che, anche in una situa­zione di emergenza, l’iniziativa privata possa essere sviluppata e sostenuta. Non è un caso pertanto che proprio in una situazione critica, quale quella in cui versa l’intero sistema economico mondiale, il tema della riforma della Pubblica Ammini­strazione ritorni prepotentemente alla ribalta. Perché è evidente ormai che l’uscita dalla crisi, la stabilizzazione dei processi di ripresa e il recupero di competitività, di cui il sistema Paese ha bisogno, non possano più prescindere dall’eliminazione di quel handicap strutturale rappresentato da un sistema amministrativo inefficiente, ngombrante e costoso. Un sistema che si traduce per le imprese in un costo invisibile estremamente eleva­to, tanto più in un mercato globalizzato, che se da un lato rende più conveniente e facile l’accesso alle “risorse mobili”, ai fattori della produzione (materie prime, lavoro, semilavorati, professionalità vengono acquistati dove il loro prezzo è più conveniente, in ogni parte del mondo) dall’altro vede crescere la rilevanza dei fattori “immobili”, dei contesti regolativi e funzionali in cui operano le aziende: le uniche risorse che sfuggono a logiche di concorrenza e che, diversamente dalle altre, rappresentano un costo fisso su cui queste non sono minimamente in grado di incidere. Il tema del rapporto tra imprese e Pubblica Amministrazione si conferma pertanto come un punto di snodo sempre più decisivo, ancora di più in quei contesti, come è il Mezzogiorno d’Italia, caratterizzati da una cronica carenza sotto il profilo della pre­senza e del funzionamento

L

30

della macchina amministrativa, che tanta parte ha avuto nel condizionare i processi di crescita e di sviluppo. È indicativo da questo punto di vista quanto emerso dall’indagine condotta dal Censis nei mesi di novembre e dicembre presso circa 100 referenti del sistema Confindustria-Mezzogiorno, che individuano proprio nell’inefficienza della Pubblica Ammini­strazione e nella carenza di infrastrutture che questa stessa ha prodotto negli anni, il principale motivo del gap di competitività che separa le regioni del Sud da quelle del Nord (la pensa

Confindustria

Il Sud aiuta il Sud Bari, 19 febbraio 2010 Cara P.A.: al Sud di più. Il peso della P.A. nell’economia delle imprese meridionali

così il 64,2% degli intervistati). Si tratta peraltro di una dimensione, quella di inefficienza, che appare, almeno agli occhi di quanti giornalmente si trovano a confrontarsi con le problematiche che pro­duce, difficilmente comprimibile. Perché congenita al sistema, considerato che oltre la metà del campione ne indivi­dua la ragione profonda non tanto nella carenza di risorse economiche o di investi­menti nel Mezzogiorno, di innovazione, o in una presunta “peggiore qualità” del per­sonale pubblico, quanto nella pervasività delle logiche clientelari che governano il rapporto tra pubblico e privato, tra istituzioni e società (51,1%). Perché trasversale alle tante e diverse dimensioni di intervento della sfera pubblica: dal funzionamento degli sportelli sul territorio, siano questi nazionali o locali, all’ero­gazione dei servizi pubblici essenziali, dal cattivo funzionamento del sistema giudi­ziario alla tutela della sicurezza, è impossibile individuare un ambito in cui l’operato del soggetto pubblico venga giudicato sostanzialmente positivo.

Basti a titolo esemplificativo, considerare che: “solo” il 7,5% degli intervistati considera buono il funzionamento degli uffici am­ministrativi sul proprio territorio mentre il 47,9% lo giudica insufficiente, e il re­stante 44,7% scarso; “solo” il 13,3% da una valutazione positiva del funzionamento del sistema giusti­zia; il 72% considera insufficiente (46,2%) o scarsa (25,8%) la copertura e la qualità de servizi pubblici sul territorio. Le maggiori carenze, in termini di copertura, vengo­no segnalate sul fronte dei servizi alle imprese – logistica e aree attrezzate – ma anche dei servizi di smaltimento rifiuti (giudica molto carente la copertura del servizio il 22,6% e insufficiente il 35,5%) e il trasporto pubblico locale. Peraltro, la situazione non sembra destinata a migliorare, considerato che negl ultimi anni, malgrado i tentativi di riforma, a dire il vero più annunciati che praticati, il livello complessivo dell’offerta dei servizi pubblici non è migliorato, registrando semmai – queste almeno sono le percezioni dei referenti – indicazioni di segno del tutto contrario. Cara PA: al Sud di più È comunque indubbio che laddove miglioramenti ci sono stati, questi sono dovuti in misura prevalente all’introduzione di nuove tecnologie, all’innovazione, ovvero all’in­dividuazione di soluzioni in grado di ridurre quanto più possibile i margini di discre­zionalità nell’operato dei pubblici uffici. Ovviamente, se all’interno del corpo imprenditoriale sembra prevalere un sentiment di consapevole accettazione rispetto all’incapacità del sistema pubblico di produrre dall’interno quei cambiamenti attesi da tempo, che pure potrebbero contribuire a mi­gliorare significativamente la qualità della vita di cittadini ed imprese, dall’altro canto, emerge con altrettanta forza e determinazione la difficoltà di sopportazione di tutta una serie di ostacoli, incombenze, impedimenti che si frappongono quotidianamente al corretto svolgimento dell’attività imprenditoriale. Il rapporto con la burocrazia, e con gli uffici preposti al suo esercizio, rappresentano da questo punto di vista forse la principale area di criticità. Lungaggini burocratiche in primis (lo indica come aspetto più critico nel disbrigo degli


adempimenti amministrativi il 71,3% degli intervistati), ma anche scarso coor­dinamento tra uffici (55,3%), eccessiva complessità degli iter amministrativi (36,2%), ncompetenza del personale (26,6%), sono il costo invisibile che le imprese sostengo­no quotidianamente nel loro rapporto con la P.A.. Un costo che, stando alla stima effettuata dagli stessi intervistati, incide sulle uscite complessive delle aziende per il 24,2%, considerati gli esborsi, le risorse impiegate per il disbrigo delle pratiche, e i costi aggiuntivi derivanti dalle disfunzionalità de pubblici uffici. L’altra grande area di emergenza segnalata dalle imprese, riguarda invece, la dimen­sione del contesto in cui queste stesse si trovano ad operare, caratterizzato dalla presenza di forme di illegalità diffusa che continuano a rappresentare per le aziende del Mezzogiorno un dazio sempre più insostenibile. Stando ancora alle stime indicate dagli intervistati, sono circa il 30% le imprese del Mezzogiorno, soggette ad una qual­che forma di influenza da parte della criminalità organizzata: influenza che, se a li­vello di azienda si traduce in un aggravio di costi (il 19,4% indica tale aspetto come principale conseguenza della presenza di un tessuto criminoso nel territorio), e nel condizionamento delle scelte di mercato – fornitori, lavoratori, clienti – (indica l’item il 18,3%), nel complesso produce effetti su tutto il tessuto economico-produttivo del Mezzogiorno, penalizzando non solo la crescita degli investimenti sul territorio (32,4%), ma più in generale disincentivando quella voglia di fare impresa, che è stata e continua ad essere il principale volano di crescita del Paese (29,4%).

31

Riprendere in mano la questione Sud Italia, significa oggi pertanto affrontare con de­cisione quello che costituisce da sempre uno dei mali del Mezzogiorno, ovvero le ca­renze di un sistema pubblico che è stato negli anni incapace di

stimolare un processo di crescita economica e sociale. Facendo in modo, soprattutto nella delicata fase di passaggio che attende la gran parte delle imprese, che le Pubbliche Amministrazioni,

svolgano attraverso il neces­sario e non più procrastinabile recupero di efficienza, quel ruolo di promotore dello sviluppo, rendendo possibile e favorendo il corretto svolgimento dell’attività impren­ditoriale e lo sviluppo di un contesto in cui aziende e i cittadini possano muoversi in libertà e sicurezza. Un passaggio forse epocale, ma dal quale non si può più prescindere e su cui occorre iniziare a lavorare, mettendo mano a quegli interventi, concreti ed attuabili anche nel breve periodo, in grado di promuovere dal di dentro i cambiamenti attesi. Da questo punto di vista, le indicazioni che provengono dal territorio sembrano muo­versi su due strade parallele. Da un lato, in direzione di un innalzamento del livello di sicurezza dei contesti in cui operano le imprese, che oggi si vedono sottrarre quote significative di profitto, a van­taggio della permanenza di una dimensione di illegalità, che rappresenta di certo il principale ostacolo allo sviluppo economico e produttivo del Sud Italia. Dall’altro lato, promuovendo tutti quei meccanismi che, dall’innovazione tramite l’in­t roduzione di nuove tecnologie di comunicazione con i pubblici uffici, ad una più ge­n erale semplificazione degli adempimenti in capo alle imprese, fino all’individuazio­ne di automatismi nell’erogazione di incentivi o rilascio di certificati, siano in grado di favorire un rapporto sempre più diretto ma soprattutto trasparente tra imprese e pubbliche amministrazioni, utile forse a ridurre quegli spazi “oscuri” di scambio e contrattazione che tanto hanno pesato e continuano ad influire sul ritardo di tutto il sistema.



