"Neuroscienze Anemos"

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ISSN 2281-0994

Trimestrale culturale a diffusione gratuita - Apr-Giu 2013 ♦ anno III - numero 9

Anemos neuroscienze

trimestrale di neuroscienze, scienze cognitive, psicologia clinica e filosofia della mente

Speciale

Rita Levi Montalcini

La vita di una delle più grandi personalità scientifiche del Novecento, tra impegno civico e ricerca scientifica

LA FOLLIA: STORIA DI UN CONCETTO VAGO Nel linguaggio comune pazzia e follia sono termini generici e poco chiari. Cerchiamo di capire di cosa si tratta, come la psichiatria considera oggi il mondo della "pazzia", e cosa significa tale termine nel mondo dell'arte, della letteratura e della riflessione filosofica

Il genio nell'arte

È considerazione comune che gli artisti talentuosi debbano essere personaggi bizzarri, quasi che la follia fosse condizione necessaria all'esistenza del genio

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Il melanconico

La melanconia tra antichi e moderni. Il "Problemata physica" e il tentativo di fissare il melanconico come tipo umano specifico

Potrete contribuire così con le vostre idee

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CENTRO DI NEUROSCIENZE ANEMOS Direttore sanitario: Dott. Marco Ruini

AREA DI PSICOLOGIA CLINICA PSICOLOGIA CLINICA Psicodiagnosi (Dott.ssa Laura Torricelli) Psicoterapia di coppia e famigliare (Dott Federico Gasparini) Psicotraumatologia e EMDR (Dott.ssa Federica Maldini) Mindfulness (Dott.ssa Laura Torricelli) NEUROPSICOLOGIA ADULTI (Dott.ssa Caterina Barletta Rodolfi, Dott. Federico Gasparini) NEUROPSICOLOGIA dello SVILUPPO (Dott.ssa Lisa Faietti, Dott.ssa Linda Iotti) AREA DI PSICHIATRIA Dott. Giuseppe Cupello Dott. Raffaele Bertolini

AREA DI OCULISTICA Dott. Valeriano Gilioli

SERVIZIO DI NEUROCHIRURGIA

Dr. Marco Ruini: Responsabile del servizio Dr. Marco Ruini: Neurochirurgo, Patologia del rachide e cerebrale Dr. Davide Guasti: Ortopedico, Tecniche mininvasive sul rachide Dr. Andrea Veroni: Neurochirurgo, Patologia del rachide nell’anziano Dr. Andrea Seghedoni: Neurochirurgo, Instabilità del rachide Dott.ssa Alessandra Isidori: Neurochirurgo, Patologia del rachide e cerebrale

Collaboratori: Dr. Ignazio Borghesi, Neurochirurgo Prof. Vitaliano Nizzoli, Neurochirurgo Prof. Lorenzo Genitori, Neurochirurgia Pediatrica Dr. Bruno Zanotti, Neurochirurgo SERVIZIO DI TERAPIA ANTALGICA

Dr. Roberto Bianco, Anestesista, Terapia infiltrativa, Agopuntura Dr. Ezio Gulli, Anestesista, Terapia infiltrativa Dr. Davide Guasti, Ortopedico, Trattamenti mininvasivi

faccette articolari e intradiscali

SERVIZIO DI RIABILITAZIONE E RIEDUCAZIONE FUNZIONALE Dr. Rocco Ferrari, Chiroterapia Dr. Raffaele Zoboli, Fisiatra Dr. Aurelio Giaratto, Manipolazioni viscerali SERVIZIO DI NEUROLOGIA E DI NEUROFISIOLOGIA Dr. Mario Baratti, Neurologo, Elettromiografia e Potenziali evocati Dott. Devetak Massimiliano, Neurologo, doppler tronchi sovraortici e transcranico ANEMOS | Centro Servizi di Neuroscienze Poliambulatorio Medico | Libera Università | Ass. Culturale Via Meuccio Ruini, 6 | 42124 Reggio Emilia tel. 0522 922052 | Fax 0522 517538 | www.anemoscns.it info@anemoscns.it | www.associazioneanemos.org

Centro di riferimento: Centro di Neuroscienze Anemos, Reggio Emilia. Centri Ospedalieri per la Neurochirurgia del rachide e le tecniche mininvasive: Casa di Cura Salus Hospital (Re), Ospedale di Suzzara (Mn), Casa di Cura San Clemente (Mn), Casa di Cura Villa Maria Cecilia di Cotignola (Ra). Ambulatori: Reggio Emilia, Correggio, Guastalla, Reggiolo, Suzzara, Poggio Rusco, Mantova, Carpi, Modena, Fiorenzuola, Olbia e Roma.


Anemos neuroscienze

Apr-Giu 2013 | anno III - numero 9

Le suggestioni della follia

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uante volte ci imbattiamo in termini generici per definire un fenomeno osservato? Di questa generalizzazione è vittima anche il termine “follia”. Il folle, il pazzo, è colui che vede il mondo da una prospettiva diversa, ma quale prospettiva? Sarà onesto dire che quella stessa genericità che ha penalizzato l'idea di follia, l'ha forse avvantaggiata per le suggestioni letterarie e artistiche che ha comportato. Il tema di questo numero, come il lettore avrà certamente intuito, è quel dipanarsi di fili imprevedibile che il concetto di follia ha intrapreso nelle varie discipline e nelle varie espressioni della società. Cominciamo con un punto fermo: il Dott. Giuseppe Cupello, psichiatra e psicanalista, fin dalle prime pagine puntualizza cosa sia (o almeno cosa ne sappiamo oggi) la follia, e in particolare quella follia per eccellenza che è la schizofrenia. Estinto il nostro debito con l'ambito medico, possiamo rivolgere la nostra attenzione alle suggestioni letterarie. La Dott.ssa Linda Torresin, dottoranda in Lingue, culture e società moderne presso l'Università Ca' Foscari di Venezia, ci svela i folli della letteratura, in particolare della letteratura russa. Dal meccanismo dell'io, al rapporto con il mondo e la società. Insomma, parlare di follia coincide, nel discorso letterario, con il dibattere intorno all'idea stessa di umanità. Lo stesso percorso di suggestioni letterarie percorre Elena Paroli, ricercatrice in Letteratura italiana presso l’Université Aix-Marseille (nello specifico, l'autrice analizza la novella “La matta”, del senese Federigo Tozzi, e mette in luce l'isolamento del matto). I contributi di carattere filosofico si devono a Giulia Mingucci (Dottoressa di ricerca in Storia delle Idee presso l’Istituto Italiano di Scienze Umane), che analizza la diversità dei malinconici e la loro eccezionalità dal punto di vista dei pensatori antichi, e a Mauro Bertani, storico della filosofia (membro dell'équipe dei curatori dei corsi al Collège de France di Michel Foucault), che presenta in sintesi una ricostruzione storico-filosofica del secolare rapporto tra sapere psichiatrico e campo giudiziario. Completa il tema del numero, anche se non in ordine di apparizione, il contributo dell'artista William Tode, il quale delinea le personalità “folli” di alcuni letterati, pittori e musicisti del passato. I contributi del Dott. Cupello e di Wiliam Tode sono nati in occasione degli incontri “La Follia: un percorso tra medicina, filosofia e arte”, tenutisi presso la Libera Università di Neuroscienze Anemos di Reggio Emilia nel marzo del 2013 e congiuntamente organizzati con La Clessidra Editrice.

Editoriale

In copertina: La Celestina (1904) di Pablo Picasso Si possono inviare proposte di articoli, segnalazioni di eventi, commenti o altro all’indirizzo redazione@clessidraeditrice.it Ci trovate anche su Facebook www.facebook.com/Rivista.Anemos /www.facebook.com/LaClessidraEditrice

A questa voluminosa sezione segue un approfondimento non meno importante. Abbiamo scelto di dedicare lo spazio restante del numero alla figura di Rita Levi Montalcini. Non ci siamo soffermati solo sull'aspetto scientifico (articolo di Mario Santangelo, Dirigente Medico U.O. Neurologia dell'Ospedale di Carpi, Modena), ma si è scelto di raccontare anche la personalità e la vita della grande scienziata. Daria Visintini, neurologa e figlia di uno dei collaboratori della Montalcini nel periodo torinese, e Albertina Soliani, Senatrice che fu referente e aiutante della Senatrice a vita, ci raccontano il lato umano e civile di Rita Levi Montalcini. Un'umanità e un'attenzione alla società che possiamo constatare anche dalle parole dirette della scienziata, grazie al lavoro di selezione di Sara Pinelli, Dottoressa in architettura con specializzazione in allestimenti teatrali e opera lirica, che dalla sua figura ha tratto ispirazione per un testo teatrale. Chiudono questa seconda sezione, le considerazioni di Graziano Delrio, attuale Sindaco della città di Reggio Emilia, nonché medico e ricercatore. Delrio, partendo dalle idee sulla società di Rita Levi Montalcini, delinea il panorama attuale nel campo della ricerca e propone linee di sviluppo future, avendo anche come punto di riferimento la nota esperienza psico-pedagogica del contesto reggiano.■ Gli Editori

La Clessidra Editrice Libera Università di Neuroscienze Anemos

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SOMMARIO

FOLLIA: STORIA DI UN CONCETTO VAGO Editore: Editrice La Clessidra / Anemos Redazione Via 25 aprile, 33 42046 Reggiolo (RE) redazione@clessidraeditrice.it Tel 0522 210183 Direttore Responsabile Davide Donadio davidedonadio@clessidraeditrice.it

Nel linguaggio comune pazzia e follia sono termini generici e poco chiari. Cerchiamo di capire di cosa si tratta, come la psichiatria considera oggi il mondo della "pazzia", con incursioni nel mondo dell'arte, della letteratura e della riflessione filosofica

Rubriche

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Direttore Scientifico Marco Ruini

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Comitato scientifico* Adriano Amati Laura Andrao Raffaele Bertolini Giuseppe Cupello Pinuccia Fagandini Alessandro Genitori Lorenzo Genitori Enrico Ghidoni

Franco Insalaco Antonio Petrucci Sara Pinelli Ivana Soncini Leonardo Teggi Laura Torricelli Bruno Zanotti

Hanno inoltre collaborato:

Cervello senza età

▪ ECM e Sistema Nervoso Centrale ▪ Ti credi superiore? È colpa di un bug ▪ In breve

Direttore Scientifico Libera Università di Neuroscienze Anemos Arcangelo Dell'Anna Redazione: Marco Barbieri, Tommy Manfredini, Paola Torelli.

Neuronews

L'uomo macchina Leggere il mondo di Davide Donadio

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Mauro Bertani, Linda Torresin, Elena Paroli, Giulia Mingucci, William Tode, Daria Visintini, Albertina Soliani, Mario Santangelo, Graziano Delrio.

Diario di bordo Un ciclo problematico di Arcangelo Dell'Anna

Luogo di stampa

E.Lui Tipografia - Reggiolo (RE) Registrazione n. 1244 del 01/02/2011 Tribunale di Reggio Emilia Iconografia: alcune immagini presenti in «Neuroscienze Anemos» sono tratte da siti internet contenenti banche dati di immagini di libero utilizzo. Qualora vi fossero stati errori e omissioni relativi al diritto d’autore l’editore rimane a disposizione per sanare la sua posizione.

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* Il comitato scientifico è composto da persone che partecipano a vario titolo e con continuità differente alle attività organizzate dalla Libera Università di Neuroscienze Anemos e di La Clessidra Editrice.

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MusicalMente Kurt Weill e Bertold Brecht di Lorenzo Genitori


Anemos neuroscienze

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Neuroscienze / Psichiatria La clinica della follia

di Giuseppe Cupello

Psicologia / Letteratura La follia nella letteratura russa

di Linda Torresin

Psicologia / Letteratura Nella sua finzione, la sua veritĂ

di Elena Paroli

Lo sguardo indulgente di Erasmo

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di Adriano Amati

Filosofia / Psicologia Melanconia tra antichi e moderni

di Giulia Mingucci

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Arte / Psicologia Il genio folle

di William Tode

Filosofia / Psicologia Follia: un percorso storico-filosofico

di Mauro Bertani

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Persone / Neuroscienze Un ricordo di Rita Levi Montalcini di Daria Visintini

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Persone / Neuroscienze L'impegno civico della Montalcini di Albertina Soliani

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Ricerche / Neuroscienze Rita Levi Montalcini pioniere delle moderne neuroscienze

di Mario Santangelo

SocietĂ / Neuroscienze I messaggi al futuro

di Sara Pinelli

SocietĂ / Neuroscienze La ricerca, uno sguardo compassionevole sull'uomo

di Graziano Delrio

www.clessidraeditrice.it

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Neuronews

Apr-Giu 2013 | anno III - numero 9

Rassegna di notizie tra neuroscienza, filosofia e scienze cognitive

Cervello senza età

ECM e Sistema Nervoso Centrale

Alcuni neuroni vivono più a lungo dell’organismo che li ha prodotti

L’ECM ha un ruolo fondamentale nel trasferimento dei segnali nel Sistema Nervoso Centrale

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n importante studio sulla Matrice Extracellulare (ECM) è stato pubblicato su «Trends in Neurosciences». A condurre la ricerca il Prof. Alexander Dityatev, Senior Researcher presso il dipartimento di Neuroscienze e Neurotecnologie dell’Istituto Italiano di Tecnologia. Studi recenti hanno mostrato come l’ECM ricopra un ruolo importante nel trasferimento dei segnali nel Sistema Nervoso Centrale. Comprendere come funzionano questi meccanismi è fondamentale per determinare l’utilità che potrebbero avere farmaci a base enzimatica nella cura di patologie acute e croniche che possono colpire il Sistema Nervoso Centrale. La ricerca ha mostrato come l’ECM svolga un ruolo di primo piano sia nello sviluppo del Sistema Nervoso Centrale dell’embrione sia nel suo successivo corretto funzionamento nell’adulto. Nel cervello adulto, infatti, l’ECM occupa circa il 20% del volume totale e svolge la funzione di impalcatura sinaptica e perisinaptica. Il Prof. Dityatev ha così commentato i risultati: “Questi studi hanno dimostrato una teoria fondamentale per il futuro della ricerca nelle patologie neurologiche e cioè che la sinapsi non è una struttura semplice, composta da due o da tre elementi, ma che include dagli elementi pre-sinaptici, post-sinaptici e i contatti astro-gliali, fino alla Matrice Extracellulare. Quindi, la sinapsi è da considerarsi una struttura tetra-partitica, target fondamentale per la ricerca scientifica di farmaci innovativi per la cura di gravi e devastanti malattie neurologiche e neurodegenerative”.

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neuroni non hanno una durata di vita predefinita. Anzi, possono durare il doppio del tempo dell’organismo a cui appartengono. A dimostrarlo, una ricerca condotta da un’equipe italiana, composta da un gruppo ricercatori dell’Università di Pavia e di Torino e pubblicata su «Pnas». È noto che i neuroni, una volta differenziati, non smettono di replicarsi e vivono per tutta la durata dell’organismo. Quello che ancora non si conosceva è se esiste una durata massima di vita e se questa cambia da specie a specie. Per scoprirlo i ricercatori hanno esaminato due specie conosciute, che invecchiano in modo simile ma la cui durata di vita è significativamente differente: i topi e i ratti. I risultati hanno mostrato come le cellule neurali e gliali prelevate siano riuscite a integrarsi e a differenziarsi nel tessuto ospite. Inoltre, non sono morte nel periodo di tempo corrispondente alla durata massima di vita del donatore, ma sono sopravvissute per tutta la vita del ratto ricevente. I ricercatori hanno quindi concluso che i risultati suggeriscono che la sopravvivenza e l’invecchiamento neuronale sono processi coincidenti ma separabili e che l’estensione della durata della vita di un organismo attraverso interventi dietetici, comportamentali e farmacologici non si traduce necessariamente in un cervello impoverito di neuroni.

Ti credi superiore? È colpa di un bug La sensazione sarebbe causata da un bug del cervello che agisce sull’autopercezione

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rediamo di essere superiori, di essere più bravi di altri in determinate attività, ma in realtà non è così. A farcelo credere, secondo una ricerca pubblicata sulla rivista «Pnas», sarebbe un bug del cervello che colpisce la maggior parte delle persone e che ci procura questa sensazione di superiorità. Dalla ricerca è emerso, inoltre, come i depressi risultino non essere vittime di questa illusione. I test sono stati condotti

su un campione di 26 persone e i ricercatori hanno osservato, tramite la risonanza, che tale illusione è creata da un pattern di attività che si svolgono in aree neurali fondamentali per quanto riguarda la sensazione di soddisfazione e piacere. In particolare, secondo i ricercatori l’illusione dipenderebbe dall’interazione di due regioni del cervello, lo striato e la corteccia frontale, regolata dalla dopamina, il neurotrasmettitore del piacere.


Anemos neuroscienze

Apr-Giu 2013 | anno III - numero 9

Malattie neurodegenerative e proteine Proteine mutanti potrebbero essere alla base di numerose malattie neurodegenerative, come la SLA

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risultati di uno studio pubblicato su «Nature» hanno evidenziato come esistano mutazioni nella struttura di alcune proteine in grado di legarsi all’RNA che le rendono simili ai prioni, cioè a proteine anomale che hanno a loro volta la capacità di alterare altre proteine. Queste mutazioni potrebbero essere la causa di quelle malattie definite proteinopatie multisistemiche, che comprendono: la miopatia da corpi inclusi (IBM), la demenza frontotemporale e la sclerosi laterale amiotrofica (SLA). Secondo i ricercatori molte malattie neurodegenerative avrebbero la loro causa in una cattiva regolazione dell’assemblaggio di proteine coinvolte nel metabolismo dell’RNA. Lo studio ha preso il via dalla scoperta che alcune forme

La mappa del cervello umano Brain activity map project: l’ultima sfida di Barack Obama

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i chiama “Brain activity map project” l’ultima sfida del presidente Barack Obama. L’idea è quella di creare un progetto equivalente a quello sulla mappatura del genoma umano, ma dedicato al cervello e al suo funzionamento. La speranza è quella di ottenere grossi passi avanti nella cura di malattie gravi come l’Alzheimer o il Parkinson, ma anche di malattie come l’autismo e la schizofrenia e di portare avanti nel contempo studi avanzati sull’intelligenza artificiale. Come annunciato dal «New York Times», il progetto prevede la collaborazione di enti pubblici e privati. Il costo della ricerca non è ancora noto, ma dovrebbe essere di almeno 3 miliardi. Una spesa alta da sostenere, soprattutto in periodo di crisi. Tuttavia, Obama si è dichiarato fiducioso: “Ogni dollaro investito nella mappatura del genoma umano ha fruttato 140 dollari all’economia americana. Oggi i nostri scienziati stanno mappando la mente umana per dare risposte a malattie come l’Alzheimer. Stanno scoprendo medicine in grado di rigenerare tessuti e organi, stanno elaborando nuovi materiali per produrre batterie 10 volte più potenti. Ora è il momento di andare a fondo in questi investimenti in scienza e innovazione che creano tanti posti di lavoro”.

di SLA sono dipendenti dalle mutazioni di due proteine (TDP-43 e FUS) le quali, legandosi all’RNA, regolano il meccanismo di traduzione delle proteine. Esaminando le oltre 200 proteine che si legano analogamente all’RNA, i ricercatori hanno notato che alcune di queste avevano segmenti la cui struttura è simile a quella dei prioni. In particolare, grazie a studi compiuti sul moscerino della frutta, l’equipe ha scoperto come due di queste proteine, hnRNPA1 e hnRNPA2B1, abbiano una tendenza naturale a riunirsi in fibrille, tendenza esaltata dalle mutazioni, che porta alla formazione di granuli proteici intracellulari simili a quelli riscontrabili nelle patologie neurodegenerative umane.

InBreve ►► Calciatori, attenti ai “colpi di testa”. I risultati di una ricerca pubblicata su «PlosOne» mostrano come le frequenti “testate” date al pallone porterebbero a lievi, seppur ripetuti, traumi concussivi al cranio, che rischiano di creare danni al cervello e alle sue capacità cognitive. Questi traumi porterebbero chi gioca a calcio ad essere meno in grado, rispetto ai coetanei, di eseguire alcune operazioni che richiedono una capacità di pensiero di base. ►► 12 anni e un QI di 162. L’inglese Olivia Manning sarebbe una ragazzina simile ai suoi coetanei, se non fosse che nei test per misurare il suo quoziente intellettivo ha raggiunto un risultato che ha stupito tutti: 162, un punteggio al di sopra di geni di fama mondiale, come Albert Einstein. Per ora la sua straordinaria intelligenza ha portato ad Olivia un maggiore carico di studio, che lei però non disdegna. ►► Mangiare bene per dormire meglio. Gli studiosi della Perelman School of Medicine dell’Università della Pennsylvania hanno messo a confronto dieta e abitudini di vita degli americani, misurando per ognuno di essi le relative ore di sonno. Dai risultati è così emerso che chi ha una dieta varia dorme 7-8 ore per notte, cioè la quantità di ore considerata salutare, al contrario chi non segue un regime alimentare bilanciato dorme o poco o troppo.

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L'uomo macchina

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Appunti liberi tra filosofia della mente e divagazioni antropologiche

Leggere il mondo Lettura rapida, lettura intensiva, tra formazione e informazione nell'epoca del social web di Davide Donadio

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oco prima di chiudere questo numero di «Neuroscienze Anemos», mi sono imbattuto in un bell'articolo di Luca Ferrieri, in «Alfabeta2» (n. 27, marzo 2013): Elogio della bitestualità. Leggere nell'età della distrattenzione. L'oggetto dell'articolo riguarda le sorti della lettura, dell'oggetto libro e dei nuovi supporti digitali. Insomma, un argomento molto in voga in questi anni. Nell'articolo citato, tuttavia, c'è qualcosa di più interessante della riproposizione della querelle libro di carta e nuovi media. Anche se non è mia intenzione intraprendere qui una critica dell'articolo, mi appoggerò al testo citato per esprimere alcune considerazioni e per proporne altre che a mio avviso mancano. Come il titolo suggerisce, l'elogio della bitestualità è un invito ad abbandonare posizioni assolutiste a favore dei mistici del 2.0 o dei bibliofili conservatori. Al di là della questione tecnologica (sopravviverà il libro di carta o no?), entrambe le forme di lettura possibile, quella intensiva, immersiva nella pagina scritta, e quella della lettura 2.0, instabile e fatta di rimandi infiniti, di continue interruzioni e ripresa del discorso, sono da considerarsi utili. Tanto più che non è detto che la lettura dei non-luoghi della rete (blog, banner, commenti), caratterizzata dalla rapidità, comporti di per sé una perdita di profondità; così come la lettura immersiva vera e propria - la lettura del libro di carta - non avviene

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nel contesto di isolamento ideale che viene teorizzato. “Occorre essere radicalmente bitestuali per essere fedeli alla forza ibridante della lettura”, secondo quanto argomenta il più volte citato articolo. Ora, io vorrei solo porre l'accento su una questione. Riconoscendo non solo l'utilità, ma persino l'inevitabilità di una bitestualità (non è meglio bimodalità?), non sarà superfluo ricordare come sia solo la lettura intensiva e immersiva a comportare un certo tipo di conoscenza. Potrebbe sembrare un discorso conservatore e persino banale. Ed è proprio quando la realtà è di per sé conservatrice e banale, che il mio disagio nel difenderla si acuisce. L'argomentare, qui, più che sociologico o antropologico, si sposta verso l'ambito delle scienze cognitive. Malgrado le ormai decennali mode pedagogiche lassiste, centrate sui modi

e gli atteggiamenti di formazione più che sui contenuti, l'acquisizione di alcuni tipi di sapere comportano faticosi e noiosi percorsi mnemonici di immagazzinamento di nozioni. Le tanto odiate nozioni, presupposto di ogni discorso. È vero, oggi, come è avvenuto nel passaggio tra oralità e scrittura, sì è enormemente amplificato e velocizzato quel database infinito di conoscenza, un database prima costituito solo da volumi stipati in biblioteche, oggi parcellizzato in milioni di server collegati tra loro. È di conseguenza ulteriormente diminuita quella parte di tempo della formazione durante la quale si acquisiscono semplici informazioni, perché quel tipo di dati sono sempre a portata di mano con un clic. E questo, come già fu per l'introduzione della scrittura, ci ha consentito di rivolgerci all'argomentazione, più


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che alle variabili individuali. Stiamo vivendo ormai da un decennio dentro ad una infatuazione per la novità internet. Siamo inebriati da questa incredibile apertura di confini che la potenzialità di informazione infinita e il social web ormai ci consentono. Nella stessa proposizione di contenuti e di informazioni, l'asse verticale è stato sostituito dall'asse orizzontale: creatori e fruitori di contenuto stanno sullo stesso piano, si confrontano, si criticano e si influenzano a vicenda. Tuttavia, quando si attenuerà l'infatuazione, cominceremo a sospettare che l'orizzontalità, pur con tutti gli esiti positivi che ha comportato, non è di per sé un bene per le semplificazioni e il caos che può comportare. Ma questa

è un'altra questione. Tornando a noi, la lettura rapida è adatta per informarsi, non per formarsi. Il salto dal testo al link permette di colmare lacune, non di formare un sistema integrato di conoscenze. La natura di questa differenza è verosimilmente legata alla struttura cognitiva, più che agli usi sociali che da secoli accompagnano il percorso formativo. È vero che anche l'atto fisico della lettura propriamente detta (lo scorrere segni e trasformarli in concetti per un processo associativo) è ben lungi dal rispondere all'uso “originale” che l'evoluzione ha assegnato agli occhi. Ma come la cultura ha trovato strategie per aggirare la natura nel caso della lettura, così dovrà avvenire nell'ambito formativo. Diversamente, le gene-

razioni future saranno condannate ad avere una mente dispersa e inefficace, anche se superconnessa. Probabilmente non era questo il tipo di “lettura” che l'articolo di Luca Ferrieri prendeva in esame, ma poiché anche questo tipo è racchiuso nel concetto di lettura (come io lo intendo), non sarà inutile interrogarsi intorno alla questione. Come tutte le novità epocali, l'era superconessa ha comportato speranze, entusiasmi, ma anche critiche e dubbi. Per rimanere prudenti, sarà bene non illudersi di saper già volare: per ora abbiamo solo l'idea che un giorno, evolutivamente e cognitivamente parlando, ci spunteranno le ali.■

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Diario di bordo

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dall’atelier di uno psicoanalista

Un ciclo problematico "Un ciclo problematico" è il terzo capitolo della monografia "Gli spostamenti di Eugenia": un saggio inedito costruito sulla base del carteggio raccolto in un’antica cartella clinica conservata nell’archivio storico dell’ex Ospedale Psichiatrico S. Lazzaro di Reggio Emilia. I primi due capitoli sono stati pubblicati sui nº 7 e 8 di «Neuroscienze Anemos» e sono consultabili su www.arcangelodellanna.it di Arcangelo Dell’Anna

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ella nosografia psichiatrica ufficiale della correlazione diretta fra ciclo mestruale e psicopatologia femminile si ritrovano oramai solo poche tracce, peraltro sempre relative a quadri clinici di scarsa significatività e di esistenza assai dubbia. Mi riferisco, ad esempio, alla voce “Disturbo disforico premestruale” che nell’ultima versione disponibile del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali è stata inserita nella cosiddetta Appendice B in cui sono raccolte quelle voci cliniche rispetto alle quali “La Task Force ha ritenuto che non ci fossero informazioni sufficienti per giustificar[ne] l’inclusione … tra le categorie e le assi ufficiali del DSM-IV”1. ***

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Eppure, in qualità di Zeitgeber (segnatempo) fisiologico che scandisce la vita femminile dalla fine della latenza all’altezza della menopausa ed anche in seguito la sua scomparsa, il ciclo mestruale insiste a svolgere un ruolo di rilievo nella vita delle donne e in molte delle loro analisi e psicoterapie, disponendosi il suo ruolo secondo un duplice ordine di senso. Per un verso, infatti, il ciclo richiama

e apparenta la biologia femminile al ritmo regolare della natura scandito dall’alternarsi del giorno e della notte e dal regolare periodico succedersi delle fasi lunari e delle stagioni. Ma al tempo stesso proprio l’iscrizione del ciclo alla temporalità della physis - della natura - impedisce alla donna di mantenere piena titolarità nella regolazione del rapporto fra sessualità e procreazione. A questo livello il ciclo non si pone più come correlato fisiologico di un "ritmo" che scandisce l’alternanza degli incroci fra piacere e scelta generativa, ma corrisponde a una sorta di semaforo naturale che dispoticamente disciplina la sessualità nei suoi rapporti con i tempi della generazione. Alcuni sogni tratti da altrettante analisi di donne serviranno a chiarire meglio il senso di questa problematica correlazione. *** Al trionfo dell’anoressica nello scoprirsi finalmente amenorroica fa da contrappunto il penoso risveglio della giovane sposa da lungo tempo in attesa di un primo figlio allorché si scopre ancora una volta mestruata. Come rivela questo sogno di Ester

che in due anni di inutile attesa si è progressivamente caricata di rancorosa invidia nei confronti delle cugine e delle amiche nel frattempo divenute madri. Ester sogna di trovarsi in Ospedale, Reparto Ostetricia, dove ha da poco partorito. Infatti, accanto a lei, nel letto, riposa la sua piccola a cui è stato imposto il nome di Leyla. Se lo ricorda bene il nome, le è rimasta particolarmente impressa la y. Ma tutto della piccola ricorda bene: i lineamenti del volto, il profilo del naso, il disegno delle labbra, la tonalità e l’attaccatura dei capelli già folti, la forma ed il colore degli occhi. Le associazioni successive riportano la paziente al pomeriggio che precede la notte del sogno, interamente trascorso in casa con la nipotina Clara, anni tre, che le era stata affidata dalla cognata impegnata altrove. Più tardi, alla propria madre racconterà compiaciuta come lei, la bimba, le si stringesse di abbracci sul divano e poi delle tante domande e giochi e carezze proseguite per tutto il tempo. Lei, Clara, alla fine non voleva più andarsene ed aveva protestato forte quando la madre insisteva per riportarla a casa. Lei, sempre la bimba,


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aveva addirittura pianto e solo con uno stratagemma si riuscì a farla salire in auto. Ma il risveglio dal sonno e dal sogno è brusco ed amaro quando Ester, che pure riteneva di aver diritto a qualche legittima aspettativa di gravidanza, si avvede di essere ancora una volta mestruata. Che poi è quanto il sogno faceva presagire: lanciando la Lei che la paziente desiderava più di ogni altra cosa accanto a sé in un là che non può ancora essere il qua tanto atteso. Piantata in mezzo fra il lei e il là, istanza di separazione e congiunzione la y. Ultima lettera dell’alfabeto greco arcaico, la y non rappresentava soltanto - come pretendeva la tradizionale lettura dei Dottori della Chiesa - il bivio di fronte a cui ci si ritrova dovendo scegliere fra piacere e virtù. La stessa forma della y, infatti - detta lettera pitagorica (a ricordo del filosofo che per primo la inserì nella cultura greca) - riproduce graficamente la confluenza richiesta a due elementi

per poterne formare un terzo. Probabilmente per questo richiamo alla fecondazione, nell’antichità la y era anche nota come lettera spermatica. *** In altri casi il sangue mestruale costituisce il correlato emblematico dello sporco della sessualità. In tal senso Paola, paziente non ossessiva, il cui orrore per la vagina ed i suoi umori era tale da essere costretta, durante il ciclo, a lavarsi instancabilmente, anche tornando di nascosto a casa dal lavoro più volte nella stessa giornata e in ogni caso sempre prima di mangiare o di bere sia pure semplicemente un caffè. Quello che proviene dalla vagina è uno "sporco" talmente pervasivo e resistente da non poter essere arginato, in veglia, dalla più rigida astinenza e, in sogno, neppure dalla morte: Ci sono molte auto sotto casa della vecchia

zia, appena morta, che in realtà era una zia di sua madre, ma lei le era più affezionata che non a sua nonna. Una volta entrata nell’appartamento avverte un puzzo tremendo. Avanzando verso il letto dove è deposta la salma si accorge che dal corpo della zia sta colando un liquido rosato tanto abbondante da inondare il pavimento della stanza da letto. È a disagio, ma con circospezione continua comunque a camminare come farebbe se anche nella realtà si trovasse in una situazione simile. Nel tentativo di frenare la tendenza espansiva del sangue mestruale l’utero a volte si contrae dolorosamente quasi riproducendo nello spasmo la paresi degli arti periferici quale si presenta(va) nell’isteria classica: la dismenorrea che in questi casi ne deriva va considerata un estremo tentativo di controllo. Che Stefania, un’altra paziente, proprio per questa via tentava di attuare, impegnandosi strenuamente per riuscirci soprattutto durante le vacanze ►

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estive. Non tollerando l’idea di dover rinunciare anche ad un solo bagno in mare a causa del ciclo prosegue, oramai adulta, ad affidarsi alla sconcertante abilità messa a punto fin dall’adolescenza di interrompere "volontariamente" il ciclo dalla fine dell’anno scolastico sino alla ripresa autunnale delle lezioni. Che la sua analisi, iniziata durante l’inverno, fosse positivamente avviata lo conferma la circostanza che, pur mantenuta con successo per qualche settimana, la consueta amenorrea estiva si interruppe bruscamente a causa di una violenta metrorragia che la costrinse a rivolgersi al Pronto Soccorso dell’Ospedale più vicino alla sua casa al mare.

