8 bartleby ottobre 2013

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BARTLEBY

the stories issue magazine di arte, cultura e varia umanità

anno 3 n° 2

TANTI RACCONTI INEDITI E IL MEGLIO DELLE STORIE DI BARTLEBY


(cit.) Raymond Carver Nessuno mi ha chiesto di fare lo scrittore L’unica spiegazione [per essere diventato scrittore] che posso dare è che mio padre mi raccontava un sacco di storie su di sé quando ero piccolo, e su suo padre e suo nonno. Suo nonno aveva combattuto nella Guerra Civile. Aveva combattuto per entrambe le parti! Era un voltagabbana. (…) Mi piaceva la compagnia di mio padre e amavo ascoltarlo raccontarmi queste storie. Una volta o l’altra mi leggeva qualcosa da quello che stava leggendo. I western di Zane Grey. Furono i primi libri con la copertina rigida, a parte quelli di scuola o la Bibbia, che avessi mai visto. (…) Nessuno mi ha mai chiesto di fare lo scrittore. Ma fu dura nei primi anni sopravvivere e pagare i conti e mettere il cibo in tavola e allo stesso tempo pensare a me stesso come uno scrittore e dover imparare a scrivere. Dopo anni in cui ho fatto lavori di merda e ho cresciuto dei bambini e ho tentato di scrivere, ho capito che avevo necessità di scrivere cose che potevo finire e che potevano essere fatte in fretta. (...) C’erano sempre vagoni pieni di frustrazione a cui far fronte – voler scrivere e non essere capace di trovare il tempo e nemmeno il luogo per farlo. A volte uscivo e mi sedevo in macchina e provavo a scrivere su una cartellina sulle ginocchia. Le dichiarazioni di Carver sono tratte da un’intervista rilasciata a Mona Simpson sulla Paris Review (n. 88) nell’estate 1983. (Trad. P.A.)

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Un numero di Bartleby speciale, molto speciale questo. Perché come sempre non ci fermiamo mai e ci trasformiamo sempre. Come dice il titolo, “e Stories Issue” è completamente dedicato ai racconti, alle storie: quelle inedite - forti e sincere e vere come mai prima qui su Bartleby - nella sezione d’apertura “Voci”. E poi lo speciale “Voci 2” che ripercorre alcuni dei migliori pezzi narrativi usciti finora nei numeri precedenti. Infine un particolarissimo “Folio”, che si pone a metà fra la narrativa e la fotografia, la realtà e il web. Perché a noi piace raccontare come ci piace cambiare. Infatti è probabile che nel gennaio 2014 troverete un Bartleby ancora diverso. Fermarci? Preferiremmo di no.

RACCONTO IN LINEA In questo numero il racconto Un amore di Paolo Armelli.


Voci Chiavi in mano p. 4 - Gatti d’inverno p. 6 - Scene da lontano p. 8 Geometrie spezzate p. 12 - Sotto la doccia p. 16

cielO SerenO. nuvOle candide. una dOnna cOn un aBitO rOSSO aderente On- | 3


dARIo ACCoLLA CHIAVI IN MANo Un amore che cresce, anche se a distanza e fugace, alla fine ha bisogno di una casa. Succedeva quasi sempre nelle notti di pioggia. Gli piaceva raccontargli la sua vita randagia. Di quando andava tra i popoli lontani, o sulle scogliere battute dal mare. Gli raccontava dei bambini indigeni e dei loro occhi di clorofilla, quella delle foreste abitate dai ragni giganti. Gli sarebbe piaciuto scrivere, ma non aveva pazienza. Le fotografia, invece, tutta un’altra storia. Era il modo più veloce di narrare il mondo. Non il più semplice. Solo il più veloce. Laddove servivano parole, in un foglio di carta, lui giocava con l’esposizione, le angolature, i giochi di luce. Il sole sempre dietro le spalle. Poi apriva il vino. Andava in giro per la stanza, coi passi morbidi, di cotone, sul parquet chiaro, nordico, antico. Sceglieva prima una bottiglia di vino, sempre diversa, al supermercato lì accanto. L’apriva con lo stesso suono di uno schiocco di lingua. Prendeva i tulipani, versava. E Giorgio stava sul letto, seduto ad aspettare. Così come attendeva il resto dei suoi racconti. Dei delfini cubani o degli uomini vestiti di fango. Le vecchie siciliane senza tempo, uguali alle rocce dei camini di Goreme. «Non ti fermi mai». «Ogni tanto…». E si guardavano, mentre scendeva il silenzio. Le gambe incrociate, uno di fronte all’altro. La camicia aperta di uno, due bottoni al massimo. La promessa di quella pelle, il suo profumo. La vibrante attesa di Giorgio. Gli occhi di fuoco di lui. La distanza recuparata, sorso dopo sorso. Rimanere abbracciati agli angoli della penombra. E fuori la pioggia. Quella di Milano. Per quella sera rassicurante, come un abbraccio liquido e inscindibile. Si vedevano una volta l’anno. Per bere vino e parlare del tempo trascorso. Era il loro giardino privato, senza mele da rubare ad alcun dio. Da troppo ormai si recava in quella città. Per consegnare i lavori, per presentare le sue mostre. Non amava quel mondo, ma ci si era ritrovato.

Lui era rimasto il solito uomo del sud. Si sentiva inadeguato, come il suo accento. Cinquant’anni, qualche capello bianco. Ogni cosa in lui invecchiava piano. Fin da ragazzo gli piaceva chiedere quanti anni avesse, a chi lo aveva conosciuto da poco. «Maddai! Ti avrei dato dieci anni in meno». E anche se fingeva modestia, si gongolava all’idea di sembrare più giovane con invisibile compiacenza. Per il resto pensava sempre di non appartenere a nessun mondo. Per questo aveva scelto quel mestiere. Per non avere radici. E poi c’era Giorgio. Incontrato per caso, a quella mostra di qualche tempo prima. Con gli occhi buoni e profondi. La barba piena e curata, nonostante fosse più piccolo. Si stupirono a scoprirsi somiglianti. Nelle pieghe vicino agli occhi e nelle linee morbide oltre la cintura. Giorgio. Con un uomo distratto, che lo lasciava andare da solo qua e là. Come non temere che qualcuno lo avrebbe portato via prima o poi? Ma non andava via. Se ne era accorto in un sera di stelle invisibili. «Vieni con me…». «Dove?». «Con me!». Da quando si erano conosciuti, ogni anno prendeva lo stesso B&B. Gli piaceva il pavimento. Assi bianche, scricchiolanti. Gli piaceva camminarci a piedi nudi. Era gestito da una signora veneta. Non faceva domande. Una camera per due. Matrimoniale. E due calici.

Gli occhi di fuoco di lui. La distanza recuperata, sorso dopo sorso.

4 | deggia tra le vie alBerate della città, raccOgliendO cOn un geStO della manO


dARIo ACCoLLA ha 40 anni, su Wordpress si chiama elfoBruno (è il suo blog), vive a roma. un giorno scriverà un fantasy. nel frattempo si occupa di politica, di queer studies e ha già pubblicato il saggio I gay stanno tutti a sinistra (aracne, 2012).

