MAG'ZINE ISSUE #9

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MAG'ZINE


Sep 2016 ISSUE #9


Cover Photo: Vincenzo Montefinese

Founders Gaetano Fisicaro Claudio Menna Editor in Chief, Design Gaetano Fisicaro gaetano.fisicaro@yahoo.it Editorial Staff Gaetano Fisicaro Claudio Menna Orazio di Mauro Duration Quaterly

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Timeline Photo: Simone D’Angelo

CONTENTS

Thinking About a cura di Davide Palmisano

Photographers Vincenzo Montefinese Italy

Simone D’Angelo Italy


THINKING About Un Fiume di Immagini di

Davide Palmisano

Ogni giorno miliardi di fotografie vengono scattate e condivise sui social più popolari come Facebook, Twitter, Instagram; un dato recentemente pubblicato rivela che solo nel 2014, si sono scattate, da cellulare, 880 miliardi di fotografie; stime non ufficiali valutano in circa 2 miliardi il numero di immagini prodotte ogni giorno; in pratica, ogni due minuti vengono fatte più foto di quante l’umanità ne abbia prodotte in tutto il secolo ‘800. Prendendo atto di questi dati possiamo considerare la fotografia quest’oggi svalutata oppure rafforzata? Dal fatto che quest’arte sia oggi accessibile ai più, è possibile trarre dei vantaggi o ciò comporta dei sacrifici o addirittura una perdita? Quali sono i rischi di questa rivoluzione? Ma specialmente, quali -ve ne fossero- le opportunità?

L’argomento è attuale ma non propriamente recente, nell’ultimo decennio però, di fronte al dilagare della “fotografia di massa”, si è

sempre posto l’accento sulla porzione negativa della serie di domande precedenti, per evidenziare le minacce che la Fotografia, quella epica e tradizionalmente d’elite, si trovava a fronteggiare; per sè, ma parimenti per i suoi interpreti storici, tutti ben serrati e combattivi, ben lungi da vedere messo in discussione da chicchessia il proprio ruolo di primari di quest’arte, ma men che meno che dalle nuove schiere di “bimbiminkia” armati di smartphone! Sulla base di queste riflessioni Erik Kessels, pubblicitario, gallerista, editore, collezionista e artista olandese, ha ideato la celebre mostra-installazione “24 hrs in photos”. Dentro una delle stanze del museo Foam di Amsterdam Kessels ha letteralmente rovesciato tutte le fotografie caricate sul sito “Flickr” in 24 ore, stampate in formato 10x15 e scaricate a terra, di modo che ci si potesse camminare sopra, guardarle, nuotarci come zio Paperone nel suo deposito. Era il dicembre del 2011 e quelle foto stampate erano più di un milione.