F u r t h e r o n.

Pomigliano D’Arco, Capodichino, Nola e Casoria:

in Campania diamo ALI al futuro da oltre 90 anni


STOA’ School of Management del Sud, con una vocazione internazionale

STOA’ è tra le prime Business School italiane, con oltre 2000 giovani diplomati master con un tasso di occupazione del 90% in posizioni di prestigio e 8000 dirigenti, imprenditori, dipendenti pubblici e privati che hanno rafforzato le proprie competenze manageriali.

Sul modello delle più importanti School of Management, STOA’ realizza: Corsi master per neolaureati, per facilitarne un inserimento qualificato nel mondo del lavoro MDGI - Master in Direzione e Gestione di Impresa MILD - Master in International and Local Development HRM - Master in Human Resource Management CUMA - Master in Cultural Management MAM - Master in Auditing & Managerial accounting

Formazione e assistenza agli Enti Locali, alla Pubblica Amministrazione, alle aziende di Servizi Pubblici Locali nei loro processi di innovazione e ammodernamento, sostenendoli nel ruolo di operatori di sviluppo economico e sociale del territorio

Corsi master executive per Imprese (EMBA) e Pubbliche Amministrazioni (EMPM) per accompagnare lo sviluppo di carriera delle alte professionalità, dei dirigenti, dei knowledge worker

Diffusione e divulgazione di cultura manageriale attraverso ricerche, eventi, seminari e occasioni di apprendimento sviluppate anche in modalità on-line

Formazione e consulenza alle Imprese nell’implementazione di progetti di sviluppo e innovazione di processo/prodotto

STOA’ - Istituto di Studi per la Direzione e Gestione di Impresa Villa Campolieto - Corso Resina, 283 - 80056 Ercolano (NA) tel. +39 081 7882111 - fax +39 081 7772688 stoa@stoa.it - www.stoa.it


35 i convegni promossi a napoli e milano dall’associazione degli ex parlamentari

I L LAVO R O  C OM E   E L E M E NTO  P O R TANT E DELLA  REPUBBLICA  E FATTORE DI SVILUPPO DEL  PAESE  |  Antonio  Duva Il gioco delle statistiche è una tentazione troppo forte perché – soprattutto chi ha una responsabilità di governo da difendere – non sia tentato di farvi ricorso più del dovuto. In questo tormentato periodo dell’economia italiana capita perciò, sempre più spesso, che appena si può far leva su qualche indice che mostra un’oscillazione di segno positivo, si scatena la pioggia di dichiarazioni del tipo: “Il peggio è alle nostre spalle”; “Vediamo già la luce in fondo al tunnel” e via di questo tono. Ma si tratta, purtroppo, di affermazioni che rischiano solo di alimentare pericolose illusioni e che, soprattutto, si rivelano di respiro assai corto. Quando, nei giorni scorsi, si sono tirate le somme dell’intero 2009, infatti, si è accertato che la recessione in Italia si è tradotta in una contrazione del 4,9 % del prodotto interno lordo. Si tratta del dato peggiore che il nostro Paese ha conseguito dal lontano 1971 ed è largamente inferiore a quello, già di per sé molto negativo, raggiunto dalla media degli Stati aderenti all’Unione Europea (-4%). Anche i risultati dell’ultimo trimestre dello scorso anno rispetto a quelli dei tre mesi precedenti(che segnalano l’Italia, con la Grecia, in coda rispetto ai partner continentali), hanno contribuito a spazzare bruscamente via tutti gli ottimismi di maniera fatti, con troppa superficialità, circolare da più parti. Del resto le ricorrenti turbolenze dei mercati internazionali e i segnali inquietanti provenienti, nelle ultime settimane, da Paesi come Grecia, Spagna e Portogallo hanno dimostrato che è l’intero contesto della congiuntura continentale ad essere dominata dalla fragilità. Ci si deve dunque chiedere se, a meritare davvero la triste definizione di annus horribilis non sarà alla fine il 2009, da molti già in questo modo bollato, ma invece quello che stiamo vivendo.

Per scongiurare un simile rischio, oltre che agli andamenti statistici, è al manifestarsi di vicende concrete, anche molto diverse fra loro, che conviene, anche in Italia, prestare attenzione. A cominciare non solo dai casi che investono aree specifiche (come Rosario in Calabria) o grandi impianti (come, per esempio, la Fiat a Termini Imerese o la Lucchini a Piombino) o, ancora, le scelte di abbandono dell’Italia, da parte di multinazionali come l’ Alcoa, da tempo presente specie in Sardegna, o la Glaxo, in procinto di chiudere il grande centro di ricerche a Verona. È altrettanto importante mettere a fuoco anche lo stillicidio di crisi che, senza provocare titoli da prima pagina, continua però inesorabilmente a colpire piccole imprese, esercizi commerciali e attività professionali. Si vedrà allora che, per condurre un esame accurato della condizione attuale, conviene ricorrere a una maggior dose di rigore e di onestà intellettuale e adottare un linguaggio ben diverso. Che non è, di sicuro, quello di un catastrofismo fine a

se stesso, che risulterebbe solo sterile, ma quello, piuttosto, che mira a definire i contorni della realtà che abbiamo davanti in tutta la loro innegabile durezza, quindi senza sminuire la portata delle tante incognite che gravano sul nostro futuro. Chi sceglie questo, ad avviso di chi scrive,più appropriato approccio muove – in grande sintesi – da tre considerazioni. La ripresa produttiva, pur visibile in molte aree del mondo dopo il dilagare della crisi a partire dall’autunno del 2008, è basata, essenzialmente, sullo slancio del “Bric”, di quei Paesi cioè (Brasile, Russia, India e Cina) che sono ormai protagonisti dell’economia del nuovo secolo. È vero che segni di vitalità vengono anche da altre realtà, ma si tratta di processi, come negli Stati Uniti, prevalentemente legati al processo di ricostituzione delle scorte e di entità assolutamente più limitata. Per quanto riguarda, poi, l’Italia occorre notare come il suo trend recupero sia significativamente più lento rispetto a quello di altri Paesi europei, a cominciare da Francia e Germania e in questo pesa la sempre più drammatica condizione del Mezzogiorno. Infine – ed è l’aspetto più preoccupante – se di ripresa, sia pure lenta e fragile, si può parlare anche in Italia, si tratta di un andamento nel quale si riducono in modo pesante le prospettive di rilancio dell’occupazione. “Il sentiero della ripresa resta accidentato e diseguale”, rileva seccamente, nella sua analisi di gennaio, il Centro studi di Confindustria che aggiunge un dato che fa riflettere: se si includono fra i disoccupati anche l’equivalente di forza lavoro delle ore erogate dalla Cassa Integrazione guadagni, il tasso della disoccupazione in Italia torna, dopo molti anni, sopra le due cifre: al 10,1 per cento. Si tratta, del resto, di quel “concetto ampio” della forza lavoro inutilizzata, suggerito dalla Banca d’Italia in una sua analisi apparsa sul “Bollettino Economico” sempre del gennaio scorso.


In quel testo si osservava che, “per valutare compiutamente il grado di utilizzo della forza lavoro disponibile” appariva opportuno aggiungere ai disoccupati e ai lavoratori in Cig anche “le persone “scoraggiate” ovvero coloro che non cercano attivamente un impiego e sono quindi esclusi dal conteggio ufficiale dei disoccupati, pur avendo una probabilità di trovarlo analoga a quella di questi ultimi”. Si potrà pure polemizzare, come ha fatto qualche ministro, sulle basi teoriche di questo criterio, ma è un fatto che esso fornisce una spiegazione assai convincente della persistente debolezza dei consumi e della fiacchezza della domanda interna: la situazione del mercato del lavoro incide pesantemente sulla propensione alla spesa. La crisi, originata da fattori legati prevalentemente alla finanza (versante sul quale si è poi conseguita una relativa stabilizzazione del sistema), appare insomma destinata a incidere via via più pesantemente sull’economia reale. È quindi questo il fronte oggi esposto alle minacce più gravi come documentano due dati. Per un verso, il calo record della produzione industriale. Nel 2009 esso è stato del 17,4 per cento: la contrazione più pesante registrata dal 1990. Per l’altro, l’impoverimento evidente delle famiglie. Anche in questo caso è la Banca d’Italia, con la sua più recente rilevazione, a fornire le cifre: nel biennio 2006-2008 (quindi già prima del manifestarsi della crisi) si era avuta una contrazione dei bilanci familiari pari al 4% in termini reali e al 2, 6 % se si tiene conto del cambiamento di composizione dei nuclei familiari. E, anche in questo caso, il termine temporale di riferimento più vicino è di quasi vent’anni. Un calo di reddito di entità analoga era stato infatti registrato solo in occasione della precedente recessione del 1991-1993. Dunque affrontare sul serio il nesso:” consumi-occupazione” appare decisivo per una prospettiva di solida ripresa del Paese. Lo ha sottolineato con particolare incisività il Governatore della Banca d’Italia nel suo intervento all’assemblea del Forex, svoltasi a Napoli il 13 febbraio. “In Italia lo scorso anno il prodotto è diminuito di quasi il 5 per cento. Se ne prevede un recupero lento, con ampie incertezze, legate in particolare agli andamenti del ciclo internazionale e alle condizioni del mercato del lavoro”, ha sotto-

