La Rassegna d'Ischia

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Anno XXXIII N. 2 Marzo / Aprile 2012 Euro 2,00

Politica Il sindaco, l’attitudine al comando, e l’alternativa civile all’ammucchiata

Napoli 1799 La prima rivoluzione per l’Unità d’Italia

Fonti archivistiche

Michel Semënov l’uomo chiave dell’emigrazione russa nel Meridione

I luoghi sacri di Panza, Lacco e Casamicciola

Ischia Ponte - Borgo di Celsa Lo Scuopolo - Torri e altre ricerche Periodico di ricerche e di temi turistici, culturali, politici e sportivi Dir. responsabile Raffaele Castagna


La Rassegna d’Ischia Anno XXXIII - N. 2 Marzo/Aprile 2012 Euro 2,00 Periodico di ricerche e di temi turistici, culturali, politici e sportivi Editore e Direttore responsabile : Raffaele Castagna

La Rassegna d’Ischia Via IV novembre 25 - 80076 Lacco Ameno (NA) Registrazione Tribunale di Napoli n. 2907 del 16.02.1980 Iscritto al Registro degli Operatori di Comunicazione n. 8661.

Stampa : Press Up - Ladispoli (Roma)

Sommario 2 Il concorso dell’Ischia Film Festival

3 Politica Il sindaco, l’attitudine al comando.... 5 Rassegna Premi

6 Ex libris

- Il Forastiero di G. C. Capaccio - Lettere da Ischia del 1825

11 Fonti archivistiche I luoghi sacri di Panza, Lacco e Casamicciola 17 Rassegna Libri 21 Poesia di donne nel Castello incantato

22 “Dalla Casa Malcovati” Pittrice moscovita ad Ischia

23 Ischia Ponte - Borgo di Celsa Lo Scuopolo - Torri e altre ricerche 35 Sensazioni ed emozioni dalla Bolivia (III)

41 Napoli 1799 La prima rivoluzione per l’Unità d’Italia

48 Michel Semënov l’uomo chiave dell’emigrazione russa nel Meridione 51 Il Maggio dei libri 2012

52 Poetici itinerari ischitani Forio: Santa Maria del Monte

53 Propaganda di Ischia nel mondo L’isola dell’eterna giovinezza

Al via il concorso dell’Ischia Film Festival
 Si terrà dal 30 giugno al 7 luglio 2012 la decima edizione dell’Ischia Film Festival, concorso cinematografico internazionale dedicato alle opere che abbiano valorizzato il territorio attraverso la scelta delle location. All’interno della manifestazione sono previsti anche tre giorni di convegni e mercato dedicati alle location cinematografiche dal titolo Borsa internazionale delle location e del Cineturismo. Da quest’anno è disponibile sul sito ufficiale del festival (www.ischiafilmfestival.it) l’entry form per l’iscrizione delle opere direttamente dal web. Inoltre per tutti gli utenti della piattaforma MoviBeta è disponibile anche la pagina d’iscrizione on-line dedicata all’Ischia Film Festival. Possono partecipare al Festival Lungometraggi, Documentari e Cortometraggi, italiani ed internazionali, proiettati per la prima volta al pubblico nel 2011 o 2012, che abbiano dato particolare rilevanza alla location che fa da sfondo all’opera o all’identità culturale del territorio narrato. Il festival non assegna premi in denaro ma, grazie ai suoi sponsor tecnici, saranno a disposizione dei vincitori uno sconto sull’acquisto di pellicola 16mm o 35mm offerto dalla FujiFilm e lo sviluppo e telecinema SD, pari ad un valore di 1.500, dalla Augustus Color, oltre ovviamente all’invito ad Ischia per la cerimonia di premiazione. La Deadline per l’iscrizione è fissata per il 30 aprile 2012. * Le opinioni espresse dagli autori non impegnano la rivista La collaborazione ospitata s’intende offerta gratuitamente - Manoscritti, fotografie ed altro (anche se non pubblicati), libri e giornali non si restituiscono - La Direzione ha facoltà di condensare, secondo le esigenze di impaginazione e di spazio e senza alterarne la sostanza, gli scritti a disposizione. conto corrente postale n. 29034808 intestato a Raffaele Castagna - Via IV novembre 25 80076 Lacco Ameno (NA) www.larassegnadischia.i www.ischiainsula.eu info@larassegnadischia.it rassegna@alice.it


Politica

Il sindaco, l’attitudine al comando e l’alternativa civile all’ammucchiata di Giuseppe Mazzella

Sono cominciati i fermenti nei Comuni dove si voterà per le elezioni amministrative il prossimo 6 maggio – Ischia, Casamicciola, Lacco Ameno e Barano – per la formazione delle liste e soprattutto per la scelta del candidato alla carica di Sindaco. La nuova normativa – in vigore da 19 anni, cioè dal 1993 – sull’elezione diretta del sindaco e del presidente della Provincia, introdotta con la riforma Segni dopo la stagione referendaria ed il crollo dei partiti della cosiddetta prima Repubblica, invece di migliorare il sistema istituzionale italiano, lo ha fortemente peggiorato. Infatti è stato istituito un “presidenzialismo” a livello di enti locali, mentre è rimasto un ”parlamentarismo” a livello nazionale sulla “nomina” del Presidente del Consiglio. Nonostante tutti i tentativi e le proposte di modifiche, la nostra Carta Costituzionale non è stata cambiata in senso “presidenziale” o “semipresidenziale”. Nonostante quella “leggina” che con superficialità fu firmata dal Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, che consentiva di apporre un nome su un simbolo elettorale e grazie alla quale Berlusconi ha propagandato di “essere stato eletto dal popolo”, il Presidente del Consiglio in Italia è nominato dal Capo dello Stato e non è eletto dal popolo. L’ Italia è ancora una “Repubblica parlamentare” e non “presidenziale” all’americana o “semipresidenziale” alla francese, e quindi ritengo che impropriamente , dopo il crollo dei vecchi partiti nel 1992, si parla in Italia di “seconda Repubblica” mutuando la numerazione dai francesi che sono già alla Quinta avendo adottato dal 1789 cinque carte costituzionali.

Mentre non è stata attuata una modifica costituzionale della Repubblica per l’elezione del Capo dello Stato e del Presidente del Consiglio dei Ministri, è stato attuato un “presidenzialismo” a livello di Comuni dopo circa un secolo di “parlamentarismo”. Infatti fino al 1993 – prima con la vecchia legge comunale e provinciale del 1934 e poi con la legge 142 del 1990 – il sindaco veniva eletto, all’interno del Consiglio Comunale, dalla maggioranza dei consiglieri così come la Giunta. Il popolo veniva chiamato solo ad eleggere il Consiglio Comunale. Sindaco e Giunta costituivano i due organi dell’Esecutivo. La legge del 1993 – approvata sulla scia referendaria – invece conferisce al popolo l’incarico di eleggere il Sindaco e trasforma la Giunta in un “organo tecnico” dello stesso sindaco ed il Consiglio Comunale ha solo una funzione di indirizzo e di controllo. Il Consiglio Comunale a maggioranza può revocare la fiducia al sindaco ma in questo caso scioglie se stesso e si va di nuovo a votare.

La nuova legge sull’ elezione diretta del sindaco aveva come obiettivo di assicurare maggiore stabilità amministrativa evitando crisi continue dell’esecutivo, ma le cose non sono andate proprio così. Il sindaco eletto dal popolo si è spesso trasformato in un podestà di epoca fascista e si è sentito investito di una autorità assoluta ed i consiglieri comunali non hanno avuto potere di amministrazione, mentre gli assessori sono diventati persone di fiducia del sindaco, revocabili in qualsiasi momento. L’instabilità che la legge voleva eliminare con l’elezione diretta del sindaco si è trasferita a quella delle giunte ed addirittura delle maggioranze. Il sindaco d’Ischia G. Ferrandino in 4 anni ha cambiato sei giunte e termina il suo mandato con una maggioranza diversa da quella da cui è stato sostenuto alle elezioni. Altrettanto ha fatto il sindaco di Casamicciola V. D’Ambrosio che ha cambiato cinque o sei giunte ed anche due o tre maggioranze. Il sindaco di Lacco Ameno, Tuta Irace, conclude il suo mandato con

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una maggioranza diversa e con la formazione di due o tre giunte. La legge sull’elezione diretta del sindaco non ha favorito né la stabilità, né l’efficienza amministrativa, né la trasparenza sugli atti amministrativi con la completa disapplicazione di fatto della legge 241/90 con l’enorme corollario delle società “partecipate” di diritto privato che ha permesso il più spudorato clientelismo con l’abolizione dei controlli amministrativi facendo rimpiangere i pur lottizzati Comitati Regionali di Controllo. Infine la legge non ha favorito la rinascita vera del sistema dei partiti senza il quale non può rinascere una passione politica. Nella Città d’Ischia si è realizzata una “grande ammucchiata” fra i consiglieri del PD e del PDL voluta dal “pidiellino” Ferrandino e dal “pidiellinoelle” De Siano (il lettore mi perdonerà per la terminologia di questi tempi perché una volta ci si poteva definire con più chiarezza semantica come liberali, socialisti, comunisti, democristiani, missini e così via). Questa “ammucchiata” non è stata votata da nessuna assemblea di partito come esistevano un tempo e risulta risibile la giustificazione del commissario provinciale del PD Orlando che ha annunciato, venendo ad Ischia ad avallare questo accordo ingiustificabile ed incomprensibile dalla elementare logica politica e dalla stessa Scienza Politica che si studia nell’omonima facoltà universitaria, una “campagna di tesseramento” ed una “conferenza programmatica, come se le conferenze programmatiche si facessero “ex post” e non invece come si debbono fare “ex ante” gli accordi politici. Non si può dare la dignità della Politica ad accordi del genere. Poiché la politica ha raggiunto questi livelli di degrado culturale, è conseguenza logica che la scelta dei candidati sindaci-podestà non avviene più alla luce del sole, nelle assemblee pubbliche con la partecipazione 4

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dei cittadini iscritti o meno ai partiti nuovi della cosiddetta seconda Repubblica, ma con incontri più o meno segreti, con accordi fra persone non su idee e programmi politici ma sul grado di conoscenza, di affidabilità, di personale fiducia per la gestione di un potere. Non c’ è nemmeno un dibattito pubblico sui giornali locali e su quelli telematici sui problemi dei nostri Comuni e sulle possibilità e le maniere di risolverli e, cosa molto triste, c’è un drammatico disinteresse per la politica da parte dei giovani che sono probabilmente spaventati per il futuro e vedono solo nella famiglia – nei padri e nelle madri – il baluardo di difesa da questo mondo spregiudicato, realizzato in vent’anni di sfrenato liberismo che ha premiato il più furbo ed il più forte. «Non c’è futuro per l’ Italia senza la rigenerazione della Politica e della fiducia nella Politica» ha detto il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel suo messaggio agli italiani per la fine dell’anno 2011. Ma la classe dirigente – ad ogni livello dal Parlamento ai nostri piccoli Comuni – lo ha colto? Le vicende politiche che stiamo vivendo nella nostra piccola comunità favoriscono il recepimento di questo alto messaggio? Non sembrano queste belle parole gettate al vento? Come è avvenuta o sta avvenendo, la scelta dei sindaci-podestà nei nostri Comuni? Come si sceglie un candidato alla carica di sindaco in una desertificazione politica così tragica? Quali dovrebbero essere le caratteristiche per un leader politico e come si forma un leader? La giornalista Barbara Spinelli ha scritto per La Repubblica, mercoledì 25 gennaio 2012, uno dei suoi magistrali articoli-saggio dedicato alla capacità di comando, prendendo occasione dalla tragedia della Costa Concordia. «Ci viene spesso dalle esperienze di mare, perché il mare ha baratri imprevisti e quindi ferree leggi, la sapienza del comando». «Il comando non è solo imperio

della legge, rule of law. C’è un elemento aggiuntivo, che nasce dal carisma (la gravitas degli antichi latini) che il comandante possiede o non possiede. In democrazia è dura arte anche per questo, perché la gravitas ha qualcosa di aristocratico, di insensibile: la schiviamo, se possibile, invece ce n’è bisogno, perché sempre possiamo incrociare una crisi, un’emergenza, ed è qui che servono le forze congiunte del comando, dell’imperio della legge e del carisma». Secondo la Spinelli – che cita Joseph Conrad e Federico Fellini – il nostro attuale premier Mario Monti è «aiutato dalle virtù del comando: la gravitas, il rispetto meticoloso delle istituzioni, l’autorevolezza che accresce l’autorità dandole sostanza. Lo aiuta la vocazione a tenere i conti e a chieder conto». I sindaci eletti dal popolo dovrebbero avere tutti questa gravitas, questo carisma, questa responsabilità enorme di guidare una nave in tempesta che deve avere un equipaggio di prim’ordine chiamando tutti alla responsabilità che è obbligo di ciascuno, governanti e governati. Se si cominciasse a scegliere il candidato alla carica di sindaco – ritornato ad essere il primo cittadino, cioè il “primus inter pares” e non il vecchio podestà – con queste caratteristiche e con questi valori forse l’ammonimento del Presidente Giorgio Napolitano pronunciato l’ultimo dell’anno con estrema decisione potrebbe cominciare ad essere praticato. Una risposta dovrà essere data soprattutto nella Città d’Ischia, ma anche a Casamicciola, a Lacco Ameno e Barano, con una alternativa civile capace di rigenerare la Politica e di “dare fiducia alla Politica” con una grande passione programmatica, anche per avviare una finanza di territorio capace di dare prospettive di sviluppo e di occupazione ai nostri giovani che debbono riconquistare la fiducia e la speranza nella Democrazia Politica. Giuseppe Mazzella


Premio Letterario “Maria Francesca Iacono”

Rivista Letterria, periodico di critica letteraria e cultura varia, edito e diretto

da Giuseppe Amalfitano, organizza la XXIII edizione del Premio Letterario di Poesia “Maria Francesca Iacono”. Si concorre inviando n. 1 (una) lirica edita o inedita, in lingua italiana, non superiore a 40 (quaranta) versi (i lavori che superano tali indicazioni non saranno presi in considerazione da parte della giuria) in uno dei due modi seguenti: a) con plico raccomandato con ricevuta di ritorno (non si risponde degli smarrimenti postali) alla Segreteria di Redazione di Rivista Letteraria - Corso Garibaldi, 19 (ex 15) 80074 Casamicciola Terme (Napoli) in numero di 4 (quattro) copie dattiloscritte, di cui una dovrà recare in calce nome, cognome e indirizzo (è gradito anche l’indirizzo e-mail) dell’autore ed, eventualmente, il numero di telefono, nonché la dicitura “Autorizzo la eventuale pubblicazione su Rivista Letteraria “ che dovrà essere seguita dalla firma per esteso e leggibile dell’autore; b) tramite e-mail al seguente indirizzo: premio.mf.iacono@rivistaletteraria.it indicando nome, cognome, indirizzo completo e numero di telefono dell’autore. Scadenza: 31 maggio 2012 (farà fede la data del timbro postale o della email). La partecipazione al concorso è completamente gratuita. Premi: All’Autore primo classificato verrà inviato gratuitamente quanto segue: n. 10 (dieci) copie del numero di Rivista Letteraria con la pubblicazione del lavoro vincitore; un artistico diploma in pergamena. La partecipazione al Concorso implica l’accettazione di tutte le clausole del presente regolamento, consultabile su: 
www.rivistaletteraria.it ---- 
e-mail: rivistaletteraria@infinito.it

Premio letterario

“Nessuno è straniero”

I periodici Rivista Letteraria e Eurogiivani Agimi organizano la seconda edizione del Premio letterario Nessuno è straniero. Si concorre inviando n. 1 (una) Poesia (edita o inedita, in lingua italiana, non superiore a 40 versi) oppure un Racconto Breve o Novella (editi o inediti, non superiori a 5 cartelle dattiloscritte o scritte al computer su una sola facciata, formato A4) in numero di quattro copie, di cui una dovrà recare in calce nome, cognome e indirizzo (è gradito anche l’indirizzo e-mail) dell’autore ed, eventualmente, il numero di telefono seguiti dalla dicitura “Autorizzo la eventuale pubblicazione su Rivista Letteraria e Agimi “ e la firma per esteso e leggibile dell’autore. I lavori che superano tali indicazioni non saranno presi in considerazione da parte della giuria. Si può anche partecipare inviando sia una poesia che un racconto breve o novella.

Tema fisso: Per una letteratura dell’accoglienza - Immigrazione e Accoglienza. Per la partecipazione al concorso non è prevista alcuna tassa di lettura ma solo un versamento (collegato ad ogni singolo lavoro inviato) a favore dell’accoglienza dei profughi, ospiti di Agimi Eurogiovani, di € 10,00 (dieci/00) da versare sul ccp 527739 intestato a AGIMI via degli Eroi, 1 – 73020 Carpignano Salentino (Lecce), la cui ricevuta dovrà essere allegata al plico raccomandato o alla e-mail. Ogni partecipante dovrà inviare il materiale (indicando chiaramente Premio “Nessuno è straniero” ), con la ricevuta del versamento, entro il 30 aprile 2012. Premi:
 al 1° classificato Euro 500,00 (cinquecento/00), in memoria di Anna e Tobia Colavero, genitori di don Giuseppe (fondatore di Agimi Eurogiovani), e pubblicazione del lavoro su Rivista Letteraria e Agimi; 
al 2° classificato Euro 200,00 (duecento/00) in memoria del Canonico Teologo don Vittorio Iacono

Liriche di Giovanna Canelli Compleanno Un profumo di fiori, fiori, fiori, tanto intenso che stucca, tanto [ denso da levare il respiro: quante rose e ciclamini e pervinche e verbene e violette in perfetto concerto nella mia vasta serra-cappella! Già mi vedo distesa, così bianca, immota ed indifesa. Amici cari, grazie dell’infiorato compleanno: invero è stata “Prova generale”.

Casa, dolce casa A mezzo il promontorio detto Vico, sopra la strada che s’incurva e [ allarga in favoloso belvedere (ormai declassaro a posteggio [ d’automobili) s’erge bianca e fiabesca la mia casa, fra pini, lecci, strelizie, carrubi, incantato giarino a far cornice. La matita di Ugo Cacciapuoti tracciò sul foglio bianco, in un [ lontano meriggio d’arte e fantasmogoria il profilo gentile della casa che fu subito mia, caro architetto. Casa rifugio. Casa, dolce casa.

(sacerdote della diocesi di Ischia, fervente sostenitore dell’accoglienza dei profughi) e pubblicazione del lavoro su Rivista Letteraria e Agimi. 
- Sono previste targhe ricordo e pubblicazione per lavori eventualmente segnalati. I premi vanno ritirati di persona durante la cerimonia di premiazione che si svolgerà presso la sede di Eurogiovani Agimi in Maglie (Lecce), in data da stabilirsi che verrà comunicata agli interessati per tempo. Regolamento completo sui periodici Rivista Letteraria e Agimi (che sono i soli ed unici organi ufficiali per tutte le notizie relative al Premio: bandi, risultati ecc.) e sui siti Internet www.rivistaletteraria.it e www.agimi.org La Rassegna d’Ischia n. 2/2012

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Ex libris

Il Forastiero – Dialogi di Giulio Ce-

sare Capaccio (1552-1634), accademico otioso, nei quali, oltre a quel che si ragiona dell’origine di Napoli…, si tratta anche dei re che l’han signoreggiata, e la signoreggiano…, sito e corpo della città con tutto ‘l contorno da Cuma al promontorio di Minerva, varietà e costumi di habitatori, famiglie nobili e popolari…. - Napoli 1634. (...) Cittadino - Comincia ad abbellire il sito di Napoli la bellissima isola d’Ischia, che posso chiamar capo occidentale della Cratera, della quale disse Filostrato nell’Imagini, ch’è sicura, munita dalla natura, fluida, e c’ha un vertice dal quale Nettuno è fatto specolatore di tutto il contorno. E vi aggiunge che ‘l foco ha penetrato tutti i suoi meati, et accesa in maniera che non vi si vede altro che fiumi focosi, asfalto e solfo, e che essendovi ributtato il gigante Tifeo, gli fu posta addosso tutta l’isola, come Sicilia a Tifone. E per che da un monte si mandano sempre folgori contra quello, è di opinione che sopra vi habiti un drago, custode di un tesoro che là sta sotterrato. Forastiero - E pur si sta col pensiero ai tesori, pazzie degli homini. Cittadino - Io per me credo che i tesori di quell’isola siano tante acque medicate, che per l’humane infermità vi conserva la natura; che per ciò l’istesso ancora la chiama isola d’oro, bella et a tutti ammirabile. Et in vero è così, e tale la conoscono i napolitani, non solo per li bagni miracolosi, che nel tempo dell’està conoscono utilissimi, e massime dal tempo che quel valente medico Giulio Iasolino li pose in conditione, e con la diligenza ritrovò molti altri delli quali non si havea cognitione; ma per la copia di frutti delicatissimi, et eccellenza di vini che si traficano per tutto, con somma lode di Bacco che vi piantò quelle viti. Forastiero - Vorrei sapere che nome è questo d’Ischia. Cittadino - La curiosità è bona, per che il nome è curioso. Ischia significa fortezza appresso i greci, i quali per ciò, medesimamente con questo nome, chiamano la cossa humana, onde par che venne il nome alla famiglia Cossa che fu padrona dell’isola, la quale è una delle bone fortezze d’Italia. Ma tiene pur altri nomi; detta Enaria, da Enea che vi si fermò, che ‘l racconta Plinio, assai differente da quel loco Enario in Egitto, commemorato da Strabone, dove gli Egizi consultavano le cose della Republica. Inarime et Arime, come la chiamò Homero, dalle scimmie, che in lingua etrusca si dicono arimi, che perciò fu da’ greci detta Pitecusa, nome che significa quegli animali. Forastiero - Mi diceste l’altro giorno, che mai non furono questi animali in quest’isola, ma che fu così detta dalla creta, con l’istesso significato appresso i greci. Cittadino - Confirmo l’istesso; e che non è vero quel che scrisse Licofrone, che dov’era il corpo del Gigante, Giove 6

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mandò una nave di scimmie, in opprobrio per la deformità di quelle, ma che della copia della creta, sia detta Pitecusa, e tanto tempo è che i napolitani si servono di quella per li mattoni della città, c’hoggi sono convertiti in pietre per far minore la spesa, e che più duri il lastricato delle strade, così frequentate da carri, carrozze, cavalli, che consumarebbero qualsivoglia dura materia. Forastiero - Mi piacete assai. Cittadino - Gira l’isola deceotto miglia; vi sono deceotto promontorii, che scorrono in mare con molta piacevolezza; dieci porti, che chiamano scogli; monti, Epomeo, c’hoggi dicono di San Nicola e Pontano disse Aboceto; di Custodia, Terzana, Capimonte, Belvedere, Stabia, Marontio, San Pancratio, Testa, Casacumano, nei quali o sono biade, o sono amene valli, o acque nitrose, utilissime agli infermi, a maturar e far bianchi i lini, et a far belli gli habitatori, o salubrità d’aria, o caccia nobilissima di faggiani, conigli e lepori, o selve nobilissime di castagne; in quelli che scorrono al mare, celebre pesca di ragoste. Negli orti sono quei saporitissimi cardi, che nudriscono i carcioffi. In molti lochi, vene d’oro. Nei laghi, quelle foliche che sono più delicate dei faggiani; nei cespugli, legna ai poveri; nelle rupi, vene di ferro; nei lidi, arena nera che tira la calamita; nel mare, pescaggione d’ogni qualità di pesci. Negli habitatori, bona nobiltà, che già ho detto che ci sono annoverate Cossa, Salvacossa, Melusa, Incerbera, Mansa, Navarra, Innarza, Torella, Capice, Lamberta, Palagana, Afflitta, Infrisca, Rossa, Canetta, Grotta, Albana, Menga, Pescia, Amalfitana, Guarina, Martina, Pagana, Calasirta, Barbata, Galetosa, Manochia, Mano, Papa, Torre, Pappacoda, Gallicana, Monte, Assanta, Bonomini et altri, che fan conoscere quanto quest’isola deve preggiarsi in Europa. Ma negli ingegni, dicono che sia molta proclività alle risse. Forastiero - Bisognava che a tanta bellezza fusse qualche mancamento. Cittadino - Non voglio esagerar con voi la nobiltà dei vini di quest’isola, e provarete il Greco, lodato assai, il Latino, da non dispreggiarsi; il Sorbigno, che con una leggiera puntura molce il palato; non acquoso, ma in quella sostanza un poco crassetta, dolce, delettabile e che con un succo gratissimo costringe la bocca, il palato e la lingua, e che con un odor giocondo e con uno sottil spirito in quella crassitie, mostra quanto sia grande la sua virtù, che corrobora lo stomaco e nudrisce, né noce negli hipocondrii, né tenta il capo, ma passa subito alla vesica e provoca l’urina. Forastiero - Gran vino è questo; e voi molto vi compiacete. Cittadino - Io non sapeva queste virtù, ma me l’insegnò quel curioso scrittor, Baccio, e poi ne volsi far esperienza, e riuscì di molto gusto e profitto. Passando però da queste cose alla religione, sono in quest’isola molti conventi, uno però, di domenicani, pretende haver il corpo di santa Restituta, quella vergine e martire, c’havendo havuto molti tormenti in Africa per la fede di Cristo, ultimamente da Proculo, giudice di Valeriano imperadore, fu posta in una navicella piena di stoppa e pece, acciò quei che la conducevano la bruciassero


in mezzo al mare; et essendo il foco rivolto contra gli incendiarii, ella anco morì, stando in oratione, e per divino volere fu condotta dalla nave a quest’isola, dove Licinia, nobil signora, gli edificò un tempio; e poi dal Magno Costantino gli fu edificata quella chiesa che vi ho detta, nel Domo. Dal che, si giudica che quel corpo fusse transferito a Napoli. Forastiero - È cosa molto probabile. Cittadino - Pretendono anco havere il corpo di santa Oliva, e mi tiene dubioso, che nel Martirologio ritrovo due martiri di questo nome, una in Anagni, e l’altra in Palermo. Rimettiamoci alla verità. Quel che abbellisce ad ogni modo quest’isola sono i bagni, così preziosi per la salute humana, e i napolitani ponno farne fede, che ogni anno con l’esperienza li conoscono. Havrà circa trenta bagni, tutti utilissimi alle parti dei corpi humani, secondo il bisogno: e sono Fornello, Fontana, Castiglione, Spelonca o Scrofa, Gurgitello, Stomaco, Denti, Cotto o Caionche, Ferro, Oro, Argento, Cala Ombrasco, Colata, Sinigaglia, Bagnitello, Rete, Capitello, Santa Restituta, San Montano, Cetera, Agnone, Saliceto, Sant’Angelo, Nitroli, Succellario, Spiaggia Romana, Nitroso, Sasso, degli Horti; che accompagnati con sudatori et arenationi, miracolosamente par che sovvengano a tutte l’infermità, con mirabili operationi. Forastiero - Vi dico il vero. Questo negotio di bagni non so come cammini bene, perché molt anni ho osservato che gran parte, se non tutti, di quelli che sono andati a questi rimedii, vi hanno lasciata la vita. Cittadino - In questo, non bisogna far altro che pregar Dio che la mandi bona, i medici, che sappiano ordinarli, e gli infermi, che sappiano osservar le regole; che nel resto credo che siano utilissimi. E se bene una volta, andando al Conte di Benevento per dimandar licenza per uno degli eletti, che voleva andar a questi bagni, mi rispose: “Per che in Spagna non sono di questi bagni, e pur si vive?”. Tutta volta doverne tanto più lodar il sito di Napoli, c’ha questi beni. Forastiero - Senz’altro sono gratie particolari, concedute a diverse regioni. Cittadino - Vedete ch’è pur gran cosa, che spesso con questi bagni si rimedii a quartane, spurie e vere, hidropisie, dolori di testa, hipocondriaci, mal di pietra, nausea di stomaco, apopleptici, vesica, fegato, pulmone, a tirar fuora l’ossa infrante, intestini, ostruttioni di reni, scabie, disenterie, dolori di gionture, donne sterili, estrattione di ferro da corpi humani, mal francese, denti, mal d’occhi, d’orecchi; fronte, itericia, paralisia, tutti morbi freddi, tumori, vertigini, menstrui, asmatici, hemorroidi, dolori colici, e ciò che male può patire il corpo humano, con acque calde, salse, sulfuree, odorate, di color di latte, di ferro,76 di argento, mescolate con alume liquido, et ove si vede terra argillosa, con cenere, calce, gesso, le quali cose tutte sono di gran stupore. Forastiero - Così mi par di vedere, per tante maraviglie che superano ogni grandezza dell’arte di medicare. Cittadino - E tali sono certi lochi di sudatori e di arene calde, che con soave e moderato calore, con un fumo niente fastidioso, fanno effetti miracolosi, che chiamano Cacciotto, Frasso, Cotto, Sant’Angelo, Barano, e Testaccio et altri ancora, che sono molti, rimasti per far conoscere l’operationi grandi della Natura, e per dar questa grandezza al sito di Napoli, che per queste sole ricchezze, deve star in quella

stima in che non sono l’altre cità del mondo. Qual cità tiene intorno a lei, e così prossime, tante ricchezze? Ove sono tanti sussidii, così evidenti, a tante infermità che travagliano i corpi humani? Ma che dico? Vedrete in quest’isola tante utili barche, le quali sono d’altro profitto, nel commercio, che non sono le canoe di Cuba; altra continua e ricca pescaggione, che quella che là si scrivono di quel paese, simile all’anguilla, c’ha nel capo quel sacchetto di corio, che aprendo e chiudendo a suo volere, calato giù dentro mare, fa preda quanta vole; per che hanno più modi e più ingegni li pescatori d’Ischia di rubbare dal seno di Teti tutti i pesci che vogliono, che non mai trovarebbe curiosità di homo vivente. Che volete? Vagliono più i carcioffi d’Ischia, che tutta la Cassia dell’Isola Spagnola, o Cuba. Forastiero - Gran lodi sono queste che date ad Ischia. Cittadino - Sapete perché? Per che oltre ai doni della Natura, ha poi havuto gratia dal Cielo di esser raccomandata e donata dai re di Spagna, ai signori Marchesi di Pescara e del Vasto, c’hanno altra grandezza che non hebbero i re Caciqui dell’isole che vi ho nominate, e vaglia per trofeo immortale quella Costanza Davalo, madre di quei due fratelli valorosissimi et illustrissimi, signori l’un del Vasto, l’altro di Pescara, la qual lasciata da Federico Secondo in guardia di questa fortezza, egregiamente difese gli spagnoli, et inarborò con illustrissima fede lo stendardo degli Aragonesi, di maniera che in Costanza Davalo, fe’ prova quanto vaglia heroica costanza di fedeltà. Forastiero - La descrittione che fate dell’isola è una delle maggiori cose che possano leggersi nell’historie. Cittadino - Oh, che vi sarei troppo tedioso, se volessi narrarvi come re Alfonso, vincitore, cacciò di là gli antichi habitatori, v’introdusse i catalani, edificò quel mirabil castello; quel che vi occorse dominando Lucretia d’Alagni, e quel che seguì con Giovanni Torella, e i travagli che patirono gli isolani con quel fiero Ariadeno Barbarossa, e l’altre cose passate con gli Angioini; e se volessi commemorarvi le virtù di tanti dottissimi medici, della quale sempre l’isola fu produttrice, che un giorno legerete nell’Historia mia latina. Ma voglio finir con historia degna che si sappia dal mondo. In quest’isola nacque Fabio Orontio, molto virtuoso, ch’hebbe gran talento nella poesia volgare. Questo hebbe un grande amico, et ambidue amavano ardentemente una giovane, et ambidue con intentione di prenderla per moglie. Al fine accortosi della passion grande del rivale, chiamatolsi gli disse: «Non piaccia a Dio che voglia perdere un amico di tanti anni, col quale ho divisa l’anima mia; sia vostra la giovane e godetela, e la cedo, che a me sarà d’avantaggio, et goderò eternamente la vostra amicitia». E si baciarono. Forastiero - Grande attione per certo, e degna che si conservi nelle memorie degli homini. Questo fatto ha l’andar di quelli che si raccontano fra gli antichi. Cittadino - Discosto da quest’isola forse due miglia, è l’altra, non così grande; ma per quel che contiene, così preggiata come Ischia, c’ha nome Procida. Prochita detta da Stefano Dionisio Alicarnasseo, e dicono che fusse così detta, da una nudrice di Enea, che nel viaggio là morì; se ben Plinio il nega, e dice che fusse così detta, dalla voce greca che significa diffondere, come che per il terremoto fusse diffusa da Ischia e separata, come Cipro da Soria, Eubea da Boetia, La Rassegna d’Ischia n. 2/2012

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Leucosia dal promontorio delle Sirene. Mi ricordo però di haver letto nell’Origine della gente romana, che Enea vi sepelì Procita, sua parente, e vi si nota che vien confirmato da antichi scrittori, Volcatio et Aurelio Pisone. Forastiero - Bisogna ch’io vada un passo inanzi a voi, e vi dimandi se questa fusse quella che ‘l vostro Pontano chiamò Prochiteia, ninfa alla quale fa un vestito, che non havria dipinto Apelle più vago, in una dea maritima, o pure le donne Sidonie, celebrate da Homero, e disse così: Hunc iuxta coniux Prochyteia incedit, et ore, Et gestu spectanda, et pictæ tegmine pallæ, Nexilibus Cochleis limbus sonat, horrida echinis. Zona riget, viridique sinus frondescit in alga? Cittadino - Questa è dessa, padron mio; e più proprii versi non poté comporre quel gran par suo, a dipinger Procida vezzosa, tra le gioie del mare preggiatissima, non isola, non scoglio, ma un gioiello del quale si fa monile Anfetrite; che per ciò quell’altro poeta la fa più delitiosa di Sabura, uno dei sette colli delitiosissimi di Roma, ma assai più vaga. Passeggiatoro, più presto che scoglio, ameno, ripieno di giardini con frutti assai delicati, e credo che gli arbori e le viti fussero piantati da Pomona e da Bacco, con uve le più saporite, colorite, odorose, che mai altrove non nascessero. E di qua saltan lepori, di qua conigli; e volano gli eserciti di francolini, et in un picciol moggio di terra, tra i seminati del miglio, si vedranno le schiere di faggiani; nobilissima di pescaggione per tutto, ma particolarmente nella spiaggia di San Cattolico e Cornicella, e nel lido di Annanello, con quell’arena di color de piombo, che non si ritrova in altra parte del mondo, e pur dall’arena scaturiscono acque dolci. Vi si vede un palazzo,

stanza dei signori Davali, edificato dal Cardinal d’Aragona, col valor di Benvenuto Tortelli e Giovan Battista Cavagni, architetti, di molta bellezza e meraviglia, per haver, sopra uno scoglio, pianta di notabil grandezza. Accompagnate con questa, i tempii di San Michele Arcangelo, abbadia di cardinali, di Santa Margherita, che posto prima in un colle, loco di caccia, fu dal cardinal sopradetto transferito dentro Procida, che non patissero danno i faggiani, e dato a’ padri di san Domenico c’han medesimamente cura di quella, di San Vincenzo et un altro, nel mezzo dell’isola, dedicato alla Beata Vergine Annuntiata, che habitato prima da donne monache, e queste partitesi per tema di turchi, e venute in Napoli nel monistero di Santa Patritia, è rimasto col solo nome di Monachile. Forastiero - In questa maniera par che Procida niente possa cedere ad Ischia. Cittadino - In vero che non saprei che dirmene; che se quella nel suo ambito è di tanta consideratione, questa, nel suo picciolo circuito di sette miglia, contiene tanta ricchezza di frutti, che fa contenta Napoli, con tanti frutti che di là si conducono. Se quella hebbe homini grandi, in questa fiorirono gli eccellenti medici Salvo, Antonio Sclani, Giovan Battista Gagliardo, Giovan Battista Ambrosino, e non lascio quel gran Giovanni di Procida, del quale disse il Petrarca: “Prochyta est parva insula, sed unde nuper magnus quidam vir surrexit Ioannes ille, qui formidatum Caroli diadema non veritus est”, e soggiunse c’havria fatto cose maggiori, s’havesse potuto, per vendicar l’ingiuria. In fine potrei numerarvi tanti altri signori della famiglia Cossa, che cento ottant’anni la possederono, e tanti altri successi che vi furono.