Ma la visione “fisica” di uno spazio che siamo altrimenti abituati a misurare in megabyte era in effetti uno scenario sorprendente per i visitatori: una montagna di fotografie alta fino al soffitto della sala. Quella geniale intuizione rese tangibile ciò di cui normalmente possiamo avere solo un’idea vaga e astratta: l’incessante proliferazione delle immagini, che in quella geniale installazione si ripresentavano in tutta la loro minacciosa presenza. Il passo successivo per comprendere a fondo la portata del fenomeno, e ricondurlo propriamente alla sua più corretta definizione di “rivoluzione”, doveva passare da una ulteriore e profonda ammissione: che l’enorme flusso di immagini prodotte è in realtà quotidiano ed ininterrotto. Con tutto quel che ne consegue, in un ragionamento che non può -e non deve- non proiettarsi nel tempo (giacché la Fotografia, in tutte le epoche, quello e null’altro è: spazio + tempo); e come ha osservato accuratamente Michele Smargiassi, la proiezione nel tempo corrisponde ad un problema di occupazione progressiva degli spazi, laddove “l’evidente esaurimento dello spazio fisico necessario a contenere tutte queste immagini rende manifesto il più grave problema dell’esaurimento dello spazio mentale in grado di registrarle”. La funzione primaria della fotografia, <trattenere ciò che inevitabilmente sfugge> piuttosto che <salvare un momento dall’inesorabile azione dissolvente del tempo>, viene meno dal momento che la nostra memoria è sepolta da cumuli d’immagini che non abbiamo neanche più il tempo di guardare. E questo accade perché il momento della registrazione (o della successiva condivisione, in un contesto più social) delle esperienze vissute sta diventando via via più importante delle esperienze stesse. Tutti i tempi si sono annullati. Tutto è immediato, e il processo è talmente semplice che il risultato non può non essere un eccesso di immagini. E noi restiamo sepolti, consapevolmente o no, sotto la valanga di fotografie di “24 Hours in Photos”. Come uscirne? Come salvarsi, e pertanto, salvare così anche la Fotografia? Rispondendo alla sua stessa opera lo stesso Kessels ha tentato di sfidare la sua valanga di immagini affrontando l’arduo compito di selezionare da essa alcune fotografie: ma quali? E specialmente “come”, viene da chiederci? La risposta che Kessel ha trovato, almeno per sè, è stato di avviare una ricerca e raccolta di fotografie “usate”, realizzare una collezione personale di photo-trouvè prese nei mercatini delle pulci e su internet, da riproporre poi in mostre e pubblicazioni spesso dall’approccio ironico e provocatorio. Ancora oggi lui cerca fotografie anonime, spesso prodotte in ambito familiare e colme di errori, ed a monte di questa scelta di ricercare volontariamente il banale o l’imperfetto, c’è l’intenzione di voler reagire alla perfezione tipica delle immagini pubblicitarie (di cui egli si occupa quotidianamente essendo direttore creativo di un’agenzia di comunicazione), ma anche di moltissime fotografie che ogni giorno vengono condivise in rete; nelle quali, comunque, Kessels identifica ugualmente uno strumento di propaganda e promozione, in questo caso personale. Si tratta ovviamente di un criterio di selezione del tutto soggettivo, dettato nel caso di Kessels certamente dalla propria esperienza personale, ma è altresì utile notare che alla sua base sta la voglia e la passione per la ricerca, anzi il tentativo della riscoperta; in questo caso, di una fotografa che meriti d’essere custodita gelosamente, piuttosto che da condividere, con la consapevolezza e l’adesione ad un patto, secondo cui -al contrario- sappiamo che sarà subito dimenticata.


Ma in tutti i casi l’azione di selezione delle immagini, al di la del metodo o del criterio adottato, questo o un altro differente, darà dei frutti, perché sta nelle cose, nelle leggi statistiche e nella natura che qualcosa di buono si possa ancora sempre nascondere anche dove meno ci si può attendere, cioè anche in mezzo al flusso. Così come ottimisticamente il fotografo Stefano De Luigi si esprime in proposito affermando: “Vengono prodotte talmente tante foto in più rispetto al passato che, anche solo per una questione statistica, credo che ci sarà più gente che è incuriosita dalla fotografia rispetto a dieci anni fa, e di conseguenza, più gente che sceglierà di conoscere questo linguaggio in maniera strutturata. La verità è che in questo momento siamo sulla cresta di un’onda, difficile dire se continueremo a surfare o se la tavola si ribalterà”. E questo dovrebbe incoraggiarci alla ricerca, e stimolarci verso la scoperta di nuovi margini, o tentare di valicare e spostare più in là quelli noti, cioè sperimentare, intraprendere e tentare di percorrere strade diverse dalle solite già conosciute e dai più battute. C’è del buono quindi, ma sta nel mare. E nemmeno sul fondo, bensì sospeso tra mille molecole contaminate, in balia dei flutti. Anzi no, peggio. Si tratta di un fiume, perché è un flusso, ed è costante e continuo: un fiume che nel suo scorrere impetuoso porta di tutto con sè, trascina foglie morte e rami secchi che galleggiano pericolosamente, e scorie chimiche delle industrie che costeggia e particelle di inerti di ogni genere in sospensione, molecole organiche ed altre sintetizzate ad hoc in laboratorio... mentre a noi, che siamo “pescatori di fotografie” ..interessano soltanto i pesci! Non è semplice nemmeno restare in piedi ben saldi per non esser travolti dalla furia delle acque, eppure, a pensarci bene, quel che ci serve è solo una rete, ma che sia quella giusta, della forma adatta e dalle corrette dimensioni della maglia. E poi solo tanta pazienza e buona volontà, che sono le doti proverbiali di ogni buon pescatore; di pesci, di anime ma pure di immagini: disinteressandoci di quante (tante) foto tra quella prodotte siano oggettivamente “povere di spirito”, ma contando invece sul fatto certo di sapere che quelle che vogliamo vedere, quelle “giuste e buone”, stanno sicuramente li in mezzo ai flutti, insieme con le altre. Quindi serve solo essere attenti, e selettivi, scegliendo il giusto “vaglio”, ma specialmente tenendo sempre alta la soglia, senza essere indulgenti nè scendere a compromessi. Che non è semplice, anzi. Perché non si tratta solo di un’azione individuale, considerando quanto forti e quali siano oggi le azioni cui siamo soggetti dall’esterno.

