WILLIAM JAMES | Filosofo della libertà

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Federico Riva - Matricola 432603

William James, filosofo della libertà

Università degli Studi di Milano Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di laurea in Filosofia

Relatore prof. Francesco Moiso Controrelatore prof. Elio Franzini Anno Accademico 1998/1999


Alla mamma

Yet mothers can ponder many things in their hearts which their lips cannot express. — A. N. Whitehead


Indice Ringraziamenti Elenco delle sigle usate Introduzione Parte 1

La formazione

Cap. 1.1

La pedagogia di Henry James Sr. — figlio e padre 1.1.1 1.1.2 1.1.3 1.1.4 1.1.5

Cap. 1.2

Lawrence Scientific School e Medical School a Harvard 1.2.1 1.2.2 1.2.3

Parte 2

Formazione e personalità di Henry James La crisi spirituale e le ‘conversioni’: Sandeman, Swedenborg e Fourier Europa, ‘terra d’educazione’ La passione di William per l’arte e la storia di una libertà ‘imposta’ La fine di un sogno

Dalla chimica alla biologia — evoluzionismo a Harvard Louis Agassiz e il naturalismo sul campo Europa ‘terra di speranza’

Gli anni della crisi: tra vita e filosofia

Cap. 2.1 Charles Renouvier e la ‘versione autorizzata’ della depressione di William James 2.1.1 2.1.2 2.1.3 2.1.4 2.1.5 2.1.6 2.1.7

Cap. 2.2

Tra le due ‘crisi’ — una reductio ad unitatem Spencer, Büchner & Co. Ein ganzer Mensch, ein ganzer Wille La ‘scoperta’ di Charles Renouvier L’idea di libertà nella filosofia di Charles Renouvier Jules Lequier, “A French Philosopher of Genius” L’Auseinandersetzung di James con Renouvier — una conclusione provvisoria

Vita e filosofia in William James 2.2.1 2.2.2 2.2.3 2.2.4 2.2.5 2.2.6

Tra sociologia e psicoanalisi per un’interpretazione ‘esterna’ Una generazione di nevrotici Le due ipotesi a confronto — per una cronologia rivisitata Charles Renouvier primus inter pares Per una lettura equilibrata Gli effetti della depressione — oltre le cause e le terapie

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Parte 3

Determinismo e libertà tra scienza e filosofia

Cap. 3.1

Il problema psicologico della libertà 3.1.1 3.1.2 3.1.3 3.1.4 3.1.5 3.1.6 3.1.7 3.1.8

Cap. 3.2

1878-1890: da un annus mirabilis a un epochal year Herbert Spencer: l’uomo come ‘creta’ I Principles of Psychology: tra metafisica e senso comune William James “uccello della tempesta”: tra automatismo e arco riflesso Attività e passività della selezione Ragionamento come selezione: l’esempio del genio Il movimento: fra istinto e volontà Il movimento come pre-visione: la teoria ideo-motoria

William James, psicologo della libertà 3.2.1 3.2.2 3.2.3 3.2.4 3.2.5 3.2.6 3.2.7 3.2.8 3.2.9 3.2.10

Il feeling of effort — cifra di una volontà autonoma? Abitudine e istinto — al di là del principio di piacere Variazioni spontanee tra caso e necessità: tertium datur Attenzione come variabile indipendente Una libertà ‘limitata’ Conoscenza è libertà — libertà è conoscenza: il circolo virtuoso I motivi della selezione libera: paura della metafisica? Il darwinismo di William James James più darwiniano di Darwin? Una fertile eterodossia

Parte 4

La volontà di credere: deduzione della libertà

Cap. 4.1

Wright, Peirce e il Metaphysical Club 4.1.1 4.1.2 4.1.3 4.1.4 4.1.5

Cap. 4.2

Il Metaphysical Club Il positivismo di Chauncey Wright Cosmic Weather e neutralismo metafisico Charles Sanders Peirce e “il segreto della Sfinge” Il fissarsi della credenza

Libertà e determinismo nella Will to Believe 4.2.1 4.2.2 4.2.3 4.2.4 4.2.5

La Will to Believe: dieci saggi di “filosofia popolare” William James Talking-Writer; stile e sistematicità del pensiero jamesiano Le ‘opzioni genuine’ e la volontà di credere L’enfant terrible William Clifford e il dovere di dubitare La credenza, madre del fatto

vi


Cap. 4.3

Il dilemma del determinista 4.3.1 4.3.2 4.3.3 4.3.4

Cap. 4.4

‘The Dilemma of Determinism’ Tra Divinity Avanue e Oxford Street: la pensabilità del caso Il dilemma del determinismo: pessimismo o soggettivismo? La fine delle ‘vacanze morali’: William James e l’etica dell’ottimismo

Indeterminismo come libertà 4.4.1 4.4.2 4.4.3 4.4.4 4.4.5

Razionalità come sentimento William James storico della filosofia La volontà di credere, nella libertà dell’uomo Over-belief e outcome case: la ‘parabola’ dell’alpinista M + x. Una verificazione ‘a priori’

Conclusioni Nota Bibliografica

NOTA REDAZIONALE La presente tesi si compone di 510 pagine

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Ringraziamenti Voglio ringraziare alcune persone senza le quali sarebbe stato per me molto più difficile portare a termine il mio lavoro. Il professor Giuseppe Riconda, dell’Università degli Studi di Torino mi ha inizialmente consigliato sulla letteratura secondaria e mi ha agevolato nell’accesso alla Biblioteca universitaria. La dottoressa Rossella Fabbrichesi Leo dell’Università degli Studi di Milano è stata così gentile da prestarmi dei testi su Peirce e di leggere il Capitolo 4.1. Il professor Paul Jerome Croce, della Stetson University (DeLand, Florida) mi ha fornito degli utili consigli per districarmi nei meandri della filosofia di Peirce e di Wright e mi ha in generale incoraggiato nel prosieguo del mio lavoro. Voglio poi ringraziare la dottoressa Paola Maio per avermi aiutato nel trovare testi e articoli all’Università degli Studi di Torino e gli amici Ugo Salem e dottor Giuseppe Civati per avere avuto la pazienza di leggere le bozze della Tesi e per avermi incoraggiato anche nei momenti di scoramento. Per ultimo, ma non certo in ordine d’importanza, voglio ringraziare mio fratello Antonio per avermi sempre sostenuto economicamente nella stampa delle numerose bozze e nella rilegatura della Tesi.

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ELENCO DELLE SIGLE USATE

CER

William James, Collected Essays and Reviews, Longmans, Green, New York 1920.

CWJ

I. Skrupskelis e E. M. Berkeley (a cura di), The Correspondence of William James, 7 voll., University Press of Virginia, Charlottesville 1992-1999. (il progetto comprende 13 volumi)

ECR

W. James, Essays, Comments and Reviews, Intr. di Ignas Skrupskelis, Harvard University Press, Cambridge 1987.

EPS

W. James, Essays in Psychology, Intr. di William R. Woodward, Harvard University Press, Cambridge 1983.

EPR

W. James, Essays in Psychical Research, Intr. di R. A. McDermott, Harvard University Press, Cambridge 1982.

ERM

W. James, Essays in Religion and Morality, Intr. di J. J. McDermott, Harvard University Press, Cambridge 1982.

LWJ

H. James III (a cura di), Letters of William James, 2 voll., The Atlantic Monthly Press, Boston 1926.

ML

W. James, Manuscript Lectures, Intr. di Ignas Skrupskelis, Harvard University Press, Cambridge 1988.

MS

W. James, Memories and Studies, Longmans, Green, New York 1911.

PBC

W. James, Psychology; Briefer Course, Intr. di Michael M. Sokal, Harvard University Press, Cambridge 1984.

PP

W. James, The Principles of Psychology, Harvard University Press, Cambridge 1981.

PP

W. James, The Principles of Psychology, Intr. di G.eorge A. Miller, Harvard University Press, Cambridge 1981.

SPP

W. James, Some Problems of Philosophy, Intr. di Peter H. Hare, Harvard University Press, Cambridge 1979.

TCBV

R. B. Perry, The Thought and Character of William James; Briefer Version, Vanderbilt University Press, Nashville 1996.

TCWJ

R. B. Perry, The Thought and Character of William James, 2 voll., Little, Brown & Co., Boston 1935.

TT

W. James, Talks to Teachers on Psychology; and to Students on Some of Life’s Ideals, Intr. di Paul Woodring, W. W. Norton & Co., New York 1958.

VRE

W. James, The Varieties of Religious Experience, Intr. di John. E. Smith, Harvard University Press, Cambridge 1985.

WB

W. James, The Will to Believe, Intr. di Edward H. Madden Harvard University Press, Cambridge 1979.

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Introduzione

William James è stato spesso considerato un filosofo ‘anomalo’; la sua istruzione medica e il fatto che la sua prima opera di rilievo fu di carattere schiettamente psicologico ha portato molti a considerarlo un filosofo ‘a metà’; in questa Tesi cercheremo di mostrare come la formazione di William James e la sua passione per la psicologia debbano considerarsi piuttosto come le premesse fondamentali per la comprensione dello sviluppo del suo pensiero più squisitamente filosofico. In questa prospettiva sarà comunque sempre meno rilevante la divisione tra la psicologia e la filosofia di James. La dimensione indeterministica del suo pensiero sarà al proposito indicativa proprio di quella continuità di intenti tra il pensiero del James psicologo e del James filosofo che solo un’esigenza di semplificazione troppo sentita può rischiare di far dileguare. Lo studio dei primi anni di vita e delle prime esperienze formative rappresenta così, coerentemente con questa prospettiva, il tentativo di aggiungere a quell’unità intellettuale che può essere recuperata dalla mera analisi testuale un’unità più intima che potremmo anche definire morale. L’esigenza di formulare una psicologia della libertà e poi una filosofia della libertà acquista maggiore omogeneità se considerata come il faticoso tentativo di rispondere a domande — di libertà appunto — che affondano le loro radici nella prima educazione jamesiana, quando la figura e l’opera di Henry James rappresentò un vero e proprio sprone e termine di paragone per il figlio. Col passare degli anni altre figure sostituiranno quella paterna per importanza e per presenza: Charles Renouvier, Chauncey Wright e Charles Sanders Peirce, primi fra tutti, saranno, oltre che degli amici, quegli stimoli — non solo intellettuali — cui James affiderà lo sviluppo della propria maturazione filosofica. L’importanza di questi filosofi fu poi accresciuta dal fatto che — soprattutto nel caso di Wright e Peirce — essi si rivelarono attenti osservatori e profondi estimatori di uno scienziato che, pur non rientrando mai nell’ampia cerchia di amici e conoscenti che circondarono William James dai suoi esordi accademici sino alla morte, rappresenta forse la figura più importante per comprendere il suo pensiero indeterministico: Charles Darwin. Quel proficuo connubio fra filosofia e scienza che tanto positivamente caratterizzano il pensiero del nostro autore può essere considerata forse il frutto più prezioso della relazione ch’egli intrattenne con lo scienziato inglese, un hard determinist che agli occhi di William James sarà in grado di fornire gli strumenti per costruire una filosofia della libertà che avesse delle solide basi nella psicologia e nella fisiologia nervosa, due scienze che egli, proprio nel tentativo di rispondere ai suoi dubbi e ai suoi dilemmi, contribuì a costruire nella seconda metà del secolo scorso.

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Capitolo 1.1 La pedagogia di Henry James Sr. — figlio e padre Un pensiero senza tradizione sarebbe un pensiero che determinerebbe la chiusura nella soggettività, dunque la follia. — A. Del Noce Dite che sono un filosofo, dite che amo il mio prossimo, dite che sono un autore di libri, se vi piace; o, meglio ancora, dite che sono uno Studente. — H. James Sr.

1.1.1 Formazione e personalità di Henry James Sr. William James, come molti uomini del suo tempo, fu più figlio di suo padre che di sua madre; egli ebbe con Henry James Sr. un rapporto molto stretto che durò fino alla sua morte1. Henry James era un uomo molto colto, molto ricco e molto tormentato: nacque nel 1811, figlio di un immigrato irlandese che aveva fatto fortuna2, ed ebbe un’infanzia fondamentalmente felice, fino a quando, giocando a scuola (alla Alban Academy ) con delle palle incendiarie, non si ferì gravemente a una gamba; dovette subire due amputazioni sopra il ginocchio e rimase costretto a letto per due anni. Henry James fu dunque in qualche modo “obbligato” a diventare una persona particolare; l’incidente che lo aveva mutilato nel corpo rafforzò il suo spirito forte ed esuberante, rendendolo allo stesso tempo più sensibile e pensieroso3.

Quasi paradossalmente poi, William James si mostrerà più interessato al pensiero del padre dopo che questi morì. Un’occasione ‘esterna’ per un certo approfondimento del pensiero di Henry James fu il compito di curare l’edizione della sua opera postuma: H. James, The Literary Remains of the Late Henry James, a cura di W. James, Osgood, Boston 1884. 1

2 Una fortuna considerevole. William James Sr. infatti rappresenta più che degnamente il modello di Self Made Man americano; giunto dall’Irlanda nel 1896, in poco tempo riuscì a costruire un impero commerciale paragonabile a quello dei grandi miliardari della costa orientale degli Stati Uniti d’America. Molte biografie di James si soffermano a lungo sulla personalità e sulla vita di quest’uomo e per differenti ragioni: la prima è che William James Sr. fu colui che rese possibile a Henry James Sr. (e poi a William stesso) di condurre una vita più che agiata e di ottenere un’eccellente educazione, la seconda fu che William James Sr., sebbene non dedito in maniera particolare all’educazione dei suoi figli, intrattenne con Henry Sr. un rapporto molto stretto e sicuramente problematico, tanto che alcuni critici, tra cui il più noto e importante è, come vedremo nei prossimi capitoli, Howard Feinstein, fanno risalire al rapporto con il padre i problemi che poi sorgeranno nell’educazione e nella relazione di questo con i propri figli, in special modo William e Henry, il noto scrittore (1843 – 1916). Tutte le biografie dedicate a William James si occupano della figura del nonno William; Paul Jerome Croce, autore di un libro molto interessante sul rapporto fra scienza e religione nell’era di William James (Paul J. Croce, Science and Religion in the Era of William James; Eclipse of Cetainty. 1820-1880, The University of North Carolina, Chapell Hill-London 1995.) ha studiato a fondo la vita e l’influsso di William di Albany: P. J. Croce, Money and Morality; The Life and Legacy of the First William James , “New York History”, 68 (1987) pp. 174-190. 3 Questa grave mutilazione fisica ebbe delle conseguenze anche sull’atteggiamento che Henry Sr. terrà, durante tutta la vita, nei confronti della malattia fisica, sua e del suo prossimo. Gay Wilson Allen ipotizza che tutta la famiglia James venne influenzata da questo atteggiamento paterno, e cita a questo proposito lo “stoicismo” mostrato dalla sorella di William, Alice, di fronte alla propria malattia. Cfr. Gay Wilson Allen, William James; A Biography, Viking Press, New York 1967, p. 145.


L’esperienza non gli avvelenò l’animo, né diminuì la sua carica d’energia vitale, ma stimolò la sua sensibilità e acuì la sua tendenza a rimuginare, contribuì al suo distacco dal mondo degli affari e lo predestinò a una vita sedentaria.4

Nel 1830 Henry James Sr. Si diplomò allo Union College 5 di Shenectady e nel 1835 si iscrisse al seminario di Princeton. Già allora però era evidente quanto il suo carattere e il suo pensiero fossero distanti dalla cultura ecclesiastica. Non sembrava affatto essere adatto alla vita religiosa e infatti dopo due anni decise di abbandonare il seminario6. Nel 1840 si sposò con Mary Walsh, che gli starà vicino per quasi tutta la vita 7.

Il padre di Henry — William “di Albany” — , morto nel 1832 in seguito a un attacco cardiaco, aveva lasciato in eredità un patrimonio di oltre un milione di dollari, una cifra enorme per l’epoca. Purtroppo per Henry però, questi aveva tenuto conto, nel redigere il testamento, dei suoi attriti8 con il figlio, che non aveva mai preso in seria considerazione l’ipotesi di dedicarsi agli affari e di continuare così la gestione dell’impero paterno. Henry però non si arrese: conscio di non essere in grado di raggiungere un’autonomia economica che gli permettesse di dedicarsi ai suoi interessi senza doversi guadagnare il pane per vivere,

4

TCWJ I, p. 8.

5 Henry James Sr. Non fu però un allievo modello del College: Egli aveva ben poco interesse per lo studio dei classici e della matematica e si ribellava contro la decisione paterna di fargli studiare legge [...]. Appena poté egli si unì alla appena istituita Sigma Phi Fraternity, gettandosi a capofitto nelle sue attività. La sua passione per la bella vita si dimostrò molto costosa; il suo amore per le osterie e i buoni sigari fece lievitare enormemente i conti che il padre doveva pagare. Nel corso di un anno Henry James s’era guadagnato la reputazione di spendaccione e ubriacone. Linda Simon, Genuine Reality; A Life of William James, Harcourt Brace and Co., New York 1998, p. 9. 6 Come studente di teologia di Princeton, James non poteva avere molto in comune con i suoi condiscepoli. Per essi infatti la religione era un’istituzione, per lui invece era una rivelazione originale e personale. TCWJ I, p. 11. 7 Sono molti i critici che, soprattutto recentemente, hanno posto l’attenzione sulla freddezza che intercorreva nei rapporti tra Mary Walsh e il secondogenito William: William rimase comunque in silenzio nel periodo immediatamente successivo al funerale della madre. Ci sono infatti pochi indizi per ritenere che il figlio maggiore le fosse particolarmente attaccato. Daniel W. Bjork, William James, The Center of His Vision, Columbia University Press, New York 1988, p. 131 Non è stato scritto molto sulla figura di Mary James Walsh; in parte questo è certamente dovuto al fatto che lo stesso James parlò di lei molto raramente e in parte è dovuto alla sua personalità: era una donna completamente dedita alla famiglia, cosa non certo rara all’epoca e, sebbene la sua presenza non fosse “prepotente” come quella del marito, ebbe un ruolo importantissimo nel sostenerlo in ogni sua iniziativa e nell’infondere un clima di serenità e di tranquillità in famiglia; suo nipote, Henry James — figlio primogenito di William James — , le attribuirà un ruolo importante nella formazione della personalità dei due figli maggiori: Non sarebbe certo sbagliato vederla come la fonte della straordinaria ricettività e della sensibilità estetica che caratterizzò i due figli maggiori. LWJ I, p. 9. Alcuni critici hanno recentemente messo in luce il fatto che William non fosse particolarmente affezionato alla madre, e quindi, giusta questa prospettiva, il suo ‘silenzio’ nei suoi confronti non sarebbe più interpretabile come segno di rispetto per la sua memoria (come invece suggerisce Henry James nell’introduzione all’epistolario paterno) cfr. Ibidem. Il rapporto di William con la madre rimane comunque avvolto da un’ombra di mistero: Sugli effetti della morte della madre [inizio 1882] su William si può soltanto congetturare, dal momento che egli non fa menzione del suo stato d’animo nelle lettere o nel diario, come invece fece il fratello Henry. G. W. Allen, op. cit., p. 241. 8 Il padre di Henry Sr. tenne un comportamento coi propri figli molto tradizionale e ‘conservatore’; la sua attenzione principale erano gli affari e perciò l’educazione dei figli assumeva quei tratti di formalità che possono essere facilmente confusi con il distacco; questa attenzione per le apparenze, più che per i contenuti si rivelava anche nel suo rapporto con la religione (calvinistica); Il padre di Henry James [Sr.] era troppo occupato coi propri affari per poter dedicare attenzione ai propri figli; si accontentava di assicurarsi che essi seguissero le funzioni religiose e si attenessero formalmente all’ortodossia presbiteriana. Ivi, p. 5.

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decise, insieme col fratello William — anch’egli ‘escluso’ dalla maggior parte dell’eredità — di impugnare il testamento, riuscendo infine a ottenere quello che riteneva gli spettasse di diritto. L’ottenuta eredità paterna diede a Henry James l’opportunità di essere un uomo “libero”; libero dalla necessità di guadagnarsi da vivere9 e libero però anche di non trovare un proprio ruolo nella società che potesse soddisfarlo. Ma il ruolo che Henry James non avrebbe trovato nella società fu presto ‘sostituito’ da il ruolo di marito, ma soprattutto di padre, un ruolo al cui perfezionamento egli dedicò gran parte delle energie che non potevano trovare sfogo in una professione vera e propria.

Per Henry la famiglia era una società in microcosmo, e il successo nella sfera familiare non era meno importante del successo nel mondo degli affari o della politica10.

1.1.2 La crisi spirituale e le ‘conversioni’: Sandeman, Swedenborg e Fourier. Henry James dunque, dopo avere ereditato parte della fortuna paterna e aver sposato una donna che sembrava adatta al ruolo di moglie e di infermiera allo stesso tempo, poteva ora dedicarsi ai suoi studi e alle sue riflessioni; il Leitmotiv di tutti i suoi scritti è la religione. Come già si è accennato, Henry James era stato educato secondo la dottrina calvinistica, ma definire calvinista la sua fede sarebbe certamente un errore: egli infatti era un calvinista non ortodosso — come non fu ortodosso in nessuna sua attività intellettuale — ; un esempio di questa ‘eterodossia’ jamesiana è ben raffigurato dal suo atteggiamento verso la dialettica della colpa e della salvezza: mentre la religione calvinistica intende infatti la colpa dell’uomo come qualcosa di collettivo, qualcosa che appartiene all’uomo in quanto uomo, all’umanità, per James è esattamente il contrario: l’uomo pecca singolarmente ed è come singolo responsabile dei suoi peccati. E, come per il calvinista ortodosso la salvezza è un dono che viene donato al singolo, al contrario per James solo all’interno di una dimensione collettiva il singolo può trovare la sua salvezza11.

Se c’era qualcosa che poteva frustrare la libertà e la spontaneità di un uomo, pensava Henry Sr., questa era proprio la necessità di guadagnarsi da vivere. L. Simon, op. cit., p. 38. 9

10

Ivi, p. 14.

11 Anche Allen pone in evidenza l’eterodossia del calvinismo di Henry James: [...] egli credeva che la salvezza del singolo dipendesse da quella dell’intera società [...] gli uomini sarebbero stati salvati soltanto collettivamente. Questa convinzione influenzò profondamente l’atteggiamento di Henry James verso la società, rendendolo un uomo decisamente democratico. E in seguito ne fece anche un genitore tenero e permissivo, ma allo stesso tempo ossessionante nell’amore provato per i propri figli. G. W. Allen, op. cit., p. 9.

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Henry James, sebbene avesse la certezza che l’uomo nasce separato da Dio e che il cammino per ricongiungersi a lui sia lungo e faticoso, sentiva il bisogno di un Dio che fosse più vicino all’uomo e più comprensibile, di un Dio che non agisse quasi in maniera capricciosa e ‘diabolica’.12 Henry James cercò dei ‘sostegni’ al proprio pensiero religioso e uno dei primi e dei più importanti fu senza dubbio Robert Sandeman: Trovandosi in Inghilterra nel 1837, fu attratto da Robert Sandeman13; probabilmente vide in questo scrittore, che sottolineava l’importanza della fede sulle opere, la possibilità di recuperare la solidarietà fraterna della chiesa primitiva. Nei primi anni ’40 James stava lavorando a un’interpretazione simbolica e allegorica delle Scritture, accumulando ‘pile di manoscritti’. Egli stava anche riflettendo intorno alla questione della natura, cercando di mostrarne l’unità e il profondo significato, e cercando per questo una riconciliazione tra scienza e religione14. Se Sandeman rappresentò senza dubbio uno dei primi punti di riferimento intellettuali di Henry James, non si può però dire che fu il più importante; Henry James è infatti ‘noto’ come swedenborghiano e fu proprio insieme con le opere di Swedenborg che egli raggiunse la propria maturità intellettuale15.

12 Henry James definisce il Dio calivinistico ‘diabolico’ in un passo della sua opera più famosa — Substance and Shadow — ; il passo è citato in TCWJ I p. 13 alla nota 20. Per quanto riguarda le altre opere di Henry James, che se oggi sconosciute completamente, anche all’epoca della loro edizione non suscitarono grande interesse, è sufficiente scorrerne i titoli per farsi un’idea degli argomenti trattati e di quanto rimase costante la sua passione per le tematiche religiose e morali: Moralism and Christianity; or Man’s Experience and Destiny, 1850; Lectures and Miscellanies, 1852; The Church of Christ not an Ecclesiasticism, 1854; The Nature of Evil, Considered in a letter to the Rev. Edward Beecher, D. D., Author of “The Conflict of Ages”. 1855; Christianity the Logic of Creation, 1857; Substanceand Shadow; or Morality and Religion in Their Relation to Life, 1863; The Secret of Swedenborg, being an Elucidation of His Doctrine of the Divine Natural Humanity, 1869; Society the Redeemed Form of Man, and the Earnest of God’s Onnipotence in Human Nature, Affirmed in Letters to a Friend , 1879; per quanto riguarda il calvinismo di Henry James Sr. cfr. tutto il primo capitolo della monumentale opera del Perry, appunto intitolato Calvinistic Inheritance; TCWJ I, pp. 3-20. Vale comunque la pena di dire qui che il Perry riteneva che la religiosità di Henry James, per quanto ‘eterodossa’, fosse profondamente calvinistica: Sebbene [Henry] James insisteva sull’infinita amabilità di Dio, e sulla solidarietà dell’umanità intera, la sua personale esperienza religiosa era profondamente calvinistica.. Ivi, p. 12. 13 Gay Allen ipotizza che fu Michael Faraday, il grande scienziato, a far conoscere a Henry James l’opera di Robert Sandeman, definito un mistico appartenente a un ‘cristianesimo primitivo’, che guardava a Cristo come a un amico dei peccatori piuttosto che dei giusti.. G. W. Allen, op. cit., p. 9. 14 Cfr. TCWJ I, p. 15. A proposito del rapporto fra religione e fede si può dire che Henry James Sr. non riuscì mai a essere veramente ‘attuale’ nel suo tentativo di ricongiungere istanze scientifiche e religiose; sebbene il tentativo di ricomporre le fratture del pensiero scientifico e quello religioso fosse certamente ‘tipico’ della sua epoca, e ancor più di quella successiva, è però da dire che i suoi concetti di religione e di scienza erano già superati al tempo in cui scriveva. La sua prospettiva — per quanto possa essere valida questa distinzione — era infatti teologica piuttosto che filosofica e la sua era l’epoca in cui la scienza aveva strappato alla teologia il ‘monopolio’ della verità, un’epoca in cui per poter riconciliare fede e sapere scientifico era necessario aver compreso veramente quale rivoluzione stesse avvenendo nel sapere umano. William James descrive bene l’anacronismo paterno nell’introduzione ai Literary Remains,: Ho sempre provato a immaginare che personaggio mio padre sarebbe potuto essere se fosse nato in un’epoca genuinamente teologica, con le menti migliori occupate a ragionare sui misteri della divinità, quando si respirava un’aria fatta di definizioni, teorie e contro.-teorie, di ferrei ragionamenti e dispute intorno alla relazione dell’uomo con Dio. LWJ I, p. 13. L’introduzione di William James ai Literary Remains è, dal 1982, disponibile nella sua versione completa in ERM alle pp. 1-63.

La carriera letteraria di Henry James non cominciò veramente prima del 1850; nel frattempo egli aveva visto la luce. Questa luce veniva da due fonti: Swedenborg e Fourier. Essi non lo convertirono, ma lo appoggiarono e lo sostennero, fornendogli un linguaggio, una struttura sistematica, e un supporto per la fede ch’egli aveva nel cuore. TCWJ I, p. 20. 15

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Swedenborg entrò nella vita di Henry James in maniera repentina, secondo le modalità che appartengono alla mistica occidentale: nel 1844, trovandosi vicino a Windsor durante uno dei frequenti viaggi in Europa, James attraversò una profonda crisi depressiva16, unita a un’enorme spossatezza fisica; sebbene questa crisi durò pochi minuti, Henry James non poté continuare la vita di sempre: doveva trovare la ragione, la ‘causa’ di quella crisi17; la sua ricerca terminò due anni dopo quando, trovandosi egli ancora in Inghilterra, incontrò un’amica a una stazione termale: questa gli suggerì ch’egli aveva sofferto di ciò che Swedenborg chiamava vastation, e gliene raccomandò le opere18.

Henry James trovò in Swedenborg una ‘soluzione’ alla drammaticità di alcuni aspetti del calvinismo; ciò che egli non poteva sopportare di quella dottrina era l’ansia e l’angoscia del credente verso la propria fortuna su questa terra, che non è nel controllo dell’uomo. Ora il “disperato interesse verso se stessi” risultava essere non più un destino incomprensibile che un Dio straniero aveva dato all’uomo, ma solo una fase che egli ci fa attraversare per poi accoglierci nelle sue braccia. E’ bene sottolineare che Henry James lesse l’opera di Swedenborg attraverso una forte prospettiva personale e questo può spiegare come la sua interpretazione, ancora una volta, non possa dirsi affatto ortodossa. Come non era stato un calvinista ortodosso, così non sarebbe mai stato nemmeno uno swedenborghiano ortodosso.

16 Come è noto anche Emanuel Swedenborg passò attraverso una profonda crisi, che egli interpretò come rivelazione religiosa; nel 1745, mentre si trovava a Londra, si sentì investito da Dio del compito di fornire una nuova interpretazione delle Sacre Scritture. 17 Se è vero che fu solo in seguito alla ‘vastation’ che James si interessò attivamente al pensiero swedenborghiano, è però giusto ricordare che già un giovane medico inglese, che aveva conosciuto l’opera del mistico svedese nel 1835, aveva contribuito, già nel 1841 con un articolo pubblicato nel Monthly Magazine, ad attirare l’attenzione di Henry Sr. verso quell’autore che sarà tanto importante per tutta la sua vita. Cfr. TCWJ I, p. 20. 18 Ivi, p. 21. Linda Simon ci fa sapere che si trattava di un’amica e ce ne rivela il nome: [Henry James] divenne amico della signora Chichester, che interpretò la crisi di James in chiave swedenborghiana, una sorta di catarsi, e gli disse che sebbene inizialmente questa condizione gli avrebbe provocato disagio e sofferenza, poi lo avrebbe portato a riacquistare una salute rinnovata. L. Simon, op. cit., p. 29 Anche Allen cita il nome dell’amica che lo avrebbe introdotto all’opera di Swedenborg e ricorda anche come, inizialmente, Henry James avesse vagliato, nel tentativo di spiegare la crisi che aveva attraversato, anche le ipotesi più ‘materialistiche’: [in seguito alla crisi] Henry James si recò a Londra e consultò i medici più autorevoli, ma essi diedero della sua situazione un’eziologia completamente materialistica egli dissero che la causa di tutto ciò stava in un eccessivo sforzo intellettuale. [...] Fu una certa Mrs. Chichester a dirgli che egli aveva subito quella che Swedenborghianamente si chiamava “vastation’. [...] egli si precipitò a Londra per acquistare i libri di Swedenborg e finalmente poté trovare la soluzione ai propri problemi. G. W. Allen, op. cit., pp. 17-18. Vedremo bene in seguito come lo stesso William James cercò di trovare una prima risposta alle cause della sua crisi depressiva nella medicina del tempo, che era ovviamente schiettamente materialistica; le analogie con la crisi di Henry James sono molte, ma, come avremo modo di sottolineare, mentre il padre trovò in Swedenborg — pur senza essere veramente uno swedenborghiano “ortodosso” — una guida sicura che lo accompagnerà durante tutta la vita, per il figlio l’opera di Renouvier, considerato dallo stesso James il suo ‘salvatore’, sarà solo una scintilla, per quanto importante, che accenderà un pensiero sempre più capace di una propria autonomia.

5


Era impossibile per James essere un buono swedenborghiano19 come lo era stato essere un buon presbiteriano. [...] “non è come chi vede fantasmi, ma come chi vede verità, che Swedenborg gli interessa”. Per lui la religione era un fatto d’esperienza intima, e non di dogmi o di rivelazioni20. Ma Henry James non solo era ‘eterodosso’; egli era soprattutto un eclettico; quell’autore che sembrava fornirgli la possibilità di giustificare meglio le proprie teorie o che sembrava potere aiutarlo a trovare una propria strada nel suo cammino di calvinista ‘critico’ diventava per lui un punto di riferimento imprescindibile21;

L’altra grande fonte di luce era Fourier22, che morì nel 1837e la cui fama si sparse tanto rapidamente che, nel 1846 il numero dei suoi seguaci in America ammontava a 200.000 persone23. Fourier rappresentò per Henry James una sorta di completamento alla propria interpretazione della dottrina swedenborghiana; come ricorda il Perry24, Fourier e Swedenborg erano due personaggi certamente molto differenti, negli interessi e nello stile, ma entrambi sembravano — almeno nelle esigenze del padre di William — avere bisogno l’uno dell’altro:

19 Il figlio di William James, Henry James III, — nell’edizione dell’epistolario paterno — cerca di ‘levare’ il ricordo del padre dalla schiera degli ‘swedenborghiani’: Mentre stava ancora combattendo il suo stato di melanconia, un’amica lo introdusse agli scritti di Swedenborg. Grazie al loro aiuto, egli trovò il sollievo necessario e una fede che lo accompagnò anche dopo l’intensità della rivelazione. LWJ I, p. 12. Ma, dopo due pagine, egli aggiunge: L’erronea opinione che è diventata oggi d’attualità, e che descrive Henry Senior come un ministro del culto swedenborghiano appare come una completa assurdità per chi ne conosca gli scritti.: egli pensava infatti che le chiese in generale si fossero vendute l’anima al diavolo e, in particolare, che i principali peccatori fossero a questo riguardo le congregazioni swedenborghiane [...]. Ivi, p. 14. A proposito del legame fra la religiosità di Henry James Sr. e la sua fedeltà al pensiero di Swedenborg, il Perry scrive: Il padre di James [...] era religioso a causa della profondità delle sue riflessioni e della sua esperienza personale. Come tutti i filosofi mistici, egli trovò Dio al di là del suo stesso pensiero. Egli attribuì, è vero, la propria salvezza personale a Swedenborg; ma allo stesso tempo si dissociò nettamente dalla setta degli swedenborghiani e nutrì la propria mente con la metafisica. La sua teologia era una sottile razionalizzazione del distacco e del successivo ritorno dell’uomo a Dio attraverso la perfezione della società.. R. B. Perry, In the Spirit of William James, Greenwood Press, Westport 1979, p.16. Ciò nondimeno Henry James, per tutta la vita, si distinse per la sua ‘fedeltà’ all’opera dello scrittore svedese: Henry James portava sempre con sé in ogni viaggio i testi di Swedenborg, deponendoli con riverenza in qualunque nuova dimora della propria famiglia. L. Simon, op. cit., p. 50. 20

TCWJ I, p. 25. Le parole tra virgolette sono di Catarine Walsh, la zia di William James, nota appunto come “Aunt Kate”.

21 Il Perry ci ricorda anche come il pensiero di Henry James non fosse affatto limpido: E. L. Godkin [editore della Nation] scriveva di HJS: “Quale fosse la precisa natura della sua filosofia, non mi fu mai dato di comprendere pienamente, ma egli dichiarava di essere uno swedenborghiano [...]” Ivi, p. 105. E ancora: [Un editore newyorchese diceva di HJS] “Non ho mai potuto comprendere James. Mi sembra che egli si sforzi continuamente di provare che non c’è differenza tra il bene e il male; senza dubbio, se egli ha una preferenza tra i due, è per il male”. Ivi, p.17.

Anche la madre di William fu partecipe attivamente agli entusiasmi di Henry James per il fourierismo: Il padre e la madre di William si convertirono alla dottrina di Fourier, ed essi tennero spesso nella propria casa conversazioni a questo proposito in compagnia di personaggi come Albert Brisbane , in America uno dei seguaci più ferventi di Fourier, Parke Godwin, editore dell’Evening Post, e William Cullen Bryant, l’editore della Post. G. W. Allen, op. cit., p. 13. 22

23 TCWJ, p. 28. Cfr. R. W. Gladish, Swedenborg, Fourieran the America of the 1840s, Swedenborg Scientific Association, Bryn Athyn 1983 e C. J. Guarneri, The Utopian Alernative; Fourierism in Nineteenth-Century America, Cornell University Press, Ithaca 1993. 24

Cfr. TCWJ I, pp. 31-32.

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Lo swedenborgianesimo aveva bisogno di un programma sociale e il fourierismo aveva bisogno di una fondazione religiosa e metafisica25.

Henry James, come abbiamo già visto, non riusciva a concepire una visione individualistica dell’uomo e della sua possibile salvezza; Fourier non solo sembrava offrire buone ricette per un radioso avvenire, apparentemente scientifico, egli attirava l’interesse di Henry James per due motivi fondamentali: l’attenzione per la solidarietà sociale e l’idea che l’uomo fosse innocente. Henry James cominciava dunque ad avere un pensiero autonomo, per quanto abbastanza confusionario, proprio nel periodo in cui le sue teorie potevano farsi immediatamente pratica, nell’educazione dei propri figli.

1.1.3 Europa, ‘terra d’educazione’ Il padre di William cercò per tutta la vita di evitare gli errori commessi dal proprio padre. naturalmente la sua conoscenza di Fourier e di Swedenborg, insieme con la sua esperienza “mistica” provata in Inghilterra, ne influenzarono il pensiero. I capisaldi della sua pedagogia erano: libertà, spontaneità e amore.26.

Possiamo certamente dire che il padre di William James fu un genitore premuroso e dedito all’educazione dei propri figli in una misura decisamente inusuale27, soprattutto considerando la sua classe d’appartenenza e l’epoca in cui visse. Come abbiamo visto, Henry James non si lasciò prostrare dalla sua invalidità e, grazie alla sua tenacia e all’aiuto costante della moglie, passò una vita sempre in movimento, sia all’interno degli Stati Uniti d’America che all’estero; proprio all’estero egli ‘affidò’ le sue più profonde speranze: la riuscita come scrittore e l’educazione dei propri figli. William James compì la sua prima attraversata atlantica alla tenera età di due anni circa; come vedremo, questo sarà solo il primo di una lunga serie di viaggi nel Vecchio Continente: Henry James infatti, non solo non voleva separarsi per nessun motivo dalla sua famiglia: egli riteneva che solo in Europa i propri figli avrebbero ricevuto un’ottima educazione in un clima sociale e culturale equilibrato. Sono molte le biografie che riportano minuziosamente gli spostamenti dei James dagli anni ’40 all’inizio degli anni ’60 e ciò che salta subito agli occhi, leggendo queste pagine, è l’incredibile numero di traslochi e di spostamenti che Henry James fu capace di imporre alla sua famigliai.

25

Ivi, p. 32.

26

G. W. Allen, op. cit. p. 21

27

James decise di educare i propri figli in una maniera non convenzionale [...] L. Simon, op. cit., p. 44. , p. 21.

7


L’educazione di William James fu, se non eccezionale, per lo meno curiosa; scandita da continui e repentini cambiamenti: da un precettore a una scuola privata, da una nazione all’altra, da un continente all’altro!

Come detto sopra, Henry James aveva due motivi fondamentali che ciclicamente lo spingevano a cercare il ‘paradiso perduto’28 in Europa. Il primo era la ricerca di contatti intellettuali con personaggi eminenti e il secondo era l’educazione dei propri figli; col passare degli anni, il primo motivo lasciò sempre più spazio al secondo. La famiglia era infatti diventata per Henry James il vero ‘terreno’ dove cercare la propria realizzazione. L’educazione dei propri figli, e soprattutto di William e del secondogenito Henry, non rappresentava per lui solo il dovere di un padre scrupoloso, ma una sorta di professione, un progetto pedagogico. All’interno di questo progetto, l’apprendimento delle lingue ricopriva un ruolo primario:

Il 6 Agosto [1855] William e i suoi fratelli vennero iscritti in una scuola diretta da un esule tedesco: Achilles Heinrich Roediger. [...] Il padre di William aveva scelto la scuola di Roediger perché ospitava pochi studenti americani rispetto alla più famosa scola Haccius e quel che più il padre desiderava era che i propri figli “imparassero le lingue”29.

Ma se questo desiderio paterno, che del resto si rileverà di grande utilità alla carriera di William James, certamente giustifica almeno in parte la decisione di ‘trasferire’ l’educazione dei propri figli nel Vecchio Continente, non giustifica però il continuo cambiamento di scuole e di precettori. Il fatto è che Henry James non era mai soddisfatto dei professori destinati ai propri figli, ma in una maniera abbastanza singolare:

[...] come già era accaduto molte volte in passato, sembrava contrario a lasciare il figlio maggiore nelle scuole dove mostrava di fare concreti progressi30.

Potrebbe sembrare paradossale, ma era proprio così; sicuramente questo comportamento non è spiegabile attraverso un’unica chiave interpretativa. 28

Cfr. G. W. Allen, op. cit., p. 48.

29 Ivi, p. 34. È interessante notare come invece lo stesso Henry James non conoscesse che la lingua inglese: Nonostante Henry James ambisse a che i propri fgli imparassero a parlare le lingue straniere, egli stesso non sapeva parlare che l’inglese. Ivi, p. 43. Come vedremo questa non sarà l’unica incongruenza del comportamento del padre di William. 30 Ivi, p. 58. Qui si fa riferimento alla decisione di Henry James di lasciare Ginevra — William era allora iscritto all’Academy — nel 1859, proprio quando William sembrava essersi integrato sia con i professori che con i compagni.

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Di certo, Henry James era ‘geloso’ dell’educazione dei propri figli: non potendosene occupare da sé a tempo pieno (ricordiamo infatti che, sebbene fosse libero dalla necessità di lavorare, egli era sempre occupato nello studiare e nello scrivere), delegava questo compito ad altri, che in breve tempo perdevano la sua fiducia. Un motivo meno ‘viscerale’, capace di chiarificare a questo punto quale fosse l’ideale educativo di Henry James, è invece questo: egli riteneva che fosse scorretto limitare gli interessi di un fanciullo e poi di un adolescente a un determinato campo o a una determinata materia31. Proprio per questo egli vedeva nello spiccato interesse dei suo figli per una qualche disciplina un pericolo reale da neutralizzare prontamente; la soluzione immediata — e la più superficiale — per realizzare questo ‘progetto pedagogico’ era quella di cambiare continuamente i professori cui erano affidati i suoi figli o, meglio ancora, di trasferirsi in un altro paese:

[...] egli infatti metteva in guardia i suoi figli contro ogni professione ‘limitante’ spingendoli soltanto a “essere”. Il suo primogenito, brillante, ambizioso e animato da spirito di competizione, non poteva che trovare soffocante un avvenire di questo genere32.

Un’altra ipotesi, meno giustificabile da un punto di vista pedagogico e sicuramente più rivelatrice del carattere fondamentalmente egoista di Henry James è suggerita ancora una volta da Gay Allen:

Quando Henry Sr. Si stancava di rimanere in un dato posto , allora decideva di dare una svolta all’educazione dei propri figli, svolta che ovviamente richiedeva un nuovo viaggio33.

Probabilmente è più giusto considerare tutte queste spiegazioni come parzialmente valide, anche se rimane vero un fatto fondamentale: all’interno dei progetti, e delle pulsioni, di Henry James trovavano poco spazio le esigenze dei suoi figli; spesso infatti i viaggi improvvisi decretati dal padre provocavano in William il dispiacere di lasciare, senza poi comprenderne il motivo, un ambiente che ormai era divenuto familiare34.

31 Che William James, già fanciullo, comprendesse quali fossero le intenzioni paterne — riguardo alla propria formazione intellettuale — è fuor di dubbio; egli, una volta adulto, riconoscerà ancora più chiaramente quanto il padre avesse influito sul suo carattere: James si rendeva conto che intraprendere una professione avrebbe significato fare quello da cui il padre e la sua stessa educazione avevano cercato di allontanarlo: lo specializzarsi. D. Bjork, op. cit., p. 70. Vedremo meglio in seguito quanto sarà tavagliata la decisione di William James riguardo alla professione da intraprendere. 32 L. Simon, op. cit., p. XX. Anche Croce sottolinea, negativamente, questo aspetto della pedagogia di Henry James: Ritenendo sacra la spontaneità dei fanciulli Henry James disapprovava qualsiasi specializzazione dei propri figli, o che comunque essi sviluppassero un interesse ben determinato fin da piccoli. P. J. Croce, op. cit., p. 41. [...] Il padre toglieva i figli dalle scuole in cui stavano compiendo reali progressi in qualche materia, affinché non potessero effettivamente piantare radici in una disciplina ben precisa. Ibidem. 33

G. W. Allen, op. cit., p. 42.

34 Le prime esperienze professionali ed educative di James furono un continuo cursus interruptus. R. J. Richards, Darwin and the Emergence of Evolutionary Theories of Mind and Behavior, The University of Chicago Press, Chicago 1987, p. 412.

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Sovente poi, i figli di James si trasferivano proprio durante periodi in cui non era più possibile iscriversi alle scuole: Henry James Sr. Non aveva mai sincronizzato i propri spostamenti [e della propria famiglia] con il calendario scolastico35.

1.1.4 La passione di William per l’arte e la storia di una libertà ‘imposta’ Questa situazione non poteva non risultare strana, se non incomprensibile, a un ragazzo intelligente e sensibile come William36. Il comportamento di Henry James, oltre a essere singolare, era contraddittorio; un esempio chiarificatore è rappresentato dal suo atteggiamento nei confronti dell’arte: William James era cresciuto con l’idea che l’arte fosse una delle più nobili espressioni dell’animo umano ma, giunto il momento di far seguire alle parole i fatti, il padre aveva mostrato nei confronti delle sue ambizioni — William nutrì fin da fanciullo una passione per la pittura37 — un atteggiamento decisamente contraddittorio.

All’età di undici anni William non capiva perché suo padre glorificasse tanto l’Artista e non fosse però interessato ai suoi lavori38.

Questo è un chiaro esempio di come per Henry James la teoria e la pratica andassero spesso distinte; alla sua passione a approvazione per l’arte si opponeva infatti il biasimo per la vita dell’artista, soprattutto se questa sembrava affascinare ‘pericolosamente’ il figlio prediletto39.

35

Ivi, p. 65.

36 William James [...] riconosceva di aver spesso sprecato una gran quantità di tempo nell’indecisione e nel rimpianto; e anche durante i suoi primi anni di vita, spostato spessissimo da sua padre da una scuola all’altra, da un precettore a un altro, sentiva che non riusciva così ad acquisire le giuste abitudini e la corretta disciplina mentale [...] ma se è vero che non riuscì ad acquistare queste abitudini, di fatto egli ne acquisì inconsapevolmente altre che gli sarebbero state di grande aiuto in seguito. Ivi, p. 322. Qui Allen fa riferimento a quello che verrà definito l’eclettismo jamesiano. 37 Egli [William] sentiva la vocazione della pittura così fortemente che non pensava valesse la pena spendere tempo e denaro per la sua educazione scientifica. TCBV, p. 58. Sembra inoltre che William avesse decisamente del talento artistico; la sua notevole sensibilità era infatti accompagnata da quella che si dice una buona ‘mano’. Alcune biografie di William James contengono copie di suoi disegni, che permettono di farsi un’idea del suo stile. Cfr. Allen, op. cit., passim. Anche gli insegnanti del giovane William gli riconoscevano un certo talento: L’insegnante favorito di James era Mr. Coe, che insegnava pittura. [...] William aveva impressionato il suo insegnante per la sua abilità nello schizzo. Ivi, p. 25. Come si ricorderà (cfr. supra, n. i), Coe era l’insegnante di pittura dell’Institute Vergnès dove William ricevette, nella città di New York, la sua prima educazione. 38

L. Simon, op. cit., p. 42.

William era il figlio ‘prediletto’, ma, proprio per questo, quello che, più di tutti, doveva realizzare le aspettative paterne. Il giovane William fu sempre consapevole del fatto che il padre si aspettasse il massimo da lui; il problema però era che non era certo facile, soprattutto per un ragazzo, capire dove dare questo ‘massimo’, dato che il comportamento di Henry James appariva spesso indecifrabile. 39

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Henry James apprezzava l’arte come manifestazione di bellezza e di verità, ma allo stesso tempo riteneva che essa fosse uno ‘strumento imperfetto’, in quanto aveva a che fare con la bellezza esterna e non con quella interna, con la verità contingente, e non con quella eterna; a questo si aggiunga che agli occhi di Henry James, uomo fortemente religioso40 e improntato da un’etica molto rigida, la figura dell’artista si accompagnava ad una fama di dubbia moralità41.

