Teatro testi e studi estratto per blog

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ARNALDO PICCHI

TEATRO testi e studi

a cura di Massimiliano Briarava prefazioni di Gerardo Guccini, Giuseppe Liotta e una nota di Ubaldo Soddu


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ARNALDO PICCHI

TEATRO testi e studi

a cura di Massimiliano Briarava prefazioni di Gerardo Guccini, Giuseppe Liotta e una nota di Ubaldo Soddu


Posso prendere in considerazione i fenomeni della materia – colori, pasta, spessori, modi di impiantarli; sonorità, voci di donna, voci di basso, di bambini; sintassi, rime, battito di accenti ecc. solo quando sono in turbolenza col significato dichiarato, o col racconto-origine, col fatto umano. Quando denotazione e connotazione sono ostili l’un altro – personaggi che mentono ai loro autori ben prima che al loro pubblico. Ah, il problema della sceneggiatura! Un problema che è entusiasmante e carico di senso per il solo fatto di esistere e di non ammettere soluzione. (…) Ha qualcosa a che fare con pulizia, ordine, proporzionalità, armonia, consolazione, bellezza? Niente. Con riscossioni di crediti, ricompense, litigi, salvezza? Niente. Con iconoclastie, ribellioni, abiezione, voracità, paura? Niente. Con la verità? Niente. Con i leccaculi, le società segrete, con l’assistenza pubblica, con “castitàpovertà-ubbidienza”, ovvero “noia-disperazione-impazienza”, con la follia, la riduzione in schiavitù? Niente. Col pianto, col coito, coi mugólii di gioia? Niente. Ma allora che cazzo è, se a qualunque cosa io la connetta la risposta è sempre no. Io credo che abbia qualcosa a che vedere con l’amicizia; ma a questa condizione: che i due, o tre, uomini, i tre interlocutori che si sono incontrati per destino, si parlino al buio, senza toccarsi, senza distinguersi dai timbri delle voci, e ciascuno racconti all’altro quello che ha visto e quello che ha finito per cavarne. Che siano capaci di ridere; e anche di inventare. Di capire che quell’incontro è tutta la realtà umana esperibile, tutta quella che c’è in giro. Che scherzino e si commuovano, se è il caso – e anche di questo. Il loro non è un conversare qualunque; è un gioco serio, è una gara («per chi perde c’è la morte» – dice una canzone). E poi se ne ripartano l’uno dall’altro per come sono venuti, prima che faccia mattina. E che mai nessuno sappia chi era l’altro, e che faccia aveva eccetera. Tutto torna in cenere. Io credo che l’energia di presenza sia qui, in questo incontro, in questo dialogo notturno. (Arnaldo Picchi, Canovacci per le lezioni del penultimo corso, 2006)


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Sommario x x x

Prefazione Con la sola propria parola. Nota del curatore Arnaldo Picchi. Bibliografia e teatrografia

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I. IL LABORATORIO (2006-1986) Introduzione, di Gerardo Guccini

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La Iena di San Giorgio di Gualberto Niemen (2006) Ringraziamenti Appendice 1. Due lettere a un giovane amico laureando con una tesi su La marionetta nel teatro di regia Appendice 2. Giorgio Orsolano, grande artista - estratti dal diario del corso di istituzioni di regia 2005/06 Note

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Wake (2003) Appendice. Appunti per Max Note

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Il Consiglio d’Egitto di Leonardo Sciascia (1999/2000) Studi per una sceneggiatura Appendice. Sulla sovranità Note

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Il Consiglio d’Egitto ovvero Gli impostori Note

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Descrizione degli increduli (1996/97) studi per un allestimento del Vangelo, da Pasolini Note

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II. IL GRUPPO LIBERO (1983-1968) Introduzione, di Giuseppe Liotta

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Il Messicano di Jack London. Un’interpretazione (1979) Appendice 1. Roberto Roversi, Io applaudo io fischio Appendice 2. Arnaldo Picchi, Un’interpretazione

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Il viaggio meraviglioso ovvero Turandot (1973)


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Appendice. Da «Fuori e dentro il testo»

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Grande rappresentazione per la morte di Sante Caserio (1972) Note

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Materiali per un probabile allestimento di Santa Giovanna dei macelli di Bertolt Brecht (1969) Commento al testo Il testo Le battute libere Indicazioni tecniche

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Appendice: un articolo de “Il resto del Carlino”; Stralcio dalla denuncia depositata alla Pretura di Spoleto


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Nota del curatore

Con la sola propria parola di Massimiliano Briarava

À rebours. Controcorrente, ma mai fuori dal tempo, né lontano dagli uomini. Controcorrente dentro il tempo e in mezzo agli uomini e alle loro costruzioni, col potere della sola propria parola. Questa selezione dalla teatrografia di Arnaldo Picchi (1944-2006), regista teatrale, drammaturgo, poeta, professore universitario, pedagogo, illustra una simile missione, partendo dalla fine e arrivando fino all’inizio, secondo un percorso anacronistico, dal più presente al più distante, a provocare almeno un po’ l’ordine che si impone alla Storia. IL LABORATORIO (2006-1986) Nel 2006 Arnaldo Picchi è al Dams da 30 anni, è tra quei giovani ora maturi che avevano contribuito alla nascita del primo Dipartimento di Arte, Musica e Spettacolo in Italia, a Bologna; è docente di Iconografia teatrale dal 1984 e supplente di Squarzina alla cattedra di Istituzioni di regia dal 1987. Migliaia sono gli studenti che negli anni hanno frequentato il suo laboratorio di regia che ora, per motivi economici e con l’avvento della riforma universitaria, sta per terminare le sue attività. Con i pochi studenti rimasti elabora un primo studio scenico per La iena di San Giorgio, del burattinaio Gualberto Niemen. L’adattamento da lui realizzato è la prima deliberata esposizione del suo metodo di lavoro, detto degli intarsi, delle storie segrete che reggono le presenze sceniche. Il copione è dunque questo ipertesto, ricamato di riferimenti, rivestito dei relativi midrash, interpretazioni della “sacra scrittura” drammaturgica, utili alla pratica e alla didattica: ogni pagina è colma di riferimenti incrociati, di confronti lanciati nel tempo passato e verso il futuro, a riconoscere sopravvivenze e forme del pathos, come in un pannello dell’Atlante della memoria di Aby Warburg, come in un compendio, sentendo che una storia è finita, e ora può essere raccontata. Del 2003 è l’esperimento drammaturgico più significativo, ambizioso e delicato. Violenza di un atto privato ora esposto, di un lutto privato della sua riservatezza. Wake, dedicato alle memoria di una giovane ragazza scomparsa, la figlia di un amico, è simposio di poeti sopraggiunti da ogni luogo e tempo a cantare per lei, Veronica, volto santo. Tanti poeti accolti da Picchi e dai suoi studenti nel grembo del


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laboratorio, a comporre una drammaturgia combinatoria: esericizio spirituale ed incantesimo, nella violenta forma primitiva, archetipa, della fiaba. Wake è scritto pensando a Gerusalemme, luogo della resurrezione, dove debutta all’interno del X Thespis, Festival internazionale di teatro universitario. Nel 1999, dopo i due anni dedicati alla realizzazione dell’Enzo re di Roberto Roversi (vedi Enzo re. Dalla pagina alla scena, Quaderni del Battello Ebbro, Porretta, 2012), Picchi prosegue nel suo particolare interesse verso il trattamento teatrale di fatti e figure storiche, e il loro riverberarsi sul presente – in un anacronismo che per l’arte tutta, visiva, letteraria, musicale, è statutario –, proponendo come testo monografico del suo corso di regia il romanzo storico Il Consiglio d’Egitto di Leonardo Sciascia. Su questo soggetto Picchi prende a elaborare un appassionato studio di sceneggiatura che si riversa poi in una drammaturgia, condivisa solo con pochissimi dei suoi studenti, al di fuori del laboratorio (questa di fare dono personale, a pochi intimi amici, delle proprie opere drammatiche o in prosa è una consuetudine che indica il valore di intimità irrinunciabile che Picchi attribuisce al proprio lavoro; quella “amicizia” che è il segreto di una buona sceneggiatura, quella non-negoziabilità che è alla base del suo fare teatro politico, fuori dalle regole del teatro e della politica stessi, intesi come atti pubblici, consegnati indiscriminatamente al giudizio del pubblico). Attraverso i temi toccati nel trattamento per Il Consiglio d’Egitto, Picchi arriva infine, in modo diretto, ad affrontare uno dei temi che più lo appassionano da sempre: la storia della rivoluzione francese, alla quale dedica studi e spettacoli nei due anni successivi. Nel 1996 e 97 è l’altro tra i temi cardine nel pantheon di Picchi a trovare spazio per una problematizzazione approfondita: circa un anno viene impiegato nel tentativo di cogliere una chiave di lettura soddisfacente per un allestimento dei Vangeli, e dunque della storia di Cristo, a partire dalla sceneggiatura della versione cinematografica del Vangelo di Matteo, realizzata da Pier Paolo Pasolini. Il tema è estremamente complesso e così coinvolgente da estenuare: lo studio si interrompe nel momento in cui viene riconosciuta, non senza dubbi, non senza speranza, una possibile via per la resa scenica dei miracoli di Cristo, una possibilità che si esprime interamente nel titolo scelto per il lavoro: Descrizione degli increduli. I vent’anni del Laboratorio teatrale di Istituzioni di regia con gli studenti del Dams si raccolgono qui su quattro testi sperimentali dell’ultimo periodo, quando più forte si fa in Picchi il desiderio di saldare le idee che hanno retto il suo trentennale lavoro di regista e docente, quando la sua missione teatrale, prettamente didattica, strenuamente non mercantile, è una conquista acclarata, per qualcuno un limite, per lui un confine ben definito, un luogo protetto e protettivo: la ricerca pura. Una riscrittura a intarsi (La Iena…), una drammaturgia combinatoria (Wake), un adattamento teatrale (Gli impostori, da Il Consiglio d’Egitto), una riflessione sui limiti della rappresentazione (Il Vangelo), quattro testi sperimentali e spettrali: il primo


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inscenato come studio e solo per metà, il secondo interamente passato al vaglio della scena, il terzo solo scritto, il quarto solo pensato. I testi “messi in voce” e portati fino in scena sono dunque snelliti, rapidi, risolti; quelli tenuti sulla pagina sono ancora letterari, aspettano pazienti di «vedere che cosa sai fartene» (come Arnaldo scrive sulla prima pagina, bianca, della sua raccolta di racconti Le raccomandazioni all’amico più giovane, che mi dona nel giorno della mia laurea). Nei tre testi già pensati spazialmente la scena è sempre interiore, il tempo sempre dilatato a coprire tutto quello che può esserci tra noi e i complessi stratagemmi della Storia e del ricordo – colpa, invenzione, esaltazione, immortalità, ritorno. Il teatro di Picchi è abitato da spettri e il suo tempo, sintetico, permette al testo di affiorare in maschere mostruose e meravigliose, ma vere. I personaggi, mai sottomessi alla scrittura, sempre accolti con religiosa fiducia nella loro autonomia, tanto quelli realmente esistiti quanto quelli fittizi, trascendono il loro breve passaggio in scena, sempre più in là di quanto dicano o facciano per noi / per gli attori, che dai personaggi impariamo l’arte della dissimulazione onesta. Bisogna contemplare anche l’indicibile, il mistero. Così il quarto testo drammatico, quello sul mistero della fede, resta in silenzio, mesi e mesi di lavoro ne hanno giusto lasciato affiorare un possibile titolo, e la paura – o il sollievo – di avere raggiunto quel luogo dove il teatro non è ancora nato; è però concepito – cresce e scalcia dentro il corpo del testo sacro. Ma, nella sua prospettiva sempre pedagogica, sui binario paralleli dei corsi accademici e dei laboratori, anche gli studi preparatori sono per Picchi drammaturgia, incontro, assemblea; vengono qui proposti, con lievi tagli, come esempi di un approccio artistico-scentifico rigorosissimo, in cui nulla viene lasciato al caso affinchè al caso sia dato d’irrompere in qualunque momento, con la massima violenza, a rendere vero tutto questo impegno; e per vedere cosa sappiamo farcene. IL GRUPPO LIBERO (1983 – 1968) Il destino è nel nome. E per Picchi il Gruppo è Libero fino al 1983. Prima, 15 anni di tenace militanza con questa compagnia tra le più solide del panorama sperimentale italiano, in nome dell’arte e della libertà di pensiero, di un impegno politico concepito come intrinseco alla ricerca di nuovi linguaggi per la scena – e senza mai ricadere nella moda del teatro immagine, senza mai demonizzare il testo, bensì riconoscendo nella sua tradizione il principale fattore del confronto e della crescita. Quindici anni in cui le proposte del Gruppo Libero sostengono il neonato Dams, e ne sono sostenute. I primi spettacoli della compagnia sono ospitati presso l’Aula Magna dell’Università e testimoniano un fermento culturale che spingerà verso l’ideazione del Dipartimento di Arte, Musica e Spettacolo; i primi laboratori universitari di Picchi – divenuto dal ’73 assistente alla cattedra di Istituzioni di regia – vengono realizzati con il contributo dell’intera compagnia.


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Quindici anni in cui Picchi rappresenta il Gruppo Libero e le sue istanze anche in sede nazionale, come uno dei sei membri del consiglio direttivo dell’ATISP (Associazione teatrale italiana Sperimentazione Professionale); anni in cui la lotta è di tutti e apre spazi concreti, di opportunità e diritti alla ricerca che poi, dopo l’80, si ripiegheranno su se stessi fino a far precipitare la sperimentazione teatrale – anche quella bolognese più votata all’impegno civile, al risveglio delle coscienze – all’interno di conventicole, o di una elite diversa eppure identica a quella del cosiddetto “teatro ufficiale”, o di una sua propria disarmante ufficializzazione. Così nell’83, quando si fanno più pressanti da un lato gli impegni con l’università e dall’altro i vincoli imposti dal mercato teatrale e dai paradigmi dominanti, Picchi lascia la compagnia che nel ’68 aveva fondato. La docenza e i laboratori universitari – esenti tra l’altro dai problemi di amministrazione di cui Picchi si era sempre rifiutato di occuparsi, limitandosi al ruolo di regista, attore e drammaturgo – sono il territorio più affine, elettivo, per gli ulteriori sviluppi della sua necessità teatrale. I quattro testi selezionati per rappresentare i quindici anni di Picchi con il Gruppo Libero – anni di un impegno politico (non politicizzato) condiviso ed evidente tanto nella scelta delle opere da realizzare quanto nei processi della loro realizzazione – possono essere osservati in parallelo con i quattro testi selezionati a rappresentare i vent’anni di Picchi nel Laboratorio di Istituzioni di regia del Dams, costruito con gli studenti e caratterizzato da un impegno pedagogico (non normativo), condiviso ed evidente anch’esso tanto nelle opere quanto nei processi. L’adattamento da un racconto sulla rivoluzione messicana si traduce nel 1978 ne Il messicano di Jack London (testo già affrontato da Ėjzenštejn nel 1920, nella sua prima regia teatrale), supportato da un corposo saggio che meticolosamente illustra le scelte interpretative adottate e la chiave registica; il confronto in chiave formalistica tra le “funzioni” proppiane della fiaba e i lazzi della commedia dell’arte diviene, nel 1973, Il viaggio meraviglioso ovvero Turandot, anch’esso coadiuvato da varie note, dotato di una chiave di lettura politica, e primo allestimento che vede riuniti il Gruppo Libero e il Laboratorio di regia del Dams; la critica sociale e la lotta di classe si sviluppano nella forma di un crudo cabaret di personaggi storici, nel 1972, in Grande rappresentazione per la morte di Sante Caserio. Infine, di nuovo, un testo che, una volta studiato, capito, diviene pericoloso e irrappresentabile, «non s’ha da fare»; ne nascono, nel 1969, i Materiali per un probabile allestimento di «Santa Giovanna dei macelli» di Bertolt Brecht. Se quest’ultimo/primo lavoro, più volte rappresentato in forme diverse a seconda dello spazio “trovato” o “rubato” (una casa del popolo, un’aula universitaria, una strada) e suscitando polemiche ovunque, denota una sua marcatissima matrice ideologica, gli altri tre testi trovano il loro spettro di riferimento nell’esaltazione di una teatralità dichiarata finzione, ostentazione e poi


