Quanta, quanta guerra… / Prologo

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SilvinaRodoreda Ocampo Mercè

€ 16,50

ISBN 978-88-8373-310-9

ISBN 978-88-8373-310-9

9 788883 733109

laNuovafrontiera

Mercè Rodoreda (1908-1983), è la scrittrice più letta e tradotta della letteratura catalana. Politicamente impegnata nell’attività antifascista, dopo la vittoria di Franco sceglie la via dell’esilio. Tornerà in patria solo nel 1972. I suoi grandi romanzi, La piazza del Diamante, Aloma, Via delle Camelie, Specchio infranto e Giardino sul mare sono tutti pubblicati da la Nuova frontiera.

quanta, quanta guerra... UN’INNOCENTE CRUDELTÀ

Una guerra senza nome fa da sfondo al peregrinare di un ragazzo di quindici anni, Adrià Guinart, che scappa di casa spinto dal desiderio di vedere il mondo e dalla sete di libertà. La guerra e le azioni militari sono solo accennate, ma sempre presenti nei volti e nelle storie degli uomini e delle donne che il ragazzo incontra lungo la strada, e nel paesaggio onirico e fiabesco che lo circonda. Adrià parte bambino e affronta il buio dei boschi, la fame, le sue paure più nascoste; entra in contatto con un’umanità dolente ma non rassegnata; si innamora di Eva, ragazza sfuggevole e bellissima, e nel suo girovagare per un territorio popolato di castelli e melagrane, streghe e principesse, raccoglie e custodisce la testimonianza delle vite degli altri. Così diventa uomo, la sua iniziazione si compie, dopo aver perduto e ritrovato il cammino in un mondo allo sbando, talmente assurdo da confondersi con i suoi sogni e i suoi incubi.

Mercè Rodoreda

Quanta, quanta guerra... “Di Rodoreda mi affascina la sensualità con cui fa vedere le cose nei suoi romanzi.” Gabriel García Márquez

“La prosa esatta di Rodoreda – che è tela di ragno – sostiene le cadute, dà geometria e trasforma la quiete.” Chiara Valerio, Il Sole 24 Ore “Nello stile di Rodoreda c’è la trasparenza della scrittura che permette di vedere oltre l’opacità delle cose fino al centro segreto della vita.” Marco Lodoli, la Repubblica “Scrittura nitida e altissima nella sua essenzialità e semplicità.” Goffredo Fofi




© Institut d’Estudis Catalans by arrangement with Casanovas & Lynch Agencia Literaria S.L. Titolo originale: Quanta, quanta guerra... © 2016 laNuovafrontiera via Pietro Giannone, 10 00195 Roma Isbn 978-88-8373-310-9 Progetto grafico di Flavio Dionisi Quest’opera è stata pubblicata grazie al contributo dell’Institut Ramon Llull

www.lanuovafrontiera.it


Mercè Rodoreda

Quanta, quanta guerra... Traduzione dal catalano di Stefania Maria Ciminelli

laNuovafrontiera



Prologo

Quanta, quanta guerra… è nato un pomeriggio nell’atrio del vecchio Publi Cinema dove ero entrata per guardare le foto del film che stavano dando: Manoscritto trovato a Saragozza del regista polacco Has. Ogni fotografia, ogni paesaggio, ogni espressione sul viso degli attori era pura meraviglia. Uno dei film più originali, più poetici, più straordinariamente fuori dal comune che avessi mai visto. Risalendo Passeig de Gràcia mi chiedevo se fossi in grado di scrivere un romanzo che raggiungesse il livello di poesia e di mistero di Manoscritto trovato a Saragozza. Dovevo creare un personaggio e mandarlo in giro per il mondo. Un vagabondo? No. I vagabondi sono abituati a girare il mondo e il mondo non li sorprende più di tanto. Forse un soldato? Avrebbe dovuto essere un ragazzo con ancora il latte sulle labbra che, come i poeti, si lasciasse sorprendere da tutto ciò che vedeva. Coglierlo nella grande confusione della guerra perché potesse fare ciò che voleva e andare dove avesse voglia di andare. Procurargli avventure con gente strana. Perché non un romanzo, diciamo di guerra, con poca guerra? Sono stati scritti così tanti romanzi sulla guerra che uno in più non avrebbe aggiunto nulla alla collezione. E forse non l’avrei saputo scrivere. Ripeto: perché non un romanzo con poca guerra ma con uno sfondo continuo di guerra? Antonin Artaud inizia il suo Eliogabalo così: “Intorno al cadavere di Eliogabalo – il Dio solare, sacerdote del Sole 5


