Visioni n.3 - Laboratorio in differita

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Copertina di Francesco Terzago.


Collana di critica «VISIONI»

IRLP, 2016 www.inrealtalapoesia.com inrealtalapoesia@gmail.com



Vol. 3

Davide Castiglione LABORATORIO IN DIFFERITA – VOL. 1 Pareri di lettura sulla poesia emergente (2013-2015) Scritti di e su: Tomas Bassini, Maria Borio, Davide Ferrari, Andrea Labate, Andrea Leonessa, Gianluca Mantoani, Michele Ortore, Bernardo Pacini, Floriana Porta, Silvia Rosa, Alessandro Salvi, Antonio Scaturro, Guido Turco, Marco Xerra, Dominica Villa

IRLP 2016



Introduzione

Sono tornato quasi ossessivamente, negli ultimi anni, sul ruolo della critica per come la concepisco e pratico; succintamente, resistenza all’autoreferenzialità, estrema chiarezza e mediazione. Quest’ultima si gioca in un triangolo ai cui vertici stanno l’autore, il critico e i lettori. A seconda che l’asse sia quello critico-lettori o critico-autore, si hanno due forme critiche: una scritta e intesa sostanzialmente per il pubblico (recensioni, saggi, prefazioni...) e una per gli autori (commenti, schede di lettura e lettere private).

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Qualcuno potrà trovare problematica questa schematizzazione, per almeno due motivi: primo, anche le forme pubbliche di critica possono contenere indicazioni utili agli autori, benché spesso espresse in forma velata – forse nel timore di ritorsioni o perché il critico è spesso poeta e preferisce sodali a nemici, teme di sfibrare la maglia del networking e la visibilità che questa consente. Secondo, perché il senso comune negherebbe alle forme private di critica lo status stesso di lavoro critico. Possiamo parlare di critica se un amico ci fa sapere perché i nostri testi gli sono o meno piaciuti? In senso stretto no, perché come si sa per far critica occorrono sensibilità, acume e strumenti concettuali adeguati. Eppure può darsi che qualcosa, in quelle osservazioni confuse e in quelle argomentazioni embrionali, possa comunque aver mosso l’autore a riflessione, modificandone sia pure lievemente la scrittura. La critica, senza sapere né voler essere tale, ha svolto in questo caso quello che è forse il suo compito più alto. E poi persino Anceschi o Contini saranno stati tentati di derubricare a “conversazioni private” gli scambi epistolari che ebbero coi loro autori di riferimento, non importa quanto

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illuminanti le osservazioni e quanto robusto l’apparato concettuale a loro disposizione. Il fatto è che in queste produzioni scritte anche il critico si scopre, se la gioca; il suo lato umano e umorale emerge con maggiore forza e presta anch’esso il fianco a critiche. Due brevi contro-contro-considerazioni allora, in questo impeto dialettico tra me e me: nelle forme pubbliche di critica l’autore è probabilmente più lusingato dalla visibilità che dalle indicazioni del critico, e prenderà queste ultime meno seriamente. Inoltre, le forme private di critica, benché costitutivamente più trasandate, rapsodiche o corrive, possono avere una dignità non inferiore a quelle pubbliche – semplicemente diversa. Vorrei dimostrarlo con la pubblicazione di questo Laboratorio in differita, offrendo al tempo stesso, un po’ presuntuosamente, un modello di critica privata che possa essere adottato e adattato da altri. Oggi possiamo leggere i pareri di lettura di un Fortini, schede editoriali a uso interno o lettere private. È tuttavia quasi certo che a interessarci sia il Fortini lettore piuttosto che gli autori di cui (e a cui) scrive. Chi sono io per compiere, in vita e appena dopo la soglia dei trent’anni, un’operazione

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paragonabile? Perché insomma rendere pubbliche delle note intese a uso privato? In effetti, per molto tempo non ho avuto nessuna intenzione di pubblicare queste note. La decisione l’ho presa quasi di colpo, dopo che il passare del tempo mi ha fatto capire quanto le note via via accumulate andassero a formare un progetto coeso: esibizione sincronica di un lavoro lento e sotterraneo e al tempo stesso dimostrazione di una pratica in cui credo fortemente. Ma procediamo con ordine (cronologico). Nel 2013 decisi di regolamentare la corrispondenza con gli autori che sollecitavano una recensione o un intervento critico. Per me recensire è pesante: data la mia innata attitudine analitica, mi servivano minimo tre ore per la lettura dell’opera (una per una lettura sommaria, almeno due per prendere appunti sparsi mentre leggevo), e altre tre o quattro ore per la stesura della recensione, che spesso si estendeva oltre le 1000 parole – un saggio in miniatura in una giornata non retribuita di lavoro, insomma. Inoltre, francamente, molti libri non meritano un tale dispendio di energia. Un giro di frase è sufficiente

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per capire la bravura di un poeta, benché occorra leggerne l’intera opera per valutarne la grandezza. Rifiutarsi di recensire autori che ancora non si conoscono, tuttavia, significa quasi certamente lasciarsi sfuggire penne meritevoli, cosa che un critico non dovrebbe mai permettere a se stesso di fare. E dunque l’idea è stata quella di invitare chi lo volesse a mandarmi tre poesie, inedite o tratte da opere già pubblicate, e attendere due mesi (un tempo che ahimé è spesso diventato assai più lungo) per una mia nota costruttiva e sincera. I patti si stabiliscono cioè sin dall’inizio: chi manda i testi è preparato all’eventualità di critiche negative, e la natura privata dello scambio non può che aumentare la schiettezza del critico. Queste note vanno a formare la prima parte dell’ebook, Microscopio. Per rispettare la natura privata degli scritti, ho ovviamente chiesto ai venti autori commentati tra 2013 e 2015 il permesso di pubblicare le note e le poesie, senza le quali le note sarebbero quasi impossibili da seguire. La metà ha accettato, e pertanto in questa prima sezione figurano dieci autori. In un secondo momento ho deciso, per aumentare la varietà del progetto, di inserire anche un’altra forma critica appena

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diversa: lettere private su libri interi. In questo caso, spesso con gli autori commentati è avvenuto, a monte, uno scambio reciproco (Maria Borio, Bernardo Pacini), una collaborazione serrata (Michele Ortore) o persino una conoscenza diretta (Davide Ferrari) per cui il meccanismo di cui sopra (l’invio delle tre poesie) poteva essere scavalcato a piè pari. C’era insomma il piacere di confrontarsi con amici, o potenziali tali – anche qui, lo sforzo di sincerità è al tempo stesso prerequisito di stima ed effetto di essa. Per smentire il finto legame tra lusinga e networking all’inizio del secondo paragrafo, dirò allora che solo dalla schiettezza – certo accompagnata dall’argomentazione – deriva una forma di networking positiva e fiduciosa, che non lascia spazio a invidie e giochi di potere. Questa seconda sezione, chiamata Macroscopio, contiene cinque note critiche su altrettanti autori. In totale, dunque, analizzo e commento il lavoro di quindici autori, di abilità e affermazione variabili, ma con un comune denominatore: l’intenzione e la voglia di mettersi in gioco. L’intento dialogico di questa antologia critica si palesa anche nella decisione di riprodurre anche le considerazioni o risposte di alcuni di loro (quelle più estese o

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sviluppate), non diversamente da quanto ha fatto Gianluca D’Andrea nel pubblicare su Carteggi Letterari le considerazioni di Iari Bernasconi seguite alle recensioni del critico. Gli autori presenti in Microscopio, dove la scelta degli autori non è la mia (sono io infatti a essere “scelto” da loro), costituisce un gruppo generazionalmente variegato: ci sono miei coetanei nati negli anni Ottanta (due su dieci), ma anche i nati negli anni novanta (due), nei settanta (tre), alla fine dei sessanta (uno) e dei cinquanta (uno). Se si guarda agli autori di Macroscopio, con cui spesso ho voluto io mettermi in comunicazione, la situazione è assai diversa: sono nati tutti negli Ottanta, ed è innegabile che l’appartenza a un simile contesto sociale durante simili tappe della vita di ciascuno abbia un suo peso nel facilitare queste forme di sodalizio. Molto più sbilanciata la distribuzione geografica: se si escludono gli espatriati Alessandro Salvi e Guido Turco, la maggior parte degli autori vive nel Nord Italia, soprattutto in Piemonte, la mia regione. Un dato curioso: uno si aspetterebbe che l’uso di internet debba “democratizzare” le geolocalizzazioni, e invece...

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Le note hanno subito solo lievissimi ritocchi rispetto alla forma iniziale (correzione di refusi, miglioramento della formattazione), per non falsare lo spirito e la lettera del progetto. Le ho disposte in ordine cronologico per ciascuna delle due sezioni, cosicché chi lo vorrà potrà percorrere l’evoluzione della mia stessa scrittura critica – almeno di questa forma critica – nell’arco di due anni. Due anni non sembrano tanti, e tuttavia assemblando questo ebook mi sono accorto che le note tendono a farsi più tecniche e a far leva sempre di più sulla linguistica, mano a mano che il mio dottorato mi portava verso questa direzione. Ci sono tuttavia dei bersagli che restano immutati: l’avversione per le parole generiche del poetese non adeguatamente risemantizzate dal contesto (un impeto che fondava anche il mio saggio Le cose, le cose, le cose. Le cose. Svuotamento e stallo nella poesia recente pubblicato su questo sito) e in parallelo, ma su un piano più globale, l’attingere a situazioni o topoi con scarso potenziale espressivo o contenutistico. Bersaglio minore ma nondimeno presente è il sovrattono – l’eccessiva letterarietà di alcuni passaggi – così come l’assunzione troppo scoperta di una poetica, intimista sperimentale o

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surrealista che sia. Qui è ovviamente il mio gusto poetico (un neomodernismo tra esistenziale e riflessivo, nemico tanto del lirismo puro quanto delle disgregazioni stilizzate dei neoneoavanguardisti) a entrare in relazione e scontro con le poetiche dei vari autori. Eppure, lo sforzo costante è quello di non addomesticare la poetica dell’altro, ma di lasciarla maieuticamente emergere, pungolandola negli aspetti che percepisco più controversi o poveri di futuro. L’altro sforzo costante è quello della chiarezza e oserei dire della praticità delle indicazioni – da cui il “laboratorio” del titolo. Il suo essere in “differita” è invece semplice conseguenza del medium scritto. Ora conviene che io mi taccia, e faccia parlare i testi: le note critiche in forma di lettera che dialogano con le poesie; e le lettere degli autori che dialogano al tempo stesso sia con le mie note che con le loro stesse poesie, in un gioco di specchi che mi auguro godibile quanto instruttivo.

Davide Castiglione, 16 gennaio 2016

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Parte I – Microscopio: note su tre testi



Marco Xerra

Nota

Caro Marco, ti ringrazio per queste poesie e ti chiedo scusa per tutto il tempo trascorso dall’invio. Dunque, come prima cosa devo dire che, per i tuoi diciannove anni (o anche meno, se alcune sono meno recenti!) sono ben scritte: hanno un senso del ritmo e anche un sottofondo di inquietudine che testimonia (secondo me) una certa autenticità nella scrittura. Com’è naturale che sia, queste poesie hanno però anche alcuni limiti evidenti. Con questo non dico che sono “sbagliate”: già la possibilità di dare forma a ciò che si sente o che si esperisce è una bella cosa. Tuttavia, come saprai studiando, la poesia come genere e discorso è cambiata tanto negli ultimi decenni, per cui – ad esempio – l’altisonanza della prima poesia, specialmente nelle prime due terzine, può essere un problema.

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Pensaci: sovraccaricarla con archetipi come ombra, lutto, eterno o tempo è una via troppo comoda, dice anziché mostrare; con il risultato che l’impatto estetico è meno forte, proprio perché manca un ulteriore sforzo di elaborazione. Quando ti liberi di questi impacci la poesia migliora: Un fiume depravato che tutto conserva adulterando: e come la fuga? Chi è l’altro che ti cammina a fianco se conto ci siamo solo io e io insieme c’è sempre qualcuno, incappucciato ammantato ti segue non capisco se un uomo o una donna chi è che ti cammina a fianco?

Questi sono buoni versi, comunicativi e sobri (mi piacciono anche le slogature come ti segue non capisco, con slittamento deittico non marcato da interpunzione, a rispecchiare la confusione o incertezza che trasmetti) ma non per questo acerbi. Ti dirò, quelle prime terzine troppo cariche mi hanno ricordato una delle prime poesie che scrissi, oltre dieci anni fa: faceva così: Taci mio vecchio vento

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/ nell’aria che teco porti / gonfia di voci / infitte come croci / sul silenzio dei morti. Come vedi, pesantezza, stile antiquato e altisonanza. Tu fai certo meglio, ma si sentono ancora troppo certi influssi ottocenteschi. Per la seconda, valgono più o meno gli stessi argomenti: ci sono cliché letterari come la rugiada, il mattino, il tempo che scivola via. Non credo che un’appeso userebbe il tono di questa poesia: sarebbe invece di rabbia, non penserebbe alla rugiada... questa è una iconografia romantica (mi viene in mente il cavaliere malato di Keats); chi scrive poesia oggi dovrebbe invece riuscire a essere di più nel suo tempo e ascoltare le sue esperienze e quelle che vede intorno. Infatti, benché secondo alcuni la via dell’esperienza non sia più praticabile oggi, per me lo resta, se sostenuta adeguatamente da cose interessanti da dire e da una tecnica nutrita da letture più recenti. Infine, la terza. Apprezzo il fatto che già ora sperimenti con la forma: la poesia in questo offre molte possibilità, ed è un peccato che tanta poesia contemporanea sia così tradizionale da avere quasi orrore di ogni forma di sperimentazione. Ad

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esempio, tu nel secondo verso spezzi già il flusso sintattico della frase, generando una reazione inattesa da parte di chi ti sta leggendo. Questo è un buon colpo, a patto che la sorpresa non sia fine a se stessa ma invece veicoli meglio quanto vuoi trasmettere (è insomma importante che sia funzionale al testo). Eppure anche qui, l’affollarsi di entità troppo basilari (cielo, alba, ombre, specchio, morte, vita) rende il tutto troppo anonimo, generale e non elaborato. È una falsa credenza quella secondo cui queste parole siano di per sé più poetiche di altre. I concetti a cui rimandano forse lo sono: ma proprio per questo non possono essere esauriti nelle parole che li designano, essere cioè menzionati anziché fatti veramente propri, esperiti. Potresti provare a declinare – non per forza rinunciare a – questi temi così da rendere più personale la visione. Nella poesia ciascuno dovrebbe, secondo me, trovare la sua disciplina, la sua misura interna; ma poi anche ricordarsi che si ha la massima libertà di attingere a tutti i materiali della vita e della scrittura, poetici e non. Il mio piccolo consiglio dunque è quello di continuare a scrivere, ascoltandoti e guardandoti

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attorno; ma anche quello di leggere buona poesia (per quanto mi riguarda, è meglio leggerne poca ma intensamente che tanta ma confusamente... se non sbaglio anche Pound era dello stesso avviso). Ad esempio, su internet puoi leggere i poeti ospitati da Guglielmin su Blanc de ta nuque o da Giacomo Cerrai su Imperfetta ellisse; oppure anche i testi che analizzo su Poem Shot, che sono proprio quelli che – sia come lettore che come critico – mi convincono di più.

18 giugno 2013

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Testi

Senza titolo L’ombra del lutto aleggerà in eterno incurante del tempo strisciando su ogni cosa che la vita ha in governo. Il lutto trionfa con muto scherno questo sadico collante del nostro perenne inverno. Un fiume depravato che tutto conserva adulterando: e come la fuga? Chi è l’altro che ti cammina a fianco se conto ci siamo solo io e io insieme c’è sempre qualcuno, incappucciato ammantato ti segue non capisco se un uomo o una donna chi è che ti cammina a fianco?

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Lamento dell’appeso Mattino non ti rivedrò ancora? Mentre il tempo veloce scivola via scivola via is gone is gone E già non sento più del prato bagnato di rugiada l’odore To me so splendid shown by Night sublime Che infieriscono su di me gli uccelli dimenticato dondolante and I sing like a snowy swan.

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Senza titolo Se guardi in alto e cerchi il cielo Il cielo è saturo di vedrai qualcosa di diverso dalle ombre che si levano l’alba a salutarti: Sentirai uno specchio come un piccolo dio creare da un altro specchio una realtà del tutto razionale;

inerte del creatore, conoscere la tesserai e agirà senza che agisca alta: perché la morte nella vita pronombre. filammo a nostra sorte.

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e imparerai a una alegría más vivir en un


Antonio Scaturro

Nota

Caro Antonio, ti ringrazio per le poesie che mi hai mandato ormai molto tempo fa, e mi scuso per il grande ritardo nel commentarle. Dunque, anzitutto una nota generale: la tua scrittura mi sembra decisamente consapevole, al di sopra della media che si legge in giro e a tratti – almeno per me – avvincente e densa di contenuto, proprio come le cose che vorrei leggere più spesso. Considerando che spesso sono insoddisfatto di quanto si scrive e ancor più di quanto si pubblica, questo è senz’altro un buon segno per me. E adesso veniamo alle poesie più da vicino. La prima e la terza, pur se di buona fattura, mi convincono meno della seconda. Vengo subito al perché: è perché sento un’influenza pesante

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(un’ansia da influenza) di altre voci poetiche, ben distinte e dunque identificabili. La prima (Il nome consiste in...) mi riporta a Milo De Angelis, o meglio alla sua rappresentazione più canonica e debole che circola ad esempio in rete ma non solo, e quindi allo stuolo di suoi epigoni (tutto quell’heideggerismo fané di cui ha scritto Marco Giovenale in un suo intervento). Rappresentazione di cui lo stesso De Angelis è artefice, con le sue due ultime raccolte (Tema dell’addio e Quell’andarsene nel buio dei cortili) decisamente auto-epigoniche. Questa influenza è visibile in modo scoperto nell’incipit: il nome visto come entità assoluta e quasi trascendente, e le cose che danno un tono facilmente filosofico (“le cose” in poesia sono una malattia stilistica del nostro tempo: ne ho scritto un saggio, che uscirà su In realtà, la poesia nei prossimi mesi); anche nell’andarsene / muti fra i fischi rieccheggia da vicino De Angelis (quell’andarsene al buio dei cortili e ognuno è solo il suo andarsene, ad esempio). Stessa cosa è vera dell’accenno alla radice (ancora termine molto carico e caratterizzato, e nuovamente assolutizzato dall’articolo determinativo), corpo, e altri termini a rischio di poetese come naufragio. Dopo aver corteggiato, in

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questa sequela, una certa koiné, sembri liberartene, e la poesia ne guadagna: ad esempio con l’inserto incidentale-riflessivo, mimetico del parlato ma neanche per errore e l’idea delle mani che fanno da scudo (vero che Sereni parlò di mani a difesa di te che gli fanno sera sul viso: ma la maggiore specificità dell’immagine la mette più al riparo dal manierismo). Certo, si sta ancora in bilico tra spinte oggettive (nel senso dei nuovi oggettivismi di cui si sente dire in giro: eliminazione della connotazione soggettiva e così via) e spinte neoliriche, come nel noi comunitario ereditato probabilmente da De Angelis. Io preferisco i momenti in cui ti sottrai maggiormente a entrambe le spinte, e quindi quando sfiori il didattico senza insistervi (come nel sintagma di cui prima) o indulgi in un’auto-esortazione (io almeno la leggo così), come in ora mischia i materiali / in modo che non siano più, forse perché li sento più autentici (detto col beneficio del dubbio e con quel minimo di arroganza da parte mia). Il limite di questo testo, secondo me, è che ha ‘troppo’, vuole troppo scopertamente ‘restare’ e così tesaurizza tutto quello che può. Conosco questo rischio, perché io per primo non ne sono immune. Forse una

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maggiore distensione, e soprattutto un maggiore mescolamento dei materiali (per parafrasarti) potrebbero giovare alla scrittura: trovando la quadra, insomma, tra oggettivismo, soggettività e magari racconto. Detto questo, il livello scrittorio (ritmico, fonico, lessicale) è davvero alto, e molti se lo sognano. Vengo ora alla terza. Qui si vede che l’opzione prevalente ha un altro nume: Marco Giovenale (e ci metterei anche Manuel Micaletto). Anzitutto, il tema dell’acqua (come quello della morte, dei movimenti fisici, e del sonno) ricorre in Micaletto come un’ossessione, e certi tratti stilistici che trovo in comune (anche se in te ammorbiditi) mi fanno pensare a un’influenza scoperta. Questo è evidente nel verso più stilisticamente carico: di media, di lato, ma così forte che: il risveglio. Certo, rispetto a Micaletto (e anche all’ultimo Giovenale) tu ti attesti su posizioni leggermente meno eversive, che alla lunga generano più anticorpi contro la creazione di una maniera; e tuttavia ti metto in guardia lo stesso. Per questo, pur apprezzando la scrittura, e anche il tono gnomico della terza strofa, mi sembra che solo nella quarta ti liberi, combinando una

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visione personale e finalmente “vissuta sulla pelle” e tratti del parlato (l’espressione formulaica come Dio comanda). Insomma, e nuovamente: ci sono in queste poesie grandi variazioni e possibilità di toni (e quindi di posture dell’io scrivente); ma non so se siano tutte valide allo stesso modo. Il tono didascalico, quello neo-orfico, l’oggettivista, il cinico (la chiusura della poesia): devi capire tu quando usarli funzionalmente e quando invece rischiano di essere esterni, mentre io sono convinto (e nessun teorico della morte della soggettività potrà convincermi del contrario) che sia necessario ascoltarsi e capire fino in fondo la propria attitudine, e far suonare quella come un basso continuo; le variazioni e la ricerca verranno poi da sé, con la curiosità e la consapevolezza che ci si costruisce pian piano. La tua generazione ad esempio, rispetto alla mia (scusa per il tono, che non vorrebbe essere paternalista) ha la possibilità di formarsi, tramite internet, su molte più scritture (io mi sono invece immerso per anni in Montale, Sereni e poi De Angelis: mediare il tutto era più fattibile) e quindi si richiede molta più selettività, e anche un certo grado di scetticismo iniziale; perché anche la scrittura di ricerca può essere cattiva (già

