L'Officiel Hommes Italia N°25 - Novembre 2020

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FALL 2020

N° 25 - 5 NOVEMBRE 2020

JARED LETO The Power of Freedom

Data di prima emissione in edicola: Novembre 2020

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N° 25 - 5 NOVEMBRE 2020

MODERN

JARED LETO ÉDGAR RAMÍREZ ADRIANO GIANNINI GIUSEPPE MAGGIO ARTHUR CHEN VIGGO MORTENSEN

RAFFERTY LAW VALENTINO

Data di prima emissione in edicola: Novembre 2020

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N° 25 - 5 NOVEMBRE 2020

MODERN

JARED LETO ÉDGAR RAMÍREZ ADRIANO GIANNINI RAFFERTY LAW ARTHUR CHEN VIGGO MORTENSEN

GIUSEPPE MAGGIO JOHN RICHMOND

Data di prima emissione in edicola: Novembre 2020

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N° 25 - 5 NOVEMBRE 2020

MODERN

JARED LETO ÉDGAR RAMÍREZ ADRIANO GIANNINI RAFFERTY LAW GIUSEPPE MAGGIO ARTHUR CHEN

VIGGO MORTENSEN RAF SIMONS & TAGLIATORE

Data di prima emissione in edicola: Novembre 2020

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N° 25 - 5 NOVEMBRE 2020

MODERN

JARED LETO ADRIANO GIANNINI RAFFERTY LAW GIUSEPPE MAGGIO ARTHUR CHEN VIGGO MORTENSEN

ÉDGAR RAMÍREZ ERMENEGILDO ZEGNA XXX & OLIVER PEOPLES

Data di prima emissione in edicola: Novembre 2020

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N° 25 - 5 NOVEMBRE 2020

MODERN

JARED LETO ÉDGAR RAMÍREZ RAFFERTY LAW GIUSEPPE MAGGIO ARTHUR CHEN VIGGO MORTENSEN

ADRIANO GIANNINI L.B.M. 1911

Data di prima emissione in edicola: Novembre 2020

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N° 25 - 5 NOVEMBRE 2020

MODERN JARED LETO ÉDGAR RAMÍREZ ADRIANO GIANNINI RAFFERTY LAW GIUSEPPE MAGGIO VIGGO MORTENSEN

ARTHUR CHEN DIOR & DESCENTE

Data di prima emissione in edicola: Novembre 2020

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«La bellezza non dipende dai vestiti che si indossano né dall’aspetto che si possiede. La bellezza si deve percepire dagli occhi... Perché sono la porta del cuore». Questa frase di Audrey Hepburn, che è stata lo starting point dell’ultimo fashion issue de L’Officiel Italia, è diventata anche il fil rouge di questo numero del L’Officiel Hommes Italia. Un racconto costruito intorno all’esplorazione di una Modern beauty al maschile. Con un cast di protagonisti poliedrici, chiamati a diventare tessere di un mosaico globale e senza confini. Uomini differenti nel loro essere unici, arruolati per interpretare i trend delle passerelle, le ultime di un fashion system profondamente cambiato dopo la pandemia che ha colpito il mondo. Talents planetari come Édgar Ramírez e icone italiane come Adriano Giannini. Raising stars della musica e del cinema, come Irama, Rafferty Law, Aiello, Woodkid, Giuseppe Maggio o Arthur Chen. Supermodels come Alton Mason, Alessio Pozzi o Reece Nelson. A completare il racconto due album speciali, scelti per stimolare un dialogo globale. Da un lato una conversazione estetica tra sei young talent della fotografia, chiamati a dipingere, con i loro scatti, il menswear contemporaneo. Dall’altro un vademecum per interpretare le regole di un dress-code di nuova generazione, scandito da dieci hot names della moda. E poi il secondo capitolo nella creazione di un linguaggio estetico comune a tutte le edizioni di questo magazine, nato a Parigi cento anni fa e pronto a una nuova era. A interpretare il verbo global de L’Officiel hommes è Jared Leto, talento poliedrico e irriverente, personalità composita e articolata, esteta senza regole. Con lui Viggo Mortensen, Samuel Fasse in dialogo con Michel Gaubert, Karl Fournier e Olivier Marty di Studio KO ma anche il duo Gilbert & George impegnato in una conversazione senza schemi con Jonathan Anderson. E proprio da loro arriva l’insegnamento su cui riflettere per scrivere il futuro: «Non siamo mai stati dei provocatori... Semplicemente vogliamo riuscire a provocare un pensiero». Quello che questo magazine e le sue storie hanno fatto, stanno facendo e continueranno a fare. Giampietro Baudo

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N° 2 5 — F A L L | W I N T E R 2 0 2 0

16 EDITOR’S NOTE

COVER

THINGS WE L(‘O)VE 27 LET’S PLAY

foto di Francesco Finizio styling di Fabrizio Finizza

32 AUTOMOTIVE ÜBERLUXURY di Michele Bagi

34 THE ULTIMATE WONDER BOY 1

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42 POP, STREET... SOUTH

di Silvia Frau foto di Carla Di Verniere styling di Matteo Greco

44 ALLESTIRE L’IMMAGINARIO di Silvia Frau

46 THERE’S NO LIMITS

di Silvia Frau foto di Mathis Dumas

48 SCENTS FOR FALL 8

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di Simone Vertua foto di Valentin Hennequin styling di Simone Rutigliano

ICONS 56 ÉDGAR RAMÍREZ 11

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foto di Jacques Burga testo di Fabia Di Drusco styling di Dani Michelle

64 ADRIANO GIANNINI

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01_JARED LETO indossa XKARLA 02_ÉDGAR RAMÍREZ indossa ERMENEGILDO ZEGNA XXX & OLIVER PEOPLES 03_ADRIANO GIANNINI indossa L.B.M. 1911 04_RAFFERTY LAW indossa VALENTINO 05_GIUSEPPE MAGGIO indossa JOHN RICHMOND 06_ELHADJI MAR, DIOGO, FEDERICO SPINAS E SAEED OULALI indossano ERMENEGILDO ZEGNA XXX e GIORGIO ARMANI 07_MATTEO FERRI indossa GUCCI 08_ALTON MASON indossa TOM FORD 09_KAISSAN IBRAHIMA, NAZIM BOUAZIZ, TRISTAN LE FUSTEC E JONATHAN TIDIKA indossano CELINE BY HEDI SLIMANE 10_ARTHUR CHEN indossa DIOR e DESCENTE 11_ALESSIO POZZI indossa PRADA 12_REECE NELSON indossa VERSACE 13_THOMAS HILAIRE indossa GIORGIO ARMANI 14_VIGGO MORTENSEN indossa RAF SIMONS e TAGLIATORE

154 NOW DRESS CODE

di Giorgia Cantarini e Simone Vertua illustrazioni di Didier Falzone

162 HELP ME!

di Cristina Manfredi foto di Collier Schorr

166 RILEGGERE IL PASSATO

di Alice Teso foto di Davide Monteleone

170 HOME OFFICE

foto di Alecio Ferrari styling di Alessandra Faja

178 L'ARTE (E LA VITA) IN LOOP di Fabia Di Drusco di Caroline Corbetta Illustrazione Ruben Baghdasaryan

50 MESSAGE IN A BOTTLE

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128 A GLOBAL CONVERSATION ABOUT MENSWEAR

EXTRA

di Fabia Di Drusco

7

foto di Rémi Pujol, styling di Gaultier Desandre Navarre

38 SE L’ELEGANZA È UNDERSTATEMENT 40 IL TEMPO DEL ROMANTICISMO

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118 PARIS GANG

36 UNA VOCE TRA GLI USA E LA CINA di Silvia Frau

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foto di Marco Ovando styling di Marc Sifuentes art direction Gabriel Rey

foto di Héctor Tre, Fernando Sippel, Iñigo Awewave, Federick McHenry, Izack Morales, Hengyi Liang

di Fabia Di Drusco di Nicolette Salmi

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108 THE RISE OF ALTON MASON ZAK E. & JOÃO KNORR

foto di Julian Hargreaves testo e styling di Giorgia Cantarini

72 RAFFERTY LAW

foto di Alan Gelati testo di Cristina Manfredi styling di Chloe Beeney

80 GIUSEPPE MAGGIO

foto di Davide Carlà testo di Simone Vertua styling & art direction di Marco de Lucia

MODA 88 THE SEASON

foto di Carlos Teixeira styling di Pablo Patané

98 FRONTE DEL PORTO

foto di Lorenzo Marcucci styling di Giulio Martinelli

GLOBAL 186 JARED LETO’S WORST KEPT SECRETS

foto di Cameron McCool testo di Joshua Glass e Finneas O’Connel styling di Karla Welch

194 VISIONE DOPPIA

testo di Pamela Golbin

200 POWER OFF

testo di Joshua Glass foto di Richie Talboy, Filip Koludrovic, Ricardo Gomes, Guillaume Malheiro

234 A RARE GAZE

foto di Quentin De Briey testo di Baptiste Piégay styling di Simonez Wolf

240 AURA SEEKERS

di Nathalie Nort

248 WORLD WIDE WUNDERKIND

foto di François Quillacq testo di Justin Polera styling di Margaux Dague

254 BODY OF EVIDENCE

foto di Jennifer Livingston

264 LO STILE DEI SEVENTIES testo di Sophie Shaw

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la nuova intensità 22/10/20 16:35


N°   2 5 — F A L L | W I NT E R IS S UE 2 0 2 0

D IRE TTORE RE S P ON S ABILE G i a m pi et r o Ba udo M ANAGI N G FAS H ION E D ITOR G i ul i o M a r t i nel l i

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M AN AG IN G FE ATU RE E D ITOR Fa bi a D i D r us c o

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S ALE S & M ARK E TIN G H E AD OF S ALE S Ca r l ot t a Tom a s oni c .t om a s oni @j a l oum edi a gr oup.c o m

EDITORIAL DEPARTM ENT Silvia Fr au_Edit or ial M ana ger Cr ist ina M anf r edi_Fashion Con s ul t a nt August o Bassi_Wat ches E di t or Car oline Cor bet t a_Ar t Consul t a nt

S ALE S M AN AG E R Ol i v i a P i nt o o.pi nt o@j a l oum edi a gr oup.c om S ALE S M ARK E TIN G E X E CU TIVE Fr a nc a N unz i a l e f .nunz i a l e@j a l oum edi a gr oup.c o m

ART & GRAPHIC DEPARTM E N T Giulia Gilebbi_Gr aphic Des i gner Luca Ballir ò_Gr aphic Consul t a nt DIGITAL DEPARTM ENT Simone Ver t ua_Digit al Edi t or Gior gia Cant ar ini_Digit al E di t or Alice Teso_Junior Digit al Edi t or Clair e-M ar ie Ayr oles_Junior Dig i t a l E di t or

E D ITORIAL D IRE CTION M a r i e-J os é J a l ou

EDITORIAL OFFICE M ar gher it a M eda - of f ice@lof f iciel i t a l i a .c om

IN TE RN ATION AL D IRE CTION Benj a m i n E y m èr e, M a r i a Cec i l i a An d re tta

PHOTO & IM AGE CONTRIBUTORS Iñ i go Aw ew ave, Ruben Baghdasar yan, Quent i n D e Br i ey , J a c ques B u rga, Davide Car là, Car la Di Ver nier e, M at his D um a s , D i di er Fa l z one, A l ecio Fer r ar i, Fr ancesco Finiz io, Alan Gel a t i , Ri c a r do G om es , Julian Har gr eaves, Valent in Hennequin, Fili p K ol udr ov i c , H engy i Li ang, Jennif er Livingst on, Guillaume M alhe i r o, Lor enz o M a r c uc c i , C amer on M cCool, Feder ick M cHenr y, Davide M ont el eone, Iz a c k Mo ral es, M ar co Ovando, Rémi Pujol, Fr ançois Qui l l a c q, Col l i er S c hor r , Fer nando Sippel, Richie Talboy, Car los Tei x ei r a , H éc t or Tr e.

IN TE RN ATION AL

FASHION CONTRIBUTORS C h l oe Beeney, Celine Bour r eau, Kika Car ascos s a , Ra pha ël de Ca s t r o, Margaux Dague, M ar co de Lucia, Javier De Pa r do, G a ul t i er D es a ndr e N avar r e, Luca Falcioni, Elliot t Foot e, Daniel G a i nes , M a t t eo G r ec o, Mari ana Guer r er o Dingle, Dani M ichelle, Pabl o P a t a né, G a br i el Rey , S i mo ne Rut igliano, M ar c Sif uent es, Fr ancisc o U ga r t e, Cha r l i e W a r d, Kar la Welch, Simonez Wo l f . TEXT CONTRIBUTORS M ichele Bagi, Joshua Glass, Pamela Golbi n, N a t ha l i e N or t , Finneas O’Connel, Bapt ist e Piégay, J us t i n P ol er a , Nicolet t e Salmi, Sophie S ha w

G LO B A L H E A D O F D I G I TA L P R O D U C T G iu s e p p e d e M a r t i n o N o r a nte G LO B A L D I G I TA L P R O J E C T M A N A G E R B a b i l a C re m a s c o l i G LO B A L D I G I TA L A D O P S A N D M E D I A P L A N N I N G Ilaria Previtali G LOBAL E D ITORIAL CON TE N T AN D A R C H I VES Giulia Bettinelli ACCOU N TIN G & FIN AN CE Ros a nna P ez z oni r .pez z oni @l of f i c i el .c om a m m i ni s t r a z i one@l of f i c i el i t a l i a .c o m + 390236685173

S U BS CRIP TION S a bbona m ent i @j a l oum edi a gr oup. c o m PRINT PRODUCTION & PAP E R Rot o3 Indust r ia Gr af ica S.r .l . Via Tur bigo 11/B | 20022 Cast ano Pr im o (M i l a no), It a l i a

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N°   2 5 — F A L L | W I NT E R IS S UE 2 0 2 0

L’O F F I C I E L

L’O F F I C I E L G LO B A L E D I TO R I A L T E A M

G LO B A L C O - C H A I R M E N M a r i e - J o s é S u s sk i n d - J a l o u , M a x i m e J a l o u

C O N S U LT I N G G LO B A L C H I E F C R E AT I V E O F F I C E R S tef a n o To n c hi

G LO B A L C H I E F E X E C U T I V E O F F I C E R , D I R E C TO R O F E X E C U T I V E A N D A D M I N I S T R AT I V E B O A R D S B e nj a m i n E y m è re

G LO B A L E X E C U T I V E D I R E C TO R G i a m p i et ro B au d o G LO B A L A R T I S T I C A N D C A S T I N G D I R E C TO R J e n ni fe r E y m è re

G LO B A L D E P U T Y C H I E F E X E C U T I V E O F F I C E R , MEMBER OF E XECUTIVE A N D A D M I N I S T R AT I V E B O A R D S M a r i a C e c i l i a A n d ret t a

G LO B A L C O N T R I B U T I N G C R E AT I V E D I R E C TO R Trey L a i rd G LO B A L E D I TO R I A L T E A M L au re A m b ro i s e | M o d e, D e l p hi n e Va ll o i re | M a g a zi n e

C O N S U LT I N G G LO B A L C H I E F C R E AT I V E O F F I C E R S tef a n o To n c hi

G LO B A L C A S T I N G , P R O D U C T I O N & B O O K I N G J o s hu a G l a s g ow

G LO B A L C H I E F R E V E N U E O F F I C E R A nt h o ny C e n n a m e

G LO B A L D I G I TA L E D I TO R I A L D I R E C TO R J o s hu a G l a s s

G LO B A L A R T I S T I C A N D C A S T I N G D I R E C TO R J e n ni fe r E y m è re G LO B A L E D I TO R I A L C O M M I T T E E G i a m p i et ro B au d o, J e n ni fe r E y m è re, S tef a n o To n c hi

G LO B A L H E A D O F C O N T E N T P R O J E C T S A N D FA S H I O N I N I T I AT I V E S C a ro l i n e G ro s s o C O N S U LT I N G E X E C U T I V E M A N A G I N G E D I TO R Regan Solmo

E X E C U T I V E A S S I S TA N T S C é l i n e D o nke r Va n H e e l c .d o nke r v a n h e e l @ e d i t i o n sj a l o u .c o m

G LO B A L G R A P H I C T E A M G iu l i a G i l e b b i , L u c a B a l l i rò G LO B A L C O N T R I B U T I N G D E S I G N D I R E C TO R Micheal Riso

G iu li a B et t i n e lli g . b et t i n e ll i @ l of f i c i e l i t a l i a .c o m

G LO B A L M A N A G I N G T E A M S a b r i n a A b b a s , S a r a A l i , J e a n n e P ro p e c k

I N T E R N AT I O N A L

F I N A N C E A N D A D M I N I S T R AT I O N

I N T E R N AT I O N A L A N D M A R K E T I N G

CHIEF DISTRIBUTION J e a n - Fr a n ç o i s C h a r l i e r j f.c h a r l i e r @ j a l o u m e d i a g ro u p .c o m I N T E R N AT I O N A L P R O D U C T I O N M A N A G E R J o s hu a G l a s g ow j .g l a s g ow @ j a l o u m e d i a g ro u p .c o m

CFO T hi e r r y L e roy F a x + 3 3 ( 0 ) 1 5 3 01 10 4 0 t . l e roy @ j a l o u m e d i a g ro u p .c o m G E N E R A L S E C R E TA R Y Fré d é r i c L e s i o u rd f. l e s i o u rd @ j a l o u m e d i a g ro u p .c o m HR MA N AGER

D I R E C TO R I N T E R N AT I O N A L L I C E N S E S , B U S I N E S S D E V E LO P M E N T & B R A N D M A R K E T I N G F l av i a B e n d a f. b e n d a @ l of f i c i e l .c o m G LO B A L H E A D O F D I G I TA L P R O D U C T G iu s e p p e d e M a r t i n o N o r a nte g .d e m a r t i n o @ l of f i c i e l .c o m G LO B A L D I G I TA L P R O J E C T M A N A G E R B a b i l a C re m a s c o l i b .c re m a s c o l i @ l of f i c i e l .c o m G LO B A L M E D I A & M A R K E T I N G S T R AT E G I S T L o u i s d u S a r te l G LOBAL E D ITORIAL CONT EN T A N D A R C H I VES Giulia Bettinelli g.bet t i nel l i @l of f ic i e l i ta l i a . c o m

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G LO B A L C H I E F R E V E N U E O F F I C E R A nt h o ny C e n n a m e CHIEF RE VENUE OFFICER FR A NCE A ND SWIT ZERL A ND J e a n - P hi l i p p e A m o s M E D I A D I R E C TO R I TA L I A N M A R K E T C a r l ot t a To m a s o ni c .to m a s o ni @ l of f i c i e l .c o m G LO B A L D I G I TA L A D O P S AND MEDIA PL ANNING I l a r i a P rev i t a l i i . p rev i t a l i @ l of f i c i e l .c o m

FOUNDERS G E O R G E S , L AU R E N T et U L LY J A LO U (†) P U B L I S H E D BY L E S E D I T I O N S J A LO U S A R L au c a p i t a l d e 6 0 6 . 0 0 0 e u ro s S i ret 3 31 5 3 2 17 6 0 0 0 8 7 C C P N ° 1 8 24 6 2 J P a r i s H e a d of f i c e :12 8 Q u a i d e J e m m a p e s , 7 5 010 P a r i s

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LET’S PLAY! Foto Francesco Finizio Styling Fabrizio Finizza

Una funny tribe gioiosa e dallo spirito streetwear. Veste colori sgargianti, print infantili, nel segno del melting-pop

dall’alto, in senso orario

COLMAR_Giubbotto color block. Camicia in seta e pantaloni stampa Canyon, Palm Angels. T-shirt a righe, Marni. Combat boots, Onitsuka Tiger. Cappello in lana double-face, Flapper. PALM ANGELS_Camicia in seta. T-shirt a righe, Marni. Cappello, Flapper. DSQUARED2_Montgomery rosso con dettagli in corda. Felpa in cotone, Polo Ralph Lauren. Cappello con stampa animalier, Lazy Oaf. Occhiali, Prada.

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sopra, in senso orario

LAZY OAF_Giubbotto-cardigan a scacchi bicolor. Camicia in cotone a righe, Marni. T-shirt in cotone, Obey. Pantaloni in pile con inserti tecnici, 2 Moncler 1952. Combat boots, Onitsuka Tiger. Occhiali e bag monogrammata rigida, Fendi. Cappuccio in nylon, Moncler. Borsa monogram con stampa “Fake�, Gucci. K-WAY_Giubbotto in nylon. Cardigan in lana mohair con motivo a rombi, Gucci. T-shirt tie-dye, Obey. T-shirt maniche lunghe a righe, Marni. Pantaloni slim e fascia da smoking con ruches, Louis Vuitton. Cappello con stampa animalier, Lazy Oaf.

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MSGM_Giubbotto-camicia in cotone stampata. Felpa in pile con zip, Lazy Oaf. T-shirt tie-dye, Polo Ralph Lauren. Joggers, Fila. Calzini in cotone, Falke. Combat boots, Onitsuka Tiger. Cappello con stampa animalier, Lazy Oaf. In tutto il servizio: collana di perle, stylist’s own. Models: Alpha Ndoye @ IMG Models, Federico Spinas @ Elite Milano, Ewan Preston @ Independent, Marco Bellotti @ Next, Jhonata Meneghini @ Elite Milano. Casting director: Laura Stella Motta. Assistente stylist: Lucia Fiore.

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sopra, in senso orario

FAY_Giubbotto con dettaglio collo in shearling. Maglione in lana, Palm Angels. Gonna plissè: Marco De Vincenzo. Denim pants, Gucci. Cappello con stampa animalier, Lazy Oaf. PARAJUMPERS_Bomber in nylon. Maglione in lana, Gucci. Camicia in anella, Aspesi. T-shirt in cotone a righe, Bikkembergs. Pantaloni in cotone, Marni. Calzini in cotone, Obey. Combat boots, MSGM.

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da sinistra

EMPORIO ARMANI_Giubbotto in tessuto chevron. Camicia con stampa “In the Dog House”, Lazy Oaf. Felpa tie-dye, Obey. Joggers gessati, Bikkembergs. Cappello, Flapper. EMPORIO ARMANI_Cappotto double-match. Camicia in seta e maglione girocollo, MSGM. Pantaloni multicolor, Lazy Oaf. Combat boots, Onitsuka Tiger. Cappello con stampa animalier, Lazy Oaf. Grooming, Martina Sciortino @ MKS Milano using skincare Dermalogica Italia e Kérastase.

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AUTOMOTIVE ÜBERLUXURY Testo Michele Bagi

Automobili Lamborghini si allea con lo stilista Yohji Yamamoto per immaginare un modello unico, e artistico, della Aventador S. Unendo craftmanship italiana e concettualismo nipponico. Tra motori e capsule collection

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a nuova frontiera della co-lab griffate? Le automobili deluxe, reinterpretate e rilette da occhi fuori dagli schemi, che normalmente appaiono distanti anni luce dal mondo dei motori. Ultimo della lista il giapponese Yohji Yamamoto, maestro del concettualismo minimale, chiamato da Automobili Lamborghini per un progetto decisamente speciale e unico nel suo genere. Le parole del creativo nipponico sono state

chiare fin dal battesimo di questa unione: «Voglio creare un auto che sia un pezzo d’arte». Ed ecco quindi la nascita di un gemellaggio articolato su più fronti, studiato per celebrare lʼopening a Tokyo della lounge Automobili Lamborghini, la seconda al mondo dopo quella di New York. Costruita per ospitare al suo interno anche uno studio permanente dedicato alla personalizzazione delle vetture della casa automobilistica italiana; la lounge è

un viaggio immersivo nel mondo Lamborghini, tra exhibition e art shows. E il primo è proprio quello studiato a quattro mani con Yamamoto che, oltre ad aver creato una capsule collection di tre capi (un bomber, un hoodie e un coat) ha ripensato, insieme a Lamborghini Centro Stile, un modello unico della Aventador S, trasformandola in un pezzo dʼarte. Un po’ come è stata la collaborazione tra Porsche e lʼartista Daniel Arsham, bal-


zato agli onori delle cronache fashion dopo la collaborazione con Kim Jones per l’uomo di Dior. Il creativo americano ha prima re-immaginato l’iconico modello Porsche 911 per poi trasformarlo in scultura seguendo il suo stile inconfondibile, legato alla lettura della materia grezza (battezzata ERODED 911 TURBO, l’opera è stata realizzata in soli 500 esemplari). Ma a far capire che il mondo dell’automotive stava diventando sempre

più cool era stato Virgil Abloh, chiamato da Mercedes-Benz per un iniziativa speciale. Lo stilista, anima di Off-White e mente creativa dell’uomo di Louis Vuitton, aveva infatti creato Geländewagen, progetto concettuale di car design con cui ha rivisitato lʼestetica della Mercedes Benz Classe G, trasformandola in un mezzo di trasporto di lusso. In realtà il fashion system, fin dalla notte dei tempi, è sempre stato affascinato dalle quattro ruo-

te. Basti pensare che i primi esperimenti di questo gemellaggio risalgono agli anni ʼ70 grazie a visionari come André Courrèges e Pierre Cardin. Poi ci sono stati i progetti di Citroën (con Dolce & Gabbana o Lacoste), di Renault (Moschino), di Fiat (Gucci, Giorgio Armani o Trussardi) e di Maserati (Ermenegildo Zegna), solo per citarne alcuni. Quindi parafrasando un vecchio adagio: moda e motori, tanta gioia e, decisamente, pochi dolori.



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THE ULTIMATE WONDER BOY Testo Fabia Di Drusco

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resciuto a Glasgow, Charles Jeffrey arriva diciottenne a Londra per studiare moda alla Central Saint Martins, deciso a creare un suo marchio indipendente come John Galliano e Alexander McQueen. Affascinato dalla club culture dell’East End, Charles lancia il brand Loverboy parallelamente a una serata mensile al Vogue Fabrics di Dalston, che diventa da subito punto d’incontro di una crowd creativa tra cui Charles sceglierà il suo team, i suoi collaboratori, le sue muse in un continuo interscambio con artisti, performers, poeti, protagonisti della scena queer. Protegé di Lulu Kennedy, che lo fa debuttare sulle passerelle della Fashion East Man S/S 16, Charles è da subito salutato come il designer del momento. Grazie a uno stile che è un esuberante clash di referenze, assorbite nei club come dalla frequentazione della Wallace Collection o del London Museum; dal punk ai teddy boys, da Adam Ant a Leigh Bowery, dalla generazione Bright Young Thing ‒ descritta da Evelyn Waugh e fotografata da Cecil Beaton ‒ a riferimenti elisabettiani via Vivienne Westwood. I suoi show sono altrettanto spettacolari, grazie alla complicità del coreografo, regista e direttore teatrale Theo Adams, richiesto da FKA Twigs come da Louis Vuitton, e alla collaborazione di una rete di creativi legati alla Saint Martins. Fashion editor per Love magazine, illustratore tradizionale e digitale, Charles ha ampliato la sua narrativa dalla prima fase ispirata a Peter Pan e i lost boys alle campagne con Tim Walker, al rituale sacrificale moderno ispirato alle cerimonie pagane delle Orcadi della F/W 20 fino a una performance (“Solasta”, “illuminazione” in gaelico) di creativi di colore vestiti con i suoi abiti per presentare la F/W 21. A luglio ha lanciato la piattaforma loverboy.net, per la vendita online di riedizioni limitate dell’archivio, pezzi creati in esclusiva e i suoi lavori artistici.

Con il suo stile esplosivo Charles Jeffrey, aka Loverboy, ha reinventato il tartan e creato una community a partire da una club night nell’East End di Londra

L’Officiel Hommes Italia: Quali sono stati i momenti fondamentali della tua carriera? Charles Jeffrey: John Galliano che mi consegna il premio di talento emergente ai Fashion Awards 2017: se ci penso mi sembra ancora di sognare! Lo show che rappresenta meglio chi siamo ‒ e chi sono ‒ è il Tantrum show F/W 18, incentrato sul controllo del chaos. Al di fuori della moda, la mia personale di scultura alla Now Gallery. LOHI: Perché sei diventato stilista e cosa continua a interessarti nella moda? CJ: Il mio amore per la moda è nato osservando le band e i clubs londinesi e tutti i gruppi sociali e i vari stili che ne derivano. Una sensibilità che ha influenzato tantissimo la prima fase del marchio, anche se oggi siamo in una dimensione differente. A mantenere vivo il mio interesse è l’aspetto di problem solving connesso all’essere un designer: quando in studio riusciamo a risolvere una sfida creativa è elettrizzante. LOHI: Quali figure ti hanno influenzato maggiormente e hanno contribuito a formare il tuo stile e il tuo marchio? CJ: The Horrors, ho visto un’immagine e ne ho voluto replicare istantaneamente l’estetica. Quando Faris (Badwan, il frontman, nda) ha sfilato al Tantrum show mi è sembrato di sognare. LOHI: Come spieghi il tuo amore per il makeup e la cultura disco? CJ: Ho incontrato quasi tutti i miei collaboratori creativi sulla pista. La club culture crea uno spazio protetto e permette alla gente di esprimere la parte migliore di sé. Lo stesso vale per il makeup, sono entrambi mezzi per raccontare al mondo la tua storia, al tempo stesso proteggendoti. LOHI: Cosa hai imparato dal tuo stage nell’atelier couture di Dior? CJ: Che non sono bravo a cucire. Così ho reclutato da subito un’incredibile pattern cutter e studio manager, Naomi, senza la quale sarei totalmente perso.

LOHI: Come definiresti il tuo stile? E quello di Loverboy? CJ: Senza compromessi. E dotato di sense of humour. LOHI: I designers che ammiri di più? CJ: Rei, Raf e Kim. LOHI: Perché il tartan è così importante per te? CJ: Sono cresciuto pensando che fosse volgare e di pessimo gusto. Ma con gli anni ho appreso così tante cose sulla sua storia che è diventato il cuore del nostro processo creativo. È un tessuto estremamente democratico con una capacità straordinaria di raccontare storie. LOHI: Come descriveresti il fashion system inglese contemporaneo? E te ne senti supportato? CJ: Il British Fashion Council è sempre stato fantasticamente supportivo nei miei confronti. Detto questo il sistema nel senso più ampio del termine è opaco e noioso, non funziona perché non permette alle persone di essere veramente se stesse. Anche Matches mi ha sostenuto fin dall’inizio, non solo oggi con l’Innovators Programme: fanno parte della mia famiglia, mi hanno dato moltissimo spazio sulle loro piattaforme. LOHI: Ti sei impegnato nella raccolta fondi per Miles for Refugees, per UK Black Pride... ti consideri un attivista? CJ: Credo che la parola oggi venga usata a sproposito e vada invece riservata a chi cambia sul serio le cose ad alto livello. Ma penso che fare la propria piccola parte, ed essere gentile, sia comunque necessario. Essere uno stupido arrogante che si permette di essere orribile nei confronti di qualcuno è davvero pensabile nel 2020? LOHI: Come definiresti il menswear attuale? E come lo vedi nel futuro? CJ: Credo che oggi necessiti di una bella scossa: mi sto annoiando da morire. Il menswear del futuro? Spero sia stravagante, magnifico e trasmetta felicità.