La passione di William era però fortissima, tanto che il padre — che era riuscito a ‘strappare’ il figlio al fascino di John Lafarge nel 1859 — dovette dargli, un anno dopo, la possibilità di tentare la carriera artistica; se a Henry James costò molto concedere questa chance al primogenito, altrettanto doveva essere costato a William insistere in quella direzione, dato che sapeva bene quanto profondamente avrebbe deluso le aspettative paterne se avesse intrapreso la carriera di pittore42:

L’opposizione dell’arte in generale [...] era ben nota a William ed egli sentiva la forte necessità di controbattere direttamente questo atteggiamento, mentre allo stesso tempo voleva profittare dell’indulgenza paterna43. Prima di narrare l’epilogo dell’avventura artistica del giovane William, mette però conto di tornare alla pedagogia paterna per cercare, ora in possesso di maggiori elementi, di definirla più compiutamente. Il fatto che Henry James non concordasse con la decisione del figlio di diventare pittore — oltre che per la sua succitata avversione per la figura dell’artista — può infatti essere ben compreso come parte di quel progetto educativo teso a evitare premature ‘specializzazioni’; ma di fatto, sebbene Henry non lo professasse apertamente, né cercasse di darne giustificazione, il suo desiderio era che il primogenito si

40 Fondamentalmente, la disapprovazione di [Henry] James per l’arte esprimeva il senso di importamza maggiore che deteneva la religione ai suoi occhi.. TCWJ I, p. 134. 41 Di fatto Henry James glorificava l’arte (ritenuta comunque inferiore alla scienza e alla filosofia) piuttosto che l’artista: l’artista era, per Henry James, particolarmente teso a commettere il peccato di dare importanza a se stesso. Ivi, p. 135. Henry James considerava l’esperienza estetica come una parte fondamentale dell’educazione dei propri figli, ma non aveva grande considerazione della vita spirituale degli artisti. G. W. Allen, op. cit., pp. 41-42. 42 Per [Henry] James la più naturale forma d’arte, se d’arte si può parlare, era la parola. [...] lo stile del parlatore naturalmente dotato è enfatico e mobile — è fatto per essere ascoltato, mutando rapidamente e brevemente il fuoco della nostra attenzione, e non è fatto per essere contemplato. Quando questo stile è trasferito dal mondo parlato a quello scritto, sembra essere esagerato, cosicché se il parlare di James era pieno e vigoroso, i suoi scritti a volte paiono eccessivi. TCWJ, p. 125. Lo stesso William, nell’introduzione all’edizione dell’opera paterna, ricorda come il padre fosse quasi ossessionato dalla difficoltà di esporre chiaramente il proprio pensiero: più volte lo aveva sentito “pregare” di potere essere in grado dire compiutamente quello che pensava in maniera definitiva; le sue preghiere non furono però mai ascoltate: [...] pochi scrittori furono più prolissi di lui. W. James, Introduction to Literary Remains, in ERM, p. 8. 43

TCWJ I, p. 194.

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dedicasse agli studi scientifici, un desiderio che non era stato indebolito nemmeno nel momento in cui William andò a bottega da William Hunt44. Effettivamente, William James, insieme con la passione per l’arte, aveva sviluppato già nella prima giovinezza un grande interesse per il sapere scientifico45; in tutte le biografie è citato l’episodio del Natale del 1857, quando, quindicenne, si vide regalare dal padre un microscopio46 professionale:

Il natale di quell’anno Willy fu infinitamente felice per il regalo che il padre aveva comprato per lui: si trattava infatti di un microscopio47..

William James era attratto dal lato sperimentale della ricerca scientifica e la sua passione è dimostrata dal fatto che, anche nei mesi trascorsi nell’atelier di Hunt48, non smise le ricerche scientifiche che lo avevano occupato durante la sua fanciullezza. Il fratello Henry, ormai adulto, ricorderà distintamente gli esperimenti chimici di William49. Anche in questo caso però padre e figlio non potevano dirsi completamente concordi; è vero infatti che Henry James auspicava per il giovane e promettente William una carriera scientifica, ma è anche vero che la sua idea di scienza era notevolmente diversa da quella intesa dal figlio; scienza significava sapere vero e inconfutabile, una sorta di ideale filosofico che poco aveva a che fare con la scienza sperimentale:

44 “Io speravo”, disse Henry, “che avrebbe intrapreso una carriera scientifica e ancora oggi penso che le sue inclinazioni siano per uno studio di questo tipo”. L. Simon, op. cit., pp. 67-68. Il padre era giunto alla conclusione che William avesse un’intelligenza di tipo scientifico. G. W. Allen, op. cit., p. 47. La Simon ricorda inoltre come la disapprovazione di Henry verso la carriera artistica del figlio fosse stata nutrita dalla rivalità che lo separava da William Hunt, un personaggio giovane e di successo che, se ne rendeva conto, esercitava sul giovane William un fascino a lui vietato. Cfr. L. Simon, op. cit., pp. 67-68. Anche Bjork pone l’accento su questa malcelata rivalità: Come artista di professione, Hunt presentava a William non solo l’opportunità di continuare a imparare l’arte della pittura; egli rappresentava anche un modello di adulto alternativo, un colto pittore di successo il cui contegno contrastava vivamente con l’eccentricità, le stranezze e la mancanza di praticità del padre. D. Bjork, op. cit., p. 24. 45 L’interesse di James per le scienze naturali, come quello per la pittura, risale alla sua fanciullezza, quando egli mostrò un’attitudine sia per l’osservazione sia per l’utilizzo di strumenti. TCBV, p. 65. A proposito della passione giovanile di William James per la ricerca scientifica, Cfr. ivi, p. 51. 46 [...] anche la biologia attraeva il giovane naturalista, [...] William vagabondava per boschi e campi per raccogliere campioni e acqua stagnante da esaminare al microscopio. “William aveva un costante interesse”, ricorda [il fratello] Henry per gli effetti “bizzarri” o incalcolabili delle cose”. L. Simon, op. cit., p. 85. 47

G. W. Allen, op. cit., p. 47.

48 Che Henry James avesse concesso al figlio di studiare pittura a malincuore è ulteriormente dimostrato dal fatto che, quando decise di lasciare Newport per un nuovo viaggio in Europa, lo fece soprattutto per un motivo: In una lettera a [Edmund] Tweedy, James aveva ammesso che la ragione principale che lo aveva spinto a lasciare Newport era stata la volontà di strappare William dall’influenza di Mr. Hunt. Ivi, p. 62. 49 [...] che consistevano nel travasare liquidi da una provetta all’altra e a volte nel riscaldare questi liquidi con una fiammella tremolante. L. Simon, op. cit., p. 85.

12


La filosofia era l’unica scienza accettabile per Henry Sr.; le scienze applicate erano invece tenute in nessuna considerazione50.

William James si trovava dunque in una situazione decisamente imbarazzante: egli era un ragazzo molto intelligente e altrettanto ambizioso e la sua più grande ambizione era quella di soddisfare le esigenze paterne; allo stesso tempo egli sentiva una certa resistenza ad accettare supinamente le decisioni di Henry intorno alla sua carriera; queste infatti, oltre a non tenere in considerazione i suoi desideri e le sue inclinazioni, erano spesso contraddittorie e poco decifrabili. Ambiguo era inoltre l’atteggiamento generale del padre51; quando infatti egli concesse al giovane William di intraprendere la carriera artistica, lo fece quasi esclusivamente nella convinzione che tutto si sarebbe risolto in un fallimento e allora il figlio sarebbe stato più pronto ad accettare ciò che egli avrebbe deciso in sua vece: Il diciottenne coi corti baffetti e due occhi seri e pensierosi che era tornato a Newport con la sua famiglia nell’autunno del 1860 era un ragazzo equilibrato e pieno di fiducia, ma indubbiamente William James si domandava ora se aveva fatto bene a strappare la sua famiglia dal continente europeo per andare a studiare dal maestro Hunt a Newport. Egli sapeva bene che il padre, sebbene gli avesse dato il permesso di studiare la pittura, era poi speranzoso che il figlio sarebbe tornato sulla “retta via” dello studio scientifico. [...] d’altro canto Henry James Sr., forse inconsciamente, limitò i propri figli proprio per via della sua indulgenza: infatti il fatto che mostrasse di concedere la massima libertà possibile frenava i figli, che ben sapevano quali fossero i suoi desideri, più di un’aperta opposizione [in sostanza favorendo lo sviluppo di un forte senso di colpa]. Era difficile ribellarsi a un padre che sembrava essere estremamente liberale52.

Questo brano pone chiaramente in luce alcuni dei ‘meccanismi affettivi’ del comportamento di Henry James; egli, come abbiamo visto, voleva che i propri figli fossero il più possibili liberi: liberi di cambiare una scuola con un’altra, di trasferirsi da un paese all’altro, liberi di studiare materie differenti e con differenti professori; egli inoltre voleva che non crescessero assillati dalla necessità di intraprendere al più presto una carriera determinata che segnasse precocemente la loro strada. Il padre di William poi, si sentiva giustificato in questo comportamento da una sorta di ‘pedagogia fourieriana’:

50

Ivi, p. 102.

51 William James sarebbe diventato adulto con una dubbia eredità paterna; l’amore per la libertà e la relativa elasticità di pensiero e l’interiorizzazione dei fini scientifici e religiosi del padre. P. J. Croce, op. cit., p. 40. James, lacerato tra la scienza spirituale del padre e il naturalismo scientifico, lottava per trovare la propria strada. La sua prima educazione con suo padre gli avrebbe lasciato un interesse permanente per gli argomenti religiosi, anche se con una differente prospettiva rispetto a quella paterna. Ivi, p. 109. 52

G. W. Allen, op. cit., p. 64.

13


Un’altra idea che Henry James derivò da Fourier era quella che l’‘innocenza’ del bambino dovesse essere prolungata e protetta il più possibile [...]. Ma il padre premuroso non si rese conto che l’applicazione di questa teoria strideva con la sua pedagogia incentrata sulla massima libertà, perché cercando di preservarne l’innocenza egli isolava i propri figlioli dal mondo reale fatto di un’umanità imperfetta e così limitando di fatto l’esercizio e lo sviluppo della loro libera volontà53.

La libertà, tanto proclamata da Henry James, diventava agli occhi di William una parola spesso priva di significato, trasformandosi in una sorta di misterioso precetto negativo: libertà significava non limitarsi, non mettere radici, non appassionarsi troppo ad a una determinata disciplina, non stringere amicizie durature, non avere una stabile dimora, ma soprattutto significava, e di questo William si rendeva conto più di tutti i suoi fratelli, non deludere il padre.

Purtroppo i desideri del padre, come abbiamo visto, rimanevano circondati da un alone di mistero e di contraddittorietà: che cosa avrebbe dovuto fare William per soddisfare le ambizioni paterne? Doveva forse egli dedicarsi definitivamente alla scienza? William sapeva per certo che la scienza era considerata da Henry James molto più nobile dell’arte, ma non riusciva a capire di che tipo di scienza si trattasse; ancora una volta, egli sapeva soltanto intuire che non era la scienza che tanto lo aveva appassionato fin da fanciullo: quella fatta di esperimenti e di microscopi e certamente non era nemmeno la scienza ‘esatta’ della matematica e della fisica. Il giovane William sentiva che ogni vero sapere era per il padre un sapere ‘religioso’ e anche il sapere scientifico avrebbe dovuto essere permeato di pensieri su Dio e sulla morale54. Ormai adulto, William James mostrerà chiaramente di non avere mai compreso quale fosse il pensiero paterno55:

William probabilmente non lesse il libro del padre [Substance and Shadow]. Anni dopo, quando si prese l’incarico di pubblicare le opere del padre, William confessò di non essere mai riuscito a capire completamente la filosofia [...] del padre56.

53 Ivi,

p. 21. Patrick Diggins, con una concisione degna di nota, conferma quanto fosse difficile per William riuscire a comprendere come soddisfare le ambizioni genitoriali del padre: Henry James Sr. Era un groviglio di contraddizioni. Figlio di un immigrante irlandese che era diventato milionario durante l’era Jackson, Henry Sr. Lottò per avere l’eredità paterna e riuscì, ancor giovane, a impossessarsi di una vera fortuna. In seguito [...] condusse una vita senza lavorare, girando l’Europa in grande stile, predicando i valori del duro lavoro. William, spinto dal padre a occuparsi di qualcosa di serio, accarezzò una vocazione dopo l’altra, in un inutile sforzo di soddisfare i confusi desideri del padre. J. P. Diggins, The Promise of Pragmatism; Modernism and the Crisis of Knowledge and Authority, University of Chicago Press, Chicago 1994, p. 114. 54

55 Ma non fu a causa della mancanza di sforzo e di volontà che William si trovò sempre a disagio con la filosofia del padre. “Tu vivi in un tale isolamento mentale”, scriveva al padre, “che io ho la amara sensazione che tu pensi che noi figli siamo estranei alla parte migliore di te” Lettera di WJ al padre del 1868, cit. in G. W. Allen, op. cit. p. 138

56

Ivi, p. 91. Alla morte di Henry James, William giungerà a delle amare conclusioni: Nel prepararne l’edizione egli si era avvicinato maggiormente alle opere del padre, ma la distanza che lo separava dalle sue idee non era diminuita rispetto a un tempo. “Con tutta la ricchezza di stile”, sottolineava William nell’introduzione, “le idee sono singolarmente poche e le stesse. Pochi autori hanno speso un’intera vita per l’elaborazione di un ristretto gruppo diverità come lui”. Ivi, p. 276. Cfr. Introduction to Literary Remains, in ERM, p. 4.

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William dunque, ancora indeciso su quale sarebbe stato il futuro della sua vita, era tormentato da sensi di colpa verso il padre: il fatto che questi fosse totalmente democratico de iure comportava che, de facto, i propri figli dovessero trovare degli “stratagemmi” per riuscire a ritagliarsi il proprio angolo di libertà; ovviamente questo, insieme alla palesata e apparentemente sincera liberalità del padre non poteva tradursi in un soddisfatto coinvolgimento nelle azioni intraprese e nelle decisioni “consentite”. Il giovane James fu così presto coinvolto dal padre — più o meno consapevolmente — in una sorta di “circolo vizioso” per cui a una maggiore pressione di Henry James in una determinata direzione seguiva il tentativo di William di resistere, un tentativo che però doveva risultare fiaccato in partenza dall’apparente liberalità del padre, che poteva ora apparire ‘vittima’ dell’ingratitudine dei propri figli. Questo ‘meccanismo’ interno alla famiglia James continuerà ancora per molti anni dopo la maggiore età di William James; vedremo infatti come, ancora studente di medicina, egli dovrà sostenere il proprio desiderio di evadere dall’ambiente familiare (recandosi in Europa) adducendo come giustificazione le cattive condizioni di salute, senza però riuscire a sbarazzarsi del senso di colpa di avere ancora una volta tradito le aspettative del padre.

1.1.5 La fine di un sogno Ma quale fu l’epilogo dell’esperienza artistica con William Hunt? William James, dopo quasi un anno passato ad esercitarsi seriamente con tele e pennelli, decise di abbandonare il sogno di diventare pittore57; Henry James poteva dirsi quindi soddisfatto; egli sapeva infatti che, dato il suo carattere, William non avrebbe mai più tentato un’esperienza del genere58, un’esperienza che lo aveva visto fallire autonomamente e che lo rendeva ora più debole ai suoi stessi occhi. I ‘calcoli’ del padre potevano finalmente trovare la propria realizzazione.

Per quanto concerne i motivi che spinsero William James a rinunciare all’idea di vivere una carriera artistica, non si sa molto; lo stesso William ci dice ben poco a questo proposito e il ‘mistero’ è accresciuto 57 Il fatto che egli decise infine di abbandonare la carriera artistica non significa però che si fosse impegnato in scarsa misura, al contrario: Nell’autunno e inverno degli anni 1860-61 William James fu un bravo allievo di William Hunt. G. W. Allen, op. cit., p. 67. 58 Questo è vero, ma non è affatto vero che non disegnò più; infatti la sua abilità nello schizzo e nel disegno tornò spesso utile ad Agassiz durante la sua spedizione. Cfr. J. J. Putnam, William James, in L. Simon (a cura di), William James Remembered, University of Nebraska Press, Lincoln-London 1996, p. 13.

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dal fatto che in seguito egli vivrà a debita distanza dall’arte59, quasi che tutta la sua passione si fosse esaurita con la decisione di abbandonare lo studio di Hunt; un’ipotesi valida è comunque questa: William era un ragazzo molto ambizioso e probabilmente si rese conto — a un dato momento — che il suo talento, peraltro indiscusso, non gli avrebbe permesso mai diventare un grande pittore.

L’esperimento vocazionale fu un completo successo, nel senso che fu decisivo. William apprese, vivendo con l’arte, che proprio dell’arte poteva fare a meno. Egli aveva scritto al suo amico Ritter che niente era per lui più spregevole di un cattivo pittore60.

Un’altra ipotesi, più complementare che in contraddizione rispetto a quella testé esposta è quella che interpreta la decisione del giovane James di abbandonare la carriera artistica come la naturale conseguenza di un peggioramento delle sue condizioni di salute, fisica e mentale:

William James non spiegò mai chiaramente la sua decisione di abbandonare la carriera artistica [...] sappiamo però per certo che prima della primavera del 1861 egli cominciò ad accusare disturbi alla vista, disturbi che lo avrebbero accompagnato per il resto della vita. [...] oltretutto egli cominciava a sviluppare dei sintomi che possono essere descritti come indigestione nervosa. Prima di arrivare a Newport le sue condizioni di salute erano state eccellenti e queste patologie fisiche mostravano chiaramente di essere i sintomi di seri problemi psicologici61.

Questa chiave interpretativa non è in contrasto con quella precedente in quanto è molto probabile che il malessere psicofisico sviluppato durante la permanenza a Newport fosse profondamente legato alla raggiunta consapevolezza di William di non essere tagliato per l’arte, nonché ovviamente alla consapevolezza di dovere accettare il primo importante ‘fallimento’ nelle proprie aspirazioni; a tutto ciò deve infine aggiungersi il fatto che William James fu sempre conscio di stare percorrendo una strada che era al padre tutt’altro che gradita: Quanto James condivideva, o fu influenzato da, il giudizio paterno intorno all’arte, emerge chiaramente negli anni della giovinezza. [...] Basti dire che la sua decisione di abbandonare

59 Egli mantenne comunque [anche dopo la decisione di non aver più nulla a che fare con l’arte] la sensibilità del pittore, e anche qualcosa del distacco tipico dell’artista. TCWJ I, p. 201. 60 Ivi, p. 200. Anche la Simon individua nel timore di non essere un ‘vero’ artista la causa principale della rinuncia del giovane William: la causa principale dell’abbandono della carriera artistica da parte di James fu comunque la paura di non avere successo. L. Simon, op. cit., p. 86. 61

G. W. Allen, op. cit., p. 70.

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la carriera artistica a favore della scienza e della filosofia, fu decisamente sostenuta dal padre62. Definire la fine dell’esperienza a Newport come ‘positiva’ può essere dunque fuorviante; di fatto si trattò di un vero e proprio insuccesso, caduto in un periodo di sensibilità e di indecisione che caratterizzavano William James come tanti giovani in quel periodo. Sarebbe però profondamente errato interpretare questa importante tappa della vita di James come un ‘successo’ del padre; certo, Henry James aveva apparentemente ottenuto quello che voleva e sarebbe da lì a poco riuscito a far iscrivere il figlio a quella Scientific School di Harvard che già qualche tempo primo aveva deciso sarebbe stata la culla ideale per la migliore educazione del primogenito. Ma l’abbandono di William dell’arte per la scienza si rivelerà per Henry James una ‘vittoria di Pirro’.

Se la fine dell’esperienza artistica di James coincide con la fine di un’importante fase della sua vita, non rappresenta però la fine dei suoi turbolenti rapporti con il padre. Vedremo nei prossimi Capitoli come la figura di Henry James rimarrà fondamentale anche negli anni a seguire, ma già da ora possiamo dire che padre e figlio vivranno anni molto difficili, caratterizzati da una conflittualità e da una sofferenza (soprattutto da parte di William) che nelle prime biografie del filosofo americano erano state spesso ‘edulcorate’. Ralph Barton Perry descrive Henry James come una persona eccentrica, ma sostanzialmente benigna:

Tale era la sua magnanimità che egli era in grado di far convivere la fedeltà alle sue idee con la capacità di non forzare gli altri ad accettare le proprie idee63.

Quest’affermazione potrebbe anche essere condivisibile, se non fosse che ne ‘gli altri’ non rientravano a pieno titolo i figli. Il padre di William era certamente un uomo tollerante, ma più a parole che nei fatti; e lo era più verso i propri coetanei piuttosto che verso i propri familiari. La recentissima biografia jamesiana, scritta da Linda Simon, ci dà infatti della famiglia James un quadro poco idilliaco: i rapporti tra padre e figli non furono mai semplici e il risultato fu che William, col passare del tempo, riuscì sempre meno a capire il comportamento del padre, che predicava la massima libertà senza concederla effettivamente.

62

TCWJ I, p. 143.

63

Ivi, p. 122.

17


[Henry James] credeva nella libertà dei propri figli, per la quale egli aveva le migliori ragioni. “Io desidero che i miei figli diventino degli uomini retti, uomini in cui la bontà non sia stata indotta da motivi di interesse [...] ma dall’amore per essa [...]. E, per quanto io sappia che questo carattere o disposizione non può essere indotto forzatamente in un fanciullo, ma deve essere appreso liberamente, io li circondo il più possibile con un’atmosfera di libertà64”.

Non è ben chiaro che cosa intendesse Henry James per ‘atmosfera di libertà’; probabilmente aveva in mente un certo permissivismo65 su alcune concrete questioni: i figli avevano la possibilità di seguire o meno le funzioni religiose; avevano molto tempo libero per giocare e visitare, da soli, le città in cui di volta in volta si trovavano e si rivolgevano ai propri genitori chiamandoli per nome66, cosa di certo non usuale al tempo, come del resto nemmeno ora. Ma questo era solo ‘un’atmosfera’ di libertà e non libertà concreta; tant’è che molto presto anche i fratelli di William avrebbero cominciato a sentire la presenza paterna come un vincolo troppo stretto da cui liberarsi in qualche maniera;

William per primo, e poi anche Henry e gli altri figli desiderarono intensamente di essere “liberati” dall’ambiente famigliare paterno67.

Sembra infatti che il desiderio di libertà dei figli, fosse direttamente proporzionale all’attenzione che Henry dedicava alla loro educazione:

Il periodo di Quincy Street [primi anni ’60 a Cambridge] vide un crescente interessamento dei genitori nell’educazione dei propri figli, in special modo di William e Henry68.

Ma proprio in quel periodo William James cominciava a provare sentimenti di rifiuto verso la figura paterna:

64

L. Simon, op. cit., p. 170.

Ciò non toglie che Henry James esercitasse spesso la sua autorità anche in maniera eccessiva, se non per il tempo, per lo meno per la sensibilità di William; La Simon ricorda che, dopo un banale episodio con un cagnolino che secondo Henry James William non era in grado di tenere a bada] [...] il padre lo aggredì furiosamente: “Mai, mai prima d’ora m’ero reso conto della totale e disdicevole incapacità e mollezza del tuo carattere; mai prima d’ora mi sono reso così conto della tua totale incapacità a fare alcunché” L. Simon, op. cit., p. 64. Cfr. CWJ, IV, p. 23. 65

66

G. W. Allen, op. cit., p. 16.

67

L. Simon, op. cit., p. 49.

68

TCWJ I, p. 110.

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Ciò che egli in fondo desiderava, sebbene inconsapevolmente, era di fuggire dall’insopportabile atmosfera di Quincy Street69.

L’avverbio ‘inconsapevolmente’ ricorre molto spesso nelle biografie che si soffermano ad analizzare i rapporti tra Henry James e il figlio maggiore; ma se è probabile che William avesse difficoltà ad ammettere di non amare come avrebbe dovuto, e voluto, il proprio padre, è più difficile credere che quest’ultimo fosse veramente inconsapevole del fatto che il suo contegno fosse solo apparentemente tollerante e permissivo; lo stesso Perry, sebbene faccia cenno al fatto che Henry James avesse un atteggiamento eccessivamente possessivo verso i figli, avalla l’ipotesi che egli ne fosse ‘inconsapevole’: Il padre [...] aveva inconsciamente una posizione autoritaria e malsana70.

Non è certo qui importante capire quanto il padre di William James fosse conscio71 della contraddittorietà del proprio comportamento con le proprie parole; è certo però che i figli, e William — anche perché il maggiore — prima di tutti, più o meno ‘consapevolmente’, sentivano questa contraddizione. Quello che possiamo dire con certezza è che Henry, come ogni padre, pensava di agire per il bene dei propri figli:

Erano entrambi [William e Henry James Sr.] uomini di una spontaneità estrema, con una naturale tendenza al miglioramento e all’autoaffermazione; entrambi erano mobili o perfino erratici di modo che era per essi impossibile seguire una costante routine o di partecipare ad attività organizzate, di lungo periodo e istituzionalizzate72.

Vedremo in seguito quanto saranno importanti nella vita del filosofo americano la voglia di affermazione e l’impazienza ‘ereditate’ dal padre; quest’ultimo però non aveva in fondo che la propria famiglia per esprimere le proprie qualità, e i propri difetti; il fatto che egli non avesse avuto la necessità di guadagnarsi da vivere73 e che avesse potuto coltivare a piacere i propri interessi, lo aveva in qualche modo isolato dalla

69

G. W. Allen, op. cit., p. 153. La casa dei James era fonte di depressione per tutti i figli. Ibidem.

70

TCWJ I p. 171.

Sembra comunque che Henry James fosse più che conscio del proprio comportamento: L’amore dei genitori è un amore pericoloso, pensava Henry James, che rischiava di divenire possessivo. Ivi, p. 170. 71

72 Ivi, p. 129. William, il più grande dei cinque fratelli, era fisicamente molto simile al padre, ma lo ricordava anche nelle maniere e da un punto di vista intellettuale, e suo padre era una persona cui valesse la pena di somigliare. Entrambi avevano l’istinto di difendere generosamente cause impopolari, quando sembrava in gioco il principio della libertà personale [...].J. J. Putnam, William James, in L. Simon (a cura di), William James Remembered, cit., pp. 13-14.

È comunque interessante notare che, soprattutto dopo la crisi finanziaria che aveva investito gli Stati Uniti negli anni ’50, Henry James mantenne sempre un atteggiamento conflittuale verso il denaro, fatto più di preoccupazioni fittizie che reali; preoccupazioni che non potevano restare celate ai figli che ormai diventavano adulti: [Henry] James rimase preoccupato per la propria situazione economica per tutta la vita. L. Simon, op. cit., p. 38. Di fatto Henry James era spaventato dall’idea di doversi mantenere con qualche lavoro, che non poteva essere di certo quello di scrittore, dati i suoi scarsissimi successi editoriali. 19 73


realtà circostante, isolando allo stesso tempo chi gli stava più vicino. Questa era una situazione che non poteva che essere frustrante, e non solo per i suoi figli74; William dunque, poco più che un ragazzo, si trovava a doversi affrancare da un padre troppo possessivo e frustrato: un’impresa di certo non facile, visto che i suoi sentimenti non diminuivano il rispetto filiale:

È evidente la forte ammirazione che il figlio provava verso il padre. Non si trattava solo di amore filiale — era un amore istituzionalizzato. Egli amava il tipo di uomo incarnato da suo padre. E, stando così le cose, egli non poteva non crescere come lui, con le sue abitudini, i suoi sentimenti, i suoi atteggiamenti75.

Forse quest’affermazione è eccessiva, ma resta il fatto che William sentiva come un dovere la soddisfazione dei desideri paterni; il fatto è che egli ‘mancava’ proprio di quel che il padre sembrava tenere più in considerazione: la passione della fede e per gli argomenti religiosi76; William James non avrebbe mai seguito le (incerte) orme del padre; chi vede nel rapporto fra William James e Henry James Sr. il ‘prosieguo’ del rapporto conflittuale tra quest’ultimo e William ‘di Albany’ sembra avere colto nel segno77: come Henry James non riusciva a capire il Dio di suo padre, così William non riusciva a comprendere le sfumature di un calvinismo swedenborghiano; Henry James si rendeva ben conto di quanto suo figlio, nonostante evidenti somiglianze, fosse diverso da lui; ma ora che William aveva, autonomamente, rinunciato alla propria carriera artistica pensava di potere riprendere il controllo della situazione. La Lawrence Scientific School gli sembrava il luogo più adatto dove far studiare il suo figlio prediletto; egli non aveva compreso di quanta libertà78 reale William avesse bisogno: pensava che sarebbe bastata ‘una buona scuola’. Vedremo in dettaglio nel prossimo capitolo come questa decisione si dimostrò poco azzeccata, per lo meno alla luce delle aspettative di Henry James; per ora ci basti dire che l’iscrizione alla Lawrenceii fu

74 I suoi figli impararono che uno scrittore può temere il giudizio dei propri lettori, ed essi scoprivano, vedendo il padre tornare afflitto dopo aver tenuto qualche conferenza, che il proprio padre aveva ricevuto un’accoglienza ostile e frustrante dal proprio pubblico. Ivi, p. 37. 75

TCWJ I p. 130. Di fatto non crebbe né con le sue abitudini, né con i suoi sentimenti, né con i suoi atteggiamenti.

Egli [William] era desideroso di approvazione, ma il padre teneva in seria considerazione soltanto la purezza spirituale. L. Simon, op. cit., p. 41. 76

77 Facciamo riferimento qui alla già menzionata biografia di Howard Feinstein, un biografo che spesso si serve degli strumenti della psicoanalisi per approfondire l’analisi della vita di James. 78 Per William James l’esperienza artistica non era stata soltanto un ‘tentativo professionale’ :l’arte era per lui qualcosa di più di una futura carriera; ma di questo, quasi certamente, il padre non se ne era reso conto: Per James essere un’artista significava poter obbedire alla propria ispirazione, al proprio gusto, senza doversi occupare di necessità e obbligazioni di ordine fisico e morale [...] L. Simon, op. cit., p. 41.

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decisiva per il futuro di William James: in quelle aule egli formerà il proprio pensiero e stringerà importanti amicizie79. La pedagogia di Henry James infatti, oltre a essere discutibile nei suoi propositi, si dimostrò anche fallimentare80; gli scopi che il padre troppo premuroso cercava di raggiungere non trovarono mai la propria realizzazione e, probabilmente, fu meglio così.

i Cercheremo qui di tracciare brevemente le tappe percorse dai James nel ventennio che va dall’inizio degli anni ’40 all’inizio degli anni ’60. A questo scopo faremo riferimento soprattutto alla biografia di Gay Allen, che, da questo punto di vista, è certamente la più chiara. Dopo il periodo trascorso in Inghilterra (durante il quale Henry James attraversò la sua ‘vastation’) I James tornarono a Parigi, che era stata la prima tappa del viaggio in Europa, e, nel 1845 salparono per l’America. In patria non riuscirono a trovare una dimora stabile fino a quando, dopo un periodo trascorso ad Albany, si trasferirono, nel 1847, a New York; qui il piccolo William fu affidato a diversi precettori e, solo all’inizio degli anni ’50 venne iscritto a una scuola privata chiamata Institute Vergnès. William si inserì abbastanza bene nell’ambiente scolastico e cominciò a nutrire una passione che lo accompagnerà durante tutta l’adolescenza: la pittura (questa materia era insegnata allora da un certo Coe, molto amato da William James); ma Henry James non era soddisfatto dell’educazione dei propri figli quanto lo erano essi stessi e perciò decise, nel Giugno del 1855, di dare una svolta alla vita dell’intera famiglia: la meta era la Svizzera; lì Henry pensava che i figli avrebbero trovato un’educazione migliore di quella che potevano ricevere in patria e questa convinzione nasceva soprattutto dal fatto che molti suoi ricchi amici avevano mandato i propri figli a studiare in scuole svizzere. Ancora una volta l’Europa aveva esercitato sul padre di William il suo fascino irresistibile, ma il viaggio in Svizzera non sarà che una tappa dell’itinerario percorso dai James durante gli anni a venire: prima di giungere a Ginevra Henry decise di rivisitare Londra e Parigi; giunti finalmente nella cittadina svizzera egli iscrisse William alla Roediger School; gli sembrava la scuola più adatta principalmente per due motivi: gli alunni americani erano pochi e lo studio delle lingue era privilegiato sopra ogni altra materia e Henry voleva che i propri figli imparassero a parlare fluentemente il francese e il tedesco. Già in Settembre però, il padre di William aveva realizzato che le scuole svizzere erano decisamente sopravvalutate e quindi risolse di trasferire tutta la famiglia a Parigi, passando per Lione; ma anche nella capitale francese la sosta non durò molto; era la volta di Londra: qui egli decise di non iscrivere i propri figli a una scuola, ma di affidarli a un precettore; si trattava del signor Thompson, uno scozzese che in seguito avrebbe insegnato anche a Robert Louis Stevenson. Le lezioni di Thompson non erano troppo impegnative e così William ebbe il tempo di dedicarsi alla sua passione: la pittura; sebbene avesse ricevuto un’educazione tecnica in materia solo durante il periodo passato a New York con il signor Coe, egli riusciva discretamente nel dipingere paesaggi e nello schizzare ritratti di persone. Comunque, già nel Maggio del 1856, l’Inghilterra era già venuta a noia a Henry James; era ora di tornare a Parigi! Il signor Thompson non seguì i James nel loro ennesimo trasloco e venne

Il più noto fra questi è senza dubbio il filosofo Charles Sanders Peirce, cui James rimase legato, umanamente più che intellettualmente, per tutta la vita. 79

Cambiando continuamente gli insegnanti e le scuole dove studiavano i propri figli, egli li espose naturalmente ad una massa di differenti idee e metodi, sebbene questo eclettismo non fosse affatto desiderato. Ivi, p. 47. Anche Allen non si sottrae dal condannare apertamente l’educazione ‘originale’ che Henry James cercava di imporre a William James: La difficoltà principale nell’ideale concezione pedagogica di Henry Sr. Stava nella sua impossibilità a realizzarsi; di qui il continuo cambio di tutori, scuole e programmi di studio. Solo lui avrebbe potuto educare i figli nella maniera voluta, ma non ne aveva la pazienza e non si sentiva in grado. L’ultima scuola che scelse per i propri figli a New York si dimostrò una scelta sballata come le altre. G. W. Allen, op. cit., p. 28. Anche Dewey riconosce l’importanza della figura paterna per comprendere lo stile, oltre che la personalità, di James, ma sembra coglierne solo gli aspetti positivi: [...] senza conoscere un po’ il padre e il modo in cui questi ignorava le convenzioni e i rispetti intellettuali della sua epoca è difficile ottenere una visione adeguata del dono che aveva William James di una dizione lucida e pittoresca e di una non repressa originalità di pensiero. J. Dewey, I problemi di tutti, Arnoldo Mondadori, Milano 1950, p. 457. Bjork, sempre teso, come vedremo anche in seguito, a distruggere una certa visione ‘classica’ della formazione intellettuale e personale di James (fondata soprattutto sullo studio degli anni giovanili), ritiene che troppo peso sia stato dato alla figura del “mistico swedenborghiano”: [...] Sono convinto che il legame intellettuale ed emotivo con il padre, l’eccentrico, il mistico Henry James, sia stato considerevolmente sopravvalutato. D. Bjork, op. cit., p. xv. Lo stesso William James, scrivendo nel 1858 all’amico Edgard van Winkle, disse che sebbene i viaggi all’estero non fossero stati una perdita di tempo, gli stessi risultati si sarebbero potuti ottenere standosene a casa. CWJ IV, pp. 16-17; cit. in L. Simon, op. cit., p. 61. 80

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sostituito dal signor Lerambert, che si doveva occupare esclusivamente della formazione di William e del fratello Henry. In questo periodo alla passione per la pittura si aggiunse nel giovane William anche quello per la scienza: egli studiava le reazioni chimiche e i fenomeni dell’elettricità, ma, più che alla teoria, era interessato alla pratica, tant’è che un angolo della sua casa divenne un piccolo laboratorio. Nel frattempo, il signor Lerambert aveva già deluso le aspettative di Henry James che decise allora di fare un ulteriore ‘esperimento educativo’ iscrivendo William a una scuola quanto meno bizzarra; si trattava dell’Institution Fezandié, una scuola diretta appunto dal signor Fezandié, seguace di Fourier che, dopo varie imprese tentate e fallite aveva deciso di aprire una istituto; William non ebbe un ricordo preciso di questo periodo, anche perché, come di consueto, esso fu decisamente di breve durata: nell’estate del 1857 Henry James, la moglie e i cinque figli si trasferirono a Boulogne-sur-Mer, una cittadina non lontana da Calais. Qui i tre figli maggiori (Garth Wilkinson era il terzogenito) frequentarono il Collège Impérial, una scuola molto valida e che lasciò una traccia positiva nei ricordi di William. Intanto Henry James progettava nuovi cambiamenti: egli aveva inizialmente pensato di recarsi con tutta la famiglia in Germania per l’inverno del 1857-58, ma una malattia di Henry Jr. aveva compromesso questi piani; decise dunque di tornare al vecchio appartamento a Parigi. Fu proprio nella capitale francese che Henry James venne a conoscenza della crisi finanziaria che stava scuotendo gli Stati Uniti in quel periodo ed egli, come rentier, non era certo fra coloro che rischiavano meno da una bancarotta generale. L’appartamento parigino si mostrava, viste le mutate condizioni economiche, troppo costoso e quindi, su suggerimento della moglie Alice, il padre di William decise di ritonare a Boulogne-sur-Mer, dove i James rimasero fino all’inverno del 1858. La bufera finanziaria si era ormai spenta e, sebbene con un patrimonio ridimensionato, Henry James era pronto a riportare la sua famiglia negli Stati Uniti. Visto che la casa Newyorchese era attualmente affittata, Henry James decise di trasferirsi prima ad Albany (la terra di suo padre) e poi a Newport; qui i figli vennero iscritti al Berkeley Institute. A Newport William James ebbe l’occasione di conoscere John Lafarge, un giovane pittore molto affascinante che stava studiando nell’atelier di un artista abbastanza noto a quel tempo: William Hunt. Henry James non era però del parere che il figlio maggiore si dedicasse ad attività artistiche; egli aveva in progetto per lui una carriera scientifica (sebbene non ancora ben specificata) e aveva già deliberato di iscrivere William alla Scientific School di Harvard ma, non trovando un alloggio conveniente a Cambridge, decise di posticipare l’evento e di....tornare in Europa! Nel 1859 dunque la famiglia James tornava al completo nel Vecchio Continente. La destinazione era Ginevra; vi arrivarono sostando prima a Parigi e poi a Lione. Giunti nella città svizzera, William venne iscritto all’Academy, dove poté stupire i propri professori per la padronanza della lingua francese. Questo fu un periodo sereno per Wailliam, ma non per suo padre che, nel 1860, non sopportando il clima lacustre, decise nuovamente di trasferirsi altrove; i figli avrebbero dovuto imparare anche la lingua tedesca: inizialmente si stabilirono a Bonn. William viveva e studiava tedesco a casa del signor Stromberg, a Francoforte, adattandosi molto bene alla vita del posto; ma anche questa permanenza era destinata a essere di breve durata: mentre tutta la famiglia era infatti riunita a Bonn, William vide soddisfatto dal padre il proprio desiderio di tornare a Newport per studiare pittura (un desiderio che non lo aveva mai abbandonato) nello studio di William Hunt. Il padre non era contento di questa decisione, ma risolse di far provare al primogenito questa nuova esperienza. Il 24 Settembre del 1860, dopo aver sostato una settimana a Parigi, i James salparono per New York. William, A Newport, seguì le lezioni del maestro Hunt, ma ben presto si accorse di non essere tagliato per la professione artistica e, quasi contemporaneamente allo scoppio della Guerra di Secessione, nella primavera del 1861, decise di abbandonare il sogno di divenire pittore. Poco dopo si sarebbe iscritto alla già citata Lawrence Scientific School, a Harvard, come il padre aveva da tempo desiderato. ii Come accennato, William James si iscrisse alla Lawrence Scientific School poco dopo l’inizio della Guerra Civile americana. Questa non fu semplicemente una ‘coincidenza’. William era infatti in età di leva e avrebbe potuto benissimo arruolarsi nell’esercito. Di fatto non lo fece; i motivi di questa scelta non sono chiarissimi; è vero infatti che le sue condizioni di salute non erano ottime, ma questo non gli avrebbe certo impedito, se avesse voluto, di partecipare — anche come ausiliario — al conflitto che avrebbe definitivamente abolito la schiavitù in Nord America (il Perry è fra coloro che sostengono che il mancato arruolamento di William fosse dovuto alla sua debole costituzione fisica; cfr. TCWJ I, p. 203). Alcuni hanno sostenuto che William non partecipò alla guerra in quanto poco coinvolto emotivamente e questa può essere certamente un’ipotesi plausibile, anche se sembra strano che un ragazzo di diciannove anni non provi alcun sentimento di parte in un conflitto così caratterizzato ideologicamente (Bjork sembra propendere comunque verso una spiegazione di questo tipo; William James non si sarebbe arruolato perché non aveva ancora sviluppato alcuna idea personale nei confronti della schiavitù; cfr. D. Bjork, op. cit., p. 53. In effetti questo non è nemmeno del tutto improbabile, dal momento che lo stesso Henry James non sembra fosse particolarmente interessato alle ragioni dei due schieramenti) Altri hanno ipotizzato che William abbia ‘barattato’ il proprio arruolamento con la possibilità di iscriversi alla Lawrence; in questo caso però bisognerebbe presupporre un precedente rifiuto del padre a che il figlio si dedicasse agli studi scientifici, mentre è pacifico che Henry James aveva pensato alla Scientific School di Harvard come a una buona prospettiva per la formazione del primogenito: nel 1861 William si rende disponibile per la guerra e allora dal momento che il padre era terrorizzato da questa ipotesi riesce a ottenere, come “scambio” per la rinuncia a partire soldato di poter frequentare la Lawrence Scientific School; il padre era comunque sicuro che anche in questo caso la faccenda si sarebbe risolta come nel caso dell’arte, e quindi il figlio sarebbe presto tornato all’educazione erudita auspicata dal padre. L. Simon, op. cit., p. 87. La Guerra rappresentò invece una ‘buona occasione’ per i due fratelli più piccoli di James: Robertson e Wilkinson infatti si arruolarono appena in età e parteciparono anche valorosamente alle battaglie decisive del conflitto. Da quando la guerra era scoppiata Henry James Sr. aveva cambiato parere e ora si schierava sempre più decisamente con l’Unione, ma sebbene questo mutamento d’opinione possa essere inteso come decisivo per l’arruolamento dei due figli minori, è anche vero che come ricorda Allen, la Guerra significava per essi soprattutto una concreta possibilità di uscire dall’ambiente familiare e di trovare finalmente quella libertà cui tutti i figli di 22 Henry James sembravano tanto anelare.


Capitolo 1.2

Lawrence Scientific School e Medical School a Harvard La filosofia è un prodotto del temperamento, ma il temperamento non è un prodotto della filosofia. — P. Weigand Non conosco nessun altro pensatore moderno la cui filosofia debba così poco alla dialettica e alla tradizione (di solito di seconda mano) e tanto a situazioni vitalmente sperimentate, e tali da avere, nel senso proprio della parola, qualità morale. — J. Dewey

1.2.1 Dalla chimica alla biologia — evoluzionismo a Harvard All’età di diciott’anni William James si trovava di fronte a una nuova ‘avventura’ educativa; egli aveva già un’esperienza notevole in materia di scuole, di professori e di precettori, per lo meno da un punto di vista ‘quantitativo’ e probabilmente l’iscrizione alla Lawrence Scientific School gli apparve come un ennesimo gradino nell’improbabile scala pedagogica che il padre aveva cercato affannosamente di costruire per tanti anni; il fatto poi che questa scelta non soddisfacesse pienamente né il padre né i figlio non rappresentava certo il migliore auspicio1. Ma le cose non andarono così; sebbene in effetti il giovane William dovette ‘cambiare rotta’ un paio di volte prima di trovare la sua strada definitiva, quella della medicina, e sebbene questa strada s’interruppe col conseguimento della laurea2, è vero che solo con l’iscrizione alla Lawrence possiamo scorgere finalmente quelle basi intellettuali e culturali — e non solo caratteriali o emotive com’era stato precedentemente — su cui James costruirà il suo pensiero futuro.

Come abbiamo visto nel capitolo precedente il giovane William aveva da poco dovuto abbandonare il sogno di diventare un artista e il padre stesso aveva accettato che il figlio frequentasse la scuola di Harvard sebbene conservasse la speranza, non tanto celata, ch’egli avrebbe presto seguito le sue (sbiadite) orme, dedicandosi all’erudizione finalizzata allo studio della morale, soprattutto in relazione alla religione: Il pensiero paterno aveva sviluppato in James una predisposizione per le tematiche religiose e la speranza di una loro conciliazione con il sapere scientifico, ma la sua educazione scientifica mise subito a dura prova le convinzioni religiose professate da Henry James Sr. P. J. Croce, op. cit., p. 85. Ci si potrebbe chiedere però perché William James si iscrisse proprio alla Lawrence che, dopotutto, era un istituto ancora giovane e quindi privo delle garanzie che potevano offrire istituti ben consolidati, in Europa; la risposta, ancora una volta, è contenuta nelle idiosincrasie del padre: Nonostante la presenza di autorevoli scienziati a Harvard, William James avrebbe certamente potuto ottenere una migliore educazione scientifica in Europa, ma quest’ipotesi non fu mai presa seriamente in considerazione, dato che Henry Sr. non sopportava l’idea di separarsi per lungo tempo dal primogenito. G. W. Allen, op. cit., p. 75. 1

2 William James si laureò nella primavera del 1869 consapevole che non avrebbe mai esercitato la professione medica. Questo potrebbe essere considerato un ennesimo insuccesso nella ‘ricerca vocazionale’ di James e sicuramente in parte lo fu; ma è anche vero che James avrebbe sviluppato in seguito un pensiero refrattario alle classificazioni e alle schematizzazioni con cui anche la pedagogia del tempo si trovava a fare i conti.


Invece di rappresentare un ennesimo cambiamento nella storia “vocazionale” di James, l’iscrizione alla Lawrence Scientific School rappresentò un passo fondamentale verso la scoperta di una vera carriera 3.

L’esperienza a Harvard è fondamentale nella vita e nella carriera di James per diversi motivi: prima di tutto, essa rappresenta il primo vero distacco — anche se per ora solo da un punto di vista intellettuale — dalla tutela paterna. Il giovane William non avrà più a che fare con professori e precettori in balia delle variabili intenzioni di un padre difficilmente incomprensibile: a Cambridge egli potrà confrontarsi con alcuni dei maggiori intelletti del tempo, capaci di stimolarlo non solo da un punto di vista accademico, ma anche umano e personale; inoltre egli avrà l’opportunità di conoscere un pensiero radicalmente nuovo, come l’evoluzionismo darwiniano, che lo accompagnerà per tutta la vita, un pensiero che stava trovando i primi sostenitori in America proprio all’inizio degli anni ‘60.

William James poi, riuscirà finalmente, sebbene in maniera lenta e tortuosa, a definire meglio i propri interessi e non quelli ‘indotti’ dal padre o dalle sue reazioni alla volontà paterna. In questa prospettiva, i cambiamenti di indirizzo che James attraversò dopo essersi iscritto alla Lawrence vanno interpretati non come un’ulteriore serie di insuccessi, ma come il tentativo di un giovane intelligente e ambizioso di trovare la propria strada, nella professione, ma soprattutto nella vita.

James, per quanto giovane, aveva già avuto delle salde amicizie4, ma solo a Cambridge stringerà dei legami duraturi con dei giovani brillanti che tanto conteranno per il suo sviluppo intellettuale e solo durante questi anni egli potrà raggiungere quell’autonomia dal padre che gli permetterà di compiere un lungo viaggio in terre sconosciute (l’America del Sud) e un viaggio in Europa finalizzato all’approfondimento dei propri interessi e alla ricerca della propria vocazione. A questi anni risalgono poi i temi, psicologici e filosofici, che avrebbero accompagnato James per tutta la carriera di insegnante e di scrittore: il rapporto mente-corpo, la causalità, l’analisi delle dottrine materialistiche, e, the last but not the least, il tema della libertà dell’uomo.

3

D. Bjork, op. cit., p. 36.

4 La Farge, Van Winkle, Minny Temple; per i primi anni ’70 vanno ricordati: Oliver W. Holmes, James Jackson Putnam, Shaler e John Gray e tanti altri.

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William James cominciò a frequentare le aule della Lawrence Scientific School come studente di chimica; il suo professore era C. W. Eliot, con cui in seguito dovrà continuare a mantenere degli stretti legami, visto che diventerà il rettore della Harvard University.5 Il giovane James non si dimostrò un cattivo studente, durante i primi corsi, ma certamente cominciava a convincersi del fatto che la chimica non sarebbe stata la passione di una vita e forse di questo si accorsero prima i suoi stessi professori6.

All’inizio degli anni ‘60 si era accesa negli Stati Uniti una battaglia intellettuale che non poteva non affascinare il giovane William James. Il pomo della discordia era rappresentato da una dottrina ch’era apparsa in Inghilterra due anni prima dell’iscrizione di James alla Lawrence; si trattava della dottrina dell’evoluzione delle specie per selezione naturale; Darwin era appena ‘sbarcato’ in America e l’istituto che il vecchio Henry James aveva pensato avrebbe potuto garantire al figlio certezza scientifica e basi solide per la giustificazione di una morale ‘religiosamente fondata’ si trovava ora a essere al centro di quella ‘tempesta’ — quella evoluzionistica appunto — che avrebbe segnato un cambiamento epocale per tutto il pensiero scientifico e filosofico occidentale, ben oltre i limiti della biologia7; oltretutto, i protagonisti principali di questa ‘battaglia’ erano personaggi affascinanti di per sé, dotati di un carisma che né il futuro rettore di Harvard né Henry James Sr. potevano vantare8.