Giorgio quella volta abbassò lo sguardo. «Sai che non posso». Fuori non pioveva. Eppure tutto fu grigio lo stesso. Erano andati avanti così per cinque anni. Si scrivevano spesso. Lui gli spediva alcune immagini, chiedeva consigli. Una volta si era pure beccato un parassita tropicale e non si erano sentiti per un po’. Giorgio non gli disse mai che aveva smesso di respirare, per tutto quel tempo. Poi le cose erano tornate al loro posto. «Dopo la mia morte troveranno queste e si chiederanno chi fossi.» Giorgio sorrise. Lui gli faceva sempre degli scatti a sorpresa. In bianco e nero, di profilo. A volte sfocati. Per raccontare come fosse delicato accarezzargli la pelle, nella realtà. E in effetti in tanti, dopo la sua morte, si sarebbero chiesti chi era quel bel giovane che sorrideva un po' sorpreso e un po' a tre quarti di fronte l'obiettivo. Senza sapere che dopo lui posava la macchina e lo raggiungeva a carponi sul pavimento per accarezzarlo sulle labbra, con le sue, con fare leggero. Il loro amore si consumò così. Con quella ritualità segreta. Di volta in volta, tra uno scatto e un altro. Nessuno seppe mai la vera ragione per cui si ritirò dalle scene. Ancora giovane, a cinquant’anni! E quasi senza capelli bianchi. Non si curò mai, lui, del clamore di quel mondo che lo reclamava. Pensava sempre al suo accento di uomo del sud. Alla sua voce di salsedine. Accadde subito dopo l’ennesima tappa a Milano. Era inverno. Quando Giorgio lo raggiunse lui non c’era. Ed era già tardi. Lo attese sul pavimento, a gambe raccolte, e guardò fuori: forse si sarebbe messo a piovere. Sentì bussare. Era lui. In una mano la solita bottiglia, nell’altra qualcosa che sembrava un regalo. Come fosse un anello. Giorgio trasalì. «Ogni tanto mi fermo.» Gli disse, con occhi morbidi. Dalle sue mani, lì, un tintinnare di chiavi. Un appartamento, altrove. Col parquet di legno. Lo stesso delle sue nuove radici. B

(Foto di D. Accolla)

Una volta lui si era beccato un parassita e non si erano sentiti per un po’. Giorgio non gli disse mai che aveva smesso di respirare per tutto quel tempo.

il FOulard cHe le ScivOla dalle SPalle. FiSSa SPeSSO il PrOPriO riFeleSSO Sulle ve- | 5


RoBeRTo AVeSANI GATTI d’INVeRNo Ogni incontro che facciamo, con animali o con persone, ci fa incrociare i loro destini. Nonostante la stagione fredda fosse finita da alcune settimane, dirimpetto alla vecchia porta in ferro che conduceva alla rimessa degli attrezzi, era rimasto un rettangolo di neve, che copriva una piccola area che andava dal cancello sul lato destro fino al primo tratto di muretto sul lato sinistro, e su cui il sole non batteva che un paio di ore al giorno, a causa del largo comignolo che impediva ai raggi di arrivare al suolo. Percorso il vialetto d’ingresso alla villa, come ogni mattina, Jakob si affrettò per verificare che la neve non si fosse sciolta, e come sempre vedere quel fazzoletto bianco in mezzo alla ghiaia gli mise una strana e infantile gioia. Entrò nel capanno e come consuetudine accese la stufa. Si trovava sul fondo della grande stanza e molto calore veniva disperso, ma, si diceva, era sempre meglio tenerla accesa, non fosse altro per la compagnia delle deboli fiamme, che poteva scorgere agitarsi dietro lo sportellino metallico anche stando al bancone di lavoro, che era collocato vicino alla porta in ferro. Prima di tornare a lavorare all’aperto ci sarebbe voluto almeno un altro mese, quando avrebbero riaperto le condutture esterne dell’acqua, ma intanto non gli dispiaceva dover trascorrere il tempo in quella stanza fredda ma a suo modo accogliente. Inoltre, il fuoco non era la sua unica compagnia. Non appena aveva aperto la porta, infatti, alcuni gatti si erano infilati nella stanza distribuendosi in modo sparpagliato all’interno, chi a sonnecchiare su un ripiano e chi su una sedia traballante. Benché il padrone non volesse animali all’interno della rimessa, essi erano invece bene accolti, anche perché aiutavano a cacciare i topi e tenevano compagnia. La notte, però, preferiva dare retta al padrone e non lasciarli all’interno, perché non rovinassero con le unghie i lavori in legno e non sporcassero la stanza. Gli dispiaceva doverli lasciare al freddo, ma, al tempo stesso, quando nel bosco ne trovava uno morto per il freddo, lo avvolgeva in un sacco

Un attimo.

e lo portava a casa. Quella mattina, però, si presentarono tutti, o almeno così gli sembrò, e si mise a lavorare con animo più dispiaciuto che rasserenato. Trascorse alcune ore, alle dieci in punto, uscì per fumare una sigaretta. Teneva lo sguardo rivolto verso l’ingresso. Da lì, ne era sicuro, entro pochi minuti avrebbe visto passare il signor Marcel, attaccato al bastone in legno che lui stesso gli aveva personalmente intagliato alcuni anni prima, dopo che una brutta caduta rimediata proprio sul vialetto d’ingresso alla villa aveva costretto l’anziano signore ad un ricovero all’ospedale. Quando mancavano poche boccate alla fine della sigaretta lo vide entrare. Gettò il mozzicone e in fretta ritornò dentro, per preparare il caffè. Aveva infatti calcolato che il tempo impiegato da Marcel per attraversare il vialetto e quello per preparare il caffè corrispondevano, e così quando l’anziano varcava la porta di ferro il rumore della moca già ribolliva nella stanza. «Oh, è un bel buongiorno con questo profumo!» disse Marcel. «Caro Marcel, ti stavo aspettando. Come andia-

“Ho sentito che oggi ne arrivano due nuovi.” “Già, ma staranno qui per poco, credo.”

6 | trine dei negOzi: lO SguardO cHe PrOietta È al temPO SteSSSO di inSOddiSFaziOne


RoBeRTo AVeSANI, veronese, studia lettere a milano. gioca a rugby, e poi viaggia. a volte riesce a confessare di essere socialmente schivo.

mo?» disse con entusiasmo l’altro stringendogli un braccio calorosamente e aiutandolo a sedersi sulla sedia che aveva preparato a ridosso della soglia. «Beh, non ci lamentiamo, vero?» «Eh no, ci mancherebbe altro. Chi si lamenta è perduto. Hai visto cosa sto facendo oggi?» Gli passò un piccolo cubo intagliato che aveva tutte le somiglianze di un ricovero per animali. «Questo, a dire il vero, è solo il modello» aggiunse sottovoce Jakob. «Oh, è per i gatti» intuì Marcel, che nel frattempo aveva iniziato a sorseggiare il caffè dalla sua tazza. «Già. Così la sera potranno avere un posto caldo. Dentro metterò dei panni e della paglia. Dovrebbe essercene ancora da qualche parte qui dentro». «Sei sempre molto bravo». Ci fu un momento di silenzio. Riprese la parola Marcel: «Ho sentito che oggi ne arrivano due nuovi». «Già, me l’ha detto il padrone. Ma staranno qui per poco, credo». «Sì lo credo anch’io» - confermò Marcel - «Speriamo siano in gamba». «Già» rispose l’altro senza troppa convinzione. Nel frattempo avevano entrambi finito le loro tazze, e Marcel si era poi incamminato per rincasare. A metà del vialetto si era fermato e voltato verso la grande e desolata facciata della villa. Finita

la guerra, quando la confisca era decaduta e la proprietà era tornata a far parte dei possedimenti di un ricco latifondista, vi aveva preso servizio come stalliere. Nei suoi occhi scorrevano in quel momento immagini di feste e ricevimenti, e dove un tempo aveva visto scalinate addobbate vedeva ora gradini frantumati, percorsi da filari di edera che come vene nella pelle di un vecchio prorompevano fuori dal marmo malridotto. Nelle prime ore del pomeriggio arrivarono anche i due nuovi lavoratori. Erano due fratelli vestiti entrambi con uno stesso grosso maglione in lana di colore marrone chiaro, probabilmente regalo di un qualche parente. A quanto pare quel giorno doveva essere il compleanno del più piccolo dei due, perché avevano portato con sé alcune paste alla crema prese da un fornaio nei dintorni. Jakob preparò un caffè e mangio una pasta insieme ai fratelli. I due erano di poche parole, e quando erano entrati dalla porta di ferro si erano limitati ad un saluto di circostanza, e nemmeno tra loro si erano più parlati. Mostrò loro il cancello che nel pomeriggio avrebbero dovuto riverniciare, e si incamminò verso la stazione del bus che lo avrebbe riportato a casa. Quando fu il momento di uscire dalla proprietà passò vicino ai due fratelli, già alle prese con il cancello. «Sono stato a trovare la mamma – sentì dire – I fiori erano secchi e il lumicino spento». B

Claude Monet, “Rue sous la neige, Argenteuil” (1875), National Gallery, Londra e Fiducia. nOn rieSce a cOmPrendere gli Stati d’animO cHe la PercOrrOnO. l’avreB-| 7