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UNA VOCE TRA GLI USA E LA CINA Testo Nicolette Salmi

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Focus sul fenomeno Jiani Liu, giovane autrice cinese che, con il suo primo romanzo “Across the Sea” vuole raccontare un volto nuovo, e sconosciuto, del colosso asiatico

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opo decenni di lavoro diplomatico, le relazioni tra gli Stati Uniti e la Cina si stanno sgretolando, inaugurando una nuova era piena di intolleranza, pregiudizi e capri espiatori. La giovane giornalista Jiani Liu, unʼattivista determinata a cambiare il mondo, affronta questa mancanza di empatia tra i due Paesi nel suo primo libro, “Across The Sea”, edito da Amazon, che in America è diventato un vero e proprio fenomeno. Ma come ha fatto questa giovane imprenditrice, intrappolata tra il suo lavoro e la sua organizzazione no profit Millennials of US-China, a iniziare a scrivere articoli su argomenti così diversi? Topics come il concetto di mamma tigre (che indica una educazione severa), lʼIvy League o il ruolo dei millennials e della Gen Z nella ricostruzione del rapporto tra Oriente e Oc-

cidente. In realtà tutto è iniziato durante i suoi anni di studio alla Brown University, a Providence nel Rhode Island, dove ha scritto rubriche e articoli per il “China Business Network” sulla sua esperienza come studentessa cinese presso una università americana. I suoi testi sono diventati rapidamente popolari, tanto da attirare lʼattenzione del caporedattore di CBN News. Questʼultimo, pronto a lasciare la società per creare un nuovo canale di informazione, la sceglie per affidarle una serie di progetti. Tanto che Jiani Liu, alla sua prima fatica letteraria, è uno dei giornalisti più letti in Cina. Incarna la voce di una giovane comunità globalizzata che si è confrontata con le idee obsolete delle generazioni precedenti. Affrontando la cultura, lʼistruzione, il femminismo e la pandemia di Coronavirus con uno sguar-

do differente, afferma che, mentre ci sono differenze notevoli tra gli Stati Uniti e la Cina, ci sono anche grandi somiglianze. A partire dal fatto che entrambi enfatizzano lʼistruzione e aprono percorsi dedicati alle donne per avere successo negli affari. Tuttavia, il profondo razzismo emerso dalla paura che circonda la diffusione del Coronavirus nel mondo ha offuscato queste conversazioni culturali e le ha sostituite con una rivalità tra le due potenze globali. Oggi Jiani Liu ha deciso di concentrarsi sulla sua vita professionale in Cina, a seguito di una lunga serie di leggi sullʼimmigrazione emanate dallʼamministrazione Trump, e in questi mesi ha potuto: «riflettere e prendersi il tempo per imparare, e ricordare, le lezioni più significative di questa sua esperienza di vita a cavallo di due culture».


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SE L’ELEGANZA È UNDERSTATEMENT Testo Silvia Frau

Il nuovo Oyster Perpetual 41, discendente del primo orologio da polso impermeabile, si distingue per una estetica essenziale, che nasconde prestazioni all’avanguardia. Come il calibro 3230, una novità che Rolex ha svelato quest’anno

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on serve pensare di nascondere la muta da sub sotto lo smoking, per mettere alla prova il nuovo Oyster Perpetual 41. Perfetto per le occasioni formali, con linee essenziali ed estremamente eleganti, è discendente diretto del primo Oyster, creato nel 1926 da Hans Wilsdorf ‒ siamo nell’inghilterra edoardiana ‒, e passato alla storia come il primo orologio da polso impermeabile. L’attuale ne mantiene le caratteristiche fondamentali: la precisione cronometrica, l’impermeabilità della cassa fino a 100 metri di profondità, la carica automatica. Un movimento meccanico che oggi vanta una tecnologia orologiera all’avanguardia nel nuovo calibro perpetual 3230, presentato quest’anno da Rolex, che assicura precisione, autonomia, resistenza agli urti e ai campi magnetici, oltre al comfort di utilizzo e all’affidabilità. L’estetica, impeccabile, si presenta con una configurazione atipica: ha quadrante argentato lucido, finitura soleil, 31 rubini, ed è scandito dalle lancette e dagli indici in oro giallo 18 carati. Inoltre, questi, sono rivestiti di una sostanza iridescente che emette una luce blu quando l’orologio si trova al buio.


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PALAZZO NOBILE Sophie Guillon interpreta l’universo delle emozioni in sei firme olfattive. Una collezione di eau de toilette luminose e cristalline.

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IL TEMPO DEL ROMANTICISMO Testo Fabia Di Drusco

Con Midnight Pont des Amoureux, Van Cleef & Arpels lancia la versione maschile di uno dei suoi modelli femminili di maggior successo. Un capolavoro di savoir faire per chi privilegia una visione poetica del tempo

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n orologio poetico, per connoisseurs sensibili e inguaribili romantici. A dieci anni di distanza dal lancio di Lady Arpels Pont des Amoureux, Van Cleef & Arpels ne propone il pendant al maschile. Se lo storytelling rimane identico, una coppia che si avvicina con lo scandire delle ore fino a incontrarsi (e baciarsi) su un ponte parigino, cambiano i dettagli: lo sfondo è più urbano, i personaggi più grandi. Al riparo del suo ombrellino la giovane donna procede in modo progressivo, mentre il suo amato, una rosa nascosta dietro la schiena, percorre la metà del ponte in 60 minuti. A mezzogiorno e a mezzanotte gli innamorati sono così riuniti. Troppo poco nell’arco di un’intera giornata? Un modulo di animazione su richiesta consente, attivando un pulsante, di ripetere la scena del bacio. I dettagli: movimento retrogrado a carica automatica sviluppato in esclusiva per la Maison, cassa in oro bianco di 42 mm di diametro, lunetta in oro bianco, quadrante in smalto grisaglia e oro bianco intagliato. Una tecnica, quella dello smalto grisaglia, sviluppata in Francia nel ’500, che consiste nell’applicare su un fondo scuro una polvere di smalto bianco di Limoges e richiede skills particolari, considerato che occorrono 60 ore di lavoro per la smaltatura e quindici passaggi in forno. La riserva di carica è di 36 ore.


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POP, STREET... SOUTH

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WAYERÖB_Maglione bianco a piccole costine. Gioielli personali di Antonio Aiello.


Testo Silvia Frau Foto Carla Di Verniere Styling Matteo Greco

Dopo i successi di “Arsenico”, disco di platino e “Vienimi (a ballare)”, disco d‘oro, è appena uscito il nuovo singolo di Aiello: “Che canzone siamo”. Una hit dove sono importanti le parole e la musica è una continua contaminazione

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ote contemporanee e cantautorato italiano, una contaminazione di generi musicali e una spiccata vena nostalgica. Antonio Aiello, Aiello per i fans, ha appena presentato il suo ultimo singolo “Che canzone siamo”, seconda anticipazione del nuovo progetto discografico, dopo aver ottenuto il disco d’oro per “Vienimi (a ballare)” – che questa estate ci ha fatto muovere su note street, pop e latine –, e quello di platino per “Arsenico” (insieme a “La mia ultima storia” tratto dal primo album “Ex Voto”). Cosentino di nascita, romano di adozione, è un viaggiatore. Ma per partire in tour ha deciso di aspettare il 2021. L’Officiel Hommes Italia: Mi racconti qual è il tuo mondo? Hai iniziato a studiare musica molto presto... Antonio Aiello: Sono cresciuto a “pane e Barry White” perché mio padre in macchina ci faceva sentire lui, insieme a Battisti, Mina, Carmen Consoli e Whitney Houston. Ho iniziato a studiare pianoforte e violino che ero ragazzino, i tasti neri e bianchi però sono gli unici che non ho mai abbandonato. A 16 anni ho iniziato a scrivere le mie prime canzoni, dall’anima soul, ricordo che al liceo ero in fissa con la scena rhythm and blues, poi crescendo ho iniziato a innamorarmi del cantautorato italiano e della scena elettronica internazionale. LOHI: Quali sono gli artisti che ti hanno formato? AA: Sono particolarmente “devoto” a Battisti, Dalla e Rino Gaetano, ma non posso non ringraziare R. Kelly, Usher e tutta la scena R&B degli anni ’90 e 2000. LOHI: Come definisci la tua musica? AA: In questo preciso istante direi “troppo pop, troppo street e troppo meridionale”. Al di là dei giochi di parole e del secondo disco work in progress, in generale la musica per me è contaminazione. È continua sperimentazione di suoni e linee melodiche, di parole mai scontate ma dirette, autentiche. La mia musica nasce da un bisogno viscerale, da un’urgenza. LOHI: C'è uno stato d’animo trasversale alle tue canzoni? AA: Credo la malinconia, un sentimento

che comunque non mi rattrista mai, ma mi ricarica, mi rigenera, mi lancia come un razzo tra le stelle. LOHI: Quanto conta il testo? AA: Le parole sono fondamentali. Senza un messaggio vero e sincero non esiste magia, non esiste empatia. LOHI: “La mia ultima storia/Non è più disponibile/Dopo ventiquattro ore/È tornata invisibile” (da “La mia Storia”) credi che stiamo vivendo in un mondo effimero? AA: Non amo mai fare generalizzazioni e non mi piace pensare che il mondo sia effimero, forse perché sono un inguaribile romantico, anche quando guardo un mondo che mi ferisce. LOHI: Mi anticipi qualcosa del tuo nuovo lavoro? L’ispirazione, le sonorità... AA: Sto lavorando al mio secondo disco e sono particolarmente orgoglioso dei primi ascolti. Al di là delle storie e dei messaggi senza filtri che condivido anche questa volta, c’è una ricerca nei suoni e una sperimentazione molto appassionata, che va dal pop più cantautorale all’urban, dall’elettronica alla musica popolare, meridionale. LOHI: Quanto sono importanti per te le tue radici? AA: Sono linfa e ispirazione, sono motivo di orgoglio e di ricerca, sono la mia fortuna... LOHI: Oltre alla musica, hai altre passioni? Ti piace viaggiare? AA: La tavola – mi piace mangiare bene e in buona compagnia –, la moda e la fotografia. E poi amo Londra, l’idea di potermi mescolare con colori e sapori diversi, in giro per il mondo. Spero presto di ritornare a viaggiare. LOHI: Parlando di moda, hai uno stile o dei brand di riferimento? AA: Mi piace la sensazione di libertà e espressione che provo tutte le volte che scelgo di vestire in un certo modo. Amo l’idea di coltivare e comunicare la mia visione artistica anche attraverso gli abiti, provando a non restare sempre dentro confini “safe”, sicuri. Ma non saprei definirmi con una categoria musicale, figuriamoci in uno stile...

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Eileen Cowin, Family Docudrama 1980-1983 © Eileen Cowin, courtesy of the artist

Denisse Ariana Pérez, Albinism, Albinism II. © Denisse Ariana Pérez.

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ALLESTIRE L’IMMAGINARIO Testo Silvia Frau

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n un dialogo continuo con il contemporaneo, che si tratti di arti performative o visive, Reggio Emilia si è ritagliata uno spazio indipendente e fecondo. Lo dimostra il successo di Fotografia Europea, il festival interna-

A Reggio Emilia si celebra una edizione “autunnale” di Fotografia Europea, con le immagini visionarie degli anni ’70 e quelle ideali di Carlo Mollino

zionale che riflette sulla complessità del presente, raccogliendo (anche) l’eredità di Luigi Ghirri, il fotografo reggiano il cui archivio è conservato in città. In una inedita edizione autunnale, quest’anno, riprende parte del complesso programma

che sarebbe dovuto andare in scena la scorsa primavera. E lo fa con due mostre: “True fictions — Fotografia visionaria dagli anni ’70”, a Palazzo Magnani e “Atlanti, ritratti e altre storie — 6 giovani fotografi europei” a Palazzo da Mo-


Carlo Mollino Senza Titolo (1956-1962), courtesy Museo Casa Mollino, Torino

Bruce Charlesworth #16 from the series "Fate". Brigitte Schindler, "Perché tu sai che posso guardare", 2019.

sto (entrambe dal 17 ottobre 2020 al 10 gennaio 2021). La prima presenta il lato immaginifico della staged photography, che dagli anni Ottanta ha rivoluzionato il linguaggio della fotografia: «da mezzo destinato principalmente a documentare la realtà, è diventato il mezzo privilegiato per inventare realtà parallele, menzogne credibili, mondi fantastici», come ha spiegato il curatore Walter Guadagnini, che ha selezionato le cento opere di maestri quali Paolo Ventura, David LaChapelle, Bruce Charlesworth e Cindy Sherman, tra gli altri. Con «opere straordinariamente affascinanti, inquietanti e divertenti, che parlano di noi fingendo di parlare d’altro». La seconda è una collettiva e racco-

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Heroes - Bowie by Sukita “Heroes - Bowie by Sukita” è una retrospettiva con cento ritratti e una installazione video-immersiva, che racconta il sodalizio tra David Bowie e il fotografo Masayoshi Sukita. Si conoscono nel '72, grazie all’amica e stylist Yasuko Takahashi, al lavoro nelle sfilate londinesi di Kansai Yamamoto, il designer che disegnò i costumi di scena di Bowie durante il periodo di "Ziggy Stardust". Si incontrano poi, negli anni, per servizi fotografici e scatti privati. "Heroes" si tiene a Palermo, a Palazzo Sant'Elia, via Maqueda 81, dal 10/10 al 31/1 /2021. (In alto David Bowie ©Photo by Sukita 2020).

glie le personali dei tre vincitori dell’open call lanciata da Fotografia Europea 2020, a cui sono stati aggiunti tre progetti selezionati dalla giuria presieduta da Guadagnini, che è anche Direttore artistico del Festival, con l’intenzione di ampliare lo spazio dedicato ai giovani artisti. A questo si aggiungono una serie di attività collaterali, tra cui lezioni, conferenze, talk, workshop (fotografiaeuropea.it). E prende spunto dal tema proposto dal Festival, “Fantasie, narrazioni, regole, invenzioni” anche la mostra ospitata da Collezione Maramotti, sede permanente della collezione d’arte di Max Mara. “Mollino / Insides — Enoc Perez, Brigitte Schindler, Carlo Mollino”, che illustra il complesso

immaginario di quest’ultimo attraverso alcuni scorci della sua ultima dimora di Torino, sede del Museo Casa Mollino, con la cui collaborazione è stata allestita la mostra, trasformata dall’interpretazione pittorica di Perez e dall’occhio fotografico di Schindler, che insieme conducono alle immagini delle modelle degli anni ’50 e ’60, scattate dall’architetto, designer e fotografo. Il corpo femminile è per lui un tema ricorrente, lo si ritrova dai primi ritratti quasi surrealisti fino alle Polaroid degli anni ’70. E diventa quasi una controparte ideale, che il direttore della casa Museo di Mollino, Fulvio Ferrari definisce, poeticamente, come un “esercito di farfalle” (collezionemaramotti.org).


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THERE’S NO LIMITS Testo Silvia Frau Foto Mathis Dumas

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Nato ai piedi del Cervino, alpinista, figlio e nipote di alpinisti, Hervé Barmasse è uno dei grandi eredi degli scalatori del passato. Ha aperto vie nuove e scalato le vette più difficili del mondo, continuando a guardare alla montagna come una maestra, «che ti dà limiti ma ti fa capire anche i tuoi pregi»

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gni episodio, alla voce “alpinismo”, sul sito di Hervé Barmasse, lascia col fiato sospeso. Racconta le sue imprese, dall’ascesa alla “Gran Becca”, la montagna di casa, a luoghi lontani e altrettanto leggendari in Pakistan, Nepal, Tibet e Patagonia. Alpinista professionista, guida alpina, storyteller e conferenziere, è atleta del Global Team The North Face. L’Officiel Hommes Italia: Sei nato sotto il Cervino, da una famiglia di alpinisti, cosa significa per te la montagna? Hervé Barmasse: La montagna è l’elemento che mi rappresenta. È stata una scuola, il mio mentore fin da ragazzino, quando mi lasciavano andare da solo per i boschi dovevo imparare a pensare a me stesso, arrangiarmi, diventare respon-

sabile. Prima di diventare alpinista, e di sceglierla anche per la scalata, mi sono innamorato della montagna da vivere. LOHI: Ti cito: “In montagna non si può mentire, cercare scuse, rimandare decisioni… ” HB: La solitaria non è qualcosa che vivono tutti. Ti trovi di fronte alla montagna, non è come in altre situazioni che puoi cercare degli escamotage: non puoi barare, sei da solo, apri la via e se provi a non rispettare il tuo avversario ‒ che non è un altro uomo, ma è la parete, qualcosa di più grande di te ‒, sei tu che ci rimetti. Impari a essere onesto, sai di essere un ospite, di dover passare in punta di piedi. La natura ti dà i limiti, ma ti fa anche capire i tuoi pregi. LOHI: Ti definiscono uno dei “grandi eredi degli alpinisti del passato”.

HB: Potrebbe essere perché l’alpinismo di un tempo aveva una parte romantica, erano alpinisti attenti alla montagna. Ora c’è molta competizione, si vede la montagna come un “campo da gioco”, ma non può essere considerata tale: la natura è incontrollabile, selvaggia. Troppo spesso siamo concentrati sulle nostre gesta, siamo sportivi, amiamo le sfide; dovremmo invece impegnarci a far passare un messaggio, come hanno fatto Walter Bonatti (1930-2011), che ha fatto innamorare della montagna tanti altri alpinisti, e Reinhold Messner, che l’ha sempre messa al primo posto. LOHI: In generale, quali sono le caratteristiche che deve avere un alpinista, fisiche e psichiche? HB: Essere umile, allo stesso tempo caparbio, che non è il contrario; ed essere


Hervé Barmasse sul Cervino - foto Mathis Dumas / Vibram

ambizioso ‒ ambire nella vita è importante, a qualunque livello, vuol dire migliorarsi sempre ‒, e creativo. Fisicamente è complesso da descrivere, devi essere, per fare un paragone, come un triatleta che ha forza e resistenza aerobica, ma deve sopportare sforzi molto prolungati, di giorni. Inoltre, bisogna avere l’intelligenza di sapersi ascoltare, per avere un margine di autonomia. Ricordarsi che la cima non è il traguardo, il limite, ma il giro di boa. Arrivato lì devi avere la forza di tornare indietro, di rientrare a casa. LOHI: Come è cambiato negli anni l’abbigliamento per la montagna? HB: Le prime guide alpine, che accompagnavano i turisti e i signori inglesi, per non sfigurare, andavano in montagna con il vestito buono. Gli si diceva, scherzando, “se

succede qualcosa, siete già pronti… ” Poi i loro vestiti, i cappelli, le giacche e i pantaloni in flanella, sono diventati di moda, e usati per la festa. Se invece parliamo di abbigliamento tecnico, è in continua evoluzione, con una ricerca oggi molto spinta sull’ecosostenibilità. The North Face, ad esempio, ha appena presentato FutureLight (una membrana impermeabile che è permeabile all’aria, nda), un tessuto sintetico con alte prestazioni; una tecnologia che ha messo a disposizione di tutti. LOHI: Nelle conferenze di quest’estate hai parlato di natura e di responsabilità. HB: Durante il lockdown abbiamo visto come la natura riprendeva spazio in città, ma anche in montagna: c’era l’aria più pulita, meno rumore; abbiamo avuto un privilegio, quello di capire l’incidenza dell’uo-

mo. Non vuol dire che non dobbiamo più muoverci, non si può fare. Ma trovare un bilanciamento. Avere rispetto della natura e dell’uomo. E ricordarci che lei non si ferma, trova sempre il modo di uscirne; è l’uomo, invece, molto più fragile. LOHI: Quali sono i tuoi progetti per il prossimo futuro? HB: Ci saranno meno conferenze pubbliche ma continuerò a collaborare con Kilimangiaro (RAI3) a parlare di montagna, facendo conoscere le storie belle, di uomini avventurieri. E mi sto preparando per scalare la parete Rupal del Nanga Parbat in Pakistan, in inverno, in stile alpino, lo stile pulito (senza campi base, sherpa e ovviamente ossigeno); è molto difficile, ci vuole tanto allenamento. Le chance di riuscire? Lo 0,01 per cento, ma uno deve provarci.


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SCENTS FOR FALL

Testo Fabia Di Drusco Illustrazione Ruben Baghdasaryan

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NUOVI MASCHILI D'AUTORE. Nella shopping bag Mon Petit Chou firmata Gucci, da sinistra: Acqua Originale Citrus Bigarade, Creed; Météore, Louis Vuitton; K by Dolce & Gabbana EdP; Cypress & Grapevine Cologne, Jo Malone London; Bvlgari Man Glacial Essence. In basso, da sinistra: Colonia Futura, Acqua di Parma; L'Homme à la rose, Kurkdjian; Aimez-moi comme je suis, Caron; Costume National Homme; L'Homme Idéal Extrême, Guerlain. Artwork Giulia Gilebbi.

ncantato dalla posa, dall’allure del gesto di Maria Antonietta nel porgere una rosa nel doppio ritratto di Élisabeth Vigée Lebrun, quello scandaloso, in camicia, e quello mondano, in abito di corte, Francis Kurkdjian aveva dedicato alle addicts della regina, ormai icona pop, il delicato À la Rose. Profumo risolutamente contemporaneo e non retrò, né tantomeno storicamente corretto, a differenza del Sillage de la Reine, ricostruito dal naso franco-armeno a partire dal fortuito recupero di una formula di Jean Louis Fargeon, fornitore attitré di Maria Antonietta a Versailles. A qualche anno di distanza Kurkdjian torna a fantasticare sullo stesso gesto, però al maschile, e inventa L’Homme à la rose, un floreale legnoso dallo sviluppo verticale in cui la rosa damascena bulgara e quella centifolia di Grasse si incontrano con un accordo legnoso, introdotto da una nota sparkling di pompelmo in apertura. «La rosa di per sé è come la seta, né maschile, né femminile», osserva Kurkdjian. È piuttosto una lunga tradizione della profumeria, da La Rose Jacqueminot di Coty, la prima interpretazione soliflore della rosa, del 1904, a Nahema di Guerlain e Paris di Yves Saint Laurent, ad associarla indissolubilmente al mondo femminile, nonostante il successo anche presso il pubblico maschile di profumi costruiti sull’accordo rosa/patchouli come Voleur de Roses de L’Artisan Parfumeur e in tempi più recenti sull’accordo rosa/oud. Di un’eleganza essenziale, il nuovo Costume National Homme Parfum, firmato da Dominique Ropion (cui dobbiamo Carnal Flower e Geranium pour Monsieur di Frédéric Malle) è un raffinato mix di pompelmo, bergamotto, cardamomo e vetiver di Haiti, utilizzato quest’ultimo in


I nuovi profumi maschili sono sottili esercizi di sovversione degli stereotipi di genere, a partire dall’esaltazione di componenti floreali o gourmand, dalla rosa di Kurkdjian alla nocciola di Caron

tre diverse forme, per renderne una pluralità di sfaccettature: quella classica, speziata, il carattere legnoso/secco, assicurato dall’olio estratto con la distillazione molecolare, e il coté smoky, restistuito a partire dall’acqua di scarto della distillazione. Per L’Homme Idéal Extrême, Thierry Wasser, perfumeur in house di Guerlain, è ripartito dalla mandorla, la materia su cui era stata costruita l’identità olfattiva del profumo all’origine della franchise L’Homme Idéal arrivata ormai a cinque varianti. Una mandorla amara, enfatizzata da un cuore orientale, speziato di cannella, costruito attorno alla prugna e all’eliotropio, su un fondo cedro, patchouli, cuoio e tabacco, lavorato intorno alla fava tonka, per un profumo destinato a sedurre anche le donne, non solo sulla pelle maschile ma anche sulla propria. Citrus Bigarade, nella collezione Acqua Originale di Creed, ha una partenza sferzante di arancia amara, limone, menta e mandarino sul fondo verde e dolcemente terroso del vetiver di Haiti. Sperando di emulare il successo di Pour un Homme, del ’34, uno dei profumi che hanno fatto la storia della profumeria maschile, Caron lancia Aimez-moi comme je suis, profumo gourmand costruito sull’incontro tra nocciola e vetiver. Già nel 1919 con Tabac Blond, il primo femminile a nota cuir simbolo dell’emancipazione delle flapper, e poi con Pour un Homme, caratterizzato dalla forte presenza della vaniglia impiegata prima di allora solo nei profumi femminili, Caron aveva costruito il suo successo sovvertendo gli stereotipi del mercato. La nocciola, con il suo aroma caldo e boisé, verde e croccante, intriga invece il naso Jean Jacques durante un viaggio ad Haiti, in cui realizza che nell’odore

delle radici di vetiver, oltre alle note legno, terra e tabacco se ne avvertono anche di nocciola fresca. Presente nella formula in overdose, il vetiver di Haiti è sublimato da pompelmo e zenzero prima di fondersi in un accordo con la nocciola, su una base di legno di cedro della Virginia, tabacco e fava tonka. Con Météore Jacques Cavallier Belletrud costruisce sull’idea di freschezza non solo l’inizio ma l’intero sviluppo verticale del nuovo maschile Louis Vuitton, dove bergamotto di Calabria, mandarino e arancio sono esaltati da neroli tunisino, cardamomo e vetiver di Giava, distillato in modo da eliminarne le note smoky esaltandone piuttosto le sfaccettature d’ambra, pompelmo e terra umida. Cypress & Grapevine, la nuova colonia aromatica Jo Malone London, è legnosa e resinosa, l’equivalente olfattivo di un sottobosco ancora umido di pioggia, dove si avvertono gli odori del cipresso e quello succoso della vite, su un fondo cedro, muschio e vetiver. Colonia Futura di Acqua di Parma, costituita al 99% da ingredienti di origine naturale, è un mix di bergamotto, salvia sclarea e lavanda enfatizzati da accenti di vetiver, pompelmo e pepe rosa. Bvlgari Man Glacial Essence è un legnoso fougère firmato da Alberto Morillas, con una partenza icy di bacche di ginepro, zenzero e geranio, e un cuore di sandalo, iris e artemisia su una base di cedro e muschio. In versione Eau de Parfum, K by Dolce & Gabbana intensifica l’asprezza degli agrumi delle note di testa con bacche di ginepro e cardamomo. Mentre al cuore di geranio, salvia sclarea, peperoncino e lavanda si aggiunge un accordo di latte di fico su un fondo più smoky che nell’originale versione Eau de Toilette.


Things we L(‘O)ve

MESSAGE IN A BOTTLE


Testo Simone Vertua Foto Valentin Hennequin Styling Simone Rutigliano

Convinto, fin da piccolo, di fare il batterista per far pratica suonava le sedie di casa. Oggi, dopo aver ottenuto il disco di platino con “Mediterranea”, Filippo Maria Fanti, in arte Irama, è pronto a conquistare il pubblico con l’ultimo EP “Crepe”


T h i n g s w e L (‘O)v e

in apertura

DRIES VAN NOTEN_Camicia in seta trasparente ricamata con fiori in ciniglia, cintura di pelle. Pantaloni e stivale con punta quadrata, Bottega Veneta. Collana in metallo, Acne Studios.

da sinistra

DIOR_Camicia monogram in seta, pant nero, foulard stampa cashmere in seta, guanti in pelle nera, portachiavi ispirato a Judy Blame indossato come collana e spilla monogram di perle. Ankle boots, Christian Louboutin. Custom made orecchini, Emanuele Bicocchi. BOTTEGA VENETA_Camicia in cotone e gilet in lana abbinati a occhiali da sole con effetto specchio color argento. Spilla in metallo, Acne Studios. LOEWE_Cappa di lana ricamata con perline metalliche e specchietti abbinata a un pantalone di satin nero.

nella pagina successiva, da sinistra

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LOUIS VUITTON_Camicia in cotone con cravatta indossata come foulard, pantalone in lana nero e sospensorio azzurro. Gilet e scarpe in pelle con suola in gomma nere, Maison Margiela. ETRO_Cappotto stampa animalier e pantalone in cavallino nero. Camicia di seta, Alexander McQueen. Collana in metallo, Acne Studios. Anello, Dries Van Noten. Grooming: Erisson Musella @ CloseUp Milano Agency. Production: Ali Kiblawi @ Wasl agency. Stylist assistant: Giammarco Cingolani. Location & props: Etel Milano.

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ilippo Maria Fanti, aka Irama, arriva sul set fotografico chiedendo di ascoltare i successi degli Aerosmith, e sulle note di “I don’t want to miss a thing” accenna di tanto in tanto un sentito lipsync. Il cantautore italiano nato a Carrara, cresciuto a Monza ed ora stabile a Milano, all’età di sette anni aveva già scritto la sua prima canzone, e fin da piccolo sognava di diventare un batterista professionista e suonava le sedute di casa con un paio di bacchette di legno. Non per nulla il suo nome dʼarte significa ritmo in malese. Oggi, dopo due Sanremo e due coppe

vinte al talent Amici di Maria De Filppi, la sua “Mediterranea” ha conquistato il disco di platino ed è appena uscito il nuovo EP “Crepe”. L’Officiel Hommes Italia: C'è sempre un senso di tensione nella tua scrittura e nelle tue performance. Da dove arriva? Irama: Mi piace quando si crea la tensione. Quando scrivo o progetto un video, è come se ci fosse una corda tirata che ti fa arrivare oltre, continuare a guardare e a interessarti. Nella musica cerco sempre di modulare e cambiare la forma di scrittura, la metrica. Il rap quando voglio essere diretto, il canto

quando voglio essere metaforico, la frenesia quando voglio mandare un messaggio forte. LOHI: Le tue canzoni vogliono lanciare dei messaggi. I: Non mi espongo mai a livello politico, musica e politica non vanno a braccetto. Il mio mestiere è fare l’artista musicale. E la musica è sensibilità ed emozione, racchiude messaggi che parlano di umanità, di storie e di persone ed è qui che voglio portare la mia arte. La grandezza della canzone è riuscire a raccontare cose che ci legano e ci rendono tutti esseri umani.


LOHI: All’inizio della tua carriera sei stato molto criticato per il controverso video “La ragazza dal cuore di latta” che poteva essere visto come una incitazione alla violenza contro le donne. I: Spesso si indica la luna e le persone guardano il dito. LOHI: “Siamo i nuovi decadenti, con poesie nei server”, dici nella canzone “Non ho fatto l’Università”.Credi nelle nuove generazioni? I: Penso che la nostra generazione sia legata alla cultura e abbia voglia di conoscere ma in una maniera più decadente. Sono cresciuto in momenti

e in modi diversi, da un lato la vita di quartiere con amici che venivano da background culturali molto differenti, dall’altro l’impostazione accademica. E stiamo crescendo con i social e con Internet, che sono in continua evoluzione; è un mondo che non sappiamo governare bene, per questo spesso esce anche il lato marcio di questi medium, accanto ai lati positivi. LOHI: Qual è la soddisfazione più grande del tuo lavoro? I: Quando fai musica è come se si creasse un’energia tale che ti fa estraniare da quello che stai facendo. Il

musicista è un portavoce di qualcos’altro, di qualcosa di più grande. In alcuni momenti c’è una magia che ti fa uscire parole e sentimenti e tu quasi non te ne accorgi, come se fossi spinto a farlo. A volte il flusso creativo è schietto, sincero e naturale, come scrivere una lettera a tua madre, altre volte fa male e c’è bisogno di tempo per metabolizzare e tradurre un’emozione in musica. “Un respiro” è una canzone che è uscita in un momento particolare della mia vita, avevo subito la perdita di una persona. LOHI: Ho seguito il tuo discorso alla finale di Amici Speciali, il razzismo


così come l’omofobia sono la battaglia che dobbiamo ancora combattere, ti reputi un attivista? I: Oggi si parla di omofobia e razzismo, temi importanti che purtroppo dobbiamo ancora affrontare. Sono realtà che per la nostra generazione sono surreali, proprio per questo le combattiamo, per difendere quella che per noi è già la normalità. Il discorso di Amici Speciali è stato tosto, era la prima volta che scrivevo un monologo, è diverso dalla forma della canzone, che si avvicina di più al linguaggio della poesia. Il monologo è schietto e diretto, nasce dalla necessità di raccontare. Ho accantonato per un attimo tutto e mi sono dedicato completamente alla scrittura che è stata come un pugno nello stomaco, di notte, ero

pieno di emozioni. Le stesse emozioni che ho cercato di rievocare quando l’ho pronunciato. LOHI: Parliamo di scrittura, so che sei molto interessato al cantautorato italiano da Guccini a De André, qual è il tuo processo, l’ispirazione che ti porta a scrivere una canzone? I: In alcuni momenti è un’esigenza, come la mia canzone “Non mollo mai” o “Un respiro”. Altre volte devi andare incontro all’ispirazione. La stessa cosa avviene quando scrivi. Spesso non riesco a scrivere e capita di star sveglio anche tutta la notte per riuscire a produrre solo qualche verso. Ad esempio, una notte ho scritto: “Un passo per tutti i difetti che ho indossato, con orgoglio e sicurezza, trasformandoli nei miei punti

di forza, il tempo mi ha insegnato la pazienza, non puoi saltare il mare senza prima aver preso la rincorsa”. Ci sono tante cose che custodisco ancora dentro di me gelosamente. A volte è frustrante scrivere ma devi cercare uno stimolo per scavare a fondo. LOHI: Piaci moltissimo anche ai bambini... te lo aspettavi? I: Grandi i bambini! (Ride) Sono cacciatori di hit, percepiscono le melodie in maniera istintiva. LOHI: E i tatuaggi? I: Ne ho parecchi, ogni tanto mi tatuo da solo le gambe. Fin da bambino ho una fissazione per la simbologia egizia e molti miei tatuaggi ne fanno riferimento, ad esempio i miei serpenti includono la croce di Ankh o l’occhio di Ra.