In quel periodo [fine del 1862] comunque James aveva capito che la chimica non avrebbe rappresentato la sua occupazione né Eliot sarebbe stato il suo mentore. Egli decise invece di studiare con Louis Agassiz e di diventare naturalista. [...] La sua reputazione di livello

5 James era desideroso di studiare la chimica e così fu assegnato al corso tenuto da C. W. Eliot. G. W. Allen, op. cit., p. 75. Si ricorderà inoltre, che James, ancora adolescente, aveva già dimostrato un grande interesse per la chimica, o per lo meno era rimasto affascinato dal suo aspetto sperimentale. Ora avrebbe avuto a disposizione microscopi molto più professionali e degli insegnanti capaci di dirigerne la curiosità. Dell’importanza di Eliot, sia come insegnante che come rettore, avremo ancora modo di parlare nella Parte Terza. 6 Anche alla Lawrence James si occupava di chimica, ma — come ricordava il prof. Eliot — era più interessato a scoperte pionieristiche piuttosto che ai corsi standard.. L. Simon, op. cit., p. 90. James trovava la chimica e l’approccio di Eliot poco interessanti. P. J. Croce, op. cit., p. 136. 7 L’origine delle specie di Darwin apparve nel 1859 e pressappoco nello stesso periodo ebbe pubblico riconoscimento il principio di conservazione dell’energia [...] Questi non furono semplicemente due successi della ricerca scientifica: essi costituirono infatti una sfida alla religione e a ogni sistema di pensiero che mettesse l’uomo in una posizione privilegiata.. TCWJ I, p. 463. In qualche modo gli Stati Uniti durante gli ultimi tre decenni del secolo decimo nono e agli inizi del ventesimo furono il “paese darwiniano”. L’Inghilterra diede Darwin al mondo, ma gli Stati Uniti diedero al darwinismo un’accoglienza particolarmente veloce e simpatetica. R. Hofstadter, Social Darwinism in American Thought, Beacon Press, Boston 1944, pp. 4-5. 8 E’ comunque importante sottolineare che l’interesse di James per l’evoluzionismo darwiniano sorse proprio in seguito alla conoscenza diretta di personaggi come Agassiz e Wyman e non prima; rimane comunque difficile stabilire quanto del fascino di quegli uomini fosse dovuto all’argomento trattato e quanto alle loro capacità professionali.

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internazionale e il suo magnetismo personale lo resero la stella della Lawrence Scientific School. Per alcuni, ad Harvard, il suo anti-darwinismo non fece che accrescere il suo fascino9.

Louis Agassiz10 era uno scienziato di origine svizzera che si era da qualche anno trasferito egli Stati Uniti per proseguire i suoi studi; sebbene oggi il suo nome sia poco sconosciuto, al tempo egli era considerato uno dei naturalisti più validi; le sue ricerche spaziavano dalla geologia all’embriologia11 e la sua fama era legata soprattutto alla sua teoria sulla formazione dei ghiacciai12.

Non si può dire certo che James avesse avuto sempre un grande interesse per la geologia, l’ittiologia etc., ma, come abbiamo detto, egli subì soprattutto il fascino di una figura che sembrava essere un gradino al di sopra di tutti i professori che aveva fino ad allora avuto, compreso Eliot13: già durante il primo anno alla Lawrence infatti, il giovane James aveva potuto assistere alle lezioni di Agassizi:

9 Non esistono tracce, negli appunti del tempo né negli scritti successivi, del fatto che James sia mai stato un antidarwiniano; Agassiz lo aveva attratto per il suo carisma personale, per la fama che aveva portato con sé dall’Europa e per gli argomenti trattati, tra cui appunto l’evoluzionismo; il tema delle lezioni era molto più importante della posizione sostenuta dal famoso scienziato svizzero e ancora più importante era lo ‘stile’ che caratterizzava le sue ricerche: L’origine delle specie di Darwin, pubblicato nel 1859, infiammava a quel tempo il dibattito fra naturalisti e filosofi, che protestavano sia contro il metodo utilizzato dal naturalista inglese, sia contro i risultati raggiunti con questo metodo. Agassiz, in compagnia di molti fra i suoi colleghi, si rifiutava di accogliere seriamente i risultati della teoria darwiniana; a suo giudizio era in contraddizione con la natura e dava assenso ad un universo senza Dio. James fu uno dei tanti che affollarono le aule in cui Agassiz attaccava il darwinismo; ma non erano le teorie di Agassiz a spingerlo fino là.; egli, infatti, era attratto dalla convinzione di Agassiz che, per diventare un naturalista, più che “ingozzarsi” di conoscenze, fosse utile imparare a pensare creativamente e con autonomia. L. Simon, op. cit. p. 90. 10

Cfr. Edward Lurie, Louis Agassiz; A Life in Science, University of Chicago Press, Chicago 1960.

11 E’ interessante notare come, mentre Agassiz non fece che combattere strenuamente — potremmo dire eroicamente — la teoria evolutiva di Darwin, questi, al contrario, pur essendo ovviamente lontano dalla posizione cuvieristica dello scienziato svizzero, non si faceva scrupolo di utilizzare le informazioni che quest’ultimo aveva accumulato nella sua vita per dare forma a una teoria radicalmente nuova; in una delle numerose citazioni a proposito di Louis Agassiz, scrive Darwin: Agassiz e molti altri giudici competenti sostengono che gli animali antichi assomigliano in certo grado agli embrioni degli animali attuali che appartengono alla stessa classe; e sostengono anche che la successione geologica delle forme estinte ha un andamento quasi parallelo a quello dello sviluppo embriologico delle forme attuali. Quest’ipotesi concorda mirabilmente con la nostra teoria. In un prossimo capitolo cercherò di mostrare che l’adulto differisce dall’embrione a causa di variazioni sopravvenute non in età precoce, che sono state ereditate dai discendenti all’età corrispondente. C. Darwin, L’origine delle specie, Bollati Boringhieri, Torino 1967, p. 422. Chi conosce l’importanza dell’embriologia per la costruzione della teoria evoluzionistica darwiniana non può certamente ritenere questa una citazione “di cortesia”. 12 Louis Agassiz, quarantenne, era arrivato in America poco tempo prima, portando con sé un’enorme reputazione come uno degli scienziati più autorevoli d’Europa. Lo svizzero Agassiz era una vera forza della natura. Senza dubbio egli si era costruito una solida reputazione per le sue ricerche sulla formazione dei ghiacciai, sull’ittiologia, l’embriologia, l’anatomia e la paleontologia. G. W. Allen, op. cit., p. 74. 13 Sul ruolo di Eliot come professore e preside dell’Harvard University cfr. Hugh Hawkins, Between Harvard and America; The Educational Leadership of Charles W. Eliot, Oxford University Press, New York 1972; Samuel Eliot Morison, The Development of Harvard University Since the Inauguration of President Eliot: 1869-1929, Harvard University Press, Cambridge 1930; Henry James III [figlio di William James], Charles William Eliot; President of Harvard University, 1869-1909, 2 voll. Houghton Mifflin & Co., Boston 1930 e ovviamente il classico, di Bruce Kuklick, The Rise of American Philosophy, Cambridge, Massachusetts, 1860-1930. Yale University Press, New Haven 1977, pp. 129-139.

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Durante l’autunno [1861] James aveva assistito a conferenze pubbliche tenute da Agassiz a Boston (“Sul metodo nella storia naturale”) e pure aveva potuto ascoltare alcune lezioni di anatomia comparata tenute dal Prof. Wyman14.

James vedeva in Agassiz il naturalista ‘puro’, scevro di pregiudizi metafisici e intento a cercare la verità nel libro della natura piuttosto che in quelli di filosofia; questa concretezza, che già si era rivelata nel James fanciullo intento a fare esperimenti improbabili armato del proprio microscopio e di tanta curiosità, era forse ciò che maggiormente mancava al padre Henry. Ma lo scienziato svizzero non era affatto quel campione di ‘neutralità scientifica’ che James aveva immaginato. Agassiz, ricalcando la carriera di tanti scienziati, cominciò il suo inarrestabile declino proprio negli anni che sembravano dare eternità al suo nome e alla sua opera e James non tarderà ad accorgersene.

Come abbiamo detto, Louis Agassiz aveva negli anni ’60 già da tempo formulato tutta una serie di teorie sulla formazione della terra e delle specie animali; già prima della pubblicazione dell’Origin of Species di Darwin si schierato con coloro — al tempo la grande maggioranza della comunità scientifica — che credevano in una creazione divina e ‘speciale’ per tutte le forme di vita; l’uomo era la più nobile creatura divina e come tale doveva essere considerata: immutabile. L’idea di una graduale ‘trasformazione’ dall’animale all’uomo era per lui totalmente inconcepibile; non solo: essa era scientificamente inconcepibile. Quando nel 1859 venne pubblicato il capolavoro di Darwin, Agassiz era già pronto a dare battaglia e la sua sarebbe stata una battaglia combattuta non solo sul campo scientifico, ma anche su quello religioso e morale15.

G. W. Allen, op. cit., p. 83. [...] L’unica possibilità che James avesse di sentire le lezioni di Agassiz — o di altri scienziati — era rappresentata dalle lezioni pubbliche. Per studiare biologia sotto la guida di Wyman, o per lavorare al museo di Agassiz, egli avrebbe dovuto trasferirsi al Dipartimento di Biologia o al Museo [di Agassiz]. Ivi, p. 75. 14

Agassiz non fu certo l’unico a rimanere sulle proprie posizioni anche anni dopo la pubblicazione dell’Origin, e non vi è dubbio che negli anni ‘60 — come per parecchi anni a seguire — la teoria evoluzionistica di Darwin fosse fatta più di dubbi che di certezze; se egli si fosse ‘limitato’, come molti suoi colleghi, a criticare e a mettere in dubbio la dottrina di Charles Darwin probabilmente non avrebbe subito quel declino inarrestabile. Agassiz invece, riteneva che la teoria evoluzionistica per selezione naturale non fosse nemmeno da prendere in considerazione; essa non era una dottrina scientifica, ma una minaccia per la scienza, la morale e la religione di cui si era nutrito fino ad allora. Lo scienziato svizzero cominciò lentamente a perdere di credibilità, e con essa perse anche numerosi suoi allievi che avevano sempre fedelmente seguito i suoi insegnamenti; uno di questi era [...] Joseph le Conte, allievo di Agassiz e di Asa Gray.. Dapprima, d’accordo con Agassiz, rifiutò l’evoluzionismo darwiniano; poi si convertì proclamandolo come la legge rigorosamente scientifica della “causalità nel tempo”, come la gravitazione è la legge della “causalità nello spazio”. C. Sini, Il pragmatismo americano, Laterza, Bari 1972, p. 53. 15

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Per una buffa coincidenza nella storia del pensiero scientifico, Louis Agassiz aveva affrontato ‘definitivamente’ il problema dell’evoluzione proprio nell’anno 1859 con il suo An Essay on Classification16. La sua posizione decisamente critica nei confronti della teoria evolutiva per selezione naturale è facilmente spiegabile se compresa all’interno di una visione della scienza profondamente diversa da quella di Charles Darwin: lo scienziato svizzero non vide mai nella scienza uno strumento autonomo per la comprensione della natura; questa doveva essere ancilla theologiae, ovvero doveva permettere all’uomo di conoscere meglio i pensieri di Dio, il creatore della natura17. L’evoluzionismo darwiniano, pretendendo di spiegare ‘dall’interno’ lo sviluppo della natura si scontrava irrimediabilmente con la sua concezione del mondo inteso come creazione, effetto di una causa che sta al di fuori di esso. Per quanto a noi possa oggi sembrare assurda la posizione di Agassiz, rimane il fatto ch’essa era sostenuta da una ben precisa, e per certi versi solida, epistemologia, e nient’affatto da un imprecisato riferimento all’autorità delle Sacre Scritture18.

Questa ‘battaglia’ cui James partecipò inizialmente come spettatore non si svolse però direttamente tra il conservatore Agassiz e il rivoluzionario Darwin; a Harvard infatti non erano pochi coloro che cominciavano a guardare all’evoluzionismo darwiniano come a una valida teoria scientifica, o per lo meno come a una teoria con cui confrontarsi seriamente e scientificamente. E’ noto che Nel 1857 Darwin

A dire il vero, e quindi rinunciando in parte a quella coincidenza cronologica cui abbiamo fatto sopra riferimento, la sua teoria era già stata pubblicata nel 1857 come prima parte di una serie di “contributiuons” di vari autori. Agassiz ripropose poi le sue teorie verso la fine della sua vita, nell’articolo Evolution and Permanent Type, comparso sull’Atlantic Monthly nel 1874. Proprio in questo articolo egli propose una versione che potremmo definire ‘ristretta’ dell’evoluzione naturale, criticando aspramente la versione ‘larga’ di paternità darwiniana; si tratta di un evoluzionismo decisamente ‘ristretto’, in quanto, rifiutando la rivoluzionarietà della dottrina di Charles Darwin (la trasformazione di una specie in un’altra) propone una teoria di sviluppi ciclici all’interno di singole specie, non trasmutabili in altre; l’evoluzione risulta allora essere: “Una legge che controlla lo sviluppo e mantiene i tipi dentro precisi cicli di crescita, che ritornano sempre su se stessi, tornando a precisi intervalli allo stesso punto di partenza e ripetendo attraverso una successione di fasi lo stesso corso”. P. R. Anderson e M. H. Fisch, Philosophy in America from Puritans to James, D. Appleton-Century Co., New York 1939, p. 376. 16

17 Lo stesso Henry James aveva iscritto il figlio maggiore alla Lawrence nella speranza che qui avrebbe così rafforzato la (debole) fede religiosa attraverso gli studi scientifici; non ci potrebbe essere un caso più emblematico di eterogenesi dei fini: Dal momento che il libro di Darwin rappresentava il termine della tendenza naturalistica scientifica e presentava un nuovo approccio alla spiegazione scientifica, che facesse uso di ipotesi e del concetto di probabilità, egli offriva una sfida fondamentale per pensatori che, come Henry James, credevano che il progresso scientifico potesse rafforzare la fede religiosa. P. J. Croce, op. cit., p. 99. 18 “I più avanzati darwiniani sembrano riluttanti a riconoscere l’intervento di un potere intellettuale nella diversità che si riscontra nella natura, sotto il pretesto che una tale ammissione implica distinti atti creativi per ogni specie. Che cosa ne verrebbe, se fosse vero? Hanno mai considerato, quelli che obiettano a ripetuti atti di creazione, che nessun progresso può essere fatto nella conoscenza senza ripetuti atti di pensiero? E che cosa sono i pensieri se non atti specifici della mente? Perché allora dovrebbe essere non-scientifico inferiore che i fatti di natura sono il risultato di un processo analogo, dal momento che non vi è prova di qualche altra causa?. P. R. Anderson e M. H. Fisch, op. cit., p. 377. E’ evidente che la posizione di Agassiz non è attaccabile ‘dall’interno’.

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aveva anticipato la propria teoria ad Asa Gray , che divenne poi fedele sostenitore della teoria evoluzionistica in America, in opposizione ad Agassiz19.

La rivoluzione darwiniana era accesamente dibattuta a Harvard, dove l’amato [sic] professore di James, Louis Agassiz, era il maggior oppositore americano di Darwin, mentre un altro dei suoi maestri, Asa Gray, era amico del naturalista inglese e aveva scritto l’introduzione alla prima edizione americana dell’Origin20.

Ma Agassiz non doveva confrontarsi solo con il professor Gray:

The Origin of Species apparve due anni prima che James si iscrivesse alla Lawrence Scientific School nel 1861. Tra i maestri di James, l’anatomista Jeffries Wyman difendeva l’evoluzione, mentre il naturalista Louis Agassiz vi si opponeva21.

Wyman non può essere considerato un darwiniano ‘della prima ora’; egli infatti nutrì inizialmente dei forti dubbi sulla validità delle recenti teorie evoluzionistiche22; certamente però vi si avvicinò sempre

19

G. W. Allen, op. cit., p. 74.

M. H. DeArmey e S. Skousgaard (a cura di), The Philosophical Psychology of William James, Center for Advanced Research in Phenomenology & University Press of America, Washington 1986, p. 22. L’importanza di Gray per la formazione del giovane James è riconosciuta da tutti i critici più importanti; cfr. anche la recente biografia della Simon: Altri [oltre ad Agassiz] che suscitarono profondo interesse in James furono uomini come il biologo Asa Gray e l’anatomista Jeffrey Wymann. L. Simon, op. cit., p. 90. L’insegnamento di Wyman a proposito della teoria evoluzionistica verrà ricordato da James anche negli ultimissimi anni di vita; com’è noto, James si occupò per moltissimi anni di fenomeni paranormali, e, quando tutti misero in dubbio — come si vide poi a buon diritto — la veracità delle esperienze dell’allora famosa medium Eusapia Palladino, egli ricordò quello che gli aveva detto Wyman a proposito della teoria darwiniana, ma non solo: “Quando una teoria si diffonde sempre più”, gli disse Wyman, “risollevandosi sempre più fresca e vitale dopo essere stata seppellita dalla critica ortodossa, e diventando così sempre più difficile da combattere e sconfiggere, puoi star sicuro che in quella teoria c’è del vero” W. James, Confidences of a ‘Psychical Researcher’, in EPR, pp. 362-363. 20

21 William Woodward, James’s Evolutionary Epistemology; Necessary Truths and the Effects of Experience, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, American Psychological Association, Washington 1992, p. 156. [...] Ralph Barton Perry riferisce che “l’evoluzione fu uno dei primi problemi scientifici cui James si dedicò sistematicamente”; studiosi più recenti sembrano concordare con questa affermazione (Wiener, 1949; Ford, 1982; Richards, 1987) Sebbene questo consenso riguardo l’ispirazione delle idee evoluzionistiche è ancora popolare, i suoi dettagli non sono ancora abbastanza chiari Io ritengo che i pragmatisti di Cambridge fossero molto più critici nei confronti di Darwin e molto di più presero dalla tradizione tedesca di quanto lasciassero capire. [...] Certo, James criticò Kant e [...] protestò contro la “crescente febbre” speculativa hegeliana, ma non per questo egli non studiò i modelli di giudizio e le teorie del metodo scientifico dei kantiani. Ma, prima di tutto, [James] doveva passare attraverso le posizioni empiristiche di Chauncey Wright e di Herbert Spencer. Ibidem. Per quanto riguarda i riferimenti bibliografici: Philip Wiener, Evolution and the Founders of Pragmatism, Harvard University Press, Cambridge 1949; Marcus P. Ford, William James’s Philosophy; A New Perspective, University of Massachusetts Press, Amherst 1982; Robert J. Richards, op. cit. Vedremo in seguito tutti questi temi in dettaglio (soprattutto il rapporto di James con l’opera di Spencer e con la figura di Wright); sicuramente possiamo dire che l’atteggiamento del James di questo periodo è di grande curiosità verso la teoria evoluzionistica darwiniana, una curiosità che lo fece avvicinare rapidamente a Wyman e Gray, raffreddando perciò i suoi primi entusiasmi verso Louis Agassiz: L’introduzione di James al pensiero di Darwin venne probabilmente favorita dal professor Jeffries Wyman, difensore dell’evoluzionismo contro il cuvierismo di Agassiz. R. J. Richards, op. cit., p. 424. 22 Come Gray prima di lui e James dopo di lui, Wyman accettò il darwinismo non con la certezza di una prova, ma come una teoria probabile e plausibile. Croce, op. cit., p. 142.

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più e fin dall’inizio mantenne nei confronti della dottrina della selezione naturale un atteggiamento di apertura e di confronto; James era sempre più attratto da Wyman e — sebbene nel Settembre del 1863 si iscriveva ancora alla Lawrence Scientific School — il centro dei suoi interessi si era spostato dalla chimica alla biologia: Egli cominciò ad avere un rapporto filiale verso Wyman e a pensare di intraprendere la carriera scientifica, specificamente nel campo della storia naturale23. James era passato dal Dipartimento di Chimica a quello di Anatomia Comparata e Fisiologia e per un anno divenne allievo di Jeffries Wyman24.

Ma che cosa attrasse tanto James verso il dipartimento in cui insegnava Wyman? Perché, una volta abbandonata l’idea di divenire un chimico non pensò di passare sotto la tutela dell’affascinante Agassiz25?

Il professor Wyman, sebbene forse meno ‘appariscente’ non era certo meno affascinante di Louis Agassiz: Il Dr. Wyman era sostanzialmente l’antitesi di Agassiz: cauto, meticoloso, accurato e desideroso di esaminare nuove teorie e nuovi esperimenti; ma le sue lezioni, secondo il giudizio di James, erano monotone e noiose.26.

Sembra però che la noia delle sue lezioni fosse qualcosa di facilmente sopportabile — almeno per William James — visto che gli si avvicinò sempre più e sempre più assorbendo quello ‘spirito’ scientifico che forse aveva sempre cercato e che non era riuscito a trovare né in Eliot né in Agassiz, né tantomeno in suo padre. Agassiz era un personaggio troppo sicuro di sé, privo di dubbi e desideroso di dimostrare le proprie certezze davanti al mondo intero; questa sua eccessiva autostima gli impedì di vedere la grandezza della teoria darwiniana, che lentamente stava sgretolando tutto il sistema, e soprattutto l’epistemologia, su cui egli aveva costruito al propria fama; James aveva bisogno di un diverso mentore. Agassiz, in fondo, assomigliava troppo a suo padre e troppo poco allo scienziato27 che

23

TCBV, p. 72.

24

Cfr. TCWJ I, p. 207

E’ interessante notare il fatto che nei Principles of Psychology, un’opera piena di riferimenti alla scienza biologica, James cita Agassiz solo in un’occasione e per una questione abbastanza banale: per lo scienziato svizzero [...] i pescatori sarebbero più intelligenti dei contadini perché mangiano molto pesce, il quale contiene molto fosforo; ma sono tutti fatti da accogliere con riserva. PP, p. 107. Oltre allo scarso valore intrinseco di quest’affermazione, bisogna poi osservare che questa frase si inserisce alla fine del terzo capitolo dei Principles, intitolato On Some General Conditions of Brain-Activity dove si tratta dell’epifenomenismo e dei ”filosofi del fosforo”, di cui avremo modo di parlare ampiamente nella terza parte. 25

26

G. W. Allen, op. cit., p. 83.

27 Come abbiamo visto già nel capitolo precedente, La predisposizione di James per le scienze naturali, come il suo interesse per la pittura, risalgono alla sua prima giovinezza, quando egli già mostrava attitudine sia per l’osservazione che per l’utilizzo degli strumenti [da laboratorio]. TCWJ I, p. 205.

30


il giovane William avrebbe voluto diventare: L’insofferenza di James per lo spirito autoritario in campo scientifico si espresse nella sua stima per lo sperimentalismo di un Wyman o di un Darwin28. Ovviamente questo avvicinamento alla figura di Wyman non poteva che avvicinarlo alla teoria darwiniana:

Nell’apprezzare le qualità di Wyman James non poteva dimenticare di certo il differente atteggiamento che Wyman e Agassiz avevano nei confronti della recente teoria evoluzionistica di Darwin . Prima che The Origin of Spevcies fosse pubblicata nel 1859, Agassiz aveva già espresso la propria credenza in una creazione “speciale” di Dio di tutte le forme di vita, separate in maniera immutabile in specie differenti.[...] la teoria evolutiva di Darwin appariva ad Agassiz mostruosamente sbagliata, sacrilega e perfino “non scientifica”. Di fatto, prima che James avesse modo di conoscerlo, Agassiz aveva definitivamente chiuso qualsiasi spiraglio di credibilità nei confronti della teoria di Charles Darwin29.

La migliore descrizione di Wyman30, uomo e scienziato, è forse quella fornita dal più celebre studioso di William James, Ralph Barton Perry:

Wyman insegnava anatomia presso la Harvard Medical School. Come scienziato era un esempio di scrupolosità estrema, ma esente da pedanteria. Egli aveva un ampio capo di interessi. Egli era un naturalista così come un uomo di laboratorio e indirizzò la sua attività soprattutto verso il grande dibattito di quei tempi: l’evoluzione e le “variazioni spontanee”. Wyman si distingueva dal suo collega Agassiz per la sua grande apertura mentale e per la sua capacità di aspettare prove decisive su un argomento prima di esprimere il proprio giudizio. [...] Per William James, che fu subito attratto da lui, e stette direttamente e quasi continuamente sotto la sua influenza per cinque anni, egli rappresentava un modello di scientificità31.

28 Ivi, p. 501. William James inoltre, per quanto giovane e inesperto, era riuscito a intuire il climax della carriera dei due professori di Cambridge: discendente per Agassiz e ascendente per Wyman; il suo desiderio di trovarsi ‘in mezzo alle cose’ e di vivere la novità del momento non poteva che farlo avvicinare al promettente Wyman piuttosto che all’attempato Agassiz; di fatto, come ricorda Allen, il diverso atteggiamento di Wyman, di apertura nei confronti della teoria evolutiva darwiniana, fu proficuo per la carriera del professore di anatomia, mentre segnò un lento ma inarrestabile declino nella carriera di Agassiz. Cfr. G. W. Allen, op cit., p. 96. Wyman comunque non divenne mai uno scienziato veramente famoso come lo era stato Agassiz. Il suo nome non varcò mai i confini di Cambridge e Boston e questo, a parere di James, era dovuto esclusivamente alla sua mancanza di ambizione. Il suo giudizio sugli uomini infatti non si lascerà mai influenzare — lo vedremo meglio anche nei capitoli seguenti — dalla maggiore o minore notorietà posseduta: William James giunse alla conclusione che Jeffries Wyman fosse uno scienziato e un insegnante migliore dell’appariscente Agassiz. Wyman sarebbe rimasto poi il suo insegnante preferito, quello destinato a esercitare l’influenza più profonda. Ivi, p. 95. 29

Ivi, pp. 95-96.

30 Di Wyman non esistono biografie, ma uno spaccato dell’ambiente in cui insegnava si trova in Stephen P. Sharpless, Some Reminescences of the Lawrence Scientific School, “Harvard Graduates Magazine”, 26 (1918), pp. 532-540. Cfr. anche H. L. Clark, Jeffries Wyman, in D. Malone (a cura di), Dictionary of American Biography, Charles Scribner’s Sons, New York 1936, vol. XX, pp. 583-584. 31

TCWJ I, p. 67.

31


Alcuni critici hanno cercato di sminuire l’importanza che ebbe la rivoluzione darwiniana per la formazione e il futuro pensiero di James; vedremo approfonditamente in seguito in che senso l’opera jamesiana può dirsi debitrice delle dottrine scientifiche di Darwin; per quanto riguarda la sua formazione è però indubbio che l’argomento principale con cui il giovane William dovette fare i conti, una volta entrato alla Lawrence32 e per tutti gli anni a seguire, fu quello dell’evoluzione delle specie per selezione naturale. Gray, Agassiz e Wyman, i professori che — sebbene in misura diversa — influenzarono maggiormente James, erano al tempo occupati quasi esclusivamente nel discutere la teoria darwiniana; inoltre, bisogna ricordare che

Il primo periodo dello sviluppo intellettuale e culturale di James fu il periodo della moda di Spencer [...] egli era il veicolo attraverso il quale l’idea generale di evoluzione, insieme con l’applicazione alla scienza del metodo genetico e comparativo, fu introdotta nella mente di Inglesi e Americani33.

L’evoluzionismo darwiniano di Wyman e di Gray, l’antievoluzionismo di Agassiz e l’evoluzionismo di Spencer erano ‘il pane quotidiano’ dell’educazione del giovane William James. Sarebbe veramente strano immaginare un James refrattario a tutti i dibattiti che animavano le aule di Cambridge all’inizio degli anni ’60, soprattutto considerati la sua l’ambizione, il suo eclettismo e la sua curiosità. Secondo Bjork fu proprio in una di queste aule, durante una lezione di Jeffries Wyman, che James poté conoscere l’opera dello scienziato inglese: Quasi certamente James ricevette la prima esposizione della teoria darwiniana nella classe di Wymanii.

Sarebbe però scorretto vedere il James di questi anni già consapevole dei propri fini e dei mezzi con cui raggiungerli; non dobbiamo dimenticare che egli entrò alla Lawrence poco più che adolescente, senza avere un’idea precisa di quello che avrebbe fatto nella vita e senza una formazione specifica che lo indirizzasse ‘naturalmente’ verso un campo piuttosto che un altro; quest’indecisione, non solo riguardo alla propria carriera ma anche alla propria vita in generale, caratterizzerà James anche negli anni futuri, fino a diventare un vero e proprio ‘dramma’, e, per quanto questa situazione di indecisione non fosse ovviamente gradita a James stesso, è probabilmente grazie a essa ch’egli poté assorbire influssi culturali e scientifici così differenti in pochi anni, influssi che arricchiranno la sua opera e la sua personalità.

32 Era proprio nella scienza, e specificatamente nel campo della biologia, che Harvard era all’avanguardia a quel tempo; e fu proprio questa influenza emancipante, insieme con gli altri influssi di quel tempo e di quel luogo, che più profondamente influenzarono James durante gli anni dello studio universitario. TCWJ I, p. 205. 33

32

Ivi, p. 474.


Un filosofo che, come James, cominciava la sua carriera negli anni ‘60 aveva di fronte le seguenti alternative: avrebbe potuto aggiungersi alla schiera dei naturalisti; o seguire i positivisti, come stava facendo Clifford in Inghilterra, o l’evoluzione, come faceva Fiske in America.[...] La sua iniziazione alla scienza lo aveva reso favorevole a qualsiasi alternativa alla religione. L’autorità, il dogma, la pietà sentimentale, il trascendentalismo, il cieco ottimismo, il pedante tradizionalismo, tutto ciò era improponibile per James34.

Ma James non sapeva ancora che sarebbe diventato filosofo. Di certo i suoi studi non sembravano portare verso una tale direzione: come abbiamo visto, nel 1863, su consiglio di Jeffries Wyman, aveva deciso di studiare anatomia e fisiologia; egli cioè, per come allora erano organizzati i corsi, sarebbe diventato un medico35; probabilmente questa scelta fu determinata da differenti ragioni: in primo luogo egli avrebbe potuto trovarsi a contatto diretto con il professore, Wyman, che ora lo affascinava maggiormente, senza dovere più frequentare le conferenze pubbliche che questi teneva Harvard. Secondariamente, questi studi ‘pre-medici’ gli avrebbero permesso di approfondire una materia, la fisiologia appunto36, che sempre più lo interessava; in ultimo, una laurea in medicina sembrava essere l’unica vera speranza di guadagnarsi da vivere e questo non era certamente un elemento da sottovalutare:

Nel gennaio del 1863 [James] confidava a sua cugina di trovarsi impegnato a scegliere definitivamente la propria professione :“[...] mi trovo di fronte a quattro alternative: storia naturale, medicina, stampa, elemosina. Molto si potrebbe dire di ognuna di queste. Io le ho disposte in ordine ascendente rispetto alla rispettiva possibilità di farmi guadagnare. Dopo tutto il grande problema della vita sembra stare nel riuscire a combinare anima e corpo, e io devo tenere in considerazione il guadagno”37.

34

Ivi, p. 465.

35 [nel 1863] William si iscrisse nuovamente ad Harvard, ma passò da chimica ad anatomia comparata, che era visto come un corso “premedico” ed era diretto dal professor Wyman, di cui James aveva seguitole lezioni l’anno avanti. G. W. Allen, op. cit. p. 94.

Negli ultimi anni di vita James, guardando alla sua vita passata, dirà chiaramente di aver ‘usato’ la medicina per studiare fisiologia; le cose andarono poi effettivamente così, ma al tempo in cui prese questa decisione James non era certo così lucido e consapevole come sembrerebbe dal brano di questa lettera, datato 1902: Io mi decisi a studiare medicina al fine di diventare un fisiologo; fui però spinto ad abbracciare la psicologia e la filosofia per una sorta di fatalità. Non ho mai avuto un’istruzione filosofica e la prima lezione di psicologia che io abbia mai sentito è stata la prima che io stesso ho fatto. A Ménard, Analyse et critique des principes de la psychologie, 1911, nota a p. 5, citato in TCBV, p. 78. 36

37 G. W. Allen, op. cit., p. 96. E’ abbastanza naturale che un giovane ambizioso come James ambisse ad avere una discreta posizione economica; ma la sua situazione finanziaria rimase un problema per tutta la vita; in questo James si trovava certamente in una situazione differente da quella vissuta dal padre: questi non volle mai guadagnarsi da vivere, pensando che la necessità di lavorare fosse deleteria per un uomo di cultura. Fu proprio questo atteggiamento che in qualche modo spinse James a pensarla diversamente; il padre infatti, oltre a consumare il patrimonio, che poi sarebbe dovuto andare diviso fra i fratelli di William, aveva involontariamente mostrato ai propri figli quanto fosse in fondo pericoloso —proprio per la libertà di un uomo — non avere una professione che desse sicurezza personale e morale e su cui fare affidamento qualora la situazione finanziaria avesse attraversato una congiuntura negativa (come quella che travolse, anche se non irrimediabilmente, Henry James Sr. alla fine degli anni ’50). William James lotterà per tutta la vita per la propria indipendenza economica e — anche quando sarà un professore ordinario alla Harvard University — continuerà a mantenere una notevole attività di conferenziere, proprio per fare fronte alle spese che comportavano la sua famiglia e il suo stile di vita.

33


Se escludiamo il riferimento all’elemosina, che caratterizza sarcasticamente la lettera all’amata cugina38, riusciamo effettivamente ad avere un’idea di quali fossero le alternative che si affacciavano alla mente di un James poco più che ventenne; la carriera di naturalista aveva affascinato James fin da subito: essa soddisfaceva il suo spirito d’avventura e il suo desiderio di leggere direttamente nel libro della natura; fare il naturalista avrebbe voluto dire fare la vita di Agassiz, o di Wyman, o addirittura di Darwin39! Vedremo fra breve come questa possibilità fu definitivamente abbandonata pochi anni dopo; per “stampa”, James intende qui probabilmente un mestiere abbastanza indefinito; quello di uomo di cultura, di intellettuale frequentatore di Club e scrittore di libri destinati anche a un pubblico non accademico; in sostanza la vita che conduceva il padre e, visto lo scarso successo che questi proprio in quegli anni incontrava, di certo non sembrava la strada più sicura da percorrere. Infine la medicina; fu appunto questa la carriera che alla fine James decise di intraprendere, sebbene non convintamente.

Si tratta di Minny Temple; William era molto affezionato a questa cugina, da cui era anche attratto sentimentalmente; la sua morte, nel 1870, lo ferì profondamente, aggravando quella depressione di cui avrebbe sofferto per anni. 38

39

34

[...]egli era sicuro che non sarebbe stato in grado di sostenere una famiglia con la professione di naturalista. L. Simon, op. cit., p. 91.


1.2.2 Louis Agassiz e il naturalismo ‘sul campo’ James era iscritto al secondo anno di medicina quando gli si presentò l’opportunità di provare veramente a se stesso se sarebbe stato in grado di svolgere il mestiere di naturalista; come detto sopra, Agassiz aveva combattuto le teorie darwiniane fin dal loro primo apparire40. Lo scienziato svizzero riteneva che la dottrina dell’evoluzione per selezione naturale si sarebbe dimostrata una moda passeggera41, incapace di confrontarsi veramente su un piano scientifico coi fatti della natura. Ma le cose non stavano andando come previsto e, sei anni dopo la sua prima pubblicazione, The Origin of Species era un testo sempre più letto e apprezzato; Agassiz decise dunque di dare battaglia non più solo nelle aule dell’università, ma sul campo; in quei luoghi dove Darwin sosteneva di aver trovato le prove dell’evoluzione delle specie, Agassiz voleva rinforzare le proprie teorie:

All’inizio del secondo anno di medicina a James si offrì un’ulteriore possibilità per diventare finalmente un naturalista: Agassiz cercava volontari per una spedizione in Brasile finalizzata alla raccolta di campioni42. James ottenne dal padre il permesso, e soprattutto i soldi, per partecipare a questa spedizione; non è difficile immaginarlo paragonarsi al giovane Darwin, salpato, all’incirca alla stessa età, con il Beagle, per i mari del mondo, pieno di speranze e senza sapere che cosa avrebbe significato quel viaggio per la storia della scienza. Il fatto è che la spedizione di James, la spedizione Thayer, aveva lo scopo di mettere in crisi quella teoria che proprio sul Beagle aveva cominciato a prendere forma, ma questo, a James, importava ben poco:

Uno dei motivi principali del suo viaggio in Brasile [del 1865-66], cui William James partecipò come studente, era di provare che l’era glaciale fosse un fenomeno universale e non locale. Se Agassiz fosse riuscito a documentare delle glaciazioni anche nelle regioni tropicali, allora la sua teoria creazionistica secondo la quale Dio avrebbe rimpiazzato le

40 Agassiz si dimostrò immediatamente contrario alle teorie darwiniane e tenne molte lezioni tese a contrastarle [...]che William James poté seguire durante i suoi primi mesi trascorsi a Harvard. P. J. Croce, op. cit., p. 121. 41 Convinto che il darwinismo fosse una moda passeggera (come lo era stata la Naturphilosophie di Oken negli anni della sua giovinezza) Agassiz asserì perentoriamente che egli avrebbe “spazzato via questa mania”; ma quando egli morì, nel 1873, la scienza americana perdeva il suo ultimo oppositore di rilievo alla nuova teoria. Anche se Agassiz fosse vissuto molto più a lungo è improbabile che la sua influenza avrebbe frenato l’espansione della teoria evolutiva fra gli scienziati. Già prima della sua morte i suoi allievi stavano prendendo altre strade. Fra essi, Joseph Le Conte riteneva che tracce della teoria evolutiva fossero latenti nella classificazione delle forme animali fornita da Agassiz, che abbisogna solo di essere interpretata dinamicamente per dare un quadro evolutivo del passato. William James, che era stato a stretto contatto con Agassiz, fu il suo critico più severo. R. Hofstadter, op. cit., p. 1. C’è un passaggio dei Principles in cui questa critica — sebbene rivolta ad Agassiz solo implicitamente — appare evidente: Dai naturalisti anteriori alla teoria dell’evoluzione la cui generazione si può dire appena passata, le classificazioni erano riguardate addirittura come visioni dirette nella mente di Dio, che ci riempissero di adorazione per i suoi fini. PP, p. 1242. 42

L. Simon, op. cit., p. 93.

35


specie estinte dopo ogni glaciazione avrebbe contrastato la teoria Darwiniana. Negli anni ’60 la teoria delle glaciazioni contro la teoria evoluzionistica rappresentava solo l’ultima versione di quella diatriba decennale che divideva catastrofisti e uniformitariani43. Il viaggio ovviamente non riuscì a fornire ad Agassiz le prove che tanto sperava di trovare, ma soprattutto, ed è quel che più ci interessa, fornì a William James le ‘prove’ ch’egli non sarebbe stato mai un naturalista; alle ricordate difficoltà economiche che avrebbe potuto incontrare in futuro si sommava ora la consapevolezza di non essere tagliato per quel lavoro meticoloso, faticoso e spesso anche noioso44; alla fatica del lavoro si aggiunse per sovrammercato anche tutta una serie di disturbi fisici che fiaccarono notevolmente James nel corpo e nell’animo: durante il viaggio contrasse una forma di varicella molto forte (inizialmente si temette si trattasse di vaiolo); James riuscì a ristabilirsi comunque abbastanza in fretta, ma la malattia gli danneggiò seriamente gli occhi, tanto da procurargli problemi all vista45 per tutta la vita; Comunque la sua salute e il suo umore crebbero in fretta e la sua permanenza in Brasile fu prolungata fino al Marzo del 186646.

James poi, in questo viaggio, aveva potuto conoscere ‘da vicino’ quel professore che tanto l’aveva impressionato durante le sue affollate conferenze; ciò che lo colpì maggiormente furono il suo vigore fisico e mentale — che probabilmente contribuì, per contrasto con la sua debolezza fisica e con le sue incertezze a fargli abbandonare l’idea di diventare naturalista — e la sua meticolosità47 scientifica, l’amore per la concretezza. Allo stesso tempo, James si allontanò sempre più dallo scienziato svizzero proprio perché vedeva che questa meticolosità era totalmente al servizio di una verità precostituita,

43 P. J. Croce, op. cit., p. 116. Bisogna infatti ricordare che Agassiz era stato a Parigi per studiare con George Cuvier proprio poco prima che questi morisse, nel 1832. Egli divenne un tenace difensore delle teorie di Cuvier [...]. Ivi, p. 115. [...] Louis Agassiz rifiutò fino alla fine di accettare il darwinismo in ogni sua forma. Il maestro di Agassiz, George Cuvier, era stato il principale oppositore delle teorie evoluzionistiche all’inizio del secolo, e l’allievo combatté Darwin così come il maestro aveva combattuto Lamarck. R. Hofstadter, op. cit., p. 17. 44 [...] questo viaggio lo convinse definitivamente che non sarebbe mai diventato un naturalista. L. Simon, op. cit., p. 93. Agassiz organizzò una spedizione al Rio delle Amazzoni [...] James ne ricavò la convinzione di non essere adatto al duro e paziente lavoro del naturalista. C. Sini, op. cit., p. 248. Tutte le biografie di James trattano ampiamente della partecipazione di James alla spedizione Thayer; in particolar modo cfr. H. Feinstein, op. cit., pp. 169-181 e G. W. Allen, op. cit., pp. 101-116. Tra le opere di Agassiz, due trattano del viaggio in Brasile: Luois e Elizabeth Agassiz, A Journey to Brasil, Ticknor and Fields, Boston 1868 e L. Agassiz, Geological Sketches, J. R. Osgood, Boston 1876. Specifico sulla partecipazione del giovane James è l’articolo di Charles Sprague Smith: William James in Brazil, in Four Papers Presented in the Istitute for Brazilian Studies, Vanderblit University, Vanderblit University Press, Nashville 1961, pp. 97-137. Cfr. anche I. F. A. Bell, Divine Patterns; Louis Agassiz and American Men of Letters, “Journal of American Studies”, 10 (1976), pp. 349-381. 45 I taccuini di James rivelano comunque ch’egli soffriva di problemi agli occhi già nel 1863; l’infezione contratta nel viaggio in Brasile non fece che aggravare una situazione già precaria. Cfr. D. Bjork, op. cit., p. 45. Ma James, come abbiamo visto, cominciò a soffrire di problemi alla vista già prima della primavera del 1861 e questo è stato anche considerato un fattore importante per la decisione di abbandonare la carriera artistica; cfr. G. W. Allen, op. cit., p. 70. 46

TCWJ I, p. 220.

47

Cfr. D. Bjork, op. cit., p. 60.

36


quella della fissità delle specie48, dell’origine divina del mondo etc. e non tesa euristicamente alla scoperta di nuove verità. La figura di Agassiz è dunque più importante e meno negativa di quanto si sarebbe potuto pensare inizialmente; James imparò molto da lui; certamente imparò a non modellare la scienza sui canoni della religione, ma allo stesso tempo imparò a distinguere tra conoscenza concreta e astrazione, una differenza che, vedremo, sarà fondamentale per la gnoseologia di James.

Mentre studiava scienze ad Harvard, egli aveva avuto la fortuna di seguire gli insegnamenti di Louis Agassiz, al quale rimase sempre grato per avergli insegnato “la differenza tra tutte le astrazioni possibili e ciò che invece esiste nella concretezza del mondo [...]49”

William James tornò negli Stati Uniti nel Febbraio del 1866. Ora si sarebbe dovuto dedicare a tempo pieno allo studio della medicina50, ma certamente non riprese questo suo compito con grande entusiasmo51: prima di tutto, come abbiamo visto, la sua scelta di seguire un corso ‘pre-medico’ era stata determinata da fattori esterni, piuttosto che da un vero interesse per la materia. Inoltre James era reduce da un viaggio che era stato fallimentare almeno sotto tre punti di vista: si era allontanato maggiormente dal professore che tanto lo aveva entusiasmato durante le pubbliche conferenze tenute a Harvard; Louis Agassiz, pur essendosi dimostrato un valido naturalista, un ricercatore meticoloso dotato di una grande forza di volontà, aveva mostrato, non volendo nemmeno prendere in considerazione la scientificità della teoria darwiniana dell’evoluzione, quanto le sue convinzioni religiose e morali influenzassero la sua attività scientifica, in sostanza si era dimostrato un uomo ‘del passato’ e per l’ambizioso James questa era forse la cosa peggiore; James, inoltre, aveva subito durante la spedizione un serio indebolimento fisico, che lo aveva fiaccato nello spirito oltre che nel corpo e comunque aveva aggravato i suoi problemi di vista. Infine, il giovane William James aveva definitivamente realizzato di non essere adatto al mestiere di naturalista; al fallimento come pittore si aggiungeva quest’insuccesso; ora egli doveva solo pensare a

48

Agassiz definiva le specie come dei tipi ideali, ognuna risultato di un pensiero divino. P. J. Croce, op. cit., p. 115.

49 G. W. Allen, op. cit., p. 497. Da Agassiz invece James assorbì soprattutto la grande energia e fiducia nella scienza che lo caratterizzavano. TCBV, p. 69. Questo atteggiamento ‘ambivalente’, di rispetto e di critica, non caratterizzò soltanto James, che in fondo non era mai stato effettivamente un allievo di Agassiz: Sebbene le sue teorie [di Agassiz] persero di credibilità agli occhi delle generazioni che crebbero sotto l’influsso del darwinismo, gli allievi del grande zoologo lo considerarono sempre un grande maestro il cui entusiasmo e la cui abilità lasciarono una traccia durevole sulla loro carriera. P. J. Croce, op. cit., p. 119 E anche i colleghi che non condividevano le sue teorie non potevano non portargli un doveroso rispetto: Come il giovane William James, Gray ammirava l’imponente lavoro di Agassiz, ma trovava le sue certezze idealistiche non scientifiche. Ivi, p. 129. 50 Quando ritornò dal Brasile nel 1866, William James aveva deciso ormai di applicare i suoi studi di anatomia e di fisiologia al campo della medicina.. Ivi, pp. 143-144. 51 Nel Febbraio del 1866 James tornò alla civilizzata Cambridge, più certo, ma non ancora deciso intorno alla propria carriera futura.. James stava infatti entrando in un periodo molto difficile, [...] caratterizzato da quello che in seguito avrebbe chiamato “il peggior tipo di malinconia”. D. Bjork, op. cit., p. 67.

37


ottenere la laurea in medicina; sicuramente lo avrebbe fatto, ma a modo suo. Come detto sopra, James era interessato principalmente all’aspetto fisiologico (piuttosto che a quello anatomico o terapeutico) della medicina; questo spiccato interesse per la fisiologia lo aveva caratterizzato fin da quando, ancora studente di Eliot, si era iscritto alla Lawrence.

Lo studio della chimica si sarebbe in seguito rivelato utile per i successivi studi di James, ma in fondo era soltanto uno strumento che potesse permettere di studiare i processi viventi degli esseri umani e ciò che lo interessava era il modo in cui la struttura fisiologica dell’uomo e le sue funzioni fisiche possono influenzarne la vita emozionale e intellettuale52.

La fisiologia insomma, sembrava era una scienza del “perché” e non solo del “che” come poteva essere l’anatomia o anche la biologia di Agassiz;

La fisiologia, secondo James, era destinata a diventare “la luce nella quale la medicina deve lavorare”. Più della chimica, dell’anatomia o della zoologia, la fisiologia puntava a “controllare e modificare i fenomeni” dei quali erano composti gli organismi viventi, e non soltanto a identificarli e a classificarli53.

Il progetto di approfondire gli studi fisiologici sembrava però difficilmente realizzabile per William James nella terra natia; i maggiori scienziati in questo campo si trovavano nel Vecchio Continente, più specificamente in Germania. La scelta di Henry James, presa all’inizio degli anni ’60, di non allontanare da sé il figlio si stava dimostrando poco azzeccata. La volontà del padre di vedere William laureato e avviato a una carriera di successo, sebbene come medico, doveva passare attraverso il desiderio, per altro pienamente giustificato, di approfondire le sue conoscenze in campo fisiologico in Europa.

James aveva una ragione precisa per andare in Europa [oltre a quella della salute]. Alla facoltà di Medicina egli aveva sviluppato un profondo interesse per la fisiologia sperimentale ed era convinto a quel tempo che recandosi in Germania avrebbe potuto soddisfare le proprie esigenze scientifiche, sia perfezionarsi nella lingua54.

I motivi di studio non erano infatti gli unici che si affacciarono alla mente del giovane James pochi mesi dopo essere tornato dal lungo viaggio in America del Sud. Il Perry accenna nel brano succitato ad altri due motivi: il miglioramento delle condizioni di salute e il raffinamento della lingua (tedesca).

52

G. W. Allen, op. cit., p 89.

53

L. Simon, op. cit. p. 111

54

TCWJ I, p. 234.

