Comunità artistiche - L'esperienza di Weya e Tengenenge in Zimbabwe

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Nell’ambito dei nuovi movimenti mondiali contemporanei, l’arte dello Zimbabwe rappresenta una delle manifestazioni più interessanti e conosciute. Pietre, legno, metallo, tele, stoffe, stampe, sono alcuni dei materiali che hanno ispirato alla pittura e alla scultura di questa terra un cammino che ha abbondantemente varcato i confini nazionali e continentali, per porsi all’attenzione in esposizioni e gallerie di tutto il mondo. Sud Africa, Zambia, Stati Uniti, Australia, Regno Unito, Danimarca, Olanda, Belgio, Germania, Francia e Italia sono alcuni dei paesi che hanno ospitato, con successo di critica e pubblico, rassegne personali e collettive legate alla nuova arte dello Zimbabwe.

Continua, quindi, quel processo di profondo rinnovamento artistico iniziato nel paese cinquant’anni fa e proseguito dopo la proclamazione della Repubblica dello Zimbabwe, nel 1980. Tre generazioni di artisti, ormai, hanno segnato in modo forte e irreversibile differenti percorsi culturali, innestandoli intensamente nel tessuto sociale del Paese.

“Comunità artistiche. L’esperienza di Weya e Tengenenge in Zimbabwe”, lungi dal pretendere di fornire un quadro complessivo ed esaustivo su persone, ricerche e movimenti, intende porre l’attenzione su alcuni esempi che possono costituire un’interessante e originale interrelazione fra esperienza artistica e commercio equo e solidale.


Introduzione

Le decadi degli Ottanta e dei Novanta e i primi anni del nuovo secolo sono stati molto importanti e ricchi di sviluppi per l’arte dello Zimbabwe. Accanto alla crescita e alla definitiva consacrazione della scultura in pietra, grazie all’attività della National Gallery of Zimbabwe e della comunità di Tengenenge, si sono posti all’attenzione del mercato internazionale alcuni pittori legati all’esperienza del BAT Workshop, una scuola artistica legata alla stessa National Gallery e animata per molti anni da Paul Wade, laureato in Tecniche della tessitura e pittura di arazzi e pittore egli stesso. L’attività del BAT ha rappresentato una sorta di alternativa agli scultori in pietra, valorizzando forme di espressione legate alla pittura. Nella seconda parte degli anni ’80, infatti, pittori come Fasoni Sibanda, Luis Meque e Never Kayova hanno cominciato a esporre con successo presso alcune gallerie di Harare. Fasoni Sibanda e Luis Meque, che condividono una pennellata di tipo espressionista, pur con tecniche e materiali differenti, si ispirano a scene legate alla vita quotidiana; Never Kayova predilige la pittura a olio su tela e i soggetti rurali, ritraendoli con uno stile più legato all’istante, quasi impressionista. Un altro pittore degno di nota è Barry Lungu, pittore trentacinquenne che, guardando a Van Gogh, viaggia per le aree rurali del paese ritraendo paesaggi e persone dai vividi colori. Arthur Fata, suggestionato nel periodo della sua prima formazione artistica da Picasso e Matisse, si è rivolto successivamente a sperimentazioni con svariati materiali e a un linguaggio astratto. Stanford Derere e Keston Beaton sono tra gli scultori più originali usciti del BAT Workshop: il primo rappresenta soprattutto animali (in particolar modo uccelli), tratteggiati con un’estrema cura per i dettagli, oppure tematiche legate alla tradizione Shona (ad esempio, i rituali degli antichi guerrieri); Keston Beaton combina pietra, ferro e legno e altri materiali di recupero, costruendo soprattutto strumenti musicali. Tapfuma Gutsa è uno scultore della seconda generazione – attiva negli anni Ottanta – particolarmente poliedrico e aperto a contaminazioni con alcune espressioni dell’arte europea: celebri i suoi volti, le visioni immaginarie e le sculture a forte contenuto politico e sociale. Nel panorama artistico femminile spiccano i lavori di Agnes Nyanhongo, scultrice raffinata che sempre più sposta la sua ricerca dal mondo naturale a quello interiore, Colleen Madamombe, legata soprattutto alla rappresentazione della donna zimbabwana e Roselyn Marikasi, pittrice poliedrica dal tratto molto forte, in bilico tra figurazione e astrattismo. L’arte al femminile vive uno dei capitoli più fecondi con l’esperienza delle donne del villaggio di Weya, che, grazie a una singolare esperienza al limite tra accade-

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Introduzione

mia, raffinato laboratorio artigianale e comunità autogestita, ha saputo individuare un’originale forma di comunicazione culturale e sociale, abbinando ai temi propri della tradizione Shona un forte messaggio di riscatto della condizione femminile nello Zimbabwe. Un posto a parte merita la scultura in legno che, gravitando soprattutto intorno alla città di Bulawayo, nel sud del paese, costituisce un vero e proprio alter ego culturale e geografico al polo artistico della capitale Harare. Tra gli esponenti più significativi vanno ricordati Zephania Tshuma, artista della prima generazione – è nato nel 1932 – dalle sculture lucide, colorate e umoristiche e Danson Mancini.

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«Fino a qualche anno fa, non avrei mai creduto di poter dipingere qualcosa che qualcuno sarebbe stato disposto a comprare. Quando mi chiedono dove lavoro, rispondo che sono un’artista. Ho scritto “Artista” sul mio passaporto. Quando mi reco nella capitale Harare, i miei amici mi chiedono dove lavoro. Lavoro al mio villaggio, ma sono un’artista». (Pittrice della comunità delle donne di Weya)

1. Il contesto sociale di Weya Il villaggio di Weya è posto 180 Km a est di Harare ed è situato in una delle più piccole Aree Comunali del Paese. “Area Comunale” è un termine che cerca di ingentilire un doloroso retaggio storico, quelle “Terre Tribali Fiduciali” o “Riserve dei Nativi” utilizzate dai governi razzisti della Rhodesia per segregare la popolazione nera: il nome è cambiato ma le condizioni delle persone non hanno subito grandi mutamenti (Ilse Noy, “The art of the Weya women”, 1992). La principale fonte di reddito è ancora costituita dall’agricoltura, sebbene il ciclo climatico degli ultimi due decenni, fortemente siccitoso, abbia causato notevoli problemi a questa tradizionale risorsa economica. Non sorprende, quindi, che in molti nuclei familiari gli uomini cerchino un lavoro più stabile e redditizio nelle città, nonostante queste siano distanti centinaia di chilometri e poco preparate ad accogliere e gestire un flusso migratorio di portata sempre più ampia. La lontananza, in molti casi, si traduce in vero e proprio abbandono, senza rimesse economiche da parte dei padri e dei mariti, che decidono di non tornare nei villaggi natii. Il ruolo femminile, di gran lunga il più importante nella vita quotidiana delle comunità dello Zimbabwe (e africane in genere), assume un ulteriore peso all’interno della famiglia, imponendo compiti ed emergenze del tutto imprevisti. Questa situazione, negli ultimi trent’anni, ha avuto forti ripercussioni in numerosi ambiti della vita della comunità di Weya: non è casuale, infatti, che un centro di formazione professionale importante come quello gestito dalla “Mukute Farm Society”, rivolto in particolar modo ad attività prevalentemente maschili, abbia dato origine, a partire dal 1987, all’esperienza del gruppo di donne di Weya, con un rovesciamento di ruoli e competenze sorprendente, seppure di non sempre facile assimilazione da parte del tessuto sociale dell’intera comunità.

Il Centro di Formazione e la Mukute Farm Society Per capire il significato del gruppo di donne di Weya occorre risalire all’inizio degli anni Ottanta, quando Amon Shonge, presidente della Mukute Farm Society, decise di dare vita a un centro di formazione permanente, con l’obiettivo di creare nuove competenze professionali.

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Corsi di vario tipo, dalla carpenteria all’edilizia alla meccanica, pur non risolvendo il problema complessivo dell’eccessiva dipendenza dal reddito agricolo, furono in qualche modo in grado di fornire nuove opportunità di lavoro, a beneficio quasi esclusivo della componente maschile. Le donne incontrarono forti difficoltà e resistenze, soprattutto a causa della concezione del ruolo femminile nella società Shona, tradizionalmente subalterno a quello dell’uomo. Le partecipanti, quasi esclusivamente indirizzate ai corsi di taglio e cucito, non godettero di eccessiva fortuna, essendo la sartoria artigianale ben poco concorrenziale nei confronti dell’industria tessile nazionale e di importazione. Accantonati alcuni altri possibili sbocchi, come l’artigianato in terracotta o la cesteria, abbastanza estranei alla tradizione locale e quindi di difficile differenziazione sul mercato, rimase come unica soluzione praticabile, accettata da tutte le donne, proprio l’attività da poco intrapresa, seppure con forme di organizzazione in grado di conservare, migliorare e promuovere il patrimonio di conoscenze e creatività acquisito durante il corso. Sul finire del 1987 Ilse Noy, insegnante d’arte e scrittrice tedesca presente in Zimbabwe da alcuni anni, iniziò a collaborare con la Mukute Farm Society, in modo particolare con Agnes Shapeta, formatrice e docente del corso di sartoria. Ilse vantava un’esperienza di oltre tre anni nella gestione di corsi di formazione legati in particolar modo al disegno e alla creazione di capi d’abbigliamento, attività che aveva svolto soprattutto nella capitale Harare. Il trasferimento nella realtà rurale di Weya impose un repentino cambio di prospettiva nell’impostazione del lavoro, e sia Ilse come il gruppo di donne coordinato da Agnes, a partire dall’analisi degli errori che portarono alla precedente fallimentare esperienza, decisero di muoversi in due direzioni distinte, sebbene strettamente dipendenti. La prima azione consistette nella conversione dei corsi di cucito a macchina in una serie di lezioni impostate prevalentemente sulla manualità, sul recupero di abiti usati e sull’approvvigionamento di materia prima, così da garantire interventi a livello di economia familiare sostenibili e compatibili con la disponibilità di tempo giornaliera. Era ormai perfettamente evidente a tutte, infatti, come la produzione a telaio meccanico avesse avuto un impatto piuttosto problematico sulla gestione quotidiana delle famiglie, senza generare un corrispettivo economico soddisfacente. A questa prima fase, che potremmo definire di riduzione delle spese (intese in senso lato, dal tempo al costo della materia prima) ne seguì una focalizzata in particolar modo sull’individuazione di prodotti in grado di generare reddito.