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THE NOW

ÉDGAR RAMÍREZ È stato il terrorista Carlos, Gianni Versace, il pugile Robert Durán e il guerrigliero cubano Ciro Redondo. Ambasciatore UNICEF impegnato sull’uguaglianza di genere, fa parte del cast della nuova serie HBO “The Undoing” , un dramma per adulti a sfondo erotico con Nicole Kidman e Hugh Grant Foto Jacques Burga Testo Fabia Di Drusco Styling Dani Michelle



in apertura

BERLUTI_Cappotto di lana in principe di Galles, camicia check e pantaloni. Occhiali, Oliver Peoples. Anello, M.Cohen.

DUNHILL_Camicia di seta. Grooming: Sascha Breuer @ The Wall Group.

GIORGIO ARMANI_Cappotto di lana e pantaloni. T-shirt vintage. Collana, bracciale e anello, M.Cohen. Orologio, Montblanc. Location: The Garcia House - John Mcllwee and Bill Damaschke, Los Angeles. Catering: Mikaza Nikkei Sushi / Danny Rodriguez, CEO of Transcendent Restaurant Group.

È

stato Ciro Redondo Garcia in “Che. L’Argentino” di Soderbergh, è diventato famoso ‒ e ha ricevuto la prima nomination ai Golden Globes ‒ come il terrorista Carlos nell’omonima serie di Olivier Assayas, era nel cast di “Zero Dark Thirty”. È stato Bodhi nell’insopportabile remake di “Point Break”, poi l’ex marito supportivo di Jennifer Lawrence in “Joy” di David O.Russell e Gianni Versace nella serie “American Crime Story: The Assassination of Gianni Versace”, per cui ha ricevuto una seconda nomination ai Golden Globes. Édgar Ramírez, venezuelano (ma del Venezuela non parla, ha premesso prima dell’intervista la publicist), quarantatre anni, segno zodiacale Ariete, da bambino pensava di

fare il diplomatico, invece è stato per tre anni giornalista; è Goodwill ambassador dell’UNICEF e si è impegnato a favore di Amnesty International come dell’uguaglianza di genere, promuovendo il programma #heforshe. L’Officiel Hommes Italia: Come sei diventato attore? Édgar Ramírez: Facevo il giornalista, il cinema mi piaceva da sempre ma non sono cresciuto sognando di recitare. All’ultimo anno di università ho partecipato a un film sperimentale di un amico che ha finito per vincere un festival: tra i giurati c’era un professore messicano, l’allora sconosciuto Guillermo Arriaga, che mi propose di partecipare a un film di cui stava scrivendo la sceneggiatura. Io dissi di no per scoprire due

anni dopo che il film in questione era “Amores Perros”, la pellicola del 2000 di Alejandro González Iñárritu, che aveva fatto sensazione a Cannes vincendo il gran premio della critica. Praticamente, il film che ha introdotto il cinema latino sulla mappa internazionale. LOHI: Quali sono stati i ruoli fondamentali della tua carriera? ER: Ovviamente “Carlos”, nel 2010 si era all’inizio dell’era delle serie televisive di alta qualità, che ti consentono di esplorare un personaggio in modo più compiuto di quello che ti permette la breve durata di un film. Poi “Hands of Stone”, dove sono dovuto diventare un pugile (la leggenda Roberto Durán, nda): il mio corpo è cambiato, e mi sono trasferito a Panama. E per me, che sono al tempo stesso



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molto emozionale e molto razionale, interpretare un uomo totalmente dominato dalle sue emozioni è stato molto challenging. Ed è stato interessante esplorare un disruptor come Gianni Versace nell’intreccio dei suoi rapporti familiari, soprattutto nel rapporto con la sorella, fatto di lealtà, amore, devozione. Ho scoperto Gianni negli occhi di Donatella e

di Penélope Cruz che la interpretava. E sono molto legato anche a un film che ho girato con Juliette Binoche, “A coeur ouvert” di Marion Lane, storia di una coppia sposata dove lui ‒ io ‒ è alcolizzato: un rapporto di codipendenza che esplora la natura dell’amore. LOHI: Come scegli un film? ER: Il regista è fondamentale: se non

ha un punto di vista molto preciso, molto forte, il film non funziona. Perché l’arte di raccontare una storia deriva da un’urgenza emozionale che devi risolvere razionalmente. Poi certo, importante è anche la storia, anche se a volte scelgo semplicemente di divertirmi con film d’azione. LOHI: Con quali registi hai lavorato


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meglio? E con chi sogneresti di lavorare? ER: Con Assayas c’è un rapporto molto speciale, una vera e propria telepatia. Mi piacerebbe lavorare con Paolo Sorrentino, con David Fincher, Wong Kar Wai, il regista messicano Michel Franco che ha appena vinto il Leone d’Argento a Venezia con “Nuevo Orden”, Alfonso Cuarón... Tanti, tanti altri.

LOHI: Mai pensato di fare il regista? ER: Potrebbe succedere che diventi regista, ma non mi alzo la mattina sentendomi male perché non lo sono. Ho invece iniziato a fare il produttore perché è una direzione naturale per un attore. LOHI: Hai un metodo per calarti in un personaggio? ER: Recitare è empatia e anche una for-

ma di meta-giornalismo, prepararsi a un ruolo è come svolgere un’indagine su qualcuno. E poi c’è la preparazione fisica: costruire il corpo del personaggio ti permette di trascendere i tuoi limiti personali. LOHI: Che film hai in uscita? ER: A fine ottobre inizia la programmazione di “The Undoing”, serie HBO


nelle pagine precedenti, da sinistra

ERMENEGILDO ZEGNA XXX_Completo e turtleneck. Occhiali da sole, Oliver Peoples. Anello, M.Cohen. Mocassini, Wolf and Shepherd. THOM BROWNE_Giacca Tartan. T-shirt vintage. Occhiali, Oliver Peoples.

LANVIN_Tuta e blazer. Mocassini, Dunhill. Collana, M.Cohen.

PRADA_Camicia stampata. Bracciale, M.Cohen. Production: M Studio Paris. Assistente stylist: Cameron Quittner. Assistente fotografo: Noah Raymond. Special thanks to: Adrien Wulf, Giampiero Tagliaferri, Xarles Thompson, Roger Benites, Megan Moss, Tori Kob, John Mcllwee e Bill Damaschke.

(scritta da David E. Kelley, l’autore di “Big Little Lies”, nda) per la regia di Susanne Bier, con Nicole Kidman e Hugh Grant, dove io interpreto un detective. È la storia di una caduta individuale, un dramma per adulti come i grandi thriller degli anni ’80 e ’90 con una carica erotica molto forte, in maniera atipica per un progetto americano. Il punto centrale sono le contraddizioni umane, tutti i personaggi sono contraddittori, è l’investigazione di un tradimento che dimostra il potere della manipolazione, della gelosia, decisamente non confortevole per lo spettatore. L’anno prossimo usciranno “355”, una spy story con Jessica Chastain (e Bing Bing Fan, Diane Kruger, Lupita Nyong’o e Penélope Cruz, nda), la commedia “Yes day” con Jennifer Garner, “Jungle Cruise” della Disney con Emily Blunt e Dwayne Johnson

“The Rock” . E girerò “Losing Clementine” con Jessica Chastain, diretto dalla regista argentina Lucia Puenzo. Jessica interpreta un personaggio bipolare deciso a suicidarsi ma che vuole prima sistemare alcune cose, tra cui il rapporto con l’ex marito, che sono io... LOHI: Sei particolarmente impegnato sull’uguaglianza di genere. ER: La campagna #heforshe è nata per combattere gli stereotipi di genere: non è solo a favore delle donne. Bisogna cambiare il paradigma culturale che celebra una mascolinità tossica, che spinge gli uomini a scaricare la loro violenza sulle compagne, invece di imparare a gestire le proprie emozioni. Il discorso che ho tenuto in proposito quattro anni fa alle Nazioni Unite è il momento della mia vita di cui sono più orgoglioso. LOHI: Cosa fai quando non lavori?

ER: Leggo, mi alleno, cerco di meditare: non ho una vita straordinaria, ma un lavoro straordinario. Mi piace bere un caffè con gli amici, credo che la conversazione sia una forma d’arte. Quando arrivo in una città che non conosco invece di fare il turista mi faccio consigliare su dove fermarmi a bere un caffè, e posso passare ore seduto a leggere o osservare la gente. Sono drogato di caffè, in Venezuela la comunità italiana è così forte che c’è una macchina espresso Gaia anche nel più piccolo baretto del più sperduto paesino. LOHI: Ti interessa la moda? ER: Mi piace la moda perché mi piace la storia, e la moda è espressione del tempo. Tra cinquant’anni anni basterà osservare i nostri vestiti per rendersi conto di come era la nostra società. Non credo che la moda sia un fenomeno superficiale, piuttosto è una forma di antropologia.




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THE NOW

ADRIANO GIANNINI

Dal buen ritiro dell’Isola d’Elba l’attore ripercorre alcuni momenti della sua carriera: dalle battute con Clooney sul set di “Ocean’s Twelve” agli orsi in Transilvania che di notte mangiavano la scenografia di “Dolina”. Fino ai chili di pane cucinati in quarantena

Foto Julian Hargreaves Testo e styling Giorgia Cantarini


in apertura

DOLCE & GABBANA_Cappotto doppiopetto di lana, turtleneck in lana, pantaloni di lana e anfibi di pelle.

BRUNELLO CUCINELLI_Cappotto doppiopetto con bottoni di metallo, giacca di tessuto tartan, t-shirt a maniche lunghe, pantaloni di velluto e scarpe stringate di pelle. Occhiali, Persol. Calze, Calzedonia.

BOTTEGA VENETA_Cappotto doppiopetto di lana, camicia e pantalone ultrafit.

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entile, affabile nei modi, a tratti schivo ma anche estroverso, Adriano Giannini è un gentiluomo come pochi ne sono rimasti. Non ama la fama, onora la sua privacy e quella della famiglia costituita un anno fa con Gaia Trussardi. Quando non recita o non è intento a prestare la sua voce a qualche big di Hollywood, si ritira nelle colline dell’Isola d’Elba, nuota in piscina con il suo amato cane, si diletta a scrivere favole per bimbi o a preparare il pane. Attore dalla prolifera carriera, doppiatore ad alti livelli, sex symbol (incosapevole). Un uomo che pecca di modestia. Perché di traguardi artistici ne ha raggiunti. Senza smaniare, senza strafare, scegliendo progetti ai quali sentiva di poter prendere parte, senza ricalcare le ingombranti orme del padre Giancarlo, se non per pochi isolati episodi dove si sono scambiati le parti. Ha lavora-

to per Gabriele Muccino, Paolo Sorrentino, Saverio Costanzo, Francesca Archibugi, Jean-Jacques Annaud e Soldini, tanto per citarne alcuni, e ha esordito lui stesso alla regia con il corto “Il Gioco”, tratto da una novella di Andrea Camilleri, di cui è stato anche produttore e sceneggiatore. L’Officiel Hommes Italia: Raccontaci del film di Daniele Lucchetti “Lacci”, presentato a Venezia. Adriano Giannini: Il film è stato presentato in un’edizione particolare del Festival, l’accoglienza è stata più che positiva. È la storia drammatica di una coppia; io interpreto uno dei due figli, che ne pagano le conseguenze. LOHI: Quali sono i registi con i quali ti sei trovato più in sintonia? AG: La sintonia tra regista e attori è fondamentale, però non capita spesso, con Daniele Lucchetti è capitato. Abbiamo girato

a Napoli in un clima di relax, in una città che ci ha accolto. Le riprese avevano un ritmo serrato ma non sono mancati i momenti di condivisione, scambio e dialogo. Ricordo anche l’esperienza con Paolo Sorrentino in “Le conseguenze dell’amore”. Mi ha scritturato dopo avermi visto su un set. Io e Toni Servillo siamo arrivati sul suo senza avere mai provato. Ci siamo lanciati, pur non conoscendoci, in alcune scene. Il rapporto con lui è stato speciale. LOHI: Qual è il set che ti ha regalato l’esperienza più divertente? AG: Mi viene in mente “Dolina” con la regia di Zoltán Kamondi. Un film che ho girato in Transilvania per cinque mesi. Un dramma fatto di mondi immaginari ambientati sui monti Carpazi, con costumi originali degli anni post-dittatura comunista. Con il regista ho avuto uno scambio unico di idee e ho potuto suggerire la mia;



GIVENCHY_Cappotto doppiopetto di lana, pantaloni e boots in vernice. T-shirt vintage.

L.B.M.1911_Blazer doppiopetto. Camicia e pantaloni di lana, Caruso. Scarpe stringate, Church'sv. Foulard vintage.

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restavamo fino a tarda notte a lavorare alle scene per il giorno dopo. C’era un’atmosfera magica, simile a quella del cinema neorealista del dopoguerra in Italia. Con gli orsi che mangiavano (letteralmente) la scenografia ogni notte. Questa è forse l’esperienza più totale e divertente che ho avuto nel cinema. Indimenticabile. LOHI: Un aneddoto da set curioso? AG: Sul set di “Ocean’s Twelve”. Mi ricordo il giorno del provino fatto qui a Roma, in cui decisi di uscire da casa vestito come il personaggio che andavo a interpretare. Mi ero comprato degli occhialetti a un mercatino, quella volta volevo proprio “fare” l’attore, pur sapendo che sarei stato preso in giro. Ore di coaching per l’inglese, due take ed era fatta: provino passato, sarei andato a Los Angeles da Steven Soderbergh. Passa qualche giorno e ricevo il copione nuovo. Il mio ruolo non c’era più, niente film. Ricevo poi una chiamata sul cellulare da Steven in per-

sona, mi chiede perché non voglio fare il suo film. Pensavo fosse lo scherzo di un amico. Mentre discutiamo gli dico “Posso venire a fare gli spaghetti, se proprio vuoi che venga, perché la mia parte non c’è più. Oppure vengo a fare l’operatore e cucino gli spaghetti”. Lo feci ridere, mi disse che i suoi copioni cambiavano continuamente, che anche Clint (Eastwood) veniva solo per un cameo, quindi di partire. Alla fine sono andato, il copione era stato riscritto, il personaggio c’era; ho girato ma alla fine hanno tagliato la mia parte. È stata comunque una grande esperienza, ho rivisto Matt Damon con cui avevo lavorato come operatore sul set de “Il talento di Mr. Ripley” e George Clooney che mi ha detto di essere un mio fan. Gli dissi di non prendermi in giro. LOHI: Hai vinto il Nastro d’Argento per il doppiaggio di Joaquin Phoenix in “Joker”. Qual attore ti piace doppiare? AG: Ultimamente ho doppiato Joaquin

Phoenix in un po’ di film. Lui e Christian Bale sono tra i più divertenti, difficili, impegnativi, perché sono grandi attori e fanno sempre delle cose imprevedibili, però essere al doppiaggio è anche una grande occasione per imparare, per vedere e rivedere lo stesso ciak, devi capire come restituire la loro interpretazione. Li studi per doppiarli ma li studi anche da attore. Doppiare è recitare, ma non è vero il contrario. Per Joker è stata dura, non bastava la tecnica, dovevo entrare dentro la testa di Joaquin e capire come stava vivendo il suo personaggio. Una sfida riuscire a dare tutte le sfumature di voce di un malato mentale. Stavo per diventare matto anch’io. LOHI: Anche tuo papà Giancarlo ha doppiato un Joker. Doppiaggio e recitazione sono due questioni di famiglia? AG: Sì, mio padre è stato la voce di Joker — Jack Nicholson in “Batman” di Tim Burton. I Joker sono un po’ alla Giannini-style. Scherzi a parte, io non ho




GIORGIO ARMANI_Cappotto vestaglia di tessuto tecnico con rever di velluto profilato di pelle, camicia di popeline e pantaloni.

TOD'S_Cappotto doppiopetto di lana, pull, pantaloni di denim e mocassini. Grooming: Chiara Bussei @ WM Management. Assistente fotografo: Sara Pittavino.

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mai voluto fare l’attore e, contrariamente a quel che si può pensare, non andavo sui set da mio padre. I miei si sono separati presto, io ho iniziato a frequentare il cinema dai 18 anni, solo dopo è diventato la mia casa. Il mio sogno era lo sport ma mentre stavo finendo il liceo a mia madre (Lidia Giampalmo, attrice, sceneggiatrice, doppiatrice e regista, ndr), venne offerto di girare un film e le chiesi se potevo lavorare. Volevo guadagnare dei soldi per andare in America a imparare bene l’inglese. Lì feci la gavetta come operatore, un lavoro che poi fu il mio per dieci anni. Uno dei primi film come attore è stato invece “Swept Away” di Guy Ritchie (remake di “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto”, nda), l’unica volta in cui mi sono immedesimato in un ruolo di mio padre. LOHI: I tuoi prossimi progetti? AG: Ancora tutto top secret, ma dovrei girare una serie tv per il 2021.

LOHI: Qual è il ruolo di un personaggio pubblico in questo momento di cambiamenti culturali? Alcuni artisti si stanno esponendo su tematiche razziali, per i diritti LGBT o sul femminismo. AG: Credo che l’esposizione se onesta, leale e non strumentalizzata sia giusta e corretta. Trovo meschino quando le situazioni sono usate per ottenere pubblicità. LOHI: Quanto conta la bellezza per fare l’attore? AG: I sex symbol sono venuti meno quando hanno tolto la locandina di “Butch Cassidy” con Robert Redford e Paul Newman. Credo che nell’era social la bellezza sia un tema fin troppo importante, rappresenta l’effimero. C’è sicuramente un movimento di sensibilizzazione verso altri tipi di estetica, però media e comunicazione si muovono ancora su canoni ormai superati. LOHI: Ha ancora senso parlare di eleganza e se sì in che termini?

AG: Una persona elegante è una persona capace di gestire lo spazio che ha a disposizione per sé e per gli altri con una certa grazia interiore. Quelli vestiti “da eleganti” non mi convincono. Nell’abbigliamento adoro il casual ma non disdegno lo smoking, mi piacciono le camicie ben fatte. LOHI: Come definiresti il tuo stile di vita e il tuo rapporto con la natura? AG: Sono stato sensibilizzato a uno stile di vita sano. Avevo una nonna tedesca che faceva il pane in casa. Ricordo che alle elementari e alle medie mangiavo quello integrale, quando la parola integrale non era ancora nel vocabolario... Durante l’isolamento per il covid mi sono dilettato a macinare la farina biodinamica e a panificare. Ho sfornato e regalato un sacco di pagnotte! Nel quotidiano cerco di essere il più sostenibile possibile, con un approccio molto rispettoso verso la natura.


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THE NOW

RAFFERTY LAW Modello, musicista, attore. Il figlio di Sadie Frost e Jude Law sarà tra i protagonisti dell’inizio del 2021, con il ruolo principale in “Twist” di Martin Owen e l’uscita del primo album della sua band, gli Outer Stella Overdrive Foto Alan Gelati Testo Cristina Manfredi Styling Chloe Beeney



in apertura

BURBERRY_Cappotto doppiopetto, pantaloni di lana grain de poudre con banda laterale di pelle, felpa a righe con cappuccio, sneaker “Arthur” con tacco. Calze, Sex Skateboards. In tutto il servizio, gioielli Theo Fennell, Bleue Burnham e Pi London.

CRAIG GREEN_Cappotto, pantaloni e camicia. Anfibi di pelle platform, Dr. Martens.

ALEXANDER McQUEEN_Completo e camicia di seta tutto a stampa “Henry Moore”, mocassini di pelle con punta metallica.

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razie alla Valentino family e a Pierpaolo Piccioli per avere invitato me e la mia mamma alla vostra meravigliosa sfilata». C’è tanto di Rafferty Law in questo messaggio con cui, sul suo profilo Instagram, ha raccontato l’esperienza in passerella durante l’ultimo show di Milano. Ventitre anni, figlio delle star cinematografiche Jude Law e Sadie Frost, cresciuto nella Londra che conta, è pronto a conquistare il mondo come modello, attore e musicista. Circondato da artisti e libero di esprimere la propria creatività, gli è stato attribuito qualche eccesso e, ultimamente, un flirt mai confermato con la pop star Rita Ora. All’inizio del 2021

Sky Tv lancerà “Twist”, la rivisitazione in chiave contemporanea del romanzo ottocentesco di Charles Dickens di cui Law impersona il protagonista, diretto da Martin Owen e al fianco di un mostro sacro come Michael Caine. Nello stesso periodo uscirà anche il primo album del gruppo con cui suona da quando era ragazzo, gli Outer Stella Overdrive, dove milita anche Rudy Albarn, nipote di Damon, voce carismatica dei Blur. Intanto il singolo “Bad Times” è già uscito e si sta facendo notare, anche grazie al video diretto da sua madre Sadie, sua guida anche negli ambiti più modaioli, grazie all’esperienza con la linea Frost French, al momento congelata.

L’Officiel Hommes Italia: Stai diventando una presenza fissa delle fashion week più importanti, quanto conta per te il mondo della moda? Rafferty Law: Avevo circa sedici anni quando ho iniziato a ragionare con mia madre sul mettermi alla prova come modello. Mi sono bastati un paio di lavori per capire che mi piaceva molto, perché entri in contatto con gente stimolante, a cominciare dai fotografi con cui scatti. Mi è anche servito a rafforzare la mia autostima e a farmi scoprire un aspetto fondamentale del mio carattere. LOHI: Ovvero? RL: Ho capito che per funzionare bene devo essere messo sotto pressione, mi


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nelle pagine precedenti, da sinistra

FILA_Giubbino effetto shearling con inserti a contrasto. VALENTINO_Maglia di lana.

STELLA McCARTNEY_Cappotto di lana, turtleneck, pantaloni sartoriali e mocassini.

LOUIS VUITTON_Cappotto patchwork di lana con applicazioni, pantaloni sartoriali di lana gabardine, camicia gessata, cravatta e Chelsea boots di pelle. Grooming: Chris Sweeney @ One Represents using Davines and Augustinus Bader. Photoshoot tailor: Paul Strotton tailoring.

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piace quella sensazione di tensione positiva che mi spinge a dare il meglio di me. Quando mi hanno affidato il ruolo di Oliver Twist sapevo di dover dimostrare che quella parte la meritavo davvero, così mi sono preparato al massimo. Il taglio contemporaneo che il regista ha voluto dare presupponeva una grande agilità del mio personaggio, perciò mi sono impegnato con dei corsi di parkour e allenamenti supplementari in palestra. Volevo arrivare sul set al massimo delle mie possibilità. LHOI: E com’è andata? RL: Davanti alle macchine da presa tut-

to è stato naturale. È da quando sono piccolo che sperimento e mi metto alla prova tra musica e recitazione, sento che piano piano sto riuscendo a realizzare il mio sogno, quello di esibirmi e riuscire a comunicare con il pubblico. A dire il vero il mio primo desiderio era di fare il calciatore, ma ora direi che sono più contento così. LHOI: Anche perché tuo padre ti può dare più consigli in fatto di film che di centrocampo... RL: Durante il lockdown abbiamo realizzato insieme un cortometraggio con

la regia di Darren Strowger (l’attuale compagno della madre Sadie, ndr) e siamo felici perché “The Hat”, i cui incassi saranno devoluti in beneficenza, è stato nominato per la categoria “Best UK Short Film” al Raindance Film Festival, che si terrà a fine ottobre. Nel girarlo, ho capito la fortuna di essere circondato da una famiglia e amici meravigliosi. Spero di essere circondato da questa positività anche in futuro. Se tengo la testa a posto, lavoro sodo e non mi lascio mettere al tappeto dalle difficoltà, io dico che ce la faccio.



Cover story

THE NOW

GIUSEPPE MAGGIO

Dopo l’esordio con Moccia si è fatto conoscere con “Baby”. Sogna di lavorare con Paolo Sorrentino e di affermarsi come il nuovo Brad Pitt, bello e bravo Foto Davide Carlà Testo Simone Vertua Styling & art direction Marco de Lucia



D

opo l’esordio con “Amore 14” di Federico Moccia, ha girato “Un amore così grande”, “Un fantastico via vai” e “Almeno tu nell’universo” e le fiction: “Provaci ancora prof! 5”, “Solo per amore - Destini incrociati” e “La compagnia del cigno”. Il successo è arrivato nel 2018 con la serie tv Netflix “Baby”, il teen drama che ruota attorno alla storia vera delle ragazzine squillo romane. Oggi Giuseppe Maggio, romano, classe 1992, torna con tre nuovi lavori: “Explota, Explota”, musical spagnolo con i successi di Raffaella Carrà, il dramedy “Sul più bello” e la commedia “School of Mafia”.

L’Officiel Hommes Italia: Parlando di esordi come sei arrivato a recitare? Giuseppe Maggio: Ho iniziato sul set di “Amore 14”, il mio primo film. Mi sentivo come un bambino al parco giochi: un po’ spaventato ma al settimo cielo. Ricordo il dietro le quinte, con decine e decine di persone al lavoro, i ritmi vertiginosi per creare qualcosa che non esiste ancora, se non nella mente del regista. Gente che grida, che corre, che ride a più non posso fino a un silenzio quasi surreale poco prima dell’azione. Proprio come nella famosa scena de “La Dolce Vita” quando persino le fontane si azzittiscono. LOHI: Come ti sei ritrovato nel ruolo di

Fiore, l’antagonista in “Baby”? Ci sono dei punti in comune? GM: Sono molto diverso da Fiore, sebbene entrambi condividiamo una costante necessità di rivalsa. Quando ho iniziato non ero un bravo attore e per anni ho dovuto rincorrere il mio bisogno di eccellere, il più delle volte arrancando. Fiore è un incompiuto, che a sua volta avrebbe voluto emergere. Ciò che ci distingue è una diversità morale. Si sa poco della famiglia di Fiore ma nel preparare questo personaggio ho immaginato che, diversamente da me, non abbia avuto genitori presenti e determinati alla sua formazione. LOHI: Com’è stato lavorare con An-


in apertura

HILFIGER COLLECTION_Blazer di lana check, t-shirt di cotone, pantaloni sartoriali e scarpe stringate.

da sinistra

JOHN RICHMOND_Giacca di pelle con borchie, pantaloni sartoriali e anfibi di pelle. ETRO_Maglia girocollo ricamata, pantaloni di cotone e anfibi di pelle. LANVIN_Maglia girocollo stampata, pantaloni di lana sartoriali e scarpe stringate di pelle. Make up artist: Martina Vantaggiato @ Simone Belli Agency. Video producer: Angelo Stamerra Grassi.

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drea De Sica, Anna Negri e Letizia Lamartire, i tre registi della serie? GM: Sono grandi professionisti che stimo e apprezzo. Non posso negare un affetto particolare per Andrea De Sica, che mi ha scelto e ha dato una svolta alla mia carriera. Gli sarò eternamente grato. LOHI: C’è qualche regista con cui ti piacerebbe lavorare in futuro? GM: Sorrentino: il degno erede del nostro cinema aureo. I suoi film sono eccezionali, non solo per l’immagine ma per i dialoghi. LOHI: Quest’anno è uscito il tuo primo romanzo “Ricordami di te”. Racconti di aver dovuto lottare con l’etichetta superficiale del “bello”, oggi come la vivi?

GM: Bisogna imparare a conviverci. Non mi pesa più da quando mi sono liberato della necessità di piacere a tutti. Per carità, il mondo è pieno di persone superficiali che incentrano tutto sull’estetica, ma giudicare a priori senza conoscere è sbagliato. Bisognerebbe imparare dagli americani: il loro cinema è costellato di grandi attori, belli ma anche bravissimi, a cui sono stati offerti i giusti ruoli per esprimersi. LOHI: Che rapporto hai con i social? GM: Sono un strumento interessante dal punto di vista lavorativo; cerco di espormi per come sono, non mi piace raccontare frottole. Ma possono essere anche la causa di problematiche esistenziali

enormi; a scuola dovrebbero insegnare a utilizzarli in modo corretto. LOHI: A proposito di cyberbullismo, in “Baby” oltre alla tematica della prostituzione si parla anche di drammi adolescenziali, omosessualità e bullismo. Come si relazionano le nuove generazioni con queste tematiche? GM: Nell’ultimo periodo è cambiato tanto. Le nuove generazioni si sono lasciate sensibilizzare di più rispetto a quella dei miei genitori. È cambiata anche la mentalità, ma credo che non siamo ancora arrivati a un’evoluzione vera e propria. Stiamo solo iniziando a svincolarci da una serie di legami e costrizioni che era-


no frutto di un pensiero retrogrado, non avevano senso e non avrebbero dovuto nemmeno esistere. LOHI: Cosa fai nel tempo libero? GM: Leggo, studio, guardo vecchi film. Ultimamente ho girato parecchio per negozi di arredamento: sto sistemando casa. LOHI: Quanto ha influito il covid sul tuo lavoro? GM: Quando è scoppiata la pandemia ero sul set di “Sul più bello”, siamo stati costretti a interrompere le riprese. Sul lato pratico, a differenza con il passato, ci sono controlli sanitari continui e per noi è un discorso di responsabilità, perché il rischio è mettere in pericolo l’in-

tero team. La terza e ultima stagione di “Baby” è uscita a settembre ed è andata molto bene sia a livello nazionale che internazionale, anche per via della situazione che stiamo vivendo. Il teatro e il cinema invece sono stati molto colpiti dalla crisi collegata all’emergenza sanitaria. Nel mio piccolo vorrei rimarcare che sono dei luoghi sicuri, controllati con regole di distanziamento ben precise. LOHI: Che ruoli vorresti interpretare? GM: Mi piacerebbe interpretare il ruolo di un personaggio in costume ambientato nell’800, che abbia la capacità di vedere il mondo in una maniera differente rispetto ad oggi.

