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Centro Culturale “G.Stefanuto“

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“i regolamenti“ 11 dicembre 2013 ore 20.30

Caomaggiore.it il foglio di approfondimento politico per Cinto Caomaggiore

| anno MMXIII n.11 | dicembre 2013 |

Se la piazza rappresenta il paese, siamo a posto! “Spesso si coglie l’essenza della vita di un centro abitato al primo sguardo, prestando la giusta attenzione al luogo che rappresenta il suo punto di riferimento: la piazza centrale. La dimensione dello spazio, lo scenario più o meno armonico degli addobbi e delle case intorno, la stessa sua collocazione rispetto alla strada, ma anche il modo con cui la gente la attraversa o si ferma a conversare, possono rivelare il grado di socialità della gente oltre che fornire utili cognizioni sulle professioni e sulle reali condizioni economiche dei suoi abitanti”. In questo modo parte l’introduzione dell’allora sindaco Luigi Bagnariol all’interno del breve libro La piazza San Biagio di Cinto Caomaggiore distribuito dal comune nel 2009. Il discorso inizia citando la parola essenza, cioè ciò che non può non essere, ciò che è dentro le cose e che rimarrà sempre invariato; sicuramente non la pelle esterna quindi, ma ciò che rappresenta più in profondità le cose. Allora guardiamola insieme, oggi, questa piazza e, tenendo conto di quanto sopra virgolettato, analizziamo la situazione del paese. Allo stato di utilizzo attuale, se dovessimo cogliere lo stato del paese dando uno sguardo alle nostre aree pubbliche più rappresentative, ci vien da pensare che il paese in cui viviamo sia riassumibile in un vuoto. Ovviamante non intendo un vuoto reale, tant’è che a Cinto Caomaggiore ci sono circa 3.400 persone, ma un vuoto più interiore, nell’animo del paese e della sua comunità. Vien da chiedersi allora quale sia l’essenza di una piazza, quale la sua funzione principale. A mio avviso dovrebbe favorire al massimo lo scambio tra le persone che vi abitano, l’incontrarsi per una chiaccherata, anche al solo scopo di aumentare il senso di comunità. Cosa che allo stato attuale non mi sembra capiti molto facilmente. Certo, il fatto che una serie di strutture che ci stanno attorno siano attualmente chiuse di sicuro non aiuta a garantire una certa vivacità del luogo, in com-