***

Forse in rapporto a forti sollecitazioni a crescere provenienti dai genitori, anche per Letizia, sorpresa dal menarca in IV elementare a soli 9 anni quando era la più alta della classe, il ciclo ha sempre costituito una spiacevolissima incombenza. Ricorda ancora l’imbarazzo di essere periodicamente esposta, per via di pratiche sospette, alla curiosità delle compagne di scuola, oltre a ritrovarsi costantemente turbata dallo sviluppo, che le pareva esagerato, del seno. Dopo qualche mese di quello che a lei sembrava un vero e proprio calvario, la crescita in statura di Letizia rallentò bruscamente tanto da diventare, ai tempi della scuola media, Note

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DSM IV-TR p. 805. Masson, 2000. Milano

la più bassa della classe. Ma soprattutto, ora che ha più di venti anni, non riesce ancora ad accettare, non mancandole le occasioni, un qualsiasi contatto fisico con un ragazzo. La semplice idea le suscita orrore, ed anche un "semplice" accenno di simpatia da parte di un presunto corteggiatore la porta ad irrigidirsi in toni freddi e scostanti, sino a risultare innaturalmente sgradevole e scortese. Disillusa ogni volta dalla propria aspettativa/prestesa di relazioni amicali di tipo fusionale che pervicacemente rincorre, sentendosi rassicurata dalla de-erotizzazione che attribuisce all’amicizia, si ritrova sola non solo dal punto di vista sentimentale, ma anche sul fronte delle relazioni sociali. Fatto nel periodo del ciclo, il sogno che segue conferma attraverso la contiguità anatomica fra la propria area genitale e quella della madre, quanto la sua sessualità sia dipendente dal vincolo con i genitori; il nubifragio nel sogno sta verosimilmente a evocare, come nel caso di Noè, la funzione purificante dell'acqua nei confronti dello "sporco" della sessualità: È in un bosco, all’interno di uno chalet. Fuori piove forte, sembra quasi una tempesta. Esattamente si trova nella sua stanza provvista di tre porte di cui due danno sull’esterno, l’altra mette in comunicazione con la stanza della madre. Lei è spaventata come se temesse un’aggressione e corre freneticamente da una porta all’altra in quanto il meccanismo di chiusura è difettoso. Finalmente si risolve a cercare aiuto e passa nella stanza della madre, dove trova anche suo padre. Ora, si sente più tranquilla. Si decide di partire; la scena, a questo punto, si svolge in auto. Il padre insiste perché sia lei a mettersi alla guida. Titubante accetta e percorre un pezzo di strada quando improvvisamente si accorge di essere sola in auto: il padre le ha fatto un bel tiro. Si ferma lungo il viale, sotto un albero. Fuori c’è ancora tempesta, dietro si

intravedono i fari di un’automobile; pensa che si tratti dei suoi genitori che la seguono. Le sembra di riuscire a ripartire. *** Un’altra analizzante, Sara, oscilla rischiosamente fra condotta anoressica e comportamento bulimico poiché convinta di non sapere quale fosse il suo "giusto" peso. Il sogno qui sotto riportato rivela invece come la questione relativa al sapere, che la paziente ritiene di poter circoscrivere al peso, rimanda piuttosto al problema della conoscenza del suo corpo di donna in rapporto alla sessualità: Vuole farsi un’idea più precisa dell’anoressia e si reca quindi nella biblioteca della sua città. Decide di consultare l’Enciclopedia ed estrae dallo scaffale il volume che contiene la voce che le interessa. All’argomento sono dedicate parecchie pagine e non ha il tempo per leggerle tutte. Così, dopo una consultazione preliminare, decide che ritornerà un altro giorno. E prima di andarsene, usa come segnalibro il pannolino che sfila con circospezione dagli slip. Emerge dalla successiva lavorazione del sogno e, più avanti, da ulteriore materiale della sua analisi l’eccessiva frequentazione del "lettone" dei genitori da bambina e da adolescente. Al punto che anche adesso - che ha un lavoro e un fidanzato - non si trattiene nottetempo dal raggiungerlo in caso di insonnia o di compiacenti risvegli precoci. Consuetudine che a suo tempo, mettendola a contatto con la realtà della scena primaria, la turbò sino a interferire con il costituirsi della sua identità femminile. Un sapere precoce che disturba l’infanzia di molti bambini al punto che quasi mai il tempo riesce a sbiadire del tutto le tracce della sua impropria formazione. ■ www.arcangelodellanna.it


A Il tema del numero

FOLLIA: STORIA DI UN CONCETTO VAGO Nel linguaggio comune pazzia e follia sono termini generici e poco chiari. Cerchiamo di capire di cosa si tratta, come la psichiatria considera oggi il mondo della "pazzia", con incursioni nel mondo dell'arte, della letteratura e della riflessione filosofica

Pagina 16 Neuroscienze Pagina 22 Psicologia e e psichiatria letteratura

Pagina 44 Filosofia e psicologia

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Apr-Giu 2013 | anno III - numero 9

LA FOLLIA: STORIA DI UN CONCETTO VAGO

Mappa concettuale: il Tema del numero Percorsi interdisciplinari

2 PSICOLOGIA E LETTERATURA

La follia nella sua trasposizione letteraria: analisi della narrativa russa e della novella "La matta" di Federigo Tozzi

1 Neuroscienze e PSICHIATRIA

Follia e schizofrenia: il punto di vista della psichiatria a proposito di un termine troppo generico

Neuroscienze e discipline scientifiche connesse 14


Anemos neuroscienze

Apr-Giu 2013 | anno III - numero 9

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Strumenti di lettura I testi di «Neuroscienze Anemos» sono idealmente suddivisi in In - Interdisciplina App - Approfondimenti R/Np - Ricerca e nuove proposte Agli articoli viene inoltre assegnato un numero che indica la complessità di comprensione del testo da 1 a 5.

1 2 3 4 5

3 4

FILOSOFIA e psicologia filosofica in due diversi contributi sono esaminati la melanconia tra antichi e moderni e il rapporto tra sapere psichiatrico e campo giudiziario

approfondimenti

In un'ottica storico-

ARTE E PSICOLOGIA

Comportamenti deviati nei protagonisti dell'arte, della scrittura, della musica

RITA LEVI MONTALCINI

Altri

La vita di una delle più grandi personalità scientifiche del Novecento

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Scienze umane, sociali e altri punti di vista 15


Neuroscienze Psichiatria

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la CLINICA della follia Follia e schizofrenia: il punto di vista della psichiatria a proposito di un termine troppo generico 16


Apr-Giu 2013 | anno III - numero 9

di Giuseppe Cupello

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Il tema del numero

Anemos neuroscienze

App 3

parole chiave. Follia, schizofrenia, storia della psichiatria Abstract. Il termine follia è utilizzato nel linguaggio comune, nei mezzi di comunicazione. Si tratta, tuttavia, di una definizione troppo generica. L'articolo scorrerà l'evoluzione del concetto (e della pratica psichiatrica) per poi soffermarsi su quella che per eccellenza è definita follia: la schizofrenia. Segue un brevissimo profilo di altre tipologie di “follia”.

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voluzione del concetto di follia. L’etimologia greca del termine “clinica” è Kliné, ovvero “letto” e Klinikos, “in trono al letto del malato”. Si intende qui parlare della condizione di “follia” quando diventa “sofferenza” sia soggettiva, sia socio-familiare. Su un piano iconografico si prenda in esame un famoso dipinto della fine del XV secolo di Hieronymus Bosch, pittore olandese (1453-1516), che nell'opera intitolata “L'estrazione della pietra della follia” raffigura quello che può essere considerato il primo neurochirurgo della storia nell'atto di estrarre la pietra della follia dalla testa di uno stolto, alla presenza di un monaco e di una monaca che si scambiano uno sguardo tra il complice e l’annoiato: dalla pietra estratta nasce un fiore. Facendo un ampio salto temporale si può considerare una più moderna concezione della follia. Circa cinquecento anni più tardi (siamo negli anni ’70) si inizia a sostenere l'esistenza di un filo molto sottile di separazione tra la cosiddetta normalità e

Figura 1.1 - A fian-

co L'Estrazione della pietra della follia, dipinto a olio su tavola (48x35 cm) di Hieronymus Bosch, databile 1494 circa e conservato al Museo del Prado di Madrid.

la cosiddetta follia. Uno tra i più noti esponenti della storia della psichiatria, Franco Basaglia, psichiatra e neurologo italiano, artefice della rivoluzionaria riforma dell’assistenza psichiatrica che porta il suo nome, nel 1979 nel corso di una conferenza affermava: “Cos'è la follia? Può essere tutto o niente. È una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione”. Ecco, quindi, che la follia viene considerata una condizione umana, qualcosa di presente e di comune in tutti noi. Noi tutti tendiamo ad oscillare tra due estremi, quello della “psichiatrizzazione”, da un lato, e quello della giustificazione e della comprensione dall’altro: considerare tanti comportamenti come peculiari di una patologia o, su un piano opposto, ritenerli come comprensibili e normali aspetti della personalità o del comportamento. L'ambito della psichiatria forense, ad esempio, mette in luce un aspetto interessante: l’idea di psichiatrizzare ogni comportamento criminale nasconde la rassicurante volontà di attribuire a tutto ciò che appare inspiegabile, abnorme, efferato; il significato di malattia di mente, ovvero di “alieno da noi” (i cosiddetti normali); se si riesce ad isolare qualsiasi comportamento che fuoriesce dalla normalità e a considerarlo come patologia questa distinzione può rassicurarci. Invece, secondo la lezione di Basaglia, vi è una parte di follia in ognuno di noi e chiunque può arrivare ad atti di efferatezza o comportamenti estremi. Il concetto di “patologia” ha soprattutto un elemento di peculiarità, ovvero la riduzione della libertà e della volontà, la difficoltà di proiezione nel futuro. Il Manuale diagnostico e statistico dei di-

sturbi mentali (DSM) è un punto di riferimento nell'ambito della psichiatria quasi universalmente riconosciuto. Si tratta di uno strumento che classifica le malattie mentali in base a criteri diagnostici, senza avanzare ipotesi eziopatogenetiche o modelli culturali di riferimento. All'interno del DSM la malattia mentale viene definita come un “modello clinicamente significativo che si presenta in un individuo e che è associato in modo rilevante a un disagio per la persona (ad esempio l'angoscia) e che comporta a sua volta una disabilità (compromissione di una o più aree importanti del funzionamento) che va ad incidere in un'area (ad esempio quella socio relazionale) che porta infine ad un significativo aumento del rischio di morte, di dolore o di un'importante perdita di libertà … Non rappresentano disturbi mentali i comportamenti “devianti”, nel senso sociologico di non maggioritario (in campo politico, religioso, sessuale e così via), né conflitti sorti tra individuo e società, a meno che la devianza e il conflitto siano sintomi della disfunzione, di una patologia dell'individuo”. Un esempio di questa condizione patologica può essere quello del delirio persecutorio e della paranoia che porta il soggetto a convincersi che qualcuno (il vicino di casa, il capo ufficio, il familiare) voglia nuocergli derivandone quindi, come reazione difensiva, il contrattacco. Nel corso dei secoli i modelli interpretativi della malattia mentale sono enormemente mutati. Da Platone (V-IV secolo a.C.), che considerava la malattia mentale come l'incapacità di raggiungere la conoscenza di se stessi (un abbozzo di concezione psicodinamica), a Philippe Pinel, medico e psichiatra francese (1745-1826) che potrebbe essere considerato quasi il precursore della moderna psicoterapia. ►

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Neuroscienze Psichiatria

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Figura 1.2 A fianco Franco Basaglia (1924

-1980), psichiatra e neurologo italiano da molti ritenuto il fondatore della concezione moderna della salute mentale. A lui si deve la cosiddetta Legge Basaglia (Legge 180) del 13 maggio del 1978 che rappresenta la grande rivoluzione dell'assistenza psichiatrica italiana.

Figura 1.3 Qui a fianco

nelll'ovale, Emil Kraepelin (1856-1926), altro pioniere della moderna psichiatria. Da lui prendono il via la psicopatologia descrittiva e la nosografia psichiatrica.

◄ Pinel è il primo che consi-

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dera necessario separare il malato di mente dalle altre figure di emarginati sociali dell'epoca, iniziando a rapportarsi in modo diretto ai pazienti. Egli fu il primo (nel 1793 a Parigi) a liberare i malati di mente dalle catene, in base al principio che il folle non può essere equiparato al delinquente. Con questo atto la psichiatria si presenta come scienza della liberazione dell’uomo. Ma fu per un breve attimo perché il folle, liberato dalle prigioni, entrò in un’altra sorta di prigione: il manicomio. La nascita della psichiatria moderna si deve allo psichiatra e psicologo tedesco Emil Kraepelin (1856-1926), colui che identifica e classifica sistematicamente i vari disturbi mentali che riscontra in casi di persone ricoverate da anni. Da qui prende il via la psicopatologia descrittiva e la nosografia psichiatrica. In anni più prossimi a noi il campo della psichiatria entra in una nuova epoca definita “biologica”, che si avvale anche di trattamenti farmacologici. L'introduzione dei primi farmaci antipsicotici (clorpromazina) e antidepressivi (iproniazide, imipramina) risale agli anni '50 del XX secolo; inizia l'impiego sistematico dei sali di litio. Fino ad allora i trattamenti adottati erano essenzialmente di tipo fisico (elettroshock, shock insulinico e colinergico), psicochirurgici (lobotomia) e contenitivi. Va tuttavia rilevato che alcuni di questi trattamenti (elettroshock e con-

tenzione fisica) continuano ad essere usati anche oggi in varie parti del mondo e anche del nostro Paese. La malattia mentale oggi. Vi sono vari indirizzi concettuali su cui si fonda la più moderna psichiatria. Analizzeremo in estrema sintesi i principali orientamenti e modelli di riferimento. Secondo l’indirizzo clinico-medico i disturbi psichici sono entità morbose ben distinguibili in base alla sintomatologia, alla storia naturale (esordio, decorso, esito) e alla familiarità. Ogni disturbo è correlato a specifiche alterazioni neurobiologiche, a fattori di vulnerabilità trasmissibili geneticamente e all'interazione con altre concause eziologiche (interne o esterne). I disturbi così individuati possono essere classificati in un sistema nosografico di riferimento. Il trattamento mira alla correzione della alterazione neurochimica di fondo tramite interventi farmacologici, psicoterapeutici o una combinazione di questi. Chi segue questo indirizzo nel concepire la malattia mentale mira a correggere una anomalia di tipo biochimico. Esiste anche un indirizzo di tipo an-

tropo-fenomenologico, iniziato con Jaspers; tale approccio pone l'accento soprattutto sulla soggettività, sul vissuto dell'individuo (la forma, il modo di presentarsi dei fenomeni), su ciò che il soggetto vive, senza porsi dilemmi sul quando e il perché dei fenomeni patologici. Il modello psicodinamico è stato introdotto da Sigmund Freud alla fine dell'Ottocento. Evento noto della storia della cultura, una vera rivoluzione che ha determinato un modo diverso di percepire la mente. Il sintomo è in questo modello concepito come espressione simbolica di un conflitto inconscio. La psicoanalisi come metodo terapeutico è basato sull'ascolto, sulla parola, sulla comprensione ed interpretazione al fine di portare il paziente alla consapevolezza dei meccanismi inconsci che sottendono i sintomi. Secondo l’indirizzo cognitivo-comportamentale molti disturbi psichici sono espressione di un difetto nell’apprendimento o di schemi cognitivi disfunzionali, che vanno pertanto corretti con specifiche tecniche. Il cosiddetto indirizzo interpersonale sostiene che i disturbi si manifestino e si sviluppino in riferimento ad uno specifico contesto della persona in re-


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lazione ad altre persone. Le aree problematiche elettive per questo modello sono il lutto, la transizione del ruolo, il contrasto e il deficit interpersonale. L'indirizzo sistemico-relazionale considera l'individuo non come persona singola, ma come individuo all'interno del sistema relazionale (in particolare la famiglia); i sintomi possono essere l'espressione di meccanismi di comunicazione distorti all'interno del sistema e sono manifestati dal membro più fragile (“paziente designato”). L'indirizzo sociologico, sviluppatosi tra gli anni Sessanta e Settanta del XX secolo, considera la malattia mentale come conseguenza dell’azione patogena dell’ambiente, di mancate risposte ai bisogni dell’individuo da parte della società. In tale ottica la diagnosi e l'osservazione clinica non hanno alcun senso, così come distinguere ciò che è normale da ciò che è patologico. Il modello dominante oggi costituisce una sorta di compromesso tra alcuni degli approcci sopra esposti. La malattia mentale è espressione di una vulnerabilità di tipo bio-psicosociale, dove cause di ordine genetico, biologico, sociale e psicologico interagiscono tra loro. Dal quadro teorico di riferimento al piano legislativo: vi è stato parimenti un mutamento della considerazione e dell’organizzazione dell'assistenza psichiatrica. Laddove in passato ciò che oggi è il percorso di assistenza e cura, vi era qualcosa di poco diverso dalla segregazione, dalla reclusione e dalla punizione. La regolamentazione dei

manicomi del 1904 (legge 36) introdusse una visione più moderna dell'assistenza psichiatrica. All’epoca l’internamento era previsto per gli individui pericolosi per sé stessi e per gli altri o di pubblico scandalo. La Legge Basaglia (Legge 180) del 13 maggio del 1978 rappresenta la grande rivoluzione dell'assistenza psichiatrica italiana. Questo nuovo intervento legislativo spostò l'asse dell'intervento terapeutico dalla custodia alla cura e, con la successiva legge 833 (istituzione del Servizio Sanitario Nazionale), sempre del 1978, vennero regolamentati i ricoveri psichiatrici ponendo l’accento nettamente sulla volontarietà degli stessi. All'interno della follia. Archetipo della follia è considerata la schizofrenia (dal greco “mente scissa”). La schizofrenia è considerata la malattia mentale più invalidante; si tratta di una destrutturazione delle normali funzioni della mente e tipicamente consiste nella compromissione della percezione, del linguaggio, della comunicazione, come anche dell'affettività, del comportamento, della fluidità e produttività del pensiero, della volontà e dell'attenzione. Emil Kraepelin, il già citato padre della moderna psichiatria, non indicava questa patologia con il termine di schizofrenia, ma come dementia precox (demenza precoce). Kraepelin osservava i pazienti schizofrenici internati da diversi anni all'interno dei manicomi senza altro trattamento (se non la

Anemos neuroscienze

Il tema del numero

reclusione e il contenimento) ed arrivava a constatare inesorabilmente che le condizioni di schizofrenia andavano incontro a un grave deterioramento cognitivo, una compromissione delle funzioni psichiche superiori, simile a ciò che si può osservare nelle condizioni di demenza senile. Il lato tragico ed inquietante - su un piano medico ed umano - è l'insorgenza molto precoce della schizofrenia: solitamente tra i 16 e i 25 anni. Eugen Bleuler (1857-1939) qualche anno dopo, nel 1911, descrive la schizofrenia come “un gruppo di psicosi a decorso a volte cronico, a volte invece caratterizzato da attacchi intermittenti che può regredire o fermarsi a qualunque stadio, ma che non permette una completa restitutio ad integrum. La malattia è caratterizzata da un tipo specifico di alterazione del pensiero, dall'affettività e dalle relazioni con il mondo esterno che non si ritrova con queste particolari caratteristiche in altri disturbi […], pertanto i processi associativi spesso funzionano come semplici frammenti di idee e di concetti. Ciò comporta associazioni che gli individui normali valutano come scorrette, bizzarre, e assolutamente imprevedibili [...] nei casi più gravi le affezioni emotive e affettive sembrano completamente mancanti […], l'affettività può anche essere qualitativamente anormale, vale a dire inadeguata rispetto ai processi intellettivi coinvolti, molti altri sintomi sono riscontrabili nella maggioranza dei casi ospedalizzati quali i deliri, le allucinazioni, la confusione, lo stupore, le fluttuazioni dell'umore di tipo maniacale o depressivo e i sintomi catatonici [...]”. Bleuler parla di sintomi fondamentali e ►

Tab. 1 - Sintomi caratteristici della schizofrenia secondo il criterio diagnostico "A" del DSM-IV (1994) A. Sintomi caratteristici: due (o più) dei seguenti sintomi, ciascuno presente per un periodo di tempo significativo durante un periodo di un mese (o meno, se trattati con successo): 1- deliri 2- allucinazioni 3- eloquio disorganizzato (per es. frequenti deragliamenti o incoerenza) 4- comportamento grossolanamente disorganizzato o catatonico 5- sintomi negativi, cioè appiattimento dell'affettività, alogia o abulia Nota: è richiesto un solo sintomo del criterio A se i deliri sono bizzarri o se le allucinazioni consistono di una voce che continua a commentare il comportamento o i pensieri del soggetto, o da due o più voci che conversano tra loro.

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Neuroscienze Psichiatria

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Tab. 2 - Criteri diagnostici per i sottotipi di schizofrenia - DSM-IV (1994) Tipo paranoide Un tipo di schizofrenia nel quale risultano soddisfatti i seguenti criteri: A - Preoccupazione relativa a uno o più deliri o frequenti allucinazioni uditive B - Nessuno dei seguenti sintomi è rilevante: eloquio disorganizzato, comportamento disorganizzato o catatonico, affettività appiattita o inadeguata Tipo disorganizzato Un tipo di schizofrenia in cui risultano soddisfatti i seguenti criteri: A - Sono rilevanti tutti i seguenti sintomi: 1) eloquio disorganizzato 2) comportamento disorganizzato 3) affettività appiattita o inadeguata B - Non risultano soddisfatti i criteri per il tipo catatonico

◄ accessori. Didatticamente si ri-

conoscono come fondamentali le cosiddette “quattro A” di Bleuler che definiscono la schizofrenia: Autismo, ovvero difficoltà a comunicare con l'esterno; compromissione dell'Affettività; Ambivalenza, ovvero compresenza di sentimenti contrastanti e Associazioni di idee incoerenti. Tuttavia, quando si manifestano i fenomeni sopra descritti, lo stato della patologia spesso può essere già avanzato. Non è raro osservare nella prima adolescenza (12-15 anni) i primi sintomi prepsicotici (cosiddetti “stati mentali a rischio”), che solo successivamente, a posteriori, verranno considerati indicativi di elevato rischio o di inizio della patologia. La persistenza

Tipo catatonico Un tipo di schizofrenia nel quale il quadro clinico è dominato da almeno due dei seguenti sintomi: 1 - Arresto motorio come evidenziato da catalessia (inclusa flessibilità cerea) o da stupor 2 - Eccessiva attività motoria 3 - Negativismo estremo (resistenza apparentemente senza motivo a tutti i comandi o mantenimento di una posizione rigida contro i tentativi di mobilizzazione) oppure mutacismo 4 - Peculiarità del movimento volontario, come evidenziato dalla tendenza alla postura fissa (assunzione volontaria di pose inadeguate o bizzarre), da movimenti stereotipati, da rilevanti manierismi o smorfie 5 - Ecolalia o ecoprassia

Tipo indifferenziato Un tipo di schizofrenia nel quale sono presenti i sintomi che soddisfano il criterio A, ma che non soddisfano i criteri per il tipo paranoide, disorganizzato o catatonico

dei sintomi, d'altra parte, è un dato sfavorevole, infatti tanto più è lungo il tempo della durata della psicosi non trattata (“D.U.P.” = duration of untrated psychosis), tanto più ridotte saranno le chance di un esito favorevole del trattamento. Quando la schizofrenia diventa conclamata, si osserva la presenza di due o più dei seguenti sintomi prolungati per la durata di almeno un mese: deliri e/o allucinazioni bizzarre, eloquio disorganizzato, comportamento grossolanamente disorganizzato o catatonico, sintomi negativi cioè appiattimento dell'affettività, alogia o abulia. Come già detto quanto più precoce è la diagnosi e l’inizio del trattamento tanto più le cure potranno essere efficaci.

Tale patologia si può articolare in diverse forme o tipologie. Le forme che qui più ci interessano (più prossime al contenitore della “follia”), sono quelle di tipo paranoide, in cui prevalgono deliri e allucinazioni, percezioni errate della realtà. Una condizione che può portare la messa in atto di comportamenti caotici disorganizzati o anche aggressivi (in un’ottica autodifensiva da parte del malato). L’incidenza della patologia riguarda circa l'1% della popolazione e nella misura di circa 15 nuovi casi ogni 100.000 abitanti per anno. L'età dell'insorgenza è molto precoce: maschi 18-25 anni, femmine poco più tardiva. Tra i possibili decorsi della malattia: episodico (con o senza sintomi residui), cronico, singolo con remissione parziale, oppure completa (forma meno frequente ma decisamente più favorevole). (Vedi figura 1.4) La finalità della cura consiste, ovviamente, nel ripristino della condizione preesistente. La guarigione e la completa remissione sintomatologica restano l’esito più auspicabile, anche se occorre dire che nella pratica medica le uniche patologie che si possano considerare completamente guaribili (con piena restitutio ad integrum) sono quelle di natura infettiva o chirurgica. Per questo è irragionevole attendersi dalla psichiatria più di quanto effettivamente vi possa essere in natura o in altri ambiti clinici. L'individuazione dei fattori di rischio

Figura 1.4 - Tipizzazione del decorso della schizofrenia secondo il DSM-IV (1994) Episodico senza sintomi residui intercritici

Episodico con sintomi residui intercritici

Continuo Episodio singolo con remissione parziale

Episodio singolo con remissione totale

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Tipo residuo Un tipo di schizofrenia nel quale risultano soddisfatti i seguenti criteri: A - Assenza di rilevanti deliri e allucinazioni, eloquio disorganizzato e comportamento grossolanamente disorganizzato o catatonico B - Vi è manifestazione continua del disturbo, come indicato dalla presenza di sintomi negativi, o di due o più sintomi elencati nel criterio A per la schizofrenia, presenti in forma attenuata (es. esperienze percettive inusuali)


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Il tema del numero

Figura 1.5 - Un'interpretazione della patogenesi della schizofrenia - DSM-IV (1994) • Eventi biologici (tossici, virali, metabolici, immunitari)

• Infezioni virali materne in gravidanza

• Complicanze ostetriche

• Alto stress materno in gravidanza

• Alterazione nei normali processi di attaccamento e separazione

è troppo ampia per essere esaustivamente presa in considerazione. Quindi, al di là dei singoli fattori (quasi ogni condizione socio-demografico-ambientale), si possono considerare più ampiamente le epoche della vita più soggette a rischio. Nei primi 3 anni di vita, ad esempio, si possono verificare sia eventi di tipo organico (infezioni e altre patologie), sia una qualche compromissione dei meccanismi alla base dell’attaccamento madre/bambino. Se ciò accade può esservi un vulnus, un elemento di vulnerabilità psicofisica; in seguito, qualora nell'altro periodo critico (adolescenza) dovessero sommarsi altri eventi stressanti (es. abusi di stupefacenti, difficoltà relazionali, etc.) potrebbe iniziare a svilupparsi la condizione di malattia. Altre follie, qualche accenno. Altre condizioni di malattia mentale meno clamorose o abnormi della

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Latenza 4-11 anni

Secondo periodo critico postnatale 12-18 anni

• Stress fisiologico puberale

schizofrenia possono essere la depressione maggiore, un grave rallentamento psicofisico con anedonia e perdita di speranza, oppure il suo opposto, la mania, ovvero uno stato di euforia, di esaltazione e una condizione di accelerazione irrefrenabile. Altro quadro di natura psicotica è la paranoia (o “disturbo delirante”), condizione caratterizzata da un nucleo specifico di “follia” (un deliro di tipo persecutorio o di gelosia o altro) in un contesto di adeguata funzionalità. L'individuo che soffre di questo disturbo può essere completamente integrato nella società, non è palesemente riconoscibile come “folle”, a differenza dello schizofrenico, non riconosce di star male e quasi mai accetta di curarsi. Vi sono infine le psicosi indotte (da farmaci, uso di droghe di vario tipo, etc.).