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vestito di porpora, venuto dal Sole nell’Impero Romano –, morto senza tomba, e sgozzato dalla sua polizia nelle latrine del proprio palazzo, vi è un’intensa circolazione di sangue e di escrementi”. Intorno alla gente del mio tempo c’è un’intensa circolazione di sangue e di morti. Per colpa di questa grande circolazione di tragedia, nei miei romanzi, forse a volte involontariamente, la guerra, in qualche misura, c’è sempre. Due o tre anni dopo quel pomeriggio al Publi Cinema, mentre leggevo la pagina degli spettacoli, vidi che al cinema Ars davano Manoscritto trovato a Saragozza. Dovevo rivederlo. Ci andai l’indomani nel primo pomeriggio con il cuore palpitante. La biglietteria era ancora chiusa. All’ingresso c’era un signore, non so se il proprietario o il gestore dell’Ars. Diedi un’occhiata alle locandine e vidi annunciato un film francese, insignificante, che avevo già visto tempo prima a Parigi. Tornai sulla strada a guardare il cartellone sopra la porta. Niente. Non c’era traccia del Manoscritto. Azzardai a chiedere al signore all’ingresso: non fate Manoscritto trovato a Saragozza? «Oggi abbiamo cambiato il programma. E le dirò, non si è persa granché. Il film si intitola Manoscritto trovato a Saragozza, no? Be’, Saragozza non compare mai.» Ho cominciato a scrivere Quanta, quanta guerra… un anno dopo la pubblicazione di Specchio infranto. Si doveva intitolare Il soldato e le rose. Pochi mesi fa, mettendo in ordine delle carte, ho trovato un piccolo schema che non ricordavo. “Il protagonista si chiamerà Manuel. Descrivere minuziosamente il suo viso, tutte le espressioni del suo viso. Ogni gesto. Il modo di camminare, il modo di muovere le braccia, il modo di indicare con un dito le piccole cose che lo colpiscono. Il modo di dormire, il modo di ridere. Lui, assolutamente identico a sua madre, e tutto, in lui, identico a sua madre. Alla fine fargli descrivere il volto di tutte le donne che avrà incontrato 6


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lungo il cammino e che lo avranno attratto. I volti che avrà visto solo un momento, i volti che l’avranno affascinato, i volti che l’avranno fatto innamorare e che saranno il volto di sua madre. La sua. Un incubo. Avrà la mania delle rose. In mezzo a ogni rosa il volto dell’ultima donna. E nell’ultima pagina, in punto di morte – perché lo facevo morire per una scheggia di bomba –, gli darò la pace assoluta per aver potuto vedere tante montagne, tante e tante strade, tante e tante ginestre e tanti rovi”. E, ovviamente, Manuel doveva essere un soldato circondato dalla guerra. Ho scritto Quanta, quanta guerra… tre volte dall’inizio alla fine. Solo così, sono circa quattrocento pagine. Se poi pensiamo che ogni pagina, prima di essere considerata definitiva, è stata scritta almeno tre o quattro volte, ci troviamo davanti a un numero assai ragguardevole di pagine; per questo ci metto tanti anni a finire un romanzo. Poiché ho sempre avuto la testa alquanto annuvolata, le idee non mi vengono subito; in genere si affacciano strada facendo. Ma la strada non è mai dritta, fa una curva dietro l’altra ed è piena di boscaglia; per renderla percorribile e libera da sterpi scrivo in continuazione e butto un’infinità di fogli nel santo cestino. È lontano il tempo in cui pensavo che per scrivere un romanzo bastasse conoscere il catalano e saper battere a macchina. Mi sarebbe piaciuto anche fare un romanzo descrivendo nei minimi particolari qualche macchinario bellico, come ha fatto Kafka con la macchina infernale del suo racconto Nella colonia penale. Ma sarebbe stato così difficile per me che nessuno l’avrebbe visto terminato. Arenata per sempre. Illustrerò qui le fonti di alcuni capitoli. Il sogno che turba la vita del signore della casa vicino al mare viene da lontano. Alla fine dell’inverno del 1971 sono dovuta andare a Vienna per fare compagnia a un malato molto grave. Il giorno del 7


