Ticino7

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№ 41 dell,11 ottobre 2013 · con Teleradio dal 13 al 19 ottobre

Sulla STrada

un Ticino inedito visto con lo sguardo della Fondazione Pellegrini Canevascini


Un annuncio vi dà il tempo di trovare quello che cercate. Questo annuncio fa pubblicità alla pubblicità su giornali e riviste. Ogni anno l’associazione STAMPA SVIZZERA indice un concorso per giovani creativi. Anche questo lavoro ha vinto: è opera di Jacqueline Steiner e Noemi Kandler, Unikat Kommunikationsagentur AG. www.Questo-può-farlo-solo-un-annuncio.ch


Ticinosette n. 41 dell’11 ottobre 2013

Impressum Tiratura controllata 68’049 copie

Chiusura redazionale Venerdì 4 ottobre

Editore

Teleradio 7 SA Muzzano

Redattore responsabile Fabio Martini

Coredattore

Giancarlo Fornasier

Photo editor Reza Khatir

Amministrazione via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 960 31 55

Direzione, redazione, composizione e stampa Centro Stampa Ticino SA via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 968 27 58 ticino7@cdt.ch www.ticino7.ch www.issuu.com/infocdt/docs

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In copertina

Chiasso, 1936 (particolare) Fotografia di Cesare Lucini Fondazione Pellegrini Canevascini

4 Arti Angelica Sanchez Malaby. A pesca di note di Giancarlo locatelli ....................... 6 Letture Senza le ali di Fabio Martini......................................................................... 7 Graphic Novel #sentitosuibinari di olMo cerri e Micha dalcol................................ 8 Società Plantigradi. Di orsi e di peluche di roberto roveda....................................... 9 Media Vocaboli. Parla come spammi di nicola de Marchi ...................................... 10 Letture I segreti di Luigi di roberto roveda ............................................................ 11 Vitae Massimiliano Pani di SteFania briccola ........................................................... 12 Reportage Sulla strada di letizia Fontana; a cura della redazione ............................ 37 Luoghi Grotti. Cavità culinarie di Marco Jeitziner; Foto di Flavia leuenberGer ............. 42 Tendenze Cucina. A portata di dita di laura di corcia .......................................... 44 Svaghi .................................................................................................................... 46 Agorà Sociologia. Esperti, ma non troppo

di

Marco Jeitziner ....................................

Il valore della pluralità Pubblichiamo la lettera giunta a commento dell’articolo “I pezzi della Chiesa” di Roberto Roveda (Ticinosette n. 39/2013). Precisiamo che la definizione “sette” – termine criticato dal gentile lettore – non viene dato dall’autore dell’articolo (che li indica invece in modo generico con “movimenti”), bensì dall’intervistato, il prof. Marco Marzano dell’università di Bergamo. Egregi signori, ho letto con molta attenzione il vostro articolo e vi invio alcune considerazioni al proposito. Anzitutto non condivido che voi definiate sette i movimenti ecclesiali: sette sono, per esempio, i testimoni di Geova in quanto in netto contrasto con la Chiesa cattolica. Non ritengo che i movimenti ecclesiali, che rappresentano una esigua minoranza, nuocciano alla Chiesa tradizionale ma semmai essi sono sorti per ovviare alle carenze della medesima che (come voi giustamente avete detto) ha rinviato sine die i processi riformatori e si ritrova fatta di parrocchie e di fedeli della domenica. Vi parlo con cognizione di causa in quanto faccio parte da trent’anni del movimento “Fede e Luce” che voi non avete citato ma che è uno dei movimenti riconosciuto dalla Chiesa. Questo movimento è sorto nel 1972 per opera di Jean Vanier: alcuni genitori di ragazzi portatori di handicap si erano visti rifiutare i loro figli al pellegrinaggio a Lourdes. Da questo rifiuto è nato il desiderio delle famiglie di unirsi affinché il discorso di fede non emarginasse ma unisse i ragazzi diversamente abili. Da un piccolo grup-

po di famiglie che, guidati da Jean Vanier, si recarono autonomamente a Lourdes nel lontano 1972 lo slancio ha coinvolto a macchia d’olio tutto il mondo. I genitori e gli amici di “Fede e Luce” hanno continuato a ritrovarsi formando piccole comunità che a oggi sono 1500 in tutto il mondo. Ogni comunità è aperta, perché composta oltre che dai ragazzi, dai loro familiari, dagli amici e dagli animatori. Gli incontri mensili, seguiti da un sacerdote e inseriti nella realtà parrocchiale, danno la possibilità a chi vi partecipa di compiere un cammino di fede in quanto svolgono di volta in volta un tema religioso che fa da filo conduttore dell’incontro, il tutto alla portata dei ragazzi che attraverso semplici lavori manuali riescono a percepire il significato a volte difficile dei temi evangelici. “Meglio accendere una luce che maledire l’oscurità” questo il motto di “Fede e Luce”, un’esperienza di fede vissuta con semplicità con uno sguardo d’amore al di sopra di ogni barriera, la risposta alla Chiesa tradizionale che non si è chinata sul problema dell’handicap e dell’emarginazione delle famiglie coinvolte. In Ticino siamo presenti a Locarno da trent’anni, la nostra comunità ha un nome emblematico “Arcobaleno”: compare nel cielo come presagio di sereno, per noi di speranza. Speranza che con papa Francesco la Chiesa si apra ai diversi, che si renda conto della loro ricchezza di amore. Siamo una minaccia per la Chiesa tradizionale o cerchiamo solo di mettere in pratica il Vangelo? R. T. (email)


Esperti, ma non troppo Sociologia. Perché ci affidiamo di continuo a consulenti e specialisti per qualsiasi problema e in ogni settore? Sanno veramente di cosa parlano? C’è chi ne dubita, eppure tutti noi siamo in parte responsabili di questa nuova “religione” di Marco Jeitziner

Agorà 4

C

i dicono come crescere i figli, decorare la casa, riparare l’auto, cucinare, come vivere felici e via dicendo. Ogni giorno eserciti di nuovi “esperti”, consulenti, periti, analisti, specialisti, riempiono i media globali per rispondere ai nostri questi e a quelli di aziende e governi. E spesso ci fidiamo, perché loro ovviamente ne sanno più di noi. Ma le cose stanno veramente così? Nel 2008, con lo scoppio della crisi economica globale, abbiamo scoperto che i maggiori “esperti” e guru finanziari ne capivano ben poco: nessuno di loro ci ha visto giusto. E nessun “esperto” ha previsto, per esempio, la “primavera araba”. Ma allora sono davvero persone affidabili, oppure appartengono a una specie di nuovo culto, a una nuova religione?

