Calamandrei - "L'Avvocato" e "Il Segretario" di Francesco Sansovino

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Ritratto di Francesco Sansovino


Piero Calamandrei

L’Avvocato & Il Segretario di Francesco Sansovino Con uno scritto di Paolo Carta Postfazione di Silvia Calamandrei Nota archivistica di Francesca Cenni

RE RONZ ANI EDITORE VICENZA - 2016


Questa edizione è realizzata con il sostegno di Toogood Society - La Scala Studio Legale www.lascalaw.com

© Ronzani Editore Vicenza marchio editoriale di Elabora S.r.l. Viale del Progresso, 10 - 36010 Monticello Conte Otto (Vi) www.ronzanieditore.it info@ronzanieditore.it ISBN 978-88-941594-3-1 Prima Edizione  : Settembre 2016


AMICIZIE STR AORDINARIE di Paolo Carta



Dopo il 1942 non era infrequente sentir citare, nelle conversazioni tra giuristi, personalità della cultura e professionisti del foro, i “trattatelli” di Francesco Sansovino, L’Avvocato e Il Segretario, ripubblicati in quell’anno a cura di Piero Calamandrei nella celebre collana “In ventiquattresimo” dell’editore Le Monnier diretta da Piero Pancrazi : segno della fortuna eccezionale del volume che ora si ripresenta al lettore in una nuova veste. Quell’edizione pur parziale del dialogo dell’Avvocato e del trattato sul Segretario è ormai entrata a far parte della sempre più ampia bibliografia critica dedicata all’opera del poligrafo del ’500. Riletta oggi, tuttavia, ci dice molto più del suo curatore, colto in un momento particolarissimo della sua vita e della vita dell’Italia intera, e molto meno di Sansovino. Non che questi manchi nelle pagine introduttive stese da Calamandrei, dove è possibile scorgere, ritratto con efficace leggerezza di penna, l’instancabile editore, l’umanista, il giurista e perfino il poeta degno d’essere chiamato tale per aver scritto almeno un paio di versi indimenticabili. È però difficile non leggere quelle pagine introduttive anche come un’occasione, forse insperata e inattesa dal principio, che egli colse 9


per fare i conti con la propria esperienza pubblica e privata. Per compiacere suo padre, il celebre architetto Iacopo, Francesco si dedicò agli studi giuridici avviandosi alla professione forense : ed è fin troppo semplice per il biografo ritrovare nel Sansovino motivi che coinvolgevano direttamente Calamandrei. Biografia a parte, la prefazione non risparmia critiche feroci rivolte ai cortigiani del tempo e a quelli di ogni regime, all’ignoranza dei pratici del foro e al giornalismo d’accatto; a tutte quelle personalità accomunate dalla predisposizione ad abdicare al proprio pensiero, alla libertà e all’autonomia, confondendo quest’ultima con la volontaria servitù verso qualcuno, poco importa chi sia. È un duro colpo rivolto contro una tendenza epigonica, che albergava anche nelle aule dei tribunali, e sulla quale il fascismo poteva evidentemente contare. Non che egli perda mai il suo ottimismo per il futuro, nonostante la guerra, nonostante tutto. Nel manifestarlo, tuttavia, non smette di ricordare che nessuna liberazione dal dominio altrui potrà mai essere realizzata da chi confonde gratitudine e debito, riconoscenza e connivenza; da chi scambia per agire autonomo lo scimmiottamento dei peggiori vizi del proprio superiore, tale solo perché percepito a quel modo. Quella prefazione, letta tra le righe 10