Periodico Viennese di Arte, Letteratura, Teatro e Moda Zeitschrift für Kunst, Literatur, Theater und Mode, 1825 – II trimestre

Lettere dall’isola d’Ischia del 182*

II parte Sulle pendici settentrionali dell’Epomeo si estende in posizione romantica su colline ridenti di vigneti fino al mare il Comune di Casamicciola. Sembra che questa zona sia la sacra residenza di Esculapio e di sua figlia, tanto la natura ha riversato qui un’abbondanza di erbe salutari e di fonti termali. Nelle forre dalla selvaggia forma si raccolgono intorno alla collina di Ombrasco le sorgenti di Cappone, Spennapollastri e Gurgitello. Quest’ultima fonte è la più abbondante e la più benefica, capace di ridare ogni anno la salute perduta a molte centinaia di malati. L’Ospedale della Misericordia di Napoli già da un paio di secoli ha costruito qui uno stabilimento per bagni, che di anno in anno viene ingrandito e migliorato, dove non solo ognuno può fare il bagno gratuitamente, ma possono anche esservi condotti ogni estate più di 600 ammalati a spese dell’Ospedale. Questo è veramente uno stabilimento ispirato all’amore cristiano per il prossimo e alla generosità e può essere portato ad esempio magistrale per alcune località termali. Dalla vicina sorgente l’acqua viene portata in tubi murati fino alla sala dei bagni, dove si trovano ottanta vasche per il 8

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bagno che devono essere mantenute sempre pulite, in modo tale che ci si possa servire di esse senza timori. Ma alcuni preferiscono di farsi portare l’acqua sino alla loro abitazione. La sorgente ha alla sua origine una temperatura di circa 60 gradi Reaumur, che si abbassa, però, fino a circa 34 gradi. Qui deve essere ancora mitigata secondo il parere del medico. Vicino alla sorgente del Gurgitello ne scorre un’altra, chiamata Cappone, di calore minore, e di elementi costitutivi del tutto diversi come si riconosce senz’altro dalle analisi come anche dal sapore di acqua marina dominante. Si beve quest’acqua con buon successo contro l’indurimento delle viscere. La terza sorgente, Spennapollastri, è essenzialmente affine a quella del Gurgitiello, ma viene trascurata del tutto a causa della sua abbondanza; questo vale anche per una quarta sorgente, chiamata Colata. Con quest’ultima scorre dall’alto dell’Epomeo una quarta, che è molto efficace contro malattie agli occhi e perciò chiamata anche “degli occhi”. Un miglio da qui, a destra della strada, che porta verso la cittadina di Ischia, sono da vedere le Stufe o Fumarole di Cacciutto in uno stato di degrado. Dalle fenditure della roccia il vapore si fa strada con forza. La lava che si è


ammassata qui è quella del Monte Rotaro, il vulcano che aveva cacciato via la prima colonia conosciuta dell’isola, gli Eubei. La tradizione racconta che «durante quella fuga provocata dal terrore scatenato da quegli orribili eventi, una matrona gracile, di nome Nisula, che aveva la sua abitazione proprio vicino al Cacciutto, era stata abbandonata indietro e non poté scappare. Quando coloro che erano fuggiti, dopo qualche tempo, ritornarono da Cuma, ritrovarono Nisula completamente guarita. Da questo episodio deriva il nome di Casamicciola, da Casa Nisula. Lasciamo da parte questa leggenda e altre del genere. Noi non abbiamo bisogno di queste come testimonianze dell’epoca antica, poiché si sono tramandati ancora fino a noi eventi reali di essa. Non lontano dalla Stufa del Cacciutto una casa di campagna porta il nome di “Casa Cumana”. Qui la Sibilla cumana deve avere avuto un’abitazione. Su questo suolo sono stati trovati dei recipienti di terracotta di tali dimensioni che non si riesce a capire come essi siano stati forgiati e bruciati. Sulla strada per Ischia, ancora un miglio oltre, si arriva alle Stufe di Castiglione, che non sono ridotte in rovina come quelle del Cacciutto, ma sono ancora in piedi e in uso e vengono utilizzate con assiduità. Noi non possiamo dubitare che anche nel nome di Castiglione è celato il soggiorno degli Eubei. Qui, dove oggi spuntano sino al mare rocce di lava alimentate solo da fichi d’India, si trovava la città fortificata di quei Greci. Molte di quelle mura antiche, contenitori di acqua e simili trovati nel circondario più vicino, non coperto da lava, confermano competamente questa tradizione. Il Comune di Casamicciola, che consiste di una grande macchia, parecchi casali e molte case di campagna singole, conta quasi quattromila e cinquecento abitanti. Le zone basse sono tanto straordinariamente fertili, quanto meno lo sono quelle più alte, a causa della desolazione vulcanica ancora rilevante, e poco adatte alla coltivazione. La considerevole popolazione perciò non troverebbe sul proprio suolo sufficientemente da mangiare, se non venissero in aiuto i bagni con i loro introiti e se non fosse stata trovata su questa parte dell’isola argilla in abbondanza, tanto che questa soltanto fa incassare al Comune ogni anno circa 30.000 ducati. Qui, come su tutta l’isola, non ci sono grandi proprietari terrieri; il terreno è più o meno fertile e distribuito fra tutti. Perciò, non si trova né una ricchezza eccessiva né una povertà eccessiva. Sebbene a questi isolani non sia da disconoscere una certa industriosità, questa non si manifesta ancora in grande spirito di iniziative, perciò non c’è nemmeno una pensione e il forestiero è costretto a fare da solo il suo menage se non vuole lasciarsi riservare un tavolo dal suo locandiere, caso che si verifica qui per lo più nelle incertezze delle vivande. Solo il Canonico Tommaso Desiano ha saputo unire con il soggiorno nelle sue spaziose abitazioni ,”La Pannella”, anche una tavola bene imbandita; naturalmente il vantaggio di potere alloggiare in questa casa, deve eseere pagato caro, ma si è ricompensati bene sotto ogni aspetto e nel contempo si gode una veduta stupenda, che viene superata solo da quella in un’altra casa di campagna: “La Sentinella”. ***

Il mio proposito di salire sull’Epomeo trovò fortunatamente il concorso di un numeroso gruppo di tedeschi che aveva la medesima intenzione e così ci accingemmo, ancor prima dell’alba, a questa ascensione. Non lontano dalla stazione termale, la strada volge a sud-ovest, verso il Monte Rotaro dove bisogna attraversare spesso luoghi scomodi su lava e lapilli qui ammassati. La desolazione provocata da questo vulcano si mostra qui ancora in tutto il suo aspetto spaventoso; si è contenti di pervenire in una piccola pianura, lasciando la parete del vulcano a sinistra e respirando più liberamente, con uno sguardo rivolto all’indietro verso Casamicciola e Lacco. Proprio in questa pianura ci salutarono i primi raggi del sole; dalla volta di zaffiro del cielo cadeva un flusso roseo su pianure e colline, tutti i colori dell’iride attraversavano l’aria e la gioia più benedetta pervase il nostro animo. Poi la scena cambiò; dalla zona coltivata liberamente passammo in un castagneto ombroso, fino a quando si perviene in una sterpaglia bassa e finalmente sul nudo suolo della meta agognata. Un eremo, o meglio un convento per eremiti, è scavato in questa cima più alta. Già i suoi abitanti, due frati francescani, ci attendevano alla porta e ci diedero gentilmente il benvenuto. Fummo lieti di avere un tetto sulla testa e ora avevamo tempo sufficiente di consumare nel piccolo refettorio il pasto portato con noi e di conoscere l’interno di quello strano convento, poiché per più di un’ora anche la vista ci sembrava preclusa. Da un paio di secoli il nome di questo eremo, San Nicola, caratterizza la montagna. Un passaggio scuro porta alle poche celle e alla chiesa; tutto è scavato nella roccia in modo tale che da fuori sono visibili pochi segni di abitazione umana. In tempi remoti degli anacoreti vivevano già in questo posto; l’immagine miracolosa di San Nicola testimonia il motivo per cui i fedeli abitanti dell’isola facevano un pellegrinaggio fin quassù. Ma sotto il regno di Carlo III questo soggiorno appartato fu ingrandito fino alle dimensioni attuali e per opera di un tedesco, Joseph Argout, che era stato comandante del Castello d’Ischia. Una semplice pietra protegge la sua tomba nella cappella dove vengono mostrate anche parecchi lavori in legno di sua mano e svariate reliquie offerte da lui. Ben presto lo seguirono nella tomba altri eremiti e il convento diventò di nuovo quello che era stato prima, il soggiorno di singoli peccatori. Un altro tedesco, Padre Michele, proveniente dal Reno-Palatinato, visse qui sino a 105 anni di età; l’eremo di San Francesco di Paola presso Foria, dove morì nel 1811, conserva le sue ceneri e tutti gli abitanti dell’isola serbano nel loro cuore il suo ricordo. Con questi racconti e storie il tempo trascorreva piacevolmente, in modo tale che dovemmo essere sollecitati per salire sulla terrazza; la nebbia si era diradata e la campagna e il mare erano di nuovo liberi dalla loro cortina. Voler descrivere una veduta è un pio proposito. Le ali della fantasia si piegano davanti alla maestosità del creato. Tutto quello che si potrebbe scrivere, ispirati dai sentimenti più vigili, sarebbe solo un “flatus vocis”, suoni incolori! L’isola nel suo caleidoscopio di colori, con tutto il suo fascino che ricorda il Giardino delle Esperidi, si dischiude davanti a te come un fiore profumato. Tutti gli spiriti, tutti i sensi dell’anima si deliziano nell’ammirarla; credi di non poterti La Rassegna d’Ischia n. 2/2012

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separare da essa e tuttavia le cose lontane, che scintillano incontro a te non sono meno degne della tua ammirazione. A cento miglia, nel tratto fra Capo Circello fino all’isola di Capri, e sulla stessa ampiezza, dai monti della Lucania fino alle isole di Ventotene, Ponza, Palmarola e Zannone si estende il tuo orizzonte. Il Vesuvio, il promontorio di Minerva, attirano il tuo sguardo verso Est, gli Appennini verso Nord; da Ovest si avvicinano a te in una magica illusione ottica le Enotrie, e a Sud i tuoi pensieri errano sull’azzurro sconfinato del mare, le cui onde, riversandosi dalla costa africana fino a qui, si infrangono schiumose alle porte vulcaniche. Nessun panorama nella bella Italia si potrà paragonare con quello che si vede dall’Epomeo: esso lascia nel cuore un solo desiderio, quello di rivederlo! Soddisfatti oltremisura, pensammo al ritorno, dopo aver donato volentieri ai buoni eremiti il piccolo tributo che è limitato a quei viaggiatori e a quei devoti che sono veramente cristiani. Per non ripercorrere lo stesso percorso, ci fermammo a ovest sopra Fontana. Ogni tratto in questa magnifica zona ci porta ad un paesaggio diverso, ciascuno fornito di un fascino diverso, prima del tutto ignoto. A Fontana un ecclesiastico ci offrì da bere e ci diede il benvenuto nella calura crescente del sole di mezzogiorno. Dopo una piccola pausa di riposo, i nostri animali ci trasportarono attraverso Panza, zona ricca di vigneti. Qui termina il momento piacevole giacché la strada prosegue per Foria e Montarone, e tra muri di giardini, che privano di ogni libera vista, e così alle due, completamente esausti per la calura, arrivammo a Casamicciola. Una passeggiata a Lacco e Forio - Una strada carrozzabile, che comincia già nella cittadina d’Ischia, è del tutto trascurata. Il territorio di Lacco è suddiviso in due località, di cui una si estende su colline rigogliose di viti, l’altra è ubicata lungo il mare. Una vista sorprendentemente piacevole! Qui l’attività di un piccolo porto, là la pienezza di una natura forte. Nella forma di un Fungo si eleva qui dal mare uno scoglio, lì a sud si eleva la punta scoscesa di una collina di lava, chiamata Arbusto, dove sorge la bella Villa Atri che, simile a una residenza principesca, domina la regione. Il Monte Vico copre questo paesaggio verso Nord. Il paese deve al Fungo la sua denominazione odierna. I Genovesi che, per motivi commerciali qui si fermarono nel secolo scorso lo chiamarono Lacco, nome di origine greca col significato di “pietra”. Il carattere vulcanico del suolo si evidenzia in tutte le forme. Blocchi di lava di ernorme grandezza talvolta occupano i giardini; se si scava nella sabbia del mare, le buche si riempiono di acqua calda; la stessa sabbia in parecchi luoghi è di un caldo così intenso che viene usata a scopo terapeutico. I bagni di S. Restituta sgorgano con una temperatura di 40 gradi, come le stufe di San Lorenzo separate da una piccola valle dai bagni di San Montano. Vale la pena fermarsi più a lungo su quest’isola, dove si stanziarono secoli addietro gli Eubei e, dopo di loro, i Siracusani, e osservare le sue particolari meraviglie. Uno stretto sentiero porta sulla cima di Monte Vico, ove germogliano ora la vite e il fico d’India. Una torre di guardia, costruita alla metà del quindicesino secolo, si eleva sul declivio settentrionale, il luogo stesso in cui i Siracusani avevano forse eretto una fortezza; non lontano da qui troviamo infatti 10

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una tavola di basalto nero con l’iscrizione ancora oggi ben leggibile:

(Pacius Nimpsius – Maius Pacyllus e i loro soldati hanno collocato questa pietra quando iniziarono a costruire la fortezza)

Altre testimonianze antiche qui si rinvengono continuamente: cocci di vasi, terrecotte, oggetti ornamentali che erano presenti nelle tombe; un monumento prezioso si conserva nella piccola chiesa della marina, e cioè una statua di Ercole, unica ad essere salvata dalle molte macerie del tempio di Ercole che sorgeva in questo posto. Lacco e l’isola sono sotto la protezione di Santa Restituta, di cui la leggenda narra che, sotto il regno dell’imperatore orientale Valerio, fu martirizzata perché seguiva l’insegnamento di Cristo; abbandonata in una piccola barca alle onde del mare, fu spinta nella baia di San Montano. Gli abitanti l’accolsero cristianamente e le diedero sepoltura nel convento dei Carmelitani, ma poi su ordine dell’imperatore Costantino il corpo fu traslato a Napoli e le fu innalzata una basilica. La valle di San Montano si estende tra il Monte Vico e il promontorio lavico di Zaro; essa fu al tempo dei Greci e dei Romani un luogo di sepoltura: spesso vengono trovati oggetti antichi ed epigrafi mortuarie. Alla fine della valle c’è la sorgente calda di San Montano, che viene poco utilizzata, così come poco frequentati sono i bagni di S. Retituta, in quanto offrono poche comodità. Invece le stufe di San Lorenzo sono le più attrezzate dell’isola, risultando anche oltremodo miracoloso il loro uso. La meravigliosa vista da queste stufe somiglia a quella di Monte Vico: lo sguardo spazia da Lacco a Casamicciola, l’isola di Procida e la terraferma, Miseno….Un punto di osservazione stupendo per un pittore di paesaggi. Forio ti saluta poi con le ssue torri e le sie case. Non facilmente si incontra una vista così coinvolgente sul piano emotivo; si entra in un anfteatro della natura, attraverso cui sono abbellite l’attività e l’arte dell’uomo. Forio è il luogo più grande e più ricco dell’isola. Non solo per il fatto che il suo suolo fecondo procura benessere, ma anche perché qui c’è il maggior traffico commerciale dei prodotti dell’isola, che vengono trasportati su nave fino a Livorno, Genova,… Tranne una cappella privata, riccamente ornata, e alcuni buoni quadri nelle chiese, qui però non c’è da vedere niente di significativo. Anche la vista, al di là dell’ampio spazio del mare, si perde in uniformità e non sprona ad un soggiorno più lungo. Ad un miglio e mezzo dal porto ci sono i bagni di Citara: una statua di Venere qui trovata ci porta all’origine del nome Citara, e la natura sembra aver consacrato perfettamente le virtù curative di questa sorgente che viene usata contro l’infecondità delle donne. (Traduzione di Nicola Luongo)


Colligite fragmenta, ne pereant

Fonti archivistiche per la storia dell’isola d’Ischia A cura di Agostino Di Lustro La Ecclesia seu Confrateria de Santa Maria de Loreto de Forio tra XVI e XVII secolo e altri fatti coevi

V - I luoghi sacri di Panza, Lacco e Casamicciola

Dopo aver presentato i luoghi sacri di Forio tra XVI e XVII secolo alla luce della Platea del vescovo d’Avalos, passiamo a considerare la situazione di Panza per completare il quadro sul territorio dell’Università di Forio, per poi passare ad esaminare quella dei casali di Lacco e di Casamicciola. Panza - Per quanto riguarda il villaggio di Panza, il vescovo d’Avalos cita solo la «cappella di Santo Leonardo, è governata da mastri laici, teneno uno sacerdote, tutto l‘anno oglio alla lampa del Santissimo Sacramento, torcie, candele che bisognano, et altri pesi di visita, rende docati 14-0-15»1. La prima menzione della chiesa si riscontra in un documento vaticano del 15662 nel quale viene ricordato anche il beneficio rurale detto «Fiomarie3», che non aveva una chiesa propria. Sappiamo ancora che nel territorio «parochialis ecclesie Sancti Viti, in Casale de Panza nuncupato Isclanae dioecesis»4, vi era ancora il beneficio della Santa Croce, anch’esso privo di chiesa che però usufruì come sede della chiesa di Santa Sofia nel borgo di Celsa fino a quando la chiesa fu abilitata al culto. In seguito all’abbandono di questa da parte dei patroni Cossa, la soddisfazione degli oneri della cappella di S. Sofia e quelli del beneficio della S. Croce fu spostata nella chiesa cattedrale. Del beneficio della S. Croce abbiamo notizie a partire dal 15245. Non sappiamo se intorno all’anno 1600 a Panza fosse in costruzione qualche altra cappella; sappiamo solo che pochi anni dopo, nel 1610, fu fondato il convento agostiniano di S. Gennaro6. Certo è che la situazione non solo di Panza ma anche di Forio in questo periodo, a cavallo dei secoli XVI e XVII, è piuttosto fluida sotto l’aspetto demografico e sociale. Infatti la popolazione che vive sul territorio dell’Univer1) P. Lopez, Ischia e Pozzuoli due diocesi nell’età della controriforma, Napoli, Adriano Gallina Editore, 1991 pp. 209-219. 2) Cfr. A. Lauro, La chiesa e il convento degli Agostiniani nel borgo di Celsa vicino al castello d’Ischia, in Ricerche contributi e memorie, Napoli 1971, p. 404. 3) Ibidem, p. 424. 4) Ibidem, nota n. 60. Il Lauro cita a tal proposito i seguenti documenti vaticani: Resignationes tomo 63 f. 261; Reg. Vat. 1504 f. 75. 5) Cfr. in Archivio Diocesano d’Ischia ( d’ora in poi: A.D.I. ), Platea Corrente di Santa Maria della Scala (d’ora in poi: P.C.) f. 385; A. Di Lustro, I marinai di Celsa e la loro chiesa dello Spirito Santo ad Ischia, Forio Tipografia Punto Stampa, 2003 p. 19. 6) Sul convento di S. Gennaro, cfr. A. Di Lustro, I conventi agostiniani di Forio, in Ischia oggi, anno V nn. da 8 a 13 (maggio-ottobre 1974 ).

sità di Forio, che nel 1596 ascende al numero di 2712 unità7, nel 1620 è già salita a 3361 unità, tenendo presente che nello stato delle anime di S. Vito di Forio, compilato dal parroco Natale Capuano proprio nell’anno 1620, deve essere esclusa proprio la zona di Panza, dal momento che tra il 1603 e il 1604 è stato fondata la parrocchia di S. Leonardo8. Infatti gli stessi abitanti di Panza, in un documento del 25 marzo 1610, affermano non solo «come nel nostro Casale habiamo fatta una ecclesia di elemosine infra noi et intitolata sotto al governo et protettione del Santo Martire nostro metropolitano. Et per che ecclesia non si può chiamare si non è frequentata di Santissimi Sacrificij et divini officij il nostro casale si è ingrandito e moltiplicato di gente e impoverito di beni temporali, una messa non ave a bastare a tanto popolo non possimo mantenere un altro prete perché vive più lautamente». Per questo chiedono che venga convocato un pubblico parlamento e venga sancita la loro volontà di donare la chiesa di S. Gennaro «alla Religione di Santo Agostino»9. Se tale parlamento sia stato effettuato non risulta dalla documentazione di mia conoscenza. Sta di fatto che il convento dal 1610 al 1653, anno della soppressione innocenziana, fu abitato dagli Agostiniani. Anche se la istituzione della Confraternita della Santissima Annunziata risale sicuramente al secondo decennio del secolo XVII in pieno episcopato di Innico d’Avalos, la costruzione dell’oratorio dell’arciconfraternita avvenne solo nei decenni successivi, come già in altra sede è stato dimostrato.

Lacco - Ora passiamo a esaminare la situazione dei casali del Lacco e di Casamicciola. Per il primo, il vescovo d’Avalos ricorda la sola chiesa parrocchiale, affermando che «Nel casal del Lacco vi è un’altra Parrocchia detta l’Annunciata e jus patronato di detto casale si possede per D. Vincenzo Monte non tiene il Santissimo Sacramento per suspettione de’ Turchi; vi è il peso delle cere missa le feste, et altri pesi per la Visita rende incirca docati 90»10. Prima di tutto il vescovo incorre in qualche imprecisione dal momento che la parrocchia dell’Annunziata del Lacco 7) A. Di Lustro, Incremento demografico di Forio tra il 1596 e il 1620, in Rassegna storica dei Comuni, anno IV n. 4 luglio-agosto 1972. 8) A. Di Lustro, La Parrocchia di S. Leonardo in Panza sull’isola d’Ischia, Forio Tipografia Punto Stampa 2004, p. 13. 9) Cfr. Notai sec. XVII scheda n. 39 del not. Silvestro Capuano di Forio protocollo n. 9 foglio staccato tra il f. 91 e f. 92. L’intero documento è pubblicato da A. Di Lustro, op. cit. pp. 64-65. 10) P. Lopez, op. cit. p. 212.

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non era di patronato «di detto Casale», bensì del canonico Aniello Monti e dei suoi discendenti maschi. Infatti il canonico Monti, parroco della stessa chiesa, «a fundamentis de eius propriis bonis substantia et facultatibus de novo rehedificata fuerit magnificata et ampliata etiam in ipsis ecclesie domibus diversisque ornamentis decorata ad finem et effectum ut sibi suisque ex fratre nepotibus et ex eis descendentibus per virilem sexum jus patronatum etiam ex augmento dotis dicte ecclesie et illius ditatione de nostro beneplacito donatione et mera liberalitate concederetur et assignaretur…..» . Il vescovo Agostino Pastineo con la bolla del 21 gennaio 1540 concede il diritto di patronato al canonico Aniello Monti e suoi nipoti e loro discendenti che risultano essere: Stefano, Cristoforo, Andrea, Berardino, eredi di Rainaldo, eredi di Pietro, eredi di Giacomo11. Tale diritto di patronato è decaduto solo il 27 novembre 1978 per decreto dell’amministratore apostolico Diego Parodi. Oltre la chiesa parrocchiale, il vescovo d’Avalos non cita altro luogo di culto esistente a Lacco, dimenticandosi del convento carmelitano di Santa Restituta12, fondato dal vescovo Fabio Polverino con atto di cessione ai Carmelitani della chiesa di S. Restituta per notar Alfonso de Rosa di Napoli del 22 aprile 158913. Le due chiese, dell’Annunziata e di Santa Restituta, anche se decentrate rispetto ai vari gruppi di case del casale del Lacco, si trovavano in una posizione che Giovanni Castagna definisce «felice» perchè collocate alle due estremità del paese, anche se piuttosto esposte agli assalti pirateschi14. Sebbene il numero delle anime non doveva essere molto elevato, la presenza dei Carmelitani a S. Restituta non solo incrementò il culto alla Patrona, ma diede pure un valido contributo alla pastorale del parroco, anche se in seguito ci fu qualche momento di frizione nei rapporti tra questo e i frati. Inoltre è probabile che questi favorissero anche, soprattutto nei primi decenni del secolo seguente, la venuta a Lacco di varie famiglie napoletane, tra cui alcune di artisti che in seguito favoriranno la nascita artistica degli scultori fratelli Gaetano e Pietro Patalano15. Dobbiamo rendere conto ora di una annotazione del volume 119 del fondo Corporazioni Religiose Soppresse dell’Archivio di Stato di Napoli dove al foglio 58 v. viene riassunto un atto rogato dal not. Polidoro Albano nel 1542 con il quale erano date a censo a Francesco di Meglio delle case ubicate 11) La pergamena originale del vescovo Agostino Pastineo è andata perduta, ma nell’A.D.I. ci sono alcune copie di anni diversi nelle cartelle della parrocchia del Lacco. Il testo è stato pubblicato da Giovanni Castagna in: La parrocchia della SS.ma Annunziata alla Fundera di Lacco Ameno, Lacco Ameno La Rassegna d’Ischia 2007, pp. 26-32; cfr. anche A. Di Lustro, Gli Agostiniani a S. Restituta, in Ischia Oggi, anno VI n. 3 marzo-aprile 1975. 12) La bibliografia su S. Restituta è abbastanza nutrita. Mi limito a ricordare solo qualche titolo: P. Polito, Lacco Ameno: il paese, la Protettrice, il folclore, Napoli 1961; P. Monti, Ischia archeologia e storia, Napoli Lino-tipografia Fratelli Porzio 1980; A. Lauro, La chiesa e il convento di S. Restituta a Lacco Ameno, in Ricerche contributi e memorie cit. pp.651-665. 13) A. Lauro, op. cit. p. 654. 14) Cfr. G. Castagna, op. cit. pp. 4-5. 15) A. Di Lustro, Il Casale del Lacco nel secolo XVII, in La Rassegna d’Ischia, anno XXXI n. 5, ottobre 2010.

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nella città d’Ischia, cioè sul castello, in precedenza abitate da Cicco Piro, con l’obbligo di pagare ogni anno ducati 2 al convento di S. Maria della Scala e ducati uno alla chiesa di S. Rocco del Lacco16. Questo significa che quest’ultima chiesa già esisteva; di essa però non ci parla nessun altro documento ancora per un lunghissimo periodo di tempo e neppure il vescovo d’Avalos ne fa il minimo cenno. Non abbiamo altre notizie di questa chiesa fino al 12 luglio 1656 quando Stefano Monti, fratello di D. Paolo Monti parroco del Lacco, nel suo testamento lascia «carlini cinque a Santo Rocco con peso di messe iuxta constitutiones synodales anco per li dieci anni»17. Nel 1661, in un atto del notar Perciati è detto che in tale anno i mastri e governatori della chiesa di S. Rocco del Lacco «noviter fabricata et nondum finita» dichiarano di aver ricevuto da Vincenzo e Gennaro Monti «del quondam Vincenzo» ducati dieci in moneta d’argento per la chiesa, come disposto dallo stesso quondam Vincenzo per atto del notar Nicola Ferraro di Forio il 2 agosto 160618. Dobbiamo quindi concludere che la chiesa di S. Rocco del Lacco è stata ricostruita a metà secolo XVII. L’Università del Lacco ne ottenne il diritto di patronato che in seguito, nel 1709, passò ai governatori e confratelli del Pio Monte di Sant’Anna, fondato in questa chiesa qualche anno prima19. Dobbiamo ancora aggiungere che nel corso del secolo XVII, a Lacco furono costruite altre quattro chiese, a partire da quella del Rosario nel 160120 fino alla confraternita dell’Assunta nel 168221. Prima di lasciare Lacco, è necessario soffermarci su di una chiesa, o cappella, segnalata dalla carta dell’isola d’Ischia disegnata da Mario Cartaro nel 1586 e allegata alla prima edizione dell’opera di Giulio Iasolino sulle acque di Ischia pubblicata, come sappiamo, nel 1588. Infatti nella zona del casale del Lacco, a Occidente della chiesa di Santa Restituta e molto vicino al «Falconaria Mons», si vede la forma di una chiesetta con la didascalia «T. divi Pauli» e il numero di riferimento 64 che, nella leggenda del «Numerus et explicatio rerum, locorum…» riportato ai margini inferiori della carta, corrisponde a «Templum Divi Pauli»22. Bisogna quin16) A. Di Lustro, Le Capitolazioni delle confraternite dell’Università di Lacco conservate nell’Archivio di Stato di Napoli II, in La Rassegna d’Ischia, anno XXVIII n. 4, luglio-agosto 2007, pp.3841. 17) G. Castagna, op. cit, p. 5. 18) A.S.N. Notai sec. XVII scheda 122 prot. n. 13 f. 76 r., atto del 25 aprile 1661. 19) Cfr. il Notamento degli atti beneficiali….. dell’A.D.I. f. 65: «Lacci= Copia bulle concessionis juris patronatus Ecclesie Sancti Rochi dicti Casalis favore Universitatis eiusdem expedita in anno 1661= Nec non acta appropriationis predicte Ecclesie favore Gubernatorum et Confratrum Montis S. Anne ejusdem Casalis facte in anno 1700 folia scripta n. 8. «Lacci 1700= Erectio pij Montis sub titulo S, Anne intus Ecclesiam S. Rochi ejusdem Casalis in anno 1696 cum nota Regularum ac instrumentum concessionis predicte Ecclesie Sancti Rochi in anno 1710 folia scripta n. 12». 20) Cfr. A. Di Lustro, La chiesa comunale di Lacco, in Ischia oggi, anni VI-VIII numeri vari da giugno 1975 a gennaio 1977; P. Monti, Ischia archeologia e storia, cit. 21) G. Castagna, La confraternita dell’Assunta in Lacco Ameno dalle origini ai nostri giorni, Lacco Ameno 1999.


Particolare della Carta del Cartaro

di supporre che nel territorio del Lacco, a Sud-Ovest della chiesa di Santa Restituta, ci fosse una cappella dedicata a San Paolo. In effetti nessun documento ci attesta l’esistenza di questa cappella, ma la segnalazione del Cartaro penso possa bastare per affermarne l’esistenza. Certamente è destituita di qualsiasi fondamento l’affermazione del parroco Domenico Patalano che, in una relazione del 1930, scrive tra l’altro che la parrocchia dell’Annunziata, già al tempo di D. Aniello Monti che la dotò e ne ottenne il diritto di patronato per sé e suoi discendenti dal vescovo Agostino Pastineo nel 1540, «già godeva del beneficio detto di S. Paolo»23. Dai documenti pubblicati da Giovanni Castagna e da quelli di mia conoscenza, prima del 1653 non è documentato alcun legame tra la cappella di S. Paolo e la chiesa parrocchiale del Lacco. Inoltre sia la bolla del vescovo Agostino Pastineo (1534-1548) del 21 gennaio 1540 che la Platea del vescovo d’Avalos e le altre sue relazioni ad limina non ne fanno cenno. L’esistenza nella chiesa dell’Annunziata del Lacco di una cappella dedicata a S. Paolo, ma senza alcun legame con il beneficio parrocchiale, è documentata da due atti di morte scritti dal parroco Paolo Monti il 18 febbraio 1653 e il 12 luglio 165625. L’unione del beneficio di S. Paolo con quello parrocchiale della SS.ma Annunziata compare solo nell’editto del vescovo Luca Trapani (1699-1717) del 24 dicembre 1712 per la nomina del parroco in seguito alla morte di D. Ambrogio Monti26. Il Notamento degli atti beneficiali cita solo il seguente documento: «Lacci 1733= Acta institutionis Parochialis Ecclesie Sanctissime Annunciationis Beate 22) Sulle carte tipografiche cfr. D. Niola Buchner, Ischia nelle carte geografiche del ‘500 e ‘600, cit. E’ stato ripubblicato con il titolo: Ischia nelle carte geografiche del Cinquecento e Seicento, Imagaenaria , Napoli 2000. 23) Cfr. G. Castagna, La Parrocchia della SS.ma Annunziata alla Fundera di Lacco Ameno, cit. p. 5. 24) Il testo di questa bolla, pervenutaci in copia da un fascicolo per la nomina del parroco Giovan Pietro de Crescenzo del 1620 conservato in A.D.I., è pubblicato da G. Castagna op. cit. pp. 26-36. 25) G. Castagna, op. cit. p. 5. 26) Ibidem, p. 7.