CARA CATASTRoFe SCeNe dA LoNTANo Osserviamo pezzi di vita su cui ci raccontiamo storie che poi sono tutto il contrario. Era una scena da disegnare, almeno. Aveva forse vent'anni lei, un biondo sporco e troppe aspettative sepolte. Le mani piccole, le dita belle, un segno sotto il labbro lasciato chissà da chi, chissà da quanto. Camminava ogni giorno le stesse strade con diverse intenzioni, musica alta nelle orecchie, l'iPhone e le all star. Era una serie di capricci assemblati benissimo. La treccia da un lato, una rosa tatuata su quello libero. Un bel collo, la guardavi e pensavi: "che bel collo!". Scendeva dal treno con la sigaretta in una mano e nell'altra la treccia, un'espressione seccata le girava in faccia senza tregua e lo sapevi che non stava bene. Lo sapevi e basta. Lui saliva, lei scendeva. Andava sempre così. E tu assistevi da lontano a quell'identica scena con un imbarazzo incosciente e insieme spocchioso di aspettative che, puntualmente, franavano. Lui saliva, lei scendeva. Sempre. A volte assicuri negli occhi situazioni che ti sono estranee con un affetto incredibile e restano lì, mica se ne vanno. Galleggiano in quel mondo lontano che non è nostro ma neanche di nessun altro, a trovare risposte o a rimanere identiche al loro contesto, prima di svanire. Mi chiedevo ogni giorno se lei sentisse il profumo del caffè che lui aveva appena bevuto quando, su quel terzo scalino, lui si voltava di 90 gradi e la respirava. Lei scendeva. E basta.

"Perché non glielo chiedi, chi è?" Non so perché mi permisi di entrare così, una mattina di dicembre, mentre lui sfogliava Repubblica e io gli poggiavo il suo caffè sulla tazzina. Lui alzò lo sguardo e le rughe affrontarono tutta la sua fronte in un frangente solo: "Scusa?" - domandò, forse irritato, forse stupito. E mi guardò negli occhi, feroce. Io ero abituata a quei venti metri di distanza che cambiavano quasi tutto, in effetti, e notai che sembrava più vecchio, meno interessante, che aveva gli occhi verdi e una barba lasciata stare da un po'. Gli preparavo ogni giorno caffè, cornetto, e un bicchiere di acqua frizzante, ma che avesse quella voce lo avevo appena scoperto. "Scusa", mi uscì piano, e un mantello di silenzio avvolse tutta Porta Nuova nel momento di maggior frenesia. Sei una stupida, mi ripetevo. Una stupida. Non sei neanche assunta e già ti metti a fare domande assurde a clienti che non conosci su cose che non ti riguardano. Cretina, cretina che non sei altro. E intanto non smettevo di guardarlo incamminarsi verso quel treno, sperando che le cose, chissà perché, quel giorno cambiassero. Non cambiarono. Lui salì, lei scese, lui la incanalò negli occhi, lei neanche per un attimo. Fuori

Un attimo.

Lui saliva, lei scendeva. Andava sempre così. E tu assistevi da lontano a quell’identica scena con un imbarazzo crescente. 8 | Be FOrSe intuitO di lÍ a POcO.

cielO SerenO. nuvOle candide. un uOmO veStitO


CARA CATASTRoFe a 5 anni era sgargiante, poi ha avuto vent’anni più volte e si è persa. Ora storna i ricordi, stravede per i denti. Sta a la Spezia o giù di lì, ma più spesso su twitter: @unkarmapensante

tantissimo per tutto il giorno. "Ciao, oggi non hai domande?" Lui scavalcò a piedi uniti tutto il mio imbarazzo, così. "Sai- continuò - a volte le cose non sono come sembrano semplicemente perché sono come devono". Rimasi un filo spiazzata, ma continuai a posizionare i panini nella vetrina del bar come se nessuno stesse parlando con me, in quel clima confidenziale assolutamente fuori luogo. "Vado". Andò. Non dissi una parola, almeno tre clienti stavano aspettando da minuti, io rimasi in quel mood senza capo né coda per quasi tutto il giorno, la sua voce mi rantolava in testa. Ha un nome appoggiato al collo su una catenina, probabilmente il suo. La sua amica le tiene la mano, lei è scura in volto e il cappuccio le chiude la testa dentro. Giulia non è un nome da lei, ma può andare. Non si era mai fermata al bar della stazione prima d'ora, e mai prima d'ora mi ero accorta di quanto effettivamente fosse bellissima. Parla con questa ragazza così diversa da lei e così vicina, però. Gesticola emozioni, trasuda intenti. Si guardano negli occhi senza scapparsi, hanno di fronte un diario, una focaccia, due coche e un accendino blu. Un libro le spunta dalla borsa militare, è Chekov. Capito, la ragazza? Le guardo leggere e passarsi questo diario sgualcito, penso sono piccole, penso neanche troppo, però. L'amica è piena di anelli, Giulia non ne ha nessuno. È evidente che i dettagli arrivano prima. Di tutto, intendo. Giulia tiene in mano un foglio, qualcosa, parla con l'amica, è forse divertita, o forse impressionata, fa una faccia strana, lascia il foglio, lascia la mano che stava tenendo, si alza, gesticola tantissimo, la treccia le cambia lato, la rosa si copre un po'. Prende il telefono, fa un numero. L'altra, senza nome al collo, registra le sensazioni appannandole, morde la focaccia, si pulisce la bocca con la manica. Giulia le fa un gesto deciso, lei si alza,

(Qui e alla pag. successiva foto di S. Scarpellini)

di nerO PaSSeggia FacendO aPPOggiO Su un OmBrellO ScurO. Si guarda intOrnO | 9


sotto un portone, appoggio prende accendino e focaccia, lascia lattine e parole, si allontana con lei. Sto per uscire dal banco e inseguirle, ma prendo il diario e lo abbraccio. Faccio questo gesto senza senso e lo nascondo sotto il grembiule. Le guardo allontanarsi, giovani, sconsiderate, hanno lasciato un profumo di penne e desideri tutto intorno. Torino è più fredda del solito e mentre rientro a casa ho voglia di sapere e insieme di non farlo. Mi siedo sul 21, al solito posto che a quell'ora è sempre vuoto, poso la borsa a sinistra, sono tentata, ma so che no, non è il caso. Domani quando la vedrò glielo restituirò e non l'avrò letto. Magari le dirò anche di guardarlo quell'uomo che la mangia di sguardi ogni mattino, magari anche solo un attimo, quando scende e lui sale. Ogni santo giorno. Che potrebbe piacerle, che ha due occhi densi, che forse ascoltano anche la stessa musica, che il caffè lo prende senza zucchero . O forse non le dirò niente, le porgerò il diario, lei non sorriderà neanche, io ci rimarrò un po' male e poi forse non la guarderò neanche più. Cammino svelta nell'ultimo viale che mi separa dal tepore, comincia a

piovere, prima lievemente poi sempre più forte, mi riparo sotto un portone, appoggio il diario in testa, mi riparo come posso, ma la pioggia aumenta, mi siedo sullo scalino, una foto mi scivola dalla testa, mi sfiora il naso, si ferma tra l'anfibio destro e una foglia di platano perfetta. È di schiena, e una scrittura fitta la ricopre. La prendo, la giro, non leggo niente. La guardo in faccia. Ho ancora freddo quando ci penso. Sono passati 10 anni e qualche mese da quella sera, e non ho mai più visto né Giulia né Claudio. C'era lei con i boccoli biondi e gli occhi felici, sulle spalle di lui ragazzo impacciato, senza barba, occhi identici a lei, due sorrisi, la neve, un pupazzo con il naso a carota, una giacca a vento blu, il cielo bianco, le manine strette nelle mani. Dietro, piccolo piccolo, c'era scritto così: "Qui eravamo a Canazei, tu avevi 2 anni, io la tua di adesso, avevi avuto un'influenza spettacolare il mese prima e tua madre non era d'accordo che ti