C’è il mercato globale prima di tutto, perciò i produttori da una parte (di prodotti tecnologici, non solo di immagini fotografiche), ed i consumatori dall’altra (che “trasmettono” immagini, perché le producono sui device comperati dai primi, ma anche le ricevono a loro volta, prima di rimbalzarle di nuovo semplicemente condividendole sui social!); e poi ci sono le azioni endogene, non meno perverse, anzi più subdole: l’ego, l’orgoglio personale, il bisogno di riconoscimento, la presenza, lo status.. il tutto incapsulato nel ventaglio delle relazioni che sempre più assume lo schema della community. A partire dal 2011 il settore della vendita delle fotocamere ha conosciuto una crisi senza precedenti, eppure pur dimezzandosi da un anno all’altro il numero di fotocamere commercializzate, si è assistito, negli stessi anni, alla crescita esponenziale del numero di fotografie scattate. Un momento ritenuto pietra miliare del processo di “mobilitazione” dell’immagine è stato la presentazione di iPhone nel 2007, che ha rappresentato un modello di business rivoluzionario e che ha cambiato radicalmente il modo di fare comunicazione. Gli smartphone hanno trasformato quella che ci circonda nella “società dell’immagine”, dove spesso comunichiamo senza utilizzare nemmeno una parola, ma facendo parlare semplicemente una foto, un’animazione, un breve filmato. Questo ha aperto nuovi spazi di business nel campo