2. Forme ed espressioni dell’arte Weya Gli appliqués e le prime sperimentazioni artistiche La soluzione si presentò, quasi per caso, sfogliando una pubblicazione dedicata agli “appliqués” tradizionali del Benin (Ilse Noy, “The art of the Weya women”, 1992). L’uso del termine “appliqué” è riferito a una composizione ottenuta cucendo su una base di tela, stoffa o panno, tessere di tessuto di vario colore e forma, fino a costituire un vero e proprio mosaico. Gli appliqués sono utilizzati generalmente per impreziosire basi di tessuto o nella creazione di decorazioni da muro, e richiedono una buona manualità in ogni fase della realizzazione, dal disegno dei modelli alla cucitura sulla base di tessuto. L’appliqué si distingue per la particolarità dei modelli e per prestarsi a realizzazioni “comunitarie” nelle tecniche di elaborazione e disegno. La struttura a collage, inoltre, consente l’uso di materiali tessili di svariata natura, dai più pregiati ai più comuni e “poveri”, permettendo un notevole lavoro di riciclaggio della materia prima. Un prodotto, quindi, particolarmente indicato per le donne della comunità di Weya e per le loro disponibilità di tempo e denaro. Il primo quadro costruito con tecnica appliqué fu “comunitario” per eccellenza e attirò la curiosità (ma anche la perplessità) di molte donne partecipanti al corso. Si trattava, infatti, di trasferire sulla tela disegni, materiali e tecniche di cucitura locali, passando dallo “spirito” del Benin a quello di Weya. L’opera fu venduta con facilità e profitto, tra lo stupore quasi generale delle donne che l’avevano ideata. Uno dei segreti del successo fu senza dubbio l’immaginazione; se si eccettuano alcuni dipinti del Benin osservati direttamente sul catalogo, nessun libro o rivista aveva influenzato la fase di ideazione dei soggetti: una conquista fondamentale per le donne di Weya, abituate a considerare praticamente nulla la loro sensibilità artistica. Si susseguirono presto altre realizzazioni, nel corso delle quali vennero affi-

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nate le differenti fasi della preparazione dei dipinti. La novità dell’artigianato di Weya assunse in breve tempo rilevanza nazionale, mutandosi in vera e propria espressione artistica. Un anno dopo, la Galleria Nazionale d’Arte di Harare dedicò un’esposizione temporanea ad alcuni appliqués, con buona eco sulla stampa locale. Per le donne si trattò di un’affermazione improvvisa, con risvolti e ripercussioni del tutto inaspettati. Alcuni tabù della dimensione sociale di Weya, infatti, vennero clamorosamente infranti; le stesse neo artiste, che, in quanto donne, secondo la tradizione locale non avrebbero neppure potuto affrontare determinati discorsi, utilizzarono il nuovo mezzo espressivo per parlare liberamente di tutto. Se il soggetto o la fantasia lo richiedevano, si poteva parlare dei segreti femminili, di storie d’amore e sesso, potevano essere derisi gli uomini ubriachi, prepotenti e fannulloni, si dava voce ai racconti delle prostitute… L’arte Weya funzionava così da potente detonatore per fare esplodere preconcetti, contraddizioni, meschinità e quotidiani soprusi.

Il primo appliqué dell’originario gruppo di Weya. Tratto da “The art of the Weya women” di Ilse Noy - Baobab Books.

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I primi dipinti Nel giugno del 1988, un anno dopo le prime sperimentazioni, circa sessanta donne lavoravano in tredici gruppi differenti, sviluppando con fantasia ed evidente successo l’arte e la tecnica degli appliqués. Tre nuclei, ognuno proveniente da villaggi diversi, decisero di orientarsi decisamente verso la forma del dipinto, elevandolo da semplice tappa per la realizzazione degli appliqués a forma espressiva con propria vita e dignità. Per tutte fu necessario partecipare a un corso, così da acquisire la quasi totalità delle tecniche fondamentali del disegno e della pittura, nonchè l’utilizzo dei colori. Grazie all’assistenza di Ilse Noy, a poco a poco si formò un gruppo di venti donne, dalla cui ulteriore selezione ne emersero cinque in grado di proporre i primi quadri da destinare al mercato delle gallerie. Il prezzo delle opere, stabilito collegialmente, venne accolto favorevolmente nella capitale, tanto che, in breve tempo, furono vendute facilmente. Nei mesi seguenti, il gruppo decise di passare dalla gestione comunitaria delle entrate alla remunerazione individuale, in base alle opere realizzate. Nei tre anni successivi lo stile di pittura mutò sensibilmente, e non sempre in senso positivo. Un’importante novità venne mutuata dalla composizione degli appliqués: le tele cominciarono a essere suddivise in sezioni regolari, ognuna narrante una parte della storia. Successivamente, a questa struttura “narrante” si preferì uno sfondo unico, in cui il senso cronologico fosse svelato da differenti linee, punti e colori. Quest’ultima scelta si prestò, per un primo momento in modo del tutto inconsapevole, a una semplificazione degli stili e delle narrazioni: i dipinti divennero piuttosto scontati, ricchi di elementi ripetuti, e quasi sempre rappresentavano poche storie “standardizzate”. La reazione dei galleristi, immediata e fortemente critica, costrinse il collettivo a un profondo ripensamento, generando un dibattito intenso e scelte profondamente diverse dalle precedenti.

Il secondo periodo e la nuova pittura La produzione in serie indusse parecchie artiste a riflettere sugli stili utilizzati e a ricercare nuovi elementi per comunicare attraverso i dipinti. Fonte di ispirazione fu, all’inizio del 1989, la visione di alcune opere di Valente Malangatana – pittore mozambicano annoverato tra i più grandi artisti africani contemporanei – nella cui arte sono frequenti il dramma della sofferenza e la denuncia delle atrocità della guerra. Il tratto, che ricorda lontanamente Picasso (sebbene sia ormai riconosciuto l’influsso che l’arte africana ebbe sul grande artista spagnolo, soprattutto nel periodo giovanile) predilige gli oli dai colori forti: il rosso dei decenni passati e oggi, in tempo di pace, il blu. Sono frequenti, inoltre, i disegni dell’epoca della carcerazione (Malangatana fu un fermo oppositore, nel suo paese, della dominazione coloniale portoghese), spesso eseguiti con segni netti di inchiostro su cartoncino che lasciano pochi vuoti, evidenziando i contorni dei corpi e i volti della sofferenza. Le pittrici di Weya si dimostrarono affascinate, per molti tratti impressionate, dall’opera dell’artista mozambicano; l’esplosione di quei colori, la nettezza dei tratti e la “densità” degli spazi cromatici indussero molte di loro a rivivere nei loro quadri questa tecnica, al punto che, senza troppi giri di parole, alcune fra esse parlarono apertamente di “stile Malangatana” per definire molte loro composizioni (Ilse Noy, “The art of the Weya women”, 1992). Un secondo motivo di elaborazione e confronto fu l’utilizzo della tridimensionalità, fino ad allora ritenuta di esclusiva pertinenza dei colleghi artisti. Il superamento di questa barriera psicologica e culturale avvenne ricorrendo a un vero proprio confronto aperto fra l’opera di una delle pittrici e quella di un collega maschio. Il confronto tra le tecniche di Mathilda e David, infatti, segnò un momento memorabile nell’evoluzione degli stili e, aspetto ben più rilevante, nella consapevolezza delle qualità soggettive, indipendentemente da pregiudizi e tradizioni più o meno imposti. David era riconosciuto come pittore affermato, avendo già esposto con successo alla Galleria Nazionale d’Arte di Harare; egli, inoltre, aveva avuto modo di confrontarsi con la stessa Ilse, perfezionando così la rappresentazione del disegno. L’analisi dei due dipinti, eseguita collegialmente, rivelò differenze significative, senza portare tuttavia a presunte inferiorità dell’una rispetto all’altro. Il quadro di David evidenziava una tensione continua dell’opera, a tratti nervosa e incontenibile, quasi a voler frantumare la cornice, mentre il dipinto di Mathilda

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esprimeva una straordinaria calma e serenità, risolvendosi perfettamente all’interno dello spazio pittorico. Entrambi i dipinti, quindi, oltre a dimostrare soggettive sensibilità e capacità, chiarivano la notevole differenza della concezione maschile e femminile all’interno dell’arte Weya. Osservando il dipinto di una pittrice Weya, ci si sorprende davanti alla poca importanza attribuita alla rappresentazione realistica e naturalistica e alla subordinazione di quest’ultima al simbolo e al particolare. Il significato e il dettaglio riescono a convivere, a discapito dell’armonia delle forme, che diventano statiche nei loro profili. Il grado di difficoltà del dipinto, in una pittrice Weya, non dipende dall’abilità tecnica, bensì dal fatto che la storia narrata sia o meno percepibile a partire da pochi dettagli. Narrare con un frammento, un segno particolare e preciso che diventa simbolo perfettamente riconoscibile, in un incastro fra elemento specifico e significato che rivela, come per magia, un senso compiuto; è forse questa l’essenza della pittura delle donne di Weya. Diviene facilmente comprensibile il fascino esercitato sulle artiste dalla pittura di Valente Malangatana, un mondo fatto di segni energici, netti, dai colori esplosi con un semplice tratto sulla tela e dai contrasti evidenti: una vera e propria miniera di codici, a cui queste pittrici hanno attinto a piene mani. Non stupisce, quindi, come una tecnica da loro elaborata porti, come dedica affettuosa, il nome di “Malangatana”.

Mavis “Hair styles” RICAMO Tratto da “The art of the Weya women” di Ilse Noy - Baobab Books.

Enesia “Drinking beer” DIPINTO SU TELA Tratto da “The art of the Weya women” di Ilse Noy - Baobab Books.

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Dal ricamo al disegno Sul finire del 1989, la fama dei corsi di appliqués e pittura varcò i confini del territorio di Weya, al punto che, quando venne organizzato il corso di ricamo, ben sessanta donne provenienti da villaggi vicini vollero iscriversi, certe di trovare un lavoro e un guadagno sicuro (Ilse Noy, “The art of the Weya women”, 1992). Terminate le lezioni, buona parte delle allieve decisero di produrre ricami senza curarsi minimamente di effettuare una ricognizione sul mercato circostante. Il corso aveva assunto una dimensione quasi taumaturgica, caricandosi di attese e certezze molto forti; l’impatto con la realtà dei fatti fu, purtroppo, ben diverso e duro. La tecnica del ricamo, rispetto alle precedenti, richiede una manualità particolare e un lavoro intenso, esaltando le capacità artigianali, decorative e ripetitive; il risultato inevitabile, pertanto, è il prezzo di vendita, strettamente rapportato ai materiali e al tempo impiegato. L’abilità artigianale, fortemente soggettiva, costituì un vero e proprio scoglio culturale per molte partecipanti, convinte di non dover badare più di tanto al risultato finale. Il tentativo delle insegnanti di dissuadere alcune iscritte ad abbandonare il corso, fu interpretato come favoritismo nei confronti di quelle ritenute maggiormente in grado di apprendere le tecniche. Il ricamo, probabilmente, si rivelò come il più grande insuccesso della scuola artistica di Weya, al punto che, per molte donne, divenne sinonimo di fallimento; ciò non impedì, tuttavia, il raggiungimento di pregevoli livelli di qualità da parte di un piccolo numero di esse, con risultati economici soddisfacenti. Alcune delle partecipanti che lasciarono gradualmente il corso decisero di tentare altre esperienze all’interno del contesto artistico di Weya, mentre la maggioranza abbandonò in maniera più o meno definitiva la scuola. Il problematico esito del ricamo impose una seria riflessione alla scuola d’arte di Weya, sempre alla ricerca di alternative ai corsi professionali tradizionali. Il primo corso di pittura aveva portato alcune artiste ad approfondire in modo particolare alcune tecniche legate al disegno e a

Sarudzai “An ex-combatant” DISEGNO.

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Tratto da “The art of the Weya women” di Ilse Noy - Baobab Books.