Basta poco? Aziende e governi adorano assumerli per qualsiasi cosa, convinti che soltanto a loro appartenga una sorta di sapere segreto, e che soltanto grazie ai loro consigli si

possano risolvere i problemi del mondo. Matthew Stewart è un filosofo statunitense che ha fatto il consulente, cioè l’esperto, per importanti società e governi. Per sua stessa ammissione, lo era diventato dopo che un suo datore di lavoro gli aveva pagato un corso di business... di qualche settimana! Stewart ha poi scritto un libro di successo1, divertendosi a smontare il mito. Secondo lui basta poco per diventare un “esperto” come tanti altri: primo, conviene essere alti (l’altezza trasmette maggiore autorità); secondo, è opportuno indossare o possedere simboli di “successo” per far vedere che si ha cura di se stessi (un orologio luccicante, l’auto giusta, alloggiare in hotel eleganti in modo da dimostrare una certa agiatezza). Tutto questo, sostiene Stewart, è sufficiente a sostenere e avvallare le proprie competenze. Da non dimenticare assolutamente è l’utilizzo del gergo “da esperto”, cioè parole complicate e termini tecnici con cui costellare le proprie affermazioni. Semplice no? L’impressione è che gli “esperti” servano più spesso da


capro espiatorio quando le cose vanno male: se non ce l’abbiamo fatta, è colpa loro. Peccato che poi, quando invece il vento gira a favore, amiamo lodarci dei risultati, ma spesso senza mai citarli. Andrà così, anzi no! Al di là dell’esperienza di Stewart, coi tempi che corrono è più che lecito chiedersi: mi posso fidare dei vari business coach e consulenti in management di cui è pieno il mondo? Hanno scritto montagne di libri pieni di consigli, ma nemmeno i maggiori esperti finanziari sono riusciti ad anticipare la bolla finanziaria del 2008. Negli Stati Uniti, soprattutto, la popolazione è rimasta scioccata dalle “toppate” di moltissimi esperti, interpellati a raffica dai media che, loro malgrado, contribuiscono ad alimentare il mito. Ogni giorno, fateci caso, c’è chi prevede una bassa crescita per lo stesso anno, e chi afferma l’esatto contrario. Dunque? Secondo il giornalista scientifico statunitense David H. Freedman, semplicemente, gli “esperti” molto spesso si sbagliano2. In ambito medico e scientifico, afferma, almeno due terzi degli studi pubblicati dalle migliori riviste mediche sarebbero errati e, potenzialmente, lo sarebbero anche tutti gli studi pubblicati nei giornali economici. Certo, quale credibilità può avere un “esperto” che critica altri “esperti”? Tuttavia ritengo che sia un esercizio indispensabile in questa società “espertofila”: manco parlassero di fisica, ci fanno credere che l’economia è una scienza, composta da freddi e indiscutibili fatti, quando in realtà dimenticano la componente umana, purtroppo o per fortuna assai determinante. Esperti in trappola Facciamo un altro esempio. Siccome nemmeno l’economia è realmente attendibile, figuriamoci il giudizio degli “esperti” di vini. Degustatori, sommelier e critici enogastronomici ci consigliano quale bottiglia è meglio comprare, ma quanto sono davvero competenti? Sanno veramente di cosa parlano coi loro bizzarri aggettivi? Assolutamente no, almeno secondo il francese Frédéric Brochet, dottore in enologia a Bordeaux. Lo ha dimostrato in uno studio3 che ha fatto il giro del mondo: ha riunito diversi “esperti” chiamati a degustare due vini in apparenza diversi, salvo poi versare lo stesso vino in due bottiglie con differenti etichette; imbarazzanti le toppate, spiegabili da un punto di vista psicologico, per cui più è caro un prodotto più ci aspettiamo qualità, mentre meno costa più vi cerchiamo automaticamente il difetto. Ora, non si sta dicendo che non vi siano “esperti” di vini, ma ve ne sono certamente alcuni più seri di altri, come l’italiano Roberto Gatti, giudice degustatore di fama mondiale, che afferma: se “per lo stesso vino, degustato nello stesso momento e nello stesso stato di affinamento” lo scarto tra i giudizi è molto diverso, “evidentemente c’è qualcosa che non va. Basterebbe procurarsi una bottiglia dello stesso vino, degustarla con calma, meglio se insieme ad altri addetti ai lavori (...) e vedere gli esiti della degustazione. Automaticamente emergerà chi dei due pseudo-degustatori ha preso un grossolano abbaglio ed è, a mio avviso, non all’altezza del lavoro che sta svolgendo” 4. Provare per credere?

Arte vera o falsa? Se gli economisti sono poco affidabili e la qualità del vino è troppo soggettiva, che dire allora del miliardario mondo dell’arte? Non è facile sapere quale dipinto ha un grande valore e quale è solo una volgare imitazione, ma ci aspetteremmo che un buon “esperto” possa aiutarci. Eppure anche qui ci sono errori che tolgono il fiato. Qualche anno fa a Londra è stata esposta una serie di famosi falsi dipinti che di solito si trovano solo nelle cantine. Il sito del museo afferma5, per esempio, che con “un dipinto acquisito come uno del XV secolo nel 1923, si è poi potuto provare, dopo delle analisi scientifiche sui materiali usati, che era un’imitazione del XX secolo”! La mostra risultò imbarazzante per la grande confusione che avevano creato i falsari, proprio come l’artista inglese John Myatt, noto per i suoi duecento falsi (tra cui un Giacometti) che hanno ingannato per una decina d’anni fior fior di galleristi. Riporta la stampa6: “malgrado il fatto che molti dipinti di Myatt fossero risibilmente amatoriali (…), hanno ingannato gli esperti e sono stati messi all’asta per centinaia di migliaia di sterline da Christie’s e Sotheby’s”! C’è chi afferma che, da un lato, gli storici dell’arte sono troppo presi dalla ricerca di importanti opere scomparse, e che ciò li induce a lavorare male e in fretta. Dall’altro il dubbio che resta è che i migliori falsari forse sono ancora in circolazione. Un mondo controllabile Gli esempi sono molti, dallo sport all’alimentazione, dalle finanze all’ambiente, ma allora perché continuiamo ad appoggiarci agli “esperti”? Philip Tetlock, docente di comportamento dell’organizzazione all’università di California-Berkeley, è un “esperto di esperti”: per 25 anni ha quantificato le capacità umane di fare previsioni politiche, concludendo che “ironicamente, più è famoso l’esperto, meno tendono a essere accurate le sue previsioni”7. Il motivo è che “il fattore più importante non era quale educazione o esperienza avesse, ma come pensava”. Riusciremo mai a liberarci da questo esercito di nuovi “sacerdoti”? Impossibile, secondo Tetlock, perché “abbiamo bisogno di credere che viviamo in un mondo prevedibile e controllabile, quindi ci rivolgiamo a persone pseudo-autoritarie che promettono di soddisfare questo bisogno. Ecco perché siamo in parte responsabili delle loro scarse testimonianze”. Proprio perché, soprattutto noi occidentali, siamo insicuri, ansiosi e il futuro, in sostanza, ci ha sempre spaventati. Infine un consiglio: se uno di questi “esperti” vi sembra troppo certo di quanto dice, meglio diffidare!

note 1 Il crepuscolo del management. Perché gli esperti di business continuano a sbagliare tutto? (Fazi Editore, 2011). 2 Wrong: Why Experts Keep Failing Us - And How to Know When Not to Trust Them (Little Brown & Company, 2010). 3 “The Color of Odors” (2001), scaricabile da daysyn.com/Morrot.pdf. 4 winetaste.it/la-critica-enologica 5 nationalgallery.org.uk/whats-on/exhibitions/close-examinationfakes-mistakes-and-discoveries 6 theguardian.com/artanddesign/2005/dec/08/art 7 money.cnn.com/2009/02/17/pf/experts_Tetlock.moneymag Illustrazione tratta da home.earthlink.net

Agorà 5


A pesca di note

Qualche anno fa, su queste pagine, scrissi un articolo in cui cercavo corrispondenze fra la pesca alla trota e la musica improvvisata. Alcuni eventi recenti mi hanno riportato su quelle tracce… di Giancarlo Locatelli