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mio arrivo, a mezzanotte, uscivo dalla Allgemeine Krankenhaus der Stadt Wien - Universitäts Kliniken. Non si vedeva anima viva. Camminavo per Garnisongasse e non so come mi ritrovai all’improvviso davanti alla Votivkirche, di cui ancora non conoscevo il nome. Tornai indietro verso Garnisongasse e, cammina cammina, mi ritrovai a Roosveltplatz. Poi è venuta Lazarettgasse. Sapevo di dovere andare in una direzione e continuavo ad andare in quella opposta. La casa degli amici che mi ospitavano era dall’altra parte di Vienna, vicino al Belvedere. Si era alzato il vento. Mi ritrovai, disorientata, all’interno di un vasto parco tra edifici molto grandi. Palazzi distanti tra loro che una fitta vegetazione e i grandi albereti centenari mi lasciavano appena intravedere. Il vento era sempre più forte. I rami gemevano. A un certo punto ebbi la sensazione che non sarei mai più uscita da lì, che non ci fossero sentieri che portassero da qualche parte. Ero in mezzo a una città morta. Non passava una macchina, non passava un tram, nessuno, non si vedeva neanche un pezzetto di cielo. E quando l’angoscia stava ormai per sopraffarmi mi accorsi che tutto quello che avevo intorno lo conoscevo già. Veniva da un sogno che avevo fatto anni prima. Un sogno che proveniva da chissà quali profondità della mia coscienza. Nel sogno c’era una città poco conosciuta, un parco senza vie di uscita, palazzi mai visti e, dentro di me, la stessa voglia di urlare. Quel sogno l’avevo fatto a Parigi, lo ricordavo, la notte dopo quel pomeriggio in cui ero andata per la prima volta a passeggiare nei giardini del Lussemburgo. Quei palazzi di Vienna, il Rathaus, l’Università, il Parlamento e i Musei, non mi erano estranei. È nota questa sensazione di trovarsi in un posto in cui si è già stati prima. Mi sedetti su un gradino del Museo di Storia Naturale, morta di freddo e di stanchezza, finché si fece giorno. Il sogno del signore della casa vicino al mare affonda le radici in quella mia notte a Vienna. 8