10 | SPerdutO. nOnOStante SianO mOlte le PerSOne cHe in Quel mOmentO Si muOvOnO


Hai un bel sorriso, quando l portassimo lì, ma io volevo farti vedere la neve, che era tanta quell'anno. Ti eri divertita molto, nonostante tu non possa ricordarlo. Il segno che hai sotto il labbro, viene da qui. Due minuti dopo questa foto ti sei mossa di colpo scivolandomi dalle mani, hai battuto le labbra su un sasso che spuntava da terra, tua madre ha urlato finché ha potuto, tu neanche troppo. Ti sei rialzata, hai indicato il suo gelato sorridendo. Alla sera siamo andati a mangiare la pizza e tu infilavi le mani nella mia di continuo. Facevo finta di arrabbiarmi, ma non ero arrabbiato. Non ti ho mai più preso in braccio dopo questa foto. È finito tutto male, come spesso finisce. Tu adesso sei in quell'età in cui della fine capisci tutto e nessuno può saperne più di te. Un po' è così, un po' imparerai che di finire, non si finisce mai. Mi chiedo quante volte ti sono mancato, quante hai chiesto chi ero, com'ero, se c'ero. E io ti vedo tornare da scuola ogni giorno e ti guardo i capelli e come sei diventata. Non mi guardi mai, sei sempre incazzata, ma ascolti buona musica. Ti vesti bene. Hai un bel sorriso, quando lo usi. Il naso è il mio. Il tatuaggio è troppo grosso. Ti penso tanto, spesso. Ho voglia di viverti, di portarti al mare, di litigare con te, di dirti di no, di regalarti un paio di scarpe che tua madre non vuole, di venirti a prendere fuori da qualche parte, di farti mangiare dalla nonna, di avere il tuo nome che lampeggia sul mio telefono, di guardarti al mattino, di vederti dormire. Lo so che sono uno stronzo e che da un uomo come ti dovrei difendere, ma sei mia figlia e io non ero pronto quando lo sei diventata. Tua madre non è stato l'amore che vorrei raccontarti, ma anche se per poco tempo ci ho creduto. Lei era brillante e folle, la prima volta che l'ho vista mi ha dato uno schiaffo perché le avevo toccato il culo in discoteca. Non l'avevo neanche vista in faccia, ma è quando si è voltata che mi ha sbriciolato. Quegli occhi. Io per quegli occhi lì, ne farei altre dieci di te. Poi la vita cambia, cambiano le cose, i caratteri deragliano e tu scendi. Da qualcosa, da qualcuno, un po' da tutto in verità. Credi di poter vivere lo stesso, ma poi i pensieri ti arrivano dritti come pistole cariche e trapassano

Ho voglia di viverti, di portarti al mare, di litigare con te, di dirti di no, di regalarti un paio di scarpe che tua madre non vuole, di venirti a prendere fuori da qualche parte. tutta quella corazza che sembrava forte, ma mica tanto. E per quanto cammini senti che i piedi ti chiedono cose che non sono avanti, ma indietro. E ogni passo in più è a vuoto. Così ti fermi, un giorno, un giorno freddo così, e guardi le cose in faccia dal balcone di quello che sei diventato senza, e ti trovi in questo punto della strada, raggiunto il quale ti sembra sempre di poter tornare senza pagare il prezzo dell'essertene andato. Ma certo che va bene anche pagarlo. Provo a fare tuo padre, se vuoi. Claudio". Punto. C'era un punto, poi. Non li ho mai più visti. Lei non scende, lui non sale, ma quella foto è appesa tra le mie. Le scene, da lontano. La vita, da vicino.

B

aSSieme a lui la città e le Strade, Si Sente SOlO cOme mai Prima. ed È StancO di | 11


MARIAPAoLA FUSTINI GeoMeTRIe SPezzATe Mario aveva una vita tutta disegnata di ordini geometrici: per questo li ha cancellati. Mario era alto, di costituzione longilinea, e magro al punto che le ossa sporgenti lo facevano somigliare a un sottile rettangolo, munito di baffi. Spesso la gente osservava stranita quel suo esile corpo sempre in movimento, una sorta di pentola in ebollizione, con mille tic che lo rendevano estremamente buffo. Da tempo conduceva una vita monotona, arida, scandita dal continuo alternarsi di casa e lavoro. Talvolta avrebbe voluto dare un forte calcio alla scrivania, e mettersi a ballare la rumba tra i colleghi. Poi, però, si tratteneva e si adeguava passivamente al vivere civile. Non voleva essere classificato come matto. In quella soporifera esistenza non aveva grandi certezze: sapeva solo di non voler più essere un ingegnere. Era stufo di quella classe di matematici geometrizzati, cui sentiva di non appartenere. Lui era diverso. Troppo originale e bizzarro per passare la sua vita solo con i numeri. O, per lo meno, se ne era convinto. Un giorno, all’alba, si alzò e comprese che, finalmente, era giunto il momento. La sua invenzione lo avrebbe sradicato da quelle tetri pareti, madide di ricordi. Avrebbe cancellato tutto con un veloce gesto di pennello. Prima, però, il suo appartamento doveva essere svuotato da ogni minimo segno di vita, fino ad apparire completamente nudo. Iniziò l’opera tanto attesa dai quadri. In particolare da quello che la moglie Anna aveva dipinto poco prima di andarsene, decisa a liberarsi da tutte le bizzarre manie di quell’insoddisfatto sognatore. La poveretta ricercava nell’arte quell’ordine e quella perfezione che le era stata negata nella vita quotidiana, rivoluzionata dalle stravaganze di Mario. Quando trovò adagiate sulla torta al cioccolato, appena sfornata, uova di gallina ancora calde, Anna perse la pazienza e si mise a imbrattare la tela con macchie casuali di colore. Mario, però, non colse il significato di quell’ultimo

Un attimo.

gesto che urlava fine, e ora si ritrovava solo, o, meglio, con la sua fedele fantasia. Prese il profetico dipinto, osservandolo un poco, e, con una precisione quasi maniacale, lo depose sul bel damasco floreale del divano. Poi tolse il chiodo, così arrugginito che lasciò un colore ramato sul muro. Velocemente uscì nel giardino e attaccò il quadro alla quercia centennale, non dimenticando l’inseparabile compagno chiodo. Fece lo stesso con gli altri cinque o sei vecchi dipinti di autori sconosciuti, e presto il giardino si animò, trasformandosi in una galleria d’arte a cielo aperto. Poi decise di togliere dagli antichi mobili tutti i suppellettili, i centri e i centrini, e tutte quelle inutilità con cui si cerca di rendere più accogliente una casa. Insieme spostò le istantanee, popolate di attimi felici, che davano una certa forma al suo informe passato. Mise il tutto in una grossa scatola di cartone, abbastanza resistente da sostenere il gravoso peso. «Sono solo oggetti», si diceva. «Solo oggetti, pieni di polvere». Eppure, non riusciva a prendere quella maledetta scatola; caricarla in macchina; guidare fino al fiume, che scorreva a poche miglia da casa; aprire il coperchio e…Un veloce tonfo, e lui sarebbe stato libero. Non era così semplice. Mario era un codardo, un Don Abbondio dell’ultima generazione. Non ci sarebbe mai riuscito. Non gli importavano gesti eroici: bastava solo liberare da tutto quel ciarpame la stanza, che sarebbe diventata la sua nuova dimensione. Fuori. Anche la scatola. Con i quadri e con il tappeto. Nascosta, però, in un cespuglio, così rigoglioso e folto da inghiottirla, senza lasciarne traccia. Questo era l’eroismo di Mario. Sollevò, poi, la bella credenza e la trasportò in giardino, sistemandola insieme al comodo divano, su cui più volte aveva fatto l’amore con la moglie. Tutto.

12 | Quella SOlitudine ingOmBrante. di ScattO, entra in un caFFÈ aFFOllatO.


MARIAPAoLA FUSTINI si definisce una sognatrice: ama vagare sulla luna con i piedi ancorati alla terra. convive amaramente con la disarmonia dell’accento bresciano.