38


La salute di James non fu mai più perfetta a partire dall’anno 1860. Oltre ai problemi alla vista cui abbiamo fatto riferimento sopra, James soffriva ora di problemi digestivi e di dolori alla schiena di difficile decifrazione, ma soprattutto di difficile terapia; le famose stazioni termali dell’Europa centrale sembravano rappresentare la soluzione migliore. In ordine al secondo motivo, già abbiamo ricordato quanto fosse importante per il padre di William che i propri figli conoscessero le lingue straniere; l’intenzione di approfondire la conoscenza della lingua tedesca difficilmente avrebbe potuto incontrare l’opposizione di Henry James Sr55.

James aveva però un’altra ragione per recarsi in Europa che certo non avrebbe potuto esporre pacificamente al padre; la “civilizzata Cambridge” in cui ora viveva si stava rivelando un luogo di sofferenza psicologica; questa sofferenza era poi massimamente concentrata nelle mura di Quincy Street, dove si erano trasferiti i James:

Nel 1867 la vita a Cambridge era diventata per William insopportabile. Una fuga in Europa sembrava essere la migliore soluzione56.

Feinstein, data la sua griglia interpretativa centrata sui rapporti di William James con il padre, è ancora più chiaro:

Quando la famiglia si spostò a Cambridge, [dopo il viaggio in Brasile] William visse con tutti i suoi membri e questo lo espose ancora una volta alla pressante insistenza del padre a continuare nella carriera [medica] James se ne andò da Quincy Street prima che la sua rabbia repressa potesse avere il sopravvento57.

Bisogna infatti ricordare che il vecchio James, oltre a essere restio ad allontanare il figlio da sé per periodi troppo lunghi, doveva fare i conti con l’amministrazione delle proprie finanze, che di certo non erano infinite; un viaggio in Europa avrebbe significato un grande esborso di denaro, soprattutto dato il tenore di vita che il primogenito avrebbe dovuto tenere e viste le cure cui avrebbe dovuto sottoporsi. 55

56 G. Cotkin, William James; Public Philosopher, University of Illinois Press, Urbana e Chicago 1994, p. 40. Anche Allen fa esplicitamente riferimento alla situazione famigliare come causa principale, sebbene “inconsapevole”, della decisione di James di andare in Europa. Ciò che egli in fondo desiderava, sebbene inconsapevolmente, era di fuggire dall’insopportabile atmosfera di Quincy Street. G. W. Allen, op. cit., p 153. 57 H. Feinstein, op. cit., p. 207. Due pagine avanti, Feinstein scrive: Fin dall’inizio, il viaggio in Europa [1867] ebbe delle finalità poco chiare. Si trattava, secondo la corrispondenza di William e Mary James di un viaggio di salute. Ivi, p. 209.

39


1.2.3 Europa, ‘terra di speranza’ William James salpò da New York il 16 Aprile (1867) sulla Great Eastern, alla volta dell’Europa, o meglio, della Germania; questo soggiorno europeo è narrato dettagliatamente nelle pagine biografiche di Gay Wilson Allen58; ci basti dire che entrambi gli scopi principali del viaggio (il miglioramento delle condizioni fisiche e lo studio della fisiologia) non furono centrati; le terme di Teplitz (l’attuale Teplice, nella Repubblica Ceca) e di Divonne59 (nella Savoia Francese) non ebbero gli effetti sperati. I dolori alla schiena non migliorarono e anzi, a essi si sommarono nuovi disturbi60.

Per quanto riguarda la sua formazione scientifica, le cose non andarono molto meglio, almeno apparentemente.

Di sette corsi e quattro conferenze in fisiologia e psicologia che si tennero all’università di Berlino, William James frequentò cinque corsi e assistette a tre conferenze. Il corso che più di tutti lo interessò era dato da Emil Du Bois-Reymond in fisiologia. Questo professore confermò William James nella convinzione che per giungere alla psicologia bisognasse passare attraverso la fisiologia, ma le lezioni lo fecero seriamente preoccupare intorno alle carenze della propria formazione scientifica61.

James rimase in sostanza deluso più da se stesso che dai professori di cui poteva ascoltare le lezioni; di molti poi sentì solo parlare, senza poterne conoscere direttamente il pensiero62. Il suo sembrava essere un destino veramente crudele: dopo essersi rassegnato all’idea di non poter diventare pittore e, dopo aver abbandonato lo studio della chimica, aveva anche recentemente rinunciato alla possibilità di

Più precisamente al capitolo IX, intitolato appunto Baths in Bohemia. (pp. 129-151) Ovviamente anche tutte le altre biografie di James si soffermano su questo periodo della sua vita. 58

[...] James, saputo che a Divonne, nella Savoia francese, c’erano delle terme molto salutari, decise di raggiungerle, passando prima per Ginevra.. G. W. Allen, op. cit., p. 150. Le terme di Divonne si rivelarono inutili come quelle di Teplitz e perciò in Ottobre [1868] James decise che una permanenza nel continente Europeo, viste le spese inutili, non sarebbe più stata giustificabile. Ibidem. 59

Sfortunatamente il trattamento non giovò alla schiena di James e anzi occasionò un nuovo disturbo, [...] Si trattava di una fastidiosa forma di gastrite cronica. D. Bjork, op. cit., p. 76. 60

G. W. Allen, op. cit., p 140. E il Perry: James stette a Berlino per i mesi di Novembre, Dicembre e metà Gennaio.: qui seguì le lezioni di fisiologia di Emil du Bois-Reymond, e cominciò ad accarezzare l’idea di affrontare le tematiche psicologiche da quel punto di vista. TCBV, p. 84. Inoltre, il suo tedesco non era di certo fluido come avrebbe sperato e quindi non riuscì, nei mesi trascorsi in Europa, a completare l’ambizioso programma di studi che si era prefissato. 61

In una lettera all’amico Tom Ward, nel Dicembre del 1867, James fa riferimento con grande interesse agli studi di fisiologia nervosa di cui Helmholtz e “un certo” Wundt, a Heidelberg, si stavano al momento occupando; anche questo piano andò in fumo: James aveva programmato di studiare a Heidelberg e così il 27 Giungo vi si recò, ma una settimana dopo era già di ritorno a Dresda. G. W. Allen, op. cit., p. 150. 62

40


diventare un naturalista. Ora che si trovava in Europa, al centro di quel dibattito scientifico che avrebbe aperto la strada alla moderna psicofisiologia e alla psicologia sperimentale, si rese conto che anche la strada di fisiologo gli era preclusa. William James, è vero, non aveva delle solide basi scientifiche per poter apprezzare veramente i cambiamenti che stavano avvenendo in Europa nel campo della fisiologia né conosceva la lingua tedesca abbastanza bene per potere recuperare il tempo ‘perduto’, ma questi ostacoli sarebbero stati comunque superabili se egli non fosse stato inadatto, sia fisicamente che caratterialmente, a svolgere il lavoro di fisiologo (che già al tempo si svolgeva quasi tutto tra le mura di un laboratorio); i motivi di salute che avevano spinto James ad andare in Europa furono gli stessi che ora gli precludevano la possibilità di intraprendere questa nuova carriera scientifica; egli infatti, a causa dei forti dolori alla schiena, non poteva stare in piedi e chino sui microscopi, né i suoi occhi sembravano in condizioni migliori. Il Perry riesce in poche righe a descrivere la situazione in cui James si veniva dunque a trovare all’inizio della seconda metà degli anni ’60:

Egli [James] partì per l’Europa nell’Aprile del 1867, per rimanervi fino al Novembre del 1868. Molte cause concorsero a portarlo a prendere questa decisione. La prima era la condizione fisica in cui si trovava fin dall’autunno precedente. Ora stava entrando in un periodo di parziale impotenza, di sofferenza fisica e di depressione, che durarono per almeno cinque anni. E’ impossibile, nel caso di James, interpretare il suo stato di salute come qualcosa di accidentale. Dal momento che egli non poteva stare a lungo in piedi in un laboratorio, sentì di avere una giusta ragione nel sottrarsi dalla ricerca sperimentale. Questa condizione inoltre limitò le sue potenzialità di lettore, e senza dubbio fu responsabile della sua straordinaria capacità di assorbire rapidamente il nutrimento di cui la sua mente aveva bisogno. In ogni caso lo fece passare da un tipo di erudizione passiva e cumulativa verso un ragionamento di tipo attivo Egli divenne essenzialmente un uomo che amava pensare e osservare, piuttosto che apprendere63.

L’analisi finale di questo brano è certamente molto interessante; di fatto il James che vedeva allontanarsi la possibilità d’intraprendere la carriera di fisiologo non aveva la lucidità e il distacco per cogliere gli aspetti positivi della sua situazione64:

63

TCWJ I, p. 233. Sott. nostra.

Non per questo James non aveva la capacità di notare, da grande osservatore qual era, gli ‘effetti’ apparentemente paradossali della sua situazione psicofisica: Durante la primavera del 1868 William James fu tormentato da una grave forma di apatia che aumentò decisamente il suo interesse per le relazioni tra mente e corpo. Più il suo corpo era inattivo, egli notava, più la sua mente diventava frenetica, nonostante poi avesse la sensazione che l’anno trascorso in Germania si fosse rivelato totalmente infruttuoso. G. W. Allen, op. cit., p 146. 64

41


In questo periodo [ nel marzo del ’68] ho abbandonato qualsiasi speranza di occuparmi di fisiologia, data la mia inattitudine al lavoro di laboratorio, e sebbene non si tratti certo dell’unica maniera di fare scienza, lo sarebbe stata per me, dati la mia cattiva memoria e il mio scarso interesse per i dettagli65.

Qui James è certamente eccessivo nel rimarcare i propri difetti; di fatto non abbandonò mai le ricerche di laboratorio ed egli è inoltre spesso ricordato per essere stato il primo — per lo meno in America — ad avere allestito un laboratorio di psicologia sperimentale; il fatto poi che in questa lettera escluda anche altre possibilità di “fare scienza”, è confutato proprio dalla futura carriera di James, che sviluppò una psicologia introspettiva estremamente fertile e più adatta al suo temperamento; per essere un “animale da laboratorio”66 era, ed è, necessario qualcosa in più di una schiena sana e di una buona vista: è necessaria quella dedizione al particolare e alla quantificazione67 dei risultati che James non avrebbe certamente avuto anche date delle ottime condizioni di salute; a James mancavano quella tenacia e quella pazienza68 che caratterizzano i più grandi scienziati di ogni tempo; la ‘lezione’ che James stava apprendendo nel suo soggiorno europeo non era poi molto diversa da quella ch’egli aveva imparato durante la spedizione Thayer; James R. Averill ci ricorda quanto lo spirito di James fosse lontano non solo da quello di Agassiz, ma anche da quello di Darwin:

TCBV, p. 106. Anche la Simon fa esplicitamente riferimento a queste parole di James per descriverne l’attuale situazione, aprendo la prospettiva, effettivamente ancora in embrione, di una carriera filosofica: [i suoi progetti professionali] erano centrati sulla possibilità di studiare fisiologia con l’intenzione di applicare le sue scoperte, per quanto potessero essere insignificanti, alla nuova scienza della psicologia — una scelta non sorprendente, dati i suoi tormentati pensieri intorno alla propria persona; ma, dal momento che sapeva di non essere adatto al lavoro di laboratorio data la sua “cattiva memoria e lo scarso interesse per i dettagli” — per non parlare dei suoi dolori alla schiena — non sapeva proprio come avrebbe fatto a realizzare i suoi progetti. Avrebbe potuto diventare un professore di filosofia morale, ma, scrisse una volta a [Oliver Wendell] Holmes, “non ho idea di come possa riuscire in questo, né se non sia possibile affatto per un uomo di tempra non spirituale”. Come avrebbe potuto un uomo che non credeva nella necessità di una presenza divina nel mondo pretendere di avere una qualche influenza sui giovani americani, anche di una scuola di campagna? WJ a O.W. Holmes, 18/5/1868, CWJ IV, p. 302, cit. in L. Simon, op. cit., p. 110. La filosofia attraeva James sempre di più, ma in una maniera tutta particolare; egli scriveva all’amico Holmes Jr. il 15 Maggio 1868 da Dresda: Io ho il sospetto che la filosofia non sia à l’ordre du jour prima che vengano fatti alcuni passi in avanti nel campo della fisiologia del sistema nervoso; e se io fossi in grado di definire pochi specifici fatti fisiologici, per quanto umili, potrei sentire di non aver vissuto invano. Ma ora mi rendo conto che non posso fare lavoro di laboratorio, e così’ sono obbligato a spostare le mie aspirazioni. TCWJ I, p. 275. 65

James però si rese conto che non era un “animale da laboratorio”: [Scriveva James a Bowditch, nel Dicembre del 1867, da Berlino] “Ma io non voglio troncare con la biologia. Non posso essere un professore di fisiologia, patologia o anatomia, dal momento che non posso lavorare in laboratorio [...]”. TCBV, p. 85. 66

Come ricorda Ralph Barton Perry, James, se escludiamo il breve periodo dedicato allo studio della chimica, non ebbe mai a che fare veramente con una scienza quantitativa. Cfr. TCWJ I, p. 468. 67

I primi studi scientifici di James fanno luce su una qualità fondamentale della sua mente. Egli era appassionatamente ma anche impazientemente interessato. Ciò gli rendeva estremamente sgradito il soffermarsi a lungo su un medesimo progetto. Questa era una caratteristica [...] caratteriale. Questa predisposizione venne accresciuta dai suoi periodici stati di disagio fisico, che spesso gli rendevano insopportabile qualsiasi sforzo; ma fondamentalmente si trattava di un tratto del suo carattere e non di un sintomo delle sue malattie. Ivi, p. 206; nella gioventù La mente di James sembra essere particolarmente recettiva, eclettica e onnivora. D. Bjork, op. cit., p. 27. Anche Croce ha recentemente sottolineato questi tratti caratteriali, che distinsero James fin dai primi anni di vita: Il giovane James non si sentiva obbligato a imparare, piuttosto egli seguiva i propri appetiti intellettuali, e così, da adulto, egli mantenne lo stesso atteggiamento nell’affrontare un ampio spettro di campi intellettuali. P. J. Croce, op. cit., p 40. Vedremo avanti come questo eclettismo di James sarà fonte di critiche e di incomprensioni. 68

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James fece numerosi riferimenti [nei Principles of Psychology] a Darwin nel suo capitolo sull’emozione. Ma che cosa sarebbe accaduto se Darwin si fosse allo stesso modo accontentato delle descrizioni dei cirripedi e dei fringuelli e avesse cercato, dalla sua poltrona, di trovare un principio che spiegasse l’evoluzione biologica? Una buona teoria, particolarmente nelle scienze umane e biologiche deve fondarsi su quel tipo di osservazioni dettagliate che James trovava noiose, ma che Darwin trovava affascinanti69.

James dunque, per i motivi succitati, si stava avvicinando sempre più all’aspetto psicologico piuttosto che a quello fisiologico delle ricerche che si svolgevano al tempo in Europa; è ancora presto qui per parlare dello James psicologo, certamente possiamo dire che, in maniera apparentemente ‘negativa’, gli ostacoli ch’egli trovò sulla strada della ricerca sperimentale lo spinsero quasi naturalmente verso quella nuova scienza, che ancora non era considerata tale, di cui sarebbe poi stato riconosciuto come il maggiore rappresentate negli Stati Uniti d’America70, quasi costringendolo ad affrontare gli stessi temi di cui trattavano gli Helmholtz e i Wundt da altri punti di vista71.

69 James R. Averill, William James’s Other Theory of Emotion, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit. p. 225. Qui Averill è probabilmente troppo severo nei confronti di James. Di fatto la teoria di Darwin deve sicuramente molto alle ‘riflessioni in poltrona’ dello scienziato inglese; lo psicologo americano, oltre ad avere egli stesso sperimentato in laboratorio alcune sue teorie, si tenne costantemente aggiornato sui risultati dei maggiori scienziati del tempo; certo, rimane il fatto che James, proprio nel testo che più di tutti dovrebbe essere legato all’aspetto sperimentale della ricerca psicologica, delude chi si aspetti una grande quantità di riferimenti alla contemporanea fisiologia sperimentale; lo stesso Perry, pur riconoscendo la grandezza dell’opera sottolinea questo fatto: Non più di un quinto dei suoi Principles of Psychology può dirsi avere a che fare con il lavoro sperimentale di altri. TCWJ I, p. 24. 70 Avendo assorbito le nuove tendenze [della psicologia] in Europa, ed avendole arricchite per conto suo con nuovi studi empirici e fisiologici, James divenne uno dei primi insegnanti americani a riconoscere la psicologia come una scienza indipendente. TCWJ II, p. 6. James venne allo studio della psicologia da una base fisiologica connessa a un’istruzione preparatoria alla medicina. J. Dewey, I problemi di tutti, cit., p. 478. A volte si dice che James cominciò come fisiologo e finì come mistico religioso, dopo essere passato attraverso la psicologia, l’epistemologia e la metafisica.. TCWJ I, p. 449. Molti potrebbero interpretare questo itinerario come dovuto in buona parte alle circostanze casuali che fecero sì che James cominciasse la sua carriera accademica come insegnante di fisiologia, ma, per quanto questo è certamente vero, altrettanto vero è che egli trasse — intenzionalmente — dalla sua formazione scientifica enormi vantaggi per l’elaborazione del proprio pensiero psicologico. William cominciò la sua carriera all’età di trent’anni [1872] come insegnante di fisiologia semplicemente perché la prima offerta di insegnamento gli giunse in questo campo. G. W. Allen, op. cit., p. 175. 71 Ci sono tre metodi per fare psicologia: sperimentale, introspettivo e comparativo. James li considera tutti e tre di grande utilità. P. K. Dooley, Pragmatism as Humanism: The Philosophy of William James, Nelson-Hall, Chicago 1974, p. 14; quel che balza subito agli occhi nella carriera di James è il suo ‘istinto’ a dirigersi verso le maggiori novità del momento, anche da un punto di vista metodologico; questo, ovviamente, poco si confaceva con la possibilità di spianarsi velocemente una strada verso una carriera solida e sicura, ma allo stesso tempo gli donò quella freschezza e quell’elasticità mentali che non lo abbandonarono mai, nemmeno negli ultimi anni di vita: James era troppo ambizioso dal punto di vista intellettuale per seguire semplicemente una carriera scientifica. Egli aveva bisogno di fare scoperte scientifiche; aveva bisogno di affrontare la fisiologia e la psicologia in una maniera originale. D. Bjork, op. cit., pp. 78-9. Allen non ha dubbi nel rintracciare in questa mancata predisposizione per un’attività sperimentale, nonché nei suoi problemi personali, la causa principale che spinse James a dedicarsi allo studio della psicologia, affrontando nuovi e vecchi temi — anche — con lo strumento dell’introspezione: Incapace di praticare il lavoro di laboratorio che sarebbe stato necessario per un suo approfondimento dello studio nel campo dela fisiologia, e profondamente preso dai propri problemi psicologici, egli si dedicò allo studio della psicologia, attraverso la lettura di testi e l’introspezione. G. W. Allen, op. cit., p 135. Vedremo in seguito, trattando dei Principles, l’importanza che avrà nel pensiero di James il metodo introspettivo. Non è forse inutile sottolineare il fatto che l’originalità della futura psicologia jamesiana fu determinata — almeno in parte — dalla scelta di dedicare i propri sforzi all’elaborazione di una scienza che non fosse riduzionistica come la fisiologia del tempo; se James fosse diventato un grande fisiologo, certamente avrebbe sentito in grado minore l’esigenza di elaborare una nuova metodologia per lo studio dei fenomeni psichici e mentali; Se fosse stata sviluppata [la sua tendenza naturalistica legata a questi studi] in modo coerente sarebbe sfociata in una spiegazione biologico-comportamentistica dei fenomeni psicologici. Dewey, I problemi di tutti, cit., pp. 478-479.

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James stava reagendo a una nuova situazione con lo stesso spirito di sempre; come aveva abbandonato l’idea di diventare un pittore forse perché consapevole del fatto che sarebbe stato un pittore mediocre, così ora stava rinunciando all’idea di diventare un fisiologo, visto che probabilmente — almeno secondo le sue previsioni — sarebbe diventato un mediocre fisiologo72. Di fatto questa situazione non appariva a James nella stessa luce con cui appare a noi oggi, consci dei risultati ch’egli raggiungerà da lì a pochi anni: egli si sentiva frustrato nuovamente73 nei propri propositi; ormai ventiseienne non sapeva ancora quale sarebbe stato il suo destino. Il risultato della sua avventura europea fu negativo come lo era stata quella brasiliana. William aveva tanto parlato di studiare scienza ma aveva fatto ben poco74. Questo giudizio è fondamentalmente condivisibile, ma, più che descrivere la complessità di questo periodo della vita di James esso sembra semplicemente riflettere il suo stato d’animo, tenendo in considerazione esclusivamente la sua esperienza come studente di fisiologia; il fatto è che James, fin dai primi anni della sua giovinezzaiii, fu sempre attratto da diversi temi contemporaneamente75; non solo: mentre si trovava in Europa per approfondire le proprie conoscenze scientifiche non aveva smesso di dedicarsi alla lettura di opere letterarie e squisitamente filosofiche; egli era inoltre occupato in una fitta corrispondenza con amici e parenti, nella stesura delle proprie riflessioni76 e nella compilazione di numerose recensioni77 che spediva al fratello Henry affinché si occupasse della loro pubblicazione:

72 Feinstein tende a legare la rinuncia di James alla prospettiva di diventare scienziato alle problematiche affettive che lo coinvolgevano in quegli anni: La malattia aveva sollevato James dagli studi scientifici [non potendo seguire le lezioni di laboratorio etc.] ed egli era sicuro che lo avrebbe liberato anche dalla responsabilità di sposarsi e di mantenere una famiglia. H. Feinstein, op. cit., p. 213. Vedremo nel prossimo capitolo come la malattia non ‘sollevò’ James da un bel nulla.

William James guardò a questo periodo trascorso in Germania [1867-8] come un altro periodo sprecato della propria vita. G. W. Allen, op. cit., p. 151. 73

74

H. Feinstein, op. cit., p. 210.

75 John Dewey è forse stato il primo a riconoscere la positività del comportamento apparentemente inconcludente del giovane James: La strada percorsa attraverso tanti interessi e iniziative certamente arricchì il suo patrimonio di conoscenze, si aggiunse, accumulandosi, alle sue risorse e impedì quell’irrigidimento precoce che forse è la rovina della maggior parte di coloro che coltivano la filosofia per professione. Dewey, I problemi di tutti, cit., p. 46; e Mills: William James visse al centro di molti degli indirizzi letterari e intellettuali del suo tempo. Chiaramente sensibile a influenze alquanto diverse, egli avvertiva l’importanza della loro particolarità e le cose attorno a lui divenivano parte delle sue speculazioni. C. Wright Mills : Sociologia e pragmatismo, Jaca Book, Milano 1968, p. 183. Jonathan Schull scrive: William James visse una straordinaria varietà di carriere: studi artistici, biologici, medicina, psicologia, filosofia e teologia speculativa.. Jonathan Schull, Selection — James’s Pricipal Principle, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James,, cit., p. 139. 76 Già in questi anni James era occupato, e lo vedremo nel dettaglio nel prossimo capitolo, a riflettere intorno al tema della libertà dell’uomo e, per quanto fosse allora a uno stadio embrionale, il suo pensiero si svilupperà sulle direttrici tracciate già durante questi anni: Le riflessioni sl determinismo dal 1867 al 1872 sono comunque brevi; esse verranno sviluppate in German Pessimism (1875), Bain and Renouvier (1876), e nel famoso saggio The Dilemma of Determinism (1884). Cotkin, op. cit., p. 53 77 Una di queste recensioni, pubblicata in due parti sull’Atlantic Monthly, era dedicata proprio a un’opera di Darwin di recente edizione; si trattava di The Variation of Animals and Plants under Domestication; il testo della recensione si trova in ECR, pp. 229-39. In questo periodo James pubblicò altre sette recensioni: Unüberwinliche Mächte di Herman Grimm (1867), La Comtesse de Chalis, di Ernest Feydeau (1868), Rapport sur le progrès de l’anthropologie en France, di Armand de Quatrefages (1868), Rapport sur le progrès de la marche de la phisiologie en France, di Claude Bernard e Du Sommeil et des états analogues di AmbroiseAuguste Liébeault (1868).

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William James leggeva Shakespeare, Omero, Renan, Cousin, Taine, Kant, Janet, Lessing, Goethe, Schiller78 e Darwin, per citarne solo alcuni79; un dentista americano residente a Dresda gli fornì una copia del Journey in Brazil , recentemente pubblicato dalla signora Agassiz [...].A quel tempo si sentiva in disaccordo con Agassiz, poiché questi si ostinava a non prendere nemmeno in considerazione la teoria mutazionistica di Darwin80. Non bisogna poi dimenticare che fu proprio durante questo soggiorno europeo che James poté conoscere l’opera di quel francese che, a torto o a ragione, verrà considerato l’autore che più di tutti esercitò un’influenza durevole sul suo pensiero. In una lettera scritta al padre nella primavera del 1868, James ricorda la sua lettura dell’opera di Kant, e l’inizio della conoscenza degli scritti di Charles Renouvier, un fatto della cui importanza ancora non poteva rendersi conto:

“Ho qui un piccolo libro di diversi autori, L’ Année 1867 philosophique, che potrebbe interessarti. L’introduzione, una presentazione dello stato attuale della filosofia in Francia da qualche anno a questa parte, è scritta da un certo Charles Renouvier, di cui non avevo mai sentito parlare, ma che, per vigore di stile e concisione e andando al centro di una mezza dozzina di questioni in una sola frase, mi sembra così differente dall’insulsa lungaggine tipica dei francesi [...]”81.

Rimane il fatto che la sua permanenza nel Vecchio Continente stava diventando poco giustificabile; James avrebbe infatti potuto leggere Shakespeare e Kant anche in America e avrebbe allo stesso modo

Il saggio di Schiller su “Grazia e dignità” gli sembrò molto interessante ma totalmente astratto dalla realtà. Egli dà per scontata la separatezza dell’essere umano così che la sfera di natura si oppone a quella della libertà” Allen, op. cit., p 147. Già nell’analisi di queste pere vediamo James intento ad approfondire il tema dela libertà, mai disgiunto da quello del rapporto mente-corpo e della divisione tra soggetto e oggetto; temi questi che, come vedremo, accompagneranno James per tutta la vita. 78

79 Una lista più dettagliata delle opere lette da James in questo periodo, e in generale della sua attività intellettuale, è fornita dalla raccolta di lettere pubblicata dal Perry nella sua opera monumentale; gran parte della cultura letteraria raggiungeva James attraverso le scene dei più famosi teatri del tempo; egli poteva assistere nel giro di pochi giorni alle opere di Schiller, al Faust di Goethe e poi all’Otello Tannhäuser e al Don Giovanni. Le sue letture erano molto varie e tutte interessanti; lesse il Faust, che come abbiamo visto poté vedere anche in rappresentazione teatrale, l’Aristotle di Lewes (in traduzione tedesca) e dei saggi di Hermann Grimm, che apprezzò molto. Lesse anche le opere di Sand, molto di Balzac e Théophile Gautier poi Erckmann-Chartian e Diderot. Ma James non leggeva solo di letteratura; la filosofia lo interessava grandemente; Kant era uno dei suoi autori preferiti, tanto che ne approfondì il pensiero con dei saggi critici (si tratta sicuramente di Leçons sur la philosophie de Kant, di Victor Cousin, opera del 1844 e di Erläterungen über des Hrn. Prof. Kant’s “Kritik der Reinen Vernunft”, che probabilmente conobbe nella traduzione francese di Tissot, dl 1865); James cercava anche di esercitarsi nell’arte della critica letteraria, ma le sue letture erano sempre linfa vitale e mai vuota erudizione; tra i suoi autori preferiti in questo senso troviamo Browning, Emerson e Goethe. Di George Sand lesse Daniella, e Beaux Messieurs de BoisDoré. Non tralasciò nemmeno gli autori russi e tra essi amava molto Turgenev. James era poi un grande frequentatore di musei e se pensiamo che a quest’attività ‘extra’ si aggiungeva lo studio degli autori scientifici di cui seguì le lezioni e la stesura di recensioni pubblicate poi in America, ci pare proprio che non si possa parlare di un periodo di vita ‘sprecato’. 80 Allen riporta un brano di una lettera che James scrisse al fratello Henry proprio a proposito del suo vecchio professore che la dice lunga sulla considerazione che ora gli riservava: “Quel farabutto di Agassiz non è degno, né da un punto di vista intellettuale né da un punto di vista morale, di legargli [a Darwin] le scarpe [...]” G. W. Allen, op. cit., p. 146. La medesima lettera è riportata per intero dal Perry. Cfr. TCWJ I, pp. 107-108. 81

Ivi, p. 286.

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potuto curare là i propri disturbi fisici, visti gli insuccessi terapeutici delle terme boeme; ormai aveva tirato in lungo abbastanza82 e se ne rendeva conto83; inoltre era giunto il momento di concludere i propri studi, per quanto questo potesse dargli poca soddisfazione84.

Al suo ritorno William si diede da fare per portare a termine il suo corso di studi. Continuava a leggere romanzi e libri filosofici, ma, rispetto all’anno e mezzo trascorso in Europa, si stava effettivamente impegnando nel campo scientifico85.

Ciò non toglie che James non era affatto entusiasta della laurea che avrebbe conseguito; come già abbiamo ricordato, la pratica medica non aveva mai esercitato una reale attrattiva per lui: Quel che egli voleva era, come Eliot aveva già potuto vedere, l’opportunità di studiare il corpo umano in tutte le sue parti e relazioni [...]86. Oltretutto, come vedremo nella terza parte, lo studio della medicina del tempo era rigidamente materialistico e riduzionistico e James già da tempo aveva cominciato a mettere in dubbio le certezze di quello che infatti veniva chiamato “materialismo medico”; il medico del tempo sembrava a James essere ben distante dalla figura di scienziato cui egli avrebbe voluto avvicinarsi il più possibile. Inoltre James aveva potuto provare personalmente l’inefficacia delle terapie mediche87 di allora; la sua schiena, i suoi occhi e il suo stomaco non stavano di certo meglio di quando era tornato dal viaggio in Brasile. Ora si

82 Difficoltà alla vista e dolori dorsali e allo stomaco, misteriosi nell’eziologia, fornirono a James la scusa per rimanere in Europa. Come Henry Lee Higginson e altri giovani della classe sociale di James si erano serviti di una serie di disturbi fisici per prolungare la loro permanenza nel Vecchio Continente, così William James cercava di convincere i suoi genitori che le terme di Teplitz avrebbero giovato alla sua salute. G. Cotkin, op. cit., p. 49.

A Tom Ward, nell’Ottobre del 1868, scrisse “Vengo a casa dove starò meglio, questa vita da vagabondo non fa per me” G. W. Allen, op. cit., p 151. Anche alla fine dei futuri soggiorni in Europa James userà frasi del genere. Il suo amore per l’Europa non fu mai più grande di quello per la sua terra natia e in fondo pensava che il popolo americano fosse veramente straordinario e ricco di quelle potenzialità e di quella freschezza intellettuale e morale che mancavano agli Europei. Per la sua sensibilità e i suoi gusti raffinati, [James] amava la colta ed estetica atmosfera della Francia e dell’Inghilterra e ci furono dei periodi in cui egli ne sentì la mancanza. Ma egli era in cuor suo un americano [...]J. J. Putnam, William James, in L Simon (a cura di), William James Remembered”, cit., p. 18. Da tutte le biografie emerge chiaramente il profondo amore che James provava per la sua terra natia, ma ciò non toglie ch’egli riconoscesse al suo popolo dei difetti tipici: Noi Americani siamo troppo avidi di risultati [...] e pensiamo soltanto a come raggiungerli più velocemente. TCBV, p. 88. Paradossalmente filosofi come Russell criticheranno in seguito il carattere yankee della filosofia pragmatica proprio in quei punti che James cercò di combattere col proprio lavoro: [...] Bertrand Russel vide nel concetto jamesiano di verità un esempio della fiducia americana nell’azione, nel potere e nel successo. P. Diggins, op. cit., p. 134. 83

84 Al ritorno da Cambridge nel Novembre del 1868, James fu in grado di dedicarsi agli studi in di medicina con sufficiente continuità da presentarsi per la discussione di tesi la primavera successiva; Insieme con i suoi studi egli riavvicinò i suoi amici; in modo particolare Wendell Holmes e Charles Peirce, di cui trovava affascinante l’oscurità di pensiero, e della cui carriera cominciò a occuparsi, così come avrebbe continuato a fare per i successivi quarant’anni. TCBV, p. 112. 85

H. Feinstein, op. cit., p. 219.

86

G. W. Allen, op. cit., p 10; Nella sua prima giovinezza [...] era attratto più dalla scienza che dalla pratica della medicina. TCWJ I, p.

289. 87 Lo stesso James non si sentì mai veramente un medico: nella maturità James ammise con Peirce che “La mia educazione medica mi ha reso adatto a una cosa sola soltanto: il riconoscimento della mia incapacità ad avere opinioni sia sulla diagnosi che sulla terapia”. WJ a C. S. Peirce, 10 Marzo 1909. D. Bjork, op. cit., p. 56.

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era aggiunto anche un disturbo di tipo psicologico, non meno invalidante di quelli di cui aveva sofferto finora e la medicina moderna sembrava essere totalmente impreparata ad affrontarlo88.

Il fatto di superare la discussione di laurea “senza alcuna difficoltà”89 il 21 Giugno del 1869, portò a James pace in due sensi: prima di tutto si tolse un peso enorme dalle spalle, e allo stesso tempo rappresentò un sostegno alla propria autostima. Da tempo aveva però abbandonato qualsiasi progetto di esercitare la professione medica90. Ma il momento di pace durò ben poco: William James si laureò in medicina nella primavera del 1869 e già nell’autunno di quell’anno egli era scivolato in uno stato depressivo che sarebbe durato due anni. A quanto sembra, sia la carriera che i problemi religiosi erano motivo di tormento per James. Egli combatté col concetto di predestinazione, così come presentato dal calvinismo del suo amato [sic] padre e, come contravveleno, egli studiò il filosofo francese Charles Bernard Renouvier91.

88 Il parere di James riguardo alla scienza medica non era dunque mutato dalla prima impressione che aveva avuto all’inizio della sua carriera. Il 21 Febbraio del 1864 scriveva alla madre: “Ho abbracciato la professione medica un paio di mesi fa. La mia prima impressione è che [...] con l’eccezione della chirurgia, in cui si ottiene effettivamente qualcosa di concreto, un dottore agisce più con l’effetto morale della sua presenza sul paziente e la sua famiglia, piuttosto che con altro. Oltretutto egli non fa che succhiare i soldi dai propri pazienti. G. W. Allen, op. cit., p. 98. William, studiando fianco a fianco con questi medici, non aveva più nemmeno l’ingenuità necessaria per farsi rassicurare. Sebbene fosse laureato in medicina, James non riteneva che i dottori fossero “scientifici” quanto ritenuto da loro stessi. Ivi, p. 372. D’altronde molti professori di James nutrivano gli stessi sentimenti; vale la pena di riportare una caustica frase del professore che laureò William James, Oliver Wendell Holmes Sr, padre del suo amico Oliver Jr.: “Se tutta la conoscenza medica (eccetto l’uso dell’oppio e dell’etere) attualmente applicata, potesse essere buttata sul fondo del mare, sarebbe tanto meglio per l’umanità e tanto peggio per i pesci”. Ivi, p. 99. James ebbe anche altri professori molto noti al tempo, come studente di medicina; fra questi va senza dubbio ricordato Charles Brown-Séquard, che era specializzato sulle malattie del cervello; il suo fu certamente un influsso durevole; egli insegnava infatti che anche l’uomo più normale non si può distinguere radicalmente da un epilettico: in ogni uomo ci sarebbe infatti una certa tendenza all’epilessia che può sfogarsi da un momento all’altro; questa visione ‘continuistica” verrà in qualche modo riproposta da James quando negherà l’esistenza di una radicale frattura fra menti ‘sane’ e ‘malate’. 89

Allen dà una felice descrizione della discussione di Laurea di James. Cfr. G. W. Allen, op. cit., pp. 157-158.

90

TCWJ I, p. 300.

Joseph F. Rychlak, William James and the Concept of Free Will, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James,, cit., p. 323. 91

89

Cfr. D. Bjork, op. cit., p. 67.

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Nel prossimo capitolo cercheremo di comprendere come James cadde in quello che in seguito avrebbe chiamato “il peggior tipo di malinconia”92 e come da questa riuscì a risollevarsi e a cominciare quella carriera che lo avrebbe reso uno dei più importanti filosofi di lingua inglese di questo secolo. Anche questi anni saranno caratterizzati da un’incessante ricerca della libertà, non più nella forma giovanile di una liberazione dal giogo paterno, ma come autonomia personale e intellettuale, in un intreccio fra filosofia e vita che sempre caratterizzò la figura di William James.

Per quanto riguarda Agassiz, questi era così famoso al tempo che non poteva non subirne una qualche influenza: Louis Agassiz a quel tempo [negli anni ‘60] aveva 53 anni d’età, ed era, come professore di geologia alla Lawrence Scientific School, all’apice del suo potere e della sua fama. TCBV, pp. 67-68; Louis Agassiz (1807-1973) era di origine svizzera e si era formato scientificamente in Svizzera, in Germania e in Francia (lavorando negli anni ’30 con Cuvier a Parigi); si era stabilito negli Stati Uniti nel 1846, insegnando a Harvard storia naturale e poi anatomia comparata; nel 1858 fondò quivi un museo di zoologia comparata di importanza internazionale. Il fascino esercitato dal famoso professore sul giovane James può essere facilmente compreso se si pensi alle affinità che il primo aveva con Henry James Sr.: sebbene Louis Agassiz fosse uno scienziato, egli condivideva col padre di William un’avversione al riduzionismo materialistico, un grande afflato religioso e una notevole capacità oratoria: Agassiz aveva circa la stessa età di Henry James Sr. Egli aveva però quella raffinatezza europea e quella dimestichezza con le lingue che mancavano a Henry. L’ammirazione di William per il virtuosismo oratorio di Agassiz può aver suscitato risentimento nel padre, che si considerava un oratore di primo livello. In ogni caso Agassiz, come il signor James, era critico verso la scienza materialistica e aveva una visione religiosa, se non mistica. D. Bjork, op. cit., p. 278, n. 11. Di fatto L’afflato spirituale di Agassiz, anche per le più semplici forme di vita, entusiasmava i suoi amici “non-scienziati”, [del Saturday Club] molti dei quali, come Henry James, credevano fermamente nell’aspetto religioso nella scienza naturale. P. J. Croce, op. cit., p. 114. E’ facile immaginarci un James affascinato da una figura di successo come quella di Agassiz che, pur non scostandosene apparentemente più di tanto, di certo metteva in ombra quella di uno swedenborghiano un po’ bizzarro che non avrebbe mai potuto vivere con la pubblicazione dei propri scritti; James vedeva in Louis Agassiz l’incarnazione dello scienziato di successo, ma soprattutto dell’uomo di successo, ciò che non era mai riuscito a trovare nel proprio padre: All’età di diciott’anni William James era più flessibile dal punto di vista professionale [...]. Inoltre egli possedeva una grande quantità di qualcosa che non si era mai sviluppata nel padre, l’ambizione professionale intellettuale. D. Bjork, op. cit. p. i

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29. Inoltre William aveva un carattere radicalmente differente da quello paterno: egli era straordinariamente adatto alla vita sociale, era apprezzato immediatamente da chi lo conosceva e si sentiva a suo agio in ogni contesto sociale. R. B. Perry, In the Spirit of William James, cit., p. 6. D. Bjork, op. cit., p. 41. Per quanto riguarda l’influsso di Gray, che certamente era uno scienziato più famoso di Wyman e poteva vantare una conoscenza diretta con Darwin, è probabilmente corretto ritenere, con Bjork, la sua influenza su James meno importante di quanto si potrebbe pensare a tutta prima; Asa Gray, un newyorchese di origine irlandesescozzese, era diventato professore si storia naturale a Harvard proprio nell’anno della nascita di William James; il suo campo era però la botanica e per questo probabilmente esercitò una scarsa influenza diretta su James, visto che questi era interessato più al regno animale che a quello vegetale. Potremmo dire però ch’egli esercitò un’influenza indiretta: Gray era infatti il maestro di Chauncey Wright (vedremo in seguito quanto sarà importante la figura di Wright proprio per il ‘darwinismo’ di James). Secondo Wiener, Wright dovette molto, per quanto riguarda il suo neutralismo scientifico proprio all’insegnamento di Gray, e anche di Wyman. A questo proposito cfr. Asa Gray, Darwin and his Reviewers, “Atlantic Monthly”, 6 (1860), p. 423; sulla figura di Asa Gray cfr. A. Hunter Dupree, Asa Gray 1810-1888, Harvard University Press, Cambridge 1959. Bjork però ha un atteggiamento abbastanza confuso riguardo alla conoscenza che James aveva dell’opera di Darwin; all’inizio del capitolo quarto scrive: Non c’è alcuna evidenza diretta che William lesse [negli anni della Lawrence] Darwin, sebbene egli fu certamente introdotto alla “teoria evolutiva” mentre studiava con Wyman dal 1863 al ’65. D. Bjork, op. cit.., p. 42. All’inizio del capitolo ottavo: Ovviamente James aveva letto Darwin all’inizio degli anni ’60 mentre era studente alla Lawrence Scientific School. E nel 1868 recensì anche un libro di Darwin, The Variations of Animals and Plants under Domestication, sull’Atlantic Monthly (1868). Ivi, p. 108, n. 2 Sott. nostra. Questo atteggiamento contraddittorio è facilmente comprensibile, ma non giustificabile, se si analizza il ruolo che Bjork assegna al ‘darwinismo’ di James; egli infatti, cerca in qualche modo di sminuire l’importanza che ebbe lo studio, e non solo la lettura, di Darwin da parte di James; il ‘timore’ che James possa essere considerato un darwiniano è evidente in questo brano: Il darwinismo era strumentale piuttosto che essenziale per James. Esso non determinò i suoi parametri di pensiero più di quanto fece l’empirismo britannico o l’idealismo tedesco [...]. Il genio deve manipolare e James cominciò a manipolare idee con notevole successo. Ibidem. Ma su questo non c’è alcun dubbio! Dire che William James fu, come la maggior parte dei filosofi del tempo, e come tutti i filosofi che si formarono nella Boston di questi anni, influenzato dalla filosofia darwiniana non vuol dire affatto ch’egli fosse un epigono di Darwin o un suo ‘difensore’, à la Huxley. Che James abbia letto l’opera di Darwin attribuendole nuovi significati e nuovo valore non diminuisce infatti l’importanza che le teorie dello scienziato inglese ebbero per la sua formazione e per la sua filosofia futura. Ma c’è anche una questione di merito che qui possiamo soltanto accennare e che svilupperemo nei prossimi capitoli: Bjork cerca di combattere, con pochi strumenti a nostro avviso, un’interpretazione che è stata ultimamente sostenuta — anche — da Robert J. Richards, e cioè che la teoria darwiniana fu quella base scientifica sulla quale James poté costruire la sua filosofia indeterministica, in ‘supporto’ al pensiero di Charles Renouvier; noi cercheremo, con l’aiuto di Richards e non solo, di dimostrare che fu proprio grazie alla lettura di Darwin che James riuscì a uscire dall’impasse materialistica in cui si era venuto a trovare alla fine degli anni ’60 senza per questo dimenticare che la grandezza di James sta nell’essere riuscito a ‘manipolare’, come direbbe Bjork, idee provenienti anche da correnti di pensiero radicalmente diverse; giusta questa interpretazione, il ‘darwinismo’ di James non si oppone al suo indeterminismo, ma ne è anzi la premessa, né si oppone a tutti quegli stimoli intellettuali che giunsero a James da direzioni affatto diverse. Anche Ramsey sembra volere sminuire a tutti i costi il ruolo di Darwin nella formazione del giovane James: Egli fu discepolo dei darwinisti, ma uno che aveva imparato il rispetto per i “fatti” dall’anti-darwinista Agassiz,. Bennett Ramsey, Submitting to Freedom; The Religious Vision of William James, Oxford University Press, New York-Oxford 1993, p. 34. Come se William James non potesse imparare il rispetto per i fatti anche dalla lettura delle opere di Darwin.... Agassiz inoltre aveva mostrato sì il proprio rispetto per i fatti, ma solo fintanto che questi si adattassero alle proprie teorie. Non si capisce poi in che senso James può essere considerato “allievo dei darwinisti”. Chi sarebbero? Chauncey Wright? Spencer? Wyman e Gray? Nessuno di questi può essere definito a buon diritto “darwinista” anche perché al tempo, data la novità dell’opera e l’atteggiamento dubbioso anche di chi poi avrebbe abbracciato le teorie evoluzionistiche di Darwin, non esisteva ancora l’aggettivo “darwinista” (che nell’opera di Ramsey assume evidentemente delle sfumature affatto negative). ii

Anche durante i primi anni alla Lawrence James approfondì i suoi studi con testi ‘facoltativi’: A metà febbraio [1863] James tornò alla lettura della Human Phisiology di John William Draper, forse il testo di fisiologia più importante del periodo [...]. Draper era uno scienziato americano con interessi nella religione e nella storia. Egli era stato uno dei primi a convertirsi alla prospettiva evoluzionistica e in seguito avrebbe scritto History of the Conflict between Religion and Science (1874) che avrebbe scatenato notevoli controversie James era particolarmente interessato alla teoria per cui ci sono ragioni fisiche [e quindi non trascendenti] per lo sviluppo di ogni cosa del mondo naturale. [...] William stava chiaramente assorbendo la prospettiva evoluzionistica da altri scrittori oltre a Darwin.. Quando venne la primavera James sembrava essere sempre più interessato al problema scientifico della causazione materiale. D. Bjork, op. cit., p. 46-47; I taccuini degli anni 1862-63 sono conservati e ci fanno capire bene la varietà di interessi del giovane James: egli leggeva opere di Agassiz, di Joseph Lovering (Electrostatics, Electrodynamics and Acoustics), un saggio sulla rivoluzione francese e Kraft und Stoff di Büchner, nonché History of Ancient Sanskrit Literature, di Max Müller. Lesse le Origins of Language di Farrar e Jonathan Edward (Origial Sin). Ma già anni prima James aveva dimostrato una notevole autonomia nella scelta delle proprie letture; soprattutto aveva mostrato una sorta di preveggenza: nell’inverno del 1858 William portò a casa un volume di Schopenhauer [mostrandone con piacere i passi pessimistici]. A quel tempo William non aveva la minima idea che egli stesso sarebbe in seguito diventato un filosofo, ma già allora egli era interessato ai rapporti che intercorrono tra la vita personale di un filosofo e la sua produzione intellettuale. G. W. Allen, op. cit., p 53. Per comprendere dunque la formazione intellettuale di James bisogna sempre cercare di andare oltre all’apparenza dei iii

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suoi studi: Ma vedere James in questi anni [della Lawrence] impegnato nello studio della chimica, dell’anatomia comparata o della medicina, vuol dire farsi un’idea totalmente inadeguata del suo sviluppo intellettuale. TCWJ I, p. 214. Non bisogna però dimenticare che gli studi veri e propri di James furono nel campo scientifico: I suoi studi, intesi come applicazione sistematica sotto un’esperta direzione, riguardarono le scienze biologiche. TCBV, p. 78.

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Capitolo 2.1 Charles Renouvier e la ‘versione autorizzata’ della depressione di William James Fare, non divenire, ma fare, e facendo, farsi. — J. Lequier Così come Bonaparte dichiarava che l’Europa dell’avvenire avrebbe dovuto essere o repubblicana o cosacca, io mi sento portato a dire, andando al limite della semplificazione, che la filosofia dell’avvenire dovrà essere o quella di Renouvier o quella di Hegel. — W. James

2.1.1 Tra le due ‘crisi’ — una reductio ad unitatem Nella mia mente apparve l’immagine di un paziente epilettico che avevo visto all’istituto; un giovane, moro e dalla pelle verdastra, completamente idiota, ch’era solito stare seduto su una delle panche, oppure in disparte, attaccato al muro, con i ginocchi tirati su fino al mento, tutto racchiuso nella rozza camiciola grigia ch’era il suo unico indumento. Stava là come una specie di scultura egizia, o una mummia peruviana, immobile tranne che negli occhi, che sembravano disumani [...] Quell’uomo potrei essere io, pensai1.

Non esiste libro su James che non citi, anche solo in parte, questo brano delle Varieties of Religious Experience. L’episodio, noto come quello del “paziente epilettico”, è presentato come la testimonianza di un corrispondente francese, protagonista di una delle tante esperienze religiose riportate nel testo succitato: perché dunque la critica gli ha riservato tanta attenzione? La risposta è contenuta in un piccolo libro, La Philosophie de William James, che Théodore Flournoy pubblicò a un anno dalla morte di James, nel 1911.