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editoriale Se Shakespeare fosse appartenuto alla nostra comunità avrebbe così rivisitato il copione di Giulietta: «Oh Romeo Romeo perché sei tu Romeo!? Rinnega la tua “contrada”, rifiuta il suo nome, o se vuoi, giura che mi ami e non sarò più a te ostile». Non me ne vogliate, solo di farvi sorridere è l’intento di questo esercizio. E sapete che altro fa sorridere me e molti altri? Il campanilismo: primordiale rito pagano, ancora oggi perpetuato da molte persone da anni vaccinate. Retaggio di una società povera ed ignorante, che faceva dell’olio di ricino rimedio sicuro ad ogni malanno. Ma il sorriso diviene amaro quando penso a ciò che abbiamo perso. Ricordo, ad esempio, come alle elementari la mia classe fosse divisa in due sezioni, e guarda caso i bimbi delle due “contrade” più grandi erano divisi in sezioni diverse. «Ma perché?» mi chiesi anni dopo. Dozzine di simili accadimenti hanno accompagnato l’infanzia dei più e la domanda è sempre la stessa:«Perché?». Creare una comunità basata sulla divisione è un palese controsenso. Quali diversità invalicabili possono avere le varie “contrade”? E se anche ci fossero degli episodi storici di divisione che senso ha tenersi ancora il muso per questioni vecchie? Studiamo la storia fin da pargoli con la pretesa di non dimenticare e non ripetere gli errori del passato e poi ricadiamo puntualmente in sciocchi pregiudizi. Pensate a tutte le possibili amicizie, opportunità ed esperienze alla quale avete perso o vi hanno fatto perdere per colpa di tale inutile campanilismo. Io le rimpiango e forse potrebbero rimpiangerle pure i vostri figli o nipoti. In un momento storicamente difficile come questo anche riscoprire i valori della vita, la piacevolezza delle relazioni umane e della solidarietà ci farebbe star meglio. Associazioni e realtà fantastiche popolano il nostro territorio, facciamo in modo che esse non siano ad appannaggio della “contrada” nella quale risiede la loro sede. E’ un tema a noi caro quello della comunità. Accogliendo l’appello fatto più volte in passato anche da don Carlo ci impegniamo a collaborare con lui e con chiunque voglia, come noi, ricreare un paese vivo ribellandoci a quel declino che declasserebbe la nostra comunità da paese a dormitorio. di Damiano Biasin penso rappresentano importanti potenzialità per il futuro; occasioni che sarà bene non farsi sfuggire confrontandosi, per quanto possibile, con i privati proprietari di quegli spazi. L’uso che se ne fa oggi della piazza, però, è paragonabile a quello di un ingresso dentro una casa; luogo di rappresentanza più che vero e proprio spazio utilizzato, primo impatto che si ha quando si entra nell’intimità della famiglia, capendo solo in parte quale sia il carattere e le preferenze di chi vi abita. Per conoscere, per fare comunità, serve il dialogo, parlare con la gente; e proprio per questo la piazza la vedrei meglio come salotto del paese. Invece rimane uno spazio che si attraversa per andare verso altre destinazioni, e basta. E’un’uso pressochè normale che avviene in buona parte delle piazze del nostro territorio, quel che rammarica, però, è vedere che non ci sia altra motivazione o evento che sfruttino veramente quelle che sono le potenzialità di quello spazio. Fa sorridere pensare che non lo si possa utilizzare perchè si rischia di sporcarlo. E’ come avere la bella macchina in garage e non usarla per non rovinarla! Il mercato, dopo breve trasloco dietro il comune, è stato definitivamente posizionato nel parcheggio di Piazza Castello e, calcolando che è l’u-

nico evento che nell’arco di tutto l’anno può dar un po’ di vita al paese, almeno per una mattina alla settimana, rammarica “vederlo” nascosto invece che ben in vista, com’era un tempo, con la possibilità di attirare anche casuali passanti di Via Roma. Curioso anche il fatto che, a quanto pare, è diventato assolutamente usuale il suo inutilizzo che non ci facciamo neanche più caso: pensate alla festa di primavera avvenuta in aprile, in maniera probabilmente involontaria la piazza di fronte alla chiesa, quella in marmo insomma, era completamente tagliata fuori e le bancarelle gli davano addirittura le spalle, l’utilizzo si è limitato ad una breve premiazione di bambini delle scuole che poco aveva a che fare, però, con il clou della festa. Ma allora a cosa serve la piazza? L’abbiamo fatta per usarla o per mostrarci belli agli occhi degli altri? E come si è arrivati a questo? Abbiamo iniziato a dire che le campane della differenziata non andavano bene perchè cosa brutta da vedere, che non fosse un posto adatto per le macchine e una piazza si meritasse un’utilizzo più nobile. Ragionamenti più che plausibili. Ci abbiamo creduto in molti infatti, io compreso, senza considerare però quali potessero essere nuove funzio-

ni reali di quello spazio, quale il nuovo programma funzionale che dovesse avere. Insomma non basta far un pavimento e piantare un’albero per far una piazza. Bè ma saremo stati almeno molto bravi sotto il profilo tecnico; dei dubbi ci sono. Le auto non rallentano nel porfido come si sperava, anche perchè il tratto è troppo breve per far si che questo avvenga, non è chiaro quale sia il passaggio delle biciclette che continuano, con qualche rischio, la loro corsa nella corsia delle auto, ci sono gradini pericolosi e poco visibili, tant’è che varie sono state le cadute anche con qualche infortunio che, grazie anche al buon senso civico delle persone, ad oggi non sono sfociati in nessuna denuncia per i danni subiti. Abbiamo tolto cassonetti e parcheggi per metterci marmo e panchine sperando che questo bastasse a far piazza. Le panchine però non si riempiono da sole, e se non si da un motivo alla gente saranno destinate a rimanere così a lungo. Nota positiva è quel minimo utilizzo che ne fa qualche ragazzo di paese durante il pomeriggio o da extracomunitari che non hanno timore di sentir loro quello spazio usandolo per passare un po’ di tempo fuori casa; probabilmente in questo avremmo qualcosa da imparare.