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discesa libera nel meta-teatro fino allo strappo di ogni artificio, declinando in modo nuovo le suggestioni di Artaud – nello spirito – e gli insegnamenti di Brecht – nel metodo. Lo studio e l’operatività, la poesia e le istruzioni per scena, si fondono proprio come nell drammaturgia brechtiana, dando vita a testi drammatici sempre fuori-serie, sui generis, copioni oppure o anche racconti, attrezzi di lavoro oppure o anche puzzles letterari, dove Arnaldo Picchi ogni volta si chiede come e perché il teatro. E chiede al teatro come e perché lui stesso. Da solo anche in mezzo ai compagni, o amico e sodale, comunque in lotta; da solo in un angolo affollato di spettri nella aule-laboratorio di Via Valdonica o felice mattatore delle grandi tavolate con gli studenti, questi testi lasciano traccia di un uomo che ha vissuto una intera vita da solo e un’altra vita intera in compagnia. No, non è vero che le idee si saldano, e Picchi non le vuole saldare, bensì lasciarle libere di incontrarsi, se succede, dentro le peripezie confuse tra gli uomini e i personaggi, della Storia, grande, e della storia, piccola. Nessun saldo, anzi molti resti, molto ancora da fare. Nell’afa dell’estate del 1968 – poco prima di debuttare nell’Aula Magna dell’Università di Bologna con lo spettacolo Il Rituale, dal Prometeo di Eschilo; poco prima che nascesse il Dams – tre amici appassionati di teatro si siedono a un tavolo e a penna redigono la «Bozza dell’atto costitutivo de Il Gruppo Libero»: «Costituiamo in data odierna la Formazione-Libera-Teatro che avvalendosi delle tecniche teatrai a suo tempo indicate da Antonin Artaud, si propone di condurre una azione politica democratica e rivoluzionaria, grazie al mezzo teatrale. I contraenti hanno intenzione di sviluppare un programma esistenziale collettivo che si ponga come alternativa a qualunque coercizione esterna volta alla manipolazione della loro coscienza e alla costruzione della loro vita in binari prefabbricati dalla cultura borghese. La realizzazione dei lavori sarà collettiva; ognuno potrà liberamente addizionarsi al lavoro degli altri. Gli utili ricavati dall’attività serviranno a formare una cassa collettiva e ad essere collettivamente amministrati e divisi in parti uguali tra tutti. Questo abbozzo di statuto sarà quanto prima rifatto e steso correttamente. Bologna 17 agosto 1968. Soci firmatari: Arnaldo Picchi, Renzo Morselli, Fulvio Ramponi. Ps. Questo documento non ha alcun valore legale. Tramite esso gli aderenti si impegnano reciprocamente con la sola propria parola». M.B., Bologna, 17 luglio 2012


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LA IENA DI SAN GIORGIO DI GUALBERTO NIEMEN 2006


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La Iena di S. Giorgio

Note del curatore. Il canovaccio del burattinaio ambulante Gualberto Niemen La Iena di San Giorgio – Storia di una vecchia leggenda. Due atti per teatro di burattini viene pubblicato per la prima volta nel 1998, dall’editore I Quaderno del Battello Ebbro, Porretta Terme. L’editore predispone una seconda edizione nel 2005, quando Arnaldo Picchi sceglie di utilizzare il testo per il suo corso universitario di Istituzioni di regia. L’edizione 2005 è arricchita da interventi di Pietro Porta, Cesare Bermani, Luigi Forti, Remo Melloni, in cui si trattano le fonti del canovaccio – derivante dai fatti di cronaca nera che si conclusero con la condanna a morte nel 1835 di Giorgio Orsolano, macellaio di S. Giorgio Canavese, accusato dell’assassinio di tre bambine – e la biografia del burattinaio Gualberto Niemen. Il testo contiene anche una nota di Guido Ceronetti – autore a sua volta di una versione della Iena –, che ricorda di aver assistito ancora bambino, nel 1933 ad Andezeno, nella periferia torinese, a uno spettacolo di Niemen in cui si rappresentava La Iena di San Giorgio. A chiudere il piccolo ma prezioso volume, le Due lettere a un giovane amico laureando scritte da Arnaldo Picchi e qui riportate in appendice. Il trattamento del testo di Niemen, elaborato da Picchi nel 2006 – con una certa amarezza, in prossimità della chiusura, dopo 20 anni, del suo laboratorio di regia aperto a tutti gli studenti – è il risultato delle improvvisazioni, delle prove di laboratorio e dell’intenzione di esplicitare in via definitiva un sistema di lavoro basato sugli intarsi, scenari paralleli e sotterranei, utili alla liberazione dei personaggi (dai limiti della loro mera funzionalità all’interno della vicenda narrata) e, in questo caso, anche all’appassionante proposito di sondare il rapporto tra burattini e burattinai. Il 28 giugno 2006, nell’aula laboratorio di via Valdonica e alla presenza di un ristretto pubblico di amici, viene presentato uno studio delle scene 1-7. L’intero copione/trattamento viene pubblicato a tiratura limitata nell’ottobre 2006 (pochi giorni prima della morte del suo autore) da Azeta Fastpress di Bologna – nella collana “Scrittori d’oggi” fondata da Roberto Roversi – e viene qui riproposto in quanto massima espressione dell’approccio teatrale, insieme letterario, artigianale e visionario, del professore-regista. Un’avvertenza: delle battute estratte dal testo manoscritto di Niemen, Picchi conserva intatte le caratteristiche dello scritto-parlato, le cadenze, il dialetto e le inesattezze di punteggiatura e ortografia. Nel marzo 2007 il testo viene adottato da Massimiliano Briarava Cossati, assistente di Arnaldo Picchi, come banco di prova per un nuovo laboratorio di allestimento al Dams, il primo senza il professore; il 31 maggio 2007, presso la sala teatro dei laboratori Dams di Bologna, spazio per il quale la versione di Picchi era stata predisposta, viene presentato al pubblico un secondo studio, con bambole più elaborate e la partecipazione di più di 30 tra studenti ed ex studenti. Immagini di locandina: Primo studio. Dettagli da: Pieter Bruegel il Vecchio, Cacciatori nella neve, 1565, Kunsthistorisches Museum, Vienna. Secondo studio. Dettagli da: due disegni a matita della testa dell’omicida seriale Giorgio Orsolano, giustiziato a San Giorgio Canavese nel 1835, conservati presso il Museo di anatomia umana Luigi Rolando, Torino. Copia della sentenza di condanna alla pena di morte per Giorgio Orsolano, emessa dal Senato di S.M. in Torino il 13 marzo 1835. Elaborazione grafica di Tommaso Arosio.


La Iena di S. Giorgio

TAVOLA DI NIEMEN per La iena di San Giorgio. Storia di una vecchia leggenda 2 atti per teatro di burattini Personaggi

CAPITANO CARLETTO dei cacciatori volontari della iena TESTAFINA volontario CARLOTTA vecchia coraggiosa volontaria GIANDUIA volontario COLOMBINA fidanzata di Gianduja BIANCA, MAESTRA fidanzata di Carletto GIORGIO ORSOLANO salumiere speciale!... DOTTORE SINDACO di San Giorgio TRE O PIĂ™ GUARDIE E ALCUNI PERSONAGGI A PIACERE

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È necessario scrivere un commento, un midrash1, per ogni aggettivo sorprendente che compare in un testo.

Ci sono subito da dire alcune cose. La prima è che questo è un lavoro per bambole e per attori che sono anche manovratori di bambole (bambole che essi stessi si sono costruite con pezzi recuperati da un immondezzaio). L’opposizione, voglio dire, è tra la vitalità quasi infantile degli uomini che se le costruiscono e la demonicità maligna delle bambole, che tendono invece a portare tutto, testardamente, in una storia di sangue e di paura. Esseri perfetti, salvo che non possono muoversi; e che detestano, per farlo, di dover dipendere da quell’essere provvisorio e mutevole che è l’uomo. La seconda è che il limitato spazio scenico a disposizione è in realtà infinito, in quanto ogni bambola e ogni bambolottaio ce l’ha interamente e tutto per sé. In questo spazio aperto e multiplo c’è poi anche uno spazio segreto –uno spazio che contiene tutti gli altri, anche l’intero paese di San Giorgio; un sottopalco, che è quello che per il Forti del Biagio Carnico e per Niemen era la cantina, la tana del macellaio, il mattatoio-laboratorio. La terza cosa, infine, è che in quell’epoca lontana e agreste il signore di questi universi che si sommano l’uno all’altro a fare un paesino sperduto chissà dove, è il terzo cavaliere; il cavaliere che entra sul cavallo nero e porta una bilancia in mano, a indicare povertà e fame. Ma è inutile dire che le Storie intercalate (che ho segnato con a-k) servono solo agli attori, come esercizi di autoaddestramento, devono restare solo a loro e in alcun modo entrare nell’allestimento. La traccia drammatica che segue potrà risultare vera solo se resterà comprensibile solo approssimativamente. Se molto sarà taciuto. L’unica cosa che dovrebbe quindi apparire chiara è che qui, tra questi personaggi e queste bambole, c’è qualcosa di tenuto nascosto; che li insegue e di cui non vogliono parlare.


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L’impianto scenico è stato pensato per la sala di Azzo Gardino del Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università di Bologna. Così, per il pubblico della gradinata sulla parte sinistra si alza la scarpata di una discarica di rifiuti; davanti, un percorso a salire che partendo dal naturale piano di calpestio arriva sul fondo un po’ più in alto dell’altezza di un uomo. È uno spazio pieno di botole e di tacche in cui poter piantare i puntali delle bambole a bastone. Scoperchiandosi questo praticabile dalla metà al fondo, apparirà lo spazio sotterraneo di Giorgio Orsolano. In alto, dalle balaustrate del graticcio, si sporge un impassibile pubblico di fantocci. Diverse decine, da trattare ogni tanto con un flash.


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1 Sera. Lontani festoni di povere lampadine per la fiera di domani. Questa è la storia della tota Rosetta, che nel buio della sera cammina giocando con il suo ombrellino e con la pioggia. Musica 1. 2 È in questo modo che giocando con la pioggia la tota Rosetta incontra Giorgio Orsolano, il macellaio – la bambola del macellaio. È un incontro appassionato. Per strada e sotto la pioggia lei e lui – la bambola – ballano, si stringono, fanno l’amore. Poi lui, contro il muro, le dà delle coltellate. Il coltello stride contro il muro. Poi Giorgio lascia cadere il corpo nel sottopalco. Per un certo tempo resta là, con la fronte contro il muro, a prendere l’acqua. Poi scende anche lui per la botola.

2 A distanza, intanto, al capo di una strada con due o tre lucine, viene avanti la bambola di Testafina – uno storpio con la testa che gli ciondola su un collo semimorto – con un pastrano nero e una collana di perle e che si regge su due stampelle. Ingiustificabile scelta di partenza è che Testafina è l’angelo Marut. Necessario dunque parlare della storia degli angeli Harut e Marut. a) Storia degli angeli Harut e Marut, che sono due angeli del cielo – due gemelli – che Dio – come per provarli – ha mandato sulla terra per il bene degli uomini, nascosti come uomini tra gli uomini; irriconoscibili. Una parola segreta – il nome ineffabile di Dio – permette loro di salire e scendere dal cielo. Harut e Marut hanno avuto l’ordine di evitare, sulla terra, i peccati gravi – come l’idolatria, la fornicazione, l’assassinio e l’uso del vino. Ma un giorno una donna di grande bellezza sottopone loro una disputa che la oppone a suo marito. Tutti e due se ne infiammano, vorrebbero sedurla, ma lei non cede e pone come condizione che le rivelino la parola segreta grazie alla quale possono tornare in cielo. E per riuscire meglio li invita a una cena – e li fa bere. Harut e Marut si ubriacano e cercano di usarle violenza. Ma lei fugge davanti a loro e Dio la trasforma in una stella, nella stella di Venere. Ma altri dicono che la donna era al servizio di Satana, e che fu tutto un inganno, e che, ubriachi, Harut e Marut infransero tutte le loro proibizioni. E che solo per questa perfidia lei fu mutata da Dio in una stella del cielo. E così, un amore colpevole e superbo, come un branco


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di uccelli migratori, e poi l’ebbrezza portarono i due angeli all’esilio perpetuo sulla terra.3 E dunque Marut ha nascosto la sua identità al punto da venire avanti, farsi portare, come uno sciancato, con terribile fatica. A fatica, dunque, con grande fatica, la bambola Testafina arriva davanti alla bambola del capitano Carletto – allampanato, in nero con un collare di perle e spalline di finte ortensie – che intanto sta accendendo lumini davanti a una immagine pornografica, di una donna nel momento in cui si fa fottere. È questa una predella orizzontale in una piccola cappella privata, come il Cristo morto di Holbein di Basilea. Seconda scelta ingiustificabile è che il Capitano ha un naso d’argento, come Tycho l’astronomo. E così è all’altezza di Marut. Forse su questo naso c’è qualcosa da dire. E dunque, b) Storia del naso di Tycho. Si dice che da giovane studente universitario, Tycho Brahe, quello che fu poi il signore dell’isola di Hven, regalo personale del re, che lui ribattezzò isola di Urania, e dove installò quello che al tempo fu il più perfetto osservatorio astronomico del mondo, per una disputa su un teorema matematico si sfidò a duello con uno studente suo amico e si prese un colpo di spada che gli staccò il naso. Tycho – che era un grande aristocratico, un uomo imponente e bello, le immagini non mancano – si organizzò possedendone molti. E così come si dice che Washington avesse dentiere diverse, di ferro, ma anche di legno, o di denti umani, così Tycho aveva un naso di cuoio. Ma quando era in veste di grande signore, o di mago-astronomo, portava quello d’argento come una minaccia, una dichiarazione di sé, o di riguardo, per l’ospite.4 Testafina (l’attore che muove Testafina è inespressivo; non ci fa sapere quello che pensa) – Signor Capitano! Capitano Carletto (quando si volta, il suo naso d’argento luccica nel buio come un rostro-pugnale) – Che c’è. Testafina – Signor Capitano! Capitano – Che volete.


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Testafina – Volevo arrolarmi volontario nei cacciatori della iena di San Giorgio. Cosa debbo fare per poter andare alla caccia di quella brutta bestiaccia che mangia tutte le più belle signorine di questo circondario? L’attore che muove il Capitano – (valutando Testafina) Che uomo orribile. Capitano (molto nervoso; si sposta di continuo) – E qual è il vostro nome. Testafina – Io sono chiamato Testafina. Capitano – Venite domattina dalle 8 alle 10 nel mio ufficio in San Giorgio, [Testafina], e vi metterò in regola di tutto. Va bene? Testafina comincia ad allontanarsi; ma passando di fianco all’immondezzaio si imbatte nella vecchia Carlotta alle prese col suo cavallo. Vede i minatori dell’immondezzaio, neri come minatori. Vivono nei rifiuti, seppellendocisi dentro, dormendoci dentro, fabbricando mezze bambole e abbandonandole. Si prostrano nei rifiuti; pregano Dio, nei rifiuti; mangiano e suonano, nei rifiuti. Testafina – Ma guarda un poco! Sono veramente contento! di poter andare anch’io alla caccia della iena, ma guarda un poco! Che bello! Se potessi ammazzarla proprio io!… Lontano, dal fondo dell’osteria dove si sta ubriacando, Gianduia canta: Gianduia (Canzone) – Folaghe brune folaghe bianche albatri fulvi albatri bianchi rondini forti rondini molte danno la caccia all’uomo che corre. L’attore che muove il Capitano – Richiamalo. Capitano – [Testafina] avete registrata qualche bella pistola da fuoco? Testafina (ride; qualcosa di particolarmente sgradevole: da come questa figura ride si capisce che il paese attorno è completamente vuoto) – Non, dux praeclare, una cannula habeo, adhibita aquarum manatio, utile ignem opprimere. (Sogghigna). Che è come dire: Nò signor Capitano, io ho solo il pistolino per lo scarico d’acqua, che può spegnere il fuoco…5


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Capitano (fa finta di ridere) – ha! ha! ha! A voi Testafina battute allegre del buon umore non vi mancano mai!... Testafina (andandosene; tra sé) – ho imparato che l’allegria e il riso fanno più bene del risotto! Ma guarda un poco! Capitano – Allora arrivederci domani mattina alle otto nel mio ufficio a San Giorgio salve! Testafina – Sarò puntuale, signor Capitano. Arrivederla. Sempre arrancando con inesprimibile stanchezza, Testafina se ne va verso la cantina seguendo il canto del suo compagno Gianduia, cioè Harut. Non appena si vedono, baci e abbracci, sputacchi e tirate di barba. Gianduia gli offre da bere, Testafina beve. Il capitano Carletto è rimasto fermo a guardare, di schiena al suo piccolo altare pieno di fiammelle. All’improvviso dall’immondezzaio viene fuori la vecchia Carlotta, su un irrequieto cavallo di legno e viene caracollando verso di lui. Musica 2. 6

3 Carlotta (il suo cavallo la strattona di qua e di là) – Siur capitani! Siur capitani!!… (il Capitano si volta). L’attore che muove il Capitano – Quanto peserà questa donna? E quanti piedi ha? Quattro più due; sì, quattro più due. Il cavaliere pallido. E dunque: c) Storia del cavaliere pallido: «… e udii una voce che diceva: Una chénice di grano per un denaro [d’oro] e tre chénici d’orzo per un denaro [d’oro], e l’olio e il vino non rovinare! E quando aprì il quarto sigillo, udii che diceva: Vieni! E vidi, ed ecco un cavallo verde, e colui che sedeva sopra di esso, a lui era nome la Morte, e l’Ade lo seguiva»7. Capitano (si irrigidisce; trema) – Cosa vi è successo buona Nonnetta? Carlotta (soffocando la sua risata di vecchia) – A mi niente! Ma ier la iena la mangià la bela tota rosetta ca là pinen turnà a ca ier seira!…