della memorizzazione (vista l’impennata del numero di fotografie scattate e della risoluzione), come in quello delle tecnologie di condivisione. In aggiunta, sul versante dei consumatori, si è registrato l’avvento di una generazione di smartphone-users sempre più giovani, per lo più nella fascia dei 14-25 anni, dei quali pochissimi hanno mai preso in mano un apparecchio fotografico che non fosse il telefonino stesso. In questa sede, non facciamo accenno ai meccanismi di funzionamento dei social-media ed alle relazioni interne alla cd. “comunità dei fotografi” per semplicità ma anche perché diamo per scontato che chi legge questo pezzo ne conosca per lo meno le dinamiche, almeno marginalmente, se non ne è al contrario parte attiva. In sintesi, a partire dagli elementi qui rappresentati, lo scenario attuale è il seguente: ovunque ci sarà un’immagine, là ci sarà la fotografia; e con buona pace dei tanti “vecchi” della fotografia internazionale, tutti logicamente intenti a lanciare anatemi contro la rivoluzione digitale, arroccati in una compresibilissima posizione di censura autoconservativa e conservativista, impegnati nel difendere un quadro di vantaggi e diritti personali acquisiti dopo una vita trascorsa in camera oscura, adesso visibilmente minacciato. Ma chissà, costoro che hanno vissuto l’era in cui al fotografo era attribuito lo status di personaggio “romantico”, cosa pensano dei vips e celebrity che usano abitualmente Instagram come vetrina di promozione personale e non solo, ma comunque a scopo esclusivamente economico curandosi di pubblicizzare creme dimagranti prima che di intrattenere un contatto diretto con i propri followers, fans ma specialmente consumatori! Tornando al nostro processo di selezione, si capisce quindi che le difficoltà maggiori non sono soltanto quelle legate alla “confusione” generale, cioè alla moltitudine delle voci del coro, ma anche (saltando di palo in frasca tra le due solite variabili, spazio e tempo!) alla inevitabile coesistenza di nuovo e vecchio, trovandoci di fronte a spinte rivoluzionarie contrapposte a moti conservatori, proclami innovativi che si scontrano con eversioni reazionarie: interessi spazi e nuove opportunità che faticano a prendere forma propria e consolidarsi, perché lo spazio è ancora occupato da strutture vecchie e instabili se non già in crisi, eppure ancora in funzione: una su tutte il sistema della “già vecchia” editoria a stampa. Si pensi, per esempio, ai significati che ha acquisito, in chiave estensiva e generale, il termine pubblicazione: ma che significa oggi pubblicare? Senza entrare nel merito del valore che la parola ha ancora oggi, rispetto ad un tempo, nè volendoci addentrare nel “sottobosco” del settore, quel famigerato e fantastico mondo senza regole se non quell’allegra anarchia propria della più fervida creatività, universalmente denominato come “selfpublishing”, ci chiediamo, invece, in termini semantici e di definizione generale: cosa oggi è pubblico e cosa no, o non ancora? Caricare le proprie foto su un social, o sul proprio blog o sito personale, piuttosto che vederle inserite in uno dei milioni di magazine oggi presenti su una qualsiasi piattaforma gratuita online (issuu.com la più nota), equivale a “pubblicazione” o no? A meno dei compensi eventuali, equivale a vederle “pubblicate” su una rivista cartacea, tenendo presente che ormai ogni testata possiede oggigiorno un proprio canale online, quasi mai corrispondente al cartaceo con evidenti differenze di contenuti per la differente disponibilità di “spazio” ? Il grande Koudelka affermò una volta: “Non mi è mai sembrato importante che le mie foto fossero pubblicate. È importante che io le abbia fatte”. Ma considerando il numero, il livello e la portata delle sue personali “pubblicazioni” è più probabile che il grande fotografo, con questa frase ma più ancora con il suo esempio, non volesse intendere di consigliarci di tenere le nostre fotografie chiuse in un cassetto, semmai di capire appunto in termini individuali il significato e l’importanza della parola “pubblicazione”; e perciò, vivendo ciascuno di noi il proprio tempo, anche di capire la disponibilità di spazi, liberi e adatti a riceverci con le nostre immagini.


Quella di Koudelka è una visione molto (giustamente) “personale” della fotografia, e che correttamente ci riporta all’unità: perché la fotografia <è> un fatto personale! E se, purtroppo, la dicotomia tra immagine personale e “prodotto finito a stampa” (la pubblicazione, nell’accezione del termine a cui siamo abituati..), oggi è sempre più profonda, a mio parere il problema è da imputare all’altra sponda del processo, cioè a chi ritiene ogni responsabilità riguardo alle scelte di pubblicazione. Laddove, sempre più spesso, si assiste alla scelta a “rischio zero” (basta pensare a quella, sempre vincente, che guarda alla retorica dei buoni sentimenti: e via a pubblicare storie di nonni, di bambini, di malati e pietismi d’ogni tipo, argomenti peraltro reperibilissimi nell’offerta degli autori!), tra chi deve compiere le scelte che contano si nota assai spesso come tanti disattendano puntualmente alle proprie responsabilità, anche quelle “morali”; sottraendosi in maniera inaccettabile alla garanzia del sacro “patto con il lettore” onde privilegiare logiche commerciali impazzite, quando non propriamente clientelari. Arrivati fin qui lo scenario parrebbe dirsi apocalittico, con la resa incondizionata agli eventi come unica soluzione rimasta: ma soltanto sapere che in mezzo a quel fiume in piena c’è proprio quella immagine che magari rincorriamo ogni giorno da una vita intera, dovrebbe bastare a non farci desistere; e poi, quel che infine ci dovrebbe spingere all’azione ancora con più forza, è che l’alternativa in fondo non c’è: perché rinunciare significa lasciarsi travolgere. Non abbiamo altra possibilità dunque che costruirci la nostra personale rete da pesca ed iniziare a scegliere tra tutte quelle migliaia di foto, guardandole una per una, armati solo della nostra integrità. Per iniziare proviamo a non guardare al “cosa” per costruire la rete: lasciamoci liberi di scegliere quel che più ci aggrada, un servizio di matrimonio vale quanto una serie di immagini di street, lasciamo aperta ogni porta per permetterci ogni via di fuga, e piuttosto seguiamo il nostro naso e la nostra curiosità, che -insieme alla fantasia- è quella in fondo il motore dell’atto creativo.