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Forse ho scritto il capitolo dell’eremita perché mi ha sempre interessato la psicologia dei santi, anche se non mi sono mai dedicata ad approfondire il tema. Il santo, nella sua rinuncia, nel voler rivolgere la sua passione, tutta la forza della sua anima, a Dio, cerca disperatamente, senza saperlo, la sua unità, il suo equilibrio totale, le sue costellazioni interiori. Il regno di Dio che porta dentro da sempre. La difesa di Caino fatta dal pescatore nel capitolo Dopo viene dalla poesia di Baudelaire Abele e Caino. E da altre letture che adesso non ricordo. E dalla mia curiosità per il personaggio. Mio nonno, Pere Gurguí i Fontanills, mi raccontava le vite dei santi tratte dalla Legenda aurea. Mi raccontava anche delle storie: quella del pastore con le ali. “In un paese alla fine del mondo, in una valle sconosciuta, c’era un pastore che pascolava il suo gregge. La notte, mentre dormiva, a lui e a tutte le sue pecore spuntavano le ali. Piccole ali. E lui e le pecore si mettevano a volare sulla valle, fino all’alba”. Mio nonno andava a messa tutte le domeniche. A un certo punto cominciò a portarmi con lui. A volte andavamo nella chiesa della Mare de Déu de la Bonanova, altre volte in quella conosciuta come i Josepets. Alla Bonanova andavamo a piedi lungo Carrer de Sant Gervasi. Per i Josepets, passavamo per Carrer de Pàdua o per Carrer de Septimània. Al ritorno comprava i dolci nella pasticceria che si trovava nella stessa piazza della chiesa. Io a messa mi annoiavo immensamente. Alzati. Inginocchiati. Fai il segno della croce. Abbassa gli occhi. Un giorno mi azzardai a tirare mio nonno per la manica, lui si chinò verso di me e io gli dissi a bassa voce: mi annoio. “Mi annoio” diventò una specie di cantilena. Finché un giorno, arrivati a casa, mi fece sedere sulle sue ginocchia e spuntò l’angelo della messa. Era molto alto, arrivava con la testa al soffitto, le punte delle ali toccavano le pareti. Non si vedeva molto bene perché era 9


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appena un’ombra con un po’ di luce intorno. Del viso si vedevano solo gli occhi: dorati. “È un mistero come dipinge il pavimento della chiesa di color blu e cremisi. Come se i rombi con cui la riveste si facessero da soli per grazia divina”. Dopo che mi ebbe fatto credere all’angelo della messa, quando ci andavamo non mi annoiavo più tanto. Da piccola vivevo meravigliata. Per tanti anni, ogni volta che da Ginevra scendevo a Barcellona, andavo immancabilmente a salutare i miei amici Carles Riba e Clementina Arderiu. Durante una di queste visite Riba mi chiese se sarebbe stato molto difficile per me procurargli le opere complete di Teilhard de Chardin. Il successivo viaggio a Barcellona fu per portare a Riba ciò che mi aveva chiesto. E anch’io, non appena tornata a Ginevra, mi regalai Teilhard de Chardin. Alla fine di questo libro c’è l’influenza della Messa sul mondo di Teilhard de Chardin. Di un passo: “Lì in fondo, il Sole, appena incomincia ad illuminare l’estremo lembo del primo Oriente. Ancora una volta, sotto l’onda delle sue fiamme, la superficie vivente della Terra si desta, vibra e riprende il suo formidabile travaglio. Sulla mia patena, porrò, o Signore, la messe attesa da questa nuova fatica e, nel mio calice, verserò il succo di tutti i frutti che oggi saranno spremuti. Il mio calice e la mia patena sono le profondità di un’anima ampiamente aperta alle forze che, tra un istante, da tutte le parti della Terra, si eleveranno e convergeranno nello Spirito. […] Moltitudine agitata, imprecisa o distinta, la cui immensità ci spaventa, - Oceano umano le cui lente e monotone oscillazioni incutono il dubbio persino nei cuori più credenti, […]”. Io, alla fine di Quanta, quanta guerra… comincio una frase così: “Dall’alto di questa montagna con cresta di nuvole e fondamenta di nebbia…” ecc. 10