Il brano poi, dopo qualche riga, continua così: [...] divenni una massa tremante. Dopo quel giorno l’universo non più per me lo stesso. Mi svegliavo giorno dopo giorno con lo stomaco contratto dalla paura, e con un senso di insicurezza per la vita che non avevo mai conosciuto prima e che non ho mai più provato da allora. Fu come una rivelazione; e sebbene quelle sensazioni terribili passarono rapidamente, quell’esperienza mi rese sensibile nei confronti di chi soffre per pene simili. [...] per mesi non fui in grado di stare al buio da solo. E, manifestando la religiosità della sua esperienza, il corrispondente francese prosegue: quella paura fu così potente e profonda che se io non mi fossi affidato alle Sacre Scritture pronunciando frasi come “Il dio eterno è il mio rifugio” [...] “Io sono la resurrezione e la vita”, penso che sarei veramente diventato pazzo. VRE, p. 134. 1


Flournoy rivelò che l’episodio non era affatto riferibile a un qualche paziente francese, al contrario si trattava di una memoria autobiografica2! È questo un brano di fondamentale importanza perché molte delle supposizioni riguardo alle cause della depressione di James trovano la loro forza nell’ipotesi che esso sia genuinamente rappresentativo della sua condizione psichica; come vedremo in seguito, l’identificazione tra l’esperienza dell’immaginario corrispondente francese e quella del nostro autore, per quanto veridica nella sostanza, può essere fuorviante se seguita in tutti i suoi dettagli3.

Che James avesse sofferto ‘di nervi’, come si diceva una volta, non è mai stata una novità; ciò che ha reso il brano dianzi riportato particolarmente interessante per lo studioso jamesiano è — oltre all’autobiograficità — la sua vicinanza cronologica con un’altra ‘crisi’ attraversata da James, e riportata, questa volta senza dissimulazioni, nelle preziosissime pagine del suo diario: si tratta della famosa ‘conversione’ a Renouvier:

Penso che ieri ci sia stata una crisi nella mia vita. Ho finito la prima parte del secondo Essai di Renouvier e non vedo ragione per cui la sua definizione di Libera Volontà [Free Will] — “il sostenere un pensiero poiché io l’ho scelto quando avrei potuto avere altri pensieri” debba essere considerata un’illusione. Ad ogni buon conto, io la considererò come non illusoria, almeno fino all’anno prossimo. Il mio primo atto libero sarà quello di credere nella libera volontà4.

La storia di questa ‘scoperta’, oscura nei dettagli nella maggior parte delle biografie di James, è stata recentemente spiegata molto chiaramente da un articolo di Louis Menand: Come tutti sanno, la storia del Francese è una finzione. Nel 1904 le Varieties vennero tradotte in francese e il traduttore, un certo Frank Abauzit scrisse a James (comprensibilmente), per chiedere il testo originale della memoria del paziente. “Il documento”, rispose James “(...) è il resoconto di una mia esperienza personale: attacco nevrastenico acuto con fobia. Naturalmente ne ho dissimulata la provenienza! Potete dunque tradurre liberamente”[la lettera è citata anche nell’“Appendice VI” delle Varieties, nell’edizione standard, a p. 508] Abauzit era un amico dello psicologo svizzero Théodore Flournoy, amico di James; essi condividevano un notevole interesse per i fenomeni metapsichici, spiritualismo, fenomeni medianici etc. Nel 1911 Flournoy pubblicò La Philosophie de William James, nel quale veniva citato il passaggio delle Varieties riguardo alla visione del paziente epilettico allegando la lettera ad Abauzit. Si venne così a sapere che il racconto era autobiografico. Louis Menand, William James & the Case of the Epileptic Patient, WWW. Nybooks.com/Nyrev/WWWarchdisplay.cgi?19 p. 6. 2

3 Soprattutto per quanto concerne il riferimento finale all’invocazione delle Sacre Scritture; James infatti dichiarò trattarsi di un’esperienza personale — “attacco nevrastenico acuto con fobia” — senza fare alcun esplicito riferimento all’epilogo religioso. 4 LWJ I, p. 147. James scrisse queste parole sul suo diario, conservato attualmente alla Houghton Library di Harvard, in data 30 Aprile 1870. Il riferimento bibliografico è agli Essais de critique générale. Deuxième essai. L’homme: la raison, la passion, la liberté, la certitude, la probabilité morale, Paris 1859. Nella seconda edizione, del 1875, il saggio venne intitolato: Essais decritique générale. Deuxoème essai. Traité de psychologie rationelle.

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I due brani vengono spessissimo citati l’uno a poca distanza dall’altro perché rappresenterebbero nella maniera più chiara il percorso di ‘caduta’ e ‘rinascita’ del giovane James5: egli avrebbe attraversato una terribile crisi psicologica alla fine dell’inverno del 1869-70 e si sarebbe poi risollevato solo dopo la lettura, la ‘scoperta’, dell’opera di un filosofo francese al tempo poco più che sconosciuto, Charles Bernard Renouvier6. Questa linea interpretativa presuppone — per quanto non sia necessario — che la situazione di crisi vissuta da William James fosse stata determinata dalla convinzione, superata e ribaltata dopo la lettura di Renouvier, che l’uomo non è libero: presuppone cioè che si trattasse di una crisi ‘filosofica’, di una crisi ‘intellettuale’ o più genericamente di una crisi ‘spirituale’i. James, in sostanza, sarebbe entrato in crisi per un motivo squisitamente filosofico e caratteriale al tempo stesso: il riconoscimento della realtà del determinismo e l’incapacità di accettarlo; questo attrito tra coscienza e intelletto avrebbe fatto precipitare James in una situazione apparentemente disperata fino alla ‘scoperta’ della dottrina del filosofo francese. Il primo e più importante studioso ad avere sostenuto questa interpretazione è stato senza dubbio il Perry, ma, come abbiamo detto, molti lo hanno seguito sulla stessa strada, quasi mitizzando l’importanza di un episodio che in The Thought and Character of William James rimane invece inserito in una complessa ed elaborata analisi dei fatti:

La sua guarigione iniziò miracolosamente con la lettura di un saggio sul libero arbitrio del filosofo francese Charles Renouvier, che lo portò alla decisione che “Il mio primo atto di libero arbitrio sarà quello di credere nel libero arbitrio”7.

Altri invece, pur condividendo la prospettiva interpretativa del più famoso biografo di James hanno cercato di analizzare i fatti in maniera meno ‘miracolistica’ e tenendo conto di quella pluralità fattoriale che caratterizza la vita e il pensiero del pragmatista americano8.

O di Depression and Recovery ; titolo del XIX capitolo della monumentale opera del Perry, dedicato proprio al tema della depressione di James. Cfr. TCWJ I, pp. 320-332. Nell’edizione ridotta l’argomento è trattato al cap. XIII, sempre con lo stesso titolo: cfr. TCBV, pp. 119-127. 5

Non del tutto sconosciuto però a James che aveva potuto conoscere Renouvier — sebbene superficialmente — nel suo soggiorno tedesco di due anni addietro: Prima di prendere la decisione di tornare in America, James aveva avuto l’occasione di leggere un saggio di un francese di nome Charles Renouvier che si sarebbe rivelata una figura di importanza notevole per la sua vita futura. Egli cita questa “scoperta” in una lettera la padre, sebbene del saggio non avesse letto che una parte e sapesse soltanto che il suo autore era un empirista non determinista.. G. W. Allen, op. cit., p. 151. 6

7 Helmut E. Adler, William James and Gustav Fechner; From Rejection to Elective Affinity, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpretring the Legacy of William James, cit., p. 254. 8 Il tema della depressione di James e del suo rapporto col problema filosofico del determinismo è stato rivitalizzato negli ultimi anni da recenti e interessanti studi biografici che hanno potuto fare riferimento a materiale — lettere diari etc — precedentemente sconosciuto o ignorato; fino a pochi decenni fa si era soliti affidarsi quasi esclusivamente alla testimonianza, non totalmente scevra di interpolazioni, del fratello Henry: Ciò che noi sappiamo della vita del giovane William è contenuto nelle memorie di Henry, scritte qualche anno dopo la morte di William, quando lo stesso Henry si trovava in uno stato di malattia e di depressione, portato naturalmente a idealizzare la passata fanciullezza. L. Simon, op. cit., p. 39. Anche l’epistolario di James noto come 53


L'idea che la volontà e la coscienza in genere possano dipendere in modo totale, necessario e diretto dalla causalità fisica degli stati cerebrali, determinò in James, o quanto meno determinò in parte, quello stato di grave depressione dal quale egli, per sua esplicita ammissione, cominciò a riaversi solo dopo la lettura degli Essais de Critique générale del Renouvier [...]9.

Prima di continuare nell’analisi dei fatti e delle interpretazioni occorre però aprire una breve quanto importante parentesi: quella che abbiamo chiamato qui ‘ipotesi spiritualistica’ è stata elaborata dal Perry non in riferimento all’episodio dell’epilettico, cioè a un momento — quello che potremmo definire clinicamente la fase acuta — ma a tutto un periodo di depressione.

Quando mi riferisco alla crisi spirituale di James io non faccio riferimento specificamente all’attacco di melanconia acuta descritto nel passaggio autobiografico delle Varieties of Religious Experience. La data di questo fatto non può essere stabilita con precisione: potrebbe essere collocata in qualsiasi momento fra il suo ritorno dall’Europa [1868] e il definitivo miglioramento della salute del 1872 [...] Si trattava di un attacco patologico piuttosto che di una crisi spirituale10.

The Letters of William James, ancor oggi strumento indispensabile per chi non voglia accontentarsi di una conoscenza indiretta della vita e del pensiero di James, raccoglie solo una piccola parte dell’immensa mole di lettere ch’egli scrisse e ricevette durante la sua intensa vita; inoltre, Henry James (Henry III, figlio del nostro autore e curatore dell’epistolario) è spesso responsabile di omissioni e di fraintendimenti. Lo stesso William James poi, come spesso accade, non può essere considerato né il miglior biografo né il miglior critico di se stesso e lo vedremo specificamente proprio in relazione al tema ‘esistenziale’ della depressione e a quello, ad esso strettamente legato, del determinismo. I libri del fratello Henry cui abbiamo fatto riferimento sono: Notes of a Son and Brother, Charles Scribner’s Son, New York 1914 e A Small Boy and Others, Ivi, 1913. 9

C. Sini, op. cit., p. 271.

10 TCBV, p. 120. Sempre il Perry, nella Briefer Version della sua biografia, scrive: Si trattò più di una crisi di nervi piuttosto che di una crisi spirituale.. TCBV I, p. 322. Perry pare tenere molto a questa distinzione anche se non ne dà una chiara spiegazione; la nostra ipotesi è ch’egli si rendesse perfettamente conto che un “attacco nevrastenico acuto” — secondo le parole dello stesso William James — fosse difficilmente spiegabile in termini ‘spirituali’; ovvero è difficile pensare che una lunga riflessione su temi filosofici, per quanto profonda e tormentata, possa sfociare in un “attacco patologico”. Questa distinzione del Perry presuppone dunque che, di contro, il periodo della depressione di James sia comprensibile in chiave spiritualistica; come vedremo in seguito, la critica più recente ha invece posto chiaramente la propria attenzione sui fattori ‘esterni’ della depressione di James, abbracciando un approccio eziologico capace di spiegare sia la sua forma cronica sia la sua fase acuta. D’ora in poi parleremo dunque di ipotesi spiritualistica esclusivamente in riferimento a quello che abbiamo definito il periodo della depressione di James; purtroppo molti critici, rifacendosi distrattamente all’autorità del biografo ufficiale del nostro autore, hanno fatto un po’ di confusione, attribuendo in maniera quanto meno improbabile il ‘crisma’ della spiritualità a un episodio che rientra invece nella sfera della psichiatria: All’età di ventott’anni James attraversò una crisi spirituale che lo portò sull’orlo del suicidio. J. Schull, Selection — James’s Principal Priciple, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 139.

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Di “crisi spirituale” — e quindi di interpretazione spiritualistica della crisi — si può parlare per Perry a proposito dell’intero periodo che va dal ritorno di James dall’Europa (1868) al 1872, data in cui James comincia la sua carriera di insegnante a Harvard:

La crisi spirituale fu il declino della voglia di vivere, per mancanza di una filosofia per cui valesse la pena di vivere — uno stato di paralisi determinato da un senso di impotenza11. La descrizione del periodo depressivo di James è reso efficacemente dal Perry in queste poche righe; quel che forse possiamo aggiungere è che in James la dimensione psicologica del suo malessere fu sempre accompagnata da una lunga serie di disagi fisici: James — come abbiamo visto nel Capitolo precedente — già dal ritorno dalla Thayer Expedition, cominciò a soffrire di dolori alla schiena, di problemi agli occhi e allo stomaco (gastriti croniche), di spossatezza e di una grave forma di insonnia12; l’insieme di questi disturbi nella migliore delle ipotesi portava James in uno stato di ipersensibilità e di irritazione e, nei momenti peggiori, in una condizione di vera e propria invalidità fisica o, come dirà egli stesso, di “physical imbecillitas”. Dai resoconti di James e dei suoi più stretti familiari è evidente che pochi di questi mali erano giustificabili da un punto di vista squisitamente organico e anche i problemi agli occhi, che potrebbero essere parzialmente spiegati come la conseguenza dell’infezione contratta in Brasile, sembrano essere un tipico disturbo psicosomaticoii.

Recentemente molti studiosi hanno messo in dubbio l’approccio spiritualistico, cercando di dare peso a ‘fattori esterni’13 come i problemi di James con il padre, le preoccupazioni intorno alla carriera e le ansie riguardo alla vita sentimentale; questa nuova linea interpretativa, sebbene non possa dirsi in contraddizione od opposta a quella classica14, ha certamente contribuito a fornire una visione più

TCWJ I, p. 322. Nella esposizione che ne daremo non faremo differenza fra approccio spiritualistico e intellettualistico; le differenze di sfumature che possono darsi fra una crisi spirituale e una intellettuale sono molto meno importanti, almeno nel caso di James, dei punti di contatto; d’altronde spesso i critici utilizzano i due termini come sinonimi: Negli anni 1869-70 egli attraversò una dura depressione durante la quale egli perse la voglia di vivere; riuscì a emergere da questa situazione grazie a una soluzione di carattere squisitamente intellettuale, un’appassionata fiducia nella libertà del volere umano. R. Hofstadter, op. cit., p. 127. 11

12 L’insonnia fu un problema che accompagnò James per lunghi periodi, anche ben oltre i primi anni ’70. Cfr. per es. una lettera scritta a Renouvier da Venezia in data 23 Ottobre 1882: Ho deciso di partire prima del previsto, perché penso che l’aria di qui non mi aiuti a dormire. Ho lasciato casa con la speranza che la mia insonnia cronica sarebbe migliorata, mentre attualmente è uguale, se non peggiore, di prima [...] . G. W. Allen, op. cit., p. 248. James parla chiaramente di un disturbo cronico; Cfr. anche ivi, p. 264 e p. 288, dove vengono riportati i tentativi terapeutici (tra cui l’ipnosi) per curare — peraltro senza successo — la propria insonnia, ch’è testimoniata ancora nel 1898 (Ivi, p. 388). Dell’insonnia come sintomo di un quadro clinico più complesso cfr. D. Brett. King, Evolution and Revision of the Principles, in M. E. Donnelly, Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 70. 13 Secondo l’espressione di Cotkin, “external factors’. Cfr. G. Cotkin, op. cit., p. 62 e passim. Forse non si tratta di un’espressione molto elegante, ma, faute de mieux, ci serviremo d’ora in poi di questa.

I due approcci, quello intellettualistico e quello esterno possono infatti convivere in un’interpretazione di più ampio respiro, che cerchi di non semplificare a tutti i costi la vita e il pensiero del nostro autore (e il loro legame). Noi cercheremo 55 14


equilibrata del percorso compiuto da James in quella che Conrad avrebbe chiamato la sua “linea d’ombra”. In questo capitolo cercheremo di esporre nella maniera più chiara possibile la lettura spiritualistica del depressive period di William James, ricordando fin d’ora ch’essa cerca di rispondere con gli stessi strumenti intellettuali principalmente a due domande: 1) Come accadde che James si ammalò? 2) Come accadde che James guarì?

Di fatto non furono né il Perry con la sua ricchissima biografia, né il figlio Henry (Henry III) con l’edizione dell’epistolario paterno, a dare per primi una visione intellettualistica del periodo di depressione di William James. Fu lo stesso James a offrire più di un’indicazione in questo senso:

Non devo perdere l’opportunità di dichiararvi l’ammirazione e la riconoscenza che ha suscitato in me la lettura dei vostri Essais (tranne il terzo, che ancora non ho letto). Grazie a voi io possiedo per la prima volta un comprensibile e ragionevole concetto di libertà, che accetto completamente. Su altri punti della vostra filosofia nutro ancora dei dubbi, ma posso comunque affermare che attraverso la vostra filosofia io sto cominciando a rinascere alla vita morale; e vi assicuro, Monsieur, che non è poca cosa15!

Questa lettera è interessantissima sotto vari aspetti; James, oltre a dichiarare al filosofo francese la sua riconoscenza per avergli fornito un concetto ragionevole, e quindi difendibile come fondamento di un pensiero filosofico, di libertà, parla di una rebirth of the moral life, una “rinascita”. L’aggettivo “morale” potrebbe però essere addirittura eliminato, a meno che non si riconosca che in questo periodo vita e vita morale coincidono, proprio nel tentativo di trovare una risposta capace di risolvere i suoi dilemmi filosofici insieme con quelli esistenziali.

Probabilmente restio nel rivelare i suoi anni di sofferenza psicologica a una persona che non aveva mai conosciuto, James parla di “rinascita morale”, ma si trattava di qualcosa di ben più importante: una

di delinearne la possibilità, anticipando fin d’ora che la complementarietà dei due approcci si manifesterà su due piani differenti: mente l’interpretazione esterna è decisamente più capace di dare ragione di quell’insieme di fattori – esterni appunto – che portarono James in uno stato di grave depressione, l’approccio intellettualistico sarà importante per comprendere la forma che questa depressione assunse. Le stesse testimonianze di James – cui fanno affidamento principalmente i sostenitori di approccio spiritualistico – si riferiscono essenzialmente alla forma piuttosto che alle cause della depressione. WJ a Charles Renouvier, 2 Novembre 1872. LWJ I, p. 163. La corrispondenza fra James e Renouvier sarebbe durata cinque lustri e — sebbene Renouvier morì solo sette anni prima di James — c’erano fra i due ventisette anni di differenza. Il grande rispetto sempre dimostrato da James nel rivolgersi a Renouvier fu in parte motivato anche da questa differenza di età che James rimarcava spesso, a volte in maniera un poco imbarazzante, scusandosi delle sue ‘intrusioni’ nella vita di un filosofo già negli anni ’70 ritenuto anziano. 15

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rinascita vera e propria, il passaggio da un periodo di disperazione a un periodo di fiducia, se non ancora di serenità e di benessere, il passaggio dalla morte alla vita16; lo sapeva bene il padre Henry, ormai da tempo al corrente della sofferenza del figlio. In una lettera al secondogenito datata 18 Marzo 1873, Henry scrive:

William è venuto a trovarmi l’altro pomeriggio, mentre stavo da solo e, dopo aver camminato nervosamente per qualche istante mi ha detto: “Benedici la mia anima; che differenza tra come sto ora e come stavo la primavera scorsa! Allora ero così ipocondriaco, e oggi la mia mente così illuminata e di nuovo sana. E’ come la differenza tra la vita e la morte”. Era molto espansivo. Temevo di interferire con questa sua gioia, ma mi sono arrischiato a domandargli che cosa avesse prodotto in lui un tale cambiamento. Ha fatto riferimento a molte cose: la lettura di Renouvier (in particolare la sua difesa della libertà del libero arbitrio) e di Wordsworth [...], ma più di ogni altra cosa, l’avere abbandonato l’idea che tutti i disturbi mentali [mental disorders] debbano avere un’origine fisica17.

James dunque riconosce chiaramente che la sua rebirth è, per lo meno in grande parte, attribuibile alla lettura di Renouvier. Nel prossimo capitolo mostreremo come questo brano deponga solo apparentemente a favore di un’interpretazione intellettualistica.

Ma in quali ‘abissi morali’ si trovava James prima di rinascere grazie al filosofo francese? Quali erano i problemi cui Renouvier sembrò dare una risposta, almeno provvisoria? Il brano succitato sembra porci già in una direzione ben precisa: a parte il riferimento generico a Wordsworth, James parla di un tema specifico della filosofa di Renouvier (il problema della libertà) e di un Leitmotiv della scienza fisiologica contemporanea: la dipendenza dello psichico dal fisico. Sono questi due temi strettamente, anche se non necessariamente, legati l’uno all’altro: di fatto in James lo furono.

Scrive Jonathan Schull: Per James, questi problemi apparentemente astratti [determinismo-indeterminismo, libertàpredestinazione etc] erano letteralmente faccenda di vita o di morte [...]. J. Schull, Selection — James’s Principal Principle, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 140. 16

17

LWJ I, pp. 169-70. 57


2.1.2 Spencer, Büchner & Co. Come abbiamo visto nel capitolo precedente, James, dopo avere abbandonato il progetto di diventare un naturalista, si era dedicato, sebbene con notevoli riserve, allo studio della medicina; a quel tempo, come oggi d’altronde, l’epistemologia che sottendeva la scienza medica era incentrata su di un rigido materialismo, potremmo meglio dire un materialismo riduzionistico18: tutti i ‘fenomeni’ umani, fisici e psichici, sono causati da forze fisiche determinate e immutabili e debbono essere spiegati secondo leggi determinate e immutabili, avvicinandosi il più possibile alla perfezione della scienza fisica. James venne inizialmente attratto da un approccio di questo tipo, e non deve certo stupire, visti i risultati che la scienza, non esclusa la medicina, stava ottenendo fondandosi su un ferreo materialismo. D’altronde William James non dovette di certo aspettare l’iscrizione alla Medical School di Harvard per conoscere la filosofia materialistica. All’inizio degli anni ’60 erano pochi coloro che non erano stati attratti dalla dottrina di Herbert Spencer, apparentemente il perfetto punto di equilibrio tra una visione dinamica e un’interpretazione rigorosamente scientifica della natura.

Da giovane James fu ‘trascinato con entusiasmo’ dal materialismo evoluzionistico di Herbert Spencer. Secondo lo schema di Spencer, tutto ciò che è fisico, psichico, biologico o sociale, si è evoluto o si evolve secondo un unico modello, fisso e progressivo. Ma James era turbato dal fallimento spenceriano di spiegare l’esperienza cosciente e dalla sua conseguente opposizione alla libertà19.

Ford riassume molto bene sia la posizione di Spencer sia la futura reazione e opposizione d James; il fatto è che inizialmente James, come molti suoi contemporanei, non vide quegli aspetti della dottrina spenceriana che in seguito gli sarebbero sembrati irrazionali, prima che immorali20.

Sini sottolinea l’importanza ch’ebbe la formazione medica di James e la sua relazione con la scoperta degli scritti di Renouvier: James era rimasto particolarmente impressionato dal carattere "materialistico" dei suoi studi di medicina che, in clima positivistico, erano generalmente orientati in senso deterministico. La teoria dell'automatismo, in particolare, riconduceva ogni fenomeno psichico ad una base fisica, sicché James, dopo il fallimento delle numerose e svariate cure alle quali si era sottoposto, si era convinto che i suoi disturbi nervosi non avrebbero trovato soluzione. Fu la lettura di Renouvier, come egli racconta, a riaprirgli una nuova prospettiva e a ridargli coraggio. C. Sini, op. cit., p. 248-249. Anche Diggins ricorda come James fosse, come studente di medicina, molto più interessato alle implicazioni filosofiche dei suoi studi piuttosto che all’anatomia o alla pratica medica. Negli anni trascorsi come studente di medicina James divenne terrorizzato dal pensiero che l’uomo fosse un meccanismo destinato ad agire in un universo di leggi ferree. P. Diggins, op. cit., pp. 122123. 18

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M. P. Ford, op. cit., p. 26.

Robert Richards, distinguendo la crisi spirituale jamesiana in tre componenti (professionale, interpersonale e psicometafisica. Cfr. R. J. Richards, op. cit., p. 415) scrive, a proposito della terza componente: Durante gli anni ’60 egli aveva infatti entusiasticamente abbracciato la filosofia scientifica di Herbert Spencer, che proclamava una deterministica evoluzione della materia e della mente [...]. Anche se la dottrina di Spencer cominciò a vacillare sotto l’esame di James, il suo determinismo si era ormai sedimentato sulle sue 58


James conobbe l’opera di Spencer circa negli anni ’60-’62 ed è noto l’episodio in cui Peirce, attaccando senza riserve l’immagine dello scienziato inglese, aveva profondamente colpito e ferito James; ma ben presto, e anche questo è ben noto, l’atteggiamento di James cambiò radicalmente: “Egli ha lasciato il suo nome ai posteri, legato a una virtù e a mille crimini. L’unica virtù è la sua credenza nell’universalità dell’evoluzione”21. James scrisse queste parole nel 1892: già da molti anni egli aveva cambiato radicalmente idea riguardo al famoso filosofo inglese: di fatto il nostro autore aveva vissuto un periodo, non troppo remoto, in cui non si sarebbe affatto peritato di definirsi “spenceriano”. Egli d’altronde, come abbiamo già osservato, fu sempre, e ancor più da giovane, affascinato dalla novità e dalla rivoluzionarietà di un pensiero filosofico e scientifico e pochi furono coloro che, anche su posizioni radicalmente differenti, non riconobbero la novità e l’originalità, ma potremmo forse meglio dire la ‘forza’ del filosofo di Derby: anche coloro che criticheranno aspramente l’evoluzionismo meccanicistico di Spencer riconosceranno allo stesso tempo l’importanza ch’ebbe il suo pensiero per la scienza e la cultura di almeno due generazioni. Come scrive il Perry all’inizio del XXVIII capitolo della sua opera monumentale, Il periodo in cui James si formò intellettualmente fu quello della moda di Spencer22. Anche quando James si allontanerà dalla filosofia spenceriana, e non solo grazie alle discussioni con l’amico Peirce, lo farà sempre con un certo rispetto, testimoniato anche dal fatto che per anni gli scritti del filosofo inglese saranno i libri di testo per le sue lezioni alla Harvard University. La cosa non deve affatto stupire; tratteremo più approfonditamente del ruolo di Spencer nella filosofia di James nel Capitolo 3.1, per ora ci basti dire che uno dei primi, se non il primo, contatto con un materialismo filosofico oltre che scientifico avvenne proprio attraverso la lettura di quest’autore.

convinzioni. L’atteggiamento della scienza moderna mostrava un’inesorabilità cui nemmeno la mente riusciva ad affrancarsi, teoria che si rivelò a James nello studio delle fisiologia tedesca, specialmente quella di Du Bois-Reymond, le cui lezioni egli ebbe modo di seguire a Berlino. Il positivismo dei suoi amici Chauncey Wright e Oliver Wendell Holmes esercitò indubbiamente un ruolo importante. Le esatte origini del determinismo jamesiano possono essere incerte, ma incerta non era certo la sua posizione; come riferiva a Ward nel 1869: “Mi sono tuffato in una filosofia empirica. Sento che siamo natura in tutto e per tutto e che siamo totalmente condizionati che non un solo atto della nostra volontà accade che non sia il risultato di leggi fisiche.” [...] Ivi, p. 417. TCWJ I pp. 474-475. Scrisse James in Memories and Studies, a proposito della sua giovanile lettura dei First Principles di Herbert Spencer: Io lessi questo libro non appena venne pubblicato e fui trascinato dall’entusiasmo per le prospettive intellettuali che esso sembrava aprire: quando un mio condiscepolo più anziano, Charles Sanders Peirce, lo attaccò in mia presenza, io mi sentii ferito spiritualmente, come per lo sfregio di un’immagine sacra, sebbene allora non fui in grado di difenderlo con le parole dalle sue critiche.. MS, pp. 127-128. Lo stesso brano è riportato anche in TCWJ I, p. 474. 21

22 Ivi, p. 474. Ma non si trattava solo di una vogue: Spencer era stato il tramite attraverso il quale l’idea generale dell’evoluzione, insieme con l’utilizzo del metodo comparativo in campo scientifico, venne appresa dalla comunità scientifica americana e inglese. Cfr. Ibidem e sgg..

59


Il 10 Settembre [1863] James riassunse nel suo taccuino l’opera di Ludwig Büchner, Force and Matter23 (1855). Seguendo Büchner, James scriveva che “Forza e materia sono inseparabili. È impossibile pensare una pura forza precedente la materia e che ne sia la causa, o a una forza che sia indipendente dalla materia”. [...] Büchner non si sottraeva alle profonde implicazioni di questa teoria: “la materia è indistruttibile”. Questo era puro materialismo. [...] Non c’era bisogno di guardare oltre [alla materia] nella natura. La scienza era materialismo24. Interpretando Büchner James stava cercando di chiarire le conseguenze di una visione totalmente materialistica del mondo25. Bjork insiste poi nel rilevare come James, in questi primissimi anni di studio, non si trovasse affatto in opposizione con la filosofia e la ‘mentalità’ materialistica, certa di ‘spiegare’ il mondo con i soli strumenti della razionalità scientifica26; in un universo meccanicistico, perfettamente ordinato e potenzialmente prevedibile in ogni suo sviluppo non c’era posto per il caso, per l’indecisione, per l’incertezza; non c’era posto nemmeno per Dio e più James studiava le opere dei materialisti più si allontanava dal pensiero paterno, dove, al contrario, il ruolo di Dio era fondamentale; James si trovava dunque a dover scegliere fra la visione paterna e quella che al tempo informava la ricerca scientifica Di fatto egli aveva già scelto: la scienza sembrava diventare sempre più forte e il Dio del padre sempre più incomprensibile27. Da un pensiero che gli era sempre apparso confuso, dove la realtà spirituale si sovrapponeva a quella materiale e dove il ruolo della divinità appariva quanto più importante tanto più

23

Traduzione inglese di Kraft und Stoff.

24 James voleva fare della psicologia una scienza e sicuramente se il suo nome è ancor oggi ricordato è grazie anche al suo forte impegno in questa direzione. Il fatto era che la scienza si identificava col materialismo: per James non si trattava solo di un problema di conflitto tra morale e scienza, ma anche tra scienza riduzionistica e scienza non riduzionistica. Ancora nel 1880, all’inizio di quella fatica che culminerà nell’edizione dei Principles, scriverà all’amico Stanley Hall: “Come sono soli gli psicologi in un mondo fatto di materia!”. (WJ a S. Hall, 16 Gennaio 1880); In questa lettera James rivela anche il suo giudizio sull’opera di Fechner — “Valida soltanto per la quantità di dettagli forniti” — e, dopo aver dichiarato di non avere l’intenzione di leggere la Logica di Wundt, scrive: “Non capisco come possa essere un grande filosofo [Wundt] mancandogli quel punto di vista personale e unitario ch’è tipico dei grandi”. TCWJ I, pp. 19-20. Quello che James stava cercando in questi anni era proprio un punto di vista del genere, che gli permettesse di fare psicologia scientificamente senza perdere però di vista proprio il suo soggetto-oggetto, l’uomo. 25

D. Bjork, op. cit., p. 49.

26

Il taccuino del 1863 non attacca affatto il materialismo. William si trova infatti in accordo con “Büchner & Co”. D. Bjork, op. cit., p.

51. Entro la fine del 1863 William s’era schierato con i darwinisti, non perché avesse studiato intensamente The Origin of Species di Darwin, ma grazie alla lettura di scrittori come Müller e Büchner, alle conversazioni col giovane Charles Peirce, e agli studi con Wyman. Darwin sarebbe sembrato intellettualmente timido in confronto all’oscuro Büchner.[...] Ovviamente William si trovava sempre più in disaccordo con l’interpretazione paterna, per cui il mondo materiale sarebbe un’illusione, mentre reale sarebbe quello spirituale. Ibidem. Se per Henry Sr. il mondo fisico non rappresentava che un’appendice, irreale se non compresa nella sua origine divina, di una realtà spiritualmente superiore che l’uomo deve umilmente abbracciare, pena l’eterno allontanamento da Dio, per la scienza materialista, nulla esisteva oltre il mondo fisico e l’unico elemento creativo poteva essere rintracciato nell’intelligenza dell’uomo applicata alla manipolazione e alla sottomissione, piuttosto che alla comprensione, della natura. Non potrebbero darsi due Weltanschauungen più diverse. James non fu mai seriamente attratto dalla dottrina paterna che, nella sua fumosità, sembrava togliere all’uomo quell’indipendenza e quell’autonomia di cui egli, scontrandosi con la ‘durezza’ del pensiero scientifico, cominciava a sentire la necessità. Padre e figlio condividevano la visione di un universo in continua evoluzione, ma mentre il padre nutriva una sublime fede nel suo epilogo, indipendente dall’attività dell’uomo, per il figlio esso non era affatto prevedibile e anche Dio avrebbe avuto bisogno dell’aiuto dell’uomo per realizzare il proprio progetto. G. W. Allen, op. cit., p 279. 27

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indecifrabile, James era ora approdato a una visione molto semplificatrice, almeno all’apparenza: che farsene di un Dio, e di tutti i problemi morali legati alla sua esistenza, che al mondo ‘non serve più’28? Non passerà molto tempo che James si renderà conto che anche l’uomo, in un mondo siffatto, ‘non serve più’. Il materialismo sembrava paradossalmente riproporre, quasi come una nemesi, un’immagine dell’uomo simile a quella che emergeva confusamente dalla filosofia del padre; l’individuo ora non era più sottomesso a un Dio onnipotente e incomprensibile, ma era schiacciato dal determinismo della causalità fisica29, semplice materia in un mondo di — preordinata — materia. James si era liberato delle catene swedenborghiane del padre per lasciarsi avviluppare da quelle riduzionistiche della scienza moderna, ma se era stato abbastanza facile — quantomeno da un punto di vista squisitamente intellettuale — abbandonare la prospettiva religiosa di Henry Sr., non altrettanto semplice si presentava la possibilità di fare scienza in un modo che, ottenendo gli stessi risultati, superasse le strettoie morali del riduzionismo materialistico.

William si era avvicinato a un empirismo materialistico sin dai primi anni ’60. Ma ora [seconda metà dei ‘60] cominciava a considerare non solo le conseguenze metafisiche, ma anche quelle sociali, personali e creative di abbracciare una scienza empirica30.

Conoscendo la vita di James di questi anni, possiamo dire che solo difficilmente egli avrebbe potuto distinguere fra conseguenze “metafisiche” e “personali”; fin da giovane James fu alieno dal pensiero astratto.

28 In questo universo meccanicistico e materialistico proposto da Büchner, Dio non era necessario, dal momento che “Non c’è bisogno di alcun potere esterno per far muovere le cose o per tenerle in ordine”. Un universo meccanicistico eliminava il bisogno di ricercare una causa metafisica. D. Bjork, op. cit., p. 50. Insieme con la necessità di Dio però rischiava di dileguarsi anche la realtà della morale, della libertà dell’autonomia dell’uomo e James non tarderà ad accorgersene; ovviamente il nostro autore non fu l’unico a venire sconvolto dall’incontro con il meccanicismo della filosofia materialistica: Il materialismo scientifico evocò lo spettro del nichilismo tra gli intellettuali d’Europae d’America.. Charlene Haddock Seigfried, The World We Practically Live in, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 84. A questo proposito cfr. anche D. A. Crosby, The Specter of the Absurd; Sources and Criticism of Modern Nihilism, SUNY Press, Albany (N. Y.) 1988. Anche D. West ricorda come, verso la fine del diciannovesimo secolo, gli enormi successi della scienza positivistica, uniti a un notevole progresso tecnologico, avessero messo in crisi la visione di un mondo fatto di razionalità, libertà e autonomia degli esseri umani: D. West, Science, Community and the Trasformation of American Philosophy, ivi, 1990. 29 Certo, al tempo in cui James muoveva i primi passi verso la propria Weltanschauung c’erano anche altre filosofie, oltre all’oscuro teismo del padre, che avrebbero potuto contrastare gli “eccessi” del materialismo, ma come ricorda il Perry, le filosofie dell’idealismo tedesco o della scuola scozzese sembravano essere totalmente impreparate di fronte all’invasione del nuovo positivismo: Nel 1860 il pensiero europeo era particolarmente indifeso contro la potente invasione delle forze della scienza, dotata di nuovi argomenti e di una rinnovata freschezza. TCWJ I, p. 464. Un filosofo che, come James, cominciava la sua carriera negli anni ‘60 aveva di fronte le seguenti alternative: avrebbe potuto aggiungersi alla schiera dei naturalisti; o seguire i positivisti, come stava facendo Clifford in Inghilterra, o l’evoluzione, come faceva Fiske in America.[...] La sua iniziazione alla scienza lo aveva reso favorevole a qualsiasi alternativa alla religione. L’autorità, il dogma, la pietà sentimentale, il trascendentalismo, il cieco ottimismo, il pedante tradizionalismo, tutto ciò era improponibile per James. Ivi, p. 465. James, in sostanza, avrebbe dovuto elaborare una filosofia che si opponesse allo scientismo, ma non certo alla scienza.

30

D. Bjork, op. cit., p. 73.

61


Ralph Barton Perry, all’inizio del capitolo XXVII della sua opera più famosa, riassume brevemente ma efficacemente gli influssi filosofici e scientifici cui fu sottoposto James durante i primi anni di studio non dimenticando però di sottolineare tre aspetti essenziali — che potremmo definire caratteriali — per comprenderne il pensiero: 1) ricerca di una filosofia che non sminuisse il ruolo della volontà (in questo senso Hegel era per James equiparabile a un naturalista come Büchner) 2) tendenza ad apprezzare un pensiero dinamico che desse della realtà un’immagine pluralistica (anche in questo caso il monismo di Hegel era per James solo apparentemente differente da quello materialistico) 3) una spiccata sensibilità ‘artistica’:

Egli era disgustato dal verbalismo, dalla logomachia e dall’astrattezza. Nessuna filosofia che non avesse abbracciato la concretezza della realtà ed esaltato il sentimento e la sensazione sopra l’intelletto avrebbe potuto mai soddisfarlo veramente31.

Il punto 1) è fondamentale per comprendere come per James fosse ben difficile trovare nella filosofia del padre un’alternativa positiva allo svuotamento di autonomia della volontà dell’uomo cui lo scientismo imperante sembrava condurre inesorabilmente: come abbiamo visto, Henry Sr. — per quanto il suo pensiero fosse parzialmente sconosciuto anche allo stesso William — considerava l’autonomia e l’indipendenza dell’uomo un vero e proprio ‘peccato’ da cui liberarsi abbracciando una concezione che vedesse nell’abbandono a Dio l’unica vera possibilità per l’uomo di trovare una dimensione morale; giusta questa considerazione appare evidente che quella che abbiamo definito l’interpretazione spiritualistica della crisi racchiude, come elemento causale, non solo il determinismo scientifico contemporaneo, ma anche l’antinomismo del padre.

Il 10 Gennaio del 1870 William James soffrì di un “collasso dorsale”, che, stando alle sue parole, rappresentava la crisi peggiore che avesse mai attraversato fino a quel momento. Dopo tre settimane di agonia, fatte di altri dolori difficilmente sopportabili, egli scrisse nel suo diario di essere giunto al limite della sopportazione:

31

62

TCWJ I p. 467.


Oggi ho toccato il fondo, e ho raggiunto la consapevolezza che devo affrontare una volta per tutte l’alternativa: debbo francamente abbandonare la questione morale [the moral business], come giusto per uno nelle mie condizioni, o devo farla mia, dedicandomi interamente a essa?32 Dietro l’ambigua espressione di moral business si nasconde qui la questione, al centro di tutta la dottrina di Henry James Sr., del ruolo e delle caratteristiche della volontà, dell’indipendenza dell’io. Queste parole di James, ancora meglio di quelle che descrivono il più noto “episodio dell’epilettico”, sono capaci di rendere il carattere intellettuale, spirituale o forse qui sarebbe meglio dire morale della crisi ch’egli stava attraversando — nella sua fase più acuta — nei primissimi mesi del 1870. Henry James Sr., secondo l’interpretazione datane dal figlio (un’interpretazione che ci sentiamo di condividere pienamente), aveva decisamente e definitivamente (dopo i vari tentativi di venire a capo della sua ‘vastation’) abbandonato la questione morale: aveva cioè ‘deciso’ di rinunciare al proprio “potere morale”, arrendendosi all’amore e alla volontà divine.

William percepiva dunque la possibile scelta in questi termini: avrebbe egli dovuto seguire l’esempio paterno e rinunciare così a ogni tentativo di rafforzare ed esercitare la sua volontà; o, al contrario, avrebbe egli dovuto fare della volontà, di una volontà forte, il centro della sua visione della vita?33

Come è facile immaginare, James non seguì affatto l’esempio della dottrina paterna34, che del resto gli era parsa sempre di difficile comprensione (anche per il suo stile involuto e ripetitivo); ma come sarebbe stato possibile scegliere ‘l’altra via’ senza una filosofia o anche un’intuizione capace di sostenere l’idea di una volontà autonoma, che non fosse ridotta a mero epifenomeno del meccanicismo deterministico o di una incomprensibile e distante volontà divina? Era questo il ‘lato’ intellettuale di quel profondo stato di malessere che ormai da troppo tempo stava angustiando il giovane William James.

32 33

F. O. Matthiessen, The James Family; A Group Biography, Vintage Books, New York 1980 (1947), p. 216. R. W. B. Lewis, op. cit., p. 201.

34 Il primo approccio di James alla filosofia risale all’anno 1870. Egli si sentiva oppresso e disperato di fronte al calvinismo del padre e alla relativa dottrina della predestinazione. La lettura degli Essais de Critique Général lo aiutò a combattere il sentimento di impotenza e gli diede la speranza di una giustificazione della libertà dell’uomo. P. K. Dooley, op. cit., p. 63.

63


Perché questo tema [della determinazione della volontà e della passività dell’uomo di fronte al male] gli stava tanto a cuore? La ragione è rintracciabile in una delle differenze che James sempre ebbe con il padre: suo padre, pensava egli, troppo facilmente era approdato a una soluzione alta, estetica del problema del male, una soluzione che minava, secondo James, alla radice l’efficacia, l’importanza e la profonda serietà dell’attività morale dell’uomo. Negli anni a venire questa sarebbe stata l’obiezione principale [...] a tutte le forme di “hegelismo”, così com’egli le interpretava. L’adozione, già nei primi anni, di un atteggiamento “empiristico” andava a braccetto con la speranza che il “fatto” scientifico si sarebbe potuto riconciliare con la validità della religione. La vita, egli era convinto — e, paradossalmente, la lettura di Carlyle, amico del padre, lo rafforzò in questa convinzione — è una “battaglia reale”, contro mali reali [...]35.

Chi si chiedesse perché James non avesse cercato nella filosofia idealistica una soluzione al materialismo riduzionistico dovrebbe tenere in considerazione dunque questi fattori: l’opera di Hegel era vista da James prima di tutto come il frutto più sofisticato della massima astrazione; in secondo luogo essa dava — a suo parere — un’immagine immobile della natura e toglieva autonomia e spontaneità all’uomo, che risultava solo parte di un meccanismo, metafisico se non fisico, sovrastante: E’ vero, James non conosceva profondamente gli scritti del filosofo tedesco, ma non per questo la sua critica, che analizzeremo meglio in seguito proprio a proposito della distinzione operata da James tra filosofie monistiche e filosofie pluralistiche, perde di interesse (soprattutto per comprendere la filosofia di James piuttosto che quella di Hegel...) né essa mancò di fare proseliti fra filosofi con una differente cultura filosofica e scientifica36:

35

R. J. O’Connell, op. cit., p. 28.

36 Ernst Mach, che ebbe con James una discreta corrispondenza durata molti anni, scrive a James il 6 Maggio del 1909: Ho anche letto la vostra terza conferenza su Hegel [il riferimento è a quelle Hibbert Lectures che vennero raccolte nell’ultimo volume pubblicato da James in vita: A Pluralisti Universe]. Io ho sempre cercato di leggere Hegel, convinto che in questo autore avrei trovato idee profonde, ma non sono mai riuscito a raggiungere una buona comprensione del suo pensiero, forse a causa del mio approccio scientifico. Grazie alla vostra terza lezione mi sembra di avere colto una prima comprensione del suo pensiero. Vi sono immensamente grato per questa vostra illuminazione. TCWJ I, p. 594. Interessa notare che Sini dà un giudizio decisamente negativo dell’interpretazione jamesiana dell’idealismo di Hegel: dopo avere ricordato che James associava sotto il nome di monismo filosofie anche molto diverse fra loro (ad esempio l’idealismo royceiano e quello hegeliano) e avere rimarcato come una ‘contaminazione’ del genere non era affatto singolare nel clima intellettuale anglosassone di fine secolo, scrive: Un esempio illuminante di questo clima culturale è possibile trovare in A Pluralistic Universe dove James espone la filosofia di Fechner, Bergson e Hegel, al quale ultimo è dedicato il terzo capitolo del volume. James si sforzò onestamente, in quella circostanza, di “porsi al centro della sua (di Hegel) concezione con un atto di introspezione immaginativa”, come riteneva giusto fare (Cfr. Knight, William James, Harmondsworth 1950, trad. it., Editrice Universitaria, Firenze 1963, p. 51), malgrado la sua “antipatia” per Hegel. I risultati miserevoli di tale sforzo sono a tutti noti: l’onestà delle intenzioni non poteva infatti sopperire a una forma mentis inadeguata per essenza, oltre che per eredità storiche, a quella comprensione. C. Sini, op. cit., p. 355, n. 182. Che l’interpretazione di James sia poco utile per chi voglia comprendere il pensiero di Hegel è fuor di dubbio (anche se l’aggettivo ‘miserevole’ forse è eccessivo); d’altronde lo stesso James si rendeva ben conto di non essere il miglior critico di Hegel: oltre che per “l’essenza e le eredità storiche della sua forma mentis”, per la mancanza di un vero interesse per l’opera del filosofo tedesco, una carenza che nel caso di una filosofia così complessa non può che portare a risultati insufficienti. Di fatto, come abbiamo già detto, l’unico modo per non considerare gli sforzi di James ‘miserevoli’ (anche se ‘solo’ nei risultati) è quello di leggere il suo capitolo su Hegel (come d’altronde anche quello su Fechner e su Bergson) come l’esposizione di un pensiero originale piuttosto che come un fallimentare tentativo di indossare i panni dello storico della 64


Di fatto per James non esisteva rivoluzione nel ruolo dell’Uomo o dell’umanità che non rivoluzionasse anche la sua vita e il fascino che il positivismo materialistico aveva inizialmente suscitato in lui stava rapidamente lasciando spazio a una visione desolante della realtà; la certezza, la mancanza d’indugio e d’indecisione, che tanto lo aveva attratto e che sembrava aver liberato l’individuo dalla necessità di trovare fra tante fedi religiose quella più adatta e meno instabile aveva allo steso tempo svuotato l’uomo di ogni valore, di quelle caratteristiche, indipendenza, libertà etc., che James aveva sempre cercato di difendere37. Secondo la ricostruzione fornita dal Perry, James cominciò ad allontanarsi dalla filosofia di Spencer durante l’inverno tra il 1866 e il 1867. Sebbene non abbiamo la certezza di questo fatto, possiamo dire però che sicuramente l’atteggiamento del nostro autore verso il materialismo evoluzionistico spenceriano e verso il materialismo in genere fu radicalmente diverso nella seconda metà degli anni ’60 di quello tenuto precedentemente. Fu probabilmente più di una ragione a spingere William James verso questo cambiamento radicale. In primo luogo, le sue condizioni fisiche: queste cominciarono a peggiorare durante il suo soggiorno in Germania (1867-1868) e il rapporto mente-corpo, risolto in maniera riduzionistica dal materialismo positivistico del tempo, era ora qualcosa di più che un “argomento” filosofico. Alla teoria del “materialismo medico” non sembrava seguire, nel caso di James almeno, una pratica efficace e i tentativi di James di curare la mente agendo direttamente sul fisico furono un completo insuccesso: la depressione peggiorò e così i disturbi fisici.38 Inoltre James aveva cominciato ad avere degli scambi di idee con alcuni giovani di Harvard; uno di questi era il già citato Charles Sanders Peirce (figlio del professore di matematica Benjamin Peirce) che, come ricordato sopra, contribuì a mutare il giudizio del giovane William riguardo alla dottrina spenceriana; un altro era Oliver

filosofia; Ayer ha cercato di spiegare — efficacemente de resto — l’atteggiamento di William James nei confronti della filosofia hegeliana, giungendo però a conclusioni quanto meno discutibili, che dipingono il filosofo americano come un ‘irrazionalista’...James è sospettoso nei confronti di qualsiasi intellettualismo perché egli lo assimila a quella sorta di astrattezza di pensiero che di cui egli guardò al sistema hegeliano come al suo tipico frutto. In parte per ciò e in parte perché egli pervenne a credere che il pensiero discorsivo non potesse rendere giustizia della continuità della nostra esperienza, egli abbracciò una forma di irrazionalismo. A. J. Ayer, The Origins of Pragmatism; Studies in the Philosophies of Charles Sanders Peirce and William James, Freeman, Cooper & Co., San Francisco 1968, p. 179. In gioventù James sentiva la più acuta desolazione nel pensare che la libertà, la scelta, il rischio e l’incertezza non sarebbero sopravvissuti in un mondo materialistico senza Dio. P. J. Croce, op. cit., p 17. 37

38 Cfr. supra, p. 64, n. 18. Sini dice che James, avendo abbracciato una concezione materialistica della psiche e quindi anche della psiche ‘malata’, visti gli scarsi risultati delle terapie organiche nel suo caso, rinunciò a essere curato. Possiamo forse aggiungere che questa fu solo la prima conseguenza dell’intreccio fra concezione riduzionistica del disturbo psichico e impossibilità ella scienza contemporanea a curarlo. Come James, dal punto di vista intellettuale, non rinunciò alla vita morale perché questa sembrava essere stata ‘superata’ dalla scienza del tempo, ma cercherà una maniera, prima di tutto scientifica, per rendere conto della possibilità di una volontà libera, allo stesso modo, a un periodo di scoramento dovuto ai cattivi risultati che le terapie mediche avevano dato nel suo caso, seguì il tentativo di interpretare il rapporto mente-corpo e (in particolare) il suo malessere psico-fisico, da una prospettiva differente, che facesse della manifestazione fisica il possibile sintomo di un disagio psichico, che sarebbe stato perciò curabile ‘all’interno’. All’elaborazione di una filosofia della volontà che risolvesse positivamente il problema della libertà dell’uomo si legò perciò la speranza di uscire dalla propria condizione di depressione. 65


Wendell Holmes Jr., con cui James aveva cominciato, dopo il ritorno dalla spedizione brasiliana, a intrattenere lunghe conversazioni filosofiche:

Nell’inverno del 1866-67 i due [James e Holmes] erano occupati in una profonda discussione metafisica, gli echi della quale sono conservati in un memorandum sul “materialismo”, indirizzato da James a Holmes39.