Arti 6

L’estate porta quasi sempre qualche piccola o grande Il 29 agosto al festival jazz di Sant’Anna Arresi, in Sardegna, sorpresa. Alla fine di agosto sono scivolato pescando e mi era previsto un solo di Cecil Taylor e il disappunto e sopratsono frantumato la rotula. Il percorso di recupero, dopo tutto il dispiacere saranno stati grande quando gli organizl’inevitabile intervento chirurgico, sarà lungo. Quindi, zatori hanno annunciato che il musicista americano aveva procedo un giorno per volta. La domanda che mi si è posta, annullato le date europee per problemi di salute. Al suo è la seguente: perché mai una persona, nel mio caso, un posto ha suonato Angelica Sanchez Malaby, già presente musicista, dovrebbe mettere in pericolo la propria incolu- nel cartellone del festival nel Pulsar Quartet Magic Saturn mità andando su e giù per torrenti? e nella Rob Mazurek’s Exploding Star Orchestra. Dopo la caduta, mi sono dato dello stupido un milione di Angelica Sanchez Malaby è una giovane pianista, comvolte. Ho rivisto quell’attimo a positrice e insegnante originaria ripetizione, ben consapevole del dell’Arizona. Dopo aver studiato prezzo che la mia famiglia e quelli all’università del suo stato si è che mi stanno intorno dovranno trasferita nel 1994 a New York, pagare a causa di questa “disatdove ha suonato con musicisti tenzione”. Non ho pescato tanto del calibro di Paul Motian, Tim questa estate, forse una decina di Berne, Trevor Dunn, Mark Dresuscite, a volte in luoghi impervi, ser, Ed Shuller, Reggie Nichols e faticosi e sicuramente molto più molti altri. pericolosi. L’incidente è avvenuto Il suo attuale quintetto include infatti nel posto più improbabile, Tony Malaby, sax tenore, Marc dove ero passato centinaia di volDucret, chitarra, Drew Gress, conte in questi ultimi anni. trabbasso e Tom Rainey, batteria. Angelica Sanchez Malaby (festivalsforall.com) Di smettere di pescare, non mi Prestigiosa è la collaborazione passa neanche per la testa. Se con il trombettista e compositore potessi ci andrei domani. Prima di tutto vorrei rivedere Wadada Leo Smith che l’ha chiamata a far parte del suo quel posto. E poi, il mio legame con il torrente, con la Golden Quartet. pesca si è consolidato. Ovviamente se il ginocchio non Angelica ha uno stile lirico, fluido e contrappuntistico e dovesse recuperare sufficiente mobilità potrei anche essere dirige il proprio gruppo scrivendo brani dalle strutture costretto a smettere, ma se così non sarà, come spero, so aperte e varie, e soprattutto mai totalmente prevedibili. che ci tornerò. Nel 2011 aveva pubblicato A little house un cd in solo per Il torrente, il suo suono, il profumo degli alberi intorno, l’etichetta Clean Feed, nel quale oltre al pianoforte usa gli animali che incontri, le luci che cambiano e il mondo anche il toy piano. Il disco contiene dieci composizioni sommerso che soltanto chi pesca, scandagliando i fondali, originali, una versione di un brano tradizionale brasiliano sa essere molto ma molto più ricco e vario di come ci si “A Casinha Pequenina”, una country song di Hank Thomimmagina, sono per me una pratica di depurazione mentale pson “I’ll sign my heart away” e una versione di “City e di messa a fuoco anche delle questioni relative alla mu- Living”, un classico di Ornette Coleman. sica. Non vado a pescare per prendere trote, prendo trote Siamo convinti che il pubblico presente la sera del 29 perché vado a pescare. Certo che è più bello e gratificante Agosto a Sant’Anna Arresi, dopo la comprensibile deluquando abboccano, ma alle volte si torna più soddisfatti sione iniziale, abbia avuto modo di conoscere una delle da una battuta di pesca senza prede con la sensazione di figure emergenti e più interessanti nell’attuale scena aver pescato bene, piuttosto che con qualche trota ma con- newyorchese. sapevoli di aver combinato pasticci. L’obiettivo potrebbe essere andare a pescare senza ami e esche. In sintesi Everardo Dalla Noce, giornalista economico italiano, nei … di musica suoi collegamenti dalla borsa di Milano era solito dire che Nei festival jazz estivi capita alle volte di avere sorprese, il se c’è qualcuno che guadagna, qualcun altro ci perde. Allo musicista annunciato dà forfait e viene sostituito da qual- stesso modo quando pensiamo: tutto finito, forse varrebbe cun altro che magari non conosciamo affatto. la pena di vedere l’altro lato e pensare: No. Tutto iniziato.


Letture Senza le ali di Fabio Martini

Nei confronti dell’editore Gabriele Capelli

la terza volta, un celebre romanzo di Graham Greene, Il fattore umano, pubblicato intorno alla fine degli anni settanta. Una vicenda ambientata all’interno dei servizi segreti inglesi ma dosata con tale sapienza e animata da personaggi così ben tracciati sotto il profilo psicologico e umano che il confronto con il libro dei fratelli Minguzzi è stato illuminante. In Greene – ma potremmo dire la stessa cosa di Camus, come di Sciascia o di Celine – non c’è nessuna urgenza di dire, di spiegare, di descrivere. La costruzione del testo (e conseguentemente della vicenda) è distillata con ritmo lento ma incessante, attraverso una scrittura vibrante capace di dar vita a personaggi dei quali possiamo percepire in modo tangibile ansie, timori, preoccupazioni di carattere morale, cinismo e opportunismo. Un bel modello. Senza nulla togliere alla suspence che sottende la vicenda. Sarà allora colpa del fatto che gli editor nelle case editrici non esistono più (o se esistono, sono ormai totalmente vincolati alle esigenze di marketing); o forse che nessuno si prende più la briga di prendere a modello i grandi scrittori del passato e del presente (ci sono ancora, nonostante tutto); o sarà che la letteratura, relegata sempre più a prodotto usa e getta, sta perdendo le sue funzioni. Che sono molteplici e per chi voglia approfondire senza immergersi in letture chilometriche si veda quanto affermò Umberto Eco nel 2000 al Festival della Letteratura di Mantova (www3. humnet.unipi.it/francese/Materiale/Eco_IT.pdf). Ciò che resta è dunque una trama, una fra tante. Certo, intrisa di possibili spunti, sufficienti a crearne dieci o forse cento di romanzi. Qui ne bastava uno, ma io non l’ho trovato.

Il codice della follia di Edi e Camillo Minguzzi Gabriele Capelli editore, 2013

HOFER BSW

di Mendrisio nutriamo grande stima, come attestano le recensioni che nel tempo abbiamo pubblicato sul nostro settimanale. Il che non ci esime però dall’avanzare forti riserve su questa uscita, giunta qualche tempo fa in Redazione e alla cui lettura mi sono accinto – devo ammettere con delusione – nel corso dell’ultima settimana. Intendiamoci, non si tratta di un libro “difficile” o particolarmente impegnativo quanto, direi, di un libro noioso, a prescindere dalla traboccante varietà di elementi sulla base dei quali i due autori (Edi Minguzzi, apprezzata saggista e docente di linguistica presso l’Università degli studi di Milano e suo fratello Camillo, appassionato di viaggi, arte e archeologia nonché di trame poliziesche) intessono la vicenda: l’efferato serial-killer, un manipolo di soggetti con disturbi psichici di varia natura, l’immancabile codice segreto, la mitologia greca, la psicoanalisi. Un mix intrigante, che ci starebbe anche, vista l’indiscussa competenza culturale di Edi Minguzzi. Purtroppo, ciò che manca, come in moltissimi romanzi pubblicati negli ultimi vent’anni da editori grandi e piccoli, è tutto il resto, a partire in specifico da quello che dovrebbe essere l’ingrediente principale di un testo letterario: una scrittura interessante. Si badi, nulla di grave, visto che il difetto – nel suo pieno senso etimologico – accomuna i nostri autori a una miriade sterminata di altri colleghi ben più illustri: da Dan Brown a Stieg Larsson, da Giorgio Faletti al nostrano Andrea Fazioli. Ma l’elenco è, come dicevo, pressoché inesauribile. Poco prima di immergermi nel libro in oggetto avevo terminato di leggere, credo per