36 lineato Mario Draghi. Secondo la sua analisi sono l’ andamento dell’occupazione e gli effetti che il rischio di perdere il reddito da lavoro provoca sui consumi a costituire una remora pesante alle prospettive di rilancio dell’economia reale. “Alla fine del 2009 – continua il Governatore – vi erano in Italia oltre 600mila occupati in meno rispetto al massimo del luglio 2008. La quota di popolazione potenzialmente attiva che è, al momento forzata e inoperosa, è elevata e crescente”. È positivo, secondo Draghi, che la rete di protezione sociale sia stata di recente estesa “così da arginare disoccupazione e abbandono sociale”. Del resto, ha ricordato in un recente convegno a Milano il presidente di Assolombarda Alberto Meomartini, è proprio grazie al ricorso alla Cassa integrazione guadagni (con lo stratosferico incremento del 1400% nel regime ordinario e con quello, altrettanto imponente, del 500% nel regime straordinario) che sono stati “salvati”posti di lavoro stimabili nel numero di un milione. È facile immaginare quale sarebbe il clima sociale del Paese se ciò non fosse avvenuto. Ma è un fatto che le misure di rafforzamento della Cig sono state assunte, come rimarca Draghi, al di fuori di una revisione organica di questo strumento (senza perciò tener conto adeguatamente delle trasformazioni che hanno segnato il mercato del lavoro nel corso degli ultimi lustri); ne consegue, sempre secondo la sua analisi, che”finché la flessione dell’occupazione non s’inverte permane il rischio di ripercussioni sui consumi, quindi sul prodotto”. Se ne deve concludere che il lavoro, tanto nel suo ruolo di fattore di crescita della società che nel suo rapporto con le scelte di natura produttiva, si rivela, in questa drammatica fase della nostra storia, più che mai centrale e decisivo. Proprio partendo da questa convinzione l’ Associazione degli ex Parlamentari ha deciso di avviare, sin dall’autunno scorso, una riflessione approfondita su questi temi. È un impegno che ha preso corpo, in una prima fase, con due convegni, promossi Comitato campano e da quello lombardo dell’Associazione. Vi è poi l’obiettivo di giungere a una sintesi della indicazioni sin qui emerse da portare al confronto con le parti sociali e con le forze politiche. A Napoli, dove il convegno si è svolto il 7 novembre, sono stati l’allarme per la condizione del Mezzogiorno, le distorsioni indotte nel mercato

dal lavoro “nero” e il peso della criminalità in molte aree e settori produttivi, ad essere soprattutto al centro del dibattito, introdotto da un’analisi di Andrea Geremicca e da approfondite relazioni svolte da studiosi autorevoli quali Carlo Dell’Aringa, Enrico Pugliese e Mario Rusciano. A Milano invece è stato l’aspetto della trasformazione produttiva e dei suoi riflessi sul mercato del lavoro quello su cui si è maggiormente concentrata l’attenzione degli intervenuti. In particolare una relazione di Antonio Pizzinato, dedicata alla Lombardia, ha consentito di misurare la profondità dei cambiamenti che hanno, in mezzo secolo, profondamente mutato cambiato la fisionomia economica e sociale della regione, secondo un percorso che non è stato tuttavia lineare. “Nel 1951 si contavano circa 248mila unità locali e 1.700.000 addetti concentrati per oltre il 70% nell’industria”, ha ricordato l’ex Sottosegretario al Lavoro.”Nel 2006 le unità locali erano poco meno di 900mila con oltre 3.600.000 addetti, ma di questi l’industria ne assorbiva meno del 30 per cento”. In mezzo c’era stata una fase di forte espansione dell’industria manifatturiera e della fabbrica fordista (con un “picco” che, nel 1975, l’aveva portato a superare la soglia di 1.650.000 di addetti) alla quale ha poi fatto seguito un ventennio di costante contrazione, con la sempre più marcata prevalenza di terziario e servizi. Tendenze già note e non limitate alla Lombardia, ma che colpiscono se ricordate con tanta precisione e ricchezza di dati. È infatti l’entità di cifre così imponenti, scandite lungo l’arco di pochi decenni che dà la misura di quella che va considerata un’autentica rivoluzione produttiva e sociale, un processo evolutivo profondo, non compreso tempestivamente in tutte le sue implicazioni da una classe dirigente troppo spesso distratta ed ora crudamente esasperato dall’irrompere della crisi. Le trasformazioni che hanno segnato gli ultimi decenni – ha osservato Tiziano Treu in un saggio recente (“Italianieuropei”, settembre 2009 ) – incidono in modo non uniforme sul mondo del lavoro, accentuano i tratti di dualismo già presenti nel nostro Paese, fra aree geografiche, fra gruppi di lavoratori e fra età della vita, nonché le distanze fra chi subisce le criticità presenti e chi può approfittare del nuovo contesto”. Il peso di un’analisi troppo ancorata alla stagione delle grandi fabbriche, e del contesto operaio di massa che la loro esistenza alimen-


37

tava, ha portato gran parte della sinistra e del sindacato a una mancanza di attenzione, prima per la crescente realtà delle piccole imprese, portatrici di esigenze e aspettative specifiche, poi per l’espandersi delle attività legate alle professioni che un tempo si definivano “liberali” e alle nuove forme di lavoro diffuso, non a caso definito “atipiche”. Ma è proprio da questi mondi che oggi, sotto la spinta della crisi, si levano voci allarmate che reclamano attenzione con non meno urgenza e legittimità di motivazioni di quelle che sono avanzate dai lavoratori dipendenti. È la vasta platea delle “partite Iva” e delle microimprese, al confine fra fabbrica e studio professionale, che giornalisti attenti, come Dario Di Vico, stanno in questi mesi seguendo con particolare attenzione. Emerge, in primo luogo, un’esigenza: quella di una ricomposizione di visione che faccia, con maggiore coerenza del passato, da sfondo a iniziative, robuste e non di mera cosmesi, da parte delle Istituzioni.. Rileva Treu, nello scritto citato più sopra,: “ le trasformazioni delle imprese e dei lavori sono rese ulteriormente complesse perché si sommano a quelle del contesto familiare e sociale in cui i nuovi lavoratori operano”. È l’Italia degli ultimi trent’anni, con le sue specifiche dinamiche (crescita del ruolo delle donne; mutata composizione delle famiglie; prolungamento della vita media; difficoltà crescenti per le nuove generazioni; esigenza più stringente di efficienza nel sistema educativo) a porre precise e non eludibili domande. I rapporti fra la realtà del lavoro e questi fattori di contesto sono diventati, via via, sempre più influenti e in un rapporto biunivoco: non possono perciò essere considerati, come per troppo tempo è accaduto, poco rilevanti ed oggetto di una valutazione separata e distante. C’è, poi, un secondo elemento di ricomposizione sul quale Treu si sofferma. È quello relativo alla necessità di creare: “una base di regolazione comune delle principali condizioni di lavoro, uno «zoccolo comune» riguardante tutte le forme di rapporti, compresi quelli collocati nell’area grigia

del lavoro semi-autonomo e quelli facenti capo alle imprese piccole e medio-piccole”. Si tratta di un compito davvero non semplice e, tuttavia, non rinviabile in quanto è legato alla definizione di un plafond di diritti e di tutele che valga per tutti e che sia adeguato, dal punto di vista sociale, alla nuova realtà del lavoro e, al tempo stesso, economicamente sostenibile. Anche in questo caso forze politiche e sociali scontano tanti ritardi colpevolmente accumulati (si pensi alla troppo volte rinviata riforma degli ammortizzatori sociali) che ora pesano drammaticamente. Ma c’è una terza esigenza di ricomposizione che, ad avviso di chi scrive, va pure presa in attenta considerazione: il rapporto fra politiche del lavoro e politiche per il lavoro. Vi è stato un lungo periodo – dagli anni Settanta agli inizi degli anni Novanta – durante il quale il nostro Paese è stato prevalentemente caratterizzato da una fase di sviluppo senza occupazione. A questa – anche per effetto di importanti modifiche legislative relative alla regolazione del mercato del lavoro – ha fatto seguito una fase di forte ripresa dell’occupazione. Nel 2007 il tasso di occupazione italiano(58,7%)si è avvicinata, pur restando nettamente inferiore, a quello dell’Europa a 15 (66,9%).