Nè facciamoci menare per il naso fermandoci al “come”, perché nell’epoca digitale le strade e le possibilità sono talmente infinite da includere quelle dell’illusione, se non quelle della manipolazione laddove, sempre più spesso, è il linguaggio ad attirare lo sguardo prendendosi gioco dell’occhio di chi guarda e del suo livello culturale! (teniamo presente che su questi presupposti muove oggigiorno tutto un filone di fotografia contemporanea, ad alta connotazione social e come tale fortemente orientata alla ricerca del consenso facile e immediato: e non parliamo solo delle classiche foto-Wow ma anche di lavori progettuali più articolati, spesso pregni di autoindulgenza se non addirittura autocitazionistici, basati su una fotografia che tende più al risparmio che all’investimento, perché l’autore in essa non si prende rischi, e rifuggendo alla sperimentazione guarda solo all’immediato tornaconto, ad una forma di riconoscimento tout-court oltretutto incurante del flusso che però, per fortuna e per legge naturale, renderà presto quelle immagini già trascorse e non ne lascerà tracce..) Ciò detto, per la creazione del vaglio di selezione non resta altro che appellarci al “perché”: a partire dalla motivazione, cioè l’intention che muove l’immagine, e passando anche oltre, per tentare di comprendere dove quell’immagine punta, e a chi specialmente. E’ stata realizzata facilmente o c’è dietro uno sforzo? E’ nuova oppure ci ricorda qualcosa di già visto? È semplicemente riconducibile ad una tal corrente fotografica, magari livellata al basso per risultare più accattivante, oppure è così piena di contaminazioni da non essere immediatamente collocabile in nessuna categoria? Ci compiace o ci affascina? Ci sta turbando o ci sentiamo adulati? Ci entriamo dentro o sembra al contrario cacciarci via? Ci tira o ci spinge? Ci risponde o ci domanda? Mette alla prova la nostra cultura fotografica o con il suo stile ruffiano e quei topoi ricorrenti ci chiede di essere lo Yes-Man di chi l’ha prodotta e ce la sta proponendo invece come la verità?


Si diceva a proposito di Kessels e dei suoi criteri di selezione che le sue scelte, molto probabilmente, non sarebbero state le stesse nostre, perché la fotografia è un fatto personale ed anche ogni scelta ad essa relativa non può che essere a sua volta tale, ma ragionando sui “perché” delle (e nelle) immagini, e sul punto interrogativo che sempre segue questo magico avverbio, in fondo siamo giunti alle sue stesse conclusioni, cioè a possedere uno strumento potente quanto il suo, pur con le differenze esperienziali e, logicamente, anche culturali: eppure il processo è lo stesso, perché così si costruisce la visione personale, e si impara lentamente ad uscire dalla zona di confort, così una domanda dopo l’altra si forma il pensiero critico, spostando i punti interrogativi sempre più in là, e la soglia sempre più alto.

© Foto di Davide Palmisano



Vincenzo Montefinese Italy

www.vincenzomontefinese.com

Vincenzo Montefinese nasce a Taranto, dove vive e lavora. Dopo aver frequentato la facoltà di Scienze Motorie si traferisce a Londra per un breve periodo. Il desiderio di conoscere il mondo, lo porta a viaggiare spesso nei paesi del Medio Oriente. Durante i viaggi si appassiona alla fotografia documentaria. Frequenta l’Istituto Superiore di Fotografia e Comunicazione Integrata di Roma (ISFCI), specializzandosi in fotogiornalismo. I suoi progetti ricevono diversi riconoscimenti e premi come, nel 2016, il secondo premio agli awards de “The British Journal of Photography” e il primo classificato nella categoria General News al “Prix de la Photographie de Paris”.