Indicazioni bibliografiche AA. VV. Trattato Italiano di Psichiatria Masson ed., Milano, 1999 AA.VV. Manuale di Psichiatria Il Pensiero Scientifico ed., Roma, 2007 American Psychiatric Association Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali - D.S.M. IV - TR Masson ed., Milano, 2000 Basaglia F. (a cura di Ongaro Basaglia F. e Giannichedda M.G.) Conferenze brasiliane Raffaello Cortina ed., Milano, 2000 Cupello G. “Modelli di intervento sul malato mentale autore di reato: situazione attuale e svi-

SPETTRO

► SCHIZOFRENICO

Primo periodo critico postnatale 0-3 anni

Alterazioni del neurosviluppo

BASE GENETICA

• Eventi stressanti ad alta intensità obiettiva e soggettiva

luppi potenziali” in Psychopathologia, vol. VIII n° 4, Ed. La Ginestra, Brescia, 1990 Galimberti U. Il sogno di Basaglia in «La Repubblica» del 29.8.2005 Kaplan H. & Sadock B. Psichiatria - Manuale di scienze del comportamento e psichiatria clinica C.S.I. ed., Torino, 2001 Maj M., Sartorius N. (a cura di) Schizofrenia, CIC Ed. Internazionali, Roma, 2001 Venturini E. ed altri Il folle reato - Il rapporto tra la responsabilità dello psichiatra e l’imputabilità del paziente Franco Angeli ed., Milano, 2010

Modalità di assistenza. A conclusione di questo excursus storico sulla malattia mentale e sulle possibili modalità di riconoscerla e spiegarla e quindi di curarla, non va dimenticato l’impegno, tutto italiano, nel riformare le modalità di assistenza, nel riconoscere la soggettività della Persona (che sta dietro al malato di mente) e nel riconoscere a qualsiasi individuo (anche al più “folle”) spazi di autonomia decisionale e comportamentali e diritti paritari. Si può qui concludere amaramente con Galimberti che “Forse la difesa dei diversi, dei folli, dei soggetti più deboli, che … ha portato alla chiusura dei manicomi non è più un ideale della nostra cultura che si sta rivelando sempre più sensibile a rapporti di forza che di sostegno. Che sia questa la premessa per cui la follia, e la disperazione che sempre l’accompagna, trovano un terreno fertile per dilagare?”■

Giuseppe Cupello. Medico specialista in Psichiatria, Psicoterapeuta, Psichiatra forense. Socio della Soc. Italiana di Psicoterapia della Gestalt, già vice direttore dell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario, già dirigente Az. USL Reggio Emilia; consulente tecnico e perito per i Tribunali, supervisore di equipe di lavoro (in ambito psichiatrico e di tossicodipendenze); esperienza ed interesse in diagnosi e terapia delle psicosi, disturbi dell’umore e disturbi d’ansia.

Le tabelle del testo si basano anche sulla bibliografia che precede.

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Psicologia Letteratura

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LA FOLLIA NELLA LETTERATURA RUSSA di Linda Torresin In 2

parole chiave. Follia, letteratura russa, funzionamento della mente Abstract. La follia è un tema ricorrente nelle opere degli scrittori russi. Questo perché una parte della cultura russa ha spesso manifestato una certa ostilità verso la ragione, vista come una peculiarità della civiltà occidentale. Ma in realtà, per gli autori russi parlare di follia significa parlare degli ingranaggi della mente, del funzionamento dell’io e del suo rapporto con la società: significa, quindi, parlare delle grandi questioni di sempre o, in una parola, di “umanità”.

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Anemos neuroscienze

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E già la follia con la sua ala ha coperto l’anima a metà, e l’abbevera con vino di fuoco, e l’attira nella nera valle. Anna Achmatova, «E già la follia con la sua ala... (Da "Requiem", 4 maggio 1940)

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1. Cultura russa e follia a chiave dell’“anima russa”. Che cosa fareste se una sera, mentre sonnecchiate davanti alla televisione dopo una faticosa giornata di lavoro, suonasse il campanello e vi si presentasse una persona identica a voi in tutto e per tutto, insomma, il vostro doppio? È quello che succede, in altri tempi e luoghi, ne Il Sosia, ovvero le mie serate nella Piccola Russia (Dvojnik, ili Moi večera v Malorossii, 1828), raccolta di quattro racconti fantastici di Antonij Pogorel’skij (pseud. di Aleksej Perovskij, 1787-1836), il cui protagonista è un proprietario terriero ottocentesco che, primo fra i personaggi russi dall’io scisso, si ritrova di fronte il proprio alter ego. A questo punto guardai più attentamente lo sconosciuto e di colpo un sudore freddo mi pervase dalla testa ai piedi... Mi resi conto che effettivamente era del tutto identico a me. Non so perché ciò mi sembrò terribile e (lo riconosco ora a cuore aperto) con la voce un po’ tremante dissi: «È vero, egregio signore! Ora vedo ciò che prima non avevo notato... sono miope! Ma ditemi, di grazia, ditemi chi siete».

«Nessun altro che voi stesso. - rispose lo sconosciuto - Proprio così! - continuò vedendo il mio imbarazzo. - Vi sto dicendo l’esatta verità. Certamente avrete sentito che talvolta ad una persona appare la propria immagine. Io, egregio signore, non sono altro che la vostra immagine che vi è apparsa» (Pogorel’skij 1990: 9-10). Da sempre fra i temi centrali della letteratura mondiale, gli stati paranormali, le alterazioni psichiche e i disturbi mentali hanno interessato anche e soprattutto la letteratura russa. Il motivo è da rintracciare nell’intimo modo d’essere del popolo russo. Non è la follia che fa uscir di senno. Il pensiero lo fece uscir di senno (Ne ot bezum’ja s uma schodjat. Ot dumki s uma sošël). Questo antico proverbio rivela l’ostilità che la cultura russa ha costantemente manifestato verso la ragione, sentita come un polo negativo, peculiarità e appannaggio della civiltà occidentale, e la sua propensione all’irrazionalismo, anche nelle forme più radicali e sconvolgenti, come le anomalie della coscienza e la follia. Lo stesso termine russo per “follia”, bezumie, indica l’assenza dell’intelletto (letteralmente: “senza intelletto”, bez uma), la fuoriuscita dai confini della logica, dal dominio dell’ordine e del pensiero assennato, la fuga verso una dimensione a-razionale e meta-razionale. Ecco perché il pazzo è così caro agli scrittori russi, che forse più dei loro colleghi europei hanno saputo interrogarsi sui “grandi temi” con straordinaria profondità e capacità di penetrazione. Che ne dite di provare a guardare alla follia come ad una “chiave interpretativa”, unica e preziosa, dell’“anima

russa”, di una cultura dalle affascinanti contraddizioni, fatta di estremi inconciliabili, di voragini e di abissi, senza vie di mezzo fra il sì e il no, il tutto e il niente, la vita e la morte? Studiare la follia. Parlare di Russia e follia sembra facile, ma non lo è affatto. Sulla follia, intesa come fenomeno storico-culturologico nato nel Medioevo e dilatatosi fino alla modernità, si è scritto molto (v. Foucault 1961; Lichačëv - Pančenko - Ponyrko 1984). Numerosissimi sono poi gli studiosi che, specialmente a partire dagli anni Ottanta del Novecento, per arrivare fino ai tempi odierni, si sono occupati del motivo della follia nella letteratura russa dei secoli XIX e XX (v. Nazirov 1980; Ferrari Bravo 1990; Urusov 1990; Pospíšil 1995; Fedoseenko 2001; Bočarov 2005; Ioskevič 2006 e 2009). E tuttavia, per quanto vengano studiati con zelo e passione, i “pazzi” dei romanzi e dei racconti russi continuano a divincolarsi dalla presa dei critici, come personaggi inafferrabili e proprio per questo accattivanti, ancora tutti da interpretare e da scoprire (o riscoprire). 2. I folli letterari Il genio pazzo e l’amante infelice. Il tema della follia si diffonde nella letteratura russa, parallelamente a quelle europee, con la nascita del Romanticismo, come reazione al culto illuministico della ragione. La follia si collega al tema della genialità, da un lato, e a quello dell’amore infelice, dall’altro. In entrambi i casi, è il se- ►

Figura 2.1 Nelle immagini due importanti scrittori della letteratura russa. Nella pagina a fianco, Fëdor Dostoevskij (1821-1881). In alto in questa pagina, Nikolaj Gogol' (1809-1852).

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Il tema della follia si diffonde nella letteratura russa, parallelamente a quelle europee, con la nascita del Romanticismo, come reazione al culto illuministico della ragione. La follia si collega al tema della genialità, da un lato, e a quello dell’amore infelice, dall’altro. gno del matrimonio fallito fra gli ideali e la realtà, della sconfitta dei sogni, del positivismo e della fede cristiana, della fine di un’epoca (cfr. Urusov 1990: 29). Nella novella romantica L’estasi della follia (Blaženstvo bezumija, 1833) di Nikolaj Polevoj (1796-1846) il giovane Antioch è un folle in pieno spirito romantico, che precipita nel delirio dopo la morte dell’amata Adel’gejda. Ma la sua follia, oltre a presentarsi nelle forme di una malattia psichica incurabile, è anche uno strumento di conoscenza, una sorta di sapere esoterico e il “bene” più grande, sempre secondo l’idea romantica della superiorità del mondo invisibile e sovrasensibile sul mondo terreno (v. Ioskevič 2009: 55-71). Dopo l’Antioch di Polevoj, anche gli artisti folli che Vladimir Odoevskij (1803-1869) mette in scena ne Le notti russe (Russkie noči, 1844) sono gli emblemi di una concezione della pazzia riconducibile all’estetica romantica, che unisce in sé un polo positivo (la creatività del genio e quella che Urusov 1990 definisce la “sintesi fra follia e immaginazione”) e uno negativo (la distruzione, la morte) (v. Ioskevič 2009: 71-93).

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La “follia sociale” da Gogol’ a Dostoevskij. Sfogliate qualche romanzo o racconto del Realismo russo, e noterete quanto cambi l’atteggia-

mento degli scrittori verso l’infermità mentale. In concomitanza con lo sviluppo della psichiatria, i mali dell’anima cominciano ad essere osservati con occhio medico, e ad essere giudicate non sono più le conseguenze astratte della sofferenza amorosa o della genialità creativa, ma vere e proprie malattie degenerative. La follia è ora “desacralizzata” e letta come il sintomo di una psicosi in atto. È così che, attraverso le pagine di Gogol’ e Dostoevskij, ci si offre il diario concitato e incalzante della malattia che avanza, l’infierire della demenza sulla psiche del protagonista, le ultime resistenze della ragione e il suo piombare nel regno dell’anarchia cerebrale, fino all’ultimo istante, quando accade l’irreparabile: l’internamento in manicomio. Il tutto è reso con una scrittura possente e tormentata che rispecchia, nelle sue convulsioni febbrili, i profondi abissi dell’alienazione della coscienza così come viene intesa dal pensiero moderno. Nel Diario di un pazzo (Zapiski sumasšedšego, 1835) di Nikolaj Gogol’ (1809-1852) è lo stesso impiegatuccio Popriščin a raccontarci la propria vicenda di follia. L’ambizione professionale, che gli aveva perfino fatto sognare di sposare la figlia del direttore, elevandolo da meschino temperatore di penne a personalità altolocata e di spicco,

si scontra con la realtà. Per sfuggire al proprio orgoglio ferito Popriščin trasforma l’umiliazione nel desiderio di prevaricazione, arrivando a credersi il re di Spagna Ferdinando VIII. La follia che l’io di Popriščin concreta per difendersi - sembra volerci dire Gogol’ - è in realtà proprio ciò che lo distrugge. Giorno 43 aprile dell’anno 2000 Oggi è giorno di grandissimo tripudio! La Spagna ha un re. È stato ritrovato. Questo re sono io. Sono venuto a saperlo proprio oggi. Confesso che l’illuminazione è stata come un lampo. Non capisco come abbia potuto credere e immaginarmi di essere un consigliere titolare. Come è potuta saltarmi in mente quest’idea pazzesca? Fortuna che nessuno allora ha pensato di rinchiudermi in manicomio. Adesso dinanzi a me è tutto chiaro. Ora per me ogni cosa è un libro aperto. Mentre prima, non capisco perché, prima vedevo tutto come annebbiato. E tutto ciò accade, penso, perché la gente s’immagina che il cervello umano si trovi nella testa; niente affatto: viene portato dal vento che soffia dal mar Caspio (Gogol’ 2011: 421, 423). La pazzia di Popriščin declina la parodia dell’elemento romantico in una nuova visione patologica dei disturbi mentali.


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Infatti il famoso critico Belinskij, nel leggere il Diario di un pazzo, non esitò a definirlo la “storia psichica di una malattia”. Gogol’ non era certo all’oscuro della letteratura medica dell’epoca e raffigura la follia come una patologia che intacca l’uso del linguaggio nonché le categorie spazio-temporali, portando il protagonista a scambiare il manicomio in cui viene rinchiuso per la corte di Spagna. La struttura diaristica dell’opera ci permette di immergerci appieno nell’universo irreale e immaginario di Popriščin. Gogol’ attua qui un procedimento di soggettivizzazione e interiorizzazione del discorso sulla follia molto simile a quello promosso da Dostoevskij nel romanzo Il sosia (v. Garzonio 1984; Ioskevič 2009: 94118). Il sosia (Dvojnik, 1846) di Fëdor Dostoevskij (1821-1881) narra la schizofrenia di Goljadkin, funzionario perseguitato dal proprio doppio, un alter ego macchinatore e diabolico che tenta di sostituirsi a lui in ogni modo, gli ruba i meriti, gli onori, la stima dei colleghi e, infine, la sua stessa identità. La scissione psichica di Goljadkin diventa un’ossessione di persecuzione cosmica, di cui il mondo onirico è rivelatore, e che avrà come meta finale - come era stato per Popriščin - la più completa estraneazione dalla vita e, quindi, la clinica psichiatrica. Fuori di sé, pieno di vergogna e di

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disperazione, il rovinato e perfettamente giusto signor Goljadkin si precipitava alla ventura, in balia del destino, dovunque le gambe lo portassero; ma ad ogni suo passo, ad ogni colpo della gamba sul granito del marciapiede, balzava fuori, come di sotto terra, un altro signor Goljadkin perfettamente simile e ripugnante per la depravazione del suo cuore. E tutti questi perfetti simili si mettevano, subito dopo la loro apparizione, a correre l’uno dietro l’altro e in lunga serie, come una fila di oche, si stendevano e zoppicavano dietro il signor Goljadkin maggiore, tanto che da quei perfetti simili non c’era scampo possibile, tanto che al signor Goljadkin, degno di ogni compassione, si mozzava il fiato dall’orrore - tanto che alla fine venne al mondo una spaventosa caterva di esseri perfettamente simili - tanto che tutta la capitale finalmente fu piena zeppa di quei perfetti simili, e un agente di polizia, vedendo un tale oltraggio alle convenienze, fu costretto a prendere tutti quei perfetti simili per il bavero e a schiaffarli in una garitta per caso capitatagli sottomano... Intormentito e agghiacciato dall’orrore, il nostro eroe si svegliava e sentiva che anche nella veglia si passava il tempo in modo ben poco più allegro... Era una pena, un tormento... Lo assaliva un’angoscia tale, come se qualcuno gli rodesse il cuore nel petto... (Dostoevskij 2001: 112-113). Sia Dostoevskij che Gogol’ descrivono la follia dei loro personaggi con straordinaria precisione medica, motivata anche da ragioni biografiche (Dostoevskij era affetto da una grave epilessia, mentre Gogol’ soffriva di disturbi nevrotici). In entrambi gli autori, inoltre, possiamo ritrovare un tipo particolare di follia, la cosiddetta

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“follia sociale”, causata da una società sbagliata - quella di Nicola I - e da una burocrazia soffocante che annienta la personalità del piccolo impiegato, il činovnik, condannandolo all’omologazione. Il Diario di un pazzo e Il sosia, non a caso, sono ambientati a Pietroburgo e si riallacciano al “mito nero” della città di Pietro, madre delle evanescenze e delle illusioni, dell’Anticristo, dei delitti e della follia (v. Bočarov 2005). Se già in Gogol’ la follia assume un risvolto tragico, con Il sosia di Dostoevskij assistiamo al salto dalla “narrativa sulla follia” alla “narrativa folle”. Nel momento in cui dimostra la labilità dei confini fra normalità e pazzia, Dostoevskij “desacralizza” completamente la follia. Spogliata della sua aura romantica, questa ci appare ormai nella sua nuda atrocità, diventando una terribile malattia psichica che fa a pezzi la coscienza dell’uomo (v. De Vidovich 1984; Ioskevič 2009: 119-142). La riflessione di Dostoevskij spiana la strada agli spaventosi quadri clinici dei personaggi folli di due opere della fine del XIX secolo, Il fiore rosso e Il monaco nero. Garšin e Čechov: la follia tragica. Il fiore rosso (Krasnyj cvetok, 1883) è l’allegoria del male in un breve racconto autobiografico dello scrittore nevrotico Vsevolod Garšin (18551888), che ha come protagonista un folle ricoverato in un tetro ospedale psichiatrico. Il malato di mente, nel suo vaneggiamento intermittente, in cui momenti di sanità e lucidità si alternano alla demenza più allucinata, immagina che tutta la malvagità e la depravazione umane siano concentrate in tre papaveri rossi che crescono nel giardino del manicomio. In quel rosso fiore si era raccolto tutto il male dell’universo. [...] Il fiore, ai suoi occhi, incarnava in ►

Figura 2.2 Nel racconto Il monaco nero (Čërnyj monach, 1894) di

Anton Čechov (1860-1904) incontriamo un altro "folle" della letteratura russa: il protagonista è Kovrin, professore universitario sofferente di esaurimento nervoso, che abbandona la città per andare a riposarsi in campagna. Il protagonista si farà impressionare da una leggenda che narra di un monaco vestito di nero, e lo strano personaggio, frutto dell’immaginazione malata del professore, si materializzerà.

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Figura 2.3 A fianco, immagine notturna della famosa piazza Rossa

a Mosca. Per gli autori russi qui esaminati parlare di follia significa parlare degli ingranaggi della mente, del funzionamento dell’io e del suo rapporto con la società: significa cioè parlare delle grandi questioni di sempre o, in una parola, di “umanità”.

sé tutto il male; aveva assorbito tutto il sangue innocente versato (e perciò era così rosso), tutte le lacrime, tutto il fiele dell’umanità. Era un essere misterioso, terribile, l’opposto di Dio: Arimane, che aveva assunto un aspetto umile e innocente. Bisognava strapparlo e ucciderlo. Ma questo era poco: bisognava non permettergli, nell’agonia, di riversare sul mondo il male racchiuso (Garšin 2011: 86-87).

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Il folle di Garšin si sente investito dell’alta ma gravosa missione di distruggere i tre fiori, sacrificando la sua stessa vita e lasciando che il loro veleno mortifero passi nel proprio petto. Dopo aver strappato i primi due fiori, non rimane che l’ultimo, e poi il mondo sarà salvo. In una bella notte stellata, liberatosi a fatica dalla camicia di forza ed elusa con abilità la sorveglianza del guardiano, il pazzo, ormai indebolito e provato dalla malattia, realizza la sua impresa: raggiunge il giardino e strappa il terzo fiore. Ma dal fiore malefico si sprigiona un veleno mortale che lo infetta. La mattina seguente il malato viene trovato morto nel suo letto, con il viso sereno di chi ha compiuto il suo dovere. Verrà seppellito con il fiore rosso sgualcito fra le mani. Alla base del racconto, ancora oggi modernissimo, c’è l’eterno problema del male e della responsabilità umana. Ma Il fiore rosso sconcerta e agghiaccia anche per la sua caratterizzazione realistica del tema della follia, rivisitato in chiave tragica. Sì, perché il folle di Garšin ci ricorda il ridicolo Popriščin gogoliano con la sua megalomania, eppure l’atmosfera è drammatica, i toni violenti e aspri. Con Il fiore rosso ci tuffiamo nella voragine della psicosi e del delirio cosmico, maggiormente accentuati dallo stile di Garšin, conciso, semplice, lontano dalla retorica, come sarà quello di un altro cultore della follia letteraria: Čechov (cfr. Lo Gatto Maver

1984). Ed è proprio con il racconto Il monaco nero (Čërnyj monach, 1894) di Anton Čechov (1860-1904) che termina la nostra breve rassegna sui folli russi. Il protagonista è Kovrin, professore universitario sofferente di esaurimento nervoso, che abbandona la città per andare a riposarsi in campagna dall’amica d’infanzia Tanja. Peccato che nemmeno nella pace della vita rurale Kovrin riesca a staccarsi dal lavoro, e continua a leggere, scrivere, fumare e bere a dismisura, dimenticandosi quasi di dormire. Il professore si fa anche impressionare da una leggenda, secondo la quale mille anni addietro sarebbe apparso nel deserto un monaco vestito di nero, il cui miraggio, uscito dai confini dell’atmosfera terrestre, si sarebbe poi propagato per tutto l’universo. Secondo la leggenda l’inconsueto miraggio sarebbe dovuto ricadere sulla terra una volta trascorsi mille anni. Quale non è la meraviglia di Kovrin allorché vede il monaco nero in giardino! Lo strano personaggio, frutto dell’immaginazione malata del professore, lusinga Kovrin dicendogli che la sua è la pazzia dei geni, e che lo attende la gloria. Gli incontri con il monaco nero si susseguono e diventano per il professore una gioiosa routine e una lusinga per il suo amor proprio. Intanto Kovrin sposa la mite Tanja, senonché una notte questa lo sorprende a parlare con il monaco nero e, ritenendolo insano di mente, lo costringe a curarsi. Purtroppo la guarigione porta a Kovrin la sanità ma non la felicità. Quest’ultima, anzi, è la prima a svanire, assieme alla mania di grandezza di cui il monaco nero era l’incarnazione. Affetto da tubercolosi, Kovrin muore dopo aver ricevuto l’ultima visita del monaco nero, venuto a rimproverarlo per non averlo ascoltato e per aver scelto la via della mediocrità. Ma che cos’è, insomma, il monaco nero di Čechov, se non l’inconscio e la creatività di Kovrin?

Le cure mediche troncano bruscamente il legame del personaggio čechoviano con il suo io più intimo, gli restituiscono la normalità ma anche un’esistenza grigia e monotona (cfr. Colucci 1984). «Mi sembra che sia il momento di bere il tuo latte» disse Tanja al marito. «No, non è il momento...» rispose lui sedendosi sul gradino più basso. «Bevilo tu. Io non ne ho voglia». Tanja scambiò un’occhiata ansiosa con il padre e disse con voce colpevole: «Lo vedi anche tu che il latte ti fa bene». «Sì, molto bene!» ridacchiò Kovrin. «Mi congratulo con voi: da venerdì ho preso un’altra libbra». Si strinse forte la testa tra le mani e disse con angoscia: «Perché, perché mi avete curato? Preparati al bromuro, ozio, bagni caldi, sorveglianza, pusillanime paura a ogni sorso, a ogni passo: ne uscirò idiota, alla fin fine. Uscivo di senno, avevo la mania di grandezza, però almeno ero allegro, energico e persino felice, ero interessante e originale. Ora sono diventato più giudizioso e posato, però sono uguale a tutti gli altri: sono una mediocrità, a vivere mi annoio... Oh, come siete stati crudeli con me! Avevo allucinazioni, ma a chi dava fastidio? Domando: a chi dava fastidio?» (Čechov 1996: 874). Con questo racconto Čechov coniuga splendidamente Romanticismo e Re-


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della personalità (Pogorel’skij, Gogol’, Dostoevskij), come attributo della genialità (Polevoj, Odoevskij, Čechov), come tragedia della condizione umana (Garšin, Čechov). Ma come spieghiamo una tale ricchezza di folli e follie, se non con un interesse specifico degli scrittori russi verso tali tematiche e, pertanto, con un certo valore e un significato particolare conferito nel mondo russo alla follia?

alismo, interpretando la follia su un piano di chiara derivazione romantica (il genio folle), che è però inserito in un disegno narrativo intriso di sottile ambiguità e drammaticità, dove la follia possiede la valenza positiva di simbolo dell’immaginazione e del dinamismo della coscienza, ed è tuttavia al tempo stesso la causa dell’“anormalità” dell’individuo e della sua estraneazione dalla società. 3. La follia insegna Folli e follie. Abbiamo fin qui percorso la storia della follia nella letteratura russa dell’Ottocento, all’interno di una linea cronologica che va dal Romanticismo al Realismo, dall’astrattezza della raffigurazione delle malattie mentali all’esattezza delle descrizioni cliniche e all’interiorizzazione del disagio psichico. Delle alterazioni della coscienza abbiamo colto le numerose varianti o, non di rado, più varianti combinate, a seconda che si intendesse la follia come mania di grandezza estesa a livello cosmico nel desiderio di salvare il mondo e di sacrificarsi (Gogol’, Garšin, Čechov), come “follia sociale” dell’individuo imprigionato in un sistema iniquo (Gogol’, Dostoevskij), come sdoppiamento e scissione

La saggezza nella follia. In realtà, per gli autori russi che abbiamo esaminato, e per molti altri ancora, parlare di follia significa parlare degli ingranaggi della mente, del funzionamento dell’io e del suo rapporto con la società: significa cioè parlare delle grandi questioni di sempre o, in una parola, di “umanità”. La follia è quindi portatrice di verità (v. Nazirov 1980). Depositaria di una conoscenza che si colloca al di fuori e più in alto della ragione, la patologia psichica ha un proprio “insegnamento” da offrire, una “saggezza” superiore da dispensare. Potremmo addirittura dire che le anomalie dell’animo umano sono lo specchio della scrittura letteraria, delle sue ricerche tormentate e angosciose del senso della vita. Ma qual è, alla fin fine, l’insegnamento della follia? Seguire l’evolversi del tema della follia nella letteratura russa ci ha permesso di scoprire un tratto caratteriale dominante del popolo russo, così propenso agli eccessi e all’introspezione, ma ci ha anche fatto guardare in noi stessi. Abbiamo quindi cominciato ad interrogarci su tutto ciò che prima ci appariva ovvio e perfino banale, come la nostra stessa identità. I folli russi ci hanno ammonito a non dare nulla per scontato, nemmeno le classiche distinzioni fra bene e male, malattia e salute, e a porci quelle domande che non passano mai per la testa di una persona “normale”. E allora, chi è qui il pazzo? ■

Linda Torresin. Nata a Cittadella (PD) nel 1986. Risiede a Venezia, dove nel 2011 si è laureata con lode in “Lingue e letterature europee, americane e postcoloniali” presso l’Università Ca’ Foscari. Attualmente è dottoranda in Lingue, culture e società moderne presso la medesima università. I suoi interessi di ricerca abbracciano la letteratura russa del Novecento e, in particolare, la prosa simbolista. Ha partecipato con relazioni a numerosi convegni in Italia e all’estero ed è autrice di vari articoli e traduzioni. Collabora con “Retroguardia 2.0”, “Caffè Goya”, “La Frusta” e “Neuroscienze Anemos”. Nel tempo libero scrive poesie e racconti.

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Indicazioni bibliografiche Bočarov, S. G. 2005: Peterburgskoe bezumie, in Puškinskij sbornik, Moskva, Tri kvadrata. Čechov, A. 1996: Il monaco nero, trad. di B. Osimo, in A. Čechov, Racconti, Milano, Mondadori, vol. 2, pp. 847-882. Colucci, M. 1984: A. Čechov, Il monaco nero, in Poetica della follia, a c. di A. Carotenuto, in “Rivista di psicologia analitica”, n. 30, pp. 156-168. De Vidovich, S. 1984: F. M. Dostoevskij, Il sosia, in Poetica della follia, a c. di A. Carotenuto, in “Rivista di psicologia analitica”, n. 30, pp. 46-63. Dostoevskij, F. 2001: Il sosia, trad. di A. Polledro, Milano, Mondadori. Fedoseenko, N. G. 2001: Motiv bezumija v russkoj literature i dejstvitel’nosti 18301840-ch godov, in ID., Materialy k Slovarju sjužetov i motivov russkoj literatury. Interpretacija teksta: Sjužet i motiv, Novosibirsk, pp. 89-99. Ferrari Bravo, D. 1990: Per una tipologia del “personaggio folle”, in Letteratura e psicologia. L’introspezione come elemento narrativo nella letteratura russa dell’Ottocento, a c. di R. Platone, Napoli, IUO, pp. 87-102. Foucault, M. 1961: Folie et déraison. Histoire de la folie à l'âge classique, Paris, Plon. Garšin, V. 2011: Il fiore rosso, trad. di S. Polledro, Ischia, Imagaenaria, pp. 55-96. Garzonio, S. 1984: N. V. Gogol', Le memorie di un pazzo, in Poetica della follia, a c. di A. Carotenuto, in “Rivista di psicologia analitica”, n. 30, pp. 25-36. Gogol’, N. V. 2011: Il diario di un pazzo, in N. V. Gogol’, Racconti di Pietroburgo, trad. di E. Guercetti, Milano, BUR, pp. 385-437. Ioskevič, O. A. 2006: Stanovlenie narrativa bezumija v russkoj literature pervoj poloviny XIX veka, in “Vesnik GrDU imja Janki Kupaly”, Ser. 3: Filalogija. Pedagogika, n. 4, pp. 34-40. Ioskevič, O. A. 2009: Na puti k “bezumnomu” narrativu (bezumie v russkoj proze pervoj poloviny XIX v.), Grodno, GrGU im. Ja. Kupaly. Lichačëv, D. S. - Pančenko, A. M. - Ponyrko, N. V. 1984: Smech v drevnej Rusi, Leningrad, Nauka. Lo Gatto Maver, A. 1984: V. M. Garšin, Il fiore rosso, in Poetica della follia, a c. di A. Carotenuto, in “Rivista di psicologia analitica”, n. 30, pp. 73-82. Nazirov, R. G. 1980: Fabula o mudrosti bezumca v russkoj literature, in ID., Russkaja literatura 1870-1890 godov: sb. statej, Sverdlovsk, Ural’skij gosudarstvennyj universitet, pp. 94-107. Pogorel’skij, A. 1990: Il Sosia, ovvero le mie serate nella Piccola Russia, a c. di R. Mauro, Pordenone, Edizioni Studio Tesi. Pospíšil, I. 1995: Fenomén šílenství v ruské literatuře 19. a 20. století, Brno, Masarykova Univerzita v Brně. Urusov, A. 1990: Vse my vyšli iz “Doma sumasšedšich”. Bezumie kak metafora v russkoj romantičeskoj povesti, in Letteratura e psicologia. L’introspezione come elemento narrativo nella letteratura russa dell’Ottocento, a c. di R. Platone, Napoli, IUO, pp. 23-36.