37

Ma tale evoluzione, senza dubbio positiva, ha avuto una contropartita pesante: si è trattato infatti di una svolta verso una occupazione senza sviluppo. Inoltre, come mette in luce l’edizione aggiornata del Rapporto Isfol, apparsa nel 2009, la relazione positiva che generalmente esiste tra flessibilità del lavoro e produttività, non ha trovato pienamente riscontro nel caso italiano. Da noi infatti l’ impulso alla crescita dell’occupazione è derivato prevalentemente dal ricorso a contratti di lavoro di natura temporanea e la flessibilità ha mostrato la tendenza a deteriorarsi in precarietà. I contratti temporanei, d’altra parte, riguardando prevalentemente lavoratori “marginali”sul cui capitale umano le imprese risultano poco orientate a investire, hanno perciò prodotto uno scarso contributo in termini di produttività. Vi è stato, in definitiva, un trade-off sicuramente positivo per le imprese dal punto di vista del costo del lavoro (negli ultimi 15 anni le retribuzioni per unità di lavoro hanno segnato pesantemente il passo) mentre i livelli di produttività globale dell’economia non sono cresciuti e lo sviluppo è risultato inferiore a quello potenziale: esito che, alla luce della crisi in atto, desta accentuate preoccupazioni. Se si traccia un bilancio degli ultimi lustri si deve perciò affermare che se sul versante della politica del lavoro sono stati colti, come si è ricordato prima, risultati importanti bisogna invece riconoscere che un elemento di grave debolezza è derivato dall’assenza di un raccordo efficace con un politica per il lavoro, cioè con un indirizzo atto a dare slancio ai fattori produttivi ed a consolidare, in una visione lungimirante, la struttura economica del Paese attraverso scelte basate su qualità e innovazione. La crisi scoppiata a fine 2008 ha fatto insomma da detonatore a una situazione che da tempo era in incubazione. Ora si tratta di ripartire: appare preferibile affrontare una congiuntura, di per sé negativa, quale quella che stiamo vivendo, piuttosto che con una strategia di vista corta, basata esclusivamente su misure difensive, con una adeguata dose di ragionato coraggio.


Sarebbe assai utile che dal confronto pubblico, legato a un’assunzione di responsabilità collettiva, scaturissero pochi, ma netti, punti di riferimento. Molte sono le analisi che, in proposito, l’esplodere della crisi ha suscitato fra gli studiosi e molte sono le occasioni di riflessione offerte durante i recenti convegni di Napoli e Milano dell’Associazione ex Parlamentari. A chi scrive le più convincenti appaiono quelle che si cercherà di indicare di seguito, al netto della sommarietà implicita in una necessariamente grossolana sintesi. In primo luogo occorre considerare che un tasso di sviluppo robusto – necessario all’Italia per reggere alla sfida competitiva del mondo del 21° secolo – può derivare soltanto da una crescita contemporanea tanto della produttività del lavoro quanto dell’occupazione “vera”. È urgente perciò una ristrutturazione dell’apparato economico del Paese legata al rafforzamento dei settori trainati dal progresso tecnico e delle imprese sane in grado di stare sul mercato. “Politica industriale”, in questa ottica, non può quindi essere considerato, come troppo spesso avvenuto negli ultimi anni, un termine deteriore e impronunciabile. Non si tratta certo di tornare all’oscura stagione dello “Stato padrone” e dei “boiardi di Stato”. Si tratta, invece, di riconoscere che cambiamenti così profondi della geografia industriale e commerciale del mondo e della struttura del mercato del lavoro italiano come quelli ai quali siamo di fronte esigono una riflessione radicale circa le vocazioni produttive del nostro Paese. E che, di conseguenza, non è utile per nessuno trastullarsi nel dibattito “incentivi sì- incentivi no” e tanto meno fare dei finanziamenti pubblici (che, pur in assenza di una visione di politica industriale, sono continuati a fluire tanto costantemente quanto disordinatamente) il mero campo di esercizio di un potere discrezionale ed opaco. È corretto difendere il primato della politica se lo si correla all’esercizio di decisioni e responsabilità assunte democraticamente. Si tratta quindi, da parte di chi governa, di chiamare imprese e forze sociali a un confronto serio e trasparente in base al quale decidere quali obiettivi – nel quadro europeo e mondiale – l’Italia produttiva debba fondatamente perseguire. Su tale base diventerà plausibile fissare dimensioni

38 d’investimento e scelte d’indirizzo per il nostro apparato industriale che siano economicamente plausibili e socialmente accettabili. In questo ambito se il salario non può certo essere trattato alla stregua di una “variabile indipendente”, l’occupazione, d’altra parte, non può essere considerata un elemento passivo o residuale. Ma una rinnovata attenzione per la politica industriale non recherebbe alcun vantaggio alla lotta contro la disoccupazione se non fosse accompagnata anche da un impegno a ristabilire un corretto rapporto fra attività finanziarie e attività produttive. Come molti economisti hanno rilevato è, infatti, proprio nell’eccesso di finanziarizzazione subita dall’industria e nella esasperazione dei processi di esternalizzazione da questo provocato che vanno ricercate le ragioni di fondo della crisi scoppiata quasi due anni fa e le gravi ricadute che si sono prodotte sui livelli di occupazione. Vi è poi un secondo punto sul quale è necessaria chiarezza, ed è il Mezzogiorno. A questo tema il presidente della Repubblica, Giorgio Napoletano, ha dedicato di recente – con il messaggio di Capodanno e non solo – analisi approfondite e richiami puntuali. Ciò conforta la convinzione di quanti ritengono che, tanto più in una fase difficile dell’economia mondiale, sia necessario avere un indirizzo netto in materia. Nel dibattito pubblico emergono invece periodicamente posizioni che mostrano di sottovalutare la portata del dualismo che storicamente pesa sull’economia e sulla società italiane e la gravità della questione che ciò implica. Il Mezzogiorno accusa ritardi e la sua classe dirigente ha compiuto errori che nessuno intende negare, né certo va nascosto quanto dura e pericolosa sia la stretta criminale su questa parte del Paese. Ma, proprio per questo, occorre aver chiaro che sarebbe un tragico errore ritenere che, nella realtà globale nella quale siamo tutti immersi, qualche pezzo d’Italia possa salvarsi nell’indifferenza per gli altri o, addirittura, per il fatto l’Italia vada in pezzi. Al contrario – come ha ribadito un documento, sottoscritto presso la Svilez da un gruppo di autorevoli enti di cultura – per l’Italia appare decisivo il perseguimento, attraverso scelte pubbliche appropriate, di un sempre maggiore livello di coesione a cominciare da una compiuta unificazione economica. Obiettivo che le vicende della

crisi in atto hanno reso sempre più drammaticamente attuale. L’ultimo punto da sottolineare, accanto al rilancio della politica industriale e all’attenzione per il Mezzogiorno, riguarda il lavoro. Quale ruolo cioè questo fattore debba avere per contribuire a una ripresa che, per quanto riguarda l’Italia, è ben lontana dall’essersi concretizzata. La convinzione di chi scrive è che esso vada considerato decisivo e centrale. Non solo perché l’aumento del tasso di occupazione costituisce un fattore rilevante di coesione sociale e attiva un meccanismo positivo sul versante della domanda interna. Ma per una ragione di più elevato profilo. Come ci ha ricordato Pierre Carniti presentando la ricerca su “Il lavoro che cambia “, avviata tre anni fa dal Cnel, nel proclamare che la Repubblica “è fondata sul lavoro”, i Costituenti hanno voluto affermare solennemente che essa si fonda sul dovere, che è anche un diritto per ogni persona, di esercitare la propria capacità di contribuire al bene comune. È attraverso il lavoro che si diventa pienamente partecipi del destino della società in cui si vive. E, malgrado tanti aspetti del lavoro nel corso di più di sessant’anni siano profondamente cambiati, questo concetto è pienamente valido e attuale. Anche oggi, infatti, il lavoro –sottolinea Carniti – resta per tutti:” un elemento essenziale di identità, di appartenenza, di definizione di sé. In sostanza, continuiamo ad <essere> anche in rapporto a ciò che facciamo”. Il lavoro resta in cima alle preoccupazioni sia di chi ce l’ha e teme di perderlo; sia di chi non lo ha e non riesce a trovarlo. Dunque attorno al lavoro si concentra il massimo di attese dei cittadini. Ma di quale lavoro parliamo? Anche qui la Costituzione offre un’indicazione precisa: di un lavoro del quale sia sempre riconosciuta la dignità e che, in ogni caso, si svolga in modo tale da non recare danno alla dignità umana. Dunque il lavoro, elemento fondante della Repubblica, deve compiersi in un quadro di libertà, di dignità e di diritti: premessa necessaria affinché – soprattutto in una stagione di crisi qual è quella attuale – possano prendere corpo le speranze dei cittadini e siano poste basi davvero solide per lo sviluppo dell’economia e il miglioramento della società.