Doveva sparire tutto. Provò grande soddisfazione nel liberarsi di quella insipida scatola parlante, che spesso intratteneva le sue vuote giornate. Prese un martello e cominciò a scagliare colpi violenti contro la tivù, sfogando la sua rabbia, il suo diniego per quella società così invadente e omologante. Presto dell’esasperante rottame sarebbero rimasti solo pochi frammenti taglienti. Ora poteva ridere del vacuo progresso tecnologico e liberarsi da tutte quelle superflue inutilità che il vortice consumistico lo aveva indotto ad acquistare. Basta con i cellulari; basta con la lavastoviglie; basta con il microonde; basta con il robot da cucina; basta con il computer. Portò all’esterno anche le sveglie, gli orologi e il vecchio cucù: finalmente non sarebbe mai più arrivato in ritardo. Poi spalancò le finestre, tolse le imposte, gli infissi. Ogni cosa. Nudo.

stenza erano stati risucchiati dalle tenebre. Del passato rimanevano solo le stanze, cubi bianchi e nudi. Macchine per la creazione del nulla. O forse di una realtà altra, di una dimensione nuova e parallela. Mario voleva che tutto fosse perfetto, raffinato al punto di cancellare ogni minimo segno di presenza umana. Doveva avvertire il profumo dell’innocenza, di una candida verginità priva di macchia. Solo allora quell’unico cavalletto, lasciato al centro dell’appartamento, avrebbe potuto compiere la propria magia. Velocemente imbiancò le pareti, togliendo ogni alone grigio fumo, simbolo della lunga presenza di mobili. Tutto doveva essere bianco, puro, levigato. Ciò che cercava era uno spazio incontaminato, primordiale, che si lasciasse manipolare dalla sua creatività. Mario voleva il controllo: essere un genio demiurgo, in grado di plasmare la materia. Quando tutto era pronto, fissato in un’immacolata

era stufo di quella classe di ingegneri geometrizzati. Lui era diverso. originale e bizzarro. Il suo appartamento doveva rimanere nudo. Divenire un estraneo, privo di quella vita che solo l’uomo e gli affetti gli potevano donare, rendendolo unico e speciale nella sgradevolezza dei ricordi. Depose tutto fuori, nel suo grande giardino. La terra, però, non poteva reggere quell’immenso fardello. Improvvisamente, si sentì pesante. Si sforzava di sostenere tutta la gravità di quei ricordi, di quel passato. Stanca di dover sempre sopportare in silenzio qualsiasi rifiuto umano, diede una scossa fortissima. Subito si aprì un’immensa voragine, che risucchiò ogni cosa. Poi, lentamente, il crepaccio si richiuse, senza lasciare traccia del violento prodigio. Mario era libero. Tutti quegli anni di anonima esi-

purezza, si mise davanti alla logora tela, ben fissata sul cavalletto. Prese il pennello e iniziò a dipingere. Ogni sottile linea tracciata subito si riversava sulle pareti. Ecco che l’ingegnere, per la prima volta, lasciò da parte i numeri e diede libero sfogo alla propria fantasia. Colorò la tela di un azzurro cangiante e presto la stanza divenne una nave, immersa nel blu dell’oceano. A Mario pareva di avvertire sulla pelle un gradevole sapore di salsedine e di iodio. Intorno solo acqua, e un sole cocente. Tutto aveva un sapore di libertà e di avventura. Subito immaginò di ritrovarsi tra pirati, in caccia di tesoro e di fanciulle indifese. Nell’arco di una giornata la vita dell’ingegnere era completamente mutata. Le sue ore non erano più scandite dal monotono ticchettio dell’orologio

cielO un PO’ menO SerenO. nuvOle menO candide. la dOnna decide di SederSi | 13


on riusciva a capire cosa ste ora tutto era emozione manere fermo e assecon dell’ufficio, pieno di vuote macchine in corsa verso la prossima commessa. Ora tutto era emozione, brivido. Doveva solo rimanere immobile, fermo in quella stanza, e assecondare gli strambi impulsi della sua fantasia. Immancabilmente, si ritrovava in viaggio verso mete ignote, a lui solo conosciute. Mario, però, non era ancora soddisfatto. Voleva di più. Voleva spingersi fino all’impossibile. Disegnò sulla tela una pesca. Era bella. Invitante. Così perfettamente tonda da non sembrare un frutto terrestre, ma di qualche Eden metafisico, sperduto nell’universo. La buccia era di un colore arancio intenso, cosparsa qua e là di grandi macchie rosso fuoco. Il tutto ricoperto da una leggera peluria vellutata. Quella pesca era talmente carnosa e invogliante che Mario bramava di prenderla e addentarla voracemente. La desiderava al punto che immaginò di nuotare nella sua polpa gialla e zuccherina. Poi creò un grande cannone. Non uno di quelli che sparano grosse palle metalliche, atte alla distruzione di intere civiltà; ma un cannone speciale, che proiettava nello spazio giganti pesche gustose. Mario voleva essere nel frutto da lui plasmato e andare sulla luna. Ed ecco che la magica tela realizzò il suo desiderio, scaraventandolo, a grande velocità, sul suolo dell’attraente satellite. Qui iniziò a rotolare senza pensieri, ogni tanto incappando in giganteschi crateri. Non era mai stato così felice. Si sentiva libero, benché rinchiuso in una pesca. All’improvviso vide sopraggiungere un uomo gigante, una sorta di Polifemo con quattro grandissimi occhi sulla fronte. L’essere mostruoso si avvicinò al frutto, lo prese tra le mani e iniziò a giocherellarci. Lo lanciava nello spazio, tracciando geometriche traiettorie. Poi velocemente lo riprendeva, divertendosi a giocare una solitaria partita di tennis.

Mario tremava di paura, ignaro che il peggio doveva ancora venire. Quando sulla pallina si formò una piccola crepa, il gigante comprese di essersi impossessato di qualcosa di commestibile e di irresistibilmente buono. Iniziò a leccare voracemente la pesca, avido di quel dolce succo saccarino, che mai aveva assaporato prima di quel memorabile giorno. Polifemo non credeva potessero esistere cibi tanto deliziosi e succulenti. Presto affondò i suoi denti aguzzi nella morbida polpa, sentendosi invadere da una profonda sensazione di piacere. Mario non riusciva a capire cosa stesse accadendo, se quelle molteplici sensazioni fossero reali o solamente il frutto della sua immaginazione. Percepiva soltanto un dolore indescrivibile. Era come se il suo corpo venisse miseramente fatto a brandelli. Nel frattempo il gigante continuava imperterrito il prelibato pasto, fino a quando i suoi incisivi incontrarono un invalicabile ostacolo: una grossa sfera schiacciata, piena di rughe profonde. Polifemo non capiva come l’interno di una pallina tanto celestiale potesse essere così duro e amaro. Completamente incommestibile. Velocemente si liberò dall’inutile avanzo, lanciandolo con forza nello spazio. Poi, soddisfatto del piacevole spuntino, ritornò al proprio rifugio. Passarono giorni. Settimane. Mesi. Nessuno ebbe notizie di Mario. Solo un’arzilla vecchietta, pettegola e morbosamente curiosa, decise di entrare nell’appartamento, attratta dalla nudità e dal candore degli spazi che ogni tanto intravedeva dall’apertura, un tempo occupata da una finestra. Contrariamente alle sue aspettative, all’interno non trovò alcun pettegolezzo accattivante da diffondere tra il vicinato. Solo una tela bianca e, di fronte ad essa, un nocciolo di pesca di singolari dimensioni, inspiegabilmente grondante di un liquido giallo e puzzolente.

, brivido. doveva solo ridare la sua fantasia.