James doveva confrontarsi con una scienza, quella positivistica appunto, che riteneva la personalità dell’individuo non una forza autonoma, indipendente, spontanea della natura, ma il risultato, la somma di fattori fisici, chimici, fisiologici. Nell’universo della scienza positiva non c’era spazio per l’individuo e per la sua libertà. Il materialismo aveva tolto ai principi morali qualsiasi significato: come scrisse Taine nel 1864, Il vizio e la virtù sono prodotti come il vetriolo e lo zucchero. Non solo la nevrosi di James poteva essere spiegata — ma inspiegabilmente non curata — con una buona o una cattiva digestione: il suo comportamento era svuotato di qualsiasi dimensione morale.

Era stato John Tyndall ad affermare che, come il fegato secerne la bile, così il cervello secerne il pensiero e il formidabile Henry Huxley aveva sostenuto l’idea che la realtà mentale non fosse niente più di un epifenomeno delle funzioni cerebrali. “L’anima,” scriveva Huxley, “sta al corpo come la campana di un orologio al suo meccanismo [...]”40. Materialismo, epifenomenismo, riduzionismo, automatismo, determinismo erano tutti termini che per James volevano dire di più di una visione scientifica delle cose41: essi implicavano una presa di posizione “morale” prima di tutto42. Già in questi anni possiamo 39

TCBV, p. 89.

40 Daniel N. Robinson, William James on the Mind and Body, in M. E. Donnelly (a cura di) Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 315. La frase di Huxley è tratta da On the Hypothesis that Animals are Automata and its History, “Fortnightly Review”, 16 (1874), pp. 555-580. Alcuni dei contemporanei di James erano forti sostenitori di quella teoria della coscienza conosciuta come epifenomenismo. L’epifenomenismo è la visione per cui la coscienza è semplicemente il prodotto di un processo fisiologico. J. K. Roth, Freedom and Morality; The Ethics of William James, Westminster Press, Philadelphia 1969, p. 27. Ma come accadeva che il pensiero fosse un “prodotto” del cervello? Quando James criticherà apertamente Spencer rileverà proprio la sua incapacità nel dare conto da un punto di vista scientifico, come avrebbe dovuto, del processo evolutivo che avrebbe portato alla nascita della coscienza. James non opponeva alle ragioni della scienza le ragioni del cuore: una teoria scientifica non si sarebbe dovuta accontentare di dare una descrizione dei fatti senza fornire alcuna spiegazione. Come vedremo, James non reagirà all’empirismo con qualche forma di spiritualismo; all’empirismo positivistico egli opporrà un “nuovo” empirismo, un empirismo “radicale”.

Dalla scienza nacque quella filosofia che divenne nota col nome di “naturalismo”, “agnosticismo”, “positivismo”, “scetticismo” o “materialismo”. TCWJ I, p. 462. 41

Il dilemma che lacera James in questi anni, tra scienza e morale, tra necessità e libertà, è da Barzun efficacemente inserito in un contesto più ampio, dove James emerge non come figura eccezionale per la sua singolarità, ma per la sua capacità di interpretare in maniera quasi emblematica il dramma di un’intera epoca: La nostra era invoca tutte le libertà — la libertà dell’autodeterminazione dell’individuo, la libera scelta del pluralismo sociale e culturale, la libertà d’espressione, la libertà di accedere ai beni etc. Ma la nostra era crede anche nel determinismo materiale, medico e psichico di tutti i nostri atti di pensiero [...] Perciò, mentre metà delle nostre energie sono tese a liberare, l’altra metà è finalizzata a controllare e a predeterminare il nostro futuro. J. Barzun, op. cit., p. 167. 66 42


scorgere in embrione quella dottrina pragmatica che renderà James tanto famoso e tanto criticato: [...] secondo James il “vero significato”iii di queste dottrine [materialismo e teismo] non ha a che fare con la concezione della natura profonda della materia o di dio, ma con la negazione di un ordine morale eterno e la conseguente perdita di speranza da un lato e l’affermazione di entrambe dall’altroiv.

2.1.3 Ein ganzer Mensch, ein ganzer Wille Ma James, alla fine degli anni ’60, era ancora ben lontano dal possedere un’alternativa sia al teismo del padre sia al materialismo riduzionistico43; nel Marzo del 1869, scrisse a Tom Ward:

[...] sono sommerso da una filosofia empiristica — sento che l’uomo è natura da cima a fondo, che noi siamo totalmente condizionati, che anche il più piccolo atto della nostra volontà non può accadere se non come il risultato di leggi fisiche, e questo nonostante esso sia en rapport con la ragione. Come comprendere tutto ciò? Chi può farlo? Sono convinto che la tattica difensiva degli “spiritualisti” francesi, intenti a combattere fieramente contro il materialismo, non porterà a nulla. Non è che l’uomo è tutto natura tranne qualche aspetto che è rappresentato dalla ragione; tutto è natura e questo comprende anche la ragione. Vedremo, dannazione, vedremo... 44

William James era, alla fine degli anni ’60, ancora “sommerso” da una filosofa empiristica, che qui viene identificata esplicitamente con una forma di hard determinism.. Contemporaneamente egli sentiva l’esigenza di abbracciare una filosofia che non facesse della moralità una “fantasmagoria” e che desse all’uomo — e a se stesso — la fiducia nella propria volontà, nella propria spontaneità.

Il tentativo di conciliare, o piuttosto di superare, le deficienze del teismo paterno e del positivismo riduzionistico sono evidenti anche nelle opere che James leggeva in questi anni: In questo periodo è lo stesso James a rivelarci quali opere stesse leggendo: si trattava di autori come: Henry Sr., Schopenhauer, Maudsley, Boismont, Griesinger, Spencer [la biologia], Fechner, Fichte: Tranne che per quanto riguarda le opere del padre e di Schopenhauer, che presto gli venne in odio, i libri e gli autori studiati trattavano delle patologie cerebrali e della relazione fra mente e corpo (Seelenfrage), argomenti che al tempo erano in testa agli interessi di James. [...] Ciò che sempre rappresentò un ostacolo nella comprensione dell’opera paterna era in questo periodo ancora più grande. La base della teoria paterna stava nella risoluzione della propria individualità nella volontà divina, ma William sentiva di dovere difendere la propria individualità per sopravvivere. Il 5 Gennaio [1870], dopo aver letto Platone, egli scrisse, come suo motto : “Ein ganzer Mensch - ein ganzer Wille”. G. W. Allen, op. cit., p. 164 43

TCWJ I, pp. 472-473. A proposito degli spiritualisti francesi, il Perry ricorda che James, in questo periodo, stava leggendo La Philosophie en France au XIX Siecle (1868), di Ravaisson. E’ altresì interessante notare come la critica alla debolezza della difesa spiritualistica della morale sia in James la manifestazione di un ‘metodo’ cui egli si affiderà anche in futuro per combattere nuove battaglie (le virgolette sono d’obbligo data la radice caratteriale piuttosto che epistemologica di questo modus operandi): la sua sarà sempre una tattica ‘offensiva’ e mai ‘difensiva’; come nel caso del materialismo James riconobbe la sterilità e la debolezza di una posizione — quella degli spiritualisti appunto — che faceva dell’oblio dell’efficacia della scienza materialistica una — debole — arma per difendere la dimensione morale dell’uomo e della natura; allo stesso modo, quando egli dovrà combattere il ricorso sconsiderato dell’uomo alla guerra come strumento di risoluzione delle controversie politiche lo farà non opponendovi una confusa tendenza alla pace che dovrebbe essere coltivata nell’uomo, ma sottolineando come gli stessi spiriti che animano la bellicosità dell’uomo possono essere sfruttati per fini costruttivi e non distruttivi. Cfr. W. James, The Moral Equivalent of War, “International Conciliation”, 1910, 27. Lo scritto venne poi riproposto nella raccolta postuma Memories and Studies (MS, pp. 267-296). 44

67


Distingueremo meglio tra forme ‘dure’ e ‘morbide’ di determinismo nel capitolo dedicato all’analisi di The Will to Believe, soprattutto in relazione alle critiche di Bradley, Hodgson e Howinson. Quello che importa sottolineare qui è il fatto che James individua anche nell’indeterminismo assoluto un ostacolo difficilmente superabile per chi voglia ‘salvare’ i fenomeni morali: un universo totalmente indeterminato, dove non esiste una coerenza e una regolarità del rapporto fra cause ed effetti, dove qualsiasi previsione risulta essere priva di fondamento, dove la natura, potremmo dire, facit saltus continuamente, è per James altrettanto problematico quanto un universo completamente determinato. In entrambi i casi l’uomo non può trovare un suo spazio d’azione e al giogo della necessità si sostituisce il capriccio della casualità.

Nei suoi anni di depressione, durante i quali James non riusciva ad affrontare il mondo [..., il pensiero di un mondo indeterminato e aperto, quanto quella di un mondo determinato [...], era fonte di timore e tremore. Questo mondo, che appariva al trentunenne James illusorio — descritto nel suo diario come un “sogno” o un “Maya” — fu inizialmente difficile da accettare45. Nelle ultime opere — quelle del suo pensiero cosiddetto ‘metafisico’ —, James, cercherà di tracciare i contorni di universo, chiamato appunto pluralistico o anche, con una felice espressione, multiverso, capace di strappare l’uomo dalla rigidità del determinismo (universo monistico) e dal caso assoluto (nulliverso). Cotkin parla di queste due visioni, certamente non ancora così chiare alla mente del giovane James, come delle “Scilla e Cariddi” del suo, non isolato, travaglio46; Senza tenere conto di questa complessità non sarebbe poi possibile comprendere il successivo interesse di James, spesso sottovalutato, per il tema della causalità e il suo tentativo, parzialmente riuscito nei Principles, di combattere l’identificazione, strumentale per i deterministi, della spontaneità dell’uomo con la casualità della natura; l’indeterminismo di James non passò infatti mai attraverso la negazione dell’efficacia della causa; solo, egli introdusse ‘nuove cause’, la causazione della volontà. La libertà può esistere solo laddove esiste la possibilità che la volontà agisca, sia efficace, in sostanza dove la volontà sia causa. Bjork, in maniera confusa quanto suggestiva, ricorda che il problema della causalità aveva tormentato James fin dai primi anni di studi, in qualche modo aggiungendosi ai fattori, intellettuali, scatenanti della sua depressione: E’ evidente, leggendo i taccuini di James del 1862, che le riflessioni intorno alla causa, la vicinanza a Peirce e la speculazione teoretica in generale avevano alterato il suo benessere mentale.47

45

G. Cotkin, op. cit., p. 56.

46

Cfr. Ivi, p. 38.

D. Bjork, op. cit., p. 44. Anche Allen, sebbene non abbracci un’interpretazione così ‘spirituale’, ricorda come James soffrì di “una certa sensibilità nervosa” ben prima della crisi del 1869 (e comunque prima del 1867, data in cui il Perry 68 47


James era alla “disperata ricerca” di una filosofia che, senza ricorrere al sentimentalismo o alla fede religiosa, desse al filosofo — e all’uomo — almeno la speranza di riconciliare la razionalità con la moralità48.

2.1.4 La ‘scoperta’ di Charles Renouvier Ora che abbiamo tracciato le linee essenziali del tentativo di individuare le cause ‘intellettuali’ del depressive period di James cercheremo di rispondere alla seconda domanda che ci eravamo posti prima di cominciare l’analisi dell’approccio spiritualistico. Come accadde che James ‘guari’? Come riuscì William James a liberarsi dalla stretta soffocante del determinismo scientifico?

Fu ora [Aprile 1870] che William prese ancora tra le mani le opere di Renouvier , che aveva scoperto due anni prima, e finalmente trovò quel che cercava49.

James cercava il sostegno di una filosofia che non ‘riducesse’ l’uomo al suo corpo e la mente al cervello; il pensiero di Charles Renouvier non poté che apparirgli come una vera e propria ancora di salvezza; giova riprendere le ormai famose parole scritte da James sulle pagine del suo diario il 30 Aprile 1879:

colloca l’inizio della “crisi spirituale”): La salute cagionevole di William sarebbe così in qualche modo legata alla sua crescente inquietudine mentale e spirituale. Nel 1862 il suo mal di schiena, la cefalea, i problemi alla vista e un’indefinibile sensibilità nervosa crebbero a tal punto che alla fine del primo semestre ad Harvard egli decise di passare l’estate con la propria famiglia a Newport. G. W. Allen, op. cit., p 92. Ma esistono prove che testimoniano di come la problematicità di una visione deterministica della cose, legata alla difficoltà di decidersi riguardo alla propria carriera, fosse già presente in James adolescente: Non un semplice problema filosofico, il dilemma del libero arbitrio era già una realtà concreta e problematica per il giovane William James nel 1859. [scriveva nel diario] “la mente dell’uomo porta naturalmente alla necessità & le nostre speranze hanno breve vita una volta riconosciuta l’impossibilità della loro gratificazione”. P. J. Croce, op. cit., p. 75. 48 Lo sperimentalismo, il materialismo radicale o il positivismo riduzionistico, come lo chiamava James, non avrebbero mai potuto portare a una comprensione dell’intera personalità dell’uomo. Eugene Taylor, The Case for a Uniquely American Jamesian Tradition in Psychology, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 4. William aveva sempre sentito che cercare la “moralità” -— e io ritengo che non intendesse semplicemente un’etica, ma un’ontologia centrata sulla coscienza — significasse mettere la morale e il materialismo l’una contro l’altro. Perciò, quando cominciò ad avvicinarsi al materialismo, provò un senso di degradazione e di fallimento. Ora comunque [inizio del ’70] desiderava raggiungere la moralità per se stessa. Questo significava qualcosa di più che optare per la vita morale; [...] Scegliendo la morale egli stava realmente decidendo di originare una nuova e filosoficamente convincente nozione di coscienza. D. Bjork, op. cit., p. 88. Soprattutto, James era alla ricerca di una filosofia dove la conoscenza fosse funzionale alle aspirazioni e agli interessi dell’uomo, guidandolo attraverso le reali e concrete situazioni che egli deve affrontare durante il corso della vita, invece di essere diretta verso un oggetto intrinsecamente inconoscibile o verso un oggetto ch’è trascendente, come nel caso della filosofia di Spencer. Cfr. P. B. Brennan, The Ethics of William James, Bookman Associates, New York 1961, p. 77. 49

G. W. Allen, op. cit., p. 168. 69


Penso che ieri ci sia stata una crisi nella mia vita. Ho finito la prima parte del secondo Essai di Renouvier e non vedo ragione per cui la sua definizione di Libera Volontà [Free Will] — “il sostenere un pensiero poiché io l’ho scelto quando avrei potuto avere altri pensieri” debba essere considerata un’illusione50.

E’ così che si risolve una crisi intellettuale e spirituale durata anni? E’ questa la soluzione che James aveva disperatamente cercato senza successo e che lo aveva portato sull’orlo del suicidio? Chi cercasse — fra tutti i critici che hanno sostenuto un approccio intellettualistico alla crisi di James sottolineando l’importanza, l’imprescindibilità, della figura di Charles Renouvier per la sua ‘rinascita’ — un’ampia disamina del pensiero del filosofo francese si troverebbe ben presto deluso; anche il Perry non dà del contenuto dell’Essai che una breve, quanto insoddisfacente, descrizione, limitandosi in sostanza a ripetere le poche parole di James in proposito51. In altri autori la scarsità di informazioni sulla figura e la filosofia di Renouvier è addirittura imbarazzante: sembra quasi che, al riconoscimento dell’importanza della figura del filosofo francese per la vita e il pensiero di James (soprattutto riguardo al problema della libertà) non segua affatto l’esigenza, morale prima che intellettuale, di definire, anche per sommi capi, il contenuto delle sue opere, almeno in quelle parti cui il nostro autore fa esplicitamente riferimento. Questo atteggiamento, quantomeno singolare, e difficilmente comprensibile altrimenti, è a nostro avviso giustificato dalla debolezza stessa dell’approccio intellettualistico. Tratteremo di questa debolezza più avanti, per ora possiamo dire, a parziale scusante del cattivo servizio che la maggior parte dei critici ha riservato alla filosofia del francese, che indubbiamente esiste un grande ostacolo ‘oggettivo’ allo studio di Renouvier: la mole delle sue opere; Marcel Méry52, l’ultimo studioso ad averne letto una gran parte, la stima in venticinquemila pagine. Anche Augusto del Noce, nella sua lunga introduzione all’edizione italiana delle opere di Jules Lequier, filosofo pressoché sconosciuto di cui parleremo in seguito, riferendosi alla mole immensa della sua [di Renouvier] opera, riporta lo stesso numero di pagine53. Louis Foucher, forse più di Méry, riesce a rendere l’idea dell’enorme produzione renouvieriana:

50 LWJ I, p. 147. Sebbene James non potesse abbracciare completamente la metafisica di Renouvier, particolarmente la nozione di un universo finito, egli era molto attratto dall’attacco del filosofo francese al determinismo e all’idealismo kantiano. L’enfasi che Renouvier dava alla responsabilità morale nelle decisioni individuali era particolarmente importante per James, poiché essa era la prova vivente che il determinismo non era onnipotente. D. Bjork, op. cit., p. 129. Fra breve analizzeremo tutti questi elementi del pensiero del filosofo francese. 51

Cfr. TCWJ I, pp. 657-658.

52

M. Méry, La critique du christianisme chez Renouvier, 2 voll., Vrin, Paris 1952.

Giulio Lequier, Opere, a cura di Augusto del Noce, Zanichelli, Bologna 1968, p. 33. E’ però probabile che Del Noce abbia fatto riferimento per questo computo allo stesso Méry, che viene citato in Bibliografia: M. Méry, La critique du chruistianisme chez Renouvier, 2 voll., Vrin, Paris 1952. Cfr., vol. I, p. 11. Anche Logue e Viney riportano il numero di 70 53


Renouvier scrisse moltissimo. Se si aggiungono ai quaranta volumi pubblicati sotto il suo nome i quaranta volumi della Critique Philosophique, in larga parte curati da lui stesso, si ottiene una vera biblioteca, cui bisogna poi aggiungere gli articoli scritti per numerose riviste e specialmente, nell’ultima parte della sua carriera, per l’Année philosophique, curato dal suo amico e discepolo François Pillon54.

A una così vasta produzione non corrisponde però una letteratura secondaria altrettanto ampia, nemmeno in lingua francesev. Per tracciare le linee principali del pensiero di Charles Renouvier, tralasciando però quello che sembra non avere avuto alcun influsso sulla filosofia di William James, faremo riferimento soprattutto al saggio di Logue, alla bella introduzione di Augusto del Noce all’edizione italiana degli scritti di Lequier e al già citato articolo di Donald Wayne Viney55. Come molte delle menti originali del diciannovesimo secolo, e come lo stesso William James, Renouvier era un filosofo autodidatta: anch’egli, sebbene in un campo totalmente diverso da quello del nostro autore, ebbe un’educazione scientifica: studiò infatti matematica e ingegneria, senza mai praticare la professione56 (come James), anche perché il suo cursus studiorum non era stato particolarmente brillante e trascorse così molti anni a cercare di scoprire dove impiegare al meglio le proprie energie; d’altronde, la solidità del suo patrimonio familiare non lo costringeva di certo a trovarsi un’occupazione con cui

venticinquemila pagine come ‘misura’ dell’opera omnia di Charles Renouvier, ma entrambi dichiarano esplicitamente di avere tratto l’informazione dal libro di Méry. W. Logue, Charles Renouvier, Philosopher of Liberty, Louisiana State University Press, Baton Rouge-London 1993. p. 20. D. W. Viney, William James on Free Will: The French Connection, “History of Philosophy Quarterly”, 14 (1997), pp. 29-53. Cfr. p. 34. L. Foucher, La Jeunesse de Renouvier et sa première philosophie (1815-1854), Vrin, Paris 1927. Cfr. Appendice I. In D. W. Viney, William James on Free Will: The French Connection, cit., p. 34. 54

Il saggio di Logue è forse, fra i tre testi citati, quello per noi più interessante, e — oltre che per la stessa ampiezza della trattazione (260 pp.)— almeno per due motivi: 1) Già dal titolo esso pone l’accento sul tema che più ci interessa, ovvero quello della libertà, ma soprattutto 2) si tratta di un testo totalmente dedicato alla figura e alla filosofia del filosofo francese e quindi fornisce — almeno de iure— la migliore garanzia che venga evitata qualsiasi ‘contaminazione’ fra il suo pensiero e quello di James, o peggio ancora che la filosofia di quest’ultimo venga ‘proiettata’ su quella di Renouvier nella speranza di certificare dei legami fra i due pensatori che effettivamente non ci furono. Purtroppo un rischio di questo tipo, proprio per la ben differente fortuna — in vita e postuma — dei due, sembra essere molto alto nel caso del rapporto Renouvier-James 55

56 Che Renouvier non abbia poi esercitato la professione che ‘naturalmente’ sarebbe dovuta seguire ai suoi studi superiori (ingegnere navale) non deve però far pensare che tutto quanto acquisito in anni di università andò effettivamente perduto. Sebbene non avremo modo di analizzare la questione nel dettaglio, possiamo però dire qui che il filosofo francese, proprio nel tentativo di non fornire un concetto di libertà totalmente slegato, se non addirittura opposto, alla scienza del tempo, utilizzò ampiamente i propri studi — soprattutto quelli matematici — per difendere una concezione probabilistica della natura come base necessaria per una dimensione libera e spontanea dell’azione umana. Renouvier era convinto, come Platone e Aristotele [e Peirce!], che lo studio della matematica fosse un prerequisito per lo studio della filosofia. W. Logue, op. cit., p. 221. Il filosofo francese, che era anche un matematico, pensava che il calcolo delle probabilità potesse essere di supporto alla sua visione delle cose. Ivi, p. 97 n. 45. E’ poi inutile sottolineare che, mutatis mutandis, il percorso di Renouvier non è affatto dissimile da quello di James; anche quest’ultimo infatti non esercitò effettivamente mai la professione di fisiologo né tantomeno quella di medico, ma — come vedremo avanti — sarà proprio grazie ai risultati della sua ricerca psicofisiologica ch’egli potrà affrontare il problema della possibilità di una volontà libera anche da un punto di vista squisitamente scientifico.

71


guadagnarsi da vivere57. Anche in Renouvier, come in James, sembra molto difficile distinguere tra vita e filosofia: lo stesso filosofo francese attribuì alle proprie esperienze personali grande importanza per la sua formulazione del concetto di libertà, e in generale per la formazione del suo pensiero.

Quali che siano le pretese dei sistemi, deve essere vero per ogni persona posta al di fuori dei sistemi e convenientemente informata delle loro origini, delle loro tendenze diverse, delle loro variazioni e delle loro contraddizioni ultime accumulate e ripetute, che ciascuno di essi è l’opera personale o almeno l’affermazione personale di un pensatore, posto sotto l’influenza di un certo temperamento intellettuale e passionale, di una certa educazione, di un certo ambiente e condotto dallo studio e dalla riflessione a un punto di vista proprio a cui egli si risolve a restare fissato a partire dal momento in cui questo pensatore ha preso il suo partito: la ricerca della verità rispetto a tesi a cui egli si è fermato non è più per lui che l’esame parziale delle opinioni che si riferiscono a queste tesi al fine di combatterle se le sono contrarie, di confermarle se le sono favorevoli, di ricondurle al suo punto di vista se la difficoltà di negarle esige una conciliazione58. Quel che ci è concesso dire in questo spazio dedicato alla figura di Charles Renouvier è che fra le sue esperienze personali, al contrario che in James, rientra a pieno titolo l’attività e l’impegno politico che si tradusse nella forma del giornalismo e nella sostanza di un forte rifiuto verso l’assolutismo teologico e politico59. Fu dall’incontro di queste “premesse caratteriali e culturali” con il necessitarismo scientifico e il predestinazionismo religioso che nacque in Renouvier l’esigenza di dare vita a quel libertismo che tanto peso avrà sul giovane William James60.

In questo, Renouvier ricorda più da vicino la figura di Henry James Sr., piuttosto che quella di William; come vedremo infatti fra poco, uno dei fattori che certamente peggiorarono le condizioni fisiche e psichiche di James, sarà l’incapacità — più nell’immaginazione che nei fatti — di trovarsi una professione soddisfacente sotto tutti i punti di vista. Questa esigenza di trovarsi una certa collocazione professionale sembra essere totalmente assente in Renouvier. 57

58

Esquisse d’une classification systématique des doctrines philosophiques, 2 voll., Paris 1885-1886, II, p. 355, in Del Noce, op. cit., p.

87. Anche le riviste fondate da Renouvier dopo il 1870, la “Critique philosophique” e la “Critique religiouse” hanno un carattere, in alto senso, giornalistico, legate come sono all’attualità storica e all’insegnamento morale. Per un’attenta analisi del pensiero politico e religioso di Renouvier, cfr. W. Logue, op. cit., passim. Un’interessante — per quanto forse eccessivamente critica — disamina del pensiero religioso e teologico di Renouvier si trova nella già citata Introduzione di Del Noce alle Opere di Lequier. Cfr. G. Lequier, op. cit., Introduzione, pp. 86-100. Si tratta di tutto il § 7 dell’Introduzione, intitolato appunto: “Lequier e Renouvier”; come vedremo brevemente anche in seguito a proposito dell’eredità lequieriana del concetto di libertà in Renouvier, in Del Noce emerge una valutazione quanto meno ambigua del pensiero di Renouvier: al riconoscimento dell’importanza di quest’ultimo per la divulgazione delle dottrine del suo ‘maestro’ si affianca continuamente il sospetto che questo sia stato ottenuto al prezzo di una sua deformazione. Questa polemica — tanto pungente quanto poco fastidiosa per il lettore — viene spesso celata dietro il giudizio di autorevoli studiosi: [...] il saggio di Lazarev [mostra come] non soltanto Renouvier abbia deformato il pensiero autentico di Lequier nel presentarlo separato dalla sua fede religiosa, ma come altresì, in ragione di questa separazione, ne abbia alterato il significato in quanto filosofia della libertà. G. Lequier, op. cit., Introduzione, p. 47. Il riferimento è a A Lazarev, L’Entrprise philosophique de J. Lequier, “Revue philosophique”, 1938. Lo studio venne ristampato in Vie et Conaissance, Vrin, Paris 1949, pp. 21-40. Ovviamente fra le “esperienze personali” di Renouvier non bisogna dimenticare l’incontro, umano oltre che intellettuale, con Jules Lequier, di cui parleremo fra breve. 59

Il saggio di Logue è molto attento, più di quanto non lo sia poi nell’esposizione dell’argomentazione, a sottolineare l’idea renouvieriana di libertà nei suoi legami storico-politico-personali. Dopo avere detto che nel 1851 Renouvier si 72 60


Renouvier, sensibile ai dibattiti scientifici e filosofici del tempo, si oppose fin da subito all’idea di un progresso necessario nel mondo, un’idea che, per quanto legata anche a nomi di filosofi come Newton, Hegel e Marx, faceva il paio, nella seconda metà del XIX secolo, con l’evoluzionismo spenceriano61. Fu Spencer infatti il filosofo che più di tutti attirò le critiche del filosofo francese, il quale in effetti non considerava affatto scientifico l’ottimismo di Spencer (in quanto fondato su una forma metafisica di evoluzionismo) e, per giunta, pensava ch’esso fosse anche “moralmente pericoloso”, in quanto esso, proclamando il progresso necessario della società, tendeva a distogliere l’uomo dai suoi compiti, ottenendo così l’effetto contrario a quanto forse desiderato: deresponsabilizzandolo e contribuendo così a un effettivo peggioramento delle condizioni di vita sociale. Uscendo però dai limiti di questa accesa critica allo spencerismo, possiamo dire qui che Renouvier individua in ogni forma ‘forte’ di ottimismo un vero e proprio nemico da sconfiggere, intendendo per ‘forte’ quell’ottimismo che si sostiene sulla negazione della realtà del male. Negazione che non è conseguenza di particolari dottrine, ma piuttosto di un atteggiamento e di una disposizione mentale, che serve a spiegarle. La disposizione a conciliarsi col mondo dei fenomeni, attenuando però l’opposizione tra la legge morale e la legge naturale o, al limite, identificandole62.

Sembra qui di trovarsi a una lotta tra caratteri piuttosto che tra sistemi filosofici — lotta che verrà ripresa da James nella famosa, quanto spesso incompresa, distinzione tra though-minded e tender-minded —

convinse — anche grazie alle discussioni con l’amico Lequier — Logue scrive: Questa convinzione [dell’importanza della libertà per comprendere ogni altra cosa]si impadronì di Renouvier mentre egli era ancora sotto l’influenza del suo primo contatto con i Saint-simoniani. Egli non esperì certo una liberazione durata l’arco di una notte dal loro punto di vista deterministico, ma un più graduale riaggiustamento delle proprie vedute, che divenne un completo distacco solo dopo il 1851. Forse il fallimento dei movimenti socialisti del 1848, radicati come essi erano nelle filosofie sedicenti scientifiche dei tre decenni passati, lo persuasero dei pericoli sottesi a un rifiuto della libertà del volere umano. W. Logue, op. cit., p. 86. Si tratta certamente di un’ipotesi interpretativa molto interessante che mostra come in Renouvier politica vita e filosofia non furono mai veramente distinguibili; Logue, a favore della propria tesi, cita un saggio di Mouy, (L’idée de progrès dans la philosophie de Renouvier, Paris 1927) che sottolinea (p. 43) lo stretto legame che intercorse tra la delusione politica del 1848 e la nascita in Renouvier dell’esigenza della difesa dell’idea di libertà. D’altronde è indubbio che per Renouvier la libertà politica doveva avere come proprio presupposto la realtà del libero arbitrio. 61

Cfr. W. Logue, op. cit., p. 34.

G. Lequier, op. cit., Introduzione, p. 98. Interessa qui di riportare anche il seguito di questo brano molto interessante di Del Noce: Questo ottimismo ha le sue origini nel mondo greco e romano; si è introdotto nel cristianesimo, deviandolo dall’originario pessimismo, e portandolo all’estirpazione delle eresie gnostiche e manichee; ha permeato di sé la teologia scolastica; col Rinascimento si è ingrandito, rompendo con la fede cristiana stessa. Ha poi dominato le filosofie politiche del XVIII e del XIX secolo, dando origine alla peggiore delle teodicee, quella del progresso, nelle sue varie versioni; ha condotto infine all’estensione dell’evoluzionismo dall’ordine naturale a quello della pratica umana, distruggendo e sostituendo la vecchia morale. Ibidem. E’ evidente che “la peggiore delle teodicee” era per Renouvier quello spencerismo che sembrava aver sostituito alla lotta tra il bene e il male, l’accettazione — spassionata oltretutto — del progresso della civiltà, dove, insieme con la realtà del male, perde di qualsiasi significato anche colui che solo può nominarlo e combatterlo: l’uomo. Fu proprio in questo punto — negazione dell’ottimismo spenceriano e affermazione del male e della possibilità di combatterlo — che James incontrò favorevolmente la filosofia di Renouvier. 62

73


e, per quanto non abbiamo potuto analizzarne l’essenza, e tanto meno le sfumature, possiamo dire che il suo “atteggiamento” e la sua “disposizione mentale” portarono Renouvier a ritenere che l’unica possibilità perché la società — e con essa l’individuo — possa effettivamente migliorare sta nelle mani dell’uomo e non in qualche legge evolutiva; nelle mani di un uomo che sia padrone di decidere dei propri fini e capace di individuare i mezzi atti a raggiungerli; in breve: un uomo libero.

La ‘pericolosità’ — morale e intellettuale — della filosofia spenceriana sta per Renouvier proprio in questo ottimismo ‘esterno’, o per meglio dire estraneo, all’attività dell’uomo. Quest’ultima, intesa anche dal suo punto di vista più propriamente intellettuale, per Renouvier — come abbiamo visto — sopra e per William James — come vedremo nel prossimo capitolo — non può essere ridotta a una mera passività gnoseologica dove il pensiero dell’uomo, scientifico e morale, sia ‘risultato’ di una reazione predeterminata e immutabile a una serie imperscrutabile di forze esterne63: morale e conoscenza, libertà e verità trovano così un legame inscindibile nell’esigenza di riconoscere all’uomo una dimensione di creatività e di spontaneità che si manifesta nell’elemento personalistico irriducibile che caratterizza le sue decisioni morali come le sue conclusioni scientifiche e filosofiche. All’esigenza storico filosofica rilevata da Renouvier nella precedente citazione di non dimenticare la “storia di uno spirito” dietro a un apparente “sistema di idee impersonali” si lega così la difesa di un relativismo gnoseologico che riconosce nella logica, nelle ipotesi e negli schemi di pensiero coi quali interpretiamo la nostra esperienza, il frutto di nostre credenze, non di dimostrazioni, di una vera e propria fede che supera e di fatto precede — come vedremo per la credenza nel libero arbitrio — anche il pensiero più astratto: La verità non è un insieme di tesi che possano venir insegnate indipendentemente del processo di scoperta che è il processo di costituzione della persona64.

Lo stesso William James cominciò la costruzione di una psicologia e di una filosofia proprie ‘sulle ceneri della dottrina spenceriana, o meglio, dopo aver tentato (trascorso un breve periodo in cui si sarebbe egli stesso chiamato un ‘membro’ del ‘gregge’ di Spencer) di mostrare l’inconsistenza del pensiero del filosofo inglese; questo fatto è da tenere in considerazione nell’analisi delle somiglianze fra Charles Renouvier e William James; Nella prossima Parte tratteremo approfonditamente della critica jamesiana al filosofo di Derby; interessa qui notare le parole di Renouvier scritte in risposta al nostro autore il 14 Maggio dell’anno 1878 (l’anno in cui James pubblicò il suo primo articolo firmato, primo anche di una serie di articoli che formeranno poi l’ossatura di gran parte dei Principlesof Psychology): Ho ricevuto il vostro “Remarks on (Spencer’s) Definition of Mind as Corrispondence” e l’ho letto con vivo interesse. Riguardo alla questione di Spencer, il vostro punto di attacco è molto ben scelto e la vostra argomentazione è costringente (...) Voi pensate però che io tratti questa filosofia [quella Spenceriana] troppo seriamente (...) forse avete ragione, ma questo accade quando un pensatore usurpa la gloria di questo mondo; colui che vuole occuparsene senza troppo riguardo rischia di offendere un pubblico molto numeroso (...) Egli [Spencer] deve la sua grande rinomanza in Europa per avere sistematizzato la teoria dell’evoluzione. TCWJ I, p. 667. Come vedremo, lo stesso William James, che aveva sottilmente rimproverato Renouvier di occuparsi troppo di un filosofo come Spencer, studierà la dottrina di quest’ultimo per molti anni e forse in maniera più ‘seria’ di quanto fece Charles Renouvier. 63

64

74

G. Lequier, op cit., Introduzione, p. 71.


Interessa qui notare che all’interno di questa spirito anti-necessitaristico e di strenua difesa dell’elemento personale (creativo) di ogni pensiero e di ogni azione, Renouvier si distinse decisamente da James nella valutazione dell’importanza dell’evoluzionismo darwiniano; paradossalmente i motivi che spingeranno James ad abbracciare la teoria darwiniana dell’evoluzione per selezione naturale —ricerca di una scientificità che lasciasse spazio a una dimensione di indeterminazione — sono gli stessi che portarono Renouvier

a rifiutarla; ovviamente questo è spiegabile solo data una differente

interpretazione del ‘cuore’ della dottrina darwiniana, che da James venne interpretato in chiave indeterministica — almeno in potenza — mentre da Renouvier venne equiparata alla forma di evoluzionismo che più distava da quella darwiniana: l’evoluzionismo spenceriano. Non è questa una differenza di poco conto, se si pensa a quanta importanza avrà la dottrina darwiniana per James: ed è anche in virtù di questa radicale diversità di vedute che è per noi improponibile una ‘riduzione’ della filosofia di James alla dimensione fideistica mutuata da Renouvier che cancelli — dimenticandolo — il ruolo della psicologia jamesiana della volontà, incomprensibile senza un esplicito riferimento ai concetti darwiniani di selezione e di variazioni spontanee. Ciò che Renouvier non fu mai disposto ad accettare era la teoria ricapitolativa di ontogenesi e filogenesi, né la teoria dell’evoluzione monogenetica. Spesso sembra che Renouvier critichi Darwin avendo in mente Spencer e questo sicuramente non gli permette di cogliere la novità della teoria evoluzionistica per selezione naturale (che, detto en passant, era compatibile proprio con quella teoria delle probabilità che il filosofo francese poneva scientificamente alla base del suo indeterminismo). Il 14 Maggio 1878 Renouvier scrisse a James:

Ma l’evoluzione è una pazzia. Lasciamo passare quindici vent’anni e allora parleremo di essa come si parlava del sistema di Lamarck al tempo di Cuvier. Così va il mondo [...] ma fino a quel momento è inevitabile che il più abile divulgatore dell’idea evolutiva sarà famoso fra tutti quelli che seguono la moda. E sono in tanti65.

D’altronde un ostacolo all’apprezzamento di Darwin venne sicuramente dal suo lamarckismo. Yvette Conry66 attribuisce al nazionalismo di Renouvier la decisione di rimanere su posizioni lamarckiane; sebbene quest’interpretazione possa dirsi decisamente fondata — visto anche l’interesse di Renouvier per la politica — è pur vero che il lamarckismo, almeno apparentemente, sembra dare effettivamente più autonomia e spontaneità all’individuo; tratteremo meglio di questo aspetto, abbastanza complesso,

65

TCWJ I, p. 667.

66

Y. Conry, L’Introduction du darwinisme en France au XIXe siècle, Paris 1974. 75


quando analizzeremo le ultime pagine dei Principles, dove James, al contrario, si schiera con Darwin contro Lamarck.

L’evoluzionismo biologico era già una visione popolare di sempre maggior successo prima che Darwin desse una scientifica spiegazione del suo funzionamento, anche se, come rilevato da Renouvier, la biologia darwiniana non eliminava la possibilità di regresso e stagnazione [delle specie]. Lo sviluppo di una sistematica filosofia evoluzionistica della storia sarebbe stata l’opera di Herbert Spencer , ch’era diventato un evoluzionista prima della pubblicazione dell’Origin of Species. Renouvier riteneva Spencer un degno avversario [...] che egli amava particolarmente attaccare. Mai timoroso di attaccare le idee dominanti della sua epoca, Renouvier potrebbe apparire in errore nel suo rifiuto dell’evoluzione, ma la faccenda non è così chiara come potrebbe apparire a tutta prima. Dato lo stato della conoscenza scientifica del tempo, le sue riserve riguardo all’evoluzionismo non erano antiscientifiche, e senza dubbio egli sottolineò dei problemi del concetto darwiniano di selezione naturale che avrebbero in futuro angustiato i biologi67.

2.1.5 L’idea di libertà nella filosofia di Charles Renouvier Ma se tutta la scienza, anche quella evoluzionistica darwiniana, si reggeva per Renouvier su una concezione necessitaristica della natura e dell’uomo, dove trovare quello spazio di libertà e di autonomia ch’egli riconosceva come gli unici presupposti non solo per la possibilità di una vita morale, ma anche per la possibilità di un effettivo progresso della società?

Prima di rispondere finalmente a questa domanda è bene chiarire che cosa intenda Renouvier per libertà dell’uomo; Logue è in proposito molto esplicito:

Il libero arbitrio, per Renouvier, è una facoltà posseduta dagli esseri umani, e solo dagli esseri umani, che permette loro di scegliere se accettare un’idea o un’altra, se compiere un’azione oppure no. E’ perciò il rifiuto di quella dottrina che ritiene che tutti gli eventi, mentali o fisici, sono assolutamente determinati e non possono essere altro da ciò che sono. Ma il libero arbitrio è anche il rifiuto della dottrina del caso, poiché esso rappresenta un potere attivo e non quella “libertà d’indifferenza” così duramente attaccata dai deterministi. Il caso è dunque ostile alla libertà, dal momento che esso nega all’uomo un reale potere decisionale68.

67

W. Logue, op. cit., p. 111.

W. Logue, op. cit., p. 91. Questo è un brano estremamente interessante, proprio perché sottolinea due caratteristiche dell’idea renouvieriana di libertà che troveremo anche in James: prima di tutto la libertà non coincide in alcun modo con la soppressione della causalità: indeterminismo non vuol dire casualità; in secondo luogo la libertà non riguarda soltanto le azioni dell’uomo, ma anche i suoi pensieri; o meglio: libertà significa, come giustamente scrisse James nel suo diario, poter avere un pensiero quando se ne potrebbe avere un altro. La libertà è prima di tutto libertà di pensare; la libertà di fare non è che un corollario di questa. 68

76


Se però l’importanza della libertà per la concezione morale dell’uomo di Renouvier è evidente, non altrettanto evidente è il modo in cui il filosofo francese riesce a sostenere razionalmente la realtà di questa facoltà “posseduta dai soli esseri umani”. È importante sottolineare l’avverbio razionalmente perché Renouvier, come del resto anche James, non cercò mai di opporsi alla scienza (deterministica) con la religione né al razionalismo con l’irrazionalismo; Renouvier infatti non mancò mai di riconoscere, anche qui come James, il fascino dell’impianto deterministico della scienza a lui contemporanea, né mancò di riconoscere che qualsiasi tentativo di opporsi alla sua forza con “le ragioni del cuore” sarebbe stato destinato a un veloce quanto triste insuccesso; per questo, quando si dice — come diremo anche noi — che l’argomento principale di Renouvier contro ogni dottrina necessitaristica è di tipo morale non bisogna intendere che si tratti di un argomento irrazionale o non razionale: anzi, alla fine dell’argomentazione renouvieriana sarà il determinismo — almeno nelle intenzioni — ad apparire come una dottrina contraddittoria. Come giunse Renouvier a giustificare69 l’idea di libertà? La risposta a questa domanda è in parte già contenuta nella breve esposizione che abbiamo finora dato del pensiero del filosofo francese: la credenza nella realtà del libero arbitrio, per quanto sia ‘speciale’ (per i risultati morali e gnoseologici ch’essa comporta) non sfugge alle caratteristiche di ogni credenza; la trattazione del tema della libertà si inserisce quindi, come parte — per quanto la più importante — nel discorso renouvieriano sulla credenza. Il Perry, dopo aver ricordato la matrice empiristica70 del filosofo francese, scrive:

Diciamo qui giustificare perché l’argomentazione di Renouvier comincia proprio con la costatazione che non è possibile dimostrare razionalmente né il determinismo né l’indeterminismo; cfr. W. Logue, op. cit., p. 89. 69

Anche James non manca di rilevare l’atteggiamento essenzialmente empiristico di Renouvier, un atteggiamento però ben differente da quello di altri empiristi (soprattutto della scuola britannica). Introducendo la sua analisi dei sistemi filosofici di Bain e di Renouvier nel saggio-recensione del 1876, scrive James: Utilizzeremo Bain allo scopo di dare maggiore rilievo ai meriti di un filosofo francese, Renouvier, che sembra essere sconosciuto ai lettori inglesi, ma che ha dato alla filosofia che Bain rappresenta una forma che è, a nostro giudizio, molto più chiara, compiuta e coerente di quanto sia mai stato fatto da qualunque scrittore inglese. W. James, The Emotion and the Will, by Alexander Bain, and Essais de critique générale, by Charles Renouvier, in ECR, p. 322. James era consapevole che solo attraverso una filosofia empiristica (e fuggendo quindi dal monismo idealistico incarnato superbamente da Hegel) egli avrebbe potuto trovare una base filosofica per sostenere la libertà della volontà umana; ma a questa consapevolezza si associa sempre il riconoscimento del fatto che la maggior parte degli empiristi — soprattutto della scuola britannica —si sono sempre opposti all’indeterminismo come a un pericoloso nemico che avrebbe potuto mettere in crisi tutto il loro sapere scientifico ed epistemologico: [James] guardava la filosofia di Mill come il culmine di quella tendenza nichilistica dell’empirismo, che nasce dal suo rifiuto di riconoscere la realtà delle relazioni unificanti. TCWJ I, p. 553 E, come Hume, Mill non era riuscito a trarre l’unico vantaggio che gli avrebbe potuto procurare questa sua posizione nichilistica, e cioè l’affermazione della libertà, che è più in armonia con la sua concezione del mondo come qualcosa di sminuzzato, fatto di rappresentazioni giustapposte, senza nessun legame di sorta fra loro. Ibidem. La stessa posizione deterministica di Bain appare a James inspiegabile date le premesse della sua filosofia. Mentre era ‘inevitabile’ che Spencer abbracciasse una filosofia deterministica, altrettanto ‘naturalmente’ Bain avrebbe dovuto riconoscere la funzionalità di una visione indeterministica all’interno del proprio pensiero: L’opposizione [all’indeterminismo] di Bain, che si attiene alla separazione ultima di ogni fenomeno dall’altro, e alla profonda inspiegabilità del loro ordine di successione, può essere considerata come un capriccio. W. James, The Emotion and the Will, by Alexander Bain, and Essais de critique générale, by Charles Renouvier, in ECR, p. 324. 70

77


L’empirista, abbandonando la speranza di una certezza assoluta, se si esclude quella certezza momentanea dell’immediata presenza di fatti particolari, riconoscerà la discrepanza tra la dubbiosità della sua conoscenza e la certezza della credenza. La credenza, se non è certa, non è nulla, ma la ragione non può assicurarla; perciò, la fissazione della credenza può avere luogo solo in virtù di un atto della volontà71.

La credenza è dunque per Renouvier frutto di un atto di volontà piuttosto che di una conclusione razionale, quindi anche la credenza nella realtà del libero arbitrio — non potendo essere garantita da alcuna dimostrazione — deve essere postulata dalla volontà. Si tratta in sostanza di una giustificazione morale piuttosto che logica. Come ricorda Perry, similmente a quanto detto sopra in proposito:

Di fatto, dice Renouvier, seguìto da James, tutti i nostri grandi sistemi filosofici sono espressioni dl temperamento e delle inclinazioni dei loro autori, per quanto essi dichiarino di seguire soltanto criteri di razionalità72.

Quello che all’inizio poteva sembrare ‘solo’ un appunto di sapore fichtiano73 teso a ricordare che un sistema filosofico non è un’inerte suppellettile, che si possa prendere o lasciare a piacere, ma è animato e intimamente legato allo spirito che l’uomo ha, si è rivelato ora essere il presupposto filosofico più importante per avvicinarsi al problema della credenza — e soprattutto della credenza nel libero arbitrio — attraverso una via che sembrava essere definitivamente ostruita dallo scientismo deterministico del tempo74.

71

TCWJ I, p. 657.

72

Ibidem.