Centro Culturale “G.Stefanuto“

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“il Parco“ 18 dicembre 2013 ore 20.30

s.i.p. da Fabio Pivetta via A. Moro 48/F - Cinto Caomaggiore

Allora mi vien nostalgia di quelle foto in cui si vede la gente seduta fuori dall’osteria Battiston a far salotto, ma anche di quegli anni in cui la Pro Loco organizzava proprio li la sagra di San Pietro e Paolo in quel periodo di transizione tra la sagra della Vigor e quella che sta cercando di riorganizzarsi da un’anno a questa parte con l’aiuto di varie associazioni. Non è tanto la forma organizzativa della sagra quel che mi interessa, anche perchè non serve per forza una sagra per far evento, ma il semplice fatto di vedere la piazza, almeno qualche volta, utilizzata in maniera vera grazie a piccoli eventi, con gente che parla e discute, un paese che si confronta aiutando le persone, almeno in qualche occasione, a spegnere la televisione e uscire finalmente di casa. di Daniele Daneluzzi

Di Cultura non si vive, ma di ignoranza si muore. Ricordo un paese, una comunità, che dopo l’immobilismo di 50 anni, portato da una granitica separazione di tutta la Nazione in due blocchi comunista e cattolico, negli anni ’90 si svegliava da questo torpore e provava a uscire dal Novecento provando a pensare al nuovo millennio. A Cinto finiva l’era Trevisan e della DC e iniziava qualcosa di diverso. Vi fu l’esperienza di Claudio Amadio sindaco e di Bepi Stefanutto assessore alla cultura. Vi fu ancora un prete a Cinto che divideva, che era o troppo amato o troppo osteggiato: Toni, o Don Antonio Buso. Ognuno può avere la sua idea su quel periodo, ma una cosa credo metta d’accordo tutti: era un periodo fervido, fatto di novità e di speranze. Fu un po’ la nostra primavera cintese. In quegli anni nacque la Pro Loco e c’era già una manifestazione, certo di una piccola realtà comunale, ma che tante cose offriva ai cittadini. Era la “Primavera Culturale” (guarda caso). Per un mese circa, a maggio, vi era sia la mostra del libro sia una serie di conferenze e presentazioni di libri. C’era anche un associazione culturale piccola piccola, ma dalle grandi ambizioni. Portò

decine di persone ad ascoltare una professoressa di Trieste parlare dei contadini eretici a Cinto nel 1500. Più ancora quando si parlò di mafia. E poi di traffico d’armi, di Parco (allora per la prima volta a Cinto). Si chiamava Koiné quella associazione. Ora non voglio dire che tutto ciò sia morto, però resta evidente di come tante cose si siano esaurite, di come altre si siano lasciate morire, di come forse ci sia anche meno voglia di fare cultura. Dobbiamo sempre ripeterlo che siamo in un periodo difficile? Eppure lo sappiamo. Lo vediamo tutti i giorni. Quindi perché spendere 300 o 500 euro per far venire uno scrittore, un filosofo? Cosa ci danno queste cose? E’ vero che un libro non sfama, almeno non direttamente. Ma la cultura non è mai stata e mai sarà fine a sé stessa. Voglio dire che tutte le nozioni apprese nella vita sono un po’ come dei vaccini. Nei momenti difficili non sai di cosa avrai bisogno, ma se avrai sufficienti nozioni potrai arginare tutte o quasi tutte le insidie che la vita ti riserva perché ti eri preparato. La vita materiale ci rende schiavi delle cose, ma quelle stesse cose possiamo perderle tutte e in ogni momento (compreso il denaro, la casa, i libri stessi se volete). La cultura appresa, compresa, sedimentata e fatta nostra no! Quella resterà sempre parte di noi e nessuno potrà toglierla qualsiasi cosa accada. Nei momenti peggiori della storia dell’umanità la sorte peggiore è sempre toccata ai popoli o alle fasce di popolazione più legate alla materialità, alle cose elementari. Sarebbe come a dire oggi a chi ha meno competenze. Ci troviamo in una Nazione dove gli investimenti per la cultura e la ricerca sono fra i più bassi fra le nazioni sviluppate. Inoltre il grado di competenza linguistica (figuriamoci tecnica) di noi italiani è bassissimo. Non parlo di lingue straniere, che è un altro tasto dolentissimo, ma delle stessa lingua italiana. La lingua d’accesso alla cultura prima, a quella dello scrivere e leggere per essere capiti dagli altri 60 milioni di connazionali. Questo da molti anni, diciamo da decenni.