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# sentitosuibinari

di Olmo Cerri e Micha Dalcol Credo sia una storia vera: racconti sentitingiro

ma lo conoscevi lo svizzero? no? fuori… era!

non dormiva mai. tutte le mattine da reggio a milano con il treno delle cinquetrentasei.

muoverle con meno energia possibile. schiacciare il giusto perché si spostassero. i macchinisti di una volta ci tenevano, gli veniva dal carbone.

mi aveva insegnato lui a muovere le locomotive. era uno della vecchia scuola. oggi schiacci e te ne freghi.

non dormiva mai. finito il lavoro andava vicino a brescia a sparare alle vacche. al macello.

lo diceva ridendo: vado a sparare a qualche vacca. non gli pesava. rideva.

una volta uno gli si era buttato sotto. uno che conosceva. un collega. non c’erano ancora i debriefing con gli psicologi e da quel giorno non ha più dormito.

ma lo conoscevi lo svizzero? no? fuori… era!


Di orsi e di peluche Dalle caverne preistoriche all’uccisione di M13: l’uomo e l’orso sembrano destinati a competere per il dominio sullo stesso spazio vitale. Ma tra loro sussiste un legame ancora più profondo... di Roberto Roveda

Un gruppo di armati, con alabarde, spade, pifferi e tam-

buri attorno a un vessillo che mostra un orso rampante. Osservando però la scena con attenzione ci accorgiamo che anche la truppa “danzante” è formata da orsi guerrieri. È così che gli abitanti di Berna si rappresentavano nelle miniature della Spiezer Chronik, cronaca bernese di fine quattrocento1: come fieri plantigradi sempre pronti al combattimento. Una scelta controcorrente perché al tramonto del Medioevo l’orso, che per tanto tempo aveva dominato l’araldica medievale ed era di fatto il re delle foreste europee, si trovava nella triste condizione di un sovrano decaduto. A detronizzarlo era stata la Chiesa di Roma che non gli perdonava il profondo legame che molte popolazioni dell’Europa germanica avevano lui. L’orso, infatti, fin dalla preistoria aveva condiviso i medesimi spazi – le caverne, le foreste – con l’uomo. Era, quindi, inevitabile che i nostri antenati sviluppassero, oltre a una naturale paura, anche una grande ammirazione per un animale, così fiero e potente.

ammansivano orsi oppure in cui veniva messa in risalto la goffaggine dell’animale. E se l’11 novembre i popoli germanici celebravano la festa del “letargo dell’orso”, simbolo dell’inizio dell’inverno, questa data venne poi dedicata a san Martino, il santo che placò un orso ferocissimo e lo utilizzò a mo’ di mulo per portare i suoi bagagli. L’orso poi era “bruno”, termine che deriva dal germanico brun, che significa “scuro”, “nero”. Aveva quindi i colori del demonio, una ragione in più per emarginarlo; il suo posto nell’araldica e nella tradizione passò al leone, fiera più esotica e “distante” dalla tradizione rituale europea. Al vecchio re non restò che essere decimato, rinchiuso negli zoo oppure costretto a fare il saltimbanco, legato a una catena, negli spettacoli del circo.

Orsi spaziali Nonostante ciò l’orso, zitto zitto, ha saputo prendersi la sua rivincita e ha riconquistato, a partire dagli inizi del novecento, il suo posto accanto all’uomo. Quasi contemporaneamente, negli Stati Uniti e in Germania, hanno cominciato Simboli e iconoclastia a nascere orsi di un tipo mai visto. EraPer generazioni, prima della battaglia, i no di peluche e in breve tempo hanno Illustrazione tratta dalla Spiezer guerrieri avevano bevuto il suo sangue riempito l’immaginario dei bambini Chronik (de.wikipedia.org) sperando in questo modo di acquisire la a tutte le latitudini. Un’invasione di sua forza e avevano combattuto ricoperti plantigradi dalle forme magari antrodalle sue pelli per intimorire gli avversari. Così, presso i pomorfe, che da Teddy Bear a Winnie the Pooh, passando popoli germanici e slavi – quelli che i romani chiamavano per Yoghi, ha ridato all’antico re delle foreste (ora un poco “barbari” – nacquero culti dedicati agli orsi, considerati addomesticato) lo spazio che merita. divinità minori, creature intermedie tra il mondo umano L’orsetto è diventato così un feticcio, un moderno totem e quello delle bestie. Secondo gli uomini dell’epoca gli e l’orso è tornato a essere quello che è stato per migliaia orsi maschi potevano addirittura possedere carnalmente di anni: un compagno, un parente ancestrale, un nume giovani donne e da questa unione nascevano guerrieri tutelare almeno per i bimbi. E non solo per loro: durante il invincibili, fondatori di stirpi di re! primo viaggio lunare nel 1969, Armstrong e soci portarono La Chiesa, nel suo sforzo di cristianizzazione dell’Europa, con loro un orsacchiotto di peluche nella loro navicella. si trovò a fare i conti con il radicamento di questi culti Segno che dell’orso l’uomo non può fare a meno, neppure e comprese che l’evangelizzazione dei popoli germanici nel futuro. passava anche dalla distruzione dei loro riti pagani. Per quanto oggi la cosa possa far sorridere, gli ecclesiastici lanciarono quindi una “crociata” contro il nostro plantigrado, note 1 Informazioni sulla Speizer Chronik si trovano su e-codices.unifr. per eliminarlo sia materialmente, sia culturalmente. Così, ch/it/list/one/bbb/Mss-hh-I0016. L’illustrazione citata è visibile Carlo Magno, che conquistò e costrinse alla conversione su: e-codices.unifr.ch/it/bbb/Mss-hh-I0016/227/medium. i sassoni, popolo legatissimo ai culto dell’orso, organizzò partite di caccia per sterminarne centinaia di esemplari. E per saperne di più nei racconti ecclesiastici proliferarono vicende di santi che Michel Pastoureau, L’ orso. Storia di un re decaduto, Einaudi, 2008

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Parla come spammi “Se mi spammi ti banno”, “Per favore, non alimentate i troll”, “Cecca il mail”… A pensarci un attimo, le frontiere linguistiche non sono certo le uniche garanti delle nostre parlate (e scritture) quotidiane di Nicola De Marchi