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Nella sua finzione, la sua veritĂ La realtĂ della follia nella sua trasposizione letteraria: commento alla novella La matta di Federigo Tozzi 28


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di Elena Paroli

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parole chiave. Follia, letteratura, paura, disagio mentale Abstract. “La matta”, novella del senese Federigo Tozzi, mostra il rapporto necessario e senza soluzione di continuità che lega la realtà della follia alla sua trasposizione letteraria. Un disagio mentale che porta il soggetto alla sua esclusione dall'assetto sociale, in una situazione di emarginazione e isolamento, che ha a che fare con i più ancestrali temi dell’uomo: la fobia dell’estraneo, del diverso e la superstizione legata alle cose difficilmente definibili.

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isagio mentale. La follia, come tutti i temi che toccano l’altrove, la differenza, l’alterità, è senza dubbio un soggetto saldamente presente nella storia letteraria. La sua indefinibilità, l’illimitatezza del suo significato ne fanno una delle questioni archetipiche dell’essere umano, alle quali è sempre possibile dare nuova voce, offrire nuove risposte. Per questo analizzare la letteratura a lei dedicata significa innanzitutto prendere coscienza della storia del pensiero - e quindi degli uomini - e del rapporto che li lega reciprocamente. In chiusura alla sua opera capitale, Histoire de la folie à l’âge classique Michel Foucault denuncia come la psichiatria moderna, tentando di istituire un discorso razionale sulla follia, abbia perso di vista il discorso della follia. Le conclusioni dello studioso francese evidenziano la necessità di parlare per via diretta del disagio mentale e non attraverso architetture teoretiche aprioristicamente giustapposte; per penetrare realmente il problema - questo lo snodo centrale delle sue riflessioni - è necessario osservarlo da vicino, esperirlo nelle sue molteplici e contraddittorie forme. In questo senso, per quanto possa a prima vista apparire paradossale, è doveroso chiamare a supporto la letteratura, laddove ai sistemi generali della psichiatria viene affiancato il particolarismo e la singolarità di ogni esperienza narrata, la possibilità della mimesis, l’empatia rispetto alle sofferenze altrui: nulla di nuovo, se pensiamo ai modelli greci utilizzati da Freud, ai racconti di Sacks e alle iterazioni disciplinari teorizzate da Martha Nussbaum. La letteratura in-

tesa quindi come exemplum, scorcio su un’esistenza non vissuta direttamente ma recitata (nel senso etimologico di ripetuta, ridetta e quindi trasmessa) da chi ne ha attivamente preso parte.

chiamavano tutti la Matta… […] E, forse, era matta da vero. Ma disgraziata. Lei l’avrà vista per le strade di Siena con il barroccio a vendere le frutta -.

Un esempio letterario. La matta, breve novella dell’autore senese Federigo Tozzi, è un caso esemplare del rapporto necessario e senza soluzione di continuità che lega la realtà della follia alla sua trasposizione letteraria (del resto, qui è quantomeno doveroso ricordarlo, i personaggi tozziani sono tutti ripresi dal milieu senese in cui lo scrittore viveva). L’opera, apparsa per la prima volta sul quotidiano «Il Tempo» nel '17, si connota infatti per la carica tonale espressionista e la cruda lucidità della scrittura, tutti elementi che portarono Giacomo Debenedetti a paragonare lo stesso Tozzi a Kafka. Il racconto si apre significativamente con una visita al cimitero, durante la quale l’Io narrante incrocia con lo sguardo una delle tante lapidi, e la nota per la povertà della sua iscrizione, recante solo il nome e le date di nascita e di morte. Vinto da un’improvvisa curiosità di indagare la vita della defunta, supponendo di averla forse conosciuta, ne chiede notizia al becchino, che gli risponde:

Il primo elemento che colpisce è la perdita del nome come sistema di riconoscimento: se l’iscrizione posta sulla lapide, «Anna Franchi», rendeva del tutto incerta la sua identificazione, il soprannome datole dalla piccola provincia (doppiamente crudele nella sua assoluta genericità qualunquista, matta) funge da chiarificazione definitiva. La passeggiata al cimitero assume quindi una funzione epifanica consentendo alla voce narrante di intraprendere il racconto delle peripezie della donna, che si muove essenzialmente su tre assi: il passato “normale” di Anna Franchi, la descrizione della sua quotidianità da “matta” e la derisione ed indifferenza della comunità circostante. La giustapposizione di questi elementi consente di acuire la drammaticità della vicenda ma soprattutto di ►

- […] Non pensavo che la conoscesse anche di nome. Non so se lo sa: la

Figura 3.1 In Histoire de la

folie à l’âge classique Michel Foucault denuncia come la psichiatria moderna non tratti il disagio mentale in modo diretto, ma faccia ricorso ad architetture teoretiche aprioristicamente giustapposte.

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darne molteplici chiavi di lettura esistenziali e morali - prima fra tutte, uno sguardo sulla precarietà e la fragilità umana: dopo poche righe scopriamo che l’esistenza della Matta era stata sino ad un certo momento fra le più ordinarie che si potessero immaginare, giovane sposa ed ereditiera di due poderi. È stata sufficiente la disgrazia della vedovanza (evento che, per quanto drammatico, non si può certo definire extra-ordinario) a stravolgere totalmente la sua quotidianità: Ma, mortole il marito per un calcio preso da un bove, si trovò dopo pochi anni nella più umile miseria. […] Per vivere, s’era messa a vendere le frutta; e, alla fine, non la riconosceva più nessuno e non le parlavano nemmeno le donne che dalla finestra la chiamavano perché aspettasse che scendessero a comprare la sua roba. […] La Franchi abitava in una delle strade più sporche di Siena: aveva una stanza sola, più bassa due scalini del lastricato. Là, da una parte, metteva il carretto; e, in un cantuccio, dormiva lei. In un altro cantuccio c’era un vecchio fornello di ferro, messo su quattro mattoni. Ma ella non poteva accenderlo; perché il fumo escendo andava nella strada su per le finestre; e allora le gridavano parolacce da tutti i piani. Ella spegneva subito il fuoco, e si contentava di mangiare il pane.

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La paura del diverso. L’incrociarsi del lutto con l’indigenza economica siglano immediatamente l’esclusione dall’assetto sociale: costretta a fare la venditrice ambulante, la sua situazione diventa motivo di emarginazione ed indifferenza. Il primo e principale mezzo di questo processo è l’afasia degli altri che inevitabilmente diviene anche propria del soggetto; il non sentirsi più rivolgere la parola, e il non poterla di conseguenza più rivolgere ad alcuno sono l’inizio di una alienazione che avrà il suo culmine con la perdita del nome (e quindi dell’identità) tout court. Si tratta di strutture sociali che hanno a che fare con i più ancestrali temi dell’uomo, la fobia dell’estraneo, del diverso, la supersti-

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zione legata alle cose difficilmente nominabili, definibili. Il nome che viene dato alle cose - per tirar fuori di nuovo Foucault - è il segno per antonomasia di un tassello mancante: una persona caduta in disgrazia viene definita matta, e proprio in virtù di questo abnorme errore di valutazione deve essere allontanata dalla comunità: [La Matta] Andava a bevere un bicchiere di vino quando aveva finito di mangiare. Ma nessun vinaio la trattava bene, perché gli avventori dicevano che era troppo sudicia e aveva male in bocca. Allora la servivano con i bicchieri rotti perché non tornasse più, e non la facevano né meno entrare dentro la bottega. Ho visto io

ne messa in gioco la banalità del male, il fatto che un soggetto fragile possa facilmente divenire il capro espiatorio di una crudeltà mascherata sotto l’insegna del mantenimento dell’ordine comunitario. All’interno della novella è brevemente raccontata la caduta a terra della Matta a seguito di uno spintone datole volontariamente da un ragazzo di passaggio; per un momento il giudizio etico sulla scena viene sospeso per narrare l’affacciarsi alle finestre ed il fermarsi per strada della gente: la legittimità del rimprovero è così subito soffocata dalle risate collettive, alle quali - secondo la moralità

Figura 3.2 Per la carica

tonale espressionista e la cruda lucidità della scrittura, Giacomo Debenedetti paragonò Tozzi a Kafka.

respingerla fuori, a gomitate. Il fornaio, quando vedeva che il carretto era pronto, le faceva trovare il pane già tagliato. Ella metteva un piede su lo scalino e con l’altro restava nella strada. Allungava il braccio, e il fornaio le dava il pane; ma non voleva prendere i soldi in mano. La Matta glieli metteva, tutt’un mucchietto, in proda al marmo del banco; e, quando se ne era andata, egli diceva guardandoli e storcendo la bocca: - Chi ha il coraggio di toccarli? La narrazione di Tozzi (peraltro attento lettore di James ed interessato all’allora nascente psicoanalisi) consente di mettere magistralmente in luce il rapporto strettissimo che lega la superstizione con la necessità di dare un nome definito e definitivo al male, per poterlo così riconoscere ed allontanare. Ad un lettore odierno salta immediatamente agli occhi come sarebbe stato sufficiente un minimo atto di pietas, una più attenta ed aperta considerazione del reale per non relegare Anna Franchi allo statuto perenne di folle, alla solitudine e all’oblio. Vie-

grottesca posta in essere - dovrebbe prendere parte persino Anna: Un uomo, che voleva escire, la fece alzare; e un altro le disse, quasi rimproverandola: - Togliete il barroccio di lì, che dà noia. Perché state a piangere? Non vedete che tutti ridono? All’interno di una società chiusa ed arcaica come la Siena d’inizio secolo


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Il tema del numero

Anemos neuroscienze

Lo sguardo indulgente di Erasmo

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ra i classici del pensiero libero Elogio della follia (1509) di Erasmo da Rotterdam rappresenta ancora oggi un eccezionale tesoro letterario. In questo libro è la Follia in persona che tesse le proprie lodi, smascherando falsi sapienti ed eccentrici illusionisti, tutti presi in una rete di discussioni oziose e inutili. Con l'intento di invitare gli uomini a togliersi maschere e orpelli, e a mostrarsi così come sono: splendidi nella loro follia. “Costui, più brutto di una scimmia, si crede bello come Nireo; quell'altro si crede Euclide perché traccia tre linee con il compasso”. La grande parata della presunzione umana annovera una stravagante e affollata esibizione delle debolezze, delle perversioni, dei sogni e delle illusioni dell'umanità. Nel libro entra subito in scena la Follia, allegra, sbrigliata, scherzosa. Il suo espediente consiste nel dire la verità con l'aria di straparlare, o enuclea paradossi che racchiudono verità: il gioco sta nei continui spostamenti nello spazio tra i poli vero-falso, giusto-sbagliato, ed è un gioco critico che costituisce già di per sé una presa di posizione ideologica, ispirata dai grandi umanisti. Gli strumenti che consentono a Erasmo di

stemperare gli effetti patologici della Follia - tutt'oggi imperanti in certe diagnosi categoriche - sono l'ironia e la leggerezza. Lo stesso Bacco, insensato e bevitore, si riscatta proprio per l'accoglienza autoironica degli scherzi offensivi che gli rivolgono, definendolo pazzo. La leggerezza di Erasmo si ritrova invece nell'approccio ai tanti comportamenti “devianti”, che esondano cioè dai bordi stabiliti dalla società: è sempre benevolo, pieno di comprensione per le umane debolezze, perché la considerazione che uniforma il suo pensiero critico è proprio la visione disincantata della natura umana, così instabile, imprevedibile, tanto nel privato che nel pubblico. Non c'è psichiatria né terapia clinica, non ci sono categorie patologiche, né egli invoca la legge: "Nei salmi mistici, lo stesso Cristo dice esplicitamente al Padre: conosci la mia insensatezza? E non è un caso che gli insensati siano stati prediletti da Dio così intensamente (…) e Dio abbia ritenuto opportuno salvare il mondo per mezzo della Follia, poiché esso non poteva venir redento dalla sapienza”. Queste citazioni evangeliche, paoline e patristiche Erasmo le sparge a grappolo nel testo dell'Elogio per supportare il proprio punto di vista, e attuare un efficace smascheramento dell'ipocrisia della gente cosiddetta “perbene” e “saggia”. Riprende i miti platonici, come quello della caverna - in cui l'uomo prigioniero vede gli oggetti esterni solo

per le loro ombre sulle pareti, salvo poi considerare quelle ombre come le sole verità - per ribadire che nessuno può farsi portavoce di una verità ultimativa, in base alla quale giudicare con severità opinioni e comportamenti altrui. Egli anticipa così una concezione laica del mondo, e introduce il principio della tolleranza, che verrà meglio precisato in epoca moderna da Voltaire nel suo Trattato (1763). Erasmo conclude il suo ragionamento attribuendo alla passione la responsabilità prima della follia: “... l'impulso sessuale, la brama di cibo e di sonno, la disposizione alla collera, la superbia, l'invidia...”, per dire di quelle più legate alla materialità del corpo. Ma ve ne sono altre di valenza “intermedia”, e di per sé non pericolose (nella sfera politica, religiosa, affettiva), che possono indurre gli uomini a praticare comportamenti ritenuti moralmente “eccessivi”. Ciascuna di esse mira ad ottenere la soddisfazione di un desiderio, ovvero il conseguimento della felicità: “Quelli che hanno potuto provare questa gioia subiscono qualcosa di simile alla pazzia (...) poi, appena tornati in sé, affermano di non sapere dove sono stati (…) e solo questo sanno, che sono stati straordinariamente felici per la durata di questa follia”. Adriano Amati

Figura 3.3 A fianco un'immagine di Federigo Tozzi. La nar-

razione di Tozzi consente di mettere magistralmente in luce il rapporto strettissimo che lega la superstizione con la necessità di dare un nome definito e definitivo al male, per poterlo così riconoscere ed allontanare. il fenomeno si spinge poi sino a derive quasi taumaturgiche: icastico è il caso del fornaio che non vuole toccare i soldi dategli da Anna Franchi, come se avesse timore - ben più fondato della paura di manipolare un oggetto sporco - di essere contagiato da quella misteriosa ed incomprensibile malattia chiamata follia che ha reso una donna indigente una matta da evitare. L’universo etico dipinto da Tozzi è caratterizzato da una moralità claustrofobica che non riesce mai a trovare scampo nel razionale, nemmeno davanti alla

morte. Anna Franchi si spegne a sessant’anni per un cancro alla lingua, nel sollievo generale. Il male fisico si fa così allegoria della malattia morale, interiore - l’afasia a cui l’aveva costretta la comunità - di cui diviene l’inevitabile epilogo. La frase che chiude l’opera e che ne contiene tutto il senso filosofico è disarmante per la sua chiarezza e banalità: A venti anni, Anna Franchi era stata sposa.■

Indicazioni bibliografiche Debenedetti G., Il romanzo del Novecento, Milano, Garzanti, 1998 Foucault M., Histoire de la folie à l’âge classique, Paris, Gallimard, 1972

Freud S., Compendio di tutti gli scritti, Torino, Bollati Boringhieri, 1999 Nussbaum M., La fragilità del bene, Bologna, Il Mulino, 2011

Elena Paroli. Consegue nel luglio 2012 la laurea magistrale in Filologia, Lingue e Letterature moderne presso l’Università degli studi di Siena. Si occupa principalmente di anti-lirismo nella poesia italiana del ‘900, e grazie ad un progetto coordinato dall’Università di Siena dal 2009 al 2012 ha preso parte a seminari di storia dell’arte presso l’istituto penitenziario Ranza in San Gimignano. Attualmente è ricercatrice in letteratura italiana presso l’Université AixMarseille.

Sacks O., L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Milano, Adelphi, 2001 Tozzi F., Opere, Milano, Mondadori, I Meridiani, 1987

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Filosofia Psicologia

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MELANCONIA tra antichi e moderni

di Giulia Mingucci App 3

parole chiave. Affettività, passioni, emozioni Abstract. «Perché gli uomini straordinari nella filosofia, nella politica, nella poesia, nelle diverse arti sono tutti dei melanconici, e alcuni fino al punto di ammalarsi delle malattie dovute alla bile nera?» (Pr. XXX 1, 953a10-13). Si apre così il Problema XXX 1, una delle questioni di argomento «naturale» raccolte nel trattato Problemata physica (attribuito ad Aristotele ma in realtà frutto di una riflessione successiva, probabilmente da parte del suo allievo diretto, Teofrasto). Questo testo costituisce il primo tentativo di fissare il melanconico come tipo umano specifico, caratterizzato da determinati attributi psichici, somatici e comportamentali: il predominio di un umore (la bile nera, mélaina cholé, da cui deriva il nome "melanconia") nella crasi o mescolanza corporea viene considerato un fattore che determina un certo temperamento, inteso come una disposizione psicosomatica stabile e durevole. Prima di allora la melanconia non era considerata come una disposizione psicosomatica stabile e durevole, ma come una affezione patologica di carattere transitorio.

L

a melanconia come malattia: i trattati medici del Corpus Hippocraticum e le opere di Aristotele. Nei trattati medici ippocratici la melanconia viene considerata come uno squilibrio patologico determinato dall’eccesso di un umore (chymós), la bile nera. Secondo la teoria umorale ippocratica - che viene sistematizzata nel trattato sulla Natura dell’uomo (410-400 a.C.) attribuito al genero di Ippocrate, Polibo - l’essere umano è costituito da una mescolanza equilibrata (krasis) del sangue, del flegma, della bile gialla e della bile nera: Il corpo dell’uomo ha in sé sangue, flegma, bile gialla e nera; questi costi-

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tuiscono la natura del suo corpo e per causa loro soffre od è sano. È dunque sano soprattutto quando questi componenti si trovino reciprocamente ben temperati per proprietà e quantità, e la mescolanza sia completa. Soffre invece quando uno di essi sia in difetto o in eccesso o si separi nel corpo e non sia temperato con tutti gli altri.

Natura dell’uomo 4

Ciascuno di questi umori è caratterizzato da due qualità, e si trova in rapporto simpatetico con le qualità delle stagioni: il flegma è freddo e umido come l’inverno, il sangue è caldo e umido come la primavera, la bile gialla è calda e secca come l’estate, la bile nera è fredda e secca come l’autunno. Secondo il volgere della stagione, un certo umore prevale nella crasi corporea: per esempio, «d’au-

tunno la bile nera è la più abbondante e la più forte» (Natura dell’uomo 7). Polibo adduce anche delle prove (tekméria) a queste associazioni, che consistono nell’osservazione delle secrezioni e delle malattie tipiche di una certa stagione: per esempio, durante l’autunno «si vomita spontaneamente bile, e in seguito alle purghe si evacuano sostanze molto biliose». Queste “prove” sembrano tuttavia essere giustificazioni a posteriori di uno schema che nasce dall’esigenza di sistematizzare il sapere medico antico (in particolare ippocratico, ma anche empedocleo). Per la sua semplicità, lo schema della Natura dell’uomo, del quale avete una riproduzione nell’immagine 4.1, gode di un’immensa fortuna in tutta la posteriorità, come vedremo tra breve.


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Anemos neuroscienze

Il tema del numero

Figura 4.1 A fianco schema della teoria umorale ippocratica (Natura dell’uomo)

(fuoco) bile gialla caldo estate

caldo sangue sangue (acqua) umido primavera

secco bile

umido flegma

bile nera secco (terra) autunno

freddo bile

► flegma freddo inverno (aria)

Secondo la teoria umorale ippocratica lo stato di salute è determinato da una giusta quantità e da una adeguata qualità degli umori nell’organismo; l’eccesso o il difetto, il riscaldamento o il raffreddamento, l’umidità o la secchezza producono invece uno stato di squilibrio patologico, che si manifesta mediante sintomi esterni. A partire da questi segni visibili del corpo (in greco seméia, da cui viene anche il nostro termine “semeiotica”) è possibile ricostruire la storia del paziente (anàmnesis), individuare una patologia (diàgnosis) e prevederne il decorso (prógnosis), stabilendo così una terapia. La terapia consiste nell’applicazione di qualità contrarie a quelle che hanno provocato lo squilibrio (allopatia), mediante farmaci, esercizi o un particolare regime alimentare. I sintomi somatici della melanconia sono principalmente afonia, paralisi del corpo e apoplessia, come leggiamo per esempio nel trattato Malattie: All’improvviso un dolore prende la testa ed egli subito diventa afono ed impotente di sé [scl. paralizzato]. Costui muore in sette giorni nel caso che non lo sorprenda la febbre, ma nel caso che lo sorprenda, risana. Prova ciò allorché in lui della bile nera (mélaina cholé), messasi in movimento nella testa, si metta a scorrere, e soprattutto nella regione dove sono le venuzze più numerose nel collo e nel petto. Poi anche nel resto del corpo è

colpito da apoplessia e da impotenza, in quanto il sangue si è raffreddato.

Malattie II 6

Rispetto agli squilibri prodotti dagli altri umori, quello prodotto dalla bile nera ha però la peculiarità di produrre anche alterazioni psichiche, quali depressione (áthymos), irritabilità (orgaí) e agitazione (dysphoríai). A proposito di una donna di Taso gravemente ammalata in seguito a un parto, Ippocrate racconta che ella soffrì senza tregua di «stati comatosi, avversione ai cibi, depressione, insonnia, irritabilità, agitazione: in una parola, [di] spirito melancolico» (Epidemie III 17). Tutti i sintomi psicologici vengono compendiati con la frase: «Se terrore (phóbos) e depressione (dysthymíe) perdurano a lungo, ciò significa melancolia» (Aforismi VI. 23). A differenza degli ippocratici, Aristotele della melanconia non chiarisce né le basi fisiologiche (soltanto in un caso è esplicita l’associazione con la bile nera: vedi Il sonno e la veglia 3, 457a31) né lo statuto ontologico, considerandola talvolta come un’affezione transitoria (páthos) e talaltra come una condizione stabile (physis, krasis). In ogni caso si può affermare che in generale per Aristotele la melanconia consiste, come per gli ippocratici, in una condizione patologica. Chi soffre di melanconia è secondo Aristotele in perenne stato di agitazione e irrequietezza, manca di

autocontrollo, è incapace di richiamare alla memoria e di deliberare. Un principio unificatore di questi vari aspetti che caratterizzano il melanconico di Aristotele può essere individuato nella sua incapacità di ragionare in modo logicamente consequenziale. Secondo Aristotele questa capacità consiste innanzitutto nel «mettere in ordine» le immagini (phantásmata), ossia le tracce percettive conservate nel cuore a partire dalle quali si formano i concetti. Il melanconico è un visionario: in lui si produce una grande quantità di immagini e visioni di ogni tipo che si presentano in successione rapida e continua: da queste immagini rapide e sconnesse il melanconico si lascia trascinare nei suoi ragionamenti, manifestando ciò che oggi chiameremmo «fuga di idee», ossia l'incapacità di fare un discorso coerente, come accade secondo Aristotele ai pazzi furiosi: «come infatti i poemi di Filenide e i

«All’origine dell’incapacità del melanconico di ragionare in modo logico c’è dunque secondo Aristotele la sua visionarietà, il rapido susseguirsi delle immagini che gli si presentano ininterrottamente.» pazzi furiosi recitano e pensano cose simili in successione, per esempio “Afrodite, frodite”, così anche costoro pongono connessioni con ciò che viene dopo» (Div.Somn. 2, 464a32-b4). All’origine dell’incapacità del melanconico di ragionare in modo ►

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logico c’è dunque secondo Aristotele la sua visionarietà, il rapido susseguirsi delle immagini che gli si presentano ininterrottamente. La melanconia come temperamento: il melanconico del Problema XXX 1. L’autore del Problema XXX 1 sviluppa la sua originale posizione in merito alla melanconia sullo sfondo delle considerazioni dei medici ippocratici e di Aristotele. La prospettiva di partenza di questo testo, che può essere considerato una vera e propria «monografia sulla bile nera» (Klibansky, Panofsky, Saxl 1983), consiste nella valutazione del melanconico come personalità straordinaria in senso positivo: leggiamo infatti nell’esordio del Problema che «gli uomini straordinari sono tutti dei melanconici», e nella sua conclusione che «tutti i melanconici sono persone straordinarie». Questa prospettiva è ben diversa da quella proposta dagli ippocratici e da Aristotele, che come si è visto considerano la melanconia come una condizione patologica. Nonostante la prospettiva adottata dall’autore sia diversa, nel Problema si trovano da un lato dottrine proprie della tra-

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dizione ippocratica, quale quella degli umori, e dall’altro strumenti concettuali e princìpi esplicativi propri della biologia aristotelica, per esempio la polarità caldo-freddo e la dottrina della mesotes o giusto mezzo (che domina non solo le sue riflessioni nel campo dell’etica, ma anche le sue spiegazioni anatomofisiologiche). Secondo l’autore del Problema XXX 1 la base fisico-fisiologica della melanconia è da ricercarsi nella bile nera, che nella teoria umorale ippocratica abbiamo visto costituire, insieme a sangue, flegma e bile gialla, la natura del corpo umano. La bile nera è un umore presente in ogni uomo e non si manifesta necessariamente in un peculiare temperamento. Sono la preponderanza quantitativa di questo umore e le sue qualità (freddo/caldo) che possono diventare fattori stabili di caratterizzazione psicosomatica: Le persone in cui la bile è abbondante e fredda sono lente e ottuse; le persone con bile calda e in quantità eccessiva sono invasate e naturalmente dotate, sensuali e inclini ad assecondare i loro impulsi d’ira e le loro passioni, alcune anche loquaci. E molti, poiché questo calore è vicino alle parti dove risiede l’intelletto, sono colpiti da malattie che li rendono invasati e ispirati […]. Le persone in cui il calore eccedente si avvicina a un livello medio sono sì dei melanconici, ma più ragionevoli e meno stravaganti, ed eccellenti in molti e diversi ambiti: nella cultura, nelle arti, nella politica. Problemata XXX 1, 954a12-b4 A livello di formazione caratteriale, se la bile nera è del tutto fredda si hanno persone deboli, letargiche, sciocche e ottuse, mentre se è calda in misura eccessiva si hanno persone pazze, impulsive, lussuriose o in altro modo eccitabili. Quando la bile nera è invece calda nella misura opportuna si hanno persone geniali, che eccellono nell’ambito della cultura, delle arti e della politica. Questi melanconici

«ben temperati» (e perciò «eccellenti») sono tuttavia soggetti a disturbi patologici dovuti a un’alterazione temporanea della bile nera. Questo umore è infatti tra tutti «sia il più caldo sia il più freddo», dal momento che può riscaldarsi o raffreddarsi in misura massima, come fa per esempio il ferro: Così la bile nera è fra gli umori sia il più caldo sia il più freddo, perché una sostanza può per sua natura accogliere entrambe queste qualità. Per esempio, l’acqua è fredda, tuttavia se viene riscaldata a sufficienza, per esempio durante l’ebollizione, è più calda della stessa fiamma; anche una pietra e un pezzo di ferro, arroventandosi, diventano più caldi del carbone, pur essendo freddi per natura. Se ne è parlato più espressamente nella trattazione Sul fuoco.1 La bile nera che per natura è fredda e non si trova in superficie, quando è nelle condizioni di cui si è detto, se è presente nel corpo in quantità eccessiva, induce apoplessie, torpori, depressioni, paure; se invece si surriscalda induce allegria accompagnata da canti, delirio, eruzione di piaghe e altre affezioni del genere. Problemata XXX 1, 954a12-b4 Il raffreddamento in misura eccessiva della bile nera è responsabile di stati astenici (torpore, depressione), apoplessie e fobie; il suo surriscaldamento di stati euforici, delirio e talvolta anche di invasamento. Queste manifestazioni patologiche sono in realtà segni della natura stra-ordinaria (nel senso di «fuori dal comune») del melanconico, che viene portata agli estremi limiti a causa dell’eccesso (hyperbolé) di freddo o di calore (Problemata XXX 1, 955a36-40). La natura straordinaria del melanconico si manifesta perciò da un lato in senso positivo (la genialità) e dall’altro in senso negativo (depressione e mania): questa oscillazione tra genialità e follia viene considerata a partire dal Problema XXX 1 una caratteristica propria del malinconico, anche nella tradizione successiva. L’autore del Problema quindi, andando oltre le tradizioni ippocra-

Figura 4.2 A fianco Galeno di Pergamo (129-216

d.C.). Tracce della dottrina dei temperamenti si trovano già nelle sue opere.