LOHI: Sono in arrivo “School of Mafia”, “Sul Più Bello” ed “Explota Explota” ci dai qualche anticipazione? GM: Sono tre progetti totalmente diversi. “Explota Explota” è un musical, a breve uscirà anche in Italia. “Sul più bello” è un dramedy, come lo definisce Roberto Proia, produttore e sceneggiatore del film, mentre “School of Mafia” è una commedia dalle tinte western, sia dal punto di vista contenutistico che per le location, l’immaginario e le cromie pensate dal direttore della fotografia Vladan Radovic. LOHI: Cosa pensi del cinema italiano contemporaneo? GM: Ci sono nuovi registi italiani emer-


da sinistra

DOLCE & GABBANA_Gilet di lana e camicia di cotone. PRADA_Maglia a girocollo di lana argyle, pantaloni di gabardine compact e anfibi di pelle. PRADA_Trench di lana check. Fashion and production: Luisaviaroma.com. Location: Special thanks to Tenuta Monacelli, Lecce.

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genti molto validi, abbiamo i fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, che riscuotono un successo internazionale, Gabriele Mainetti che ha in uscita “Freaks Out”. Ed anche i lavori di Andrea De Sica e Alice Filippi, o ancora Alessandro Pondi che vuole riportare il genere western in Italia. LOHI: Qual è la soddisfazione più grande del tuo lavoro? GM: Riuscire ad emozionare, emozionandosi. Se ci si mette il cuore e l’anima, si riesce a trasmettere emozioni. Ma per poterle trasferire bisogna saperle vivere. LOHI: Sei originario di Roma, quali sono i tuoi luoghi favoriti?

GM: Trovo bellissima Piazza del Phanteon, ogni volta che ci vado è un colpo al cuore. Poi la Terrazza del Pincio a Villa Borghese, un ricordo di quando andavo a giocare a pallone con mio padre. Il quartiere Monti, e trovo affascinante camminare sul Lungotevere da Piazza Cavour a Trastevere. LOHI: Che metodo segui per recitare? GM: Io seguo il metodo Stanislavskij, che parte dal mettere per iscritto tutte le informazioni sul personaggio che interpreti, chi è, da dove viene, che cosa gli è successo e via dicendo. È un approfondimento piscologico, dove si ricercano le affinità tra personaggio e attore. Si lavora sulle

circostanze, su un ipotetico “se”, “Cosa farei se io mi trovassi in quelle situazioni? Come reagirei in quella circostanza?” Da questo processo si scoprono i vincoli culturali propri e quelli del personaggio. Da lì, poi, si sviluppa la linea di azione. LOHI: Quali i tuoi attori di riferimento? GM: Pierfrancesco Favino e Luca Marinelli per il modo in cui tratta la parola, sembra quasi che stia intonando una melodia. A livello internazionale Vincent Cassel e Javier Bardem ma anche la carriera di Brad Pitt è sensazionale. È riuscito a fare le giuste scelte ed è una dimostrazione che il bello assoluto può essere anche molto bravo.



MODA THE CREW_Carlos Teixeira, Pablo Patané, Lorenzo Marcucci, Giulio Martinelli, Marco Ovando, Marc Sifuentes, Gabriel Rey, Rémi Pujol , Gaultier Desandre Navarre, Héctor Tre, Francisco Ugarte, Fernando Sippel, Charlie Ward , Iñigo Awewave, Javier de Pardo, Federick McHenry, Kika Carascossa, Izack Morales, Mariana Guerrero Dingler, Arthur Chen, Hengyi Liang.


Foto Carlos Teixeira Styling Pablo PatanĂŠ

I cult dalle collezioni Fall/Winter 2020-21, in un album fotografico chiamato a delineare il vocabolario estetico della nuova stagione. Tra formalwear ripensato, pattern ipervisivi, giochi op, sportswear in bianco-nero e barocchismi opulentemente preziosi

THE SEASON

Fashion



Fashion

in apertura, da sinistra in senso orario

GUCCI_Giacca di velluto, camicia multicolor a quadri, pantaloni di velluto a costine, cappello in feltro con dettaglio Interlocking G, borsa "Jackie 1961" con motivo GG Supreme e chiusura a pistone.

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ERMENEGILDO ZEGNA XXX_Da sinistra. Bomber in tessuto effetto pelliccia di baby lama, gilet a un petto e mezzo in mohair iridescente e seta tussah, pantaloni skinny senza pences con tasche e asole, chiusura con cerniera nascosta; camicia, Alessandro Gherardi; scarpe e occhiali, Louis Vuitton; cravatta, Thom Browne. Completo di lana, gilet e scarpe stringate di pelle; camicia di cotone, Lardini: occhiali da sole, Moscot; cravatta, Thom Browne. Completo di fresco di lana, gilet a un petto e mezzo in mohair; camicia, MSGM; scarpe, Prada; occhiali, Louis Vuitton. Completo in velluto; occhiali, Louis Vuitton. FENDI_ Blazer in nappa, maglietta a manica lunga con dettagli applicati, pantalone in nappa. Camicia, Alessandro Gherardi. Cravatta, Thom Browne. Cintura, Louis Vuitton. dall'alto

PIACENZA_Cappotto check. Blazer doppiopetto di lana e maglia di lana, Msgm. Camicia a righe, Alessandro Gherardi. Pantalone gessato, Lardini. Mocassini e calze, Versace. Occhiali, Moscot. Borsa, Louis Vuitton. LARDINI_Abito in principe di Galles e gilet. Camicia di cotone, Louis Vuitton. Basco, Ermenegildo Zegna XXX. Occhiali da vista, Moscot. nella pagina accanto, da sinistra

PRADA_Camicia di popeline compact, pantalone di gabardine tec, cravatta di popeline compact, gilet cardigan di tweed a trecce, scarpe di pelle stringate. Maglia a girocollo di lana argyle, camicia stampata di popeline, pantalone di gabardine compact, cravatta di popeline compact e scarpe di pelle stringate. Calze, Sarah Borghi.



Fashion

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5 MONCLER CRAIG GREEN_Cappa di nylon.

VALENTINO_Cappotto in lana con stampa all over VLTN, pantaloni di lana mohair. Marsupio e mocassini, Valentino Garavani. Orecchini, Myril Jewels. Calze, Sarah Borghi. nella pagina accanto, da sinistra

THOM BROWNE_Abito con pantaloni a vita alta e camicia Oxford, cappotto Chesterfield con applicazioni e paillettes. Giacca frac con applicazioni a forma di animale, gonna con fiocco e corsetto.



Fashion

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DOLCE & GABBANA_Abito di velluto rasato, camicia di cotone. Cappotto e pantaloni di velluto a coste, turtleneck; camicia, Piacenza; scarpe, Louis Vuitton.

DOLCE & GABBANA_Cappotto e pantaloni di velluto a coste, turtleneck. Camicia, Piacenza. Scarpe, Louis Vuitton. nella pagina accanto, da sinistra

GIORGIO ARMANI_Tuta in tessuto tecnico gessato, cucitura in contrasto, zip asimmetrica, imbottito thindown, pettorina imbottita in piuma con cappuccio in tessuto tecnico gessato, moffole in nylon e pelle con logo Neve, colbacco imbottito di piuma in tessuto tecnico. Cappotto collo in piedi, in nappa imbottito di piuma, tasche applicate, moffole lunghe in tessuto tecnico e pelle, mantella di nappa imbottita di piuma, con tasche e fibbia.



Fashion

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VERSACE_Giacca di nylon stampata. Turtleneck di lana, MSGM. Pantaloni, Louis Vuitton. Felpa legata in vita, Ermenegildo Zegna XXX.

GAULTIER PARIS_Corsetto nude ricamato su un abito classico. nella pagina accanto, da sinistra

ALEXANDER McQUEEN_Top ricamato in argento e pantalone a sigaretta in lana. Cappotto in lana nera con ricamo in metallo fuso dorato, camicia in popeline di seta, pantalone a sigaretta in lana con ricamo in metallo fuso dorato. Models: Federico Spinas @ Elite Milano, Saeed Oulali, Xu Xiangyu e Elhadji Mar @ Nologo Management, Jean Chang e Diogo @ Brave, Laurie Harding @ Ilovemodels. Grooming: Fausto Cavaleri using @ Mac Cosmetics Italia. Hair stylist: Toni Pellegrino. Casting: Giusy Natale. Set & prop designer: Lorenzo Dispensa. Produzione: Passepartout4u Production. Assistente fotografo: Tiago Mulhmann. Assistante stylist: Lisa Tedeschini. Assistante grooming: Â Simone Piacenti. Assistant hair stylist: Gessica Maltese.




Fashion

FRONTE DEL PORTO Suggestioni portuali come nel film di Kazan e atmosfere à la “Querelle de Brest” di Fassbinder. In un racconto che recupera codici da navigazione per delineare un nuovo dress code marina Foto Lorenzo Marcucci Styling Giulio Martinelli


in apertura

BOTTEGA VENETA_Giacca e pantaloni di cotone idrorepellente. Stivaletto stringato “Turing” di pelle lucida con borchie, Jimmy Choo. Model: Matteo Ferri @ Special Management.

dall'alto

FENDI_Gilet di lana e cashmere, pantaloni di pelle; bandana vintage. N°21 BY ALESSANDRO DELL’ACQUA_Giacca monopetto, crop top in felpa e boots di pelle. Pantaloni di cotone e berretto da marinaio, Arrigo Costumi Milano.

PARAJUMPERS_Felpa girocollo in cotone tinta in capo, polsi, collo e fondo in costina. Berretto da marinaio, Arrigo Costumi Milano.



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GIVENCHY_Gilet in cotone con collo a scialle, pant dal taglio affusolato, spilla con charms e stivaletti di pelle. Canotta di cotone a costine e berretto da marinaio, Arrigo Costumi Milano.

GUCCI_Giacca di pelle di vitello, camicia “Gainsburg� di cotone, pantaloncini di pelle di vitello, stivaletti di pelle. Berretto da marinaio, Arrigo Costumi Milano.



dall'alto

DOLCE & GABBANA_Maglia serafino di jersey elasticizzato, pantaloni di pelle con pinces multiple. Boots di pelle, N°21 by Alessandro Dell’Acqua. HERMÈS_Cappotto di doppio cashmere idrorepellente con dettaglio di pelle, camicia di popeline con collo annodato e pantaloni di drill di cotone elasticizzato. Cintura, Church’s.

ACNE STUDIOS_Canotta in maglia semitrasparente e pantaloni di vernice. Stivaletto stringato “Turing” di pelle lucida con borchie, Jimmy Choo.



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MARNI_Canotta e pantaloni in tessuto tecnico a righe. Boots di pelle, N°21 by Alessandro Dell’Acqua. Hair stylist: Chiara Bussei @ WM Management. Make-up artist: Riccardo Morandin @ WM Management. Assistente fotografo: Liam Hughes. Digital operator: Lorenzo Catapano. Assistente stylist: Adele Baracco. Si ringrazia: Benedetta Merlini e i Cantieri navali Piergallini, San Benedetto del Tronto.



Fashion

THE RISE OF ALTON MASON ZAK E. & JOĂƒO KNORR Regole di abbigliamento formale. Attitudine mannish, scolpita tra suit e capi dal DNA classico, interpretata da tre volti cult del panorama menswear globale. In una gallery di ritratti sinceri, a definire una mascolinitĂ rinnovata Foto Marco Ovando Styling Marc Sifuentes Art direction Gabriel Rey




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in apertura

TOM FORD_Completo di raso e sciarpa. Model: Alton Mason @ IMG Models.

DIOR_Cappotto doppiopetto, camicia di seta stampata, pantaloni e sandali monogram.

PRADA_Blazer, camicia con rouches e pantaloni. Art direction & casting direction: Gabriel Rey.



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SALVATORE FERRAGAMO_Giacca, felpa e pantalone doppiato. Stivali, Givenchy. Collana, personale. Model: Zak E. @ Next Models.

DIOR_Completo con revers di velluto, camicia a righe, foulard di seta stampato, fermafoulard e spille. Bracciale e anello, personali.



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VALENTINO_Blazer e pantaloni. Stivali di pelle, Dior. Bracciale e anello, personali. Model: JoĂŁo Knorr @ Next Models

BERLUTI_Completo di lana Principe di Galles e turtleneck in cashmere superfine. Bracciale e anelli, personali.


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FENDI_Giacca classica e pantaloni di pelle, t-shirt. Bracciali e anelli, personali. Set designer: Pili Weeber.

ERMENEGILDO ZEGNA XXX_Completo di fresco di lana. Stivali di pelle, Dior. Bracciali e anelli, personali.




PARIS GANG Una notte all’ombra della Tour Eiffel. Con il Musée du Louvre a fare da guardia e un pit-stop nell’ottagono di Place Vendôme insieme a una squad sui generis. Una jeunesse dorée dallo spirito rock e dall’attitude ribelle, maledettamente parisien Foto Rémi Pujol Styling Gaultier Desandre Navarre


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in apertura, a sinistra (da sinistra)

in apertura, a destra (da sinistra)

RALPH LAUREN PURPLE LABEL_Blazer di velluto con rever di cotone. Camicia di cotone a righe, Lanvin. Pantaloni di tessuto bouclé, Amiri. Gioielli di proprietà del modello. RAF SIMONS_Blazer squadrato, turtleneck di cotone stretch e pantaloni sartoriali dal taglio ampio. Pendenti in oro giallo con pietre, Viltier. GIORGIO ARMANI_Tuta di velluto di seta con zip asimmetrica e guanti di nappa. Berretto di velluto, Dolce & Gabbana.

EMPORIO ARMANI_Giacca con chiusura asimmetrica. Blusa Lavallière, pantaloni e stivali Cole di vernice, Saint Laurent by Anthony Vaccarello. Bracciale dorato e anelli, Versace. VERSACE_Cappotto di ecopelliccia multicolor. Camicia ricamata, jeans e cintura di pelle, Saint Laurent by Anthony Vaccarello. Calze di lana, Falke. Mocassini, Weejuns. ETRO_ Giacca biker, camicia di seta, jeans e sciarpa di seta stampata. Stivali Balmoral di pelle, J.M. Weston.

da sinistra

DIOR_Cappotto, spilla in taffetà di seta moiré, camicia di twill di seta tecnica dévoré trasparente con motivo Dior e Judy Blame all over, pantaloni e guanti lunghi di pelle di agnello. Cintura di pelle, Saint Laurent by Anthony Vaccarello. Calze di lana, Falke. Mocassini in tessuto, Christian Louboutin. LOUIS VUITTON_Cappotto di lana con rouches, pantalone di lana e stivaletti di pelle. Orecchino in oro giallo con pietre, Viltier. Guanti di maglia e nappa, Emporio Armani.



nelle pagine precedenti, a sinistra (da sinistra)

BOTTEGA VENETA_Giacca di lana e pantaloni in grain de poudre. Fascia da smoking in seta, Ralph Lauren Purple Label. Calze di lana, Falke. Mocassini di pelle di vitello con fibbia, Salvatore Ferragamo. Gioielli di proprietà del modello. DRIES VAN NOTEN_Cappotto di lana e pantaloni di pelle metallizzata. SALVATORE FERRAGAMO_ Cappotto sartoriale. Pantaloni di lana, Rochas. Cintura di pelle, Celine by Hedi Slimane. Stivali Cole di vernice, Saint Laurent by Anthony Vaccarello. HERMÈS_Cappotto doppiopetto di tessuto idrorepellente. Pantaloni di pelle, Dunhill. Stivali Balmoral di pelle, J.M. Weston.

da sinistra

LANVIN_Abito di lana con gilet. Camicia di organza, Ami. VALENTINO_Abito di lana. Camicia di viscosa con ricami, Versace. Calze di lana, Falke. Scarpe stringate di pelle, Dolce & Gabbana. DIOR_ Cappotto di cashmere, camicia lunga asimmetrica in raso di seta stampa Dior omaggio a Judy Blame all-over e pantaloni di lana mohair con inserti di raso. Calze di lana, Falke. Mocassini di suede, J.W. Weston. ALEXANDER McQUEEN_Completo con giacca con inserti di lamé, camicia e shoes. Models: Kaissan Ibrahima, Nazim Bouaziz @ Success, Tristan Le Fustec @ The Face, Jonathan Tidika @ 16 Men.

nella pagina accanto, da destra in senso orario

1017 ALYX 9SM_Camicia di cotone con ricami. Pantaloni di cotone, Acne Studios. Bandana di pelle, Dior. Gioielli di proprietà del modello. ALEXANDER MCQUEEN_Top ricamato in argento, pantaloni a sigaretta di lana e stivali di pelle con punta metallica. Orecchini in oro giallo con pietre, Viltier. DIOR_Turtleneck di cashmere con lavorazione a trecce e lunghi guanti di velluto con motivo Dior oblique in rilievo, cintura double skinny in pelle di vitello e spilla in ottone. Pantaloni in pelle di anguilla, Dunhill. Casting director ed executive producer: Elliott Foote. Location: special thanks to Balagan Paris.



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da sinistra

MAISON MARGIELA_Trench di pelle con inserto di lana e guanti di pelle. GIVENCHY_ Giacca oversize di lana pied de poule, camicia di cotone senza bottoni, gilet in maglia di lana con zip e pantaloni di lana. Hair stylist: Shay Halaly Ziv using L’Oréal Paris and Christophe Robin. Make up artist: Giulio Panciera @ mksmilano using Kiehl’s creme with silk groom. Assistante fotografo: Lorenzo Touzet. Assistante stylist: Yoanne Mobengo. Assistante alla produzione: Robin Delattre.

da sinistra

YOHJI YAMAMOTO_Blazer con applicazione. Camicia stampata, Versace. Pantaloni, Dunhill. Cintura, Dior. DUNHILL_Blazer. Camicia effetto lamé, Emporio Armani. Pantaloni, Acne Studios. Stivali, Alexander McQueen. GUCCI_Abito di lurex. Camicia di seta, Dunhill. Cintura, Marni. Stivali, Christian Louboutin. Gioielli di proprietà del modello. EMPORIO ARMANI_Blazer di pelle e pantaloni a righe. T-shirt di velluto, Dries Van Noten. Stivaletti, Celine by Hedi Slimane. Collana in ottone, Dior omaggio a Judy Blame.

nelle pagine seguenti, da sinistra

CELINE BY HEDI SLIMANE_Giacca doppiopetto di flanella a righe, gilet, camicia, pantaloni a zampa, mocassino di pelle con catena. Blazer di velluto leopardato con rever di raso, pant a zampa, camicia classica jabot con cristalli ricamati, stivali di pelle con zip. Mantella di velluto lavorato, camicia di georgette, pantaloni svasati di velluto, pendente “Anita” in ottone dorato e onice con pietre, mocassini pitonati. Giacca con colletto diagonale a due bottoni, camicia con jabot, pant a zampa di pelle, stivale di pelle con zip.





Fashion

A GLOBAL CONVERSATION ABOUT MENSWEAR Ridefinire il dress-code uomo, abbattendo le barriere e scrivendo regole di eleganza per un nuovo manifesto di stile. Partendo da un talk estetico che ha chiamato a raccolta la creativitĂ di sei fotografi internazionali. Impegnati a confrontarsi su romanticismo e melancolia, heritage creativo, next gender e futuro



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PROMISED LAND FOTO HÉCTOR TRE - STYLING FRANCISCO UGARTE


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in apertura, da sinistra

PRADA_Cappotto di tessuto tecnico, turtleneck, guanti e scarpe. Pantaloni di pelle, Marni. GCDS_ Camicia con applicazioni. Pantaloni, Versace. Scarpe, Prada. Location: Vall de NĂşria/ Queralbs.

MAISON MARGIELA_Trench di gabardine, camicia, cappello, calze destrutturate e scarpe stringate. Spilla, Versace. Model: Fernando Albadalejo @ Hakim Model Management.

GIVENCHY_Maglia di lana bicolor, pantaloni check e stivali. Camicia dal taglio sartoriale, Marni. Hair & Makeup Mariona Botella @ Kasteel Artist Management. Assistente: Alberto TrabalĂłn.


MELANCOLIA FOTO FERNANDO SIPPEL - STYLING CHARLIE WARD


BOTTEGA VENETA_Completo sartoriale. Model: Diego Miguel @ Elite Models Milano. Grooming: Ronaldo Escobar.

JIL SANDER_Cappotto, pull e pantaloni. Production: Seven Seas Film. Art direction: Patrick James Reilly.


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THE FUTURE GENDER FOTO IÑIGO AWEWAVE - STYLING JAVIER DE PARDO


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in apertura, da sinistra

LOEWE_Cappotto di lana con profili a contrasto. ANN DEMEULEMEESTER_Pantaloni con pinces in tessuto decorato da motivi a rilievo. Model: Marco Varcoe @ IMG Models.

PRADA_Camicia e pantaloni. Stivali, Bottega Veneta. Grooming: Lola Martinez. Set design: Cobalto Studio. Digital art: Curro Berdugo. Production: Inès Grego.

LANVIN_Cappotto di neoprene, pantaloni e stivali di pelle. Assistente fotografo: Clara Luz. Assistenti stylist: Acuarela Beard e Borja Romea. Assistente di produzione: Peru Arana.


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Fashion

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MONOCHROME FOTO FREDERICK McHENRY - STYLING KIKA CARASCOSSA & FREDERICK McHENRY


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MAISON MARGIELA_Per lei, top geometrico sovrapposto ad altri top di Sasquatchfabrix e V Code. Sandali, Rick Owens. RICK OWENS_Per lui, blazer vintage. Shorts, Boris Bidjan Saberi. Sandali, Takahiromiyashita The Soloist x OOFOS. Make up artist: Tri-Anh Nguyen @ Work Agency using Viseart & Kosas.

RICK OWENS_Giacca imbottita e shorts. T-shirt, Homme Boy. Occhiali, Uma Wang. Models: Kristen Apollos @ Kult Australia, Ben Llyod @ Chic Management Australia, Anei Dut @ Two Management. Director of photography: Jeremy Arimado. Hair: Diana Jalo using Organic Suka.


70s COWBOYS RELOADED FOTO IZACK MORALES - STYLING MARIANA GUERRERO DINGLER


da sinistra

SAINT LAURENT BY ANTHONY VACCARELLO_ Cappotto a stampa animalier, camicia a pois e jeans. Collana, Emanuele Bicocchi. Cintura,

NADA. Guanti, Wing & Weft. Sulla mano destra: bracciale, Cartier. Sulla mano sinistra: bracciale e anello, Emanuele Bicocchi. SAINT LAURENT BY ANTHONY VACCARELLO_Giacca di shearling,

camicia stampata e pantaloni check. Collana, GLD. Cintura, NADA. Anello, Cartier. Models: Serigne Lam @ Muse Nyc; Aheem Sosa @ Sloane Manzagement.


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PAUL SMITH_Completi sartoriali. Occhiali da sole, Versace. Cappello texano, Gladys Tamez Millinery. Guanti, Wing & Weft. Gioielli, GLD. Cinture, NADA. Boots, Celine by Hedi Slimane. Grooming: Cherry Lee. Producer: Ariel Danziger.

CELINE BY HEDI SLIMANE_Cappa e giacca di velluto, camicie con rouches, pantaloni con banda laterale e di pelle, stivali texani. Cinture, NADA. Gioielli, GLD ed Emanuele Bicocchi. Location: Michele Saunders Brooklynphono @ Nylocations.


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A NORMAL DAY IN 3020 FOTO HENGYI LIANG - STYLING GAULTIER DESANDRE NAVARRE - TALENT ARTHUR CHEN


DIOR_Giacca dall'abbottonatura obliqua, pant lineari dal taglio sartoriale e sneaker in black suède con dettagli monogram. Turtleneck con decoro effetto agopuntura, Xander Zhou. Location: Beijing, China.

BOTTEGA VENETA_Pantaloni in grain de poudre e boots. Giacca in pelle bronzo, Sean Suen. Jumper, Pronounce. Executive producer: Elliott Foote. Produzione locale: May Yang e Qin @ Park Studio.


KENZO _Giacca double face e jogpant imbottiti in nylon parachute. Boots in pelle, Ermenegildo Zegna XXX. Grooming: Yafei. Studio: Westeast Lab. Set design: CJ Project @ Park studio China.

DESCENTE_Parka in tessuto effetto marmorizzato. Camicia con stampa all-over, Dior. CGI-Computer generated imagery design: Mengtaiji e Wenhua Liang @ Roubitstudio.



in alto

ERMENEGILDO ZEGNA XXX_Giacca brown e pantaloni con pieghe in seta iridescente. Camicia, Angel Chen. Coat, 8ON8.

XANDER ZHOU_Turtleneck con decoro effetto agopuntura. Pantaloni in pelle dal taglio sartoriale, Dunhill.

in basso

JIL SANDER_Camicia in pelle dal taglio workwear, pantaloni con pinces e boots in pelle con suola carrarmato.




EXTRA THE CREW_Priya Ahluwalia, Spencer Phipps, Loris Messina, Simone Rizzo, Matteo Gioli, Veronica e Ilaria Cornacchini, Daniel Beckerman, Mauro Simionato, Giulia Bortoli, Charaf Tajer, Alan Crocetti, Stefan Cooke, Mats Rombaut, Giorgia Cantarini, Simone Vertua, Didier Falzone, Yoann Lemoine aka Woodkid, Cristina Manfredi, Collier Schorr, Alessandro Squarzi, Alice Teso, Davide Monteleone, Alecio Ferrari, Alessandra Faja, Ragnar Kjartansson, Caroline Corbetta.


Po r t fo l i o

NOW DRESS CODE Un album dedicato alla scoperta dei designers emergenti che stanno riscrivendo la mappa della moda maschile contemporanea. Con un’attenzione particolare alla sostenibilità Testo Giorgia Cantarini e Simone Vertua Illustrazioni Didier Falzone

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opo l’impollinazione del mondo formale da parte dello streetwear avvenuta negli ultimi anni viene spontaneo chiedersi: esiste ancora il concetto di dress code? Cosa significa eleganza oggi? Il maschio del futuro si vestirà in tuta o in completo? Gli accessori che ruolo hanno? Lontano da voler proporre un manuale del gusto e dell’eleganza dedicato all’uomo contemporaneo in stile Hardy Amies, questo portfolio è una riflessione su come si è evoluto il guardaroba dell’uomo di oggi attraverso il racconto di chi la nuova moda la sta facendo.

Ahluwalia - Street tailoring

Priya Ahluwalia ha lanciato il suo marchio nel 2018, subito dopo il master in abbigliamento maschile presso l’Università di Westminster. Diventata da subito una delle star della fashion week di Londra, è stata chiamata da adidas per una collab durante la Paris Fashion Week F/W 2019, ed è tra le vincitrici del premio LVMH 2020. LʼOfficiel Hommes Italia: Chi è l’uomo Ahluwalia? Priya Ahluwalia: Non credo esista una persona che incarni il marchio, o almeno non l’ho ancora incontrata. Se proprio devo, direi ASAP Rocky. Nell’abbigliamento maschile ci sono regole non dette, voglio oltrepassare i limiti convenzionali e convincere gli uomini a indossare un po’ di colore, a lasciarsi andare.