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l’espressione “di ricerca” sembra auto-assolutoria), solo che nessuno ha la voglia o gli strumenti per dimostrarlo. Infine, la seconda, Notte under 21. Non voglio sapere se venga prima o dopo (d’istinto penso sia precedente alle altre due, tuttavia). A me, come ti ho già anticipato, questa convince di più, senza necessariamente essere più bella. C’è anche qui una vena visionaria e filosofica in cui mi riconosco o che comunque mi piace; ma c’è anche un cosa, una situazione, un essere davvero “in rebus”. C’è il controcanto della narrazione, che permette di abitare questa stanza anziché soltanto ammirarla. C’è un ricorrere a eventi pseudo-biografici minimi (questa notte ho incastrato il mio occhio / destro), la strafottenza per la lunghezza del verso (mi riferisco al verso che termina con segnaletica), l’autoincensarsi che viola la massima pragmatica della modestia ed è solo velatamente ironico (sono una forza, un eroe mai visto). Più in generale, è poi una poesia che dice qualcosa su questo tempo o un tempo molto recente, storicamente individuabile (parli di livelli e la mente va ai videogiochi anni ’90). Ha una forza comunicativa nonostante (o proprio perché) il suo delirio sia contenutistico,

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mentre ci sono molti meno tentativi di compiacere e compiacersi stilisticamente. Certo, potrai dirmi che anche qui potrebbero esserci influenze di autori stranieri (probabilmente gli americani: magari Frank O’ Hara, Ashbery...), e però questa forma più aperta, più fluida, credo che ti consenta di esprimerti con maggiore libertà (libertà che è tale non solo nei confronti del mainstream, ovviamente, ma anche di certi circoli troppo caricati di teoria e paradossalmente prescrittivi, in ultima istanza). Qui conta meno che ti dica le parti che non mi convincono del tutto (anticipo del sangue, per esempio, o la prima terzina): questa è una poesia il cui autore implicito (il tu che ipotizzo alla lettura) ha meno ansia da prestazioni, più sufficienza quasi nei confronti dei propri mezzi (e l’ambiguità di sufficienza è voluta). Vorrei leggere altro di tuo. Sicuramente leggerò la tua raccolta inedita (che, mi informa Luigi Bosco, è stata tra le finaliste del concorso “Opera prima”), e se avrai inediti, mandameli: è probabile che uno di questi lo analizzerò per Poem Shot. 27 settembre 2013

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Testi

il nome consiste in questo sparire delle cose, nell’andarsene muti fra i fischi. dalla radice sottrae ancora il peso, di questo corpo che concede il taglio, che trabocca e fa naufragio. poi non rimane che acqua a destinarci alla terra, e non ci sono mai, - ma neanche per errore -, altre mani a farci scudo. – ora mischia i materiali in modo che non siano più nel riparo ultimo conca d’aria sfasa il fiato, annuncia un sorpasso. franiamo fra tutte le ispirazioni, ma senza respiro a reggere il gioco. (le mani di cui prima reggono l’acqua, fanno un’ampolla come per miracolo). esposti finalmente al fuoco aperto di ogni cosa.

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Notte under 21 pressati nel giorno, contro l’angolo del giorno una voce chiama, in rincorsa sul fiato, poco alla volta, preme sul collo. delle sirene ricordiamo solo le nostre tempie e poco altro, come dei lenzuoli i nodi che intrecciamo incaricati dal buio, dalla notte al fosforo. questa notte ho incastrato il mio occhio destro: si credeva un martello pneumatico contro il cranio. è vero, che la notte tiene a mente gli oggetti incastonati come sono nella camera, e così facendo, fornisce la giusta segnaletica], ci consente lei questa camminata sicura nelle 4:12. con queste pupille al palmo sono una forza un eroe mai visto. ci hanno spezzato le ali, è vero, ma nessuna paura:] perché del letto io mi occupo, gestisco le palpebre e le gambe.] i led hanno una missione base: salutare. poi con un po’ di esercizio accadono anche i mostri sul tetto, al livello 10 si avvera la cecità. ora ho una vista al pixel, al cm quadrato,

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- spento uno schermo se ne accende un altro di nuovo i superpoteri. mamma mi sento il cuore esplodere come se fosse successo qualcosa, invece solo il letto come di consueto. “l’inverno è neve, l’estate è sole” ma qui ci appare il bianco senza deviazioni, ci vuole dire qualcosa questo mostro mai visto. ormai detengo due cuscini a testa, mentre le pupille, come sempre, solo il monopolio della disperazione. sono sicuro che le ciglia sul cuscino organizzino altri occhi, per spiarci il sonno: la preview della morte, in quell’anticipo del sangue.

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riparte dal fondo, cede e retrocede l’acqua. falsa la vista sino all’ultimo gesto, sino alle mani che si fanno croce. totalizzo una scossa ogni trenta battiti del muscolo (ogni battito trattiene il secondo) risultano due scosse al minuto di media, di lato, ma così forte che: il risveglio. la morte – mi garantisco – è la variante definitiva del sonno, in un senso la morte è solidificazione, un concentrato di sonno che inciampa all’arrivo, non ri(esce): fa filtro. un sonno-succo dunque, d’arancia – nella fattispecie –. a tratti invece mi capita la morte in piena, frontale ma di colpo, come all’improvviso, una morte dove le mani non fanno scudo, depongono l’attimo: la morte come Dio comanda.

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Andrea Labate

Nota

Caro Andrea, con il ritardo che da sempre mi contraddistingue, vengo a queste tue poesie. Le analizzerò una alla volta, e poi seguirà un giudizio più sintetico. Spero che le mie impressioni possano esserti utili, anche se va da sé che nessuno, per quanto spieghi e argomenti, ha diritto di avere l’ultima parola contro quella dell’autore stesso!

Per non sentirsi isole Devo dire che mi piace, non credo che cambierei nulla. Il titolo, con la sua subordinata finale, indica un proposito, una volizione, e anche una sorta di vademecum o istruzioni per l’uso. C’è anche un riferimento intertestuale al famoso verso

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di John Donne, no man is an island, e un senso di piacevole disorientamento dato dal sottotitolo tra parentesi. Riesci molto bene, secondo me, a raggiungere un tono intimo – dato dall’allocuzione a un “tu” probabilmente autoriflesso, cioè riferito all’io poetico e non a un’amante – senza farlo scadere nel melodrammatico, anche se forse i vv. 8-9 (ogni qualvolta capisci che stai vivendo / e ti risvegli) rischiano un po’ il pop, la canzonetta. Riesci, dicevo, a tenerti distante dal rischio del melodramma o anche della svenevolezza, grazie anche a quegli incisi ragionativi (v. 2, vv. 4-5, v. 15) che sono comuni nella poesia del novecento e che però possono ancora essere usati con freschezza, come tu sembri riuscire a fare. A dire il vero, a un certo punto il “tu” sembra estroflettersi, rivolgersi a altri che te: la tenerezza veicolata in quello che dovevi dirmi di così bello e e ti ho atteso implica la presenza di qualcun altro. Questa poesia mi piace perché suona autentica, non si crogiola negli ammiccamenti comuni in autori anagraficamente più avanti e nei giovani “invecchiati”. Si sente che ogni cosa che viene detta ha fatto una strada piuttosto lunga

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dall’esperienza fino alla carta. Il dualismo tra sporcizia (rogna, infognarsi) e felicità si scioglie in una compenetrazione che forse deve qualcosa alla poetica Beat a cui ti ispiri, e che però se è vissuta prima fisicamente che letterariamente, ha senso d’essere riproposta. Mi piace, sempre a livello di contenuto, la difesa territoriale, animalesca, e lo spirito primordiale di sopravvivenza di questo dolce imperativo: La scena è tua – traccia la tua linea bianca / e difendila. Mi dice qualcosa di più collettivo, generazionale anche, di noi tra i venti e i trenta che dobbiamo lottare per ottenere o anche solo essere visti. Certo, forse questa è una sovrainterpretazione affettiva, tuttavia mi sembrava giusto registrarla. Venendo invece ai punti che mi convincono meno. Il testo è una sorta di monologo interiore, e nonostante alcuni (me compreso) possano farlo proprio agilmente, il rischio è quello di una autoriflessività troppo caratterizzata in senso individuale, e forse, sottotraccia, un processo di purificazione al contrario (Così dicendo sono salito sulla terra / - infognarsi è d'obbligo / per capire da dove uscirne integri) che sembra prendersi un po’ troppo sul serio, quasi da novello Zarathustra. La

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semplicità disadorna, quasi trascurata del verso aumenta la comunicatività dell’insieme, ma rischia anche di passare per sciatteria o acerbità.

Fixorrum Questa poesia ha delle punte molto alte, ma anche – secondo me – una buona ed evitabilissima dose di retorica e di ridondanza; problemi (dal mio punto di vista) che avevo constatato anche in altre cose tue lette per il concorso FARA. Cominciamo dagli aspetti positivi: tre formidabili versi nella seconda metà della poesia (spingerti da qualche parte / potrebbe essere una spirale di scale nel vuoto / (quella volta che avevo un maglione di bosco e camminavo su piedi impacciati)) e, più diffusamente, il senso di struggente e indifesa apertura dell’io confessionale, probabilmente un altro lascito positivo delle tue letture americane. Usi bene certe strutture colloquiali e che veicolano un senso di intimità, come tu avevi il tuo segreto luccicante, con il possessivo che rinforza l’allocuzione al tu e calca la sintassi inglese dove il possessivo prima del nome è obbligatorio; così come le frasi lasciate in sospeso,

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indice di oralità, e il dialogismo che comincia da e per la prima volta uscimmo soli. Forse ti sarai accorto che ho citato unicamente dalla seconda parte della poesia. In effetti, la prima parte specialmente soffre di quella retorica di cui dicevo prima. C’è sì un ribellismo spinto a partire dal primo verso, e un senso del cosmico che avevo rintracciato anche nella prima poesia che mi hai mandato; e però ho come la sensazione che queste immagini, questi enunciati, ti appartengano poco, cioè siano più parte di un certo bagaglio di letture che del tuo tentativo di esprimere, con la massima esattezza possibile, quella che dovrà essere stata la scintilla dell’ispirazione. Dirò di più: questa percezione che ho di poco controllo (non solo e non tanto formale, quanto contenutistico) deriva, secondo me, dal basso grado di specificazione dei versi, che potrebbero attagliarsi a molte situazioni (vedi la lista di entità presentate come astratte al secondo verso, o la tua paura che rimane generico). Questa poesia è ritmicamente assai meno posata della precedente, ma lo stesso si appoggia alla frase lunga come unità ritmica (il free verse americano e anche quello dei surrealisti francesi). Questo porta al problema di un prosaicismo atonale che, mentre

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permette di massimizzare l’impatto comunicativo, minimizza altri stimoli sensoriali meno apparenti. Per farti un parallelo vinicolo: è come se tu cercassi di caricare il tuo vino con un gusto molto evidente ai primi assaggi, ma che tutto sommato resta simile o perfino decresce in quelli successivi; invece dovresti complicare leggermente le risonanze foniche e strutturali di modo che le letture successive portino qualcosa di diverso, rendendo l’esperienza estetica più ricca. Il mio parallelo non è casuale: mi ricordo di un vino americano (!) molto impattante all’inizio ma che poi perdeva terreno nei sorsi successivi, contro un vino francese che aveva un gusto più diffuso e più lungo nel tempo. Ecco, mi piacerebbe che il tuo sostrato americano aggiungesse qualche nota francese, diciamo così. Questo credo sia un problema comune a molta poesia americana, specialmente se tradotta in italiano, dato che un mito anti-intellettuale rischia di dare il via al laissezfaire della scrittura. Infine, nonostante le differenze ritmiche con la poesia precedente, anche qui il modo della scrittura è quello della confessione e dello spunto biografico

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trasfigurato, con tutti i potenziali rischi manieristi che questo comporta.

Per la riapertura dei mercati tutto questo non importa Voglio bene a questa poesia, forse anche perché la ricordo dal concorso FARA, ed era una delle poche boccate fresche dentro un magazzino di maniere e di pose ingessate. Qui da subito c’è un marcato contesto comunicativo, con colloquialismi misti a una deissi interpersonale, cioè l’uso di pronomi con cui sei in rapporto diretto (me lo schiaffi addosso). C’è un senso vivido ma assai meno retorico che nella poesia precedente; parti in medias res e, anche se il lettore non sa di cosa stai parlando (cosa ti viene fatto notare?) né capisce l’apparente nonsense del sottotitolo tra parentesi (sia tonde sia quadrate), si trova in qualche modo coinvolto nel testo. Qua e là forse c’è qualche compiacimento aggettivale (scarpe di gomma dialettali) e sovraccarico aggettivale (l’uso di due aggettivi polisillabici a fine verso in versi consecutivi, come avventuriero e tempestivo, è francamente pesante).

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Interessante notare che qui l’uso di cose, che come forse sai in genere depreco, va bene perché è funzionale al contesto parlato del testo, dato che questi termini generici sono comunissimi nella conversazione di tutti i giorni. C’è un crescendo lirico e immaginifico notevole verso le ultime strofette, dall’efficacia vuoto-presenza del concretissimo avere in gola tutti i nomi di chi non ha fatto presenza al lirismo archetipico, impossibile, di il nero non aveva luogo. Come ben sai, i due versi finali sono per me da antologia. In generale, questa tecnica della giustapposizione e del nonsense, o del cambio repentino d’immaginario e delle associazioni fulminee e però mai oracolari (mai alla De Angelis, per intenderci) è molto proficua e la utilizzi bene, ma come tutte le maniere rischia di perdere freschezza e impatto con una sovraesposizione. Meglio, secondo me, puntare a una varietà che ti permetta di usare ogni strumento in modo espressivo e funzionale senza impoverirlo con la ripetizione.

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Nel complesso… Non ti faccio mistero di essere attratto da certe cose del tuo modo di fare poesia, forse perché lo avverto lontano dal mio ma portatrici una possibilità alla quale io, che vengo da letture più italiane o accademiche (avevo letto i Beat da giovane, ma ormai la disciplina di Montale era dentro di me), fatico ad avvicinarmi pure agognandola ogni tanto. Al tempo stesso, però, intuisco i problemi di poca cura, trascuratezza e manierismo che emergono a tratti, annacquando una base autentica e piena di pura forza. Credo che, a livello puramente procedurale, quello che dovresti fare sia – ma te l’avevo già detto in passato – da un lato continuare ad accumulare testi con la libertà e quasi genuina strafottenza di adesso; dall’altro però, dovrà venire un momento di ardua disciplina in cui tutto il superfluo dovrà essere tagliato, tutte le scelte ritmiche e lessicali valutate rispetto ad altre possibilità, valutando anche la possibilità di un contributo più diretto della struttura (proprio per ottenere un minimo di quell’effetto “francese” di rilascio lento), ad

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esempio con l’uso di versi dal ritmo piÚ tradizionale o di enjambement. 6 gennaio 2014

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Testi

Per non sentirsi isole (l'ozio accorcia le distanze) "La felicità è un angelo dal volto serio" -oggi ha il tuo con la rogna sulla faccia e il tuo lieve sovrappeso Esserne esemplare- per qualche ora non ci saranno sconfitti- e gli strani movimenti della felicità. Il successo nel senso che succede ogni qualvolta capisci che stai vivendo e ti risvegli. Questa sera il tramonto è un'ora dopoquello che dovevi dirmi di così bello. E ti ho atteso. Così dicendo sono salito sulla terra - infognarsi è d'obbligo per capire da dove uscirne integri. La scena è tua- traccia la tua linea bianca e difendila. Ora goditi una notte di fiammiferi e di sesso.

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Fixorrum elogio per te/fratello-umano Distruggi in ordine la madre il padre la domenica il finto peccato tu sei lo spirito santissimo marchiato al miracolo dalla prima boccata d'aria comunque solo con la tua paura estesa a notte fonda e io potrò al massimo seguirti dallo sguardo cometa e dire: O.K. oppure: quello che programmi ha la fortuna di non esistere

Qualcuno mi insegnò l'improvvisazione dell'attimo irripetibile] qualcuno mi insegnò ad amare "la sbornia benevola accanto a una merda di vacca" qualcuno mi disse cavalca con grazia l'unica costante della vita: la corrente e per la prima volta uscimmo soli e per la prima volta parlammo da uomini (mi scordai di dirti di quella mia volta...) -tu avevi il tuo segreto luccicante da confessarenon c'è nessuna scadenza matura per l'esperienza spingerti da qualche parte potrebbe essere una spirale di scale nel vuoto

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(quella volta che avevo un maglione di bosco e camminavo su piedi impacciati)] -scovasti una canzone americana per sentirvi meno sudati e il cloro serpeggiava nelle mutande] (sii semplicemente lĂŹ e respira ho visto tanti schiacciati per molto meno) mi scordai di dirti di quella mia volta che avevo un maglione di bosco e piedi impacciati e un naso invernale] accanto alla mia prima ragazza in bicicletta Vi siete baciati? la tua risata e quello che ancora ci sarĂ da dire.

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Per la riapertura dei mercati tutto questo non importa (cosa resta di un orto se l'alba è decomposta) [e perché non si può imbalsamare un'anima] se ne sta andando-e me lo schiaffi addosso come acqua gelida.]

la personalissima maniera di farmi notare le cose. Sul filo di un fiato strascicato ogni scusa è buona per renderlo evidente. e la tua tristezza muta nel vedere che nessuno se ne prende più cura. Le tue scarpe di gomma dialettali prima avevano un senso avventuriero. ora è tutto un ammirare in modo tempestivo. il giorno esatto dell'ultimo acquazzonee riproporsi a metà agosto come una presenza significativa

Ti suscito sempre qualcosa di irrisolto quando dico che ho alcune cose da ultimare- da una vita. E allora diamo la colpa al terreno sgranato avere in gola tutti i nomi di chi non ha fatto presenza. Ma nessuno oggi ti ha visto bene per come camminavi. Un errore che ci rimandi al porto

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il giardino era gonfio e la notte cosĂŹ leggeraniente da riempire e il nero non aveva luogo. Pensa se un uomo non potesse piangere quando gli pare.

Tra tutte le cose proprio quella sedia vuota sotto l'albero di banane e lĂŹ qualcuno ha il dovere di non fiatare.

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Gianluca Mantoani

Nota

Gentile Gianluca, non ho davvero scuse per il ritardo imbarazzante con cui torno, dopo sue giustissime sollecitazioni, sulle sue poesie. Spero che le mie osservazioni possano ripagare almeno in minima parte questa lunga attesa. Comincio a commentare su ogni poesia separatamente per poi dare un giudizio complessivo.

La valle si apre Riconosco, forse perché anch’io vivo nella Pianura e prendevo regolarmente il treno, quanto descrivi. Mi piace l’inizio in medias res, con un tempo presente che coglie sia l’attimo dell’azione sia la sua ripetizione (strade / che spargono donne e

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uomini). Mi piace anche il colloquialismo dell’avverbio praticamente e il tono riflessivo/contemplativo dell’insieme. I versi sono dinamici il giusto da suggerire il movimento nella prima strofa, e le inarcature nelle ultime due sostengono la meraviglia (davvero / prende profondità) e lo sgomento descritti. La gestione del verso e del lessico mi sembra sicura e senza pecche particolari. Detto questo, ho riserve d’altro tipo – di poetica, direi. Anzitutto, da un lato sia stile sia temi rischiano di ripetere un luogo novecentesco un po’ usurato, quello dell’osservatore che, in un momento epifanico, assiste a una sorta di miracolosa compenetrazione con l’esterno (che sono già in lui). Nulla di male in questo, di per sé, e probabilmente anch’io a lungo sono stato affascinato dall’epifania nel quotidiano. Eppure, il rischio è che la testimonianza narrata si riduca a epifania soggettiva, a fatto puramente biografico, come succede in non poche poesie di Prove di libertà, libro di Stefano Dal Bianco non particolarmente riuscito a mio avviso (anche là si parla del lascito di un viaggio). La seconda riserva è strettamente legata alla prima: proprio perché da un lato descrivi l’oggettivo (relativo, ovviamente)

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visto dal treno, e dall’altro una tua reazione ad esso, mi sembra che la scelta di usare la constatazione diretta (le coglie ovunque) indebolisca la poesia: come se sentissi il bisogno di rendere esplicito il suo tema anziché, più indirettamente, lasciare intuire gli effetti di questa osservazione. Quel Ma a inizio verso è un’altra spia sicura di una poetica novecentesca che ha fatto il suo corso e dalla quale, a parer mio, dobbiamo sforzarci di uscire. Insomma: forse mi piacerebbe che osassi di più, nel senso di scoprirti maggiormente, oppure all’opposto cercherei maggiore freddezza, magari evitando quei lacerti assertivi (Così i treni dividono il tempo) alle quali anch’io mi affidavo molto ma che rischiano di smorzare la percezione di autenticità di una poesia.