Ci si conceda questo riferimento a Fichte, ch’è anche storicamente giustificato; sia Logue che Del Noce (trattando direttamente di Renouvier e indirettamente come compagno-discepolo di Lequier) ricordano l’importanza della figura dell’idealista tedesco per il filosofo francese, utilizzato per lo più in chiave antihegeliana anche se poi criticato per avere dimenticato lo “studio attento dell’io vivente”; è forse utile a questo proposito ricordare che il maestro di Renouvier, Jules Lequier, è considerato tra gli iniziatori del “libertismo”, cioè di quella filosofia che trasferisce all’io individuale i caratteri dell’io assoluto fichtiano; la brevità del nostro accenno — che, se approfondito, ci porterebbe troppo lontano dalla figura e dalla filosofia di William James — non rende ragione della profondità dei legami fra l’idealismo fichtiano e il personalismo e il finitismo di Renouvier; per un approfondimento di questo tema cfr. W. Logue, op. cit., passim, ma soprattutto la bella Introduzione di Del Noce alle Opere (cit.) di Lequier e la relativa bibliografia. 73

Bisogna poi ricordare che per Renouvier il determinismo scientifico non era l’unico ‘nemico’ di una filosofia della libertà. Il predestinazionismo calvinistico esercitava infatti una medesima forza contraria a qualsiasi affermazione di concreta autonomia della volontà dell’uomo e anche la difesa del libero arbitrio data da una certa forma di cattolicesimo era per Renouvier una ‘cura’ peggiore del male, in quanto faceva della libertà del volere umano un dogma in cui credere. 74

78


Renouvier dunque, dopo avere mostrato l’origine personale e passionale delle nostre credenze, si pone ora il seguente problema: questo atto di volontà — con cui fissiamo la credenza — è determinato o è libero? L’uomo può scegliere ‘moralmente’ di credere nella propria libertà, ma è questa una scelta libera? E quando possiamo dire che una scelta è veramente libera? Come scriveva James riportando le parole di Renouvier: libertà significa sostenere un pensiero perché ho scelto di farlo, quando avrei potuto avere altri pensieri75. In termini che riprenderemo più approfonditamente nella Parte 4, per Renouvier — come lo sarà ancora più chiaramente per James — la questione è se, in un determinato caso, si sarebbe potuto esercitare un maggiore sforzo di attenzione o se, come ritengono i deterministi, l’ammontare dello sforzo era già fissato dagli antecedenti76. Ralph Barton Perry, dopo avere detto che in James sarà l’argomento morale sviluppato in The Dilemma of Determinism a fornire la prova — una prova ‘razionale’, ma secondo un nuovo canone di razionalità — della realtà della libertà77, ricorda che il nostro autore è debitore a Renouvier anche di un altro argomento, che Perry definisce interessante e ingegnoso e profondamente congeniale al suo modo di pensare78: il pensiero (e abbiamo visto come per Renouvier la vera e unica libertà è la libertà di pensare) deve essere libero se deve essere vero o falso. In breve, non si dà possibilità di verità se non nella libertà. Questo argomento, almeno a tutta prima, non pare molto convincente:

L’esposizione del pensiero di Renouvier in proposito si trova in Deuxième Essai, p. xvii. Nel 1899 l’amico di Renouvier Pillon pubblicò un articolo nell’Année Philosophique (X) intitolato “Les Remarques critiques de Bayle sur le Spinozisme” nel quale lo scrittore conclude che se la verità è ciò su cui si dovrebbe dare un giudizio e, dal momento che in un mondo spinozistico [i. e. deterministico] tutto ciò che accade è per il meglio, allora tutti i giudizi debbono essere veri. In altre parole, l’errore […] dipende dalla libertà. Questo articolo venne letto d James e annotato positivamente, ma l’idea è di Renouvier o meglio, attraverso di lui a James, di Lequier.

75

LWJ I, p. 147.

76 La questione della libertà è posta in questi termini poiché per Renouvier, come sarà anche per James, la volontà è fondamentalmente sforzo di attenzione — e non sforzo di ‘traduzione’ di un’idea nella sua esecuzione — e quindi un atto volontario libero deve coincidere con uno sforzo di attenzione che non sia predeterminato, ovvero dove lo sforzo di attenzione che la volontà esercita per ‘tenere ferma’ un’idea non è riconducibile agli antecedenti noti e nascosti. 77 Il Perry è certamente nel giusto quando ricorda che l’argomentazione fondamentale fornita da James a favore di una “scelta per la libertà” si trova nella Will to Believe (opera di cui tratteremo approfonditamente alla fine della nostra tesi e che, come è noto, contiene il saggio sul dilemma del determinismo) e in quest’opera il riferimento al fideismo di Renouvier è indubbio; ma noi vogliamo qui ricordare, o meglio anticipare, che, proprio a proposito della definizione stessa di atto libero come risultato di uno sforzo “non-preventivabile” e non prevedibile da un punto di vista psicofisiologico, e a proposito della sua ‘giustificazione’ scientifica — soprattutto attraverso un sapiente utilizzo delle categorie darwiniane di selezione e di variazioni spontanee — sarà indispensabile un’attenta lettura dei Principles, soprattutto nei capitoli sulle facoltà della Volontà e dell’Attenzione.

78

TCWJ I, p. 658.

79


Secondo questa definizione — quanto meno discutibile sul piano storico filosofico — , per il determinista (spinoziano) tutto ciò che pensiamo deve essere ritenuto vero, ma è evidente che questo non è affatto un corollario di ogni dottrina deterministica. Se il concetto di verità rimane quello di coincidenza fra pensiero e realtà pensata, ne consegue che questa non ha a che fare con la predeterminazione del pensiero (oltre che della realtà pensata); ovvero, l’impossibilità di avere un pensiero differente non coincide con la verità di questo, a meno che non si sovrappongano verità e realtà, ma questo non è affatto scontato (e certamente non lo è nel determinismo positivistico). Ma, vista la brevità dell’esposizione di questa argomentazione fornita dal Perry — brevità che già abbiamo rimarcato a proposito di tutto il capitolo dedicato a Renouvier — non ci è ancora possibile farcene un’idea precisa. Faremo perciò ora riferimento all’argomentazione di Lequier, che dallo stesso Charles Renouvier viene considerato — proprio a proposito della difesa del libro arbitrio — il suo ‘maestro’,79.

Scrive Viney:

L’argomentazione di Lequier sembra [sembra?] seguire questa linea: l’attività conoscitiva presuppone un elemento di dubbio, ma è resa impossibile da un dubbio assoluto, dallo scetticismo radicale secondo cui non esiste possibilità di conoscenza. La dottrina del determinismo implica il dubbio assoluto, soprattutto sulla sua propria verità. Questo perché qualsiasi giudizio essa raggiunga, inclusa l’affermazione della necessità, non potrebbe essere altrimenti; [...] le sue ‘verità’, come i suoi ‘errori’ sono necessari. In un universo deterministico le persone sono destinate a esprimere i giudizi che esprimono, ma nessuno è nella posizione di sapere se egli è nel numero degli eletti i cui giudizi sono in armonia prestabilita con la verità, inclusa la verità del determinismo80.

Ora che è più chiara, l’argomentazione appare anche meno convincente: essa sembra volere rendere oggettivo ciò che è —o meglio potrebbe essere — solo soggettivo. Ovvero: è come se Lequier dicesse: se il ricercatore — determinista — è convinto che tutto quello che scoprirà è già predeterminato, allora non può avere veramente dei dubbi e quindi nessun vero motivo per proseguire nella sua ricerca, e nemmeno per iniziarla: l’esito sarebbe così uno stato di afasia e di apatia assolute. Di fatto il determinista, pur convinto che tutte le conclusioni cui giungerà sono determinate dalla serie completa 79 Fra breve prenderemo in considerazione il tema del rapporto Lequier-Renouvier, Renouvier-James, Lequier-James; si potrebbe forse parlare di questo che stiamo trattando come dell’argomento Lequier-Renouvier, come si parla della teoria di James-Lange e di quella di Kant-Laplace; in questi casi però gli autori arrivarono a simili conclusioni indipendentemente. Sulla definizione di Lequier come “maestro” data da Charles Renouvier Cfr. TCWJ I, p. 663 e D. W. Viney, William James on Free Will: The French Connection, cit., p. 36 (dove vengono citati tutti i passi in proposito). 80

80

Ivi, p. 40.


degli antecedenti causali, non ha motivi per fermarsi nella sua ricerca della verità. Dovrebbe fermarsi solo perché non sa se sarà ‘fra gli eletti’? Certamente, una volta raggiunta una posizione (che risulti falsa, come una qualsiasi previsione facilmente verificabile) lo scienziato determinista potrà affermare che non avrebbe potuto pensare altrimenti e quindi in questo modo il suo errore assume il carattere della necessità (come, allo stesso modo, sarebbe necessario qualsiasi suo ‘successo’ nella ricerca), ma tutto questo non porta né allo scetticismo né tantomeno a una forma radicale di scetticismo che sembra prospettare Lequier (e con lui Renouvier). E’ evidente che il determinismo implica un’impasse morale e non gnoseologica: solo l’atto morale presuppone la libertà di scelta, mentre questa non è affatto presupposta dall’atto conoscitivo. Nella morale contano le intenzioni, mentre nella conoscenza contano i risultati e perciò, mentre non potrà mai dirsi veramente morale un atto compiuto necessariamente, un giudizio raggiunto necessariamente può ben dirsi vero. In sostanza l’argomentazione di Lequier-Renouvier sembra reggersi tutta su una conclusionepremessa: che il determinismo porta allo scetticismo radicale, ma questa conclusione è assolutamente ingiustificata. Anche Logue, nell’esposizione filosofica della difesa renouvieriana della libertà, ripropone, senza fornirne una vera spiegazione, l’identificazione tra determinismo e scetticismo:

Senza libero arbitrio, la nostra possibilità di conoscere, riguardo all’uomo o alla natura, è fatalmente minata. Gli scienziati non hanno bisogno di credere nel libero arbitrio e, come essi sanno bene, preferiscono evitare questioni di questo tipo. In pratica, essi possono legittimamente fare così perché nelle loro limitate sfere di ricerca essi hanno sviluppato delle tecniche d’investigazione che funzionano anche se lo scienziato è inconscio dell’assunzione fondamentale sulla quale il suo metodo si fonda.[che sarebbe la realtà della libera volontà]. Ma senza libero arbitrio, la certezza delle verità scientifiche diviene illusoria; un vero determinismo deve portare a un profondo scetticismo. Renouvier non avrebbe mai cessato di tentare di convincere gli scienziati che, come i nostri concetti di giusto e sbagliato dipendono dalla libertà, allo stesso modo i concetti di vero e falso. Senza dubbio, senza libero arbitrio, noi non potremmo mai parlare concretamente di verità e falsità delle cose. Se quindi io ritengo vera una tale visione delle cose e sono determinato ad avere questa visione da determinate forze esterne che sono fuori dal mio controllo, la persona che dissente da me è ugualmente determinata da forze esterne nella sua posizione. Se queste posizioni mutuamente contraddittorie sono ugualmente necessarie, che basi abbiamo per dire che una è giusta e l’altra è sbagliata81?

Logue, oltre a non fornire alcuna difesa concreta dell’argomentazione di Renouvier (-Lequier) mostra involontariamente un’ulteriore debolezza di questa; quando Renouvier dice che bisogna credere nella verità del libero arbitrio per potere anche solo intendere i concetti di vero e falso (allo stesso modo che di

81 W. Logue, op. cit., p. 88. L’idea generale del determinismo è necessaria al funzionamento della scienza, e gli scienziati sono disposti ad assumerne l’universalità, sebbene questo postulato non sia necessario per il loro lavoro. Ivi, p. 99. 81


giusto e sbagliato) evidentemente fa riferimento a una credenza consapevole (né si vede come potrebbe darsene una inconsapevole); Logue — conscio del fatto che effettivamente gli scienziati fanno continui progressi senza porsi il problema della libertà dell’uomo o addirittura (quasi sempre) da un punto di vista squisitamente deterministico — afferma che il fondamentale assunto sul quale si fonda il metodo scientifico — quello appunto della realtà del libero arbitrio — è in loro inconscio: una quadratura del cerchio che non fa che aumentare i dubbi sulla linea argomentativa adottata da Renouvier sulla scia del ‘maestro’ Lequier.

A nostro giudizio dunque, il tentativo di Renouvier di dimostrare la contraddittorietà di ogni dottrina deterministica è decisamente fallimentare82; la cosa, a chi si occupa di William James piuttosto che del filosofo francese, dovrebbe inquietare ben poco se, come sostiene il Perry, questo “argomento ingegnoso” non fu che utilizzato marginalmente dal pragmatista americano per sostenere la sua difesa di una volontà libera. Di fatto poi, non appare molto chiaro donde sorga la necessità di un’argomentazione del genere una volta che si sia ‘deciso’ che la diatriba fra deterministi e indeterministi non sia risolvibile su un piano squisitamente teoretico (è qui che sta per noi, come venne anche riconosciuto da James, la forza della posizione renouvieriana). Una volta che si riconosca l’impossibilità di dimostrare83 la verità della dottrina deterministica o di quella indeterministica e che si scelga, con un atto di volontà, di credere nella realtà della libertà, non ha molto senso chiedersi se quest’atto sia libero o meno, perché l’unica risposta che potremmo dare è ancora una volta una risposta ‘morale’, fondata su una credenza e non su una dimostrazione. Se un’altra risposta fosse possibile, ciò vorrebbe dire che già la prima conclusione (impossibilità di andare oltre alla credenza nella libertà o nel determinismo) è sbagliatavi.

La ‘genesi’ di questa linea argomentativa adottata da Renouvier sembra essere facilmente individuabile proprio nella premessa della definizione di libertà che il filosofo francese si accinse a difendere: egli disse che libertà significa libertà di pensare: libertà di avere un pensiero piuttosto che un altro, piuttosto che libertà di agire secondo il pensiero che già si è ‘fissato’ nella nostra coscienza; posto che questo sia vero, e James pensava che lo fosse, non ne consegue che un pensiero, per essere vero o falso debba anche essere libero, ne consegue solo che un atto, perché sia considerabile libero, debba essere frutto di un pensiero libero. Ma l’identificazione tra libertà di pensare e possibilità di verificare la verità o la falsità di un giudizio è totalmente inspiegata. 82

83 Renouvier scrisse a James il 28 Dicembre 1882: Ciò che mi sembra particolarmente fragile nella tesi deterministica è il fatto che forza, azione e causa sono parole prive di significato per il determinista [...] così non sarei d’accordo nel dire, con Delboeuf che il determinismo è “un sistema logico irrefutabile”. TCWJ p. 689. Delboeuf infatti pensava che il determinismo fosse “logicamente irrefutabile”, e che fosse la scienza fisica l’unica possibile garante di un indeterminismo dell’universo che lasciasse spazio all’azione libera; per Renouvier, come del resto sarà per James, il determinismo non possiede invece alcuna priorità logica nei confronti dell’indeterminismo e il nostro filosofo americano non mancherà, anche nei Principles, di mostrare le incongruenze dell’apparentemente inattaccabile principio di causalità.

82


Ora che abbiamo analizzato approfonditamente la ‘difesa’ renouvieriana della credenza nel libero arbitrio, cerchiamo di esporre brevemente le ‘qualità’ di questa facoltà posseduta dagli esseri umani e solo dagli essere umani.

Abbiamo già detto, ma vale la pena di rimarcarlo, che libertà per Renouvier significa prima di tutto libertà di attenzione e lo sforzo della volontà libera è appunto uno sforzo di attenzione.

La verità non può agire direttamente sul corpo, ma si applica nella forma dell’attenzione alle idee. Quando un’idea è così fissata, e sopravvive all’esclusione di altre, essa si traduce nella propria azione84.

Ciò non vuol dire però che questo sforzo di attenzione non sia poi interpretabile come un vero e proprio atto di creazione. La distinzione tra libertà come attenzione e libertà come creazione sembra avere ben poco valore per il pensiero di Renouvier; infatti è fuori di dubbio che per il filosofo francese gli atti liberi siano dei veri e propri “primi cominciamenti”:

La nostra intrusione nella multipla serie di catene causali inizia una nuova catena di causalità. Questa possibilità, sia che la esercitiamo o meno, è sufficiente a dare significato al concetto di responsabilità morale e perciò a servire come fondazione per la filosofia morale di Renouvier85.

84

TCWJ I, p. 657.

85 W. Logue, op. cit., p. 82. La distinzione fra libertà come attenzione e libertà come creazione non ha senso per Renouvier a meno che non si veda l’atto libero sotto due punti di vista (e allora l’una non esclude l’altra): la mancata distinzione di questi due piani di lettura rischia di ingenerare una certa confusione. Logue scrive: la volontà è per Renouvier una forza regolativa piuttosto che una forza generatrice; di fronte a delle alternative, essa può decidere quale adottare. Invece di seguire le motivazioni più forti, essa decide quali sono i più forti. Ivi, p. 95. Se è vero che la volontà, nell’atto libero, sceglie “di fronte a delle alternative” (di cui egli ovviamente non sia il libero artefice perché altrimenti ci troveremmo di fronte a un regresso all’infinito) è altrettanto vero che quest’atto libero, quando si compie, crea effettivamente qualcosa di nuovo; potremmo forse troppo schematicamente dire che l’atto libero deve essere considerato attentivo dall’interno e creativo dall’esterno. Joseph Rychlak, sembra dare dell’idea renouvieriana di libertà una ben differente rappresentazione: egli distingue fra due ‘stili’ di pensiero e corrispettivamente fra due modi di intendere la possibilità di un atto libero: un modo sarebbe quello di intendere l’atto libero come first event; un altro modo sarebbe quello di intenderlo come second event. Quest’ultimo modo di intendere l’atto libero è quello che abbiamo considerato finora: la volontà non sceglie le alternative, ma sceglie fra le alternative. Noi abbiamo fin qui attribuito questo modo di pensare a Renouvier (anticipando che sarà così anche per il James dei Principles); Rychlak è invece del parere che in Renouvier l’atto libero è considerato come first event: Si porrebbe così una frattura fra Renouvier e James che ci pare del tutto inesistente. Lo stesso Logue, che è un attento studioso di Renouvier (al contrario di Rychlak) non lascia dubbi sul “livello secondario” (per usare le stesse parole di Rychlak) dell’idea di libertà in Renouvier; ma anche senza rifarci troppo sbrigativamente all’autorità di Logue, possiamo aggiungere che Rychlak non dà alcuna giustificazione della sua attribuzione a Renouvier di un firrst event-style of philosophizing. L’unico suo appiglio sembra essere il kantismo di Renouvier (che, come vedremo fra breve deve essere preso cum grano salis), ma è strano poi come egli non riporti nessuna citazione in proposito dell’autore francese; sembra che il suo sia più un modo per dire che cosa avrebbe dovuto dire Renouvier, piuttosto che quello che effettivamente disse. Cfr. J. F. Rychlak, William James and the Concept of Free Will, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 325.

83


L’atto di libertà è dunque un atto di creazione, dove una nuova serie di eventi, che altrimenti non sarebbe mai esistita, prende vita grazie alla spontaneità della volontà: la libertà dell’uomo sta quindi nella capacità di scegliere fra quelli che Renouvier chiamava “futuri ambigui”: il carattere finito della serie causale spinge Renouvier ad affermare che il mondo dipende da una o più cause che non sono effetti, ma atti antecedenti primi. È qui importante sottolineare che per Renouvier la possibilità del libero arbitrio non passa attraverso l’annullamento del concetto stesso di causalità. Renouvier non si oppone al pensiero deterministico sostituendo la casualità alla catena necessaria delle relazioni causali, ma ‘ampliando’ il concetto stesso di causalità, una causalità che lascia così spazio alla possibilità di atti che siano cause ma non effetti; si tratta certamente di un’idea di causalità difficilmente condivisibile da un punto di vista rigorosamente scientifico e, a dire la verità, apparentemente inimmaginabile. D’altronde Renouvier, pur consapevole delle notevoli difficoltà sollevate dalla propria teoria, era ugualmente conscio del fatto che il concetto ‘classico’ di causalità non era certo meno problematico; in che cosa consisterebbe questo legame tra la causa e l’effetto? La critica humeana al concetto di causalità — cui Renouvier si rifaceva esplicitamente — era il migliore scudo contro ogni accusa di irrazionalità:

L’idea di causa-effetto ha per Renouvier origini pre-scientifiche, e senza dubbio l’idea di “causa” aveva sviluppato un peso metafisico tale che il filosofo francese riteneva che uno dei modi in cui si sarebbe dovuta declinare la rivoluzione scientifica sarebbe dovuto passare attraverso l’eliminazione dell’interesse per le “cause”86.

Allo stesso tempo, come abbiamo già detto, dato che la libertà deve essere considerata prima di tutto come il fondamento della morale, essa non può che essere ‘soffocata’ in un mondo dove regni il caso, il ‘capriccio’ di natura; il caso infatti — come viene spesso rilevato da chi cerca di mostrare l’impensabilità di una mondo indeterministico — è ostile alla libertà quanto la necessità, dal momento che nega all’uomo qualsiasi potere decisionale e così nega la possibilità che egli venga considerato un essere responsabile delle proprie azioni.

86 W. Logue, op. cit., pp. 99-100. Logue aggiunge poi in nota che Renouvier era ben consapevole della differenza che corre tra il credere nella causalità e l’essere deterministi. Ivi, p. 100, n. 54.

84


L’esistenza della libertà richiede una misura d’indeterminazione nell’universo, ma non potrebbe esistere se l’universo fosse completamente indeterminato. I nostri atti di libertà sono l’inizio di catene di conseguenze e non avrebbe senso se le loro conseguenze non fossero soggette al rapporto di causa ed effetto. “Gli atti liberi non sono effetti senza causa; la loro causa è l’uomo, l’unione e la pienezza delle sue funzioni [...].87”

E come non può darsi casualità assoluta in luogo di assoluta necessità, allo stesso modo il legame che unisce la mente dell’uomo al suo corpo non può essere annullato in virtù di una libertà assoluta; Charles Renouvier si oppone duramente all’idea che, se la libertà è un bene allora la libertà assoluta è un bene assoluto; non si tratta solo della classica differenza tra libertas minor e libertas maior. Dalle pagine del filosofo francese, insieme con la strenua difesa della libertà dell’uomo emerge una ben precisa idea della limitatezza di questa; anche James, sebbene non con queste parole, parlerà di una libertà “limitata” e, come vedremo nei prossimi capitoli, sarà proprio in virtù di questa limitatezza ch’egli potrà difendere un concetto pensabile di libertà. Per Renouvier, la libertà dell’uomo può essere considerata limitata almeno sotto due punti di vista: prima di tutto anche l’azione volontaria effettivamente libera, per quanto sfugga al riduzionismo88 deterministico della mente al corpo, si inserisce in un contesto psico-fisiologico che di certo non può essere annullato: Renouvier riconobbe un elemento di dipendenza della nostra mente dai processi fisici, ma insistette nell’affermare che i processi mentali sono radicalmente differenti da quelli fisici e non possono essere spiegati con questi89. È evidente dunque che Renouvier non può affatto condividere il riduzionismo e l’epifenomenismo positivistico; la mente è legata al corpo, ma da essa — parzialmente — indipendente: inoltre, come il corpo può influire sulla mente, così viceversa.

Ma la libertà dell’uomo deve essere considerata limitata soprattutto da un punto di vista quantitativo: cioè, nell’arco di una giornata e globalmente nell’arco di una vita, gli atti veramente liberi sono ben pochi: Renouvier ammette che la maggior parte dei nostri pensieri e delle nostre azioni debbono essere considerati

87

Ivi, p. 91.

Renouvier riteneva che materialismo e riduzionismo fossero delle concezioni metafisiche — nemmeno nuove — e che fossero il fondamento piuttosto che il frutto della scienza moderna. 88

89 Ivi, p. 93. Come vedremo nella Parte Terza, analizzando la trattazione jamesiana della pensabilità psicologica di un atto libero volontario, il legame fra la possibilità di scegliere liberamente e le effettive alternative che la coscienza si trova a valutare non solo non sarà un ostacolo, ma sarà esso stesso condizione della scelta libera,, intesa come selezione di alternative che non sono frutto di una libera scelta. In sostanza, mentre in Renouvier il forte legame fra mente e corpo pur non essendo un ostacolo insormontabile, appare un elemento quantomeno ‘fastidioso’ nell’architettura della sua teoria, in James ciò che nel filosofo francese viene solo ‘tollerato’ (che cioè parte della nostra coscienza sia riconducibile alla sua base cerebrale) diventerà esso stesso la base per comprendere la possibilità di una scelta libera.

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determinati, nel senso che essi non seguono ad alcuna riflessione90. La libertà dell’uomo non deve intendersi limitata dall’esterno — dalla possibilità o meno di realizzarsi nei fatti — , ma dall’interno, cioè dalla sua stessa dinamica creativa91. Questa ‘limitatezza’ non deve fare però dimenticare che le decisioni libere che l’uomo prende liberamente portano nel mondo qualcosa di veramente nuovo (e non solo di imprevedibile), realizzano una fra tante possibilità. In questo modo l’uomo oltre a essere creatura (delle condizioni in cui è nato, del suo carattere, della sua educazione, delle situazioni in cui si trova ad agire, di ciò che James chiamerà the mass of mundane facts) è allo stesso tempo creatore di se stesso92. Prima di concludere questa breve esposizione della dottrina libertista di Renouvier (dove analizzeremo le ‘conseguenze’ teologiche e metafisiche del suo finitismo) è interessante aprire una parentesi sull’etica renouvieriana, ch’è poco conosciuta, ma per noi molto interessante, sia perché si lega strettamente al concetto di libertà limitata dianzi esposto sia perché in parte anticipa l’etica jamesiana, anch’essa sovente poco considerata: potremmo dire che il filosofo francese, pur non essendo affatto vicino al pensiero utilitaristico né tantomeno a quello edonistico, rifiutava decisamente l’identificazione di vita morale e vita ascetica. Come detto sopra, Renouvier era consapevole che non tutti gli atti compiuti dall’uomo sono atti liberi, anzi: la maggior parte delle azioni sono compiute in maniera non riflessiva e quindi potremmo dire meccanica. Non solo, gran parte dei comportamenti successivi a un atto di riflessione sono determinati dalle pulsioni e dai desideri dell’uomo, sono atti determinati dalla ricerca della maggiore felicità: La morale razionale di Renouvier è aperta a motivazioni di questo tipo [ricerca del piacere o della felicità] ma insiste che esse debbono avere un ruolo subordinato. Renouvier ammise che la ricerca della felicità è una delle principali motivazioni che spingono l’uomo ad agire93. Ma ciò non toglie che in determinate circostanze l’uomo possa interrompere questa meccanismo naturale e introdurre un elemento imprevisto e imprevedibile ch’è l’essenza della libertà.

90

Ivi, p. 94.

Interessa qui notare come per Renouvier, la facoltà del libero arbitrio, pur essendo caratteristica di ogni uomo, non da ogni uomo è esercitata nella medesima maniera. Se parte della limitatezza della libertà dipende dalla sua stessa natura, parte è imputabile al comportamento dell’uomo: Mentre è una capacità universale dell’uomo in quanto uomo, il libero arbitrio è praticato differentemente. Nessuno lo utilizza per più di una frazione di tempo; molti hanno addirittura perso il desiderio. [la libertà] è una capacità che può essere rafforzata con l’esercizio; noi possiamo, per così dire abituarci a esercitare la nostra volontà, così come possiamo abituarci a farci trascinare dalle cose. Ibidem.. Anche in James ritroveremo questo elemento, quello dell’educabilità della volontà; a questo proposito però sarà molto più importante l’insegnamento di Alexander Bain (che James riconobbe sempre — pur nella diversità di impostazione — fondamentale per la propria formazione psicologica e filosofica). 91

E nelle mani dell’uomo è posta la possibilità del suo progresso, per quanto questa possibilità sia concretamente ridotta proprio dall’uso limitato ch’egli fa della propria libertà: Il miglioramento degli individui, nonostante il peso della solidarietà sociale, è possibile poiché l’uomo ha il libero arbitrio, per quanto raramente o erratamente egli lo utilizzi. Ivi, pp. 44-45. 92

93

86

Ivi, pp. 65-66.


Ritorniamo così al punto da dove eravamo partiti nell’analisi del pensiero renouvieriano: come abbiamo visto, il filosofo francese si rifiutava di aderire all’ottimismo spenceriano, proprio perché questo sembrava escludere dall’inevitabile progresso della società proprio il suo protagonista, facendone uno spettatore passivo; per Renouvier la ragione principale per cui ci può essere progresso nella società è la stessa per cui questo progresso non può essere considerato inevitabile: è la libertà dell’uomo. Libertà significa anche libertà del male94 e non potrebbe per Renouvier essere altrimenti.:

La negazione della libertà del male e l’affermazione dell’esclusiva libertà del bene porta pure alla negazione della libertà, alla degenerazione della libertà in una necessità buona. Ma la necessità buona non è più un bene, giacché il bene presuppone la libertà95.

Veniamo ora all’ultima parte del pensiero renouvieriano sulla libertà96: si ricorderà che abbiamo detto che l’idea di libertà formulata e difesa dal filosofo francese non è priva di conseguenze teologiche e metafisiche: cominciamo da queste ultime. scrive il Perry:

Come vedremo più avanti, anche in James il riconoscimento della realtà e della forza del male avrà un ruolo molto importante per l’atteggiamento che l’uomo che crede nella libertà del volere deve assumere di fronte alle difficoltà della vita; il riconoscimento dell’esistenza del male assume poi anche una dimensione gnoseologica; giova qui anticipare le parole di James in proposito nelle Varieties of Religious Experience, un’opera cui faremo solo qualche breve cenno: Non c’è dubbio che la “healthy-mindedness” sia inadeguata come dottrina filosofica, perché i mali reali che essa si rifiuta di prendere in considerazione sono porzioni genuine [parti reali] della realtà, ed esse possono dopo tutto essere le chiavi migliori per [comprendere] il significato della vita, e forse le uniche in grado di aprirci gli occhi ai livelli più profondi di verità. VRE, p. 136. Ma già molti anni prima James, proprio nel periodo in cui approfondiva la lettura di Renouvier, aveva espresso idee simili con grande forza; scrisse egli al fratello Henry (7 Maggio 1870): Io non riesco, come sembrano fare molti, a distogliere lo sguardo dal male, e a nasconderlo. Il male è reale come il bene e se esso viene negato, allora deve essere negato anche il bene. Il male deve essere accettato e odiato e combattuto finché si ha fiato in corpo. LWJ I, p. 158. 94

95

G. Lequier, op. cit., Introduzione, p. 5.

Facciamo qui evidentemente riferimento a quella parte della filosofia di Renouvier che verrà ripresa più o meno esplicitamente da James nel corso della sua carriera. Come abbiamo già detto, la mole degli scritti del pensatore francese è enorme e molta parte della sua dottrina riguarda esplicitamente la filosofia politica e sociale, un tema che occupò James solo negli ultimi anni, quando il suo pensiero poteva ormai ben dirsi autonomo e non solo dall’influsso di Charles Renouvier; James comunque fu sempre vivamente interessato alle questioni politiche (passivamente per lo più) anche prima di inserire il proprio pensiero politico in un coerente sistema filosofico; lo stesso Renouvier probabilmente lo stimolò a occuparsi di certi problemi al tempo molto dibattuti; a questo proposito interessa riportare una lettera di Renouvier a James datata 14 Maggio 1878 (le lettere di James a Renouvier di questo periodo sono andate perdute). Dalle parole del filosofo francese emerge sia la sua posizione sia, indirettamente, quella del corrispondente americano: Le sue riflessioni sui vizi della democrazia, sulle usurpazioni delle mediocrità, sono abbastanza giuste. Ma da che cosa può essere soddisfatto l’uomo di sentimenti delicati e di elevate aspirazioni? Forse noi non dovremmo giudicare solo comparando quel che abbiamo dinanzi a noi con i nostri ideali. Dovremmo compararlo con altri regimi e con altre epoche. Gli stati monarchici e quelli aristocratici sono forse stati così migliori? (...) Per quel che concerne la Francia, l’unico Paese di cui io abbia una discreta conoscenza, il vecchio regime è totalmente odioso; e quando io mi guardo attorno vedo che i nostri re, i nostri nobili e i nostri prelati si sono ridotti in un tale stato di fiacchezza che i prodotti mediocri dell’educazione elementare [...] li superano ben presto sia come politici che come uomini di progresso. La mediocrità combinata con una vaga idea di bene pubblico è ciò che ci salva (...) Io perciò sono fortemente democratico, sebbene debba convenire con voi che il gruppo è inferiore all’individuo. Accontentiamoci perciò del fatto che la democrazia non soffochi l’individuo. TCWJ I, p. 668. 96

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L’unica filosofia fatale all’idea di libertà è il monismo, con il suo Tutto onnicomprensivo. Renouvier, sebbene immerso nella tradizione filosofica, era libero dalla sua più grande superstizione. Riguardo al mondo esistente egli era un finitista97. Renouvier credeva cioè che un infinito attuale fosse auto-contraddittorio, poiché in quanto attuale esso deve essere determinato e numerabile nella quantità, mentre questo non potrebbe accadere se fosse infinito. Per Renouvier il mondo è limitato nel tempo, nello spazio, nella causalità: Ciò significa puri cominciamenti [sheer beginnings], ex abrupto98. E’ evidente che queste considerazioni squisitamente metafisiche comportano precise conseguenze sulla possibilità stessa di un’azione libera; i “primi cominciamenti” e le “novità assolute” sono ipotesi intelligibili e quindi il tutto dell’universo non determina le sue parti, e fra esse, non determina le azioni, e prima di tutto i pensieri, dell’uomo. Esse danno così vita a quello che James chiamerà un universo “pluralistico”, un universo dove l’uomo, sfuggito all’ordine necessitario e al disordine della casualità, può trovare una propria autonomia, in una relazione fra le parti (fra gli altri uomini) dove l’unione delle diverse personalità e delle diverse volontà

Ivi, p. 659. A proposito delle ‘superstizioni’ o dei ‘pregiudizi’ della tradizione filosofica è interessante un brano di Renouvier tratto dall’Esquisse d’une classification systématique des doctrines philosopiques (1886), che riassume ammirevolmente il contrasto — fruttuoso — fra il suo pensiero e tre ‘idoli’ filosofici: liberai la mia mente dal prestigio dei tre idoli della filosofia, (...) l’attualità dell’infinito esistente, l’idea della sostanza assoluta che sta dietro tutti i fenomeni, e l’assoluta connessione causale tra eventi successivi [...] C. B. Renouvier, Esquisse d’une classification systématique des doctrines philosopiques, 2 voll., Paris, 1885-1886, II, p. 360-361. 97

98 Ibidem. Perry continua, anticipando la futura ‘metafisica’ jamesiana: James si occupò a lungo e onestamente del problema dell’infinito e, sebbene le sue conclusioni finali non coincisero con quelle di Renouvier, egli aveva imparato che i primi cominciamenti [first beginnings]e le novità prime [unanticipated novelties] erano per lo meno delle ipotesi intelligibili. Ibidem. Nel piano della nostra tesi non rientra il pensiero dell’ultimo James. Ci sia quindi concesso qui di anticipare brevemente le differenze cui accenna il Perry: entrambi i filosofi pensavano che una filosofia monistica — come quella hegeliana per esempio — dove il tutto determina le parti, fosse in contraddizione non conciliabile con la possibilità di quei first begennings che sono l’essenza oggettiva della possibilità dell’uomo di agire liberamente. Allo stesso tempo, come abbiamo detto e diremo ancora meglio nella prossima Parte dedicata alla psicologia della libertà di William James, un mondo in cui le parti siano totalmente slegate l’una dall’altra, un mondo di totale indipendenza (nulliverso) opposto a un mondo dove le parti sono legate l’una all’altra in maniera determinata e immodificabile, è un mondo dove la libertà dell’uomo coincide con il capriccio della natura e quindi dove non c’è alcuno spazio per una vera responsabilità delle azioni dell’uomo. In sostanza potremmo dire che per James essere empiristi significa prima di tutto riconoscere la priorità delle parti sul tutto; fin qui dunque le somiglianze, strettissime con Renouvier; di fatto, come abbiamo già anticipato, col tempo i rapporti personali e intellettuali tra James e Renouvier andranno via via raffreddandosi — pur persistendo un profondo rispetto reciproco — e questa lenta ma inesorabile divergenza di opinioni sarà imputabile proprio alla ‘svolta’ che il filosofo francese stava imprimendo alla propria metafisica: questi infatti, si avvicinò sempre di più a una sorta di monadismo, nel quale il mondo è concepito come una moltitudine di “personalità” (TCWJ I, p. 660). Per James questo voleva dire avvicinarsi a quella metafisica idealistica che entrambi, nella figura eminente di Hegel, avevano rifiutato all’inizio della costruzione del proprio pensiero. In sostanza James vedrà nel crescente monadismo di Renouvier un’eccessiva ‘pluralizzazione’ del mondo. E’ evidente che una ‘polverizzazione’ del mondo di questo tipo non poteva che avere effetti diretti sulla filosofia della libertà che sembrava avere avvicinato tanto James a Renouvier; in un mondo dove le parti sono sempre più separate le une dalle altre, che senso ha parlare di libertà di connessione fra le parti stesse? Riprenderemo brevemente questo argomento alla fine della nostra tesi; ci è sembrato necessario anticipare qui i futuri sviluppi della filosofia renouvieriana (e il conseguente allontanamento da essa da parte di James), perché questo ci permette di capire come anche il pensiero ‘metafisico’ di James avrà sempre come ‘cartina di tornasole’ la possibilità e la concretezza dell’azione libera.

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libere può portare (ma non necessariamente perché altrimenti ci troveremmo di fronte a un bene necessario99 di sapore spenceriano100) a un effettivo progresso della società. Veniamo ora alle interessanti conseguenze teologiche: Questa concezione finitistica dove Il mondo appare come un tutto finito nel tempo e nello spazio, discontinuo, pluralisticamente accentrato, tale da consentire non solo l’indipendenza di centri individuali, ma l’inizio da parte loro di serie causali101 non è ovviamente disgiunta da una ben precisa idea di Dio. All’idea di limitatezza, ma di concreta efficacia, della libertà dell’uomo, corrisponde, come premessa necessaria, quella della limitatezza di Dio.

Si è parlato del passaggio da una concezione ‘monarchica’ e a una ‘repubblicana’ e ‘democratica’ del divino. Fuor di metafora, potremmo dire che nell’uomo pluralistico descritto da Renouvier non c’è spazio per un Dio onnisciente e onnipotente. Un tale Dio non può per Renouvier ‘convivere’ con un uomo libero: a un rapporto di subordinazione fra Dio e l’uomo si sostituisce un possibile rapporto di collaborazione, in una dinamica morale-religiosa molto simile a quella che delineerà lo stesso James nel suo pensiero ‘teologico’ dove Dio verrà addirittura visto come bisognoso della collaborazione dell’uomo: a quest’ultimo, nella sua possibilità di essere libero, verrà perciò attribuita anche la responsabilità di non rendere questo mondo estraneo allo stesso Dio che l’ha creato. Tornando a Renouvier possiamo dire che in lui non è mai veramente superata la tendenza ad accordare la libertà dell’uomo e l’esistenza di Dio attraverso la limitazione degli attributi di questo102. Del Noce identifica in questa ‘limitazione’

Per Renouvier l’esistenza di un bene necessario è inconciliabile con la libertà dell’uomo come quella di un male necessario; Renouvier non disconobbe mai l’esistenza del male (ci riferiamo ovviamente al male morale) nel mondo (come del resto James), ma mai lo ritenne inevitabile né necessario, né prodotto dell’imperscrutabile volontà divina; il male per Renouvier è il prodotto della libero arbitrio dell’uomo: questo infatti non sarebbe affatto libero se fosse in grado solo di procurare il bene: La libertà dell’uomo è così la fonte delle sue sofferenze in questo mondo così come lo strumento della sua redenzione ultima. W. Logue, op. cit., p. 157. 99

100 William James, anche una volta esaurita la polemica con Spencer, rimarrà sempre ostile a qualsiasi forma di pensiero ottimistico; al pessimismo (deterministico, ma non solo) e all’ottimismo (evoluzionistico, ma non solo) James opporrà il suo meliorismo (o anche: migliorismo); Del Noce identifica nel meliorismo jamesiano il cuore del pragmatismo americano, rifacendosi a un bel libro di Riconda (G. Riconda, la filosofia di William James, Edizioni di “Filosofia”, Torino 1962) che in effetti dà molto spazio a questo tema; di fatto Riconda in questo testo (come del resto nel recentissimo Invito al pensiero di James, Mursia, Milano 1999) dà la giusta importanza al meliorismo jamesiano, ma come ‘momento’ di tutta la sua filosofia della volontà libera e non certo identificandolo come ‘il cuore’ del pensiero jamesiano (nemmeno di quello volontaristico) né tantomeno come “il tratto essenziale della filosofia americana”. Questa ‘sopravvalutazione’ del migliorismo jamesiano può essere facilmente giustificata nella lettura che Del Noce dà di tutto lo sviluppo del pragmatismo americano che sarebbe, un po’ troppo semplicisticamente riducibile, per lo meno nelle origini, alla teoria della libertà di Jules Lequier. Cfr. G. Lequier, op. cit., Introduzione, p. 101, n. 1. 101

Dizionario dei filosofi, Sansoni, Firenze 1976, p. 996.

102 Ibidem. Ma, mentre in James, come abbiamo dianzi anticipato, è Dio ad “avere bisogno’ dell’uomo, per Renouvier è piuttosto vero il contrario: Dio ha dato alle sue creature la facoltà del libero arbitrio, e ha dato loro il desiderio di un mondo e di una vita giusti, ma l’uomo è troppo debole per seguire il giusto cammino senza l’aiuto di Dio, senza un aiuto costante e quotidiano che ci guidi nelle nostre scelte più importanti. James, pur ritenendo la fede in Dio un aiuto grandissimo per l’uomo che lotta per la propria autonomia, non la riterrà mai un elemento indispensabile; egli stesso infatti, come vedremo in seguito, non ebbe mai una vera fede e di questo si rammaricò, paradossalmente in uno spirito veramente cristiano, 89 riconoscendo la fede come dono divino piuttosto che come ‘utile esercizio’.


della potenza e della scienza divine il presupposto del razionalismo metafisico: ovvero, quel che viene dato all’uomo deve essere tolto a Dio e viceversa, per cui non si darebbero che due ‘vie’ per salvare la libertà umana: 1) intendere l’uomo come momento della realtà divina; 2) limitare la potenza divina103.

Alla critica verso un Dio onnipotente e onnisciente Renouvier affiancava quella verso il panteismo; questa concezione teologica era per il filosofo francese decisamente “pericolosa”, perché, similmente al determinismo, essa farebbe degli individui delle mere apparenze che emergono dal tutto per esserne tosto riassorbite; il fatto che Spinoza104 fosse panteista non poteva che confermare questa teoria. Il panteismo rappresentava agli occhi di Renouvier la ‘versione religiosa’ di quel ch’era il positivismo per la scienza; il cristianesimo si sarebbe dunque dovuto difendere tanto dal determinismo scientistico quanto dal dio panteistico, entrambe forze capaci di annullare, sebbene attraverso strade differenti, l’autonomia dell’uomo e la sua aspirazione alla libertà105. Renouvier era invece molto affascinato dal politeismo, una concezione che, oltre a sottolineare la pluralità di coscienze che popolano il mondo toglie a Dio la qualità dell’onnipotenza (e l’onniscienza); questo non significa che Renouvier professasse una qualche religione politeistica, ma ‘soltanto’ ch’egli riteneva che non ci fossero obbiezioni filosofiche al politeismo e senza dubbio, anche da un punto di vista cosmologico, gli sembrava più facile concepire le origini del mondo da un punto di vista fenomenologico se queste fossero ‘collocate’ in una pluralità di coscienze106.

Un’altra condizione per la moralità dell’uomo, non meno importante del libero arbitrio, è per Renouvier che la sua anima sia immortale; o meglio: che si dia la possibilità di una vita spirituale dopo la

103

G. Lequier, op. cit., Introduzione, p. 52, n. 1.

E’ forse utile ricordare qui che l’ossessione contro il libero arbitrio, tale che ne scompare anche il termine, anche presso gli autori che nella sostanza lo affermano, sia tra gli aspetti essenziali del pensiero dell’ottocento, correlativo al mito di Spinoza.. Ivi, p. 4. 104

Scrive James: Renouvier, molto correttamente insiste sul fatto che l’unico nemico logico del libero arbitrio è la dottrina della Sostanza o Panteismo. Spencer, per esempio, col suo “Inconoscibile” è praticamente obbligato a opporvisi. W. James, The Emotion and the Will, by Alexander Bain, and Essais de critique générale, by Charles Renouvier, in ECR, p. 324. 105

Cfr. W. Logue, op. cit., p. 129. E’ poi forse utile ricordare che uno dei criteri che sempre diressero il giudizio di Renouvier sulla scienza, la filosofia e la religione, era quello delle conseguenze politiche e sociali che l’accettazione di una determinata teoria poteva comportare. Come dunque il panteismo poteva portare ‘naturalmente’ alla rassegnazione, all’accettazione del sacrificio delle generazioni presenti nel nome di qualche filosofia della storia (Ivi, p. 118), di contro le società politeistiche dell’antica di Roma e Grecia antiche gli sembravano racchiudere maggiore libertà, tolleranza e moralità. 106

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morte del corpo107. Renouvier, in questo molto vicino a Kant, pensava che i pochi anni di vita su questa terra non sarebbero mai stati sufficienti a realizzare il ‘potenziale morale’ dell’uomo; questa vicinanza al pensiero di Kant non deve affatto stupire, se si considera che Renouvier viene comunemente definito filosofo kantiano, o neokantiano, e viene addirittura considerato il padre della scuola neocriticistica francese: non mette qui conto di trattare approfonditamente della radice kantiana del pensiero di Renouvier e nell’esposizione che qui ne abbiamo dato siamo riusciti a farne a meno; certo possiamo dire che, a giudicare almeno da certa parte delle sue opere, a legarlo al filosofo di Königsberg siano più le differenze che le somiglianze:

Le categorie non sono infatti per lui che le leggi più generali dell’esperienza, di cui non tenta in alcun modo di dedurre la necessità, limitandosi di fatto a constatarla. Fondamentalmente egli lascia da parte l’idea kantiana secondo cui le categorie sono funzioni attraverso cui lo spirito costituisce l’esperienza e pone l’oggetto, che non può consistere che di relazioni legate all’“io penso”. Tutta la sua correzione del kantismo suppone l’abbandono non criticamente giustificato della teoria della deduzione trascendentale108.

Il fatto che effettivamente la filosofia di Renouvier sia comprensibile senza un continuo riferimento al pensiero di Kant e il fatto che molti dei critici che ne analizzano approfonditamente il contenuto citino Kant e il trascendentalismo ben poche volte nella propria esposizione, non deve però far dimenticare i due più evidenti e più importanti punti di contatto fra Kant e Renouvier: 1) il fatto che non si dia

107 Per Renouvier una vita futura era una necessità morale, perché, senza l’esistenza d’una vita futura, il potenziale morale dell’uomo non potrebbe essere realizzato. Ivi, p. 46. E ancora: Poiché l’uomo non è in grado di raggiungere la giustizia in questo mondo, egli ha bisogno di credere nella possibilità di una giustizia futura. Ivi, p. 161. 108 Dizionario dei filosofi, cit., p. 995. Bisogna comunque ricordare — a proposito del suo kantismo — che Renouvier condivideva con molti intellettuali e filosofi francesi del tempo il limite della scarsa conoscenza della lingua tedesca; a prescindere poi dalle differenze in ordine alla sua gnoseologia possiamo certamente affermare che il tema della libertà fu in lui largamente stimolato dalla letture delle opere di Kant; nel capitolo conclusivo del suo Manuel de phhilosophie moderne, Renouvier scrive: Dopo Kant è permesso credere che la fede deve servire di base al sapere, poiché Kant ha provato che le idee non possono uscire da noi e fissarsi nel mondo esterno per via di scienza. Ed è il più gran passo che la dottrina delle idee abbia fatto dopo Cartesio. C. Renouvier, Manuel de philosophie moderne, Paris 1842, pp. 593-594, in G. Lequier, op. cit., p. 37. A prescindere dalla correttezza del giudizio di Renouvier sulla filosofia kantiana, è evidente che le sue parole non lasciano dubbi sull’importanza attribuita al suo pensiero. Molti sono invece i dubbi relativi all’effettivo ruolo svolto dal filosofo di Königsberg proprio riguardo al ruolo della libertà nella vita — anche conoscitiva — dell’uomo: Il rapporto di dipendenza della conoscenza nei riguardi della libertà, intravisto per un momento da Cartesio, a cui la sua teoria dell’evidenza non permise di scrutarne a fondo la portata, è stato formulato nei nostri tempi nella maniera più decisiva da Jules Lequier (...) Porre la credenza, e con essa la libertà, come fondamento alla prima affermazione uscita da una critica della conoscenza, è ciò che Kant aveva mancato di fare, dominato com’era da giudizi metafisici, e ciò che, per primo, Jules Lequier ha fatto. C. Renouvier, Philosophie analytique del’historie, Lroux, Paris 1898, tomo IV, pp. 427-428, in G. Lequier, op. cit., p. 32. Questo brano sembra essere, se non in aperta contraddizione, quanto meno discorde da quello precedentemente citato. Se esistono però dubbi sul ruolo che Kant ebbe nella formulazione renouvieriana del concetto di libertà, meno ne esistono riguardo a quello svolto da Jules Lequier; ne tratteremo verso la fine di questo capitolo proprio allo scopo di definire nella maniera più esauriente possibile quale fu l’idea di libertà che tanto affascinò il nostro James.

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morale senza libertà 2) il fatto che la libertà dell’uomo non può essere dimostrata ma deve essere postulata109.

Nell’impotenza del non poter nulla dimostrare, l’unica risorsa che ci resta è quella di affermare la libertà di tirer de postulat. La verità, non già provata, ma reclamata e degna di essere scelta, è quella che pone un fondamento per la morale e anche un fondamento per la conoscenza pratica, indipendentemente dalla quale non potremmo fondare su una solida base “la scienza”110.