r

e

c

e

nsi

o

ni

I

n avvio di un invito alla lettura de “Il patto che ci lega” (Il Mulino, 2009), raccolta di una significativa selezione di discorsi, messaggi e interventi pronunciati dal Capo dello Stato Giorgio Napolitano nel corso della prima metà del mandato presidenziale, può essere utile prendere le mosse dalla testimonianza – non compresa nel presente volume – resa alla cerimonia in occasione del centenario della nascita di Norberto Bobbio. Nell’ambito di una rievocazione assai ricca, ove si rincorrono eventi e protagonisti del nostro Novecento politico e culturale e scorrendo la quale al lettore viene restituita una ricostruzione vivida di uno spaccato della storia del nostro paese, trova posto – accanto a quella intellettuale e politica – anche una dimensione istituzionale del discorso. Il Capo dello Stato si trattiene su una interpretazione per così dire “autentica” del proprio ruolo nel quadro del regime, parlamentare, vigente. “Tutti i miei predecessori – a cominciare, nel primo settennato, da Luigi Einaudi – avevano ciascuno la propria storia politica: sapevano, venendo eletti Capo dello Stato, di doverla e poterla non nascondere, ma trascendere. Così come ci sono stati Presidenti della Repubblica eletti in Parlamento da una maggioranza che coincideva con quella di governo, talvolta ristretta o ristrettissima, o da una maggioranza eterogenea, e contingente. Ma nessuno di loro se ne è fatto condizionare. Quella del Capo dello Stato “potere neutro”, al di sopra delle parti, fuori della mischia politica, non è una finzione, è la garanzia di moderazione e di unità nazionale posta consapevolmente nella nostra Costituzione come in altre dell’Occidente democratico”. Le istituzioni non sono fatte di finzioni né a lungo possono limitarsi a nutrirsi del senso di riverenza dei cittadini. Vivono di responsabilità, spirito di servizio e attenzione e cura per l’interesse generale. Questo altrimenti ineffabile interesse generale è, negli Stati retti da un ordinamento democratico, la Costituzione intesa appunto quale “patto che ci lega”, ed è in essa che il Presidente della Repubblica e le altre istituzioni politiche traggono poteri e limiti. Dovrebbero perciò assurgere il dovuto rilievo all’attenzione del lettore gli insistenti riferimenti che ritroverà di seguito, sulla scorta di ripetuti richiami del Capo dello Stato, al ruolo della politica, alla necessità di ritrovare la dignità per tornare all’altezza della propria insostituibile missione, all’invito rivolto ai partiti e segnatamente alle loro classi dirigenti affinchè la loro insostituibilità non coincida con un deperimento

Giorgio Napolitano

Il patto che ci lega Marco Plutino delle qualità democratiche del sistema ma, anzi, ad un rilancio della sua prosperità. Sistema dei partiti e capo dello Stato. Parte importante delle “legature” – per richiamare una terminologia dahrendorfiana – di quel patto vengono custodite, o messe a repentaglio, proprio dall’operato dei partiti, svolto in prima persona ovvero tramite le istituzioni rappresentative. Garante della preservazione di quelle legature, istituzionali e sociali, è in primo luogo il Capo dello Stato quale simbolo vivente dell’unità nazionale ed egli medesimo istituzione rappresentativa. Per chiarire questa apparente contraddizione, conviene far cenno al risvolto positivo di quella neutralità definita dal Presidente Napolitano significativamente in termini privativi e fortemente debitori della nota teoria constantiana (“Il vero interesse di questo capo non è affatto che uno dei poteri rovesci l’altro ma che tutti si sostengano, si intendano e agiscano di certo”; “sta in mezzo, ma al di sopra degli altri quattro […] non ha interesse a disordinare l’equilibrio, ma al contrario ha ogni interesse a mantenerlo”, cit. da Principi di politica). Ovvero l’esercizio concreto di una serie di poteri di grande delicatezza. Il Capo dello Stato rientra in effetti tra quel ristrettissimo novero di istituzioni cui spetta di mettere in opera il circuito equilibratore della garanzia costituzionale, pur traendo origine, a differenza di altri poteri presenti nel nostro sistema (come la magistratura),

41

dal circuito dell’indirizzo politico. L’opinione preferibile, confermata del resto dall’operato anche dell’attuale Presidenza, ricollega la funzione del Capo dello Stato all’attuazione, allo sviluppo e alla preservazione della Costituzione intesa quale quadro di principi irrinunciabili prima ancora che insieme di disposizioni positivamente vigenti che ne sono semmai manifestazione (e neanche l’unica possibile). Di questa azione, che è insieme di tutela e promozione, fa parte integrante il ruolo svolto al fine di operare una riconduzione, per quanto possibile, del processo politico ai suddetti principi. Ora enfatizzando i poteri di impulso – tramite i quali emergerà nelle forme in cui appare possibile e opportuno una quale forma di indirizzo – ora quelli di freno e/o mediazione – quale frutto di una istanza di controllo o raffreddamento del sistema – ma senza che né gli uni né gli altri possano prendere a lungo sopravvento senza trascinare questa stessa istituzione in una crisi di identità che può tradursi o essere manifestazione di una crisi costituzionale più complessiva. Sul piano della ricostruzione sintetica della figura, non è possibile, dunque operare alcuna reductio ad unum delle funzioni giacchè la figura, per volontà saggia del Costituente, dotata di una versatilità che corrisponde precipuamente alla sua preminenza per onori e in un certo senso per funzioni rispetto ad altri organi pur’essi qualificabili come “supremi”. L’elasticità dell’istituzione, diversamente interpretata, naturalmente, dai singoli presidenti e nei singoli contesti, appare utile a fornire quelle prestazioni di unità che il sistema costituzionale le richiede e giustifica, del resto, come nessuna delle più reiterate richieste o proposte di revisione della Costituzione attenga al ruolo della Presidenza per quel che fa (e non, invece, per il funzionamento discutibile o patologico di altri spezzoni della forma di stato e di governo, che semmai rende ancora più incisivo il suo operato). Non mancano, e non sono mai mancati, in verità, tentativi per caricare la funzione di compiti e responsabilità improprie. Proprio in tal senso sembrano acquistare maggior rilievo le insistenze del Capo dello Stato sulla neutralità insita nella carica che, però, per essere sottratta al rischio di essere qualificata alla stregua di una fictio iuris va correttamente compresa alla luce della logica di funzionamento complessivo del sistema. Il Capo dello stato viene insediato, inevitabilmente, da un voto di maggioranza che, non infrequentemente, si configura come espresso da una maggioranza “non qualificata”. È possibile anche, anche se è assai meno auspicabile,


42

r

che la maggioranza presidenziale coincida con la maggioranza parlamentare che sostiene il governo. Ebbene ciò dovrebbe restare indifferente all’esercizio della carica, quantomeno nel senso che mai il suo svolgimento può intendersi come espressione di un mandato rispondente alla maggioranza che l’ha eletto. La rappresentatività del Capo dello Stato è assai peculiare perché senza poter negare la rilevanza del “segno” politico che inevitabilmente deriva dall’elezione – peraltro nel parlamento in seduta comune, collegio più vasto dell’insieme dei parlamentari – ad essa si sovrappongono, prevalendo, due relazioni. Da un lato il legame verso una entità, la nazione, assai evocativa ma scientemente impedita dal punto di vista giuridico nella capacità di materializzarsi e di chieder conto dell’operato. Infine – la fonte stessa che delinea la complessa trama dei diritti e dei poteri – il documento giuridico positivamente vigente che è posto a base dell’ordinamento repubblicana. È la Costituzione, dunque, la sede dei poteri e dei limiti del Capo dello Stato in un senso che supera e trascende ciò che può affermarsi per le altre istituzioni rappresentative. Il Presidente della Repubblica, quale massima espressione simbolica dell’unità nazionale, è chiamato a far da argine ad ogni visione semplificata e distorta della democrazia politica, alla luce delle forme e nei limiti che incontra la sovranità popolare secondo la felice dizione dell’art. 1 della Costituzione italiana. Né, del resto, il riferimento alla collettività nazionale vale a ridurlo da un lato dalla statualità pura (il potere neutro alla maniera di Schmitt) né alle istituzioni che vivono per definizione le istante conflittuali della politica. A quest’ultimo proposito, però, occorre prendere atto che l’intrinseca politicità del Capo dello Stato non è affatto un incidente di percorso, in quanto vale a distinguerlo dalle giurisdizioni in senso proprio che hanno alla base del proprio compito di garanzia un criterio di nomina tecnocratica (dal quale è sottratta, peraltro, la stessa Corte costituzionale in virtù della natura delle sue attribuzioni). L’estrazione rappresentativa torna invece utile e indispensabile per giustificare la sua centralità rispetto alla fitta trama di relazioni che coinvolgono le principali istituzioni repubblicane (Governo, Parlamento, Corte Costituzionale, Consiglio Superiore della Magistratura, senza dimenticare il ruolo non formale svolto in rapporto alle forze armate). Proiezione di tale situazione sono i tanti poteri di cui il Presidente della Repubblica dispone, spesso assai discreti, ma all’occorrenza decisivi.