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scoprirne l’importanza nella composizione del quadro. L’attenzione al segno e al dettaglio, inoltre, tipiche della pittura al femminile di Weya, suggerirono un percorso particolare intorno al disegno. Come la nascita della pittura Weya avvenne per “sedimentazione” di una tappa particolare della realizzazione degli appliqués (la fase del dipinto, appunto), così il disegno venne “estratto” dal contesto del dipinto e riconsiderato come entità a sé, pienamente indipendente. Traendo ispirazione da personali e precedenze esperienze, venne adottata come tecnica condivisa la rappresentazione su uno sfondo comune, costituito dalle carte geografiche dello Zimbabwe. L’approccio al corso fu diverso rispetto al precedente, e tutte le candidate (sedici in totale) accettarono come condizione importante il criterio selettivo, inteso non come esclusione frutto di una semplice competizione, bensì come orientamento e comprensione delle proprie capacità. Un test di ingresso, comprendente alcune prove di abilità grafica, consigliò a cinque di esse di frequentare la scuola. La maggior parte dei disegni, eseguita con colori a pastello su carte geografiche di varia dimensione, ottenne un buon successo di critica ma non di mercato, a causa soprattutto di problemi tecnici legati all’esposizione (le mappe richiedevano una cornice in vetro, con rischi di danneggiamento che le gallerie normalmente non erano disposte ad accollarsi). Per sopperire a questo inconveniente, le disegnatrici sperimentarono una tecnica con mappe su compensato e disegno a pastello rifinito con fissativo.

La tecnica “Sadza” La tappa del corso di disegno si rivelò determinante per la qualità artistica e per il maggior grado di fiducia che si venne a creare tra partecipanti, insegnanti e organizzatori. L’urgenza da affrontare era ora costituita dal numero sempre elevato di donne che bussavano alla scuola di Weya; nel volgere di poco tempo fu chiaro a tutti come la gestione dei corsi dipendesse sem-

Mai Stanley “Un giorno in un villaggio” TECNICA SADZA Tratto da “The art of the Weya women” di Ilse Noy - Baobab Books.

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pre più da un’esperienza condivisa. Venne nominato un comitato di cinque donne in grado di individuare nuove attività e prevedere selezioni incentrate su criteri di orientamento e non esclusive; questo gruppo, basato sul lavoro volontario, concordò con il centro la fornitura di materiali per sperimentare nuove forme di creazione. Dopo alcuni mesi di tentativi, la tecnica “Sadza” si rivelò tra le più efficaci e accessibili, combinando elementi nuovi con materiali appartenenti alla cultura dello Zimbabwe. Il termine “Sadza” indica il nome, in lingua Shona, della tradizionale polenta di mais, cibo fondamentale nella cucina dello Zimbabwe. La tecnica omonima prevede la realizzazione di dipinti su stoffa eseguiti utilizzando la polenta di mais in sostituzione della solita cera o altre sostanze di contrasto, con una procedura simile alla tecnica “Batik” (Ilse Noy, “The art of the Weya women”, 1992). La siccità prolungata che ha colpito lo Zimbabwe negli anni Novanta ha provocato una forte riduzione della produzione di mais, imponendo alle artiste l’abbandono di tale materiale, troppo costoso e indispensabile all’alimentazione umana. Le nuove tele, pertanto, sono ottenute realizzando contrasti non per sovrapposizioni e sottrazioni di colore, bensì con un affinamento della fase del dipinto, affidato a cure più meticolose.

3. L’arte e il villaggio Verso Harare? Il progressivo abbandono della tecnica Sadza originaria, a causa di mutate condizioni climatiche, introduce una riflessione fondamentale sul rapporto tra arte Weya e contesto locale, inteso nelle sue differenti espressioni (culturali, sociali ed economiche). La stessa nascita dell’arte al femminile è dovuta alla risposta attiva a una reale discriminazione nei confronti delle donne del villaggio. Altri fattori esterni, come già evidenziato, hanno via via orientato l’evoluzione della scuola d’arte, indirizzandola più o meno intensamente nella scelta delle forme espressive e delle tecniche di realizzazione. Una delle influenze più significative è dovuta al contesto produttivo per eccellenza, quell’agricoltura familiare destinata all’autoconsumo che in larga parte dipende dal lavoro femminile. L’essere nubili o sposate, inoltre, può condizionare sensibilmente le scelte fatte presso la scuola d’arte di Weya, dato il lavoro che la conduzione familiare richiede alle donne. L’impatto delle entrate dovute alla vendita delle opere sul bilancio familiare pose dinamiche sociali, economiche e relazionali totalmente nuove; in molteplici situazioni, infatti, il reddito familiare mensile garantito dalle donne appartenenti alla scuola d’arte sopravanzò quello dei mariti, creando un rimescolamento dei ruoli e degli equilibri non sempre accettato positivamente. Nella maggioranza dei casi, tuttavia, le aumentate entrate si tradussero in un miglioramento complessivo delle condizioni familiari, con ricadute significative sull’economia locale e in particolar modo sull’attività dei piccoli negozi e artigiani del villaggio. La raggiunta indipendenza economica e l’interesse dimostrato da molti galleristi portarono molte artiste, soprattutto le giovani donne nubili, alla decisione di lasciare Weya per la capitale Harare. La città offriva indubbiamente molti stimoli culturali e professionali, essendo la maggior parte dei clienti lì residenti. L’essere stabili in città permetteva in secondo luogo, un controllo più diretto delle vendite, senza l’interposizione del centro e della cooperativa Mukute. La decisione di abbandonare il villaggio suscitò, tuttavia, sentimenti contrastanti nell’ormai numerosa comunità artistica. Dei tre gruppi operanti all’interno della cooperativa Makute, due – composti in prevalenza da ragazze nubili – optarono per la città, mentre il gruppo di Magura, rappresentato per la maggior parte da donne sposate, scelse di restare a lavorare nel villaggio. Fu soprattutto quest’ultimo a vivere la contraddizione maggiore: da un lato la simpatia per quelle loro colleghe così determinate nel decidere liberamente il loro avvenire, dall’altro la preoccupazione per la sorte del progetto, nato come “riscatto” culturale delle zone rurali nei confronti della città e ora messo in discussione da un flusso (di persone e idee) opposto. E ancora: la partenza di un nutrito gruppo di giovani, indipendenti, in possesso di molte conoscenze, esperte nella loro arte e riappropriatesi di un giusto livello di autostima, sanciva sicuramente un successo per tutto il centro e la scommessa fatta quasi tre anni prima. A queste riflessioni legate al significato stesso

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dell’esperienza di Weya si affiancarono alcuni interrogativi, certamente più pragmatici ma non per questo meno laceranti. Se le artiste di Harare avessero goduto di un buon successo – si chiedeva il gruppo che aveva scelto di rimanere – sicuramente se ne sarebbero unite altre, con il pericolo di saturare il mercato con centinaia di dipinti simili a quelli di Weya. Chi avrebbe garantito gli standard di qualità e prezzo consentiti dal controllo diretto della comunità? Le fuoriuscite avrebbero potuto ancora fregiarsi del titolo di “Pittrici Weya”? L’ultima questione fu la prima a essere risolta, avendo accettato le giovani decise a emigrare di cambiare nome, mutandolo in “Pittrici Mbare” (Ilse Noy, “The art of the Weya women”, 1992). Un certo numero di artiste, inoltre, visse il confronto in modo abbastanza netto e brusco, trincerandosi dietro opinioni nettamente contrapposte. Chi era intenzionato a intraprendere una nuova esperienza valutava in modo decisamente negativo l’atmosfera che si era venuta a creare nel villaggio, descritto come un luogo ostile all’esperienza artistica, invidioso, legato a tenaci pregiudizi e per nulla propenso ad accettare l’indipendenza delle donne. La maggioranza delle artiste sposate, dal canto loro, ritenevano esagerata e dettata da eccessivo orgoglio la posizione delle più giovani. Dopo il fallimento di un incontro pubblico, organizzato dalla cooperativa Mukute, fu chiaro a tutti che la questione non sarebbe stata di facile soluzione. Il comitato e le donne del gruppo di Magura si appellarono al Consiglio degli Anziani, invocando l’incontro di un loro rappresentante con le pittrici “ribelli”. L’incontro, grazie all’ottima capacità oratoria del rappresentante e al forte condizionamento che la sua posizione di autorità riconosciuta esercitava su tutta la comunità, si concluse con la dissuasione delle giovani dall’emigrare nella capitale e dal creare la pittura Mbare. Parve a tutti una vittoria della tradizione e dell’autorità delle regole del villag-

Jesca “Vita di villaggio” DIPINTO SU TELA

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gio, ma le vicende dei due anni successivi dimostrarono quanto le giovani pittrici avessero appreso la lezione di indipendenza trasmessa dalla loro stessa arte. La maggior parte di esse, infatti, conseguì l’obiettivo originario, raggiungendo la capitale come donna sposata (la decisione della famiglia, in ultima analisi del marito, seppur convinto dalla moglie, non poteva essere messa in discussione), oppure come “side-marketing”, ossia artista che, periodicamente, si recava in città per vendere direttamente i dipinti creati nel villaggio.

L’evoluzione dell’arte secondo le donne Weya All’inizio del 1990, i programmi di lavoro e studio di Weya Art abbracciavano più di cento artiste, in un contesto profondamente mutato rispetto ai primi tentativi del 1987. Accanto all’evoluzione artistica si era registrata una notevole complessità nella conduzione delle attività. Il comitato di gestione centrale, responsabile delle decisioni politiche e del controllo della qualità, era affiancato da piccoli gruppi, formati dalle stesse artiste e destinati a un confronto interno su diverse tematiche. I gruppi ebbero inoltre il merito, almeno in una prima fase, di consolidare l’esperienza di Weya, creando un senso di appartenenza e identificazione molto forte e teso a promuovere e difendere il significato profondo del progetto. La forma di commercializzazione dei dipinti, affidata a turno a una rappresentante per gruppo che, mensilmente si recava in città per la vendita delle opere di tutte, testimonia quanto forte fosse il senso comunitario e di fiducia reciproca. La contrapposizione sorta tra i gruppi Weya e Mbare, tuttavia, deviò in maniera irreversibile il cammino dell’arte comunitaria e delle sue forme di gestione. Unitamente a rivendicazioni di carattere collettivo, quali l’affermazione di un’esperienza artistica femminile in un contesto fortemente sessista, il diritto di tutte di controllare attivamente la propria crescita personale e la pari dignità nel contesto sociale del villaggio, sorsero esigenze più specificamente personali, quali la volontà di autodeterminarsi, la libertà di agire secondo personali aspirazioni e la propensione nel gestire autonomamente le proprie risorse economiche. Il brusco ridimensionamento di alcune richieste, deciso per salvaguardare lo spirito originario dell’arte di Weya, portò di fatto alla conclusione opposta, accelerando quegli elementi di contraddizione che erano apparsi nei due anni precedenti. L’aspirazione alla vita nella città e a un percorso autonomo, pur riconoscendo le radici comuni di un’esperienza artistica e umana, intendevano andare oltre, rimarcando una crescita soggettiva non vincolata da regole e imposizioni. La difesa del gruppo e del valore del contesto del villaggio, per un altro lato, intendevano salvaguardare l’originale proposta di Weya, intesa come riscatto di un contesto rurale che aveva saputo proporsi come elemento culturale trainante ed estremamente vivo. Il secondo grande elemento di dibattito fu (ed è ancora tutt’oggi) il confronto tra individualità e unicità dell’arte e la sua standardizzazione (intesa come realizzazione in serie di prodotti artigianali e loro tutela tramite un marchio di produzione): la contrapposizione, se non è assolutamente originale nei contenuti, lo è sicuramente nel percorso. Il progetto iniziale di Weya, infatti, era riferito all’individuazione di attività in grado di generare reddito, quindi formazione professionale e artigianale e non artistica in senso stretto. La ricerca di percorsi originali, indispensabili per sopperire al fallimento dei primi tentativi, portò alla valorizzazione di elementi artistici in molte donne iscritte ai corsi e, nella maggior parte dei casi, a migliori condizioni di commercializzazione. La maggioranza delle donne che si iscrivevano a Weya, inoltre, era spinta in primo luogo dalla necessità di dimostrare che ogni essere umano possiede una propria naturale creatività, a prescindere da differenze sociali o di sesso. La polemica nei confronti del pregiudizio legato alla superiore sensibilità artistica maschile, così diffuso nel villaggio di Weya, era evidente. Questa rivendicazione era tuttavia strettamente connessa al successo commerciale delle creazioni e agli obiettivi fondamentali dei corsi promossi dalla Cooperativa Mukute: generazione di reddito, produzione di manufatti costante nel tempo, approvvigionamento sostenibile di materie prime e vantaggi condivisi. Per raggiungere simili traguardi era importante proporre prodotti standardizzati come dimensioni, tecniche e qualità. La formazione del prezzo, inoltre, era un punto estremamente importante e dibattuto durante i corsi, essendo tradizionalmente legato a concetti di urgenza di denaro del momento più che a caratteristiche qualitative intrinseche del manufatto.