In prospettiva, ma è anche tema di oggi, cosa comporta questo? Siamo destinati a diventare un popolo di fornitori di manodopera. Saremo i moderni minatori, facchini, servi della gleba dell’Occidente. Sembrerà una lunga divagazione fuorviante eppure cari amici di Cinto e Settimo, non possiamo non auspicare per il futuro una nuova azione in grado di portare di più e di nuovo quel fervore che animava il Comune solo qualche anno fa. Anche un piccolo Comune può far molto. Può essere il soggetto che promuove nuove proposte culturali, magari non da solo, come le logiche del risparmio pubblico impongono, che decide di aprirsi anche verso realtà estere per confrontarsi con culture diverse, per una realtà che ha visto decine di paesani andare via con la valigia negli anni scorsi. Aprire di più e meglio un confronto costruttivo con le scuole. Parole belle certo e forse facili a scriversi, ma sarà comunque questa la strada da seguire se vorremmo restare nel nuovo millennio, altrimenti non potremo che guardare solo al passato sospirando incapaci di dare un senso a quello che ci accade attorno. Non sarà forse una vera morte ma diciamo che le assomiglia molto. di Fabio Pivetta

BPT. Un brand d'annata. Molto è stato detto o scritto in merito al caso BPT, un big dell’industria attivo dal 1953 che la crisi internazionale e un management non sufficientemente lungimirante hanno portato via da Cinto Caomaggiore.Rileggendo alcuni articoli usciti sui quotidiani negli ultimi due anni, ho pensato di condividere con voi alcune riflessioni. Come abbiamo vissuto, dai banchi dell’opposizione, la decadenza della BPT (e della Dexion) che nel tempo avevano dato lavoro a centinaia di famiglie cintesi, venete e friulane? Abbiamo vissuto questi due anni portandoci dentro un senso di speranza e anche di frustrazione. Le nubi si sono addensate sopra la BPT poco tempo dopo la tempesta DEXION. Si parlava di una vendita a un soggetto estero o italiano ormai inevitabile. Per prima cosa noi della Lista Caomaggiore abbiamo cercato di raccogliere informazioni parlando con i dipendenti, con i sindacati e con i colleghi consiglieri comunali. Era da mesi che la nostra Lista aveva sollevato con l’ex Sindaco, in consiglio comunale, la questione della crisi. Abbiamo chiesto verifi-