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L’attore che muove il Capitano (inchiodato) – Taglia il fiato; è capace di tagliare il fiato. Capitano – È vero! Ma speriamo di poter ucciderla presto la iena di San Giorgio maledetta!! Carlotta – Siur capitani, a pol roleme anche mi n’ti cacciadur voluntari dla iena? L’attore che muove il Capitano – Dille di no, dille di no! Capitano – Come, volete andare alla caccia della iena anche voi nonnetta? Non avete paura che la iena vi mangi? Carlotta – No non ho paura, perché la iena e trop at bon gusto: Mangia solo le bele tote fresche e tenere come l’butir. (Ghigna, cioè mostra i denti; il cavallo se la trascina lontano, ma lei torna) Finades la mai mangià na vecchia come son mi; e nessun altra che son tutt al dì n’campagna en ti bosch a travaiè da sule, per stà rasun mi l’hai propi nen paura dla iena can mangia. Siur capitani, can daga na bela pistola cun le bale da sparé che dopo penso mi masela se la vedo n’ti bosch quan vado a cerchela. Comincia ad allontanarsi, il cavallo se la porta via facendo continui cerchi come in un giro di danza. Il capitano Carletto riprende coraggio: Capitano – Brava! Siete coraggiosa! Avete già provato maneggiare qualche bella pistola con le mani? Carlotta (distante, sorride) – Forsitan… At cui telum quod cepi fuisse, nequed modo vidèri iam mèmini fortasse. Oh, al’m scusa: Forse sì…Ma n’ricordo pinen at chi ca lera la pistola che mi l’avia ciapà n’man e cume l’era faita… Capitano – Va bene nonnetta… So dove abitate e passerò io a trovarvi e a farvi vedere qualche arma carica se sarete capace di adoperarla. Ora andate tranquilla. Buon giorno! Carlotta – Grazie! E ciareia siur capitani! La speto cun lerma da cupé la iena. Via. Sempre portata dal suo cavallo, la vecchia Carlotta torna nell’immondezzaio; e qui col suo cavallo si disfa e scompare. Capitano (truccandosi la bocca) – Adesso è lora che dovrei incontrare Gianduja, il fidanzato di Colombina che questa sera ci troveremo tutti a casa della mia fidanzata la Maestra Bianca, per combinare cosa faremo domani mattina a San


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Giorgio Ah! eccolo che sta venendo… Gianduia è sempre puntuale agli appuntamenti!… Badare alla fatica con cui gli attori muovono le loro bambole; lo sforzo, una condanna. Ma una condanna che si è deciso di servire orgogliosamente. E questo è un altro modo per osservare la vitalità quasi infantile degli operatori delle bambole. Pure, operatori e bambole, uno è legato all’altro, e comunque salva l’altro – la forma della mano è la forma dell’oggetto e la forma dell’oggetto è la forma della mano. Da ciò possono essere derivate molte immagini di questo spazio-paesino della bassa, luogo concentrazionario, colonia penale, cava a cielo aperto eccetera. Mano e attrezzo vogliono dire lavoro attraverso, cioè per mezzo di un altro; con un altro. E questo altro può essere chiunque, un amicone, ma anche un avversario, un assassino. Ballare con l’assassino, la tenerezza dell’assassino, la tenerezza del lupo, la malvagità dell’amante macellaio. E questo è per tota Rosetta e il suo amore Giorgio; ma si tratta già di un’applicazione. Perché tutto questo vuol dire temere che l’altro, l’infido, l’ingannatore, sia la propria stessa anima. E quindi, legate assieme, la mano che fa e la mente che sfugge. E questo è il grande ballo del luogo, la fiera in atto, perché è evidente che la fiera di S. Giorgio, con le sue squallide lampadine notturne, è sempre in atto. Molte conseguenze per determinare l’aspetto dell’ambiente, forse è il 23 aprile, inizio primavera – ma potrebbe essere inverno, con uomini coperti da masse di stracci. Così potrebbe essere che tra le mani di questi infagottati omoni, le bambole diventino oggetti sempre più minuti e fragili, micidiali, ferali (e badare a Testafina lo storpio, come s’è mostrato, come si è travestito). Di certo i bambolottai non indossano neutri abiti di scena; ed è solo quando la lotta con le bambole diventerà serrata che uno dopo l’altro si maschereranno, tireranno fuori le loro bautte, o visiere da saldatori, o qualcosa del genere, occhiali contro le schegge di ferro, crani di ferro. Via via prendono la forma dei loro avversari; l’anima penetra nella mano, la mano penetra nell’anima.

4 Gianduia e Testafina vanno assieme dal Capitano, Testafina un po’ dietro. Sono tutti e due un po’ ubriachi, ma ancora abbastanza in sé.


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Gianduia giocherella di continuo con la sua mazza. Qualche volta i gesti sono pericolosi. Gianduia (allegro) – Ciareia siur capitani Carletto! La vist che son puntuale? (Si volta indietro, verso Testafina). O no? Testafina – Sì. L’attore che muove il Capitano (fremendo) – Tutti e due! L’attore che muove Gianduia – È andato in bambola. Gianduia (si volta verso Testafina) – Che ore sono. Testafina – Ora che tutti vanno a cena, se ce l’hanno. L’attore che muove Gianduia – Puntualissimo. Capitano – Lo sò, Gianduia, domani nel mio ufficio vedrete quante belle armi mi sono state mandate da Torino per tutti i cacciatori volontari per la caccia alla iena. Potrete scegliervi l’arma che più vi piace… Gianduia – Ma io sono già armato signor capitano! Capitano – (Atterrito) Come?! Non me lo avete mai detto che possedete già un’arma (piange). Che arma avete? L’attore che muove il Capitano – Tu sei il Capitano di San Giorgio e non devi avere paura di niente! Testafina (a Gianduia) – Non devi spaventarlo. Gianduia – Un poco sì. (Al Capitano) Ho un’arma speciale senza cartuccie: a lé nbel bastun ad gasia lun 80 centimetri, e quattro di diametro, che basta na bela stangà sla testa per mandé uno all’altro mondo/ Testafina – senza parole magiche/ Gianduia – senza passaporto e biglietto di ritorno. Scena di clown-bulli. Per un tratto, Gianduia e Testafina si mettono a ballare tenendo un’aria strafottente. Musica 3.8 L’attore che muove il Capitano – Questi non credono in niente; immagino che non credano neppure a Dio. Testafina (dà una pedata a Gianduia) – Che cosa volevamo? Gianduia – E poi mi chèrdo nen, non credo che ci sia na iena ca divora tutte ste bele tote ca spariso! Come mai ha mai mangiato un vecchio o una vecchia ca sun sempre tut al dì sule a travaie n’campagna e n’ti bosch?...


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Come come mai (a Testafina) o no? Testafina – Sì. Gianduia – come mai la iena ha mai mangiato un bambino o na bambina delle cascine/ Testafina – là in mezzo ai canneti/ L’attore che muove Gianduia – Basta, sta’ zitto un attimo. Gianduia (voltandosi verso Testafina come per assicurarsi che non lo interrompa) – che dalle cascine tuti i dì vanno a scuola a San Giorno e tornano sempre a casa nel pomerigio sane e salve cantichiando allegramente? EH? Testafina – Sì. Gianduia (La sua faccia si torce e diventa un altro) – Deinde, post hominem natos, animalia sicuti hyaenae in agro cuneensis, unquam visa sunt… Hoc hyaenae negotium, nobis toto pectore cogitare facit. Testafina – Non vedi che non capisce? Che lo rimbambisci a fare. Traduci. Gianduia (Torna di nuovo a guardare Testafina, poi di nuovo il Capitano; e sembra di nuovo lui: niente è cambiato) – E poi, da che mund a le mund razze at iene n’tal canavese a l’an mai viste… Ci pare ben rasunà sta storia dla iena o nò? L’attore che muove il Capitano – Perché non li ammazzi qua? Capitano – Che sia un gran mistero lo abbiamo sempre pensato; pur trovando nei boschi brandelli di abiti sporchi di sangue delle povere vittime. Testafina – E dunque? E dunque? Capitano – Ne parleremo più tardi a casa della Maestra Bianca mia fidanzata che vi aspetta anche voi Gianduja con Colombina. Andiamo. Arrivederci alle 21 Gianduia – Arvutre e ciareia siur capitani Carletto Testafina – Ma guarda un po’. Vento basso e feroce, stanotte. Ci si può chiedere perché poi Harut e Marut si comportano così, dato che sanno di essere stati esiliati per sempre. Risposta: solo perché non riconoscono valore al verdetto, dato che non ne davano neppure ai divieti che una volta infranti quella punizione hanno provocato. È che


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si sentono superiori a qualunque ricompensa o esilio; per loro l’attuazione del dovere è una pratica autonoma che trascende anche l’autorità che prima ha dato gli ordini e poi li ha puniti. L’attore che muove il Capitano pianta il puntale della sua bambola e si allontana. Si asciuga la faccia con un fazzoletto, tira fuori di tasca un foglio e si mette a leggere. Nello stesso momento, Colombina prepara la cena per Gianduia, davanti a un camino acceso (a suo tempo, è stato l’altare votivo del Capitano).

5 d) Storia della Stella del Mattino trasformata in Colombina. Nel testo di Niemen Colombina è semplicemente una massaia, una fidanzata-moglie – e prepara la cena al suo uomo. È un tratto brevissimo e finisce con tanti bacini davanti al camino acceso. Un ben noto modo di chiudere con una ellissi. Né poi val la pena di fare altro. Del resto, Giorgio Orsolano non è il Biagio Carnico di Forti, e non tratta bambini ma ragazze. Più diretto, quindi, Niemen dato che all’atto pratico Giorgio Dolfin e Beppo Fumo nel Biagio Carnico di Forti agiscono per salvare Vittorina, che è la moglie di Giorgio (i bambini sono già persi).9 Come dire che i salvatori devono avere ragioni personali per agire là dove la legge non arriva, o sbaglia. E le donne sono la prima posta, la più alta. Ma a questo punto possiamo disegnare un altro scenario, e solo per il fatto che Gianduia e Testafina sono in realtà Harut e Marut (nell’altro scenario, quello di Forti, sarebbero rispettivamente Giorgio Dolfin, il soldato dato per morto e che torna come un revenant dalla catasta dei morti cui stava per essere appiccato il fuoco, e Beppo Fumo, il sedizioso appena scarcerato). Voglio dire che possiamo porre che Colombina sia la donna che ha ingannato i due angeli, che li ha ubriacati per sapere la parola magica che serve per ritornare in cielo, segretissima parola; una donna dunque di grande bellezza, come si dice, ma io direi piuttosto di incredibile fascino, no? Solo che, sul fatto di trasformarla nella Stella del Mattino qui il buon Dio ci ha ripensato e ha deciso di stringerla in coppia di struggente amore con Gianduia, che facciano l’esilio assieme. Che scherzo. E Gianduia la ama, ne vuole dei figli (e ci sono storie che dicono che ne fanno). E così i due si cercano senza poter avere riposo, lui senza dimenticare l’inganno di lei,


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né lei stessa scordarlo. Ed ecco allora la Colombina che fa la polenta e che prepara il tavolo e il camino e che là davanti prima di mangiare gli chiede di darle bacini e bacini (senza badare che là davanti c’è Marut, che non sa prendere la porta, e resta a guardare masticando amaro), diventare una suprema danzatrice, nuda e coperta di gioielli. Una Salomè di Moreau10, une danse effrayante esquisse,11 una danza che finisce in un accoppiamento davanti a quell’altro, che non sa neppure voltarsi. Quale bambola dunque, per Colombina? Un busto femminile da sarta, basta; non serve altro. I gioielli, poi; già, sì; le collane di perle, che queste bambole portano (Testafina, il Capitano ecc.; non dimenticare il principe Arjuna: i gioielli del principe Arjuna a Kuruksetra12). Un contrassegno. E su Colombina ce n’è una carica. Così diventa la Satiated siren di Adolphe Mossa.13 Colombina (danzando davanti al caminetto acceso) – Sacucin! Gianduia a lé sempre puntual e precis antiurari da truvese, perché a sà che se tarda mi m’anrabio subit, ma ades a lé n’ritard ‘na bela mezura, e la polenta che l’uma da mangé cauda n’sema cul strachin gongorsola a lé quasi freida, parei a le pinen tan buna (ascolta) Sa sent che a riva adess!… Le si avvicinano assieme Gianduia e Testafina. Gianduia – Ciao Colombina! Son sì. Colombina – Ciao! Ma lo sai che mi rabbio quando tardi rivare specialment che la polenta che luma da mangela cauda ansema cul strachin gorgonzola sa ven freida a lé pinein tant buna mangela Gianduia – Si lo sò! Stavo venendo puntuale ma ho n’cuntrà il capitano Carletto, suma salutase, poi luma cuminsá parlé dla iena, dle armi necessarie e mezzura a fa prest a pasé. Colombina non può più trattenersi, gli si avvicina e lo bacia con grande passione. Altri passi di danza. Testafina (a se stesso, sconsolato) – Testafina, che cosa ti hanno fatto?


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Gianduia – Ades fuma prest a mangé pulenta strachin gorgonzola. Dopo anduma subit a ca dla Maestra Bianca par cumbiné tuti n’sema il programma di domani mattina dal prim dì dla gran fiera annuale di San Giorgio. Di nuovo Colombina non si trattiene e va a baciarlo e baciarlo. Gianduia – Ades via all’asalt alla polenta e gorgonzola n’tant ca le n’cura m’poch cauda… Anduva a lé n’taulin? Colombina (col fiato mozzo) – Guardalo: lo messo la davanti al camino acceso. Vedi? (Di nuovo balla). Gianduia (ormai affascinato) – Brava Colombina! Ti ta pensi sempre al meglio da fare! Ta meriti dui Basin… Colombina – Damme tre basin: uno di più per il ritardo ca la fame n’rabbié Gianduia – Ma mi et’na dag fin che et na voli… (baci a soggetto). Si abbracciano e cominciano a fare l’amore là davanti a Testafina, che resta come impietrito a guardare. Poi si volta, tira fuori un piccolo strumento musicale di sua invenzione – una piccola lira – e si mette a suonare. Musica 4. 14 Intanto, attraverso la scena passa una donna con un fagottino; è un bambino morto. E dunque: e) Storia del bambino morto. Lasciamo dunque la situazione tra Gianduia e Colombina e andiamo nel suo contrario, che è: danza del bambino morto, se è la madre a farla (faccia di Margherita nel Faust di Murnau); ma potrebbe trattarsi anche della danza del bambino rubato. E così qui farebbe una sua strana ricomparsa la Silvestra di Luigi Forti, che rubava i bambini perché Biagio li cucinasse 15 . Ma questo di cucinarli potrebbe anche essere solo l’utilizzazione degli scarti in un tempo di fame, come dicevo, perché il vero scopo sarebbe invece quello di impadronirsi delle anime degli uccisi per scopi magici. In una pagina dello pseudo Clemente Alessandrino c’è questa vanteria di Simon Mago: «“Una volta ho utilizzato i miei poteri per trasformare l’aria in acqua, e l’acqua l’ho trasformata in sangue, e il sangue l’ho condensato in carne, per formare un fanciullo. Io ho dunque fatto un’opera ben più nobile di quella di Dio creatore, perché Dio creò l’uomo dalla terra, mentre io ho realizzato questa impresa dall’aria – cosa che è ben più difficile. Poi


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ho distrutto la mia opera e l’ho riconvertita in aria, non senz’aver collocato il suo ritratto e la sua immagine nella mia stanza, ché rimanesse una prova e una rimembranza della mia azione”. Noi comprendemmo allora ch’egli parlava di un fanciullo che era stato assassinato e di cui egli aveva riutilizzato l’anima per servirsene secondo il suo volere»16. Nell’inferno più osceno il luogo peggiore è quello dei bambini. Dal mucchio delle immondizie, la vecchia Carlotta spunta con il telaio di una finestra e una stoffa in faccia. E da questa finestra comincia a spiare i movimenti nella piazza notturna – come una vecchia seduta dietro la sua persiana – attentissima a quello che vede, e sobbalza, e ha dei piccoli gridi di gioia o di sorpresa, di approvazione. Ma forse è in un palco d’opera. Dice Irene17 (e mi manda due righe) per questa Carlotta alla finestra: «Le vie sono deserte alla luce della luna – per questa sola notte il canale è prosciugato e gli spiriti vanno e vengono di tra i vetri della finestra. (quello che sfioro piange) Attenderò che torni l’odore della sabbia. Sarà quella la notte che il vento mi porterà via».