Cosa rappresenta per Vincenzo la fotografia? La fotografia è il mezzo col quale riesco a esprimere meglio i miei pensieri sul mondo che mi circonda. Attraverso le immagini non cerco di dare delle risposte, non mi compete e non sarei in grado di farlo; piuttosto, spero di innescare curiosità e domande nell’osservatore. Il linguaggio fotografico è adatto al mio carattere, poiché non amo parlare e scrivere, preferisco osservare, ascoltare e soprattutto appassionarmi alle storie che mi incuriosiscono. Ultimamente ti stai occupando della questione migranti, lavoro che tra l’altro ti ha portato qualche riconoscimento personale. Cosa ti ha spinto a dedicarti a questa tematica e soprattutto grande emergenza umanitaria? Negli ultimi anni ho viaggiato spesso nei paesi del Medio Oriente, ho avuto la fortuna di conoscere la Siria, l’anno prima che scoppiasse la guerra. Affascinato dalla cultura e dall’accoglienza dei siriani durante il mio viaggio, ho sentito l’esigenza di occuparmi delle popolazioni che scappano dalle guerre, dittature feroci e povertà. Mi interessava raccontare l’incapacità o non volontà dell’Europa di gestire i flussi migratori e l’accoglienza dei migranti in fuga. Invece con Bitter Lucania ci porti nelle terre della Basilicata a scoprire una delle problematiche ambientali che affliggono la nostra Italia. Com’è nato questo progetto? Hai trovato difficoltà nel portarlo avanti, soprattutto come risposta nella popolazione locale? La Basilicata è una regione meravigliosa ma allo stesso tempo è poco esplorata e popolata. Nonostante avessi le mie radici paterne in Lucania, non sapevo molto della situazione ambientale critica della regione. Mi sono incuriosito e ho iniziato a indagare per diverso tempo. Più approfondivo l’argomento, più mi rendevo conto di come i vari tentativi di industrializzazione e re-industrializzazione avessero lasciato sul territorio gravi impatti in termini sociali, economici ed ambientali, mutando la storia di questa terra. Durante i mesi in cui ho lavorato al reportage, ho trascorso molto tempo con chi ha subito le conseguenze dell’inquinamento. L’ho fatto con grande rispetto verso le persone che mi hanno permesso di entrare nelle loro vite. Credo che sia un grande privilegio per chi si occupa di fotografia documentaria, avere la possibilità di entrare in contatto con persone che accolgono, si raccontano e concedono di farsi fotografare.


Progetti per il futuro? Sto continuando a seguire le problematiche dell’immigrazione ma guardando ad altri aspetti, come lo sfruttamento del lavoro nei campi nell’Italia meridionale. Come vedi la fotografia oggi e il suo futuro? Oggi per la fotografia, e in particolare per il fotogiornalismo, è un momento di grande difficoltà, soprattutto in Italia, per via della grave crisi dell’editoria. Credo tuttavia che la fotografia non possa scomparire, perché il mondo avrà sempre bisogno di storie raccontate per immagini




Simone D’Angelo Italy

www.simonedangelo.it

Simone D’Angelo è nato ad Anagni nel 1978. Vive e lavora a Roma. Studia all’Istituto Europeo di Design. Fotografa con coscienza dal 2008, dopo un viaggio nel sud est asiatico. Tra il 2014 e il 2015 segue un corso specialistico in fotografia documentaria con Massimo Mastrorillo in collaborazione con l’associazione 001 di Roma e la Luz Academy. Qui sviluppa l’idea di I Must Have Been Blind, premiato nel 2015 come miglior progetto del Leica Talent ed esposto, nello stesso anno, al festival Fotoleggendo di Roma.