Marie Virginis de jure patronatus familiarum Monte favore D. Agnelli Monte per mortem D. Joannis Monte necnon Institutionis Beneficij semplicis sub titulo Sancti Pauli de jurepatronatus predictorum folia scripta n. 64»27. L’ultimo documento che parli del beneficio di Paolo risale al 1813 con l’editto per la nomina del parroco Francesco Monti28. Intorno al Natale del 1825 un’ondata di piogge piuttosto devastanti, provocò il dissesto della «strada Santo Paolo, che conduce alla Pannella». Il comune del Lacco fece redigere una perizia dall’architetto D. Benedetto Iovene di Ischia, mentre l’esecuzione dei lavori fu affidata a «Vincenzo di Costanzo del fu Carmine maestro muratore naturale del comune di Ischia». Nel corso dei lavori Raffaele Calise di Forio « figlio di Nicola di condizione proprietario», che abitava a Forio a «Le Pigne», proprietario di un «vigneto in tenimento del comune del Lacco nel luogo detto le Cave accosto alla via pubblica di campagna nominata Via Pannella…» fa causa contro il comune del Lacco e chiede che venga «ordinato nel giro di tre giorni si demolisca il muro costruito al sostegno di un tratto di strada che dalla Marina conduce sull’abitato della Pannella e propriamente sul punto che dicesi Le Cave…». La vertenza andò un poco per le lunghe e i lavori furono portati a termine solo nel 1830. Dell’incartamento che su questa opera pubblica del comune del Lacco conservato nell’Archivio di Stato, trascrivo qui di seguito la lettera che leggiamo al primo foglio e che, in qualche modo, dà l’idea generale dei lavori che furono eseguiti in quella occasione alla Via S. Paolo. Archivio di Stato di Napoli Intendenza di Napoli, fascio 1314, fascicolo 9413 f. 1 r. Pannella o Strada S. Paolo nel Lacco 1826-1830 Pozzuoli, 14 febbraro 1826 A Sua Eccellenza il Sig. Principe di Ottajano Intendente della Provincia di Napoli Eccellenza, Mi ha rapportato il Sindaco del Lacco, che i continuati alluvioni fatti in quella Comune, hanno rovinato in modo la strada detta S. Paolo, che gli abitanti di quella contrada non possono passarvi, per cui si determinò di far redigere la perizia dall’Architetto D. Benedetto Iovene, ed indi propose al Decurionato, affine di disporsi subito l’occorrente, essendo affare di somma urgenza. La perizia presenta lo spesato di ducati duecentosei, e grana cinquantanove, ed il Collegio Decurionale di unanimo sentimento ha deliberato eseguirsi i lavori col metodo di economia coll’assistenza di due decurioni D. Giovanni Aniello Marona, ed Arcangelo di Leo; con prelevarsi la spesa dal fondo delle impreviste. E f. 1 v. conpiego a Vostra Eccellenza il verbale corrispondente, e la perizia per le sue disposizioni. Il mio avviso è di aprirsi le subaste al ribasso, con un corrispondente rilascio per cento da farsi dall’aggiudicatario, con sorvegliarsi dall’aggiudicatario, con sorvegliarsi i lavori da’ cennati deputati. Il Sottintendente Cav. Sorcia Da questo documento possiamo ricavare due notizie: che 27) Notamento …. cit. f. 88. Il fascicolo è andato perduto. 28) G. Castagna, op. cit. p. 7.

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il ricordo di S. Paolo è ancora, in qualche modo, presente al Lacco fino al 1830, tanto che c’è ancora una strada che, almeno nell’accezione popolare, ne porta il nome. Ne ricaviamo ancora un riferimento forse più preciso circa l’ubicazione della cappella di S. Paolo che dovrebbe essere collocata lungo la strada che conduce alla località Pannella. Oggi, comunque, non esiste più alcun riferimento a San Paolo nel comune di Lacco, sia per quanto riguarda la strada che il culto al Santo. Per concludere con San Paolo, possiamo accennare al fatto che, con testamento del 24 giugno 1795, Paolo Manzo costruì nel suo palazzo del Lacco una cappella dedicata ai Santi Apostoli Pietro e Paolo, assegnandole una rendita annua di cinquanta ducati e riservando il diritto di patronato sulla cappella a sé e alla sua famiglia. La cappella cadde per il terremoto del 1883. Casamicciola - Presentiamo ora la situazione di Casamicciola. Anche per questo casale la Platea del vescovo d’Avalos ci presenta un solo luogo di culto: «Nel casal di Casamicciola vi è la parrocchia di Santa Maria Madalena, si possede per D. Fabio Barbiero29, contribuisce all’oglio del Santissimo Sacramento, vi è la messa ogni festa, cera et altre cose, rende docati 34»30 e non aggiunge altro. Non parla della esistenza di altri luoghi di culto o di benefici. Il Notamento degli atti beneficiali, per il secolo XVI, cita solo il seguente documento: «Casamicciole 1540 Erectio Parochilalis Ecclesie sub titulo Santi Severini cum Jure patronatus Universitatis eiusdem Casalis= folia scripta n. 2»31. Infatti in questo anno il vescovo Agostino Pastineo emana una bolla nella quale leggiamo tra l’altro che nel 1540 la chiesa parrocchiale di S. Severino «ex primeva fundatione parva, angusta et quasi in totum prostrata erat, per Universitatem predicti Casalis Casamicciole alia ecclesia loco dicte parve ecclesie de nostro beneplacito et assensu sub invocazione Sancte Marie Magdalene ex ingenti dilectione cum voluntate etiam Domini Bartholomei Monte, dicte parochialis rectoris et curam animarum habentis a fundamentis de propriis ipsius Casalis et hominum bonis substantia et facultatibus edificata fuerit magnificata et ampliata, et in ipsius ecclesie situ ornamentis decorata ad finem et effectus ut predicto Casali et successoribus jus patronatus etiam ex augumento, quod in dies crescit, et crescere possit ex magna devotione hominum ac mulierum dicti Casalis de beneplacito ac onera liberalitate, concederetur et assignaretur pro quo dotes ipsius ecclesie Beate Marie Magdalene in dies crescat». Per questo il vescovo «ratificantes prius et approbantes quascumque concessiones per Nos seu per nostros predecessores forsan desuper expeditas ad majoris cautele cumulum precedente etiam desuper cause cognitione et iudiciali motu Nostri proprie et ex certa scientia nostra deliberata et consulta ex causa restaurationis, rehedificationis ecclesie antedicte ac dotationis augmento predicto … damus, concedimus et gratiose assignamus jus patronatus laicorum 29) Morì nel 1617-18 e la parrocchia fu affidata a Giovanni Andrea Regene di Forio (cfr. Notamento… cit. f 74 ). 30) P. Lopez, op. cit. p. 212. 31) Notamento…..cit. f. 74 r.

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predicto Casali, Universitati et hominibus ipsius Casali et suis successoribus in infinitum presentandi rectorem, rectores cappellanum et cappellanos toties quoties etiam casus vacationis occurrerit cum omnibus et singulis honoribus et oneribus dignitatibus potestatibus preminentiis gradibus prerogativis et jus patronatus fundantibus et continue dotantibus a restauratoribus ecclesie concedenti et indulgenti omnibus melioribus via jure causa et forma quibus possumus et debemus»32. Da questo documento si evince chiaramente che la parrocchia di Casamicciola fino al 1540 era dedicata a San Severino, titolo che scompare per cedere il posto a S. Maria Maddalena nel 1540 quando l’Università ricostruisce e ingrandisce l’antica piccola chiesa parrocchiale33. Essa però già esisteva, anche se non possiamo stabilirne l’anno esatto di fondazione. D’altra parte il casale di Casamicciola, anche se non compare, almeno in forma esplicita, tra quelli dell’isola d’Ischia tassati nel 1270 da Carlo I d’Angiò, lo troviamo più volte citato nei documenti angioini nella dizione «Casamaczula34- Casamiczula»35 in riferimento a «Magistro Johanne de Casamiczula doctori in fisica»36; oppure : «Johannes de Casamiczula dilectus fisicus et fidelis noster»; ancora: «Magistro Johanne de Casamiczula medicinali et locali scientie profexori concessio honorum predictorum Averse…»37. La presenza di questo medico è continua in questi registri fino al 1282, anno della sua morte, fornendoci diverse notizie sulla sua attività medica e scientifica. Nei documenti riportati nel volume settimo dei Registri Angioini, ad esempio si dice che «Iohannes de Casamiczula» è «lector in fisica»38. Inoltre viene disposto un «mandatum pro solutione salarii pro Johanne de Casamiczule, doctore in medicina, cum salari unciarum XX»39 per concludere con una «exequtoria concessionis magnifico Joanne de Casamiczula de Neapoli, doctori in fisica qui inter alios doctores Neapolitanos in medicine scientia primatum detinet in docendo»40. È probabile che Casamicciola nel corso del XIII-XIV secolo venisse indicata anche con il nome di «Castanito». Infatti questo toponimo compare nell’elenco degli «hospicia» realizzati con altre opere dal vescovo Bartolomeo Bussolaro nel 1374 nella zona di Noia a Fontana. Anzi A. Lauro identifica questi «hospicia» proprio come 32) Cfr. A.D.I. Parrocchia S. Maria Maddalena, copia del s. XVII. 33) A dire il vero, il Notamento degli atti beneficiali cita due quinterni ( f.74 ), uno del 1636 per la nomina a parroco di D. Giovanni Antonio Zavota per le dimissioni di Giovanni Andrea Regene, e un altro del 1649 per la nomina a parroco di Paolo Pascale per la morte dello Zavota. Questi indicano la parrocchia con i titoli di S. Severino e di S. Maria Maddalena mentre gli atti per la nomina a parroco di Giovanni Andrea Regine in seguito alla morte del parroco Fabio Barbieri nel 1618, viene ricordato come titolare della parrocchia la sola S. Maria Maddalena. 34) Cfr. I Registri della Cancelleria Angioina ricostruiti da Riccardo Filangieri con la collaborazione degli Archivisti Napoletani, vol. I, Napoli MCML pp. 68.280.332; vol. III ( 1951 ) pp.68,238. 35) Ibidem, vol. II ( 1951 ) pp. 47,201. 36) Ibidem, vol. IV ( 1952 ) p. 88. 37) Ibidem, vol. III ( 1951) pp. 238, 422. 38) Ibidem, vol. VII ( 1951 ) p. 18. 39) Ibidem p. 22. 40) Ibidem p.192. Questi tre documenti sono degli anni 1269-1272.


delle «case canoniche sicuramente annesse a centri di culto»41. Se così fosse, sarebbe attestato che la parrocchia di S. Severino già funzionava nella seconda metà del secolo XIV, restando comunque l’unico luogo di culto attestato con sicurezza fino alla fondazione della chiesa di S. Rocco da parte dell’Università di Casamicciola. Di quest’ultima chiesa sappiamo con certezza che era in costruzione negli anni cinquanta del secolo XVII. Infatti il 23 luglio 1656 Giovan Carlo Mennella, con suo testamento per notar Giovan Domenico Perciati, dona alla chiesa di S. Rocco di Casamicciola ducati cinque per la sua costruzione e carlini venti per celebrazione di messe42. Il 28 agosto successivo, sempre su disposizione testamentaria per lo stesso notaio, Battimo Buonomano dispone per la fabbrica di S. Rocco di Casamicciola un lascito di venti ducati43. Il Notamento degli atti beneficiali su questa chiesa ricorda solo il seguente documento che non esiste più: «Casamicciole 1699: Varie scripture super jure patronatus Ecclesie Sancti Rochi favore Universitatis eiusdem Casalis, folia scripta n. 7 44» . In una data non precisata era stata fondata la chiesa di S. Agrippino da parte della famiglia Garrica nella zona dell’attuale Via Cumana45 e nel 1692 quella di S. Antonio di Padova al Mortito dalla stessa famiglia 46. Da un atto del notar 41) A. Lauro, La chiesa e il convento di S. Restituta a Lacco Ameno, cit. p. 652. 42) A.S.N. Notai secolo XVII, scheda 122 protocollo 11, f. 98 r-99 r. 43) Ibidem f. 99 r-v. 44) Cfr.in A.D.I., Notamento…..cit. f. 77. Il 4 ottobre 1659 Vincenzo Piro, in un atto del not. Giovan Domenico Perciati dichiara che nei mesi precedenti ai deputati dell’Università di Casamicciola incaricati della costruzione della chiesa di San Rocco pagò ducati cinquanta per ottenere il diritto di patronato sullo spazio «sotto l’arco della seconda cappella a mano manca nell’entrare» nella detta chiesa per realizzare una cona della Madonna della Libera e altri Santi e dotarla di ducati dieci per la celebrazione di una messa la settimana (Notai sec. XVII scheda 122 prot. 12 ff. 125 v. – 126 v., atto del 4 ottobre 1659. Cfr. anche Notamento… cit. f. 78 che cita i documenti della fondazione della cappellania sotto l’anno 1659 e ci fa sapere che la chiesa era dedicata anche a San Vincenzo). Lo stesso Vincenzo Piro, con suo testamento per il medesimo notaio Perciati del 2 agosto 1661, dispone che sia sepolto nella chiesa di San Rocco di Casamicciola nella fossa dinanzi all’altare della Madonna della Libera (Notai sec. XVII scheda 122 prot. 13 f. 121 v., testamento del 2 agosto 1661). 45) Cfr. Notamento…..cit. f. 76 r.: «Casamicciole 1692= Acta fundationis et concessionis juris patronatus Ecclesie Sancti Agrippini in favorem familie Garrica cum nonnullis instrumentis reddituum ejusdem Ecclesie folia scripta n. 26». Il decreto di concessione del diritto di patronato alla famiglia Garrica, emanato dal vicario capitolare Tommaso Garrica il 14 aprile 1692, dice che la chiesa, che si trova nella zona chiamata Casa Cumana, è «antiquitus erecta in predio seu territorio familie Garrica» e che il canonico Guglielmo Garrica «ob suam magnam devotionem…. eam structuris et edificiis refecit et reparavit nec non multis supellectibus ac paramentis ecclesiasticis ornavit .. de annuo redditu ducatorum undecim dotavit» (cfr. gli atti nell’ADI). Nell’indice del protocollo n. 4 della scheda notarile 122 relativa agli atti rogati dal not. Giovan Domenico Perciati di Casamiciola negli anni 1620 e 1621, troviamo l’indicazione di un atto che riguarda la chiesa di S. Agrippino che si dovrebbe trovare al foglio 120. In effetti questo atto è perduto perché il protocollo si presenta rovinato dall’umidità e mutilo di

Giuseppe Monte del 3 agosto 1733 veniamo a sapere che «il quondam Cesare Corbera fondò una cappella sotto il titolo di S. Antonio di Padua, sita in questo casale nel luogo dove si dice il Mortito, la quale dal medesimo fu dotata di congrua dote come dalla dotatione, e fondazione di detta Cappella appare». Il documento quindi si dilunga nella descrizione minuziosa di tutte le vicende dei possedimenti che fanno parte della dote della chiesa 47. Nel 1693 fu fondata, invece, la chiesa del Purgatorio 48; nel 1697 la confraternita di S. Francesco Saverio 49, mentre non sappiamo con esattezza quando sia stata fondata l’altra confraternita intitolata a S. Maria della Pietà 50, ma certamente nella prima metà del secolo XVII. In anni non precisati, sulla Marina di Casamicciola furono fondate la cappella di S. Giovanni e quella di S. Nicola51. Sulle origini di quest’ultima chiesa il cui titolo era «S. Maria di Loreto seu S. Nicola» troviamo diverse notizie in un lungo atto del notar Natale Buonocore di Ischia del 2 aprile 1715 circa il legato disposto a favore di essa dal canonico Domenico Gargiulo nel quale, tra le altre cose, si afferma alcuni quinterni. Questo però comunque ci attesta che la chiesa già esisteva nel 1620 - 1621. 46) Cfr. Notamento …. Cit. f. 76 v.: «Casamicciole 1692= Acta fundationis capelle sub titulo Sancti Antonii de Padua in loco ubi dicitur Lo Mortito ac reservationis juris patronatus favore familie Corbera cum nonnullis presentationibus ad eam folia scripta n. 7». In un atto del not. Nicola Francesco Piro di Casamicciola si legge tra l’altro che Cesare Corbera «di suoi propri denari sustanza e facultà si have edificata et fabricata una chiesa piccola sotto il titolo di S. Antonio di Padua pèro sito seu luogo di detto magnifico Cesare sita e posta nelle pertinenze di detto casale dove si dice lo Mortito» e le assegna come dote annui ducati 14 su capitale di ducati 140 riservando per sé e suoi eredi il diritto di patronato ( Notai sec. XVII scheda 698 prot. 2 ff- 88 r.- 91). Su questa chiesa, oggi sede della parrocchia di S. Antonio di Padova, cfr. L. Iacono, Chiesa di S. Antonio al Mortito, Forio, Tipolito Epomeo 1987. 47) Notai sec. XVIII scheda 289 del notar Giuseppe Monte, protocollo n. 6 ff. 119 r. – 122 r. 48) Cfr. Notamento… cit. f. 80 r.: «Casamicciole 1693 = Acta varia pro fundatione Ecclesie Animarum Purgantium dicti Casalis, acta transactionis cujusdam census dicte Ecclesie Auctoritate Apostolica, cum notis et Relationibus Reddituum eiusdem Ecclesie folia scripta n. 18». 49) Ibidem f. 73 r. Su questa confraternita cfr. A. Di Lustro, Le Capitolazioni delle confraternite dell’Università di Casamicciola conservate nell’Archivio di Stato di Napoli I, in La Rassegna d’Ischia, anno XXVIII n. 1 marzo 2007 p. 42 e ancora: Il culto di S. Francesco Saverio a Ischia, in La Rassegna d’Ischia anno XXVII n. 3 giugno 2006. 50) Cfr. A. Di Lustro, Le Capitolazioni delle confraternite dell’Università di Casamicciola conservate nell’Archivio di Stato di Napoli II, in La Rassegna d’Ischia anno XXVIII n. 2 aprile –maggio 2007 pp. 36- 39. Sicuramente esiste già il 7 settembre 1636 perché in tale data Giuseppe Zabatta dispone che alla sua morte venga sepolto nella chiesa dell’oratorio di Santa Maria della Pietà ( Notai sec. XVII, scheda 122 del notar Giovan Domenico Perciati prot. 7 f. 228, testamento del 7 settembre 1636). 51) Il Notamento… cita solo questo documento ( f. 73 r. ): «Casamicciole 1704= Acta inter Reverendum Promotorem fiscalem Curie Episcopalis Isclane et Magnificos Fratres de Gargiulo super jure patronatus cappelle Sancti Nicolai dicte alla Marina= folia scripta n. 23».

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quanto segue: «( f. 166 r. ) …il Reverendo Signor Domenico Gargiulo canonico della cattedrale d’Ischia e promotore Fiscale della Reverenda Corte Vescovale di detta città similmente consentiente in noi, aggente et interveniente alle cose predette per autorità del suo officio, et in nome, e parte della Venerabile Chiesa, seu cappella sotto il titolo di Santa Maria di Loreto seu San Nicola alla Marina delle pertinenze di Casamicciola Diocese d’Ischia, e futuri cappellani e rettori d’esso imperpetuum dall’altra parte. Il Signor Don Domenico Gargliulo, tanto nel nome sudetto, quanto nel suo proprio espresso privato, e principale nome, et insolidum ave in presenza nostra e del detto Signor Canonico Don Tomaso Garrica Promotore fiscale ut supra presente audiente, et accettante spontaneamente disse come nell’anno 1667 a di 26 maggio, la quondam Lucretia, seu Renza Lombardo della Città di Napoli figlia, et erede come disse della quondam Gratia Maria Corsa fe vendita alla detta quondam Signora Teresa madre del Signor Domenico di un certo giardino incolto con alcuni alberi di agrumi di capacità di misurelle vent’uno in circa con una casa diruta ed una cappella con il jus Padronato di essa site nelle pertinenze ( f. 166 v.) del Casale di Casamicciola di detta Città d’Ischia dove si dice la lomera alias la Marina, la quale cappella in quel tempo era quasi diruta per l’impeto dell’onde del mare, e olim era stata eretta, e fondata dal quondam Giovanni di Nardino, et a essa era stato, e si ritrova assegnato l’annuo reddito di docati undici con li loro capitali consequendi da diverse persone di detta Isola in virtù di publiche cautele, col peso della celebrazione di una messa ogni giorno di festa, e poscia il detto giardino, nel quale stava costrutta detta casa, e cappella era pervenuto alla detta Gratia Maria Corso madre della detta Lucretia insieme con la detta casa, e cappella redditi, pesi et jus Padronato di d’essa in virtù di transazione fatta tra la detta Gratia Maria, e la Venerabile chiesa di Santa Maria di Loreto di Napoli com’erede del detto Giovanni di Nardino, conforme della detta cessione della Signora Lucretia alla detta Signora Teresa fatta di sopra apparere per istrumento per mano del quondam Notaro Giovanni Marana di Napoli sotto il detto giorno, mese et anno al quale in omnibus s’abbia relatione e che seguita la detta cessione, come che il detto mare finì di distruggere ( f. 167 r) et atterrare detta cappella la sodetta Signora Teresa a proprie spese la tornò ad edificare più grande, e decoroso in altra parte dell’istesso giardino non esposta all’occasione del mare conforme al presente si ritrova della quale però contiene agendo se ne procurò, et ottenne da Mons. Vescovo d’Ischia in quel tempo il jus Padronato, e di poterci mettere il cappellano per la sodisfatione di detto peso di una messa la festa conforme sempre dall’allora in qua, tanto la detta Signora Teresa, quanto il detto Signor D. Domenico figlio, ed erede di essa hanno sempre praticato, ma come che gli anni a dietro dal sudetto Promotore Fiscale di detta Corte li fu mosso in controversia detto jus Padronato, e dalla Santa Visita ad istanza del medesimo le fu ordinato di dover mostrare il titolo e giustificare detto jus Padronato, e per Dei gratia egli non potè mai rinvenire la Bolla: Perciò post multa alla fine detta Chiesa fu dalla detta Visita dichiarata libera come il tutto appare dagli atti della Visita ai quali. Ma perché doppo detta Signor Don Domenico ha sogionto 16

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realmente la detta nova chiesa seu cappella è stata edificata dalla detta Signora Teresa f. 167 v. sua madre sul detto suolo a sue spese, com’è publico, notorio, e manifesto a tutto il Paese, non è dovere, che da detto Don Domenico senta questo pregiuditio per la sola causa della perdita della bolla ha supplicato, e fatto supplicare l’Illustrissimo, e Reverendissimo Monsignor Luca Trapani odierno vescovo d’Ischia a volersi compiacere confirmare et quantum opus sit di novo concedere il detto jus Padronato di essa al detto Signor Don Domenico suoi eredi, e successori imperpetuum con il jus sepulture di poterci mantenere mettere il cappellano per la celebrazione delle dette messe ogni festa amovibile però ad ogni semplice cenno del detto Signor D. Domenico suoi eredi, e successori offerendosi non solo di obligarsi a dare cautela valida alla chiesa, seu cappella, e suoi futuri cappellani di essa imperpetuum dell’annuo pagamento delli sudetti ducati undici per la sudetta celebratione, ma oltre di ciò di quella dotare d’altri annui carlini trenta per le suppellettili necessarie per il sacrificio della Santa Messa, li quali similmente detto Don Domenico ave asserito stare detta chiesa al presente ben provista del che ascende detto Monsignor Illustrissimo restato contento…»52. Della chiesa dell’Immacolata e di S. Antonio di Castanito, cioè della Sentinella, possiamo dire che essa è stata fondata a metà del secolo XVII. Infatti già il 4 marzo 1662 abbiamo notizia di un atto notarile stipulato per l’acquisto di un terreno di un tomolo tra Andrea de Siano e i governatori della cappella di Sant’Antonio nella chiesa della Concezione a Castanito53. Inoltre il 15 agosto 1678 il parlamento dell’Università di Casamicciola deliberava di imporre la gabella di grana quindici per tomolo di grano e farina che si panizza nel Casale e di un denaro a «carrafa di vino che si vende al publico a minuto nelle botteghe, come ancora del pane, che viene da fuora nelle botteghe, che viene da fuora e pasta lavorata…….per sodisfare alli pesi, e debiti di detta Università di detto Casale, cioè ducati Duecentoventuno per spese fatte per servitio di detta Università, ducati centoventi che si devono al Medico, ducati settanta al Maestro di scola, ducati trenta per la via nominata La Rita, ducati dieci alla Venerabile chiesa di S. Rocco, altri ducati dieci alla chiesa di S. Antonio, e ducati otto per l’orologio che in tutto importano ducati 479»54. Il Notamento degli atti beneficiali cita solo documenti dei primi anni del secolo XVIII. Il primo, dell’anno 1700, si riferisce a una «Nota reddituum cum instrumentis reddituum spectantium ad Ecclesiam Immaculate Conceptionis Beate Marie Virginis et Sancti Antonii a Castanito folia scripta n. 8», mentre il secondo del 1703, ricorda gli «Acta concessionis juris patronatus favore Universitatis dicti Casalis pro duobus Ecclesiis sub invocazione Immaculate Conceptionis et Sancti Antonii de Padua, et alia sub titulo Sancti Rochi….»55, facendo capire che siano due chiese e non una sola.

Agostino Di Lustro

52) ASN, Notai sec. XVIII, scheda 44 del notar Natale Buonocore di Ischia f. 165 v. e ss.


Rassegna Libri

Il riflesso di un arcobaleno sulla Colombaia: Luigi Patalano di Ivano Fiorentino

Graus Editore, collana Personaggi, p. 258, febbraio 2012

Una semplice “scatola di cartone” può custodire un tesoro: appunti, vecchi giornali, manoscritti, bozze di discorsi, articoli, lettere. Ed è proprio attraverso una scatola che Luigi Patalano — poeta-giornalista e politico di formazione democraticorepubblicana — preserva e tramanda alle generazioni future il proprio pensiero e i suoi valori. Facendo propria la massima del maestro Bovio, “l’utopia di oggi rappresenta la realtà di domani”, Patalano dedica la propria esistenza alla realizzazione della sua utopia ischitana, volta alla realizzazione di una società pacifica dove la cultura domina e regola l’agire umano, rendendo così Ischia simile all’isola-regno descritta da Thomas More. Ponendo a servizio di tutti il suo impegno giornalistico, culturale e politico, il Patalano, il “venerando amico di tutti, il saggio consigliere di tutti, il gentiluomo per * Ivano Fiorentino è nato nel 1975 ed è ischitano di Forio. Ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza sull’isola; a diciotto anni ha intrapreso la carriera militare. Dopo aver frequentato l’Accademia Militare di Modena e i successivi corsi prescritti per la formazione e la specializzazione di Ufficiali dell’Arma di Artiglieria, ha prestato servizio in diverse città italiane ed in diversi contesti internazionali (Bosnia ed Afghanistan). Nel corso degli ultimi anni ha operato presso l’Ufficio Pianificazione dello Stato Maggiore dell’Esercito. Vive tra Forio, Procida e Roma. Le sue eterogenee esperienze non lo hanno mai definitivamente allontanato dalla città natale, dalla cultura e dalle tradizioni dell’isola d’Ischia, delle quali rimane geloso custode. La deriva continentale della sua esistenza ha oltremodo irrobustito il legame con la propria terra, alla quale fa ritorno non solo per ritemprarsi, ma per rinvigorirne l’appartenenza. Ivano coltiva la sua terra e porta sempre con sé il sapore, i frutti e i profumi unici della sua isola.

istinto e per tradizione di casato”, come un “arcobaleno”, ha vegliato per circa un secolo su Forio, soprattutto nei momenti più difficili, tanto da costituire una “guida speciale” per la popolazione… Ma oltre a questa scatola, alle generazioni future ha lasciato anche un simbolo, un monumento per la civiltà: la Torre della “Colombaia”, arroccata sulle rocce trilitiche del promontorio brunito di Zaro. Una torre bianca che con un inconfondibile stile neogotico, alla pari della

Celestino

di Lieselotte Wacker Attilio Sampietro Editore, Menaggio (Como). Disegni di Margit Kröss. Traduzione dal tedesco di Nicola Luongo. Celestino è il titolo di un piccolo

libro in undici brevi capitoli dalla veste tipografica elegante, intrisa di raffinatezza di gusto e di senso estetico, scritto da Lieselotte Wacker, una signora tedesca che ama l’Italia, scelta per sua seconda patria, come è accaduto per tanti artisti, pensatori e filosofi del passato che venivano nel nostro Paese non solo per ammirarne le bellezze paesaggistiche e na-

Statua della Libertà, rappresenta la “fiaccola della democrazia” volta ad illuminare i popoli lungo il sentiero del rispetto comune. * turali, ma anche per contemplare e rimirare il ricco patrimonio artistico e archeologico; parla la lingua italiana in maniera perfetta, senza alcuna inflessione. Particolarmente interessanti per la spontaneità dell’efficacia espressiva e degli aspetti di candore risultano i disegni di Margit Kröss, che nelle sue policrome creazioni è ricorsa alle componenti di semplicità e innocenza che fanno parte del carattere della puerizia e che, per certi aspetti, ricordano l’elemento ingenuo e primitivo dell’esperienza poetica e dell’essenziale liricità riscontrabili nella poetica del “Fanciullino” di Giovanni Pascoli. Sulla retrocopertina bianca si legge: Per i bambini di ieri, di oggi e di domani, ma io ritengo che questo avvertimento, dettato da modestia e riserbo, sia riduttivo e non rispondente a verità, in quanto Celestino può essere letto con piacere e proficuità non solo dai bambini, ma anche dagli adulti che apprezzeranno lo stile limpido e trasparente, il lessico e il contenuto denso di spunti di riflessioni e di poesia. La Rassegna d’Ischia n. 2/2012

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Celestino, il protagonista dell’opera, «viveva in un bianco villaggio vicino al mare», facilmente individuabile in Sant’Angelo d’Ischia, e i suoi genitori lo chiamarono Celestino perché era «un dono del cielo». Il bambino, dotato di fervida fantasia, vive in quell’angolo di paradiso senza traffico e folla, accudito amorosamente dai genitori e dal nonno Giuseppe, uomo saggio che aveva tappezzato il suo negozio-caverna di citazioni di poeti e filosofi antichi, da leggere e meditare. Ma un giorno quell’angolo di paradiso venne turbato da un evento criminale «come se una meteora fosse caduta su di esso» e cioè una rapina a un orefice del villaggio, che lasciò sbigottiti gli abitanti e fece capire a Celestino che il mondo non è soltanto un’oasi felice, ma anche «l’aiuola che ci fa tanto feroci», come dice Dante nel XXII canto del Paradiso. L’incontro con un forestiero, venu-

to a Sant’Angelo per comprare una barca, costituisce un fatto importante per il suo processo di maturazione umana e cognitiva. Facendo un viaggio con lui fino al Nord Italia, il bambino conosce una realtà diversa da quella circoscritta del suo piccolo borgo e ciò naturalmente gli vale a conseguire una comprensione migliore della vita. Un altro personaggio ben riuscito sul piano letterario è Marcello, un bambino sfortunato, costretto dal padre storpio crudele e malvagio a chiedere l’elemosina e a subire da lui ogni tipo di violenza fisica e psicologica. Ma un giorno, finalmente, un po’ di fortuna arrise anche a Marcello: Celestino, il bambino fortunato figlio di un albergatore, dall’animo sensibile e generoso, incontrò Marcello a cui non fece mancare il suo aiuto e, un altro giorno, a lui si avvicinò una giovane donna che, in un primo momento offerse a

Un pescatore russo a Positano di Michail Semënov

a cura di Vladimir Keidan e Michail Talalay Centro di Cultura e Storia Amalfitana, 2011 – Il libro è stato presentato il 19 dicembre 2011 a Positano con l’intervento del sindaco Michele De Lucia, del giornalista e scrittore Carlo Knight, di Giuseppe Gargano e Giovanni Camelia del Centro Cultura, di Vladimir Keidan, docente di Lingua e Letteratura russa all’Università di Urbino. Per la prima volta si propone al

lettore l’edizione completa e commentata. Il protagonista russo, un nobile da molte generazioni, appassionato da giovane di tolstoismo e marxismo, insegnante in una scuola di campagna (per evitare il servizio militare); giornalista, traduttore, commerciante di libri, editore, commerciante d’arte, segretario commerciale di Djagilev, persino fondatore in Italia della pesca industriale e un commerciante di pesce di successo. Era portatore dello spirito cosmopolita del modernismo europeo, di un’incolmabile necessità di socializzare e dell’ ‘eros’ dell’atto creativo. Semënov era un habitué dei caffè

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La Rassegna d’Ischia n. 2/2012

artistici di Firenze e di Roma, dove con la generosità russa sperperava i soldi della coniuge benestante e davanti ad un bicchiere di vino faceva amicizia con gli ancora sconosciuti artisti, scrittori, drammaturghi, successivamente divenuti dei classici dell’avanguardia del XX secolo: P. Picasso, A. Modigliani, J. Cocteau, G. Vannicola, G. Papini, A. Gide, il commediografo inglese G. Craig, lo scultore M. Rosso, il critico Soffici, i futuristi G. Balla e F. Depero, il compositore I. Stravinskij, ecc. Grazie alla propria socievolezza e al talento di commensale-narratore entra nell’ambiente professionale di giornalisti e politici, divenuti in seguito

lui incredulo delle monete e un gelato, gesto che voleva far capire al povero Marcello che non gli avrebbe mai fatto mancare il suo amore, cioè quel sentimento di dedizione istintiva e intuitiva che permette di vivere in serenità ed armonia con gli uomini e la natura. La favola si conclude con un finale felice, come accade in tutte le favole che si rispettino, che lasciamo scoprire al cortese lettore di questo poetico e godibile libro. Nicola Luongo Lieselotte Wacker, nata in Germania, diplomata in lingue moderne; borsista dell’Istituto Italiano di Monaco di Baviera; interprete; critico d’arte con pubblicazioni in Italia: poesie per bambini trasmesse dalla Radio Bavarese di Monaco; co-autrice dì un libro d’arte sul pittore Max Hartwig. Frequenta l’isola d’Ischia da 37 anni.

membri della più alta gerarchia del regime fascista: E. Amicucci, I. Tavolato, F. Anfuso, G. Bastianini. Il loro sostegno aiuta Semënov ad evitare molte delle pericolose svolte del destino: cause penali, esilii dall’Italia. Muore a Napoli alla veneranda età di settantanove anni, lasciando detto nel testamento di gettare il suo corpo nel mare per essere mangiato dai pesci e di finanziare con il suo patrimonio degli omaggi a Bacco per i pescatori della Costiera Amalfitana. «Nella vita mia predominarono tre elementi: sole, vino e donne. Il sole mi diede la salute, il vino la gioia, le donne la sofferenza» - con queste parole Michail Nikolaevič Semënov (1873-1952) anticipa la sua narrazione autobiografica, scritta a Positano durante l’ultima guerra nell’isolamento forzato della sua villa Mulino d’Arienzo. Il primo volume, intitolato Bacco e sirene, fu pubblicato in italiano a Roma nel 1950. Il secondo volume, che narra del suo


Epomeo, figlio di Agarthi di Salvatore Marino Iacono (1)

Graus Editore, collana Gli specchi di Narciso, pagine 256, febbraio 2012

mezzo secolo di vita in Italia, piena di avventure e di conoscenze importanti, è stato a lungo considerato inedito, mentre il manoscritto era disperso alla morte dell’autore. Il filologo russo Vladimir Keidan, docente dell’Istituto di slavistica dell’Università di Urbino, è riuscito, però, a ritrovare la serie di pubblicazioni di novelle autobiografiche nella testata napoletana Il Giornale del 1951, con il sottotitolo Mulino d’Arienzo. Memorie di un pescatore, ma anche in diverse altre riviste italiane o della diaspora russa.