14 | Su una PancHina imBrattata di Scritte OScene. POcO PiÙ in là Svetta la tOrre


più nemmeno il bisogno di Disgustata prese il misero avanzo. L’osservò attentamente. Le sembrava quasi di intravedere il volto di Mario che le sorrideva. «Ma che assurda follia!», esclamò e, abbacinata dall’ordine perfetto di quella casa nuda, lo scagliò nel giardino. Con una mostruosa velocità, il nocciolo iniziò a germogliare. L’ingegnere era bombardato da una miriade di sensazioni incredibili. Talvolta percepiva un noioso formicolio a ciò che restava delle gambe. Il fastidio poi si trasformava in un irritante dolore, lo stesso che aveva provato allo spuntare dei primi dentini. I suoi piedi si stavano ricoprendo di una peluria lunga e folta, che s’inabissava sempre più profondamente nella terra. Spesso avvertiva strani movimenti all’interno del proprio corpo. Gli pareva di allungarsi e di irrigidirsi come se venisse rivestito da una corazza ferrea e protettiva. Anche le sue braccia non erano più le stesse: sembravano grossi pali, privi di grazia. Ma la cosa che più lo inorridiva era il veloce moltiplicarsi delle dita, che disegnavano infinite trame nere nel cielo. Ci volle tempo prima che Mario si abituasse alla

nuova condizione, ma soprattutto che comprendesse la metamorfosi subita. «Impossibile! Impossibile!», esclamava continuamente. Certo, ricordava di aver letto la storia di Gregorio che un bel giorno si trasformò in uno scarafaggio, ma quella era letteratura, finzione, fantasia. Non era possibile che tutto ciò fosse accaduto realmente. Eppure Mario si sentiva diverso, era rinato in un florido pesco, che adornava lo spoglio giardino. Ora delle radici lo tenevano saldamente ancorato a quella vita da cui spesso aveva tentato di fuggire. Per la prima volta si sentiva in sintonia con qualcosa. Era nella natura e viveva assecondando i suoi ritmi, con quella semplicità da tempo abbandonata dall’uomo. Non sentiva più nemmeno il bisogno di stravaganze, di viaggiare in dimensioni fantastiche, di ricercare piaceri effimeri. Gli bastava inebriarsi del profumo dei fiori, ascoltare le storie ululate dal vento, addormentarsi osservando la luna. Era quello l’ordine inverso a tutte le logiche sociali che tanto aveva ricercato: una geometria spezzata e ricondotta alle origini. B

Georges Braque, “Bouteille et poissons” (1910-12 ca.), Tate Gallery, Londra di un camPanile. i minuti PaSSanO, il mOmentO Si avvicina. lei aSPetta. delle anzia- | 15


dANIeLA GIAMBRoNe SoTTo LA doCCIA Il proprio corpo, il proprio calore, i propri desideri e i pensieri che non si confessano mai.

Prima. Da quando sono single ho iniziato un gioco. Ogni giorno, sotto la doccia, mi sfioro pensando a una persona diversa. Incontri casuali, conoscenze lievi o presenze amiche da anni, vale tutto. Lo faccio per allenare la fantasia. Per vedere quanto dura nella mia testa, quanto tempo riesce a rubare alla mia attenzione. Chi resiste per cinque docce di fila si aggiudica il premio. Devo dire che quasi nessuno è rimasto per più di due docce di fila. Da quando sono single, sono anche molto selettiva. Eppure lei, così fresca, mi ha sorpreso. I nostri incontri in chat stanno diventando sempre meno casuali e sempre più premeditati, potrei dire attesi. Sotto l’acqua è come se le sue parole rimanessero attaccate alle mie dita, che da sole sanno dove esplorare, sanno come mescolare, stringere, accarezzare. È quasi imbarazzante. Non abbiamo mai (ancora) parlato esplicitamente di nulla, ma è come se la sua testa fosse proprio dentro la mia. E da lì parte e si prolunga per tutta la colonna vertebrale, fino al mio punto più nevralgico. Questa è la quinta doccia consecutiva. Non mi resta altro che decretare il nuovo vincitore. E stabilire quale sarà il suo premio.

16 | ne SignOre eScOnO dalla ParruccHiera e la OSServanO. cOn QuellO StracciO


dANIeLA GIAMBRoNe è redattrice e pubblicista freelance, nel cassetto mette desideri e fantasie per scrivere racconti a luci fucsia in non più di 1000 battute.

durante. Il vapore mi annebbia la vista, mi anestetizza le narici. Stanotte non vorrei farla la doccia. Vorrei tenermi addosso intatto l’odore. L’ho fatto, l’ho chiamata. Del resto, il numero me l’ha dato lei… Le ho dato un appuntamento per un bicchiere dopo cena. O meglio, le ho dato una possibilità. Voleva giocare, l’ho accontentata. Ho chiesto a un amico fidato quanto basta di venire con me. Era necessario qualcuno che la distraesse mentre io la osservavo con tranquillità. Poi, fra un ruché e un porto, proprio quando la conversazione si è fatta finalmente liquida, ho buttato l’amo. “Chi vuole venire in bagno con me a tenermi la porta?” Mi sono alzata senza aspettare la risposta, senza guardarmi indietro ho preso la via della toilette. Quasi come da copione è stata lei a seguirmi. Sì, mi ha tenuto ferma la porta del bagno. Ma con la schiena, perché io l’ho tirata dentro. Mi fissava in piedi, frugando dentro i miei occhi per trovare conferma al suo sguardo di sfida. E io mi son lasciata guardare. Saremo state in quel metro quadro meno di un quarto d’ora, quindici minuti in cui abbiamo avuto tutto il tempo di esplorarci. Con le mani, con le dita, con la lingua. Ho cercato tutti i suoi anfratti, nascosti fra profumo e cachemire. Non ci siamo dette una parola, ma le ho lasciato in tasca il mio numero di cellulare. Perché la prossima volta so che sarà lei a chiamarmi.

addOSSO SemBra una POcO di BuOnO, dicOnO.

cielO un PO’ menO SerenO, nuvOle | 17


oi ci sono giorni come bolle dopo. È successo di nuovo, penso mentre l’acqua scende come una pioggia di spilli roventi. Sì, me lo sono ripetuta migliaia di volte, quasi un mantra, tantononcicasco, tantomettolemaniavanti. Sì sì. Forse sono stata l’unica a crederci davvero. O a mentirmi così bene. E adesso mi ritrovo assuefatta in piena crisi di astinenza. Un desiderio sottile come un filo di metallo sotto una pelle trasparente. Sempre presente. Un rumore di fondo alla colonna sonora della mia routine. Il primo e l’ultimo pensiero, quasi un oggetto da cui non separarsi mai. Deliziosamente insistente. Poi ci sono giorni come bolle. Quelli in cui magicamente riesci a sospendere le frequenze del pensiero e te ne accorgi solo quando qualcosa, piccole inezie innocue che erroneamente si sottovalutano, ti riposizionano sulla solita frequenza di rumore. L’ovatta si sfalda e insieme alle vene ritrovi il filo di metallo. Sì, io la pelle e lei il metallo. Sono mesi che non si fa più viva. Solo un orgoglio di mattoni duri mi salva dal prendere l’iniziativa. Certo le mie dita non sono le sue. Il calore della doccia non è il suo corpo. Ma il mio gioco è più coerente. Non si stanca mai di me, né io di lui. Da domani si torna ai vecchi tempi. B

18 | menO candide. l’uOmO in nerO di Siede a un tavOlinO, vicinO alla vetrina. Or-


Voci² La scatola verde. I ragazzi del mare p. 20 - La notte p. 21 Capelli p. 23

dina Senza QuaSi emettere ParOla. cOn lO SguardO cerca un OrOlOgiO aPPeSO a | 19


FedeRICA RoSA dUe RACCoNTI Un amore che non vuole concludersi con un addio. Una gioventù che vive fuoriosa.

La scatola verde Avrei usato quella scatola verde brillante, arrivata da chissà dove. Scelsi quella per riporvi tutti quegli stupidi oggetti di cui avevo intenzione di liberarmi, che volvo restituirgli durante l’ultimo saluto. Cianfrusaglie ormai: alcune foto, libri, cd, biglietti... quel genere di cose che si regalano o si prestano. Alcune erano di questo secondo tipo, ed erano dunque propriamente sue. Altre avrei potuto anche tenermele. Ma preferivo levarmele di torno, non averle continuamente sotto gli occhi. Riempii la scatola e la riposi nel cassettone, in attesa dell’ultimo saluto che, confidavo, avremmo sbrigato in fretta. Il giorno adatto sembrava avvicinarsi, ma poi tardava. Avevo già atteso inutilmente tre giorni quando decisi che quel libro, quello ricevuto a Natale, non potevo restituirlo. Sarebbe stato un gesto di pessimo gusto, patetico perfino, arrivai a pensare. Lo estrassi dunque dalla scatola verde e tornai a riporlo in quello che fino a pochi giorni prima era stato il suo posto sullo scaffale. Aspettai ancora, minuti, ore, giorni. L’ultimo saluto era lì lì per consumarsi, ma la sua ora indugiava. Nuovi dubbi mi assalirono sul contenuto della scatola verde. Rimisi il libro ma ne tolsi una foto, una sciocca foto in cui ad ogni modo sorridevamo troppo, non andava sbandietata così... Poi ritagliai un biglietto, una parte la tenni con me, un’altra larimisi nel pacco. E così passava il tempo, i giorni, le settimana, i mesi. L’ultimo saluto tardava inspiegabilmente e intanto quella stupida roba si frantumava sempre più sotto le mie dita: ora strappavo una pagina ad un libro, quella con la dedica, e la sottraevo al mucchio. Ora