Atti di Transazione Generale Novativa Poesia decisamente diversa dalla precedente, spudoratamente prosastica e di carattere apertamente “sociale”. A guardar bene, tuttavia, la spinta è la medesima: li osservo come un entomologo. C’è nuovamente distanza, c’è una attitudine molto

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didattico-ragionativa che nell’altra poesia affiorava e qui invece si prende tutta la scena. Non lo so, ho problemi con questa poesia perché, pur intravedendoci uno stile e temi tipici di alcuni poemetti degli anni ‘50/’60 (Vedi Una visita in fabbrica di Sereni), mi sembra che il testo rischi di ridursi a una specie di parafrasi del contratto citato in corsivo in alto. Io non credo che esistano toni giusti o sbagliati in poesia, ma che si debba stare attenti a usare con parsimonia quelli più “estranei” all’afflato lirico: nel modernismo aveva avuto senso inframmezzare a sprazzi lirici lunghissimi documenti legali o storici, eppure ciò di cui resta memoria è il peso di quanto si dice e il successo di qualche immagine. Lo spunto di questa poesia è assai forte, però non mi sembra tradotto nel linguaggio emotivo che ci si aspetterebbe. Non intendo dire che occorre essere svenevoli, tutt’altro. Ad esempio, avresti potuto rendere il senso di estraniazione che segue un dolore incredibile o la fine di un lavoro (l’osservo come un entomologo) cercando di parlare d’altro, focalizzandoti su dettagli irrilevanti, senza il bisogno di esplicitare il tema a ogni verso e senza esplicitare lo stato d’animo verso la fine (togliendomi

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soldi, fiducia) ma lasciandolo intuire, mostrando anziché dicendo (per es. togliendomi soldi, fiducia potrebbe essere riscritto come la monetina sarà caduta dalla tasca, / ci ha preceduti nell’idea di scivolare via).

La consegna Questa mi sembra, delle tre, la più riuscita. Sei diretto e prosastico, eppure riesci a trasmettere, col minimalismo della fine, come l’abitudine (o la vita? Con la consegna del latte…) prevalga sull’orrore e sulla cronaca, specialmente in quanto mediate. Il tono sembra di sottile sarcasmo e disillusione, forse anche per via di quel latticini che suona ironico. Come potrebbe esserlo alla ribalta che, usato come espressione di successo nel linguaggio corrente, preannunzia invece una lettura letterale (alla ribalta = ribaltato; per questo potresti forse omettere ribaltato dal verso 4). L’inizio mette in medias res, con quel poi che qui non è avverbio di tempo ma marca colloquiale, mentre diventa avverbio di tempo nel crescendo dell’anafora all’inizio di ogni strofetta. La prosasticità è

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controbilanciata bene dall’uso delle rime interne. Qui sei testimone diretto senza nemmeno una volta dire “io”: anche per questo, credo, la poesia è una poesia riuscita.

Giudizio complessivo Purtroppo e inevitabilmente non si può dire molto di un autore a partire da poche poesie. Però ho l’impressione che tu cerchi di differenziare stilisticamente le poesie (o forse questo era un criterio di scelta affinché io potessi avere un’impressione il più possibile variegata della tua attività) mentre il centro tematico dell’osservazione rimane intatto. Personalmente, apprezzo i dettagli concreti della tua poesia e il respiro potenzialmente collettivo che vi si avverte, ma penso che a tratti si potrebbe lavorare di più sul piano espressivo, magari evitando di esplicitare i temi o addirittura un tema (altrimenti, potresti farlo ma in chiave ironica) e provando a far parlare di più le immagini, aumentando la loro risoluzione (il dettaglio attraverso cui enunci le cose) e quindi,

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implicitamente, anche il tuo coinvolgimento di osservatore pienamente “partecipante�. 31 maggio 2014

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Considerazioni dell’autore Ciao Davide, grazie infinite per l'attenzione e la precisione con cui hai letto i testi. Non scusarti per i tempi perchè in ogni caso il servizio che mi hai reso è davvero importante, ti ho sollecitato perchè ho solo temuto che alla fine ti passasse di mente di rispondere. Le critiche sono puntuali e mi danno modo di tornare sul testo con attenzione diversa. La seconda poesia è, come hai intuito, quella che trasuda più coinvolgimento diretto e quindi necessita evidentemente di un intervento per darle equilibrio prendendo le distanze. L'ultima, che tu trovi meglio riuscita è paradossalmente quella che è stata prodotta con meno interventi e mediazioni. Al contrario della prima nella quale non riuscivo però a notare quelle che tu chiami "spie didattiche" e che in effetti denunciano una certa mancanza di forza nel dare al tema trattato una veste discorsiva che possa stare in piedi al di là del proprio coinvolgimento emotivo. Quel testo era nato come una descrizione narrativa e poi certe tensioni interne mi hanno spinto a cercare di riportare il testo in una poesia.

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Mi lasci un'indicazione di lavoro che è molto e anche un'opinione favorevole sull'uso del verso e del lessico, che mi fa piacere. L'indicazione sulla necessità di affinare la scelta di poetica in una direzione piuttosto che in un altra è altrettanto importante. La cosa più difficile e preziosa è avere un parere critico su cui lavorare. Grazie ancora Gianluca Mantoani

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Testi

La valle si apre La valle si apre e le chiuse governano i canali, l'elettrodotto corre ramificando la pianura sopra strade che spargono donne e uomini verso foglie di destinazioni e legano radici, praticamente ovunque, come l'erba selvatica. CosĂŹ i treni dividono il tempo, tagliano la luce, sciamano innumeri gesti personali, ripartendoli fra le stazioni di diversa importanza. Inizia la giornata in seconda classe, seduto guardare la pianura che riassume da poche centinaia di metri alla vista usando come vuole le tegole, le siepi, i salici, le galline, i muri di fabbrica i bassi fabbricati, le code, i passaggi a livello, i tronchi giĂ marci nel fiume, le strisce regolari di letame nei campi.

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Ma è da questa parte degli occhi che davvero prende profondità la Pianura. Dalla sua parte si modella come liberando un taglio di porfido dal volume ingannevole, la mano del visionario scultore, suscita infine, nella luce, l'impressione di figure che sono già in lui, soprattutto perché le coglie ovunque, suo malgrado, con meraviglia e curiosità e sgomento.

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Atti di Transazione Generale Novativa ex artt. 1965 e segg. del Codice Civile “Premesso che le Parti hanno rilevato che le condizioni per svolgere le mansioni di cui al punto A sono venute meno; ai fini della conservazione del posto di lavoro, il Lavoratore manifestando disponibilità ad accettare un inquadramento inferiore, e una riduzione della retribuzione lorda, ha fatto altresì richiesta

di essere adibito ad una nuova mansione. Tutto ciò premesso, il Datore aderisce alla richiesta e il Lavoratore, nell’accettare quanto sopra, dichiara di essere pienamente soddisfatto

e di non avere altro a pretendere...”

Perciò ecco il Lavoratore oggetto del conflitto di interessi, (essendo un atto individuale non è esatta la categoria del conflitto di classe ]

o non è più questo il punto?),

ma stemperato sobriamente – il conflitto - nell'idea conviviale

di un “accordo fra le parti”.

Ed ecco – infatti - che firmano - le Parti - assistite dai Rappresentanti] di Categoria - una riduzione di stipendio a scambio di un posto di lavoro non perso. L'osservo come un entomologo, l'osservo come un antropologo] (partecipante, intendo) come se stesse capitando ad altri, l'Azienda profittare,] proprio nel senso tecnico di trarne il miglior profitto,

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dal suo essere l'attore dominante. Il piĂš forte fra le parti.

Togliendomi soldi, fiducia, veritĂ , parole, lasciandomi ancora una volta, la voce, da troppo tempo, piĂš che repressa, ormai. rappresa.

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La consegna Poi un giorno il camion delle consegne dei latticini semplicemente non è arrivato alla ribalta dello Scarico Merci. Poi qualcuno per telefono ha saputo dell'incidente in tangenziale, del mezzo ribaltato, un altro ha ricordato

la radio, il giornale, prima dell'alba in tangenziale un incidente mortale.

Poi l'Addetto al Ricevimento scrollava la testa e lentamente, fra le pedane, ognuno portava un pezzo: l'etĂ , la storia, un malore,

un nome.

PiÚ tardi, in qualche modo, è arrivata lo stesso la consegna

del latte.

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Floriana Porta

Nota

Gentile Floriana, mi scuso per il ritardo e la ringrazio per la giusta sollecitazione. Vengo dunque alle tre poesie che mi ha mandato in allegato. Devo dire che, per quelle che sono le mie letture e la mia sensibilità critica, le trovo non ancora del tutto formate. Anzitutto, mi sembrano troppo far leva su metafore ermetizzanti che sanno di già sentito (per esempio, crinali del silenzio, lune d’oblio) e su un lessico molto basilare che limita l’immaginario al già poetico, adagiandovisi (silenzio, respiri, tempo, onde, corpi, voci, parole) anziché piegarlo a una visione più sua, meno genericamente idealizzata. C’è una buona gestione del ritmo, ma la semplicità estrema (per esempio, l’isolare parolechiave ripetutamente in un verso singolo, come

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isole e tu) dà una specie di meccanicità o prevedibilità al testo, come se il verso non fosse abbastanza attraversato e vissuto. E poi c’è un problema più fondo, che caratterizza questo modo poetico che non posso non considerare naif: non si capisce quale sia il punto delle poesie. Mi spiego: ogni poesia sembra accontentarsi o di invocazioni generiche, o di riciclare immagini dal repertorio del poetese. Non si riesce a leggere in filigrana la necessità e urgenza a monte della scrittura, è come se queste poesie fossero solo bozze preparatorie. Io credo che la poesia debba andare molto oltre l’obiettivo di evocare immagini piacevoli per alcuni. Vedo tuttavia un guizzo in più nel finale della poesia Tu: dai filamenti di luce / dove tutto è accaduto è una buona chiusa, è un buon modo di usare il tono lirico senza farlo scadere nell’ovvio. In questi casi solitamente mi arrogo il diritto di consigliare delle letture novecentesche o secondonovecentesche (Sereni, Luzi, Rosselli, Zanzotto, Caproni…) per mostrare come temi simili possono essere caricati di implicazioni etiche, storiche o sociali, e come il lavoro sulla lingua evita il cliché del paesaggio generico, in cui, beninteso, anch’io

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sono caduto in passato. Solo leggendo molto si capisce che quei tentativi poetici erano inarticolati, un desiderio di esprimersi in modo poetico senza dare veramente forma a quello che si è e a come si recepisce il mondo. So di essere stato forse duro a tratti, ma questo è l’unico modo di veicolare un parere sincero senza affossarlo nel politically correct. Spero comunque di tornare a leggerla in futuro con poesie più corpose e personali, dove si possa leggere in filigrana l’assimilazione delle voci del novecento. 14 dicembre 2014

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Testi (tratti da Quando sorride il mare AG Book Publishing, 2014)

Isole Isole velate, coperte, chiuse sui crinali del silenzio nel tempo senza tempo. Nascono e rinascono su altri volti, nel tepore equoreo non so su quale spiaggia. Isole quasi rubate, precedono i respiri alle nostre spalle. Isole, ancora isole mi attendono.

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Tu La sussurrerò al mare la tua bellezza, nei golfi segreti di lune d’oblio. Tu per sempre, tra le onde. Tu nella salsedine. Proprio in quel mare consumato dal tempo e mai vissuto, che a poco a poco si risveglia. Il tempo ci scorre dentro, nascosto e sospeso nei capricci dell’immortalità. Tu sbocci dal mare, dai filamenti di luce dove tutto è già accaduto.

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Nessuna voce dal mare Non hanno parole i corpi distesi e paralleli di terre nuove. Ridisegnano i loro confini, nel respiro di enormi crateri, fra vocali e consonanti. Un mare che non sente le parole che conducono al cielo. Un moto obliquo di taciturne corde vocali, da lingua a lingua. Si sono perse fra i poeti le voci del mare.

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Alessandro Salvi

Nota

Caro Alessandro, è con un ritardo abissale che finalmente riesco a risponderti. Me ne dispiace, e a mia discolpa posso solo dire che quest’anno non tutto è andato secondo i piani e ho avuto problemi e rallentamenti con il dottorato che mi hanno tolto non solo il tempo, ma soprattutto la serenità per dedicarmi compiutamente anche ad altro. Ora però sto riuscendo a riprendermi il mio tempo, e quindi ti scrivo in merito alle tre poesie che mi mandasti. Le poesie in generale mi sono piaciute, nel senso che vi ho avvertito una certa libertà, una lontananza da modelli costrittivi e anche una certa godibilità di lettura. Hai un modo coeso di fare poesia, poiché tutte e tre le poesie (poi ovviamente non sono in grado di dire se questo è il tuo modo

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principale o solo uno dei modi possibili) si configurano come brevi racconti tra allegoria e confessione, ma immersi in situazioni per metà quotidiane e per metà oniriche, con una certa ironia e una forte presenza dell’io narrante e protagonista delle vicende. C’è una schiettezza e una prosasticità che al tempo stesso sono la loro forza e il loro limite. La loro forza perché appunto queste caratteristiche ti mettono al riparo dalla nostra pesante tradizione letteraria, e chissà, forse il fatto che tu vivi all’estero ha aiutato in tal senso. Un’altra forza, su cui poi tornerò nei paragrafi dedicati alle poesie prese singolarmente, è una certa precisione o efficacia dell’espressione in certi giri di versi particolarmente riusciti. Il limite invece risiede nell’arbitrarietà, in un certo senso, della forma, dato che l’impianto fortemente narrativo e dialogico, i colloquialismi, si accompagnano a un uso poco definito del verso; si capisce che vai a capo per motivi di respiro o per mettere in risalto qualche sporadica rima, ma talvolta gli a capo sembrano un po’ casuali, e secondo me se si scrivono versi bisogna ricordarsi che ogni verso è anzitutto un’unità formale. Insomma, se le poesie fossero messe giù nel continuum della prosa, cosa

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si perderebbe? Questa secondo me è una delle domande che dovresti porti. Diversamente che quando faccio per altri che mi hanno mandato il proprio materiale, nel tuo caso mi sono dilungato di più in un discorso unitario sulle tre poesie, dato che ci sono elementi comuni che potevano essere discussi insieme. Adesso vengo alle poesie nello specifico.

Ecco il rinfresco... Ci sono alcuni lampi di verità confessionale (Ma sono stanco, / stanco dei doppi sensi e degli accorgimenti / di chi la sa lunga) ma anche, a mio parere, delle cadute, come certi giochi di parole che, benché funzionali al discorso, sono troppo esposti e portano a cacofonia - mi riferisco al terzo verso, nello specifico. C’è, in generale, un troppo “pieno” del detto, mentre, specialmente in un contesto prosastico come questo, ci vorrebbe una narrazione più scorciata, ellittica, meno didascalica. Altrimenti, la poesia esaurisce la sua forza alla prima lettura, mentre invece dovrebbe contenere

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un quid (o quel nulla / d’inesauribile segreto, direbbe Ungaretti) che attragga e ci forzi a ritornarci. E infine non mi piace il sottinteso dell’ultimo verso per come lo interpreto, ovvero l’autoassoluzione dell’io poetico (dell’autore, quindi) quando afferma di essere il solo normale ma un mostro agli occhi degli altri. Insomma, c’è troppo chiara l’emergenza di un dato biografico che però, non essendo stato abbastanza a lungo filtrato, rischia di avvicinare il testo a uno sfogo al tempo stesso dettagliato e oscuro.

E se uno sconosciuto mi rivolge… Qui valgono, in parte, le stesse considerazioni di cui sopra. Ci trovo della diluizione, con ripetizione di concetti senza che però questa ripetizione mi sembri esteticamente motivata cioè funzionale al contesto. Ad esempio, si potrebbe fare a meno di non sempre gli rispondo e attaccare da faccio finta che un mondo non esista. E la chiusa mi sembra altrettanto “chiusa” all’esterno, nel senso del ripiegamento e dello sfogo, che la chiusa della poesia precedente. Eppure, questo mi sembra un

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testo più compiuto ed efficace, forse perché i versi dal 6 all’11 hanno un loro impatto visivo, una originalità e un ritmo sostenuto che ne fanno davvero un bel passaggio poetico. Poi però torna la nota esplicativo/confessionale (sempre verso / le mie frequenti peregrinazioni nell’ignoto), e la poesia sembra ridursi all’illustrazione di un concetto, di un messaggio comunicativo che sarebbe emerso più forte, o emerso diversamente, se avessi raddensato il tutto alla sua parte visiva. Ho provato a raddensare, e il risultato – quantunque diverso magari dalle tue iniziali intenzioni – mi sembra migliore: E se uno sconosciuto mi rivolge la parola, faccio finta che un mondo non esista e poi basta. Perciò lasciami stare, avvolto dal rumore di questa evanescenza, entro questo flebile brillio, – proprio qui, adesso – tra orari di chiusura, calici piangenti, caffè corrotti con la grappa e il latte... tra le felci e i mirtilli di chi sogna assai improbabili rivoluzioni.

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Come non mi riuscì di vendere l'anima al diavolo Mi piace la schiettezza sorniona dell'attacco, il rovesciamento operato dall'ironia. Ma, di nuovo, mi sembra che la poesia si appiattisca nella digressione. Forse più di altre, questa è la poesia che avrei potuto leggere in prosa. Vero, magari il Montale da dopo Satura potrà avere avuto una sua influenza, ma allora appena si allenta la forma, il contenuto deve diventare impeccabile, perché viene messo in risalto. E infatti, anche se c'è originalità nel titolo e all'inizio, presto il resto si fa prevedibile, non offre scarti né a livello visivo, né a livello di contenuto – in effetti, il testo rieccheggia magari certi sketch comici che fanno del paradosso e del rovesciamento il loro perché, ma allora il dialogo avrebbe potuto essere più inusuale o brillante. Ci si appoggia troppo, mi sembra, a una conoscenza stereotipica. Più efficace il finale, proprio perché ripristini la narrazione e lasci del non detto, cioè non è del tutto chiaro quali saranno gli effetti o la significanza di questa apparizione. 14 giugno 2014

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Testi

Rinfresco Ecco il rinfresco a serata conclusa: dalla massa emerge un escato(poco)logico rompitore di scatole. In un primo momento mi relega ai margini, poi vuole farsi complice del mio malessere. Ma sono stanco, stanco dei doppi sensi e degli accorgimenti di chi la sa lunga. Gli chiedo se per caso ha mai taciuto un suo pensiero, al che mi risponde di non aver capito la domanda, di spiegarmi meglio. Allora gli ripeto quanto detto prima ma lui è già altrove, sparito in un baleno, come un vento lasciandosi dietro solo un olezzo. Non sapendo che fare, imbarazzato zittisco e faccio il finto tonto. Torno a casa, spengo il cellulare, poi spendo il mio sangue come fosse inchiostro: tra un branco di vampiri, il solo ad essere normale è agli occhi degli altri un mostro.

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E se uno sconosciuto mi rivolge la parola, non sempre gli rispondo. Faccio finta che un mondo non esista e poi basta. Perciò lasciami stare, avvolto dal rumore di questa evanescenza, entro questo flebile brillio, – proprio qui, adesso – tra orari di chiusura, calici piangenti, caffè corrotti con la grappa e il latte... tra le felci e i mirtilli di chi sogna assai improbabili rivoluzioni. Cosa dici, non basta? è ancora poco? Sì, questo credere nell'invisibile e questo parlare dell'indescrivibile mi portano lontano, sempre verso le mie frequenti peregrinazioni nell'ignoto, nel vuoto, nell'onirico. Dove mi trovo solo, mio dio, unico.

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Come non mi riuscì di vendere l'anima al diavolo Ho cercato di vendere la mia anima al diavolo ma non c'avevo spiccioli per restituirgli il resto, infine non se n'è fatto niente, pazienza sarà per 'n' altra volta... "Ma tanto fa lo stesso" mi disse un po' depresso, questo povero diavolo. "Nessuno più mi prende sul serio" singhiozzava. Allora decidemmo su sua grande insistenza di farci un giro in lungo e in largo per l'inferno; con mio grande stupore notai che non è nero come lo si dipinge: macchine parcheggiate bene, gente contenta, zero disoccupati. "Non c'è la recessione, qui da noi tutto fila per il meglio, soltanto che il clima s'è fatto un tantino calduccio, come da voi" aggiunse. Un po' sorpreso, annuii ma poi gli chiesi: "Senti, quale regime regna nel mondo degli inferi?". Mi guardò un po' di sbieco, poi fece: "La politica mio caro amico non ci interessa mica, roba vostra, tenetevela! meglio il vizio e la fica"

sicché avvertii un gran botto. Scomparve in una nuvola

che emanava un odore, anzi un tanfo di zolfo. Così mi ritrovai di nuovo qui, di colpo.