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Adrià Guinart, il protagonista di Quanta, quanta guerra…, è l’antieroe. Mi è venuto così. Forse perché non credo molto agli eroi; ovvero, anche se ci sarà sempre, da qualche parte, un atto di eroismo, penso che l’eroe o è un uomo in preda al panico che reagisce per salvarsi da un pericolo o è un pover’uomo che ha bisogno di realizzarsi, di compensare la propria mediocrità. Gli eroi antichi erano stati bambini non voluti e abbandonati per evitare che si avverassero i disastri annunciati per loro dagli dèi. Uomini dal destino tragico inseguiti e divorati dai rimorsi; le furie, con la chioma di serpenti, con una torcia in una mano e un pugnale nell’altra. Sartre ha trasformato i rimorsi in mosche. Oggi l’uomo non è eroico. Gli basta sentirsi potente “perché ignora di dipendere nella sua coscienza dalla cooperazione dell’inconscio, il quale gli può improvvisamente strappar via la frase che stava per pronunciare” (C. G. Jung). Il mio Adrià è spinto ad andarsene di casa dal desiderio di libertà. Di questa libertà così celebrata – la sola parola mi emoziona – che conduce soltanto a un cambio di prigione. Forse il desiderio di libertà nell’uomo è piuttosto un bisogno di giustizia. Dovrei parlare del sole, ma devo finire in fretta questo prologo e non so scrivere in fretta. Dovrei parlare dell’importanza del sole reale e del sole del mio romanzo. Dovrei sfogliare vecchi libri che mi spieghino qualcosa sui popoli che adoravano il sole. Il Sole Dio, poiché tutto l’Universo è Dio. Gli ostensori risalgono al XV secolo. A partire dal XVI secolo prendono il nome di “Soli”. Sono un cerchio d’oro o d’argento circondato da raggi con in mezzo il Santo Sacramento. Senza il sole non esisteremmo. Il sole non serve soltanto a dorare spiagge e balconi. Bene, ho scritto questo prologo per orientare un po’ il let11


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tore. Ho scoperto alcune carte. Non tutte. In Manoscritto trovato a Saragozza, Saragozza non c’è. In Quanta, quanta guerra…, battaglie, vere battaglie, non ce ne sono. Infine, esulando dall’argomento specifico, vorrei rendere omaggio a tre grandi figure che mi hanno aiutato nel mio lavoro. Sono Jacint Verdaguer, Joaquim Ruyra e Josep Carner. Uomini di grande valore, di gran classe, che hanno scavato la pietra nella miniera della lingua e hanno scoperto filoni d’oro. Per questa eredità voglio dichiarare loro tutto il mio rispetto e la mia gratitudine.

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€ 16,50

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9 788883 733109

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Mercè Rodoreda (1908-1983), è la scrittrice più letta e tradotta della letteratura catalana. Politicamente impegnata nell’attività antifascista, dopo la vittoria di Franco sceglie la via dell’esilio. Tornerà in patria solo nel 1972. I suoi grandi romanzi, La piazza del Diamante, Aloma, Via delle Camelie, Specchio infranto e Giardino sul mare sono tutti pubblicati da la Nuova frontiera.

quanta, quanta guerra... UN’INNOCENTE CRUDELTÀ

Una guerra senza nome fa da sfondo al peregrinare di un ragazzo di quindici anni, Adrià Guinart, che scappa di casa spinto dal desiderio di vedere il mondo e dalla sete di libertà. La guerra e le azioni militari sono solo accennate, ma sempre presenti nei volti e nelle storie degli uomini e delle donne che il ragazzo incontra lungo la strada, e nel paesaggio onirico e fiabesco che lo circonda. Adrià parte bambino e affronta il buio dei boschi, la fame, le sue paure più nascoste; entra in contatto con un’umanità dolente ma non rassegnata; si innamora di Eva, ragazza sfuggevole e bellissima, e nel suo girovagare per un territorio popolato di castelli e melagrane, streghe e principesse, raccoglie e custodisce la testimonianza delle vite degli altri. Così diventa uomo, la sua iniziazione si compie, dopo aver perduto e ritrovato il cammino in un mondo allo sbando, talmente assurdo da confondersi con i suoi sogni e i suoi incubi.

Mercè Rodoreda

Quanta, quanta guerra... “Di Rodoreda mi affascina la sensualità con cui fa vedere le cose nei suoi romanzi.” Gabriel García Márquez

“La prosa esatta di Rodoreda – che è tela di ragno – sostiene le cadute, dà geometria e trasforma la quiete.” Chiara Valerio, Il Sole 24 Ore “Nello stile di Rodoreda c’è la trasparenza della scrittura che permette di vedere oltre l’opacità delle cose fino al centro segreto della vita.” Marco Lodoli, la Repubblica “Scrittura nitida e altissima nella sua essenzialità e semplicità.” Goffredo Fofi


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