e posta accanto agli altri scritti del periodo, è dunque anche una presa di posizione contro il fatalismo, che ancor più della politica del regime aveva finito per schiacciare ogni possibilità di azione politica. Per questi motivi, Calamandrei non si mostra in alcun modo interessato al Sansovino antiquario, al compilatore di utili e fortunati centoni, che pure riusciva tanto prezioso per gli storici del tardo Rinascimento. Ad attirarlo sono piuttosto quei momenti ancora vivi della sua opera, che pure in modo abborracciato e maldestro, gli parevano esser stati scritti per lui e per il suo tempo. Un tempo in cui anche alcune banalità moralistiche o generici richiami a ideali di giustizia potevano assumere il significato di un atto eroico. Sorvolando sui problemi della formazione degli avvocati, sul modo di intendere la professione e su quel primo tentativo di codificare il ruolo del segretario, i motivi che ci hanno convinto a rimettere in circolo questo volume, stanno anche un po’ nella sua origine. L’opera, infatti, è innanzitutto l’esito e la testimonianza della profonda amicizia tra Piero Calamandrei e Pietro Pancrazi, ed è a suo modo parte di un progetto editoriale di resistenza. Tale fu la collana «In ventiquattresimo», edita per Le Monnier e diretta dallo stesso Pancrazi. Alla 11


sua fortuna partecipò attivamente Calamandrei, contribuendo oltre che col Sansovino, anche con l’edizione di Dei delitti e delle pene di Beccaria, pubblicata poco dopo. Per comprendere l’atteggiamento resistenziale della collana, basterà ricordare l’edizione del Contr’uno di Etienne de la Boétie, curato da Pancrazi, alla quale varrà la pena dedicare qualche cenno. Pancrazi, giornalista, saggista e critico letterario aveva subito intravisto in Calamandrei uno spirito autenticamente guicciardiniano. Su questa prima impressione crebbe la loro amicizia che si rinvigorì dopo la pubblicazione dell’Elogio dei giudici scritto da un avvocato, risalente al 1935, sempre per Le Monnier. Come notò Pancrazi, recensendo il volume sulle pagine del Corriere della Sera, Calamandrei con quello scritto non aveva solo scelto di confrontarsi con il modello dei Ricordi di Francesco Guicciardini, giurista come lui, ma ne aveva colto lo spirito originario, perpetuandone per così dire la vitalità nella letteratura contemporanea. Secondo Pancrazi, nell’Elogio, l’autore afferrava non solo i motivi da cui i Ricordi avevano tratto la loro origine, ma anche la loro natura più recondita, che pure restava celata dietro un muro di attestazioni ironiche. Quel libro, insieme alla precedente recensione tributata al libro postumo di Rodolfo Calamandrei, padre 12


di Piero, fu l’avvio di un legame intellettuale e politico, tra i più interessanti maturati nell’Italia tra le due guerre. Il commosso ricordo del loro primo incontro fu rievocato con ‘ levità di tocco’, nel necrologio che il giurista scrisse nel 1953 per l’amico scomparso, sulle pagine de «Il Ponte» : «Di solito, nel cuore di ogni amicizia è custodito un nodo di ricordi comuni, capaci di creare tra gli amici una specie di appartato ed esclusivo condominio : ricordi di scuola, ricordi di guerra. Via via che la vita si consuma, il cerchio degli iniziati, tra i quali ci si intende per allusioni, si restringe; e i superstiti, in un mondo diventato estraneo, si raccolgono ogni tanto per parlare di sé, testimoni pietosi l’uno per l’altro di un tempo, che, nel rievocarlo fra loro, non sembra ancora perduto. Ma quando ci conoscemmo con Pancrazi, verso il 1932, lui prossimo alla quarantina, io che da poco l’avevo scavalcata, nessun ricordo di gioventù ci legava : saliti per diverse vie, vissuti in diverse città, non c’era mai stata tra noi un’occasione d’incontro. Eppure, appena conosciuti, ci lasciammo vecchi amici». Ad unirli contribuiva anche l’urgenza, avvertita come improcrastinabile, di riproporre l’umanesimo al cuore degli studi e della cultura italiana. Questo proposito accompagnava anche le pagine del volume sansoviniano, la 13