*

Abigail è tornata di Tina Aventaggiato * Loffredo Editore Un veterano della guerra nel Nord Africa, nel secondo conflitto mondiale, è stato sequestrato e la sua vita è in pericolo. Come salvarlo? Le indagini prendono la strada del ritomo al passato e rico* Laureata in Lingue e Letterature Straniere, Tina Aventaggiato ha insegnato Lingua e Civiltà Inglese presso Istituti di scuola media e superiore nella provincia di Lecce. Collabora alle pagine culturali del quotidiano regionale “Puglia”.

Fino a quando il genere umano non capirà di essere una piccola cellula di questo grande organismo chiamato cosmo, non potrà mai accogliere altre entità provenienti da altri mondi. Cosa si cela nelle terre d’Ischia? Da dove sorgono i bagliori che ne solcano il cielo? Perché gli anziani consigliano di evitare i boschi e i pendii del monte Epomeo? Un’appassionata testimonianza, ricca di episodi, molti dei quali vissuti in prima persona dall’autore stesso, nell’instancabile ricerca della presenza di alieni sull’isola. Il saggio è supportato da un’analisi meticolosa delle fonti e delle testimonianze, nonché da numerose citazioni di racconti mitologici e di leggende folkloristiche sulle presenze che animano i boschi e le colline ischitane. Scrive Iacono nell’Introduzione: «Il libro che avete tra le mani, per quanto 1) Salvatore Marino Iacono è nato a Napoli, ma ora vive ad Ischia con la moglie e il figlio. Dopo aver conseguito il diploma nautico, ha cominciato la sua carriera sulle navi di una compagnia napoletana, dove ha raggiunto il titolo di terzo ufficiale di coperta. Attualmente lavora come ufficiale di navigazione per una compagnia di crociere. È appassionato di storia delle tradizioni ischitane, nonché di ufologia e misteri.

possa sembrare frutto di fantasia, non lo è; nulla è stato inventato. Non è certamente un romanzo né tantomeno un libro di fantascienza, ma è semplicemente il risultato di anni di ricerche e di esperienze personali. (...) Cercherò di dare la mia personale interpretazione a quei tanti episodi misteriosi dei quali molti ischitani sono stati muti testimoni, consapevole del fatto che “tacere” sia stato per loro l’unica soluzione ...».

*

struiscono i fatti della guerra dai quali tutto è cominciato. Al centro di questi c’è una giovane ragazza ebrea dal destino segnato e il suo ricco patrimonio di famiglia, il bottino di Abigail. Abigail è tornata. Perché? Può salvare il vecchio? La narrazione procede nel ritmo crescente della lotta contro il tempo. L’intreccio, in un fatale gioco delle parti, diventa, per i protagonisti, l’occasione per rivivere la lotta sui campi di battaglia. Tobruk e il deserto libico tornano ad essere luoghi di orrore e morte. * La Rassegna d’Ischia n. 2/2012

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Aragonesi

Splendori Passioni e Intrighi tra Spagna Napoli e Ischia (1442-1501) di Giovanni Di Meglio

Valentino editore, collana Il Tirso, prefazione di Ernesta Mazzella. In copertina affresco della Torre Guevara d’Ischia. Dicembre 2011.

L’avvocato ed ex assessore del

Comune d’Ischia ha dato alle stampe recentemente il libro AragonesiSplendori Passioni e Intrighi tra Spagna, Napoli e Ischia, dedicandolo “a tutti gli ischitani che amano la loro isola” con una prefazione di Ernesta Mazzella, la quale opportunamente ha osservato che il testo è “un suggestivo tuffo nei cinquantanove anni del Regno di Napoli”. Col nome “Aragonesi” si designano tradizionalmente i membri della dinastia d’Aragona che regnarono in Sicilia e nell’Italia del Sud dal 1282 al 1501. Questo libro inizia invece a partire da Alfonso I, detto il Magnanimo. Successori di Alfonso furono Ferdinando I (1458-94), Alfonso II (1494-96), Ferdinando II (1495-96) e Federico I (1496-1501). Morto Federico, il regno di Sicilia e di Napoli passò agli Asburgo di Spagna e venne definitivamente unito alla Spagna nel 1506. Il volume è costato all’autore certamente un grande sforzo di ricerca e di rielaborazione. Basti pensare alle numerose opere riguardanti la storia di Napoli e di Ischia e dei loro governanti, come risulta dalla bibliografia acclusa. Ogni regnante aragonese è descritto con acribìa, preciso giudizio e sottile senso dell’ironia che spesso fa sorridere il lettore, come nel caso della descrizione di Carlo VIII che riporteremo in seguito. Il primo dei re aragonesi trattati è naturalmente Alfonso I il Magnanimo che rese Napoli il centro amministrativo di tutti i domini aragonesi, nonché di una intensa attività cultu­ rale e di irradiazione dell’Umanesimo nel Mezzogiorno. Sul piano interno, Alfonso gettò le basi di un regime monarchico asso20

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luto, pur dovendo scendere a compromessi con la persistente forza della feudalità. La presentazione dei regnanti è quanto mai efficace per l’arguzia, l’ironia e la mancanza di timore reverenziale verso uomini dotati di potere immenso, i quali spesso ritenevano che il compito di regnare derivasse loro direttamente da Dio. Ne esce veramente malconcio soprattutto il re Carlo VIII per il fisico deforme, la smodata brama di sesso, «con fattezze che lo facevano apparire più ad un mostro, con un inconsueto miscuglio di tratti animaleschi, balbuziente, ignorante, pigro e arrogante per inclinazione naturale», dominato dal «desiderio di avere continui rapporti sessuali, preferibilmente con collaudate ed accon­ discendenti cortigiane». Eppure a questo re riuscì di attraversare l’Italia indenne e di conquistare Napoli, soprattutto grazie alla viltà dei principi italiani e alla loro incapacità di contrastarlo sul piano militare. L’ultimo re aragonese di Napoli fu Federico I. Imbelle, bigotto, incapace di reggere le sorti del Regno, si disinteressò delle vicende politiche, comportandosi “senza infamia e senza lode” o, come scrisse Manzoni, trovandosi in quel contesto dinastico “come un vaso di terracotta costretto a viaggiare insieme con vasi di ferro”, per lo più perseguitato da una scalogna nera che colpiva non solo lui, ma anche i parenti e quelli che gli erano vicini, come attestò anche Benedetto Croce in uno dei tanti libri scritti sulla storia degli Aragonesi. Un’altra figura di rilievo della dinastia aragonese fu Ferdinando I che, insieme con sua moglie Isabella, attuò l’unione di Castiglia ed Aragona,

prima costituzionalmente divise. In Castiglia fu domata l’anarchia feudale e creato un forte esercito che sconfisse il Regno di Granada. Il consenso ai sovrani si accrebbe dopo l’impresa di Colombo che esplorò il Nuovo Mondo. Inoltre Ferdinando il Cattolico riprese l’espansione aragonese nel Mediterraneo e si proclamò re di Napoli nel 1503. Consolidò il potere spagnolo in Italia, cacciando i Francesi dall’Italia con la Lega Santa e si assicurò il dominio su tutta la Spagna. Gli successe il nipote Carlo VIII, a proposito del quale l’autore dice di averlo inserito nel libro “per completezza di esposizione” e per rimarcare il fatto che il re Carlo VIII di Francia fu comunque re di Napoli nel bene e nel male. Giovanni Di Meglio, che ha avuto il merito di rendere piacevolmente fruibili intricate vicende dinastiche e politiche con una scrittura puntuale e fluida, conclude il testo con l’elencazione dei privilegi che i re aragonesi concessero a favore delle Università (come a quel tempo si chiamavano i Comuni) dell’isola d’Ischia, a testimonianza del fatto che non sempre è veritiero l’assunto che ogni monarchia è l’ipostasi del male assoluto e dell’oppressione disumana ed efferata. Nicola Luongo


Saie quanne fuste, Napule, corona? Quanne rignava Casa d’Aragona

Ho trascorso ore intere, quasi sognando, all’ombra del carrubo piantato da San Giovan Giuseppe della Croce, ed ho visto errare ver gli spalti e gli sproni le ombre implacate di Alfonso e di Federigo, ultimo re d’Aragona. Già allora, quando il Castello venne presidiato dalla soldataglia spagnuola, gli Italiani ebbero il torto di lasciare il buon Re Federigo solo a cavallo della sua disfatta, incuranti che con la caduta di Casa d’Aragona tramontava per secoli il sogno dell’Unità della Patria. Ed ho rivisto l’incontro tra il pensoso Federigo ed il bieco Giusto da Candida che aveva fraudolentemente ceduto il Castello ai Francesi all’epoca della calata di Carlo VIII. Poi gli. Aragonesi avevano ripreso la fortezza e Giusto era ritornato per angariare ancona un poco gli Isolani e per tradire ancora un poco il suo re. Federigo, l’umamista, l’amico di Lorenzo il Magnifico, il cavaliere mite e cortese delle corti d’amore, sentì nelle vene riaffiorare il sangue aspro del padre Ferrante, trasse dalla cintola il gran pugnale geminato e trafisse di sua marno il Castellano fedifrago. Breve parentesi di violenza, mi suggeriscono le mie fantasticherie, breve parentesi di violenza subito chiusa dall’arrivo dei nuovi Castellani, Inico d’Avalos e la sua dolce sorella che si chiamò Costanza come la Imperatrice normanna. Costanza era il fiore della Casa, cresciuta nel clima della Napoli colta quattrocentesca, luminosa di cuore, sovrana di ogni leggiadria, generosa sacerdotessa di sentimenti e passioni. Che importa ai Poeti sapere che Costanza fu altresì donna di vividi ardimenti, di alto sapere politico, capace di affrancare il Feudo dalle esose pretese dei Vicerè di Spagna, per creare

* In Ischia l’isola verde, anno I n. 4/novembre 1949.

Poesia di donne nel Castello incantato *

una vera dinastia dei d’Avalos sul Castello e sull’Isola? A me preme rievocare tra queste mura, tra queste gloriose chiesette dirute, che Costanza trasse dallo spirito di poetare in elegante italiano, così come aveva saputo ispirarsi ai ritmi di Berenguer de Nova per comporre ballate catalane. Non so più ricordare dove ho letto, nel più fiorito Valenziano, l’elegia di Costanza per la morte del giovanissimo nipote Alfonso, ucciso a tradimento da uno schiavo moro nella guerra contro Carlo VIII: forse durante una mia breve visita a Saragozza, forse tra i libri di un mio amico che si nutre di storie, di glorie e di orgoglio napolitani. La strofe scorre lenta come un lento morire, le immagini si incastonano quali gemme nel dolore del canto, e l’amore dell’adolescente perduto e si compone di verso in verso in un lirismo che sa di liturgia. Possibile che, tra tanti eruditi in fregola di notorietà, nessuno abbia mai pensato di rintracciare e restituire a notorietà i versi di questa bellissima nostra creatura del Rinascimento che è poi madre spirituale di Vittoria Colonna? Nostra creatura, dico; perché nelle vene portava il sangue della madre Antonella d’Aquino, di colei che donò al rude marito catalano la gentilezza della gente di Napoli, gli ori e le gemme della sua casa ed i Marchesati del Vasto e di Pescara. Un giorno, in San Domenico Maggiore, ho scostato un poco il coperchio della cassa di Costanza, ammonticchiata fra re, regine, solenni guerrieri e solenni prelati, sulla balaustra di legno che circonda la smagliante Sacrestia, Sono poveri resti polverosi, consunti, tarlati, che conservano appena tracce della ricca inumazione. Giace la Poetessa nella sua veste sontuosa di broccato, con il povero capo reclinato sul cuscino di seta e la bocca contor-

ta dall’erosione del tempo. Ma voglio ancora dire del mio lungo sognare nel Castello disseccato, abbandonato, all’ombra del carrubo di San Giovanni della Croce. Qui, in una fredda giornata decembrina del 1509 venne la bella figlia di Fabrizio Colonna, Signore di Paliano e Gran Conestabile del Reame di Napoli, per congiungersi in nozze con Ferdinando d’Avalos, nipote ed erede di Costanza. Furono sponsali di ragione politica. L’amore venne dopo, se pure venne, se pure i canti della vedovanza di Vittoria non furono germinazioni di petrarchismo anziché aneliti del cuore. La cerimonia fu di straordinaria fastosità, dicono i cronisti. Io ho potuto ricostruire, a maggiore gioia della mia fantasia, il corteo nuziale con le dame nelle vezzose acconciature del periodo aragonese, i guerrieri luminosi di riflessi di acciaio ed i Vescovi impettiti e salmodianti. La fanciulla incede a fianco dello sposo ed ha ancora nei grandi occhi la visione augusta della terra natia. Sull’ovale purissimo del volto v’è uno smarrimento, una nube leggera, quasi il presentimento dei giorni non lieti che verranno. Questo marito coperto di ferro come un guerriero delle Crociate, grifagno di volto e d’animo, è poi davvero il Principe azzurro che deve aver sognata nel mastio di Marino la fanciulla angelicata qui condotta come la vittima all’ara? Ahimè! Dopo appena due anni dalle nozze Ferdinando cadrà prigioniero dei Francesi nella battaglia di Ravenna; ed al ritorno in Napoli, preso dagli intrighi politici che gli fanno perfino sperare una corona reale, avrà poco tempo da dedicare alla delusa Vittoria. E non avrà neppure tempo e voglia di ascoltarne i consigli di moderazione continua a pagina 51 La Rassegna d’Ischia n. 2/2012

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«Dalla Casa Malcovati» - Pittrice moscovita ad Ischia Presentiamo ai nostri lettori alcuni quadri (tela e olio) della pittrice moscovita Tatiana Ciudotvortseva (secondo la traslitterazione scholastica, Čudotvorceva). Tutto il suo ciclo ischitano ha il titolo «Dalla Casa Malcovati».

Tatiana Ciudotvortseva si è laureata a Mosca, presso l’Istituto di Poligrafia, con la specializazione sul design dei libri. Però la grafica libresca non l’attirava e alla fine Tatiana si è spostata verso la pittura. Non amando le esposizioni, lei preferisce lavorare in un modo privato, dipingendo soprattutto i ritratti e i paesaggi. Ci siamo conosciuti ad Ischia e io sono rimasto entusiasta della sua arte. Quindi mi sono permesso di rivolgere alcune domande a Tatiana. Quando Lei è arrivata ad Ischia la prima volta? Quasi venti anni fa…. Esattamente nel 1994, e sono venuta con mio marito durante l’inverno. Faceva freddo e non dipingevo niente. E ora torniamo praticamente ogni anno, sempre ospiti della famiglia Malvcovati – la nostra amicizia con loro dura ormai da molti anni. Gli ultimi dieci anni veniamo esclusivamente in autunno, dipingo e conduco la ‘dolce vita’ presso il mare ischitano – io lo dipingo e lo ‘bevo’. Quanti quadri ischitani ha dipinto? Buu… Non ho un calcolo…. Forse un mezzo centinaio… Dipingo con olio in una maniera lentissima. Ho tanti schizzi ma pochi lavori compiuti, e solo ad Ischia riesco a finire tante opere: sono quasi sola e quasi immobile. I moscoviti hanno visto i suoi paesaggi ischitani? Solo quelli che sono venuti a casa nostra a Mosca…. L’isola è una fonte d’ispirazione per lei? Ischia è favolosa ma, per ciò che riguarda la mia attività, ho una ispirazione strana. Posso dipingere soltanto le cose che osservo a lungo e che hanno avuto la loro composizione pittorica già nella mia testa. Forse per questo alcuni miei quadri possono sembrare monotoni… Sono incantata dai movimenti delle navi locali – Medmar, Caremar. Sì, posso dire che sono ispirata dal loro lento procedere verso qualche obiettivo dell’orizzonte o il loro ritorno. Sono ispirata anche dai cambiamenti di colori durante il giorno – questo mi impressiona più dei cambiamenti dei luoghi. Ogni tanto dipingo il Castello Aragonese che mi incanta e mi irrita… ??? Sì, irrita, perché non riesco a trasmettere sulla tela tutto quello che vedo. Ma in generale Ischia per me è tutto ciò che vedo dalla splendida terrazza della Casa Malcovati. Quindi un grazie enorme sia a questa casa ischitana sia ai Malcovati! Michail Talalay

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Ischia Ponte - Borgo di Celsa Lo Scuopolo – Torri e altre ricerche… di Vincenzo Belli

Il presente lavoro, pur avendo come obiettivo particolare il Dispositivo difensivo dell’isola d’Ischia, allarga le sue ricerche e la sua attenzione generale ai contorni di Ischia Ponte. Si trascrive innanzitutto un documento riportato nella Platea dei beni formati nell’anno 1620 circa S. Maria La Scala1. Esso invero presenta incertezze sia di lettura, sia del linguaggio usato a quei tempi (date incerte; le uniche sicure sono il 1576 scritto in una nota a margine ed il 1620 sulla copertina della Platea), per quanto riguarda le abbreviazioni, l’uso delle minuscole e del singolare/plurale indifferentemente, e dei cognomi2. Nella pagina 29 (recto e verso) del documento si legge: (In alto, a centro pagina) : Russo Chiomana e seguito Isca (Nota sul margine sinistro): Fatto nel Campione nuovo fol. 38 – manca la vendita che ha fatto detto Signor Oratio alli Russi. (Nota sul margine destro) : 1a: hogi la copia della socessione della Torre benché (?) stia sotto il numero 7 tuttavolta sta nel .. mazzetto fatto da me. 2a: la sopradetta scrittura fu fatta nelli Anni mille cinquecentosettantasei il Notaro Gio Aniello Mancuso 1576 (Testo del documento) : Revocatione et alienatione fatta delli siti, et orticello parte dello nostro orto allo Scopolo lasciato da Catarina Assanta affittato a’ Oratio tutta Villa da Batello (?) Giulio Romano Priore a’ quelli tempi L’istromento al deposito n° 165. Ci stà la Copia in Carta di Bammace alli mazzi del altre scritture Notamento di sopra da altri e da me Vi sta una Torre dipenta dentro di essa Copia quale dice de revocatione sotto la torra dipenta, et di più l’ho fatta leggere che ci manga l’assenso Papale ci si è fatta lite appresso senterete il tutto Il sopradetto Priore a’ quel tempo ne patì che non potea affittare detto Orticello et sito nel nostro orto dove se dice lo Scoglio dello Scopolo li furno dati capi dal P. M. Gratiano da Bevagnia per utile di questo convento Ma poiche detto Oratio tuttavilla era Governatore a’ quel 1 ASNA-Monasteri soppressi fs.85. 2 Mi ha aiutato in merito il prof. Agostino Di Lustro, che peraltro mi aveva segnalato il documento.

tempo non se ne fece altro ne fu privato il Priore per quanto mi dicono l’antichi cioe trovato una nota di mano del P. Maiestro Gratiano nel pretorio di nuovo il Padre fra Cesaro da Caserta Priore et io collettore ci fece lite con li russi hoggi possessori et hebbimo sentenza prima in favore. Il detto P. F. Cesaro se partì che fenì lo priorato et resto insolito la lite anzi il detto priore prima che partisse impedì una fabbrica che detti russi volevano fare a’ un poco di sito che ci era restato congiunto con le due torre vecchie fatte una da Oratio tutta Villa Gubernatore a’ quel tempo detto da esso per defensione del borgo conforme la Cautela fatta con li Padri, et poi partendosi da Governatore la vendì alli russi con l’altro sito appresso con peso che pagassero trenta carlini l’anno il primo di 9bre conforme esso oratio l’havea pigliato dal convento Dopo li russi ci hanno fatta Un’altra torre congionta con la prima come hoggi si vede, et ancora Aniello è fratelli (?) russi al tempo d’hoggi ci hanno fatto Magazeni, Camare, et altre comodità che si può dire Un’altra torre come hoggi si vede fabbricate sopra il sito detto di sopra che il convento selo potea pigliare con poca spesa. essendo che in tempo della lite di fra Cesaro, ci fù decreto allo Consiglio che non si potesse fabbricare alla banca del concordia hoggi Morto dove mi dice Gio Batta Valifano che oggi si dice la banca di Salerno o’ vero il detto Gio Batta sa il tutto che io non mi ricordo quale banca sia Si è perso questo sito non lo dico a’ questo libro per attendere alli guai miei Voi altri Padri d’isca lo sapete quando li Russi comingiorno a’ fabbricare sopra lo sito Io era Priore a Forio Venne in isca, et vidde la fabbrica comingiata, et avvisai il tutto della lite cioe al P. Priore et al Maiestro Gregorio, a’ quel tempo non sene fece altro non me state a nominare niente intorno di questo negozio che io ho fatto più di Voi in servitio di Sta Maria della Scala La Revocatione fatta delli siti, et orticello come di sopra a’ Oratio tutta Villa che Beccello Giulio detto di sopra ne fu privato, al deposito n° 165 su che li sopradetti russo pagano docati sette come di sopra et retoscritti ------------- doti 7 –0---0-. Come si vede, un documento che fa riferimento a

Particolare del testo qui trascritto

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persone, luoghi, contenziosi, tempi, non proprio chiarissimi: per evitare di tralasciare l’evidenza dei tanti interrogativi che suscita - ovviamente non di tutti -, si raccoglieranno le loro causali in gruppi di etichette omogenee. Avvenimenti - Caterina Assante lascia al Convento siti, un orticello, parte di un orto allo Scuopolo3; - Giulio Priore cede ad Orazio Tuttavilla una parte di quanto sopra, e questo vi fa una Torre per defensione del borgo conforme la Cautela fatta con li Padri; - Orazio Tuttavilla, lasciando la carica di Governatore dell’isola, vende ai Russo-Russi - (Rossi ?); - di questa cessione mancano documenti, secondo lo scrivente del documento di cui si tratta, che è stato Priore a Forio e collettore (una sorta di esattore) del convento; - vi è la revocatione et alienatione dei beni in oggetto, fatta mentre era priore Giulio Romano; con strumento al deposito4, n° 165; il documento è in carta di bammace5, con annotazioni di diverse persone ed anche dello scrivente; - vi era anche un disegno della Torre annotato (manca l’assenso papale); - nasce una lite con i Russo, possessori, promossa dallo scrivente e dal padre Priore fra Cesare da Caserta, con una prima sentenza favorevole al convento; (i Rossi pagavano 7 ducati, mentre Don Orazio aveva trasferito loro la proprietà con pagamento di 30 carlini ogni 1° di novembre)6; - i Rossi avevano costruito accanto alla Torre di Don Orazio, anzi congionta ad essa, un’altra Torre, entrambe chiamate vecchie dallo scrivente, aggiungendo al tutto – pare da parte di Aniello e fratelli Rossi - ma3 Questo lascito al convento è segnalato anche in Ilia Delizia, L’antico borgo marinaro di Ischia Ponte in una pianta inedita del 1616, pp. 55-56, in Napoli nobilissima, vol. XIX fascicolo I-II (Gennaio-aprile 1980), pp. 48-63: «… Si tratta della cappella di S. Maria Maddalena e di S.Pietro in vincola, concessa nel 1390 a Catarina Assanti e da questa dotata di un terreno allo Scuopolo e di un giardino alla Vignia….». Inoltre nella nota 68 di p. 63, si legge: «Un tenimento di terra sita nel luogo detto lo Scuopolo, a’ presente denominata la Vignia, con altro giardino, qual volgarmente si chiama giardino nuovo, sito e posto nel Borgo di Celza della città d’Ischia, giusta la strada pubblica da due lati, lido del mare, le Carcare, ed altri confini fu donato al convento in cambio della concessione della cappella di S. Pietro in Vincoli e S. Maria Maddalena, ASN, Mon. Soppr., vol 104, p. 40». 4 Il deposito sarebbe una serie di armadi, con numerazione diversa a seconda del contenuto: in pergamena, carta (secondo Agostino Di Lustro). 5 Bammace sarebbe bambagia, cotone: dunque si tratta di una carta prodotta con fibra vegetale. 6 Se un ducato vale 10 carlini, a 7 ducati ne corrispondono 70: come si legge allora il dato 30 carlini? – È evidente che i 7 ducati dovuti dai Russi dovevano essere versati a fronte di debiti separati: 3 per la torre e 4 per altri cespiti.

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gazzeni, camare et altre comodità, così imponenti da costituire quasi un’altra torre: si tratta probabilmente di parte almeno delle altre case di fabbrica citate in Algranati7; - le modifiche alla zona: seconda Torre ed altre costruzioni dovute ai Rossi, erano ben visibili all’epoca in cui scrive il redattore del documento, cioè entro il 1620; - le costruzioni dei Rossi allo Scuopolo iniziarono quando lo scrivente era Priore a Forio; in quella occasione lo scrivente avvisò del fatto e della vertenza (la lite) e probabilmente dell’esito favorevole della prima sentenza, così egli dichiara, al Maestro Gregorio, ma, a quanto pare senza seguito. Date - 1390: rilevata da Ilia Delizia8 ed è quella in cui comincia dunque la storia, con Catarina Assante che dona al convento terreni, fra i quali lo Scuopolo. - 1576 - 1° di 9bre: giorno dei pagamenti. Questa data si trova in quasi tutti i documenti letti, che facciano riferimento esplicito alle modalità di pagamento: si presume che a quella data, a vendemmia effettuata, e vino nuovo venduto, i debitori disponessero delle somme necessarie; ma questa è solo un’ipotesi personale, tutta da verificare. Documenti citati - Copia della socessione della torre (mazzetto 7 e …); - istromento, al deposito n° 165 (con copia in carta di bammace alli mazzi del altre scritture con notamento di sopra da altri e da me), con torre dipenta dentro di essa.9 - scrittura fatta nelli Anni millecinquecentosettantasei dal Notaro Gio Aniello Mancuso 1576. Luoghi, manufatti, enti Banca - banca del concordia - banca di Salerno – Bevagnia – Consiglio – convento - Due torre vecchie – Forio – Isca - orto, orticello - Scoglio dello Scopolo – Scopolo - Sta Maria della Scala - Torra dipenta – Torre Persone Aniello e fratelli russi - Batillo Giulio Romano (priore) - Becello Giulio: (è lo stesso? Se sì, Batillo e Becello sono probabilmente la stessa cosa) - Catarina Assanta - (colui che scrive, essendo stato Priore a Forio, parla 7 Algranati Maria, Storia dello Scuopolo, Napoli 1957; Idem, Storia dello Scuopolo, in Ricerche contributi e memorie, I volume, Atti del Centro Studi Isola d’Ischia, 1971. 8 Delizia Ilia, L’antico borgo marinaro…, op. cit. 9 Sarebbe bello poter ritrovare questo documento, per vedere come vi è raffigurata la Torre: sarebbe la prima iconografia dell’edificio.


di cose che sono avvenute sicuramente prima del 1653, quando il conventino agostiniano di quel paese fu chiuso; del resto, la Platea è del 1620 circa - Fra Cesaro da Caserta (Priore) - P. F. Cesaro e fra Cesaro - Gio Aniello Mancuso (notaio) - Gio Batta Valifano - Maiestro Gregorio - Oratio tuttavilla (con tutte le varianti) (Governatore, Gubernatore) - P.M. Gratiano de Bevagnia (Priore); anche P. Maiestro Gratiano. - Russi, russi - Russo, russo. Qualifiche Collettore - fra – Governatore – Gubernatore - P. Maiestro - P. F. - P. M. per Padre Maestro, cioè con titolo di studio superiore – Priore Affrontiamo ora un commento del documento, seguendo i contenuti delle etichette precedenti. Date: l’unica data esplicitamente indicata nel documento è quella del 1576: le altre, 1390, 1620, 1653, sono state dedotte da altre fonti e dalla datazione della Platea; dato l’oggetto del documento e le date riportate da Algranati10, la collocazione probabile dei suoi contenuti è nell’arco di tempo che va dal 1390 fino al 1620 circa. Vediamo ora quali date fornisce l’autrice citata: «… Gli Agostiniani pertanto, “a requisizione degli eletti cittadini” concessero a don Orazio in enfiteusi perpetua e “cum potestati affrancandi” quel luogo, “orto sito nel borgo di Celso, dalla parte marittima e strada pubblica...” attorno attorno dove vi sta uno scoglio e una gran pietra per fabbricarvi una torre a custodia del borgo e convento…e dove la torre vi sta un varco verso la Sienia11. Così nacque la torre del Tuttavilla, certamente prima del 1588, dato che l’Jasolino ne parla nei Remedi: … non lungi dalla Città vi è un luogo di gran sassi ripieno, presso al quale si vede la torre nuovamente fatta dall’Illustre Signor Horatio Tuttavilla…». «… Ma nel 1596 i padri dovettero accorgersi d’improvviso che l’istrumento non si potè trovare ed ecco… il 7 agosto dello stesso anno, davanti al notaio Giulio Cesare Rongione li reverendi padri….i quali con licenza del rev. Padre Provinciale del predetto ordine di S. Agostino, cautelam cautelis addendum, di nuovo locorno e concessero detto luogo, ita quod da hoggi avante entra in dominio di detto signore Horatio…». Dunque dal 7 agosto 1596, con un documento, nuovo o rinnovato che sia, Orazio Tuttavilla ed il Convento hanno regolato il loro rapporto; a quanto pare, di documenti di passaggi di proprietà per la zona ne man10 Algranati Maria, Storia dello Scuopolo, Napoli, in Ricerche, contributi e memorie, Atti C.S.I.I, 1971, pp. 365-376 – Idem, Storia dello Scuopolo, Milano 1957. 11 La Sienia è la zona dell’attuale parcheggio nei pressi del Seminario; sienia, siena, starebbe per orto.

cavano diversi, visto che si dichiara mancante anche la successiva vendita che il Governatore fa ai Rossi: si tratterebbe di consecutivi passaggi di proprietà, dal convento a Don Orazio, e da questo ai Rossi, dopo la donazione di Caterina Assante al convento. Sono queste le sole date utili che l’Algranati fornisce alla chiarificazione temporale del documento del priore di presente esame, in quanto, oltre a dare elementi per certificare che: «… Il signore Oratio Tuttavilla…. rende ogni anno a primo di novembre carlini 30 a questo venerabile Monastero di S. Maria della Scala…di censo enfiteutico perpetuo…12», passa direttamente al 1675, per altri passaggi di proprietà a privati della Torre aumentata di case di fabbrica. L’esame della nota carta di Mario Cartaro (1586), e della Legenda, che recita al n° 2, un sub turri Ill Horatii tuttavilla, consente di spostare il limite inferiore del campo temporale considerato per la Torre almeno alla prima metà del 1586, vista la data della carta in questione (15 agosto 1586); resta sempre da considerare la data del 1576 per l’atto del notaio Gio Aniello Mancuso secondo l’annotazione fatta dal Priore. Acquisita poi la data del 1596, e ritenendo ragionevole supporre che l’annotazione della regolarità del pagamento da parte del Governatore, durasse almeno due anni13 a partire dal 1596 (data del nuovo strumento 12 Si è detto del contrasto fra le due somme di 7 ducati e 30 carlini (nota 6). 13 Se mancava il pagamento per due anni consecutivi, il patto

Particolare della Carta di Mario Cartaro (1586 - Poi allegata al De’ rimedi naturali di G. Iasolino) con il Duo Baln. Saxorum, il cui numero 2 della Legenda indica, come sotto riportato) Balneum Saxorum sub turri Ill. Horatii tuttavilla, quae amissa erant et a nobis detecta. Il tutto è sufficiente per datare, per questa via, la costruzione della torre entro il 15 agosto 1586.

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in luogo di quello non trovato o non esistente), e giunti così al 1598, altro non vi è da aggiungere oltre a ricordare che la Platea consultata viene datata al 1620 circa. Il campo temporale relativo al solo documento della Platea sarebbe così ristretto dal 1576 al 1620 circa: al minimo 44 anni! Occorrerebbe almeno sapere chi furono e quando lo furono, i Priori a Forio, e quando furono presenti al Convento i vari Fra Cesaro da Caserta (Priore), il Maestro Gregorio, e P. M. Gratiano de Bevagnia (Priore). Per i Priori al conventino del Soccorso in Forio, non vi sarebbero documenti disponibili14; si deve inoltre tener presente, come già annotato, che nel 1653 il convento di Forio fu chiuso: pertanto, per questa via, non sarebbe possibile precisare chi fosse quel Priore collettore. Padre Gratiano di Bevagnia, al secolo Graziano Renzi, nato a Bevagna, cittadina umbra in provincia di Perugia ed a pochi chilometri da Foligno15, morì a Vicenza nel 1656; era un agostiniano e bacelliere, autore de La Vita di B. Bernardino Tomitano da Feltre, francescano riformato (Venezia 1600). Le date individuate: il 1600 per la sua Vita pubblicata a Venezia, ed il 1656 per la sua morte lo collocano in tempi compatibili con le vicende in esame, portando ad ipotizzare che egli fosse ad Ischia prima del 1600, data in cui pubblicò a Venezia la Vita del Beato Bernardino16. Altri personaggi su cui indagare sono i Russo, Russi, o Rossi, e tutti gli altri protagonisti di questa storia: tenuto conto delle famiglie nobili isolane citate dal Capaccio17 nel 1634 i Rossi erano fra queste. Sembra comunque di poter dare per scontata la successione: Caterina Assante – Convento – Don Orazio – Russi, ben prima che appaiano all’orizzonte i Muncello, ed i Menga. stipulato diveniva nullo, e la proprietà tornava al convento. 14 Come afferma Agostino Di Lustro. 15 Nelle sue frequentazioni di archivi, il prof. Di Lustro ha annotato vari Priori del convento, con le date; spero che si possa ritrovare questo elenco e rinvenirvi questo religioso. 16 Mazzucchelli G., Gli scrittori d’Italia cioè notizie storiche e critiche intorno alle vite e agli scritti dei letterati italiani, Brescia, presso G. B. Bossini, vol. 2, ed. 2, 1760 (p. 110 - Bevagna (Graziano di), Veneziano, dell’Ordine di S. Agostino, ha scritto La Vita di B. Bernardino Tomitano da Feltre, Francescano Riformato, cui troviamo citata dal P. Gio degli Agostini nel tomo II de’ suoi Scrittori Venez. A car. 51 - Trabalza C., Studi e Profili, Torino, G. B. Paravia e comp., 1903 (p. 30 - Graziano Renzi morto a Venezia nel 1636, fu agostiniano e bacelliere, autore della Vita del B. Bernardino da Feltre, Venezia, 1600, in 4) - Raccolta Ferrarese di opuscoli scientifici e letterarj, Venezia, Stamp. Goleti, tomo XIX, 1787 (pp. 103-104 - Graziano Renzi fu pur Bevanate; ed entrato nella religione Agostiniana attese agli studi e conseguì il grado di bacelliere. Passò all’altra vita in Vicenza nel 1656 avendo dato alle stampe Vita del B. Bernardino da Feltre dell’ordine de’ Minori osservanti, Venezia 1600, in 4). 17 Capaccio G. C., Il Forastiero, dialoghi di Giulio Cesare Capaccio, Napoli 1634.