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Una parte della clientela di riferimento (le gallerie d’arte in particolar modo), aveva del prezzo di acquisto un’idea differente da quella standardizzata, per cui il valore di ogni pezzo costituiva una storia a se stante, legata all’artista e al significato dell’opera. La decisione di molte donne giovani di intraprendere un percorso personale di ricerca artistica fu influenzato fortemente anche dal contatto e dalle richieste dei galleristi di Harare. La creazione artistica si rivelò quindi funzionale alla ricerca di linee di prodotti differenti, originali e riproducibili solo in un primo momento, mutandosi rapidamente in un elemento di più difficile conciliazione. Ancora oggi il dibattito è vivo, sebbene si stia orientando verso una più ampia indicazione di movimento artistico delle donne di Weya, all’interno del quale molte opere possono essere riprodotte secondo determinati canoni e tecniche. Ciò che rimane unica e non riproducibile è l’esperienza del gruppo e la concezione di arte come realizzazione della persona, rivendicata e sviluppata nel corso di quasi vent’anni di storia. Quest’ultima constatazione introduce una riflessione di estrema importanza nella valutazione di un’opera d’arte, piuttosto differente dalla critica estetica occidentale. La ripetitività, non solo per le donne Weya, non è necessariamente un aspetto svilente; se una forma d’espressione o una tematica sono bene accolti dalla critica e dagli acquirenti, la riproducibilità rafforza questo nuovo percorso intrapreso e lo stesso valore estetico. L’evoluzione e lo sviluppo di una corrente artistica o di una forma di rappresentazione non sono così “automatici” nel gruppo Weya. Questa sorta di “fissità” può essere modificata più da interventi esterni (vale a dire da specifiche richieste di acquirenti) che dalle stesse artiste. Due esempi possono essere illuminanti al riguardo: il tema del “N’anga” (Il guaritore del villaggio), introdotto su sollecitazione di un medico tedesco, e la rappresentazione “Andando alla birreria”, divenuta ormai un classico dei dipinti Weya, richiesta espressamente da un gruppo di agricoltori bianchi.

J. Dzamunya “Vita di villaggio” DIPINTO SU TELA

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L’arte delle donne di Weya

4. Figure e suggestioni dell’arte Weya Le opere delle artiste Weya comprendono tutti gli aspetti della vita rurale delle donne dello Zimbabwe. La vita quotidiana è il tema più diffuso, ripreso fino a diventare uno stereotipo. La vita di villaggio, infatti, è l’elemento di più facile accesso, rappresentando un serbatoio sempre disponibile di immagini, colori e atmosfere; in questo caso il dettaglio e il simbolo, così importanti nell’arte Weya, sono facilmente riproducibili e definibili. Come già ricordato, le tematiche possono essere di diretta ispirazione delle artiste, oppure provenire da input esterni. In alcuni casi l’ispirazione deriva direttamente dalla vita delle donne, come nel caso del soggetto “Mupfuhwira” (“Medicina per l’amore”), introdotto da una giovane pittrice che abbandonò il marito, stanca di essere maltrattata da lui: “Mupfuhwira” è il rimedio, il filtro magico che avrebbe desiderato per tramutare il consorte in persona amorevole. In alcuni casi le richieste degli acquirenti possono generare vere e proprie riflessioni filosofiche e stilistiche. “Kuoma rupandi” (letteralmente “Le parti sono secche”), ad esempio, è l’evoluzione di una rappresentazione piuttosto impegnativa, richiesta da uno psicologo olandese impegnato a lavorare con pazienti colpiti da alcune forme di paralisi (Ilse Noy, “The art of the Weya women”, 1992). In questa situazione, il contesto è stato dilatato e inserito in una narrazione più ampia, in grado di sopperire alla carenza di simboli e segni implicita nella semplice descrizione. -

I temi più ricorrenti nell’arte Weya possono essere così raggruppati: vita di villaggio (attuale e degli antenati); l’amore, il matrimonio e i figli; la religione, il culto dei morti, gli spiriti e le stregonerie; la medicina (tradizionale, moderna, la malattia e la sofferenza); i problemi sociali e politici; i diritti civili e la parità fra i sessi; la guerra.

In molti dipinti, la rappresentazione per scene è la tecnica preferita. Il simbolo può essere un particolare disegno, oppure può svilupparsi seguendo il filo narrativo. La descrizione degli episodi, fondamentale ai fini della comprensione dell’opera, viene facilitata da un foglietto didascalico che stabilisce i tempi delle sequenze. La parola scritta, quindi, accompagna in molte situazioni quella delle immagini, rientrando nella struttura complessiva del dipinto, del disegno o dell’appliqué: le frasi brevi, a tratti sincopate, sono scelte dalle artiste per “introdurre” lo spettatore senza svelare tuttavia il significato profondo. L’intuizione dell’opera, quindi, deve avvenire in un particolare contesto, e solo in questa definizione (geografica, di tempo, di luogo, di azione, di spirito…) possono rivelarsi i segni, i simboli e i significati. Le scelte dei colori, delle unità di spazio, dei contorni e delle proporzioni variano sensibilmente in funzione delle tematiche da rappresentare e delle tecniche utilizzate. E’ abbastanza frequente, ad esempio, l’utilizzo di scene in stretta sequenza, senza soluzione di continuità, dai toni scuri e dal forte contrasto, nelle tematiche legate alla medicina, alla religione o al contesto sociale; nelle rappresentazioni della vita di villaggio, delle feste e della guerra la tela è meno densa, gli spazi tra un episodio e l’altro diventano importanti e la tavolozza dei colori si amplia, conferendo al racconto complessivo una struttura più dinamica e in evoluzione. Nei disegni, prevalendo il pastello su cartonato o compensato, i colori sono generalmente più tenui e sfumati e affidano tutta la loro espressività a segni netti e decisi (linee spezzate, ondulate, ripetizione di elementi geometrici); gli spazi tornano a ridimensionarsi mentre i piani delle azioni tendono a sovrapporsi, conferendo alla tavola una forte vitalità. Negli appliqués, ogni singola figura si impone per la nettezza dei propri tratti e per i contrasti dei colori, in un contesto fortemente dinamizzato da cornici fatte di segni o contorni pieni. L’appliqué, per la natura stessa della sua tecnica, è la soluzione che meglio si presta alla storia narrata a episodi. La possibilità di inserire collages di figure permette di creare fratture di tempo e spazio con relativa facilità. La semplificazione delle figure, rigide e statiche, esalta la ricerca dei particolari (gli occhi dei volti, la forma di un recipiente o delle foglie di un albero, il colore dei tetti…) e dei soggetti, (tra cui molti animali).

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L’arte delle donne di

Pauline “La raccolta dei frutti” DIPINTO SU TELA “Alcune persone stanno raccogliendo dei mahavje (frutti commestibili) dall’albero, mentre altre li mettono nei cestini, per venderli al mercato e sostenere le loro famiglie”.

C. Chibaya “Una ragazza cresciuta senza seno” DIPINTO SU TELA “Un giorno i genitori di una ragazza, che aveva raggiunto l’età della maturità, ma a cui non era ancora cresciuto il seno, decisero di andare dallo stregone per individuare la causa (la colpa). Era presente anche la zia. Il padre della ragazza non aveva capelli su metà della testa. Quando arrivarono, lo stregone, famoso per i suoi poteri, spalmò un medicamento sul petto della ragazza e diede al padre ancora un po’ di medicina, da spalmare quando fossero stati a casa; gli diede inoltre un’altra medicina, da applicare sulla sua testa e far crescere i capelli. Tornarono tutti a casa con gioia. Senza accorgersene, il padre spalmò la medicina sbagliata sul petto di sua figlia, anzichè sulla testa. Così fece con la medicina di sua figlia. Il padre si accorse dei risultati quando, toccandosi la testa, notò un grosso seno che cresceva. Vide sua figlia con il petto peloso e cominciò a urlare, disperato.


Jesca “La vedova Mazana e l’agricoltore Jangano” DIPINTO SU TELA La signora Mazana era sorda e vedova. Smarrì il suo gregge di pecore e chiese al contadino Jangano, anch’egli sordo e molto povero, se l’avesse visto. Il signor Jangano fece segno con la mano, indicando che era sordo, ma la signora Mazana pensò che stesse segnalando dove erano andate le pecore. Decise pertanto di dare un agnello al signor Jangano come ringraziamento e passò alcuni giorni a cercare le pecore. Jangano rifiutò il dono, temendo che l’agnello fosse malato e portò la questione in tribunale. Il giudice, sordo e un po’ miope, pensò che la vedova Mazana tenesse in mano un bambino e che il Signor Jangano fosse suo marito. Si convinse che Jangano volesse chiedere il divorzio da Mazana e sentenziò che non poteva accordare il divorzio. Ai due fu detto che dovevano restare gentilmente e felicemente insieme senza altri litigi. Il contadino Jangano, anche lui vedovo, prese Mazana in moglie. Ora vivono felici insieme, badando alle pecore e lavorando nel campo.

Ednight “A casa” DIPINTO

SU TELA

Una donna munge una mucca e due ragazze tornano dalla scuola: una porta una matita e l’altra un libro. C’è una gallina nella casa. Siamo nel mese di dicembre, quindi possiamo vedere il mais verde vicino al cortile. Il cane è seduto accanto alla casa. Una madre e il suo bambino prendono l’acqua dal “bohole” (la pompa).


Leticia “Botso” DIPINTO

SU TELA

“Il grande figlio primogenito (sjambok) maltratta sua madre. La madre è preoccupata e decide di andare a raccogliere del rapoko (sorgo) per fare della birra, nel tentativo di renderlo più buono. I figli più piccoli liberano il cane, aizzandolo contro sjambok, nel tentativo di liberarlo dagli spiriti maligni e aiutare la loro madre. Dopo, con alcuni amici, fanno della birra per fare felici la madre e il fratello.