cui edizione fu suggerita a Piero proprio dall’amico, come tentativo di dar voce attraverso un classico, da tempo trascurato, a una nutrita serie di preoccupazioni politiche circa l’amministrazione della giustizia e la pratica forense. Erano questioni sulle quali Calamandrei aveva già avuto modo di esprimersi pubblicamente, ad esempio nei suoi scritti dedicati all’insegnamento universitario inclusi nel volume L’Università di domani, curato con Giorgio Pasquali e nel saggio Troppi avvocati!, pubblicato nei ‘Quaderni della Voce’ raccolti da Prezzolini, nel 1921. Scritti penetranti, stesi con la consueta leggerezza, nei quali le parole erano state scelte per rivelare idee e propositi e non per celarli. L’eco di questi scritti si percepisce non a caso anche nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci. Dalla corrispondenza con Pancrazi, scopriamo che Calamandrei inizialmente intendeva scrivere sul Sansovino solo qualcosa «di poco profondo e impegnativo», evitando così di considerare l’opera esclusivamente da uno stretto punto di vista morale. Se però, come insisteva Pancrazi, l’idea era quella di infilare il volume nella stessa collana del capolavoro di Beccaria, allora anche il tono dell’introduzione a Sansovino andava adeguato a tali vette. Mediante l’opera di Sansovino, Calamandrei auspicava il recupero di una dimensione eleva14


ta della professione, che non fosse più quella del pericoloso mestierante di litigi e rapace corvo delle sciagure altrui. Pochi anni più tardi, commemorando la scomparsa del collega Giorgio Querci, ricordò che un luogo comune «considera il giurista soprattutto come un logico, ingegnoso fabbricante di ripieghi dialettici fatti per ostacolar la giustizia e per sconfiggere il sentimento. In realtà, come accade per molti pregiudizi passati in proverbio, è proprio vero il contrario». Tante professioni possono essere svolte col solo cervello e non con il cuore, ma non quella dell’avvocato. L’avvocato non può permettersi di essere un puro logico e neppure un ironico scettico : «l’avvocato deve essere, prima di tutto, un cuore : un altruista, ma che sappia comprendere gli altri uomini e farli vivere in sé, assumere su di sé i loro dolori, e sentire come sue le loro ambasce». Per di più, aggiungeva, è necessario che egli sia un ottimista. In tal modo, la letteratura, cui egli non esitava a fare ricorso anche nei suoi scritti giuridici, diveniva per il suo modello ideale di avvocato una vera palestra con cui affinare quell’empatia, indispensabile a qualsiasi professione che richieda innanzitutto l’ascolto di una storia altrui. Proprio questo aspetto rivela la cifra distintiva dell’umanesimo giuridico di Piero Calamandrei. 15



PIERO CALAMANDREI

“L’AVVOCATO” E “IL SEGRETARIO” DI FRANCESCO SANSOVINO


Pietro Pancrazi, Piero Calamandrei e Luigi Russo a Viterbo 11 giugno 1939


I. Mentre il padre Jacopo, «celebre nella scultura e nell’architettura singolarissimo», donava a Venezia il fastoso volto cinquecentesco che ancor oggi ci incanta, il figliuolo Francesco, tra il 1536 e il 1542, studiava a Padova e a Bologna, per avvocato. Niente di strano, dirà il sagace lettore : se il padre, invece che un sommo architetto, fosse stato un grande giureconsulto, di certo il suo figliuolo avrebbe scoperto in sé una irresistibile vocazione per le colonne e per gli architravi. Ma forse qui l’osservazione non calza : perché, a sentir Francesco, chi gli impose contro sua voglia lo studio della giurisprudenza fu proprio l’ostinazione di Jacopo, alla quale egli fa risalire tutta la responsabilità di quei suoi giovani anni, così malinconicamente «consumati nelle leggi». Non pare, a dire il vero, che proprio nello studio delle Pandette egli consumasse il meglio di quel suo tempo, e nell’acquisto di commentari giuridici i denari paterni : le sue occupazioni a Padova erano tali, che per procurarsi di che pagarsele egli preferiva rivolgersi, anziché al severo genitore, a un amico di lui che egli si figurava di vedute meno ristrette : a Pietro Aretino, allora sui 27