6 Musica 5. 18 Mentre dunque Gianduia si alza dal letto di Colombina; e mentre Testafina suona la sua musica; e Carlotta spia dalla sua finestra; e passa la donna con il fagottino del bimbo in braccio, l’attore che muove il Capitano, ora piantato come un trofeo, comincia un lamento (prendendo un aiuto da Tonino Guerra). L’attore che muove il Capitano – Da un mese tira un vento di polvere /disce e gli alberi cadono secca come d’autunno. Capitano, guardia di frontiera di un posto non ha più muraglie. occhi dentro un polverone una pianura spelata


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cespugli aspri orecchie dritte per sentire gridi delle cornacchie ancora i tamburi dell’imperatore gare quella marmaglia gli ubbidisce e l’altra volta, la guerra che si son fatta, gente di mezzo dei ruggiti che parevano belve. tutti gli uomini delle nostre difese sono morti lete vedere donne che piangono qua, me farete a capire il dolore insanguinato che c’è in questo paese, hanno dimenticato anche il mio nome, e le sentinelle buttate in bocca alle iene. Attenzione qui: la stessa notte che Giorgio uccide la tota Rosetta e resta là, con la fronte contro il muro, a prendere l’acqua (la stessa acqua che riga i vetri di Carlotta), il Capitano vive una notte di tempesta di polvere. Se pensiamo che la pazzia è avere orrore di tutto, avere paura di tutto, allora qui il Capitano impazzisce. La donna che passava con il fagottino del bimbo in braccio e che ora ha rimesso nel suo ventre è lo spettro della tota Rosetta. Il Capitano impazzito va ad affrontarlo. O meglio: è l’attore del Capitano; e del Capitano gli è rimasto tra le mani solo il bastone, la spina dorsale. E così, corteggiandola, la tota Rosetta, con baci e con carezze la riporta da Empusa19 a donna morta; e ne veglia il corpo. Lo veglia con una lanterna – quella stessa che un tempo era la testa del cavallo del Cavaliere pallido. Ma non è ancora finita, stanotte – Carlotta spia sempre dal suo nascosto palco all’Opera; Colombina piange ‘pentita’ –; ecco ora l’ultima che manca: la maestra Bianca, fidanzata del Capitano Carletto. La sua attrice tira fuori la bambola scartandola da un pacco. Musica 6. Intanto Gianduia si ubriaca e si arma di spade e di daghe, perché domani ci sarà battaglia. Aria d’opera.20 Gianduia (che continua a bere e ad armarsi, affibbiarsi cinghie per il giorno dopo) – E se io dirò: in ginocchio sugli scalini, in ginocchio sugli scalini sarà; e se io dirò:


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stesa e aperta come una moglie, stesa e aperta come una moglie sarà. Non rispondi? Bianca – Io sono la maestra Bianca, fidanzata del Capitano Carletto e che stanotte si è perso nella sera e non è venuto da me. E ora io nella solitudine della notte non so più chi sono, e la mia anima si spegne, e la musica mi accompagna. «E se io dirò: in ginocchio sugli scalini, in ginocchio sugli scalini sarà; e se io dirò: stesa e aperta come una moglie, stesa e aperta come una moglie sarà. Non rispondi?» Passa come uno spettro bianco, o in gramaglie bianche, o in veli da letto di nozze. E così entra infine anche Giorgio Orsolano, il macellaio. Il suo attore porta occhialini da nuoto; avvia ora una disputa con la sua bambola, ma con timidezza, quasi implorando.

7 L’attore che muove Giorgio Orsolano (gli riferisce) – «E se io dirò: in ginocchio sugli scalini, in ginocchio sugli scalini sarà; e se io dirò: stesa e aperta come una moglie, stesa e aperta come una moglie sarà. Non rispondi?» Giorgio – Mi sono alzato alle quattro stamattina primo giorno della gran fiera annuale di San Giorgio perché la gente che verrà un po’ dappertutto chi per vendere o comperare sarà moltissima! E io ho assolutamente bisogno di procurare il necessario per fare almeno due o più quintali di salciccia e salamini freschi. Bianca – Questo è un posto in cui piove acqua marcia, e la macchia si torce in una perenne pena. Essere uomini o essere donne è sbagliato comunque, ma io non posso sopportare che l’amore sia una mano che ti fruga sotto; come una vedova, come una serva. Giorgio – Ormai là bontà squisita della salciccia e salamini che sò fare solo io da artista salumiere si è diffusa in tutta la provincia e oltre. E chi può viene anche da molto lontano per comperare le mie prelibate specialità! E tutti mi stimano e mi apprezzano come un impareggiabile famoso salumiere! L’attore che muove Giorgio – No, aspetta, aspetta; aspetta. Ascolta me.


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La casa dell’occhio è il luogo in cui tutte le cose intraviste, prese al volo sono ammassate in un tesoro come di monete, di panni, di stanze. Ci si perde in musiche e poi silenzi perfetti, e profumi sottilissimi appena aleggianti, leggeri tremiti per fanciulle sublimi gli occhi si chiudono e sognano, benedetta la notte che viene con parole perfette. Giorgio (che fin qui è sembrato di umore allegro, e quasi scherzevole, scende ora nella sua abiezione; la sua faccia diventa nera) – Basta cazzate. I mongoli uccidono il bestiame così: tagliano il ventre di un montone, vi infilano una mano e fermano il cuore. I saraceni invece (sputa) lo sgozzano. (Via via la sua faccia si ricompone, torna bonaria). In questi otto giorni ho ucciso cinque maiali sperando di poter uccidere almeno due o tre belle ragazze sane e prosperose per mescolare la loro bella carne con quella dei maiali per farne salami e salciccia di una bontà miracolosa! Ma finora ho potuto insaccarne solo una… Ma stamattina spero di poter farle la festa almeno ad altre 2… Però, siccome sono anch’io un uomo di coscienza umana non voglio far la parte della iena tutta la vita pur sapendo di farla sempre franca perché tutti credono che ci sia una feroce iena che divori tutte le belle ragazze che spariscono… Ma la iena sono io! e non mi scopriranno giammai! L’attore che muove Giorgio – Ascoltami, devi smettere, devi tornare a casa, devi cercare di tornare a casa. E dunque: f) Storia dell’inferno. «La luce penetra di rado nella prigione sotterranea, se ne va presto. La macchia della finestra in alto compie un breve tragitto sul muro. L’inferno di Dante è costruito ad anfiteatro e scende a cerchi, sempre più in basso. L’inferno di Dante è affollato esclusivamente di italiani. Oltre a questi vi sono alcuni antichi romani. Non bastava il posto per altri popoli. Questo inferno raffigura la litigiosa Italia. Le città sono disposte in cerchio, i cittadini litigano e nella eterna oscurità si fanno gesti osceni. Pene amorose, offese, liti con usurai riempiono l’inferno di Dante dall’alto e fino in fondo»21. Giorgio (ride) – Poi per ubbidire alla coscienza umana ho già fatto il conto, fra qualche anno, di smettere, di vendere tutto, e di andare ad abitare in qualche bella città all’estero, e passare la vita tranquillamente consumando poco per


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volta tutto il denaro che ho saputo guadagnare onestamente con le fatiche del mio sudato lavoro, da grande artista intelligente. L’attore che muove Giorgio –Ti diverti coi pezzenti, ma guardati, che hai da cavarne ancora Più che sangue non ne cavi altro. Dovresti fare il signore e cominciare a proteggerli. Questa sarebbe inattesa grandezza. Giorgio – Sei uno stupido, sono tutti colpevoli. Che ore sono. L’attore che muove Giorgio – Dalle due e un quarto alle tre. Giorgio – Eppure io mi sono alzato alle quattro. L’attore – Forse è un po’ prima di quando ti sei alzato. Giorgio – Io non mi sono alzato prima. L’attore – Tanto peggio. Giorgio – Tanto meglio. Non c’è in giro nessuno, se non c’è tempo. Vado a preparare gli arnesi. Una per volta, come sempre, [le donne] verranno a far spesa… «I mostri contro natura [che cioè eccedono il grande disegno della Provvidenza] sono vampiri che si nutrono del sangue degli altri, all’opposto di Cristo, che fa dono della sua carne e del suo sangue per restituire la vita agli altri»22; il che ci fa vedere in un modo diverso la “comunione” che Giorgio Orsolano offre agli abitanti di San Giorgio.

8 Intanto il Capitano copre di baci il corpo di Empusa immobile, tenendo alta sopra di sé la lanterna, per poter vedere – se riapre gli occhi? Allora Testafina, sempre nel suo pesante rumore di stampelle, va fin da lui e gliela toglie da sotto. E la porta alla vecchia Carlotta. Così la tota Rosetta arriva alla sua ultima destinazione: in piedi accanto alla finestra-palco d’opera di Carlotta. Spettatrice in piedi. Lontano, il Capitano (l’attore che muove il Capitano), si copre la faccia con la bautta e se ne va. Tanto per fare il punto: se queste figure sono, come credo, ideogrammi, non c’è certo da cercare in loro dei moventi. Forse solo qualità spirituali, come nelle icone – in grado quindi di entrare in qualunque riflessione sul mondo, in qualunque preghiera. Il macellaio va dunque preso come figura del Male; di quel Male che è il provocatore degli uomini e il custode degli inferi e l’esecutore delle


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punizioni. Ma credo pure che in ogni caso vada salvata la finzione che tutti sembrano uomini.

9 È il biancore della mattina presto. Bianca, ora inappuntabilmente vestita e la sua attrice col volto coperto dalla bautta, esce di casa e canta. Bianca (Canzone) – Suonami, suonami una canzone Adesso, ora che fa mattina. Portami, portami via per mano voltati, un po’ di blu di note calma la fine della notte insonne. [Controllato fin qui. È il copione per lo studio preliminare rappresentato al Laboratorio di Valdonica il 28 giugno 2006, che si concludeva su questo punto. 37’]23 Bianca – Colombina, mentre tu vai portare le uova a quelle signore come sempre, io intanto vado nella bottega del salumiere che ho molta spesa da fare per me e per le mie vicine di casa e ti aspetto in bottega, fa presto! Colombina – Sì sì faccio presto turne (via). Da qui in avanti, tutto serrato e veloce, sempre più serrato e veloce. Jusqu’au bout de souffle, come si dice. In pratica: faccia a faccia in breve spazio e disposti in quadrato si affrontano Giorgio, Bianca, Gianduia e Testafina. Gianduia col suo grosso bastone d’acacia – il legno magico, il legno del Tabernacolo – e bardato come un tuareg, e Testafina armato fino ai denti, con due spade, e pugnali alla cinghia e anche un fucile. Gli attori in ginocchio tengono le bambole piantate davanti a sé come insegne. Lasciar perdere tutte le indicazioni di entrate e uscite. Tutto faccia e faccia; le uscite e le cadute nelle botole si fanno con un gesto. Bianca – Signor Giorgio! Buon giorno Giorgio – Buon giorno anche a lei signorina Bianca. Com’è mattiniera stamattina! Bianca – Anche lei signor Giorgio è più mattiniero di me che ha già aperto il negozio. Ah! è il primo giorno della gran fiera annuale di tre giorni a San Giorgio Giorgio – E sì! E perché avrò un’infinita quantità di clienti da servire quest’oggi che verranno anche da molto lontano…


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Bianca – Lo sanno tutti, che squisiti come sa fare i salamini e la salsiccia nessun altro salumiere è capace di farli così ottimi. Anch’io ora devo fare molta spesa e non solo per me… Giorgio – La servo subito. Signorina Bianca, per favore, venga un attimo qui dietro al banco a sentire il profumo di una nuova specialità di droghe che ho messo nelle mie specialità da servire solo ai clienti di riguardo come è lei… si chini, senta… Bianca (chinandosi) – Uh! Devono essere una bontà!… Se può me ne dia 2 chili (Giorgio apre la botola e Bianca urla cadendo in cantina). Giorgio – Si chiude così bene il coperchio di questa botola che anche se grida a scuarcia gola nessuno la può udire di fuori. O! ecco nuovi clienti che vengono comperare salamini. Si volta duro a guardare la reazione di Gianduia e Testafina. Sa di essere immortale. Testafina – Caro il mio Gianduia se nel nostro giro alla caccia della iena che faremo, se la vediamo da lontano faccio più presto ucciderla io con il mio bel fucile a pallettoni prima che tu arrivi vicino per romperci la testa a bastonate… Gianduia – Ma adess il più difficil a lé truvela la iena! Dopo vaduma chi ca l’è l’pi brauv at nui 2! Giorgio – Buon giorno ai cacciatori volontari della iena! Adesso son sicuro che avete bisogno prima di me e dei miei gustosi salamini scuisiti, vero? Gianduia – Sì! par adess, dandè mangei subit al’usteria bagnandii cun na bela butiglia at barbera dal Munfrà. Ma dopo prima da turne a ca nostra/ Gianduia e Testafina ridono con un tono arrogante e feroce, eppure allegro; Giorgio si aggiunge. Lontano, in mezzo agli alberi come un uccello, Colombina. Gianduia – / dopo prima da turne a ca nostra, vnuma a cumprene ancura 2 mes chilo da mangé an settimana a cà nostra. Demm’i bùn! Giorgio (osservandoli fisso) – Li troverete così buoni che ne comprerete di più. Ecco! [Prendetene e mangiatene!] Buon appetito e arrivederci. Pagherete poi tutto dopo. E auguri di buona caccia alla iena!… Sappiate che ho deciso di dare per premio 10 chili di salamini, e 10 bottiglie di barbera al valoroso cacciatore che finalmente ucciderà la iena maledetta! Gianduia – E nù, l’hai giurà che quand a l’han ciapà e masà la iena dan ciucheme per tre dì al completo! E ti testafina? Testafina – E io quel bel giorno /


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della morte della iena [maledetta] di San Giorgio mangerò un chilo di salciccia senza pane. Lo prometto. E proprio mentre Colombina irrompe, arriva, Gianduia e Testafina veloci volano via entrambi a destra e tirano fuori le spade, e aspettano. Colombina – Siur Giorgio, la maestra Bianca la nen spetame? Giorgio – È andata un attimo dal tabaccaio, ma torna subito. Venite vedere anche voi che nuova specialità che ho comperato. Venite a sentire solo il profumo delle nuove droghe anche voi. (Giorgio apre la botola e Colombina gridando cade giù). Si spalancano le fondamenta della casa e vengono fuori profondi sotterranei e segrete, fortezze sepolte, bastioni e catene, celle e fondamenta insanguinate. Giorgio vi scende veloce come un acrobata. Gianduia – Cur Testafina! Cur che stavolta scopriremo il grande mistero dla iena at San Giorgio. Testafina – Ma Gianduja cosa ti succede mai che a momenti mi facevi stare male anche me? Ma guarda un poco! Gianduia – Guarda bin testafina cosa ta smia sta roba sì che a momenti la mangiavo par an tuchet atalam cun loss? Testafina (guardando bene) – Digitus feminae, pinctus roseo colore, mihi esse videtur. Ah! È un pezzo di dito di donna con l’unghia verniciata di rosa! Gianduia – Bravo! Le vera! Anche mi ma smia n’tuchet di un dito di dona! Heia! Etiam mihi mica digiti feminae esse vitetur… Edepol! Hercle! Uuu!! che suspett! Testafina sarà mica Giorgio Orsolan che ammazza le done per fe n’sema la carne di maiale salamin e salciccia?! Silenzio assoluto. Neppure un cane. Giorgio viene loro incontro. Gianduia – Sent! Sent! Testafina… Non si sente niente. Testafina fa la faccia del fesso. Gianduia – … da s’finestrin partera sa sent un lamento e un po di strano rumore… sent bin… (Testa contro testa, quasi a terra) Senti gnente? E sent, cazzo! Testafina – Sì sì! mi pare di sentire una che grida: Mezzalira di corda!… Mezzalira di corda per l’orso! Tlè sentì anche ti adesso?


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Gianduia – Adesso sento proprio bene! Ma par propi da sente la vuss dla mia murusa Colombina ca cria: Aiut!! succurs! Misericordia! Che al maslè a vol maseme par fé salamin! Coragi Testafina che stavolta ciapuma la iena maledetta da bun! sul serio!… Testafina – Adesso sento tutto ben chiaro anch’io. Cosa facciamo Gianduia? Durante la battuta che segue, Testafina lo storpio che si strascina sulle stampelle e che continua a portare ciondoloni la testa su un collo semimorto, si alza e si drizza e si trasforma in un magnifico uomo, bello, forte e severo. Necessaria quindi qualche piccola aggiunta: Questa, per esempio: g) Storia dell’angelo storpio che riprende il suo aspetto celeste. Al principio si è fatto vedere come un nano con una bombetta in testa e una zanna che gli spuntava dalla bocca, e un occhio coperto d’albugine; e nella stanza dov’era sotto di lui c’erano le onde di un mare azzurro scintillante che fluttuavano ai suoi piedi; e lui sputava in mare, dal molo; poi era arrivato ai margini del paese come un clown sciancato, con una testa di corvo, una sera tardi; ma ora «a una estremità volava Azazello, scintillante nella sua armatura d’acciaio. La luna aveva trasformato il suo viso. Era sparita senza lasciar tracce l’assurda, mostruosa zanna, e il leucoma si era rivelato falso. I due occhi di Azazello erano uguali, vuoti e neri, il viso invece bianco e freddo. Volava ora nel suo vero aspetto di demone dell’assetato deserto, di demone-assassino»24. O quest’altra: h) Descensus Christi. Dove si racconta che quando le grandi parole furono pronunciate, l’inferno intero gridò di disperazione. “E subito le porte di bronzo caddero infrante e si spezzarono, i chiavistelli di ferro e tutti i morti che erano legati furono sciolti dalle loro catene, e noi con loro. E il Re della gloria entrò, in figura di uomo, e tutte le tenebre dell’inferno furono illuminate. Ed ecco, all’improvviso, l’inferno fu scosso, e le porte della morte e le serrature furono fatte a pezzi, i chiavistelli di ferro caddero a terra infranti e tutto restò spalancato. Satana rimase nel mezzo, confuso e abbattuto, coi ceppi ai piedi”25. Gianduia – Mi sfundo le porte par intré, e col me bastun vado sciapei la testa alla iena!! E ti testafina cur al mercà dla fiera e vusa fort!! fort!!: Correte popolo! correte tutti che c’è il salumiere che ammazza le donne per fare salamini e


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salciccia! Correte tutti! tutti! Ades Testafina cur anche ti: ti fa la tua part che mi faso la mia… Testafina (via veloce in cielo come in mano a Chagall, gridando a squarciagola) – Correte popoli tutti a salvare le donne prima che diventino salamini e salciccia di una gran bontà!… Giorgio viene avanti coltello alla mano contro Gianduia. Le attrici che muovono Colombina e maestra Bianca velano le loro bambole e si coprono la faccia con un velo. Gianduia dà a Giorgio un colpo solo e lo abbatte; poi continua a picchiarlo steso a terra, con inesprimibile ferocia. Da tutti gli angoli vengono fuori personaggi muti che si tengono a distanza e guardano. i) Foto da Budapest 1956. Sul fondo, una linea continua di spettatori immobili. Al centro, sotto un lampione, in una piazza vuota, un solo uomo spara fucilate contro un nemico fuori scena. Di fianco a lui una donna, che ricarica un’altra arma.26 Gianduia –Abiecta fera belua – Bruta bestia feroce!! Par ades sta lì ferm n’moment che dopo quando rivran le autorità ti sistemeremo come ti meriti, brutta iena maledetta!! Ciapa n’po di calmante (riprende a pestarlo; e mentre lo fa:) Colombina! Dove sei finita?! Colombina – Sono qui n’fundo, a fei aria alla maestra Bianca (Gianduia lascia perdere Giorgio e va da lei, e l’operatrice gli mostra il suo volto coperto dalla bautta) che se iera nen mi quel bestiun dla malura lavriisa già masala. Bravo! Gianduia! che se rivà n’temp da salvese. Bianca la bisogn dal duttur Gianduia – Sta tranquilla n’mumento che a mument a rivu sì tuti! (vedendo…) Al bestiun a ven sì cul cortello. Lasa fé da mi che lo sistemo subit… (Giorgio col cortellone cerca di inseguire Gianduia che lo tempesta di legnate che le fa cadere il cortello) Gianduia lo pesta spietato finché Testafina non glielo toglie di sotto e gli lega le mani dietro la schiena. Adesso vengono avanti, mascherati, tutti quelli che avevano osservato da lontano; e si mettono in cerchio, ma a distanza. Sono i minatori dell’immondezzaio; sono le autorità: il Dottore, il Sindaco, Guardie e altri personaggi. Tra loro anche il Capitano Carletto. In mezzo, Giorgio, insanguinato e inginocchiato, con le mani dietro la schiena e la faccia nascosta contro il petto.


