Sillabari Veneti - Goffredo Parise

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VentoVeneto • 1

Goffredo Parise

Giosetta Fioroni

VentoVeneto: una collana che nell’identità di una terra non riconosce il segno dei confini ma l’apertura dello spazio, il muoversi della gente, delle parole, delle idee. Come il più libero dei fenomeni atmosferici. VentoVeneto.

Sillabari Veneti

Artista di fama internazionale, fin da giovanissima ha fatto parte dei più vivaci movimenti artistici romani. Delle sue innumerevoli mostre ricordiamo in particolare l’antologica del 1990 delle sue opere su carta 19601990 all’Istituto Centrale per la Grafica, la sala personale alla Biennale di Venezia del 1993, la mostra antologica di opere dal 1963 al 2003 allestita ai Mercati di Traiano, con cui la città di Roma ha reso omaggio all’artista e, nel 2013, quella dedicatale dalla Drawing Center di New York. A lungo compagna di vita di Goffredo Parise, con generoso entusiasmo ha acconsentito a illustrare questa edizione dei Sillabari Veneti con cinque disegni di ritratti dello scrittore.

Goffredo

PARISE Sillabari veneti RE

ISBN 978-88-941594-1-7

9 788894 159417

€ 19,00

RE RONZANI EDITORE



VentoVeneto collana diretta da Francesco Maino

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Goffredo Parise

Sillabari veneti

con cinque disegni di Giosetta Fioroni e uno scritto di Francesco Maino

RE RONZ ANI EDITORE · 2016


Š Ronzani Editore Vicenza marchio editoriale di Elabora S.r.l. Viale del Progresso, 10 - 36010 Monticello Conte Otto (Vi) www.ronzanieditore.it info@ronzanieditore.it ISBN 978-88-941594-1-7 Prima Edizione: Maggio 2016


IL RITMO DELL’UPUPA di Francesco Maino



Una felice meccanica del destino mi impone di far gli onori di casa, di presentare al lettore questa antologia dei Sillabari di Goffredo Parise, scelti a inaugurare emblematicamente, meglio non si potrebbe, una collana che s’intitola “VentoVeneto”. Parise. Uno scrittore che partendo dal Veneto e prima di tornarci, ha davvero girato il mondo. Figlio di ragazza-madre, una giovinezza seminascosta in una mansarda, in una Vicenza lunare, in una Venezia sibillina. Poi: Roma, e da lì Parigi e New York, Vietnam, Laos, Giappone, Biafra, Cuba, Cile, dopo aver frequentato mezzo mondo di élite letteraria, sfrecciato in una MG spider rossa, con l’ingegner Gadda, suo vicino di casa, sul sedile accanto, dopo aver conosciuto perfino Marilyn, dolce libellula umana, cacciato in botte come Hemingway, nella laguna di Venezia, i simpaticissimi mestoloni (detti anche foffani, un nome stupido e stupendo …), sciato a Cortina con la neve vergine, solo, solissimo a tremila metri, spiato da splendide lepri bianche, Parise di ferma, infine, compra una minuscola casetta diroccata a Salgareda, tra i borghi di Romanziòl e Ponte, sulle rive del fiume Piave, dove la vita comincia prima dell’alba, continua felice per tutto il giorno e parte della notte. Già più che adolescente, m’ero immaginato quel posto, calcolato e trasfigurato da casa dei miei fino a quella dello scrittore misterioso, avevo pure fantasticato, sarei partito, zaino in spal9


la, archeologo, bracconiere di rime, cercatore di corpi, vene d’oro, cose così, avrei matàto la notte, solo, con il fior fiore dei grilli, le cicale maschie e le lucciole sbrindolone, conoscevo abbastanza quei boschi di golena: i pioppi spilunghi innevati a maggio di neve cotonata, la brina di gennaio, le foglie di acacie che si fanno suonare come xilofoni dalle percussioni del vento, i salici bianchi riflessi a riva, sui fianchi del fiume, non avevo allora alcuna contezza del mio futuro  … Poi sono venuti anni di corse solitarie sugli argini del fiume, le parole autoctone di Parise decantavano in me come il vino rabosino, erano sintetiche, elastiche, d’un verde collinare, erano intoccate e imperfettamente malinconiche, e grasse come cavoli cresciuti con letame umano, direbbe lui, negli orti di casa vicino ai cimiteri, io correvo a cercar quella casa di Salgareda, o forse quella piccola abbazia di fronte al gelso, ove si osserva la regola dello scrittore … finché non l’ho trovata. Eccola: entriamo, faccio strada, prego, è semplice: cucina povera, vedete? tavolo modesto, credenza anni Cinquanta, camino, scaletta ad assi cigolanti che conduce al piano superiore, vecchio apparecchio telefonico, anni Sessanta, buono a dettare i pezzi di attualità al Corriere della Sera, color grigio-colombo, mini-scrittoio, in cui lo scrittore scriveva quando scriveva: cioè mai, letto a castello, in stile russo d’isba della steppa, come sarebbe piaciuto al conte Tolstoj, fatto fare ad hoc da artigiano del legno e accanto un romanzo del na10