cinquant’anni, al quale Francesco, appena diciassettenne, il 30 ottobre 1536, si confidava così : «essendo io in una certa pratica di una certa putta e sapendo voi che mio padre non mi vuol dare un bezzo, vorrei tuttavia pregarvi che mi serviste di duoi scudi, se non dui uno, che so ch’el farete e arete compassione alla misera gioventù, la qual i vecchi di quella invidiosi per non poter far più loro non lascion fruire a’ lor figliuoli». Ma l’Aretino, che quando gli chiedevano quattrini in prestito non transigeva sulle questioni morali, invece che ducati, né due né uno, gli mandava in quantità onesti consigli : e il povero studentello deluso, per tener buona la sua putta, che chiedeva i bezzi, non poteva far altro che riferirle le prediche che scendevano da quell’autorevole pulpito. Tuttavia, la sua dichiarata repugnanza per gli studi giuridici, e le distrazioni colle quali egli cercò di consolarsi in quel periodo, non gli impedirono di addottorarsi in leggi a Bologna, nel 1542, all’età giusta di ventun’anni : anche allora, come oggi, una laurea in leggi era un favore che non si negava a nessuno. Così, diventato «giureconsulto di titolo, ma di pensiero più tosto ogni altra cosa che avvocato o dottore», egli si trovò di fronte, con quel padre che non era disposto a lasciarlo 28


vivere in ozio alle sue spalle, al problema pratico della scelta della professione. Da principio, anche per contentar quella mania del Padre che a tutti i costi voleva far di lui un gran giurista, dové piegarsi a tentar l’avvocatura in Venezia; ma par che la esperienza di quel tirocinio fosse piuttosto dura, se dopo molto tempo, nello scrivere l’Avvocato, sentiva il bisogno di avvertire i giovani che, prima di arrivare a farsi un nome nel fòro ed una clientela, bisogna rassegnarsi a rimanere per quindici o venti anni in paziente ed umile quarantena. Certo è che questa pazienza egli non seppe averla per sé : e quando nel 1550 salì al pontificato col nome di Giulio III Giovanni Maria di Monte (che nel 1521 l’aveva tenuto a battesimo), non gli parve vero di pigliar questa occasione per piantare i tribunali e liberarsi della ingombrante vicinanza paterna, e per fuggirsene a Roma in cerca di fortuna, più che sul suo titolo dottorale contando sulla protezione del nuovo papa. Spaventato da quelle esigenze di serietà e di umiltà a cui deve sottoporsi chi intraprende la diritta ma faticosa via di una professione libera (si direbbe oggi), egli sperò più comoda e più rapida riuscita in quegli uffici che si posson conseguire con un po’ di disinvolta versatilità, con molta inchine29


volezza di schiena e con qualche protezione di personaggi altolocati : senza preferenze e senza vocazione, disposto ad accettar qualunque nome e qualunque veste, magari quella talare, pur di arrivare, senza fatica e senza lunga attesa, a intrufolarsi in corte e ad arraffare denari ed onori. Di questo tradimento del figlio si affliggeva il vecchio Jacopo; ma lo consolava l’Aretino scrivendogli, nel febbraio del 1550 : « … Laudo, che ve lo leviate dinanzi, co ’ l mandarlo a Roma; imperoché bisogna che l’uomo segua quella cosa la quale è inclinato a seguirla, che nel fare istudiare chi vuol esser soldato, accade poi, che tale attende più all’armi, che ai libri … Sì che vadi pure alla corte, che sì mal si porta in palazzo». A Roma in corte, il buon Francesco non ebbe maggior fortuna che a Venezia in palazzo : gli riuscì soltanto di ottenere il titolo onorifico di cameriere pontificio, che fu una bella soddisfazione morale, ma, peccato, sprovvista d’ogni rincalzo di pecunia. Eppure questa seconda delusione gli fu salutare : lo aiutò a chiarirsi sulle proprie attitudini e sui propri limiti e a trovar finalmente una occupazione confacente al suo gusto. Avvocato fallito, cortigiano mancato, cameriere senza salario, tornò a Venezia, dove lo ri30