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Gianduia – Portela subit bin serà su n’capunera per evitare il linciaggio dla gent anfurià. Guardia (senza muovere un dito) – Faremo più presto possibile per evitarlo. Non passeremo per la strada principale. Passeremo dalla strada di dietro. Gianduia – Si bravi fe prest. Un momento, che lo saluto: 2 legnate (di nuovo lo picchia; di nuovo Testafina – di nuovo sciancato e stanco – glielo toglie dalle mani). Brutta iena maledetta. Testafina – Gianduia! dove sei?! che sono veramente contento! che ho dato l’allarme del brutto fatto a tutti, e tutti stanno correndo qua! (indica la fila immobile dei presenti, poi uno per uno) Il dottore, il sindaco di San Giorgio, il capitano Carletto e altre autorità. Colombina – Signor dottore venga qui che ce la maestra Bianca che sta male ed è viva per miracolo! Venga! Venga! Anche mi son viva per miracolo! Che se non arrivava an temp al me Gianduia a salvarmi adesso ero già all’altro mondo! In piedi accanto al palco-reale di Carlotta, la tota Rosetta canta; a chi è ben chiaro. La tota Rosetta (Canzone) – Non importa dove fuori dal mondo io ti accompagnerò sempre. Non onde, non sfere solo noi. Dottore (senza muovere un dito) – Aiutatemi a portarla nella vicina ambulanza che è quà vicino passando per la via più breve del cortile Testafina (lo punzecchia con la punta di una spada) – Vengo anch’io aiutarvi (escono il Dottore e maestra Bianca). Ma guarda un poco! (Si avvia a uscire per la stessa via da cui è arrivato, portandosi via Giorgio) Sono veramente contento che finalmente la iena maledetta l’abbiamo pescata! (Esce, sempre trascinandosi sulle stampelle, sfinito, con affanno). Pienamente colpevole, dunque, Giorgio, ma non piagnone; tantomeno bestia (“Bruta bestia feroce”). Con un tale splendore nero, sì, ma anche abietto. Portatore di scherno per gli altri, ma anche viscido, misero (il suo desiderio è quello dei borghesi, di andare a nascondersi per sempre, anonimo, in un’altra città. Che so, Marsiglia?) Un’idea di libertà assegnata e confinata nella mente di un morto di fame.


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Per cui: k) Storia della città in cui non si arrivò a nascondersi. “Scesero dalla nave. I ponti di marmo, giallo paglierino, erano viscidi. Si soleva dire più tardi a Venezia che tre erano le cose da temere: i viscidi gradini di pietra, i preti e le puttane. Il mare aveva fiaccato le gambe, ma ecco l’isola di Rialto, attraccata alle altre isole coi ponti, ed ecco la ben nota casa di legno. Non c’erano padroni. In casa nulla era mutato, da venticinque anni. Il servo era vecchio. Dette una lunga occhiata ai mendicanti. Quello più anziano si tirò più vicino, col piede, una seggiola e si sedette. Il servo pianse. Aveva riconosciuto il suo antico padrone”.

10 Gianduia (che ha osservato Testafina andarsene, si volta ora verso il Sindaco; il suo attore ha indossato la bautta) – A visto signor Sindaco che mi el me amis Testafina come cacciatori volontari della iena l’abbiamo scoperta e presa? Che ades 2 guardie l’an già portala bin an manett in capunera? Sindaco – Bravi! bravi!! Io sono il sindaco e ufficiale di pubblica sicurezza del comune di San Giorgio. Ora con calma raccontatemi tutto ben spiegato come avete fatto la scoperta di questo orribile fatto in tutti i particolari dimenticando nulla… Sù raccontate… Gianduia comincia il cunto. Gianduia – Mi e Testafina, stamatina siamo rivati prest a San Giorgio in compagnia di altre persone. E appena arrivati ci siamo divisi e ognun le andait per so cunt a sbrighe i propi affari e spese. Mi e Testafina regolari cacciatori volontari, ci siamo comperati dei salamin e suma andati mangiarli all’osteria che erano una gran bontà. Mentre mangiavo al salamin sento n’buca n’osetto, lo tiro fora e vedo che lera la punta dun dito di donna con l’unghia verniciata di rosa e ho subito dubitato male, ho chiamato l’amis e siamo coruti davanti alla porta dla botega, dopo per andare giù sfundo a spalà la porta dla scala che va giù n’cantina e cul me bastun i rumpo la testa al’uomo iena! E ti, Testafina cur al mercà dla fiera, e vusa fort. Correte, popolo! correte tutti che cè il salumiere che ammazza le donne per fare salamini e salciccia! correte! tutti!! Sindaco – È molto interessante sapere tutto ben chiaro. (Tutti ridono. Gianduia li guarda) Continuate! E dopo voi cosa faceste?


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Gianduia – Come sun rivà giù, Colombina era giù a pansa pararia sul taulas, e Giorgio Orsolano con la man sinistra la teneva ben ferma, e con la destra con il cortellaccio alto… Sindaco – È qui che devo capire bene: cosa faceste? Gianduia – L’hai fait parei (dà due legnate sulla testa del sindaco. Tutti ridono). Sindaco – Ma cosa fate?!!… Gianduia – Le chiel siur sindaco che ma dit di spiegare ben chiaro quello che ho fatto! Sindaco – Sì, va bene! ma spiegare tutto bene ma senza bastone! Ora raccontate tutto il seguito ma il bastone lasciatelo giù. Il salumiere, dopo le bastonate che prese reagì…? Gianduia – Oggià!… Sindaco – Cosa fece? Gianduia – A là ciapà al coltello, e mi l’hai ciapà al me bastun Tutti sobbalzano e arretrano: il sindaco si nasconde dietro due maschere. Sindaco – Lasciatelo giù il bastone! Vi dissi di spiegarvi senza bastone! E poi? Gianduia (pavoneggiandosi) – Poi quand sun rivà 2 guardie l’han portà legato in gattabuia. Tutti ridono; compreso Gianduia. Ma non ride il Sindaco. Sindaco – ora si esca tutti da questo orribile macello. Farò mettere i sigilli alle porte fino all’arrivo delle autorità competenti del Tribunale. Mi metterò d’accordo anche con le autorità religiose per fare un funerale unico a tutte le povere vittime solennemente grande! con i fiori più belli. E infine una bella festa ai cacciatori volontari della iena più valorosi che sono: Gianduja, Testafina e nonna Carlotta la più coraggiosa alla sua tarda età Nel silenzio di tutti – nessuno commenta – si sente Carlotta ridere dal suo palco d’opera. Forse perché vede qualcos’altro venire fuori dall’immondezzaio. E dunque un ultimo pro-memoria, per questo suo modo di ridere: l) Storia delle grida della strega di En-dor. Il re fu atterrito dal dispiegarsi dell’esercito nemico, il cuore gli si fermò in petto. Così interrogò Dio, ma Dio non rispose né in sogno, né coi dadi, né per mezzo di profeti. Il che vuol dire che il re non trovava un giudizio


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positivo in alcun modo attuabile. Allora chiese che gli cercassero una negromante, una donna che parlasse coi morti. Ma le aveva fatte uccidere tutte – pure, gli dissero di una vecchia donna che segretamente, a En-dor, ancora evocava i morti. Lui allora si truccò la faccia, si travestì e fece la strada con due uomini. Arrivò da quella donna di notte e le chiese che gli facesse conoscere l’avvenire evocando uno spettro. Lei gli rispose che era proibito. «È un tranello e vuoi farmi uccidere», e lui replicò «Per la vita del Signore, non avrai alcuna colpa per questa faccenda». Allora Lei dunque gli chiese chi volesse vedere, e lui glielo disse, e per questa via lei lo riconobbe, e gridò forte «So chi sei, sei il re, mi hai ingannato!» «No, aspetta, dimmi che vedi». E lei «Vedo un essere divino che sale dalla terra» e lui «Com’è»; e lei gridò di nuovo: «Sta salendo un vecchio, con addosso un mantello». Allora il re comprese che stava accadendo, e si inginocchiò, e rese omaggio. E l’altro disse «Che vuoi, perché mi hai disturbato». Poi le cose andarono male, e il re svenne. La vecchia cercò di rianimarlo, gli dette da mangiare. Il re mangiò e se ne andò coi suoi uomini quella notte stessa.27 Capitano – E per questa festa dei volontari coraggiosi ci penserò io organizzarla nel miglior modo da rimanere indimenticabile. E tutto il resto penserà Dio e la giustizia dei giudici della Corte d’assisi di Ivrea o di Torino. Gianduia – E nui salutiamo e ciamuma perdùn a tuto questo paziente pubblico che l’ha avù la bontà di ascoltarci. Ciareia a tuti e perdun! Gli operatori delle bambole si scambiano inchini e baci sulle guance. In alto il pubblico dei pupazzi non applaude. Sipario-luci a zero.


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Sequenza a lato per Carlotta (da usare quando e come l’attrice che muove Carlotta lo vorrà) a) NO, no, ascoltate me invece; ascoltate quello che devo dirvi. Pazienza, questo è il verdetto. Questa è anche l’ansia. Ma la fine non tarderà a venire: le catene che avete si spezzeranno, la porta sarà aperta. Non c’è da piangere. Benedite la notte, abbracciatevi a lei. b) Le strade che attraversano il mondo passano per i libri passano per la bocca dei bambini si stendono sotto la corsa dei grandi treni si aggrovigliano nei nodi delle autostrade corrono lungo la costa del mare sprofondano nel passato alla colonna di Brindisi e vanno a Farsaglia a San Giovanni d’Acri, ad Hattin e più avanti, in America a prendere gioielli Moche. Le colline cadono svenute nella sera ora tutte le luci delle strade si tirano dritte e poi a incroci, a stella, a fuochi d’artificio corolle e rose antiche che il letto ne è pieno, e noi ci addormentiamo via nei sogni, a correre. Per strada un uomo spiega uno per uno i versetti della Legge. c) I luoghi del mondo sono dunque: mare, deserto, abitato, giardino, giardino dell’Eden, inferno. Il mondo si estende per cinquecento anni; è largo altrettanto ed è rotondo. Sopra, il cielo, il Mar Grande, chiamato oceano, lo chiude come un coperchio.


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Ringraziamenti Una filata della prima parte della Iena di San Giorgio è stata realizzata la sera del 28 giugno 2006 nel Laboratorio teatrale del Dipartimento di Musica e Spettacolo, a via Valdonica, davanti ad alcuni ospiti (Gianni Infelise, Davide Monda, Luca Pappalardo e qualche altro; una decina in tutto). Una quarantina di minuti. Per le varie difficoltà (innanzitutto finanziarie) di quest’anno, non c’era stata la possibilità di andare oltre il Notturno di Giorgio, scena 7. Non c’era stata alcuna possibilità di scendere nei sotterranei della bottega di Giorgio Orsolano. Peccato; ma tant’è. Mostrare agli amici, dunque, solo un frammento; ma solo perché erano gli ultimi giorni del Laboratorio di via Valdonica. Un luogo che abbiamo amato molto, in cui siamo stati molti anni, e che ora dovevamo lasciare. Nell’occasione la distribuzione è stata la seguente: La tota Rosetta = Azzurra Spirito Giorgio Orsolano = Riccardo Rivi Testafina = Massimo Conti Capitano = Giovanni Marandola La vecchia Carlotta = Eva Beriatu Gianduia = Greg Cohen Frumin Colombina = Fulvia Lionetti La maestra Bianca = Irene Lentini ciascuno fabbricatore della sua bambola. Alle luci Alberto Sarti, alla fonica Max Briarava Cossati (che per tutto il periodo delle prove ha fatto da trainer e da “fido sostituto”). Tommaso Arosio ha preparato una locandina “fantasma” da spedire via mail solo ad amici (cosa che è stata fatta) e ha fatto riprese in video delle ultime prove e della rappresentazione. Massimiliano Lacertosa ha scattato delle foto dell’ultima prova e della rappresentazione. Ci sono altri studenti che hanno lavorato all’allestimento senza peraltro prendere parte alle sue fasi finali, e che vorrei ringraziare; ma di diversi di loro non ho conosciuto neppure il nome. Qui ricordo solo (perché erano presenti come assistenti, o come semplici osservatori, nella fase conclusiva) Lavinia Chiappone, Rosanna D’Agostino, Manuela Micciantuono e Noemi Rzewski. Senza la loro testardaggine, senza la loro applicazione, la loro spinta, avrei probabilmente abbandonato le verifiche sceniche dell’ipotesi su Niemen molto presto. Ma ho altri ringraziamenti da fare. A Giacomo Martini, editore de I Quaderni del Battello Ebbro, che nel 1998 ha pubblicato il testo di Niemen e di cui mi ha fatto sùbito avere una copia. Poi, quando nel 2005 decisi di utilizzarlo per un corso universitario e il testo era pressoché introvabile, preparò immediatamente una seconda edizione. In coda a questa mi fu permesso di aggiungere due lettere che avevo scritto ad Andrea Ferrari, uno studente che al tempo stava preparando con me la sua tesi di laurea (La marionetta nel teatro di Regia, a. A. 2004-05). Senza l’ostinata passione che Ferrari nutriva per questo argomento non avrei mai pensato a utilizzare la Iena per esaminare più da vicino il rapporto che più mi sta a cuore, quello tra attore e personaggio. Anche a Ferrari, dunque (la cui tesi ha poi vinto il premio “Dottor Burattino” della Associazione Peppino Sarina di Tortona) voglio manifestare la mia riconoscenza. Come a Remo Melloni (secondo relatore in quel lavoro di tesi) che mi ha fatto