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Un ulteriore contributo, relativo però alla sola ubicazione delle proprietà nella zona della Torre, può ricavarsi ancora da Ilia Delizia18: «Già nel 1578 i monaci concessero a Beatrice Albano due case terranee con cortiglio, orto e di un tumolo circa, dove si dice lo Scuopolo cfr. ASN vol 107….»; la Albano sarebbe stata dunque una vicina del Gubernatore, sin dal 1578, visto che il Notaro Gio Aniello Mancuso redige l’atto della socessione… nelli Anni millecinquecentosettantasei 1576.

Le due torri vecchie

Confesso che, se ho acquisito il documento della Platea e compiuto gli approfondimenti successivi, non è prevalentemente per seguire le vicende, per altro interessantissime, della proprietà della Torre comunemente detta Lo Scuopolo o dello Scuopolo19, ma perché vi ho riscontrato la seconda torre, quella costruita dai Russi. Per fortuna, gli elementi per distinguere questa seconda costruzione dalla non lontana Torre di mare ci sono tutti, come quelli per non confonderla con una semplice, anche se importante, costruzione solo abitativa; il ritenere che questa torre sia la costruzione dei Russi potrebbe essere sostenuto in base al brano seguente20: «…. gli agostiniani] avevano avuto per causa di adonazione e per causa di legati…tutto quel luogo che dalla Torre che al presente è campanile…tira per linea sin alla strada di Terra Zappata e confina interamente col mare…», che potrebbe indurre a ritenere che le due Torri vecchie siano la Torre di mare e quella del Tuttavilla, se non si osservasse che i Russi si affacciano all’orizzonte in questi luoghi dopo il Governatore, e che tutto si può dire di questi edifici, ma, visto che distano circa 200 metri, niente che possa giustificare un congionta. L’altra obiezione che questa seconda Torre possa non essere proprio tale, è superata dal fatto che le aggiunte successive di magazzini, camare, etc., sono indicati con un che si può dire un’altra torre, per la loro importanza e rilevanza edilizia: segno che il Priore, quando parla di Torre lo fa con cognizione di causa, distinguendo ciò che può sembrarlo, e ciò che lo è. Lasciando per ora solo indicato l’interrogativo se quella che oggi si ritiene essere stata la Torre di Don 18 Delizia Ilia, L’antico borgo marinaro…, op. cit. p. 63, nota 70. 19 Circa questo nome, il Cervera, in Guida completa dell’isola d’Ischia, Ed. Di Meglio, Ischia 1959, p. 112, lo dice essere parola del vecchio dialetto ischitano che vuol dire scoglio, ma è voce latina per scoglio; si ricorda pure che col nome di Scopolo, nell’isola di Capri, è designato il faraglione esterno, alto 104 m. È da sottolineare in proposito che nella rappresentazione cartografica del Cartaro si rilevano altri 5 scopoli ischitani. 20 Algranati Maria, Storia dello Scuopolo, op. cit.


Di Antonio Joli, questo olio su tela, di 76x49 cm, è databile seconda metà del ‘700 . In Immagini di Ischia, tra XVIII e XIX secolo, Ediz. Castello Aragonese, a p. 66 si fa notare che, dietro la sporgenza lunata in primo piano, la Peschiera, appare parte della casa dei Guarniero e poi dei Buonocore.Dietro il palazzo si vede il muro di contenimento e protezione, fronte a mare, del giardino: quello che oggi è il piazzale al termine di Via Stradone, con la scaletta che consente di raggiungere il Lungomare Aragonese. Purtroppo il taglio della veduta, centrata sul Castello, lascia fuori la zona dello Scuopolo. Notare anche il palazzo puntellato con un grande barbacane, visibile ancora oggi, che costituisce un preciso riferimento visivo per l’individuazione dei fabbricati del lungomare.

Incisione di Giovanni De Grado e Georg Hackert di un dipinto di Jacob Philip Hackert (1789).

dell’avvento della fotografia, mostri immediatamente evidente l’edificio edificato dal Governatore21. Fa sicuramente eccezione la litografia dello Jauvin, che ho sempre commentato con perplessità e che, alla luce del documento presente, potrebbe essere letta ben diversamente da quanto fatto sinora, eccettuata la lecita domanda del perché fare una nuova torre vicino, anzi congionta, ad un’altra, e poi da parte della stessa famiglia che già possedeva la prima, a meno che non si ipotizzi che i Russi, avendo bisogno di maggiore spazio - cosa che parrebbe poi sostanziata da magazzeni, camare et altre comodità - edificassero una costruzione che avesse gli stessi caratteri difensivi, almeno di rifugio, della prima. In questo disegno si distinguono almeno tre edifici a prevalente sviluppo verticale, con due di altezza simile e decisamente superiore, e molto vicini fra loro. Occorre ancora annotare che la riproduzione fattane in Cervera22 presenta una non chiara didascalia23. Mi sembra, da quanto leggo e sen21 Di Lustro Agostino in I Marinai di Celsa e la loro chiesa dello Spirito Santo ad Ischia, Forio 2003,p. 291, nota 15, scrive: Su queste opere, cfr. Immagini di Ischia… pp. 60/1; 66/7; 70/3; Ischia nelle vedute romantiche dell’Ottocento nelle collezioni private….pp. 52 e 92. 22 Cervera G. Giuseppe, Cronache del ‘700 ischitano, Melito (Napoli), 1982. 23 A meno che non si tratti di una striscia didascalica sovrapposta.

Orazio sia realmente quella, ovvero la Torre dei Russi, passiamo a riesaminare le immagini certe della zona.

La zona e immagini Nonostante le affermazioni di alcuni che citano Joli, J., Ph. Hackert, Fergola, come autori di immagini che contengono lo Scuopolo, senza specificare se intendano il luogo o la Torre che è in esso, non mi è mai capitato sott’occhi un’opera che, prima

Il borgo di Ischia: litografia di Jauvin (seconda metà secolo XIX); 25,0x16,8 cm

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Visioni di Ischia Ponte e...

Dalla radice del ponte del Castello si vede il campanile della Cattedrale, un tempo la Torre di mare, e sullo sfondo il complesso edilizio che comprende Palazzo Malcovati.

Ischia Ponte - Edifici visti dal mare

Veduta

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Dalla banchina che fiancheggia Vico Marina cosĂŹ si coglie Palazzo Malcovti


... dintorni

Foto di Vincenzo Belli

Schizzo che mostra il complesso di Palazzo Malcovati dal lato mare

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to, che la zona di cui si sta discutendo non sia proprio ben presente in coloro che ne parlano, e pertanto, ad ogni buon conto, la voglio riconsiderare24, precisando che la si definisce come fa l’Algranati25, e cioè: «… tutto quel luogo che dalla Torre che al presente è campanile… tira per linea sin alla strada di Terra Zappata e confina interamente col mare… ». Questa zona presenta, al suo estremo orientale il campanile della cattedrale, ed a quello occidentale Terra Zappata con la Torre del Governatore, divenuta, pare, una delle due torri dei Rossi in quel sito; la strada di Terra Zappata, salvo diversa indicazione, si ritiene sia l’odierno Vico Marina. Si tenga presente che Terra Zappata, oltrepassato Vico Marina, giunge fino alla Mandra26. Nel brano che la Delizia - traendolo da ASN, Monasteri soppressi, fs. 104, p. 40 -, dedica all’estensione del territorio donato dalla Assante ai frati, la descrizione del terreno è più precisa: «… Un ampio giardino, donato al convento dalla nobile Assante nel 1390, si sviluppava dal muro di cinta dell’insula all’attuale vico marina… ». Ed in nota: «Un tenimento di terra sita nel luogo detto lo Scuopolo, a’ presente nominata la Vignia, con altro giardino nuovo, posto nel Borgo di Celza della città d’Ischia, giusta la strada pubblica da due lati, lido del mare, le Carcare, ed altri confini…»27

Un ottimo contributo alla conoscenza della zona, sia pure in un Progetto di riordinamento è dovuto alla Delizia28, con la presentazione di una planimetria che va dal pontile (ivi Sbarcatoio) fino alla Palude Morgioni, alla via che oggi è Via Pontano e prosegue con Via De Luca (foto in fondo a questa colonna). Bisogna cercare di leggere ora quei 270 m circa del fronte a mare che vanno dallo spigolo occidentale di vara; è probabile che quella qui indicata sia la fornace di Punta Molino, oggi impropriamente indicata come Torre, e già cappella dell’ex carcere mandamentaale. 28 Delizia Ilia, Ischia l’identità negata, ESI, Napoli 1987.

24 Al minimo, avrò migliorato la mia lettura di quella parte del territorio dell’Isola. 25 Algranati Gina, op. cit. 26 Almeno così la individua oggi un marinaio della zona. 27 Le Carcare sono forni per calce, presenti anche in altra parte del territorio isolani, ad Ischia, Lacco Ameno e nella vicina Vi-

In questa pianta del 1898, riprodotta da Ilia Delizia, Ischia l’identità negata. cit,, con la didascalia Progetto di riordinamento della città d’Ischia (1898), l’insieme dei due edifici, Palazzetto Onorato, e Palazzo Malcovati è chiaramente distinguibile, con le due vie di accesso: Via Stradone ad oriente (la pianta presenta il Nord in basso), e Vico Marina ad occidente; si notino le ampie aree destinate a verde, e come le case siano praticamente sul mare, per la mancanza dell’attuale Lungomare aragonese, ridotto ad un tratto che a mala pena supera il Convento.

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In alto la planimetria di Dionisio di Bartolomeo (1616), già riportata da Di Lustro Agostino in I Marinai di Celsa e la loro chiesa dello Spirito Santo, op. cit., traendola da Delizia I., L’antico Borgo marinaro di Ischia Ponte in una pianta inedita, op. cit. In basso, sempre dalle medesime fonti, la planimetria di Loise Naucherio (1674), capovolta per facilitarne il confronto con la prima. Della Torre di Mare, evkdenziata nella prima, si nota il maggiore spessore delle mura, rispetto al locale simmetrico, fra i quali si estende l’abside. Si noti anche, per la Chiesa dello Spirito Santo, la presenza del campanile già nella prima, circa 60 anni prima della stesura della secnda.


Palazzo Malcovati all’inizio del ponte che mena al Castello, percorrendoli da occidente ad oriente, ovvero da Vico Marina fino al ponte. 1586 - Il Cartaro mostra la zona in modo sommario; più sostanziosa la nomenclatura, che mostra il riferimento e contenuto della Legenda, al n° 2, menzionando la Torre come del Tuttavilla, sopra il Duo Balneum saxorum29; immediatamente ad occidente, è il balneum in pomario Iouiani Pontani. 1616-1674 - Si presentano qui due mappe della parte occidentale del Borgo: la prima, del 1616, mostra ad occidente ancora la sua porta, prossima alla chiesa dello Spirito Santo, edificio che è molto meno esteso, e diversamente orientato di quanto non appaia nella seconda del 1674. Di notevole, nella pianta della Chiesa di Santa Maria della Scala il forte spessore delle pareti della Torre di Mare, ciò che non appare nella più recente delle due. Sempre in tema di Torri, e di campanili di fiero aspetto, è particolarmente interessante notare che, mentre la chiesa dei marinai è ancora ridotta di dimensioni, nella prima delle due mappe – quella del 1616 - vi è già 29 Per la spiegazione del Duo viene citaro l’Elisio: …duo sunt: quoru’ unu’ est inter saxa valens ad omne gutta frigida et alius prope litus maris valens ad omnes guttam calidam, con una più che singolare caratteristica: due sorgenti a poca distanza l’una dall’altra, ma una, superiore, sgorgante fra le rocce di acqua fredda, e l’altra in riva al mare, di acqua calda. Entrambe, ora sarebbero sotto il livello del mare, sempre che siano ancora attive.

ben evidente il campanile di questa, con pareti di forte spessore, e molto vicino alla porta del Borgo, il che stimola riflessioni in tema di difesa della contrada. Con l’aiuto del prof. Di Lustro, e del suo lavoro su questa chiesa30, vedremo di chiarire almeno i tempi di questa costruzione, anche se per diversi motivi sono i modi che appaiono privilegiati nelle due fonti precedenti. Purtroppo, dato il soggetto principale di queste iconografie, la zona dell’odierna Terra Zappata non figura in queste due mappe seicentesche, e per questa via nulla si può apprendere della non lontana Torre, né acquisire elementi sulla seconda Torre dei Russi. 1817-1819 - Si deve ricordare che la Carta di fra Cosmo da Verona mostra, oltre logicamente il Convento, anche Lo Scopulo ed un edificio tipo torre sulla punta prima di quella de Lo Molino, il cui nome mi risulta però illeggibile, e che, pur somigliando molto alla Torre di Mare, non è quella, visto che il Convento è mostrato con un suo campanile. Nella carta del ROT, anche se notevolmente separati, si riconoscono due gruppi di edifici: il primo, quello più arretrato rispetto alla costa, di pianta ad L; il secondo di pianta grosso modo rettangolare, sul mare, è un complesso di costruzioni: oggi questi due fabbricati appaiono congiunti a formare una piccola corte aperta. 30 Di Lustro Agostino, I Marinai di Celsa e la loro chiesa dello Spirito Santo ad Ischia, Forio 2003.

Carta manoscritta dell’isola d’Iscchia di Fra Cosmo da Verona, 1605-1607? - Copia conservata nella Biblioteca Angelica (Roma)

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Perticolare della Carta Territoriale della Provincia - L’insieme di Palazzo Malcovati e di Palazzetto Onorato è cercchiato. Il Lungomare Aragonese è qui erroneamente indicato come Via Pontano. Particolare della Carta del ROT

L’edificio sul mare è quello che contiene la Torre. In questa rappresentazione del ROT, la via inclinata rispetto al percorso principale che vi conduce è l’odierna via Stradone, che è oggi etichettata come privata - come si legge nella più interna delle due targhe stradali -, e che, tramite uno slargo ed una scaletta, porta attualmente al Lungomare Aragonese, che ovviamente costeggia il mare. In questa carta, stesa su rilievi di inizio secolo XIX, compare anche il vico Marina che, ortogonale alla via principale, dal lato occidentale della zona occupata dal Palazzo Malcovati, piegando poi verso oriente, mena alla piccole corte alle spalle di questo: pertanto, il complesso dei due edifici qui evidenziati è compreso fra le due stradine, - che tale è anche la via Stradone nonostante l’accrescitivo del nome – ora indicate. 1957-1997 - È strano che le due carte moderne dell’IGM mostrino entrambe la via Stradone, ma non il vico Marina. Le due chiese, protagoniste della vita del Burgo e delle due mappe seicentesche, sono invece ben evidenti per le due grandi croci quasi esattamente contrapposte, come sono gli edifici nella realtà, da bande opposte della via principale. CTP 10000 Nel particolare della Carta Territoriale Provincia di Napoli, ricavato dal sito internet, la zona è bene rappresentata, e mostra come i due edifici, Palazzo Malcovati e quello ad L, si siano oggi congiunti, di modo ché quel che viene indicato come appartenente alla Torre si affaccia in una piccola corte, a pianta grosso modo trapezoidale, chiusa da tutti i lati, tranne il piccolo imbocco dal vico Marina. 32

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Un campanile Si è detto del campanile della chiesa dei marinai nel Burgo: ebbene in un documentatissimo lavoro del prof. Di Lustro31 vi sono notevoli contributi conoscitivi anche su questa costruzione. Di seguito, anche per meglio riflettere su quanto vi si può leggere, specie per quanto concerne le date, si riportano i riferimenti alle pagine, in cui vi sono notizie relative, e qualche brano essenziale: p. 111:…. nel 1614, i governatori e i confratelli della chiesa dello Spirito Santo decisero di costruire per la loro chiesa un campanile presso la sacrestia….; p. 232:…. nel 1613, fu decisa la costruzione di questo campanile…; lasciando momentaneamente insoluta la scelta fra il 1613 ed il 161432, - si deve però sottolineare ancora una volta che nella planimetria di Dionisio di Bartolomeo del 1616 esso già vi compare -, si annota il brano successivo che è conferma dell’impiego di costruzioni del genere per scopi difensivi, elettivi per altre: p. 111:…. Il Parlamento della Città concesse quanto richiesto…a condizione però che bisognando, in tempo de inimici de sua maestà, servirsi di detto campanile per ponerci soldati et homini armati per defesa del borgo… È così, esplicitamente documentata la funzione difensiva sempre ipotizzata, confermando che i campanili di fiero aspetto debbono essere inseriti, sia pur con modalità particolari, nel Dispositivo difensivo dell’isola d’Ischia. È notevole notare che nel Burgo si ebbero due esem31 Di Lustro Agostino, I Marinai di Celsa e la loro chiesa dello Spirito Santo ad Ischia, Forio 2003. 32 È però documentato, sempre in Di Lustro, I marinai.. op. cit., che il 23 settembre 1614 si tenne la riunione del Parlamento per l’approvazione della costruzione, e che nell’ottobre successivo gli agostiniani protestassero per le decisioni favorevoli alla edificazione del campanile.


pi di costruzioni che partendo da motivazioni iniziali diverse percorsero poi cammini sostanzialmente comuni: - la Torre di mare, costruita per difesa della zona, fu poi convertita in campanile, o almeno usata come tale dagli agostiniani; - la costruzione nei pressi della porta, nata come campanile della chiesa dei marinai, fu autorizzata dal Parlamento purché potesse svolgere anche funzioni difensive, almeno di avvistamento, o di interdizione locale, dato che, per la sua piccolezza il rifugio poteva essere concesso a ben poche persone, come non mancarono di rilevare gli agostiniani. Il Burgo avrebbe così avuto, nel 1616, al suo interno, due manufatti: Torre-Campanile e Campanile-Torre, a brevissima distanza fra loro, ma gestiti da comunità distinte; poco fuori di esso, a Terra zappata, sopra il Duo Balneum Saxorum vi era già, sicuramente, nel 1586, e probabilmente da almeno 10 anni, la Torre del Gubernatore, e poiché non è certa la data del passaggio della proprietà di essa da don Orazio ai Russi - quasi certamente dopo il 1598 - non si sa se a questa si fosse già aggiunta la seconda delle torri vecchie: ben 4 edifici difensivi, o utilizzabili come tali, in meno di 300 metri di litorale, con tre direttamente sul mare, ed il quarto poco più interno: non c’è che dire, una bella concentrazione!33 È strano che gli agostiniani, nell’argomentare contro i marinai ed il loro campanile, non parlassero del proprio, a meno che non lo abbiano fatto a ragion veduta, per non vedersi richieste analoghe prestazioni dalla comunità, della quale difendevano le anime, ma non le proprietà, che però, come è ben noto, accettavano di ottimo grado dai proprietari, a loro salvazione nell’aldilà. Il campanile dello Spirito Santo è di dimensioni veramente modeste, e ne sono testimonianza indiretta le tante obbiezioni del contenzioso scatenatosi ai tempi della sua costruzione, delle quali qualcuna cennata. Poiché la pianta del di Bartolomeo è in scala di 1: 247,5 e che la chiesa dello Spirito Santo misurava in questa 16,60x7,70 m34, come scrive Delizia35, ne consegue che detto campanile era stato rilevato al piede con lato di circa 3,5 m, e pareti spesse circa 1 m. Si tenga presente che il campanile della chiesa di S. Maria della Scala, già Torre di mare, misurava al piede, sempre secondo quella pianta, 6,20 m di lato, con 33 Non si considera in questo esame la cosiddetta Torre dell’Orologio o dei Parlamentari, sede oggi del Museo del mare e della Libreria Imagaenaria. 34 Cosa resa possibile dalla consultazione diretta dell’originale. 35 Delizia Ilia, L’antico borgo marinaro di Ischia Ponte… op. cit., note a pag. 59 e 54.

pareti di spessore di 1,70 m: esso risultava quindi di dimensioni 1,7 volte maggiori di quelle corrispondenti dell’omologo edificio dei marinai.

Una descrizione documentata

Un’ottima descrizione della zona di presente interesse, per la porzione dei due Palazzo e Palazzetto, è fornita dalla Delizia36, e la si riporta integralmente sotto il titolo: Il contesto dello Scuopolo I punti di maggior interesse (evidenziati in grssetto) in questa descrizione storica della zona, anche con gli evidenti rilievi che si devono fare, sono: 36 Delizia Ilia, Ischia l’identità negata, op. cit., pp. 199-201.

Il contesto dello Scuopolo Una raccolta prospettica d’insieme lega in una unitaria configurazione le fabbriche Malcovati e già Buonocore. Complessità di stratificazione storica e peculiarità ambientali consentono di definire questo spazio tra i più compatti del centro antico di Ischia Ponte. Edificata all›estremità del tratto di costa denominato Scuopolo, la casa Malcovati fu originariamente una torre di difesa del Borgo di Gelsa (1), sfornito di dispositivi difensivi dal momento che la primitiva torre del borgo era stata già trasformata in campanile della chiesa di S. Maria la Scala. In conformità all›ordinanza della Regia Corte di Napoli, che prescrisse nel 1563 l›approntamento di torri marittime lungo i litorali, l›opera fu realizzata per l›interessamento di don Orazio Tuttavilla, governatore dell›isola, su «richiesta e domanda de› Signori eletti e Cittadini della Città d›Ischia» (2). Il sito venne messo a disposizione dai monaci agostiniani, i quali censuarono al Tuttavilla «un poco di territorio del retrostante giardino ...dalla parte di mare, dov›era un scoglio, ed una gran pietra atta ad edificarci una torre per custodia del Borgo di Celza» (3). Tale zona essendo il punto più avanzato della costa dovette risultare particolarmente adatta alla funzione di avvistamento; inoltre, la presenza dei blocchi trachitici consentì alla fabbrica una posizione soprelevata, poggiata com›era su solide e ben visibili fondamenta. La costruzione mantenne le sua funzione difensiva solo per pochissimo tempo; infatti già dai primi del Seicento era passata quale abitazione nelle mani di privati (4) e, ampliata di «case di fabbrica», conservò soltanto nella denominazione, la «Torra», la memoria della primitiva funzione (5). Ai successivi passaggi di proprietà corrisposero puntualmente delle trasformazioni per cui nel Settecento era divenuta una «complessa casa signorile». Acquistata dai Malcovati negli anni ‹50 del Novecento venne restaurata ed ampliata dal lato del mare. La destinazione a residenza estiva per un unico nucleo familiare ha consentito alla fabbrica di sfuggire ai guasti altrove prodotti da eccessivi frazionamenti. > La Rassegna d’Ischia n. 2/2012

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Difficile poter distinguere le varie fasi di crescita del complesso di fabbriche che si è esteso, con continue aggiunzioni, fino al varco della Siena ad ovest e, a nord est, si è proteso nel mare mediante volumi e terrazze su muri di contenimento. Negli ultimi lavori di recupero funzionale condotti sull›immobile una trentina di anni or sono, il restauro ha messo in luce il nucleo primitivo consistente in una struttura su tre livelli: un ambiente quadrato delimitato da muri di grosso spessore e tracce di una scaletta di comunicazione. All›esterno, l›antica torre, sebbene ampliata, si evidenzia nel piccolo risalto rispetto ai corpi laterali aggiunti e nella disposizione delle aperture che contrassegnano il prospetto da vico Marina. Andamento convergente rispetto alla fabbrica Malcovati ha il palazzo un tempo della famiglia Buonocore che, saldandosi alla prima ha definito su vico Marina un singolare spazio di cortile. Lo realizzò don Crescenzo Buonocore (6), nipote del protomedico di corte, Francesco, che nell›agosto 1754 comprò «tutto il comprensorio di case fabbricate nel tonno, seu sito censito alii... D. Girolamo e Giovan Battista Guarniero»(7) dai monaci Agostiniani di S. Maria la Scala e, con l›aggiunta (1768) di altre quantità sempre dal giardino dei «frati», vi fece una «nova fabbrica confinante ed attaccata alla suddetta sua casa» (8). Si trattò di un programma per una fabbrica di ampio sviluppo che utilizzava il viale di accesso (via Stradone), già dei Guarnieri (9), come asse di ingresso principale alla nuova casa, la quale non trascurava né le possibilità di articolazione verso il mare, né il rapporto con il complesso dello Scuopolo. Pertanto, si determinò una gerarchia di facciate in funzione delle preesistenze e delle prospettive ambientali. Difatti, sullo Stradone, la facciata si annuncia con un portale che introduce ad un ampio androne in cui si articola la scala e, al piano superiore, con una sobria scansione di vani riquadrati da fasce di stucco e sormontati da timpani alternati. Su vico Marina la fabbrica utilizzò una seconda possibilità di ingresso come mostra il vano che introduce allo stesso androne. Arbitrarie aperture, chiusure di vani e una balconata a parapetto pieno con forte aggetto hanno tolto ogni coerenza a questo fronte originariamente impaginato con la stessa sobrietà di quello sullo Stradone come mostrano ancora le due aperture a timpani al piano nobile, il balconcino in pietra lavica con corrimano in ferro e le aperture ad arco corrispondenti ai pianerottoli di arrivo e di smonto delle rampe della scala. Né questo singolare spazio a corte - che sarebbe potuto divenire il punto di fuga di un unitario programma di sistemazione di tutto il lungomare Aragonese - è stato considerato nel Piano di Recupero del 1982, né nella recente proposta, né in proposte precedenti (10). Infatti, sarebbe bastata la riattazione di un percorso già esistente nell’articolazione spaziale di palazzo Buonocore per realizzare, in sottoportico, la continuità della pedonalizzazione alternativa lungo la costa. E questo a scoraggiare velleitarie ipotesi che smembrando un giardino postico, escludono puntualmente la fruizione di uno spazio di vicinato così peculiare alla vita ambientale di Ponte, con la perdita poi di occasioni atte a qualificare anche i nodi funzionali esistenti. Infine, la facciata verso il mare utilizza connotazioni linguistiche tipiche di tutta la cortina prospiciente la marina, come si rileva dalla iterazione di arcate sovrapposte impiegate a definire i livelli inferiori, quelli relativi al primo impianto della fabbrica la quale risulta oggi eccessivamente soprelevata dall’aggiunta dei due ultimi piani. 1 M. Algranati, Storia dello Scuopolo (1958), in Ricerche Contributi Memorie..., p. 365. 2 A.S.N., Monasteri Soppr., vol. 104, f. 43, ed anche vol. 90, f. 371. 3 Idem, vol. 104. 4 «Entrò nel possesso di detta torre il mastrodatti Filippo Mongelli come compratore sub asta... poi nel 1675 a 29 agosto Domenico Menga compra da suddetto Filippo Mongelli la detta Torre, con obbligo pagare in perpetuo ogni 1° di novembre il suddetto cenzo di carlini 30 al Convento, come per istrumento rogato per notar Matteo Vecchione di Napoli. In appresso suddetta torre passò dal suddetto D. Orazio Tuttavilla in potere de› Ruffi d›Ischia, la vendita seu instrumento di vendita, che ha fatto il medesimo D. Orazio a Ruffi non si sa come sta notato nella margine della platea fatta nel 1620», A.S.N., Monasteri Soppr., vol. 104, f. 43. 5 M. Algranati, op. cit., p. 371. 6 Per la figura e i dati biografici di Crescenzo Buonocore cfr. G. Buchner, Il Protomedico..., pp. 150-51. 7 A.D.L, Platea Corrente..., f. 16. 8 Idem, specifica le quantità, le stime e finanche le servitù, «servendogli del suddetto sito per uso di fabbrica, deve necessariamente aprire finestre affacciatore dalla parte interna del suddetto giardino e propriamente dalla parte di levante», concesse a Crescenzo Buonocore. 9 La concessione ai Guarniero era avvenuta nel 1702 con questa aggiunta: «detti dieci sette graziosamente si concedono per fare la strada dalle case de predetti signori Guarnieri alla Carcara, con permesso ai medesimi... di poter ivi fare fabriche ed altro di loro beneficio, non pregiudiziale al predetto Convento», A.D.I., Platea Corrente..., f. 16. 10 Ci si riferisce al progetto Gallo-Iannello per la sistemazione del lungomare aragonese.

- l’individuazione del giardino postico, con la parte esterna oggi pavimentata e utilizzata come parcheggio, con scaletta che porta al sottostante lungomare; - data di apertura e nome originario della via che oggi è la Via Stradone; - nome dei costruttori dell’edificio che oggi è ancora noto come Palazzetto Onorato, nonostante siano mutati i proprietari; - meno chiara è l’evoluzione del vicino, oggi Palazzo Malcovati; 34

La Rassegna d’Ischia n. 2/2012

- notevole è inoltre l’aver indicato il tonno, che è forse lo spazio lunato evidente nel dipinto di Antonio Joli, indicato come la peschiera in [67], documentandone al 1754 l’acquisizione da parte di Crescenzo Buonocore, ed al 1768 la realizzazione del fabbricato che chiuse lo spazio col vicino complesso dello Scopolo dando la conformazione ad L del fabbricato, e formando la corte trapezoidale che oggi persiste. Vincenzo Belli


Sensazioni ed emozioni di un viaggio in

Bolivia

Testo e foto di Carmine Negro Si parte da Uyuni per il lago salato e poi nel lontano sudest dove saline ghiacciate dalle acque gelide sono tinte di rosso brillante o verde smeraldo da microrganismi o depositi minerali. E poi ancora picchi vulcanici innevati, deserti di alta quota gelati, affioramenti di rocce erose e plasmate a figura da un vento instancabile. Gigantesche, le architetture monolitiche di Tiwanaku sorvegliano da lontano la sponda boliviana del lago Titicaca: testimoni muti delle straordinarie contaminazioni culturali che hanno assimilato arcaici idoli ancestrali e fervore religioso cattolico.