LOHI: Nel tuo stile ci sono influenze sport e street. Qual è la direzione del menswear oggi? PA: La mia ultima collezione è stata influenzata dalla musica caraibica, in particolare dalla musica giamaicana anni ’60. E poi l’arte: ho inserito macro motivi che rendono omaggio alle onde delle opere di Barbara Browns e che si ritrovano inseriti su piumini e completi in denim. Per quello che riguarda il mondo active, ci sono tessuti delle tute adidas vintage, inseriti nei pantaloni. C’è un tocco sartoriale, un unicum culturale e la vibe della strada. Credo che il legame con la cultura street sia fondamentale; soprattutto per le generazioni più giovani che ci s’identificano. LOHI: Sei nota per il tuo credo sostenibile. PA: Non mi sento una guru della sostenibilità ma cerco di informarmi e fare la mia parte. Utilizzo tessuti di stagioni passate o vintage dandogli un twist nuovo. La verità è che per far sì che la sostenibilità sia alla portati di tutti ci vorrebbe l’impegno dei grossi brand nel scegliere tessuti certificati sostenibili e di conseguenza il prezzo di mercato, che è più alto, scenderebbe. LOHI: In che modo il tuo background multiculturale ti ha influenzata? PA: Nel mio brand ho messo tutto quello che sono. Mi associo alla vivacità dell’uomo del Lagos, e poi all’artigianato indiano. Ad esempio, uso sempre l’arancione


bruciato, perché mi ricorda il colore della sabbia della Nigeria, e adoro i metodi di tintura, perline e ricamo indiani. LOHI: Quale contributo hai dato come designer alle tematiche sociali del momento? PA: Sono sempre stata interessata alla politica e alla sociologia, collego le mie collezioni a cause sociali e enti di beneficenza, per esempio, il mio libro, “Jalebi”, era una celebrazione della diversità e tutti i profitti delle vendite sono andati a Stephen Lawrence Charitable Trust e Southall Black Sisters. Il libro è un ritratto per immagini di cosa significhi vivere nel quartiere di Southall nella Londra di oggi (chiamato Little India, ndr): un mix di templi sikh, cibo punjabi, musica che risuona dagli altoparlanti in strada, dove si sono trasferite anche comunità africane e caraibiche. In un momento così difficile, tra la pandemia, la Brexit e Black Lives Matter mi sembrava importante parlare della tematica delle differenze come punto di forza. Nella S/S 2021 intitolata “Liberation”, nata da una collaborazione con il graphic designer britannico Dennis McInnes, nato a Lagos, l’ispirazione sono stati i poster, le notizie e le fotografie dalle proteste degli anni ʼ60 in Nigeria. (GC)

Phipps - Outerwear

Punto di partenza del marchio è esaltare la forma più pura d’interazione tra uomo e ambiente, con particolare attenzione al concetto di responsabilità, non solo in termini di scelte produttive ma anche nello stile. Ibridazione formal e sport convivono alla perfezione, con capi modellati su tessuti certificati GOTS. Dopo essersi fatto le ossa da Dries Van Noten e Marc Jacobs, il fondatore Spencer Phipps si è trasferito a Parigi per iniziare il suo marchio eponimo; ed è stato designer finalista del Premio LVMH nel 2019. La sua passione per lʼarrampicata su roccia si riflette nel twist da esploratore urbano presente nelle sue collezioni. LOHI: Sei lo specchio del tuo brand, quali sono i valori in cui credi? Spencer Phipps: La sostenibilità è il goal, ed è un mindset che parte dalla mia esperienza personale e arriva anche alla creazione delle collezioni. Dal sostenere organizzazioni come 1% for the planet, all’acqua che viene impiegata, i rifiuti e il controllo dei materiali, tutto è nell’ottica


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di essere in grado di “pulire” il mondo e renderlo un posto migliore. LOHI: Qual è la direzione del menswear contemporaneo? SP: Penso che lʼabbigliamento maschile stia tornando a un senso di eleganza più classico, cʼè una certa formalità e austerità che sta emergendo. In un nuovo contesto di sperimentazioni, il menswear non è più così contaminato della grandi vibrazioni streetwear e funky, fin troppo viste nel corso degli ultimi anni. LOHI: Esiste un dress-code universale? Cosa cercano gli uomini oggi? SP: Non ho mai creduto nei codici di abbigliamento. Il mio motto è: indossa ciò che ti fa sentire più autentico. Personalmente penso che in questo momento gli uomini siano alla ricerca di praticità, facilità e comfort, senza per questo essere noiosi. Per me la moda superflua e ridicola è antiquata, completamente non in linea con i tempi folli in cui stiamo vivendo. LOHI: Tra i tuoi pezzi forti c’è sicuramente il capospalla. A cosa t’ispiri quando ne disegni uno? S.P: Come un buon paio di occhiali da sole, è uno dei capi di abbigliamento più trasformabili che puoi avere nell’armadio. Può definire chi sei e, se fatto bene, si indossa con qualsiasi cosa. Come brand guardiamo sempre a capispalla archetipicamente “americani” e li ricontestualizziamo in silhouette contemporanee. (GC)

Sunnei - Urbanwear

Loris Messina e Simone Rizzo, fondatori di Sunnei, percorrendo i canali virtuali hanno conquistato uno spazio nel fashion system con un linguaggio urbanwear. Il loro nuovo headquarter, Palazzina Sunnei, spazio minimal che ospita opere dʼarte e collaborazioni firmate Ben Orkin, Block Studios, Stories of Italy e Anton Alvarez, rappresenta “lo specchio del brand: semplice ma molto diretto, multidisciplinare”. LOHI: Come funziona il vostro processo creativo? Loris Messina e Simone Rizzo: Non avendo delle vere basi di design, abbiamo sviluppato un processo molto personale, che parte con una fase di ricerca seguita da un focus sui dettagli, che teniamo a curare in

maniera quasi maniacale. LOHI: Secondo voi qual è il dress code dell’uomo contemporaneo? LM e SR: Crediamo che il concetto di dress code, specialmente tra i più giovani, stia prendendo la direzione di combinazione di pezzi versatili, adatti a più occasioni. LOHI: Quanto è importante per voi trainare le tendenze del momento? LM e SR: Il nostro brand è nato come realtà posta al di fuori di qualsiasi trend passeggero e dinamica classica del mondo della moda. Ciò che cerchiamo è la qualità, autenticità e bellezza senza tempo. LOHI: Che rapporto avete con il virtuale? LM e SR: Sunnei è nato e ha mosso i suoi primi passi su Instagram, realtà grazie alla quale abbiamo raggiunto un pubblico internazionale sviluppando un linguaggio unico e riconoscibile. Con gli anni, il modo in cui approcciamo il virtuale è cambiato, anche in relazione alla saturazione dei canali che utilizzavamo inizialmente. Siamo quindi passati a focalizzarci su progetti cross-mediali in cui il digitale e il reale si incrociano. Lo step più recente è stato quello per il progetto Sunnei Canvas, presentato tramite degli avatar 3D. Si tratta della creazione di una linea parallela composta da pezzi continuativi in total white che una selezione di buyer poteva personalizzare. (SV)

SuperDuper - Hats

«Dall’antiquariato a un accessorio contemporaneo che può essere utilizzato ogni giorno»: è la visione di Matteo Gioli, co-fondatore insieme a Veronica e Ilaria Cornacchini della SuperDuper Hats, azienda italiana che confeziona cappelli handmade. Premiati da “Who’s on Next?” sono conosciuti in tutto il mondo per l’utilizzo di materie prime artigianali toscane di altissima qualità. LOHI: Che ruolo hanno i cappelli nel dress code dell’uomo contemporaneo? Matteo Gioli: Ai nostri occhi, per quella che è la nostra visione del cappello il rapporto è naturale e diretto. Come ogni mattina ci vestiamo, ci mettiamo anche il cappello. Allo stesso tempo sappiamo che non sempre è così “facile” per tutti. Il

cappello è stato vissuto come un qualcosa di elegante o istituzionale, noi vorremmo discostarci da questo atteggiamento che gli fa perdere naturalezza. Per questo non produciamo bombette o cilindri, non vogliamo interpretare lʼaccessorio “once in a while” ma il cappello da tutti i giorni, da portare anche con felpa e sneakers. LOHI: Come funziona il vostro processo creativo? MG: Nel corso degli anni il nostro processo creativo è cambiato ed è cresciuto di pari passo con noi. Inizialmente abbiamo prediletto un tipo di ricerca che fosse fotografica, che partisse da una scintilla visiva. Ora invece è tutto molto più materico ed esperienziale. Abbiamo sempre di più la necessità di “pulire” quello che è il pensiero ed arrivare ad una suggestione molto più fisica prima e visiva poi. LOHI: Quali sono i vostri principali riferimenti? MG: Cerchiamo dei riferimenti che non siano troppo legati all’universo moda, ma di essere costruttivi e apportare visioni che non siano scontate, già viste o che poggino su quelli che sono trend commerciali del momento. LOHI: Quali sono i tratti distintivi di SuperDuper Hats? MG: Potrei dire lo studio delle forme, dei materiali e una malata ricerca di armonia”ma non lo farò. La verità è che abbiamo scelto di raccontare il brand tramite un simbolo, una piccola pietra naturale applicata sui cappelli. È il nostro “tag” e rappresenta l’unicità dei nostri prodotti e allo stesso tempo il nostro legame con la Terra. LOHI: Quale il futuro del menswear? MG: Penso che il gusto del pubblico si stia raffinando. In questo periodo così delicato spero ci sia una presa di coscienza per quello che è la qualità del prodotto. Amo profondamente il pensiero di un designer come Hiroki Nakamura e la sua missione di creare il future vintage, cioè capi che siano fatti talmente bene da durare nel tempo e diventare vintage. (SV)

Retrosuperfuture - Eyewear

Daniel Beckerman è il fondatore di Retrosuperfuture. I suoi occhiali sono indossati da Elton John, Keanu Reeves,


Maluma, Kanye West, J.K. Rowling e Yoko Ono. LOHI: Cosa significa Retrosuperfuture? Daniel Beckerman: Semplicemente mi piaceva l’idea di avere un brand che si chiamasse Super. Mentre retro è stato il nome di un articolo di moda che scrissi per PigMagazine. Rappresenta ciò che siamo: contaminazioni passate e future unite da una parola, Super. LOHI: Il tuo è considerato un marchio trainante dell’eyewear. DB: Quando iniziai a pensare di creare un brand di occhiali, percepivo la mancanza di un marchio di riferimento: c’erano tanti sporadici design e prodotti, ma mai un progetto e una linea di comunicazione consistente. Sono partito da zero, non sapevo nulla, ho iniziato a studiare la situazione e il mercato, ho trovato i produttori italiani, i distributori e ho iniziato a disegnare le prime linee… LOHI: Come vivi le imitazioni? DB: Avendo nel nostro DNA una forte ricerca sui trend, è ovvio che siamo esposti a reinterpretazioni. In questo momento mi sento lusingato. È successo di anticipare troppo le tendenze e i trend esplodevano alcuni anni dopo. LOHI: Avete portato avanti tantissime co-lab: Sunnei, A-Cold-Wall, OffWhite, Marcelo Burlon… ti piace combinare la tua visione con quella degli altri? DB: Le collaborazioni sono molto divertenti e ti aiutano a espandere i tuoi orizzonti. Ti permettono di avere una finestra su altri territori di cui magari non sei esperto. Le co-lab nel mondo dell’eyewear le abbiamo introdotte noi, dieci anni fa non esistevano: la prima l’abbiamo fatta nel 2008 con Alife. È stato come scrivere le regole di un gioco. LOHI: Se potessi scegliere con chi collaborare, che nome faresti? DB: Mi farebbe molto piacere lavorare con Kanye West, ho iniziato con lui e sarebbe come un ritorno alle origini. È una questione personale, non di business. LOHI: Cosa mi dici della collaboration con The Andy Warhol Foundation? DB: Era uno di quei progetti un po’

“tricky”, il rischio era quello di cadere nel banale. Dopo un viaggio a New York, siamo riusciti a trovare negli archivi dell’artista opere spettacolari, tra cui un disegno di Warhol originale di un paio di occhiali. Abbiamo ripreso quei quattro disegni e abbiamo creato gli occhiali che l’artista non fece in tempo a realizzare. Oggi sono in vendita anche nello store del MOMA. LOHI: Hai mai pensato di estendere la linea agli accessori? DB: Ci penso sempre. Impariamo molto dalle nostre collaborazioni; in passato abbiamo sviluppato quella con Vans, che includeva felpe e scarpe, recentemente con Woolrich per la nostra camicia. È un marchio storico e che ha tanto da dire, reso da noi in una versione più “rough”. (SV)

Vitelli - Knitwear

Ispirato alla cultura giovanile del clubbing anni ’80 e allo stile italiano d’oggi, Vitelli è una fucina di creatività, un brand no-gender fondato da Mauro Simionato e da Giulia Bortoli, basato su musica, architettura, colore e approccio sostenibile. LOHI: Vi definite un brand luxury-freak? Cosa significa? Mauro Simionato e Giulia Bortoli: Fin dalle prime collezioni Vitelli prende spunto dallo stile “Cosmic” italiano (19801984), un movimento pacifico e anti-ideologico cresciuto alla fine degli anni di piombo con il motto “la musica è cultura”. Uno stile che nell’estetica fricchettona ha una sua eleganza intrinseca, per questo il termine luxury-freak è quello che contraddistingue il nostro modo d’intendere la moda. Il suono “cosmic”, che poi nasceva nella famosa discoteca “Cosmic” di Lazise sul lago di Garda, è un mash-up di generi diversi, da Paesi diversi, la cui unione è unica, sofisticata e al tempo stesso accessibile a tutti. Da questo deriva anche il nostro concentrarsi su essere un brand che promuove la diversità e l’inclusione. LOHI: Street sì, street no? Immaginate un ritorno allʼeleganza? MS e GB: Parlare di “fine dello streetwear” non ha senso, perché lo streetwear è cultura e non sottende solo a t-shirt e a felpe. Il concetto dʼeleganza non è estraneo

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Qui sopra, dall'alto: una camicia Casablanca, un paio di occhiali di Retrosuperfuture e un overshirt di Vitelli. Nella pagina precedente: total look di Ahluwalia, sneakers di Rombaut e borsa firmata Stefan Cooke. Nella doppia successiva: total look di Phipps e ear cuffs di Alan Crocetti. Nell'ultima doppia total look di Sunnei e cappello di SuperDuper.


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allo streetwear, nemmeno al suo lato piu basic: un bomber o una “tuta” possono essere eleganti nella vera accezione del termine. Se parliamo di eleganza classica, credo che il dialogo con lo streetwear sia iniziato da tempo, ed abbia raggiunto risultati visibili. Sono entrambi i lati della stessa medaglia, come si evince dalle collaborazioni degli ultimi anni tra brand del lusso e brand street, e dal ritorno dell’abito nella youth-culture. LOHI: Il vostro core è la maglieria. Quali sono le caratteristiche che la rendono speciale? MS e GB: Vitelli racconta a suo modo l’arte del fatto bene tipica del made in Italy. Ad esempio, attraverso lʼutilizzo del filo con la tecnica di agugliatura “Doomboh”, così come l’abbiamo chiamata noi, che parte dal recupero dei fondi cono del filo — che solitamente vengono buttati —, e che ci servono invece per realizzare trame che sono un ibrido tra maglia e tessuto. Cerchiamo sempre di realizzare capi evocativi, oggetti con una propria energia, capaci di trasmettere un’attitudine prima ancora che andare a formare un look. Dalla prossima collezione S/S 2021 la maglieria diventa anche strutturale su capi di sartoria, polo, abiti, trench, facendosi revers, coste o impiegata come decoro dei capi, dalla patta delle tasche fino ai dettagli di cucitura. I filati sono di recupero, così come i tessuti, il nostro è un lavoro di upcycling orientato verso una politica di zero waste, con bassissimo impatto ambientale. Lʼobiettivo è di arrivare un giorno a essere sostenibili in ogni processo. (GC)

Casablanca - Shirt

Il nome Casablanca ha una risonanza personale: è la città in cui i genitori del direttore creativo del brand franco-marocchino Charaf Tajer si sono conosciuti lavorando fianco a fianco in un atelier di abbigliamento, e il luogo dove lo stilista trascorreva le sue vacanze da bambino. Anche se l’idea non era quella di evocare un luogo specifico, bensì di suggerire un’atmosfera di avventura in luoghi e situazioni sempre diversi. Le sue camicie di seta ne sono un esempio. Grazie alle stampe raffiguranti la na-

tura, con paesaggi tra l’esotico e il mediterraneo, lo sport (dal tennis allo sci nda), gli animali, in particolare i cani, dal chihuaha al dalmata, il tutto reso con colori pastello effetto acquarellato che conferiscono alla collezione un’atmosfera rétro. Tajer — che si è fatto le ossa come cofondatore di Pigalle e consulente di Virgil Abloh — ha concepito Casablanca con l’idea di colmare il vuoto tra streetwear e sartoria. LOHI: Come definiresti il tuo stile? CT: Elegante e classico. Lo stile del brand è influenzato dallʼarchitettura e dalla natura tradizionali. Il tratto distintivo dello stile Casablanca risiede anche nel delicato equilibrio tra comfort ed eleganza. La definizione che vorrei è “neoclassico”, poiché stiamo cercando di cristallizzare lo spirito di uno stile senza tempo in chiave moderna, per il quale ci ispiriamo alla vita di tutti i giorni, dalle belle signore che prendono il tè delle cinque al George V al giovane tennista. LOHI: Qual è il nuovo codice di abbigliamento? Cosa cercano gli uomini oggi? CT: Credo che le persone stiano cercando la felicità. C’è una maggiore cura di se stessi, gli uomini sono più consapevoli nella scelta del proprio guardaroba. E penso che continueranno a evolversi e ad assumersi più rischi, ad osare. LOHI: Puoi dirci cosa cʼè di così speciale nelle tue stampe, soprattutto quando si tratta di camicie? CT: Mi piace pensarle come immagini di un mondo ideale, che ho nella mia mente. Voglio che la moda che disegno contribuisca alla positività nel mondo, e penso che le storie delle camicie promuovano un modo nuovo di guardare alle cose. Le stampe sono dipinte ad acquarello da artisti del mio team, ogni pezzo è realizzato con molto amore e cura. (GC)

Alan Crocetti - jewelry

Cresciuto in una fabbrica di knitwear a conduzione familiare, Alan Crocetti durante il suo percorso di studi in womenswear alla Central Saint Martins ha iniziato ad avvicinarsi al mondo della gioielleria. Ora le sue creazioni sono

indossate da Dua Lipa, Ezra Miller, Billie Eilish, Isamaya Ffrench e Mahmood. Dal famoso nose plaster ai maestosi ear cuff, la sua linea genderless si distingue per un immaginario dal taglio estremamente contemporaneo. LOHI: Sei nato in Brasile e poi ti sei trasferito a Londra. Come si traduce il tuo background culturale nel tuo lavoro? Alan Crocetti: Le mie collezioni sono fortemente influenzate dalle mie origini, ad esempio dai modernisti brasiliani Oscar Niemeyer e Burle Marx. Niemeyer aveva progettato l’area in cui abitavo a Belo Horizonte prima di sviluppare la capitale Brasilia. LOHI: Hai iniziato la tua carriera come womenswear designer, in che modo ti sei avvicinato ai gioielli? AC: Ho iniziato a sperimentare con i gioielli nell’ultimo anno alla Central Saint Martins e me ne sono innamorato; quelli che ho realizzato per il mio progetto finale hanno attirato l’attenzione di tutti, al punto di ricevere le prime richieste. LOHI: Da bambino ti chiedevi perché gli uomini non indossavano gioielli come le donne. Ora la tua collezione è genderless. Credi che il modo di pensare delle persone stia cambiando? AC: Ogni marchio può far parte del cambiamento, a prescindere da quanto si consideri tradizionale. Alla fine è il consumatore a decidere se aderire o meno. Per quanto riguarda il cambiamento nel pensiero, credo che il processo sia graduale e collegato alla caduta, in ritardo, del concetto di “mascolinità tossica”. Ci hanno inculcato idee machiste fin dalla nascita, che ormai sono radicate nel nostro cervello; e abbinano la forza agli uomini e la fragilità alle donne. LOHI: E il lato oscuro del fashion system? AC: Quello che vedo come oscuro nella vita e nella moda è il perpetuarsi degli stereotipi, ad esempio nell’utilizzo dei gioielli al femminile. Rompere quello schema e creare monili che celebrano l’individualità e l’empowerment abbatte gli stessi pilastri che sostengono l’industria della moda: il potere e la ricchezza.



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LOHI: Quali sono le tue principali ispirazioni? So che sei molto interessato all’anatomia e alle forme del corpo. AC: Mi piace molto la soggettività della bellezza. L’anatomia è di solito il punto di partenza del mio processo di progettazione. Studio l’ergonomia delle parti del corpo, forme e deformazioni, in questo modo considero i miei gioielli come se ne fossero l’estensione. Non comincio mai a progettare pensando per esempio “dovrei realizzare un orecchino”, mi limito a guardare l’orecchio, con attenzione. È così che si sono sviluppate tutte le mie ear cuff. LOHI: Come progetti una collezione? AC: Adoro gli sketch e mi piace fantasticare su cose che a prima vista non sembrano nemmeno realizzabili. Poi l’incisione a cera e il 3D. Ed è interessante come le cose prendano sempre strade differenti durante il montaggio, dove posso giocare e analizzare meglio i miei pezzi. LOHI: Ti piace l’idea di combinare la tua visione con altri brand? AC: Sono sempre attratto dall’idea di lavorare con artisti di diversi media. (SV)

Stefan Cooke - Bags

Dopo essersi laureato alla Central Saint Martins, ed essersi formato da Walter van Beirendonck e John Galliano, Stefan Cooke nel 2018 si aggiudica lʼH&M Design Award e l’anno successivo fonda il suo omonimo brand con il partner Jake Burt. Il suo menswear si definisce anche attraverso gli accessori, come i crossover di borse storiche, tra cui la Kelly di Hemès e i manici della Bugatti. LOHI: Secondo te, quali sono i codici di abbigliamento degli uomini contemporanei? Stefan Cooke: Sono tutti e nessuno! La cosa che attualmente mi piace di più è vedere uomini che indossano vecchi pezzi femminili di lusso. Spero che lʼapprezzamento per i classici articoli di lusso da donna apra le menti sullʼabbigliamento maschile contemporaneo e permetta di esplorare differenti approcci quando progettiamo i dettagli, le forme etc. LOHI: Quali sono i tuoi principali

riferimenti? SC: Cerchiamo riferimenti ovunque possiamo, nei charity shop, nelle vendite di bauli per automobili o aste online. Compriamo tutto ciò che ci piace senza avere un’idea precisa di come lo utilizzeremo per le nostre collezioni. In questa stagione ci siamo focalizzati sui micro dettagli, abbiamo iniziato a sviluppare hardware, etichette segrete e fodere. Per ispirarci guardiamo a vecchie aziende di abbigliamento maschile di lusso. LOHI: Come è nata l'idea della tracolla realizzata con una catena di bottoni? SC: L'idea è nata durante la nostra stagione S/S 2019, lavoravo con i bottoni per realizzare dei vestiti. Abbiamo fatto un prototipo e ha funzionato come accessorio per la sfilata. In seguito, è stato richiesto da alcuni negozi ed è andata sold out molto velocemente. L’abbiamo abbinata ad una varietà di borse vintage e molti clienti hanno comprato solo la tracolla. (SV)

Rombaut - sneakers

Realizzate artigianalmente tra l’Italia e il Portogallo, ma rifinite a mano a Parigi, le scarpe Rombaut rappresentano un crossover tra il design concettuale di alta moda e la responsabilità ambientale. L’idea di fondare un marchio di accessori vegani, dall’estetica futurista e dal forte contenuto etico, è del designer belga Mats Rombaut. Nel 2015, dopo esperienze maturate da Lanvin e Damir Doma, Mats decide di fondare il suo brand, sapendo cosa cerca l’uomo contemporeano in un accessorio come la scarpa: comfort e cool-factor. LOHI: Come definiresti lo stile Rombaut? Mats Rombaut: Futurista e versatile. LOHI: Qual è la direzione del menswear oggi? MR: Sta andando in tutte le direzioni, ma possiamo vedere che cʼè bisogno di materiali più avvolgenti. Abiti comodi da indossare nel tuo ambiente familiare, che ti facciano stare bene. Penso che le persone abbiano capito l’importanza di investire su pezzi chiave, che durano nel tempo, lasciandosi alle spalle il fast fashion.

LOHI: Qual è il dress-code dell’uomo contemporaneo? MR: Penso che il comfort sia molto importante. Come avere pezzi chiave, che siano adatti a diverse occasioni: al lavoro, allo stare in casa o per uscire in città. Qualità più che quantità. LOHI: Cosa rende speciali le calzature Rombaut? MR: Credo che il design sia una componente molto importante: il nostro è un mix di influenze tecno, in cui si affacciano le visioni di mondi lontani e alieni. E poi l’uso consapevole di materiali non inquinanti: utilizziamo sintetici a base biologica, che sono più sostenibili della pelle convenzionale. E, oltre a non uccidere animali per le nostre scarpe, stiamo contribuendo alla ricerca di alternative, che abbiano emissioni inferiori di carbonio. Con lʼEuropa che punta allʼobiettivo zero emissioni per il 2050, siamo felici di lavorare in questa direzione. LOHI:Cosa ti ha portato a fare scarpe vegane? MR: La moda è intrinsecamente non sostenibile; non è possibile esserlo completamente in questo momento, è ancora un territorio molto complesso. Quello che si può fare è cercare di avere meno impatto possibile sull’ambiente e pensare al nostro futuro sul pianeta. La sostenibilità è lʼunica strada da percorrere, ma molti marchi stanno usando questa parola, etichetta e definizione per vendere di più. È triste e penso l’uso di parole come “organico”, “biodegradabile”, “ecologico” andrebbe spiegato e regolamentato. Queste parole hanno perso molto del loro significato oggi e il cliente è (comprensibilmente) confuso. Noi come Rombaut ci impegniamo da sette anni a essere un brand responsabile, molto prima che diventasse una “tendenza”. Volevo fare scarpe vegane, prima di tutto perché volevo ridurre le emissioni di gas serra, che contribuiscono al riscaldamento globale. La natura va rispettata. In seguito mi sono reso conto che gli animali sono esseri senzienti e ho deciso di diventare vegano io stesso e di combattere ancora più duramente, perché il mio brand rispettasse tutti i valori in cui credo. (GC)



People

HELP ME!

Yoann Lemoine aka Woodkid sta per partire in tour con il suo nuovo album “S16”, una riflessione sul potere di chi sa ammettere le proprie debolezze e non si vergogna a chiedere aiuto. A firmare i costumi, Nicolas Ghesquière di Louis Vuitton Testo Cristina Manfredi Foto Collier Schorr

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antante, musicista, scrittore, visual artist e regista. Si definisce così Yoann Lemoine e basta guardare la varietà e il livello dei suoi lavori per dar ragione al 37enne francese, schivo di carattere, straordinario nelle idee. La sua laurea in animazione lo porta a collaborare con Sofia Coppola e Luc Besson, poi inizia a creare campagne pubblicitarie con cui vince una pioggia di premi e firmare videoclip per mega star tra cui Moby, Katy Perry, Taylor Swift, Lana Del Rey, Harry Styles, finché nel 2011 dà un’ulteriore svolta alla sua carriera. Si sceglie Woodkid come nome, entra in sala di registrazione e incide pezzi come “Iron”, “Run Boy Run”, “Goliath”, architetture sonore complesse, appoggiate a ritmiche quasi tribali su cui dispiega la sua voce morbida, per trasportare il pubblico in un mondo malinconico, pur conservando uno spiraglio di speranza. Il tutto supportato da video poderosi, dolenti, raffinatissimi. Di lui anche il mondo della moda si innamora, tanto che il direttore creativo di Louis Vuitton, Nicolas Ghesquière, gli affida all’inizio un video di campagna, seguito, a più riprese, della realizzazione delle colonne sonore delle sfilate della griffe. E disegna per lui tutti i costumi di scena per il nuovo tour che accompagna il secondo album, “S16”, registrato tra Londra, Berlino, Parigi, Los Angeles, Tokyo e l’Islanda, in uscita proprio in questi giorni.

L’Officiel Hommes Italia: Nelle tracce del nuovo disco si avverte un intreccio di angoscia e speranza, la descrizione di sentimenti cupi, illuminati dalla consapevolezza che, forse, non tutto è perduto. È uno scenario incredibilmente affine a quanto stiamo vivendo a causa della pandemia, ma tu quando hai iniziato a lavorarci sopra? Yoann Lemoine: Era il gennaio del 2016 e, attraverso la musica, volevo esprimere l’amore per la mia città (Lemoine è nato a Lione, per poi trasferirsi a Parigi, nda) da cui ho imparato molto, anche se ho sperimentato tanta follia, difficoltà, lo sconvolgimento e al tempo stesso la fascinazione per ciò che di crudo abbiamo vissuto negli ultimi anni, insomma, provavo sentimenti contrastanti. Quando è esplosa l’emergenza covid mi sono domandato se fosse o meno il caso di promuovere un disco così simile a questo particolare momento storico. Chissà se la gente vorrà ascoltarlo, mi sono chiesto, riflettendo più in generale sul ruolo della musica. Credo sia ingeneroso nei confronti del pubblico stabilire una funzione precisa di ciò che compongo, perciò mi sono detto: lasciamo che sia la gente a decidere cosa attribuire alla mia musica, anziché fingere di saperlo io, a priori. LOHI: S16 è in fisica il simbolo dello zolfo che tu hai scelto come titolo dell’album per suggerire un’indagine sulla materia in sé, su cosa compone le nostre

cellule e i nostri cuori. Sei giunto a una qualche risposta? YL: Ho sempre avuto più domande che risposte. Prendiamo ad esempio temi come i cambiamenti climatici o il capitalismo a cui io reagisco sempre in modo non binario, come del resto mi accade riguardo alla mia identità di genere, alla mia consapevolezza, alla mia relazione con il potere, il mio è un meccanismo di attrazione e repulsione. LOHI: Se dovessi sintetizzare il messaggio del nuovo disco, come lo definiresti? YL: Nell’album parlo del potere che scaturisce dal saper chiedere aiuto. Credo che le persone debbano imparare ad ammettere le proprie fragilità, specialmente quando sono vittime di depressione o dipendenze. Il riconoscere una debolezza è un passo meraviglioso, che precede la vera richiesta di aiuto. Spesso diamo di noi l’immagine di chi ha tutto sotto controllo, ma la verità è che ci sono situazioni in cui puoi controllare poco o niente. A volte ci si perde e allora bisogna chiedere una mano ed essere pronti a stringerla. LOHI: Nel tuo lavoro è forte la connessione tra suono e immagine, che stimoli ti danno questi due aspetti messi insieme? YL: Sotto il profilo artistico mi consentono di espandere le mie potenzialità su più fronti, mentre a livello personale mi aiutano a prendere la giusta distanza dalle cose. Se sono sul palco come musicista, oppure diri-



People In queste pagine e in apertura di servizio

Yoann Lemoine, in arte Woodkid, nelle immagini indossa alcune delle creazioni di Louis Vuitton immaginate per il suo tour da Nicolas Ghesquière, anima creativa della donna della Maison ammiraglia del gruppo LVMH.

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go il video di qualcun altro, dimentico tutto, poi stacco e riesco a lasciare andare le cose. Cerco di non dare troppa importanza a ciò che faccio, a considerare che nel mondo ci sono aspetti ben più significativi di un mio disco. Non voglio essere aggressivo nei confronti miei o delle persone che mi ascoltano, in fondo è solo musica. Certo può diventare una forma di consapevolezza sociale e aiutare il mondo a creare una migliore connessione. Non lo stravolge, ma può dare un piccolo contributo. Quando vedi le cose da questa prospettiva, tutto cambia. LOHI: Dalla collaborazione con un personaggio chiave della moda come Nicolas Ghesquière, anima creativa dell’universo donna di Louis Vuitton, che cosa ti rimane addosso? YL: Il rispetto che lui e tutto il team di Vuitton dimostrano nei confronti del mio lavoro. Ci siamo conosciuti quando mi ha commissionato la campagna video con relativa musica per la F/W 2017-18 e ci

siamo trovati benissimo. Da lì mi ha chiesto più volte di curare il soundtrack delle sfilate, sempre fidandosi della mia visione. È un processo creativo importante, in cui imparo tanto. LOHI: Non ti senti mai sopraffatto da tutti i fronti che tieni aperti? YL: È da almeno sette anni che sono sempre al limite, del resto è normale per uno come me che ci mette la faccia, che vuole fare le cose da sé. Creare è la mia passione più grande, è una storia d’amore, non una costrizione. Il giorno in cui dovessi fare musica perché devo, cambierei subito il mio approccio. Oggi tutto quello che produco nasce da una passione assoluta, perciò buon per me se sono travolto dalle cose. LOHI: Quali sono i tuoi valori dʼartista? YL: Credo nelle emozioni e nel talento, inteso come predisposizione individuale, che alcuni hanno e altri no. Quella è la base, ma poi ci devono essere l’impegno e la curiosità. Devi lavorare duro, impara-

re a usare nuovi strumenti e modi diversi di fare le cose. E devi essere molto critico sulla qualità dei risultati. Per un artista è normale apprezzare il proprio lavoro meno del pubblico, è parte del gioco, significa che stai continuando ad andare avanti. LOHI: E cosa ti dà soddisfazione? YL: Riuscire a completare un progetto, avere un’idea e vederla concretizzata. Ci lavori sopra, cerchi il partner giusto con cui metterla in piedi, trovi i soldi necessari e alla fine prende corpo: questo mi dà gusto, perché è un processo sempre più complicato nell’ambiente musicale, soprattutto quando ti confronti con le grandi case discografiche. È dura riuscire a fare qualcosa che sia davvero out of the box. LOHI: C’è qualcosa di nuovo con cui ti vorresti mettere alla prova? YL: Ho appena girato un video dove per la prima volta recito. Voglio esplorare cosa si prova a impersonare le storie e le emozioni degli altri.


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Progetti

RILEGGERE IL PASSATO «Non sono un appassionato di moda, non sono mai stato attratto dalle tendenze». Alessandro Squarzi usa il suo patrimonio di capi vintage per dar linfa al progetto Fay Archive. Come per un nuovo cappotto ispirato a quello della U.S. Navy Testo Alice Teso Foto Davide Monteleone

N

egli anni ʼ80 Diego e Andrea Della Valle acquistano il brand americano Fay, specializzato in capi di abbigliamento tecnico per pompieri, con l’idea di introdurre in Italia un nuovo concept di workwear a uso urbano. Nel giugno 2019 nasce Fay Archive, progetto che riscopre il DNA originario del marchio attraverso una chiave di lettura contemporanea. La direzione creativa viene affidata all’esperto di vintage Alessandro

Squarzi che, forte del proprio archivio di circa 6mila pezzi, di una profonda conoscenza dell’outdoor americano e di una grande sensibilità per l’eleganza italiana, ha dato vita a una collezione senza tempo. A raccontare visivamente il progetto, un reportage di Davide Monteleone, fotografo documentarista (ed explorer del National Geographic), che ha seguito sul campo lʼutilizzo dei capi Fay da parte di “tester” a contatto con la natura in vari Paesi, dal pes-

catore del Don a un affumicatore di aringhe svedese. In una ripresa dello spirito delle vecchie campagne pubblicitarie, raffiguranti uomini veri nel loro contesto lavorativo. LʼOfficiel Hommes Italia: Come nasce la tua passione per la moda? E per il vintage? Alessandro Squarzi: In realtà, toglierei la parola moda lascerei la parola vintage. Non sono un appassionato di moda, non sono mai stato attratto dalle




Progetti

tendenze. Al contrario, mi piace parlare di stile guardando alla storia dei capi, alla manifattura e ai tessuti. Provengo da una famiglia umile e negli anni ’80 – quando sono diventato adolescente – i miei amici compravano i capi d’abbigliamento allora di tendenza, io non avevo le possibilità economiche per farlo, così andavo a Bologna al mercatino della Montagnola a comprare abiti vintage. Ricordo che passavo ore a parlare coi venditori, facendomi spiegare la storia e la manifattura dei capi d’abbigliamento che vendevano. LOHI: I capi del tuo archivio personale ti hanno ispirato nel dare vita a quello di Fay? AS: Ho un archivio di qualche migliaio di capi vintage che spaziano dal denim alle giacche in pelle anni ’30 e anni ’50, ma anche giacche militari, abbigliamento da caccia… una contaminazione di stili e di anni che mi hanno molto aiutato nella creazione di Fay Archive. Ad esempio, nell’ultima collezione c’è un cappotto militare che è stato ispirato da uno del mio archivio, appartenente alla U.S. Navy. LOHI: Com’è nato il progetto Fay Archive? Cosa rappresenta per te questa nuova avventura con Fay? AS: Avere avuto l’opportunità di lavorare con il gruppo Della Valle è stato importante. Fay Archive si propone di dare luce a dei prodotti storici e senza tempo, con una capsule all’interno della collezione ordinaria di Fay, attraverso una proposta che rappresenta al 100% il DNA del brand. L’obiettivo di Fay Archive è quello di rendere contemporanei i capi storici che qualsiasi uomo dovrebbe avere nell’armadio. Acquistare un Fay Archive non significa semplicemente comprare una giacca o un cappotto, significa tramandare storia e tradizione. Se rincorri la moda, rischi sempre di essere fuori moda, facendo fede al tuo stile, invece, non sarai mai fuori moda. LOHI: Come si è sviluppato il processo di ricerca del progetto?