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conoscere il Biagio Carnico o La riva di Biasio a San Geremia. Azione storica in cinque atti di Luigi Forti (Visaj, Milano, 1850), testo per attori da cui il soggetto della Iena – con l’intermediazione di molti copioni di burattinai – discende.28 Ho detto testo per attori perché qui sta il punto: quello di Niemen è un testo per burattini, scritto per la baracca; e cioè per una mano destra e una mano sinistra. Relativamente a una recita a Cassano Magnago, del 1952, Niemen ci fa sapere che rappresentò «la Iena di San Giorgio con Gianduja cacciatore… opera per burattini in tre atti e cinque quadri, della durata di 90 minuti. Con dieci personaggi di scena a cui dare le voci, e animarli»29; tutto da solo, davanti alla sua arena di 500 spettatori. E che lavorasse sempre da solo, e che fosse particolarmente bravo a dar voce alle figure femminili, nella sua Autobiografia Niemen lo ripete spesso.30 «Io lavoravo sempre da solo il più dei burattini erano a bastone però erano tutti belli e ben vestiti e facevano bella figura in scena»31. Il suo pubblico il più delle volte era di adulti, «bambini quasi nessuno»32. Per realizzare la Iena di San Giorgio bastava dunque un solo burattinaio, magari con l’aggiunta di un mezzo (un aiutante, che interviene con una sola mano), tanto per far divertire anche un amico. E dunque non si può realizzare la Iena di Niemen con dieci attori senza dilapidarne la potenza e l’essenzialità. Si può però giocare lo scontro tra attori-operatori e pupazzi – scontro tra attori e demoni – questo sì, purché i pupazzi siano fabbricati dagli attori stessi. E così viene in primo piano la bonarietà del drammaturgo e l’orrore del racconto. Le fiabe, moltissime fiabe – le più spaventevoli – e il gioco dei bambini. E ancora stamattina sto leggendo di «mamme-draghe con la bocca insanguinata dalle carni di “agnellini, caprettini / che parevano bambini”»33. Relativamente a un altro problema, quello della lingua usata da Niemen nella Iena, voglio ringraziare Gianni Infelise che, anche in virtù della grande gentilezza di Pietro Porta, mi ha fatto avere una fotocopia del manoscritto, in modo che potessi accertarmi, al di là di ogni dubbio, delle cadenze e dello scritto-parlato (che qui ho trascritto così com’è). Strambo piemontese; ma, sempre nell’Autobiografia Niemen ci fa sapere che nell’ultimo periodo l’originale piemontese di Gianduia era «diluito col dialetto del varesotto» perché la gente potesse seguire meglio34. L’uso del dialetto era, per noi, un importante tratto di estraneità; da cui la decisione di voltare in latino alcuni pezzi di battuta degli angeli e dei demoni (e di cui ringrazio Giacomo Mannironi). Tutto questo, poi, nella rappresentazione in Valdonica prendeva un aspetto molto particolare, con un americano di New York (Greg Frumin) nel ruolo di Gianduia e una ragazza greca (Eva Beriatu) in quello della vecchia Carlotta. Sappiamo che il testo di cui disponiamo non è un originale; e che, se di certo Niemen rappresentava la Iena nel 1932, la versione che ho utilizzato è pressappoco del 2000, riscritta a memoria, su insistenza di Pietro Porta, da un Niemen quasi cieco. In due lettere indirizzate appunto a Porta, Niemen ci dice che «La Iena di San Giorgio la vidi alcune volte rappresentare dal burattinaio Giacomo Canardi nel suo bellissimo Teatro tenda alla barriera di Milano a Torino nel periodo dal 1915-1918 [Niemen, che era del 1905, aveva allora una decina d’anni]. E il famoso salumiere lo chiamava Giorgio Orsolano. Siccome era un fatto leggendario, nel canavese quel nome veniva detto da molti parlando del fatto leggendario della iena di San Giorgio. E io mi tenni ben in mente bene la storia. Né da marionettisti e altri burattinai non la vidi mai più rappresentare. Poi quando lasiai il circo per i burattini


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incominciai a recitarla a soggetto senza copione e da me l’impararono alla meglio alcuni lontani cugini dei Niemen»35. «Fu proprio il copione della Iena di San Giorgio che mandai alla (SIAE) [1935] a Roma. (…) Poi nel 1963 essendo in troppi a chiedere il permesso per la iena LA feci togliere dal mio repertorio e bruciare i copioni. E così fu fatto»36 il che è una affermazione non proprio chiara, su una tale decisione. Ma, a parte questo, l’avere davanti a me un soggetto passato di mano in mano, pieno di tocchi leggendari (o di antiche cronache), brani imprestati e brani mancanti – forse perché lasciati a soggetto – tutto questo l’ho preso come una autorizzazione ad aggiungere alcuni pezzi di mia mano, tanto per adattarmelo, la maggior parte dei quali, come ho detto, gli attori-burattinai dovevano tenerli solo per sé. E anche le battute inserite, toglierle, se possibile, a cose finite, andando in scena; e in particolare quelle assegnate all’operatore di Giorgio Orsolano. Il che poi è accaduto per quelle messe a disposizione dell’attrice che lavorava sulla vecchia Carlotta. Del resto, il mio interesse non stava affatto nello sciogliere le molte e varie questioni (e alcune piuttosto serie) che Niemen aveva annodato nel suo testo, ma solo nel riesaminare il rapporto tra l’attore e il personaggio nel momento in cui gli avessi chiesto di non prestargli più il suo corpo. E qui arrivo al mio ultimo ringraziamento – il più importante, per me –, a una ragazza di cui non conosco il nome. In una seduta di Laboratorio, all’inizio di febbraio, questa ragazza mise assieme, prendendo i suoi pezzi dal mucchio degli oggetti a disposizione, una figura davvero strana. Una giacca nera messa addosso a una cavalla da tavolo (alta una sessantina di centimetri) e, al posto giusto, tra i baveri, un fagotto bianco, tondo; una testa. Perché stesse un po’ ferma (questa testa cadeva da tutte le parti), era stata stretta al collo della giacca con una collana di perle. La giacca copriva la cavalla quasi del tutto, come una zimarra, eccetto che per le punte a terra; i piedi, per dire. La ragazza ha cominciato a muovere questa figura aprendo e richiudendo a forbice il compasso della cavalla, che così veniva avanti lenta, e con grande fatica, come se l’uomo camminasse sulle stampelle. E la testa, che era pur sempre senza forza nel collo, ora ricadeva verso la schiena, si rovesciava (così che l’uomo pareva un gobbo, con la testa incassata tra le spalle e fosse costretto a guardare solo in alto – per cui inciampava continuamente negli oggetti sparsi a terra davanti a lui), ora gli ciondolava sul petto, come se a ogni passo dovesse sopportare un terribile dolore. Ogni tanto la ragazza, che lo manovrava piegata in due, cercava di raddrizzargliela, questa testa, ma quella tornava a ricadere; niente: non c’era forza. Tutto con molta pena. E così faceva il giro della stanza. Ma chi diavolo era questo? E che cosa voleva? In questa figura c’era uno spirito nascosto. O meglio: c’era uno spirito che si era camuffato, che si era travestito per apparire un altro. Spiriti di grande potenza, che si fingevano deboli. Ma che scopo c’era? Perché venivano così? Stavo entrando in uno stato di grande eccitazione, non riuscivo a stare fermo. Poi all’improvviso era chiaro: Testafina viene dentro come uno storpio. Che vuol dire, perché lo fa, che cosa ha in mente. In ogni modo: è l’eroe travestito da mendicante, da vagabondo, da poveraccio. Un maledetto (direbbe Brecht, direbbe Müller) eroe. Prendiamolo allora alla lettera: un eroe maledetto. Ah ecco: perché Marut, l’angelo semideficiente (ingenuo?), l’angelo cacciato via dal cielo per ubriachezza (ma forse è anche l’angelo che gira nell’Agesilaus Santander di Walter Benjamin37), non può dire al mondo chi è, deve restare sconosciuto. Come i kouroi nella storia di Simonide di Ceo, che leggiamo anche in Cicerone (De Oratore, II, 86, 352-354). È una storia inquietante, e forse vale la pena riassumerla. E dunque: per contratto, durante un


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banchetto a Crannone, in Tessaglia, Simonide doveva per contratto cantare le lodi del padrone di casa, il principe Scopa, che aveva vinto in una gara di cavalli (altri dicono di pugilato). Per Simonide era il suo lavoro. A volte faceva anche trenodie, o elegie (e si dice che quella che compose per i caduti di Maratona fosse preferita a quella di Eschilo). A ogni modo, nel suo epinicio Simonide cantò in egual misura l’elogio di Scopa e quello dei Tindaridi, Castore e Polluce, quelli che salvano i marinai in naufragio cavalcando sulle onde del mare in tempesta. Ma Scopa, che era uno rozzo, che si era commissionato un elogio poetico tutto per sé e d’altro non s’interessava, disse a Simonide che andasse a chiedersi il resto del compenso pattuito ai kouroi, ché lui l’avrebbe pagato solo a metà. Bell’offesa. Proprio allora un servo venne a dire a Simonide che fuori due sconosciuti chiedevano con insistenza di lui. Simonide si alzò e uscì. Ma fuori non c’era nessuno. Intanto, dentro, il soffitto della sala del banchetto crollò e tutti i convitati restarono uccisi, e sfigurati in modo tale da essere irriconoscibili. Ma qui si trattava solo del Testafina di Niemen, la sua maschera, quella che aveva inventato nel suo primo spettacolo (1921); un personaggio “sempre molto ottimista e allegro qualunque cosa capiti… Sono veramente contento! ma guarda un poco!»38, e di cui almeno una volta aveva preso l’aspetto per la pista del circo39. Senza rendersene conto, una ragazza mi aveva mostrato il punto, nello strato più infimo delle cose, in cui tutti i pezzi si collegavano. Ora tutto poteva davvero mettersi in moto, non c’era altro da fare che dedurre, con un minimo di ragionevolezza, di pazienza, la combinatoria delle situazioni. Quella ragazza ha partecipato a un altro paio di incontri poi non è più tornata. Non ho mai saputo il suo nome. Mi rendo conto che ci sono cose misteriose che avvengono quando si fa un regalo. O forse i regali veri si fanno sempre così.


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Appendici I. Due lettere a un giovane amico, laureando con una tesi su La Marionetta nel teatro di Regia. Non datata. Forse gennaio 2005 Caro Andrea francamente non so immaginare a quale conclusione stia arrivando questo tuo lavoro. Quel che temo è che tu sia intenzionato a trarne una conclusione un po’ banale, sul tipo “il fantoccio-burattino-marionetta ecc. è in connessione con la morte” (convinzione che tu avevi ancora prima di cominciare, ma che è un’osservazione molto generica e tutto sommato vuota, inservibile dal punto di vita operativo); oppure, che muoverlo equivale alla magia mistica, alla meraviglia di dar vita alla materia inerte (rabbi Loew ben Bezalel e il Golem, o l’inevitabile Pandora, e poi Adamo, l’uomo di terra rossa, e poi la scommessa sulla Creazione di cui parlano Neher, e Borges); ma poi ci sarebbe anche la bambina che gioca sola solettina con le sue bambole ecc. Questa sì grande magia. La questione invece deve avere ben altro fondo, se (e il caso di Adamo, p. es., dove agisce il dio che anima la creta plasmata, lo mostra) se è investita da una riflessione teologica; o anche cupamente autoritaria (ricordati della storia dell’Apprendista stregone, di Goethe, o Dukas o Disney che sia, che alla fine è un apologo sull’usurpazione del potere; o tout court dell’autorità). Per cui credo che la tua conclusione dovrebbe prendere in considerazione per primo il problema del nucleo drammatico (o della facilità teatrale, dovrei dire) che sta al fondo della faccenda e che rende universalmente efficace (ed emotivamente molto efficace) la questione dell’inanimato che si anima e vive - e che per la regia è più una riflessione di poetica che materiale sui pupazzi. È infatti la faccenda Jentsch40, che mise in moto Freud per la definizione di unheimlich, di “perturbante”. E probabilmente sto sbagliando a parlare di Golem; dovrei dire Convitato di pietra, Quello che viene da sé. D’altra parte, in una situazione analoga, per il Golem il narratore usa la coppia di parole Verità/morto.41 Se usassi le sefirot preferirei dire Misericordia/morto, riferendomi pur sempre alla Misericordia di Dio (che è una forma della Grazia), che nella Cabala si chiama Tiferet e fa coppia, o è la stessa cosa, con la Bellezza (Misericordia-Bellezza è la sesta sefirah; questo lo trovi in diversi autori; Scholem, Bloom eccetera). Così verrebbe di nuovo fuori la tua “Bellezza/morte”, quella che hai preso in prestito da Rilke42, come coppia che reagisce nella materia spinta a vivere. Ma ti ripeto che è necessario non dimenticarsi che tutte queste sono solo metafore o anche, se vuoi, speranze. Potremmo elencarle e dire: questo è ciò che gli uomini (Kleist, Craig, Neher, Schnitzler ecc.) hanno pensato di questa faccenda. Riflessioni vere e documentate, è chiaro, ma che non significano altro che tentativi di spiegarsi un’impressione in rapporto a un oggetto che si può muovere; o capace di muoversi; o che sono solo forme dell’autoconvincersi. Non hanno alcun riferimento nel reale, se non in emozioni, in un rapporto. È dunque una strada che si mostra come il fantasma di una strada. E infatti sono tentativi di spiegazione molto sfumati, sulla soglia di una visione e solo per questo, d’altra parte, prossimi al teatro. A un valore più propriamente teatrali, a un valore tecnico, proverei ad arrivare passando per le idee di “archetipo teatrale” o di “polemica teatrale”


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usate, tanto tempo fa, da Grotowski-Barba43. Ci si potrebbe chiedere: il gruppo di idee che ruotano attorno alla coppia Bellezza/morte è un archetipo teatrale? (per Jung, cui Barba e Grotowski si attaccano, gli archetipi sono agenti umanizzati, ma mi sembra restrittivo, e Barba nei suoi appunti in Alla ricerca del teatro perduto è molto insicuro su questo punto; cfr). Ma di sicuro questo della Bellezza/morte è un argomento che per fare storie è reimpiegato fino alla nausea, quasi fosse il più sicuro. È un fatto. L’idea di “polemica teatrale”44 in questo senso parrebbe andare operativamente molto meglio. Ma comunque: usare marionette (o fantocci ecc.) significherebbe allora solo mettere in moto proprio questa diffusa usanza, il morto col vivo, la bellezza uccisa eccetera? Chi lo sa ma non credo. Anche qui ci si dovrebbe limitare a dire: certi uomini hanno pensato che, nella maniera più alta, nel fantoccio Grazia, bellezza e materia inerte, o morte, si trovano assieme, cercando di spiegarsi la ragione di una evidente e particolare emozione che accompagna l’uso, la manovra coi pupazzi. Si deve intendere: in primo luogo in chi li usa? o in tutti, compreso chi guarda? Non saprei dire. Forse principalmente in chi li usa, in chi ci gioca. Anche questo è probabilmente ben documentabile, ma non significa certo aver sciolto l’enigma del rapporto tra chi muove e l’oggetto (devo dire oggetto) che è mosso, e le retroazioni (influenza di un’opera sul suo autore, diceva Valéry). E francamente (per chiudere dove ho cominciato) non solo non ritengo possibile che sia sciolto, ma spero anche che resti enigmatico per come è. Ma questo è davvero il punto che credo dovresti affrontare per primo e seriamente: l’effetto che il pupazzo, la bambola, ha su chi lo muove; con pubblico, si capisce, con pubblico. Come dire: i suoi stessi versi feriscono, tornano indietro e pungono Rilke che li scrive. Oppure: tu che con una bautta sulla faccia vai davanti a uno specchio e ti guardi. 28 maggio 05 Il testo della Iena di San Giorgio che ho per le mani, e che mi piacerebbe provare a realizzare, è quello di Gualberto Niemen (stampato per I Quaderni del Battello Ebbro, 1998); in giro, della Iena, ce n’è almeno un’altra versione, quella di Ceronetti, Tragedia per marionette, (Einaudi, 1994, che però mi sembra più rammassata, o grezza; o per meglio dire meno tagliente e veloce, meno naïve di quella di Niemen). Voglio parlartene solo perché mi aiuta a fissare alcune ipotesi sempre molto preliminari attorno alla questione che andiamo discutendo. Bada bene al punto: tu dici “i fantocci sono impastati di molte cose: sono piccole statue, sono oggetti che si muovono, sono personaggi e poi anche attori in uno spettacolo”. Diceva Hippolyte Rigault che la bambola «non è né una cosa né un oggetto: è una persona, la fanciulla della fanciulla». Voglio tentare di capire questa cosa: durante uno spettacolo d’attore, diciamo dell’attore Giorgio (tanto per usare un nome), lui e il suo personaggio sono pur sempre un due, e l’azione in scena può prendere anche l’aspetto di un’evocazione negromantica, di un incantesimo, di un esorcismo ecc. (tra le tante altre cose); ma io vedo sempre, comunque, in primo luogo Giorgio dentro al suo lavoro. Che semmai mi par assomigliare di più al lavoro dello scacchista nascosto nella pancia del Turco di Maelzel (di cui parla anche Poe)45. Con un fantoccio, una bambola tra le mani non ho invece un due, ma direttamente il personaggio; presente come corpo presente, e intontito, inerte e vigile insieme, un attimo prima di tornare con l’energia di un demone; un’energia perfida, vorrei aggiungere. Con l’attore umano il demone è vincolato alla sua (dell’attore) capacità; voglio dire che non può eccederla. È pur sempre sottomesso. Ma appena, invece, il marionettista agisce (in scena – via, buttar via le metafore del