e

c

e

nsi

Le considerazioni finora effettuate rendono più agevole comprendere, in generale, la popolarità o la fiducia che gli istituti demoscopici segnalano da anni a proposito delle istituzioni che appaiono meno investite dalla crisi di credibilità che investe la politica italiana (e non solo), e, nello specifico, quel livello forse davvero singolare di consenso attorno all’operato dell’attuale Capo dello Stato sulla quale, comunque, altre sono le sedi su cui riflettere. Qui si intende solo sottolineare che tra quelle istituzioni maggiormente beneficiate di fiducia da parte dei cittadini (le forme armate e di polizia, il sistema dell’istruzione pubblica, le istituzioni della società civile, le magistrature), il Capo dello Stato ha oneri assai maggiori, in quanto svolge le sue funzioni immerso nelle dinamiche politiche della cui crisi viene sistematicamente investito. A questa stregua appare in parte scontato, in parte non condivisibile, il giudizio ricavabile da recenti riflessioni che registrerebbe uno slargamento di quel potere delicato e decisivo, cangiante nelle forme e sfumato negli effetti, noto come potere di “esternazione”. Ciò perché la transizione istituzione nella quale siamo immersi da venti anni (ma direi almeno dalla morte di Moro, volendo segnare un approssimativo spartiacque) rende inevitabile un accresciuto ruolo del Capo dello Stato di cui, anzi, il potere di esternazione è per definizione, se non si tramuta in atti o omissioni conseguenti come avveniva spesso nella presidenza Cossiga, segno di self restraint rispetto alle più incisive alternative disponibili. Del resto il sistema attuale dei mass media non è neanche lontanamente paragonabile a quello dell’avvento del regime repubblicano, per cui da un lato è inevitabile che ne faccia da cassa di risonanza assai maggiore, dall’altro che risulti invogliato l’esercizio di un potere che al tempo stesso appare tra i più blandi ma anche persuasivi. A tale proposito, segnalo invece un rischio diverso, ovvero che l’evoluzione non sempre responsabile dei media e l’avvitamento del sistema politico rischino di produrre, semmai, la tentazione di sovra-interpretare ogni manifestazione (e ogni silenzio) che giunga dal Quirinale caricando, nella migliore delle ipotesi, l’istituzione di un compito di supplenza davvero improprio. I poteri del Capo dello Stato, invece, sono inversamente proporzionali, nella frequenza d’uso e nell’intensità, allo svolgersi delle corrette dinamiche di potere e al buon funzionamento del circuito della rappresentanza politica cioè della rispondenza dei governanti ai governati.

o

ni

Il Capo dello Stato, negli scritti la cui lettura qui si propone attraverso qualche modesta considerazione, torna insistentemente sui due capi del problema che sono davanti a noi: il dato della crisi, con lucide analisi, e l’invito ad un uso responsabile del potere quale condizione indispensabile di un avvio a soluzione. La crisi italiana, del resto, appare sempre solidamente radicata nelle difficoltà dell’Europa e del mondo globale, sui cui innesta le sue innegabili peculiarità frutto di fattori lontani e recenti. La lettura dei discorsi presidenziali che qui si raccolgono, e degli altri che non appaiono (tra i quali, può ricordarsi un intervento reso presso la sede di Mezzogiorno Europa, che ebbe non piccolo rilievo sulla stampa nazionale proprio per il contributo che offriva sui temi in parola), fornisce la confortante conferma che non vi è problema di qualche importanza per l’interesse del paese, che non abbia trovato in questi anni un momento di articolazione, un riferimento magari scarno ma puntuale, o anche uno sviluppo analitico e che tra di essi le relazioni sono molteplici e continue. Sottolineerei alcuni elementi che non mi pare debbano passare sottotraccia, perché sono due qualità che il discorso pubblico, almeno istituzionale, dovrebbe far proprie ad ogni livello. Innanzitutto il gusto e l’urgenza di raccogliere le sfide della elaborazione culturale, confrontandosi come era più frequente un tempo, con esse: basti pensare al recentissimo intervento all’Accademia dei Lincei, o a quelli resi all’Università di Berlino o presso istituzioni universitarie e di ricerca anglosassoni. Che si tratti della questione meridionale, o del futuro dell’Unione, di una lettura complessiva della Resistenza o del federalismo fiscale, o, infine, della crisi delle economie mondiali, l’elevato tasso di tecnicismo dei problemi – che in un certo senso li rendono poco adatti, paradossalmente, al discorso pubblico – non dissuade il Capo dello Stato dal fornire una opinione schietta, un giudizio sicuro e calibrato, rifuggendo sempre dagli argomenti di maniera e mostrandosi sempre pronto ad offrire al dibattito le ricadute concrete delle opzioni in discussione (il Presidente ha spesso ribadito che non tocca al Capo dello Stato proporre soluzioni articolate e compiute, che sono e restano di pertinenza del circuito dell’indirizzo politico). Di qui un secondo tratto che mi pare di rilievo. Non v’è tema spinoso sul quale il Capo dello Stato non abbia trovato modo e maniera, se reputato utile, di prender “posizione”. In questo reiterato non volersi sottrarre alla sfida delle idee e alla


r

e

c

e

necessità di affermazioni anche scomode, il dato caratteriale, l’imperativo etico e il dovere funzionale convergono. Il Capo dello Stato apprezza, valuta, giudica, sprona, incoraggia, stigmatizza, esprime compiacimento e soddisfazione; ogni questione che richiama la sua attenzione viene investita da questo esercizio che, nel metodo, è fatto di senso della misura e di un uso attento verso un esercizio improntato alla proporzionalità e polivalenza dei propri poteri. Infine va chiarito che questo prender “posizione” in teoria non può che essere, ed ognuno giudichi se la pratica vi si attenga, un peculiare “prender parte”, nel quale nulla residui dello spirito di fazione o anche solo di partito, ma ove la propria storia personale e il corredo dei valori viene misurato sul metro delle scelte fondamentali poste in Costituzione, eventualmente anche in aperta polemica con letture più o meno convenzionali degli operatori politici e non del sistema che siano o appaiano omissive, distorcenti, corporative. Non è il caso di scendere nello specifico dei molti filoni e degli spunti che si traggono perché qualunque descrizione banalizzerebbe la loro, peraltro, assai agevole, lettura e, del resto, la raccolta è accompagnata da una ricca introduzione di Paolo Pombeni. Richiamo solo en passant il ruolo della memoria e dell’esempio, la necessità di una storia nazionale condivisa, l’insistere tipico di un discorso pubblico repubblicano e di un patriottismo declinato in chiave costituzionale (sulla scia delle riflessioni di Petitt e Habermas, riprese dai nostri Maurizio Viroli e Gian Enrico Rusconi). Forse soprattutto la consapevolezza che lo spirito di fazione, e di prevaricazione, corrode le fondamenta del vivere civile, avvelena il patto di convivenza, nuoce più delle peggiori politiche alla coesione sociale. Tutto ciò rappresenta l’approccio che, ad avviso del Presidente, dovrebbe impregnare le istituzioni verso le quali, a questa stregua, non esito di ricorrere a giudizi anche di notevole severità. I miei interessi di lavoro, tuttavia, mi inducono in conclusione a sottolineare come la via di uscita prospettata e anche sollecitata dal Presidente Napolitano non si risolva in una generico appello alla lealtà verso lo Stato, alla moderazione dei comportamenti e degli egoismi, in un invito a ritrovare le ragioni della comune obbligazione politica. Non si fa esclusivo appello a virtù civili o ad un generico ritorno dell’etica individuale e collettiva, pur evidentemente importante ma che, senz’altro, rischierebbe di restare un nobile e illusorio invito privo di gam-

nsi

o

ni

be sul quale camminare. Il Capo dello Stato, in coerenza con una lunga militanza riformista (e parlo innanzitutto di un approccio metodologico e di cultura istituzionale, prima che di una cultura politica), chiama in causa innanzitutto l’uso che una più coraggiosa politica deve fare dell’innovazione istituzionale. Ciò non esclude che, accanto a livelli quali quello dei regolamenti parlamentari più immediatamente espressione del gioco politico-parlamentare, anche il livello costituzionale possa essere interessato da interventi parziali ispirati a soluzioni condivise (o che siano almeno frutto di un realistico confronto) relativamente a quelle disposizioni che maggiormente mostrano i segni del tempo o si sono rivelate inadeguate. Ma sempre e unicamente al fine di salvaguardarne e rilanciarne il patrimonio di principi e valori. Un discorso estraneo alle tortuosità autoferenziali della politica di cui siamo spesso testimoni (ad esempio a proposito di leggi elettorali, per poi ritrovarci la peggiore soluzione del mondo occidentale), in quanto l’accento sulle regole viene sempre illustrato per le ricadute che deve produrre a beneficio della cittadinanza. Insomma, regole e istituzioni più moderne e credibili, nella fedeltà ai valori e agli equilibri costituzionali – così si potrebbe forse sintetizzare il pensiero del Presidente – restano un presupposto per avviare a risoluzione i tanti nodi irrisolti della crisi italiana. Il Capo dello Stato si intrattiene su molti di essi tra cui, a mero titolo di esemplificazione, il permanente disagio di fasce sempre più ampie della popolazione, lo spreco o lo sfruttamento improprio di enormi energie e risorse (anche, ma non solo, umane: i giovani, le donne, gli immigrati, accanto ai paradossi del fisco, ai rischi ambientali, ai costi della giustizia e dell’amministrazione per il cittadino, al mancato decollo di un vero regionalismo, etc.), il ritorno di una cultura della legalità – fatto tra l‘altro di un nuovo modo di legiferare attento ai valori della certezza, della chiarezza, del decentramento – nella quale possa prosperare lo sviluppo virtuoso a detrimento degli affarismi e della criminalità. Spetta alla politica raccogliere la sfida, che è poi la sfida per una integrale attuazione della Costituzione. Solo la cattiva politica può decidere di perderla.