turalismo zarista, finestrella rivolta a nord, verso le Alpi, oltre l’orizzonte di Monaco e Vienna, con la compagnia fedele d’una upupa ventriloqua che col suo verso sembra suggerirgli il ritmo di una prosa nuova … Lì vive in cocciuta solitudine, ritiro monacale, isolamento principesco, e compone, nella casetta acquistata quasi per caso (la Casa delle Fate) e dal fascino fatale, direi letale, di fronte a un vecchio gelso, il Sillabario N. 2, questo libro così originale, così irregolare, così poetico, quello che chiuderà il suo cerchio-vita: nel 1982 vincerà il Premio Strega; nel 1986, d’agosto, il suo cuore cesserà di battere, all’ospedale di Treviso; nel febbraio dello stesso anno aveva ottenuto la laurea in lettere ad honorem, all’Università di Padova, per meriti conquistati sul campo, come un tenente di fanteria che abbia imparato la guerra non sui libri di tattica delle accademie ma nelle garitte, all’addiaccio, nelle trincee. Riesce difficile spiegare che cosa troverete in queste piccole prose, e proverò a spiegarlo con le parole di un lettore partigiano. Dopo aver scritto cose stupende, tra cui il primo romanzo cubista del Novecento italiano, forse l’unico: Il ragazzo morto e le comete, pubblicato a Venezia, dall’editore Neri Pozza, Parise inventa, nel suo capolavoro: i Sillabari, questo terzo genere: non un corpo di racconti, non un libro di versi e poesie, non un vero romanzo, piuttosto un racconto per ogni sentimento umano in ordine alfabeti11


co, secondo un estro poetico fatalmente privo di eredi (interrotto alla lettera S, esse come solitudine), che diventa: corpo unico di poesia in forma di prosa a riscoprire il valore più autentico delle emozioni, e dello spirito. Mi spiego meglio: un giorno egli si trova da amici, in un piccolo villaggio posto sulle rive del Piave (località Ponte), vede un bambino, curato, ordinato, con un abbecedario in mano, in copertina c’è scritto: L’erba è verde; Parise legge la frase, la mette in dispensa, come fanno gli scrittori quando trovano parole sfornate di fresco come pane dell’alba, pensa che sia molto bella per la sua essenzialità, per la sua logica intuitiva: gli ricorda Tolstoj che ha scritto diverse cose sugli adulti rimasti bambini … È la ricerca della lingua semplicemente umana, non più ideologica, che lo spinge a scrivere in un luogo d’Arcadia, è il Veneto sentimentale dei primordi, in una simbiosi tra un uomo che sente il suo declino tra boschi di acacie, erbe falciate, contadini su vigne di rossi, piccoli rii, upupe, e donne piene, corpose, amorose, inconsapevolmente erotiche: c’è un colore volante come nel viso del violinista di Marc Chagall, è il verde trasparente del fiume Piave che si specchia oltre i fusti alti di pioppi che son come le colonne d’un tempio greco emerso chissà da quale agorà vegetale, e ancora: viola come l’incubo del sangue in bocca di un cuore stanco, in un corpo aggredito da una malattia asintomatica, è un incubo da vedere, sotto forma di suggestione, in un quadro di Max Ernst titolato: L’antipapa (The Antipope), 12


conservato a Venezia, presso la Peggy Guggenheim Collection; è un modo di vivere o morire nuovo, d’uno scrivere rinnovato che lo unifica al paesaggio spirituale del fiume, nella campagna trevigiana di colline e viti, nella festa veneziana di gronde e gondole, è un respiro della presenza della psiche che rimarrà e che ho sentito, e sento tutt’ora. I Sillabari nascono in questo barbaro Veneto di nebbie e muschi: con gli spiriti del fiume che ogni mattina vengono a maliare chi è assediato da strani pensieri, un gelso, gli usignoli, pochi buoni amici che fanno capannello in alcune serate, in cui si fa legna, si mangia un fagiano al forno, il resto è solitudine, silenzio. Storie di uomini, bambini in braghette, mogli pudiche, contadini orgogliosi, ladri, reduci di guerra, predicatori del nuovo mondo in picchiata come l’asteroide, camice nere sotto sale, partigiani in cornice, cacciatori malinconici, zie mature, borghesi di prima ora, coppie moderne, girovaghi, brevi intrecci: somma di azioni non eclatanti, non alte, destinate a un fine cercato pervicacemente dai protagonisti, direi quasi: un ostinato obiettivo in vita, da completare senza un prima che si chiami Storia, senza un dopo che si chiami Avvenire, ma ingenuo, o infantile in modo regressivo come a sigillare il fervore dell’adolescenza e, insieme, le stimmate dell’età matura. Particolarità di tutte le prose, e questo è il motivo per cui ci ritroviamo incatenati, come singoli, o come comunità dei lettori, è un tratto comune 13