chiamavano «acerbissime lettere del suo vecchio»; e si decise a mettersi stabilmente, al modo stesso con cui s’apre una bottega, al mestiere del letterato. Non è facile definire in che questa professione piuttosto sdrucciolevole e sfuggente (parlo di quei tempi) consistesse; ma è certo che nella Venezia di quel secolo essa dava da vivere a tutta una congrega di disoccupati irrequieti, gravitanti come pianeti intorno al sole dell’Aretino, per i quali l’arte dello scrivere non era altro che una scusa per divertirsi e un espediente per far danari : e in mezzo a questa gente spregiudicata e irregolare non si può dir che Francesco Sansovino figurasse tra i peggiori. Un certo interesse generico per le cose dell’arte e della letteratura doveva averlo respirato fin da bambino nella casa paterna : intorno a quel desco ospitale, dove il Tiziano e l’Aretino erano di famiglia, convenivano in combutta : colla nobiltà veneziana quanti artisti e scrittori, veri o sedicenti tali, vivessero in Venezia o vi capitassero di passaggio da tutta Italia (anche il Cellini, quando vi passò in compagnia del Tribolo, fu ospite a quella tavola). Ma il nostro Francesco, se pur preso da quella specie di indistinto e fatuo orgasmo artistico che il contatto con certi cena31


coli eccita, quasi sempre a vuoto, nei giovani, non aveva ali per volare da sé nei cieli della poesia : e allora per sfogare in qualche modo quel suo prurito dilettantesco e insieme risolvere il problema pratico dell’esistenza, dové contentarsi di essere, anziché un autore originale, un divulgatore e un ricopiatore di scritti altrui, un raccoglitore di curiosità erudite, un rifacitore e manipolatore di materiali di seconda mano : non riuscendo ad essere scrittore per il gusto proprio, volle e seppe essere, con minor gloria ma con più guadagno, editore per il gusto del pubblico. Se l’Aretino può apparire ai critici moderni come l’archetipo ante litteram di una amena famiglia di pennaioli ricattatori e servi di tutti i padroni, che doveva trovare il suo posto al sole nel giornalismo di più di due secoli dopo, in questo buon Francesco Sansovino, tanto meno scintillante ma tanto più innocuo dell’altro, par di scorgere il precursore di certi bravi editori di nostra conoscenza : che si son messi a questa impresa non tanto per amor di speculazione, quanto per un certo spasimo letterario che non potendo espandersi in opere proprie, cerca conforto nel respirar l’odore della stampa fresca sulle bozze dei libri altrui; come certe zitelle invecchiate che, perduta la speranza di proprie venture, 32


si sfogano a tener di mano alle prime mosse delle nipoti. A Venezia, verso la metà del ’500, era in gran fiore l’arte tipografica : la stampa aveva ancora per i lettori la misteriosa attrattiva del ritrovato recente, e anche le opere degli antichi, quando apparivano in questa nuova veste, erano ricercate come novità. Numerose stamperie, e alcune celebri come quelle dei Manuzi, del Valgrisi e dei Giolito, lavoravano senza posa a metter fuori volumi dei più disparati argomenti, senza riuscire tuttavia a riparare alle richieste del pubblico, il quale, purché si trattasse di libri stampati, inghiottiva tutto, senza guardar per il sottile : e intorno a queste officine librarie trovavano lavoro, non solo come revisori di bozze o come direttori di tipografia, ma anche come traduttori o annotatori o compilatori, tutti i letterati a spasso, alla cui versatilità era affidato il còmpito di pubblicare a getto continuo il materiale occorrente per non lasciare inoperosi i torchi. In questa compagnia di poligrafi enciclopedici («manifattori de’ librai» li chiamò il Foscolo) che tra penna e forbici eran capaci di sfornare un libro nuovo ogni settimana, si trovò anche, col Dolce, col Domenichi, col Ruscelli e con molti altri, il nostro Sansovino : il quale la33


vorò in diverse tipografie, specialmente in quella del Rampazzetto, e poi per un certo tempo ebbe anche un’azienda sua propria, che contrassegnò le edizioni con una luna crescente, accompagnata dal motto «in dies». L’operosità del Sansovino, in questa sua professione di letterato editore, fu prodigiosa. In una lettera autobiografica da lui scritta del 1579, egli annovera a una cinquantina i suoi lavori, distinguendoli in «composizioni» (cioè opere originali), «traduzioni» e «raccolte» (di scritti altrui); ma, nell’elenco più completo che ne ha dato il Cicogna, le sue opere, tra stampate e manoscritte, salgono a 97. Tutte le materie egli trattò : dalla grammatica all’agricoltura, dall’arte medica all’arte d’amare, dalla storia alla politica e al diritto : scelte di orazioni, di lettere erotiche, di novelle, di satire; prose e poesie, edizioni commentate di Dante, del Petrarca, del Boccaccio, dell’Ariosto, traduzioni da Plutarco, da Tito Livio, dal Palladio; raccolte di curiosità, d’arte e di costume, come quella dedicata a Venezia città nobilissima (1581) che è forse tra tutte le sue opere la più nota e la più ricca di notizie ghiotte per gli eruditi. Tutti questi lavori, quantunque così disparati per gli argomenti, si somigliano per una certa comune impronta di improvvisazione 34