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Dominica Villa

Nota

Cara Dominica, eccomi finalmente a risponderti sulle tre poesie che mi hai inviato ormai quattro mesi fa. Mi soffermerò dapprima su questioni generali di poetica per come emergono dall’insieme delle poesie, e poi andrò più in dettaglio nell’analisi di ciascuna. Anzitutto, i tre componimenti mi sembrano molto coesi fra loro, con uno stile e una voce omogenea, e con un tema comune – la morte e il disfacimento, certo, ma poi qualificherò meglio l’angolatura a cui sottoponi questi temi. Io credo che una certa qualità della scrittura – nel senso di mestiere – sia fuori discussione: i versi sono ben scanditi, l’uso lessicale è attento (benché spesso non incontri il mio gusto e abbia altre riserve – ma per quelle, vedi direttamente i commenti a ciascuna

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poesia). C’è, insomma, consapevolezza compositiva. Quello che però non trovo (e non escludo che questo possa essere un limite mio), a livello più profondo, è la funzione, il perché di una poetica evidentemente astorica, aristocratica e barocca, dove prevale l’astratto e la posizione di chi canta è lontana, indifferenziata, cioè non tradisce pietas, incrinatura psicologica, ironia o altro. È come se la voce fosse disancorata, mentre però i motivi di questo straniamento o altezzosa lontananza non sono apparenti, cioè non sono abbastanza giustificati dal tema. Cerco di spiegarmi meglio: ho come l’impressione che i richiami alla morte siano pretesti per la scelta di un tono e una postura, anziché veramente auscultati nel loro potenziale (di dolore privato o collettivo). La prima poesia, Nei freddi tramonti azzurri, esemplifica bene questo mio dubbio. La voce di chi scrive è quella di chi registra un evento lontano e che quasi non la riguarda. I morti, il crimine, i greti mi fanno pensare a una strage o fucilazione di massa, ma ogni accenno od occasione storica scatenante sono rimossi, cosicché una eventuale ragion d’essere del testo viene meno. Viene il dubbio che la presenza del bianco e del tramonto sia

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una gemmazione simbolista (‘bianco’ e ‘tramonto’ sono simboli convenzionali per la morte), il che fa sorgere il dubbio di un testo generato da regole interne e che resta a qualche distanza da chi scrive. Il sospetto è che ci siano tracce (pur nobili, sofisticate) di un manierismo con il quale non si sono fatti tutti i conti e che, pur nella ricercatezza del dettato, occulta la tua voce personale. Anche la presenza (pure nelle altre poesie) dei corsivi, che solitamente indicano voci altre, stralci di dialoghi, qui sembrano un po’ casuali – mi sfugge, per esempio, perché proprio quelli e non altri versi siano in corsivo, e quale sia la funzione del corsivo qui. A livello stilistico poi la scelta di anteporre l’aggettivo al sostantivo aggiunge pesantezza, e toglie contemporaneità al dettato; non che questa scelta sia di per sé illegittima (nulla forse lo è, in poesia), ma non capisco ancora una volta la sua funzione, contro cosa reagisca – buona parte della poesia contemporanea va contro questi stilemi da decenni, pertanto potresti mettere più in chiaro il senso di questa inattualità, oppure smussarla, liberando e sciogliendo il dettato. Il discorso fatto vale anche per la seconda poesia, Prima di tutto sopraggiunse la ruina. Il

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preziosismo ruina (anche qualora fosse un calco dallo spagnolo contemporaneo, in italiano sarebbe sempre percepito come preziosismo) sembra arrivare dal nulla, non preparato da nessun contesto, con un effetto straniante che per me rimane in superficie. C’è la ruina, gli dei e la verità; sembra mancare il mondo, l’esperienza. Non è mai possibile ricostruire un contesto come punto d’ancoraggio, e la terza persona (come nella poesia precedente) rimane non-specificata e nemmeno inquadrabile. Vedo che hai una fascinazione per modi oracolari e orfici (non troppo di mio gradimento, a dire il vero, ma il gusto conta fino a un certo punto), e qui il titolo sembra richiamare strutturalmente il biblico In principio fu il verbo. Anche qui l’aggettivo, già carico, è spesso preposto al nome (recisa testa, funeree allucinazioni, scabra scorza) con effetti che, secondo me, fanno datare lo stile del testo a una settantina di anni addietro. Insomma, anche qui c’è molto dire (come un’orazione o un salmo) ma ben poco mostrare, poco partecipare. E su gli scarlatti campi invece può indicare una via d’uscita da questo disancoramento non sofferto (per come arriva al lettore, ovvio, non oserei

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mettere in dubbio i sentimenti di chi ha scritto). Infatti, pur condividendo gli stessi stilemi delle altre poesie (il fuggire da una lingua viva, il rischio di posa e di maniera), attacca con forza e personalità, nel primo verso che è, guarda caso, semplice sia sintatticamente sia lessicalmente (bisogna essere capaci di tutto) ma che, a livello più profondo, può dire la determinazione o anche il cinismo di chi scrive. L’effetto purtroppo si interrompe al secondo verso, con una contorsione sintattica (l’accumulo di preposizioni con della) che secondo me non è affatto necessaria. C’è un gusto del paradosso e dell’epifania che produce un verso icastico (fiorivano le rose dolcemente decapitate), mentre i colori fanno pensare a un quadro (sempre stilizzato tuttavia, vista la genericità dei muri grigi e degli scarlatti campi – anche qui, invertirei l’ordine in campi scarlatti). Peccato poi per quella sequela di aggettivi e avverbi valutativi (spaventosamente, drammaticamente) che, esplicitando un punto di vista e di giudizio, rendono pigro il lettore costringendolo al tuo stesso sguardo o giudizio, oltre ad appesantire sillabicamente il verso. Vale ancora la regola del mostrare, piuttosto che del dire.

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In sostanza, credo che tu debba compiere una scelta abbastanza radicale: o abbracci fin nelle ragioni profonde le scelte stilistiche e tematiche che ti caratterizzano, assumendole in modo tale che non possano essere tacciate di manierismo e di posa, e cioè facendo sentire le ragioni profonde del tuo straniamento; oppure smorzi, diluisci le punte, rendi piÚ visibile il contesto, accetti la sfida di una comunicazione a carte piÚ scoperte. Spero che questa nota, o anche solo alcune sue parti, possano esserti utili. 6 luglio 2015

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Considerazioni dell’autore Astorica, tu dici: in effetti “astorica” può andare, ma solo nel senso che io parlo di come pare a me la sostanza – tragica – della condizione umana al di là dei cambiamenti storici che certo ci sono stati e ci sono. Aristocratica, tu dici: io intenderei – meglio – una solennità, una elevatezza di tono proprio perchè a contatto con materia dura, incandescente, e delicatissima al contempo. Barocca, tu dici: beh il barocco non mi dispiace. Tu dici: “dove prevale l’astratto e la posizione di chi canta è lontana, indifferenziata, cioè non tradisce pietas, incrinatura psicologica, ironia o altro”. Forse a ben leggere ce n’è fin troppa di pietas, implicitamente, che perviene (per contrasto) attraverso tortuosità anche freddezze meccanicistiche che tradiscono però un che di esausto per troppo gelo troppa terribilità eviscerata magari cerebralmente logicamente ma nascondente un grido eterno

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Tu dici: “È come se la voce fosse disancorata, mentre però i motivi di questo straniamento o altezzosalontananza non sono apparenti, cioè non sono abbastanza giustificati dal tema. Cerco di spiegarmi meglio: ho come l’impressione che i richiami alla morte siano pretesti”. No non sono d’accordo, niente pretesti certo, io sono ossessionata dalla morte. Tu dici: “per la scelta di un tono e una postura, anziché veramente auscultati nel loro potenziale (di dolore privato o collettivo)”. No, no, non sono d’accordo. Tu dici “inattualità”. Beh nella mia “inattualità” ogni tanto mi viene addirittura il dubbio che io in realtà sia supermoderna, sia pure in modo un po’ laterale, subdolo stridente acidulo (ma questo mio parere, c’è piena libertà soprattutto per un lettore attentissimo e profondo come nel tuo caso) Tu dici: “Insomma, anche qui c’è molto dire (come un’orazione o un salmo) ma ben poco mostrare, poco partecipare". Torno a dire, a

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riaffermare: in realtà sono “fredda” ma per troppo calore (questa mia convinta Sensazione) Tu dici: “E su gli scarlatti campi invece può indicare una via d’uscita da questo disancoramento non sofferto (per come arriva al lettore, ovvio, non oserei mai mettere in dubbio i sentimenti di chi ha scritto). Infatti, pur condividendo gli stessi stilemi delle altre poesie (il fuggire da una lingua viva, il rischio di posa e di maniera), attacca con forza e personalità, nel primo verso che è (guarda a caso) semplice sia sintatticamente sia lessicalmente (“bisogna essere capaci di tutto”) ma che, a livello più profondo, può dire la determinazione o anche il cinismo di chi scrive". Determinata sì, cinica nel senso di freddezza nello sguardo sì (ma non sono solo fredda sono fredda per reazione: perché non voglio edulcorazioni di sorta (sono oppositrice consapevole idillii) ma nel contempo c’è dolore per la crudità condizione umana eccome.

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Osservazioni posteriori

Gentile Davide, rileggendo il tutto mi sono ulteriormente confermata nella mia consapevolezza immediata (nell'immediata lettura solo intuizione adesso a lettura riapprofondita più razionale e meditata) che tu in realtà non mi avessi mai letto da nessuna parte prima dell’invio di mie tre poesie (e questa certo non colpa, mica era obbligatorio avermi letto. Anche perché io praticamente "sbucata fuori dal nulla" e anche per imbattersi su internet casualmente c'è bisogno di una serie infinita di coincidenze e certo non è detto che possa capitare) ma perché reputo che alcune tue osservazioni (tipo questione morte, non mio coinvolgimento emotivo, addirittura mancanza pietas) siano troppo d'azzardo e non coincidenti mio dire nel suo complesso e nella sua essenza (che naturalmente è un percorso lungo e non certo racchiudibile in sole tre poesie lette magari da te ex abrupto. Da questo discorso tu stesso capirai che nel mio caso le due cose (tue note critichele mie

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precisazioni/osservazioni) devono essere lette in concomitanza, per una visuale piĂš ampia perchĂŠ a due voci, giustamente. Ti ringrazio del tuo interessamento.

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Testi Nei freddi tramonti azzurri In quel declino che incessantemente sempre si compiva dovevano essere sigillati, i morti che le apparivano nei greti (e come in una ascoltazione erano, nei freddi tramonti azzurri). Dalle asserzioni tutte, – dal fondamentale assiomaci si lasciava sfigurare, e fin nei corticali centri, per mettere a tacere l’inammissibile pensiero, – innanzi alle minacciate invasioni, le piaghe nostre, quell’illividire. Unicamente un crimine fu, la sua sfigurata immagine, in quel nitore -di superficie bianca, di muro… [… E lei che allora tacque, nell’algore inumano nel corrodimento…]

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Prima di tutto sopraggiunse la ruina Prima di tutto sopraggiunse la ruina – con un rumore duro e cavo: la tormentosa agonia di chi si misura contro gli dei, la verità celata – e solo imperfetta… Iniziò a precipitare da quel giorno (l’episodio inaudito, la Consummazione) come se osasse vivere solamente in mezzo ai morti ai dimissionari, a uomini spenti, destituiti. Volle correre verso quell’orizzonte in fiamme, e con il linguaggio dell’oscurità degli addii, dei proibiti distretti. E si nutrì anche di morte, perché tutti morirono: oh, avesse mai potuto amare, il gelo magnifico e crudele quelle funeree allucinazioni (della nostra recisa testa), anche quel futuro- e l’avversione, quella scabra scorza. (Da qualche parte uccidevano cerimoniosamente: ma magnifici eravamo noi, e calmi, nel deturpamento grande)

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E su gli scarlatti campi … “Bisogna essere capaci di tutto (e con della freddezza il grado più audace) in questo universo stellato, – in uno di questi immensi mondi immoti congelati esangui”.. Il sole ardeva sui muri grigi e sugli scarlatti campi - fiorivano le rose dolcemente decapitate: solo allora precisamente crollava, nello smisurato scenario di cristalli della morte, nel tessutale disfacimento (un paesaggio fluviale, una devastazione, una città di martiri). In una atmosfera esasperata di luce e di attesa perfino quelle celle le appartenevano, come a un essere remoto e latitante spaventosamente compresso, - lo sguardo suo già in una notte. E drammaticamente esstrangolava: che cosa mai si stesse poi lacerando, nelle processioni di morbosa bellezza, negli ipogei tutti – in quelle tombe in cui non era ancora stata?… (oh, quella idea di profanazione, della oltranza quel residuale esito...)

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Guido Turco

Nota

Gentile Guido, anzitutto mi scuso del ritardo con il quale le rispondo. Credo non si tratti solo, o banalmente, di mancanza di tempo o incapacità di smaltire gli arretrati, quanto dell’attesa del momento giusto, di una disposizione all’ascolto e alla rielaborazione che ha bisogno di spazi, di pause, di canali per dirigere l’atto critico. Rileggo il suo poemetto I cieli di Guercino e la nota di presentazione che l’accompagna. Sulla nota non posso che condividere la sua insoddisfazione per lo stato di cose presenti nella poesia, sebbene lei rischi di cadere in un j’accuse generalizzato che può far torto a una buona parte di quanto si sta facendo oggi in poesia. Ma che il mainstream spesso non meriti di essere tale, questo non si può negarlo.

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In effetti, il suo poemetto è assai, e fortunatamente, lontano da questo mainstream. Pare sospeso fuori dal tempo, o starsene in un suo tempo mitico. Si capisce che si nutre, come alcuni ottimi e ancora sconosciuti autori che ho avuto la fortuna di leggere, della lezione modernista angloamericana (i primi versi, specialmente i vv. 34, mi riportano a Wallace Stevens, mentre l’attenzione a un pittore a John Ashbery, che ha scritto una lunga poesia sul Parmigianino). Credo che questa fiducia al limite della “arroganza” (il porsi in dialogo coi nomi che cita alla fine della lettera, che mi riporta a una poesia dove il giovane Pound tende una mano a Whitman e dice let there be commerce between us) sia un motore positivo, proprio perché gran parte della poesia contemporanea soffre di un eccesso di auto-ridimensionamento, di un complesso d’inferiorità che la relega ai margini. Come mia consuetudine, dividerò l’analisi in due parti. Nella prima commenterò lo stile e la struttura, mentre nella seconda cercherò di capirne la poetica sottostante per, al limite, criticarla, metterla in discussione o verificarne la tenuta. Spesso, commentando lo stile, do consigli su come limarlo, migliorarlo, come in una specie di

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laboratorio. Credo che in questo caso ce ne sia poco bisogno, in quanto avverto molta sicurezza e padronanza dei mezzi tecnici, anche laddove le scelte non incontrano i miei gusti estetici. Il poemetto (o lunga poesia) si compone di un lunghissimo movimento sintattico che però è costruito paratatticamente, e pertanto si lascia seguir bene. Quasi del tutto evitata la punteggiatura, forse perché la pienezza, il flusso che si insegue non potrebbe tollerarla. Il ritmo è come pizzicato, leggero, vista la prevalenza di settenari alternati con versi ora più lunghi ora più brevi. I primissimi versi mi riportano anche a quel grande poemetto che è Piedra de Sol di Octavio Paz, dove si elencano elementi naturali, archetipizzandoli tramite il determinativo. E dunque c’è la possibilità (sottolineata dal condizionale camminerebbe) per l’uomo di stare letteralmente al passo con ciò che è basilare, con ciò che lo riporta ai ritmi della terra. Questa possibilità potrebbe però anche essere impedimento, altrimenti sarebbe già realizzata. Questa scelta aggiunge un margine di indeterminazione al testo, che ne arricchisce le

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potenzialità interpretative. Del resto, quell’egli non potrebbe essere più indeterminato, in bilico fra eccezionalità e possibilità di essere tutti (Stevens usa un “egli” simile). Oppure, visti titolo e proseguio del testo, il referente potrebbe proprio essere Guercino. Ma io rimango dell’idea che la possibilità di referenti molteplici sia da preferire. Per il mio gusto, la stesura macchiata / del dialogo con i fantasmi appare un po’ forzato, innaturale, ma questa incrinatura della compostezza che spesso prevale potrebbe essere dettata dal fatto che Guercino è un pittore barocco. Seguono parole che chiamerei archetipiche, come sonno, vento, luce, ombre; parole che normalmente rifiuto in quanto facili scappatoie verso il poetese, ma che qui sono giustificate e calate in una articolazione personale (a livello di scrittura) e quasi sovrapersonale, mitemente vaticinante (a livello di tono). In questo contesto, persino una infrazione grammaticale lampante e controintuitiva in quanto evita l’endecasillabo (da cui il regno delle ombre ne riparte) appare giustificata e paradossalmente nobilitante. A partire da perché lucentezza sia descritta si apre un nuovo momento del testo, vuoi perché l’uso del congiuntivo in poesia è marcato, vuoi perché si

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introduce il tema pittorico, per cui, retroattivamente, quel profondo pensato diventa forse il cielo dei dipinti, e la prima parte del componimento può dunque essere letta come una ekphrasis. Si attua una tecnica dello sfumato, dal racconto mitico alla descrizione tecnica (cinabro, energia della linea), mentre non mancano isole liriche (e restituisce all’impazienza le attese), finché Guercino viene nominato, anzi invocato (significativo che l’unica virgola del testo appaia subito dopo il suo nome). A questo punto, finalmente, l’io poetico fa il suo ingresso (combattei). E dunque si passa da un modus ideazionale e impersonale nella prima parte, a uno interpersonale (invocazioni non solo a Guercino, ma allo spirito e all’eczema) a uno confessionale, ma con naturalezza. Certo, i sovrattoni non mancano (coscienza delle stirpi, vecchiezza del cercare, ultima vittoria, altrui evidenza, conversari) ma si tengono appena al di qua dell’enfatico. Segue la rivelazione del soggetto, il suo cogliere il senso del dipinto, la predilezione del velo (mediazione) sulla nudità (esposizione) che valgono come una vera e propria dichiarazione di poetica. A questo punto però l’impalcatura inizia a

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cedere, la confessione lirica diventa finalmente libera, toccando forse qui i suoi versi più memorabili:

tra scaffali che non mi riesce di chiamare biblioteche mostrando il timore d’aver maturato non una soluzione del problema ma un ricciolo che si torce in aria

Eviterei quella caduta che è le periferie del cuore, metafora a rischio di cliché, tanto più che cuore viene ripetuto poco dopo in chiusa. Indubbiamente il testo ha maestria e anche un contenuto di verità, e se non si fosse ancora capito mi è piaciuto. Mi lascia solo un paio di dubbi, considerazioni più generali con le quali chiudo questa mia nota. La prima attiene al suo rifiuto della modernità, ovvero alla sua disinvoltura nel non fare i conti con il nostro tempo – mi rendo conto che forse questa è una critica che manca il bersaglio, perché nessuno deve preordinare temi all’ispirazione e alle proprie convinzioni, e

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tantomeno tenendo conto che lei cita proprio Mallarmé, l’epitome dell’elitarismo in poesia. E tuttavia, per un lettore è più difficile trovare un punto d’ancoraggio o di esperienza condivisa, e non del tutto infondate potrebbero essere le critiche di non sporcarsi con il circostante, trascendendolo nella fusione di atto creativo e tempo mitico – insomma, l’Eliot più conservatore dei Quattro quartetti anziché quello della Terra desolata. Il secondo dubbio è corollario diretto del primo, e attiene alla rilevanza che il testo (che leggo come ekphrasis ed epifania, narrazione mitica e confessione) può avere per chi lo legga, insomma, attiene al grado di condivisibilità che la confessione può raggiungere. Se questa venisse meno, allora si resterebbe a una lettura sensoriale (la bellezza di certi passaggi, la scelta del lessico) e intellettualistica (i riferimenti culturali, il contenuto): che non è poco, ma che potrebbe non essere abbastanza, e in ciò rivedo molti miei tentativi che restavano un po’ autoreferenziali, senza dare voce, in sostanza, a chi un giorno potrebbe leggerci. Mi piacerebbe sapere cosa pensi di questo punto.

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Ecco, sono giunto alla conclusione, e spero che il ritardo nella risposta sia compensato dal contenuto di questa nota. 28 luglio 2015

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Considerazioni dell’autore

Buonasera Castiglione, La ringrazio della nota, attenta, sagace e partecipata. Le confesso che non mi aspettavo tanto, e pertanto la mia soddisfazione è doppia. Qualche parola, in ragione anche di chiarimenti e digressioni che mi sollecita. A proposito de « I Cieli di Guercino » parla giustamente di poemetto : una scelta e un vincolo a scegliere la forma lunga, la distensione del dettato per analogia con la pennellata lunga dei pittori di maniera. Questo detto in senso positivo, che la maniera era ed è possibile solo dove c’è perfetto dominio degli strumenti, a cacciare in second’ordine la perfida ispirazione che scompagina la forma per promuovere in scena (quasi sempre) un contenuto da avanspettacolo. Ora, i Cieli è composto da quattro sezioni, di cui Lei ha ricevuto solo la prima per rispetto del vincolo di lettura che pone a coloro che Le sollecitano un giudizio. En passant, è una delle

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nove raccolte che vado scrivendo e riscrivendo a sostanziare il tempo mio. L’innesco del poemetto (ma direi dell’intera raccolta) come giustamente rileva, fu l’intenzione di veicolare un discorso «comune» (nel senso di comunitario, condivisibile) espressamente poetico (vale a dire arbitrario) per il tramite di un’ampia metafora che ha per oggetto l’immagine (il vero Moloch contemporaneo) e un facitor d’immagini. La volontà è di sollevare (sollevarmi) una consapevolezza del nostro stare attraverso delle immagini che nella lettura «lunga» si rarefanno e diventano vieppiù immagine interiore: ergo, parola. Vede bene come in filigrana si disegna (è il caso di dirlo) la dichiarazione di poetica, come ancora una volta Lei ha ben colto. E non solo nell’esplicito richiamo al velo, ma nel fatto che «questi» Cieli (e le altre poesie che compongono la silloge) si raccolgono intorno a quello che è il vero problema di ogni rappresentazione poetica, per il cui processo evocativo occorre una profonda adesione emotiva all’oggetto: una vera mania amorosa, il cui declino estenua e smarrisce non

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l’oggetto, ma la commozione della sua contemplazione. E però resta il soccorso del rito, che nello specifico è l’espressione di una tradizione letteraria: la poesia si costruisce sulla poesia, ma soltanto fin quando la tradizione è viva, e mostra attraverso il canto la commozione originaria. Questo oggi latita, e io mi do a ricreare. Non è quindi questione di eccesso di intellettualismo o di esercizio di prassi estetica, a mio vedere. Come accennavo più sopra è «la lingua» l’aristotelico primo motore immobile della fascinazione, e perciò della comunicazione. Se vuole questo può considerarlo una risposta alla questione che pone nei dubbi finali, circa il supposto «rifiuto della modernità, ovvero alla sua disinvoltura nel non fare i conti con il nostro tempo». Per inciso, c’è una parte della silloge che potrebbe portare lumi ulteriori a questo discettare, dal titolo «Il Suono del Contrario» con sottotitolo «del tempo presente». Concludo dicendo che la raccolta è inedita, che io vivo da anni in Francia in esilio petrarchesco, che ho orrore delle imprecisioni grafiche e il nume tutelare della mia casa è un pesce.