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Si potrebbe affermare che oltre alle regioni, ogni epoca ha scontata allo scopo di coinvolgere nella discussione potenil suo dialetto. A seguire poi la borsa delle nuove entrate nei ziali neofiti. Con la recente apertura del web a una nuova dizionari nostrani, risulta chiaro che il patois oggi in voga massa di utenti attraverso i social network, le due accezioni sta senz’altro sotto il segno della tecnologia. Ascendente verbali di trolling si fonderanno quindi nel sostantivo troll social network. Normale: nuovi strumenti esigono nuove che conosciamo oggi: utenti platealmente arroganti su un parole. Sebbene non sempre poi queste giungano da an- tema spesso e volentieri caro alla comunità vittima; tutglicismi adattabili o altri sillogismi linguistici. Anzi, dagli tologi improvvisati che danno risposte balorde in forum epidemici acronimi (tipo LOL), sull’orticoltura; finti tonti che passando per i barbari spam, fanno perdere le staffe a pazienti troll, click, post e relativi verbi moderatori. (cliccare ecc.), non sono pochi i Esempio? Andate su una qualneologismi che s’impongono nel siasi pagina YouTube del volinguaggio quotidiano nei modi stro gruppo musicale prediletto. più impensabili. Scorrete in calce i commenti e Prova ne è lo spam, ovvero l’incascherete prima o poi, in comvadente pubblicità indesiderata. pagnia dei pleonastici adulatoTermine che deve il suo agile fori, su uno sfaccendato troll che nema non a un acronimo bensì prende gratuitamente a male a un precorritore sketch TV degli parole il suddetto gruppo. Al inarrivabili Monty Python in troll infatti non importa quanto cui un’omonima carne in scatola futile o poco interessante sia viene proposta in modo quanto la polemica in quanto, proprio meno pressante, a due clienti come il raccapricciante cuginadi un improbabile postribolo stro dell’elfo, sostiene l’esperto vichingo. Non meno fantasiosa Tom Postmes, “egli aspira a crea­ (e sempre un filo teutonica) la re violenza, e disturbo attraverso genesi del termine troll. Usato emozioni antipatiche e d’oltraggio Il terribile troll (deviantart.net) oggigiorno per designare nei che gli danno un senso di piacere blog e social network della rete, perverso”. E in pieno anonimato, utenti o interventi malevoli, il neologismo non ha però grazie alla copertura offerta dalla rete. una discendenza diretta, almeno etimologicamente, con l’omonimo orco della mitologia scandinava. Fedeli al vichingo Per traghettare quindi in italiano questa “mina vagante Pesca al traino cibernetica” o “vandalo da social network”, all’italofono L’espressione verrebbe in realtà dalla pesca, e più precisa- ortodosso non resterebbe che affidarsi ad “adescatore” (cimente da quella “a traino” (to troll, “trainare”), ottenuta ber- o tele-), se non serbasse ancora quell’intrigante patina procedendo col peschereccio a bassa andatura e lasciando dongiovannesca. Oppure farsi difensore di un equivalente le esche fluttuare in acqua per indurre i pesci ad abboccare. che tiene conto dei sottintesi etimologici (“drago” per troll, Questo parente del locale “specchio per allodole” si colora “dragare” per trollare?). Come ultimo ricorso si potrebbe quindi delle prime tinte teutoniche nel gergo militare an- infine proporre alla Crusca di latinizzare il mostro teutoglosassone anni settanta, assumendo il significato di azioni nico (“Saturno”, “Mangiafuoco” o “Babau”), con alcune eseguite con il solo scopo di provocare una reazione. potenziali e suggestive complicazioni al momento di verNei primi anni novanta il barbarismo entrerà nell’argot balizzare e integrare complementi: “Se mi saturni ti faccio tecnologico, con il significato di “adescamento pedago- Giove” “Se mangiafuochi ti pinocchio” “Non date bambini al gico”. Il “trolling for newbies” da parte di animatori di Babau”. Quanto a spam, a costo di far digrignare i denti forum dell’epoca, consisteva in questo caso nel buttare all’Accademia, restiamo fedeli alla lezione dell’irresistibile anonimamente nel proprio blog, l’esca di una domanda canto vichingo dei Monty Python.


Letture I segreti di Luigi di Roberto Roveda

Forse Luigi, il monarca di Francia travolto dalla Rivoluzione, non venne ghigliottinato il 21 gennaio 1793 con l’accusa di alto tradimento. Per lui l’Assemblea Nazionale francese aveva deciso una sorte ancora più atroce: l’oblio in un piccolo paese di provincia. È questa la storia narrata con leggerezza e ironia dallo scrittore vallesano Jean-Luc Benoziglio (classe 1941, oggi trapiantato a Parigi) in questo romanzo originariamente apparso in francese nel 2005. Qui si racconta, infatti, che l’Assemblea generale, decisa a non fare dell’ex sovrano un eroe, mandò una staffetta alla ricerca di un paese disposto a sobbarcarsi un così illustre esilio. L’unico disponibile risultò la Svizzera, la nazione che, come enumera la zelante staffetta, ha come credenziali “il Primo agosto, e poi Guglielmo Tell e i tredici cantoni, e Berna, e la regione di Vaud, e i referendum, e le iniziative popolari, e la doppia maggioranza popolo/cantoni, e il segreto bancario”. Così, in una nebbiosa sera del 1793, Luigi giunse a Saint-Saphorien, sulle sponde del lago

di Ginevra, relegato in una catapecchia. Benoziglio descrive la fragilità di un uomo vinto, abbandonato a se stesso, senza possibilità di intessere normali relazioni sociali e fondamentalmente depresso, abbandonato in un paese non suo. Ma potrebbe essere altrimenti per un grande monarca ridotto in simili ristrettezze? Benoziglio allora ci racconta, con una certa dose di humor, che il re usa ormai la parrucca ereditata da Luigi XIV come copricapo per la pioggia e che le sue richieste di miglioramento delle sue condizioni, firmate “Luigi Capeto, pensionato”, rimangono senza risposta. Al re non resta altro che annegare ogni sera i suoi problemi nel kirsch della locanda. E qui, nella realtà o nell’immaginazione, incontra i grandi del suo tempo: Necker, Turgot, La Fayette, Constant e molti altri si affacciano alla sua soglia per rimproverarlo, provocarlo o lusingarlo, dando vita a piccoli camei che scandiscono il lasciarsi trasportare di un uomo che una volta era re.

Il re di Francia. seguito e fine di Jean-Luc Benoziglio Casagrande, 2011

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D

a bambino, durante le vacanze estive andavo a Roma, a trovare mio padre che era un attore di prosa. Aveva il culto del lavoro e quando arrivava sul palco per le prove sapeva già la parte alla perfezione. La sua era una generazione di attori straordinari poi uccisi dall’avvento della TV. Papà mi portava a teatro dove stavo seduto leggendo Topolino per ore, in platea, e assistevo alle prove. Guardavo gli attori con ammirazione per il loro lavoro, ma capivo che quel mondo non mi apparteneva. Una volta mentre mio padre in teatro provava il Peer Gynt di Ibsen sentii le musiche di Edvard Grieg e fui travolto dall’emozione. Una volta tornato a casa a Lugano chiesi lumi a mia madre sul compositore e lei mi fece ascoltare il disco. Non ho scelto la musica, mi è arrivata addosso. Poi ho chiesto aiuto per saperne di più. I miei genitori, avendo sempre combattuto in un mondo che non è tutto rose e fiori, volevano per me un futuro diverso. Desideravo iscrivermi al conservatorio, ma loro preferirono che facessi il liceo e mi dissero di studiare musica privatamente. Ho frequentato le varie scuole a Lugano. Avevo una maestra elementare che si chiamava Mariuccia Medici e che amava il teatro. Il suo non era il metodo Montessori e ogni tanto in classe volavano le sberle. Eppure noi bambini l’adoravamo. Lei per me rappresenta al meglio l’anima del ticinese, che mischia genuinità, amore per la propria terra, pragmatismo e ruvidità. Ma i migliori nella categoria degli spiriti rari che ho avuto il piacere di conoscere e apprezzare vivendo a Lugano sono Franco Ambrosetti, Alfredo Gysi e Giancarlo Olgiati. Al liceo era mio professore d’italiano Giuseppe Curonici, un grande insegnante, uomo colto, ironico e affascinante. A livello musicale ho una formazione di autodidatta. Seguendo mia madre e il suo entourage mi sono ritrovato ad avere una cultura musicale simile a quella di musicisti di due generazioni precedenti alla mia, sommata a quella di un ragazzo della mia età. Una figura importante è stato il maestro Mario Robbiani che quando poteva chiariva i miei dubbi musicali con amorevole disponibilità. Se studi musica, devi capire se sei uno strumentista di vero livello internazionale o meno