43


44 Consiglio europeo era stato convocato per una grande discussione di fondo sulla governance economica : non cantiere ancora aperto so che dire. Si trattava della prima iniziativa di Van Rompuy, il nuovo Bene: i socialisti hanno fatto la voce presidente del Consiglio europeo. grossa a settembre, quando non hanno Quest’ultimo aveva già dovuto suvotato per la nomina di Barroso a Preperare una certa riluttanza di Zasidente della Commissione, e hanno patero a non esercitare più il ruolo cambiato atteggiamento a febbramolto mediatico che spettava al capo io. Era senz’altro prevedibile. La del governo del paese che aveva la di Andrea Pierucci Commissione Barroso II è nata presidenza del Consiglio, cioè quello di con 488 voti a favore 137 contro Presidente del Consiglio europeo. Quee 72 astenuti. Hanno votato a sto ruolo è ora, appunto, permanente e sarà favore in genere i socialisti (S& esercitato per due anni dall’ex capo del goverD), i PPE ed i liberali (ALDE), no belga, sperando che le cose vadano meglio contro i comunisti e l’estrema di questo difficile inizio. destra – o più precisamente, Dall’altro lato la nuova Signora della politica estela destra euroscettica – e si ra non pare splendere nel firmamento comunitario. Dopo sono astenuti i Conservatori ed aver detto, senza alcuna conseguenza, al Parlamento che non i Verdi, pur volendo questi ultimi, conosceva il problema della composizione del Consiglio di sicunelle parole di Daniel Cohn-Bendit, rezza delle Nazioni Unite ed una serie di altri « non so » si ritrova dissociarsi dagli atteggiamenti antieuropei degli oppo- sitori. I socialisti hanno scelto di votare sì dopo un forte impegno di Bar- ormai nelle leggende metropolitane di Bruxelles. Si mormora che roso sulle questioni sociali. Sul tema, interrogato dalla stampa, nel primo comunicato stampa in cui protestava per la condanna Barroso ha affermato che la svolta apparente della Commissione, a 11 anni di prigione a un dissidente cinese, si sia confusa con un che per cinque anni era stata accusata di non aver avuto grandi altro! I perfidi dicono che non sappia nemmeno leggere le indicaslanci nel sociale, è dovuta alla gravità della situazione sociale zioni che vengono da Washington ! D’altra parte, la politica estesuccessiva alla crisi. D’altro canto, Barroso ha, proprio nei giorni ra dell’Unione è largamente sparita dallo scenario internazionale. del voto parlamentare, espresso una forte attenzione ai problemi Obama, i cinesi, l’Iran, addirittura Berlusconi per la sua straordidella povertà e dell’esclusione, forse anche in ragione dell’inizio naria miopia nel non vedere il muro di Israele contro i Palestinesi, dell’anno europeo della lotta contro la povertà. Barroso ha, sem- tengono banco. L’Europa, dopo il vertice con la Cina del 30 novembre e la partecipazione al vertice di Copenhagen sul clima, è bra, convinto i socialisti. Rivengo tuttavia su un paradigma permanente dell’Unione che lentamente sparita dagli schermi. Arriviamo al punto che la Libia fin da “quando Monnet incontrò Schuman” si è sempre basata blocca gli accessi dei passeggeri dei paesi Schengen perchè la Svizsull’accordo istituzionale e politico dei democristiani, dei sociali- zera è stata scortese e nessuno dice praticamente niente. Quel che mi perturba soprattutto è che il Parlamento non dica sti e dei liberali. In qualche modo, la scelta socialista era obbligata se non si voleva avere una Commissione di “cartone”, in pericolo nulla. Certo, è stato impegnato nelle audizioni dei futuri Commisad ogni stormir di fronda di trovarsi spiazzata in Parlamento o di sari, ormai per l’essenziale un rito sanguinario che si conclude col fronte al Consiglio. Non sono sicuro che un parallelo con la realtà sacrificio dell’uno o dell’altro Commissario (questa volta è toccato interna dei singoli Stati, nei quali le forze citate si raffigurano come alla bulgara), che rafforza il potere di pressione del Parlamento sulla antagoniste, sia completamente legittimo. Tuttavia, non possiamo Commissione, ma che ha effetti politici concreti molto, molto poco che confermare che una vera ambiguità esiste (“se Berlusconi e interessanti (certo è ottimo eliminare un candidato Commissario per Bersani non sono d’accordo”, non si fa nessuna legge europea) e ragioni politiche o per sospette contiguità con la criminalità, ma che presto o tardi rischia di avere conseguenze nazionali ancora questa non è la grande politica; su quest’ultima, grandi silenzi !) È tempo che il Parlamento si svegli e obblighi la Commissione a fare più evidenti di adesso. Ora, dunque, tutte le istituzioni sono a regime, pronte ad agi- proposte coraggiose e d’avvenire e che, esso stesso lanci grandi re al meglio! Speriamo! Mi sembra che, se sul piano della Com- campagne politiche. Ormai il problema cruciale dell’Europa non missione si vedono segnali positivi, meno brillante è la situazio- è istituzionale come negli ultimi trent’anni, ma strettamente poline delle due nuove istituzioni, Consiglio europeo e Mme PESC. tico. Poco interesserà al cittadino, una volta garantito un sistema Il Consiglio europeo dell’11 febbraio si è concluso in modo poco democratico, chi fa le cose; piuttosto sarà gratificato o ferito dalle chiaro circa il sostegno alla Grecia, se è vero che i titoli di alcu- politiche concrete dell’Europa. La speranza è che quando Barroso presenterà il programma ni giornali sostenevano che l’Unione e la Germania, in particolare avevano salvato la Grecia ed altri sostenevano il fallimento del politico e di lavoro della Commissione in marzo ci sarà qualche Consiglio europeo proprio nel salvataggio della Grecia. Inoltre, il cosa di più, qualche luce di speranza. Resta da vedere come si

Le Istituzioni europee:

Euronote


45 farà con la politica estera che, per il momento davvero langue e minaccia di languire ancora di più. Insomma, tutte le caselle sono formalmente al loro posto, ma il cantiere dell’Europa di Lisbona resta sostanzialmente aperto.

Intanto la crisi continua

Anzi, se vogliamo essere precisi, peggiora perchè tocca i normali cittadini, i lavoratori i piccoli imprenditori, escludendoli dal lavoro, e quelli che non lo hanno, specie i più giovani, mettendoli in condizione di non sperare. UE 2020 è la grande soluzione preconizzata da Barroso (giusta, probabilmente), ma c’è un problema : come ci si arriva se la società europea esce stravolta dalla crisi. Se non si riesce a risolvere il problema immediato, quale può essere la credibilità dell’Europa e dei governi degli Stati membri nel rilanciare la prospettiva? Soprattutto dopo che, per salvare le Banche (che ora fanno ai politici pagatori sberleffi e pernacchie) ci si è dissanguati? Come risolvere il problema degli ammortizzatori sociali che ormai scadono dopo una così lunga crisi? Dove trovare i soldi? Lo, lo so: dare i soldi a chi non ce l’ha è un grave errore economico; qualunque teorico del liberismo direbbe che si tratta di una soluzione irrazionale. Non può che avere ragione. Poi però di tutta questa gente senza salario e senza sostegno che ne facciamo? Aumentiamo il numero di poveri nelle strade? Affossiamo la nostra società comunque solidale? Non so se si tratta di aumentare le tasse o di gestire meglio i soldi : ma non si può immaginare una società non solidale, accompagnata dalla pace sociale. Non c’è bisogno di essere profeti per immaginare che uno scenario non solidale sarà foriero di sventure ! Come si ricordava nel numero precedente, il 2010 è l’anno della lotta contro la povertà: se non si prenderanno misure lo ricorderemo come l’anno di una crescita spropositata della povertà! Per fortuna, in Germania, il Tribunale costituzionale (9 febbraio 2010, 1 BvL 1/09, 1 BvL 3/09, 1 BvL 4/09), annullando una legge che riduce l’assistenza ai disoccupati, ha considerato che una legge che non permette una vita degna per ogni cittadino è contraria alla Costituzione. In particolare, la Costituzione, quando afferma la dignità della persona, si riferisce alla dignità di un cittadino, al quale, per definizione non basta la pura sopravvivenza. È una buona sentenza, che si contrappone in modo radicale alla tendenza alla compressione dei diritti sociali ed alla riduzione dei diritti del lavoratore alla mera sopravvivenza; per non parlare poi dei diritti dei poveri, rispetto ai quali c’è sempre più da preoccuparsi.