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Anemos neuroscienze

Il tema del numero

Figura 4.3 A fianco correlazione tra figure di animali e visi umani. Nel corso di una vicenda che ha visto la stretta cooperazione tra le osservazioni mediche e biologiche con le speculazioni della filosofia naturale, è comprensibile che dovesse sorgere una scienza fisiognomica che si occupasse delle idiosincrasie delle persone sane, come controparte di quella semeiotica degli infermi.

tica e aristotelica nello stabilire una relazione tra la preponderanza di un umore (la bile nera) e il determinarsi di un temperamento straordinario come la malinconia, è stato in grado di porre le basi non solo per una dottrina dei temperamenti di tipo umorale, ma anche per un’indagine sul nesso tra genialità e follia. La melanconia nel sistema dei quattro temperamenti. Per quanto riguarda la dottrina dei temperamenti, essa fu sviluppata pienamente nella tarda antichità; tracce di questa dottrina si trovano già in Galeno di Pergamo (129-216 d.C.). Sulla base della teoria umorale ippocratica e sulla traccia del ritratto del melanconico dei Problemata pseudo aristotelici, Galeno tenta di trattare sistematicamente le caratteristiche psicosomatiche determinate dagli umori. Nell’opera Le facoltà dell’anima seguono il temperamento dei corpi (193 d.C.), Galeno osserva che la melanconia «costringe l’anima a sragionare, le toglie memoria

e intelligenza e la rende più sofferente e più vile e più scoraggiata». Questa costituisce per Galeno una prova del fatto che l’anima «è schiava dei temperamenti del corpo» (III, 779.13-21). Assumendo la stretta relazione tra temperamenti del corpo e disposizioni dell’anima nel suo commento al trattato ippocratico La natura dell’uomo, Galeno cerca di mettere in relazione la preponderanza di un umore con determinate disposizioni psichiche: la bile gialla è responsabile dell’acutezza e dell’intelligenza, il sangue della semplicità e della stoltezza; la bile nera, che viene associata alla terra in quanto fredda e secca, della fermezza e della costanza (97.4-11). Il sistema di Galeno non è ancora completo, dal momento che ne rimane fuori il flegma, a cui viene negata un’azione nella formazione del carattere (97.11-13); ma è a partire proprio da questi spunti che viene sviluppato un quadro completo dei quattro temperamenti come disposizioni stabili psicosomatiche. In un trattato della tarda antichità denominato Della costituzione dell’universo e dell’uomo, i melanconici vengono descritti come «indolenti, timidi e abbattuti, di carnagione scura e di capelli neri»; i collerici come «irritabili, violenti e audaci, di colorito giallognolo»; i flegmatici come «tristi, smemorati e molto pallidi»; i sanguigni invece «sono gradevoli, ridono, scherzano e hanno un corpo roseo, ben co-

lorito». Da queste osservazioni possiamo notare che nella dottrina dei temperamenti la teoria umorale viene a convergere con la fisiognomica. Una certa «consapevolezza fisiognomica» è sempre esistita in Grecia: si dice per esempio che Pitagora sottoponesse i suoi aspiranti discepoli a un vero e proprio esame fisiognomico, mediante il quale egli individuava, a partire dall’osservazione dei loro tratti somatici, le loro caratteristiche morali. Con la scienza medica gli elementi di fisiognomica rintracciabili nella tradizione a livello di consapevolezza vengono per la prima volta teorizzati: ne è prova il fatto che il termine physiognomonía è attestato per la prima volta in Epidemie II 5, una delle opere di argomento medico attribuite a Ippocrate. Nel corso di una vicenda che ha visto la stretta cooperazione tra le osservazioni mediche e biologiche con le speculazioni della filosofia naturale, è comprensibile che dovesse sorgere una scienza fisiognomica che si occupasse delle idiosincrasie delle persone sane, come controparte di quella semeiotica degli infermi, ossia di quello studio dei semeia, dei segni visibili delle malattie, che abbiamo visto essere alla base dell’anamnesi, della diagnosi, della prognosi e della terapia del medico ippocratico. Anche nella dottrina dei temperamenti di Galeno l’aspetto esterno della persona viene assunto come un segno del suo temperamento: per esempio la persona delicata, bella e grassa ha in sé il minimo di umore melanconico, mentre quella minuta, scura, irsuta e con le vene sporgenti ne ha il massimo. I capelli neri e la carnagione scura, ►

1 Il riferimento è allo scritto Perì pyrós di Teofrasto (372-288 a.C.). Questo rimando, insieme all’attribuzione a Teofrasto di uno scritto Sulla melanconia (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi V 44), legittima l’ipotesi che la paternità del Problema XXX 1 sia di Teofrasto.

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Filosofia Psicologia Figura 4.4 A fianco la celebre

incisione di Albrecht Dürer (14711528) intitolata Melencolia I (1514).

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insieme alla magrezza del corpo e alla testa reclina, si consolidarono nella tradizione posteriore come i tratti somatici e comportamentali tipici della melanconia. Prendiamo per esempio l’immagine 4.4, la celebre incisione di Albrecht Dürer (1471-1528) intitolata Melencolia I (1514). La melanconia è rappresentata da una figura di donna quasi spettrale, che fissa nel vuoto in un atteggiamento tra il meditabondo e lo sconsolato, l’abbattuto e il riflessivo. Il suo viso è scuro, un tratto che richiama la caratterizzazione fisiognomica antica del melanconico come scuro di carnagione e di capelli, e che diverrà una costante anche nelle rappresentazioni successive, in epoca medievale e rinascimentale. Si noti tuttavia che il viso è scuro non tanto per il colore della pelle, ma perché oscurato dall’ombra: il tratto fisiognomico della carnagione scura viene così risemantizzato nell’espressione cupa. La testa è reclina e appoggiata a una mano, motivo questo antichissimo (si trova per esempio già in alcuni rilievi sui sarcofagi egizi): la guancia appoggiata a una mano indica innanzitutto il dolore, ma può significare anche la fatica del pensiero creativo. Questo gesto insomma combina insieme dolore, fatica e meditazione, tratti che fin dai Problemata pseudo aristotelici sono considerati propri del temperamento melanconico. La mano, in genere appoggiata mollemente e delicatamente alla guancia, è invece qui chiusa in un pugno. Il pugno stretto può essere da un lato un’allusione alla tensione spasmodica che dai medici della tarda antichità era considerata un sintomo specifico delle allucinazioni melanconiche, e dall’altro può indicare l’avarizia, che soprattutto in epoca medievale veniva considerata una caratteristica del temperamento melanconico, e di cui ritroviamo nell’incisione un altro segno, nelle chiavi e nella borsa appese alla cintura, che indicano potere e ricchezza. Attorno alla Melanconia stanno inuti-

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lizzati un certo numero di strumenti e oggetti, apparentemente a indicare lo stato di accidiosa inattività di questo temperamento, in contrasto con l’ingenua operosità del putto, che ha appena appreso l’appagamento che dà l’attività, ma ancora non conosce il tormento che dà il pensiero. A un esame attento però tutti questi strumenti sono in qualche modo relazionati all’arte del misurare, a partire dal compasso posato nel grembo del melanconico. Questo sembra indicare che per il melanconico la matematica e la geometria, scienze nelle quali egli è spiccatamente dotato, sono insufficienti a dare un senso, una misura alla realtà. Il melanconico è insomma consapevole dell’insufficienza della ratio logico-deduttiva ad assolvere alle pretese di una comprensione totalizzante del reale, una consapevolezza che si manifesta nel suo atteggiamento abbattuto e indifferente. Lo sguardo del melanconico non è però rivolto verso il basso, ma è fisso davanti a sé, quasi a rincorrere quelle «svariate visioni e immagini» che secondo Aristotele si presentano senza sosta e tormentano il melanconico. Contraltare della sfiducia nella ratio matematica è dunque la visionarietà del melanconico, mediante la quale egli è in grado di cogliere le realtà più alte. Questa tensione verso l’alto è simboleggiata non solo dalle ali di questa figura triste e pensierosa, ma anche dalla scala, simbolo della ricerca mentale di qualcosa di altro e superiore. L’incisione di Dürer sembra dunque rappresentare il faticoso passaggio del melanconico dalla ratio matematica alla

speculazione filosofica. Il melanconico abbandona gli strumenti propri della ratio per inseguire le proprie visioni o immagini interiori, cercando così di elevarsi dal piano logico-deduttivo che è proprio delle scienze matematiche a quello della visione immediata delle idee che in una prospettiva neoplatonica è proprio dell’artista o del filosofo. Il numero ‘I’ riportato nel titolo dell’incisione di Dürer (appunto Melenconia I) indica dunque il primo stadio di un’elevazione spirituale, che prelude alla visione delle realtà più elevate che è propria del genio, artistico o filosofico. Genialità e follia del melanconico La stretta relazione tra melanconia e filosofia, da un lato, e tra genialità e fol-


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lia, dall’altro, viene indagata in un’opera che precede di una trentina di anni circa l’incisione di Albrecht Dürer (1514), e che pare avere avuto su di essa una certa influenza: il De vita di Marsilio Ficino (1482, 1489). Ficino indaga il nesso tra melanconia e genialità facendo rivivere le osservazioni dell’autore del Problema XXX 1 sulla straordinarietà del temperamento melanconico. La causa naturale della melanconia è per Ficino, come per l’autore dei Problemata, la bile nera. Quando la bile nera è «opportunamente temperata» e «mescolata al sangue e alla bile gialla» secondo una determinata proporzione (ossia 8 parti di sangue, 2 parti di bile gialla e 2 parti di bile nera), «è come quando bruciano insieme il legno e la paglia: emanano più calore, più luce, per un tempo più lungo»: «il nostro animo indaga con appassionata veemenza e persevera più a lungo nell’investigazione [è cioè appassionato nella ricerca]; scopre gli oggetti della sua ricerca agevolmente,

Il tema del numero

con lucidità e con precisione [è cioè in grado di vedere immediatamente e chiaramente i propri oggetti di indagine]; ed infine li conserva a lungo [in quanto possiede buona memoria]». Il genio melanconico si trova però sempre in un equilibrio precario tra la depressione e l’euforia maniacale, perché per Ficino, come per l’autore del Problema XXX 1, la bile nera è l’unico tra gli umori a potersi raffreddare e riscaldare in massima misura: si trova infatti in questa opera lo stesso paragone con il ferro che si trova nei Problemata: «La bile nera fa come il ferro: quando è molto esposto al freddo si raffredda al massimo, quando invece è molto vicino al caldo si riscalda al massimo». Queste alterazioni producono gli stessi effetti che abbiamo già letto nei Problemata: il raffreddamento in misura eccessiva della bile nera è responsabile di fobie e di «viltà estrema», mentre il suo surriscaldamento di «furore selvaggio» e di «massimo ardimento». In conclusione, i melanconici si trovano, secondo un’espressione di Klibansky, Panofsky e Saxl, «per uno stretto sentiero tra due abissi»: a causa dell’intrinseca possibilità di squilibrio che caratterizza la loro natura, possono facilmente precipitare in stati depressivi caratterizzati da un abbassamento del tono dell’umore o in stati maniacali caratterizzati, al contrario, da un in-

Indicazioni bibliografiche Aristotele, Etica Nicomachea, a cura di C. Natali, Roma-Bari: Laterza, 1999. Aristotele, Etica Eudemia, a cura di P. Donini, Roma-Bari: Laterza, 1999. Aristotele, La “melanconia” dell’uomo di genio, a cura di C. Angelino ed E. Salvaneschi, Genova: Il Melangolo, 1981. Aristotele, Problemi, a cura di M. F. Ferrini, Milano: Bompiani, 2002. Aristotele, L’anima e il corpo: Parva Naturalia, a cura di A. L. Carbone, Milano: Bompiani, 2002. Aristotele, Il sonno e i sogni: Il sonno e la veglia, I sogni, La divinazione durante il sonno, a cura di L. Repici, Venezia: Marsilio Editori, 2003. L. Bottani, La malinconia e il fondamento assente, Milano: Guerini studio, 1992. B. Centrone (a cura di), Studi sui Problema Physica aristotelici, Napoli: Bibliopolis, 2011. C. Colangelo, Limite e melanconia: Kant, Heidegger, Blanchot, Prefazione di B. Moroncini, Napoli: Loffredo, 1998. Marsilio Ficino, De vita, a cura di A. Biondi e G.

Pisani, Pordenone: Edizioni Biblioteca dell’immagine, 1991. B. Frabotta (a cura di), Arcipelago malinconia: Scenari e parole dell'interiorità, Introduzione di J. Hillman, Roma: Donzelli, 2001. Galeno, Opere scelte, a cura di I. Garofalo, M. Vegetti, Torino: UTET, 1978. R. Gigliucci (a cura di), La melanconia: Dal monaco medievale al poeta crepuscolare, Milano: BUR, 2009. M. D. Grmek, Storia del pensiero medico occidentale: Antichità e Medioevo, Roma-Bari: Laterza, 1993. Ippocrate, Opere, a cura di M. Vegetti, Torino: UTET, 1965. Ippocrate, Testi di medicina greca, Introduzione di V. Di Benedetto, traduzione e note di A. Lami, Milano: BUR, 2001. R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturno e la melanconia: Studi di storia della filosofia naturale, religione e arte, trad. it. a cura di R. Federici, Torino: Einaudi, 1983. J. Kristeva, Sole nero: Depressione e melanconia, trad. it. a cura di A. Serra, Milano: Feltrinelli, 1989.

Anemos neuroscienze

nalzamento del tono dell’umore. Questi disturbi patologici non sono però altro che sintomi estremi della loro natura straordinaria o fuori dal comune, che si manifesta in termini positivi nella loro genialità, ossia nella loro capacità di superare la ratio logico-deduttiva in favore di una forma di pensiero eidetica e intuitiva, in grado di cogliere immediatamente le realtà più elevate. Bisogna però tenere presente che l’attribuzione di genialità al melanconico è stata data da filosofi e artisti che per loro stessa ammissione erano melanconici, come Marsilio Ficino e Albrech Dürer. Ora, tra i sintomi della melanconia, che oggi potremmo chiamare disturbo bipolare o sindrome maniaco-depressiva, si dà anche una ipertrofia dell’autostima. Che l’attribuzione di genialità al melanconico non sia dunque altro che il sintomo della stessa melanconia che colpiva i filosofi e gli artisti che ne parlavano? ■

Giulia Mingucci. È Dottore di Ricerca in Storia delle Idee presso l’Istituto Italiano di Scienze Umane e visiting member presso Corpus Christi College Centre for the Study of Greek and Roman Antiquity a Oxford; collabora in qualità di cultrice della materia con l’Università degli Studi di Bologna. Dopo avere ottenuto, nel 2004, la laurea triennale con una tesi sull’intelligenza artificiale (Può il computer emozionarsi? Macchine ed intelligenza emotiva), ha conseguito la laurea specialistica nel 2008 con una dissertazione sull’antropologia aristotelica (L’uomo di Aristotele tra biologia e politica), stimolo per la sua attuale ricerca sulla prospettiva ilomorfista sui rapporti mente-corpo. Si interessa principalmente di filosofia della mente e di filosofia della biologia; tra le sue pubblicazioni, si ricorda in particolare La mente e il corpo (2011), in L’Antichità, a cura di Umberto Eco, Milano: Encyclomedia Publishers.

P. Magli, Il volto e l’anima: Fisiognomica e passioni, Milano: Bompiani, 1995. R. Porter, The Greatest Benefit to Mankind: A Medical History of Humanity from Antiquity to the Present, London: Fontana Press, 1999. L. Rodler, Il corpo specchio dell’anima. Teoria e storia della fisiognomica, Milano: Bruno Mondadori, 2000. M. M. Sassi, La scienza dell’uomo nella Grecia antica, Torino: Bollati Boringhieri, 1988.

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Arte Psicologia

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il genio folle Comportamenti deviati nei protagonisti dell'arte, della scrittura, della musica

di William Tode

In

parole chiave. passioni, emozioni

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Affettività,

Abstract. È considerazione comune che gli artisti talentuosi debbano essere per forza personaggi bizzarri, quasi come se un po’ di follia fosse condizione necessaria all’esistenza del genio. In questo articolo William Tode ripercorre i casi più famosi di scrittori, pittori e musicisti in cui risulta più evidente il legame tra creatività e follia. Il testo è tratto dal contributo nato in occasione degli incontri “La Follia: un percorso tra medicina, filosofia e arte”, tenutisi presso la Libera Università di Neuroscienze Anemos di Reggio Emilia nel marzo 2013. È possibile leggere il testo integrale sul sito internet www.neuroscienzeanemos.it.

“Solo coloro che sono abbastanza folli da pensare di poter cambiare il mondo lo cambiano davvero” Arthur Schopenhauer “Genio e follia hanno qualche cosa in comune: entrambi vivono in un mondo diverso da quello che esiste” Albert Einstein

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C

reatività e follia. L’obiettivo di questo studio è esplorare la “follia” degli artisti attraverso l’espressione di forme e colori, entrare nella loro mente, senza rinunciare alla fondamentale prospettiva storica e a tutti quei contributi che hanno studiato “arte”, “genio” e “follia”. È considerazione comune che gli artisti talentuosi debbano essere per forza personaggi un po’ strani, quasi come se un po’ di “follia” fosse condizione necessaria all’esistenza del Genio. Oggi di ciò abbiamo anche una prova scientifica: studiosi hanno visto che per alcuni versi il cervello di una persona creativa funziona come quello di uno schizofrenico. In particolare, gli esperti dell’Istituto svedese Karolinska hanno verificato che pittori, musicisti e scrittori presen-

tano spesso una carenza dei recettori del neurotrasmettitore dopamina in corrispondenza del talamo, area cerebrale che fa da filtro alle informazioni dirette alla corteccia cerebrale. Quando questo filtro funziona male, il cervello smette di funzionare come dovrebbe, liberando la creatività. In altre occasioni si è messo in relazione il disturbo da attacchi di panico con la genialità. In questo caso è emerso che le persone soggette da tali patologie presentano una creatività superiore alla norma. L’indagine del mondo dell’arte contribuirà ad indagare la questione, ponendo un’istanza più o meno precisa sul senso dell’atto creativo, sull’urgenza espressiva e sulla generazione o degenerazione che, a volte, diventa agio e disagio, schizofrenia e follia. Vi è un gioco sottile tra realtà e finzione che è alla base dell’arte e della


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Anemos neuroscienze

Il tema del numero

Figura 5.1 A fianco, il pittore emiliano Antonio Ligabue, noto per

il suo comportamento "folle".

sua spettacolarità. Ma fino a che punto l’arte può essere influenzata dalle condizioni di salute dell’artista? Ci sono casi in cui sembra che la follia sia connessa alla creatività. In campo pittorico non possiamo non citare i casi di Edward Munch, Antonio Ligabue e Vincent Van Gogh, nei quali alla qualità artistica si accompagna anche un indubbio disagio psichico. In questi artisti la malattia si è manifestata soprattutto come disadattamento sociorelazionale, come incapacità comunicativa. L’attività artistica ha così ripristinato la capacità comunicativa con il mondo esterno e consentito loro di esteriorizzare i propri vissuti interiori. È dunque vero che in taluni casi la “follia” produce associazioni di idee inusuali, permettendo all’artista di portare alla luce immagini del tutto originali?

Follia e genio in ambito letterario. In campo letterario sono molti gli esempi del legame tra follia e genio. Come la follia abbia trasformato il modo di esprimersi di una personalità geniale lo constatiamo in modo evidente nel poeta tedesco Friederich Hölderlin (1770-1843). Le sue poesie, scritte prima dell’insorgere della schizofrenia, sono certo bellissime. Ma è quando la malattia si è manifestata nel suo straziante fulgore che la sua poesia ha raggiunto vertici di inaudita bellezza estetica, lasciando trasparire in sé indelebili tracce dell’assoluto e trascinandoci nel mistero insondabile dell’infinito del dolore che oltrepassa ogni considerazione razionale. Emily Elizabeth Dickinson (18301886), poetessa statunitense, è considerata una dei maggiori lirici del XIX secolo. Visse nella casa paterna in Massachusetts quasi tutta la sua breve vita, costantemente ossessionata dalla morte. Aveva solo 25 anni quando decise di estraniarsi dal mondo e si rinchiuse nella propria camera al piano superiore della casa natale, da dove non uscì più, anche a causa di disturbi nervosi che la portavano a gravi stati di depressione e di allucinazioni. Altro caso di poeta affetto da allucinazio-

ni è quello di Edgard Allan Poe (18091849). Sin da bambino rivelò un grande interesse per la musica e la poesia, che lo portarono precocemente ad un’alterazione del sistema nervoso. Scriveva ad un amico: “Sono in uno stato depressivo spirituale mai fino ad ora avvertito. Mi sforzo invano di vivere sotto questa cappa di piombo che è la mia malinconia e credetemi, quando vi dico, che malgrado il miglioramento della mia condizione, mi vedo sempre miserabile”. Friedrich Nietzsche (1844-1900) è considerato tra i massimi filosofi di ogni tempo. Dopo aver trascorso anni nella totale creatività letteraria, inizia a viaggiare molto. Il 3 gennaio 1889 a Torino avviene la prima crisi di follia in pubblico: probabilmente la causa era una sindrome bipolare, di cui era affetto sin dalla gioventù. Gli ultimi anni della sua vita li vive con eccessi demenziali. Vivrà in queste condizioni schizofreniche per un decennio in varie cliniche psichiatriche. Dino Campana (1885-1932) fu, invece, uno dei massimi poeti ita- ►

Figura 5.2 Qui sotto

e nelle pagine successive cronologia degli autori citati nel testo che hanno avuto nel corso della vita manifestazioni di "follia".

Edgard Allan Poe (1809-1849) Friedrich Nietzsche (1844-1900) Friederich Hölderlin (1770-1843)

Emily Elizabeth Dickinson (1830-1886) Vincent Van Gogh (1853-1890)

MUSICA

PITTURA

LETTERATURA

Cronologia della follia: letteratura, pittura, musica

39 Robert Schumann (1810-1856)

Peter Ilyich Tchaikovsky (1840-1893)


Arte Psicologia

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liani del XX secolo. Tutte le sue opere furono pervase dalla problematica della malattia mentale. Fin dall’adolescenza manifestò chiari segni di squilibrio mentale e la sua vita divenne un continuo girovagare per manicomi. A 21 anni venne ricoverato per la prima volta con la diagnosi di demenza precoce. Nel 1917 fu arrestato a Novara per vagabondaggio e fu internato all’Ospedale Psichiatrico, dove rimase sino alla morte. Dino Campana è stato definito un poeta visionario, allucinato, pazzo, orfico. Per Campana, la poesia è un mezzo per riuscire ad affermare la propria libertà. “I Canti Orfici” sono una straordinaria opera letteraria, in cui lo scrittore rivive in prosa e in liriche la sua tragica vicenda. Casi recenti di questo rapporto tra creatività e follia sono quelli di Ernest Hemingway, Alda Merini e Sylvia Plath. Quando tornò dalla Prima Guerra Mondiale, a cui partecipò da volontario sul fronte italiano, Ernest Hemingway (1899-1961) iniziò a soffrire di uno stentato adattamento alla vita civile, che lo portò a bere sino a divenire un alcoolista. Nonostante fosse ritenuto uno dei massimi scrittori del Novecento (Premio Pulitzer nel 1953 e Premio Nobel per la letteratura nel 1954), tutto questo non gli bastava. Aveva dentro sé un forte disagio esistenziale. Sembrava che fosse ossessionato dalla morte e la sua schizofrenia lo portò ad essere ricoverato nel 1960 in una clinica psichiatrica del Minnesota. I suoi disturbi nervosi erano sempre più gravi, tanto che i medici decisero di ri-

correre all’elettroshock, che gli provocò una perdita di memoria. Dopo un lungo soggiorno a Cuba, si trasferì nell’Idaho nel 1960, dove l'anno dopo si suicidò. Alda Merini (1931-2009) è stata una delle voci liriche più importanti della letteratura del XX secolo. Già nel 1947 manifestò i primi sintomi di disagi psicologici e venne internata in una clinica psichiatrica a Milano. La sua attività letteraria sino al 1962 è febbrile e intensa: resta per ben dieci anni ricoverata in un’altra clinica psichiatrica, ma continua la sua incessante attività letteraria. La sindrome bipolare si aggrava, ma nel 1979 riprende a scrivere, dando vita ai suoi testi più intensi sulla drammatica e sconvolgente esperienza del manicomio. Nasce così il suo capolavoro “La Terra Santa”. La personalità di Alda Merini è assai complessa e, nonostante il suo stato di sofferenza demenziale, non cessa di scrivere e di pubblicare un'infinità di libri, portando la sua voce ad essere tra le più alte del firmamento poetico e letterario della cultura italiana. Sylvia Plath (1932-1963) è assurta a simbolo delle rivendicazioni femministe del Novecento ed è stata una delle voci più potenti e limpide della letteratura del secolo scorso. La frenetica vita delle città di Boston e New York

la sconvolge con effetti devastanti e ne mina il suo già fragile equilibrio psichico. Vive l’esperienza dei primi ricoveri in manicomio, dove tenta più volte di suicidarsi. Uscita dal tunnel della follia si sposa con un poeta inglese, dal quale avrà due figli: ma la maternità diventa fonte di frustrazione e causa di depressione. È in questo stato psichico che nasce il suo capolavoro, “The Colossus”, nel 1963. Torturata dalla sua ansia di vivere e di esprimersi, che contraddiceva il ruolo

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MUSICA

PITTURA

LETTERATURA

Cronologia della follia: letteratura, pittura, musica

Joseph Conrad (1857-1924)

Dino Campana (1885-1932) Ernest Hemingway (1899-1961)

Amedeo Modigliani (1884-1920) Egon Schiele (1890-1919)

Aleksander Skrjabin (1872-1915)

Edward Munch (1863-1944)

Sergej Rachmaninov (1873-1943)


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Il tema del numero

Patologie quali la schizofrenia, la sindrome maniaco depressiva e l’anomala percezione visiva ed emotiva che ne consegue hanno caratterizzato la vita e, inevitabilmente, anche le opere di grandi pittori, compositori e scrittori. Ciò che Gruesser ha sostenuto nei termini dell’arte degli schizofrenici sembra scaturire dall’analisi della complessa personalità di un protagonista dell’arte del XX secolo: James Sidney Eduard, Barone di Ensor (1860-1949). Figura 5.3 In alto la poetessa Alda Merini, Ensor è stato un scomparsa nel 2009. Trascorse parte della sua sommo artista belga, vita in ospedali psichiatrici a causa dei suoi introverso e misandisturbi mentali. tropo, la cui ricerca artistica si articola Nella pagina a fianco ritratto di Edward Munch in tra il Simbolismo e uno scatto del 1889. L'artista era probabilmente l’Espressionismo. Vi affetto da una sindrome schizzoide. è nella sua ricerca un processo di trasfigutradizionale di moglie e di madre, Sylvia razione della realtà, basata su un’estetica crea un'infinità di poesie violente e difatta di colori puri e aspri. Appaiono elesperate. Si suiciderà con il gas nella sua menti inquietanti come maschere, schecucina nel 1963, a soli trentuno anni. letri, spettri e demoni, usati per mettere in satira gli aspetti del mondo borghese. Le patologie e i disagi menL’immagine della morte si nasconde dietali dei pittori. Diderot sosteneva tro maschere spaventose, cariche di un che “genio e follia si toccano da vicino”. simbolismo ossessivo, la vena grottesca oscilla tra ironia e inquietudine in una specie di incubo, in cui sogno e realtà si confondono. Tutta la sua arte nasce dal suo ostinato stato allucinatorio e visionario: fu un artista isolato, schivo, introverso, umanamente complesso, al di fuori della norma. Quando si parla di arte e follia non si può non pensare a Vincent Van Gogh Alda Merini (1931- 2009) (1853-1890), uno dei grandi innovatori dell’arte del XIX secolo. La sua vita contraddittoria e complessa trova il suo culmine, quando dopo una lite furiosa con il suo amico ed estimatore Paul Gauguin, Van Gogh aggredisce violenAntonio Ligabue (1899-1965) temente quest'ultimo, che spaventato decide di abbandonare Arles dove abi-

Anemos neuroscienze

tavano entrambi. Disperato per la paura di ritrovarsi solo e in piena confusione mentale, si amputa il lobo dell’orecchio destro e lo dona ad una prostituta sua amica. Conscio delle sue precarie condizioni psichiche, si fa ricoverare volontariamente nel manicomio di Saint Paul a Saint Rémy. Nonostante si ripetano i violenti attacchi, definiti epilettici, egli continua a dipingere come un ossesso. Lasciato Saint Rémy, decide di stabilirsi a Auver Sur Oise, ospite del Dottor Gachet, dove realizza alcuni capolavori. Ma il 27 luglio 1890, in tutta lucidità, si spara un colpo di pistola al petto dopo aver terminato il suo ultimo capolavoro, “Campo di grano con corvi”. Vi è in questi suoi ultimi dipinti, che sono anche il suo testamento, una tale energia senza più oggetto, vi è disperazione e terrore. Il grande artista Edward Munch (18631944) era, invece, probabilmente affetto da una sindrome schizzoide. L’artista norvegese, famoso per il celebre quadro “L’Urlo”, ci manifesta nelle sue opere l’angoscia esistenziale dell’uomo e, manifestandola esteriormente, contamina l’anima di chi osserva il dipinto. Nelle sue opere Munch esprime sempre un'ossessione per le problematiche della vita e della morte, troviamo in quelle atmosfere sinistre e gelide il pathos della poetica di Nietzsche e di Strindberg. Manifesta la sua angoscia esistenziale con il color rosso, così carico di vitalità. La visione della società norvegese e del mondo è vista attraverso un'ottica pessimistica e i suoi simboli si caricano delle ansie della morte. Egon Schiele (1890-1919), pittore e incisore austriaco, è considerato uno dei maggiori artisti figurativi del primo Novecento. Esponente dell’Espressionismo viennese, nonostante la sua breve vita, ci ha lasciato 340 dipinti e 2800 disegni. La sua ricerca artistica si articola in un'introspezione psicologica e nella comunicazione del disagio interiore attraverso i suoi numerosi ritratti. L’arte di Schiele ci consente di perderci nell’infinito esistenziale e di ritrovarci a tu per tu con il senso della vita, che sfugge a ogni ordine e si ferma nel magma emozionale di una macchia di colore. Amedeo Modigliani (1884-1920) è, invece, un artista predestinato a cadere vittima degli stupefacenti e ►

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dell’alcool a causa della sua fragile costituzione fisica e caratteriale. Nasce a Livorno nel 1884 e quando giunge a Parigi nel 1906, scopre un mondo che lo porterà a vivere una profonda metamorfosi artistica ed estetica. Conduce una vita bohémien, sregolata, dedito all’alcool, agli stupefacenti e alle donne e in perenne difficoltà economiche. Nel 1917 conosce Jeanne Hébuterne, diciannovenne artista molto dotata, e si innamorano perdutamente. A causa della loro vita sregolata, Modigliani si ammala di polmonite, dopo essersi attardato, ubriaco, sotto la pioggia. Perde coscienza nell’atelier e Jeanne, incinta di otto mesi, come impietrita dal dolore, lo veglia senza chiamare soccorsi: Modigliani verrà trasportato all’ospedale della Charité, dove muore il 24 gennaio 1920 per una meningite tubercolosa. Il giorno dopo i funerali di Modigliani, Jeanne Hébuterne si suicida. Ma è la follia che dà forma al genio o è il peso di una geniale creatività artistica che si traduce in psicosi? Esiste un confine tra furore artistico e squilibrio psichico? Queste domande mi portano ad analizzare una straordinaria personalità d’artista, quella di Antonio Ligabue (1899-1965). L’artista reggiano, vissuto lungamente a Gualtieri, ebbe un’infanzia di stenti. Antonio, inoltre, soffriva di rachitismo e sin da ragazzo manifestò i primi sintomi di nevrosi infantile. Cercò per tutta la vita di difendersi dalle aggressioni del mondo esterno, creandosi una serie di bizzarrie che gli precludevano un autentico rapporto con gli altri. Nel 1937 subisce il primo ricovero nel manicomio di San Lazzaro di Reggio Emilia. Era divenuto irascibile e violento e manifestava gesti autolesionistici e stati depressivi. A dicembre viene dimesso e rimandato a Gualtieri; il 23 marzo 1940 subisce un secondo ricovero per psicosi maniacodepressiva. Nel 1941 viene dimesso e ospitato dallo scultore Andrea Mozzali a Guastalla, dove riprende a dipingere con accanimento e furore creativo. Nel 1945 viene internato di nuovo nell’Ospedale Psichiatrico di Reggio Emilia. Dopo tre anni viene dimesso e trova rifugio nel ricovero per i poveri a Gualtieri; continua a dipingere, piano piano si fa conoscere e la sua fama si diffonde. Il 18 novembre 1962 viene colpito da una paresi e, dopo