Cosa rappresenta per Simone la fotografia? Solo uno strumento. Il migliore che ho trovato per esprimermi e per accorciare le distanze con gli altri e con ciò che mi circonda. Per molto tempo è stata soprattutto un mezzo per evadere dall’ordinario, oggi anche per interpretarlo. Come scegli un progetto a cui dedicarti e perché? Ragiono in termini progettuali da poco tempo, ma di base c’è sempre una curiosità personale, dopodiché subentrano le solite discriminanti: tempo, ispirazione, opportunità.. Parlaci di Visions of Mexico, come è nato e cosa rappresenta per te Visions of Mexico è ciò che ho riportato a casa da un workshop con Ernesto Bazan a Oaxaca, in occasione della tradizionale Festa dei Morti. Non avevo mai preso parte ad un viaggio fotografico e il binomio Messico/Bazan fu veramente troppo allettante in quel periodo in cui avevo un gran bisogno di una trasvolata oceanica. Ero affascinato dallo sguardo di Ernesto in “Cuba” ed ero convinto che il bianco e nero fosse il linguaggio perfetto per la mia idea di fotografia, invece tornai con una visione a colori che neanche credevo di avere. Ti sei dedicato anche alla questione ambientale, con una visione molto più personale per alcuni versi, ed esattamente dell’inquinamento della valle del Sacco. Com’è nata l’idea di I Must Have been Blind? Conoscevo la situazione ambientale della Valle del Sacco perché sono nato e cresciuto proprio lì, a pochi minuti dalla zona industriale in cui anche i miei genitori hanno lavorato, tuttavia non mi aveva mai stimolato abbastanza da farne un progetto fotografico. Poi un giorno sono finito, un po’ per caso, in un master di fotografica documentaria con Massimo Mastrorillo e ho deciso di affrontare per la prima volta la fotografia “a Km. 0”. Inizialmente l’idea era quella di impostare il lavoro con la chiave della denuncia ambientale perché non credevo che quel territorio mi avrebbe riservato grosse sorprese, invece mi sbagliavo. Sin dalle prime uscite un’inaspettata sensazione di straniamento ha fatto prendere al lavoro una forma diversa, più interpretativa e personale.


Nel tuo progetto In Limbo ci racconti dell’Iran, cosa ti porti dietro da questo luogo a tratti affascinante e a tratti misterioso? In Limbo è un piccolo diario di viaggio in un paese difficile da inquadrare senza rimanere condizionati da certi cliché occidentali. Sono arrivato in Iran nel periodo immediatamente successivo alla firma degli accordi internazionali che dovrebbero permettere al paese di uscire dall’isolamento. Questa fase di transizione è coincisa un po’ con la mia. Volevo capire, ma non avevo la presunzione di farlo. Volevo uscire dai cliché, ma avevo il timore di produrne altri. Per la prima volta in un viaggio ho sentito di non riuscire a fotografare liberamente e quando al ritorno mi è stato chiesto di riassumere in pubblico questa sensazione ho risposto usando queste parole: “Mi sentivo in un limbo”. La persona che mi ha fatto la domanda ha risposto: “Hai già il titolo”. Magari un giorno tornerò a Tehran per avere anche un progetto vero. Progetti per il futuro. Ad oggi sto lavorando a due progetti completamenti differenti: uno è uno spinoff di I Must Have Been Blind, l’altro un progetto sui genitori separati pensato insieme al mio amico Fabio Moscatelli. Come vedi la fotografia oggi e il suo futuro? Credo di osservare la fotografia da un punto di vista troppo limitato per poter dare una risp osta esaustiva. Di certo sia il digitale che il social networking hanno permesso a molti, me compreso, di raggiungere dei risultati attraverso quelle che potrebbero sembrare delle scorciatoie. Oggi un fotografo (nel senso più esteso di chi produce immagini) ha la possibilità concreta di lavorare su un proprio percorso autoriale e promuoverlo in autonomia fino ad arrivare a costruire il proprio piccolo mercato. Viene quasi naturale criticare questa tendenza, anche perché è indubbio che possa creare dei fake, ma è altrettanto vero che sono gli stessi professionisti del settore ad alimentare un mercato intorno a questo bacino di aspirazioni. Insomma, vedo tanto rumore, ma penso che non ci sia nulla di male in questo aumento della quantità se può funzionare da volano e non da freno per chi è in grado di migliorare anche la qualità.




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