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Voglia gradire i piĂš cordiali saluti, e non esiti a contattarmi nel caso lo ritenesse opportuno o interessante. Bien Ă toi, Guido Turco 28 luglio 2015

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Testi Viene nel seguito una descrizione del rallentamento le molte analogie con le frane metafore giĂ contenute nel diminutivo latino Lucilla quel tanto che basta che nasce dal trovare le cose prima che esse usino tanti nomi e si riesca quindi ad apprezzarne la spogliazione

I cieli di Guercino Come il frumento e il sole il papavero e l’acqua veramente egli camminerebbe nel profondo pensato racconterebbe la stesura macchiata del dialogo con i fantasmi i giorni e le notti che fanno sbocciare un sonno cosÏ profondo da essere scambiato per un dio morente un dio contrario che ha predicato sempre alla vegetazione di risuscitare al colpo di vento di essere il mantello di Loth luce tra gli incolti da cui il regno delle ombre ne riparte

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come fossero tir e i pensieri volano molto in più in là perché lucentezza sia descritta dai primi tratti della pittura lo spirito (al centro del cranio) e l’eczema sappiano che il cinabro sposa in ritardo l’energia della linea come il nord il chiaro e l’incantesimo lontano dal firmamento è il vestito dell’infatuazione come questo giugno autunnale che mangia l’inverno successivo e restituisce all’impazienza le attese ai pali della luce le loro cime gentile apre un’ebbrezza di visione in cui confliggono il punto la superficie il colore e la materia specchio del sovrammondo di cui simbolo è il nome mio Guercino, pittore di madonne per le quali combattei come falangi contro il nudo in pittura che il significato abita nel velo come la foglia primitiva la sua doglia ha più genialità del fantasma più scienza della coscienza delle stirpi che io paragono alla vecchiezza del cercare con gli occhi cisposi dell’altrui evidenza il segno che vorrei della supposta verità fondamentale ultima vittoria delle cose umane sulla morte vicinissima

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non il senso della caducità quand’è fragile il senso per il quale m’aggiro tra scaffali che non mi riesce di chiamare biblioteche mostrando il timore d’aver maturato non una soluzione del problema ma un ricciolo che si torce in aria talmente immerso nel duello delle correnti che sollevando la sua voce d’insetto volge all’alta quota i conversari le periferie del cuore che ho cura di non intaccare colla spatola solo attendendo al recupero del punto di immersione dell’amo agganciato al cuore.

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Silvia Rosa

Nota

Cara Silvia, posso dire di vergognarmi per tutto il tempo che ho fatto passare dall’invio delle tue poesie. Mi sembra di aver tradito la tua fiducia (e quella di altri che parimenti aspettano da molto), ma in questi ultimi due anni di instabilità e incertezze (economiche, sentimentali, professionali, a volte esistenziali) vivo la critica come un lusso per il quale devo sentirmi ispirato. Per fortuna, almeno, le poesie non invecchiano velocemente, benché magari per cui un anno o due possono bastare per renderci in parte estraneo o superato quello che noi stessi abbiamo scritto. Comunque, abbandono il preambolo e inizio a prendere in considerazione i tre testi che mi hai mandato (forse, più avanti, ti manderò anche impressioni sul libro nella sua interezza).

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Tutte e tre le poesie, per cominciare, mi ispirano una forte autenticità, quella che deriva dal perseguire una fedeltà intesa come aderenza a se stessi, alla propria percezione di sé senza infingimenti. È una sorta di lirismo al femminile (credo che questa categoria esista, e vada intesa in senso descrittivo o neutrale), che ritrovo, pur nelle varie differenze stilistiche, in autrici come Cristina Alziati (tolte le sue sprezzature e petrosità), Antonella Anedda, Franca Mancinelli, Maria Borio e Veronica Fallini. È una sorta di tono sussurrato, contenuto ma naturale. E ovviamente parlo di lirismo perché c’è un io confessionale, debole anziché agonico, che ha la sua ragione d’essere in quanto bacino ricettivo e medium di riflessioni – un io che si mette al servizio di quel che dice, insomma, piuttosto che occupare la scena del suo stesso enunciato. L’omogeneità stilistica è notevole, e forse è un’altra spia di quella integrità (o aderenza, o fedeltà) che dicevo prima. La tua versificazione accompagna il lettore con dolci enjambment; nel loro variare di lunghezza i versi comunque rispettano una misura data dal respiro, né seguono la metrica né sono informali. C’è una

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discrezione di fondo, uno smussare gli spigoli che mette in sordina la struttura privilegiando il contenuto. Ora vado a ogni singola poesia, perché mi sembra che questo scarto minimo e questa trasparenza che persegui sia un test eticamente ed esteticamente severo – espone più facilmente i testi meno riusciti ma anche vela, quasi con pudore, quelli più riusciti.

Guarda Qui il tu è autoriferito, l’esortazione reiterata a se stessi crea il tono per una poesia di osservazione e meditazione. Nel solco di un classicismo velatamente didattico, ogni strofa forma parte di un trittico, in una sorta di montaggio concettuale e “dimostrativo” alla Fortini (ma, come accennato prima per Alziati, senza sprezzature) dove è il legno a fare da collante concettuale e figurativo. Dal legno profumato, addomesticato di una vita borghese e senza accadimenti di rilievo (prima strofa) a quello sacrificale di Cristo mediato da un dipinto (e a sua volta, dallo sguardo dello spettatore, e quindi mediato due volte, perché altro

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non sembra di potersi dare nella vita d’oggi), mentre continua (forse questo sì, troppo esposto e insistito) il riferimento alla sterilità, pulizia, asetticità (decorate, lindo, sterile). La terza strofa opera in pieno lo svelamento che il Cristo raffigurato allude ma non può inverare, perché neutralizzato dal contesto. Qui il legno si declina nel palo di scopa che è il tuo corpo: magrezza e riferimento a proprietà anatomiche, ma anche la devalorizzazione del corpo femminile decisa dalla storia patriarcale. Qui la mia mente intertestuale va a Joanne of Arc di Leonard Cohen, dove appunto c’è il topos sacrificale della donna come legno pronta allo sposalizio con il fuoco. Prosegue nella terza strofa un impeto dimostrativo forse troppo scoperto, vale a dire i riferimenti lessicali che rinviano alle strofe precedenti (opera d’arte, religione...). Non si corre il rischio di forzatura, nel senso che la voce riesce autentica; e però sì che si rischia di annoiare il lettore, svelando subito e più del dovuto l’impalcatura concettuale che sorregge il testo. Credo sia molto efficace l’accumulo elencativo e il crescendo sintattico (che odorano di perdita di controllo, disperazione pur nelle maglie tradizionali del verso) che porta alla fine, quella

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triplice iterazione guardi (ancora un riferimento alla inazione) e trovo opportunissimo il riferimento al chiodo, che da un lato è allusione fallica, e quindi si oppone all’accoglienza potenziale ma negata del femminile (falla, culla vuota). La tua posizione sembra in bilico tra voglia di ridursi (che può essere positiva, come in Un piccolo bottone rosso) e voglia di azzerarsi o distruggersi (scacciare via la vita, l’esistenza). Spero (ma non ci credo) che questa attitudine appartenga a un io fittizio – credo (ma non ci spero) sia più vicina a quel nichilismo diretto contro se stessi tipico dell’ultimo Sereni.

Un piccolo bottone rosso Oggettivare, ridurre l’informe in un emblema che di nuovo mi richiama alla femminilità (la cucitura, la tessitura, e come non pensare ai Tender Buttons di Getrude Stein?), affidarsi a esso come a una cura o una catarsi. C’è una modalità desiderativa insistita tramite il congiuntivo (potessi), finché il desiderio (destinato a non realizzarsi) si fa finzione completa (vera non nei confronti della realtà empirica, ma della propria percezione), e si

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passa all’indicativo in quella bellissima immagine della fine che si allenta come una camicia aperta (qui il cortocircuito memoriale attiva De Angeles: sotto la camicetta c’era un vuoto di secoli). C’è una cercata de-antropologizzazione per cui ci si vorrebbe ridurre a entità elementari. Apro una piccola digressione personale, perché supporta un punto più ampio: in un mio testo avviene qualcosa di simile, ma con la cruciale differenza che, nella mia scrittura maschile, equiparo l’immediato a fiore, tocco, levità, senza volere essere io stesso queste qualità – io rimango aristotelico nella distinzione di oggetto e soggetto, tu no (dominio contro fusione). Il tu finale, stavolta, non è autodiretto, è un tu maschile che viene sfidato, come mi sembra avvenga non di rado nella scrittura femminile (in quella maschile, il tu femminile o giudica e destabilizza, o è un porto convenientemente lontano e inattingibile. Non mi sembra mai un tu sfidato dall’io maschile). Forse anche qui la mia sola perplessità è che il centro tematico è troppo forte, la poesia vi gravita attorno senza prendere mai tangenti, con il rischio che la dimostrazione prevalga sull’esplorazione, il piano iniziale sugli sbandamenti della scrittura.

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Ritorno Questo testo mi sembra, pur in continuità con gli altri due, il più debole, forse perché rinuncia all’allegoria del primo o alla metafora continuata del secondo, e si affida invece più a una scena empirica (ma resa simbolica dal basso gradiente di dettaglio descrittivo, un Sironi o De Chirico) il cui senso risiede nel voler preannunciare un’epifania che però non si realizza, rimane sospesa, con il non detto che forse genera inconcludenza più che mistero e presagio (o forse questa lettura deriva dalla mia preferenza per i contrasti netti sui chiaroscuri). C’è il ricorso ai deittici (questo correre, gli alberi qui) come marca testimoniale e di vicinanza, c’è un più scoperto riferimento autobiografico (come da bambina, per scappare alle ombre). Qui la negazione di se stessi avviene per opera dell’ombra sdoppiante, dei cani-guardiani che la guardano, e mediante il riferimento velatissimo alla morte. Infatti l’altra parte della strada mi rimanda all’altra sponda della morte, e alla morte richiamano ovviamente anche le foglie morte del viale (anime come foglie morte, altro topos), e perfino il giallo della casa, ammalata

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ugualmente dell’autunno circostante. Una nota finale, di nuovo intertestuale: lo scenario simbolico di questa poesia mi richiama alla mente anche una canzone di Ivano Fossati, La volpe: che sarà quell’ombra in fondo al viale di casa mia? Sarà il cane che ritorna ma il cane non è. Ecco, spero con queste osservazioni di avere almeno in parte risarcito la tua lunga attesa. Spero anche che troverai le osservazioni pertinenti e ti invito, se lo vorrai, a chiarirle, controbatterle o continuarle. 31 ottobre 2015

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Considerazioni dell’autore

Caro Davide, ti ringrazio moltissimo per avermi scritto, per l’attenzione e la cura che hai dedicato ai miei testi. E non preoccuparti assolutamente per il tempo che è trascorso prima che potessi rispondermi: non hai tradito la mia fiducia, anzi, hai mantenuto fede all’impegno che avevi preso e questo, sai, non capita così spesso (ho inviato a diversi critici il mio libro, ma pochi mi hanno dato un riscontro, pur avendo risposto in prima battuta che lo avrebbero fatto, così ho pensato a un certo punto che forse è un modo cortese per far capire che il libro non è considerato un buon lavoro, questo di ignorarlo, dico, nonostante la dichiarazione iniziale di occuparsene). Mi rendo conto che ognuna e ognuno di noi è impegnato su molti fronti e che non sempre c’è spazio ed energia per tutto. Per questo ti sono grata, per aver trovato un angolino della tua esistenza da dedicarmi.

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Penso che chi scrive debba sempre provare molta gratitudine nei confronti di chi legge, perché alla fine senza lo sguardo del lettore che cosa sarebbero tutte quelle parole messe in fila sul foglio, se non lettere morte? Solo lo sguardo dell’Altro, da una nuova angolatura, può far rivivere le parole fissate sulla carta, perché porta con sé un mondo intero, il proprio, con cui interpretarle e rinverdirle di nuovi significati. Credo che chi scrive abbia poi bisogno di un riscontro, sì, è necessario per rendersi conto dei punti di forza ma soprattutto delle fragilità di cui la propria scrittura è impastata, eppure leggo tante recensioni di libri che sono piuttosto delle gradevoli descrizioni, e nulla dicono delle zone d’ombra, dei limiti da cui questi libri sono attraversati. Io penso che sia molto negativo, e lo penso proprio come persona che si dedica alla scrittura, cercando di migliorare, di imparare a dire a dirsi nel modo più autentico e preciso e onesto possibile. Ti sono grata anche per questo, per avermi indicato chiaramente quelli che sono gli aspetti secondo te meno riusciti nei testi che hai preso in esame. Mi è già capitato in passato che qualcuno lo facesse, e mi è stato molto d’aiuto.

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Sono dell’idea che ci siano alcuni aspetti della propria scrittura che non sono modificabili razionalmente, perché riflettono il percorso di maturazione interiore e hanno radici nell’inconscio, ma poi ci sono invece i tratti più formali sui quali si può lavorare, eccome. Di solito io intervengo su questi ultimi quando ricevo da persone diverse lo stesso tipo di osservazione, e mi è capito nel tempo di abbandonare diverse modalità espressive, perché mi sono resa conto che erano frutto del desiderio di perfezione stilistica e formale, di una ricerca del bello sterile, di un tentativo di piegare la parola per renderla docile e aderente a un modello di scrittura che non sempre era autentico, non era la mia voce. Sì, hai ragione, la ricerca di autenticità è il fulcro della mia scrittura. E hai ragione su molti altri aspetti che hai rilevato, in positivo e in negativo. Penso che la tua analisi sia una delle più sensibili e delle più lucide che abbia ricevuto in questi anni. Alcune scelte sono irrazionali, quando scrivo, quindi non so bene come evitare certe derive che mi hai indicato, come dicevo è più facile provare a controllare la forma che non il contenuto, almeno per me, ma spero che in futuro riuscirò a lavorare

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su entrambi e a essere più essenziale, ecco, questo è quello che desidero, ma ti confesso che molto di frequente sento forte la seduzione della forma esteticamente piacevole, nel dire, un dire spesso troppo ingombrante, nell’(ab)uso di un linguaggio che ha forse qualche inclinazione barocca, mio malgrado. Però questa scrittura mi assomiglia, perciò credo che la trasformazione debba prima avvenire nella mia esistenza e in me, per poi incarnarsi in ciò che scrivo. (Scusami se non aggiungo altro sui testi che hai analizzato, ma credo che l’autore debba restare in silenzio, dopo aver scritto, e lasciare che chi legge possa esprimere il proprio punto di vista senza che ne segua una sentenza di fedeltà o meno a quanto si desiderava dire. Sappi comunque che la tua lettura è molto congruente con quanto volevo esprimere, e qua e là mi ha fatto riflettere, non ero del tutto consapevole di alcune cose, in verità). Volevo sapere se questa tua nota di lettura può essere resa pubblica, o se invece è una lettera, qualcosa che hai scritto perché la leggessi solo io. In ogni caso la conserverò così, come una lettera, di quelle che negli anni si vanno rileggendo scoprendo di capire sempre qualcosa in più,

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qualcosa che prima era sfuggito. Andrò a leggermi anche alcune autrici (e alcuni testi) che hai citato, che al momento ancora non conosco, per esempio non ho mai letto nulla della Borio e della Fallini (Anedda e Alziati le conosco bene, invece, e le amo molto). Spero che ci saranno altre occasioni per scriversi, mi farebbe piacere. Un caro saluto Silvia 2 novembre 2015

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Testi

Da Genealogia imperfetta (La vita felice, 2015) Guarda Guarda il panorama dalla tua finestra con gli infissi in legno profumato, tre punte in fila di montagna equidistanti ed un giardino in tinta ammaestrato intorno a poche case delizia e disciplina da manuale di buon gusto che ti fanno tanta meraviglia, silenziose. Guarda alle pareti rosso impero e crema e tortora finemente decorate le tele di una mostra che celebra la guerra l’amore dio in croce la morte scenografica di una vergine in un cimitero di museo, l’ennesimo, tutto lindo, quasi rarefatto, sterile. Guarda il tuo corpo, ora, sorvegliato a vista metà carne da macello metà opera d’arte cesellata da un’estetica santa religione, così bene addobbato, un alberello di Natale finto carico di doni

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per gli invitati di una festa deserta, un palo di scopa dritto contro il vuoto con al centro una falla, un difetto imperdonabile una specie di piccola culla vuota della misura esatta, non un centimetro oltre, di quel buco d’ombelico dove guardi guardi guardi da quando ne hai memoria, tutto quanto ti circonda e non ti riesce di sfiorare, tutta questa vita la tua esistenza come un chiodo da scacciare via.

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Un piccolo bottone rosso Se questa rabbia fosse tutta un piccolo bottone rosso: potessi prenderlo tra le dita tirare forte sentire il filo di cotone che scivola via come erba secca, potessi sostenere tutto nello sguardo il vuoto che sprofonda fino al cuore dall’asola scoperta e con le dita piano cercare un battito uno solamente, sentire che la fine si allenta come una camicia aperta cade a terra e di colpo io non ho più freddo, potessi cadere a terra anch’io – erba cotone filo stretto – gli occhi due bottoni appesi a ciò che resta, potessi prenderli tra le dita e dirti indossali, e adesso guardami con quelli, nuda come non mi hai mai vista.

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Ritorno Questo correre, come da bambina, per scappare alle ombre – alla mia, che mi segue appena –: gli alberi qui sono presenze ordinate in fila soldatini fischi silenziosi che arrivano dritti al cielo e parlano ai corvi che vanno e vengono, cinquecento passi insieme a tutte le foglie morte del viale, la casa gialla al fondo, due cani che fissano quell’ombra dietro alla mia schiena, ed io che vedo di lontano solo il ritorno, in direzione opposta, dall’altra parte della strada.

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Andrea Leonessa

Nota

Caro Andrea, Non sto a scusarmi dell’immenso ritardo, né a giustificarlo. Posso però assicurarti che, per una volta, non si è trattato di dimenticanza, giacché ricordo bene i tuoi Postumi dalla partecipazione per il concorso Opera Prima; aspettavo un momento propizio per risponderti, a maggior ragione data la densità dei tuoi testi. Quel momento arriva oggi, a quasi un anno e mezzo dall’invio, e nella consapevolezza che, nel frattempo, il tuo fare poetico sarà ulteriormente cambiato, si sarà evoluto. Ora, qualche accenno di massima valido per tutti e tre i testi: c’è un tono ragionante, quasi pseudo-saggistico, che si avvita però su un processo di germinazione e digressione metaforica

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che è interno al testo, un tratto riconoscibile delle scritture d’avanguardia, dai Tender Buttons di Gertrude Stein in poi. Sento in questo monologo intellettuale e stralunato, caratterizzato da un “formalismo informale”, nonché nella presenza costante della morte e dell’anatomia, un’affinità con tuoi coetanei, come Micaletto, Bellomi, Scaturro e Bellinvia – una convergenza di temi e stili che andrà indagata e spiegata, cosa che da tempo progetto di fare in un saggio. Benché sia arrischiato lodare o criticare in astratto questa direzione, la mia riserva di lettore e critico è che, delegando in larga parte la produzione del testo a meccanismi concettuali o linguistici, esogeni all’esperienza (personale o collettiva o anche fittizia, ma sempre umana), uno oscura la radice “umana” della scrittura, il portato di necessità che deve trasmettersi, secondo me, da autore a lettore. L’edificio verbale che rimane rischia la maniera, se non lo sorregge un sottofondo riconoscibilmente umano. Questo preambolo, tuttavia, vale solo come monito generale e mi sembra si applichi solo parzialmente al tuo caso.