e se non lo sei, devi prima allargare i tuoi orizzonti e poi intuire cosa puoi fare di buono. Mi è sempre piaciuta l’idea di creare, piuttosto che di interpretare. Un musicista dei nostri giorni deve sapere fare di tutto dalla composizione all’arrangiamento, dalle colonne sonore per film agli spot. La mia grande fortuna è quella di aver imparato questo mestiere nella bottega di Mina dove, al servizio del suo immenso talento, sono passati i migliori musicisti in assoluto. Lavorare con i grandi artisti è più facile. Loro, a differenza degli altri, hanno un’incredibile rispetto e la consapevolezza che non si smette mai di imparare. La tendenza nella musica di oggi è quella di privilegiare il timbro di voce e la tecnica piuttosto che l’interpretazione. Il modo di cantare attuale in genere non tiene conto dei grandi esempi del passato ed è omologato. Se guardi la televisione ti rendi conto che c’è solo il forte, mentre il piano è sparito. Se ascolti My funny Valentine cantata da Chet Baker con un filo di voce, capisci cosa significhi trasmettere un’emozione, interpretare. Oggi ci sono dei grandi esecutori di cover. Buoni cantanti, per lo più bravi, alcuni bravissimi… ma l’interprete è un’altra cosa. Un tempo, appena usciva un disco di un artista importante era un evento, se ne parlava. Adesso non interessa più a nessuno. Il disco, che era un oggetto di culto, ha perso valore intrinseco con l’avvento di internet. I ragazzi spendono cifre per le suonerie del telefono, ma non un franco per scaricare legalmente una canzone. La discografia è morta. L’era di internet ha portato a un livellamento culturale. Abbiamo milioni di notizie, ma ci si ferma al titolo, non c’è approfondimento. Per me Lugano significa “casa” anche se, da eremita quale sono nell’intimo, mi sento a mio agio quando passeggio sulle montagne ticinesi. La natura reca in sé una straordinaria potenza. Quello che fa l’uomo è solo un’imitazione approssimativa della sua bellezza assoluta. Solo la musica a volte riesce ad avvicinarsi…

MASSIMILIANO PANI

Vitae 12

Figlio d’arte, musicista, produttore e arrangiatore, ha avuto il privilegio di frequentare personaggi che hanno lasciato tracce importanti nella vita culturale del cantone

testimonianza raccolta da Stefania Briccola fotografia ©Reza Khatir


Ritratto di un paziente dell’allora Manicomio cantonale di Casvegno, 1934. Autore non identificato

Sulla Strada

dalla Collezione fotograďŹ ca Fondazione Pellegrini Canevascini testo di Letizia Fontana; reportage a cura della Redazione


Corteo antifascista della Gioventù socialista svizzera lungo il viale Stazione a Bellinzona, 1931. Autore non identificato

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Lavori di rifacimento della strada nel nucleo di Ponte Tresa, 1933. Autore non identificato

trade in costruzione sul Piottino e verso Gandria; strade che vengono spostate per evitare i passaggi a livello con la ferrovia, tra Castione e Claro; strade ripavimentate da operai selciatori a Ponte Tresa; strade teatro di corse ciclistiche e automobilistiche al Ceneri; strade occupate in occasione di scioperi, manifestazioni, sfilate, cortei e processioni; strade distrutte dalle bombe fasciste a Guernica; strade di solidarietà percorse dalle Brigate Internazionali durante la Guerra civile spagnola e dalle missioni mediche della Centrale Sanitaria Svizzera in Jugoslavia; strade di guarigione all’Ospedale cantonale Beata Vergine di Mendrisio, e strade del disagio esistenziale all’Ospedale psichiatrico cantonale di Casvegno. Le strade che si possono percorrere all’interno di una collezione fotografica sono innumerevoli. Queste appena elencate sono solo alcune di quelle che si possono esplorare curiosando tra le fotografie della collezione della Fondazione Pellegrini Canevascini1, che riunisce tutte le immagini contenute nel centinaio di fondi archivistici che la Fondazione stessa gestisce. Le fotografie provengono per esempio dal fondo del giornale socialista Libera Stampa, dai fondi personali di politici quali Guglielmo Canevascini, Piero Pellegrini e Francesco Borella e dai fondi di sindacati, associazioni e movimenti. Per sua natura la collezione è molto eterogenea e illustra (...)


Carlo Pedrazzini alla guida di una Maserati 2000 durante la terza edizione della corsa automobilistica del Monte Ceneri, 1933. Autore non identificato

Corridore ciclista sul ponte di Loderio, 1935 circa. Autore non identificato


Gruppo di quattro uomini sulla neve (il secondo da destra è Domenico Visani), 1940 circa. Autore non identificato

Gruppo di internati comunisti del campo di lavoro di Gordola, 1942 circa. Autore non identificato


Partecipanti allo sciopero degli spedizionieri di Chiasso, 1936. Autore: Cesare Lucini

in maniera continua, dalla fine del XIX secolo ai giorni nostri, la storia sociale, politica, economica e culturale del nostro cantone. Dal 2012 la Fondazione Pellegrini Canevascini, in collaborazione con l’Archivio di Stato del cantone e con l’Istituto svizzero per la conservazione della fotografia di Neuchâtel, e grazie al sostegno finanziario di Memoriav (Associazione per la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio audiovisivo svizzero), sta realizzando un progetto di conservazione, digitalizzazione, descrizione e valorizzazione della sua collezione fotografica. Il progetto riguarda le fotografie scattate prima del 1945, e prevede il restauro di circa mille prove originali nonché la digitalizzazione e la descrizione dell’insieme delle fotografie. Esso si concluderà nel 2015 con l’inserimento di tutte le fotografie nel catalogo fotografico dell’Archivio di Stato del Canton Ticino e nella banca dati di Memoriav “Memobase”. Sempre nel 2015, per il 50esimo anniversario della Fondazione Pellegrini Canevascini, è inoltre prevista un’esposizione destinata a far conoscere la collezione fotografica. Da alcuni mesi sul sito internet della Fondazione (fpct.ch) è inoltre consultabile un calendario fotografico dove, con scadenza mensile, viene presentata una fotografia appartenente alla collezione; ogni fotografia è accompagnata da una scheda che riassume i principali dati tecnici e da un breve testo di presentazione2.