AS: I miei viaggi, che rappresentano anche la mia quotidianità, sono stati fondamentali. Paesi come l’America e il Giappone sono stati utili nella mia esplorazione ma, anche senza andare troppo lontano, uno dei mercatini da cui sono stato ispirato recentemente è vicino a Napoli. Quando, invece, devo lavorare alle collezioni mi chiudo nel mio archivio, seleziono dei capi da portare in azienda dove, assieme al team creativo, creo outfit nuovi, prendendo ispirazione da forme, cuciture e dettagli vintage. Sono stato da subito entusiasta di questo progetto, sento che mi appartiene totalmente. A vent’anni, il capo che comprai con i primi guadagni fu proprio un giaccone 4 Ganci Fay. La colonna portante della capsule è questa giacca, un capo timeless che rappresenta la storia dell’azienda e che è doveroso celebrare, ma che oggi viene reinterpretato in chiave contemporanea. LOHI: Il gruppo Della Valle persegue da anni un approccio sostenibile di produzione, questo succede anche con Fay Archive? AS: Con Fay siamo molto attenti al rispetto della natura. Utilizziamo prodotti e metodi di produzione sostenibili. Ad esempio, lavoriamo con aziende italiane del comparto di Prato che adottano dei processi di riciclo della lana e i cotoni che utilizziamo non subiscono processi chimici. Io stesso non tollero i materiali sintetici e anche in questo caso la mia filosofia e la filosofia del brand si incontrano alla perfezione. L’intera produzione delle collezioni Fay Archive è made in Italy. Credo che oggi si stia acquisendo sempre più consapevolezza in termini di sostenibilità e che ci sia una volontà di possedere capi che durino nel tempo, fatti con tessuti nobili; acquistando meno pezzi di maggiore qualità. Anche questo è in sé un atteggiamento sostenibile e Fay Archive, proponendo prodotti fatti per durare, rappresenta appieno questo modo di pensare e agire.

Frammenti di un documentario di vita

Andrey, taglialegna, nella foto qui sopra e in apertura di servizio, indossa Parka over fit in popeline idrorepellente con membrana tecnica traspirante, dotato di un ampio cappuccio, imbottitura in ovatta tecnica e coulisse interna in vita, con tipici ganci a chiusura.

Petter, affumicatore di aringhe, indossa qui sopra e nella pagina accanto in alto, giacca in canvas di cotone stone washed con dettagli in velluto e crosta e tipici ganci a chiusura.

Vitali, pescatore, indossa nella pagina accanto in basso, giacca 4 Ganci in canvas di cotone stretch tinto in capo, con banda realizzata a mano, taschino di ispirazione military sulla manica e chiusura con ganci (qui sopra un dettaglio).


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Must-have

HOME OFFICE In epoca di smart working la casa diventa ufficio, ma non cambiano gli accessori. Ad animare, con un tocco cool, il dress-code da businessman Foto Alecio Ferrari Styling & set design Alessandra Faja


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in apertura

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nelle pagine precedenti

DSQUARED2 _Stivali “Ring Boot” in pelle. MAISON MARGIELA_Marsupio in pelle bianca a stampa coccodrillo. BOSS_Portadocumenti in pelle con frange.

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Art

L’ARTE (E LA VITA) IN LOOP Durata e ripetizione sono i pilastri della pratica artistica di Ragnar Kjartansson, che ha trasformato in antieroico strumento di distorsione del reale le performance 70s. Come “The Sky in a Room” a Milano per Fondazione Trussardi Testo Caroline Corbetta

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ra dicembre. E non faceva neanche tanto freddo, calcolando che ci trovavamo ad una mezz’ora buona di macchina da Reykjavik. Ma eravamo all’aperto, su una piccola altura in una landa altrimenti piattissima, e nella luce opaca soffiavano folate di vento improvvise e taglienti. Lui, apparentemente impassibile al clima nonostante il naso e le guance lievemente imporporati, mi strinse la mano con aria mesta giustificandosi per il suo vestito – un completo nero che gli andava piccolo di quasi due taglie con cravattina texana in tinta – aggiungendo che gliel’avevano prestato per andare a un funerale da cui era appena tornato. Questo è stato il mio primo incontro con Ragnar Kjartansson, una ven-

tina d’anni fa. Praticamente una scena di un film dei fratelli Kaurismäki se fossimo stati in Finlandia invece che in Islanda. Indimenticabile, per essere un incontro di lavoro: stavo girando la Scandinavia nel ruolo di guest curator di Momentum, biennale dei paesi Nordici, alla ricerca di talenti locali e Ragnar, allora ventiseienne, rappresentava il tipico artista islandese, quasi uno stereotipo: eccentrico, poliedrico e affabile. Non sapevo ancora bene che tipo di lavoro facesse ma, in cuor mio, l’avevo già ingaggiato nella biennale che stavo curando. L’anno dopo, dovendoci rincontrare per una serie di appuntamenti dedicati all’arte nordica dal prestigioso Courtauld Institute di Londra, lo ritrovai sotto una scala, sotter-

rato in una montagnola di terra fino alla vita e imbracciando una chitarra, che cantava in loop la strofa “Satan is real and he’s working for me” (Satan is Real, 2004). Questo per circa sei ore di fila, senza interruzioni. La ripetizione e la durata sono da sempre i pilastri su cui si sorregge la pratica artistica di questo romantico radicale, nato in una famiglia di teatro (padre regista e madre attrice), che ha combinato il gusto ereditato per la messa in scena con la passione per le performance dure e pure anni Settanta, come quelle, per intenderci, di Marina Abramović, Chris Burden e Carolee Schneemann dove il sangue è sangue. Kjartansson l’ha sostituito col ketchup trasformando l’endurance che caratterizzava quelle “per-


formance hardcore”, come le chiama lui, in un antieroico strumento di distorsione tragicomica del reale, che riesce a strappare risate sonore ma che provoca anche profondi magoni. Nell’iconica video-installazione “GOD” (2007) canta come un crooner in smoking, con tanto di brillantina in testa e orchestra alle spalle, ripetendo “Sorrow conquers Happiness” centinaia di volte, per quaranta minuti mandati in loop, pronunciando la frase con un’intonazione emotiva sempre diversa. Un mantra irresistibile e indimenticabile, praticamente una preghiera laica. «La vita è triste e bellissima e la mia arte è molto basata su questa visione. Io amo la vita. E amo la sua angoscia», mi ha scritto una volta in una email anni fa e credo

che l’essenza di tutto il suo lavoro ‒ una liturgia che dilata l’esistenza cercando di esorcizzare l’inevitabilità della fine ‒ sia racchiusa in questa dichiarazione. Nel suo primissimo lavoro, “The Opera”, con cui si è diplomato all’Accademia di Reykjavik nel 2001, vestito in costume settecentesco improvvisava arie d’opera in una lingua d’invenzione somigliante all’italiano, cinque ore al giorno per due settimane di fila. Oltre la teatralità e la ripetitività, nel suo linguaggio è evidentemente sostanziale il sense of humour. Nerissimo. O come sintetizza lui: «La mia risata preferita è quella sull’orlo dell’abisso, come nei film di Bergman». Il suo intervento più recente è la riedizione milanese della performance “The

Sky in a Room”, originariamente concepita al National Museum di Cardiff nel 2018, per la chiesa di San Carlo al Lazzaretto, sotto la regia di Massimiliano Gioni per la Fondazione Trussardi. Per un mese, fino allo scorso 25 ottobre, alcuni musicisti si sono alternati ogni giorno all’organo della chiesa che fu al centro del lazzaretto della peste manzoniana (ogni riferimento all’attuale pandemia è ovviamente voluto), suonando e cantano la celeberrima “Il cielo in una stanza” per sei ore di fila. La canzone di Gino Paoli è così diventata un’ode universale e commovente capace di dare quasi una consistenza fisica, nella reiterazione, all’amore sacro come a quello mondano. Personalmente, ho visto delle persone pian-


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gere sui banchi della chiesa. Il giorno della preview della performance, nell’intervista online col curatore, Ragnar ha raccontato di conoscere il pezzo da anni, dopo avere trovato una versione cantata da Mina in un negozio di dischi di Firenze, e di amarlo per l’intensa trascendenza amorosa che descrive pur essendo stato scritto in un bordello. Una dichiarazione che conferma il gusto dell’artista per quei piccoli dettagli triviali che agganciano alla prosaicità della vita i gesti più poetici, rendendoli struggenti e, viceversa, «la capacità di trovare l’infinito nel banale», come ha chiosato Gioni. L’episodio ribadisce anche la passione per la musica che, per un certo tempo, è stata una vera e proprio occupazione professionale per Ragnar Kjartansson. Quando l’ho conosciuto era il frontman di almeno tre band, ma ne ricordo solo due: Trabant e The Funerals. Ad un certo punto ha dovuto mollare

perché il mondo dell’arte lo reclamava tutto per sé. Però non ha mai smesso di esibirsi. Per esempio, una sera dicembrina del 2013, a pochi passi dalla chiesa milanese della sua ultima performance, Ragnar si è presentato al Crepaccio, la vetrina sperimentale che avevo aperto nel quartiere multietnico di Porta Venezia e che poi si è trasferita su Instagram. Essendo il giorno prima della Prima della Scala, avevamo organizzato un concerto di strada a modo nostro con due giovani artisti milanesi, i Pineapple Boys, e un pubblico alquanto eterogeneo riscaldato da vin brulè e coperte termiche indossate come mantelli dorati. Lui, che era in città per una mostra all’Hangar Bicocca, ha improvvisato un’esibizione con una chitarra prestata e un megafono giocattolo comprato per l’occasione da un ambulante, mentre il suo amico Oddur, figlio del leggendario artista tedesco naturalizzato islandese Die-

ter Roth, lo accompagnava usando due noci di cocco come percussioni. Una serata che pareva già epica cosi ma che ha visto anche un raid, totalmente fuoriprogramma, di Myss Keta che, accompagnata da tre bodyguards in passamontagna dorato come lei, è saltata giù da una macchina, ha cantato “Milano sushi & coca”, anche lei con un megafonino, ed è ripartita a tutto gas. Ma questa è davvero un’altra storia. A parte divertissement improvvisati di questo genere che l’artista si concede ancora, la sua carriera, costellata di mostre nelle maggiori istituzioni del pianeta, dal Carnegie Museum di Pittsburgh al parigino Palais de Tokyo, è stata consacrata nel 2009 con la partecipazione alla Biennale di Venezia come rappresentante ufficiale dell’Islanda. Non avendo però il suo Paese un padiglione all’interno dei Giardini, fu affittato il piano terra di un palazzo affacciato sul Canal Grande, sugge-


in apertura

Ragnar Kjartansson ritratto da Elisabet Davids durante la realizzazione di una sua opera. da sinistra, in senso orario

"The Sky in a Room" (2018). Commissionato da Artes Mundi e Amgueddfa Cymru � National Museum Wales e acquisito col supporto di Derek Williams Trust e Art Fund. La performance è stata riproposta quest'anno dalla Fondazione Trussardi a Milano, nella chiesa di San Carlo al Lazzaretto (Foto Polly Thomas). "Symphony n°1" performance di Ragnar Kjartansson e Alterazioni Video sul Palco del P.S.122 per Performa09 a New York (2009). "The End": la performance durata sei mesi all'interno del Padiglione Islandese alla 53ª Biennale di Arti Visive di Venezia (2009). "God": videoinstallazione del 2007 con musica di Davíð Þór Jónsson e Ragnar Kjartansson, commissionata da Thyssen-Bornemisza Art Contemporary, Vienna e The Living ArtMuseum, Reykjavik (Foto Rafael Pinho). "Prima della Prima", 6 dicembre 2013: concerto improvvisato di Ragnar Kjartansson con Oddur Roth e i Pineapple Boys davanti a Il Crepaccio a Milano.

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stivamente delabré, o «devastatingly poetic», come lo descrisse Ragnar, che decise di passarvi i sei mesi di durata della Biennale per godere di quella bellezza infinita e decadente inscenando la performance intitolata “The End”. Nell’orario di apertura del Padiglione, l’artista ha dipinto e ridipinto davanti al pubblico il medesimo soggetto in un’unica posa (un amico che indossava uno Speedo, poggiandosi melanconicamente al pozzo del palazzo) su centinaia di tele che andavano accumulandosi nello spazio insieme a bottiglie di birra e wishky, posaceneri stracolmi e pile di dischi, segno di una celebrazione della vita che proseguiva h24 in quell’«avamposto alla fine del mondo». In quel periodo Ragnar ha dato prova del suo approccio “larger than life” accettando il mio invito e della collega Barbara Casavecchia a partecipare a Performa, la biennale di arti performative di New York

quell’anno dedicata al Futurismo. Non potendo intervenite di persona perché chiuso tutti i giorni fino a fine novembre nel suo palazzo veneziano a dipingere, Ragnar, insieme al collettivo Alterazioni Video, si è inventato una partecipazione a distanza, molto prima che l’arte virtuale diventasse così praticata come oggi per ovvie ragioni. Il lunedì sera dopo il weekend di Halloween, su un palco nell’East Village, i cinque componenti di Alterazioni Video performarono eleganti ed iconoclasti come veri futuristi, tirando calci a palloni e preparando cocktail al limoncello, in un crescendo irritante ed esilarante allo stesso tempo. Dietro di loro, in un grande e obsoleto televisore scorreva la videoregistrazione della performance di Ragnar che consisteva in azioni banali ai limiti dell’insensato, come picchiarsi sul petto nudo la tastiera di un pc. Tutto questo mentre il “vero” Ragnar segui-

va lo spettacolo in diretta Skype da Venezia attraverso il laptop che tenevo in grembo. Dopo una generalizzata (anche delle curatrici) tensione iniziale, la platea si è sciolta in applausi e urla all’americana e l’indomani è uscita una recensione coi fiocchi sul New York Times. Quella dimensione virtuale ante litteram e sgangherata aveva fatto breccia grazie all’urgenza della necessità e alla forza della sua autenticità. Quella sera mi tornò in mente una cosa che Ragnar aveva detto a proposito dell’influenza di Dieter Roth sul suo lavoro e sulla scena islandese in generale «Ci ha instillato il concetto che va bene tutto, basta che sia onesto e vero». Se poi la verità è anche un tantinello messa in scena, meglio ancora. Perchè, forse, attraverso quella che Ragnar Kjartansson ha definito scherzando ma non troppo, «the sincerity of pompousness», si può meglio affrontare la struggente intensità della vita.


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Lʼidea di moda maschile è, allo stesso tempo, un fenomeno molto moderno ma anche un concetto totalmente obsoleto. La moda è senza genere e la sua assegnazione binaria è un costrutto sociale che, finalmente, sta scomparendo. Gli uomini, infatti, sono sempre stati alla moda. Seguendo le tendenze e sperimentando forme e colori attraverso i loro vestiti. Ma per quasi un secolo hanno dovuto nascondere i loro gusti personali dietro unʼarmatura protettiva e la maschera repressiva di unʼuniforme rigorosa e definita. Il movimento femminista ha permesso anche lʼevoluzione dellʼidentità maschile e ha regalato agli uomini la possibilità di esprimersi comodamente ed emotivamente attraverso la moda. Come è stato possibile constatare dalle ultime passerelle globali, la separazione tra moda femminile e maschile, a livello di sfilate e di mercati, sta volgendo al termine. Ma lʼindustria, e anche i consumatori, non sono ancora pronti a sciogliere completamente queste distinzioni: indossare gli stessi abiti e fare acquisti negli stessi negozi appare ancora utopico. Mai come in questo momento, però, esiste una reale convergenza di tendenze. Gli uomini, in realtà, hanno ancora molti tabù da infrangere e molte

battaglie da vincere contro una solida tradizione di inibizione e conformismo. Si trovano in una fase di evoluzione diversa, a seconda di dove vivono e di ciò che le loro norme culturali gli impongono. LʼOfficel Hommes è stato lanciato come un magazine autonomo alla fine degli anni ʼ70, quando lʼidea di moda maschile non solo divenne più socialmente accettabile, ma iniziò anche a diventare una realtà di mercato riconosciuta. Da allora, molto è dovuto cambiare per abbattere le barriere delle convenzioni di genere e oggi LʼOfficiel vuole parlare, in contemporanea, allʼuniverso maschile e a quello femminile. Due volte allʼanno i riflettori sono puntati soltanto sugli uomini, celebrando i pionieri che stanno audacemente spingendo i confini nella moda, nellʼarte e nella cultura. Come la nostra cover star Jared Leto e il leggendario duo artistico Gilbert & George, nonché le molte tendenze moda raccontate nel portfolio “Power Off”, unʼode alla nuova sartorialità. Insieme, seguendo il loro personale codice tailor made, gli uomini controllano continuamente quanto lontano sono arrivati, ma soprattutto quanto lontano devono ancora andare.


Jared Leto’s Worst Kept Secrets Dopo tre decenni di crowd surfing ai concerti rock, e trasformazioni estreme sullo schermo, l'enigmatico attore, musicista, e provocatore a tutto tondo riflette sulla nuova fase della sua vita dialogando con Finneas O’Connel, fratello di Billie Eilish. Photography CAMERON McCOOL Styling KARLA WELCH Ventʼanni fa, Jared Leto è stato Harry, il protagonista del film sugli effetti della droga “Requiem for a Dream” di Darren Aronofsky. Una performance molto apprezzata dalla critica, che ha catapultato lʼattore e musicista (nel 1998 ha formato il gruppo rock Thirty Seconds to Mars con il fratello Shannon) nella categoria dei leading men dopo le precedenti, piccole ma già molto notate, apparizioni in “Girl”, “Interrupted” e “Fight Club”. Per il film di Aronofsky, Leto ha trascorso diversi mesi da homeless a New York, astenendosi dal sesso e da pasti regolari per arrivare allʼaspetto emaciato del suo personaggio dipendente dalla droga. Nei due decenni successivi, Jared Leto ha continuato a inseguire ruoli estremi

— dal supercattivo di “Suicide Squad” allo spacciatore di pillole transgender di “Dallas Buyerʼs Club”. Nella musica e nella moda, ha oltrepassato i confini delle convenzioni hollywoodiane, trasformandosi in musa del massimalismo quircky di Alessandro Michele per Gucci, fino a raggiungere una nuova generazione di TikTokers. In questo shooting per L’Officiel Hommes l’attore, cantautore e musicista statunitense parla del suo rinnovato amore per lʼarrampicata su roccia e dello sballo delle esibizioni dal vivo con lʼamico di lunga data (e talvolta collaboratore) Finneas OʼConnel, più conosciuto solo come Finneas, fratello di Billie Eilish —Joshua Glass



IN QUESTA PAGINA. Giacca, camicia e pantaloni: tutto SAINT LAURENT BY ANTHONY VACCARELLO. NELLA PAGINA ACCANTO. Blazer e pantaloni: tutto FEAR OF GOD X ERMENEGILDO ZEGNA; camicia, X KARLA; shoes, G.H. BASS & CO. NELLE PAGINE PRECEDENTI. Camicia, SAINT LAURENT BY ANTHONY VACCARELLO.


Ho letto unʼintervista che hai rilasciato dal titolo “Mi piace esercitare il potere del no”. Vorrei parlarne perché mi ha davvero illuminato su come ho impostato la mia carriera, e su come credo l’abbia impostata Billie. Tu ci hai spinti a fare attenzione ai nostri impegni. Sei così deciso e premuroso in ogni scelta che fai, che volevo chiederti se ti viene in mente qualcosa a cui ti sei pentito di aver detto di no? JARED LETO: Probabilmente dovrei dire che faccio molto fatica a dire di no, per questo cerco di essere il più attento possibile a non impegnarmi su troppi progetti. Mi piace lavorare, mi piace trovare soluzioni ai problemi che sono costretto ad affrontare, quindi devo stare attento alla quantità di lavoro che mi sobbarco, perché tutto quello a cui dici sì è un no a qualcosʼaltro. Ma quando dici no, è un sì a unʼaltra opportunità. Ricordo di aver sentito Steve Jobs dire a Jony Ive che il sacrificio non è dire no a qualcosa che non ti interessa veramente, il sacrificio è dire no a qualcosa che potrebbe essere unʼesperienza preziosa. Non vivo di rimpianti ma se dovessi non rimpiangerei tanto di aver rifiutato film o opportunità, quanto di non aver passato più tempo a scalare montagne e a stare allʼaria aperta. FINNEAS:

F: Immagino tu sia in una posizione dove dai consigli alle persone – come hai fatto con me – ma sono curioso di sapere di chi cerchi i consigli, sempre che cerchi quelli di qualcuno. JL: La cosa divertente della musica è che puoi lavorare su un album � io lavoro su un album per anni � e un giorno ti senti un dio perché sei stato folgorato da un’illuminazione, e poi tre settimane dopo lo odi. Mi capita spesso di sentirmi sballottato tra insoddisfazione, sorpresa ed eccitazione, e penso a cosa c’è di bello nell’arrampicarsi per me: la vita all’aria aperta, la semplicità, l’istinto basico che ti spinge a vivere completamente il momento. Ci sono molte persone a cui mi rivolgo per un consiglio. Quando faccio musica, può essere qualcuno come te. A proposito, ho finito una delle demo su cui abbiamo lavorato insieme, dovrei mandartela. È molto strana e molto dark, come piace a me e credo anche a te. Il bello di fare film è che hai il regista, gli sceneggiatori, i montatori e gli altri attori con cui lavorare. Ero al telefono lʼaltro giorno a completare la registrazione di “Morbius”, e mi sono fermato a fare ai tecnici una domanda specifica sul suono. Credo di essere ossessionato dallʼapprendimento; sono iper curioso e voglio imparare sempre. F: Sei nelle condizioni di chiedere consigli a degli esperti nel loro campo. Per me, non c’è insegnante migliore di una persona appassionata della propria materia. Recentemente ho incontrato Steve Bellamy, che dirige Kodak, e gli ho fatto una domanda sulla lunghezza delle bobine. Se fossi andato a scuola di cinema sarebbe occorsa una noiosa lezione di sei settimane, così mi è sembrato di aver assorbito tutto quello che c'era da sapere in 10 minuti. JL: Credo di essere anche veloce ad imparare dai miei amici. Posso essere bravo in alcune cose, ma sono terribile in molte altre. Mi piace imparare dai miei amici... come passano il loro tempo libero; come sono i loro amici e le loro famiglie. Su questo ho molto da imparare perché sono stato così focalizzato sui miei obiettivi di carriera e sulle mie ambizioni per così tanti anni. Ora sto finalmente dando spazio ad altre cose nella mia vita.

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F: Sei stato molto gentile con me e Billie, molto prima che qualcun altro si accorgesse di noi. Quando ci siamo incontrati, avevamo molto bisogno di consigli da parte di qualcuno del settore. Ricordo che ci hai detto che quando hai iniziato a fare musica, nessuno voleva ingaggiare la tua band. Ho pensato che fosse assurdo, perché la tua musica ha avuto un ruolo così importante nella mia adolescenza…

“Rescue Me”, diretto da Mark Romanek, ho diretto tutti i video dei Thirty Seconds to Mars con lo pseudonimo di Bartholomew Cubbins. È uno dei miei segreti peggio nascosti, ma è stato divertente perché ho avuto lʼopportunità di lavorare davvero senza troppe pressioni. Quando pubblico un album passo altrettanto tempo sui video musicali e sulle componenti visive, quanto sulle canzoni stesse. Forse perché sono sempre stato ispirato da band incredibili come i Pink Floyd, o forse perché ho abbandonato la scuola dʼarte. Ho sempre voluto fare il pittore. F: Durante lʼestate scorsa vi siete esibiti in un numero spaventoso di spettacoli in un periodo di tempo super limitato in tutta Europa. Hai praticamente suonato ogni giorno per circa sette settimane? JL: Storicamente abbiamo sempre suonato molto. Chiamavamo il nostro agente e ci lamentavamo se avevamo un giorno libero, quindi era comune per noi fare spettacoli per 21 giorni

Parte del problema potremmo essere stati noi. Ci siamo rifiutati di suonare a Los Angeles. Credo che il posto più vicino in cui abbiamo suonato sia stato Santa Barbara. È stato complicato, e lo è stato per molto tempo anche dopo che ci hanno messo sotto contratto. Non abbiamo avuto successo per circa sette o otto anni, e abbiamo svoltato solo nel corso del 2006 con “The Kill”. E anche allora — ho raccontato questa storia così tante volte — a un certo punto le radio si sono rifiutate di suonare i nostri dischi. MTV ha detto che non avrebbero mai, mai e poi mai, avuto a che fare con Thirty Seconds to Mars! Da allora abbiamo vinto due dozzine di MTV awards e abbiamo suonato a una dozzina di diversi MTV awards in tutto il mondo. Siamo diventati ottimi partner, ma siamo passati da una nomea negativa ad avere più successo di quanto avremmo mai immaginato. Quando si comincia, si guarda sempre avanti. A spingermi a continuare allora erano la paura e il senso del fallimento, ma ora guardando indietro, il motore principale è stata la gratitudine. E se guardo davanti a me, il sentimento predominante è lo stesso. JL:

F: Hai diretto molti tuoi video usando uno pseudonimo. È una cosa che la tua band e mia sorella avete in comune: la componente visiva è così forte da rendere la musica ancora più coinvolgente. Ho sentito per anni che non guardi i tuoi film e neppure i tuoi trailer, quindi mi chiedevo se dirigere un video musicale costituisca per te una sfida, visto che lì devi guardare la tua performance. JL: Stranamente, non mi dà affatto fastidio. Ad eccezione di

QUI SOPRA. Sweatshirt vintage; jeans, GUCCI. NELLA PAGINA ACCANTO, A SINISTRA. Camicia, SAINT LAURENT BY ANTHONY VACCARELLO. NELLA PAGINA ACCANTO, A DESTRA. Camicia, SAINT LAURENT BY ANTHONY VACCARELLO.

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QUANDO SI comincia, SI GUARDA SEMPRE avanti. A SPINGERMI A CONTINUARE allora ERANO LA PAURA e IL SENSO DI FALLIMENTO, ma ADESSO GUARDANDO INDIETRO, il motore PRINCIPALE è la GRATITUDINE. di fila, 18 giorni di fila e poi 14 giorni di fila. Se avevamo un giorno libero nel mezzo, ci dicevamo: “Che accidenti possiamo fare? Un altro spettacolo?” Non saremmo dove siamo se non ci fossimo impegnati in quel modo. È buffo, all’inizio della storia della band ero a Cannes, “Requiem for Dream” stava per debuttare al festival del cinema, e - come sai - di solito non guardo i miei film. Darren Aronofsky mi ha trascinato alla premiere e mi ha detto: “Devi guardare il film, devi far parte di questa esperienza, salire sui gradini della Croisette”, e io lʼho fatto. Ho guardato il film. Ero seduto accanto a Hubert Selby Jr (l’autore del libro da cui è stato tratto il film, ndr). Quando si sono accese le luci, lui ed io ci siamo guardati in lacrime. Tutta la sala era in piedi per una standing ovation. Più tardi quella stessa sera siamo andati


Ho esattamente la tua stessa impressione, se le luci si spengono per un paio di millisecondi, me ne accorgo immediatamente. Se c’è un ragazzino che fa a botte sul lato destro dell’arena con qualcun altro, me ne accorgo. Il tutto mentre sto ancora suonando il mio basso e canto la canzone. È davvero incredibile quanto si possa essere attenti sul palco? JL: Sì, il tuo cervello può pensare contemporaneamente a tante cose diverse, soprattutto quando sei in quello stato di fight or flight, combatti o fuggi. Ma c’è anche la felicità che provo sul palco quando sono insieme a mio fratello e davanti a 40mila persone: mi sento completamente rilassato, a mio agio e tranquillo. Cosa pensi succederà in futuro con i tour? Quando guardo le mie fotografie di prima, mentre sto in piedi sopra alla folla o sto correndo al Rock Am Ring (Festival) tra una folla di 100mila persone, mi chiedo: “Succederà di nuovo?” F:

Penso che succederà di nuovo. Quando, non lo so. Ma succederà. Billie ed io abbiamo genitori sessantenni, e mia madre ha l’asma, quindi personalmente sono stato molto attento. Penso però che la maggior parte della gente non ne possa più della pandemia in corso. Quindi penso che appena si dirà al pubblico che è sicuro anche solo al 50% andare al Festival di Coachella, lo farà. La gente ha bisogno di esperienze piacevoli molto di più della sicurezza al 100%. JL: Cʼè una fotografia che qualcuno mi ha mandato che mi ritrae sul palco con forse mille mani che si allungano per toccare la mia. Anche dopo aver scoperto il vaccino, penso che continueremo a dire: “Posso avere una salviettina disinfettante?” o qualcosa del genere. Non lo so. Ma penso che tu abbia ragione, la gente è pronta a tornare a uscire, a incontrarsi e a celebrare la vita e tutte le sue possibilità e a divertirsi. Io so di esserlo. F:

a casa di Elton John — se la si può chiamare casa, è più simile a un palazzo — con il cast. Durante la serata parlando con Elton gli ho detto che facevo musica da sempre. Mi disse: “Andate in tour, e continuate ad andarci. E quando non ne potete più della tournée, non vi fermate e fate ancora altre date”. È stato proprio Elton ad incoraggiarmi a fare tanti spettacoli dal vivo, perché ha parlato di quanto questo abbia cambiato la sua vita. Gli sono davvero grato perché aveva assolutamente ragione. F: Con queste parole mi hai fatto venire in mente quello che è stato il ruolo della psychedelia nella mia vita. JL: Come “Tiny dancer” (una canzone cult scritta da Elton John nel 1971, ndr). F: Non mi drogo, non perchè sia moralmente integerrimo, ma perchè non mi attrae minimamente. JL: Va bene così, l’ho fatto io a sufficienza per entrambi, e anche per tua sorella. F: Ma

la sensazione più bella è quella di essere sul palco, non credo che ci sia nulla che possa competere con la sensazione di potenza che provi quando ti esibisci davanti a un pubblico che canta le tue canzoni. Provi anche tu la stessa sensazione di beatitudine ed euforia o sei iperconcentrato sul mettere in scena la performance migliore? JL: Sì, è la sensazione più straordinaria, e hai ragione, non cʼè una droga al mondo che possa competere con fare una corsa allo Yosemite Park o stare sul palco a Parigi o a Londra. Quando mi esibisco, lavoro sempre. Mi chiedo, ad esempio, perché il pubblico a sinistra non sia così entusiasta. Oppure noto un ragazzino in particolare nella folla e penso che gli farò passare la migliore serata di tutta la sua vita. Lavoro sempre, ma cerco anche di arrivare al punto dove posso lasciarmi andare e vivere davvero lo spettacolo. Quei momenti sono gloriosi.