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vari ricoveri, viene inviato infermo nella casa-ricovero per poveri a Carri di Gualtieri. Era divenuto un escluso e un reietto, un uomo-cane che viveva nei boschi di pioppi lungo gli argini del Po: frugava nei rifiuti e strappava al marciume qualche tozzo di pane, viveva solo, per amico qualche cane randagio con cui divideva il magro companatico. Era un’artista di pura creatività, dotato di un’energia grezza, dai suoi istinti di natura traeva forza per superare l’inerzia fatale della demenza, per saltare dall’indistinta ombra della follia ai colorati panici elementi della vita visionaria. I suoi autoritratti, oltre 130 dipinti, rivelano gli sgomenti e gli abissi della sua anima. La passionalità dei suoi colori e il dinamismo del suo disegno creano immagini di un mondo animale in cui Ligabue si identifica. C'è una costante ossessione dell’automutilazione e questo si può ritrovare come una sua ricerca di proiezione fuori di sé, un rigetto, come lui diceva, per fare uscire gli umori maligni. Da molte testimonianze è confermato che Ligabue dipingeva i suoi quadri migliori nei momenti di crisi più acuta, quando era turbato. Prima e durante la creazione artistica, mimava i movimenti ed i versi degli animali che veniva dipingendo sulla tela, con strane danze e con urla selvagge, esaltandosi ed eccitandosi, sempre più identificandosi, inestricabilmente ed irreparabilmente, con l’animale. Musicisti e follia. Ancora oggi la spiegazione scientifica dell’inafferrabile qualità del “genio” resta elusiva. Di tutte le arti la musica è quella che ha la maggior incidenza nell’animo umano, perché ha la capacità immediata di penetrare in noi, ma forse pochi sanno che dietro a certi geni musicali si nasconde la sofferenza interiore, il dramma della follia. Robert Schumann (1810-1856), musicista fra i più grandi e geniali, è uno degli esempi più fulgidi che si possono raccontare. La sua malattia, infatti, non può essere catalogata come una degenerazione naturale dell’intelletto: in lui vi era la classica vena di pazzia, probabilmente di carattere ereditario che si manifestò già verso i 20 anni e che gli lasciava momenti di grande lucidità alternati ad altri di completa follia. Schumann fu un artista

Figura 5.4 Sopra ritratto di Amedeo Modigliani, un artista predestinato a cadere vittima degli stupefacenti e dell’alcool a causa della sua fragile costituzione fisica e caratteriale.

passionale e la sua musica si inserisce a pieno titolo fra le creazioni più belle del romanticismo tedesco. La sua mente deperì rapidamente e la malattia gli causò difficoltà di eloquio, sensazioni e allucinazioni maniacali, angoscia e apatia. Ma era affetto anche da schizofrenia, che gli procurava allucinazioni acustiche, inoltre era obeso e iperteso, un forte bevitore di alcolici, fumava sigari e probabilmente anche narcotici. Molte lesioni organiche del cervello, tra le quali la sifilide, il morbo di Alzheimer e i tumori, a lungo andare alterano anche il comportamento e potrebbero effettivamente essere stati responsabili di alcuni dei suoi problemi mentali. Dal 1844 in poi la creatività di Schumann, nonostante le crisi depressive che insorgevano ad intervalli abbastanza frequenti, raggiunse vertici straordinari. La “Fantasia in Do maggiore” fu composta in cinque giorni, il concerto per violino in meno di due settimane. La stessa situazione psicologica si ri-


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scontra anche nel compositore russo Peter Ilyich Tchaikovsky (1840-1893) che, oltre ad essere una delle figure di maggiore rilievo del panorama musicale dell’epoca romantica, è anche il compositore più importante del balletto classico. Ma Tchaikovsky è anche una personalità molto interessante per chi si occupa di psicologia, perché fu un artista molto tormentato, un omosessuale sofferente di nevrosi ossessive e di una sindrome maniaco depressiva. Fin da bambino rivelò gravi tensioni emotive. Forse anche a causa degli intensi studi musicali a cui era sottoposto, si lamentava spesso di essere tormentato da musiche ossessive che gli opprimevano la testa per ore ed ore. La precoce scomparsa della madre, segnò il primo manifestarsi della depressione. Esasperato, Tchaikovsky tentò il suicidio, ma non morì e per giorni fu in preda a un delirio mentis. La terribile esperienza del matrimonio produsse nell’artista una frattura della personalità e cominciò a manifestare segni inequivocabili di una psicosi demenziale Cominciò un periodo di depressione in cui cominciò a dedicarsi all’alcool e agli stupefacenti. Intanto la sua celebrità si stava affermando in tutto il mondo e, pur vivendo in queste condizioni psicologiche così precarie, Tchaikovsky, seppe creare dei capolavori assoluti, componendo gli ultimi suoi eccezionali concerti, la Quarta e la Quinta Sinfonia, Ouverture, l’opera “La Maliarda”, la “Dama di Picche” e il balletto “Lo schiaccianoci”. Nove giorni dopo la prima assoluta della Sesta Sinfonia, la “Patetica”, che egli diresse a San Pietroburgo il 28 ottobre 1893, il grande musicista, provato e minato nel fisico per gli abusi di alcool e di stupefacenti e, soprattutto, malato nell'animo ipersensibile e fragilissimo, si suicida, avvelenandosi. Altri famosi compositori furono vittime dell’alcool. Ad esempio, Modest Musorgskij (1839-1881), uno dei massimi compositori russi, era stato un ufficiale dell’esercito e un funzionario ministeriale, ma la sua carriera fu stroncata dall’alcoolismo: morì di delirium tremens. Sergej Rachmaninov (1873-1943), grande compositore russo e sommo pianista, per tutta la vita manifestò sintomi di una grave malattia depressiva che rese difficile la sua carriera. Era così grato al

Il tema del numero

Anemos neuroscienze

VITA D'ARTISTA La testimonianza di Wiliam Tode

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a mia giovinezza non fu che un’oscura tempesta, traversata qua e là da soli risplendenti: tuono e pioggia l’hanno talmente devastata che non rimane nel mio giardino altro che qualche fiore vermiglio. Noi artisti vogliamo quel fuoco che ci arde nel cervello e ci tuffiamo nell’abisso, Inferno o Cielo, non importa. Giù nell’ignoto per trovarvi del nuovo! Quando il cielo basso e greve pesa come un coperchio sullo spirito che geme in preda a lunghi affanni, e versa, abbracciando l’intero giro dell’orizzonte, una luce diurna che scaturisce più triste della notte; quando la terra è trasformata in un’umida prigione dove, come un pipistrello, la speranza sbatte contro i muri con la sua timida ala picchiando la testa sui soffitti marcescenti, quando la pioggia, distendendo le sue immense strisce, imita le sbarre di un grande carcere, e un popolo muto d’infami ragni tende le sue reti in fondo ai nostri cervelli, improvvisamente delle campane suonano con furia e lanciano verso il cielo un urlo orrendo, simile a spiriti vaganti; e siamo senza patria, e ci mettiamo a gemere, ostinati. E lunghi trasporti funebri, senza tamburi né bande, sfilano lentamente nella mia anima vinta; la Speranza, piange; e l’atroce Angoscia, dispotica, pianta sul mio cranio chinato

suo psichiatra che gli dedicò il suo “Terzo Concerto per Pianoforte”. Anche Aleksander Skrjabin (18721915), grande compositore russo e compagno di studi al Conservatorio di Mosca di Rachmaninov, aveva da sempre problemi con l’alcool che risalivano ai suoi anni di gioventù.■

il suo nero vessillo. Questo sentire avviene quando la letteratura riflette lo stato d’animo e il carattere esistenziale di un determinato periodo di vita di un’artista, come il mio “Periodo Nero”, che germina dalla mia anima tormentata e assetata d’amore. Questa metamorfosi avviene inesorabilmente appena un anno dopo il mio ritorno a Roma, nel 1960, dopo il mio lungo soggiorno a Parigi con la sua esaltante esperienza cubista e con quei colori sfolgoranti, le tante amicizie e conoscenze di personalità prestigiose, come Braque, Picasso, Severini, Brancusi, Utrillo, March, Olivier Messiaen, Sartre, Rogé Vadim e tanti altri. Tutto quel mondo fiabesco andò in frantumi, inesorabilmente, e mi affogai nel limo tempestoso dei neri e delle terre d’Ombra bruciata, e la mia giovinezza sfiorì anzitempo nei meandri di un’anima oscurata dal dramma e dal dolore.

William Tode. Nato a Gonzaga (MN) nel 1938, è artista, scultore, storico dell'arte. Protagonista di una lunga e variegata attività artistica (anche come compositore e musicista). Ha conosciuto e frequentato grandi personalità della cultura del Novecento (da Picasso a Jean Paul Sartre, Bernard Buffet, Roger Vadim, il maestro della Nouvelle Vague). Ha lavorato, inoltre, con Vittorio De Sica e Luchino Visconti. Per una panoramica sulla sua vastissima attività si rimanda a www.williamtode.com.

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Filosofia Psicologia

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follia: un percorso

storico-filosofico

Il plurisecolare rapporto intrattenuto dal sapere psichiatrico col campo giudiziario in un'ottica storico-filosofica di Mauro Bertani

S parole chiave. Follia, psichiatria, giustizia Abstract. L'articolo è una ricostruzione storico-filosofica del secolare rapporto esistente tra sapere psichiatrico e campo giudiziario. In particolare vengono esaminate le modalità in base alle quali la psichiatria ha avviato il suo processo di insediamento all'interno del dispositivo giudiziario.

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toria della follia. La follia - e con essa i designatori (relativamente, secondo le epoche) rigidi con i quali è stata variamente nominata nel corso della storia - è stata anche quel che i nostri modi di apprensione e descrizione ne hanno fatto. E uno di quei modi è emerso nel punto di intersezione tra saperi medici e diritto, tra psichiatria e giustizia. Quel che segue non vuole essere altro se non un brogliaccio, non molto di più di un’accozzaglia di appunti e note per un lavoro ancora tutto da fare, relativo ad una possibile ricognizione su tali rapporti, e che si correla alla questione più generale della diagnosi (chi, dove, in che modo, perché, a quali condizioni, formula una diagnosi, decidendo cosa sia follia, nevrosi o psicosi, disturbo psichico, malattia mentale). È appena il caso di dire che sottoporre ipotesi ancora spurie e grezze come quelle che si leggeranno qui di seguito all’attenzione dei lettori implica innanzitutto la speranza di critiche acuminate e spietate da parte di chi al tema sia interessato. Insomma, nient’altro se non un modo per avviare una discussione. Quel che segue, dunque, non è che l’annuncio di una (sommaria)

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ricostruzione storico-filosofica del plurisecolare rapporto intrattenuto dal sapere psichiatrico col campo giudiziario, ricostruito beninteso a parte psichiatrica, ovvero dal punto di vista delle modalità in base alle quali la psichiatria ha avviato un lento processo di insediamento all’interno del dispositivo giudiziario e che (ma è una semplice ipotesi) potrebbero essere ripartite in base alla seguente scansione, che costituisce un capitolo del più ampio e generale “conflitto delle facoltà” descritto da Kant. È appena il caso di sottolineare che tutto quello che seguirà non è che una modesta glossa al lavoro di Foucault nel campo dei rapporti tra psichiatria e giustizia. "Normale" e "patologico" in medicina. La medicina - e in particolare quella che iniziava ad occuparsi delle alterazioni della mente, a tracciare anche in questo ambito la linea di separazione tra il “normale” e il “patologico” e a definire così un nuovo potere che avrebbe consentito di identificare e delimitare l’irregolarità, la devianza, la sragionevolezza, per arrivare infine alla criminalità - a partire dal XVI secolo, viene sempre più frequentemente convocata per giudicare le “deviazioni religiose”. Inizia


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così un processo destinato a ridefinire, attraverso l’esame della sottile superficie di contatto dell’anima con il corpo, la relazione tra inclusione ed esclusione, tra ammesso e rigettato, anche se è il corpo (nella e con la possessione diabolica) ad essere ancora considerato il luogo in cui può esplodere l’evento trasgressivo. Il problema, insomma, resta ancora quello del rapporto tra stregoneria ed eresia, per cui è soprattutto l’istituzione ecclesiastica a chiedere l’intervento dei medici nei processi per stregoneria e possessione diabolica, contro i parlamenti e le altre istanze della giurisdizione civile, che tentano di erodere le prerogative delle istituzioni religiose. La Chiesa, insomma, ha sollecitato un pensiero, quello medico, che un giorno, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, avrebbe ridotto l’intera esperienza religiosa all’immanenza della psicologia (e della psicopatologia). Assistenza psichiatrica. Il secondo grande momento segue di poco la nascita dell’alienismo come disciplina ed istituzione responsabile della presa in carico del “male mentale” all’interno di quelle istituzioni specializzate che saranno, a partire dall’inizio dell’Ottocento, i manicomi. L'asilo di Pinel è il luogo in cui viene messo in atto un modello puro di relazioni di potere: una struttura d'ordine, condizione tanto del trattamento quanto dell'osservazione e accumulazione di conoscenze, che organizza un regime di sorveglianza permanente e generalizzata - come nello schema messo a punto all'incirca alla stessa epoca da Bentham, anche se realizzato con altri mezzi - sotto quel “centro generale d'autorità”

Il tema del numero

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“The moment we want to say who somebody is, our very vocabulary leads us astray into saying what he is; we get entangled in a description of qualities he necessarily shares with others like him; we begin to describe a type or a "character" in the old meaning of the word, with the result that his specific uniqueness escapes us”

(H. Arendt, "The Human Condition", University of Chicago Press, Chicago & London 1958, p. 181) che è il medico, il quale ha il compito di organizzare l'intera vita dell'istituzione. Se infatti la malattia è disordine del pensiero causato dalle pressioni sociali o dallo sregolamento delle passioni, occorre innanzitutto sottrarre il malato a tali eccessi, inducendolo a riflettere sulla propria condizione, sostituendo “una passione reale ad una immaginaria”, e ciò potrà avvenire solo in un quadro rigorosamente regolamentato e gerarchizzato, in cui il medico, guadagnata la fiducia del malato, potrà esercitare la sua “influenza morale”, che non esclude il ricorso, accuratamente modulato, anche ai “metodi più vigorosi”. L'isolamento, tuttavia, non si giustifica solo in ragione della necessità di sottrarre i malati alle cause patogene esterne e di assicurare un contesto terapeutico idoneo. Sempre più, anzi, la reclusione dei folli negli asili verrà giustificata in nome di un'esigenza di “sicurezza” e di “difesa” sociale dal pericolo da essi rappresentato. È quanto emerge dalla legge del 30 giugno 1838, la cui architettura era stata delineata da Esquirol, da Ferrus e da Falret, e che delinea in Europa il primo coerente disegno di assistenza psichiatrica pubblica, definendone gli aspetti inestricabilmente medici, amministrativi e giudiziari. In essa si stabiliva che ogni dipartimento avrebbe dovuto essere dotato di uno stabilimento destinato ad accogliere e trattare gli alienati (in assenza di un istituto pubblico, avrebbero potuto essere stabilite convenzioni con stabilimenti privati), fissando due modalità d'internamento: quella forzata, detta anche volontaria, dietro domanda della famiglia o di terzi,

e quella d'ufficio, sotto la responsabilità dell'autorità prefettizia, affidando allo psichiatra un potere illimitato (temperato unicamente dalla sua competenza specifica) in relazione al destino dei malati affidatigli. Contemporaneamente, a partire dai grandi casi come quello di Pierre Rivière o di Henriette Corner, si era aperto in tutta Europa, con E. Georget, J. Metzger, J.-C. Hoffbauer, Ch. Marc, F.E. Fodéré, J. Orfila, ecc., il grande dibattito medico-legale sugli “individui pericolosi” che vedrà contrapposti alienisti e magistrati in relazione alla responsabilità e punibilità dei reati commessi da soggetti che al momento del delitto si trovavano “in stato di demenza”, e che vedrà emergere, grazie all'elaborazione della nozione di “monomania omicida” e di irresponsabilità dell'alienato, il processo di “patologizzazione del crimine” che costituisce uno dei primi eventi significativi nel processo di trasformazione della medicina mentale in igiene pubblica del corpo sociale, accompagnata dall'apparizione di strutture che condurranno alla nascita dei manicomi criminali. È l’epoca che vede la nascita di un nuovo dispositivo all’interno della pratica psichiatrica che verrà progressivamente incorporato all’interno della giustizia penale: la perizia psichiatrica. Tutto si gioca all’epoca della Restaurazione, a partire dai crimini “senza ragione”, quelli che per il sistema penale risultano - a causa della loro mancata corrispondenza ad una qualche meccanica degli interessi - “inintelligibili”, paralizzando così la messa in atto del potere di punire ed inducendo i giudici, come ha scritto M. Foucault ►

Figura 6.1 A fianco Philippe Pinel (1745-1826), medico e psichiatra francese. «L'asilo di Pinel è il luogo in cui viene messo in atto un modello puro di relazioni di potere: una struttura d'ordine, condizione tanto del trattamento quanto dell'osservazione e accumulazione di conoscenze, che organizza un regime di sorveglianza permanente e generalizzata».

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“a porre delle domande alla psichiatria” per produrre una “verità”, un “discorso di verità”, che procede da un sapere che rivendica di possedere uno “statuto scientifico”. Tutto ciò non si è fatto senza tensioni e contraddizioni, che hanno dato luogo ad un vero e proprio agone, tanto all’interno del campo psichiatrico quanto nei rapporti tra psichiatria e giustizia, che si scioglierà solo tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento.

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Figura 6.2 A fianco Jeremy Ben-

tham (1748-1832), filosofo e giurista inglese. Fu esponente dell'utilitarismo, corrente che influenzò lo sviluppo del liberalismo. L'immagine piccola ritrae Augusto Tamburini (1848-1919), medico e psichiatra italiano, decano della psichiatria italiana dell’epoca.

Psichiatria come "scienza di stato". È questa l’epoca della trasformazione del regime di verità richiesto alla (e dalla) psichiatria, e che si inquadra nel contesto più generale che sta provocando la mutazione della disciplina in vera e propria “scienza di Stato”, come la chiamerà il decano della psichiatria italiana dell’epoca A. Tamburini. Alla psichiatria - sempre più destinata a diventare sapere e tecnologia di controllo dell’anomalia e sempre più contrassegnata da un sostanziale pessimismo terapeutico a fronte della crescita dei fenomeni della cronicità - non si richiede più di stabilire la eventuale responsabilità e la conseguente punibilità dell’individuo, bensì di indagarne la personalità e di determinarne la pericolosità - il grado, le forme, la qualità - che finirà col rendere la perizia psichiatrica, nella gran parte dei casi, inevitabile, nella misura in cui compito della psichiatria è avviato a diventare sempre più quello di una difesa e di una protezione scientifica generalizzata della società, attraverso il “depistage” degli individui (e dei gruppi sociali) tarati e degenerati che rischiano di corrompere e ledere il corpo della nazione, la “salute” della società, la “forza dello Stato”. Le funzioni “biopolitiche” ormai assegnate alla psichiatria implicano che ad essa si chieda anche di rinforzare l’efficacia della giustizia consentendo di adattare la

pena non tanto all’atto commesso, bensì alla personalità del suo autore, ovvero di modulare la sanzione penale sulla base della personalità del colpevole, raddoppiando così “l’autore del delitto con il delinquente”, vale a dire qualcuno di cui si conoscono finalmente inclinazioni, disposizioni, virtualità, insomma la pericolosità a venire sulla cui base potrà venire organizzata la presa in carico penale, psichiatrica, o le due insieme. Come ha scritto Foucault, è diventato così possibile, in caso di condanna ad una pena perpetua, “trasporre direttamente nella sentenza giudiziaria una diagnosi medica o psicologica”, mentre in caso di una pena a termine si chiede “ad una pratica medica, psicologica, pedagogica, di dare un contenuto alla decisione giudiziaria che punisce”. Ruolo della psichiatria oggi. Oggi, infine, all’intervento nel campo legale (e sociale) della psichiatria e delle altre forme associate di sapere sull’“intelletto sano e sull’intelletto malato”, come scriveva F. Rosenzweig, si chiede di prendere parte all’allestimento di dispositivi di sicurezza che stanno ridefinendo le politiche penali insieme alle pratiche biopolitiche generali delle società neo-

Indicazioni bibliografiche

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Aut aut n. 346, 2010 Carceral Notebooks n. 4, 2008 R. Castel, L’ordine psichiatrico, Feltrinelli 1980 R. Castel, L’insécurité sociale, Seuil 2003 M. Foucault, Storia della follia, Rizzoli 1976 M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi 1976 M. Foucault, Io, Pierre Rivière, Einaudi 1976 M. Foucault, Gli anormali, Feltrinelli 1999 M. Foucault, Il potere psichiatrico, Feltrinelli 2004

D. Garland, The Culture of Control, Oxford University Press 2001 J. Goldstein, Console and Classify, Cambridge University Press 1987 J. Simon, Governining Through Crime, Oxford University Press 2007 L. Wacquant, Punir les pauvres. Le nouveau gouvernement de l’insécurité sociale, Agone 2004

liberali. Tale dispositivo, infatti, sembra non mirare più alla identificazione e determinazione - ai fini della sanzione - di un’infrazione, bensì alla messa in atto dei meccanismi capaci di (1) prendere in carico ed eventualmente emendare/ riformare un individuo, ma soprattutto (2) di farsi carico della prevenzione di un rischio, di individuare - attraverso la sua predizione/anticipazione - una potenzialità di pericolosità e di gestire il rischio da essa costituito. La psichiatria, e con essa sempre più le neuroscienze, sono oggi convocate a diventare parte integrante delle tecnologie associate al principio di precauzione destinato a annientare la minaccia di un’anomalia diventata assolutamente “normale” che ne sta modificando alla radice la natura e le modalità di funzionamento. Ma qui mi interrompo, dal momento che entriamo nell’ambito della diagnosi del nostro presente e quel che mi sono impegnato a fare è invece solo una modesta ricognizione storica, rimarcando che si tratta solo di ipotesi che si tratterebbe, eventualmente, di discutere, o di mettere alla prova - della ricerca storica effettiva. ■ Mauro Bertani. Storico della filosofia e della psichiatria, fa parte dell'équipe dei curatori dei corsi al Collège de France di Michel Foucault. Oltre a vari saggi usciti in volumi collettanei, insieme ad altri ha pubblicato la raccolta "La psicoanalisi e l'antisemitismo" (1999) e i due volumi di "Psiche. Dizionario storico di psicologia, psichiatria, psicoanalisi, neuroscienze" (2006 e 2007). È stato tra i fondatori del Centro di documentazione di storia della psichiatria presso il San Lazzaro di Reggio Emilia, del cui comitato scientifico ha fatto parte fino alla sua recente chiusura. È docente di filosofia e storia, consulente per la saggistica di una casa editrice e collaboratore di varie riviste e siti internet.


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Anemos neuroscienze

Il tema del numero

ALTRI APPROFONDIMENTI Speciale

Rita Levi Montalcini

La vita di una delle piĂš grandi personalitĂ scientifiche del Novecento, tra impegno civico e ricerca scientifica

Pagina 50 L'impegno civico

Pagina 52 Pioniere delle moderne neuroscienze

Pagina 59 La scelta della ricerca

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UN RICORDO DI Rita

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ita Levi Montalcini di Daria Visintini

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parole chiave. Rita Levi Montalcini, Torino, ricordo, cronassia Abstract. Il testo è un ricordo di Daria Visintini, figlia di Fabio Visintini, amico e collega di Rita Levi Montalcini nel periodo in cui entrambi hanno lavorato alla clinica Neurologica di Torino. La testimonianza ripercorre il periodo torinese, gli anni difficili della guerra e la partenza per l'America.

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l periodo a Torino. Ho accolto l'invito ad unire un mio contributo ad una raccolta di scritti commemorativi sulla figura di Rita Levi Montalcini per l'amicizia tra lei e mio padre, Fabio Visintini, creatasi nel periodo torinese della loro carriera, negli anni 19371940, prima dello scoppio della guerra. Rita Levi Montalcini, infatti, dopo il corso di laurea si era iscritta alla scuola di specializzazione di Neurologia e Psichiatria nella clinica Neurologica di Torino, diretta da Ernesto Lugaro. Già orientata nello studio delle funzioni nervose, l'ambiente della clinica le era stato suggerito dal suo maestro, Giuseppe Levi, il quale condivideva con Lugaro la piena insofferenza nei confronti del regime fascista, che ormai da anni portava la sua discriminazione nei giudizi favorevoli o meno alla promozione delle carriere. Rita e mio padre si conobbero sulla soglia dell'istituto, introdotti dai loro rispettivi maestri, per un progetto di studio morfologico e funzionale sulle fibre nervose in vari stadi di sviluppo dell'embrione di pollo. La ricerca si basava sull'analisi istologica al microscopio delle fibre nervose evidenziate con il metodo dell'impregnazione argentica e lo studio elettrofisiologico della contrattilità dei tessuti. I primi risultati delle loro indagini vennero pubblicati nel 1938 e su un giornale svizzero nel 1939: dimostravano che la motilità embrionale in un em-

brione di 4 giorni era neurogena e non miogena come altri sostenevano. Gli studi sullo sviluppo del sistema nervoso negli embrioni di pollo venivano portati avanti in quel periodo da un allievo di Spemann, Viktor Hamburger. Dopo la fine della guerra, nel 1947, Rita Levi Montalcini fu invitata da Hamburger a proseguire i suoi studi nel dipartimento di Zoologia dell'Università di Washington allora da lui diretto. La partenza. Dopo la promulgazione delle leggi razziali nel 1938, l'atmosfera nella clinica di Torino non era più la stessa. Il calore dell'amicizia, l'apertura della casa di famiglia e l'ospitalità affettuosa di Lugaro e Visintini non erano sufficienti a fugare le inquietudini che un soggetto “non ariano” provava di fronte ai primi atteggiamenti pubblici discriminatori e minacciosi. Si temeva anche in clinica la possibilità di eventuali delazioni. Il Prof. Levi e la sua giovane allieva emigrarono in Belgio, ma dopo l'invasione nazista di quel paese nel 1940, tornarono a Torino. A dispetto delle leggi razziali, Torino per Rita rappresentava allora la possibilità di essere sostenuta nell'ambito della ricerca che lei perseguiva con intuizioni ed argomenti incontrovertibili. Il clima politico e persecutorio era ormai molto avanzato. Era impossibile proseguire le ricerche in collaborazione in clinica. Rita proseguì gli studi

morfologici in un laboratorio clandestino “installato in camera da letto”. Al momento del distacco, a Rita rimase impresso questo ricordo: “Fabio mi regalò una copia del suo volume sulla cronassia con una dedica dal sapore biblico che mi lusingò molto: a Rita che come Maria si impegna, a differenza di Marta, in concetti di alto valore intellettuale”. La cronassia era l'ingegnosa tecnica allora disponibile con la quale avevano controllato le funzioni neuromotorie nei loro esperimenti. Nel 1941 Rita fu costretta a scegliere la fuga, organizzata dal fratello, attraverso l'Italia in guerra insieme alla sua famiglia. I ricordi. Dopo la guerra dalla clinica Neurologica di Torino partirono molti giovani scienziati per l'America: Aimone Marsan, Fuortes, Rita Levi Montalcini. C'era un rito di auguri ed addii alla stazione di Porta Nuova. Io mi ricordo la festosità di quei momenti, con noi bambini che coglievamo l'ultima occasione di giochi tra le banchine dei treni. Dopo il suo ritorno in Italia, mio padre e Rita Levi Montalcini si rividero a cena in casa di amici comuni a Roma. Chi era presente mi descrisse il loro incontro come illuminato da una affettuosa complicità su memorie lontane. Durante un convegno di commemorazione a Genova dedicato a mio padre nel 2002, Rita Levi Montalcini rievo- ►

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L'impegno civico della Montalcini

►cò l'atmosfera domestica torinese,

accennando alla presenza di due piccole bambine: una, la maggiore, scontrosamente attaccata al padre del quale rivendicava la proprietà “il papà è mio...”, l'altra, la più piccola, a cui evidentemente era stata fatta una “violazione di legittima paritetica proprietà” cercava di ottemperare alla situazione, esclamando allegramente: “e io sono mia...”. Doveva essere il 1939 o il 1940. La labilità dei ricordi della prima infanzia si confonde con la maliziosa rievocazione di Rita Levi Montalcini. Il ricordo della partenza da Torino lo descrisse con altri particolari e con nostalgia commovente. Gli ultimi anni. La incontrai negli ultimi anni in occasione di congressi di neurologia. Aveva ormai quell'aspetto etereo e fragile a cui l'età l'aveva consegnata, ma ogni sua frase, ogni commento sulla realtà che la circondava, tradiva la fermezza coraggiosa di un animo reso grande dalla conoscenza e da un'etica assunta dall'esperienza, e non certo dai compromessi. Mi disse un giorno, seduta accanto a me in sala, quasi come per difendere un retaggio di consuetudini personali: “io oramai Daria sono una donna pubblica e quello che posso ottenere è quanto ne deriva”. Le sue iniziative e la sua generosa dedizione hanno ottenuto da questo suo ruolo più del prevedibile. È un patrimonio ideale difficile da sostenere, come tutte le cose belle e giuste in questa società umana.■

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Daria Visintini. Laureata in Medicina e Chirurgia. Specializzazione in Clinica delle malattie nervose e mentali e specializzazione in Farmacologia clinica. Nominata contrattista clinica nel 1974, iniziò la sua carriera universitaria nella Clinica Neurologica a Parma nel 1992 come professore associato di neurologia. Dal 1981 al 1986, in qualità di responsabile per la provincia di Parma, organizzò lo studio nazionale multicentrico epidemiologico di tipo caso-controllo sulla Sclerosi Multipla. Dal 1981, fino alla pensione nel 2003, fu responsabile per l’ambulatorio per le malattie demielinizzanti della Clinica Neurologica. Prosegue l’attività come medico con prestazioni di volontariato e di libera professione.

di Albertina Soliani Parola chiave. Rita Levi Montalcini, EBRI, ricerca, Senatrice a vita Abstract. La testimonianza diretta della Senatrice Albertina Soliani, amica e collega in Senato. Un ricordo che abbraccia i diversi campi della vita di Rita Levi Montalcini e del suo impegno verso gli altri, dall'impegno profuso nella Fondazione da lei creata, l'EBRI (European Brain Research Institute), all'impegno politico come Senatrice a vita.