Potosì a Uyuni spesso non è altro che una stretta e polverosa pista di terra battuta; in alcuni tratti, quando si incrociano due veicoli, uno deve fermarsi per far passare l’altro. Lungo i crinali spesso si incrocia il luccichio del ghiaccio custodito negli anfratti che, sciogliendosi, alimenta i rigagnoli che scendono dalla montagna e che si riuniscono in piccoli fiumi nelle vallate andine. Occasionalmente l’autobus si ferma per far scendere o salire qualche passeggero. Sperdute nel nulla più assoluto, si intravedono lontano alcune fattorie solitarie o si incontrano edifici, dall’aspetto molto umile, costruiti in mattoni di terra e paglia, riuniti in villaggi isolati, che fiancheggiano l’autostrada. Questo viaggio è diverso dagli altri, è molto silenzioso, le persone che incontriamo sono diverse dalle altre: gentili ma diffidenti. L’agenzia per farci stare in modo più comodo nel bus ha prenotato per ciascuno di noi due posti per consentirci un minimo di movimento durante il percorso. Il bus è pieno, in particolare c’è una ragazza, senza posto, con un bambino nello scialle che piange. Franco le lascia i suoi due posti per farla accomodare. Accenna a un piccolo sorriso. Si siede e chiama altri da far sedere al suo fianco. Non ha alcuna interazione né con chi gli ha dato il posto né con gli altri dai lineamenti differenti che in questo luogo ostile possono permettersi il lusso di due posti sul bus. Alla fermata dei bus di Uyuni viene a prelevarci Enoc per portarci con la sua jeep in albergo; porta con sé suo figlio di pochi anni. Uyuni mi dà l’impressione di essere una città familiare, rimanda alla memoria ciò che l’immaginario collettivo ha costruito come tipico delle cittadine del far west: sconfinata e un po’ desolata. Le strade ampie, a doppia corsia con gli alberi al centro, che si incrociano ad angolo retto, il freddo intenso, il vento che continuamente fa volare carte e buste di plastica, e le poche persone per strada rendono il paesaggio irreale. Di sera, nelle strade prive di illuminazione, le voci si rincorrono nel buio e i fuochi dei falò riscaldano e illuminano le danze di gruppo che in una sorta di giochi collettivi coinvolgono i giovani e le giovani animando un paesaggio rarefatto. Il mattino presto, subito dopo la colazione Enoc, con la sua jeep, ci porta verso il Salar de Uyuni che, con un’area 12.000 kmq ed una altitudine di 3660 m, è di questo spazio

Ancora luccicano le strade dei colori accesi dei costumi e riecheggiano nell’aria i suoni vigorosi delle trombe che accompagnano le varie scuole di danza dei piccoli partecipanti alla manifestazione Mini Ch’utillos quando partiamo con il bus verso il paese di Uyuni con un viaggio di 6 ore. Pochi chilometri e il paesaggio diventa subito aspro e selvaggio con branchi di lama e grossi cespi di cactus a popolare le aride montagne che in più punti si trasformano in scoscese vallate sui cui versanti la natura si è sbizzarrita ad inserire rocce e terre dalle mille tonalità. L’autostrada che collega

Salar de Uyuni

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candido e luminoso il più alto ed immenso deserto salato del mondo. Sulla grande distesa bianca spuntano qua e là piccole isole. Di sera in jeep sulla distesa bianca, il sole tramonta ricamando di caldi colori la linea d’orizzonte. Una grande luna rossa si affaccia su un terso cielo stellato. Il colpo d’occhio è incredibile: una distesa desertica bianchissima ed abbagliante sotto un cielo azzurrissimo. L’impressione è di essere su un altro pianeta. La visita ad una fabbrica di sale o ad una costruzione un tempo adibita ad hotel, ma attualmente in disuso, fatta interamente di sale (pareti, tavolo, poltrone, letto) non riescono ad emozionare quanto quello spazio nato oltre quarantamila anni fa da un gigantesco lago preistorico: il lago Minchin, e che ha dato origine a storie, leggende, visioni. L’ambiente surreale, la tersa luce degli altopiani andini, il riverbero del sole sui cristalli di sale e il silenzio assoluto fanno di questo scorcio di mondo un posto unico. Con la jeep, che di tanto in tanto perde colpi, viaggiamo sulla distesa di sale che si estende fino all’orizzonte, lasciando intravedere solo le vette dei lontani monti. Siamo diretti a Inkahuasi o Inkawasi che nella lingua Quechua significa “Inca casa”, un’isola rocciosa ubicata nel mezzo del Salar de Uyuni. La luce forte impone occhiali scuri e la rifrazione del sole fa brutti scherzi. Gli Inca ritenevano che Los ojos de Salar, gli occhi del Salar, fossero divinità che inghiottivano nel nulla le carovane che transitavano da qui, dirette verso la costa del Pacifico. Enoc ci racconta che le rifrazioni e le illusioni sono fenomeni che si amplificano nella stagione delle piogge, quando l’acqua copre con un velo sottile le cavità sulla superficie del lago, riflettendo il cielo su una distesa salata di dodicimila chilometri quadrati. Arriviamo seguendo un percorso virtuale padroneggiato solo dalle guide del posto all’Inkawasi, detta anche Isla del Pescado per la sua forma, una formazione rocciosa che emerge, come un atollo dalla distesa di sale. È formata da sedimenti calcarei marini e materiale vulcanico che hanno creato un terreno sufficientemente fertile da permettere la crescita di grandi e piccoli cactus, piante erbacee e licheni. Facciamo il percorso che ci porta fino alla vetta (102 m) e ammiriamo la grande varietà di cactus molto fitti; per la guida l’altezza media di 6-8 metri viene raggiunta soltanto dopo un secolo di vita. È adagiato su un anfratto roccioso il tronco legnoso senza vita di uno dei più antichi custodi di quest’isola: era già lì quando a frequentare quei luoghi erano gli Inca. Vicino c’è una tabella che recita: “Cactu Milenario Midió12 mts 3cms Vivió 1203 años Murió (Dic) 2007” La vista che si gode da questa posizione privilegiata è fantastica. I rinvenimenti sull’Isla di giacimenti archeologici della cultura Tiwanaku, rovine Inca, e la presenza di caverne e gallerie naturali indicano una frequentazione antica del luogo. Quando torniamo scopriamo che la jeep non riesce a muoversi e, malgrado l’intervento di Enoc e degli altri autisti sul motore, si deve cambiare auto. Nel tardo pomeriggio veniamo portati di nuovo sulla terraferma da dove siamo partiti per accompagnare un gruppo di turisti. Rifocillatici ripartiamo ormai al tramonto con Peter che sarà con la sua jeep la nostra nuova guida. Questa traversata fuori programma 36

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consente di apprezzare i suggestivi colori del tramonto su questo mare di bianco straordinario. Il cielo è terso mentre il sole tramonta. Le montagne, che in lontananza delimitano il lago, riducono nel tempo la sfera di luce ad un semplice spicchio che si colora sempre più di un rosso intenso e rimbalza sui cristalli di sali con l’ultimo raggio di sole. Poi la luce diventa viola e il sale color glicine in fiore prima di spegnersi definitivamente. Ormai è buio e nella notte senza una strada definita dobbiamo affidarci solo alla capacità di orientamento di Peter che, dopo una nuova sosta all’isola per lasciare utensili ad Enoc, restato vicino alla sua jeep, ci conduce dall’altra parte del lago. La luce dei fari che si riflette sulla distesa bianca è senza riferimenti. Non lo sarà per molto. Dopo poco è la luna che sorge prima di un rosso intenso e poi sempre più bianca a consentire di ritrovare la direzione. Il viaggio procede in un’area protetta situata nell’estremità sud-occidentale della Bolivia, la Reserva de Fauna Andina Eduardo Avaroa un parco naturale di 7147 mq, che si estende tra un’altitudine variabile fra i 4000 e i 6000 m e comprende i panorami più mozzafiato del paese. Il vento che soffia inarrestabile ha dato alle rocce forme surreali come l’Arbol de Piedra un masso enorme, alto 8 metri, che resta sospeso su di un gambo sottile. Si parte prima dell’alba per raggiungere Sol de Mañana e vedere a quota 5.000 m con le temperature al di sotto dello zero i getti di vapore dei geyser. Poi lungo la Laguna Polques per una serie di sorgenti termali prima di incantarci davanti ad una moltitudine di fenicotteri rossi della Laguna Colorada. Per godere in pieno dello spettacolo del geyser Sol de Mañana bisogna partire prima dell’alba quando le temperature sono al di sotto dello zero. Lo facciamo percorrendo con la jeep o semplici tracce sul terreno o passi carrabili o strade che attraversano l’altipiano e che in realtà sono semplici piste di terra battuta. A questa altitudine l’aria è molto secca e molto povera di ossigeno, al sole si scotta e all’ombra fa freddo; durante la notte gela spesso molto intensamente. Sembra davvero di essere su un altro pianeta. Così ancora addormentati siamo saliti a quota 4850 m attraversando panorami indescrivibili per rimanere affascinati da questi getti di vapore che si sollevano da terra raggiungendo grandi altezze in questo bacino di geyser di cui fanno parte anche bolle di fango gorgogliante e fumarole un po’ puzzolenti, tipiche dei vapori sulfurei. Ci aggiriamo tra le fenditure con attenzione per i cumuli di neve spesso ghiacciati perché il terreno è spesso “morbido”. Dopo il geyser la pista ci conduce alla Laguna Polques, lungo le cui rive si trovano diverse sorgenti termali. Le acque calde richiamano ad un bagno caldo di grande sollievo per le gelide temperature d’alta quota, anche se spogliarsi in queste condizioni termiche non è facile. Molti turisti accettano la sfida che è basata soprattutto sulla resistenza. Poco dopo è la Laguna Colorada, uno specchio d’acqua color corniola che si estende per 60 kmq raggiungendo la profondità massima di 80 cm ad attrarre la nostra attenzione. La colorazione rossa è dovuta ad alghe e plancton che prosperano nelle acque ricche di minerali, mentre i bordi sono orlati di brillanti depositi bianchi di so-


Cactu millenario

dio, magnesio, borace e gesso. Da qui il rosso più intenso al centro del lago. A questi colori bisogna aggiungere il bianco e rosa del piumaggio ed il giallo del becco dei fenicotteri, presenti in grandi quantità a questa altitudine. Scendiamo dalla jeep per ammirare la spettacolarità di questa natura. Sotto un cielo terso e luminoso un gruppo di fenicotteri è vicino la riva, qualcuno vola basso per fermarsi poco lontano, altri nei piccoli movimenti riflettono la loro immagine sulla superficie dell’acqua. L’aria è fredda ma secca e intorno a noi tanto, tantissimo silenzio; siamo soli in questo momento in questa valle. Spesso è un piacere condividere con altri compagni di viaggio le bellezze dei luoghi ma c’è il rischio di “danneggiarne” i silenzi. Con tristezza lasciamo i fenicotteri rosa che in grande numero popolano questo lago. In Bolivia vengono anche chiamati fenicotteri di ghiaccio perché per le bassissime temperature notturne, anche -20°, si dice che durante la notte si lasciano congelare le zampe nell’acqua per farsi liberare dal tepore del sole il giorno seguente. Fondata 3.000 anni fa Tiwanacua a 71 km da La Paz, fu capitale di un impero enorme che durò quasi 1000 anni. Scomparsa molto prima che arrivassero gli europei, fu saccheggiata dagli spagnoli con la dinamite per utilizzare le pietre, anche di diverse tonnellate, e distruggere simboli pagani. Ancora oggi si aspetta, il 21 giugno, il sorgere del sole con danze, musica e rituali elaborati.

Geyser Sol de Mañana

Rocce sull’altopiano boliviano

Si parte da La Paz, attuale capitale della Bolivia, verso ovest e dopo circa 71 Km le rovine dell’antica città di Tiwanaku1, nei pressi della sponda sud-orientale del lago Titicaca. In questa città, considerata come il centro della cultura che porta lo stesso nome, cultura tiahuanaco (o tiwanaku), si sviluppò un’importante civiltà precolombiana il cui territorio si estendeva attorno alle frontiere degli attuali stati di Bolivia, Perù e Cile. Questo luogo nacque come un villaggio intorno all’anno 1580 a.C. ed ha attraversato tre periodi culturali nel suo sviluppo: Contadino o di formazione, Urbano e Imperiale per scomparire per cause non ancora stabilite nel XII secolo. La civiltà Tiwanaku fu contemporanea di quella Wari, che si trovava a nord di quella Tiwanaku condividendone molti progressi sia dal punto di vista tecnologico che artistico. Alcuni autori usano il termine Wari-tiwanacu per riferirsi al complesso di queste culture affini territorialmente contigue. Non vi sono evidenze che la civiltà Tiwanaku utilizzasse la scrittura. Le rovine di Tiwanaku sono le più importanti della Bolivia e occupano una superficie di 240 ettari. Tiwanaku ha avuto una popolazione stimata in 100.000 persone nel suo periodo di massimo splendore. Una caratteristica sono gli enormi monoliti di circa 10 tonnellate che si possono ancora ammirare nelle rovine dell’antica città. L’area archeologica presenta una struttura urbana ben definita e i suoi monumenti sono una inesauribile mostra di progressi tecnologici e artistici. Il declino iniziò attorno al 950 fino al collasso completo attorno al 1100, quando il centro cerimoniale venne abbandonato. L’area circostante non fu però abbandonata completamente, ma lo stile artistico caratteristico cadde assieme agli altri aspetti della cultura. Una 1 Historia de Bolivia Periodo Prehispánico, Fundacion Cultural Del Banco Central de Bolivia La Paz 2006 pag. 352

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La Paz - convento di San Francesco

Inkavasi cactus

Tempio di Kalasasaya Isola della luna

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ricca iconografia è presente sulla metallurgia, la ceramica, il tessile, la litografia e altre eredità culturali. Tutto il territorio fu conquistato, attorno al XV secolo, dagli Inca e annessi all’impero noto come Tahuantinsuyo. Il sito è stato dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO

Il centro cerimoniale di Tiwanaku è un intrigo di piramidi crollate, palazzi e templi diroccati fatti di blocchi di pietra megalitici pesanti anche più di cento tonnellate. Nel periodo d’oro le enormi piramidi e gli opulenti palazzi erano dipinti in colori brillanti e intarsiati d’oro. Ancora oggi per gli Aymara resta un posto di forte significato simbolico e li vede nel solstizio invernale contemplare la nascita del sole davanti alla porta con danze, rituali e abbondanti quantità di alcol e coca. Le rovine di questa antica capitale della civiltà pre-Inca. sono piene di fascino e di mistero e sono ricche di strutture, più o meno massicce, lavorate con tecnologie estremamente avanzate. Di quasi tutte le strutture, purtroppo, non restano che le fondamenta. Il sito è stato depredato e distrutto dal popolo invasore che non solo ha rimosso tutti i metalli preziosi, ma ha addirittura utilizzato le antiche pietre per costruire la chiesa nella moderna Tiwanaku, la massicciata ferroviaria ed altri edifici a La Paz. In particolare questa è la sorte toccata alla grande piramide a gradoni, Akapana, una massiccia costruzione alta in origine ben 16 metri ed allineata perfettamente con i punti cardinali. E ancora le scale e l’enorme porta, entrambe monolitiche, ovvero ricavate da un unico blocco di pietra, del tempio di Kalasasaya, che formano, assieme alla grande statua nel centro (l’Idolo), un disegno geometrico estremamente elegante e gradevole. C’è poi il tempio semisotterraneo con le pareti ricoperte, lungo tutto il perimetro, di teste di pietra sporgenti che guardano verso i monoliti nel centro del tempio stesso. Le mura sono edificate con avanzate tecnologie per migliorarne la robustezza e per eliminarne i movimenti dovuti alle oscillazioni: in mezzo ai blocchi di pietra, venivano ricavati intagli nei quali si incastrava un’altra pietra più piccola o addirittura una piastra di rame, per legare il blocco a quelli adiacenti. Circondata da fascino e mistero La Porta del Sole fu ricavata da un unico masso del peso di 10 tonnellate, sul quale vennero incisi rilievi, principalmente nella sezione trasversale collocata sopra il vano della porta. Il rilievo centrale mostra una figura armata di due scettri a forma di serpente, attorniata da altre 48 figure alate, di cui 32 con volto umano e 16 recanti la testa di un condor. La Porta del Sole venne così chiamata perché posizionandosi davanti ad essa all’inizio della primavera il sole sorge esattamente sopra la metà della porta. I simboli, presenti in alto, forse rappresentano una sorta di calendario, mentre la figura al centro dovrebbe rappresentare il Dio Viroacocha con i raggi del sole che, dal suo viso, partono verso tutte le direzioni. Nel primo giorno di primavera, il sole sorge esattamente al centro della porta ricavata dentro il monolita e ancora oggi si festeggia tutta la notte con balli in costumi tradizionali, canti e preghiere propiziatorie in attesa del nuovo giorno, per ricevere i primi raggi del Tata Inti (Padre Sole) che per rinvigorire devono essere quelli che passano attraverso la Puerta del Sol (Porta del Sole), ritenuti pieni di forza ed energia.

Il lago Titicaca ha sempre avuto un ruolo dominante nella religione andina. La leggenda narra che il lago si era formato con le lacrime della luna che non riusciva a incontrarsi con il sole. Trovarono il modo di sfiorarsi sulla superficie dell’acqua quando la scia del sole al tramonto si ritrovava, anche se per poco, con la scia della luna che si levava. Il Lago Titicaca, il lago più grande del Sud America, regala un’esplosione di rigogliosa natura a quasi 4000 metri di altitudine. La calma piatta che si respira su quelle acque, dà l’impressione che il tempo si sia fermato, che lo stress e il rumore dei nostri giorni non siano riusciti a scalare quelle montagne. Luogo sacro degli Inca, patria di leggende millenarie e delle più antiche tradizioni del mondo, ospita 25 isole tra cui l’isola della Luna e quella del Sole, da cui, si dice, nacquero il semidio Manco Capac e la moglie-sorella Mama Ocllo, mitici capostipiti del glorioso impero Inca. Da allora, non ha perso l’aria mistica, carica di energie e spiritualità che si avverte quando con la barca si solcano le sue acque. Gli Inca credevano che Viroacocha, dio della creazione, si sollevasse dalle sue acque per chiamare il sole e la luna a illuminare il mondo e che i loro antenati provenissero dal lago. Sull’Isla de la Luna, chiamata Coati, controparte femminile del Sole, c’è un luogo di grande importanza la Corte delle donne dove donne nobili venivano educate da 8 a 18 anni. Le vergini educate sull’Isla de la luna venivano portate sulla Isla del Sole. Lì un terzo veniva avviata al matrimonio un terzo alle varie attività (tessitura, cucina, ecc.) e un terzo al sacrificio. Aspettavano il momento nel labirinto e prima del sacrificio venivano drogate con la coca e la chicha2 (cicia). Si racconta che, in caso di inosservanza del voto di castità, le vergini del Sole erano sepolte vive e i loro partners impiccati. I traditori venivano uccisi e, per maggior spregio, con le loro pelli venivano confezionati dei tamburi e con i loro crani dei boccali, a perenne ricordo della loro infamia. Sulle rive del lago sacro sorge la città di Copacabana. La parola Copacabana per alcuni deriva dalla parola Aymara kota kahuana, che significa vista del lago, per altri trae il nome dalla dea Copakawana, venerata in epoca precolombiana. I ritrovamenti archeologici indicano che era già abitata nel secolo XIV a. C. Con l’arrivo degli spagnoli nel 1550 venne costruita la prima chiesa cristiana, trasformata poi, il 2 febbraio 1583, nella Basilica di Nuestra Señora de Copacabana, uno dei santuari più importanti del Sud America. Proprio in questo santuario abbiamo partecipato ad un matrimonio prima in Chiesa e poi sul sagrato con i parenti in fila nei loro costumi della festa. Le donne con vesti molto colorate e scialli lunghi ed eleganti. Ciascun parente si avvicinava agli sposi e ai padrini situati sotto un arco addobbato con fiori e, prima del bacio, lasciavano cadere sullo loro testa una manciata di pezzettini di carta bianca mentre un gruppo del folklore andino con tipici costumi e tipici strumenti intonava canti della tradizione. Anche Rosanna si è messa in fila per dare in spagnolo gli auguri agli sposi; hanno risposto in inglese ringraziando contenti. 2 Di origine inca, considerata l’elisir degli inca e della valle di Cochabamba, è una bibita fermentata per alcuni giorni dopo un processo di elaborazione molto lungo; è una bibita alcolica.

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La Paz -

Tramonto a Copakawana

La Paz, capitale più alta del mondo, raccoglie in una conca tutte le contraddizioni di una nazione. Nella parte alta ci sono i poveri nella parte bassa i ricchi. Le brugas con i loro rituali magici, dietro la chiesa di S. Francesco, i locali con la musica e la danze tipiche, i mercati colorati

struita sulle Ande, per lasciarci coinvolgere da questa capitale di una nazione giovane che sta cercando le sue radici nella propria storia. Sono radici civilissime dell’umanità, della nostra storia comune che, specie nei momenti difficili, abbiamo tutti bisogno di avere presenti come monito e come esortazione.

Ritorniamo a La Paz, città vivace co-

Mentre rileggo questi appunti di viag-

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gio ho sulla mia scrivania i sassi che Annamaria mi ha sempre chiesto per ogni luogo visitato nei miei viaggi. Questa volta non sono riuscito a recapitarli in tempo. Mi faranno compagnia ora che non posso più condividere con lei le piccole e grandi emozioni del quotidiano e ricevere carezze dai suoi sorrisi.

Carmine Negro


Radici meridionali dell’Unità d’Italia

Napoli 1799

La prima rivoluzione per l’Unità d’Italia Giovedì 29 dicembre 2011 il Centro di Ricerche Storiche d’Ambra (Forio) ha concluso le Celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, iniziate il 7 settembre 2010, e la Mostra su Garibaldi (immagini e documenti contemporanei ai fatti storici).

Nell’occasione, dopo l’introduzione dell’avv. Nino d’Ambra, il prof. Luigi Fienga, socio ordinario dell’Accademia Petrarca di Arezzo e Membro dell’Associazione Internazionale “Amici di Pompei”, ha innanzitutto ricordato un frammento di dolorosa confessione provata e dichiarata da Garibaldi, a pochi anni dall’unità nazionale: - in una lettera da Caprera, datata 7 settembre 1868, indirizzata ad Adelaide Cairoli, a quella “Madre Italiana”, stimata per la sua attività patriottica e genitrice di quei fratelli, offerti in olocausto all’unità d’Italia1, Giuseppe Garibaldi scrive: «Volgete […] il vostro pensiero alle popolazioni liberate dai vostri martiri e dai loro eroici compagni. Chiedete ai cari vostri superstiti delle benedizioni con cui quelle infelici popolazioni salutavano ed accoglievano i loro liberatori […]. Io – confessa Garibaldi – ho la coscienza di non aver fatto male, nonostante ciò non rifarei oggi la via dell’Italia Meridionale temendo d’esservi preso a sassate da popoli che mi tengono complice della disprezzevole genia che disgraziatamente regge l’Italia e che seminò l’odio e lo squallore dove noi avevamo gettato le fondamenta d’un avvenire italiano sognato dai buoni 1 Nino D’Ambra, Giuseppe Garibaldi. Cento Vite in una, p. 269 e sub voce, p. 546. Napoli,1983.

di tutte le generazioni e miracolosamente iniziato». A questo frammento ha fatto seguire una premessa d’obbligo, perché quell’amara dichiarazione di delusione riecheggia ancora oggi come una ferita mal curata:

Queste nostre celebrazioni centenarie o come quella che è corsa quest’anno, dei centocinquanta, per festeggiare l’Unità d’Italia, o comunque quelle legate al calendario, di più o meno famosi personaggi o eventi, appartengono alla religione laica, democratica, nazionalistica e storicistica, affermatasi in Europa nel diciannovesimo secolo. Prima non se ne trova traccia. Nel 1865 il centenario della nascita di Dante fu solennemente celebrato in Firenze, divenuta appunto allora la capitale del nuovo Regno d’Italia. Nulla di simile a quella celebrazione si era mai visto prima in Italia, né si vide dopo. Era il sesto e primo festivo centenario, festeggiato il 14 maggio nella piazza di Santa Croce con lo scoprimento della statua consacrata in Firenze a Dante. Da allora altri centenari di uomini e di eventi, importanti o poco noti, ne sono corsi tanti per l’Italia. Nel 1961, per festeggiare il primo centenario della nostra Unità, nelle Scuole venne offerto agli studenti un libretto, in cui si narravano, alla maniera ancora deamicisiana, i grandi fatti che portarono all’Unità nazionale. E le commemorazioni vennero solennemente celebrate un po’ in tutta Italia. Poi, per i cinquant’anni che sono seguiti, silenzio.

Nessuna riflessione, nessuna pubblicazione che incominciasse a diffondere le verità documentarie a lungo nascoste, e nessun contributo analitico-critico che riuscisse a far comprendere alle nuove generazioni del Nord e a quelle del Sud con le loro sempre più evidenti distanze e differenze nelle difficili urgenze del presente, i sacrifici e le speranze che nutrirono i giovani italiani di allora e le delusioni che ne provarono. Insomma, nessuna voce alternativa, se non esile, che revisionasse nel tribunale della Storia, con prove documentarie, quel passato romanticamente e dannosamente raccontato in modo trionfalistico che portò l’Italia intera a dignità di Nazione, ma che fin da subito tradì le aspettative e provocò l’occupazione militare al Sud, come riprova il frammento della lettera di Garibaldi, prima riferito. Un’incolmabile ferita, uno squilibrio sempre più evidente da ravvisarne, dopo centocinquanta anni, le dannose conseguenze. Oggi, non si può più tacere che quella conquista comportò episodi di sterminio di massa. Perfino il revisionismo, che ha saputo guardare al di là della storia ricostruita dai vincitori per altre pagine del nostro passato, anche più recente, conserva una specie di rispetto per quel periodo, come se cercare la verità macchiasse l’orgoglio della nascita di una Nazione; come se ammettere che fu versato del sangue, e ne fu versato tanto, rendesse la Nazione meno grande. L’agiografia risorgimentale ha avuto bisogno dei suoi campioni e del suo florilegio di aneddoti eroici, perché era indispensabile fondare un sentimento di amore e di appartenenza nazionale. Ma a quella storia tuttora manca una profonda opera di revisione. La retorica di un Risorgimento popolato solo da piccole vedette lombarde e tamburini sardi, però, poteva andare bene nei primi decenni unitari e ancora La Rassegna d’Ischia n. 2/2012

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sotto il fascismo, quando la religione civile era infarcita di nazionalismo. Oggi, – tanto più con le spinte federaliste o addirittura separatiste, al Nord e al Sud – il processo risorgimentale e i suoi protagonisti non possono più essere intesi come un feticcio da adorare: bensì come una vicenda storica, la nostra, da rivedere e aggiornare secondo dati og-

gettivi. Senza per questo negarne i valori di base. C’è solo da sperare che, con quest’anno che si sta concludendo dei festeggiamenti, si diradi finalmente il buio e il silenzio degli studi per recuperare il nostro Risorgimento – vero e intero – nella coscienza degli italiani di oggi e di domani: continuando a considerarlo

un atto fondamentale, necessario e benigno, della storia d’Italia, pur con tutti gli errori e le colpe che accompagnano gli eventi epocali. *** Dopo questa premessa il prof. Fienga ha relazionato sul tema

La prima rivoluzione per l’unita’ d’Italia: Napoli 1799 Le vicende delle province meridionali nel 1799 hanno avuto sostanzialmente due tipi di lettura, spesso intrecciati fra di loro, ed entrambi per qualche verso legati alla tesi rivoluzionaria «passiva»: – una lettura nazionalistica, che ha visto nell’insorgenza una rivolta contro lo straniero oppressore e contro coloro che ingenuamente lo sostennero in nome di ideali astratti, incomprensibili per una massa che per definizione non poteva e non doveva avere accesso alla «politica»; – e una lettura sociale, che ha visto invece nell’insorgenza una grande rivolta contadina contro la borghesia terriera dei «galantuomini», astrattamente «giacobini» ma concretamente difensori dei propri esclusivi interessi. Si tratta, spesso, di letture viziate dall’assoluta mancanza di un’ottica comparativa, tipica del resto dell’intera considerazione della Repubblica del ’99, vista come una sorte di marchio d’origine di glorie e di miserie del Mezzogiorno, come una vicenda «patria» esclusiva, in positivo o in negativo, senza nulla o quasi in comune col generale contesto dell’Italia «giacobina» e dei suoi rapporti con la Francia rivoluzionaria; come se nell’esperienza meridionale non si riproponessero invece contenuti, ritmi e modalità del dibattito e della lotta politica e sociale che caratterizzarono tutte le repubbliche «sorelle», sia pure, ovviamente, con le varianti e le specificità dovute al particolare contesto storico-geografico proprio ad ognuna di esse. Per quanto riguarda l’insorgenza, si può dire che nessuna regione italiana rimase immune da quella che possiamo definire come la più estesa e profonda jacquerie di tutta la storia italiana. Dovunque le “masse cristiane” inalberarono i vessilli della Santa Fede e le insegne del papa, dell’imperatore o dei legittimi sovrani, guidate da visionari, da prelati e da briganti si scagliarono contro gli odiati “giacobini”, visti come i nemici di Dio e del re ma anche come gli oppressori della povera gente, con cieca violenza e primitiva ferocia. Nel Mezzogiorno, come e più che nel resto d’Italia, un elemento non nazionale ma antifrancese giocò un ruolo certamente importante. Il Regno diventava Repubblica a dieci anni ormai di distanza dallo scoppio della Rivoluzione francese, e a tre anni dall’istituzione delle prime “repubbliche sorelle” in Italia. La propaganda antigiacobina aveva avuto tutto il tempo di diffondere le sue immagini demoniache dei rivoluzionari come “bevitori di sangue”, in senso figurato e letterale. 42

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Soprattutto nei mesi precedenti l’invasione borbonica della Repubblica romana, si erano fatte ancor più martellanti, come scriveva il console francese a Napoli Sieyès, «le prediche e canzoni» che facevano leva sul fanatismo, l’ignoranza e le passioni del popolaccio contro i francesi. Il peso, poi, dell’occupazione militare francese non valse certo a dissipare i timori preesistenti, e ad ispirare fiducia nella promessa ‘rigenerazione’. La condotta dell’esercito francese nella sua marcia verso Napoli preparava già la controrivoluzione dei paesi dove portava la guerra. Infatti, le contribuzioni enormi ed arbitrarie, il saccheggio, le violenze, avevano sollevato i popoli. Ora, la violenza, l’immediatezza e la diffusione delle rivolte non consentono tuttavia di fermarsi a dati esterni e contingenti, che si tratti dell’oppressione straniera o degli ‘errori’ del governo: è piuttosto alla situazione oggettiva ed ai suoi precedenti storici che bisogna guardare, come almeno in parte si è fatto per le insorgenze che scoppiarono in tutta l’Italia del ‘triennio rivoluzionario’. Merito precipuo della lettura «sociale» è stato appunto di aver cercato motivazioni ben più profonde e radicate nel lungo periodo e all’interno del Regno. In questa sede mi limiterò ad individuare alcune linee interpretative che si sono avute per tutto l’arco dell’Ottocento e del Novecento e a segnalare alcuni temi e problemi che sono stati analizzati fino ai giorni nostri. Ora, andiamo per ordine con il più noto dei sacrifici finali di quella rivoluzione. Il 20 agosto del 1799, la signora Eleonora de Fonseca Pimentel, tra volgari insulti dei tumultuosi lazzari e delle soldatesche sanfediste, ammassati in piazza Mercato a Napoli per assistere al suo afforcamento, ferma, in piedi, davanti al boia, con voce spezzata recitò Virgilio: «Forsan et haec olim meminisse juvabit» (Aen., I, 203)2 - Forse anche queste sventure sarà bene un giorno ricordare. Ricordare quei fatti è nostro dovere, e con uno spirito che non possiamo non ritenere impegnativo, trattando insieme a voi, la Rivoluzione Napoletana del 1799, perché in quella rivoluzione trovarono la loro prima affermazione non solo i valori dell’Italia unita, libera e democratica, ma anche quelli dell’Italia di oggi, e soprattutto di quella che dovrà venire. 2 Vincenzo Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana, a cura di Anna Bravo, Torino, UTET, 1975, pag. 327.


La Repubblica Napoletana del 1799 rappresenta un evento di particolare importanza nella storia del Mezzogiorno e d’Italia. Fu proprio allora che a Napoli, già fervido centro della cultura illuministica, le migliori forze sociali ed intellettuali del Sud, si impegnarono con generosa passione in un’opera di rinnovamento che troppe circostanze resero poi irrealizzabile. Quando la Repubblica, dopo pochi mesi di vita, cadde per l’infuriare delle armate Sanfediste, raccolte sotto il non corrispondente nome di Armata Cristiana, la reazione borbonica fu bieca e spietata. Il meglio della Nazione meridionale fu annientato o disperso tra il capestro e la mannaia, tra le prigioni e l’esilio. La storiografia del primo Ottocento, dal Cuoco al Colletta, al Lomonaco, presentò quegli anni, sottolineando soprattutto l’aspetto tirannico del restaurato governo borbonico. Se, infatti, i martiri della Repubblica Napoletana furono considerati eroi, ai quali andava il merito di essere i precursori del Risorgimento italiano, coloro che li mandarono sul patibolo o in esilio furono considerati come tiranni oppressori della libertà; se gli uomini della Repubblica Partenopea agirono con giustizia ed onestà di intenti, il governo borbonico, loro persecutore, fu ritenuto foriero solo di ingiustizie. Insomma, gli scritti del Cuoco, del Lomonaco e del Colletta, pur nulla cedendo all’improvvisazione e al facile effetto, furono opere ispiratrici di nobili sentimenti nazionali, piuttosto che caratterizzate da un severo rigore storiografico. Ora, nella revisione iniziata da Luigi Blanch, già murattiano, poi liberale conservatore e lealista, l’interpretazione cuochiana del 1799 viene piegata in senso reazionario. La ripulsa per gli ideali e per la pratica della Rivoluzione Francese comporta il cinico giudizio sui giacobini napoletani come “Terroristi alla Robespierre”, ai quali la vittoria delle bande Sanfediste avrebbe impedito di diventare carnefici più crudeli del boia borbonico, che pose fine alla loro esistenza. «Non crediamo – scrive il Blanch – che i cospiratori contro il governo avessero ragione. Erano una minoranza impercettibile, aspirante a stabilire per mezzo della conquista, una forma di governo non voluta dal paese; nel senso morale fu una fortuna che divenissero vittime, perché se avessero trionfato, sarebbero stati carnefici tanto più crudeli quanto più erano pochi»3. Blanch condivide con Cuoco la completa incomprensione per Robespierre, che nel “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana” si trova definito come despota e folle: «di Robespierre – dice il Cuoco – si sarebbe potuto dire che o doveva essere il dittatore del mondo o pazzo4». Cuoco, per Blanch, ravvisa sentimenti di terrorismo anche fra i giacobini napoletani, e individua nel “Tribunale Rivoluzionario”, istituito contro la congiura dei Baccher, un’inutile imitazione del “terribile comitato di Robespierre”. Analogo atteggiamento di lettura misogallica si trova nella “Storia del Reame di Napoli “ di Pietro Colletta. 3 Luigi Blanch, La Storia del Regno di Napoli dal 1801 al 1806, in «Scritti storici», a cura di B. Croce, Bari, 1945, vol. I, pagg. 5-6. 4 Vincenzo Cuoco, op. cit., pagg.174-75.

Anche in Colletta la diffusione delle idee repubblicane a Napoli denota i tratti cuochiani dell’infatuazione collettiva e della sobillazione straniera. Colletta – secondo Blanch – mostra di sottovalutare le radici culturali e politiche dello scontro tra i Borboni e la classe dirigente del Regno, tutto riducendo a momentanei eccessi dell’una e dell’altra parte. Da un lato, il sospetto dei monarchi, impressionati dalla tragica sorte dei Borboni in Francia, dall’altro, l’ingenuità e l’avventatezza dei primi martiri giacobini. «Il Governo – scrive il Colletta – incitava i giudici alla severità, spaventato dalle nuove cose di Francia e d’Italia; era capo in Francia Robespierre, e trionfavano all’interno le dottrine più feroci; all’esterno, nel Piemonte scoprivasi congiura contro il re, e tumulti la secondavano; spuntavano in Bologna germi di libertà; ed in Napoli si passava dalle finte alle vere cospirazioni. Era inquisitorio il processo, le segrete accuse potevano come indizi, i testimoni, benché fossero spie a pagamento, valevano; la reazione dell’Inquisitore valeva quanto il processo»5. Tutta intessuta su Cuoco e Colletta è la Memoria sui fatti del 1799, scritta da Giuseppe Mazzini, recentemente scoperta da Lauro Rossi nel Museo Centrale del Risorgimento di Roma. Deluso dalla Monarchia di Luglio e respingendo, d’altro canto, tutta la tradizione robespierriana e giacobina, Mazzini cerca negli eventi napoletani essenzialmente gli errori da non più ripetersi, e un precedente, benché imperfetto, di iniziativa rivoluzionaria popolare da correggere e rettamente incanalare, cioè la rivolta dei Lazzari e la loro difesa di Napoli dai Francesi nel gennaio ’99, e le insorgenze calabresi, esempi notevoli, per Mazzini, di primitivo ed incolto sentimento patriottico e religioso. Con ciò, Mazzini rinnova il giudizio del Cuoco sull’inesperienza e astrattezza politica dei giacobini napoletani: «I patrioti illuminati – scrive Cuoco – non hanno finora mai compreso la potenza del popolo. Questa è la chiave di tutte le nostre disgrazie. Essi hanno cercato il punto di appoggio, per la rivoluzione, nei francesi e non comprendevano. Cospiravano, mentre il popolo voleva agire6». Mazzini cercava nel ’99 una lezione per il suo tempo, ma cercandola, sovrapponeva all’immagine del generale francese Championnet quella di Luigi Filippo. Egli confondeva l’ultimo dei giacobini con il maestro del moderatismo, ravvisava nei Lazzari qualità e nobiltà di scopi che essi non avevano e non avrebbero potuto avere; scambiò le plebi del Mezzogiorno nel 1799 con un ‘popolo’ di romantici che esisteva solo nei suoi voti. Pure per il Manzoni, la Rivoluzione era stata inutilmente sanguinosa e iniquamente crudele; nel suo scritto incompiuto: La Rivoluzione Francese del 1789 e la Rivoluzione Italiana del 1859, che si accinse a scrivere dopo l’Unità d’Italia, e pubblicato postumo nel 1889, ritorna il giudizio del Cuoco: «… fu tanto breve – dice Manzoni – quanto povera illusione quella di alcuni italiani che, sulla fine del secolo scorso, sperarono la libertà di questa o di quella parte 5 Pietro Colletta, Storia del reame di Napoli, a cura di Anna Bravo, Torino, UTET, 1975, pagg. 225-26. 6 Vincenzo Cuoco, op. cit., pagg.174-75.