che e un monitoraggio serio del tessuto delle imprese di Cinto Caomaggiore. Spiace constatare che le nostre preoccupazioni non hanno trovato sponda, fin dall’inizio. Abbiamo allora intercettato alcuni parlamentari e alcuni consiglieri regionali, affinché si chiarissero in dei luoghi ufficiali – assieme alle nuove rappresentanze sindacali – le intenzioni della vecchia e della eventuale nuova proprietà. Ne sono nati dei tavoli di concertazione che pur non essendo riusciti a fermare la cessione della BPT (la situazione era ormai compromessa), hanno comunque consentito di attutire il colpo. Siamo poi ritornati in Comune, qualche settimana dopo, per chiedere garanzie in merito al piano industriale della Came per il sito di Cinto Caomaggiore. Non potevamo avere informazioni dirette, non essendo noi presenti in Giunta e non avendo contatti con la nuova proprietà. Il risultato è stato che abbiamo avuto poche informazioni, rispetto a quelle necessarie per agire cosi come avremmo voluto fare. Volevamo vederci chiaro perché contestualmente, la Came aveva acquistato anche il sito friulano della BPT e questo non era un buon segnale. E’ infatti notizia di poco tempo fa che la Came ha ufficialmente deciso di trasferire la produzione proprio in Friuli, in uno stabilimento di 7.500 mq adiacente al centro direzionale BPT. Pare che oltre agli esuberi inizialmente previsti (meno di 30), per i restanti dipendenti non siano previsti ulteriori tagli: sarebbe una cosa molto positiva. Detto questo, le considerazioni da fare sono anche altre. Nel prossimo PAT, che cosa sarà previsto per l’area della BPT di Cinto Caomaggiore? Sarebbe interessante capire anche la cittadinanza che aspettative ha sul futuro di quello spazio. Altra domanda, si poteva agire diversamente in questi anni per evitare la chiusura della BPT? Vale a dire, cosa non ha funzionato in tema di management e anche per tutto ciò che ci ruota attorno a livello istituzionale. Difficile, comunque, se non impossibile, immaginare un futuro per le attività produttive (tutte) se non ci sono servizi, infrastrutture e investimenti di un certo tipo. La politica industriale del “fai dove vuoi come vuoi” ha mostrato tutta la sua debolezza. La competitività globale, oggi, significa che non ci si può quasi più permettere di sbagliare e serve allora molta più formazione e una sinergia veramente intelligente fra il pubblico e il privato specie quando le realtà aziendali non sono piccole. Discorsi molto complessi che non possono risolversi in un breve articolo

Finalmente inizio a capirci qualcosa. Mi chiedevo cosa fosse questo parco, a cosa ser-

luto prenderne parte, alcuni perchè fuori provincia, altri perchè non coinvolti o perchè politicamente non affini. Mi ritengo soddisfatto del fatto che Cinto sia tra questi, ma ancora non capisco bene cosa sia questo Parco. Approfondiamo. Tutto inizia dalla volontà di tutelare e conservare quegli elementi residuali di una natura che, fino a non molti decenni fa, potevano facilmente trovarsi in molte parti della pianura veneta e

Proprio per questo, oltre alle aree sopra citate, vengono coinvolti una serie di terreni agricoli tutt'attorno, lasciando intendere come proprio dall’agricoltura e dall’ambiente bisogni ripartire. I fiumi diventano elemento di connessione e motivo di possibile sviluppo turistico, vero e proprio corridoio ecologico che parte dalle risorgive ed arriva al mare connettendo le parti più interessanti del nostro territorio.

visse e, soprattutto, chi lo volesse! Ho cercato di informarmi un po’. Parto con la ricerca: in Comune dicono di non aver niente a riguardo, allora vado più in alto. Visita giornaliera in Provincia di Venezia dove scopro un bel po’ di cose. Vengo a conoscere che la provincia stessa ha dato direzioni sul Parco dei fiumi Reghena, Lemene e laghi Cinto con un primo Piano Ambientale redatto a cavallo tra gli anni Novanta-Duemila ed un secondo, fresco fresco in via di approvazione, che è già da fine 2012 nelle mani dei Comuni interessati per i dovuti approfondimenti. Ma quali sono i Comuni interessati? Per adesso solo Cinto Caomaggiore e Portogruaro hanno aderito all’iniziativa, altri non hanno potuto o vo-

che oggi, purtroppo, a stento ancora ritroviamo nei territori che ci circondano. E così le prime attenzioni ricadono su aree quali quelle dei mulini di Stalis a Gruaro, di villa Bombarda a Portovecchio, dei boschi di Venchiaredo a Sesto al Reghena, dei corsi dei fiumi Lemene e Reghena, dei laghi di Cinto, ecc. Due sono le considerazioni che vengono spontanee: la prima è che è evidente che la dimensione dei terriritori sopra citati non siano sufficienti per l’istituzione di un vero e proprio parco a livello provinciale, la seconda è che buona parte dei Comuni coinvolti necessitano di piani forti per lo sviluppo futuro, quindi va bene conservare ma bisogna pensare anche ad un possibile sviluppo in un momento di vacche magre, sempre che ce ne siano ancora.