e di abborracciamento. Si sente che le traduzioni, anziché sul testo originale, son calcate sulle tracce di traduttori più antichi e che molte volte si presenta come libro nuovo un raffazzonamento o una contaminazione di più libri vecchi : nessun scrupolo critico, nessun rigore filologico, nessuna passione per il tema, nessuna tesi da sostenere. L’essenziale era scriver molto e scriver presto, per non perdere il favore del pubblico : l’inchiostro non era ancora asciutto sul manoscritto, e già appariva sull’uscio il ragazzo della tipografia a reclamar la cartella da comporre. Anche nelle opere più originali, come sarebbe questo Segretario di cui qui si ripubblica un saggio, dietro l’autore che tratta il suo tema s’affaccia ogni tanto, con candida indiscrezione, l’editore che tien d’occhio le altre pubblicazioni della sua casa e vuol richiamare su di esse l’attenzione dei lettori. Scrive l’autore Sansovino, trattando delle diverse qualità che si convengono al segretario, che «delle ziffere (cifre) ne sappia ciò che si può sapere, perciò questa è materia importante e da’ principi se ne fa gran capitale per i tempi di guerra …» ; ma subito entra nella conversazione l’editore Sansovino, il quale soggiunge «… e della quale, piacendo a Dio, ne daremo tosto fuori un volume d’un nostro onorato e 35


caro amico»; e più avanti, dove l’autore insegna in che modo devono scriversi le lettere amorose, ecco che l’editore fa di nuovo capolino per ricordare : «Ma in materia di lettere amorose, l’uomo si può grandemente sodisfare in quelle che noi abbiamo stampate ne’ dì passati, e poste in due volumi …» : vero e proprio memento editoriale, inserito a metà del capitolo. Bene dunque per questa sua faciloneria letteraria che oggi si direbbe propria del peggior giornalismo, Francesco Sansovino è stato modernamente definito un «mestierante» della letteratura (Flamini); ma più in là, fino a chiamarlo un «avventuriero … in regola, quanto a moralità, con la tradizione dell’amico suo Pietro Aretino» (Toffanin), proprio non mi sentirei di andare : perché insomma, dopo qualche scappatella di gioventù, che non guasta il galantuomo, la sua vita, ritirata e metodica di scrittore stabilmente impiegato al servizio dei lettori non è comparabile, in quanto a moralità (né in quanto a ingegno), colla magnifica sfrontatezza del suo estroso e fastoso amico. La maturità del Sansovino, da quando nel 1553 prese moglie a Venezia a quando vi morì nel 1583, si compendia in un trentennio di ininterrotto lavoro letterario, diviso fra la 36


stamperia e il tavolino. Potrà qualcuno chiamarlo plagiario (era un editore) e vanitoso (era un letterato); e rimproverargli quelle prosternate dediche con cui mandava ogni suo libro a qualche personaggio altolocato, ad accattar favori e sussidi in cambio di adulazioni (ma quante dediche, anche oggi, si salvano da questo sospetto?). Ma tutte queste sue pecche son riscattate da quella sua infaticabile fedeltà alla scrivania, che quasi gli fece perder gli occhi per il troppo scrivere : e che lo rende simpatico e prossimo a noi, servi della stessa catena. Anche lui conosceva da sé qual era il suo male : «dal primo dì ch’io presi la penna in mano per consumar tutta questa mia vita in scrivere …» (prefazione al Segretario); «non ci è ordine ch’io possa metter giù la penna. Son nato per scrivere, ma quello ch’è peggio per male scrivere. Lo conosco e non mi posso astenere …» (lettera del 19 marzo 1566). E, in maniera anche più pittoresca, in un’altra lettera scritta il 6 maggio 1583, pochi mesi prima di morire : «quando io sono a Venezia desidero la villa per saziarmi di scrivere, quando poi sono alla villa desidero di essere a Venezia per non rovinarmi affatto, perché come ho mangiato non so che fare, e così mi rovino oltremodo, che stando a Venezia 37