Mercedes Bresso è la nuova Presidente del Comitato delle Regioni

Finalmente una buona notizia, non solo perchè la nuova Presidente è italiana, ma soprattutto perchè nessuno può negare il suo impegno europeo e le sue qualità politiche. Naturalmente, se non dovesse essere rieletta presidente della Regione Piemonte ci po-

trebbe essere un problema da risolvere (si può essere membri del Comitato solo se si è eletti o responsabili davanti ad un’assemblea eletta a livello regionale o locale). Sarebbe davvero un peccato, ma incrocio le dita affinché questo non si verifichi. Per la prima volta, ci sono due Presidenti italiani delle istituzioni consultive, Mercedes Bresso, appunto, e Mario Sepi, sindacalista, Presidente del Comitato economico e sociale europeo fino ad ottobre. Entrambi appartengono o simpatizzano per forze diverse da quelle di governo. Questo fatto – evitiamo inutili polemiche – ci dovrebbe consolare perchè mostra una presenza italiana a Bruxelles efficace e rispettata, almeno al livello degli organi consultivi, che riesce a farsi strada, nonostante i conflitti italiani ed a costruire qualcosa. Sepi ha già fatto parecchio per rilanciare il Comitato economico e sociale europeo, caduto in uno stato un po’ critico. La Bresso, se non ci delude in corso di mandato, dovrebbe anch’essa rappresentare un’ottima opportunità per il Comitato delle Regioni. La questione è oramai importante perchè tanto il Comitato delle Regioni, quanto il Comitato economico e sociale europeo hanno compiti nuovi da svolgere col Trattato di Lisbona, in particolare per portare l’Europa più vicino ai cittadini. Intendiamoci, questa frase è pessima, perchè sottintende che l’Europa è altro dai suoi Stati e dai suoi cittadini, ma, certo, è necessario rilanciare la coscienza europea dei cittadini.


Lavoriamo per ampliare i tuoi orizzonti. Camere di commercio d’Italia per l’internazionalizzazione delle imprese.

Aiutare le imprese italiane a portare i loro prodotti sui mercati mondiali, questo è l’impegno delle Camere di commercio. Uno sforzo sostenuto da molteplici iniziative: dall’organizzazione di missioni commerciali all’accesso a iniziative e programmi comunitari, dalla realizzazione di accordi internazionali all’assistenza per l’attrazione di investimenti, fino al portale www.globus.camcom.it. Azioni realizzate anche grazie al Sistema camerale italiano all’estero. Tante opportunità per un Made in Italy senza confini.

www.unioncamere.it www.cameradicommercio.it


La rivista la puoi trovare presso Le librerie:

Centro librario Molisano Viale Manzoni, 81‑83 CAMPOBASSO – Tf. 08749878 Isola del Tesoro Via Crispi, 7‑11 CATANZARO – Tf. 0961725118

Feltrinelli Via S. Tommaso D’Aquino, 70 NAPOLI – Tf. 0815521436

Tavella Corso G. Nicotera, 150 LAMEZIA TERME

Piazza dei Martiri – Via S. Caterina a Chiaia, 33 NAPOLI – Tf. 0812405411

Domus Luce Corso Italia, 74 COSENZA

Piazzetta Barracano, 3/5 SALERNO – Tf. 089253631

Godel Via Poli, 45 ROMA – Tf. 066798716; 066790331

Largo Argentina, 5a/6a ROMA – Tf. 0668803248

Libreria Rinascita Via delle Botteghe Oscure, 1‑2 ROMA – Tf. 066797460

Via Dante, 91/95 BARI – Tf. 0805219677

Edicola c/o Parlamento Europeo Rue Wiertz – Bruxelles

Via Maqueda, 395/399 PALERMO – Tf. 091587785

Libreria La Conchiglia Via Le Botteghe 12 80073 Capri

Librerie Guida Via Port’Alba, 20 – 23 NAPOLI – Tf. 081446377

Libreria Cues Via Ponte Don Melillo Atrio Facoltà Ingegneria Fisciano (Sa)

Via Merliani, 118 NAPOLI – Tf. 0815560170

C/o Polo delle Scienze e delle Tecnologie – Loc. Montesantangelo Napoli

Via Caduti sul Lavoro, 41‑43 CASERTA – Tf. 0823351288

H3g – Angelo Schinaia C/o Olivetti Ricerca SS 271 Contrada La Marchesa Bitritto (Ba)

Corso Vittorio Emanuele, Galleria “La Magnolia” Avellino – Tf. 082526274

Libreria Colonnese Via S. Pietro a Majella, 32-33 – 80138 Napoli – Tel. +39081459858

Corso Garibaldi, 142 b/c SALERNO – Tf. 089254218 Via F. Flora, 13/15 BENEVENTO – Tf. 0824315764

Le Associazioni, le biblioteche, gli Istituti:

Loffredo Via Kerbaker, 18‑21 NAPOLI – Tf. 0815783534; 0815781521

Ist. Italiano per gli Studi Filosofici Via Monte di Dio, 14 NaPOLI – Tf. 0817642652

Marotta Via dei Mille, 78‑82 NAPOLI – Tf. 081418881

Associazione N:EA Via M. Schipa, 105‑115 NAPOLI – Tf. 081660606

Tullio Pironti Piazza Dante, 30 NAPOLI – Tf. 0815499748; 0815499693

Fondazione Mezzogiorno Europa Via R. De Cesare 31 NAPOLI – Tf. +390812471196

Pisanti Corso Umberto I, 34‑40 NAPOLI – Tf. 0815527105

Archivio Di Stato Di Napoli Via Grande Archivio, 5 Napoli

Alfabeta Corso Vittorio Emanuele, 331 TORRE DEL GRECO – Tf. 0818821488

Archivio Di Stato Di Salerno P.zza Abate Conforti, 7 Salerno

Petrozziello Corso Vittorio Emanuele, 214 AVELLINO – Tf. 082536027

Biblioteca Universitaria Via G. Palladino, 39 Napoli

Diffusione Editoriale Ermes Via Angilla Vecchia, 141 POTENZA – Tf. 0971443012

Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze Piazza Cavalleggeri 1 – Firenze

Masone Viale dei Rettori, 73 BENEVENTO – Tf. 0824317109

Biblioteca Nazionale “V. Emanuele III” P.zza del Plebiscito Palazzo Reale – NaPOLI

Mezzogiorno Europa

Direttore responsabile Andrea Geremicca

Periodico della Fondazione

Art director Luciano Pennino

Mezzogiorno Europa – onlus N. 1 – Anno X – Gennaio/febbraio 2010 Registrazione al Tribunale di Napoli n. 5112 del 24/02/2000 Via R. De Cesare 31 – Napoli tel. +39 081.2471196 fax +39 081.2471168 mail‑box: fondazione@mezzogiornoeuropa.it

Comitato di redazione Osvaldo Cammarota Cetti Capuano Luisa Pezone Marco Plutino Ivano Russo Eirene Sbriziolo Manuela Siano

Coordinamento e segreteria Ottavia Beneduce Uliana Guarnaccia Consulenti scientifici

Sergio Bertolissi, Wanda D’A­­les­sio, Mariano D’Antonio, Vittorio De Cesare, Biagio de Giovanni, Enzo Giustino, Gilb­ erto A. Marselli, Gustavo Minervini, Massimo Rosi, Adriano Rossi, Fulvio Tessitore, Sergio Vellante Stampa: Le.g.ma. (Na) – Tel. +39 081.7411201

Come abbonarsi Il costo dell’abbonamento annuale è di € 100,00 (sei numeri); il costo di una copia è di € 20,00. La sottoscrizione di un abbonamento può avvenire: direttamente presso la sede della Fondazione, previo appuntamento; oppure inviando i propri dati – insieme al recapito al quale si desidera ricevere la rivista e alla copia della ricevuta del versamento – attraverso il modulo online disponibile sul sito www.mezzogiornoeuropa.it, o via fax al numero +390812471168. La quota può essere versata: sul c.c.p. n. 34626689 intestato a: Centro di Iniziativa Mezzogiorno Europa ONLUS; oppure sul c.c. n. 27/972 del Banco di Napoli – Ag. 77 intestato a: Fondazione Mezzogiorno Europa ONLUS – IBAN IT29 G010 1003 4770 0002 7000 972. L’ABBONAMENTO DECORRE DAL NUMERO SUCCESSIVO ALLA DATA DI PAGAMENTO


c’è un patrimonio che ci sta particolarmente a cuore. Il nostro pianeta è la cosa più importante che abbiamo. E va protetto. Noi di Intesa Sanpaolo vogliamo dare il nostro contributo, anche offrendo soluzioni dedicate alle famiglie e alle imprese che scelgono l’energia pulita. Perché la natura è il migliore investimento.

www.ambiente.intesasanpaolo.com

Banca del gruppo

Messaggio pubblicitario con finalità promozionale. Per le condizioni contrattuali consultare i Fogli Informativi a disposizione in Filiale. La concessione del finanziamento è soggetta alla valutazione della Banca.


Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.