IN QUESTA PAGINA. Jacket Vintage; anello, JOHN HARDY. NELLA PAGINA ACCANTO. Giacca, camicia, pantaloni e shoes: tutto SAINT LAURENT BY ANTHONY VACCARELLO. HAIR: Marcus Francis. GROOMING: Jamie Taylor using AUGUSTINUS BADER @ THE WALL GROUP. VIDEO DIRECTOR: Gilbert Trejo. DIRETTORE DELLA FOTOGRAFIA: Amina Zadeh. EDITOR: Alex Cherry. VISUAL DIRECTOR: Miriam Herzfeld. PRODUZIONE: Creative Blood. DIRETTORE DELLA POST PRODUZIONE: Patrick Kinsella. MUSIC: Mrs Piss.

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Visione DOPPIA

Appuntamento a Londra tra il leggendario duo Gilbert & George e il designer Jonathan Anderson.

By PAMELA GOLBIN


giorno delle nostre vite sia importante. Se prendi le immagini di un suit da ogni decade degli ultimi cento anni, le inserisci in un computer e fai una media, salta fuori qualcosa di simile agli abiti che indossiamo noi ogni giorno. Ci piace molto Oscar Wilde, che naturalmente diceva che la moda è orribile, motivo per cui deve cambiare così spesso. JONATHAN ANDERSON: Gilbert & George, il vostro lavoro mi ha influenzato molto ai tempi dell’università e la nostra collaborazione (nel 2018 con JW Anderson, nda) mi sembrava un ottima piattaforma da cui parlare di voi alle generazioni più giovani. Nello humor inglese c’è una bellezza che ho sempre amato e quando guardo alle vostre serie dei primi anni Ottanta, le trovo incredibilmente seduttive. PG: Se non mi ricordo male Jonathan, recentemente sei entrato nel board del Victoria & Albert Museum di Londra. JA: Sì ed è interessante che Gilbert & George abbiano citato Oscar Wilde. Se penso all’abito formale, mi viene subito in mente il suo completo di velluto marrone che il V&A ha da poco acquisito. George, hai proprio ragione, tolto il bavero e la linea della vita, l’idea di suit è cambiata davvero poco nell’ultimo secolo.

Sono una magistrale coppia monocorde, Gilbert & George: dove uno comincia la frase, l’altro la completa. Il duo, così terribilmente inglese, si accorda non solo nei pensieri, ma anche negli abiti, delle uniformi prefissate e complementari nei colori, che sono diventate l’immagine del loro brand, fin dagli inizi, nel 1967, quando studiavano scultura alla Saint Martin’s School of Art a Londra. In perfetto contrasto, Jonathan Anderson, nordirlandese dall’aria sbarazzina e dal guizzo ribelle. Si divide tra l’impegno per il suo brand J.W.Anderson e la Maison del lusso spagnola, Loewe, con il suo stile a metà tra il sartoriale e il bizzarro, con una citazione del compatriota Oscar Wilde a ispirarlo: «Il segreto della vita sta nell’arte». Il designer non nasconde la sua ammirazione per Gilbert & George, con cui ha già collaborato nel 2018. PAMELA GOLBIN: C’è

una qualche relazione tra arte e moda?

GILBERT: No, nessuna. Noi non abbiamo mai considerato la moda

un punto di riferimento. Quando abbiamo iniziato ad andare in giro per le strade di Londra nel 1968, volevamo esser noi, in modo eclatante. Ecco perché indossavamo gli abiti della ... GEORGE: ... gli abiti della nostra responsabilità. Arriviamo da un contesto proletario, dove è molto importante mettere un completo per una occasione importante. Se devi andare a un colloquio di lavoro, a un matrimonio, a un funerale o a un battesimo, ti metti giacca e pantaloni e noi crediamo che ogni

SIN DALL’INIZIO ERA importante IL FATTO CHE NON STAVAMO FACENDO arte. NOI STESSI eravamo l’arte —GILBERT & GEORGE GEORGE: Abbiamo sempre voluto distinguerci e uniformarci allo stesso tempo. In più gli abiti sono assolutamente pratici: quasi mai ti perquisiscono negli aeroporti e riesci ad avere un tavolo nei ristoranti di tutto il mondo. JA: Ho sempre pensato che l’interno di un abito da uomo sia molto affascinante. Sono soprattutto attratto dalla tela che fodera il petto, la sua spugnosità e il crine di cavallo. C’è qualcosa nei materiali che, quando li metti insieme, crea una specie di strana membrana. PG: Jonathan,

qual è per te il ruolo della moda?

JA: Sono cresciuto nell’Irlanda del Nord, dove la moda non contava

un granché e gli indumenti per me sono diventati una sorta di arma. In un modo o nell’altro, tutti diventiamo personaggi quando andiamo al lavoro o usciamo la sera. La moda può essere usata per trasmettere conforto, eccesso, oppure diventare un modo per proteggersi. In definitiva, è un potentissimo strumento QUI SOPRA. Gilbert & George, 2015 © Gilbert & George. Courtesy the artists and

Lehmann Maupin, New York e Hong Kong, Seoul e London.

NELL'ALTRA PAGINA, DALL'ALTO IN SENSO ORARIO. Gilbert & George con il loro Object

Sculptures sul tetto della St Martin’s School of Art, London, 1968; alcuni look creati da Jonathan Anderson nella spring/summer 2015, collezione di debutto per Loewe; un ritratto del designer di origine nordirlandese.

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della personalità. Mi piace starmene seduto al parco e osservare ciò che la gente indossa. Mi interessa la loro attitude, ciò che dà loro sicurezza. La moda è potente nella misura in cui puoi davvero raccontare il momento che stai vivendo. GILBERT: «La moda è contro la nostra religione: abbiamo deciso di indossare i nostri completi e, proprio come fanno i monaci, è una scelta di vita. GEORGE: Molti anni fa, da artisti in erba, ci siamo resi conto che i giovani che a Londra indossavano un abito, poi dovevano buttarlo via dopo due anni. Dovevano continuamente comprarne di nuovi per restare alla moda, mentre noi abbiamo sempre mantenuto lo stesso. PG: Mentre Gilbert e George sono due persone e un artista, Jonathan

tu sei un designer con un duplice ruolo. Crei sia per il tuo brand, J.W.Anderson e per la Maison spagnola del lusso, Loewe... JA: Hai presente il film Willy Wonka e “La fabbrica del cioccolato” con Gene Wilder nei panni di Willy, a cui viene detto di non fare qualcosa per farglielo fare? Non credo che l’abbigliamento sia da uomo o da donna, è ciò che tu senti quando te lo metti addosso. Me ne sono reso conto da ragazzino, quando andavo a fare shopping con mia madre che mi diceva: “La chiusura da donna è in un senso, quella da uomo nell’altro”. A me sembrava ridicolo ed è ciò che mi ha spinto a scompigliare le carte con J.W.Anderson. Da Loewe, mi sento invece la versione più chic di me stesso, come se diventassi più calmo e rispettoso. Il bello è che mentre sono sull’Eurostar che mi porta al quartier generale parigino di Loewe ho il tempo per entrare nella parte. PG: Gilbert & George, voi avete lavorato a una serie intitolata “The New Normal”, com’è andata? GILBERT: L’idea è nata camminando per le strade di Spitalfields. Stavamo cercando un nome che potesse spiegare l’idea di “esistenzialismo” in inglese. Non era “normal”, sarebbe stato normale, in più noi chiamiamo sempre le nuove immagini

IN QUESTA PAGINA DALL'ALTO IN SENSO ORARIO: Il duo artistico performing “The Singing Sculpture” 1992; “Trapped,” 1980, by Gilbert & George, “Union Dance,” 2008, by Gilbert & George.

“new”, perciò siamo arrivati al concetto “New Normal” delle immagini realizzate. La pandemia ha scatenato un incredibile effetto disruptive nei mondi dell’arte e della moda. Le fiere d’arte ora sono delle viewing rooms e la moda si sta confrontando con soluzioni phygital. Quanto sono cambiati i vostri processi creativi? GILBERT: Per noi non è cambiato niente, le nostre mostre sono tutte in corso e stiamo lavorando giorno e notte. JA: La moda è cambiata molto, anche se credo che si stesse comunque avvicinando alla fine di un ciclo e il dilagare del coronavirus lo abbia solo sancito. Ha guardato in faccia la moda e ha detto: “È ora di cambiare”. Da una parte è una situazione che mette paura, dall’altra la trovo molto liberatoria: ho più tempo per ragionare sui vestiti e anche per leggere di più. L’aspetto che trovo più importante al momento, soprattutto per chi vive a Londra, è l’ampliarsi delle disparità economiche tra le persone. GEORGE: «Il nostro messaggio principale ha sempre evidenziato come la gente non abbia mai goduto di così tanti privilegi come noi oggi. Siamo tutti dei ragazzini viziati!». PG:

PG: E

che cosa possiamo fare? Non è compito dell’artista congratularsi o dare alle

GEORGE:

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persone pacche sulla spalla perché sono ciò che sono. L’artista è qui per mostrare che ci sono altre vie possibili. GILBERT: Ci piace l’idea di portare chi guarda a confrontarsi con argomenti difficili. Questa per noi è arte. GEORGE: Spesso ci chiedono perché vogliamo essere provocatori, ma noi non lo siamo affatto e mai vorremmo esserlo. Semplicemente, vogliamo provocare un pensiero. PG: “L’arte

per tutti” da tempo è il vostro motto. Era il 1969 e l’intento era quello di fare arte che tutti fossero in grado di cogliere e da cui tirarci fuori qualcosa.

GILBERT:

PG: Può

esistere qualcosa di simile, un “La moda per tutti”? Credo di si, a volte la moda viene etichettata come un tipo di arte per le élite ma, che ci piaccia o no, riguarda tutti e tutti interagiamo con essa ogni giorno. Penso che siamo tutti indirettamente coinvolti in questo bizzarro esperimento pubblico dell’agghindarsi. GILBERT: La moda è un qualcosa di enorme, molto più grande dell’arte perché tutti vogliono vestirsi come una vera regina e andare in giro per le vie di Londra, è un fatto. L’arte è solo una specie di arbitro. Tutti vogliamo distinguerci, nessuno vuole essere come un altro, a parte noi. JA:

LA moda PUÒ ESSERE USATA PER TRASMETTERE conforto ED eccesso. OPPURE PUÒ ANCHE DIVENTARE UN MODO PER proteggersi. —JONATHAN ANDERSON

PG: Jonathan,

come vedi il tuo ruolo creativo? quello di un curatore di idee, uno che porta persone diverse a collaborare su progetti differenti. Loewe ha una fondazione d’arte che promuove e sostiene talenti della poesia, danza, fotografia, delle arti e dei mestieri ed è un impegno importante. Uno dei miei miti è William Morris, con il suo impegno nel valorizzare l’artigianalità. Alle origini, Loewe era una cooperativa tedesca di artigiani. Ancora oggi i discendenti di quelle stirpi lavorano in azienda, sono dei veri mastri artigiani. Mi dicono che cosa fare perché sanno come si JA: Come

deve lavorare un materiale come il cuoio, in sé estremamente difficile, un qualcosa che era vivo e che è stato ri-progettato per essere qualcos’altro. La loro abilità è stata trasmessa di generazione in generazione. GILBERT: Siamo stati molto affascinati dal movimento Arts and Crafts, siamo forse tra i suoi maggiori collezionisti. GEORGE: La nostra arte è artigianale, ma nessuno se ne accorge perché non vogliamo che la gente se ne renda conto. Vogliamo che pensi che così come abbiamo scattato, l’immagine possa essere subito appesa a un muro. DALL'ALTO IN SENSO ORARIO. Due looks dalla collezione uomo di Loewe Fall/Winter

2020; un maglione, una borsa, una giacca dalla capsule collection J.W.Anderson x Gilbert & George creata dallo stilista con il duo di artisti nel 2018.

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senza che noi siamo consapevoli di ciò che stiamo facendo. Se avessimo un piano preciso, non produrremmo mai quello che in realtà facciamo. PG: Jonathan, nel 2016 hai curato una mostra intitolata “Disobedient

Bodies”, di cosa si trattava? L’Hepworth Museum di Wakefield mi aveva proposto una collaborazione e contemporaneamente un’altra istituzione a Londra mi aveva invitato a fare una retrospettiva, fatto decisamente strano per una persona della mia età. Era un momento molto delicato a livello politico in Inghilterra, ero stanco di Londra e delle grandi realtà, perciò ho optato per Wakefield, per non essere così Londra-centrico. Ho scelto di indagare l’interpretazione del corpo da parte di artisti, stilisti, architetti, ceramisti, ballerini, da Eileen Gray a Jean Arp, un processo inusuale che è durato tre anni prima di concretizzarsi nella mostra. E se devo essere sincero è stata davvero un’esperienza incredibile.

JA:

IN QUESTA PAGINA, DALL'ALTO. “Bloody Mooning,” 1996, by Gilbert & George; “Playboy,” 2011, by Gilbert & George.

PG: Che

ruolo ha la seduzione nel vostro lavoro? È molto importante, il nostro obiettivo è sedurre chi guarda, o che almeno arrivi a dire: “Ma che diavolo dovrei pensare?”. Vogliamo che il pubblico lasci una nostra mostra sentendosi diverso. Ci piace quando qualche signore anziano che cammina col bastone ci avvicina e ci dice: “Che mostra impressionante, mi ha spaventato a morte”, vogliamo arrivare alle persone. GILBERT: E ci riusciamo. GEORGE:

PG: Quanto

conta la fortuna nella vostra vita e nel vostro lavoro? il Fato, è tutta una questione di coincidenze. Tutto ciò che facciamo è legato al caso. Che ne dici, George? GEORGE: Quando andiamo in studio per creare qualcosa di nuovo, abbiamo la testa vuota. Le immagini sgorgano fuori GILBERT: Ah,

PG: Cos’hai

esplorato in quel frangente? Mi sono interrogato su come la scultura classica si sia basata sulle nostre interpretazioni del corpo. Mi piaceva l’idea di ornamento, del corpo che diventa una sorta di vascello: decoriamo un oggetto prezioso che è la forma umana. La mostra parlava di regole da rompere, ho imparato l’importanza di contravvenire agli schemi, in qualunque arte, per trovare se stessi. PG: Come definite la bellezza e qual è il suo ruolo nel vostro lavoro di artisti e di creativi? JA:

NOI NON SIAMO MAI STATI DEI provocatori. SEMPLICEMENTE VOGLIAMO RIUSCIRE A PROVOCARE UN pensiero. —GEORGE

GEORGE: Le leggi cambiano in tutto il mondo di continuo. La cultura è la forza più grande: “al bando la religione” e “decriminalizzate il sesso”, sono i nostri due motti più significativi. GILBERT: Vogliamo liberarci dalla religione. GEORGE: Resto sempre stupefatto quando la gente mi chiede spiegazioni. Non sanno che proprio mentre parliamo in oltre un centinaio di nazioni al mondo, ci sono persone abbandonate in carcere, che soffrono la fame, che non sanno se saranno giustiziate o meno, solo per aver fatto sesso. Lo stesso vale per la religione. Sappiamo che è vero perché una volta un prete


PG: Come

avete stabilito il vostro segno distintivo?

GEORGE: È una storia semplice e interessante. A differenza degli altri

studenti, una volta lasciata l’università non avevamo una famiglia che ci potesse sostenere. Non avevamo soldi, ma sapevamo di essere artisti, giravamo per le strade di Londra in cerca della vita. Stavamo camminando dalle parti di Euston Station e ci siamo imbattuti in un negozio di roba usata, lampadari, un vecchio telefono, insomma detriti dell’umanità. Lì dentro abbiamo trovato un disco che si chiamava “Underneath the Arches” (sotto a un ponte, ndr), ci faceva strano perché praticamente noi vivevamo così, eravamo dei vagabondi che vivevano sotto a un ponte.

anziano ha bussato alla nostra porta dicendoci: “Al bando la religione, mi piace, è un’idea fantastica”. Gli ho risposto: “Grazie, ma lei che cosa ne pensa?” e lui mi ha ribattuto: “È molto semplice, la domenica mi trovo con la mia congregazione, sono tutti amici e sono tutti abbastanza religiosi, ma io non voglio che siano religiosi, voglio che siano buone persone”, che momento è stato quello. JA: Voi due siete così generosi, è per questo che vi amo. Mi siedo di fronte a uno dei vostri lavori con grande piacere, lo stesso di quando me ne vado. C’è in voi un’umiltà straordinaria».

L’abbiamo portato a un amico che aveva un grammofono e siamo rimasti a bocca aperta. Il testo raccontava la vita che stavamo sperimentando noi nella East London. “Il rischio per cui non abbiamo mai firmato, la cultura che si possono tenere, c’è solo un posto che conosco e... GILBERT & GEORGE: (Cantando insieme) … ed è dove dormiamo. Sotto un ponte, io sogno i miei sogni. Sotto un ponte, ci sdraiamo sul selciato, ogni notte mi troverai lì, stanco e logoro... ”. GEORGE: In quel momento abbiamo trovato la vita. GILBERT: E non siamo mai cambiati. GEORGE: L’arte era vita e la vita era arte, tutto insieme. JA: Dubito che potrei mai eguagliare un momento simile. Mi sento come se non avessi ancora trovato la mia cifra di stile, sono sempre in cerca di qualcosa. DALL'ALTO, IN SENSO ORARIO. Dettagli della collezione uomo J.W.Anderson Fall/Winter 2020; la campagna Loewe Spring/Summer 2018 fotografata da Steven Meisel; Immagini da "Disobedient Bodies", la mostra curata da Jonathan Anderson al Hepworth Museum di Wakefield.

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You know the look. Glorificato nei board aziendali degli anni ’80, il power dress – giacca doppiopetto sartoriale, spalle ampie, la routine del suit scandito dai tre pezzi classici – è sempre stato molto di più di un abbigliamento semplicemente elegante. Evoca una sfacciataggine feroce, uno stile di vita non guadagnato lentamente nel tempo, ma afferrato grazie a un affare dellʼultimo minuto e innaffiato da bicchieri di Martini che accompagnano deal importanti. Alla mente le immagini di Richard Gere in “American Gigolò” con il suo coat cammello firmato Giorgio Armani; ma anche quelle di Michael Douglas con le camicie eleganti e le bretelle raffinate di Gordon Gekko a “Wall Street”. Il power dress è la chiave del successo anche in versione femminile. E attesta lʼascesa sociale delle donne americane e delle loro controparti nelle pellicole di Hollywood, un guardaroba articolato tra spalle imbottite e preziosi maglioni a collo alto. Perché anche per lei il power suit era il biglietto da visita per raccontare unʼimportante crescita professionale. Lʼoggi è scandito da un vocabolario estetico differente. Gli eccessi di ieri sono stati sostituiti dallʼambiguità colloquiale che descrive il contemporaneo. Cocktail dress annullato in favore di unʼeasyness estrema, pantaloni sportivi portati con giacca e cravatta, sneakers indossate sempre e senza paura. Il mondo visto attraverso gli schermi dei computer e dei dispositivi mobili, complice lo smart

working imperante, sembra molto diverso da prima. Con la vita in casa e le interazioni sociali relegate a comunicazioni telefoniche o videocall, anche lʼabbigliamento è cambiato. La trasformazione dei costumi che stava scrivendo il passato prossimo scandirà anche la nuova realtà di oggi, e di domani? Su questo fronte le passerelle sembrano essere ottimiste, almeno considerando la stagione alle porte. I designers hanno esaminato la sartoria maschile con una prospettiva interessante. Miuccia Prada, ad esempio, ha scelto di far dialogare maglieria dalle proporzioni rimpicciolite a contrasto con suit di lana classici e monocromatici. Seguendo un altro percorso Virgil Abloh da Louis Vuitton ha proiettato su tutto il corpo stampe a nuvola e ha impreziosito il suit con lampi di volant e dettagli utilitaristici. La moda ha visto innumerevoli volte barcollare la sartoria tradizionale, ferita dallʼathleisure imperante nel nome del comfort. Ma forse ora sta accadendo qualcosa di diverso. In questo portfolio globale di moda maschile, LʼOfficiel Hommes ha ripensato il vestire maschile svuotato dal potere simbolico che la società gli ha cucito addosso. È flamboyant e iperdecorato? Un su misura fedele al passato? O forse è più nostalgico con una rivisitazione degli 80s. Perché se la cultura continua a cambiare, lo fa anche il costume. Adattandosi allʼoggi e trasformando le uniformi, sicure, che accompagnano il quotidiano. —Joshua Glass 201


DeCOdiNg DRESS

Con l’ambiente ufficio totalmente ripensato, il nuovo codice workwear lascia spazio a sperimentazione e ricordi. Photography RICHIE TALBOY Styling DANIEL GAINES




IN APERTURA DI SERVIZIO, PER MAXIMILIAN. Trench e camicia: tutto DIOR; cravatta vintage. QUI SOPRA, PER DONOVAN. Abito, GIVENCHY; camicia, PRADA; polo ton sur ton, GABRIELA HEARST; cravatta, HERMÈS. NELLA PAGINA ACCANTO, PER MBAYE. Suit, camicia e cravatta: tutto VERSACE.

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QUI SOPRA, PER JAYDEN. Suit classico e camicia: tutto CANALI; cravatta vintage. NELLA PAGINA ACCANTO, PER SAIDOU. Camicia senza maniche, PRADA; cravatta personale dello stylist.



QUI SOPRA, PER MAXIMILIAN. Suit classico e camicia: tutto GABRIELA HEARST; cravatta vintage. NELLA PAGINA ACCANTO, PER DAMIEN. Giacca, TOM FORD; camicia, CANALI; maglione, BRUNELLO CUCINELLI; cravatta vintage. MODELS: Maximilian e Saidou @ HEROES, Donovan e Damien @ NEXT MANAGEMENT, Jayden @ IMG, Mbaye @ MUSE, Luke @ NÖNI. HAIR: Eric Williams using Kérastase @ USA STREETERS. GROOMING: Mariko Arai using Shiseido @ THE WALL GROUP. HAIR ASSISTANT: Karla Serrano. CASTING: Joseph Charles Viola.

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ROME WHEN in

Tailoring che sposa architetture monumentali. Costruzioni classiche in dialogo con la CittĂ Eterna. Sartoriale che non conosce lo scorrere del tempo. Photography FILIP KOLUDROVIC Styling LUCA FALCIONI



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IN APERTURA DI SERVIZIO: Cappotto/Cappa di lana, LOEWE; boots, FENDI. QUI SOPRA: Blazer e camicia: tutto FENDI; orecchino in argento, MARCO DE LUCA. NELLA PAGINA ACCANTO: Cappotto di lana con collo a lancia, top di latex, pantaloni sartoriali e scarpe di pelle: tutto GIVENCHY.

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QUI SOPRA: Blazer e polo in cotone: tutto CANALI; orecchino in argento, MARCO DE LUCA. NELLA PAGINA ACCANTO: Cappotto di lana, camicia e pant: tutto PRADA.

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QUI SOPRA: Blazer e turtleneck: tutto TOM FORD; orecchino in argento, MARCO DE LUCA. NELLA PAGINA ACCANTO: Cappotto di lana doppiopetto, pantaloni, scarpe: tutto BOTTEGA VENETA. MODEL: Alessio Pozzi @ ELITE MILANO. HAIRSTYLIST: Danilo Spacca. MAKE UP ARTIST: Claudia De Simone. CASTING: Timi Letonja. ASSISTENTE STYLIST: Carolina Spezzi e Claudio Dianetti.

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Juste un Clou necklace in yellow gold and diamonds, Clash de Cartier ring in white gold, Juste un Clou ring in white gold and diamonds, Juste un Clou bracelet in white gold and diamonds, Pasha de Cartier watch CARTIER Bodysuit and jacket ALAĂ?A Skirt and boots COPERNI OPPOSITE PAGE: Same as above


BOLD

type

Giocando con la pelle, i pattern animalier, le shades monocromatiche e silhouette sharp. I cult pieces della stagione hanno il coraggio di osare. Photography RICARDO GOMES Styling LUCA FALCIONI



IN APERTURA DI SERVIZIO. Blazer di tessuto laminato e camicia, ALEXANDER McQUEEN; cappello, RUSLAN BAGINSKIY; occhiali da sole, GENTLE MONSTER; bandana vintage. IN QUESTA PAGINA. Blazer doppiopetto, turtleneck e sciarpa di lana, BERLUTI; cappello, RUSLAN BAGINSKIY; orecchino, ALAN CROCETTI. NELLA PAGINA ACCANTO. Blazer di lana check, top di latex, pantaloni ampi, shoes stringate e cappello: tutto GIVENCHY; orecchino, ALAN CROCETTI.




IN QUESTA PAGINA. Completo gessato e camicia stampata: tutto MSGM; cappello, STEPHEN JONES. NELLA PAGINA ACCANTO. Blazer di tessuto ricamato con rever di raso e cappello: tutto VERSACE; orecchino e anello, ALAN CROCETTI; collana vintage.


IN QUESTA PAGINA. Blazer, camicia, turtleneck e pantaloni: tutto BOTTEGA VENETA; cappello, STEPHEN JONES; collana, ALAN CROCETTI; anfibi, GUCCI. NELLA PAGINA ACCANTO. Tuxedo con rever di raso ricamato, VERSACE; cappello, STEPHEN JONES; orecchino, anello e spilla: tutto ALAN CROCETTI; collana vintage. MODEL: Reece Nelson @ IMG LONDON. GROOMING: Brady Lea. PRODUCTION: Federica Barletta. STYLIST ASSISTANTS: Silvia Vitali e Jiois Gallo.



Manor BORN To the

Un languido pomeriggio al castello. Per raccontare atmosfere di aristocratica extravaganza. Tra texture opulente e patterns nobili. Photography GUILLAUME MALHEIRO Styling CELINE BOURREAU & RAPHAËL DE CASTRO



QUI SOPRA: camcia di cotone e pantaloni: tutto VALENTINO. IN APERTURA DI SERVZIO, DA SINISTRA: Camicia, pantaloni, borsa tracolla: tutto RYNSHU. Camicia, pantaloni: tutto MSGM. Ampio cappotto doppiopetto, SEAN SUEN.

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QUI SOPRA, DA SINISTRA. Completo di lana a check, camicia: tutto MSGM; scarpe, CHRISTIAN LOUBOUTIN. Cappotto a stampa animalier e pull di lana: tutto DRIES VAN NOTEN; pantaloni dal taglio classico, MSGM; mocassini, GIUSEPPE ZANOTTI.

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QUI SOPRA, DA SINISTRA: Montone, pull a quadri, pantaloni, sandali: tutto BALMAIN. Giacca con tessuto drappeggiato, camicia, cravatta: tutto BALMAIN. T-shirt a maniche lunghe, gilet a rombi con ricami, pantaloni: tutto BALMAIN. NELLA PAGINA ACCANTO: Cappotto di lana ricamato, DIOR. Cappotto di lana double con applicazione di coccarda, DIOR.

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QUI SOPRA: Cappotto di lana e pelle, HERMÈS. NELLA PAGINA ACCANTO: Abito in principe di Galles, GIORGIO ARMANI. MODELS: Lamine Faty, Turner Barbur e Thomas Hilaire @ THE CLAW MODELS. HAIR STYLIST: Simon Chossier @ B AGENCY. MAKE UP ARTIST: Ophelie Crommar @ LA FRENCHIE AGENCY. PRODUCTION: M Studio Paris. Special thanks to Château de Ferrière.

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A RARE

gaze

Viggo Mortensen presenta il suo primo lavoro dietro la macchina da presa: "Falling". E mostra un personaggio complesso, odioso, omofobo, razzista. Senza mai giudicarlo. By BAPTISTE PIÉGAY Photography QUENTIN DE BRIEY




“Falling” è (letteralmente) la storia di una caduta. Quella di un uomo, Willis (Lance Henriksen) colpito da una malattia neurodegenerativa. Il film ripercorre, andando a ritroso nel tempo, l’infanzia del figlio John (Viggo Mortensen), l’adolescenza fino all’età adulta, senza mai cercare di rendere simpatico un personaggio fondamentalmente odioso, omofobo, vagamente razzista ma cercando di rappresentarlo in tutta la sua complessità. Con grande delicatezza, Mortensen racconta tanto l’angoscia di fronte alla malattia quanto la vita che persiste, ordinaria, prosaica, tenera.

IL GRADO DI CORTESIA e di rispetto CHE CONCEDO CON OGNI persona CHE INCONTRO è la misura DELLA MIA PERSONALITÀ. L’OFFICIEL HOMMES: Quando hai iniziato a pensare di scrivere un film da

regista, lo hai fatto pensando a una scena specifica? VIGGO MORTENSEN: La prima volta che ho cercato un finanziamento, per raccontare una storia che avevo scritto e che volevo dirigere, è stato 24 anni fa. Da allora ho cercato di farlo in ripetute occasioni, con altre mie sceneggiature. Mi ci sono voluti un paio di tentativi e quasi quattro anni per realizzare “Falling”. L’idea mi è venuta dopo il funerale di mia madre, volevo esplorare i miei ricordi su di lei e, di conseguenza, sul suo rapporto con mio padre e l’educazione che ho condiviso con i miei fratelli. Ma il motivo per cui “Falling” si è rivelato il mio debutto alla regia è stato perché questa volta sono riuscito a raccogliere abbastanza soldi. LOH: Da

quali registi credi di aver imparato di più e quali i ricordi di quando eri sul set di “Falling”? VM: Ho avuto la fortuna di aver imparato da molti registi nel corso degli anni, e ho anche imparato molto guardando film di cui non ho fatto parte. Ci sono tanti esempi di sceneggiatura, fotografia e montaggio che ho ammirato e disprezzato nel corso degli anni. E anche se non ho imitato consapevolmente il lavoro o lo stile di nessuno, presumo che tutto ciò che ho visto e sentito nella mia vita abbia influenzato il mio modo di raccontare storie. Le cose che ho consapevolmente imitato, per quanto riguarda l’approccio del regista al lavoro, sono state tre: preparare le riprese in modo accurato e il più presto possibile, rimanere costantemente aperto ai suggerimenti e alle domande del cast e della troupe, essere presente ad ogni secondo del processo di editing.