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Ringing to you Nel suo modo, e come le altre, la trovo stilisticamente ineccepibile, al punto che non saprei né vorrei darti consigli puntuali su cosa cambiare a livello lessicale o strutturale. E tuttavia, sul versante tematico e, diciamo così, emotivo, i primi otto versi mi sembrano accessori al resto e perfino quasi superflui, perché è dal verso 9 che la poesia si svela, che smette l’armatura esogena di cui dicevo prima e rivela il suo motivo senza vergognarsi dell’io che prende parola: non l’esplorazione dell’”organico” come materiale da scrittura, ma l’occasione di una meditazione che smette di essere speculazione autogenerantesi, e diventa in un certo senso incarnata, sofferta e drammatica. Si vede nell’importo interpersonale del tu autoriferito al verso 11, nell’entrare in scena del tema mortuario in modo sempre più prepotente, dall’humus (che contiene però in sé la rinascita) al resto fabbricato che ci sopravvive al punto che siamo noi le copie sbiadite, le similitudini di quegli oggetti, in un capovolgimento definito “realismo terminale” da Guido Oldani. L’elenco che segue lascia intuire, molto nascosta, una logica semantica o

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situazionale: la testa del caprone potrebbe anche essere mozzata, oltre che vista di sbieco, e richiamarsi quindi al cadavere di pochi versi più avanti (a giustificare, retrospettivamente, il verme, che però continua ad apparirmi arbitrario là all’inizio, come se tu dovessi girare intorno al tema prima di volerlo colpire); inoltre, e soprattutto, c’è una isotopia condivisa relativa all’idea di comunicazione o propagazione negli altri oggetti: l’antenna, la televisione, la rete (internet, vedi anche il “like” più avanti), la brillantina (con un po’ di fantasia e un po’ di Barthes: vestiario e accessori come codici semiotici), la fissione. Idea che poi si approfondisce e svela nella suoneria Samsung, e quindi nell’accenno a fatti di cronaca osceni, alla morte resa mediatica, un rituale senza le fondamenta simboliche di civiltà precedenti alla nostra (e prima infatti parli di epoca consumata, della terra come luogo da digerire – qui la mente va alla canzone L’obeso di Giorgio Gaber, fondato, benché assai più direttamente, sullo stesso motivo). Allora forse, speculo io, la ritrosia a una comunicazione più diretta, soprattutto nei primi otto versi (in effetti serpentini come un intestino, con colate di enjambment e cesure interne brevi,

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mentre il ritmo appare più discorsivo nella seconda parte della poesia) riflette questo disgusto, questa nausea per come la sacralità della morte viene azzerata dai mezzi di comunicazione odierni, dell’abuso che se ne fa. Chiudo su una nota stilistica: credo che il tono impersonale che usi, da reporter (al Po / appare una nuova carcassa, la si bastona un poco) sia efficace nel far risaltare, per contrasto, la condanna morale della persona narrante (non parlerei, qui, di io poetico!), il suo posizionamento etico. Ed è proprio questa ritrovata eticità, dopo un inizio un po’ autoindulgente e chiuso, che fa di questo un testo assai riuscito, perfino importante, mi verrebbe da dire.

Tassidermia verbale Già dal titolo rilanci il nesso morte-linguaggio, ma anche alludi, secondo me, alla maestria tecnica che occorre per le procedure tassidermiche come per quelle poetiche. Benché lo stile sia omologo a quello di Ringing to you, qui mi sembra maggiore il rischio che in quella poesia era confinato ai primi 8 versi: il rischio di creare un dispositivo verbale ad

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alto artificio tecnico ma interamente autoriferito, interno a se stesso, a bassa tensone etica ed esperenziale. Anche qui le immagini si susseguono intrecciando abilmente il campo semantico degli spazi (spazio, cassetto, vano, sede, incastro, fessura) a quello anatomico (bocca, braccia, muscolature, tessuto cartilagineo) e verbale (costrutto verbale, dire, dicenza, discorso, periodi, testo), tutti accomunati dall’essere parte del processo di comunicazione: emettiamo suoni tramite cavità e articolazioni, e questi assumono significati, li usiamo per comunicare. Il testo fa quindi da pendant e da contraltare al precedente: là la comunicazione è differita, adibita ad aggeggi tecnici; qui la si riporta alla sua origine corporea. Lo rendi esplicito verso la fine: mettendosi in bocca parole, come si dice, quando un tempo non permette. È possibile qui un’eco o una ripresa volontaria del tema dell’impossibilità di dire (di scrivere poesie) data una certa epoca, l’epoca di Auschwitz, a detta di Adorno. Di nuovo l’ossessione del tempo dunque, visto anche qui da lontano, in chiave evolutiva, e infatti il passato remoto del secondo verso, si fece, potrebbe benissimo riferirsi alla nostra preistoria. Poi con un moto di avvicinamento passi da epoca a secolo a

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decennio, benché anche queste misure temporali appaiano astoriche, disancorato da ogni riferimento spazio-temporale più specifico (come potevano essere il Po e il Samsung in Ringing to you). La distanza e, se permetti, l’astrattezza è anche in funzione del tono impersonale che usi (gerundi, infiniti, forme impersonali, difficoltà di rintracciare i soggetti, entità introdotte dal determinativo e quindi deitticamente disorientanti). In conclusione, il testo mi sembra stilisticamente inscalfibile, ma adialettico, poco abitabile, con l’eccezione del bellissimo occorre cadersi manualmente / tra le braccia, dove la voce poetica e la necessità del dire emergono, dove la tecnica è piegata all’autore anziché viceversa.

Quattro versi orizzontali

in

croce,

quattro

lapidi

Titolo che gioca sull’espressione idiomatica, espandendola ancora una volta nel campo semantico della morte e del sacrificio. Titolo che sembra offrire una chiave di lettura al testo, ma beffardamente non lo fa. Il primo verso è un

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curioso esempio di “lirismo impedito”, nel senso che gli ingredienti per il lirico ci sono tutti, ma vengono scientemente inceppati da fraseologie ingombranti e un po’ cacofoniche (fa di modo che). Confesso tuttavia che i versi successivi mi sfuggono, appaiono attratti da un nonsense che non sembra funzionale, come ricavati da un cutup. Quando leggo testi del genere mi domando a quale lettore implicito stia pensando l’autore, e mi domando quale sia la reazione che voglia scatenargli. Non mi viene altra risposta che un embé? o un ammiccamento per l’ingegnosità a breve termine del titolo, poi basta. E quindi, un po’ bruscamente, mi chiedo se valga la pena scrivere e proporre testi del genere, senza quella rete concettuale (benché non sempre legittimata, a mio avviso) che sorreggeva Ringing to you e Tassidermia verbale. In conclusione: secondo me dovresti essere un po’ più circospetto nei confronti del tuo stesso talento, del rigoglio immaginifico e del controllo tecnico che a volte vanno a sacrificare dimensioni più essenziali, antropologiche direi, dei testi, e che sono proprio quelle dimensioni che potrebbero

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garantirne la sopravvivenza futura presso un pubblico. Da questo punto di vista il testo maggiormente riuscito è senz’altro il primo, mentre il secondo e il terzo vanno in calando. Non so (non posso sapere) quanto e che tipo di beneficio tu possa trarre da queste considerazioni: del resto immagino che tu te le sia già poste, accettandone i rischi, quale autore accorto e consapevole (e ancora in formazione, com’è inevitabile prima dei trent’anni, e se è per questo anche dopo...). Sarebbe perciò istruttivo parlarne, quando vorrai.

29 novembre 2015

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Testi

Ringing to you Se carezzo un verme, questo dice nulla ma fa rampa dell'affetto, per salire a tribunale, sapendo la terra un luogo da digerire, si colloca nel processo che sta alla base delle passeggiate, la pavimentazione terrestre che segue all'intestino, che placa l'attrazione, ponendo

che il basso inizia dove si scende, sotto un tappeto dal motivo organico, centro tavola sul quale si consuma

l'epoca, che resiste sino a diventare altra, dopo cena quando al telefono posso dire che ci sono, ma subito se aspettare vale ancora a curarsi dell'aspetto: se l'humus dice che sei bello, che va bene, sei similitudine del resto che ti sopravvive: l'astuccio dei brillantini, il protocollo dei vivi, la testa del caprone che veglia sul corso d'acqua,

Po

le televisioni, le antenne quasi cristiane, le fissioni, le gatte sulla rete ed il cadavere che conquisteranno dove il like appare sincrono alla somma dei secondi che istituisce la morte. Una volta alla settimana, al appare una nuova carcassa: la si bastona un poco ma subito dopo prevale l'affetto, lo scatto rituale la danza sulla suoneria Samsung - Ringing to you che evoca la plastica, lo stato della paralisi, la carezza arrestata sull'anello che muove sul mondo la sua rotazione, il venire a modo – se no nulla -

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Tassidermia verbale Non avendo che un tempo di curarsi, della bocca aperta si fece spazio ad estrazione, a cassetto, vano per Lego, d'un costrutto verbale la sede annacquata, l'asporto delle braccia che non stanno all'incastro del dire lo spazio, la fessura occupata dalla dicenza d'un bosco aspirato e farcito, dopo, da muscolature, tessuto cartilagineo a colmare lo strappo, la distanza che corre tra le betulle, eccetto delle pozze piovane la sommersione prevista parziale: un discorso a parte dove si va a periodi, se non occorre la calza asciutta al processo d'imbalsamazione, se fa buona presenza ugualmente, attraverso l'arco a cui s'accede al testo quando condensa di traverso, facendo leva sull'epoca per accorpare un secolo nelle due (i)stanze multiple di due, aventi un mancamento sul tetto delle palazzine

nella manovra di avvicinamento, mettendosi in bocca parole, come si dice, quando un tempo non permette, attraverso un rovescio, la precipitazione sulla terra nello stesso decennio, ed occorre cadersi manualmente

tra le braccia, estraendo un verbo declinato dal cavo orale per grondare un temporale, fonema per fonema

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Quattro versi in croce, quattro lapidi orizzontali La solitudine fa di modo che ci s’innamori di un uomo

anche nell’assenza del requisito minimo, uno statista per la precisione nel nulla “Mamma, ma una posizione

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Parte II – Microscopio: lettere su libri interi



Maria Borio – Vite unite (Marcos y Marcos 2015)

Nota

Cara Maria, dopo vari ritardi dovuti alla stesura della tesi di dottorato (ora quasi in dirittura d’arrivo), ti scrivo perché ho avuto modo di leggere con attenzione la tua silloge Vite unite. Cerco di procedere con ordine. Anzitutto la tua mi sembra una scrittura matura e consapevole, ben cesellata ma anche “semplice”, proprio nel senso dato da Enrico Testa a questa parola nel suo Lo stile semplice. Mi ricorda certo antinovecentismo, forse, ci vedo anche delle venature crepuscolari e certamente liriche. Mi sembra che il tutto ruoti attorno ai pronomi – io, tu. Come in un canzoniere dove però l’io non domina ma insiste sulla leggerezza, sulla sparizione, o si affida al tu – “tu” che io leggo come maschile, controparte più invocata che drammaticamente

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presente, e non dissimile da una costellazione di scritture femminili – è una questione di cui vorrei trattare prima o poi. Ma allora questo “tu” diventa anche, a livello metapoetico, una presa di posizione contro gli sperimentalismi e a difesa della lirica. Per questo il titolo “ritorno al tu” non mi convince molto, mi sembra da un lato un po’ intellettualizzato, dall’altro una sorta di autogiustificazione di una pratica di scrittura. Ma magari mi sbaglio… Ti dirò, ci sono versi isolati e poesie intere (su tutte, Appena sopra le notizie, una delle più belle e di peso lette da un po’ di tempo a questa parte, ma anche Un interno - la pressione dell’acqua) che mi fanno vedere un’autrice tra le migliori e più autentiche della nostra generazione – un’impressione che avevo avuto alla tua lettura a ParcoPoesia nel 2011. Dall’altro lato, però, ci sono varie cose che non mi convincono, e altre che invece deviano dal mio gusto. Non ho ripetuto la stessa cosa due volte, cerco di spiegarmi partendo dalle cose che io personalmente cambierei nei testi. La prima poesia, Le noci aperte sul tavolo credo guadagnerebbe senza due versi che “vogliono spiegare” – mi riferisco al verso come se la bellezza

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non avesse un’origine e soprattutto a non avere pensieri, il verso finale. Nella terza poesia, Sono passati giorni come voci, il voler rendere sintatticamente il cortocircuito di cui parli (donde la ripetizione variata dei pronomi ai vv. 5-10) mi sembra pesante e un po’ troppo indulgente. Mi permetto di dirlo perché io per primo indulgo in questi giochi di specchi, e in questo caso non mi sembra esserci, a monte, una giustificazione all’interno della poesia. Nella poesia Il vetro è tutto inverno mi chiedo se gli echi montaliani (ognuno riconosce) e sereniani (così dicono le piante) siano voluti e, in tal caso, quale sia la loro funzione. Nella stessa poesia, la mia anima è morta mille volte mi sembra un po’ troppo carico, quasi melodrammatico. Oppure, la poesia Il corpo guarda se stesso penso che sarebbe più memorabile senza l’ultimo verso didascalico stessa azione immutabile. E nella poesia è un anno di piogge gli ultimi tre versi non sembrano appartenere a quanto viene prima. Infine, nella penultima poesia, mi ha fatto storcere il naso il verso le parole con i sogni, perché molto canzonettistico. Questo ciò che non mi convince a livello, diciamo così, puntuale. C’è poi un discorso più ampio, di poetica. Vengo al nocciolo: mi sembra che la prima sezione

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abbia una personalità propria, più corposa e distinguibile, rispetto alla seconda e alla terza. Oso ipotizzare che sia stata scritta in tempi più recenti, mi dirai. Nella seconda e nella terza sezione ci sono ossessioni lessicali (su tutte, le mie (amatissime, ehm…) cose, corpo, parole) che rischiano la maniera, come tutte le ossessioni e specialmente quelle non individuali ma già appartenenti a un socioletto lirico. Più in generale, il tuo monolinguismo sembra impedire quella precisione che, quando c’è (come il delfino nella moneta in Appena sopra le notizie) è memorabile. Perché restare così trattenuti, prediligere quest’acquerello quando invece puoi incidere veramente? Chiudo con questa mezza provocazione perché, mi sembra, la tua poesia ha molto potenziale ma preferisce spesso restare in punta di piedi, quasi insicura, con il risultato che – almeno per un lettore che, come me, cerca lo scontro corpo a corpo col testo – rimane su tutto un alone un po’ generico, forse qualche velo di troppo. Ecco, è venuta una specie di recensione, ma sono contento così. Mi farebbe piacere se anche tu potessi poi leggere una mia raccolta, dato che è ultimata e vorrei proporla presto agli editori.

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Sarebbe anche un bel modo per approfondire i punti che ho toccato qui. 13 dicembre 2014

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Considerazioni dell’autore

Caro Davide, scusami se ti rispondo dopo tempo. Auguri per il Natale appena passato! Cogli alcuni punti con esattezza: le poesie che ho scritto dopo "Vite unite" cercano di superare esattamente - il monolinguismo verso la precisione; "Appena sopra le notizie" è uno degli ultimi testi che ho scritto, qualche mese fa, e apre un momento più 'stratificato' e 'esatto', diciamo così (la prima sezione, d'altra parte, contiene le poesie più recenti). Gli echi montaliani e sereniani non so come siano finiti nei testi, inconsapevolemente in ogni caso. "Ritorno al tu", in realtà, viene da una poesia di Zanzotto (al momento non ricordo il titolo...), in cui c'era un verso - "improvviso ritorno al tu" - che mi è piaciuto molto, forse più per l'aggettivo che per il sostantivo... ho cercato di fare mia l'espressione e forse il risultato non è stato naturale. Comunque, ormai, è lì. Per il resto, sono anch'io alle prese con la fine della tesi di dottorato

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(for God's sake): appena è conclusa mi piacerebbe fartela avere... Auguri per un buon inizio di 2015, ci sentiamo presto un abbraccio 28 dicembre 2015

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Testi

Appena sopra le notizie io so nomi e persone come era il labirinto dei vetri, al parco, degli specchi finché sbattendo trovavi l’uscita. Perché non ho l’uscita adesso – si chiama rete, taglia un quadrato e un luogo che è ovunque. O sono il bianco in fondo al corridoio degli specchi, inciso di diagonali e metallico a terra, stretto intorno al corpo con i neon che facevano indistinti la pelle e l’aria come un’ombra trasparente che segue ognuno, ma a voltarsi non c’è. E lì il pezzo di vecchia moneta, il cerchio di bronzo con il delfino era caduto a terra quando siamo stati vicini all’uscita, e per non perderla l’abbiamo lasciato. Lì, esattamente ho creduto a una lingua per tutti identica dall’aria agli specchi, dall’inventore del labirinto alle nostre mani sudate che proteggevano la fronte: errore o deviazione, ma era solidità sbattere la fronte a volte

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prima di arrivare. E all’uscita del parco il maestro delle crepes, la breccia in cerchio come la piattaforma scura dove tiri e peschi e perdi, e poi le scarpe da ginnastica sulla breccia e il mese certo, sempre un rito mentre il tempo adesso è filiforme e i sentimenti certi che tutti possono capire e vedere nella sola infinita rete – o, a volte, in equilibrio, qualcuno che riporta la moneta.

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Un interno – la pressione dell’acqua sui tubi, la luce della lampada sfumata, il respiro, il masticare oggetti… è nutrirsi di poco, pensare griglie di metallo a cui appendere le sostanze della natura, ricreare. Poi, esterno – passi come un niente, si ferma l’auto, il vento, la mosca sfinita tra i quadranti delle case, il filo d’erba seccato dal gelo, ancora passano - come un io moltiplicato. Fino a quando, mi dirai, sapremo che protetti o esposti è la stessa cosa? Mi dirai le creature inconsapevoli non esistono, e scava scava ognuno si trova. In fondo è la base dell’erba, il contatto tra la strada e la terra, il fragore a ultrasuoni tra le ali e l’aria, le pieghe tra parete e parete, l’alone del respiro sul bicchiere e l’ombra che degrada. Tutto è vero nelle scale multiple come le frasi che portano avanti avanti a capire, il gesto in cui frughi per vedere il fondo. Interno pieno di niente, la luce grigioazzurra che arriva

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è mattino e sera e le cose spogliate dall’ombra un secondo ti vedono come tu le vedi.

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Il corpo guarda se stesso come non fosse fatto di leggerezza. Sulla punta delle dita la metamorfosi più inverosimile di ciò che, a volte, annoia. Di fronte a una finestra mi pettino, gli occhi che bruciano. Quali parole appoggerai ai lobi per far sì che smetta di guardare… Un’azione con pretesa di solidità, la voce cieca che tiene la coda dei capelli come un ramo. Siamo così, strumenti poveri di congiunzione e voce, un altrove pregato con gli occhi e basta, stessa azione mutabile.

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Tomas Bassini – È stato l’amore la grossa fregatura (Galassia Arte 2014)

Nota

Caro Tomas, ci ho messo un po’ a risponderti perché è stato difficile smaltire tutti gli impegni di questi ultimi tre mesi. Ho letto e riletto il tuo È stato l’amore la grossa fregatura, buona parte del quale, come sai, avevo già avuto modo di apprezzare leggendo le opere pervenute al concorso Opera Prima. Rileggerle, insieme ad altre poesie, tutte insieme in un libro fisico (tra l’altro ben fatto anche editorialmente parlando) genera una diversa dinamica, e forse anche diverse aspettative. Non ho cambiato idea sulla freschezza e autenticità della tua poesia, sulla sua efficacia: ho anzi ritrovato passaggi e intuizioni notevoli, come il fulminante epigramma di p. 25, la bella e centrale poesia di p. 17, il bel finale di p. 30, il bellissimo

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verso ad ognuno va il suo orgoglio di rimanere stanco (p. 35), una musicalità precisa ma non intrusiva, l’efficacia di un burocratese strategico (le presenti ubriacature, p. 15) necessario per smorzare il pericolo di ripiegamento e di lamentela che il tema, più o meno spontaneamente, porta con sé. Cerco di spiegarmi più compiutamente: ci sono passaggi a rischio in tal senso, per esempio il finale della poesia a p. 61 (che il guaio tuo è stato sempre quello di prendere me troppo poco sul serio). Quando il risentimento sfocia in commenti arguti, piccati ma precisi, la tua vena, come ho detto prima, diventa corrosiva senza clamore ed epigrammatica; quando però il meccanismo non riesce, si rischia o si cade nel diario privato e un po’ auto-indulgente nella lamentela. Certo, il libro è una sorta di canzoniere dell’avrebbe dovuto/potuto essere, uno dei pochi libri che io abbia letto dove a dominare non è la nostalgia elegiaca (o non solo quella) ma piuttosto quella della costante critica e autocritica di un vissuto specifico, della disillusione continuamente affermata; e di una continua pretesa riduzione del passato, quando invece il passato resta la prospettiva. Ci sono ossessioni ricorrenti, penso al

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cane come allegoria di fedeltà e/o tuo alter-ego (secondo la mia lettura, ovviamente), o anche il cibo e i ristoranti, a ricordare un’esistenza di coppia come tante altre, ma forse anche a insinuare sottopelle il tema della voracità, della fame di vita (in questo senso leggo l’esergo spiazzante volevo vedere il tuo culo ingrossare / e hai deciso di metterti a dieta); o il tema dell’alcol, che torna più volte. Il tutto è l’articolazione lucida di un rancore o uno scoramento indirizzati a una persona ben precisa, che però non prende la parola, e che è interamente filtrata dallo sguardo di chi scrive. Qui c’è un limite potenziale: la comunicazione di stampo privato e unidirezionale, che si modifica poco nelle letture consecutive e che, soprattutto, tiene in qualche modo il lettore nella situazione di spiare qualcosa che non gli appartiene, o può non appartenergli. Egli (il lettore) si trova così come a curiosare, quasi suo malgrado, senza essere completamente ammesso nelle stanze del libro. Può essere una strategia che hai seguito, questa, o il semplice risultato di un’urgenza espressiva; resta però il fatto che, almeno per me, sarebbe in futuro necessario un allargamento tematico e anche tonale, per scongiurare il fossilizzarsi su una posizione e

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magari lo spazientirsi del lettore. Alcune delle poesie verso la fine del libro (quelle a pp. 50, 52, 57, 60, 61) mi sembrano più deboli rispetto a quelle della prima parte, perché perdono mordente e arguzia e rimestano su un sentimento già bene messo a nudo prima. Tutto questo nulla toglie alle qualità, che riconosco, della tua scrittura; diciamo che, quando vagliavo le raccolte per Opera Prima, cercavo la qualità e freschezza della scrittura; ora che queste si sono riversate in un volume, cerco la visione autoriale, una dinamica non scontata con il lettore – ed è da questo punto di vista che, sempre secondo il mio modesto parere, si potrebbe fare di più o di meglio. Spero che almeno qualcuna di queste riflessioni possa offrirti qualche spunto - sono note di un lettore attento ma inevitabilmente “orientato” a un certo modo di intendere la poesia. Sei liberissimo di dissentire, ovviamente. 24 gennaio 2015