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d’Italia da una forza straniera, senza la cooperazione, anzi malgrado la ripugnanza delle diverse popolazioni». Fu merito di Augusto Franchetti, con gli articoli sulla Rivoluzione francese e sulla coscienza unitaria italiana, apparsi nella “Nuova Antologia” tra il 1889 e il ’90, a fissare nel 1789 e al triennio giacobino le origini politiche del riscatto nazionale in Italia. Egli avverte che il Risorgimento non comincia col 1815, ma comincia con gli alberi della libertà delle Repubbliche Cispadana, Cisalpina e anche di quella gloriosa Repubblica Partenopea, di cui parlerà da par suo, dieci anni dopo – nel febbraio 1899 – il maestro di quella generazione, Pasquale Villari7, il patriarca della cultura storica fiorentina. Il primo centenario della Repubblica partenopea impegna lo studioso in modo diretto sui rapporti fra Rivoluzione francese e Italia, o meglio inserisce la sua voce autorevole nel dibattito sul giudizio che investe l’opera dell’ammiraglio Nelson, il «giustiziere» dei martiri della Repubblica Napoletana. Dalla minuziosa analisi – documenti e dati alla mano – di quegli atti, Villari ripercorre il dramma dei protagonisti: il cardinale Ruffo, artefice del recupero dello Stato ai Borboni, ma deciso a frenare con la «capitolazione della repubblica» ogni estrema vendetta; l’ammiraglio inglese Nelson, deciso a colpire con durezza i ribelli, ma imbarazzato dal peso della civiltà della grande nazione che rappresenta; Caracciolo, combattente eroico, trascinato contro il suo sovrano dalla viltà di questo e dall’entusiasmo di amici e parenti che avevano fraternizzato coi francesi. Non sfugge all’acuto studioso di Savonarola, di Machiavelli e delle classi sociali la peculiarità della Rivoluzione napoletana: «Una parte della borghesia e anche dell’aristocrazia – egli scrive – era già convertita alle idee della rivoluzione dopo la fuga di Re Ferdinando; idee che si impadronivano allora di tutti gli animi in Italia, ridestando un grande universale entusiasmo. E costoro aspettavano i Francesi come liberatori»8. Questo spiega – osserva Villari – perché alla guida della Repubblica napoletana si trova non solo la borghesia ma anche quasi tutta l’aristocrazia, vigliaccamente abbandonata dalla Monarchia. E questo spiega i generosi comportamenti che restano tali anche dopo la partenza verso nord dei Francesi. La Repubblica rimase abbandonata alle poche sue forze di soldati improvvisati, tuttavia essi decisero di fare sino all’ultimo ostinata resistenza. Il giudizio del Villari nei confronti dell’ammiraglio Nelson, «giustiziere» dei martiri della Repubblica partenopea, è sul piano della formale legalità assolutoria: ubbidì al volere del legittimo sovrano, a difendere il quale era stato mandato dal suo governo. Per Villari la fine malinconica di quella repubblica non sarebbe stata inutile, al pari del sacrificio dei patrioti che in essa avevano creduto. 7 Pasquale Villari, Nelson, Caracciolo e la repubblica napoletana (1799), in «Nuova Antologia», vol. LXXXIX, 16 febbraio 1899. 8 Pasquale Villari, Nelson, Caracciolo e la repubblica napoletana (1799), in «Nuova Antologia», vol. LXXXIX, 16 febbraio 1899, p. 648.

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Fu il loro martirio, che, circondandoli di un’aureola luminosa, dette ad essi una vera importanza storica. «A Napoli – aveva infatti scritto il Franchetti – spetta il vanto che la sua rivoluzione non fu promossa da gente che nulla avesse da perdere, ma da uomini quasi tutti d’alto animo e di vita intemerata: i quali se non andarono immuni da errori, nel seguire le massime e gli esempi della Rivoluzione francese, si guardarono da imitarne le sanguinose violenze, ed anzi ebbero sempre intenzioni purissime»9. E Alessandro D’Ancona, il suo antico professore dell’università di Pisa, il grande umanista che aveva svolto la funzione non inferiore a quella del Carducci nell’approfondimento dei legami fra la Storia e la Letteratura Italiana, gli darà atto di quella novità. «La ricerca di un comune pensiero – scrive il D’Ancona – e di un sentimento generale, attraverso al vario avvicendarsi degli eventi, è come un filo conduttore, che il Franchetti tiene saldamente e costantemente fra mano e che riunisce la sparsa materia, la quale poi, a poco per volta, vien a raccogliersi in un concetto capitale! 10. La storia è più complessa, avrebbe detto il Croce. E la necessità di allontanare i facili miti, di ritornare alle fonti, ai documenti, che soli consentono una più realistica valutazione di quegli avvenimenti, induce lo studioso di Dante a sottolineare l’importanza degli studi e delle serie ricerche che in tale campo si andavano conducendo, agli albori del secolo ventesimo. Egli legge con attenzione e con l’occhio del vecchio e accorto maestro del metodo storico. E le riflessioni lo spingono a guardare indietro, alle origini del sentimento nazionale, risalendo nel tempo fino a quel decennio, fra il 1789 e 1799. «Invero, – conclude allora il D’Ancona – l’invasione francese, le repubbliche, le restaurazioni, le congiure, i moti rivoluzionari, e poi le imprese militari del ’48 e degli anni successivi fino al ’70, fino cioè all’insediamento in Roma della capitale e alla distruzione del Potere temporale, sono a vicenda cause e conseguenze e testimonianze del rinato sentimento nazionale, che da uno stato nebuloso passa a poco a poco a diventare realtà effettiva, e formano un unico fatto complesso, distinto in più periodi»11. Spetterà a Benedetto Croce, che fin da giovane aveva rivolto la sua attenzione alle biografie dei Giacobini Napoletani, componendo saggi e memorie, radunati poi nel volume famosissimo: La Rivoluzione Napoletana del 179912, di arricchire con un prezioso approfondimento documentario, elevando inoltre la ricostruzione particolareggiata di quegli eventi napoletani al rango di epica nazionale. Croce, rileggendo Cuoco nella prospettiva offerta da Franchetti, tracciò una linea interpretativa degli eventi del ’99 destinata a larghissima fortuna, non solo nella storiografia, ma nella vita morale e civile del Mezzogiorno e di tutta l’Italia. 9 Augusto Franchetti, Storia d’Italia dal 1789 al 1799, in «Nuova Antologia», vol. XX, 1 aprile 1889, pag 414. 10 Alessandro D’Ancona, Dal 1789 al 1814. Nuovi studi e documenti di storia italiana, in «Nuova Antologia», vol. CIII, 16 gennaio 1903, pag. 203. 11 Alessandro D’Ancona, Dal 1789 al 1814, cit. pag. 201. 12 Benedetto Croce, La rivoluzione napoletana del 1799, Bibliopolis, Na., 1998.


Quanti, dopo Croce, si sono dedicati a questi studi, non hanno potuto, ovviamente, non tenere nel debito conto la larga mole di testimonianze da lui illuminate, e soprattutto il valore del suo giudizio storico. Con Croce, sarebbe ozioso insistervi, la memoria del 1799 venne ad una svolta: terminata la stagione dell’erudizione, dell’aneddotica e della retorica ottocentesca, cominciava, anche per quell’evento, l’epoca del più agile e sagace lavoro storiografico. La revisione, dopo Croce, è stata continuata dal solido lavoro di Nino Cortese, il quale, rivedendo le pagine del Saggio Storico di Vincenzo Cuoco e quelle della Storia del Reame di Napoli di Pietro Colletta, ha spianato la via ad una comprensione più adeguata di quegli avvenimenti. Ma è con gli studi recenti di Pasquale Villani13, e, particolarmente, con i saggi sulla Repubblica napoletana di Anna Maria Rao, apparsi in un unico volume nel 199514, che il periodo in questione viene ad acquistare una fisionomia più precisa. I due studiosi, consapevoli dei problemi della rappresentatività, della profondità e dell’incidenza che le rivoluzioni assumono in rapporto col contesto complessivo della storia, cioè del loro incontro e scontro con movimenti più lenti, di lunga o lunghissima durata, quali: l’economia, la società, le istituzioni, la mentalità nelle quali sembrano generalmente prevalere o resistere forti elementi di continuità, hanno collocato quegli avvenimenti nel più ampio contesto della storia sociale e istituzionale sia del Mezzogiorno che d’Italia e nel quadro europeo dell’espansione rivoluzionaria e napoleonica. Le ricerche successive non comportano una revisione delle linee di fondo, ed anzi, per molti versi ne confortano le indicazioni. Ora, mi limiterò a tratteggiare gli avvenimenti, che non a tutti sono noti, soffermandomi sugli essenziali motivi e momenti che portarono i Napoletani ad essere spettatori, attori e vittime dei drammatici fatti del ’99. Definitivamente tramontati e irripetibili appaiono sul Reame di Napoli i felici giorni di Re Carlo III, l’illuminato sovrano, che aveva inaugurato, nel 1734, il Regno indipendente dei Borboni di Napoli. Purtroppo, poco ormai sopravvive del buon governo di quel Re, e, di quel poco, fa scempio la mediocrità di Ferdinando IV e il dispotismo di Maria Carolina. A nulla valgono le opere, i suggerimenti e il magistero di menti altissime. Il Filangieri, il Galanti, il Conforti, il Pagano, il Cirillo, derivanti, chi più e chi meno, dalla grandezza antesignana del Vico e del Giannone, tendono tutti i loro sforzi e le loro passioni verso il bene supremo dello Stato e del popolo. Eppure, sensibile al fascino della cultura francese e dell’illuminismo napoletano era stata la stessa regina Maria Carolina negli anni antecedenti al fatale 1789 francese. I loro progetti di innovazione e i loro insegnamenti prima sono accolti con liberalità dalla stessa regina, che apre 13 Pasquale Villani, Mezzogiorno tra riforma e rivoluzione, Bari, 1962, pagg.286-88. 14 Anna Maria Rao - Pasquale Villani, Napoli 1799-1815, dalla repubblica alla monarchia amministrativa, Napoli,1995.

le porte della reggia alle più vivide menti: a Mario Pagano, con i suoi Saggi Politici; a Gaetano Filangieri, con la Scienza della Legislazione; a Domenico Cirillo, che della regina era medico ed amico; ad Eleonora de Fonseca Pimentel, che della medesima era la bibliotecaria. Purtroppo, dopo il 1789, e via via, che giungono dalla Francia le notizie del progredire della Rivoluzione e poi la fuga e la cattura del Re e della Regina a Varrenes e infine la proclamazione della Repubblica, la Corte Borbonica muta radicalmente atteggiamento verso gli esponenti napoletani del nuovo spirito democratico; e da che li accoglieva liberamente, ora li allontana con orrore individuando in essi, in forma ossessiva, i complici dei misfatti francesi. L’azione repressiva si scatena furiosamente, alimentata e sostenuta da Maria Carolina, accecata d’odio dopo la decapitazione in Francia di sua sorella Maria Antonietta. Cadono, quindi, nei giacobini napoletani le speranze di un pacifico progredire delle istituzioni democratiche, all’ombra di una monarchia illuminata. Nel Regno, intanto, si susseguono pessime leggi. Il fisco spreme senza discriminazione e ritegno i contribuenti. La bilancia dei pagamenti con l’estero è passiva. Si prepara, nonostante questo stato di cose, la guerra alla Francia. Si ricorre all’inglese Acton, come al toccasana, elevandolo a Ministro delle Finanze e poi a Primo Ministro, nella speranza che questi riesca a risollevare le finanze e a rinvenire le spese militari per sostenere le ostilità contro la Francia rivoluzionaria. È tutto una convulsione. E il popolo, che lavora e paga le tasse, diffida. Sospetta dello straniero, perché a Napoli tutto è straniero. Austriaca è la Regina, spirito torbido e priva di prudenza. Inglesi l’odiato ministro Acton e l’ammiraglio Nelson. Svizzeri e Tedeschi i comandanti dell’esercito. Austriaco, infine, il comandante in capo delle forze armate, generale Mack. Si aggiungano al fosco quadro lo squilibrio industriale e la mancata rinascita dell’economia agraria, dopo la carestia che aveva danneggiato l’intera Europa, ed il panorama apparirà in tutta la desolante tragicità. Che motivo ha Napoli di muovere guerra ai francesi, esponendosi al rischio della perdita stessa dell’indipendenza nazionale? Il colmo della disperazione è raggiunto quando il Re toglie dalle pubbliche banche i depositi dei risparmiatori, con la ridicola giustificazione di volerli sottrarre alla rapacità dell’eventuale invasore, e si badi, nel 1794, quando, cioè, gli eserciti francesi sono lontanissimi dalla frontiera del Regno. Ma ciò che soprattutto inquieta gli strati intermedi e la grande borghesia è l’imprevedibile reazione del popolo agli avvenimenti che si annunciano forieri di terribili sventure. La città di Napoli, nel 1798, conta quasi mezzo milione di abitanti, ed è tra le importanti capitali d’Europa la più popolosa. In essa vive, tra ecclesiastici, borghesi e nobili, compreso i domestici, un terzo del numero complessivo degli abitanti. Gli altri due terzi della popolazione sono formati da elementi La Rassegna d’Ischia n. 2/2012

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popolani, appartenenti alle varie categorie di arti e mestieri. Rimane fuori una quantità indefinita di veri e propri Lazzari (o Picari), un nome perpetuato dalla tradizione del dominio spagnolo e di cui a fine ’700 comincerà a sorgere il mito. È proprio questa massa di popolani, e specialmente quella dei Lazzari, che costituisce un’incognita minacciosa, perché permanentemente pronta ad esplodere, soprattutto nei momenti in cui eventi eccezionali turbano la vita della nazione. La plebe non ha diritti civili e non ha doveri: è un’entità che sfugge a qualsiasi classificazione sociale e che è impossibile definire. Dei Lazzari hanno paura tutti. L’esperienza del 1647-48, quando Masaniello con il suo esercito di straccioni riuscì ad imporre un ordine più giusto e a far tremare l’impero spagnolo, avrebbe dovuto ammonire ed insegnare molte cose agli intellettuali Giacobini Napoletani. E, intanto, Napoleone passa da una vittoria all’altra; il trattato di Tolentino disarma e umilia il papa Pio VI; in Roma occupata dai Francesi si proclama la Repubblica, è il 15 febbraio 1798. Ferdinando decide di entrare nella coalizione anti-francese ed invia 60000 uomini. Il 27 novembre 1798 le truppe napoletane entrano in Roma. Il generale francese Championnet non oppone resistenza, si riorganizza e sotto l’urto dei francesi l’armata napoletana si sbriciola e viene inseguita fino alle porte di Napoli. Il Re si appresta a riparare in Sicilia. Lo sfacelo politico del regno è completo. L’annuncio della fuga del Re provoca il panico. Napoli, senza direzione, è nel caos. La situazione diventa sempre più pericolosa ed esplosiva, con la massa della plebe che comincia a sommuoversi. Ferdinando il 21 dicembre salpa per Palermo. Nessuno è in grado di saper prendere una seria decisione: i Rappresentanti della Città ritengono urgente venire a patti coi Francesi per salvare Napoli; la Guardia Civica vuole occupare i castelli per difenderla; la plebe desidera armarsi; i Giacobini sono favorevoli all’ingresso in città dei Francesi per liberarla dalle sofferenze dell’Antico Regime e per fondare finalmente la Repubblica. In effetti, nello sfacelo del regime borbonico, le sole forze vitali sono il popolo e la piccola pattuglia dei Giacobini. Le due forze si fronteggiano, ma seppure da posizioni e con obiettivi di classe diversi, esprimono una medesima esigenza di libertà e di dignità nazionale. A circa un secolo e mezzo di distanza il furore della plebe assume i medesimi aspetti della rivolta del 1647; la progressione dei fatti è tutta simile. Nessun castello resiste e l’esercito regolare si volatizza, facendosi disarmare dai popolani, proprio come i soldati spagnoli si facevano disarmare dai seguaci di Masaniello. I lazzari piazzano i cannoni nei punti giusti. La notte del 20 gennaio cominciano gli incendi per la città e la caccia al giacobino, dopo che le trattative tra il generale francese Championnet e la delegazione del popolo sono fallite. I popolani e i lazzari si battono e si oppongono ai francesi che entrano in città e il 25 vi proclamano la Repubblica. 46

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Il governo rivoluzionario è sotto la tutela dei francesi e il popolo è tartassato dalle tasse per coprire le spese ai francesi occupanti. Dalle province, notizie e voci di sanguinose sollevazioni arrivano in continuazione e i Lazzari in città manifestano con ostinazione il loro odio contro i Francesi e i Giacobini. La Repubblica va a rotoli. Il Cardinale Ruffo, alla testa dei contadini calabresi, lucani e pugliesi, marcia a passi spediti verso la capitale. Le truppe Francesi abbandonano Napoli. Il fallimento degli ideali giacobini e gli eccidi perpetrati suscitano il chiaro e realistico giudizio di Vincenzo Cuoco, il quale scrive: «La nostra Rivoluzione essendo una “rivoluzione passiva”, l’unico mezzo di condurla a buon fine era quello di guadagnare l’opinione del popolo. Ma le vedute dei patrioti e quelle del popolo non erano la stesse: essi avevano diverse idee, diversi costumi e finanche due lingue diverse»15. E più oltre, scrive: «Il male che producono le idee astratte di libertà è quello di toglierla mentre la vogliono stabilire»16. E, ancora, più sottile il giudizio circa il linguaggio adottato dai suoi amici Giacobini: linguaggio non solo astratto, ma a volte, anche ridicolo. Ecco, come, con amara ironia ne parla il Cuoco: «Che sperare da quel linguaggio, che si teneva in tutti i proclami diretti al nostro popolo? Finalmente siete liberi … Il popolo non sapeva ancora cosa fosse la libertà: essa è un sentimento e non un’idea; si fa provare coi fatti, non si dimostra con le parole… Il vostro Claudio è fuggito, Messalina trema … Era obbligato il popolo a sapere la storia romana per conoscere la sua felicità? L’uomo riacquista tutti i suoi diritti… E quali? Avete un governo libero e giusto, fondato sopra i principi dell’eguaglianza; gli impieghi non saranno il patrimonio esclusivo dei nobili e dei ricchi, ma la ricompensa dei talenti e della virtú. Potente motivo, ma il popolo non si picca né di virtù, né di talenti, vuole essere ben governato e non ambisce a cariche! I pregiudizi; la religione; i costumi… Piano caro declamatore! finora sei stato solamente inutile, ora potresti anche essere dannoso!»17. Insomma, al centro del dibattito vi è il popolo: un concetto troppo vago e sfuggente, quanti altri mai. «Il progresso delle idee – aveva affermato Diderot – è limitato; esse non guadagnano i sobborghi; il popolo è troppo bestia». E se la Dichiarazione dei Diritti sembra smentire questa drastica definizione, la Costituzione Francese, con le sue restrizioni e limitazioni, distingue, invece, nettamente i cittadini forniti di censo, e quindi aventi diritti politici, dal popolo, privo di censo, e quindi privo di diritti. Nella Costituzione della Repubblica Napoletana, cittadino è definito ogni uomo, nato e dimorante nel territorio della Repubblica, pagando una contribuzione diretta. Il concetto di popolo, dunque, è limitato al cittadino che paga le tasse. Assurda pretesa, allora, quella dei Giacobini napoletani a voler andare in giro abbracciati con i popolani e a invocare la libertà e morte ai tiranni. 15 Vincenzo Cuoco, op. cit., pagg. 161-162. 16 Idem, pag. 177. 17 Idem, pagg. 179.80.


Tutto inutile, il popolo sente che quella rivoluzione non gli appartiene. E la reazione si scatena ferocissima, con culmini di assoluta bestialità. Asserragliati nel Forte di Sant’Elmo, resistono i principali esponenti del governo repubblicano. Uomini egregi, più occupati a teorizzare leggi che ad apprestare difese alla neonata repubblica, si trovano impotenti a reprimere la sollevazione delle province e impotenti ad opporsi alla inesorabile reazione borbonica, organizzata a Palermo da Maria Carolina e portata a termine il 13 di giugno 1799 ad opera del cardinale Ruffo. Una vendetta rapida e forte. Dove non arrivò la Giunta di Stato, giunse la passione popolare; la caccia al Giacobino diventò il pretesto di una guerra faziosa, che dagli orrori delle impiccagioni, pervenne agli oscuri massacri. La plebe napoletana, scatenata, partecipò all’orgia di stragi, di saccheggi, di sangue, applaudendo all’orrenda reazione. «Una reazione – scrive il Croce – che forse non ha pari

nella storia, perché , non mai come allora in Napoli, si vide il Monarca mandare alla morte e agli ergastoli o scacciare dal Regno: Prelati e Gentiluomini, Generali e Ammiragli, Letterati e Scienziati, Poeti, Filosofi, Giuristi e Nobili, tutto il fiore intellettuale e morale del Paese: una reazione che suscitò vivissima impressione dappertutto in Europa18». Infatti, lo scrittore francese Paul Louis Courier, assiduo frequentatore in Firenze del salotto della contessa d’Albany, scrisse con macabro umorismo: «Il re di Napoli ha fatto impiccare tutta la sua accademia. Quel che ne sopravvive, si trova nei bagni penali della Favignana o disperso per l’Italia e la Francia»19. Ancora più realistico è quanto disse la regina Maria Carolina, autrice principale del “ripurgo” degli intellettuali a Madame de Staël, durante il viaggio che questa fece a Napoli nel 1805: «Il male è fatto ed è irreparabile. Tra noi e il Paese ci siamo fatti tanto male reciproco che la confidenza è perduta talmente che il primo che vorrà fare un passo per riconciliarsi non sarà creduto dall’altro, e crederà al contrario che v’è una perfidia nascosta sotto quelle benevoli sembianze»20. Ma l’aspetto più profondo e più grave della reazione non fu solo l’eliminazione fisica degli uomini di cultura, quanto il ripudio dell’idea stessa di cultura; di quella cultura completa, pragmatica, tesa ad unire la ragione all’esperienza, al fine di far servire ogni campo della conoscenza al pratico progresso degli uomini, che era stata la principale lezione dell’età dei Lumi. 18 Benedetto Croce, Storia del Regno di Napoli, a cura di Giuseppe Galasso, Milano, II edizione 2005, pag. 294. 19 Paul Louis Courier, Lettres de France et d’Italie (postumo, 1828), anno 1800, pag. 156 20 Benedetto Croce, La signora de Staël e la regina M. Carolina, in Uomini e cose della vecchia Italia, vol. II, Bari, 1956, pagg. 182-92.

«La Nazione – osserva il Cuoco – potrà rimpiazzare gli uomini, ma non la cultura»21. Ed è ancora il Cuoco ad individuare l’aspetto più drammatico della Restaurazione: «Una Corte che da oggi in avanti riguarda la Nazione come estranea e crede di ritrovare nella di lei miseria e nella di lei ignoranza la sicurezza sua»22. «Belli spiriti e filosofi» ma soprattutto «Teste calde» li aveva definiti nel 1792 Maria Carolina23 parlando dei nobili e degli intellettuali napoletani, sensibili al fascino della Rivoluzione Francese. Quelle teste calde dei Giacobini, che pagarono con la vita l’illusione di poter trasformare di colpo i rapporti sociali del loro Paese, nonostante l’astrattezza del loro pensiero e la ingenuità della loro azione politica, furono i protagonisti di una profonda e radicale trasformazione e gettarono le basi della concezione unitaria dello Stato Nazionale. Certo il loro esperimento fallì. Ma per dirla con il Croce: «Nella storia è grandissima quella che potrebbe dirsi l’efficacia dell’esperimento non riuscito, specie quando vi si aggiunga la consacrazione di un’eroica caduta»24. E quale tentativo fallito ebbe più feconde conseguenze della Repubblica Napoletana del Novantanove? Essa valse a creare una tradizione rivoluzionaria, mettendo a nudo le condizioni reali del paese, fece sorgere il bisogno di un movimento rivoluzionario, fondato sull’unione delle classi colte di tutte le parti d’Italia, e gettò il primo germe dell’unità italiana; mentre spinse i Borboni ad appoggiarsi sempre più sulla classe che li aveva meglio sostenuti in quell’anno, ossia sulla plebe, trasformando via via l’illuminata monarchia di re Carlo III di Borbone in quella monarchia lazzaronesca, poliziesca e gesuitica, che doveva finire nel 1860. Essa, finalmente, dette ai liberali italiani moderni i primi rudimenti della saggezza politica, insegnando a diffidare delle parole dei governi stranieri. Così, per effetto del sacrificio e delle illusioni dei patrioti, la Repubblica del Novantanove, che per sé stessa non sarebbe stato altro che un aneddoto, assurse alla solenne dignità di avvenimento storico. E ad essa si rivolge lo sguardo, quasi a cercarvi le origini sacre della Nostra Italia Unita. Forsan et haec olim meminisse juvabit Forse, oggi, è stato doveroso ricordare queste sventure.

Luigi Fienga 21 Vincenzo Cuoco, op. cit., pag. 329, in nota 22 Vincenzo Cuoco, op. cit., pag. 320. 23 Maria Carolina, Lettera al cardinale Ruffo del 23 maggio 1799. Carteggio, in Arch. Stor. Nap., V, 567 24 Benedetto Croce, La rivoluzione cit., pag. 12.

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Michele Semënov

l’uomo chiave dell’emigrazione russa nel Meridione * di Michail Talalay

Alla fine della Rivoluzione d’Ottobre si riversò in Occidente un’enorme massa di persone desiderosa di fuggire agli orrori della Guerra Civile e alle possibili repressioni da parte del bolscevismo vincente. Non se ne conosce il numero preciso, dato che una statistica generale non fu condotta per comprensibili motivi, ma dopo lunghe ricerche la storiografia riporta la cifra accreditata di circa due milioni di persone. Tradizionalmente questa emigrazione, seguita alla rivoluzione prende il nome di ‘bianca’, dal nome dell’esercito contrapposto all’Armata Rossa. Tuttavia il colore bianco, come sappiamo dall’ottica, ne racchiude molti altri e i russi ‘bianchi’ erano in realtà persone dalle più disparate convinzioni e visioni del mondo (proprio la grande ampiezza del loro spettro fu il motivo decisivo della vittoria dei ‘rossi’, che avevano invece un pensiero monocromatico e unidirezionale come un laser). Tra gli esuli, oltre ai ‘bianchi’ veri e propri, ossia i zaristi ed i ‘controrivoluzionari’ convinti, si potevano trovare anche i ‘rosa’, cioè menscevichi, socialisti, repubblicani, liberali1, i ‘verdi’, come amavano denominarsi i membri del movimento anarchico, e molti altri colori più sbiaditi. Orientarsi e trovare una propria identità in questo arcobaleno era difficile per gli emigranti stessi2 e ancora più difficile per gli stati che li accoglievano, tra cui * Dalla Prefazione di Un Pescatore russo a Positano di Michail Semënov, Centro di Cultura e Storia Amalfitana, 2011 1) Sugli emigranti rivoluzionari che non avevano accettato la variante bolscevica della rivoluzione cfr. A. Venturi, Rivoluzionari russi in Italia 1917-1921, Mi, Feltrinelli 1979. 2) Gli emigranti erano uniti sulla base del comune nemico che li aveva privati della loro Patria, ossia il bolscevismo; un esempio significativo è lo Statuto della Colonia Russa in Toscana, fondata nel 1921, secondo il quale poteva diventare membro della Co-

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la Germania, la Francia, l’Italia ed altri. A complicare ulteriormente le cose venne il riconoscimento dell’URSS da parte del Regno d’Italia nel 1924, dando quasi origine a due Paesi: una Russia ‘nuova’, nell’ambito delle frontiere statali dell’Unione Sovietica, e una Russia ‘vecchia’, che continuava la sua esistenza culturale sotto forma di diaspora e che credeva con fervore in una rivincita. Lo smarrimento delle autorità italiane davanti alla fiumana di emigranti era in tal modo assolutamente naturale e allo stesso modo si rifletteva nella nebulosità delle formulazioni burocratiche che venivano assegnate ai profughi provenienti dall’Est. I funzionari dello Stato italiano avevano difficoltà nell’incasellamento degli esuli russi giunti in Italia. Non era chiaro chi fossero i russi ‘bianchi’, chi gli apolidi, perché alcuni russi avessero i passaporti sovietici mentre altri avevano cosiddetti passaporti di Nansen3 ed altri ancora rifiutavano recisamente qualunque documento, nell’attesa del ritorno vittorioso in patria. La confusione di quegli anni, provocata dallo sradicamento drammatico degli esuli venne descritta magistralmente dallo scrittore Rinaldo Küfferle (San Pietroburgo 1905 - Milano 1955), anch’egli esule, nel romanzo dal titolo indicativo di Ex Russi (1935). Vista una tale situazione confusa, la polizia mussoliniana elaborò una pralonia “qualunque persona originaria dell’ex Impero Russo, ad eccezione di coloro che avevano riconosciuto il potere sovietico” (Verbali della Colonia Russa in Toscana, a. 1921, Archivio parrocchiale della Chiesa Russa di Firenze). 3) Le carte di identità di apolidi per i rifugiati russi erano state introdotte agli inizi degli anni ‘20 su proposta del grande esploratore polare e filantropo Fridtjof Nansen ed erano chiamate dagli esuli stessi ‘passaporti di Nansen’. Questi documenti alleggerivano notevolmente le procedure burocratiche degli emigranti.

tica di cauti rapporti con gli emigrati russi, mettendoli nel novero di coloro che alimentavano la propaganda comunista e persino lo spionaggio. Agli oriundi russi la polizia dedicò perfino un fascicolo apposito, dove vennero inclusi nella loro totalità. Nella Questura di Napoli, ad esempio, sono depositati gli elenchi, creati tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta4, dove tutti gli elencati vengono denominati ‘sovietici’, includendo sia alcuni ingegneri a tutti gli effetti sovietici, giunti in Campania per missioni temporanee di lavoro, sia chiari esempi di antisovietici, come la principessa Ekaterina Rostkovskaja-Dabiža, vedova di un diplomatico dello Zar e madre di un ufficiale dell’esercito ‘bianco’, ucciso dai ‘rossi’5. Nel 1933 il Ministero dell’Interno emise un’apposita circolare, spedita a tutte le questure cittadine, dove alla voce oggetto era indicato: “vigilanza sui sovietici e su stranieri sospetti”. Nella circolare l’attenzione veniva rivolta alla “particolare pericolosità” dei russi e veniva assunto l’impegno al “controllo sui sovietici, sugli apolidi e sui cosiddetti russi bianchi”6. Alla polizia veniva fatto obbligo di controllare anche la lealtà al fascismo degli esuli sottoposti a controllo. Ecco ad esempio che cosa scrisse un informatore del giornalista Vladimir Vul’f, residente a Torre del Greco: «è russo, ma di provati sentimenti fascisti7». In Campania non fu capito in particolare il caso di Maksim Gor’kij: un evidente ‘rosso’, militante contro il regime zarista, finanziatore della scuola 4) Questura di Napoli. Archivio di Gabinetto; quarta serie, B. 49. Fasc. 965, Archivio di Stato di Napoli. 5) Sulla principessa E. Rostkovskaja-Dabiža vedi E. Bordato, Sotto un cielo straniero. Rovereto, Osiris 2002. 6) Questura di Napoli. Archivio di Gabinetto; quarta serie ... cit. 7) Ibidem.


di propaganda bolscevica a Capri, che per un qualche strano motivo aveva lasciato la nuova Russia... La formula ufficiale “per motivi di salute” non convinceva nessuno. Inoltre da Gor’kij a Sorrento giungevano in continuazione degli emissari dall’URSS: lo stesso scrittore curava la propria immagine politica ed evitava i contatti con l’emigrazione apertamente ‘bianca’. Questo strano ‘covo sovietico’, senza dubbio, dava fastidio al regime fascista. La sorveglianza di Gor’kij, il quale, tra l’altro, si recò diverse volte da Sorrento sulla Costiera Amalfitana, così come alcuni suoi ospiti provenienti dall’Unione Sovietica, veniva effettuata con particolare attenzione. Il lavoro della polizia nell’Italia meridionale veniva facilitato dal fatto che di russi ve n’erano pochi. Ad esempio, in un rapporto sui soggetti a controllo a Sorrento nel 1932, gli agenti scrivevano che Gor’kij era ritornato in Russia, che sotto il loro controllo si trovavano “quattro apolidi”, ossia più precisamente la principessa Elena Gorčakova e il suo entourage, che nel periodo coperto dal rapporto era giunto un solo cittadino sovietico, Nikolaj Benois (egli si stabilì poi in Italia, divenendo il famoso scenografo del Teatro alla Scala). Di fatto, i centri maggiori dell’emigrazione ‘bianca’ e di altro colore si consolidarono in primo luogo laddove esistevano strutture russe, ad esempio biblioteche, parrocchie, consolati, già da prima della Rivoluzione Russa. In primo luogo si tratta ovviamente di Roma, Firenze e Milano. La Campania e la Costiera Amalfitana non offrivano strutture di questo tipo. L’ambasciata russa e la chiesa russa a Napoli erano state chiuse al tempo dell’unificazione d’Italia e della sparizione del Regno di Napoli; la biblioteca russa di Capri, fondata da Gor’kij, fu chiusa per ordine del regime fascista: per questo il Meridione non divenne mai un luogo di emigrazione massiccia dei russi8. 8) Non bisogna inoltre dimenticare la difficile situazione economica dell’arretrato Meridione agrario.