Un attimo.

tagliavo una foto a metà e ora la ricomponevo. La scatola si riempiva e si svuotava, bulimica, di quei residui avariati di un amore finito, pronti per essere gettati via, oppure conservati o restituiti. Non lo sapevo più, ormai. Le parole dell’addio, quelle più belle, che chiudono i grandi film, non ce le siamo mai dette. Il giorno dell’ultimo saluto è giunto e trascorso senza che ce ne accorgessimo. Restiamo ognuno con i propri cimeli marciti a decomporsi ancora, lentamente, in un angolo del mobile. B

I ragazzi del mare Non si sarebbe potuto dire con certezza quanti fossero. Ogni sera ne arrivavano di nuovi, ma tutti con quell’aria comune, taciturna, fiera, selvatica. Fumavano troppo e quando si presentavano si potevano sentire con chiarezza i calli sotto le mani. Guidavano come disperati e come disperati bevevano, pompavano la musica nelle casse, passavano le notti in bianco a festeggiare come cani ululanti alla luna. Correvano come matti per le vie del paese e, quando si erano trovati tutti e non mancava nessuno, allora aveva inizio la nottata randagia. Alcuni camminavano a piedi nudi lungo le strade bianche che scendevano al mare, sulle pietre e i cespugli spontanei. Si buttavano in acqua in mutande. TI giravi e lo stavano correndo sul mare, guaendo come animali giovani. Avresti voluto unirti a loro nella danza attorno al fuco, ma tu il giorno dopo non dovevi posare mattoni. A te la pioggia non avrebbe portato che fastidi. Loro speravano potesse sospendere per un giorno il lavoro, a cui si sarebbero altrimenti presentati con due ore di sonno alle spalle e un pacchetto di sigarette rosse nei polmoni. Quel gioco non ti apparteneva

20 | un murO. lO trOva e nOn Stacca gli OccHi dalle lancette. gli attimi SFuggOnO.


né la scogliera sotto cui aspettavi l’alba con loro, né le urla sguaiate e ubriache dei loro cori stonati. La loro lingua era secca e rabbiosa, antica e oscura. Forse festeggiavano la magrezza dei loro corpi maschi e forti, la giovinezza delle ossa salde. Di fatto non piovev mai, le notti si succedevano sempre più allucinate e così i giorni. Il branco si allar-

gava e si disperdeva, ritmicamente, continuamente. Li si poteva vedere alle prime luci del giorno fare la lotta scalzi in mezzo alla strada deserta, o a tarda sera, al bar del porto a bere birra decidendo una meta. Non li hai più rivisti. Ma sai che qualcosa di vivo ti manca quando ripensi ai ragazzi del mare. B

FedeRICA RoSA è un’apache incarnata in una figlia dei fiori e poi in una contadina dell’alto mantovano. Spera di rinascere donna anche la prossima volta.

LAMBeRTo M. AMAdeI LA NoTTe Una flanerie notturna che sa di disperazione, di ricordi, ma anche del ritrovar se stessi. È sempre una sensazione piacevolissima camminare per le strade della tua città di notte, quando tutti sono a dormire, con una leggera pioggia che ti scivola sulle spalle, e ripercorrere incessantemente le strade che conosci a memoria, che hai percorso un centinaio di volte da quando hai imparato a muovere i primi passi, e vedere le serrande dei negozi chiusi, i bar che sempre hai frequentato, con le luci spente, le case dei tuoi amici sempre uguali, i campetti di calcio pieni di erbacce, i muri della tua minuscola città ricoperti sempre da nuove scritte. È una sensazione magnifica, estasiante, che ognuno di noi può provare e riprovare in continuazione, ogni volta che vuole, ogni volta che dal cielo scende una leggera pioggerellina. Come adesso, come ho sempre fatto, per liberarmi dai problemi, dai fastidi della vita, per cercare e ricercare quel qualcosa che è andato perduto, per dedicarmi al mio rimuginare cupo, ai miei tormenti, ai miei rimorsi. Anche questa notte scendo nel pieno di una solitaria passeggiata notturna, per le solite vie, per le arcinote piazze, con un passo lento, lento ed estremamente regolare e preciso, con lo sguardo basso, fisso nell’asfalto grigio e gli occhiali completamente velati dall’acqua, che scende calma ed educata, mentre tutto intorno rimane in perenne silenzio, in un funereo meritato riposo. Sfioro le panchine bagnate, le statue antiche

svuotate da ogni potenza, i giardini disabitati, cammino calmo, cullato dalla pioggia, spinto ossessivamente dai ricordi funesti di quello sguardo, dalle immagini di quelle mani sottili e di quelle labbra rosa che mi regalano ancora scosse di vita e amabili carezze di conforto. Quegli occhi scuri e penetranti mi seguono ogni notte, mi assistono in ogni passeggiata solitaria, per quelle strade conosciute in ogni dove, con la pioggia eterna che bagna i capelli e oscura la vista, in compagnia dei lamenti di pochi uccelli senza casa, assieme a qualche gatto malinconico e solitario che cerca qualcosa che non trova mai, in un mare di emozioni indefinibili che si mescolano ad un rancore represso. Una panchina dietro l’altra, un muro dietro l’altro, tutto scorre monotono nel camminare sconsolato nella notte. Mi siedo come al solito su quel muretto rovinato, a fianco del cinema di sempre, nella consueta posizione, ma questa notte c’è qualcosa di diverso, di inconsueto: un colombo morto, bellissimo, con un rivolo di sangue che gli esce dal becco, in un’espressione di pace e tranquillità, di soave riposo, che occupa il mio posto di sempre. Una visione che mi sconquassa l’animo, che mi attira morbosamente. Avanzano pesanti i miei passi, lenti e regolari per la città. I ricordi dei luoghi dove rivedo le nostre risa, i nostri scherzi stupidi mi attraggono violentemen-

lui aSPetta. dei ragazzi cHe giOcanO a un videOgiOcO rumOrOSO gli FiSSanO l’Om-| 21


LAMBeRTo M. AMAdeI vive a verona da 24 anni, studia lettere. e odia le biografie, anche quelle brevissime.

te. Giro per le stesse direzioni di quel passato così lontano, ogni notte; ricerco quegli istanti, infranti per sempre, nel calore della pioggia cittadina, avanti e indietro da quella finestra, avanti e indietro da quella fievole luce di quella casa. Muoio ogni notte, muoio ogni volta che passo sotto quella finestra, colpito da quella brutale luce di ricordi, schiacciato da quell’ombra delicata, crudele, che mi ha derubato, che mi deruba ogni giorno, ogni notte che esco di casa appena comincia a piovere, ogni vol- ta che i miei pesanti passi ripercorrono quella strada buia, familiare. Il ricordo di quel bacio infinito di quel giorno d’estate, appoggiati a quel muro, l’innocenza del primo sorriso mi strappano la vita ogni istante che vivo, ogni secondo che respiro; le carezze senza sonno di quelle interminabili notti a guardare silenziosi da quella finestra; le corse sotto la pioggia; i batticuori delle prime volte; le corse sotto la pioggia incessante! Tutto svanito, rimane solo quella scritta sopra al muro che ogni notte la pioggia si ostina a sbiadire; rimane quel continuo passeggiare per la città addormentata e spossata che non consola, rimangono i soliti negozi, i bar di una vita, i muri eterni, rimane quella luce lontanissima. Rimane l’ostinazione, che ti permette ancora di camminare e di sfiorare quelle vecchie panchine in quei giardini disabitati , rimane l’estenuante domandarsi del perché di un abbandono così crudele, improvviso, mortale. Ma stanotte c’è anche la voce del fiume che volteggia nell’aria. Il fiume regale che scorre per le antiche case della città appare saggio, consolante; il suo suono richiama dolcemente, culla nel suo letto, trasporta già con sé il piccolo colombo. Conduce per la sua strada maestra e sicura, sotto ponti sereni, in una dolce melodia di quiete naturale, consola l’animo quando tutto intorno è buio e silenzioso, richiama il cuore dall’oscurità, il mio cuore dalla vita. Questa volta nella monotonia di sempre, sotto la pacifica pioggia notturna della città, quel fiume sussurra qualcosa, sussurra lieve alle mie orecchie, e spegne per sempre quella fievole luce di quella finestra. B

Un attimo.