Chipo Mugadza “L’anno della siccità” DIPINTO SU TELA Una donna sta parlando con il marito, lamentandosi della sofferenza dei figli a causa della fame, e gli dice di cercare cibo per loro. L’uomo sta andando a cercare il cibo, trova un uccello sull’albero del miele e gli chiede: “Vuoi mostrarmi dov’è il miele?” L’uccello gli risponde: “Se ti mostro dov’è il miele, quando lo raccogli me ne darai un po’?” L’uomo risponde di sì. L’uomo raccoglie il miele, si siede sotto l’albero e comincia a mangiarlo, senza darne all’uccello, che comincia a cantare dicendo: “Puoi darmi del miele? Miele! Miele!” - Così potrò mostrarti altri alveari”. L’uomo non lo ascolta e continua a mangiare. Dopo mangiato, l’uomo va a casa senza niente. Si siede sotto l’albero con i suoi bambini e dice a suo figlio di portargli un po’ d’acqua da bere. Quando i bambini vedono il padre bere l’acqua gli chiedono: “Cosa hai mangiato, per bere così tanta acqua?” Il padre risponde: “Sono affamato e fa molto caldo”


Barnaby Kanokora 2004 SCULTURA SU SERPENTINO

Yusuf Sanziwe 2004 SCULTURA SU

SERPENTINO


Thomas Makore 2005 SCULTURA SU SERPENTINO

Sculture nella foresta di Tengenenge


L’arte delle donne di

Bysider Gatsi 2004 SCULTURA SU SERPENTINO

Last Mahwahwa 2005 SCULTURA SU

SERPENTINO

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Juja Tembo - 2004, SCULTURA SU

SERPENTINO


L’arte delle donne di Weya

Le tradizioni degli antenati e la cultura Shona La vita degli antenati è indubbiamente un soggetto interessante dal punto di vista dei riferimenti culturali delle artiste Weya. Un prototipo molto frequentato evoca la durezza della vita “primitiva”, paragonata a quella attuale, derivata dal modello occidentale e ritenuta migliore. Il confronto dimostra chiaramente il complesso di inferiorità nei confronti della cultura bianca, ma è anche, paradossalmente, un tentativo per dialogare con modi di vita differenti e valorizzare tradizioni e consuetudini troppo frettolosamente ritenute inferiori. Scene come “Chipwa ” (una cerimonia per propiziare la pioggia) o “How chiefs are buried” (i riti da compiere quando il capovillaggio muore) dimostrano chiaramente di volere recuperare alcuni aspetti della cultura rurale dello Zimbabwe, più o meno debitrice della cultura Shona. “Shona” indica, più che un’entità omogenea vera e propria, il raggruppamento artificiale di diversi gruppi (Karanga, Manyika, Zezuru e Korekor), localizzati in differenti zone del paese dal confine con lo Zambia e il Botswana alle regioni sudorientali, prossime al Mozambico e al Sudafrica – e quasi mai in reciproca comunicazione; il termine Shona, infatti, è un retaggio dell’epoca coloniale, sebbene comunemente accettato (B. Bernardi, “Il dibattito sulla scultura zimbabwana”, 1998). Il territorio che normalmente si assegna a questa cultura era anticamente strutturato in città-stato governate da un re e da un Consiglio, e solo a partire dalla fine dell’800, in seguito alla colonizzazione europea, questa organizzazione si dissolse. Pertanto, volendo mantenere questa semplificazione, sarebbe più corretto parlare di “culture” Shona. La religione contempla due tipi di presenze sovrannaturali, gli “Spiriti erranti”, numi protettori del talento individuale e della creatività, e gli spiriti “Vadzimu”, appartenenti agli antenati, custodi dei valori morali che ogni Shona è tenuto a seguire. Essere supremo e inconoscibile è comunque “Mwari”, e la “Voce di Mwari” – un oracolo che vive per molto tempo in solitudine e che spesso è donna – è il tramite fra la divinità, gli spiriti e il popolo (Martha G. Anderson, “Wide spirit - Strong medicin: African art and the wilderness”, 1989). Gli spiriti sono estremamente importanti nelle culture Shona, costituendo la fonte di tutte le prosperità e disgrazie dei clan familiari. “Mhondoro”, lo spirito ancestrale del capo, è il responsabile del benessere di tutto il nucleo familiare. “Mudzimo”, invece, è lo spirito in cui si tramuta ogni componente del nucleo familiare che abbia vissuto in armonia con le regole morali delle società Shona. Gli spiriti “Ngozi” e “Uroyi”, invece, sono pericolosi, essendo la causa delle discordie umane. Se una persona viene uccisa, si suicida, oppure muore senza possedere figli, lo fa perché posseduta da uno di questi spiriti, divenendo un “Ngozi” e non un “Mudzimo”. L’unico spirito in grado di proteggere una persona dal malefico potere di un “Ngozi” o un “Uroyi” è lo “Svikiro” (o “Masvikiro”). Gli Uroyi sono gli spiriti maligni che, scagliati contro una persona tramite malefici e stregonerie, possono mettere in serio pericolo la sua salute fisica e psichica, fino a portarla alla morte. Il maleficio diventa quindi un potente mezzo di controllo, soprattutto quando si debbano gestire cambiamenti forti che potrebbero in qualche modo minacciare la struttura tradizionale dei nuclei familiari e degli equilibri sociali dei villaggi in genere. Affrontare un maleficio, infatti, quando ci si ritenga (o si sia ritenuti) colpiti diventa estremamente complicato e comporta in alcuni casi l’abbandono da parte delle persone vicine. Circa la metà della popolazione dello Zimbabwe appartiene alle chiese cristiane, sebbene il credo praticato sia una commistione tra cristianesimo e credenze locali. La tradizione Mwari, infatti, rimane un punto di riferimento, con le suggestioni legate ai riti magici e alle comunicazioni degli oracoli; quando, per qualsiasi motivo o evenienza, questa non riesca a fornire risposte esaustive o confortanti, ci si rivolge alle chiese cristiane. Nei dipinti Weya si evidenzia nettamente questa sorta di sincretismo religioso, con soggetti indifferentemente ispirati all’una o all’altra pratica religiosa, quando non rappresentanti, all’interno della stessa storia, esperienze religiose differenti.

Amore, matrimonio e figli La struttura della famiglia del villaggio di Weya, e, per estensione, delle aree appartenenti alle culture Shona, è notevolmente diversa da quella della cultura occidentale. Un europeo che

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L’arte delle donne di Weya

si recasse in molte comunità dello Zimbabwe farebbe fatica a contare quanti padri, madri, sorelle e fratelli una persona possieda (Ilse Noy, “The art of the Weya women”, 1992). La suddivisione cui ognuno di noi è abituato (genitori, nonni, zii, cugini, ecc.) ha valore relativo a Weya; le relazioni familiari, infatti, dipendono dall’essere semplicemente uomini o donne e dall’anzianità, e il “Mutupo” (il “totem”) è la vera discriminante che definisce il senso di appartenenza dei membri verso la famiglia. Condividere lo stesso “Mutupo” significa condividere le stesse regole e responsabilità, e i membri di uno stesso clan non possono sposarsi, sebbene questi siano spesso geneticamente distanti, pena la condanna come atto incestuoso. Ogni famiglia, addirittura, ha codificato una forma speciale di saluto (saluto totemico), che è una sorta di riconoscimento all’interno del nucleo (B. Bernardi, “Il dibattito sulla scultura zimbabwana”, 1998). Nel matrimonio è la donna che abbandona il suo “totem” per recarsi in un altro “clan” familiare. L’abbandono, tuttavia, è solo fisico, in quanto il “Mutupo” della famiglia in cui è cresciuta sarà sempre il più importante; in caso di controversie, divorzio o morte del marito, infatti, la donna dovrà seguire le direttive del clan originario, potendo tornare alla sua vecchia casa con i figli. La donna divorziata o la vedova, inoltre, può cercarsi un altro marito nello stesso nucleo familiare dell’ex marito. Un altro imprescindibile aspetto del matrimonio è il “Lobola”, il prezzo che il marito deve pagare per sposare l’amata. Un uomo che si rifiutasse di pagare il “Lobola” dimostrerebbe di non stimare la donna che intende sposare, e il clan familiare della futura moglie, in ogni caso, si rifiuterebbe di acconsentire al matrimonio prima di aver ricevuto la somma stabilita. L’obbligo di corrispondere il “Lobola”, in molti casi, è alla base di litigi molto forti e prolungati e costituisce uno dei momenti più critici di molti giovani sposi e delle loro famiglie. Il “Lobola” è un rito lungo e complesso, che inizia con la richiesta di consenso dell’aspirante marito alla famiglia dell’amata e la richiesta di quest’ultima della somma da pagare a titolo di risarcimento per la perdita di una componente. Nella negoziazione del “Lobola” l’uomo si avvale di un intermediario, il “Munyai”, che lo assiste nelle trattative. Il pagamento avviene parte in denaro (“Mavuramuromo”) e parte in oggetti, soprattutto vestiti (“Zvabada” e “Zvamai”) (Ilse Noy, “The art of the Weya women”, 1992). Sebbene non siano permessi matrimoni tra membri dello stesso “Mutupo”, è prevista una cerimonia particolare qualora un uomo e una donna dello stesso clan si amino e non intendano desistere dal loro progetto. In questo caso si ricorre a un rito sacrificale che coinvolge tutta la famiglia e prevede l’uccisione di una vacca bianca o un bue e il taglio della corteccia di alcuni particolari alberi. Non è tuttavia permesso in alcun modo il matrimonio tra parenti consanguinei stretti. Nonostante l’onere della dote da parte dell’uomo, l’essere scapoli o nubili significherebbe uno status sociale inaccettabile; il grado di successo di una persona, infatti, è strettamente dipendente dall’avere una propria famiglia. Le persone che non abbiano fondato una propria famiglia (intesa come moglie e figli all’interno di un clan più vasto), sono ritenute portatrici di handicap fisici o spirituali gravissimi, potenzialmente dannosi per tutto il “Mutupo”. In questo caso viene interpellato il “N’anga”, il guaritore, che ha il compito di aiutare la persona a liberarsi da questa sorta di maleficio. L’ultimo momento topico della vita familiare è il funerale, che viene celebrato in due momenti distinti, alla morte fisica della persona e un anno dopo, quando lo spirito del defunto abbia abbandonato la casa. La seconda cerimonia, certamente la più importante, è chiamata “Chenura” ed è essenziale per propiziare la protezione dello spirito del defunto. Se la persona defunta non era sposata, il rito del “Chenura” non viene eseguito e il clan di appartenenza dovrà prendere precauzioni particolari per difendersi dallo spirito di quel defunto. Il susseguirsi e l’incrociarsi di questi momenti della vita familiare costituiscono un notevole serbatoio di racconti e immagini per la fantasia delle artiste Weya che, ricorrendo a varie tecniche, raccontano con efficacia sorprendente il dispiegarsi di queste fasi della vita all’interno dei clan familiari. Le tecniche degli appliqués e del disegno permettono forse di scandire con miglior efficacia alcune di queste scene, complesse e ricche di simboli.

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L’arte delle donne di Weya

La malattia e la salute I concetti di medicina e salute sono, per le culture Shona, più ampi e interconnessi rispetto alla cultura europea. Tutto ruota intorno al concetto di persona sana. Mentre in Europa il benessere è identificato con la mancanza di uno stato patologico particolare (fisico o psichico) riferito al singolo individuo, nei villaggi Shona la buona salute di una persona è strettamente correlata con il rapporto che questa intrattiene con la società in generale (Ilse Noy, “The art of the Weya women”, 1992). Ad esempio, se un marito ha un comportamento violento nei confronti della moglie, è sintomo di un malessere che può essere curato con il giusto “Muti”, attraverso due aspetti: fisico, assimilabile alla concezione europea, e spirituale. In molte situazioni, il disagio spirituale è risolto con la “Mupfuhwira”, beneficio che viene tentato ricorrendo a diversi espedienti, fino all’intervento di un vero e proprio “N’anga” (guaritore).