Tuttavia la Costiera negli anni Venti e Trenta si trasformò in un luogo importante per l’emigrazione, soprattutto per gli artisti. Qui, sulle scie della cosmopolita Capri, si era formata un’atmosfera di stupefacente tolleranza, che permetteva la presenza di opinioni, cittadinanze e razze più diverse. Non di poco conto era il fattore economico: gli emigranti in miseria erano attratti dal basso costo della vita semplice e all’antica di questi luoghi. *** Per mancanza di altre strutture, punto di riferimento amalfitano, sul quale poi crebbero i molteplici strati della vita dell’emigrazione russa, divenne una sola e unica persona, ovvero lo scrittore Michail Nikolaevič Semënov, che fu il primo a rivelare Positano a una ampia schiera di artisti internazionali. Ma in qual modo Semënov - Don Michele - era diventato un emigrante? Da che cosa era scappato? Perché si era ritrovato in Costiera? Si può dire che il letterato fosse fuggito due volte dalla Storia. La prima volta, ancor prima della Rivoluzione Russa, in quanto ‘rosso’, essendo membro del movimento di sinistra, fuggì al regime zarista, non volendo peraltro andare in guerra contro la Germania. In seguito, dopo la Rivoluzione divenne, usando la terminologia sovietica, un nevozraščenec, rifiutandosi di tornare tra i bolscevichi, che avevano confiscato i suoi beni e che avevano giustiziato diversi membri della sua famiglia. In questo modo Semënov, ridipingendosi da ‘rosso’ in ‘bianco’, divenne un positanese per tutto il resto della sua lunga vita, mantenendo sempre i contatti con l’emigrazione postrivoluzionaria, sia tenendo una vasta corrispondenza sia compiendo frequenti viaggi a Napoli e nella capitale (osserviamo che la vera emigrazione ‘bianca’ mantenne sempre con lui rapporti cauti, non perdonandogli la gioventù ‘rossa’; per le sue simpatie sinistrorse fu rimproverato scherzosamente per lettera anche dal compositore Igor’ Stravinskij9). 9) Vedi In Fuga dalla storia. Esuli dai totali-

Semënov è rimasto impresso nella mente dei positanesi per il suo comportamento stravagante: ammirando le forze della natura, egli usciva nel mare in tempesta, passeggiava nudo per i propri possedimenti, affermando che era necessario un contatto totale con la natura. Amava passare le serate all’osteria, insegnando agli avventori i giochi d’azzardo. Aveva anche degli interessi sociali, tanto da organizzare una cooperativa di pescatori, la prima della zona. Il letterato lasciò in eredità i suoi pochi beni a questa cooperativa, in cambio della partecipazione a messe da requiem da tenersi in suo suffragio, ma la cooperativa già dopo un paio di anni era rimasta al verde. In un altro punto del testamento Semënov chiedeva di essere sepolto in mare, dato che «aveva mangiato tanto di quel pesce che per giustizia i pesci dovevano mangiarselo», ma questa sua volontà non fu eseguita e fu sepolto nel cimitero comunale di Positano (sulla tomba venne collocato un busto del letterato). Tuttavia dai risultati delle ricerche di V. Keidan negli archivi di Roma, le sembianze del tipo strampalato e del bohémien amante del vino e delle donne appartenevano ad un uomo dal doppio fondo. Semënov, forse per la paura di essere espulso dall’Italia per la gioventù di sinistra ed altri peccati, divenne informatore segreto dell’OVRA, la polizia segreta del regime fascista, inviando delazioni su molti conoscenti e perfino su propri benefattori. Egli inviò delazioni anche su alcuni suoi compatrioti emigrati, al punto di mettere la loro vita in pericolo, rivelando, ad esempio, le origini ebraiche del collega letterato Lev Nussinbaum, ossia Essad Bey. Anche questa è la tragedia di un secolo di repressioni capace di tirar fuori il peggio dagli animi umani. La caduta del regime fascista che ‘Don Michele’ serviva in segreto non comportò nella sua vita cambiamenti particolari; infatti la sua attività come tarismi del Novecento sulla Costa d’Amalfi, a cura di D. Richter, M. Romito, M. Talalay, Amalfi, Centro di Cultura e Storia Amalfitana, 2005.

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agente dell’OVRA non venne mai alla luce e potè così continuare il suo soggiorno positanese. Durante gli ultimi anni egli scrisse le sue memorie dal titolo pittoresco di Bacco e Sirene, riferendosi alle sue due grandi passioni e assistette all’uscita del primo volume. Il manoscritto del secondo volume, sulla vita dell’emigrazione in Italia, è andato perduto e per questo motivo è avvolto da leggende. Semënov abitava in un mulino, acquistato da lui nel 1916, destinato a diventare per molti emigranti una confortevole dacia. Epocale fu l’arrivo da Semënov, come ospite, del coreografo Leonid Mjasin (francesizzato poi in Léonide Massine). Dopo questa visita la situazione culturale sulla Costiera Amalfitana cambiò sensibilmente. L’arrivo degli amici di Mjasin, personaggi del calibro di Igor’ Stravinskij, Sergej Djagilev, Vazlav Nižinskij e dei membri del corpo dei Balletti Russi, come anche di artisti, musicisti e scrittori famosi, coinvolti nella colossale impresa di Djagilev: Pablo Picasso, Leon Bakst, Michail Larionov, Jean Cocteau, Erik Satie, Filippo Tommaso Marinetti ed altri con la loro cerchia cosmopolita, contribuì alla formazione di un nuovo clima creativa in Costiera. La fama di Leonid Mjasin si era formata al di fuori della Russia, che egli aveva lasciato ancor giovane. Decisivi per la sua brillante carriera furono l’attenzione e l’affetto di Sergej Djagilev, capace di modellare abilmente i nuovi talenti. Per i raffinati artisti che in Occidente mettevano in scena le stagioni dei Balletti Russi, la situazione non era certo favorevole in Unione Sovietica, con il suo corso verso la cultura proletaria e la conseguente negazione della cultura ‘borghese’. La maggior parte di loro restò in Occidente, sebbene molti, come ad esempio Igor’ Stravinskij, più di una volta sottolinearono la propria apoliticità e negarono l’appartenenza ai russi ‘bianchi’. Uno di questi artisti cosmopoliti e occidentalizzati fu proprio Leonid Mjasin, che frequentava i circoli più brillanti sia d’Europa che d’America. Al pari di Semënov egli non divenne un profugo ma un cosid50

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detto nevozraščenec, non desiderando tornare in patria, divenuta sovietica. Nel fatidico 1917, l’anno stesso della Rivoluzione d’Ottobre, Mjasin giunse a Positano ospite di ‘Don Michele’ e per la prima volta vide l’arcipelago de Li Galli. Ecco che cosa scrive a questo riguardo il coregrafo stesso: «La sera del primo giorno stesso io, guardando per caso dalla finestra, vidi un’isola rocciosa e disabitata ad alcune miglia dalla riva. Il mattino seguente ne chiesi a Michail Nikolaevič [Semënov] ed egli mi raccontò a questo riguardo che si trattava dell’isola più grande delle tre isole de Li Galli, mentre le due più piccole non erano visibili. [...] Io sentii che qui avrei potuto trovare quella solitudine di cui avevo bisogno, staccandomi dalla pressione estenuante della carriera da me prescelta. Decisi che un giorno avrei acquistato quest’isola e ne avrei fatto la mia dimora10». Questo proposito si realizzò nel 1924, quando Mjasin acquistò il piccolo arcipelago. ‘Don Michele’ ne divenne come il maggiordomo, organizzando i soggiorni sulle isole di amici e colleghi del coreografo. Fu questo avvenimento a rivelare la Costiera a molti artisti famosi europei ed americani (Mjasin lavorava spesso in America e col tempo per motivi di ordine pratico acquisì la cittadinanza americana). In modo sorprendente questo carattere coreografico delle isole ebbe una continuazione anche sotto il loro nuovo proprietario, il leggendario ballerino Rudolf Nureev. L’acquisto da parte di Nureev delle isole de Li Galli veniva come a racchiudere in un unico spazio geografico le diverse ondate storiche dell’emigrazione russa. Di queste ondate migratorie se ne contano tre: dopo la prima, che fece seguito alla Rivoluzione d’Ottobre e di carattere soprattutto ‘bianco’, dall’URSS si riversò la seconda ondata, costituita dai cosiddetti DP (displaced persons), ovvero quelle persone che si ritrovarono nei territori occupati dai nazisti e che per vari motivi non desideravano ritornare ad essere cittadini sovietici. Stalin, 10) Idem.

nella parte segreta del trattato di Yalta (1945), aveva ottenuto dagli alleati la restituzione dei ‘traditori’ e questi ultimi tentarono in vari modi di scampare al rimpatrio forzato. In Italia non si stabilì quasi nessun rappresentante della seconda ondata, sebbene anche qui fossero stati allestiti dei campi per i DP, tra l’altro anche in Campania (a Bagnoli e a Pagani). La maggior parte cercò di raggiungere al più presto l’altra riva dell’Atlantico, il più lontano possibile dalla mano punitrice di Stalin. Nureev apparteneva alla terza ondata e in sostanza ne fu uno degli iniziatori. Questa ondata, l’ultima ondata storica, comprendeva i dissidenti, quei rappresntanti dello strato culturale della società sovietica che non erano d’accordo con i principi (o con la pratica) di questa società. Tra di loro troviamo lo scrittore Aleksandr Solženicyn, il musicista Mstislav Rostropovič, il regista Andrej Tarkovskij11 e migliaia di altri, meno conosciuti. Il leggendario “salto verso la libertà” di Nureev a Parigi nel 1961 (per cui il maestro fu condannato in URSS per “tradimento della patria” come criminale e riabilitato post mortem) divenne un esempio per molti altri dissidenti (ovviamente i profughi dell’Unione Sovietica in Occidente erano aiutati anche dall’atmosfera generale della Guerra Fredda). Nureev, “l’ultima leggenda del balletto”, dopo aver raggiunto fama planetaria, sognava un luogo appartato. Venuto a sapere del laboratorio coregrafico di Mjasin nel Golfo di Salerno, egli acquistò Li Galli nel 198812, continuando il tal modo la tradizione artistica degli esuli russi in Costiera lanciata dallo stravagante ‘Don Michele’. Michail Talalay

11) Andrej Tarkovskij fu anche in Costiera, vedi In Fuga dalla storia, op.cit. 12) Ricordo personalmente come la stampa sovietica con tono critico verso la bourgiousità del ‘traditore della Patria’ scrisse che Nureev aveva acquistato un “arcipelago nel Mediterraneo”.


Poesia di donne segue da pagina 21

che scambierà stupidamente per mania di femminetta spaventata dall’altezza del Destino. Vittoria, presa dal fascino di questo Castello, ove aleggiano le anime dei secoli, trascorrerà qui le lunghe attese dell’assente marito, e qui sentirà sbocciare nel cuore i primi pensieri della Poesia dolorante. È anzi fama che la Poetessa venuta ad Ischia appena giovinetta, solamente nel Castello abbia trovato alimento alle sue conoscenze letterarie ed umanistiche. Io la vedo, nella biblioteca di Costanza, in comuniome con lo lspirito di Petrarca, nell’ansia delle maliose rivelazioni della più vecchia Poesia d’Italia. E, quando nel 1525 Ferdinando muore, Vittoria troverà conforto alla vedovanza tessendo epicedi dello scomparso: lo amerà da morto e crederà di averlo idolatrato da vivo, mentre non avrà forse amato che la sua propria giovinezza offuscata dall’esilio lungo. Al pari di Costanza sovrapporrà, anch’essa, l’amor sacro all’amor profano, dando alle Rime un’impronta di indelebile religiosità. L’anelito mistico sarà ad un tempo esistenza e poesia. L’amore scala a Dio. E sogna e progetta il passaggio in Terra Santa. Poi, dopo dieci anni, stanca di questo Castello onusto di ricordi mondani e guerrieri, trascinerà il resto della vita di convento in convento, attendendo la fine all’ombra dei tormentati pensieri di Michelangelo Buonarroti. Muore Vittoria e tace la Poesia nel Castello. Ritorna-

no feste ed amori. Il fratello di Ferdinando, il Marchese Alfonso, è il più bell’uomo del suo tempo. Al fascino della persona aggiunge la gloria di vincitore di Kair Eddin nell’impresa di Tunisi. Siamo nel 1535, ed a lato di Alfonso fiorisce, la sua donna superba, Maria, ultimo ranpollo della dispersa Casa d’Aragona. La tradizione non attribuisce a Maria peccati di Poesia, ma tanti altri dolci peccati in vita ed in morte del bellissimo Alfonso. Queste sale, ora appena conservate dalle murazioni possenti, raccolsero tutti i fastigi di Napoli non ancora ridotta in povertà dallo spietato governo vicereale. Maria fu la regina incontrastata di un’epoca in cui la regalità era appena confidata alle dame spagnuole trascinate in coniugio od in concubinaggio dai luogotenenti di Carlo V e di Filippo II. E venne la decadenza dalla quale non più risorgemmo. Forse perciò, per mantenerci nella realtà della nostra Storia deteriore, l’Italia di tutti i regimi dimentica da secoli di riattare questo monumento che è tra i più insigni della Patria. Forse è meglio. Preferisco i ruderi che fanno da monito e da memento, in faccia al Golfo e sotto la volta azzurrina del cielo. E sento la voce delle Donne rievocate echeggiare al ritmo del mare che frange la scogliera aragonese quasi a stabilire l’eternità della Poesia gridata ai venti. Sento stormire tra le fronde del sacro carrubo la strofe di Velardiniello che indugia sulle parole che ritornano sempre: Saie quanno fuste, Napole, corona? Quanno rignava Casa d’Aragona. Amedeo Mammalella

Il Maggio dei libri 2012

Il Centro per il libro e la lettura lancia per il 2012 Il Maggio dei libri, una campagna nazionale di promozione della lettura che partirà il 23 aprile, Giornata mondiale del libro e del diritto d’autore. La campagna vuole favorire e stimolare l’abitudine alla lettura attraverso il coinvolgimento di soggetti pubblici e privati, considerata elemento chiave della crescita personale, culturale e sociale.
 Tutte le iniziative in programma avranno l’obiettivo di sottolineare il valore sociale del libro, di portarlo tra la gente per distribuirlo, per farlo conoscere, per esaltarne tutte le potenzialità, perché venga identificato nell’immaginario collettivo come un autentico compagno di vita. Pertanto, il Settore Musei e Biblioteche della Regione Campania invita tutte le biblioteche di Ente e di Interesse locale e le Associazioni culturali che fossero interessate, a partecipare con contributi progettuali alla nuova campagna che coinvolgerà l’intero territorio nazionale, dalle grandi città ai piccoli centri. 
Sono possibili iniziative da svolgersi anche in contesti diversi da quelli tradizionali, per intercettare persone che non leggono ma che possono essere incuriosite, se stimolate nel modo giusto. Questa scelta di anticipare la campagna annuale, coordinandola con altri importanti eventi di promozione della lettura programmati nello stesso periodo, ha lo scopo di raggiungere una migliore efficacia comunicativa. Il Centro per il libro e la lettura, anche a seguito della consultazione con i partecipanti all’edizione 2010, intende ottimizzare l’esperienza maturata nel corso delle cinque edizioni passate. Il Settore Musei e Biblioteche della Regione Campania si muove da tempo nella direzione analoga, condividendone spirito e obiettivi. Le adesioni dovranno essere comunicate esclusivamente on line; sull’home page del sito del Centro per il libro e la lettura, www.cepell.it - nello spazio dedicato a Il Maggio dei libri si trovano il link al Modulo di adesione alla campagna, da compilare a partire dal 1° marzo fino al 23 aprile 2011, e le istruzioni per la compilazione. La Rassegna d’Ischia n. 2/2012

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Poetici itinerari ischitani

A metà strada tra terra e cielo Santa Maria del Monte di Forio La chiesetta di Santa Maria del Monte di Forio d’Ischia, che a mo’ di bicocca corona lo schienale a ponente dell’Epomeo, sovrastante Forio, è il più accogliente tempietto di montagna delle isole tirreniche. Da questo punto, ci vien da dire: Dio non può essere più lontano. Sullo sfondo del torrione superbo dell’Epomeo che si isola dallo schienale, con picchi, anfratti e boschi cedui, la chiesetta ha una grazia architetturale quasi familiare: il sagrato esterno è come un grembo ospitale materno, adorno di una coltre vivida di calce, che lo dispiega come un grembiule nitido, messo su per far festa: «Ora che sei qui ti accolgo in famiglia ». Le pareti son quasi tracagnotte, e si danno un gran da fare spalla a spalla per sostenere la panciuta cupola inargentata. All’intorno, i cornicioni sono appena accennati, come i serti d’alta montagna dove la flora diventa simbolica. È stata costruita nel cinquecento e rotti, e per accedervi ancora oggi il cammino si svolge attraverso forre, costoni impervi, in valloni che convogliano le acque dalle cime verso il mare, disseminati di grossi sassi che fanno da scala primitiva. Come nei secoli passati, l’accesso umano è subordinato al senso di isolamento nel quale questa chiesa rimane, ragione prima della sua splendida solitudine. Qualche vecchio contadino, che vive nelle rare casette che si arrampicano fino a una certa altezza, ci dice che questa del Monte è la più bella Madonna che ha scelto questo posto per pregare più da vicino il Signore. Qualcuno vi assicura pure che a volte, nelle notti serene, la sua voce si eleva supplice 52

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nel cielo; e allora le stelle incominciano a tremolare, uno spicchio di luna come un barcone infestonato scende a picco sulla chiesa, e lei vi sale su e, seguita da una scia di stelle, va a deporre ai piedi del Figlio le suppliche più ardenti, che hanno più bisogno della pietà di Dio. E se ne ritorna confusa col primo raggio d’oro del sole del mattino. Il popolo ha le sue istanze poetiche; ma anche miracolo ci fu perché essi riuscissero a erigere a questa altezza, in un posto cui si accede per sentiero impervio, un tempietto così caldo di affetto umano. Forse perché, a mezza strada fra terra e cielo, un incontro fra umano e divino è più possibile? I foriani dicono che i loro avi vollero mettere al sicuro qui in alto la loro protettrice più miracolosa, perché continuasse a proteggerli sempre, malgrado le offese che venivano dal mare: i saraceni che mettevano piede sugli arenili di Forio, e incendiavano, e bruciavano tutto, cancellando la vita stessa dei posti. Ma quassù sul Monte, nessuno di essi avrebbe osato soltanto di salire, per cancellare quest’ultima speranza dei foriani: le visceri dell’Epomeo avrebbero scaturito un oceano di fiamme! Ora questi tempi di orrori sono lontani; Forio è invasa soltanto dai rumori, dai jukebox, dalle macchine rombanti, e chi ama la pace, e vuole ritrovare un attimo di contatto con l’infinito della creazione, sale come i pellegrini di un tempo fin quassù: e qui egli si sente, soltanto qui, al sicuro per la prima volta. La vista da quassù è incomparabile, in quanto il panorama della costa sottostante è il più frastaglia-

to e ricco di movimento d’Ischia. Chi volesse davvero sentire quanto senso, poetico e religioso insieme, è nel gruppetto di case intorno alla chiesetta di Santa Maria del Monte, deve salire qui nel mese di settembre, nell’occasione della festa della Madre del Signore. Ci viene gente da ogni parte dell’isola, che s’inerpica faticosamente lungo l’erto pendio, fra buche e sassi irti, fin sotto la scalinata del tempietto. La cerimonia che vi si svolge è semplicemente commovente: la chiesetta risuona di un coro di preghiere e di laudi, e di canti che l’aria di quassù ha purificato, ha reso quasi etereo. Alla fine, una piccola processione si svolge sul ciglio d’un costone quasi a picco, per un sentiero che poco fa gli uomini hanno spianato dei rovi che lo invadono d’inverno, perché sia transitabile; e giunta sul precipizio che sovrasta Casamicciola, il coro riprende su un organo portato a spalla, ed infine è la benedizione su questo maestoso spettacolo di rocce isclane, abbracciate dalle nubi che cantano coi venti, e lambite dal mare che incornicia di merlettature nivee la costa sinuosa che fa eco col suo rimbrotto lontano. La vista, dicevamo, è incomparabile: ai piedi della montagna la terra appare lontana, persa nell’opalino che si adagia sull’arco della costa ischitana, da Casamicciola, a Lacco, Forio, Punta Imperatore. Nella contemplazione di tanta improvvisa bellezza, che non ha più limiti che il cielo d’attorno, il viator che sale qui si rende per la prima volta conto che è venuto ad un appuntamento che la sua anima preparava nel segreto. Il sorriso vicino, dappresso di questa soave Madonna del Monte, ci rincora che Iddio da qui non è più lontano! Ettore Settanni Lettera da Ischia n. 11 autunno1968-inverno 1969


La propaganda che lanciava ISCHIA nel mondo

L’isola dell’eterna giovinezza

Fu in un momento di lieta ispirazione che il geografo Giovanni Marinelli, riferendo settantanni fa su di una sua ascensione al monte Epomeo, il più alto dell’isola d’Ischia (m. 789) scrisse: «L’isola intera si stendeva sotto i nostri piedi, simile non so bene se ad un tappeto orientale o ad un mosaico multicolore immerso in una conca azzurra». Giungendo ad Ischia come a Capri, le due meravigliose sentinelle di uno dei più bei golfi del mondo, quello di Napoli, non si può non essere sorpresi infatti dall’azzurro intenso dell’acqua, un azzurro che non ha confronti e che non si dimentica più. Dolce clima, rigogliosa vegetazione

E poiché abbiamo nominato insieme Capri ed Ischia, diremo che queste due isole bellissime, pur non essendo separate che da poche miglia di mare, sono notevolmente diverse l’una dall’altra. Anzitutto come costituzione geologica: mentre Capri è un masso di calcare con toni di azzurro e viola, Ischia ha struttura vulcanica ancora chiaramente visibile, lungo le coste, in antiche colate dai toni dorati, venate di rocce dai colori più diversi, che affondano in mare con una straordinaria varietà di anfratti e grotte. Qualche diversità si avverte anche nell’architettura, che in ambedue le isole conserva carattere rustico, ma a Capri con predominio delle volte, a Ischia con le case a tetti piani. Altro elemento che differenzia Ischia dalle altre isole del golfo partenopeo, può essere, sul piano umano, l’orientamento dei suoi abitanti verso l’agricoltura mentre altrove prevale l’attività marinara. Il mare è il nume onnipresente, ma l’orto, il vigneto, il bosco sono i protagonisti della vita economica e sociale dell’isola, astrazion fatta, s’intende, dai fattori turistico e balneare, che vanno assumendo importanza sempre maggiore. Il clima dell’isola d’Ischia è di tipo marino mediterraneo, con una media annua di temperatura di 15-16 gradi che d’inverno non scende al di sotto dei 9 * Di Umberto Zimelli (nella rivista mensile Amicizia, anno IV n. 6 giugno 1960)

gradi e d’estate non supera i 25. Esso pertanto consente i bagni di mare a tutte le stagioni. Della virtù di questo clima fa testimonianza la stessa vegetazione, che insieme con le viti, gli ulivi, i pini, vede prosperare gli agrumi, le palme, i fichi d’India, e i giardini sfolgorare di vivacissima fioritura. A tanta ricchezza di vegetazione concorrono anche la particolare struttura e conformazione del terreno, sulle quali troviamo interessanti cenni nelle pagine di un grande scienziato tedesco del secolo scorso, il naturalista Ernesto Enrico Haeckel, che trovava questa vegetazione ancor più ricca e rara di quella di Capri. «In nessun’altra parte d’Italia - egli scriveva - ho potuto immergermi in tutta la rigogliosa abbondanza della vegetazione meridionale e di godere della sua caratteristica magnificenza, come nell’isola d’Ischia. Specialmente nelle gole profonde che s’aprono nelle lave dell’Epomeo pietre vulcaniche ròse dalle intemperie e di per se stesse fertilizzanti, ma rese ancor più fertili e grasse dalle sorgenti calde che scaturiscono dall’interno del monte. Il vapore che da queste sorgenti si sviluppa e si eleva lentamente dalle profonde e strette gole, ne fa delle vere e proprie serre». Le fonti salutari Tributaria di prosperità alle risorse idrotermali dell’isola è dunque la vegetazione, ma non meno tributaria di beneficio è la salute degli uomini: ed è forse a quelle generose sorgenti che Ischia deve l’antica denominazione di «isola dell’eterna giovinezza». Ricorderemo, tra le terme più rinomate, quelle di Ischia, Casamicciola, Lacco Ameno, Forio e Barano. L’isola vanta inoltre una sorprendente successione di spiagge, rivestite di finissima rena dorata, tra le quali particolarmente frequentate quelle di S. Angelo, Citara, S. Francesco, Baia di S. Montano, Lacco Ameno, Cafiero, Ischia, Cartaromana, Maronti. Su alcune di tali spiagge scaturiscono acque termali, sì che vi si possono fare i cosiddetti bagni minero-marini.

A questo punto vien fatto di ricordare quel Francesco Scotto, autore del Seicento, il quale affermava, nel suo «Itinerario d’Italia» che la maggiore risorsa dell’isola era la caccia, e specialmente la caccia delle quaglie, che costituivano la maggiore rendita del vescovo d’Ischia. Sono passati tre secoli e molte cose sono mutate: certo Ischia e il suo vescovo vivono ora di ben altro che di quaglie. Una collana di bellezze L’isola, che è la maggiore della Campania, è facilmente raggiungibile in vaporetto: da Pozzuoli in un’ora: da Napoli (Molo Reverello) in un’ora e mezzo. Il primo scalo è Ischia, principale centro dell’isola, col suo castello onusto di storia, issato su di un erto isolotto trachitico che il lungo ponte aragonese collega alla città. Alla sua sommità si trovano, tra l’altro, i ruderi della trecentesca cattedrale ove nel 1500 vennero celebrate le nozze di Vittoria Colonna con Ferrante d’Avalos, marchese di Pescara. La celebre poetessa, che gli era stata promessa all’età di quattro anni, rimase sempre fedele al marito, nonostante le frequenti e prolungate assenze di quel guerriero sempre in armi; e tale fedeltà serbò anche dopo la morte di lui, benché nutrisse amicizia e ammirazione grandi per Michelangelo Buonarroti. Ma lasciamo alla loro pace le grandi anime del passato e torniamo al nostro viaggio. Se, come abbiamo detto, il primo scalo è Ischia, l’approdo è poco più avanti, a Porto d’Ischia, nel pittoresco bacino ellittico, antico cratere vulcanico nel quale irruppero le acque del mare, specie di tazza di turchese circondata dalle bianche case di Villa Bagni sopra le quali si protendono dalle colline le verdi chiome dei pini. La strada panoramica che collega Ischia a Porto d’Ischia prosegue per Casamicciola, ove sono la villa in cui soggiornò e lavorò Enrico Ibsen e la casa che ospitò Garibaldi dopo Aspromonte. Risalendo assai più lontano nel tempo, potremmo accennare alla tradizione che fa uscire da questa località il vaticinio della Sibilla Cumana relativo alla veLa Rassegna d’Ischia n. 2/2012

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nuta del Redentore. Casamicciola ha pagato duramente il suo tributo alla proverbiale irrequietezza vulcanica dell’isola, e non è ancora spenta la eco del disastroso movimento tellurico che nel 1883 distrusse la città, destando grande impressione nel mondo. Continuando per il bellissimo lun-

gomare, si giunge a Lacco Ameno, col caratteristico scoglio a forma di fungo, detto la «Pietra del Lacco», da cui il paese avrebbe tratto il nome. Lacco Ameno è una stazione di soggiorno e di cura tra le più rinomate, con buona attrezzatura alberghiera, una bella spiaggia e fonti di acque minerali tra le più radioattive

Foto da Ischia nelle sue cartoline, Valentino editore

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che si conoscano. Notevoli anche le sue risorse archeologiche, tra cui gli Scavi di Monte Vico e la basilica paleocristiana dedicata a Santa Restituta, la martire cristiana dell’isola. Proseguendo per la strada, che pur scostandosi dal litorale conserva il suo respiro panoramico, si giunge a Forio, occhieggiante tra il verde del suo promontorio, nella costa occidentale. È il centro vinicolo dell’isola e vi si producono i prelibati vini locali tra cui il rinomatissimo Epomeo. Straordinaria la vista che si gode dal bianco santuario del Soccorso, da dove è dato, ogni tanto, di assistere al misterioso fenomeno del «raggio verde» sprigionato dal sole che tramonta nel mare. Da Forio, per S. Maria del Monte, si può raggiungere la vetta dell’Epomeo attraverso vigneti e cedui di castagno che si arrestano poco sotto la nuda vetta di tufo verdastro. Su queste pendici dell’Epomeo trovasi la cosiddetta «Grotta del troglodita»: si tratta, in realtà, di diverse abitazioni scavate nel tufo anche in epoca recente, composte da più stanze con porte, nicchie, terrazzini, ottenuti sfruttando con notevole maestria la struttura del luogo e le caratteristiche della pietra, con effetti singolari e pittoreschi. Da Forio la carrozzabile prosegue per i maggiori centri della parte meridionale dell’isola, Serrara, Fontana (base preferita dagli escursionisti per la salita sull’Epomeo), Barano, e ritorno a Porto d’Ischia, chiudendo il circuito. È un viaggio molto interessante, con bellissime viste sui golfi di Napoli e di Gaeta e verso le valli, i dossi, gli abitati dell’interno; ma ancor più suggestivo e divertente è il periplo marittimo dell’isola, che si può compiere facilmente a bordo di barche o motoscafi, a disposizione dei turisti. La struttura accidentata e frastagliata delle coste, la svariata colorazione delle rocce, le frequenti insenature, il contrasto tra le nude rocce costiere e la lussureggiante vegetazione dell’interno, la brillante chiarità delle case, le acque ora azzurre, ora verdi, sempre limpidissime, fanno di questo giro una continua sorgente di lieta meraviglia. Usando una felice espressione di Roberto Pane, possiamo dire che l’isola d’Ischia è veramente uno di quei luoghi nei quali più si sente la gioia di vivere. Umberto Zimelli


Edizioni La Rassegna d’Ischia Raffaele Castagna - Calcio Ischia - Storia, risultati, classifiche, protagonisti delle squadre isolane negli anni 1957/1980 - Supplemento al n. 1/aprile 1981 de La Rassegna d’Ischia. Giovanni Castagna - Guida grammaticale del dialetto foriano letterario – 1982. Giovanni e Raffaele Castagna - Ischia in bianco e nero - 1983. Giuseppe d’Ascia - Caterina d’Ambra (dramma storico del 1862) - Introduzione e note a cura di Giovanni Castagna - 1986. Giovanni Maltese - Poesie in dialetto foriano: Cerrenne I, II, III; Ncrocchie; Sonetti; Poesie inedite - Ristampa con introduzione, note, commento e versione in italiano a cura di Giovanni Castagna - 1988. Raffaele Castagna - Lacco Ameno e l’isola d’Ischia: gli anni ‘50 e ‘60, Angelo Rizzoli e lo sviluppo turistico (cronache e immagini) - 1990. Vincenzo Cuomo - La storia attraverso i suoi personaggi - Supplemento al n. 1-Febbraio 1991 de La Rassegna d’Ischia (edizione fuori commercio). Francesco De Siano - Brevi e succinte notizie di storia naturale e civile dell’isola d’Ischia (1801) - Ristampa Supplemento de La Rassegna d’Ischia / giugno 1994. Pietro Monti - Tradizioni omeriche nella navigazione mediterranea dei Pithecusani - Supplemento de La Rassegna d’Ischia n. 1/Gennaio 1996. Pietro Monti – Pithekoussai, segnalazione di siti archeologici - Parte I - La Rassegna d’Ischia n. 1/1997. Venanzio Marone - Memoria contenente un breve ragguaglio dell’isola d’Ischia e delle acque minerali (1847) - Ristampa con introduzione di Giovanni Castagna - Supplemento de La Rassegna d’Ischia/giugno 1996. Pasquale Balestriere - Effemeridi pithecusane (Poesie) - Giugno 1994 (edizione fuori commercio). Vincenzo Pascale - Descrizione storico-topografico-fisica delle Isole del regno di Napoli (1796) - Ristampa allegata a La Rassegna d’Ischia, aprile 1999. Vincenzo Mennella - Lacco Ameno, gli anni ‘40 - ‘80 nel contesto politico-amministrativo dell’isola d’Ischia, gennaio 1999 (edizione fuori commercio). Raffaele Castagna - Ischia e il suo poeta Camillo Eucherio de Quintiis, allegato a La Rassegna d’Ischia (edizione ridotta), settembre 1998. Chevalley De Rivaz J. E, - Déscription des eaux minéro-thermales et des étuves de l’île d’Ischia (1837) - Ristampa in versione italiana curata da Nicola Luongo, 1999. Philippe Champault - Phéniciens et Grecs en Italie d’après l’Odyssée (1906) - Ristampa in versione italiana curata da Raffaele Castagna con il titolo L’Odissea, Scheria, Ischia, 1999. AA.VV. - Il Castello d’Ischia: la rocca fulgente - scritti vari ed in particolare: Stanislao Erasmo Mariotti - Il Castello d’Ischia (1915). Raffaele Castagna (a cura di) - Ischia: un’isola nel Mar Tirreno... - Raccolta di articoli vari già pubblicati su La Rassegna d’Ischia (storia - archeologia - folclore....), settembre 2000. Antonio Moraldi - Ferdinando IV a Ischia (1783-1784) - Ristampa (allegato de La Rassegna d’Ischia n. 5 / Settembre 2001). Paolo Buchner - La Villa Reale presso il porto d’Ischia e il protomedico Francesco Buonocore (1689-1768) Ristampa (allegato de La Rassegna d’Ischia n. 5 /Settembre 2001). Assoc. Pro Casamicciola - Sotto il sole di Casamicciola - Raccolta di scritti vari sulla cittadina isolana, a cura dell’Associazione Pro Casamicciola Terme - (Edizione fuori commercio, distribuita ai partecipanti al Premio Ciro Coppola 2001). Camillo Eucherio de Quintiis - Inarime (poema in latino di oltre 8000 versi), pubblicato nel 1727. Versione integrale italiana curata da Raffaele Castagna, gennaio 2003. Rodrigo Iacono, Raffaele Castagna – La Flora dell’isola d’Ischia, la letteratura floristica (stampato in proprio ed edizione fuori commercio. Raffaele Castagna – Isola d’Ischia, tremila voci titoli immagini, gennaio 2006. Giovanni Castagna – La Parrocchia della SS. Annunziata alla Fundera di Lacco Ameno, supplemento allegato a La Rassegna d’Ischia n. 3 del 2007. Raffaele Castagna – Lacco Ameno e l’isola d’Ischia, gli anni ’50 e ’60, Angelo Rizzoli e lo sviluppo turistico (cronache e immagini). Ristampa dell’edizione 1990, dicembre 2010.



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