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Considerazioni dell’autore

Caro Davide ti ringrazio molto per avermi risposto. Mi fa davvero piacere aver letto la tua critica, soprattutto perché è la prima che mi viene fatta (visto che fino ad adesso non ho mai avuto l'impulso di far leggere le mie poesie) e poi perché non conoscendomi non puoi avere nessun tipo di freno, di indulgenza, o anche più semplicemente di elementi personali attraverso cui filtrare la forma e il contenuto del libro. Proprio tenendo conto che non ci conosciamo voglio essere onesto fino in fondo: quello che tu mi dici io lo condivido pienamente (tranne per quanto riguarda la valutazione della poesia a p.57 che per me è una di quelle più centrali, o per meglio dire una sorta di chiave di lettura dell'intera raccolta; ma questo è un fatto soggettivo ed ognuno può avere la sua visione), condivido quello che mi dici soprattutto nelle critiche che mi rivolgi:

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quello che tu mi obietti è pienamente azzeccato e io ne sono consapevole (il rischio di ricadere nel diario privato, il fossilizzarsi su di una sola posizione, il lettore che si trova a curiosare e a cui viene impedito di prendere parte alla storia...) è tutto vero e so benissimo che potrebbe essere controproducente, lo so e io stesso a volte ho qualche dubbio a riguardo... però è proprio su questa direzione che sto cercando di sviluppare un modo di fare scrittura. Diciamo che è proprio sui punti maggiormente a rischio che ho deciso di puntare, di focalizzare tutti i miei sforzi; questo mi viene sia da un progetto ben chiaro che ho in testa, e che sto cercando di portare avanti, che da un mio personalissimo gusto di lettore (o forse anche da un rifiuto di un altro tipo di poesia che io vorrei vedere superata ma che invece, mi accorgo, ha oramai assoggettato quasi tutta la poesia contemporanea). Quello che più di ogni altra cosa vorrei io è di riuscire ad avere una "voce" assolutamente personale, e per personale intendo viva, onesta, strutturata, autonoma, riconoscibilissima e

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necessaria anche nei suoi punti meno riusciti (che sono proprio quelli per me più importanti). Ci tengo a ripeterti che mi ha fatto davvero piacere leggere la tua nota, anche perché credo di aver capito che anche per te quando si parla di letteratura è doveroso sottolineare che si tratta sempre di un giudizio soggettivo (e questo fatto, che può sembrare banale, non è così comune). Quindi ben vengano le critiche e le proteste, ancor di più se condivise dall'autore, e ben vengano i giudizi di qualsiasi tipo... (e detto fra parentesi sono contento, e anche un poco sorpreso, che tu abbia notato l'allegoria del cane come fedeltà e alterego... è uno dei cardini su cui volevo far ruotare questa raccolta ma che ho cercato di nascondere, di non portare pienamente a galla.) Comunque grazie ancora, in ogni caso grazie, e a presto Tomas 24 gennaio 2015

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Testi

Ora che non avremo tutto questo tempo per decidere le cose che ci fanno male, ] che non avremo tutto questo spazio e le case quelle sì che ci mancheranno. ] Ora che ci saranno i giardini, i cortili, le telegrafiche che suonano bene. ] Ora che ci mancherà la filodiffusione avremo una miriade di puntini rossi da smantellare i muri portanti delle nostre correzioni. E non è per questo, ti dico, se non daremo nessun nome a un cane ] o se ci saranno anche solo poche probabilità che ci riescano ancora ] i nostri trucchi buoni le meraviglie da cilindro che poi passano alla fuga all’evasione.] * Alla tua sedia ritrovarti in un costume bianco. Ripescarti dal caldo per non darti pace. Vederti rotolare o stare ferma, capire che hai riso, che di te, di me, di un moscone intorno non hai ancora detto niente.

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E riprendiamo dalla gara d’umorismo che ci siamo suggeriti, ] a regolarci intorno ai cambi non sempre guadagnati a sostenerne il conto dei fatti divertenti usciti bene. Riprendiamo dalle piccole cattiverie tutte vere che ci diciamo, ] dai piccoli regali. Ăˆ la disposizione delle stanze che ci obbliga a camminare

fino ad amare una cucina. Quell’ordine esatto di cui spesso ti parlo spiegandomi male.

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Michele Ortore – Buonanotte occhi di Elsa (Vydia 2014)

Nota

Caro Michele, finalmente riesco a scriverti del tuo libro in una di quelle classiche domeniche oziose che non conoscevo più da tempo. Nelle ultime due settimane ho avuto modo di rileggere da inizio a fine e poi di sfogliare secondo i capricci del momento il tuo Buonanotte occhi di Elsa. Mi ha fatto un effetto bifronte: da un lato ho percepito numerose isole di rispecchiamento col mio modo di intendere la poesia. Dall’altra c’è un che di diffuso o disperso, o di non ancora del tutto formato (o che non vuole esserlo?) che non mi permette di abitare tutte le pagine, forse la presenza di una voce poetica poliedrica ma perciò stesso un po’ sfuggente. Ora cerco di sviluppare

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separatamente ognuno di questi due punti – semplificando, il polo positivo e quello negativo. Senza paura di esagerare dico che mi è arrivata (e uso la parola consapevole del suo peso) molta autenticità, talora giocosa talaltra indifesa, versi memorabili. Per esempio: urlare ai venti che il vento esiste, e non è nell’aria (p. 26). Oppure, su ben altro registro, il passo, tra spavaldo e confessionale, Del fallimento / non farò un mestiere. / Mi butto nel black hole. Vi saluto. Se torno, / sarà con un ricamo in mano. (p. 34; quest’ultimo verso è da antologia). Per non dire di un finale struggente e disarmato come Ma è questo sognare, e chi per amore comprende la morte, / sono queste cose, che si prendono cura di me (p. 55), dove il lessico assoluto e archetipico è stemperato da un anacoluto che rivela un io poetico sopraffatto dall’immensità dell’immaginazione (che riscrive la storia), e pertanto incapace in quel punto di adeguarsi a una sintassi standard. Un romanticismo in chiave moderna che secondo me ha ancora (e forse avrà sempre) qualcosa da dare a chi legge. Proprio così: un sentimento che è fuori tempo e che porta a un’altra ammirevole chiusa confessionale, quella di Treni pontini (p. 59). Poi ci sono vette che

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si riconfermano intere, come Dead line e Your girl (credo sia puramente casuale che entrambe abbiano un titolo inglese, meno che siano entrambe rivolte a personaggi femminili), o tutta la strofa finale della poesia a p. 82. Questo campionario è senza dubbio incompleto, ma credo dia una buona idea di cosa mi sia piaciuto del libro. In sostanza, un io poetico che mostra pietas e che non ha paura di mostrarsi, ma che al tempo stesso è molto refrattario a serrarsi in un solipsismo. Una attitudine che è sì sfaccettata e modulata, flessibile, ma anche fortemente presente, centrale per quanto sempre (e qui trovo una consonanza col mio modo di intendere la poesia) dialettica. E a proposito di dialettica, il fatto che l’inattuale Fortini sia citato ben due volte non può non essere per me motivo di plauso. Sempre a livello di consonanze, mi ha colpito la poesia a p. 79, dato che verte su suicidio e scelta, e c’è anche il nome Francesco: tre elementi che mi hanno riportato alla mia poesia Privato di., pubblicata su Nuovi Argomenti online. E adesso vengo a una nota moderatamente dolente, ovvero l’insieme delle cose che secondo me frenano il libro, o che forse lo rendono meno

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tale. Non credo che il problema sia l’eterogeneità di per sé, dato che forse il libro (che, e lo ricordo a me stesso, è un primo libro, un esordio) ha avuto una gestazione lunga e ha passato varie fasi, ciascuna ben delineata nella sua sezione. A frenarmi, cioè, non sono (benché lontani dal mio sentire) l’eccesso lirico della prima sezione, l’intellettualismo scoperto o il citazionismo della seconda (benché ironico e dissacrante contro gli stessi dissacratori), il dialogo con filosofi e poeti (Talete, Derrida, Celan, Ginsberg, Sanguineti, Rilke, e parecchi altri), o certe intermittenze nonsense come i gendarmi / non hanno più caleidoscopi nella mani (p. 83; dove forse caleidoscopio rimpiazza manganello per sottolineare i rovesciamenti di prospettiva che coinvolgono fatti di cronaca negli scontri fra manifestanti e forze dell’ordine) o l’insistenza sull’aggettivo scaleno (preso da Raboni?). A frenarmi è, in parte, una prevalenza del discorso ragionante e valutativo sul fissare icasticamente (e deitticamente) immagini e situazioni come forme d’ancoraggio per il lettore; e, in parte, una troppo scoperta volontà ideologica o dissacrante che finisce, forse, per fare il gioco dello stesso postmodernismo. Oso dire questo

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perché sono tentazioni che ho (avuto?) anch’io, prima di accorgermi che impedivano spesso l’afflato o l’intensità, un senso di controllo dei propri mezzi espressivi e di una fiducia nel fare poetico che, per quanto agonico, forse non dovrebbe avere bisogno di elencare nemici, oppure dovrebbe farlo più obliquamente. Tra i pesi che portano un po’ giù la qualità del libro, secondo me, ci sono anche alcuni aforismi che corteggiano il pubblicitario o il pamphlet (e senza relazione, non sarebbe libertà, p. 35; sarebbe chiaro perché l’oceano è salato, p. 41), il gioco di parole troppo scoperto (p. 38, p. 61); e metafore genitive, talvolta di tipo scopertamente ermetizzante (crocevia della carne, p. 25; granai del ritorno, p. 28; playstation del perdono, p. 33; garitta della memoria, p. 39; selciati del cielo, p. 56; triangolo scaleno del mistero, p. 74; orletto mendicante delle nuvole, p. 83; comizio di un addio, p.87). Insomma, qua e là secondo me ci sono residui di influenze che forse vanno tenute più a bada, trattate con meno rispetto. Prendi questi appunti con le pinze, con i loro limiti e con la parzialità fanatica di chi li ha messi nero su bianco; magari avremo modo di parlarne

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poi a voce, se come sembra passerò brevemente per Roma a giugno. 3 maggio 2015

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Testi

Un guanto Hai negli occhi il rumore di una foglia spezzata, l'odore della chiglia inclinata nella sabbia e del remo comunque contro vento – vorrei dirti la voce che davvero mia ho amato, soffiare storie di bacche rosse velenose, potrei parlarti di un amore giĂ saputo come un cancello, un albedo, una serie di parole giĂ incontrate in un presente offuscato, nei tuoi occhi senza cornice, e raccogliere capelli, annodarli alla conchiglia vivendo come sulla battigia: urlare ai venti che il vento esiste, e non è nell'aria

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Dead line Ti ho scritto un sms, anche se eri morta non mi sono chiesto se il gesto fosse eccessivamente lirico

non ho consultato le lettere di rilke prima di farlo Me l'hanno detto sull'aereo eri con la gamba che ho baciato attorta sul bracciolo faceva tre giri ed era bruciata io però l'avevo baciata, l'ho baciata, la bacio io e tu e anche se sei morta ti ho scritto un sms mi dico com'era poetico che ci piacesse un gruppo che si chiamava come una fase del sonno, chissà se li senti anche ora, nightswimming, flightswimming avrai fatto mentre cadevi

anzi no perché c'era la tua gamba attorta ed era l'àncora forse

per tenerti ferma. Il clic dei tendini. Dovevo essere io la tua ancora, non farti non farti partire su quei mulatti di lamiera che vogliono tenere il cielo e la terra insieme, come se nel diviso noi potessimo raccontare una storia, e invece no, si sta zitti, si spalancano le tempie e si trascina il guscio

dovevi accettare le mie preghiere di silenzio,

quando ti chiamavo e non sentivi e bevevi un bicchiere d'acqua.

Dovevo essere lì nella mascherina del respiro l'ossigeno non sutura la gravità e la tua gamba io l'ho baciata ma poi era attorta e c'era solo lei ho scritto un sms a quello che di te è rimasto invisibile sebbene sappia che sei sempre stata tutta invisibile

se ti mostravi era solo una copertura, uno spionaggio esistenziale

per farmi capire meglio chi ero. Ti ho chiesto

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quando torni? tutto ok? manca poco? e poi mi smuovo seccato in questo marmo rimpiango quel fuoco che potevo scegliere mi avrebbe lasciato leggero e magari ieri ero in una delle nuvole e il resto invisibile di te mi sfiorava e stava di nuovo con la polvere e io senza braccia tenevo te senza gamba e invece di due metà della mela eravamo due metà morsicate ma incastrate lo stesso e così oggi non dovevo scriverti. Però se esco ti cerco, rimedio ai miei errori, o magari mi rispondi,

o magari scatta quella cosa del limite degli anni e mi bruciano e allora ti scrivo un altro sms

non per notizie vaghe ma per il ritrovo, l'appuntamento

nei cambi di pressione che muovono il vento.

Tu rimani invisibile nel tempo, sebbene come ho detto lo sia sempre stata, e non slacciarti il reggiseno nel frattempo

e aspetta se c'è da aspettare, respira quest'assenza che ora, come una volta, abbiamo in comune

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Si prende cura di me Imitare l'apertura alare di chi fra le dita stringe una rondine, dotarla di eliche, grasso o reattori, a cavallo dell'aereo degli inetti

a un passo dall'asfalto salvare il suicida, e scoprire l'America,

prima dei Vichinghi dare al comunismo una chance atlantica, per ritrovarsi poi nel millenovecentocinquanta con un Krusciov liberista, un'Ungheria ancora ribelle, un'Italia sempre a metĂ , Stakanov che sforna trademark,

e di nuovo tutti nel freezer.

Ma è questo sognare, e chi per amore comprende la morte,

sono queste cose, che si prendono cura di me.

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Bernardo Pacini – La drammatica evoluzione (Oèdipus 2016)

Nota

Caro Bernardo, Molto tempo dopo il tuo invio, ho finalmente letto con attenzione La drammatica evoluzione – apprendendo fra l’altro, che sarà presto pubblicato per i tipi di Oèdipus: complimenti! Io credo che l’operazione che hai compiuto in questo libretto sia interessante e, visto il panorama poetico italiano, anche nuova. Il riuso di forme brevi, popolari ma poco frequentate (epigramma, dispetto, limerick, e mottetto, eccettuato Montale...) coniugate a una icona della cultura pop degli anni ’90, i Pokémon, ne fa un’operazione postmoderna. Eppure la logica che combina forma e contenuto è molto serrata, non dispersiva: usi forme popolari per soggetti popolari, ed è solo l’evoluzione (della nostra, di lingua e società) che ci

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fa percepire vecchie le forme chiuse come già i giovani d’oggi percepiranno vecchi i Pokémon stessi. D’altronde anche lo spirito che muove il progetto mi sembra tradizionale in senso buono, nel senso che alla fine quel che conta è il ritratto di una galleria di emarginati, una sorta di Spoon River dove alla morte subentra l’evoluzione e alla prima persona si sostituisce quasi sempre la terza, un narratore che in linea di massima mi sembra empatico, né distaccato né giudicante (ma non sempre: per esempio, in Oddish e Golem c’è un’ironia tardo-montaliana). Fa eccezione, se non sbaglio, la prima persona di Jigglipuf, mentre Charmeleon parla in prima solo dentro il discorso diretto virgolettato – mi piacerebbe sapere perché per Jigglipuf rinunci alla terza persona, dunque. Poi c’è Porygon dove si potrebbe parlare di discorso indiretto libero, per cui davvero narratore e narrato sembrano convergere fino al terzultimo verso... e allora la nuova domanda, riformulata, diventa: ti lasci guidare da un grado di maggiore o minore empatia per la scelta del modo narrativo, o la scelta avviene (al contrario di quelle più formali, di rima e

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struttura) al di sotto della consapevolezza autoriale? Malgrado la loro claritas, i testi hanno bisogno delle immagini riprodotte dei Pokémon che descrivono e chiosano. In effetti, benché il termine ekfrasis sia fuoriluogo qui, le notazioni iniziali sono incentrate sulla descrizione, e questa dà poi origine a toni più esistenziali, a commenti autoriali come in Haunter, Doduo o Lickitung... come in grandi romanzi o racconti tra otto e novecento, eccentricità fisiche designano qualità caratteriali quando non attitudinali o morali (mi viene in mente il racconto di Gogol’ Il naso, o la lieve imperfezione del naso del protagonista di Uno, nessuno e centomila di Pirandello... ma forse sto andando per la tangente). La brevità delle forme porta più alla condensazione epigrammatica che a uno scavo psicologico-sociale dei Pokémon, benché questo non manchi, soprattutto in alcuni testi (Haunter, Kangaskan, Psyduck, Lowbro nei suoi attacchi rancorosi e meschini...). I Pokémon sembrano poi essere scelti perché incarnano tipi umani, benché mi appaia fuori discussione la tua personale affezione per questo fenomeno pop. È un peccato (benché faccia,

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immagino, parte del progetto iniziale) che il tutto si risolva in una galleria di micro-narrazioni anziché in una vera e propria epica che faccia convergere i Pokémon in un’arena da combattimento, che avrebbe permesso angolazioni più complesse, uso di forme teatrali o drammatiche (visto che citi Luzi, immaginiamoci i Pokémon dirsene quattro come nel dialogato luziano ne Nel magma...). Ma forse la semplicità/semplificazione era parte del gioco. Eppure, su un altro livello, dispiace la mancanza di un forte testo-chiusa che simmetricamente risponda al testo d’apertura, che secondo me in modo riuscito, con grinta, sets the tone for the rest. Per il mio gusto personale, i testi con più sostanza, meno effimeri in un certo senso, sono i seguenti: Eevee, Shellder, Kakuna, Hitmonlee, Mr Mime, Jynx, Schtyter, Porygon, Oddish, Articuno, Golem (unico che rinuncia quasi totalmente alla rima), Psyduck e Ash ketchum, dove risalta anche la giocosità anagrammatica o comunque paranomastica (chatch’em-ketchup-check-up, Rocketracket). Molti dei testi che ho citato traggono la loro forza o da una maggiore complessità compositiva (si veda il linguaggio informatico di Porygon), da

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uno stridore amaro fra aspettative e realtà (Oddish), o fra fierezza e timore (Hitmonlee) o da affondi lirici o comunque di letterarietà elevata che, opportunamente, incrinano qua e là la superficie dei testi, caratterizzati da una comunicazione univoca, senza simbolismi, più prossima al rap che alla tradizione poetica italiana – posso solo immaginare lo sforzo salutare che hai compiuto, data la tua formazione di filologo! Ne cito alcuni: la madre che fraintese il corpo e il capezzale (Kangashkan); l’abisso che era scrivere se lo sentiva addosso (Haunter); gli occhi un dolore; la perla epicentro (Shellder; probabilmente, fra parentesi, questo è il verso più folgorante e bello in assoluto dell’intera raccolta). Infine, una piccola notazione formale: l’uso delle rime interne a schema ABBA della prima sezione non può non riportare a Gozzano, così come crepuscolare è l’uso di rime e assonanze tra parole straniere (anche se oggi è parte del repertorio rap). E allora, consentimi di peccare un’ultima volta di sovrainterpretazione: c’è o non c’è una connessione fra le gozzaniane buone cose di pessimo gusto e la grossolanità visivamente superata (in epoca di tablet, i-Phone e super-effetti speciali) dei Pokémon, per nulla minimizzato ma anzi

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esasperato dai disegni che accompagnano l’opera in questa versione pre-editoriale che mi hai mandato? C’è tuttavia una implicita tenerezza verso le cose fatte passato, perché anche i ’90 dei Pokémon sembreranno parte di una preistoria ai nativi digitali nati dopo il 2000 – e allora, il tono crepuscolare è giustificato dal soggetto scelto, sebbene la nostalgia di recupero stia nell’operazione a monte anziché in passaggi specifici. 16 dicembre 2015

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Considerazioni dell’autore

Caro Davide, prima di risponderti diffusamente, devo ringraziarti. Non c'è ritardo che tenga quando i gesti sono gratuiti, come questo. E di ciò sono grato e stupito, e non credere che questa tua mail passi inosservata o vada a svanire in un dimenticatoio. Del resto, tutto ciò che hai rilevato è calzante e perfettamente aderente alla volontà autoriale. Tra le altre rilevazioni intelligenti e profonde che hai fatto, mi ha sorpreso e rapito quella sulla prima persona di Jigglypuff, che è tanto involontaria quanto rivelatrice: effettivamente Jigglypuff, pokemon canterino dolce e scanzonato, lamenta il peso dei pregi e dei difetti dell'orecchio assoluto, ovvero del sentire tutto, del tutto tramutare in musica, del nominare e determinare gli elementi della musica anche involontariamente (non so se sai come funziona: chi ha l'orecchio assoluto, riconosce qualsiasi nota senza doversi impegnare a farlo, proprio come si decripta il

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linguaggio della comunicazione in un dialogo). Ecco, io ho avuto in dono l'orecchio assoluto, e quando ascolto un brano di musica classica o qualsiasi altra cosa, ne percepisco le note, le sento: sento la musica in un modo diverso, non migliore, ma diverso. Lo stesso in poesia: non riesco più a leggere o ad ascoltare detta una poesia senza misurarla, misurarne suono e ritmo, ed è, dal mio punto di vista, una pena infernale, l'incapacità a slegarmi dalla complessizzazione degli eventi linguistici e poetici, il che è un male, una atroce sofferenza. Se ascolto una suite inglese di Bach, sento le note, e non la musica, ecco il dramma, e basta allargarlo in allegorie. Tra tutti i drammi raccontati in questo spoon river, secondo la tua felice definizione, nonostante sembri strano (si parla di depressione, autolesionismo, obesità, morte, aborto, erotomania, solitudine, stacco, invidia, delusione), con indolenza prendo atto che l'unico che sento in prima persona è quello di jigglypuff. Il più invasivo, nonostante tutto.