di estraneità: una definizione poetica dell’apolidia umana: Tizio può avere pure comprato la casa famigliare, onorato un mutuo trentennale, aver alle spalle la prole perfetta (Chiara e Luca …), saldo iperattivo, matrimonio piombato, insomma tutto: peso e perimetri, e tuttavia non voler appartenere, rinunciare alla cittadinanza, sentir bisogno, conscio o inconscio, di scappare nei modi più disperati, più simbolici, più perdenti … tagliar la corda: d’accordo! ma per andare dove? Le fughe son le minime azioni dei protagonisti che conducono in un altro-oltre-altrove, funebre e prenatale nello stesso tempo, è come se mancasse qualcosa ad ognuno di loro, a ognuno di noi, e tutto lo spazio fosse sospeso in un singhiozzo, una suspance del tempo che dura da quanto? Noi ci svegliamo, abbiamo compiuto quarantamila anni, è già tutta consumata, la vita, ci si chiede …? Questa è la vita …? Qualche conto è rimasto in sospeso, è come se qualcosa non tornasse più, 2 + 2 non può fare quattro all’infinito, pur nella geometria delle cose chiamate uomini, come fare un figlio, sposarsi, bere un bicchiere d’acqua, comprare un fucile, un gelato a un bambino, cacciare, desinare, flirtare con la donna d’altri, guardarsi allo specchio, chiacchierare con due amici di briscola. Vi salveranno i Sillabari, credetemi, per il fatto che dentro, Parise, in un modo che ogni scrittore di razza conosce, ha iniettato massicce dosi di poesia e se penso, ora, al suo letto di Tolstoj mi viene in mente Turgenev, se penso a quest’ulti14


mo penso a un romanzo dal titolo Padri e figli, nel mio brutto tascabile, colgo l’intuizione che Flaubert riferiva al suo amico Turgenev:  …alla prosa bisogna dare il ritmo del verso, lasciandolo tuttavia prosa, ecco, direi che nelle piccole prose parisiane esiste un misteriosa cantica interna, un’invalidità momentanea dei significati, è come se, giocando al fazzoletto, un arbitro adolescente, apparentemente diverso dall’autore, e posto fuori dal testo, abrogasse in modo casuale ogni vettore spazio-tempo-contenuto, per dirigere il lettore sotto le silenti stelle: che una mano aveva appeso altissime alla luminaria glaciale dell’eternità … Sono passati tanti anni, e tuttora mi accade di provare quella sensazione, quel mesto brivido: appena finisco di leggere, non so dire come mi sento, non so dire se ho voglia di piangere, ridere, rileggere, stordirmi, dimenticare, non so chiamare quella sensazione, che sempre me li fa rileggere, questi Sillabari, e la risposta la dà lo stesso Parise:  … L’immaginazione finisce qui, il calcolo balistico, la parabola della sfera volante, e qui cominciano gli schemi del banale. Ora io mi chiedo, da scrittore: come si fa a fare la poesia e ficcarla nella prosa, usando cioè le regole della prosa dentro la metrica spietata della poesia, facendola poi sparire come se non ci fosse anche se la si riconosce, e si sente che suona benissimo? Credo che al nostro tempo lo insegni Goffredo Parise, da almeno mezzo secolo, in quello che ho definito il Conservatorio per Scrittori 15


Musicanti. Risulta che nessuno l’abbia superato, in Italia. Dove si trova questo conservatorio? Non l’ho mai capito, ma so che esiste, lo cerco da sempre lungo le rive del fiume Piave, tra Venezia e Treviso. Credo di poter azzardare che io scrivo per trovarlo, scrivo per essere ammesso da privatista, per diplomarmi una volta per tutte e resistere almeno un po’ oltre la morte con un’opera; è sciocco, me ne rendo conto, ma è l’unica cosa che la scrittura mi ha spiegato, l’unica che valga davvero quando il tempo scade. Sulla Piave, primavera 2016. Francesco Maino Mi piace ricordare un pomeriggio romano a casa di Giosetta Fioroni, e un tè davanti al quale l’idea dei Sillabari veneti ha preso forma. Per questo la ringrazio affettuosamente.