C’è un aspetto del tuo film che mi è piaciuto molto: come lasci spazio alla contemplazione come parte dello storytelling. Era qualcosa che avevi già in mente o ti è sembrato naturale quando hai iniziato a girare? VM: Il ritmo della storia e l’uso del silenzio in molte scene di “Falling” credo sia stato dettato dalla storia stessa. Le reazioni non verbali dei personaggi, soprattutto da parte di Willis, sono state importanti quanto qualsiasi linea di dialogo. Per quanto riguarda l’uso della musica non amo, da spettatore, una partitura che sembra volermi indirizzare apertamente su come dovresti pensare o sentire una storia. Sapevo molto prima di girare il film che era una storia che richiedeva una partitura abbastanza discreta. LOH:

LOH: Quando hai iniziato a pianificare le riprese, c’era un mood-board che tu e Marcel Zyskind (il direttore della fotografia) avevate in mente? VM: Non esattamente. Prima delle riprese ho condiviso molte immagini con Marcel, alcune mie e altre di altri artisti, e lui ne ha condivise con me. Lo stesso è successo con alcuni film che pensavo avessero una somiglianza visiva — in termini di scelte di illuminazione, posizione della macchina da presa, inquadratura... — con “Falling”. Ben prima delle riprese principali avevamo una idea precisa di quello che volevamo realizzare, ed è stato di grande aiuto iniziare a girare insieme otto mesi prima dell’inizio delle riprese principali (e prima di avere i soldi per realizzare il film). L’idea era quella di accumulare una raccolta di immagini nei luoghi rurali presenti nella storia, girate in stagioni diverse, da usare come frammenti di memoria visiva, soggettiva, dei personaggi principali. Non solo abbiamo raggiunto questo obiettivo, ma ci siamo conosciuti come squadra e abbiamo scoperto che la nostra estetica visiva era molto simile. LOH: Hai chiesto consigli ai registi con cui hai lavorato?

VM: Ho mostrato la sceneggiatura a un paio di sceneggiatori-registi che conosco e a un amico editore letterario. Per avere un’idea di ciò che secondo loro funzionava e ciò che non funzionava, in termini di struttura e ritmo della storia. A loro per fortuna è piaciuta la sceneggiatura, ma mi hanno dato alcuni suggerimenti utili che mi hanno aiutato a perfezionarla.

Nei tuoi rapporti con i registi, cosa ti aspetti e cosa preferisci: qualcuno che sia estremamente chiaro nelle istruzioni, che non lasci molto spazio all’improvvisazione o qualcuno che ti dia più libertà? VM: Mi piacciono i registi che sono estremamente preparati e sanno quello che vogliono realizzare ma che sono anche abbastanza sicuri come individui da rimanere aperti a suggerimenti e domande che il cast o la crew potrebbero avere. LOH:

LOH: Sul set di “Falling”, come è andata con il cast?

Ho cercato di adattarmi alle esigenze di ogni attore e di mantenere aperte le linee di comunicazione. Gli attori più giovani avevano comprensibilmente più bisogno di guida rispetto agli adulti.

VM:

LOH: Scrivi poesie, fai musica... Quando hai iniziato a recitare, ti sei sempre visto come uno che non si attiene strettamente solo alla recitazione? VM: Non ho mai considerato la recitazione come una forma di espressione artistica separata da altri modi di espressione. Scrivere,

NELLA PAGINA PRECEDENTE E IN APERTURA. Blazer e pantaloni, RAF SIMONS; maglione a girocollo, TAGLIATORE.

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fotografare, dirigere, comporre e suonare musica sono tutti modi di comunicazione, sono come dialetti diversi e quindi correlati. LOH: VM:

Credi che ogni aspetto di questa attività si formi a vicenda? Sì. Sono tutti rami dello stesso albero

LOH:

Quello che mi ha colpito nel tuo film è come tu non sia mai critico nei confronti di Willis. Mi ha ricordato un verso di Leonard Cohen “And the dealer wants you thinking/That it’s either black or white/ Thank God it’s not that simple/In my secret life” Era importante mantenere un equilibrio, soprattutto quando ciò che il personaggio incarna è odioso? E in un contesto più ampio, è un approccio alla vita che trovi interessante? VM: Sì. Nessuna persona è solo una cosa. Quando preparo un personaggio come attore o ne creo uno come scrittore cerco sempre di far emergere le contraddizioni e le incongruenze che caratterizzano ogni persona, per quanto prevedibile o stabile possa sembrare inizialmente il suo carattere e comportamento. LOH: Guardando alla tua carriera, i ruoli che hai interpretato sono stati caerenti con la tua evoluzione personale? Riflettono la tua biografia? VM: Siamo definiti dalle scelte che facciamo, su questioni grandi e piccole, ogni giorno. Suppongo che i ruoli che ho interpretato e come li ho interpretati in origine, indipendentemente da come sono stati modificati, siano in qualche modo parte della mia storia personale e della mia evoluzione. Oserei dire che il modo in cui interagisco con le persone e le tratto, il grado di cortesia e di rispetto che mi concedo con ogni persona che incontro è la misura più importante della mia personalità e del mio carattere. LOH: Accetti di trovare qualcosa di te stesso nel personaggio, o, al contrario, cerchi qualcosa di totalmente estraneo a te stesso? VM: All’inizio non cerco me stesso nel personaggio ma, piuttosto, cerco una storia che mi interessa e che sarei interessato a vedere come spettatore. Una volta che accetto di interpretarlo, però, cerco una connessione e cerco di esplorare ed eventualmente accentuare aspetti della mia personalità che sono utili nella costruzione di quel carattere. In linea di principio, non c’è nessun personaggio con cui non possa entrare in empatia e in cui non riesca a trovare anche qualche aspetto di me stesso. Il resto della costruzione comporta l’uso della mia immaginazione, che credo non avere limiti. LOH:

Come ti prepari una volta che hai accettato una parte? Mi pongo una domanda sul personaggio che interpreterò, che ha una quantità infinita e profonda di risposte: “Cosa è successo nella vita di questa persona prima della prima pagina della sceneggiatura. VM:

LOH: In un’epoca in cui praticamente tutti hanno una presenza sui social network, salvaguardare la propria vita privata è l’unico modo per rimanere mentalmente sani nel mondo dello spettacolo? VM: Non ci sono abbastanza ore in una giornata; non ho alcun interesse ad aggiungere un compito che trovo per lo più frivolo, e un enorme spreco di tempo ed energia ai miei già impegnati giorni sulla terra. LOH:

Hai un modello da seguire nel costruire la carriera?

VM: Seguo il mio istinto il più possibile, supponendo di potermi permettere di aspettare che arrivino quelle che mi sembrano buone storie. Non ho un piano cosciente su quale tipo di storia cinematografica - il genere, il budget, la nazionalità o qualsiasi altra cosa - mi attirerà.

QUANDO preparo UN PERSONAGGIO come ATTORE o come SCRITTORE cerco sempre DI FAR EMERGERE LE INCONGRUENZE. LOH: È tuo dovere come artista esprimere la tua opinione sulla politica? Oppure scegliere i ruoli con attenzione e gestire la Perceval Press (la sua publishing company, ndr) è il tuo modo di agire su questo fronte? VM: Sono un essere umano e un cittadino del mondo. Come tale, ho lo stesso diritto di qualsiasi altra persona al mondo di esprimere le mie opinioni su qualsiasi argomento, indipendentemente dal fatto che qualcun altro pensi che le mie opinioni siano ben informate o meno, accettabili o meno. LOH:Quali scene di film, o di un’opera teatrale, ti hanno colpito e sono ancora con te? VM: Molte, troppe per poterle citare. Ciò a cui mi ispiro in ogni momento varia, ma ci sono scene che continuo a ricordare con affetto. Allo stesso tempo altre, che mi hanno attirato, sembrano perdere il loro splendore nel tempo. Durante il lockdown ho rivisto molti film che non vedevo da tempo, oltre a vedere molte nuove storie. Alcuni lungometraggi che anni fa mi piacevano mi sono piaciuti tanto quanto - o di più - altri meno, comprese scene che prima pensavo fossero girate, dirette e recitate bene. Penso che tutto si evolva, o meglio, che io mi evolva in modo tale che le diverse sequenze di film tendano a impressionarmi in ogni momento. LOH: Quali sono gli ultimi film/libri/registrazioni che ti hanno impressionato? VM: Recentemente ho letto “Burning the Books” di Richard Ovenden, da cui ho imparato molto, e lo stesso vale per “All For Nothing” di Walter Kempowski e “Apeirogon” di Colum McCann. Mi sono anche ispirato, tra gli altri film, a “Una giornata particolare” di Ettore Scola, a “Hiroshima, mon amour” di Alain Resnais, a “L’Atalante” di Jean Vigo e a “Los santos inocentes” di Mario Camus. Per quanto riguarda la musica, ho ascoltato molto il pianista jazz Bill Evans, il trombettista e compositore Ibrahim Maalouf, la pianista classica Martha Argerich e la band Skating Polly.

NELLA PAGINA ACCANTO. Cappotto, PRADA; camicia, DRIES VAN NOTEN; pantaloni, TAGLIATORE; boots, JOHN LOBB. STYLIST: Simonez Wolf. GROOMING: Fidel Fernandez. PHOTO ASSISTANT: Achraf Issami. STYLIST ASSISTANT: Maya Valère-Gille.



Aura

SEEKERS Da lussuosi hotel californiani a esclusivi appartamenti haussmanniani a Parigi, senza dimenticare un museo in Marocco che ha conquistato il mondo web. I progetti architettonici di Studio KO si moltiplicano, in un crescendo globale. Tra Karl Fournier e Olivier Marty, alias Studio KO, e il Marocco è stata, prima di tutto, una grande storia d’amore. Hanno iniziato la loro avventura ai piedi dell’Atlante, con discrezione ma non senza visione. Poi, un giorno, la moda ha fatto irruzione nelle loro vite. Portando il duo sul podio ed eleggendolo come una delle più brillanti coppie di architetti-designer della loro generazione. Nella loro architettura, la purezza, la tensione, la luce invitano alla contemplazione. I loro interni sanno mescolare eleganza e avanguardia. E a volte un tocco d’oro illumina l’ombra di un muro, contrappunto a una ricercata frugalità. L’OFFICIEL HOMMES: Perché il Marocco è così importante per voi?

STUDIO KO: È un amore iniziato durante i nostri studi di architettura, con una fascinazione per la campagna, i paesaggi, la luce, il calore di questa terra. Era il ventesimo secolo, non c’erano folle come oggi a Marrakech. Rapidamente, abbiamo fatto incontri decisivi come quello con Jean-Noël Schoeffer, proprietario ancora oggi di una delle prime casa-hotel della città. Tra lui e noi si è formata un’amicizia profonda, fraterna. Il Marocco per noi è un po’ come l’opera di Jenny Holzer “Protect me from what I want”: di tanto in tanto accadono le cose che vuoi di più. Prima un progetto per la

famiglia Hermès, seguito da un altro per gli Agnelli. Una clientela privata ci ha aiutato a creare un percorso di crescita naturale, senza alcuna premeditazione. Tutto è coinciso con il boom fenomenale del Marocco, in quegli anni, come meta turistica. All’epoca eravamo in due, poi Studio KO Marrakech è cresciuto fino a cinque. E ora conta tra le 25 e le 30 persone, a seconda dell’importanza dei progetti a cui lavoriamo. LOH: Anche Tangeri ha un posto speciale nel vostro portfolio personale...

SK: È una città che ci commuove. Amiamo la sua aura, il suo clima, la sua vista sul mare. Un giorno stavamo pranzando a Marrakech da Marella Agnelli, nella sua casa nella Palmeraie, che avevamo appena ristrutturato, e lei ci ha presentato Pierre Bergé (partner storico di Yves Saint-Laurent, nda). Fu a Tangeri, più tardi, che il nostro rapporto di amicizia si trasformò in un’avventura professionale quando Pierre ci affidò la seconda maison che aveva acquistato un gioiello che fu in grado di salvare da una distruzione annunciata. Ci è voluto un anno e mezzo per ricostruire Villa Léon l’Africain, di fronte al mercato, nel cuore della città. Vederla completata ci ha regalato un’intensa felicità. Sogniamo di arredare un ideale appartamento a Tangeri dove un giorno vorremmo abitare.

by NATHALIE NORT Portrait by NOEL MANALILI



LOH: Oltre ai progetti marocchini che vi hanno confermato come architetti di talento, avete anche restaurato una fattoria ... SK: Sì, ci siamo innamorati di una fattoria situata alle porte del deserto di Agafay. La sua bellissima architettura si stava lentamente deteriorando e non potevamo vederla cadere in rovina senza fare nulla. Quindi, con Schoeffer, abbiamo deciso di restaurarla per renderla un luogo di incontro per gli amici. Non è la location adatta per ospitare un hotel, ma un posto dove raccontare uno stile di vita. Abbiamo pensato di farne una residenza d’artista e, un mese all’anno, in primavera, questa struttura viene dedicata all’accoglienza di un creativo. Lo facciamo in modo informale, senza regole speciali, ma sostenendo il processo di creazione con una borsa di studio. Privato di una rete cellulare, distratto da nient’altro che il silenzio, relegato in un ambiente spartano e volutamente privo di modernità, ogni artista può creare in piena libertà. Sono stati nostri ospiti il regista Mhedi El Azzam, il fotografo Jérôme Schlomoff, i designers Garnier & Linker ma anche Nelson Sepúlveda.

IL NOSTRO LAVORO è quello di DIALOGARE CON L’ETERNITÀ, RESTANDO lontani DAI TREND. ALTRIMENTI si rischia DI ESSERE già PASSATI DI MODA.

LOH: Come avete lavorato alla creazione del Musée Yves Saint Laurent

a Marrakech? Il museo suggella una riconciliazione tra arte e moda. È un’epifania: per molto tempo i musei hanno guardato dall’alto in basso la moda, senza misurare realmente ciò che questo universo dice del nostro tempo, della nostra società. Oggi questa barriera è stata infranta. SK:

LOH: Che direzione avete seguito per immaginare il Musée?

SK: All’inizio non conoscevamo il lavoro di monsieur Saint Laurent. Sono stati gli archivi della Fondation Pierre Bergé-Yves Saint Laurent a Parigi, i bozzetti, le foto, i film, che ci hanno permesso di scoprire l’incredibile ricchezza del suo talento: la sua

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Richard è stato finalmente in grado di acquistare la casa, ci ha chiamato per immaginare la continuazione del suo: «giardino di piacere e fantasia». LOH: Progetto folle o progetto per un folle?

Entrambi, ma è un progetto folle perché Richard è un folle simpatico, non un folle furioso. Fantasioso, come le sue aspettative. Senza collegarle a noi, aveva già in mente case brutaliste sullo sfondo del deserto e di agavi giganti. Il suo soggiorno alla Chiltern Firehouse a Londra è stato il fattore scatenante: gli piaceva la nostra presentazione, che era il racconto di una famiglia edoardiana cacciata dal loro castello. Il tempismo californiano è stato ideale, poiché André Balazs ci ha nuovamente consultato per rinnovare tre appartamenti nel suo Chateau Marmont. Per Flamingo Estate, il cemento, un materiale che è una costante della nostra architettura, si è rapidamente affermato nella costruzione della scala, a metà strada tra una ziggurat e Villa Malaparte.

SK:

è stata un curiosità insaziabile che ha rivoluzionato un’epoca. Il desiderio di Pierre attraverso questo museo, al di là dell’omaggio al couturier con cui aveva condiviso la vita, era quello di usare il nome di Saint Laurent e il suo potere di seduzione, per attrarre persone e immergerle in un bagno di cultura. Per il popolo marocchino, l’accesso alla cultura non è così facile; pochi musei incoraggiano il risveglio artistico se non attraverso la propria storia o il patrimonio artistico. La sua visione era quindi, parallelamente alle collezioni permanenti della Fondation, di ospitare artisti marocchini e internazionali, mostre temporanee, concerti e film. Oltre ad aprire a studenti e ricercatori una biblioteca dedicata al mondo berbero, alla botanica e alla moda. Renderlo un luogo: «aperto alla città e alla vita». Che durasse nel tempo. LOH: Durare nel tempo... Questo è il punto di forza della Flamingo Estate, la villa di Los Angeles che Richard Christiansen vi ha chiesto di ripensare... SK: La dimensione narrativa della casa di Eagle Rock è stata la sua più grande risorsa. La casa è un personaggio di Hollywood. Arroccato in alto tra alveari e alberi da frutto, ha un tale potere di attrazione che Richard l’ha comprata senza nemmeno averla visitata. L’imprenditore australiano, a capo della Chandelier Creative di New York, già sognava di trasferire tutte le sue attività a Los Angeles. Il nonno, che aveva occupato la casa per quarant’anni, viveva in mezzo alle vestigia della sua vita di produttore di film porno gay, in un accumulo di migliaia di diapositive, bobine di film, oggetti di scena e set, un pasticcio indescrivibile. Quando

In apertura di servizio, un ritratto di Karl Fournier e Olivier Marty, aka Studio KO. In queste pagine, da sinistra in senso orario: due immagini del Musée Yves Saint Laurent di Marrakech, uno scorcio della Villa G, due interni, rispettivamente, delle Villa DL e Villa D, una scultura dorata all'interno della boutique progettata per la maison Balmain a New York; una veduta della piscina della Villa K, nel deserto del Marocco.

LOH: Uno dei vostri progetti attuali prevede un crossover tra arte e moda e sarà la vostra prima architettura realizzata da zero negli Usa... SK: Si trova ad Atlanta, in un sobborgo chic pieno di ville coloniali, ed è la casa di una coppia atipica e affascinante. Lei è l’erede di una ricca famiglia del Sud e veste solo haute couture. Suo marito colleziona auto da corsa d’epoca. L’arte contemporanea, i gatti e le sneakers da collezione sono tra le loro tante passioni. La cabina armadio di 150 metri quadrati, completamente vetrata e refrigerata, così come il garage in stile Batcave saranno due pezzi centrali. Anche in questo caso ci ritroviamo a sognare un’architettura pronta a sfidare il passare del tempo.

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La Flamingo Estate ritratta da

FRANÇOIS HALARD per L’OFFICIEL HOMMES

QUI SOPRA E NELLA PAGINA ACCANTO: L'esterno e un dettaglio dell'interno della bathhouse creata all'esterno della Flamingo Estate

a Los Angeles. Il giardino della mansion è stato immaginato in collaborazione con il paesaggista Arnaud Casaus.

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QUI SOPRA: Un dettaglio delle scale in cemento della Flamingo Estate, arredate con una sedia-scultura di Alberto Giacometti. NELLA PAGINA ACCANTO: Il padiglione-ufficio immaginato nel giardino della Flamingo Estate, decorato con mattoni smaltati verdi.

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WORLD WIDE Al suo debutto editoriale, il giovane artista Samuel Fasse dialoga con l'architetto del suono Michel Gaubert. Parlando di libertà e fallimenti, nell'era di Internet. by JUSTIN POLERA Photography FRANÇOIS QUILLACQ



Nel 2017, il GIOVANE ARTISTA SAMUEL FASSE HA PRESENTATO LE REGARD AILLEURS, “The Look Elsewhere,” AL PALAIS de TOKYO, CONTEMPORANEAMENTE alla FASHION WEEK parigina. LA MOSTRA ha segnato IL DEBUTTO DELLA COLLEZIONE DEL LAUREATO della ROYAL ACADEMY OF FINE ART di ANVERSA E L'EMERGERE DELLA SUA TECNICA IBRIDA. FASSE è risultato ESSERE UN PRODIGIO DI PRATICHE PERFORMATIVE sfidando, DA SUBITO, IL concetto STESSO DI CREAZIONE SINGOLA, e dissolvendosi immediatamente IN COLLETTIVI E COLLABORAZIONI. La mostra di Fasse era un Gesamtkunstwerk. Quello che il mondo dellʼarte chiama un corpo totale di lavoro, uno spettacolo che si muoveva tra il reale e lʼirreale, il fisico e lʼimmateriale, la materia e il virtuale. A differenza di altre installazioni dʼarte immersive, lo spettatore sperimentava un punctum — una frattura nello spazio e nel tempo — perché poteva vedere il performer ma non ciò che lui vedeva. Il performer e il pubblico quindi condividevano la stessa stanza, ma co-esistevano in realtà separate. Il video della performance si muove tra i soggetti in un mondo virtuale in 3D, con la composizione musicale come unico filo conduttore. La musica rimane, quindi, al centro della forza collaborativa di Fasse, comprensiva di ballerini, artisti, produttori tessili, artigiani e altre celebrità della scena underground parigina e della danza, come la Iconic House of Ninja. Il sound designer parigino Michel Gaubert è onnipresente nel mondo della moda e ha contribuito più di chiunque altro a dare forma allʼesperienza della sfilata contemporanea, creando 250

dagli anni Novanta paesaggi sonori coinvolgenti per le sfilate di Karl Lagerfeld, Raf Simons e Dries Van Noten. Michel hai raccontato spesso che il suono è un'esperienza visiva. MICHEL GAUBERT: Penso che la musica sia il compagno sonoro di una sfilata di moda. Lʼintera sfilata è fondamentalmente unʼimmagine che si crea e cambia continuamente. La musica va di pari passo con la moda, ma porta anche unʼaltra immagine. Prendi unʼimmagine che è rossa, e metti la musica che ti fa pensare al giallo; forse il risultato sarà arancione su blu. È una giustapposizione di cose messe lʼuna sullʼaltra. Quando vedi un film ti ricordi la colonna sonora, e quando ti ricordi la colonna sonora rivedi il film nella tua mente. Soprattutto per me, ci sono così tante sfilate di moda che ricordo per la musica. L'OFFICIEL HOMMES:

LOH:

Dagli anni Novanta, il termine "autenticità" è andato in crisi,


SOPRA E IN SENSO ORARIO. Camicia e pantaloni, HERMÈS; T-shirt, BORD PARIS; boots, BOTTEGA VENETA, braccialetto, TIFFANY & CO. Giacca, DRIES VAN NOTEN; pantaloni e stivali: tutto BOTTEGA VENETA; braccialetto, D’HEYGERE. Giacca, ROCHAS; maglia a righe e pantaloni: tutto LANVIN. IN APERTURA, DA SINISTRA. Giacca, camicia e catena: tutto CELINE BY HEDI SLIMANE. Maglia, BOTTEGA VENETA; camicia, LEMAIRE; pantaloni e scarpe: tutto BORD PARIS.

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e anche la nozione di stilista come "grande autore" si è svuotata di senso. I marchi sono diventati qualcosa di più della visione di un solo artista, e l'idea stessa di collaborazione è cambiata. MG: Per quanto riguarda la musica, Internet non è stato realmente importante fino alla metà degli anni ʼ90 o addirittura allʼinizio degli anni 2000. La moda è passata dall'essere solo per gli addetti ai lavori ad essere accessibile agli outsider, ed è diventata uno spettacolo a cui tutti possono partecipare. Come pensi che siano cambiate le cose dopo? MG: È stato molto graduale. Abbiamo avuto idee che non potevamo realizzare perché la tecnologia non cʼera ancora. Una volta ho fatto qualcosa con Bruce Nauman per Viktor & Rolf nel 2010. Abbiamo creato dei CD come sound art per la mostra. Poi il video è andato in diretta su un sito di notizie, ma non potevano riprodurre la musica perché non avevano i diritti dʼuso. Questo durante lʼinizio dello streaming. Ora la maggior parte delle volte le persone sono perfettamente dʼaccordo con lʼuso di qualsiasi cosa. Forse oggi è più un atteggiamento alla Richard Prince. LOH:

momento ho capito che una delle mie opere dʼarte poteva essere mostrata e vissuta ovunque. Il lavoro può diffondersi in tutto il mondo in un modo che lʼartista non può controllare. Nel mio lavoro ci sono momenti intimi che vivo nel tempo e nel luogo in cui accadono, e lʼesperienza successiva è fuori dal mio controllo. Non sai quale sarà la conseguenza: negativa o positiva. MG: Le persone si creano anche unʼimmagine di te, il che probabilmente è totalmente sbagliato. La gente pensa che sono un certo tipo di persona quando invece potrei essere il contrario.

Siete entrambi molto aperti sull'essere artisti o creatori queer. Cosa significa questo per voi nel 2020? MG: Essere un artista queer nel 2020 significa per me lo stesso che essere un artista queer — se posso definirmi un artista — negli anni ʼ90. Penso che sia molto importante essere quello che sono e non preoccuparmi di quello che la gente pensa di me. A volte non vado al Pride perché non sono lʼattivista in prima linea che grida per i miei diritti, ma faccio la mia parte. Faccio sapere alla gente chi sono in tutto ciò che faccio; non cʼè dualità. Ed è importante che la gente sappia che sono queer, perché questo aiuta molte altre persone. Per questo lo dico LOH: Ora la gente vede tutto su apertamente. È importante che la internet come libero da diritti gente sia molto aperta. Tu sei la d'autore? Ognuno può usare quello tua persona, e questo è ciò che è che vuole? più importante per me. MG: Dovrebbe essere libero da copyright, perché altrimenti tutto SF: Lavoro sempre con le persone sarebbe potenzialmente protetto. che mi sono vicine. Nel mio Le persone metteranno il lavoro ho spesso interpreti trans copyright sulle modelle, possono e POC, e la gente mi chiede anche chiedere agli spettatori sempre cosa sto cercando di sedute in prima fila di essere dire con questo. Pensano che io protetti da copyright. La vita faccia commenti sui problemi non può esistere in questo modo. dei transgender con la mia Tutto sarebbe estremamente performance, ma non è così. Gli piatto. artisti sono miei amici, prima SAMUEL FASSE: Siccome sono di tutto, e se volessi parlare di cresciuto con Internet, non ho questo lo farei in un altro modo. —SAMUEL FASSE mai avuto nessuna di queste In questo momento storico, io esperienze con i diritti dʼautore. e i miei amici abbiamo il libero È già stressante per me trovare arbitrio di essere chi siamo, qualsiasi elemento del mio lavoro sul web! In verità, non ci almeno a Parigi. Tutti vogliono metterti in una scatola, per penso mai quando lavoro. Sono favorevole alla collaborazione categorizzarti e sentirsi rassicurati. In qualche modo questo e alla diffusione del mio lavoro sul web, per quanto possibile. fa sentire le persone più sicure. Io, non accetto categorie. Nel mio lavoro uso anche le nuove tecnologie. La gente di MG: Quando si guarda allo stato del mondo, la gente viene tutto il mondo potrebbe aggrapparsi a uno dei pezzi e magari privata dei diritti fondamentali. Siamo nel 2020 e vorrei che usarlo per qualcosʼaltro non voluto. Ricordo che un giorno fossimo andati più lontano di dove siamo ora. Da un lato, un amico che lavorava in un ufficio creativo in Asia e seguiva stiamo combattendo e la gente sta diventando più aperta. le tendenze del mondo mi scrisse: “Oh mio Dio, una delle Dallʼaltro, la gente vuole rimettere tutto in un armadio. tue performance viene trasmessa in Corea proprio ora”. Io Io non sono un combattente, ma mettendo il mio gusto in ero tipo: “Oh, cazzo!”. Sapete, è una cosa intensa. In quel avanti, spero di poter cambiare il mondo.

Tutti VOGLIONO METTERTI in una SCATOLA, PER POTERTI categorizzare IN UN QUALCHE MODO. TUTTO QUESTO FA SENTIRE LE persone più sicure. IO INVECE NON ACCETTO CATEGORIE.

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LOH:


IN ALTO A SINISTRA. Abito, scarpe e anello: tutto GIVENCHY; camicia, PONZI. AL CENTRO. V-neck, pantaloni, boots e braccialetto: tutto SAINT LAURENT BY ANTHONY VACCARELLO. A DESTRA. Gilet, DSQUARED2; pantaloni, ACNE STUDIOS; boots, LEMAIRE; braccialetto, D’HEYGERE. In tutto il servizio la collana è di Samuel Fasse. STYLIST: Margaux Dague. GROOMING: Fidel Fernandez. PHOTO ASSISTANT: Yvonne Dumas Milne. STYLIST ASSISTANT: Lea Sanchez. SHOOT ASSISTANT: Lilly Gray. LOCATION: Poush Manifesto, Clichy.

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Body of Evidence. Una fresca camicia

button-down, una cravatta di seta, un classico mocassino in pelle. Negli anni i caposaldi del guardaroba maschile non sono quasi mai cambiati. Ma grazie alle rivoluzioni nell’espressione di genere e nel racconto di una più sfaccettata mascolinità, non è più così. Con l’avvicinarsi del centenario de L’Officiel, abbiamo chiesto ancora una volta ai lettori di raccontare gli accessori da uomo must-have di questa stagione. Migliaia di voi, da tutto il mondo, hanno risposto sui social media, condividendo i propri desideri di shopping e selezionando i pezzi homme più desiderabili della fall/winter 2020, in cui investire. Ecco, in queste pagine, un album fotografico che racconta il cambiamento: dalla brogue a punta squadrata di Burberry, all’eyewear fiammeggiante e audacemente oversize di Loewe, le scelte riflettono i nuovi confini che sta esplorando oggi l’abbigliamento maschile. Mentre i colori neutri e le forme classiche continuano a regnare, l’aggiunta di un accessorio più audace regala un tocco di spavalderia alla tipica sartoria da uomo. È sufficiente pensare alla crossbody bag di Dior o alla collana di cristalli di Gucci, originariamente sfoggiata su cappotti e blazer. Mentre uomini e donne iniziano a condividere gli armadi e le passerelle, la definizione di abbigliamento maschile si è espansa fino a una brillante sperimentazione. Un dress code che, nell’uomo, non sarebbe completo senza un orologio classico. Photography JENNIFER LIVINGSTON



IN QUESTA PAGINA. Cartella rettangolare in pelle intrecciata, BOTTEGA VENETA. NELLA PAGINA ACCANTO. Brogue classiche dalla punta squadrata, BURBERRY. IN APERTURA. Borsa crossbody in pelle bicolor e chiusura ispiarata all’iconica Saddle bag, DIOR.




IN QUESTA PAGINA. Cappello dalla tesa larga con decoro in pelle, GIVENCHY. NELLA PAGINA ACCANTO. Occhiali oversize dalla montatura in pelle, LOEWE.



IN QUESTA PAGINA. Cronografo classico, TAG HEUER. NELLA PAGINA ACCANTO. Collier in metallo e cristalli, GUCCI.



IN QUESTA PAGINA. Stringate in pelle effetto sneakers, PRADA. NELLA PAGINA ACCANTO. Berretto in cashmere con dettagli in pelle, SAINT LAURENT BY ANTHONY VACCARELLO. VISUAL DIRECTOR: Miriam Herzfeld. RETOUCHING: Picture House. POST PRODUCTION DIRECTOR: Patrick Kinsella.


Lo stile dei Seventies è stato, e resta, un caposaldo dell’estetica contemporanea. Gli anni ’70 sono stati, concretamente, una factory di sperimentazione estetica. Basandosi sul dandismo moderno del decennio precedente, la moda maschile dei Seventies è stata audace e flamboyant, fuori dagli schemi. E ha ridefinito la percezione collettiva dello stile maschile. Diversi anni prima del debutto de L’Officiel Hommes e di altri magazine di stile creati esclusivamente per il pubblico maschile, L’Officiel aveva già compreso quando il menswear stava trasformando la moda. Un issue speciale del 1972 metteva in risalto le migliori silhouette fit-and-flare del decennio e la mania per lo scozzese; da quel momento la rivista iniziò a presentare un articolo dedicato alla moda maschile in ciascuna delle sue edizioni. Le pagine che la raccontano in quegli anni rispecchiano la ritrovata spavalderia stilistica dell’uomo, portata

alla ribalta da icone come David Bowie o Mick Jagger. Un’estetica scandita da colori saturi, stampe ipervisive e abiti sartorialcasual su misura: il guardaroba maschile si stava trasformando in un argomento da tenere sott’occhio. L’influenza di quegli anni riecheggia in tutte le collezioni maschili di questa stagione. Elementi di quel decennio creativamente intenso come il raso, la pelle scamosciata, i volant o le stampe, sono i temi rievocati in passerella da Gucci, Dries Van Noten o Givenchy. La prima incursione de L’Officiel nell’universo homme raccontava, con spirito pionieristico, quello che stava scuotendo il menswear. E, ieri come oggi, il mantra resta lo stesso: guardare sempre avanti senza crogiolarsi nel presente. —Sophie Shaw


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