In occasione della Giornata mondiale del Patrimonio audiovisivo UNESCO, il prossimo 29 ottobre presso la Biblioteca cantonale di Bellinzona, la Fondazione Pellegrini Canevascini organizza una serata intitolata Strade immaginate. Passeggiata in una collezione fotografica, per presentare al pubblico le fotografie che compongono la sua collezione. La serata permetterà di esplorare alcune linee di ricerca, riscoprendo le strade del Ticino della prima metà del novecento.

note 1 Sorta nel 1965 per ricordare l’opera e il pensiero di Piero Pellegrini (1901–1959) e Guglielmo Canevascini (1886–1965), e in seguito anche di Marco Pellegrini (1941–1972), la Fondazione Pellegrini Canevascini si occupa della salvaguardia, del trattamento e della valorizzazione dei fondi d’archivio relativi alla storia del mondo operaio e più in generale alla storia sociale della Svizzera italiana. Maggiori informazioni: fpct.ch 2 fpct.ch/category/calendario-fotografico

serata di presentazione Strade immaginate. Passeggiata in una collezione fotografica Martedì 29 ottobre, ore 18.30 Biblioteca cantonale, Viale S. Franscini, Bellinzona. Interverranno Gianmarco Talamona (collaboratore scientifico ASTi), Letizia Fontana (archivista FPC) ed Edy Bernasconi (giornalista de laRegione Ticino). Seguirà un rinfresco.


Grotti. Cavità culinarie di Marco Jeitziner; fotografie ©Flavia Leuenberger

effettivamente nostrano, cioè a chilometro zero, tipo mazza casalinga. Obbligatori i tavoli esterni di granito ticinese, quelli che fanno sbucciare le ginocchia agli spilungoni; e le panche di sasso, quelle da mal di sedere per i magri. Si mangia sotto gli alberi dai quali, immancabilmente, cascano formiche e insetti vari nel piatto. Attorno, solo sassi e pietre, al suolo terra e ghiaia. Le cucine (o le cantine) sono quelle che sono. Se dovessimo dare retta a certi controlli o inchieste televisive, potremmo farli chiudere tutti, ma che volete che sia qualche batterio? Sull’oste non si transige: se al cliente non si rivolge in dialetto ticinese e in modo un po’ brusco, mi spiace ma non vi trovate in un vero grotto.

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Qualche anno fa mi sono sentito in dovere di correggere una collega del maggiore quotidiano svizzero, il Blick. Nella sua rubrica di costume parlava della sua estate in Ticino accennando ai nostri mitici grotti. Finché, forse più brava a scrivere di mondanità che di turismo, la collega zurighese affermava che ci si va a mangiare… pizza e spaghetti! Se è vero che oggi, ahi noi, vi si trova anche questo, le risposi che in pratica gli spaghetti coi grotti c’entrano come le patate bollite col fast-food. Lei cadde dalle nuvole, ammettendo di essere una turista poco informata. Mi chiese cosa significasse la parola “grotto”, ci pensai su, intuendo qualcosa, ma senza trovare subito una precisa risposta. Ecco, mi dissi, l’ignoranza della collega è colpa sua o colpa nostra? E il mio dubbio sull’etimologia del termine, è colpa di chi? Ticinesismo da cantina Val la pena ribadire una giustificata critica: se mancano braccia indigene all’agricoltura, ne mancano anche ai grotti. I nostri avi si ribalterebbero nella tomba se sapessero come sono stati traditi, traviati, commercializzati, abbandonati certi grotti. Non più così rustici, insomma, ma per fortuna ancora molto discosti e ombreggiati. Non sono ormai una miniera d’oro, piuttosto di muffa e di umidità, perché se ti va bene ci lavori sì e no sei mesi l’anno. La parola “grotto” non è roba per tutti i dizionari, trattandosi di un “ticinesismo”. Serve lo “svizzionario” o la “ticiclopedia”. Se ne assegna l’origine alla nostra terra, del Ticino e della Mesolcina, e anche al nord Italia (il “crotto”), definendoli come “sorta di cantine per conservare prodotti agricoli locali (...) spesso ricavati da grotte naturali (da cui il nome)”. Il cibo dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) essere

“Maia quel che ghè” Forse è scritto in modo errato, mi perdonino i cultori del dialetto, ma è quello che dobbiamo sentirci dire quando ci andiamo. Ricordo un’estate in Mesolcina. Tre, quattro grotti in fila all’altro, vagonate di rumorosi turisti tedescofoni, ma solo uno era quello più vicino alla tradizione: quello con meno clienti. Cantina a mo’ di baita contro montagna, tavoloni di sasso, doppio filare d’alberi, clienti abituali che ti squadrano, la gerente paffuta e simpatica. Sul tavolo, a parte formiche e un portacenere, non c’era niente, nemmeno la carta del menu. “Cosa avete di buono?” le ho chiesto. “Eh, quel che ghè!” fece lei, ammiccando. Poi ecco: tagliata (taiada) mista di salumi (di solito prosciutto crudo, coppa, mortadella, salametto, carne secca), formaggi (furmagin) stagionati (alpe, zincarlin, büscion, robiola ecc.), vin nustran leggero (anche se poi dipende, a volte è buono per i gargarismi o per pulire i vetri), tazzino o boccalino, la gazösa (tradizionale limonata ticinese), ul mezz e mezz, pane e, se ti va bene, sottaceti. A volte trovi le costine, ma si son fatte rare quelle grigliate al momento e non precotte, pesci in carpione, risotti, minestroni, insalate e poche altre cose. In certi posti servono la polenta nelle sue varie modalità, ma anche trippa, selvaggina, bistecche e persino lumache. In altri posti, come detto, roast beef, pizze e spaghetti allo scoglio! Francamente, oggi come oggi, andare per grotti (quelli veri) è diventata un’impresa: come non capire la povera zurighese? E quei pochi che frequentiamo, ce li teniamo per noi, non li riveliamo. Anche se poi, ti è difficile crederlo, arrivi speranzoso e affamato ma loro, certi turisti del nord, eccoli lì, arrivati prima di te, clienti da più tempo di te, a chiacchierare ad alta voce e a ordinare in buon italiano.


Luoghi 43


A portata di dita Tendenze p. 44 – 45 | di Laura Di Corcia

È chic, allettante, colorato. Si adatta a ogni occasione: convegni internazionali, cene informali, vernissage ed eventi, matrimoni, cene di Natale. E per gli chef è una vera e propria manna, perché stimola la creatività e la fantasia. Benvenuti nel mondo del finger food, le prelibatezze “a portata di dita”, piccole creazioni che, a seconda dell’abiltà di chi le ha preparate, non hanno nulla da invidiare e anzi possono competere con le portate da ristorante blasonato. “Io non mi occupo della preparazione, ma della degustazione”, spiega Arianna Livio, direttrice della rivista Ristora Magazine, che nel mese di novembre pubblicherà uno speciale sul finger food, una conferma dell’interesse che questa tendenza sta riscuotendo anche alle nostre latitudini. “Bisogna specificare che a volte se ne parla in modo improprio, ascrivendo alla categoria di finger food tutti gli stuzzichini che si mangiano in un sol boccone”. Invece no: esistono criteri ben precisi, regole che portano a escludere che la classica bruschetta riproposta in versione più piccina possa fregiarsi di questa etichetta. “Non si tratta di una ricetta ridotta nelle quantità – precisa la direttrice –. Il finger food è una vera e propria offerta gastronomica e alimentare, una creazione nuova, dotata di grande