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SILLABARI VENETI «La patria … la patria», e gli venne subito in mente di dire, chissà per quale ragione: «è  … l ’altopiano di Asiago». Goffredo Parise

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BAMBINO Un mattino presto d’inverno un uomo senza figli vide tra la brina e la boscaglia sulle rive del Piave un bambino dagli occhi celesti e mongoli in compagnia di un vecchio con un falcetto. Aveva la testa grossa coperta da un berretto di lana con pon-pon, zoccoli alti e una lunga sciarpa a strisce di colori diversi; non pareva un bambino «moderno» ed egli, per uno di quegli scherzi di tempo e di luogo che la vita gioca agli uomini per illuderli, in quel bambino vide se stesso quarant’anni prima. Attratto dalla luna ancora alta tra la brina e dal bambino l’uomo si fermò a parlare: il dialogo si svolse in una luce quasi azzurra con degli scricchiolii e il vecchio, che si era subito accorto della somiglianza tra i due, incitava continuamente il bambino a rispondere il suo nome e la sua età: ma il bambino rifiutò di aprire bocca e solo alla fine, quando parve non ci fosse più nulla da fare per convincerlo, quasi per scusarsi e in modo ispirato e sereno come certi esseri molto antichi, improvvisamente sorrise. Venne l’estate e l’uomo rivide il bambino negli stessi luoghi, in una radura di erba appena falciata in mezzo alla boscaglia. Il bambino lo 19


vide, sorrise come allora ma si nascose subito dietro i mucchi di fieno e camminando a quattro zampe tra il fieno e l’erba non ancora falciata scappò via l’uomo guardò a lungo in quella direzione e ogni tanto vedeva la schiena color miele e la canottiera bianca, ma, quando si avvicinò, il bambino scomparve nel folto del bosco. Sempre più attratto l’uomo si informò, seppe che il bambino era figlio illegittimo di una contadina, piano piano fece amicizia col vecchio e poi con l’intera famiglia, molto diffidente e piena di situazioni intricate e «irregolari». In queste visite vide il bambino solo di sfuggita perché scompariva ma seppe molte cose di lui, per esempio che temeva di essere rapito e di notte parlava nel sonno, rivolgendosi a persone dai nomi sconosciuti. Un giorno lo mandò a chiamare per affidargli un lavoretto e gli promise un piccolo stipendio: si trattava di raschiare con la carta vetrata delle sedie appena tagliate e poi di lucidarle con l’olio. Il bambino lavorò mezz’oretta con molta foga, poi piano, sempre più piano e svogliatamente finché smise: alle domande dell’uomo non rispose e appena questi entrò in casa, sparì. Da quel giorno cominciò ad aggirarsi intorno alla casa, pronunciò qualche parola, anzi 20


qualche monosillabo ma questo bastò perché l’uomo riconoscesse nella voce del bambino il timbro della sua. La stessa notte in cui udì la voce del bambino ci fu un temporale molto forte che egli non udì dal profondo del sonno: sognava il bambino in bermuda scozzesi e canottiera bianca che camminava sull’acqua. Poiché il bambino non si decideva a dire qualcosa di più del «sì» e del «no», l’uomo si serviva del nonno e della madre come mediatori e interpreti per conversazioni un poco più lunghe: attraverso di loro non soltanto gli mandava a dire le cose ma gli faceva racconti dei suoi viaggi. Visto che il bambino era interessato ai viaggi (non conosceva che i luoghi dove era nato e dove viveva) gli venne in mente di portarlo in gita a Venezia e attraverso gli ambasciatori gli comunicò la sua intenzione: il bambino fece rispondere all’uomo che sarebbe andato ma con il costume per fare il bagno nel mare nonostante il divieto della madre, altrimenti niente. Partirono un sabato mattina (alla sera il bambino aveva qualche linea di febbre e al mattino si svegliò alle cinque) e arrivarono con l’auto fino all’aeroporto di Venezia dove li aspettava un motoscafo. Il bambino guardò i grossi jet arrivare e partire da quell’estremo lembo di terra ma non disse una parola, nel motoscafo 21


INDICE Il ritmo dell’upupa 7 Bambino 19 Bontà 29 Caccia 39 Dolcezza 45 Famiglia 53 Felicità 61 Grazia 69 Hotel 79 Italia 91 Mare 101 Patria 109 Paura 117 Sogno 125



COLOPHON Sillabari veneti di Goffredo Parise Stampato su gentile licenza di Adelphi Edizioni

Disegni: Giosetta Fioroni Progetto grafico: Alessandro Corubolo, Giuseppe Cantele Correzione delle bozze: Giovanni Stefano Messuri Carattere: Collis di Cristoph Noordzij Carta: Lux Cream avorio - Stora Enso Stampa: Paolo Galvani - Stamperia srl, Lazise Legatura: Legatoria Gandini, Stallavena Tiratura: 1000 copie di cui le prime 50, numerate, hanno aggiunta una suite di tre disegni di Giosetta Fioroni riprodotti in calcografia, impressi a Vicenza nell’Officina di Giovanni Turria e firmati dall’artista.



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