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Gran burattinaio), il personaggio lo aggredisce e lo domina. All’istante. Il marionettista diventa uno schiavo che il pupazzo sottomette; uno schiavo obbligato a manovrare a mani nude pezzi di materiale rovente, materiale radioattivo; così il suo lavoro è carico di angoscia e di sgomento. Con quale voce la marionetta parlerà? Non con la mia (ecco il problema di Ceronetti alle prese con le voci registrate). Fino a che punto la tecnica impiegata da un attore può proteggerlo dall’invasione degli spiriti-personaggi? Ed ecco il teatro dei pupazzi a soggetto religioso (Ghelderode, per dire): fino a che punto fili e palco, legno e stracci, luci e pubblico infantile (o sia pure pubblico in genere, questa moltitudine di presenze, di occhi) funzionano come l’anello di Salomone, che dava dominio sugli spiriti evocati, o come un pentàcolo di protezione? Torno indietro e mi chiedo: se osservo questi fatti sotto questa angolazione, posso dire che lo stesso accade con l’attore umano in scena? Solo fino a un certo punto, questo accade; solo finché l’attore resta un mistico, o un bambino. E in nessun altro caso. Così io distinguo i due campi e vedo, all’improvviso, mostrarsi il problema registico centrale proprio avendo a che fare con fantocci, e cioè con personaggi qua davanti a me, e senza attori interposti, che funzionano da medium (e quasi sempre da finti medium). Se non mi va di lavorare così (con loro in quanto medium, intendo), allora io regista salto un passaggio e vado direttamente al personaggio; lo dissotterro e lo evoco. Incantesimi, orrore. Quello che colpisce la strega di En-dor46; o il commensale negli Emmausgangers del Rembrandt 162947. Verissimo orrore. Che verrebbe uguale se mettessi in moto con un incantesimo la statua di Marco Aurelio a cavallo nella piazza del Campidoglio, come se si muovesse dall’Arsenale delle Apparizioni48. Con quale suono di zoccoli di bronzo e con quali occhiate e con che voce scenderebbe la scala fino in piazza Venezia, e poi per il Corso? Non ci posso pensare. Ma se dovessi fare la stesa scena con un qualunque attore chiuso nel bronzo e indomenicato nello spettacolo mi verrebbe da ridere; mi verrebbe da storcere la bocca, a pensare “Guarda qua che pena”; Guarda qua che pena vedere al cinema Alessandro su un cavalluccio che vuol essere Bucefalo, il divoratore di ladri e assassini. Ma guarda che paradosso: se voglio entrare direttamente nel fuoco del caos devo usare un giocattolo per bambini e abbandonare il teatro di attori (che è cosa seria, di uomini adulti; ma anche cosa riparata, beneducata, dato che per prima cosa c’è pur sempre da sospendere l’incredulità). Tutto questo mi fa vedere in modo diverso il problema insolubile (con attori) della rappresentazione dei miracoli dell’emorroissa o della resurrezione della figlia di Giairo, venuti fuori al tempo in cui lavoravo al Vangelo di Marco. I fantocci non rappresentano; sono. E lo fanno bene, questo io sono, perché non sono; perché sono creature segrete. Ed ecco perché il testo della Iena di San Giorgio mi serve a definire un problema da affrontare. Perché si tratta di una storia criminale esposta con il piglio di un cantastorie che racconta e balla su una piazza; perché Gianduia e Testafina, che risolvono il caso, non sono solo burattini come tutti gli altri, che sono preti e borghesi, ma maschere-burattini; un raddoppio di demonicità come se fosse l’unica possibilità di stanare in un gioco di bui nascondigli il demonemacellaio, «il salumiere che rapisce le donne per insalsicciarle», e solo quelle belle, peraltro; perché solo così le salsicce gli vengono buone. E così, se il suo costume prevede (come me l’ha disegnato una tua compagna) un barbone nero e un grembiule insanguinato, io gli vedo una bocca piena di denti d’oro. Gli altri due sono due demoni con le pezze al sedere che neppure sanno parlare in italiano. In fondo sono mendicanti-viandanti. Potrei buttar là un’ipotesi: sono i gemelli-arcangeli Harut e Marut delle leggende ebree e musulmane; angeli medici che, scesi tra gli uomini come soccorritori, per aver trasgredito l’ordine di non amare le donne e di non ubriacarsi non poterono più tornare in cielo. E così questa storia che màcina i burattinai e gli


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intorpidisce le braccia arriva a mostrare la sua vera faccia: demoni di varia razza e faccia si disputano l’anima che sta per prendere il largo. Come in una disputa delle anime. Per così tenera com’è, e indifesa, quell’animula lieve che piange è tal quale un dolce corpo di donna. Da insalsicciare, si capisce. E in fondo a un tenebroso scantinato. Ma vedi bene che pur girando e voltando e smaniando, il problema ci resta tutto davanti. Dire dunque che il burattino e la morte sono connessi, o che il burattinaio sente attraverso il proprio braccio le scariche radioattive del burattino che muove, è dunque sì dire l’essenziale ma anche non dire niente. Nessuno ci crederà. Pure, abbiamo trovato (mi immagino) un modo per andare a verificarlo di persona. Saluti, Arnaldo

II. Giorgio Orsolano, grande artista estratti dal diario del corso di istituzioni di regia 2005/06 Il testo de La Iena di San Giorgio di Niemen si presenta formato da centoni, cioè frammenti dialogati precostituiti, sostanzialmente indipendenti tra di loro e funzionali in base alla combinatoria che se ne può cavare; si tratta dunque di un canovaccio. Le figure introdotte da Niemen nei centoni dialogati presentano una strana imprecisione di disegno, un che di volontariamente sfuggente o inquietante. In modo particolare quando questi personaggi vengono presentati nel primo atto; cioè fino a I, 5 (Giorgio Orsolano solo). Poi, diventando dominante l’azione, anche questi vengono in pratica abbandonati ai loro ruoli convenzionali. Ma ciò non toglie che l’intera struttura, con la stramba andatura che ha, abbia un proprio specialissimo fascino, tra l’enigmatico preambolo e il solare, giocoso (e improbabilissimo) lieto fine-scioglimento. Fosse un trattamento volontario (e lo credo) dimostrerebbe una percezione molto elegante del soggetto. Se accettiamo per buona (e possiamo farlo) la discendenza (proposta da Remo Melloni) della Iena di San Giorgio di Niemen dal Biagio Carnico o La riva di Biasio a San Geremia, di Luigi Forti, le lacune, sia le fratture che tutta la stortignaccolità strutturale della Iena di San Giorgio di Niemen deriverebbero dal dare per scontato dietro di sé quell’altro trattamento (quello di Forti). Prendiamo dunque in esame il centone più dichiaramente ambiguo, quello che riguarda Giorgio Orsolano, il macellaio, dove vengono più in evidenza le differenza con il testo-fonte. Si tratta in pratica di una autopresentazione, dato che Niemen non concede a Giorgio una spalla. (…) Giorgio si presenta con un’altissima stima di sé; considera il proprio un lavoro onesto e faticoso, eseguito “da grande artista intelligente”. In lui, dunque non solo non c’è il più piccolo scrupolo per le donne che ha ucciso; ma la considerazione che quanto fatto è fatto con bravura “da grande artista”. (…) Autoassegnare il rango di artista a questo macellaro scellerato che ammette a se stesso ridendo “Io sono la iena ma giammai mi troveranno!”, è cosa –una simile indifferenza – che aggiunge alla figura di Giorgio un alone disgustoso, e infine un che di maligno, se poi teniamo conto che Giorgio dà da mangiare questa roba ai suoi clienti (come Atreo che dà in pasto i figli a Tieste loro padre, o il sanaporcelle di Levi carne viva ai suoi cani); e che è da questi clienti cannibali inconsapevoli che egli trae consenso, fama e fortuna. Per cui può essere che Giorgio si consideri un grande artista proprio


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perché sa degli altri quello che essi di sé non sanno: che sono i mangiatori delle loro stesse figlie. (…) A questo senso che possiamo trarre dal suo sentirsi un ‘grande artista’, dall’uso di questo luogo comune in Niemen, possiamo aggiungerne un altro. Negli anni ‘50, nel dire di un tizio qualunque “che artista!”, si intendeva comunemente che bugiardo, che ipocrita, che intelligente e abile simulatore (una vecchia accusa cattolica contro, appunto, gli attori, e su cui, poi, mise le mani anche Diderot). (…) Così su tutta questa faccenda arriva adesso la tara dell’impostore: in che cosa lui sia davvero riuscito non potrà mai essere riconosciuto; venisse riconosciuto la sua grande arte diventerebbe infamia. Sotto l’allegria di Giorgio si nasconde dunque un ineliminabile fondo di dolore; una amarezza senza speranza. (…) Confrontiamo Giorgio con la iena così com’è nel Biagio Carnico di Forti; la iena precedente. Passeremo poi alla iena successiva, al Barnaba Caccù di Ceronetti, che da Niemen deriva. (…) La strada percorsa tra Biagio Carnico, Giorgio Orsolano e Barnaba Caccù è stata molta, e i successivi maquillages del personaggio piuttosto estesi. Pure, dato che a noi interessano le potenzialità lasciate libere di manifestarsi nel canovaccio di Niemen (del quale Forti è una sorta di impostazione generale, e Ceronetti un possibile punto di arrivo) – e con questo intendo dire che ciò che qui davvero mi importa è reggere e sottolineare l’enigmaticità del testo: usare proprio questa enigmaticità come oggetto della messa in scena – dato che mi interessa proprio questo (un ritmo, un alone, un luogo, uomini che vi hanno a che fare), cercherò di accostarmici confrontando la battuta di autopresentazione di Giorgio in Niemen, con quelle con cui, in Forti, Biagio e, in Ceronetti, Barnaba si dichiarano e si definiscono, e sempre entrando in scena la prima volta. (…) Davanti a noi c’è dunque il transito dallo sbigottito, affranto, pentito, piangente Biagio Carnico di Forti a un Giorgio Orsolano che si sente come un grande artista nella sua pienezza, sicuro di sé e felice, e di cui Barnaba è una configurazione al limite, ma incupita, di nuovo angosciata). (…) Se nella stessa situazione Biagio si sente prossimo alla punizione e Giorgio si sente dentro un lungo, splendente momento della propria vita, il confronto tra loro due dovrebbe essere fatto tra due percezioni del destino: il destino sentito come assenza di buona fortuna, assenza di futuri, e quindi come punizione definitiva, come artiglio alla gola, e il destino percepito come presente perfetto, come somma di tutti i favori – e quindi come felicità. Se non si percepisce che il destino può assumere a suo piacimento ciascuna delle due facce, si finisce per prenderlo come il disumano drammaturgo, e quindi – e solo – come nemico. Come il nemico. Da cui la banalità (o meglio: la semplificazione, la sbrigatività) cattolica (o inquisitoriale) del tenere sempre rimorso nell’uomo (…) Viceversa se riduciamo il soggetto al pregiudizio con cui consideriamo lo scenario per burattini, il monologo di Giorgio diventa grottesco; al più pare prossimo a quello della macchietta dello scienziato pazzo coi suoi deliri di grandezza (e dunque grande artista solo per questo). Avvilendo il genere per cui il testo è stato prodotto, tutto spinge per spicciarsene in fretta e non pensarci più. E d’altra parte rapidissimamente Niemen se ne spiccia (e davvero non è male che quello che si crede immortale – l’artista? – sia spazzato via con siffatta rapidità; da fuori è un niente). Ma questo non tocca nulla: proprio perché il tutto è tragico la velocità con cui lo si spiccia deve restare massima. Ma neppure il tragico è un porto, un approdo; dato che seppur risultato di una combinazione dialettica, esso stesso è pur sempre generatore del proprio reciproco, uno scenario in cui tutti gli uomini sono privati della possibilità di essere responsabili di qualcosa. E a maggior ragione se la dialettica tragica finisce in una baracca di burattini e di burattinai. (…)


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In realtà non arriveremo mai ad accertare quale sia il movente (anche solo il meno improbabile) che all’inizio sosteneva Giorgio nella sua azione. Se è ovvio che è ormai dentro una routine (e una routine di successo), di quella sua prima volta non sappiamo niente (in nessuno dei tre casi: Biagio, Giorgio e Barnaba sono tutti presentati come al lavoro da tempo). (…) Che c’è da discutere? Evidentemente solo delle mosse dei due drammaturghi (Forti e Niemen) nel momento del suo primo apparire: nel bel mezzo di una fortunata routine di macellai, in un caso (Forti) smangiato, vuotato e ricolmato di rimorso; nell’altro (Niemen) dentro uno stato di esaltazione. Con il primo tratteggio si prende in considerazione uno stato che sarà comunque (si presuppone) quello finale: perché al rimorso, al pianto e stridor di denti comunque si arriverà; nel secondo non si arriva mai a un pentimento: legato e buttato in capunera, Giorgio non grida, non piange; sconfitto sì, ma non demolito; non subisce una trasformazione in basso. Infine: Biagio può anche fare pena; Giorgio no. Certo: è preso, ma è come se restasse invincibile. È orgoglioso, immondo, divorato dalla superbia; è un’anima che non si estirpa. Tornerà con un altro corpo. (…) Questo dell’ovvio pentimento è dunque un criterio di normalizzazione universalmente accolto, ma valido fino a un margine, perché pare anch’esso avere dei residui insolubili. Si pensa a uomini che non possono essere interpretati come umani. Eppure, ogni uomo dovrebbe per principio essere considerato umano. No? Ed ecco dunque il nostro pregiudizio: alcuni no. C’è una normalità anche nel crimine, anche nella sedia elettrica, anche nelle forche di Norimberga. Del resto, quello di ‘persona’ è “un concetto forense, una qualifica di ruolo e di stato, convenzionalmente e socialmente attribuita, senza bisogno che vi corrisponda nulla nella realtà” (Roberta De Monticelli, Nulla appare invano), e che quindi può essere revocata, tolta. Anche solo interdicendo (o più in grande: abolendo libertà civili, proclamando stati d’assedio, stati di eccezione). (…) Il rimorso chiede punizione e riammissione. Così è per Biagio. Ma Giorgio (come del resto parecchi altri) non entra in questo modo di pensare: non si consegna ai propri nemici, ai consumatori delle sue salsicce; non vuole essere purificato. [cfr Marco Tosatti, Papa Benedetto liquida Giuda, La Stampa, 14 aprile 06]. A questo punto il passaggio davvero decisivo nel monologo di Giorgio (che proprio non pensa a un pentimento, piuttosto a un futuro di ricco pensionato che ha sempre assolto bene il suo compito, fatto bene il suo lavoro) è in quel “siccome sono anch’io un uomo di coscienza umana” (lo ripete due volte). Ecco dove tutto diventa sdrucciolevole: è proprio il fatto che Giorgio considera normale e “onesto” il suo lavoro che gli impedisce di pensare a un perdono, a una normalizzazione (come invece è per Biagio): lui è normalissimo, un uomo come gli altri, di buona coscienza umana. E allora – tutto questo detto – la nostra situazione è quella di dover giudicare qual è la pena opportuna per simili soggetti, ben sapendo che le categorie di giudizio sono inevitabilmente categorie culturali. I drammaturghi, semplicemente, ci rinviano l’uomo a giudizio (al nostro giudizio). (…) Siamo sempre sul punto da dove abbiamo cominciato: quali pregiudizi agiscono a convincerci della bontà della forma dei nostri giudizi (quanto siamo bisognosi di facili menzogne). Così come i riti funebri purificano i vivi dalla presenza del morto, così le forme del giudizio purificano i giudici. Se i nessi casuali tra i fatti sono insondabili, allora, di necessità, il giudizio è una abusiva generalizzazione (nei casi noti in letteratura). Ma tanto deve bastare. E basterà. Ma sempre rimuovendo la consapevolezza che il giudizio è funzione della superstizione. Che importa: bisogna emettere giudizi. (…)


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Non c’è movente: la recita comincia come un’assunzione di faccia, comincia con un atto di volontà, con una scelta per la rivolta. Ed è il godere di questo atto di volontà il bagliore in cui si manifesta la vita perfetta. E dato che questo momento sa già che può condurre a morte nell’abbandono, questo SAPERE diventa un ingrediente della volontà – la presenza dell’azzardo, la scommessa (la scommessa della creazione tra Dio, l’uomo e Satana, direbbe Neher)e non può ammettere né pentimento né richiesta di remissione. Una variante dell’Uomo in rivolta di Camus. È questo il senso, mi pare, dell’affermazione “io sono un uomo di coscienza umana” (e non certo di una coscienza che scende al livello dei rimorsi). Ma tutto questo, poggiato com’è su una recita di pupazzi, è davvero troppo serioso e romantico. Possiamo pensare che a Giorgio, come personaggio di teatro della marionette alla Kleist (infantile, demonico e celeste insieme) compete, solo come esteriorità, dato che al suo fondo Niemen ha posto un’ingenuità da musica e fiaba (…). Tutto l’imbroglio e la scivolosità nel trattare con Giorgio pare provenire da un unico presupposto sbagliato: che qualunque scenario di personaggi sia frequentabile da attori. (…) In questo modo i personaggi di Niemen verrebbero comunque ridotti a uomini – quando non si tratta affatto di uomini (e tantomeno di personificazioni) ma di “esseri addensati”, di ideogrammi, di masse di cultura, di masse di saperi. Dimenticarsi di questo è davvero grave, dato che così la grande potenzialità che il testo pensato per burattini offre diventa un greve fardello, una inespressività. E dunque Giorgio non è semplicemente un macellaio criminale (ma anche), ma semplicemente il male, semplicemente ficcato nelle spoglie del pupazzo del diavolo. (…) Centrale dunque – per qualunque successiva discussione – è considerare che il testo di Niemen è primariamente un testo per il burattinaio. Diciamo per UN burattinaio, e non certo per una compagnia di attori. È questa la sua specifica natura. Errore dunque, per un testo elaborato come uno scenario con centoni, parlare di lacune tra le scene sulla base del meccanismo di entrate e uscite di attori; non di questo si tratta (anche se pur sempre di lacune si deve parlare) ma di presenze della mano sinistra e della mano destra del burattinaio. In un primo momento dobbiamo pensare che seppure entra l’ideogramma Gianduia, entra la mano destra (poniamo) del burattinaio. L’andamento del testo – e intendo proprio il modo in cui è scritto – è vincolato dalla tecnica di esecuzione cui era destinato: non ad attori: a mani.