Dalle risorgive al mare...ma se al Piano Ambientale partecipano solo Cinto e Porto? Vero, però è la stessa Provincia, conscia della necessità di coinvolgere tutta una serie di Comuni limitrofi, ad indicare a chi già ne fa parte di farsi promotore in prima persona dello sviluppo del Parco pubblicizzandone le possibili positività alle amministrazioni dirimpettaie, anche se fuori Provincia; infondo, dovrà pur servir a qualcosa il Protocollo d’Intesa redatto tra Provincia di Venezia e Provincia di Pordenone nel lontano 1994 allo scopo di intensificare i rapporti su tematiche comuni come la valorizzazione dei territori di confine. L’azione della Provincia è partita con una serie di incontri, detti Agenda 21, dove i 62 organismi coinvolti, tra ammi-

di giornale. Resta comunque l’amarezza per quanto successo e la voglia di fare il possibile – ognuno nel suo piccolo – affinché questa crisi finalmente lasci spazio a una ragionevole ma costante ripresa. di Alessandro Coccolo

Habemus “Parco”

nistrazioni, enti, associazioni e privati cittadini in qualche modo interessati alle tematiche del Parco, hanno stabilito che quel che serve è proteggere e valorizzare il suolo in cui viviamo, sia come scopo di tutela ambientale e paesaggistica, che anche come metodo di sviluppo delle attività agricole e turistiche. Ne deduco che il Parco non va quindi inteso al solo scopo di protezione di quel che c’è, come funziona un Parco Naturale, ma come un nuovo sistema produttivo per un territorio che esce dai limiti di un singolo Comune, un vero e proprio Parco Rurale che nella sua dimensione intercomunale si fa forza all’interno di un mercato in cui si galleggia solo se si maneggiano quantità rilevanti di merce. L’Agenda 21 ha evidenziato una serie di importanti necessità. Serve un’unico organismo che si prenda carico della gestione, e in questo Cinto ha avuto la sua buona occasione con la commissione Parco; serve avviare un dialogo con gli agricoltori per introdurre e diffondere pratiche agricole con minore impatto ambientale, rallentando il declino della biodiversità che sta avvenendo anche nei nostri terreni con conseguente diminuizione delle potenzialità produttive; serve avviare una politica di gestione delle siepi alberate e dei boschi presenti tanto importanti per la salvaguardia degli habitat, per la mitigazione degli eventi climatici e per l’assorbimento dell’anidride carbonica; serve, infine, valorizzare le risorse agro-ambientali del nostro territorio con il recupero e la salvaguardia di prodotti che stanno scomparendo dai nostri campi e, perchè no, cercando di avviare un processo di realizzazione di un marchio che ne protegga la provenienza. Migliorare i paesaggi in cui viviamo insieme all’organizzazione dell’offerta agroalimentare e ad un buon programma alberghiero, non può che elevare le potenzialità di un settore turistico inserito in un contesto fondato su quei piccoli, e spesso sottovalutati, gioielli che ancora possiamo trovare nel territorio che ci circonda. Mi sembra, dunque, che questa sia la mira, queste le ambizioni; obbiettivi importanti, forse un po’ lungimiranti, ma di alto spiritico politico, punti di partenza su cui aprire una serie di dibattiti con i diretti interessati, cittadini e portatori di interesse in genere, fondamentali per la loro capacità di portare consigli e reali problematiche necessarie alla definizione dei piani di intervento atti a concretizzare quanto appena detto. di Daniele Daneluzzi


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