Aspetti sociali e politici L’espressione di alcune tematiche sociali e politiche, sebbene costituiscano un punto di confronto e di elaborazione importante per molte artiste e il loro vissuto, incontrano parecchie difficoltà nel mercato degli acquirenti della capitale. Per le artiste che vivono nel villaggio di Weya, infatti, la vita non è così semplice e piacevole come parecchi compratori desidererebbero fosse rappresentata sui dipinti e i disegni, mentre, all’opposto, la scelta di raccontare determinate problematiche sociali o la guerra di indipendenza è ben poco condivisa dai collezionisti. Se un’artista esprime con un dipinto la differenza delle condizioni di vita di una famiglia bianca e una nera, difficilmente troverà sul mercato qualcuno disposto ad acquistarlo. Analogamente, la rielaborazione di cosa abbia rappresentato la seconda “Chimurenga” per molte donne dello Zimbabwe (combattenti e non) non rientra tra i canoni Weya auspicati da quasi tutti i galleristi di Harare. La seconda “Chimurenga” è il termine con cui si indica la lotta di liberazione che ha condotto lo Zimbabwe all’indipendenza nel 1980, per distinguerla dalla prima, condotta tra il 1895 e il 1897 da gruppi di ribelli locali che si opposero alla costituzione della colonia della Rhodesia da parte della Gran Bretagna. Come in tutte le guerre, esiste la versione ufficiale, che narra le gesta gloriose dei combattenti, e quella reale, raccontata dai diretti protagonisti, molto più critica e

C. Mugadza “La storia della donna incinta e della tartaruga” DIPINTO SU TELA

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L’arte delle donne di Weya

approfondita, e ancora non del tutto rielaborata e assimilata. Le opere delle donne di Weya si rifanno esclusivamente a questa ricostruzione, narrando storie di violenze e massacri perpetrate dall’esercito rhodesiano e dalle forze indipendentiste. Alcune di queste opere hanno subito una vera e propria censura, soprattutto quelle che tendevano a porre in cattiva luce le forze legate ai ribelli di Joshua Nkomo e Robert Mugabe, attuale presidente dello Zimbabwe. Un altro tema sociale molto sentito è quello della parità tra uomini e donne, in un ambiente fortemente maschilista. Ancora oggi molte donne, per poter lavorare o gestire denaro all’esterno dell’ambito familiare, devono chiedere il permesso ai loro mariti. Non stupisce che rappresentazioni di questo tipo abbiano generato una forma d’arte intesa come protesta e rivendicazione dei propri diritti. Curiosamente, uno dei motivi di più forte attrito tra i sessi risale proprio alla guerra di indipendenza, quando, terminate le ostilità, molte donne combattenti che avevano assunto con capacità e professionalità la guida di molti gruppi di lotta, si rifiutarono di tornare a condizioni di subordinazione nell’ambito familiare (Ilse Noy, “The art of the Weya women”, 1992); molte artiste hanno elaborato tale aspetto in alcune loro opere, presentandolo come dimostrazione naturale della falsità delle presunte tesi sulla superiorità degli uomini. Un altro tema di forte intensità sociale è la prostituzione, affrontata dal punto di vista delle donne e delle artiste: nelle opere, la prostituzione emerge con naturalezza in tutti i vari aspetti, dalle cause alle problematiche, a volte drammatiche, di ordine sanitario, per giungere all’accoglienza che il villaggio o la famiglia riservano alla prostituta.

Arte come autobiografia? I soggetti che le artiste Weya scelgono con preferenza sono strettamente connessi alle loro vite e personali esperienze. Il racconto, tuttavia, non è espresso in forma diretta, bensì viene dissimulato nella narrazione di una storia. Un modo originale per ricercare un equilibrio tra passato e presente, in una struttura dinamica e in continua evoluzione, è il tema, a volte suggestivo, de “Il povero diventa ricco”. In questa narrazione, ogni artista elabora con molta fantasia e passione il racconto della propria vita artistica, dell’entusiasmo che l’ha accompagnata, delle difficoltà affrontate e dei problemi che potrebbero segnare, in futuro, questa scelta. In alcuni dipinti la drammatizzazione tocca un finale cupo, in cui l’artista, ricca e affermata, felice di aver migliorato la propria vita, scatena l’invidia dei propri cari, fino a essere uccisa. Entra prepotentemente, in simili racconti, il timore di essere travolti dallo scontro tra questa esperienza così nuova e le strutture rigide delle tradizioni sociali.

5. Conclusioni Nata per dare risposte concrete ad alcuni problemi di un villaggio dello Zimbabwe, l’arte delle donne Weya ha in realtà posto molte domande. In primo luogo, nel movimento stesso, ha stimolato la nascita di un dibattito (per nulla scontato nella cultura artistica dello Zimbabwe) intorno all’arte e all’artigianato, tra originalità e riproducibilità, con riferimenti che coinvolgono non solo l’opera e l’oggetto in sé, bensì si estendono alla necessità di preservare l’unicità dell’esperienza collettiva da altre imitazioni; ha interrogato le artiste sul significato delle loro opere e sulle motivazioni del lavoro; ha, infine, posto problemi di gestione e di conduzione. Nel villaggio di Weya ha contribuito a mettere in discussione ruoli e tradizioni cristallizzati, ponendo la donna in una posizione paritaria. Ai galleristi della capitale Harare ha domandato come fosse possibile proporre un’arte nazionale escludendo la cultura e le sensibilità delle zone rurali. Per molte donne Weya l’arte è diventata un importante passo in avanti nella lotta per vedere riconosciuti uguali diritti e opportunità. Il senso di inferiorità, a volte molto profondo, provato nei confronti della cultura europea e occidentale in genere, è forse meno acuto, ora, in molte artiste del villaggio. Le numerose e qualificate esposizioni in cui, attraverso le opere Weya, la cultura locale era amata e rispettata, hanno attivamente contribuito al recupero, quando non a una vera e propria scoperta, di espressioni artistiche che hanno posto lo Zimbabwe tra i paesi più attivi nel contesto culturale africano.

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Le sculture in pietra di Tengenenge

“Molti in Europa vanno in cerca di prove della ricchezza del passato africano in ciò che è rimasto , il frammento e la parte, la perlina della collana, la maschera dopo che la danza è finita, e l’archeologia ha incoraggiato questo processo: lo studio della storia di una cultura nelle stoppie e nei detriti. La scultura in pietra recupera il frammento al tutto, parla del passato, non remoto, ma come aspetto del presente e vivente tra gli artisti” (Celia Winter-Irving)

1. L’utopia di una comunità dello Zambesi Tengenenge, prima di essere un movimento artistico, è una comunità multiculturale. Uomini e donne provenienti dal Malawi e dall’Angola, dal Mozambico e dallo Zambia. Contadini, braccianti e minatori, partiti dai loro paesi per cercare una vita migliore e riuniti in un luogo che è stato

La Comunità artistica di Tengenenge - Ateliers degli scultori.

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Le sculture in pietra di Tengenenge

molte cose: terra incolta bagnata da un rio, miniera di cromo, piantagione di tabacco, giacimento di rocce dai molti colori. Anche il nome, “Tengenenge”, significa molte cose: “cascata”, “due montagne”, “l’inizio dell’inizio”. Nella “farm” di Tengenenge danzano insieme le maschere del “Gulu Wamkulu” della popolazione chewa del Malawi, il “Nyago” degli yao della Tanzania, il “Makishi” dello Zambia e dell’Angola… Dialogano persone che, con lo stesso metodo dell’osservazione, condivisione e del reciproco aiuto, si governano e scolpiscono statue. Differenti strutture sociali provenienti dalle numerose regioni che compongono il bacino dello zambesi hanno saputo accettarsi reciprocamente e fondersi in una comunità in cui lo scambio culturale non è un’ideologia politica, bensì la pratica fondamentale su cui si basa la sopravvivenza di tutti. Tengenenge è un gruppo di oltre settanta scultori che animano una delle espressioni artistiche più originali dell’arte africana degli ultimi trent’anni, mischiando senza remore profonde sensibilità africane e suggestioni europee, attraverso una mescolanza quasi provocatoria di intuizione personale e scambio comunitario, ricerca di linguaggio e successo commerciale.

2. La storia di Tengenenge La scultura contemporanea dello Zimbabwe deriva da un processo abbastanza complesso di tradizioni autoctone e cultura europea: da un lato le testimonianze archeologiche delle imponenti architetture in pietra del “Great Zimbabwe” – il regno dei Bantu che nell’XI secolo raggiunse un grande potere politico e commerciale – dall’altro le influenze artistiche che, attraverso il dominio coloniale britannico, interessarono il paese nel secolo scorso. L’innesco avvenne proprio grazie al primo direttore della National Gallery dell’allora capitale Salisbury (l’attuale Harare), Frank Mc Ewen (1907-1994), inglese, formatosi come critico alla Sorbona e all’Accademia d’Arte di Tolone. In particolare, furono decisivi gli incontri con Henry Focillon (uno dei primi studiosi d’arte primitiva) e le conoscenze di artisti come Braque, Picasso, Brancusi e Moore (S. Federici - A. Marchesini Reggiani, “Storia e caratteri dell’esperienza di Tengenenge”, 1998). Nel 1957, dopo aver fondato la Rhodes National Gallery, diede vita alla National Gallery Workshop School, dedicata in particolar modo a persone, non necessariamente artiste, con cui venne in contatto durante i primi anni di attività della National Gallery. Mc Ewin, che aveva riconosciuto in molti allievi una naturale predisposizione a scolpire, era soprattutto preoccupato di conservare e valorizzare questo “talento intuitivo”, diretta espressione di una cultura ancestrale e quasi mitologica. La cultura Shona (quasi “inventata” dai colonizzatori europei, a partire dall’inizio del XX secolo, attraverso l’accorpamento forzato di tradizioni e culture abbastanza differenti), rappresentava per Mc Ewen «un corpus di simboli e miti che sarebbero rappresentati nella scultura e anzi sarebbero “immanenti” in senso totemico nelle opere. Gli artisti venivano ritratti come portatori di un sapere e di un culto esoterici che rivelavano nella pietra» (Jonathan Zilberg - The Invention of Shona Sculpture,1995). Lo scultore diventava quindi una sorta di medium in grado di trasferire nella pietra il fluido dell’antica scultura e degli spiriti Shona, rappresentando nelle forme un sapere “totemico”. Per nessun motivo l’artista delle pietre doveva allontanarsi da questa voce, seguendo logiche o ispirazioni di tipo descrittivo, ripetitivo e, in ultima analisi, commerciale. La nuova scultura dello Zimbabwe doveva distinguersi per la propria originalità e non diventare “Airport Art”, arte puramente concepita per la vendita nei centri turistici e di passaggio. Nella realtà dei fatti, Mc Ewen prestava più ascolto ai miti della propria formazione culturale che a quelli effettivi di una cultura Shona. Nella sua critica, infatti, prevalevano le conclusioni della ricerca etnografica coloniale e l’idea, tutta europea, dell’arte come percorso individuale ed evolutivo dell’artista, che prima comunica al pubblico qualcosa e poi decide se e come vendere. Da notare poi, come questa concezione della scultura zimbabwana ritenuta incontaminata, pura e ipnotica fosse più che altro funzionale alla vendita, nelle gallerie della capitale, agli acquirenti bianchi dello Zimbabwe o europei, suggestionati dai racconti e dall’entusiamo di Mc Ewen. Resta tuttavia indubbia l’azione di stimolo e rinnovamento che l’allora direttore della National Gallery of Zimbabwe ebbe su molti artisti, contribuendo alla scoperta di talenti che difficilmente avrebbero potuto esprimersi. Se appare un po’ forzato il riferimento allo scultore come sciamano in grado collegarsi e interpretare le voci degli spiriti degli antenati, è vero il recupero di tradizioni e abilità di popolazioni che già mille anni fa dimostrarono sensibilità e capacità architettoniche molto raffinate.