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Ancora grazie. In queste vacanze natalizie, spero e penso di aggiungere altre considerazioni, e rispondere ad altre provocazioni. Sono fiero e contento che in un critico della tua caratura questi versi abbiano trovato un giudizio positivo. Buon natale e tante cose belle, Bernardo Ps: se vorrai, quando uscirĂ il libro (oltre a fartelo avere) potremmo pubblicare da qualche parte, o sul tuo blog, questa nota di lettura, rivista e rielaborata a tuo piacimento, si intende. 23 dicembre 2015

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Testi

Ash Ketchum In testa ha un cappellino, lavora a Burger King: «Ma porco Nidoking, che merda di destino». In radio, un motivetto: “You gotta catch ‘em all...” «Al tempo spopolò. Mi piacque, sì, lo ammetto.» Mentre consegna un ketchup, ripensa ai tempi andati: ricordi un po’ ammassati, è necessario un check-up. Quello che era passione, non era professione. Non era che un assaggio, un tiepido miraggio. La strada era il Team Rocket, i soci criminali. Al bando gli ideali: violenza, spaccio e racket. Che fare? È troppo tardi: la scelta è stata fatta. La vita pari e patta: seicento euro lordi. «Ma poi, cos’è rimasto?» Ci pensa rabbuiato, contando il ricavato, scontrini e buoni pasto. Un Pikachu bastardo, di paglia, sul parquet, due o tre sfere poké, lasciate sul biliardo.

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Oddish Sognava Machiavelli, un ruolo nel teatro. Magari la Mandragola, e anche un bel cachet! Ma Oddish fu servito con noci e ravanelli su un piatto del buffet, nell’atrio della Pergola.

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Porygon Bit-bang programmazione: svegliarsi è essere online. Control-alt-canc: è facile castrare una sessione. Porygon nella sfera o dentro un disco esterno, zippato lì ab aeterno. Nemmeno una bufera che non sia digitale e messa in quarantena. Soffrire è un’illusione, il desiderio è spam, non c’è abbastanza ram per la decriptazione. Poi ecco l’intuizione: sfuggire all’antivirus esistere de visu e non in connessione. Ebbrezza, libertà: decodificazione. Aggiorna Weltanschauung, il web è già d’antan. Il vecchio cyberspazio lo chiama cyberstrazio. (Ma dura poco Porygon, in questo nuovo stato: lo ha già riformattato un hacker sito in Oregon).

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Davide Ferrari – La cenere dei bordi (Subway Poesia, 2013)

Nota

Caro Davide, Eccomi a scriverti – dopo tempo immemore, e a poche ore dal nostro incontro dal vivo – su La cenere dei bordi. In generale, della raccolta mi ha colpito la delicatezza dello sguardo, il tocco quasi femminile, cui forse ha contribuito l’influsso stilistico di Silvia Patrizio, in certi attacchi dialogati e in certi lemmi e sintagmi (buio dei gomiti, per esempio). Hai un ottimo senso del ritmo, che viene fuori leggero, quasi cantato, forse a rendere sopportabile quella distanza e quell’assenza che Silvia identifica nella postfazione. L’assenza di enjambment forti, i versi per lo più brevi (settenari, ottonari...) e le molte rime, assonanze e consonanze “semplici” contribuiscono a quest’istanza melodica, quasi cantautoriale – senza che l’uso da parte mia di

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questo termine implichi un giudizio di valore. Mi piace l’intimismo veicolato dal monologo interiore (l’esortazione tramite il tempo verbale infinito: abbandonare l’idea dell’amore, che mi ha riportato al mio disanimare la dipendenza dal due). Del primo movimento di Alejar mi piace molto la chiusa, di constatazione concettuale e appena amara (come polvere / che a terra non è più bassorilievo – come dire che la sgretolazione, l’entropia fanno a pezzi ogni velleità artistica e finanche ogni sforzo umano). E tuttavia, c’è la positività fondamentale del cammino, proseguire nonostante. Il secondo movimento è forse quello che più da vicino (per l’impianto dialogato e il tema amorosoconflittuale) mi riporta a Interno assenza di Silvia. Credo tu ne sia ben consapevole, e che anzi questo movimento sia un vero e proprio omaggio a lei (in memoria dell’assenza). Interessante, tanto più perché anch’io feci una cosa simile nella poesia Lungo un mancarsi... mi disturba solo un po’ quell’aggettivo, impertinente, già usato nel primo movimento: non tanto la (voluta, credo) ripetizione, quanto una mia antipatia personale per quella parola. Molto forte e iconico quell’enjambment finale a evitare, come uno strattone o un volgere lo sguardo altrove.

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Nel terzo movimento, ma in fondo anche nel primo, mi respinge l’uso della maiuscola per amore – mi sa di sovrattono misticheggiante, ma comprendo possa essere motivato da una fede nell’assoluto che io invece non posseggo né inseguo, perlomeno non nella forma religiosa del cristianesimo... sempre per il mio gusto personale, o evoluzione forse, trovo un tratto troppo generico/astratto (parole, senza dire quali; pelle, assolutizzato, un’estate non specificata). E però ci sono passaggi molto intensi e per nulla ruffiani, come e poi sbiadire nella calma di un errore / puntuali come calendari, oppure i due versi finali, da sempre fra i miei preferiti (quelli che “avrei voluto scriverli io...”). Le poesie seguenti proseguono il tono pacato, di lirica saggezza, di Alejar, e non mancano di tratti memorabili perché pregni di significato (abituati a stare, a credere alle piogge), e anche prosegue il campo semantico – anticipato dal titolo – dei bordi, dei contorni, come linee di transazione fra un io e un tu che si vorrebbero smussare, rendere accoglienti, mediante un lavorio continuo (e infatti, il verbo costruire è messo in risalto, per poi declinarsi all’imperfetto costruiva nel testo seguente). C’è

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anche una staffetta dei tempi verbali, dal presente del primo testo dopo Alejar, al passato del testo successivo a un futuro di promessa del testo che comincia arriveremo a piedi nudi. Insomma, c’è molta consapevolezza compositiva nel macrotesto, già La cenere dei bordi può essere pensata come poemetto. Accanto a molti passaggi che porterò (e già portavo) con me, ho però l’impressione di un lirismo cui potrebbe giovare un maggiore ancoraggio fisico-situazionale, insomma più pittorico che enunciativo, più calato nella società che in una sorta di psiche un po’ stilizzata. Per esempio, tanto l’io lirico quanto il tu a cui ci si rivolge non sono caratterizzati – questo certo facilita l’empatia e la possibilità altrui di riconoscersi nelle figure (infatti, sfumare i bordi... lasciarne, appunto, solo la cenere), ma dall’altra corre un rischio di evanescenza, di scorporazione. Spero di essere riuscito a spiegarmi bene. L’uso forse eccessivo dei plurali (crepe, mattoni, cose, bordi...) senza premodificazione aggettivale è un’altra spia di una vena lirica che forse potrebbe essere supportata da un maggiore documentarismo, una osservazione più minuta dei dettagli.

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Ma d’altronde forse parlo dal cinismo e dalla ricerca di fattività dei miei trent’anni, mentre La cenere dei bordi – pur nella consapevolezza compositiva – è tutta mossa da un’urgenza che può permettersi qualche sovrattono emotivo, qualche carico assertivo, assoluto, a combinare spavalderia giovanile e genuina fede (Improvvisamente / ora e sempre / il cielo intero ci riguarda / anche se non sembra). Nella poesia che inizia per Ho riconosciuto le mie lacrime mi ha fatto piacere trovare una ripresa/citazione/omaggio di una mia poesia (non sapere questo cerchio / a cosa porti). I miei passaggi preferiti però sono quelli in cui l’afflato lirico lascia spazio a un po’ di cinismo prosaico e narrativo, tardo-montaliano, come qui: È lecito ogni tanto commettere un reato, uccidere qualcuno con coscienza, stando attenti a non calpestarne l’ombra, a non intrappolarsi in uno scambio di persona. Mi piace anche quando la tua vena si fa più witty, ingegnosa, alla maniera dei metafisici inglesi, come nella metafora continuata (con implicazioni psicologiche, tra brama d’avventura e porto sicuro)

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del terzo movimento di Vilnius and the cats, che si chiude in maniera epigrammatica. Mi convincono di meno, o mi tengono a distanza, i troppi lirismi ravvicinati di parole come distanze, abbandono, bellezza, silenzio e inebriati, che avrebbero secondo me bisogno di un maggiore contrappunto, o di un uso pi첫 parsimonioso e smaliziato. 17 dicembre 2015

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Testi

I Abbandonare l’idea dell’amore; delle case fuori mano che insegnano a baciare; gli anni intenti a coccolare i propri orgogli con la gola secca di parole. Ora chi rimane da cercare nelle vecchie stanze vuote? Nell’attesa un groppo in gola il nodo alla cravatta e alcun segno di ripresa. E in silenzio, per reazione, restituire intatta la culla che non appartiene abbandonati all’eco impertinente, all’incuria della nostra cattedrale, proseguire nonostante come il tempo che corrode le figure come polvere che a terra non è più bassorilievo.

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L’usanza di appassire andrebbe soddisfatta a piedi uniti in un mistero non concesso di occhi gonfi e nodi mai slacciati. Tra le mani giunte e le carezze non ancora partorite c’è una coscienza enorme un’eco a Dio, il nostro piccolo contorno è linea aperta all’orizzonte. Il cordone si è slacciato recitando una bestemmia con la giusta attenzione con gli occhi a nord come misura dell’assenza. Improvvisamente ora e sempre il cielo intero ci riguarda anche se non sembra.

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La paura di ritagliarti gli occhi, di sentire il ringhio quella fame indaffarata non si placa. Per sempre insanguinata a partorire un uomo una seconda volta. Ăˆ lecito ogni tanto commettere un reato, uccidere qualcuno con coscienza, stando attenti a non calpestarne l’ombra, a non intrappolarsi in uno scambio di persona.

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Note biografiche degli autori commentati

Tomas Bassini è nato nel 1985. Laureato in Filologia Moderna all'Università di Siena. Suoi testi sono apparsi sulle riviste Poetarum Silva, Carteggi Letterari, Critica Impura e Il Girovago. È stato l'amore la grossa fregatura è la sua prima raccolta di poesie.

Maria Borio è nata a Perugia, si è laureata in Lettere ed è dottore di ricerca in Letteratura italiana. Ha scritto su Vittorio Sereni e Eugenio Montale e ha pubblicato la monografia "Satura". Da Montale alla lirica contemporanea (2013). Sue poesie sono apparse sull'“Almanacco dello specchio” (Mondadori, 2009), su “Poesia” (Crocetti, 2012), su variei riviste, siti e blog. Una silloge di testi, Vite unite, è presente nel XII Quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2015). Cura la sezione poesia di "Nuovi Argomenti".


Davide Ferrari è nato nel 1983 a Pavia. È attore, regista, autore. Si occupa di teatro, scrittura creativa, poesia e formazione presso enti privati e pubblici. Conduce laboratori di teatro e scrittura creativa nella Casa Circondariale di Pavia e in quella di Voghera, dove dirige la compagnia teatrale Maliminori. Ha pubblicato la raccolta poetica La cenere dei bordi (Subway 2013) e il poemetto Eppure c’è una meta per quel fiato di universo (Subway 2014) vincitore per l’Italia del concorso internazionale Pop Science Poetry promosso dal CERN di Ginevra e tradotto in quattro lingue. È del 2015 la sua prima raccolta di poesie in dialetto pavese Dei pensieri la condensa (Manni) con la prefazione di Franco Loi. Marco Xerra è nato a Thiene (VI) il 25 aprile 1994. Frequenta il Liceo Linguistico F. Corradini di Thiene, sviluppando dal terzo anno di liceo in poi un grande interesse per la letteratura e la filosofia. Suona vari strumenti, principalmente la chitarra e la batteria, ha suonato nel gruppo black metal Northern Hell come cantante e chitarrista e ha lavorato a un progetto musicale personale di nome Bios Polemos.


Andrea Labate, 1987, valtellinese d'origine ma milanese d'adozione. Iscritto alla facoltà di Lettere Moderne non so più da quanto tempo, mi mantengo come cameriere in un ristorante sotto casa pensando spesso a Emanuel Carnevali ("morto di fame nelle cucine d' america"). Figlio ideale e non della Beat Generation, la mia vita inizia in una estate folle- carpentiere mentre leggevo on the road sul furgone di mio cognato prima e dopo il lavoro. Li ho capito qualcosa. Scrivo non da moltissimo, ho iniziato tardi credo20 anni forse- comunque tardi rispetto alla "media". Andrea Leonessa, nato a Saluzzo (CN) nel 1989. Nel 2014 sono finalista presso il concorso “Opera Prima” ed autore per il workshop “Crossing Voices” per l'università di Cà Foscari. Nello stesso anno sono stato contattato per partecipare al progetto della Luma Foundation 89plus. Miei testi sono apparsi su alcune riviste, tra cui Ex.it e Niederngasse. La raccolta “Postumi dell'organizzazione” è attualmente edita in formato e-book per la rivista Diaforia.


Gianluca Mantoani è nato a Torino, nel 1968, nella stessa città si è laureato in Lettere Moderne (nel 1994) ed ha frequentato il Dottorato in Antropologia Culturale ed Etnologia, occupandosi di Antropologia dei Consumi e conducendo una “ricerca sul campo” di circa 6 mesi, a Thessaloniki, fra il 1996 ed il 1997. Nel 1999, rinunciando a conseguire il titolo dottorale ha iniziato a lavorare nella grande distribuzione come Allievo Capo Reparto di Ipermercato, passando poi ad occuparsi dapprima di formazione, poi di marketing dell'offerta non-food, per tornare infine al ruolo di commerciale di punto vendita. Nel frattempo ha continuato a coltivare il suo “sguardo antropologico” sul consumo, pubblicando saggi e partecipando a due edizioni del Congresso annuale AISEA (Associazione Italiana Scienze EtnoAntropologiche) con studi ed interventi volti a definire una lettura etnografica dei moderni spazi commerciali (vedi per es: G. Mantoani, Marche mercati e Relazioni Sociali, DIPAV n° 1, 2001; G. Mantoani, Display di Culture, DIPAV n° 7, 2003; G. Mantoani, Ipermercato, Antropologia Museale, n° 22, 2009, G. Mantoani, La merce-dono. Etnografia della Vendita: promozioni, omaggi, fiducia, in corso di


pubblicazione). Nel 1990 4 poesie vengono pubblicate in “Raccolta Antologica: Scambio di Pensieri Poetici”, a cura del Teatro Erba, (Tirrenia Stampatori, Torino). Nel 1991, 5 poesie sono pubblicate nella raccolta: Opere d'Inchiostro”, a cura dell'Osservatorio Poetico Giovanile della Città di Torino. Dal 2005 vive a Trofarello con la compagna Sandra, i figli Gabriele e Miriam, la gatta Kiki.

Michele Ortore è nato a San Benedetto del Tronto nel 1987. Sta frequentando un dottorato in Storia della lingua italiana all’Università per Stranieri di Siena. Ha pubblicato la raccolta di poesie Buonanotte occhi di Elsa (Vydia, 2014) e la monografia La lingua della divulgazione astronomica oggi (Fabrizio Serra Editore, 2014). Le sue poesie sono apparse nelle antologie di premi nazionali, fra cui Poesia di strada e Il lago verde, e su diverse riviste e lit-blog (Argo, La poesia e lo spirito, Poetarum silva, Neobar; sul quotidiano La Stampa a cura di Maurizio Cucchi). Con la plaquette Corde nel vuoto è stato finalista del concorso Opera Prima di Poesia 2.0. Nel duo Eccessivamente lirici, insieme al


pianista Gianluca Angelici, legge i suoi testi a Roma e nelle Marche. Ha collaborato con gli speciali sulla lingua italiana del portale Treccani.it, con l’INVALSI e con Mondadori Education. È giornalista pubblicista e ha scritto di teatro e poesia per Atelier, Krapp’s Last Post e i Quaderni del Teatro di Roma.

Bernardo Pacini (1987) è un poeta fiorentino. Ha pubblicato "Cos'è il rosso" (Ed. Meridiana 2013, vincitore dei premi Beppe Manfredi, Antica Badia di San Savino e Sertoli Salis) e il libro d'arte "Perfavore rimanete nell'ombra" (Origini Edizioni 2015). Alcuni suoi testi (poesie, prose poetiche, critica) sono inclusi in antologie e riviste cartacee e online. Nel 2016 uscirà con il libro "La drammatica evoluzione" (Oèdipus).

Silvia (Giovanna) Rosa nasce nel 1976 a Torino. Laureata in Scienze dell’Educazione, ha frequentato il Corso di Storytelling della Scuola Holden di Torino. Suoi testi poetici e in prosa sono apparsi in numerosi siti, blog letterari, riviste


e in volumi antologici editi tra gli altri da Perrone Editore, LietoColle, Edizioni Smasher, Lite Editions, Limina Mentis, Osteria del Tempo Ritrovato, Fara Editore. È autrice del saggio Italiane d’Argentina. Storia e memorie di un secolo d’emigrazione al femminile (1860-1960) (Ananke Edizioni, 2013 – II ediz. 2014); delle raccolte poeti - che SoloMinuscolaScrittura (La Vita Felice, 2012) e Di sole voci (LietoColle, 2010 – II ediz. 2012); del libro di racconti Del suo essere un corpo (Montedit Edizioni, 2010). Ha all’attivo diverse collaborazioni nel campo delle arti visive e la pubblicazione di ebook fotopoetici, tra cui Iridescenze (Migranze Eedition, 2012 con immagini di Romina Dughero) e Corrispondenza (d)al limite [Fenomenologia di un inizio all’inverso] (Clepsydra Edizioni, 2011 con immagini di Giusy Calia).

Alessandro Salvi (1976, Pola – Croazia), vive da sempre a Rovigno (Croazia). Scrive versi ed ha pubblicato la raccolta Piovono formiche carnivore e altre inezie (Aletti, Villalba di Guidonia, 2008) e la plaquette I fori nel mare (En Avant! Produzioni, Pistoia, 2011), oltre alle sillogi Ladro di tamerici


(2008) e Santuario del transitorio (2010), vincitrici quest'ultime due di altrettanti primi premi al concorso Istria Nobilissima; mentre nel 2011 con la silloge Eserciziario di metafisica per principianti vince il IV premio ex-aequo al concorso Pubblica con noi, indetto da Fara Editore di Rimini. Sue poesie sono incluse in opere collettive e antologie: Le parole rimaste (Edit, Fiume 2010), Il segreto delle fragole (LietoColle, Faloppio 2009), Creare mondi (Fara, Rimini 2011), La giusta collera (CFR edizioni, Sondrio 2011), Labyrinthi (Limina Mentis, Villasanta 2012). Una seconda edizione del suo libro d'esordio (Piovono formiche carnivore e altre inezie) è uscita nel mese di dicembre del 2011 per conto della casa editrice rovignese Apeiron, con traduzione croata a fronte, per mano di Roman Karlović. Suoi versi sono apparsi nelle seguenti riviste: La Battana (Fiume, Croazia), Nova Istra (Pola, Croazia), Zarez (Zagabria, Coazia) e Sovremenost (Skopje, Macedonia).

Antonio Scaturro è nato a Giaveno il 27 aprile 1992, abita a Orbassano e frequenta il corso di Culture e Letterature del Mondo Moderno presso


l’Università degli Studi di Torino. Finalista del concorso “Opera Prima” edizione 2013.

Floriana Porta è nata a Torino nel 1975. Artista poliedrica, si occupa di pittura, poesia e fotografia. È presente in diverse antologie poetiche e ha pubblicato due sillogi: Il respiro delle ombre e Verso altri cieli. Le tematiche cardine della sua poetica sono le riflessioni sull’esistenza, le forze cosmiche e la ricerca dell’essenzialità. È membro della giuria del Concorso Internazionale Poesia Haiku organizzato dall’Associazione culturale Cascina Macondo, e di quella del Premio Italia Mia Viaggio sentimentale in Italia, bandito dall’Associazione Italiana del Libro.

Guido Turco è nato nel 1959, alle 18 di un giorno di fine novembre. Vive in Francia a Villenave D’Ornon (Bordeaux – Aquitania). Scrive soprattutto poesie, ma anche molto altro e su diversi registri, realizza opere plastiche che associano immagini e parole. Lavora molto, lo spirito tutelare di casa sua è un pesce, ha


ripugnanza per le imprecisioni grafiche. Ha pubblicato il romanzo Secondo viaggio in India (Zona 2011) e le raccolte poetiche Notariqon (Càriti 1988), Le traduzioni dal mondo (Book Edizioni 1993), L’indizio della grazia (Lietocolle 2002), La musa estinta (Il PulcinoElefante 2004) e 50 giri intorno al sole (Puntoacapo 2011).

Dominica Villa Balbinot ha iniziato a scrivere con costanza solo a partire dal 2006 e si è inizialmente cimentata su gruppi di scrittura presenti sul web (it.arti.poesia, it.arti.scrivere) e subito dopo creando i suoi blog personali, uno di poesia (inconcretifurori) e il secondo di prosa e racconti (dell’idrairacconti). Villadominicabalbinot.wordpress.com è il mio blog cumulativo. Sin dal suo primo numero ha collaborato al lit-blog viadellebelledonne.wordpress.com. Può considerarsi inedita su carta, potendo contare unicamente sulla raccolta Febbre lessicale autoedita attraverso il sito ilmiolibro.kataweb.it



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