Muoio ogni notte, muoio ogni volta che passo sotto quella finestra, colpito da quella brutale luce di ricordi.

22 | BrellO. deve eSSere PazzO a POrtaSelO aPPreSSO, malignanO.

cielO PlumBeO. nu-


FILIPPo GReCCHI CAPeLLI L’umanità si costruisce barriere insensate per paura dell’altro. Ma l’amore le abbatte.

Giulia non riusciva a staccare gli occhi da quella zazzera di capelli neri, due file più avanti. Romeo, di tanto in tanto, si voltava per guardarla e sorriderle. Entrambi facevano del loro meglio perché i professori e i compagni non li notassero in atteggiamenti equivoci. Il padre di lei non avrebbe mai approvato la loro relazione, e lui ben si guardava dall'accennarlo ai propri genitori. Qualche anno prima, in un periodo di ribellione, si era ossigenato i capelli: fu una catastrofe. “Perché devi mettere me e tua madre in imbarazzo?”, sbottò suo padre. “Ti sei schiarito per andare con le bionde, vero? Tu sei moro e a te devono piacere le more, non quelle sciacquette sbiadite! Oh... ora tutti penseranno che abbiamo un figlio invertito!” frignò sua madre. “Sei contro natura,” rincarando la dose. Ai tempi Romeo pensava già alle trecce dorate di Giulia, sentendosi sporco e in imbarazzo nel provare una forte attrazione nei confronti di una ragazza dal colore dei capelli così diverso dal suo. Tuttavia non riusciva a capire cosa ci fosse di sbagliato, era profondamente disorientato e confuso. Temeva di essere giudicato e deriso, di venir cacciato di casa. Ma lei gli piaceva da morire. Qualche giorno dopo si ripresentò dallo strano parrucchiere dai capelli zebrati per farsi radere a zero. Fu Giulia a notare le insolite attenzioni di lui e non le ci volle molto per decidersi a rivelargli i sentimenti che le bruciavano dentro da quand’erano ancora bambini. Aveva superato la fase della costernazione già da un po' e ora viveva nel limbo dell’attesa e nel timore di essere scoperta ed emarginata da amici e famiglia. Si era però accorta di una cosa, la percepiva nel profondo dell'animo, radicata tra le certezze più solide. Sapeva che non vi era nulla di sbagliato in lei, nessun errore. Romeo e “Giulietta”, così la chiama affettuosamente lui, si incontrano di notte, in un piccolo pub di periferia dove a nessuno importa del colore dei tuoi capelli. Si tengono per mano e si baciano, al sicuro nella loro piccola oasi felice, chiedendosi perché il mondo debba odiarli quando la loro colpa è una sola. Quella di amarsi.

Un attimo.

La loro colpa è una sola. Quella di amarsi

FILIPPo GReCCHI, appassionato di videogiochi, fantasy e serie tv, scappa di casa a 19 anni verso la "grande milano", in cerca di fortuna. ci vive ancora e fa il web developer, anche di Bartleby.

B

BARTLEBy | ANNO 3, N. 2 | direttore Paolo Armelli | vicedirettore Roberto Avesani | hanno scritto Dario Accolla, Lamberto M. Amadei, Klizia Baldisserotto, Cara Catasfrofe, Mariapaola Fustini, Daniela Giambrone, Filippo Grecchi, Federico Novaro, Federica Rosa | web developer Filippo Grecchi | foto di copertina Angelica Lazzaro | Licenza Creative Common Attribuzione - Non commerciale-Condivi allo stesso modo (Si possono copiare tutti i materiali a patto di citare autore e fonte, non per fini commerciali e applicando la stessa licenza.) | prossima uscita gennaio 2014 | www.bartlebymag.it

vOle gravide di PiOggia. di FrOnte alla PancHina arriva un BuS. la dOnna Si al- | 23


Folio Qualche anno fa, in una fredda mattina di febbraio, al mercato dell’usato in Place du Jeu de Balle a Bruxelles, Federico novaro trova, nascosto sotto neve, stoffe e altri libri, un album fotografico raro. Non era la rilegatura o la fama del fotografo a renderlo prezioso: quell’album raccoglieva le foto scattate durante le vacanze estive agli inizi degli anni ’50 - di una coppia di giovani uomini. Di loro non sappiamo nulla. Li vediamo. L’estate scorsa Novaro ha iniziato a sfogliare in rete l’album, analizzandolo fotografia per fotografia, didascalia per didascalia, nel tentativo, affettivo, di tracciare delle ipotesi su di loro e sul loro amore. Questo è Summer love.

24 | za, Fa un PaSSO e POi Si Ferma. il BuS riParte. il ventO gOnFia il FOulard FinO a


Le immagini sono mute ai nostri occhi se già qualcosa ch’è in loro non ci è conosciuto. In un album dei ricordi di una coppia sono pochissimi gli indizi che possiamo – fuor di dubbio - inanellare per tentare di ricostruire se non una storia almeno qualche linea, qualche ipotesi. Perché gli album dei ricordi sono delle rappresentazioni di sé rivolte a sé e tutte le informazioni sono già conosciute e condivise, da chi fotografa e da chi guarda le fotografie. Chi sono i due giovani uomini ritratti nelle foto di quest’album? Non lo sappiamo.

FarlO vOlare al centrO della carreggiata. lei lO inSegue. in Quell’iStante un | 25


La prima fotografia che li vede insieme li ritrae impacciati sul bordo dell’immagine quasi a nascondersi come vero soggetto. È un autoscatto, come molti che seguiranno. Lo sfondo è ancora importante, come volendo fingere sia il vero soggetto della fotografia, che sono invece – noi lo sappiamo - i loro sguardi. Sguardi che anche loro hanno visto solo dopo aver stampato la fotografia. Solo allora, come noi ora, hanno visto ciò che già sapevano: l’amore.

26 | aQuazzOne SOmmerge la città. cielO PlumBeO. nuvOle gravide di PiOggia. l’uO-


Molte delle fotografie dell’album sono scattate sulle dune del mar del Nord, fra Belgio e Olanda. Le fotografie sono spesso commentate da didascalie ironiche, scherzose, anche sciocche, per questo intenerenti. Di fotografia in fotografia il carattere dei due giovani uomini si rivela, in piccolissimi gesti, nell’impaccio via via svanito degli sguardi. Vivono insieme? O la loro unione quotidiana dura solo lo spazio d’una vacanza? Non lo sappiamo.

mO eSce dal Bar di Fretta. Se ne Sta rigidO in Piedi. POi d’imPrOvviSO Si dirige | 27


Vestiti spesso uguali i due amano le passeggiate, la vita all’aria aperta. In un Paese devastato dalla guerra ch’è finita da solo sei anni, la loro gioventù e la forza felice che esprimono i loro corpi si muovono in uno scenario ch’è quasi sempre naturale, mai cittadino. Sono gli anni ’50, dopo il nazismo resta il perbenismo a rendere una coppia di maschi oggetto di scandalo, e le leggi, sovente. L’album sembra nascondere il mondo per consegnare alla memoria solo la loro felicità.

28 | al centrO della Strada. in Quell’iStante un acQuazzOne SOmmerge la città.


Quanti anni hanno? Come si sono conosciuti? Di dove sono? Che lavoro fanno? Di che classe sociale sono? Chi sono le loro famiglie? In che città abitano? Abitano insieme? Chi sviluppa queste foto che raccontano del loro amore? Chi sono uno per l’altro agli occhi del loro mondo? Da quanto si conoscono? Sono ancora vivi? Sono morti? Perché quest’album è finito al mercato delle pulci? Chi sono André e Milo?

Summer Love continua su federiconovaro.eu/summer-love

avevanO SemPre SaPutO cHe Si SareBBerO incOntrati cOSÌ, SOttO Quell’OmBrellO. | 29


Fine.


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