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Le sculture in pietra di Tengenenge

Negli anni ’60, il movimento artistico crebbe notevolmente, coinvolgendo un sempre maggiore numero di scultori, galleristi e acquirenti. Nel 1966, quasi dieci anni dopo le prime ricerche di Frank Mc Ewen, nacque l’altra importante esperienza nell’ambito della scultura zimbabwana. Fu Tom Blomefield, personaggio poliedrico di origine inglese e irlandese, a fondare il primo nucleo della comunità di Tengenenge, utilizzando come base la propria fattoria, situata 170 Km a nord della capitale Harare. Tom aveva avuto modo di conoscere, perché salariati nella sua piantagione, numerosi immigrati provenienti dall’Angola, dal Mozambico e dal Malawi, apprendendo molto sulle loro culture e tradizioni. Il progetto prese forma in seguito all’incontro con Chrispen Chakanyuka, giovane artista specializzato nella lavorazione della steatite (pietra saponaria), giunto a Tengenenge per insegnare a Tom stesso la tecnica per la lavorazione della pietra e in seguito coinvolto in una vera e propria attività didattica a livello comunitario. Alcuni salariati della fattoria, infatti, scoprirono in forma del tutto casuale una notevole attitudine nello scolpire i bellissimi serpentini presenti nella fattoria o le steatiti portate da Chrispen. « Ero un cattivo agricoltore e gli affari andavano male, così decisi di diventare artista». Queste parole di Tom Blomefield descrivono, seppure in maniera estremamente sintetica, l’inizio della comunità artistica di Tengenenge. Il primo nucleo di scultori era formato da Tom Blomefield stesso, Moses, giardiniere e apicoltore, Wazi Baicolo, cuoco, e Barankynia Gosta, decoratore. Bernard Matemera, Enos Gunja, Ephraim Chaurika, Josiah Manzi, Makina Kameya, Fanizani Akuda, Henry Munyaradzi, Ali Chitaro, Biriyo Fernando, Sunwell Chirume e altri ancora raggiunsero la farm dopo poco tempo. Motivazioni artistiche e commerciali animarono fin dagli esordi l’attività del gruppo, che poté contare sull’appoggio convinto della National Gallery diretta da Mc Ewen. Tengenenge era considerata, infatti, come un esperimento importante per sostenere il cammino della nuova scultura dello Zimbabwe. Lo stesso anno Mc Ewen visitò la fattoria di Blomefield, rimanendo impressionato nel vedere la scultura zimbabwana manifestarsi nel modo che lui aveva sempre immaginato. Quel gruppo di artisti rappresentava un altro importante centro di sperimentazione, in grado di affiancare l’attività degli artisti della capitale. Occorreva tuttavia, per evitare pericolose derive, una selezione molto forte delle opere realizzate e degli artisti coinvolti, in modo che quella ricerca rigorosa

La Comunità artistica di Tengenenge - Ateliers degli scultori.

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sullo stile e il linguaggio da lui auspicata potesse compiersi senza troppe dispersioni. Tengenenge, in altre parole, doveva trasformarsi in un prestigioso e originale avamposto di quella scuola-laboratorio creata qualche anno prima. Emerge fin dalla nascita del gruppo, quindi, quella diversa visione della scultura (e dell’arte in generale) che opporrà costantemente Mc Ewen a Blomefield. Se il primo riteneva fondamentale l’evoluzione di un linguaggio attraverso la selezione critica degli artisti, il secondo rifiutava qualsiasi tentativo di limitazione, convinto che il fluire delle tradizioni e dello spirito dell’antico Zimbabwe potesse svolgersi in un contesto libero, non limitato da convenzioni e confini artificiali. Ad ogni tentativo di Mc Ewen di distinguere tra agricoltori e scultori, e tra opere ispirate e altre puramente ripetitive, Blomefield riconosceva a ognuno il diritto ad esprimersi e in ogni opera un valore artistico intrinseco. La stessa preoccupazione – quasi un’ossessione – che animava i due, conduceva, curiosamente, a soluzioni diametralmente opposte. Era chiaro che una situazione simile non avrebbe potuto reggere a lungo; nel 1969, dopo periodi alterni di convergenze e divisioni, la collaborazione tra Tengenenge e la National Gallery of Zimbabwe si interruppe bruscamente, accompagnata da polemiche e reciproche accuse. Un anno dopo, durante un’esposizione presso il Museo d’Arte Moderna di Parigi, un ultimo tentativo di comunicazione fallirà rovinosamente, con aperte accuse di sabotaggio lanciate da Blomefield contro Mc Ewen. Nonostante questo clima tutt’altro che sereno, il numero di artisti di Tengenenge aumentò notevolmente, comprendendo anche un buon numero di donne. Nel corso degli anni Settanta e Ottanta, alcune vicende decisamente complicate minacciarono seriamente la sopravvivenza della comunità, ma fu la guerra di indipendenza, protrattasi fino al 1980, a decretare la chiusura temporanea delle attività. Il secondo periodo (1981-87) fu particolarmente importante per Tengenenge, rappresentando una sorta di ricambio generazionale. L’arrivo di nuovi artisti, molti dei quali molto giovani (tra cui Davidson Chakawa, Staycot Tahwa, Bakari e Moveti Manzi, Simon Maschile Kawanza), rappresentò l’inizio di nuove sperimentazioni e tecniche che portarono alle grandi esposizioni di “Beedhouwers van Zimbabwe” (1989 - Belmonte Arboretum, Università di Wageningen) e “Tengenenge Oud-Tengenenge Nieuw” (1994 - Baarn), entrambe organizzate nei Paesi Bassi. Il successo della scuola di Tengenenge all’estero portò a un ulteriore flusso di artisti nella comunità, con la nascita della “terza generazione” (ricordiamo, tra gli altri, l’angolano Kakoma Kweli e gli zimbabweani Alice Musara e Chakanetsa Muzhona).

Atelier di “Queen”, giovane scultrice della Comunità artistica di Tengenenge.

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3. L’esperienza comunitaria L’area geografica delimitata dall’immenso bacino del fiume Zambesi varca numerosi confini geografici (Angola, Zambia, Mozambico e Zimbabwe), lambendone altri (Repubblica Democratica del Congo, Botswana e Malawi). In questo territorio vivono grandi gruppi etnici separati da confini politici ma uniti da culture molto simili, come nel caso dei chewa del Malawi e dello Zambia, degli yao del Malawi e della Tanzania e degli mbundu di Zambia e Angola. In molti di questi gruppi, il funzionamento delle istituzioni sociali è affidato alla tradizione orale, al canto e alla danza, attraverso un sistema di convenzioni immateriali, le uniche in grado di rendersi efficaci in territori vasti e difficili e in strutture giuridiche artificiali, create da trattati coloniali e post coloniali. Il rito, la rappresentazione e l’allegoria controllano i comportamenti degli uomini e delle donne, riunendo la sfera religiosa e l’etica sociale nello stesso codice. Tengenenge è una comunità multietnica i cui artisti vivono quotidianamente l’identità culturale con membri dello stesso gruppo, spesso di paesi diversi, o con persone di etnie differenti, sebbene dello stesso paese. L’incontro si verifica condividendo moltissime simbologie, all’interno di una struttura più ampia che le ingloba tutte, ed è significativo notare come anche quest’ultima sia un sistema di regole e convenzioni immateriale, conosciuto da tutti solo attraverso la voce. Lo stesso Tom Blomefield, pur essendo sostanzialmente estraneo a molte di queste convenzioni e pratiche, ha assimilato comportamenti e codici condivisi da tutti. Le barriere comunemente opposte agli scambi culturali, così diffuse in molte parti del mondo, sono assenti a Tengenenge: non esistono, ad esempio, il nazionalismo politico, le differenze religiose, le distinzioni sociali, lo sciovinismo culturale… Paradossalmente, una microstruttura sociale in continua evoluzione (perché abitata continuamente da sempre nuove persone), fonda le proprie energie su una sorta di immutevole passato, costituito dalle tradizioni delle varie etnie fuse in una casa comune aperta a tutti e comprensibile da chiunque. Circa settanta artisti popolano la comunità con le loro famiglie, in una realtà sociale che lega in modo sorprendente spazi fisici e culturali. Una grande scultura è posta all’ingresso e introduce in una vasta galleria all’aperto popolata da alberi di msasa e centinaia di sculture sorrette da tronchi conficcati nel terreno. Ogni artista gestisce un proprio spazio espositivo e gli ateliers si snocciolano lungo le varie stradine del villaggio; c’è un nome e un numero per ogni scultore mentre, poco più dietro, risuona l’attività dei laboratori, tra scalpelli, martelli, lime e frammenti di roccia. Tra una statua e l’altra girano indisturbati gruppi di bambini e animali vari. Si visitano gli stand, facendo due chiacchiere con gli scultori, ci si può recare in visita alle splendide miniere di serpentino, la roccia che ha fatto la fortuna delle creazioni di Tengenenge. Tutti gli artisti, anche quelli che hanno acquisito prestigio a livello nazionale e internazionale, continuano a vivere semplicemente nelle tradizionali capanne, sebbene questa scelta susciti pareri e opinioni contrastanti (alcuni la ritengono un buon espediente per attirare i turisti, altri, invece, la considerano un modo per mantenere intatta un’identità culturale e artistica). L’acqua è garantita da alcune fontanelle poste in luoghi strategici, esistono pochi telefoni e un solo computer. I nuovi artisti che arrivano a Tengenenge ricevono gratuitamente le pietre grezze e gli strumenti con cui lavorarle e ciò, indubbiamente, è un ottimo aiuto per coloro (la maggioranza) che non possiedano capitali da investire per avviare un’attività di questo genere. All’atto della vendita, ogni artista è tenuto a lasciare alla comunità il 35% del ricavo, e tutti partecipano alle attività di “logistica”: reperimento e trasporto delle pietre, imballaggio delle opere vendute per il trasporto, ecc. Il prezzo è stabilito dagli artisti, sebbene l’attività commerciale sia controllata in buona parte da Tom Blomefield e da alcuni altri componenti designati dalla comunità. Il villaggio di Tengenenge può quindi essere definito come uno spazio libero e aperto, in grado di accogliere persone di differenti paesi e in continua evoluzione, unicamente gestito da un sistema di regole non scritte e condivise da tutti; la sua forza e la sua debolezza stanno proprio nell’equilibrio mutevole raggiunto in questi anni e nell’avere nella figura storica e carismatica di Tom Blomefield un punto di riferimento importante, forse irrinunciabile.