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1 Midrash è sostantivo derivante da darash, che significa ricercare, studiare, scrutare, esaminare. Il termine designa anzitutto un metodo di interpretazione della Sacra Scrittura che, andando aldilà del senso letterale, scruta il testo in profondità, elaborando varianti, racconti paralleli, interpretazioni attualizzate, adattamenti, e traendo applicazioni pratiche e significati nuovi che non appaiono a prima vista. Vedi anche, per l’uso che Picchi fa del termine, la voce “Nucleo Drammatico” e la nota 301 (???) in Arnaldo Picchi, Glossario di regia teatrale. 2 Per l’allestimento del primo e secondo studio: Alfred Schnittke, Gogol Suite, II-Childhood. 3 Gli angeli Harut e Marut sono citati per la prima volta nella seconda Surah del Corano, Surah AlBaquara, al versetto 102, come angeli tentatori inviati a testare la fede degli abitanti di Babilonia (o Babele) attraverso atti di magia, da non imitare. 4 Tyge Brahe, astronomo danese (1546-1601). Vedi Kitty Ferguson. L’uomo dal naso d’oro. Tycho Brahe e Giovanni Keplero: la strana coppia che rivoluzionò la scienza, Longanesi, Milano 2003; Francesco Ongaro. L’uomo che cambiò i cieli, Cairo, Milano 2007. 5 Le diverse parti in latino inserite da Picchi, che insieme al dialetto aumentano il senso di estraniamento e conferiscono forza angelica e demonica alle bambole, sono traduzioni delle battute originali, a cura di Giacomo Mannironi. In tutti i casi è il personaggio stesso a dare la stessa battuta prima in latino, poi in italiano. 6 Per l’allestimento del primo e secondo studio: Ernst Reijseger & Tenore De Orosei, Colla Voche (1999), brano 2: Armonica. 7 Apocalisse di Giovanni, 6, 6-8 8 Per l’allestimento del primo studio: Giuseppe Verdi, La Traviata, Atto III: Largo al quadrupede. Per l’allestimento del secondo studio: nessun intervento musicale, una danza silenziosa interrotta da un forte effetto sonore, un tuono. 9 Come leggiamo nel diario inedito di Picchi per il corso di Istituzioni di regia 2005/06, il precedente di Giorgio Orsolano, il Biagio Carnico dell’omonimo dramma di Forti, «appartiene in pratica a un secondo intreccio della storia che riguarda la coppia “perseguitata” di Vittorina e Giorgio Delfin, il reduce che torna dalla moglie dopo essere stato dato per morto in battaglia. Ma forse è addirittura un terzo intreccio se consideriamo in opposizione primaria due coppie, quella appunto Vittorina-Giorgio (la coppia virtuosa, di vittime impotenti, con un bambino piccolo, incapaci di difendersi) e quella di Felicita e dello zio ricco di Vittorina (un personaggio che non compare mai), che sono amanti; un rapporto da cui Felicita intende ottenere un futuro molto agiato per il proprio figlio Tonin, avuto da uno sconosciuto (obiettivo che le impone di eliminare Vittorina, unica vera erede del proprio amante). Rispetto a questa opposizione, la coppia di Biagio e Silvestra si manifesta come la coppia scellerata, di non-sposi e sterile, che vive vendendo carne umana, carne di bambini cucinata in guazzetto. E così saranno proprio i figli di Vittorina e di Felicita le loro vittime. È dunque in questa faccenda di coppie che va considerata la strage dei bambini (nel Biagio Carnico Silvestra ruba quello di Vittorina addirittura dalla ruota degli esposti). Quelle che siano le motivazioni drammaturgiche che se ne vogliono trarre, è un fatto che l’episodio storico è da Forti finalizzato al trattamento drammatico della storia di due famiglie. Da cui la costruzione per coppie precostituite in opposizione. Ma a Niemen questo aspetto (o ricavo di esemplarità) evidentemente non interessava; e così si tratta ora di coppie in formazione (quella di Gianduia, quella del Capitano), e sono appunto le belle ragazze (in particolare: le fidanzate) a essere rubate e uccise; i bambini non servirebbero a nulla. (…). Nel passaggio dal Biagio Carnico a La Iena di San Giorgio questa è una modificazione non lieve. Naturalmente ciò comporta una questione di ridefinizione di avversari: se nel Forti i bambini sono le discendenze per cui si combatte (tanto per Vittorina che per Felicita), in Niemen a essere rapite e insalsicciate sono le fidanzate dei guerrieri (Gianduia e il Capitano); il che comunque significa che i nodi del racconto sono stretti col fatto che si rubano e si ammazzano le persone che i protagonisti amano; e dunque che il macellaio si manifesti come carnefice di stretti affetti familiari. Ma anche che è inevitabile che si attivino come specifici avversari dell’assassino coloro che hanno avuto vittime in casa; come in un’attivazione di giustizia privata; ed è una linea che resta comune nei due testi – nel Forti, dove il principale cacciatore di Biagio non è il marito di Vittorina, e neppure Pietro Diedo, il giudice criminale che vorrebbe sposarla credendola vedova, ma un suo cugino, Beppo Fumo, un uomo insofferente alle autorità e compagno della gentaglia dei traghetti; e nel


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Niemen, dove le autorità si dimostrano incapaci di risolvere il mistero e nel finale Gianduia bastona il Sindaco». 10 Gustave Moreau, Salomè e la testa di S. Giovanni Battista, detto anche L’apparizione, 1875, Parigi, Museo D’Orsay; o anche dello stesso autore, Salome danza davanti ad Erode, o Salome tatuata entrambi del 1876. 11 Da Stephane Mallarmè, Les noces de Herodiade. Mystere. Opera incompiuta. 12 Nel poema epico del Mahabharata, Kurukshetra (lett. campo dei Kuru) è la piana ove fu combattuta la guerra tra due rami della dinastia dei Kuru. Il Principe Arjuna (il suo nome significa “il puro”), figlio di Indra (il deva della guerra) e protetto da Krishna e Śiva, combatteva insieme ai suoi quattro fratelli, i Pandava; Arjuna era insuperabile nell’utilizzo delle armi, dell’arco in particolare, ed è spesso raffigurato adorno di perle. 13 La sirène repue (la sirena sazia), dipinto del 1905 del pittore simbolista francese Gustave Adolphe Mossa. Nizza, Museo delle Belle Arti. 14 Per l’allestimento del primo e secondo studio: Dmitri Shostakovich, Jazz Suite n°1, Valzer, nella versione diretta da Riccardo Chailly con la Royal Concertgebouw Orchestra. 15 Vedi nota 9. 16 Simon Mago, samaritano del primo secolo, viene considerato dagli eresiologi cristiani il primo eretico e proto-gnostico. Esperto di magie, è citato anche in Atti degli apostoli 8, 9-10. Il termine “Simonia”, ovvero tentativo di commercio delle cose sacre, deriva dal tentativo di Simone di acquistare dall’apostolo Pietro il potere di amministrare lo Spirito Santo attraverso l’imposizione delle mani. Della vita di Simon Mago sono riportati, senza i crismi dell’ufficialità, altri episodi in testi apocrifi quali gli Atti di Pietro o i testi teologici scritti dallo Pseudo Clemente d’Alessandria. Secondo questi documenti, Simone risiedette a Roma durante il regno degli imperatori Claudio e Nerone, acquisendo grande fama. Si dice che morì sfidato da Pietro e da Paolo di Tarso, cadendo nel tentativo di dimostrare la sua capacità di levitazione. 17 Irene Lentini, una delle studentesse coinvolte nel laboratorio per La iena, e interprete del ruolo della Maestra Bianca. 18 Per l’allestimento del primo e secondo studio: Calamus, Medieval Women’s songs, "Mchalia - la fuerza que tengo" 19 Le Empuse sono ancelle o figlie di Ecate, dea degli spettri e degli incantesimi, divinità psicopompa la cui triplice raffigurazione (giovane, adulta, vecchia) è spesso posta presso gli incroci, a protezione dei viandanti. Un’Empusa invece provoca spesso terrore nei viaggiatori, e li divora; può assumere qualsiasi forma ma, per attirare le sue vittime, si presenta come fanciulla debole e seducente. Alla sua morte l’Empusa si muta in fuoco. 20 Per l’allestimento del primo e secondo studio: Giuseppe Verdi, Traviata, atto IV, “Addio del passato”, a partire dal recitativo «Teneste la promessa». Il brano, che parte qui, arriva a coprire l’intera parte 7. 21 Viktor Šklovskij, Marco Polo, Il Saggiatore, Milano 1971, p. 258. 22 Marie-Josè Mondzain, Immagine Icona Economia. Le origini bizantine dell’immaginario contemporaneo, Jaca Book, Milano 2006, p. 64. 23 Da questo momento in avanti l’adattamento non è dunque stato messo alla prova del suo funzionamento in laboratorio, e sono assenti le indicazioni musicali. 24 Michail Bulgakov, Il maestro e Margherita, cap. XXXII “Il perdono e l’eterno rifugio”. 25 Vangelo di Nicodemo, testo greco, V, 1-3. 26 Partita come manifestazione pacifica di studenti nell’ottobre del 1956, la Rivoluzione ungherese fu una sollevazione armata del popolo, di spirito antisovietico, nell’allora Ungheria socialista. In circa tre settimane di scontri morirono più di 2600 civili e 700 soldati sovietici. 250.000 furono gli ungheresi che migrarono. La rivoluzione indebolì radicalmente il sostegno alle idee comuniste nelle nazioni occidentali. 27 Endor è una località situata a sud-est del monte Tabor, a pochi chilometri da Nazaret, sul territorio di Isscar, secondo la suddivisione della Terra Promessa; compare nel Vecchio Testamento in Samuele 1, 28, 912 «8 Saul si camuffò, si travestì e partì con due uomini. Arrivò da quella donna di notte. Disse: “Pratica la divinazione per me con uno spirito. Evocami colui che io ti dirò”. 9 La donna gli rispose: “Tu sai bene quello che ha fatto Saul: ha eliminato dal paese i negromanti e gli indovini e tu perché tendi un tranello alla


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mia vita per uccidermi?”. 10 Saul le giurò per il Signore: “Per la vita del Signore, non avrai alcuna colpa per questa faccenda”. 11 Essa disse: “Chi devo evocarti?”. Rispose: “Evocami Samuele”. 12 La donna vide Samuele e proruppe in un forte grido e disse quella donna a Saul: “Perché mi hai ingannata? Tu sei Saul!”». André Marie Gerard, Dizionario della Bibbia, BUR, Milano 2002, alla voce Endor a p. 237 scrive: «A Endor il re Saul, in difficoltà davanti all’aggressione prossima dell’esercito filisteo, consultò la “Pitonessa” alla quale chiese di evocare lo spirito di Samuele, morto da poco, dall’oltretomba: il profeta gli annunciò la prossima sconfitta». 28 Estraiamo da “Un punto d’incontro di più filoni leggendari”, nota introduttiva di Cesare Bermani all’edizione 2005 della Iena, alcune importanti informazioni sulle fonti di cronaca alla base dei molti racconti che ruotano attorno a figure di assassini seriali. La Iena di San Giorgio si lega anzitutto al filone popolare dei bestiari e dell’apparizione di animali esotici, a partire dalla “Bestia di Gévaudan” (1764/67) identificata a volte come iena o lupo, pantera o leone e apparsa nelle province del centro della Francia. In Italia la iena, considerata animale feroce e sinonimo di persona crudele e vile, permette la lettura ambivalente: di animale feroce e di uomo criminale. L’altro filone popolare è quello dei macellai, osti e salumieri, confezionatori di pietanze speciali a base di carne umana; una leggenda che si rianima spesso in periodo di guerra, di angoscia collettiva. Ampio è poi il repertorio di filastrocche e canzoni in cui si parla di dita riesumate dentro la carne, a partire dalla storia cinquecentesca del luganegher (salumiere) veneziano Biagio, originario della Carnia e noto per il suo guazzetto, avanzi di macellazione in brodo; e proprio in quel brodo un barcaiolo troverà una falange, un ditino con ancora un pezzo d’unghia, e quando gli sbirri perquisiranno la bottega di Biagio troveranno i resti dei tanti bambini da tempo scomparsi in città. Ma si tratta di una variante popolare della fiaba dell’orco, e nulla più: nessun documento, nei registri della corte d’assise di Venezia o nei diari di Marino Sanudo, riferisce di questi misfatti. Ma la leggenda si consolida in fretta e in diverse compilazioni private chiamate registri dei giustiziati, l’esecuzione di Biagio appare, datata 1503; e allo stesso modo si racconta di altri macellai assassini traditi da un dito: a Lille, in Francia, nel 1893; a new York nel 1989. Così La iena di San Giorgio è, prima che teatro – con Niemen o Ceronetti –, fatto di cronaca: «un assassino impiccato a Ivrea nel castello, dove fu anche sepolto, nel 1835 o 36, ma è tardiva l’associazione alle salsicce antropofagiche di un macellaio, a quanto pare, viennese» (in Guido Ceronetti, La Iena di San Giorgio. Tragedia per marionette, Einaudi, Torino 1994, p. VI.). E nella provincia torinese dove Gualberto Niemen crebbe e vide La Iena nella versione del burattinaio Giacomo Canardi, si vociferava, in tempo di guerra, dei tanti bambini coi padri al fronte, prelevati davanti alle scuole e poi uccisi per farne salami. 29 Gualberto Niemen, Autobiografia di un burattinaio, Quaderni dell’Associazione Peppino Sarina, Tortona 2000, pp. 95-96 30 Ib., p. 65 e p. 97. 31 Ib., p. 51. 32 Ib., pp. 105-106. 33 Carlo Ginzburg, Il filo e le tracce, Feltrinelli, Milano, 2006, p. 283. 34 Niemen, cit., p. 105. 35 Lettera a Porta del 20.4.1998, in ib. nota a p. 58. 36 Lettera a Porta del 13.6.1998, in ib. 37 Gersom Scholem, Walter Benjamin e il suo angelo, Adelphi, Milano 1978. Il testo analizza il breve racconto di Benjamin Angelaus Santander (1933), in cui l’autore immagina di avere un suo nome segreto , mai utilizzato, e di svelarlo per la prima volta. L’intera opera del filosofo è protetta da un “mito dell’angelo”, dall’ala di un’immagine: un acquarello di Klee intitolato Angelus Novus, che, nella sua tesi di Filosofia della storia, Benjamin utilizza come emblema della storia stessa. 38 Niemen, cit., p. 101. 39 Ib. p. 52. 40 Ernst Jentsch fu il primo, nel 1906, a introdurre in psicologia il concetto di perturbante, legato agli incerti confini tra l’animato e l’inanimato. Gli studi di Jentsch saranno poi ripresi da Freud nel 1919 e sviluppati nella teoria dell’ unheimlich.


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41 Figura della mitologia ebraica, il Golem è “materia informe” plasmata da un mago in sembianza umana, di gigante d’argilla, da usarsi come servitore o difensore. La leggenda narra del rabbino Jehuda Low ben Bezalel di Praga che dava vita ai Golem scrivendo sulla loro fronte la parola verità – in ebraico !"# (emet). Per disfarsi del Golem era necessario eliminare la prima lettera, trasformando la parola in "morte" – in ebraico !" (met) –; ma un giorno il rabbino perse il controllo di un gigante, che cominciò a distruggere tutto ciò che incontrava sul suo cammino. Nei primi del novecento questa leggenda ispirò lo scrittore Gustav Meyrink, che pubblicò Der Golem nel 1915, subito trasposto in versione cinematografica dal regista Paul Wegener, che realizzò così uno dei classici dell’espressionismo tedesco. 42 Cfr. Bambole, a cura di Leone Traverso, Passigli, Firenze 1992, contenente i saggi “Bambole” di Rilke, “La morale del giocattolo” di Baudelaire, “Sul teatro di marionette” di Kleist. 43 Cfr. Eugenio Barba, Alla ricerca del teatro perduto, Marsilio, Padova 1965, in cui l’autore narra del suo periodo di apprendistato presso il Teatr 13 Rzedow di Jerzy Grotowski, a Opole, in Polonia. 44 «Si intende per polemica teatrale una tecnica mirante a sovvertire il valore di un’azione fisica o vocale mediante l’introduzione di elementi espressivi che contraddicano tale azione. È soprattutto in rapporto al testo che tale tecnica consegue la sua funzione di choc», ib. p. 63. Ma la “polemica teatrale” agisce anche sui soggetti drammatici, sovvertendo l’approccio ai racconti archetipali, a quelle idee-guida su cui la cultura costruisce la propria identità. 45 Apparso sul “Southern Literary Messenger” nell’aprile del 1836, l’articolo di Edgar Allan Il giocatore di scacchi di Maelzel è stato pubblicato, in una edizione a se stante, da Mursia (Milano) nel 2012. Narra dell’automa che dal 1770 al 1854 catalizzò l’attenzione su di sé sfidando gli esseri umani, e spesso vincendo, al gioco degli scacchi. 46 Vedi nota 27. 47 Cfr. in Arnaldo Picchi, Glossario di regia teatrale, l’articolo introduttivo “Il lascito dei padri e qualche ipotesi di dilapidazione”, dove l’incanto e l’orrore di questa Cena di Emmaus di Rembrandt vengono analizzati nel dettaglio. 48 Luigi Pirandello, I giganti della montagna (1933). Nella villa detta della Scalogna il mago Cotrone si è ritirato e ha raccolto tutte le sue magie, che prendono vita, insieme ai sogni, ogni notte nella sala detta Arsenale delle Apparizioni.


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