appeal, creata con un minimo di tre ingredienti mischiati tra di loro. Si presenta in piccole dimensioni e può essere consumata in un sol boccone, con le dita, appunto, o anche con l’ausilio di mini-utensili, come la forchettina o il cucchiaino”. Poco per volta… A quanto pare il finger food è nato per evitare gli sprechi durante i sovrabbondanti banchetti di nozze. Perché non preparare piccole porzioni per offrire un menù ricco e variegato, senza appesantire gli stomaci dei commensali? Questo si sono chiesti i cuochi che hanno pensato di puntare sulle mono-porzioncine. Molteplici sono i vantaggi di questa nuova moda, che sta diventando una vera e propria cultura culinaria: è igienica, perché ognuno si prende il suo mini-piatto senza toccare quello altrui; è elegante e raffinata; è molto più economica di una cena a tavola in un ristorante patinato. Il finger food è perfetto per tutte quelle occasioni di socializzazione in piedi, perché non è invasivo, ma accompagna la conversazione e, grazie ai piccoli contenitori, può essere portato con sé, quando ci si intrattiene prima con una persona, poi con l’altra. Quando è servito in piccoli bicchierini o nei classici cucchiaioni, inoltre, evita il fastidioso problema delle dita unte. Senza contare che a fine pasto, il finger food ti permette di

glissare a piè pari i classici sensi di colpa da “after”: perché, è vero, l’offerta è ricchissima e passa dalla pasta alla polenta, dal formaggio ai dolci di ogni tipo, roba da mandare in brodo di giuggiole le papille gustative. Ma, suvvia, anche al dietologo più intransigente sfuggirà un sorriso benevolo di fronte a un’innocente mousse au chocolat, servita in formato mini. In Ticino si mangia con le dita...? Dicevamo che la moda è sbarcata anche da noi. In Ticino, tra gli altri, si dilettano col finger food Monica Bergomi, chiassese, alias “La luna sul cucchiaio”, che col suo blog (lalunasulcucchiaio.blogspot.ch) alletta la vista e il palato dei suoi followers, con ricette sempre diverse; il super-chef José de La Iglesia, della cantina Moncucchetto di Lugano; e anche Flavio Lischetti, che lavora soprattutto nelle case anziani. Già perché, al di là dell’allure modaiola, le piccole porzioni possono anche essere terapeutiche. Con le persone di una certa età, per esempio, perché, come spiega Lischetti, “si tratta di cibo facile da mangiare, da prendere con le mani, quindi ideale per le persone affette da demenza”. Ma anche per curare l’anoressia, piano piano, facendo riscoprire ai pazienti il gusto di mangiare cibo buono e preparato con una certa cura, senza spaventarli con piatti formato gigante.


Immagini tratte da berlin-cuisine.com


La domanda della settimana

Una vostra amica ha una relazione con un nuovo collega di lavoro: la dissaduereste?

Inviate un SMS con scritto T7 SI oppure T7 NO al numero 4636 (CHF 0.40/SMS), e inoltrate la vostra risposta entro giovedì 17 ottobre. I risultati appariranno sul numero 43 di Ticinosette.

Al quesito “Trovate eccessiva l’offerta di trasmissioni televisive dedicate al gioco del calcio?” avete risposto:

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Astri ariete Grazie a Marte beneficiati gli intraprendenti. Tra il 18 e il 19 la Luna transiterà nel segno. Possibile amplificazione di ogni stato emotivo.

toro Problemi di comunicazione: difficile trovare le parole giuste. Siate meno distruttivi. Dal 16 nuova linfa vitale per i nati nella prima decade.

gemelli Momento ideale per abbracciare nuove idee. Dal 16 in poi i nati nella prima decade dovranno stare attenti a canalizzare le energie in eccesso.

cancro Mercurio favorevole. Promozioni o riconoscimenti pubblici. Energia per i nati nella prima decade a partire dal 16. Spostamenti di lavoro.

leone Stanchezza tra il 13 e il 14. Lunatici i nati nella terza decade. Venere favorevole per i nati nella prima decade. Colpi di fulmine.

vergine Dal 16 cercate di canalizzarvi correttamente in quello che vi è più congeniale. Tra il 15 e il 16 possibili disturbi a causa del transito lunare.

bilancia Incremento della vita sociale. Marte fino al 15 favorevole per i nati nella terza decade. Attività proficue. Conflittuali i nati nella seconda decade.

scorpione Tra il 15 e il 16 opportunità di lavoro per i nati nella seconda decade. Bene esami e concorsi. Irascibili i nati nella terza decade. Attenzione all’orgoglio.

sagittario Cogliete la fortuna al volo. Risolvete alcune questioni d’affari lavorando dietro le quinte. Bene tra il 18 e il 19 ottobre. Possibile concepimento.

capricorno Grazie a Mercurio troverete la soluzione a una vertenza legale. A partire dal 16 vi sentirete più forti e pronti per un nuovo progetto.

acquario Venere positiva: incontri e relazioni sentimentali. Marte negativo per i nati nella terza decade fino al 15. Maggior riposo tra il 13 e il 14 .

pesci Malumori in concomitanza del passaggio lunare. Affari positivi per i nati della seconda decade. Promozioni e opportunità per artisti e creativi.


Gioca e vinci con Ticinosette 1

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La soluzione verrà pubblicata sul numero 43

Risolvete il cruciverba e trovate la parola chiave. Per vincere il premio in palio, chiamate lo 0901 59 15 80 (CHF 0.90/chiamata, dalla rete fissa) entro giovedì 17 ottobre e seguite le indicazioni lasciando la vostra soluzione e i vostri dati. Oppure inviate una cartolina postale con la vostra soluzione entro martedì 15 ottobre a: Twister Interactive AG, “Ticinosette”, Altsagenstrasse 1, 6048 Horw. Buona fortuna!

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Verticali 1. La capricciosa regina francese • 2. Satira, sarcasmo • 3. I clienti dei librai • 4. Parte del perimetro • 5. Imposte esterne delle finestre • 6. Città dell’Indiana • 7. Fu regina di Spagna • 8. Case, abitazioni • 9. Il pronome dell’egoista • 13. Ingresso • 16. Vento freddo • 23. Vostro in breve • 25. Frammenti di stoffa • 27. La duchessa di Guastalla • 28. Esimersi, desistere • 30. Potente veleno • 32. Dittongo in giada • 34. Antico Testamento • 35. Antica regione dell’Asia anteriore • 37. Lago asiatico • 40. Altrimenti detto • 45. Lo dice chi rimanda • 47. I confini di Essen.

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Tra coloro che hanno comunicato la parola chiave corretta è stata sorteggiata: Carla Tiraboschi via M. Noseda 9 6834 Morbio Inferiore

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Soluzioni n. 39 La soluzione del Concorso apparso il 27 settembre è:

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Orizzontali 1. Un artropode • 10. Superficie • 11. Il nome di Morricone • 12. Grande porto dei Paesi Bassi • 14. Lo sono i libri freschi di stampa • 15. Fiume russo • 17. Precettore antico • 18. Zia spagnola • 19. I confini di Roveredo • 20. Il fiume di Berna • 21. Lo è Walker • 22. Il nome della Monti • 24. Consonanti in tibia • 26. La prateria… dei russi • 29. Adesso • 31. Vi sosta la carovana • 33. Monte ticinese • 35. Schiavo spartano • 36. Malfermo, traballante • 38. Medea… nel cuore • 39. Sgorga dal tronco • 41. Provar, sperimentar • 42. Preposizione articolata • 43. Pari in stolti • 44. Le Eolie • 46. Cervide nordico • 48. Dittongo in Paolo • 49. Mezza sala • 50. Atomo • 51. Fiore lilla.

Alla vincitrice facciamo i nostri complimenti!

Questa settimana ci sono in palio 100.– franchi in contanti!

Svaghi 47


â„– 41 dell,11 ottobre 2013 ¡ con Teleradio dal 13 al 19 ottobre


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