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Le sculture in pietra di Tengenenge

4. Caratteri delle sculture di Tengenenge L’arte di Tengenenge è essenzialmente figurativa, nascendo da un substrato piuttosto variegato di racconti, allegorie, tradizioni, celebrazioni e paesaggi, formatosi grazie a condivisioni e contaminazioni di esperienze a volte molto diverse; il retroterra geografico e culturale degli artisti, come già ricordato in precedenza, è molto vasto (i territori attraversati dal grande fiume Zambesi), sebbene tenda a prevalere l’ambito culturale dei territori dello Zimbabwe e dei territori limitrofi, sommariamente riconducibili all’area delle culture Shona. Ne deriva un mondo popolato da oggetti e forme abbastanza slegati dalle tipologie tradizionali dell’arte africana (i riti religiosi, le danze, il ricordo dei morti, gli spiriti). Le opere, quindi, sono innanzitutto elaborazioni personali, non ricreano l’idea del mito, non cercano di dare un volto a uno spirito o all’anima di un defunto; sono prevalentemente elaborazioni soggettive, decisamente più introverse rispetto alle tradizioni dell’arte del Golfo di Guinea o subsahariana. L’ex ambasciatore italiano in Zimbabwe, Ferdinando Mor, dà al riguardo questa definizione dell’arte Shona: «E’ una scultura di superfici chiuse che mira alla compattezza, con l’occhio prevalentemente attento ai problemi volumetrici; più raramente si estende in una contenuta ramificazione, più sensibile ai problemi spaziali. E’ una scultura di forme immote che riposa su se stessa, sulla pietra intesa come materia originaria e inesauribile» (Sandra Federici e Andrea Marchesini Reggiani - Storia e caratteri dell’esperienza di Tengenenge, in “Tengenenge e la scultura dello Zimbabwe, ed. Lai-momo). Un’arte così introversa e legata a un percorso individuale, che evolve grazie a successive contaminazioni, crea relazioni dirette tra i soggetti e le figurazioni coinvolte: il vivente e la morte, l’animale e l’uomo, lo spirito e il corpo mortale… Scompare la mediazione, culturale o religiosa, così evidente in altre arti “forti” del continente africano. Liberi da questo vincolo, la ricerca e la sperimentazione artistica possono giocare e confondere piani e relazioni distanti o addirittura opposti tra loro: la realtà sfiora l’immaginario, il volto di un uomo si confonde con quello di una donna, uno stesso corpo concentra o diluisce i propri tratti su uno o infiniti piani.

Sculture nella foresta di Tengenenge.

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Le sculture in pietra di Tengenenge

Tengenenge è anche arte comunitaria, e non deve stupire che lo stesso soggetto o le medesime scomposizioni di un volto si ritrovino in più di un artista. Le stesse figure falsamente mitologiche, frutto di una ricerca puramente individuale, risentono, a tratti in modo forte, della comunità in cui sono state create e degli influssi reciproci che via sono venuti a crearsi. Comunità che può anche essere intesa in senso più ampio: non solo il “milieu” culturale maturato all’interno del villaggio, bensì la condivisione delle lezioni apprese da molti artisti (soprattutto quelli delle prime due generazioni), durante la frequentazione dell’allora Rhodesian National Gallery. Mc Ewen, infatti, pur essendo un convinto assertore dell’arte “totemica” zimbabwana, spinse non poco i primi artisti a lavorare con tecniche tipicamente occidentali, avendo egli stesso frequentato, durante il soggiorno francese, molti artisti legati alle avanguardie del primo Novecento. La proporzione delle parti e la loro scomposizione, l’equilibrio dei vuoti e dei pieni, la solidificazione delle figure, la linearità del tratto: risuonano, con un curioso gioco di rimandi e influenze tra Europa e Africa, le ricerche cubiste di Braque e Picasso, le superfici in gesso e i bronzi politi di Brancusi, Moore e Giacometti… I maestri delle avanguardie europee, alcuni dei quali in più di un’occasione intensamente suggestionati dal “primitivismo” africano, restituiscono, seppur in modo indiretto, i segni fondamentali della loro ricerca. In altri scultori, più legati all’esperienza con Blomefield rispetto a quella di Mc Ewen, è pressoché ininfluente l’apporto dell’arte occidentale, prevalendo l’influsso della classica arte africana, con i suoi simboli (la danza, le usanze rituali, il potere degli spiriti ancestrali) e rappresentazioni (sguardi totemici, disarmonia nelle proporzioni, esseri mostruosi…). Si tratta, tuttavia, di una parte minoritaria, quasi sempre costituita da artisti provenienti da altri paesi e particolarmente legata alla cultura natia. L’ultima generazione, infine, sta elaborando forme e temi ispirati in modo particolare alla sfera sociale e dei rapporti umani, con alcuni riferimenti particolarmente frequentati (gli amanti, il rapporto tra madre e figlio e la figura della donna intesa come “anima” del villaggio zimbabwano), scostandosi parzialmente dalle tematiche tradizionali.

5. L’anima delle pietre Il serpentino è la roccia madre di Tengenenge, il materiale che ha permesso la nascita e lo svolgersi di un’intera comunità di artisti. Chimicamente, è un fillosilicato di magnesio che raggruppa tre differenti minerali: antigorite, di aspetto lamellare e scaglioso, crisotilo, presente in fibre sericee e lizardite, finemente fibroso. Questi tre minerali possono essere presenti in un miscuglio con piccole quantità di altri minerali (tra cui cromite, magnetite e pirosseni), dando origine alla serpentinite, dai differenti colori (verde vivo, verde nerastro, bianco-giallastro, bruno giallastro, zafferano, oro). I serpentini si sono formati in seguito all’alterazione idrotermale di silicati magnesiaci (olivina e pirosseni). Nello Zimbabwe, i migliori serpentini provengono proprio dalla zona di Tengenenge, nelle rocce appartenenti al Great Dyke, un lungo sistema collinare che attraversa i territori settentrionali, da nord a nordest, per circa 550 chilometri. Si tratta di rocce che presentano una struttura fine e compatta, senza fessure, dal colore nero, denominate comunemente “springstone”, perché fanno rimbalzare lo scalpello a ogni martellata. Altre serpentiniti presenti nello Zimbabwe sono l’opalite, dalla struttura fine e di colore verde vivo; il “leopard rock”, dalle caratteristiche macchie gialle e nere, tipico della regione di Nyanga; il cobalto, multicolore, presente nella zona di Guruwe; il serpentino oro, una varietà nera dalle venature che ricordano quelle del legno (G. Stoops, “Petrografia delle rocce utilizzate nella scultura contemporanea dello Zimbabwe”, 1998). La lavorazione della pietra avviene con procedure ormai comunemente adottate da tutti gli artisti. Il blocco prescelto subisce una prima sgrossatura mediante il martello a gradina o con una punta piatta di metallo. Solo in un secondo momento si lavora con martello e scalpello, tracciando i segni delle figure e in modo da definire tutta la forma. Il terzo intervento si esegue con la raspa – che viene passata su tutta la superficie, così da polirla – e con carta vetrata a secco. Successivamente, alla carta vetrata si abbina l’acqua, avendo cura di eseguire più passaggi utilizzando fogli a grana sempre più piccola. L’acqua rivela il vero colore della pietra, ed è, dopo lo scalpello, l’intervento più entusiasmante: marrone, verde, nero, giallastro… La pietra completamente polita viene

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ora posta accanto a una fonte di calore (un bidone con legna che brucia), e lĂŹ si lascia fino a quando non abbia acquisito una temperatura elevata. E’ il momento di distribuire il lucido con un pennello, lasciando che questo penetri nella massa. La pietra polita è la tecnica prediletta dalla maggior parte degli artisti, tuttavia alcuni di essi preferiscono lasciarla grezza, levigandola solo in alcuni tratti.

Tengenenge - Scelta e trasporto delle pietre agli ateliers degli artisti.

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Alcuni esponenti della comunità di Tengenenge Tengenenge è un’esperienza in cui convivono elementi comunitari e individuali di grande forza. Che si tratti di “fluido totemico”, come sosteneva Frank McEwen o, più prosaicamente, di commistione tra sensibilità culturali soggettive e contaminazioni europee, è innegabile che la maggior parte degli scultori presenti abbia intrapreso e sviluppato un personale percorso di ricerca. • Richard Katanda, Joel Mukusa e Gunja Costa utilizzano in molte loro opere pietra grezza e rifinita, concentrando le rispettive poetiche sulla figura femminile, la maternità e la famiglia. • Gangarahwe Clever indaga intensamente l’espressione dei volti attraverso linee e segni decisi, quasi geometrici, che scavano i suoi soggetti; l’utilizzo di serpentino di diverso colore esalta questa ricerca. • Bormwell Chiwaridro e Alexander Makak esaltano le loro donne attraverso curve sinuose e lunghe, che affidano la loro dolcezza a una scultura particolarmente rifinita e a un abbinamento di serpentino grezzo e polito particolarmente audace. • Last Mahwahwa dona forza ed espressività ai suoi volti, incidendo con forza i tratti somatici, alla ricerca di un particolare che possa svelare segreti nascosti nell’animo umano. • Juja Tembo conferisce mistero e forza ai suoi animali (soprattutto gufi, elefanti e scimmie), rappresentati con serpentino scurissimo e con una levigatura controllata e sapiente. • Laknos Chingwaro lavora con estrema morbidezza il serpentino nero, donando agli animali che rappresenta (soprattutto uccelli) tutto l’incanto e la giocosità della natura. • Roger Mafigu ricerca continuamente il particolare rivelatore di una figura umana (una traccia del volto, un’ombra evidenziata con un serpentino colorato…), da comunicare con un dialogo nascosto all’osservatore. • Barnaby Kanokora e Kizito Kamuchengi raffigurano con rigore geometrico, quasi totemico, volti e corpi umani, raffigurati in una fissità misteriosa e senza tempo. • Mali Ali utilizza con disinvoltura tutti i materiali e i colori che le rocce di serpentino di Tengenenge possono donargli: figure allungate, quasi eteree (bianche, scure, rossastre, grigie, verdi…) si intrecciano in abbracci sinuosi e sensuali. • Farison Maposa libera tutta la solidità e bellezza delle pietre del suo villaggio con una scultura potente e raffinata, in grado di esplorare ogni tipo di colore e materiale. • Forward Chidakwa, infine, con le sue “Happy families”, rende un omaggio divertito e affettuoso alla famiglia zimbabwana intesa come clan e al significato “totemico” che racchiude.

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Riferimenti bibliografici

Riferimenti bibliografici

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ARTICOLI BERNARDO BERNARDI, Il dibattito sulla scultura zimbabwana – Lai-momo Bologna, 1998 DITTE BERNARDINI, Appunti sulle arti figurative – Lai momo Bologna, 1998 GEORGE P. LANDOW, The History of Contemporary Stone Sculpture in Zimbabwe – Brown University, Zimbabwe, 2000 JOCELINE MAWDSLEY, History of Zimbabwe Stone Sculpture – Chapungu Sculpture Park Harare GEORGES STOOPS, Petrografia delle rocce utilizzate nella scultura contemporanea dello Zimbabwe - Lai-momo Bologna, 1998 CELIA WINTER-IRWING, Arte e società nella comunità di Tengenenge – Lai-momo Bologna, 1998 JOHN YANG, The Representation of Family in Zimbabwean Art: Shona Sculpture and Post-Colonial Literature - Brown University, Zimbabwe, 2000.

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Indice

Indice

Introduzione .......................................................................................................................................................................

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L’arte delle donne di Weya ........................................................................................................................................

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Le sculture in pietra di Tengenenge ........................................................................................................................ 21 Riferimenti bibliografici ................................................................................................................................................ 31

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