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isinteressatevi di voi stessi e pensate agli altri. La vita di Rita Levi

Montalcini è una parte molto importante della forza, della dignità del nostro Paese e non solo. Sarebbe bastata, da sola, la sua dedizione alla ricerca che l’ha portata al Premio Nobel nel 1986, e che continuò fino alla morte accanto ai giovani ricercatori del suo Istituto, l’EBRI, a renderla una persona straordinaria. In realtà il suo spirito era sempre orientato agli altri e agli altri era dedicato il suo impegno. Pensare agli altri, non a se stessi, era il segreto della sua esistenza. Diceva ai giovani “disinteressatevi di voi stessi e pensate agli altri”. Così, dopo aver sognato di lavorare in Africa sulle orme di Albert Schweitzer, diede vita alla Fondazione per la formazione di migliaia di donne africane. Con grande lungimiranza volle aiutarle in Africa, perché ne diventassero protagoniste dello sviluppo. Aveva compreso che il futuro strategico del continente africano passa attraverso l’istruzione delle donne. Identificava con grande naturalezza il suo destino con quello dell’umanità. Ed era sostenuta, in questo grande e quotidiano impegno, da una visione profondamente ottimistica, da una grande fiducia nel futuro. Era convinta che i periodi difficili, e ne aveva attraversati, dalle leggi razziali all’aiuto da lei dato alla Resistenza, “possono portare grande progresso”. Una visione di grandissima forza morale e intellettuale, il suo più grande insegnamento rivolto a noi, che viviamo tempi difficili, con l’orizzonte breve e incerto, e rivolto ai giovani alle prese con un presen-

te e un futuro di scarse prospettive. “Non abbiate paura neanche nei momenti difficili, perché, come è successo anche a me, dopo, verranno tempi migliori”. Il suo messaggio rovescia il nostro pessimismo, ci dà la chiave per modificare la nostra cultura, ci consegna la speranza in un mondo nuovo e ci indica la strada. Rita Levi Montalcini ha contato solo sulle sue forze, con rigore e con passione. Questo è il suo insegnamento più radicale, capace di farci prendere in mano il nostro destino.

EBRI. La sua Fondazione, l’EBRI

(European Brain Research Institute) è un centro internazionale dedicato allo studio del cervello a partire dalle molecole fino ai processi mentali. Il suo scopo è quello di acquisire conoscenze scientifiche sui meccanismi molecolari delle malattie neurologiche psichiatriche e di individuare nuove possibili strategie terapeutiche. Ha sede a Roma e impiega circa cinquanta ricercatori e tecnici. Tale aggregazione costituisce il centro di studio sul cervello con la più alta concentrazione di studiosi in Italia. Le attuali tematiche di studio dell’EBRI riguardano i meccanismi che sono alla base della morte e della sopravvivenza delle cellule nervose come ad esempio nel morbo di Alzheimer, i meccanismi di rigenerazione dopo lesioni traumatiche e da ischemia del cervello con le relative terapie, i fattori ambientali che modificano i circuiti cerebrali che sono importanti per lo sviluppo, il mantenimento ed il recupero delle capacità funzionali del nostro cervello. Gli studi utilizzano le più avanzate tecniche di


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Figura 7.1 Sopra immagini della vita politica di Rita Levi Montalcini. Nell'immagine a fianco l’EBRI (European Brain Research Institute), un centro internazionale dedicato allo studio del cervello fondato dalla scienziata.

visualizzazione delle strutture nervose, di gnomica e di proteomica. È sulla base della scoperta del Nerve Growth Factor (NGF), fattore scoperto da Rita Levi Montalcini per la quale le è stato assegnato il Premio Nobel, che la ricerca del suo Istituto ha avuto un grande sviluppo. È a questa ricerca che ora guardano con grande interesse i Paesi emergenti, e in particolare la Cina.

L'impegno nella ricerca. Il suo impegno per la ricerca, un impegno totale nella sua vita, nasce da due convinzioni profonde: “Deve essere considerato come obbligo morale di tutti gli individui, sia come esseri umani e ancor più in qualità di scienziati ed educatori, il compito di affrontare le problematiche che affliggono l’intero genere umano usando al massimo grado le capacità raziocinanti in loro possesso, anche quando questo dovesse significare lottare contro interessi prestabiliti dalle sfere di influenza vincolate a quelle del potere. Alle facoltà cognitive spetta il compito di avvalersi delle conoscenze per un’indagine sempre più approfondita del mondo circostante e quello di esercitare un controllo sul comportamento emotivo per arginare i pericoli in continuo crescendo. Il legame tra scienza e valori etici deve essere consolidato, soprattutto se gli scopi della scienza sono perseguiti nella difesa della vita dell’individuo come scritto nel giuramento di Ippocrate. La specie umana non soltanto è responsabile, a differenza di tutte le altre specie viventi, di se stessa e per se stessa, ma possiede la facoltà di controllare e dirigere le proprie azioni”.

La passione per la vita e per l’umanità, il rigore intellettuale alimentato dalla scienza, la forza morale della sua coscienza laica, la sua generosità nello spendersi per la vita civile, per la democrazia e per la Repubblica si influenzarono profondamente. Difficile distinguerli, nell’armonia rivelata dalla chiarezza del pensiero, dalla semplicità del linguaggio, dallo stile dei gesti e del portamento.

Senatrice a vita. Era scritto, nel suo destino, che gli ultimi anni della sua vita coincidessero, in maniera ancora più profonda, con il destino dell’Italia. Quando il Presidente Ciampi le comunicò nel 2001 di averla nominata Senatrice a vita, tutti pensarono ai suoi altissimi meriti in campo scientifico, come prevede la Costituzione (art. 59), ma nessuno poteva immaginare che Rita Levi Montalcini non solo avrebbe adempiuto alla sua funzione pubblica “con disciplina e onore” (art. 54), ma avrebbe dato testimonianza di coraggio e determinazione nell’Aula del Senato della Repubblica in momenti difficili e, a volte, drammatici sostenendo il Governo del suo Paese che amava. Io sono stata testimone della sua presenza nell’Aula del Senato, seduta accanto a lei. Il 14 novembre 2007, nel corso di una di queste drammatiche sedute, rivolse a me questa domanda: “Cosa possiamo fare per aiutare il Governo?”. E alla risposta ricevuta “resistere”, così replicò: “No, combattere”. E aggiunse: “È impressionante lo spreco di tempo e di risorse”. E quando non le risparmiavano ingiurie, diceva: “Sono come l’acqua sulle penne dell’anitra”, scivolano via. Quando compì 99 anni,

come tutti i giorni si recò al suo laboratorio di ricerca, dove brindò con i suoi giovani ricercatori, ricevette messaggi di auguri da parte di personalità di tutto il mondo, e poi andò a Palazzo Chigi invitata dal Presidente Prodi, che era agli ultimi giorni del suo Governo, dove festeggiammo con un brindisi: ad una grande donna, ad una grande italiana, ad una grande scienziata, ad una grande combattente per la libertà. Ci ha insegnato a fare della nostra vita un dono agli altri. Senza risparmio e con gioia. Ha continuato a cercare per tutta la vita scegliendo il campo privilegiato per la semina: i giovani e le donne, la scienza e il bene dell’umanità. Quando se ne andò, e venne portata a Palazzo Madama per l’estremo saluto, una grandissima folla era ad attenderla, e ad applaudirla, sulla strada. E così al Cimitero Monumentale di Torino, due giorni dopo. Molte persone, molti giovani vollero essere accanto a lei che era, e resterà per sempre, un grande punto di riferimento morale, un simbolo dell’Italia migliore.■

Albertina Soliani. Laureata in Pedagogia, è stata insegnante e direttrice didattica. Formata nell'ambito dell'Azione Cattolica, è stata iscritta alla Democrazia Cristiana ed è diventata segretaria provinciale del Partito Popolare Italiano. Coordinatrice regionale per l'Emilia Romagna dei Democratici, è stata tra i fondatori del settore scuola, di cui ne è la Responsabile nazionale. Senatrice nella XIV legislatura, è stata rieletta nella XV legislatura. Nella XVI legislatura è stata componente della XIII Commissione (territorio, ambiente e beni ambientali) e della XIV Commissione (politiche dell'Unione europea).

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Rita Levi Montalcini

Pioniere delle moderne Neuroscienze di Mario Santangelo App 3 parole chiave. Rita Levi Montalcini, NGF (Nerve Growth Factor), sclerosi multipla Abstract. Il testo ripercorre la vita di Rita Levi Montalcini e le sue scoperte in ambito neuroscientifico. In particolare l'autore si sofferma sulla sua scoperta più importante, il Nerve Growth Factor (NGF), che ha scardinato quello che allora era il dogma centrale delle neuroscienze: l'incapacità del cervello adulto di rigenerarsi.

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ita Levi Montalcini era solita dire: “Il cervello è ciò che un essere umano ha di più importante. Tutto il resto, il corpo, non è che un supporto necessario a tenerci in vita e a far funzionare quella macchina straordinaria che ci rende diversi da tutti gli altri esseri viventi e che resta a oggi la cosa più complessa che conosciamo nell’universo”. Note biografiche. Rita Levi Montalcini era nata a Torino il 22 aprile 1909 insieme alla sorella gemella Paola, in una famiglia ebrea sefardita. All'età di 20 anni entrò alla scuola medica, contro il volere del padre, diretta dall'istologo Giuseppe Levi, dove iniziò gli studi sul sistema nervoso. Nel 1936 Rita Levi Montalcini si laureò in Medicina e Chirurgia con 110 e lode; successivamente si specializzò in Neurologia e Psichiatria. Amica d’infanzia, nonchè collega di studio, di Salvador Luria e Renato Dulbecco, a loro volta insigniti del Nobel: i magnifici tre. Il “Manifesto per la difesa della razza” del 1938 costrinse la Montalcini insieme a Giuseppe Levi ad emigrare in Belgio; fu ospite dell'Istituto di Neurologia dell'Università di Bruxelles dove continuò gli studi sul differenziamento del sistema nervoso. Poco prima dell'invasione del Belgio (1940) da parte dei tedeschi tornò a Torino, dove allestì un laboratorio domestico, situato nella sua camera da letto, per proseguire le sue ricerche sul sistema nervoso degli embrioni di pollo. Nel 1943 fu costretta a rifugiarsi a Firenze; alla fine della guerra nel ‘45 tornò alla sua città natale dove riavviò, insieme a Levi, un laboratorio casalingo in una collina vicino ad Asti.


La scoperta del NGF. Nell’estate del 1940 la Montalcini, leggendo un lavoro di Vicktor Hamburger, il maggior esperto dell’epoca nell’utilizzo degli embrioni di pollo per lo studio dell’embriologia del sistema nervoso, decideva che tali esperimenti costituivano la base ideale per le possibilità del suo laboratorio domestico. L’esperimento prevedeva l’amputazione degli abbozzi di ala nell’embrione di pollo di tre giorni. Dopo 17 giorni gli embrioni di pollo venivano sacrificati, un embrione al giorno, per fissare e studiare al microscopio il midollo spinale. L’osservazione del preparato al microscopio dimostrava l’assenza dei neuroni motori preposti all’innervazione delle ali. Nel 1927 Hamburger era arrivato alla conclusione che lo sviluppo del sistema nervoso fosse influenzato da segnali provenienti dai tessuti circostanti, in grado di indirizzare la differenziazione dei neuroni, la crescita delle fibre nervose e l’innervazione degli organi; attribuiva al territorio stesso da innervare un ruolo attivo. Secondo questa ipotesi le fibre nervose in crescita ed espansione “sentivano” la dimensione e si comportavano di conseguenza (studio pubblicato nel 1934). Invece, Montalcini e Levi concludevano che i neuroni si erano divisi, avevano iniziato il processo di crescita e migrazione delle fibre e poi erano morti. Avevano, quindi, stabilito, in un laboratorio domestico, il principio della morte neuronale quale elemento normale dello sviluppo nervoso. I risultati di questo lavoro vennero pubblicati in Belgio nel 1943 sulla rivista «Archives de Biologie». Nel 1946 il biologo Viktor Hamburger, dopo aver letto il lavoro pubblicato da Montalcini e Levi, la invitò a St. Louis; le fu assegnata la cattedra di docente del corso di Neurobiologia al Dipartimento di zoologia della Washington University. Verso la fine del 1947, la Montalcini dimostrò definitivamente il fenomeno, già osservato con Giuseppe Levi, della morte cellulare nei neuroni programmati per afferire ad un determinato territorio embriologico in corso di sviluppo ma asportato

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sperimentalmente. Questo indicava chiaramente che la regione anatomica asportata regolava in qualche modo, ancora sconosciuto, la proliferazione e lo sviluppo cellulare del tessuto nervoso destinato ad innervarlo. Nello stesso periodo un dottorando di Hamburger (Elmer Bueker) iniziava gli esperimenti d’innesto del sarcoma 180 (S180) murino in embrioni di pollo. Questi studi portano alla scoperta che il sarcoma (S180) veniva raggiunto da una intensa proliferazione di fibre nervose emergenti dai gangli vicini. Hamburger descrisse le indagini del suo allievo alla Montalcini, che decise di riprodurle su scala più ampia e con tecniche istologiche più sofisticate. Le ricerche della Montalcini confermarono i risultati, evidenziando altri aspetti del fenomeno: gli stessi gangli diventavano ipertrofici rispetto ai gangli controlaterali dell’arto non innestato con l’S180; l’ipertrofia dei gangli era sei volte maggiore di quella tipica, legata al trapianto di un arto soprannumerario e quindi non riconducibile al trapianto; che non era limitato soltanto ai gangli situati in prossimità del sarcoma 180 ma interessava i gangli dell’intera catena simpatica. La distribuzione e la diffusione delle fibre nervose nel sarcoma innestato era casuale, quindi non conduceva ad un’effettiva connessione con le cellule tumorali, come al contrario avviene tra fibre nervose e tessuti embrionali in fase di sviluppo. Inoltre, osservava un importante deriva delle normali traiettorie embriologiche; le fibre del sistema nervoso simpatico penetravano nella cavità delle vene ostruendo la circolazione. Fu soprattutto quest’ultima evidenza a suggerire alla Levi Montalcini l’idea che l’effetto del sarcoma 180 fosse dovuto al rilascio delle cellule tumorali di qualche sostanza diffusibile in grado di stimolare la differenziazione e la crescita delle cellule nervose recettive alla sua azione. Questa ipotesi di lavoro si scontrava con i principi di base dell’embriologia dell’epoca, secondo i quali la differenziazione delle cellule era guidata esclusivamente dal programma genetico. Il contenuto decisamente rivoluzionario di queste ipotesi di lavoro era

Figura 8.1 In alto Vicktor Hamburger. Amputando le ali di embrioni di pollo, aveva notato nel midollo spinale, dopo la nascita, la mancanza dei neuroni motori preposti all'innervazione delle ali. Nel 1927 Hamburger era arrivato alla conclusione che lo sviluppo del sistema nervoso fosse influenzato da segnali provenienti dai tessuti circostanti, in grado di indirizzare la differenziazione dei neuroni, la crescita delle fibre nervose e l’innervazione degli organi; attribuiva al territorio stesso da innervare un ruolo attivo. alla base del clima di freddezza e scetticismo con cui fu accolta la comunicazione dei risultati dei suoi studi alla New York Accademy of Science nel dicembre 1951. Dalla collaborazione con Stanley Cohen, biochimico che le era stato affiancato da Hamburger nel 1953, si arrivò ad identificare e isolare una frazione nucleo-proteica tumorale in grado di stimolare la crescita nervosa, che venne chiamata Nerve Growth Factor (NGF). Rimaneva da accertare se l'attività fosse esplicata dall'intera frazione nucleoproteica o da una delle due componenti: nucleica o proteica. Cohen chiese un parere ad un biochimico esperto di enzimi (Arthr Kornberg) che suggerì di utilizzare il veleno di serpente, in grado di de- ►

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Ricerche Neuroscienze gradare gli acidi nucleici. L’utilizzo del veleno produsse un risultato inatteso, determinando una crescita stupefacente del tessuto nervoso, equiparabile a quella indotta dal sarcoma S180. Nel veleno di serpente il fattore “neurotrofico” era maggiore di circa 1000 volte, quindi divenne possibile identificare e caratterizzare una molecola proteica chiamata NGF, di cui venne determinato sia il peso molecolare che le proprietà fisico - chimiche. Negli anni successivi (1958) venne scoperta un’altra ricca sorgente di NGF nelle ghiandole sottomandibolari del topo. Vennero determinati i meccanismi d’azione dell’NGF, l’azione sul sistema nervoso centrale e sui restanti sistemi. Dal 1958 Rita Levi Montalcini divenne professore ordinario di zoologia presso la Washington University di St. Louis. Responsabile dal 1962 al 1969 del Centro di Ricerche di Neurobiologia del Consiglio Nazionale delle Ricerche e successivamente fino al 1979 del Laboratorio di Biologia cellulare. Nel 1986 venne assegnato il Premio Nobel per la Fisiologia e la Medicina a Rita Levi Montalcini per la scoperta del Nerve Growth Factor (NGF) e allo statunitense Stanley Cohen per la scoperta dell'epidermal growth factor (EGF). Nella motivazione del ri-

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conoscimento si legge: “La scoperta del NGF all'inizio degli anni '50 è un esempio affascinante di come un osservatore acuto possa estrarre ipotesi valide da un apparente caos. In precedenza, i neurobiologi non avevano idea di quali processi intervenissero nella corretta innervazione degli organi e tessuti dell'organismo”. La ricerca. L'EBRI (European Brain Research Institute) nasce da una proposta fatta dalla stessa Montalcini alla conferenza di Confindustria a Cernobbio nel 2001. Nel 2005, dopo aver selezionato dei giovani ricercatori provenienti da tutto il mondo, l'EBRI inizia la propria attività, presso la sede di Roma. “Mi sono chiesta: in che cosa l'Italia ha sempre primeggiato? Nelle neuroscienze. Nel Settecento Galvani e Volta scoprirono l'elettricità animale; a fine Ottocento Golgi inventò la colorazione con l'argento delle cellule nervose; Vittorio Erspamer riuscì a isolare la serotonina e altri neurotrasmettitori e Giuseppe Levi, il mio professore, fu tra i primi a sperimentare la coltura in vitro”. Nel 1992, assieme alla sorella gemella Paola, istituì la Fondazione Levi Montalcini, in memoria del padre, rivolta alla formazione e all'educazione dei giovani, nonché al conferimento di borse di studio a studentesse africane a livello universitario. “L'obiettivo è quello di creare una classe di giovani donne che svolgano un ruolo di leadership nella vita scientifica e sociale del loro paese. In Africa ci sono migliaia di donne intelligenti che non hanno la possibilità di usare il cervello. Tutto quello per cui mi impegno in Africa [con la Fondazione Rita Levi Montalcini] è l'istruzione”. Il 1° agosto 2001 Rita Levi Montalcini venne nominata Senatrice a vita dall’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi per gli “altissimi me-

riti in campo scientifico”. È stata la prima donna ad essere ammessa alla Pontificia Accademia d’Italia delle Scienze. Rita Levi Montalcini ha sempre avuto un’attenzione ed un ruolo particolare nella lotta alla sclerosi multipla, collaborando in modo attivo e propositivo con l’Associazione Italiana Sclerosi Multipla (AISM), di cui ricoprì prima il ruolo di presidente nel 1983 e poi di Presidente Onorario dal 1986 in poi. È sempre stato un punto di riferimento scientifico e carismatico per il “mondo” laico e medico della sclerosi multipla; ripeteva: “troveremo la luce in fondo al tunnel”. Sostenne il “Progetto Scuola” con l’obiettivo di sensibilizzare le giovani generazioni e l’iniziativa di “Trenta ore per la vita”, quale modalità per avvicinare la scienza alla gente. Dal 1999 l’AISM ha istituito il Premio Rita Levi Montalcini per riconoscere l’attività di giovani studiosi italiani che si dedicano alla ricerca scientifica sulla sclerosi multipla, con valenza nazionale e internazionale. Tale premio nel corso degli anni è stato conferito a ricercatori che successivamente sono entrati a pieno titolo a far parte degli opinion leader del settore; giusto per ricordarne alcuni: Martino, Uccelli, Filippi, ecc. “Il segreto per vincere la sclerosi multipla è lavorare tutti assieme, nei laboratori e fuori”. NGF: attività biologica e implicazioni. La scoperta del Nerve Growth Factor (NGF) scardina il dogma centrale nel campo delle neuroscienze: l'incapacità del cervello adulto di rigenerarsi (Cajal 1928). La neurogenesi adulta si verifica in almeno due regioni del cervello dei mammiferi: l'ippocampo e la zona subventricolare (SVZ) lungo le pareti di ventricolo laterale (Gage 2000). Il regista di questa neuroplasticità è

Figura 8.2 Rita Levi Montalcini dalla collaborazione con Stanley Cohen, biochimico che le era stato affiancato da Hamburger nel 1953, arrivò ad identificare e isolare una frazione nucleo-proteica tumorale in grado di stimolare la crescita nervosa, che venne chiamata Nerve Growth Factor (NGF). Stanley Cohen nel 1986, insieme a Rita Levi Montalcini, ricevette il premio Nobel per la Fisiologia e la Medicina.


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LA SCOPERTA

La scoperta del Nerve Growth Factor (NGF) scardina il dogma centrale nel campo delle neuroscienze: l'incapacità del cervello adulto di rigenerarsi.

proprio il Nerve Growth Factor. La sua scoperta è stata caratterizzata da una combinazione rara di ragionamento scientifico, intuizione, e caso, “l'occasione favorisce solo la mente che vi è preparata”, citando Louis Pasteur. L’attività biologica del NGF è regolata da due diversi tipi di recettori espressi dalle cellule bersaglio: un recettore ad alta affinità (TrkA) che appartiene alla famiglia dei recettori tiroxina chinasi ed un recettore a bassa affinità p75NTR, una glicoproteina transmembrana in cui manca il dominio della tiroxina chinasi (Ebendal 1992; Meakin e Shooter 1992; Casaccia e Bonnefil 1999). L’espressione del NGF/TrkA sulle cellule bersaglio esercita, nella maggior parte dei casi, un’azione di protezione verso le malattie che comportano degenerazione. Infatti, in queste patologie viene ad essere alterato questo processo di neuroprotezione attraverso vari meccanismi: ridotto rilascio di NGF, sottoregolazione del recettore ad alta affinità, TrkA e/o up-regulation p75NTR. Dopo la scoperta del fattore di crescita NGF, sono state identificate altre proteine strutturalmente correlate, che costituiscono la famiglia delle neurotrofine: BDNF (brain-derived neurotrophic factor); neurotrofina-3 (NT-3);

neurotrofina-4/5 (NT-4/5) (Barde et al. 1983); neurotrofina-6 (NT-6); neurotrofina-7 (NT-7) (Aloe e Calzà 2004). Le neurotrofine regolano anche la sopravvivenza e la differenziazione di cellule staminali neurali adulte a livello del giro dentato della circonvoluzione dell'ippocampo e nella zona subventricolare (SVZ). Studi condotti negli ultimi anni hanno dimostrato un ampio ed inaspettato spettro d’azione del NGF, indicando che l'effetto del NGF sulle cellule del sistema nervoso centrale e periferico è solo una delle sue molteplici azioni biologiche. Cellule “imprevedibili”, come mastociti, linfociti, cellule del tessuto adiposo, cellule beta del pancreas e cellule del follicolo pilifero, possono essere sorgente e bersaglio del NGF (Aloe e Levi-Montalcini 1977; Laurenzi et al. 1994; Aloe et al. 1994; Sornelli et al. 2009; Chaldakov et al. 2009). Nel 1977 era stato dimostrato che l’inoculazione di NGF in animali di laboratorio aveva prodotto un incremento e un'ipertrofia dei mastociti, cellule immunocoprenti ubiquitarie; questo suggerisce una connessione tra il sistema nervoso e il sistema immunitario (Aloe 1977). È riduttivo chiamarlo solo “fattore di crescita dei nervi”, NGF è in realtà un modulatore che agisce in modo sinergico sui tre si-

stemi (nervoso, immunitario, endocrino) da cui dipende l’omeostasi dell’organismo. Sempre negli ultimi anni, da parte di Aloe e collaboratori, il Nerve Growth Factor è stato oggetto di trials clinici per la cura delle ulcere corneali, ulcere da decubito, della neuropatia diabetica, della maculopatia e del glaucoma, talora con risultati controversi. L'efficacia del NGF ricombinante nel promuovere la riparazione della mielina è stata valutata utilizzando il modello EAE (Experimental autoimmune encephalomyelitis) nel marmoset comune (Villoslada et al. 2000). Nel SNC, il Nerve Growth Factor è particolarmente presente a livello della corteccia frontale, dell’ippocampo, dell’ipotalamo e nel midollo spinale; la sua sintesi è regolata da molecole endogene, quali gli ormoni tiroidei, i corticosteroidi, i neuropeptidi e le citochine. Nel SNC, il Nerve Growth Factor esercita un'azione trofica sui neuroni colinergici del prosencefalo basale, in particolare a livello del setto mediale, del nucleo basale di Meynert, della banda diagonale di Broca e, in misura minore, anche su alcuni neuroni del midollo spinale. La neurotrofina NGF svolge, negli esperimenti sulle cavie, un ruolo chiave nel prevenire l’insorgenza dell’Alzheimer. Viene inibita la produzione della proteina beta-amiloide, la ►

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principale responsabile della malattia, bloccando sul nascere il processo degenerativo. Ad alti livelli di proteina nel sangue corrispondono comportamenti aggressivi e ansiosi. NGF e sclerosi multipla. Numerose evidenze sperimentali sono a favore di una alterazione dei livelli sierici e liquorali di NGF in pazienti con sclerosi multipla (SM) correlata alle manifestazioni acute della malattia. Nel SNC di pazienti affetti da SM e in quello di roditori con encefalite allergica sperimentale (EAS) sono state identificate cellule nervose e immunitarie in grado di produrre rilevanti quantità di NGF e BDNF e capaci di esprimere il recettore ad alta affinità per queste due molecole. Il significato funzionale di queste cellule sarebbe quello di svolgere un’azione neuroimmuno-protettiva nei focolai di infiammazione cerebrale. L’ipotesi di un ruolo funzionale del NGF nella SM risale al 1992 quando fu dimostrato che la concentrazione del NGF nel liquor aumentava nella fase acuta e diminuiva nella fase di remissione della SM. Tale ipotesi, oggetto di numerosi studi in questi ultimi anni, suggerisce che l’aumentato livello di NGF nel li-

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quor sia da attribuire alla capacità del NGF di rendere le cellule cerebrali più resistenti all’insulto infiammatorio e/o di stimolare cellule immature localizzate nella SVZ a sostituire quelle danneggiate. Nella sclerosi multipla il brain-derived neurotrophic factor (BDNF) fornisce neuroprotezione, ma può anche promuovere la malattia attraverso il mantenimento delle cellule T autoreattive. Per finire, un po’ di romanticismo: il livello di questa proteina (NGF) è più alto all’inizio dell’innamoramento rispetto alle coppie consolidate o ai single. Le attuali difficoltà tecniche nell’utilizzo del NGF ricombinante sono dovute alla difficoltà di attraversare la BEE (barriera emato-encefalica), agli effetti pleiotropici quando applicato sistemicamente, alla breve emivita in vivo della neurotrofina, alla degradazione proteolitica, nonché ai costi elevati per la produzione (Saragovi e Gehring 2000).

(1998); Galassia mente (1999); Cantico di una vita (2000); Un Universo inquieto (2001); Tempo di azione (2004); Senza olio e Contro vento (1996). Conclusioni. Concludiamo con un'altra sua citazione: “Se morissi domani o tra un anno, sarebbe lo stesso: quel che conta è il messaggio che lasci dietro di te. È il solo modo affinché il nostro passaggio sulla Terra non si esaurisca in un grande nulla”. Come non condividere questo pensiero? Rita Levi Montalcini muore alla straordinaria età di 103 anni il 30 dicembre 2012 a Roma.■

Mario Santangelo. Medico chirurgo, specialista in Neurologia. È Dirigente Medico U.O. Neurologia dell'Ospedale di Carpi (MO) e Responsabile clinico AISM di Carpi.

Rita Levi Montalcini scrittrice. Tra le sue opere ricordiamo: l’autobiografia Elogio dell'imperfezione (1987); NGF: apertura di una nuova frontiera nella neurobiologia (1989); Il tuo futuro (1993); L’asso nella manica a brandelli

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Luigi Aloe, Maria Luisa Rocco, Patrizia Bianchi and Luigi Manni, Nerve growth factor: from

the early discoveries to the potential clinical use. «Journal of Translational Medicine» 2012, 10:239. Joel K. Weltman, M.D., Ph.D. The 1986 Nobel Prize for Physiology or Medicine Awarded for Discovery of Growth Factors: Rita Levi Montalcini, M.D., and Stanley Cohen, Ph.D. NER Allergy Proc. Jan-Feb 1987, Vol. 8, NO.1. In vitro and in vivo effects of a nerve growthstimulating agent isolated from snake venom by Rita Levi Montalcini and Stanley Cohen department of zoology, Washington university, St. Louis, Missouri, Communicated by V. Hamburger, July 19, 1956. R. Levi Montalcini, The nerve growth factor: its mode of action on sensory and sympathetic nerve cells. Harvey Lect. 60:217-259, 1966. Alessandro Lambiase e coll. Experimental and clinical evidence of neuroprotection by nerve growth factor eye drops: Implications for glauco-

ma. «PNAS» August 11, 2009, vol. 106, no. 32; 13469-13474. Anna M. Colangelo, Recombinant human nerve growth factor with a marked activity in vitro and in vivo. «PNAS» December 20, 2005, vol. 102, no. 51; 18659. Farhad Mashayekhi, Zivar Salehi, Hamid Reza Jamalzadeh, Quantitative analysis of cerebrospinal fluid brain derived neurotrophic factor in the patients with multiple sclerosis. ACTA MEDICA (Hradec Králové) 2012; 55: 83-86. R. Levi Montalcini and V. Hamburger, Selective growth-stimulating effects of mouse sarcoma on the sensory and sympathetic nervous system of the chick embryo. J. Exptl. Zool., 116: 321-361, 1951. R. Levi Montalcini, Effects of mouse tumor transplantation on the nervous system. Ann N.Y. Acad. Sci., 55: 330-343, 1952.