qualche altra cosa mi torria da questo disordine»; dove è benissimo detta questa specie di ossessione dei letterati, che per riposarsi dallo scrivere non sanno trovare altra distrazione che quella di rimettersi a scrivere un po’ più in là : penso al mio amico Russo, che quando in città lo vince la nausea dei libri e della carta scritta, si mette a sognare il conforto estivo del mare apuano, e la bella vacanza che là finalmente potrà concedersi (chiudersi a suo agio, con molta carta da scrivere e molti libri, in una stanza di dove il mare non si vede). Del Sansovino, in conclusione, nessuno potrà dire che sia stato un grand’uomo; ma che sia stato un brav’uomo, questo mi par sicuro. Tra le altre cose, fu un buon padre di famiglia : il che anche per un letterato non è indispensabile, ma non è vietato. Dei cento volumi che egli scrisse, tutto si può dimenticare, meno che il primo verso di un sonetto che gli uscì dal cuore, quando, nel 1568, gli morì la figlia undicenne Fiorenza : Tu che or apri su in ciel quegli occhi vivi che mi dieron qui in terra alta dolcezza  … Gli abusati modi petrarcheschi tornano qui toccanti e nuovi, quando li anima il pianto 38


vero di un babbo che ha perduto la sua creatura. Letto una volta, questo esordio di sonetto non si scorda più : e aver scritto almeno un verso che rimanga a sospirar nella memoria, non è da tutti i poeti. II. Fra tanta congerie di inerte erudizione accattata, una certa vena viva, un che di immediato e di personale affiora in queste due operette, L’Avvo­cato e Il Segretario, che si ripubblicano qui dopo tre secoli (la prima edizione dell’Avvocato è del 1554, e del 1565 quella del Segretario : nuove edizioni e ristampe si ebbero fino ai primi decenni del ’600): par di sentire in esse, e specialmente nella prima, più che l’interesse meramente editoriale del mestierante generico indifferente al tema, un certo calore di affezione e di emozione prodotto dall’esperienza, e accompagnato, chissà, da qualche screziatura di rimpianto. Conosciamo un’altra operetta del Sansovino che dà, anche in grado maggiore di queste due, la stessa sensazione di cosa vissuta : il Ragionamento d’Amore, in cui fermentano nel ricordo le esperienze non proprio letterarie fatte dal buon Francesco quando a Padova 39


INDICE

Amicizie straordinarie di Paolo Carta

7

Piero Calamandrei

“L’Avvocato” e “Il Segretario” di Francesco Sansovino

25

Francesco Sansovino

L’avvocato Libro primo Libro secondo

69 103

Il Segretario Libro primo

125

Appendice 187 Postfazione di Silvia Calamandrei

191

Nota archivistica di Francesca Cenni

201


Piero Calamandrei “L’Avvocato” e “Il Segretario” di Francesco Sansovino Progetto grafico : Alessandro Corubolo Impaginazione : Elsa Zaupa Correzione delle bozze : Giovanni Stefano Messuri Carattere : Collis di Christoph Noordzij Carta : Lux Cream avorio - Stora Enso Stampa : Paolo Galvani - Stamperia srl, Lazise Legatura : Legatoria Gandini, Stallavena Tiratura : 1000 copie

La Ronzani Editore oggi : Giuseppe Cantele, Paolo Carta, Alessandro Corubolo, Alberto Cotrona, Maria De Muri, Giuseppe La Scala, Francesco Maino, Romina Manzardo, Giovanni Stefano Messuri, Claudio Pozza, Claudio Giulio Rizzato, Giovanni Turria, Matteo Vercesi, Franco Zabagli, Elsa Zaupa.


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