Anemos neuroscienze

Apr-Giu 2013 | anno III - numero 9

Discorso diretto

I MESSAGGI AL FUTURO

intervista "virtuale" a rita levi montalcini: la sua vita, il PREMIO NOBEL e la SPERANZA riposta VERSO I GIOVANI E IL FUTURO di Sara Pinelli

S

pesso, Rita Levi Montalcini si stupiva dell’affetto che le persone riponevano nei suoi confronti. Quando è stata criticata come Senatrice a vita per l’età avanzata, ha ricevuto migliaia di lettere di solidarietà. Lei stessa, in quell’occasione, ha dichiarato: “Sono grata a questa polemica che mi ha fatto scoprire quanto affetto le persone ripongono in me”. Un affetto trasversale, che attraversa generazioni, ruoli sociali, un affetto che non sa spesso nulla della Montalcini scienziata, un affetto che non è degli “addetti ai lavori”, che non conosce le scoperte e nemmeno i motivi che le hanno permesso di vincere il Premio Nobel. Che cosa l’ha resa così popolare e amata? Quasi a innalzarla a simbolo, archetipo, monumento? Di certo c’è l’instancabile sforzo a proseguire lungo due binari paralleli: uno, la ricerca scientifica, l’altro, la divulgazione, l’aiuto al prossimo, l’impegno sociale, il dialogo con i giovani. Lei stessa afferma: “Lo scopo della vita è disinteressarsi a se stessi e dedicarsi agli altri. Ma non è giusto dire che ho dedicato la mia vita agli altri. Quello che mi ha spinto è stata la curiosità, fin da giovane ero interessata a quel meraviglioso mondo che è il cervello umano, quindi è stata la curiosità che mi ha spinto, non l’amore.” “Io penso solo al futuro. Può sembrare strano che una persona che è vissuta quasi un secolo pensi al futuro, ma a me non interessa affatto sapere come e quando morirò, quello che può rimanere di me sono i messaggi che io mando e cioè i messaggi basati sulla conoscenza, non di noi stessi, ma del mondo intorno a noi”. E forse, la cosa migliore è lasciare che proprio questi messaggi traccino un ritratto di Rita Levi Montalcini. I messaggi che ha lanciato nel futuro e per il futuro. Che cos'è il progresso? “È la capacita di indagare dal punto di vista scientifico e di aiutare quelli che non fanno parte dell’èlite scientifico-tecnologica. Quindi sono due le componenti: la

prima è non mettere lucchetti al cervello e alla ricerca, la seconda è che la parte migliore del nostro cervello, quella neocorticale, deve essere utilizzata per l’aiuto al prossimo e non solo per la ricerca scientifica.” Lo scienziato ha la capacità di controllare l’uso della propria scoperta? “Si può sapere se è stata mal utilizzata a posteriori, ma non a priori. Se viene mal utilizzata, non è colpa dello scienziato ma della politica.” Avrebbe senso porre un limite alla ricerca a priori? “No, nel modo più assoluto. Se una scoperta viene mal utilizzata si può bloccare questo utilizzo, ma non mettere un limite alla ricerca, perché sarebbe come mettere un lucchetto al cervello, cioè mettere un lucchetto alla cosa più meravigliosa che l’uomo Sapiens ha e che nessun'altra specie animale possiede.” Il raggiungimento della felicità è qualcosa che ci capita, o qualcosa che noi, giorno dopo giorno, possiamo costruire? “Io, innanzitutto, rifiuterei la parola felicità, in un mondo con tanta sofferenza e tanto dolore. Non mi piace la parola felicità, si può dire armonia, pienezza, ma non felicità. La felicità concessa ai giovani nel pieno dello sviluppo fisico, l’amore, che io non ho provato, ecco io non ricerco quello nella vita, ma piuttosto la serenità, il piacere di vivere, l’armonia, ma quella non la chiamo felicità, io l’abolisco dal mio vocabolario personale. E questa armonia si costruisce, siamo esattamente noi i suoi artefici, non piove dal cielo, viene da come ci siamo comportati e da ciò che desideriamo fare, deriva dal sapere quello che noi vogliamo dalla vita e cioè non il nostro benessere, ma quello degli altri. Nel mio caso c’è una forte tendenza all’aiuto al prossimo, che avevo fin da bimba, trovo nell’aiutare gli altri il massimo raggiungimento dell’armonia.” Quindi, considera la sua vita una sorta

di missione? “Neppure questa parola mi piace, non è missione la mia, è adempiere a qualcosa che per me è assolutamente necessario, è quasi un imperativo al quale obbedisco, ma non considero missione la mia vita più di quella di chiunque altro, di un operaio, di un muratore, ognuno di noi vive la propria vita. Non parliamo di missione, è una parola enfatica che rifiuto.” Il Premio Nobel è qualcosa che si porta addosso con fatica, è qualcosa che dà grandi responsabilità nei confronti di se stessi, nei confronti della vita? “È una grande responsabilità, ma non verso se stessi, che porta dei vantaggi e degli svantaggi. Uno degli svantaggi è che mi è piovuto addosso come un ciclone, mi ha tolto la privacy, la possibilità di essere solo me stessa. Tuttavia ha anche dei vantaggi, il più grande è stato quello di conoscere l’Italia, perché sono stata invitata da Nord a Sud, nei paesi di provincia e l’incontro con i giovani è stato il più grande premio che ho avuto, perché mi ha dato enorme piacere e penso sia stato d’aiuto anche ai ragazzi, particolarmente a quelli delle scuole medie. Ho potuto creare un dialogo con loro. Il Premio Nobel che ha fatto sì che io fossi conosciuta e che i giovani mi chiedessero di parlare con loro.” Quante sconfitte e quanti errori? “Errori molti, sicuramente. L’ho scritto anche nel mio libro, “Elogio dell’imperfezione”, nel quale dico che la mia vita è stata un'unica imperfezione, ma un'imperfezione accettabile, fatta in buona fede. Nel mio libro dico che l’uomo è imperfetto e non deve tendere alla perfezione, la perfezione è degli esseri molto semplici, degli insetti, per esempio, la cui vita è programmata. Nella mia vita ci sono stati gli errori di tutti, ma errori involontari, in buona fede, errori non irreversibili. Ci sono errori irreversibili che portano all’infelicità ed errori a cui si può riparare.” Crede al destino? “Posso rispondere negativamente. Io penso che ognuno di noi abbia infinite possibi-►

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Società

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lità di sviluppo di se stesso e della propria personalità. Ma non chiamerei questo destino, è una parola grossa che non mi piace, direi enfatica. Io amo la semplicità, perché tutto il resto è decorazione che non serve a nulla. La nostra vita deve essere il più semplice possibile, sia nel modo di parlare che nel modo di agire, bisogna

essere sempre se stessi, nel modo di presentarci agli altri, sia che siano dei principi, sia che siano dei muratori, dobbiamo essere sempre riconoscibili.” Esiste la vecchiaia? “La vecchiaia, nel mio caso, non esiste. Ognuno di noi può progettare la propria vita e non avere vecchiaia. Se non si è ammalati, allora non esiste. Il mio cervello lavora più di quanto lavorava in passato. È essenziale mantenere il cervello in massima attività. La vecchiaia colpisce solo quelli che non hanno saputo utilizzare bene queste capacità, o che hanno paura, paura della malattia, paura della morte. Ma io non ho paura né della malattia, né della morte.” Le è mai mancato un figlio, un figlio suo? “No, perché ho migliaia di figli adottivi sparsi per il mondo. Come diceva Moruzzi, con un figlio tuo non sai mai chi ti metti in casa, mentre con i figli degli altri lo sai, perché capisci se risponderanno o no ai messaggi che tu mandi loro. Direi che io non ho mai sentito il desiderio di una continuità di me stessa. Dico ai giovani non pensate a voi stessi, pensate agli altri. Pensate al futuro che vi aspetta, pensate a quello che potete fare e non temete niente. Non temete le difficoltà, io ne ho avute tante e le ho attraversate senza paura con totale disinteresse verso la mia persona.”

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Qual è oggi la conquista che lei ritiene più urgente? “Dobbiamo dare alla componente neocorticale il controllo del nostro modo di agire, anche se la parte più antica del cervello

Apr-Giu 2013 | anno III - numero 9 che è quella emotiva, detta il lobo limbico, ha portato l’Homo Sapiens a scendere dagli alberi e all’australopiteco la capacità di

«Dobbiamo dare alla componente neocorticale il controllo del nostro modo di agire, anche se la parte più antica del cervello che è quella emotiva, detta il lobo limbico, ha portato l’Homo Sapiens a scendere dagli alberi e all’australopiteco la capacità di estendere le proprie competenze e capacità. Oggi questa componente è pericolosa, perché la ritengo causa di tutto quanto di tragico capita intorno a noi.» estendere le proprie competenze e capacità. Oggi questa componente è pericolosa, perché la ritengo causa di tutto quanto di tragico capita intorno a noi. Non è la componente cognitiva, ma quella emotiva a guidare ancora molte delle nostre azioni. La speranza per il futuro è che l’uomo impari a controllarla. Tutte le tragedie della storia che possono portare all’estinzione della specie derivano dall'incapacità di controllare questa componente emotiva.” Ho analizzato diverse interviste e ho cercato di riportare i temi che lei stessa ripeteva più spesso. In modo curioso si può osservare che amava ripeterli quasi con le stesse parole, anche a distanza di anni, in occasioni diverse e con interlocutori diversi. Quasi a farli diventare motti, leit-motiv, formule. Messaggi che, tramite l’iterazione, restassero impressi e si consegnassero alle nuove generazioni. Li ha ripetuti instancabilmente come fossero la sua bandiera, la sua preghiera laica da imprimere nelle menti. Per questo motivo ho preferito riportarli semplicemente, senza commenti, senza introduzioni, senza interpretazioni, ma anche senza contestualizzarli, né con connotazioni temporali, perché, come dicevo, era solita ripeterli spesso. Ho omesso anche gli elementi biografici perché, come lei stessa sosteneva: “È imbarazzante parlare della propria vita. Per quanto riguarda la mia, mi pare non ci sia nulla di interessante da raccontare”.

SITOGRAFIA http://www.youtube.com/ watch?v=LJ8ZMzWh04k http://www.youtube.com/ watch?v=3ziHTdLg2uc http://www.youtube.com/ watch?v=PKpyYLYrFSQ http://www.youtube.com/ watch?v=8UtH179hhDM http://www.youtube.com/ watch?v=hlNuM4ycTVs

Ci sono, poi, aspetti, come la rivendicazione del diritto a studiare per affrancarsi dal padre che concepiva la donna soltanto come madre e moglie, il suo essere ebrea durante le leggi razziali e la Seconda Guerra Mondiale, la sua ostinazione a non sposarsi, che sono stati riportati talmente spesso da essere, ormai, di dominio pubblico. Lei, però, non ci si sofferma quasi mai nelle interviste, anzi tende a minimizzarli. Il libro “Cantico di una vita” raccoglie le lettere più significative scritte nei quasi trentanni di vita negli Stati Uniti. Qui, nei piccoli accenni alla sua vita privata, il forte legame con la sorella e la mamma, nel suo disinteresse verso il cibo, le frivolezze, emerge, imperativa, una tensione asintotica verso una purezza e una semplicità di vita quasi monacale, una vita fatta di nulla, ridotta all’essenziale, senza ornamenti. Quasi come se fosse necessario creare un vuoto, una pagina bianca, in cui il suo lavoro di scienziata e i suoi messaggi potessero riecheggiare più forti, più limpidi e più concentrati. Ecco, ad esempio, come descrive la sua dieta giornaliera: - colazione: “un tè” - pranzo: “un frutto, un qualcosa di scarso contenuto” - cena: “un brodo e una mela” “Personalmente non m’interessa il cibo e se non fosse la mia governante, non me occuperei affatto. Sono del tutto disinteressata a queste cose.” “Che il corpo faccia quello che vuole, io sono la mente.” “Quello che può morire è il corpo. Quello che resta sono i messaggi. I messaggi che vengono lanciati in vita. I messaggi e i valori.”■

Sara Pinelli. Laureata in architettura con una specializzazione in allestimenti teatrali e opera lirica. Dalla figura di Rita Levi Montalcini ha tratto ispirazione per un testo teatrale ("Il centesimo anno"), in cui una scienziata, una sorta di Faust donna, decide, nel suo centesimo compleanno, di inventare la possibilità di una nuova esistenza.


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LA RICERCA, uno sguardo compassionevole sull’Uomo La scelta della ricerca e la diaspora dei giovani di Graziano Delrio In 1

parole chiave. Rita Levi Montalcini, giovani, ricerca, Reggio Emilia Abstract. Una società che vuole cambiare modello di sviluppo deve aprire la mente alla creatività e alla ricerca per trovare relazioni nuove tra oggetti diversi e uscire dalla crisi. La ricerca, così come è stata interpretata da Rita Levi Montalcini, è uno sguardo compassionevole sull’Uomo ed è un fattore di progresso democratico. L’approccio della ricerca, che sfida sempre le acquisizioni e le convenzioni, è proprio di ogni uomo, fin da bambino, quando è un ricercatore nativo. Partendo da qui, ecco come a Reggio Emilia si sta cercando di far dialogare due diverse esperienze di sperimentazione, la creatività degli atelier delle scuole dell’infanzia e l’innovazione nel settore produttivo, per una nuova pagina della città.

L

a tenerezza del grande pensatore. C’è una fotografia che ritrae Loris Malaguzzi, già avanti in età, allacciare le scarpe ad un bambino. Davanti a questa immagine, proiettata alla scuola dell’infanzia Diana nella ricorrenza del compleanno del fondatore del Reggio Approach, Carolyn Edwards e Lella Gandini hanno fatto riferimento

ad una rara virtù: la “tenerezza del grande

pensatore”. Mi è venuta in mente questa definizione pensando all’immagine pubblica di Rita Levi Montalcini. Non ho avuto la fortuna di conoscerla bene da vicino, ma ho guardato a lei come giovane ricercatore, come amministratore pubblico, come cittadino italiano, sentendomi esattamente quel bambino su cui il pensatore si china con un gesto

spontaneo di cura. Il grande pensatore è chiamato a vivere in un mondo altro, ma ci sono grandi pensatori che ci fanno sentire accolti e parte del loro progetto. Rita Levi Montalcini resterà nella storia per le sue scoperte, per il Nobel per la medicina, per la sua limpidezza morale e civile. È stata definita come l’Einstein al femminile, la storia di un secolo, il volto nobile del nostro Paese. Ma credo resterà a lungo nel cuore degli italiani anche per aver accompagnato la sua mente illuminata con la compassione►

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Società

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Un paese bloccato

«I dati di oggi ci parlano di un Paese bloccato. Oggi, dei 5 milioni di italiani senza lavoro, il 38,7% è di giovani fino ai 24 anni, molto peggio che la media europea dei 17 pari al 24,2%. Dai 30 ai 34 anni solo due persone su dieci sono laureate, una percentuale cresciuta rispetto agli scorsi anni, ma tra le più basse al mondo e ancora lontanissima dall’obiettivo del 40% fissato al 2020 dall’Europa per una crescita sostenibile, intelligente,

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solidale.»

verso il genere umano e per essersi chinata ad allacciarci le scarpe. La scelta della ricerca e la diaspora dei giovani. Mi piace cominciare da questo aspetto perché, da sindaco, ritengo che la ricerca, la conoscenza, abbiano un ruolo fondamentale nella vita delle nostre comunità, ovvero la vita delle persone che abitano insieme le città. Soprattutto in questi anni di crisi, è parso chiaro che non abbiamo altra uscita se non attraverso la ricerca e la creatività, le “relazioni nuove tra oggetti diversi”. Cose nuove. L’idea che arriva e che non assomigliava a niente di quanto esistesse prima. È una scelta non scontata. Oltre che essere una scelta di personale atteggiamento nella vita, è una scelta politica in mano a amministrazioni pubbliche, centrali e locali, istruzione, università. Per le amministrazioni del bene pubblico è una direzione necessaria se vogliono cambiare la rotta suicida del Paese, andando a invertire la direzione di questi anni in cui ricerca e istruzione sono state penalizzate. I dati di oggi ci parlano di un Paese bloccato. Oggi, dei 5 milioni di italiani senza lavoro, il 38,7% è di giovani fino ai 24 anni, molto peggio che la media europea dei 17 pari al 24,2%. Dai 30 ai 34 anni solo due persone su dieci sono laureate, una percentuale cresciuta rispetto agli scorsi anni, ma tra le più

basse al mondo e ancora lontanissima dall’obiettivo del 40% fissato al 2020 dall’Europa per una crescita sostenibile, intelligente, solidale. Ora, tra i laureati crescono la disoccupazione, la sfiducia e si presenta ormai come vera diaspora la migrazione intellettuale verso l’estero: il 27,6% secondo l’Istat ha la valigia pronta. Sarebbe solo da salutare positivamente l’esperienza all’estero dei nostri migliori cervelli, se poi ci fosse un rientro e un reimpiego in Italia. Altrimenti sono investimenti - delle famiglie, senza borse di studio e nelle persone - che se ne vanno. All’Italia resta l’onore di studenti italiani migranti che, forti del bagaglio culturale maturato nel nostro Paese, sostengono altri paesi nei loro obiettivi. Sono già tra i 30 e i 40mila i laureati italiani emigrati. La laurea non è tutto, anzi, non serve se non si ha una mente aperta al riconoscere le cose nuove, ma è lo studio che attrezza la mente con conoscenze utili a fare progressi. Rita Levi Montalcini si è sempre e con tenacia espressa per un impegno dei giovani nella ricerca e per un sostegno dello Stato all’istruzione. Nel suo “umanesimo della scienza”, nella sua inesauribile curiosità, nella sua modestia che tutto attribuiva alla determinazione e non a una mente illuminata, vedeva del tutto e completamente l’importanza della conoscenza e dell’educazione. Sosteneva il sapere non solo per il progresso della scienza, ma per l’emancipazione dei più deboli, donne e paesi poveri, e per la crescita personale di ciascuno, convinta che il progresso sia cultura e democrazia. “Credete nei valori, sia laici sia religiosi. - ha detto nel discorso ai giovani - La vita merita di esser vissuta se crediamo nei valori, perché questi rimangono dopo la nostra morte. Auguro a voi la stessa fortuna che ho avuto io, di disinteresse alla mia persona, ma di profondo interesse a quello che mi circonda, a tutto quanto non è solo componente della scienza, ma anche parte del mondo sociale”.


La scommessa verso una economia nuova fondata sul sapere, la cui rappresentazione fisica sarà il Parco della conoscenza, innovazione e creatività che sta nascendo

nell’area delle ex Reggiane, che vede già stagliarsi le identità del Centro internazionale Loris Malaguzzi, del Tecnopolo al Capannone 19 gestito da Università e CrpaLab e profilarsi un nuovo centro di ricerca al Capannone 18. Questo significherebbe vedere al lavoro in venti laboratori un centinaio tra docenti ricercatori e dare possibilità a start up di nuove imprese.

La ricerca 0/99 e un parco per la Conoscenza. Quando alcuni anni fa, nel 2009, ci siamo trovati come città e come amministrazione locale, insieme a tanti interlocutori a ragionare su come affrontare la crisi, ci siamo trovati davanti a due evidenze. Da un lato, tutti gli studi, economici e sociali, indicano la direzione dell’innovazione, economica, sociale, culturale, produttiva per svoltare rispetto allo stallo della crisi. Dall’altro, è oggettivo

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che a Reggio Emilia esista una competenza di livello mondiale, diffusa in oltre cento paesi, incentrata sulla ricerca: il Reggio Approach, l’approccio delle scuole dell’infanzia comunali, di cui la rivista ha già avuto modo di parlare. Un approccio in cui l’atelier, lo spazio dedicato ad una conoscenza ed esplorazione della realtà libera da preconcetti, è il punto di fusione. Un mondo che non a caso si è perfettamente ritrovato nella scoperta dei neuroni specchio e ha con i ricercatori dell’Università di Parma continui e fecondi contatti. Ci siamo interrogati quindi sul come e se mettere in relazione queste due evidenze della nostra città. E da questo percorso nasce la scommessa verso una economia nuova fondata sul sapere, la cui rappresentazione fisica sarà il Parco della conoscenza, innovazione e creatività che sta nascendo nell’area delle ex Reggiane, che vede già stagliarsi le identità del Centro internazionale Loris Malaguzzi, del Tecnopolo al Capannone 19 gestito da Università e CrpaLab e profilarsi un nuovo centro di ricerca al Capannone 18. Questo significherebbe vedere al lavoro in venti laboratori un centinaio tra docenti ricercatori e dare possibilità a start up di nuove imprese. In questa piazza del sapere e della ricerca, il Centro internazionale Loris Malaguzzi contribuisce come “0/99 Parco tematico dei cento linguaggi”. Un progetto che guarda ai bambini come ricercatori nativi fino ai grandi anziani in un percorso di longlife learning che guarda a tutte le discipline. La cultura dell’atelier e l’approccio creativo sono trasversali alle diverse età e possono diventare una sorta di “enzima” produttore di innovazione, che esce dalle istituzioni scolastiche generando qualità dei processi e delle relazioni, l’approccio sviluppato a Reggio è in grado di produrre valore aggiunto anche in ambiti che vanno al di là dell’educazione. Nei settori imprenditoriali in particolare, ma non solo quelli, il pensiero

creativo può portare un contributo interessante per rinnovare procedure, modalità di progettazione e sviluppo di prodotti. Non per nulla, sono tante a livello nazionale e internazionale le aziende che hanno fatto richiesta di consulenza a Reggio Children, la società a capitale misto pubblico privato che porta avanti le attività di ricerca e promozione del metodo nel mondo. La teoria delle intelligenze multiple, l’attenzione ai cento linguaggi di ogni bambino, l’interdisciplinarietà, l’apertura alle altre culture sono le chiavi per il futuro dei cittadini più piccoli, ma anche per un Paese che vuole sbloccarsi e aprirsi a un percorso di cambiamento. “Non pensate a voi stessi - ha lasciato detto Rita Levi Montalcini - pensate agli altri, pensate al futuro che vi aspetta, pensate a quello che potete fare, e non temete niente. Non temete le difficoltà: io ne ho passate molte, e le ho attraversate senza paura, con totale indifferenza alla mia persona”. Non temete niente. Non temete il cambiamento, le novità, sappiate interpretare le cose nuove e, se fallite, rialzatevi, continua a dirci oggi questa scienziata e cittadina italiana, a cui il nostro Paese stava immensamente a cuore. È tempo di dare ascolto a chi sollecita l’Italia a questa conversione.■

Graziano Delrio. Sindaco di Reggio Emilia. Laureato in medicina, ha conseguito la specializzazione in endocrinologia e ha perfezionato i suoi studi fra la Gran Bretagna e Israele. Docente e ricercatore all’Università di Modena e Reggio Emilia, è autore di una produzione scientifica di rilievo che lo ha portato a tenere seminari negli Stati Uniti e in Europa. Con l’Associazione “Giorgio La Pira”, di cui è stato fondatore e presidente, ha promosso numerose iniziative culturali ed allacciato rapporti con il Medioriente.

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MusicalMente

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Rapporto tra musica e cervello

Kurt Weill e Bertolt Brecht Il ritorno del teatro musicale da parte di due grandi innovatori. Guida all’ascolto della “Opera da tre Soldi” di Lorenzo Genitori*

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urt Weill (1900-1950) e Bertolt Brecht (1898-1956), entrambi berlinesi, videro la loro vicenda umana snodarsi sotto le ombre della Repubblica di Weimar. Il compositore e il drammaturgo, in pieno modernismo, non ebbero timore di schierarsi completamente a sinistra pagandone entrambi, in modo diverso, il fio. Entrambi ebbero un triste esilio e morirono quasi alle stessa età della stessa malattia. Ma insieme innovarono profondamente la musica e il teatro del Novecento. Kurt Weill. Kurt Weill, figlio di un cantore ebreo, inizia a studiare e a suonare il piano a 12 anni. A 18 anni si trasferisce a Berlino, a quel tempo città rivoluzionaria ed estremamente interessante, dove si iscrive ai corsi dell’Accademia Prussiana. Suo maestro e mentore è Ferruccio Busoni, che gli insegna l’eclettismo e la capacità di non fermarsi alle mode o agli schemi. Weill abbraccia la dottrina socialista e decide di comporre “musica popolare per il popolo”. La sua prima rappresentazione pubblica, “La notte magica”, si tiene nel novembre 1922. In questi anni compone pezzi teatrali in un atto, tra cui “Il Protagonista”, “Royal Palace” e “Lo zar si lascia fotografare”, tutte opere moderniste, audaci e innovative. Bertolt Brecht. Bertolt Brecht nasce in una famiglia cattolica. La madre, protestante, influenzerà tutta l’infanzia del figlio. Di salute cagionevole, a 15 anni inizia a scrivere le prime poesie. L’allontanamento dal nazional socialismo del momento è rapido e subito dopo la pubblicazione della poesia “La leggenda del soldato morto” viene iscritto nelle liste nere di Hitler. Le prime esperienze letterarie sono influenzate dai mo-

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vimenti modernisti e sono pervase da un forte senso di ribellione agli schemi. Inizia la collaborazione fiorente con il cabarettista Karl Valentin. I toni sono sobri, cupi. Dal 1922 si trasferisce a Berlino, dove sposa tre donne in poco tempo. Importante l’incontro e il sodalizio amoroso/culturale con Elisabeth Hauptman (che si ritiene essere l’autrice di parte dei testi della “Opera da tre soldi” e di “Alabama song”).

Figura 9.1 Sopra a sinistra, Bertolt Brecht.

La “premiata ditta Weill/Brecht”. La prima collaborazione tra Kurt Weill e Bertolt Brecht, su testi della Hauptman, è proprio “Alabama song” da “Mahagonny Songspiel”, i cui versi faranno nei decenni a seguire il giro del mondo e dei generi musicali. Ma prima di ciò la “premiata ditta Weill/Brecht” ha intuito l'enorme potenziale che le avventure teatrali con soggetti scabrosi, come i gangsters, potevano avere presso il pubblico tedesco. Nasce così l’opera popolare per antonomasia: “L’Opera da tre soldi”, libretto con pochi intrecci e con una storia lineare, ripreso da “L'Opera del mendicante” di John Gay, scritta due secoli prima (1728) e ambientata nella Londra Vpvittoriana. La messinscena di Weill/Brecht trascende la concezione del teatro musicale fin qui espressa introducendo un terzo elemento essenziale: il pubblico. Si tratta di un'opera scritta per far partecipare il pubbli-

A destra Kurt, Weill.

co alla storia, che rompe i canoni dell'immedesimazione di chi guarda con la partecipazione. La canzone di presentazione del personaggio principale scritta da Kurt Weill, “Die Moritata von Mackie Messer” è diventata famosa nel mondo intero e considerata uno standard del pop e del jazz. Riflessioni mediche. Entrambi morirono giovani e a causa della stessa patologia. Weill a 50 anni, Brecht a 56. Non gli si riconoscono particolari malattie croniche e godettero quasi sempre di buona salute. Nel maggio 1956 Brecht si era fatto ricoverare all'Ospedale della Charité a Berlino per curare i postumi di un'influenza. Morì il 14 agosto a causa di un infarto cardiaco. Fu seppellito senza cerimonie nel cimitero della Chausseestrasse, che lui vedeva dalle finestre di casa. Kurt Weill si ammalò subito dopo il suo cinquantesimo compleanno nel marzo 1950. Egli viveva a New York, dove morì il 3 aprile a causa di un infarto cardiaco.■

Neurochirurgo, coordinatore regionale Toscana per la neurochirurgia ad indirizzo pediatrico

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ASSOCIAZIONE CULTURALE E DI VOLONTARIATO «ANEMOS» Presidente: dr. Marco Ruini

Le attività L

’Associazione Anemos, fondata nel marzo 2009, nasce per coordinare e ampliare le attività di volontariato sociale di un gruppo di amici di Novellara (RE), nonchè le attività culturali del Centro di Neuroscienze Anemos, l’attività editoriale scientifica in collaborazione con la casa editrice New Magazine Edizioni e con la casa editrice La Clessidra. Tra i vari campi d’attività accennati: ♦ Libera Università di Neuroscienze Anemos: organizza convegni, seminari e corsi multidisciplinari sul tema delle neuroscienze in collaborazione con La Clessidra Editrice. ♦ “Libri Anemos”. Attività editoriale con la Casa Editrice New Magazine con una collana di Neuroscienze e una collana di Narrativa ♦ Biblioteca di Neuroscienze Anemos ♦ Promozione e valorizzazione di giovani artisti ♦ Programmi di volontariato sociale nei paesi in via di sviluppo e in Italia

www.associazioneanemos.org

La rivista N

ell’autunno del 2010 è nato «Neuroscienze Anemos», trimestrale di neuroscienze, scienze cognitive, psicologia clinica e filosofia della mente. Il periodico di divulgazione scientifica, distribuito gratuitamente nelle biblioteche pubbliche della provincia di Reggio Emilia e Mantova, si sviluppa in stretta correlazione con La Clessidra Editrice, giovane casa editrice Reggiana (con sede a Reggiolo, RE) nata in un contesto di associazionismo culturale nel 2004 e costituitasi come casa editrice nel 2006. Editrice La Clessidra è specializzata in editoria periodica locale e settoriale. Nel settore dell’editoria libraria, vengono promosse opere letterarie e filosofiche e quelle di interesse storico locale.

www.neuroscienzeanemos.it www.clessidraeditrice.it

Le Clessidra Editrice. Redazione editrice e della rivista: via XXV aprile, 33 - 42046 Reggiolo (RE) tel. 0522 210183


L’ospedale con l’amore dentro Ospedale Pediatrico Meyer, Firenze Un ospedale pediatrico moderno è qualcosa di nettamente diverso da una struttura sanitaria tradizionale, pensata per i “grandi”. Le sue attività spaziano in molte direzioni: dalla cura alla ricerca non solo medica ma anche scientifica e una continua formazione dei suoi professionisti. Il Meyer è un Ospedale Pediatrico. E proprio perché si dedica alla cura, al benessere dei bambini e alla promozione della salute, è una struttura speciale. Il Meyer organizza e concepisce tutta la sua attività in funzione delle esigenze dei bambini e dei loro genitori. Così all’alta specializzazione medica e chirurgica e alla ricerca scientifica, affianca una serie di servizi e progetti di accoglienza che permettono ai bambini di non rinunciare alla dimensione di gioco e di fantasia.

www.meyer.it


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