Prima di concludere questa parte del capitolo dedicata alla breve descrizione del pensiero di quel filosofo francese cui viene attribuita — in virtù di un approccio intellettualistico — la ‘conversione’ jamesiana al pensiero indeterministico, interessa accennare — nei risvolti che più ci riguardano da vicino — a un altro pensatore francese, poco conosciuto (forse, se possibile, ancor più sconosciuto quand’era in vita), di cui abbiamo già parlato più di una volta nelle pagine precedenti, un grand philosophe inconnu et méconnu, cui Renouvier attribuì il merito di avere definitivamente abbracciato una filosofia indeterministica, in una dinamica intellettuale e personale che assomiglia in maniera eccezionale a quella che si creerà, a ruoli invertiti, con il giovane William James degli anni ’70.

Certamente il tema della libertà fu largamente stimolato dalla letture delle opere di Kant. La libertà è considerabile il cuore della sua filosofia: La difesa della libertà individuale fu uno dei principali obiettivi filosofici di Renouvier. W. Logue, op cit., p. 33. 109

110 C. Renouvier, Traité de Psychologie Rationelle, 2 voll., Librairie Armand Colin, Paris II, p. 84, cit. in J. C. S. Wernham, James’s Will to Believe Doctrine; A Heretical View, McGill-Queen’s University Press, Kingston & Montreal 1987.

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2.1.6 Jules Lequier, “A French Philosopher of Genius” Come ci rivela egli stesso111, Renouvier si convinse della non contraddittorietà dell’idea di libertà grazie alle conversazioni con l’amico Jules Lequier112. Ci troviamo qui di fronte a un caso ‘curioso’ o quantomeno molto interessante della storia delle idee: come James riconobbe sempre di essere debitore alla filosofia di Renouvier per l’elaborazione del proprio concetto di libertà, allo stesso modo Renouvier dichiarò di essere stato strappato dalle pastoie del determinismo da un filosofo al tempo — come oggi — poco conosciuto: Jules Lequier. Ovviamente questo ‘debito’ non poteva passare inosservato al giovane James: il suo primo riferimento al filosofo francese è del 1872. Il 2 Novembre egli scrive a Renouvier per la prima volta, e — almeno all’apparenza — il motivo principale di questa corrispondenza sta negli infruttuosi tentativi di ottenere una copia della Recherche d’une première vérité, opera postuma di Jules Lequier pubblicata, e curata, da Renouvier nel 1865:

Monsieur, ho appena appreso dalla sua Science de la Morale che l’opera di M. Lequier, alla quale fate riferimento nel vostro secondo Essai de Critique, non è mai stata messa in vendita. Questo spiega il fatto che non sono riuscito, nonostante numerosi tentativi, a procurami lo scritto in libreria. [...] Sarebbe troppo chiedervi, se ne avete ancora delle copie, di mandarmene una? Sarei lieto, dopo averla letta, di donarla alla biblioteca dell’Università di questa città [Cambridge]a vostro nome113.

Il resoconto della ‘conversione’ di Renouvier al libero arbitrio grazie all’amico-maestro Jules Lequier si trova nell’ultima parte del vol. II dell’Esquisse d’une classification systématique des doctrines philosophiques. Ma già molti anni addietro Renouvier aveva espresso il suo debito nei confronti di Lequier; nel Manuel de philosphie ancienne (1844, xii) egli fa chiaramente riferimento al Lequier senza citarne il nome; Renouvier scrive che non è ancora giunto il momento di citare il filosofo cui sta facendo riferimento, pur dichiarando di avere tratto moltissimo dalle lunghe conversazioni con lui, sui temi della fede, della libertà e sul rapporto tra l’idea di libertà e quella di certezza e di conoscenza. Lequier viene citato per nome per la prima volta nella prima edizione dell’Essai de critique générale, deuxième essai, pubblicato nel 1859 (il libro che tanto impressionò William James); dopo avere dichiarato la paternità lequieriana di tutta la parte che concerne la difesa della libertà dell’uomo, Renouvier auspica la pubblicazione di tutti gli scritti di questo filosofo sconosciuto, che avverrà — sebbene solo in una sua parte — proprio grazie a Renouvier, nel 1865, a tre anni dalla sua morte. 111

C’è da dire che la grafia del nome è incerta: in alcuni documenti è scritto Lequier, in altri Lequyer e in altri ancora Lequjer; noi abbiamo deciso di adottare la grafia “Lequier” non in quanto storicamente più esatta (sembrerebbe che quella corretta sia “Lequyer”), ma poiché essa è stata preferita dagli storici (è inoltre quella utilizzata nell’edizione delle sue Opere); D. W. Viney, bel suo articolo William James on Free-Will; The French Connection, cit., utilizza la grafia “Lequyer”, in quanto sarebbe quella ufficiale (in effetti si ritrova sulla placca della casa natale e sulla lapide della tomba); per una scelta di omogeneità, anche quando citeremo le parole di Viney utilizzeremo la grafia “Lequier”. Per la scelta di Viney Cfr. Ivi, Bibliografia, p. 51, n. 1. 112

LWJ I, p 163. In effetti La Recherche d’une première vérité, fragments posthumes de Jules Lequier, ancien élève de l’École Polytechnique, libro in 8° di 420 pagine, venne stampato in soli centoventi esemplari e non venne mai messo in commercio: fu disponibile al pubblico solo nel 1924 quando venne pubblicato con un’introduzione biografica da Louis Dugas per i tipi della Librairie Armand Colin di Parigi. L’edizione delle Opere di Lequier curata da Augusto del Noce fornisce un’esauriente nota bibliografica sia degli scritti — tutti postumi — di Lequier sia della letteratura secondaria (quasi tutta in lingua francese); Cfr. G. Lequier, op. cit. Nota Bibliografica, pp. 120-124. 113

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Renouvier non tardò a soddisfare l’esigenza del giovane corrispondente americano e infatti, il 9 Aprile 1873, questi — come promesso — donò alla Harvard University una copia della Recerche. Si può supporre che James abbia letto il libro durante i primi mesi dell’anno 1873114.

È dunque evidente che James ebbe anche una conoscenza diretta del pensiero di Lequier115; si pongono così due domande: James venne attratto dalla filosofia renouvieriana in ordine al problema della libertà per quanto c’era di lequieriano in essa? E poi: la possibilità di una credenza nell’idea di libertà venne rafforzato in James dalla lettura della Recherche? Entrambe le domande presuppongono che James fosse in grado di distinguere nettamente la filosofia dei due pensatori francesi cui si avvicinò quasi contemporaneamente all’inizio degli anni ’70, ma si tratta di una presupposizione poco fondata: non c’è dubbio che, come il pensiero di Renouvier non può considerarsi una mera riproposizione, una divulgazione del pensiero del suo ‘maestro’, allo stesso modo la filosofia di Lequier eccede i limiti del suo ‘utilizzo’ da parte di Charles Renouvier; questo però non significa che il nucleo centrale del pensiero di entrambi non sia effettivamente sovrapponibile, almeno nella lettura che ne diede William James116: non esistono infatti testimonianze che dimostrino il fatto che James distinse il pensiero dei due

Cfr. D. W. Viney, William James on Free Will: The French Connection, cit., p. 42. Viney ricorda il fatto che il testo non porta alcuna annotazione di James: ciò è facilmente spiegabile data la futura destinazione del libro (donazione alla biblioteca di Harvard). Viney ricorda anche che Renouvier in seguito offrì a James un’altra copia del testo di Lequier per la sua biblioteca personale, d’altronde, come ricorda lo stesso Renouvier, delle centoventi copie stampate, ancora molte si trovavano a sua disposizione (Cfr. TCWJ I, p. 663). 114

115 Anche se James non avesse affatto letto l’opera di Lequier donatagli da Renouvier in seguito alla sua esplicita richiesta, certamente non avrebbe potuto evitare di notare che decine di pagine del secondo Essai nell’edizione del 1875 (Traité de psychologie rationelle) — che sappiamo per certo egli lesse — sono degli estratti della Recherche di Jules Lequier e riguardano proprio il tema della libertà. 116 Vediamo brevemente alcuni punti di contatto: in entrambi 1) determinismo e libero arbitrio sono inconciliabili; 2) viene utilizzata la medesima linea argomentativa; 3) viene sottolineata la ‘limitatezza’ della libertà dell’uomo; 4) alla libertà dell’uomo corrisponde un’autolimitazione di Dio; 5)la libertà non coincide affatto con la casualità 6) gli atti liberi sono considerati degli atti di “creazione”; 7) il determinismo prima di essere criticato viene esposto in tutta la sua forza 8) una certa parte della vita può definirsi legata al pensiero deterministico: per Lequier con l’educazione al Politecnico e per Renouvier con l’adesione al saintsimonismo; 9) la matematica delle probabilità e le neonate leggi statistiche depongono a favore di una concezione indeterministica dell’universo; 10) la libertà politica non è separabile dalla credenza nel libero arbitrio; 10) il determinismo del passato non dice nulla sulla realtà delle possibilità future; ovviamente il punto 1) è di fondamentale importanza: scrive Renouvier: La libertà e la necessità non potrebbero essere né simultaneamente vere, né simultaneamente false, poiché, delle due l’una, o gli atti umani sono, tutti e totalmente, predeterminati dalle loro condizioni e dai atti ad essi antecedenti, o – tutti e totalmente – non lo sono affatto. È così che si pone la questione logica. Il dubbio sarebbe dunque la nostra unica risorsa: ma il dubbio non ci fa uscire dalle pene quanto alla morale: se è spesso legittimo di fronte alle teorie, esso è la morte dell’anima nelle cose pratiche e concernenti tutte le credenze da cui dipende la condotta di vita. C. Renouvier, Traitéde Psychologie rationelle, Librairie Armand Colin, Paris 1912, II, p. 84, cit. in J. C. S. Wernham, op. cit., p. 92. Il punto 6) è utile per comprendere le parole di Lequier con cui abbiamo aperto il capitolo: Fare, non divenire, ma fare, e, facendo, farsi. (G. Lequier, op. cit., p. 191). Questa è la “formula della scienza” di Jules Lequier; essa esprime il senso della sua vita: la sua filosofia non è una ricerca oggettiva, di pura intelligenza, ma lo sforzo di realizzare la credenza nella libertà. Del Noce dedica a questa ‘formula’ una nota molto interessante, che vale la pena di riportare: In questa formula il senso del termine “divenire”, sottolineato da Lequier, può apparire oscuro. Scrive giustamente il Lazarev: “Per Lequier questo termine ‘divenire’ nella sua opposizione a ‘fare’ concentra come in una sorta di simbolo tutto ciò che si oppone alla libertà; la costrizione dell’evidenza di Cartesio, la dialettica di Hegel,(...) il panteismo che è al fondo dell’idealismo come del materialismo (...) E, al contrario, nell’idea del ‘fare’ che non si concepisce senza l’idea di una persona che possiede il potere di ‘fare’ egli introduce il fiat della libertà”. Più 94


filosofi, per lo meno riguardo al tema del libero arbitrio; il Perry risolve la questione che ci stiamo qui ponendo in una maniera che potremmo definire forse troppo sbrigativa, ma in sostanza corretta nelle sue conclusioni: quattro pagine dopo avere riconosciuto l’origine lequeriana del fideismo di Renouvier117 egli aggiunge che tra Lequier e James non c’è evidenza di alcuna importante influenza diretta118. Il Perry sottolinea l’aggettivo, ma sarebbe forse più corretto rimarcare il sostantivo: di fatto noi sappiamo che James ebbe una conoscenza diretta dell’opera e, anche se questo ovviamente non coincide con l’affermazione che Lequier influenzò direttamente James, in sostanza è come se il Perry dicesse che ciò che James poteva apprezzare di Lequier nello studio della sua opera era già stato da lui precedentemente assimilato con la lettura dell’Essai di Renouvier. La correttezza di questa conclusione è garantita dal fatto che James in nessuno scritto distingue tra una concezione renouvieriana e una lequieriana della libertà e questo ci è sufficiente per non indagare oltre nella questione della differenza fra il pensiero dei due filosofi francesi. Anche seguendo l’interpretazione di Logue giungeremmo a un simile risultato, ma attraverso un ragionamento difficilmente difendibile: in sostanza egli sostiene che la filosofia di Renouvier deve molto poco a quella di Lequier e infatti nel suo saggio non esiste alcuna analisi del rapporto Lequier-Renouvier. A parte il fatto che lo stesso Renouvier ricorda più volte il proprio debito nei confronti di Lequier119, è evidente che James avrebbe ben notato la differenza fra il pensiero dei due filosofi francesi120 se nelle rispettive opere non ci fosse stata una sorta di coincidenza almeno per quanto concerne il tema della libertà121. Rispondendo dunque alle due domande che ci siamo posti all’inizio

in generale, si può dire che Lequier contrapponga l’affermazione personalistica a quell’ascesi razionalistica per cui il filosofo intenderebbe mettersi dal punto di vista dell’assoluto, spersonalizzando se stesso. G. Lequier, op. cit., Introduzione, p. 53, n. 2. La citazione riportata da Del Noce è di A. Lazarev, Vie et conoissance¸ cit., p. 32. 117

TCWJ I, p. 658, n 17.

118

Ivi, p. 661, n. 29.

Del Noce, pur avendo precedentemente rimarcato la parsimonia di riferimenti lequieriani nell’opera di Renouvier (op. cit., p. 33) non ha dubbi sulla loro importanza: Non mi pare sia stato sinora osservato che i cinque passi in cui Renouvier parla di Lequier forniscono anche la trama per orientarsi nella sua opera. Nel Manuel de philosophie ancienne si parla di una suggestione e di un’influenza,; nella Psychlogie l’opera di Lequier è già diventata una componente del sistema di Renouvier; Nell’Esquisse condiziona il suo passaggio alla “filosofia cristiana”; nella prospettiva della Philosophie analytique, Lequier è l’iniziatore della forma più matura del criticismo, caratterizzata dalla scoperta dell’attualità di Cartesio oltre Kant; per i Derniers Entretiens è il vero maestro del personalismo. Ivi, p.p. 86-87. 119

120 Viney — sostenitore di un’improbabile distinzione tra il libertismo di Renouvier e quello di Lequier e di una sorta di ‘rivalutazione’ dell’importanza della dottrina di quest’ultimo per il pensiero di James — giustifica l’assenza di precisi riferimenti del filosofo americano alla Recherche con una lacuna nell’epistolario jamesiano che va dal Luglio del 1876 al Dicembre del 1879. Si tratta di un modo poco convincente di sostenere le proprie tesi e inoltre rimane il fatto che James, nei suoi scritti — dove non esistono lacune di sorta — non fa alcun riferimento a una qualche differenza tra la filosofia di Renouvier e quella di Lequier. 121 D’altronde l’atteggiamento di Logue è meno giustificabile di quello del Perry; lo scopo di quest’ultimo non era infatti quello di fornire una genealogia del pensiero di Renouvier, ma ‘soltanto’ quello di mostrarne l’importanza come premessa per la futura filosofia jamesiana. Al contrario Logue, nel contrastare le parole del suo stesso autore — che sottolineò chiaramente l’imprescindibilità dell’origine lequieriana della sua filosofia — non dà alcuna chiara motivazione della propria posizione, che sembra quindi più dettata dal tentativo di ridare ‘originalità’ al pensiero di Renouvier, piuttosto che di comprenderlo nella sua genesi. D’altronde Logue si pone su una linea già tracciata dai primi discepoli di Renouvier; in questo caso però il desiderio di ‘dimenticare’ Lequier era giustificato da un forte ridimensionamento del libertismo di 95


della trattazione del tema del rapporto Lequier-Renouvier possiamo rispondere che: 1) certamente James venne attratto da ciò che vi era di lequieriano nella filosofia di Renouvier (ma che quest’ultimo aveva ormai fatto suo) e 2) altrettanto certamente la lettura della Recherche non rafforzò la credenza di James nella libertà della volontà dell’uomo, nel senso che questa non aggiunse — almeno ai suoi occhi — elementi di novità rispetto alla teoria assimilata da Renouvier.

La correttezza della nostra conclusione è infine confermata dalle parole di Augusto del Noce che, per quanto teso a dimostrare che la filosofia di Lequier non può essere considerata un “momento”122 di quella di Renouvier, riconosce come quella coincida con questa nel momento filosofico dell’affermazione della razionalità del concetto di libertà. Diciamo “nel momento filosofico” perché forse la più grande differenza che divide Lequier da Renouvier è il diverso atteggiamento dei due rispetto alla religione e in particolare alla religione cattolica; Del Noce insiste nel rimarcare come l’intenzione di Lequier fosse di realizzare la “vera” filosofia cristiana.

La sua nuova teoria della libertà permettendo di portare a un pensiero teologico capace di distruggere le obbiezioni irreligiose e di sancire l’alleanza di Dio e dell’uomo; se separato da queste intenzioni il neocriticismo di Renouvier è stato votato a un insuccesso; resta tuttavia vero che la sua impressione, della sovrapposizione di una parte religiosa a una parte filosofica che per sé era autonoma e che non esigeva questo complimento [leggi: complemento], non è, dal punto di vista strettamente razionale, ingiustificato123.

Non è quindi ingiustificato, come abbiamo fatto noi qui, trattare dell’influsso della filosofia di Renouvier su William James prescindendo dal “complemento” religioso presente nella sua anticipazione lequieriana. D’altronde è facile immaginare che uno dei motivi per cui James fece riferimento sempre a

Renouvier rispetto ad altri temi della sua filosofia: Non si può non osservare come le menzioni di Renouvier [di Lequier] siano curiosamente rare, data la mole immensa della sua opera [...]. I discepoli si sentirono autorizzati a ignorarle [...]. L’aspetto libertistico veniva messo in ombra rispetto ai temi teoretici del relativismo, del fenomenismo e del finitismo. Troviamo l’espressione perfetta di questo punto di vista nel più ortodosso dei discepoli, Francesco Pillon: “Se c’è un rimprovero da rivolgere a Renouvier è a mio giudizio quello di avere ammesso e sostenuto nel secondo Essai, una specie di fideismo libertistico, estraneo in fondo, e anzi opposto, al carattere dogmatico che presentano nel primo Essai la tesi finitistica, fenomenistica e contingentistica, secondo i principi di logica da cui sono tratte”. G. Lequier, op. cit., Introduzione, p. 33. La citazione è tratta da F. Pillon, Le dilemme de Lequier, “Année philosophique”, 1905, p. 106. Come abbiamo visto, il ‘discepolo’ James fece invece riferimento, nel riconoscere l’importanza della filosofia di Renouvier, proprio a quel “fideismo libertistico” che Pillon tende a sottovalutare, in una polemica fin troppo tecnicistica che lasciò James indifferente, anche dato il suo graduale, ma inesorabile allontanamento dal pensiero di Renouvier. 122

Cfr. G. Lequier, op. cit., Introduzione, p. 106.

123

Ivi, p. 118.

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Renouvier piuttosto che a Lequier124 si trova proprio nel cattolicesimo o meglio nella cattolicizzazione della filosofia di quest’ultimo (o se si vuole: nella razionalizzazione del cattolicesimo o meglio di una sua parte e cioè la difesa del libero arbitrio)125; abbracciando completamente quello che abbiamo definito l’approccio intellettualistico — e facendo un po’ di confusione sulle date126 — scrive il filosofo italiano:

Si sa come James abbia superato attraverso la lettura di Renouvier la crisi giovanile di angoscia che stava per portarlo, nel 1873, sull’orlo della follia. Ma che cosa, per sua dichiarazione, aveva imparato dal filosofo francese? Che le vie della necessità e della libertà sono del tutto diverse; che perciò non si tratta di cercare vanamente di dimostrare il libero arbitrio attraverso argomenti costringenti; che si deve invece affermarlo con un atto di

Bisogna infatti ricordare che James non cita mai il nome di Lequier nelle sue opere: nell’articolo The Feeling of Effort (1880) che verrà poi ripreso nel capitolo sulla volontà dei Principles egli vi fa riferimento definendolo a French philosopher of genius (Cfr. PP, p. 1176); e in Some Problems of Philosophy, ultima sua opera pubblicata postuma cita un brano della Recherche senza specificarne l’autore (cfr. SPP, p. 105). Tratteremo approfonditamente dell’articolo succitato — e del riferimento lequieriano — nella Parte Quarta; possiamo dire fin d’ora che il riferimento — nascosto — a Lequier segna il passaggio da una trattazione psicologica del tema della libertà (svolto nei Principles) a quella più propriamente filosofica della Will to Believe. Per quanto riguarda la definizione jamesiana di Lequier, interessa notare che essa è molto simile a quella che Renouvier fece scrivere sotto alla statua che, insieme con un’amica, dedicò al proprio ‘maestro’ nel 1868 a sei anni dalla sua morte: Questo monumento è stato eretto alla memoria di un amico sfortunato e uomo di grande genio, nel 1868, da Renouvier. Cfr. D. W. Viney, William James on Free Will: The French Connection, cit., p. 35. 124

125 Anche Donald Viney, teso com’è a cercare il maggior numero di somiglianze fra Lequier e James ricorda che [...] una differenza tra James e Lequier riguarda la religione. Lequier era un devoto cattolico; egli era un mistico per il quale Dio era una presenza reale e a volte sensibile. Lequier era continuamente teso alle applicazioni teologiche delle sue riflessioni filosofiche. Senza dubbio, Grenier dice il vero quando afferma che il principale tentativo di Lequier era di “fondare una filosofia cristiana”. La conoscenza enciclopedica posseduta da Lequier riguardo alle posizioni e agli argomenti della filosofia medievale gli fornì gli strumenti necessari per utilizzarli pazientemente in maniera ingegnosa. Le idee di Lequier intorno al libero arbitrio erano intimamente legate alla sua fede religiosa. [...] James era sensibile alla religione, anche nelle sue manifestazioni più bizzarre, come risulta evidente dal suo classico The Varieties of Religious Experience. Nei suoi momenti di crisi più cupa egli si aggrappò alla religione come a un’ancora di salvezza. D’altro canto egli sopportava difficilmente le teorie teologiche della Scolastica, ch’egli definiva “un mostro metafisico”. D. W. Viney, William James on Free Will: The French Connection, cit., pp. 47-48. La citazione di Grenier è tratta da J. Grenier, La Philosophie de Jules Lequier, Presses Universitaires de France, Paris 1936, p. 245. Le parole di James sul “mostro metafisico” sono in VRE, p. 353. Mette conto qui di notare che Viney, anche nelle differenze, sembra volere avvicinare a tutti i costi James e Lequier; che James, nei momenti più cupi, si aggrappasse alla fede religiosa (quale poi? Quella protestante? E di quale forma di protestantesimo?) è una pura illazione. Viney fa riferimento per sostenere la religiosità del nostro autore alle pp. 145-147 del primo volume delle LWJ. Di fatto queste sono le pagine che riportano il famoso episodio dell’epilettico che, come abbiamo visto, finisce con un’invocazione alle Sacre Scritture, ma senza che questo ci porti a supporre che non si tratti di un epilogo aggiunto da James al fine di inserire più convenientemente il resoconto del supposto corrispondente francese in un contesto religioso come quello trattato dalle Varieties.

Non si capisce infatti come Del Noce giunga alla collocazione del momento di maggior crisi di James nell’anno 1873. Inoltre egli parla di una crisi che stava per portarlo “sull’orlo della follia”, mostrando così di seguire pedissequamente l’interpretazione che vede nell’episodio del paziente epilettico una genuina testimonianza delle condizioni psichiche di James. E’ poi facile immaginare che la tendenza di Del Noce a spiritualizzare e ad aggravare la crisi di James sia giustificabile col fatto che lo stesso Lequier dichiarò di avere subito una profonda crisi psichica nel 1851 dovuta proprio all’incapacità di risolvere razionalmente il problema della libertà. Questo fu forse lo stesso motivo che fece avvicinare —prima di tutto da un punto di vista umano — James a Jules Lequier, un filosofo-pastore che in qualche modo sembrava avere percorso il suo medesimo cammino di sofferenza e per gli stessi motivi. Nelle parole di del Noce a proposito della crisi spirituale e della misteriosa morte di Lequier sembra di rintracciare la tentazione a riconoscervi i crismi della “follia filosofica” come conclusione di una travagliata quanto profonda esperienza di pensiero; una “follia filosofica” che inaccessibile agli psichiatri, rischia di diventare ancora più incomprensibile allo storico della filosofia. Del Noce, e non poteva essere altrimenti, cita in proposito anche l’esempio dell’epilogo della vita di Nietzsche. Cfr. G. Lequier, op. cit., Introduzione, pp. 23-24. 126

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credenza, perché è contraddittorio presentarlo come anello ultimo di una catena di verità necessarie. Aveva quindi imparato esattamente quel che Renouvier doveva a Lequier127. Ma torniamo ora alla relazione, umana e intellettuale, che ci interessa per il prosieguo della nostra argomentazione: quella tra Charles Renouvier e William James.

2.1.7

L’Auseinandersetzung di James con Renouvier — una conclusione

provvisoria Nelle pagine precedenti abbiamo cercato di fornire una breve ma esauriente esposizione di quella parte del pensiero di Renouvier che anticipa — e di fatto spesso influenzò direttamente — la filosofia di William James. Se però ci attenessimo alle sole parole di James, come ci spingono a fare forse troppo semplicisticamente i sostenitori della linea interpretativa intellettualistica, dovremmo riconoscere che gli apprezzamenti del nostro autore per la filosofia di Renouvier si limitano — almeno nei primissimi anni ’70 — a un ‘solo’ punto: che un pensiero libero (e, con esso, un atto libero) non è illusorio. Logue dedica solo poche parole al rapporto fra Renouvier e James, vale dunque la pena di citarle interamente:

L’influenza maggiore di Renouvier all’estero si ebbe col filosofo e psicologo americano [...] William James. Mentre, da giovane, stava studiando in Germania, James venne convertito128 al libero arbitrio grazie alla lettura di Renouvier. In seguito si svilupperà una corrispondenza dalla quale entrambi i filosofi trassero vantaggio. La loro forte ammirazione reciproca si basava sulla condivisione di molti punti di vista: il rifiuto di una ragione impersonale, la comprensione del ruolo della credenza in filosofia, il desiderio di rendere utile la filosofia. Essi inoltre, erano uniti da dall’interesse per il futuro della religione e da un interesse per le “varie forme dell’esperienza religiosa”. Purtroppo, James rimase isolato nella sua ammirazione per Renouvier, e nessuna delle opere di Renouvier sarà mai tradotta in inglese, sebbene Renouvier avesse pubblicato delle traduzioni degli scritti di James sulle pagine della sua Critique Philosophique. L’eclissi del pragmatismo avrebbe definitivamente chiuso questa possibile linea d’influenza di Renouvier129.

Ivi, pp. 95-96. Il brano continua così: Si tratta di un capitolo di storia della filosofia in cui la linea da percorrere è stata già segnata, anche se forse, per il fatto che Lequier è stato coperto da Renouvier, è mancata la definizione precisa di un momento cartesiano e cattolico nella formazione della filosofia americana. Ivi, p. 96. 127

Di fatto, fu ‘convertito’, ma il termine è decisamente eccessivo, due anni dopo; durante il suo soggiorno in Germania aveva solo conosciuto e apprezzato superficialmente il suo pensiero — in un piccolo libro di diversi autori, L’Année 1867 Philosophique”, attratto più dal suo stile che dai contenuti; Cfr. LWJ I, p. 138. 128

129

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W. Logue, op. cit., pp. 8-9.


James, comunque, si impegnò molto per far conoscere l’opera del filosofo francese nel continente americano e addirittura cercò di portare il suo pensiero nei corsi tenuti a Harvard (con scarsissimo successo)130. Le affinità tra i due filosofi vanno poi ben al di là di quelle citate da Logue e di quelle evidenziate dalla critica intellettualistica: entrambi pensavano che la libertà non fosse dimostrabile razionalmente o scientificamente; che alla scienza si dovesse rispondere con la scienza e non con la metafisica; che l’immortalità dell’anima fosse “suggerita” dal fatto che nella vita terrena non si può raggiungere la perfezione morale; che Dio non deve essere onnipotente e onnisciente per essere un Dio da comprendere e da amare; che l’evoluzionismo di Spencer è una metafisica deterministica camuffata da dottrina scientifica; che la moralità non coincide con l’ascetismo; che le nostre credenze sono determinate dal nostro carattere, dalla nostra educazione, da una dimensione che non appartiene alla razionalità; che l’indeterminismo è nemico del caso come del determinismo; che la libertà deve essere intesa come libertà “limitata” e che il bene assoluto non è la libertà assoluta (un concetto privo di senso); che il passato è determinato e quindi immutabile, ma che questo non dice nulla sull’immutabilità del futuro; che la scommessa di Pascal contiene un nocciolo di verità, e che cioè l’uomo è costretto a scegliere, durante questa vita, se abbracciare una vita morale o no (piuttosto che scegliere, come nell’autore dei Pensieri, se essere ateo o cristiano). Le affinità sono veramente moltissime131 e questo sembrerebbe deporre a favore dell’approccio spiritualistico: il fatto che William James ‘attinse’ grandemente al pensiero di Renouvier e il fatto che egli stesso dichiarò di essere emerso dai propri “abissi morali” dopo la lettura dell’Essai, sembrerebbe certificare definitivamente l’ipotesi interpretativa di chi legge nella filosofia di Charles Bernard Renouvier una risposta intellettuale definitiva a una crisi intellettuale durata anni. Di fatto questa è una conclusione totalmente ingiustificata: che il pensiero di

Se James non riuscì a far conoscere il pensiero di Charles Renouvier in America (e non solo) quanto avrebbe desiderato non fu certamente per mancanza di buona volontà; già nel 1873 cercava di avvicinare un ampio pubblico agli scritti del filosofo francese tessendo le lodi della rivista sulla quale questi scriveva regolarmente, la già citata La Critique Philosophique: vale la pena di riportare qui un brano tratto da un articolo pubblicato nel 1873, molto intenso, ma così breve che nemmeno il Perry lo ha citato nella sua Annotated Bibliography. (R. B. Perry, Annotated Bibliography of the Writings of William James, Longmans, Green & Co., New York 1920). Questo scritto è oggi contenuto nella preziosa raccolta di saggi, recensioni e commenti pubblicata dalla Harvard University Press nel 1987: Quelli fra i nostri lettori che si occupano di filosofia debbono conoscere un’importante rivista settimanale, La Critique Philosophique, ora al suo secondo anno di pubblicazione per Germer Baillère, Parigi. Il suo editore è M. F. Pillon, il cui nome molti ricorderanno in relazione al suo eccellente Année philosophique, due volumi del quale vennero pubblicati prima della guerra tedesca [...]. Le dottrine che questa rivista intende pubblicare e difendere sono quelle di Charles Renouvier, che fornisce un attivo contributo alle sue pagine. Riteniamo che il suo nome sia stato finora meno conosciuto di quanto meriti e noi ci rallegriamo che questa forma di pubblicazione popolare promette di attirare l’attenzione di una larga schiera di studenti verso i suoi scritti, poiché, a nostro parere, i suoi Essais de Critique Générale rappresentano lo sforzo speculativo più elevato cui la Francia ha dato vita in questo secolo. ECR, pp. 265-266. 130

Nei prossimi capitoli questo arido elenco di analogie sarà — in parte — la base sulla quale analizzeremo lo sviluppo della filosofia jamesiana della libertà. Ovviamente non dobbiamo però dimenticare le altrettanto importanti differenze, tra cui spicca il diverso atteggiamento che i due filosofi ebbero nei confronti dell’evoluzionismo darwiniano, una diversità di atteggiamento che, spiegabile parzialmente in virtù della loro diversa educazione, rappresenta forse il punto di rottura da cui la filosofia di William James comincia a trovare quella forza e quell’autonomia che sole permettono a un solo uomo di diventare il rappresentante di un intero movimento di pensiero. 131

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James sia debitore in gran parte alla corrispondenza con il filosofo francese, ma soprattutto allo studio delle sue opere — anche in molti suoi punti fondamentali di cui raramente si è mai fatto cenno e che appartengono soprattutto alla filosofia dell’ultimo James132 — non significa affatto che fu grazie a esso che il nostro autore poté riaversi da un gravissimo stato di prostrazione fisica e psichica per diventare finalmente un uomo fiducioso dei propri mezzi intellettuali, della propria forza di carattere e del proprio valore di uomo, di marito e di padre.

Non varrebbe forse la pena di mettere in dubbio questo approccio interpretativo se non fosse che in sua virtù, il naturale desiderio di ogni critico che abbia colto l’importanza della vita di William James (soprattutto nei suoi anni giovanili) di fare della sua filosofia un ‘romanzo di formazione’ ha portato quasi inevitabilmente 1) a ossificare il pensiero di William James nel momento iniziale del suo sviluppo, 2) a isolare — fra tanti che ebbero un ruolo fondamentale — la figura di un solo autore nella formazione intellettuale e più propriamente filosofica di William James, 3) a isolare, all’interno della sua amplissima e complessa produzione, solo una parte — per quanto importante — del pensiero di Charles Renouvier133. Per uscire da questa impasse è necessario dunque cambiare prospettiva, non mettendo in dubbio l’influsso che la filosofia di Renouvier (tutta la sua filosofia e non solo una piccola parte) ebbe sul pensiero di William James (su tutto il suo pensiero e non solo su una parte), quanto piuttosto mostrando, in un approfondimento di analisi che potrebbe a tutta prima apparire come prerogativa di uno studio biografico piuttosto che storico-filosofico, l’importanza che ebbero, nella guarigione di

Quello di A Pluralistic Universe, per intenderci; come sottolinea giustamente Sini: [...] Il Renouvier influì potentemente anche sull’ultima fase del pensiero di James (in particolare su A Pluralistic Universe del 1909) offrendo ispirazione alla sua reiterata battaglia contro il monismo (sia idealistico che positivistico) in favore di una pluralità aperta di spiriti o persone la cui libertà creativa centro motore dell’evoluzione naturale e della storia. C. Sini, op. cit., p. 271. 132

133 James C. S. Wernham, nello svolgere la sua “heretical view” a proposito della teoria jamesiana della volontà di credere, rimprovera alla critica precedente di avere poco considerato l’importanza dell’influsso di Renouvier, nonostante questo sia esplicitamente riconosciuto ripetutamente da James. La spiegazione che Wernham dà di questa ‘lacuna’ è duplice: un primo motivo starebbe nella ‘tipica’ sopravvalutazione che James riservava a quegli autori che più sentiva a lui vicini (o che voleva gli si avvicinassero); in sostanza, alle parole di elogio e di ringraziamento tributate da James a Renouvier bisognerebbe ‘fare la tara’, tenendo conto dei suoi eccessivi (e spesso strumentali) entusiasmi. La seconda spiegazione è questa: Si ritiene che il saggio [The Will to Believe] rappresenti l’applicazione del pragmatismo alla religione; se non si tratta del pragmatismo di Peirce, è allora quello di James. Se così stanno le cose, si tratta di ‘farina del suo sacco’ e non di un prodotto d’importazione. J. C. S. Wernham, op. cit., p. 87. Per quanto si tratti di due spiegazioni plausibili ci pare che solo la prima sia storicamente vera (e infatti la riproporremo brevemente nella prossima parte del presente capitolo); è però più probabile che sia stata la sua presunta semplicità (derivazione diretta di una teoria da un filosofo all’altro)e la stessa testimonianza in proposito fornita da James a far sì che di questo pensatore francese si sia parlato poco, ma soprattutto molto meno di quanto ci si sarebbe aspettato. Lo stesso Wernham poi, dopo avere criticato le carenze della critica jamesiana in proposito, non dedica che una paginetta a Charles Renouvier ( il cap. 12, pp. 87-92, è intitolato Renouvier and Pragmatism, ma di Renouvier si parla soltanto a p. 92) e riconosce di non avere fornito che un breve ‘assaggio’ della sua dottrina, in quella parte che sembrerebbe ricordare più da vicino la filosofia del pragmatista americano. I motivi per cui a Renouvier non viene dedicato uno spazio maggiore (come auspicato dallo stesso Wernham) rimangono perciò ignoti.

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William James, quei fattori che in una maniera forse poco elegante, ma di immediata comprensione, abbiamo chiamato ‘esterni’ (questo approfondimento ci permetterà allo stesso tempo di analizzare, almeno nei suoi tratti più salienti, quel milieu sociale, culturale ed economico di cui James, pur nella sua originalità, fu un ‘tipico’ rappresentante). Si tratta in sostanza di mettere in dubbio, per lo meno in buona parte, quella “versione autorizzata” del rapporto jamesiano fra vita e filosofia che ha preso piede sempre più nei primi anni dopo la morte del pragmatista americano; una versione che, per il suo fascino — donatole in buona parte dalla sua semplicità — ha involontariamente contribuito a fare di William James un filosofo poco comprensibile e a fare della sua rebirth un evento miracoloso.

Senza avere la pretesa di essere degli eretici (anche perché l’ortodossia interpretativa cui abbiamo fatto fin qui riferimento è andata assottigliandosi dopo gli ultimi studi biografici sul fondatore del pragmatismo) cercheremo allora di tracciare le linee principali per una lettura più equilibrata del pensiero di William James, una lettura in cui al suo eclettismo venga ridata quella profonda dimensione intellettuale che rischia altrimenti di essere ridotta a mero tratto caratteriale.

Non bisogna poi dimenticare che James — nonostante le parole di ammirazione tributate al filosofo francese — , vista la sua formazione squisitamente scientifica, non poteva rimanere soddisfatto da una filosofia che riducesse il materialismo a una visione metafisica priva di quella superiorità scientifica di cui si fregiava134. Renouvier aveva insegnato a James che non è irrazionale scegliere per una teoria piuttosto che per un’altra, quando non esiste certezza in nessuno dei due casi: questo presuppone una sorta di “equivalenza scientifica” tra determinismo e indeterminismo; il fatto è che, al tempo in cui James ‘scoprì’ Renouvier, pochi pensavano che l’indeterminismo fosse sostenibile scientificamente: il determinismo era la base su cui la scienza aveva fatto progressi incredibili nell’ultimo secolo, era il fondamento su cui si fondava l’immutabilità delle leggi di natura e la possibilità di prevedere il futuro, nella natura, nella società e perfino nel singolo individuo; sarà Darwin però, e non Renouvier, a fornire a James gli strumenti per dimostrare non la verità dell’indeterminismo, ma la sua possibilità; solo allora l’uomo potrà veramente scegliere “moralmente”.

Per quanto James venne attratto dall’aspetto volontaristico e fideistico del pensiero di Renouvier (cfr. TCWJ I, p. 657), non va dimenticato il fatto che il nostro autore apprezzò molto il filosofo francese anche perché questi era un empirista e quindi non era ‘estraneo’ alla sua stessa formazione filosofica; non solo, egli era un empirista ‘riformatore’ (egli infatti riteneva l’identificazione tra determinismo ed empirismo uno dei più grandi errori commessi dai fondatori dell’empirismo moderno). Cfr. Ivi, p. 656. 134

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Dopo aver citato il brano del diario del 1870 che viene spesso definito come “conversione a Renouvier”, Jonathan Schull fa un’osservazione che ci sentiamo di condividere pienamente:

Questa potrebbe essere la fine di una storia non troppo interessante, se non fosse che James era un materialista profondamente legato all’attività scientifica. Perché si trattasse veramente di un “lieto fine” egli avrebbe dovuto riconciliare i fatti della scienza con quelli della vita135.

Solo nel prossimo capitolo cercheremo di mostrare come James, grazie — non solo — alla dottrina darwiniana della variazioni spontanee, riuscirà effettivamente a conciliare “i fatti della scienza con quelli della vita”, ma prima di affrontare questo tema è opportuno — come detto sopra — fare maggiore chiarezza su questa “storia a lieto fine” di Depression and Recovery (per dirla col Perry). Per fare questo è necessario analizzare più nel dettaglio la vita, travagliata, che James condusse durante gli anni della sua formazione scientifica e filosofica.

i De iure l’omogeneità tra la causa e la soluzione della depressione di James non è affatto scontata; potrebbero darsi infatti almeno quattro alternative: 1) causa ‘esterna’ e soluzione intellettuale; 2) causa ‘esterna’ e soluzione ‘esterna’; 3) causa intellettuale e soluzione intellettuale; 4) causa intellettuale e soluzione esterna. De facto i critici si sono divisi abbracciando o l’ipotesi n°2 o quella n° 3, che abbiamo definito interpretazione spiritualistica ovvero intellettualistica. Bisogna comunque ricordare che questa schematizzazione — per quanto utile per noi — difficilmente riesce a tradurre la complessità degli intrecci tra vita e filosofia in James né conseguentemente riesce a riassumere in maniera esauriente le varie posizioni degli studiosi che si sono seriamente occupati nell’interpretazione degli anni più importanti del nostro autore. ii Perry descrive spesso gli anni che seguirono la laurea di James come un depressive period; altre volte egli usa invece il termine melancholia; per quanto sia per noi più importante capire quali fatti si celassero sotto queste parole, vale forse la pena sottolineare come la diagnosi di depressione — in forma grave — potrebbe, secondo la nosografia attuale, attagliarsi benissimo ai sintomi di cui James soffriva. La diagnosi di “melanconia” sembra addirittura superare il vaglio della definizione datane da S. Freud: La melanconia è psichicamente caratterizzata da un profondo e doloroso scoramento, da un venir meno dell’interesse per il mondo esterno, dalla perdita della capacità di amare dall’inibizione di fronte a qualsiasi attività e da un avvilimento del sentimento del sé che si esprime in autorimproveri e autoingiurie. S. Freud, Opere, Bollati Boringhieri, ???, ???, VIII, p. 103. Soprattutto gli ultimi due elementi (inibizione all’attività e autorimproveri) sono tipici del depressive period di James. L’ipotesi che tutti i disturbi fisici di cui soffrì James non siano imputabili a fattori organici è plausibile poi per due motivi: prima di tutto, molti di questi (come il dolore alla schiena e agli occhi) migliorarono con gli anni indipendentemente da qualsiasi trattamento terapeutico, in secondo luogo — per quanto possa valere oggi il loro giudizio — gli stessi medici che visitarono James non gli riscontrarono alcuna deficienza organica.

J. Schull, Selection — James’s Principal Principle, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 141. Invece di essere diretta verso un oggetto intrinsecamente inconoscibile o verso un oggetto ch’è trascendente (come nel caso della filosofia di Spencer). Uno dei più grandi insegnamenti che James trasse dalla conoscenza delle opere di Renouvier fu proprio la consapevolezza di non potere difendere le ragioni di una vita morale al di fuori o contro le ragioni della scienza: La difesa di Renouvier della libertà contro il determinismo universale non è una difesa della metafisica contro la scienza. Egli cercò i difendere la libertà da un punto di vista fenomenico, compatibile con la scienza. W. Logue, op. cit., p. 96. 135

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Smith fa qui riferimento alla teoria pragmatica del significato: riduzionismo, materialismo etc possono essere tutti raccolti sotto la stessa definizione pragmaticamente, non tanto in virtù del fatto che tutte queste concezioni hanno a che fare coi medesimi fenomeni, quanto piuttosto in virtù del fatto che esse portano a medesimi ‘risultati’ , i.e. a un medesimo atteggiamento dell’uomo nei confronti della realtà. iii

iv J. E. Smith., Purpose and Thought; The Meaning of Pragmatism, Yale University Press, New Haven 1978, p. 122. Secondo lo storico Bruce Kuklick, “Il materialismo per James significava determinismo e il determinismo significava fatalismo”. O, come James scrisse nel 1873, “Il pessimismo deve alla fine essere fatalistico”. G. Cotkin, op. cit., p. 54. (Bruce Kuklick, op. cit., pp. 160-161) Se l’identificazione tra materialismo e determinismo può essere pacifica, non altrettanto quella tra determinismo e pessimismo; Spencer infatti non si sarebbe definito certamente un “pessimista”...Vedremo in seguito, a proposito del famoso scritto, The Dilemma of Determinism, come per James materialismo e pessimismo si identifichino completamente. Si tratta di un’identificazione difficilmente sostenibile e di fatto, lo stesso James interpretò il proprio pessimismo più in chiave caratteriale piuttosto che squisitamente intellettuale: Durante quest’estate [1868] egli scrisse all’amico Tom Ward: “Io sono cresciuto, in parte a causa dell’educazione impartitami da mio padre e in parte, penso, per una qualche tendenza naturale, con una natura decisamente nonottimistica [...]” G. W. Allen, op. cit., p. 198 (WJ A Tom Ward , 29 Ottobre 1868). Ovviamente qui il giovane William fa riferimento alla sua propria ricezione del pensiero di Henry James Sr. che in nessun modo si sarebbe considerato un pessimista; la sua fede lo portava a credere che tutto, il bene e il male, fosse nelle mani di Dio; la volontà dell’uomo aveva ben poco a che fare con l’aumento o la diminuzione del male nel mondo e la “pretesa” di avere una volontà indipendente, da quella divina, era vista perciò come una vera malvagità. Una dottrina del genere era accettabile solo data una grande fede; questa fede mancava a James, e gli mancò per tutta la vita; egli dovette perciò elaborare un pensiero che gli permettesse di vedere il male non come qualcosa di ordinato da Dio, ma come un “fatto”, qualcosa che esiste nel mondo, ma che può essere sconfitto e sconfitto con la volontà. Il problema dell’autonomia della volontà, come vedremo nel prossimo capitolo, non sarà mai per James una questione meramente psicofisiologica, nemmeno nei Principles of Psychology. E’ bene a questo punto aprire una parentesi utile a capire la futura teoria pragmatica del significato di William James e allo stesso tempo il comportamento del nostro autore nei primi anni ’70. Come abbiamo visto, il problema del male ebbe in James, fin dai primi anni di studio, una notevole importanza: una filosofia che non se ne facesse carico non sarebbe mai stata degna di essere chiamata tale: ma allora, perché James non seguì le orme — religiose — del padre, o quelle — scientifiche — di Spencer? Entrambi affrontano il problema del male e, pur con ovvie e notevoli differenze, entrambi giungono a conclusioni ottimistiche. Perché allora James non abbracciò né l’evoluzionismo paterno né quello spenceriano? William James, soprattutto dopo l’uscita di Pragmatism (1907) verrà accusato di essere il padre di una filosofia del cash-value, di una filosofia che, andando esclusivamente ai risultati, dimenticasse — secondo un tipico schema i pensiero utilitaristico — il valore dei mezzi necessari per raggiungerli. Già l’atteggiamento tenuto dal giovane James nei confronti del male e della libertà — che rimarrà invariato e sarà anzi rinforzato in seguito all’elaborazione di un pensiero filosofico coerente — avrebbero dovuto far riflettere i critici che vedono nella filosofia pragmatica una forma più o meno ‘raffinata’ di utilitarismo. Se James fosse stato, fin da giovane, teso a costruire una filosofia ‘dei risultati’, probabilmente non avrebbe mai sentito l’esigenza di dare vita a un pensiero originale. James non accettò l’ottimismo spenceriano e quello, a lui ancora più vicino, del padre perché le teorie di entrambi conducevano ai medesimi risultati a scapito della libertà della volontà dell’uomo. In sostanza, per James, una filosofia che garantisse il superamento del male al prezzo della perdita dell’autonomia, del ruolo svolto dell’uomo nel raggiungimento di questo risultato, sarebbe solo apparentemente ottimistica, in quanto incapace di sollevare l’uomo da quello stato di passività che James interpreta come il vero male. Il male non fu mai per James identico alla sofferenza, né il bene coincise mai con la felicità. II bene, fin dal primo James, si identifica con la possibilità garantita all’uomo di essere responsabile, così del bene come del male. James dunque, accomunando entrambe le dottrine (evoluzionismo paterno e spenceriano) mostra ‘nei fatti’ — e prima di una sua accurata quanto contestata definizione — che cosa voglia dire concezione pragmatica del significato e come sia poco fondata la lettura del pragmatismo come di un ‘corollario’ della filosofia utilitaristica.

Renouvier non gode attualmente di buona stampa, ma è comunque possibile fornire qui una nota bibliografica di una certa utilità per chi voglia approfondire il pensiero del filosofo francese: Maurice Ascher, Renouvier und der französische NeuKriticismus, Bern 1900; Henri Miéville, La Philosophie de M. Renouvier et le problème de la conaissance religieuse, Lausanne 1902; Jean Arnal, L’Hypothèse suprême en théodicée d’après Charles Renouvier, Mazamet 1904; Ludwig Baur, Obituary on Renouvier, “Philosophisches Jahrbuch” XVIII, 1905; H. Bois, L’influenze de Lequier sur Renouvier, “Recueil de l’Academie de Tarn et Garonne”, Montauban 1911; Paul Archambault, Renouvier, Paris 1911; R. Le Savoureux, L’Entreprise philosophique de Renouvier, “Revue de métaphysique et de morale”, 1912; Louis Foucher, La Jeunesse de Renouvier et sa première philosophie, 1815-1854, suivi d’une bibliographie chronologique de Charles Renouvier, Paris 1927; O. Hameslin, Le système de Renouvier, Vrin, Paris 1927; R. Le Savoureux, La conversion de Renouvier au finitisme, “Revue d’Histoire de la Philosophie”, 1928; Roger Vernaux, L’Idéalisme de Renouvier, Paris 1943; Marcel Méry, La Critique du Christianisme chez Renouvier, “ Voll., Vrin, Paris 1952; L. Foucher, La philosophie catholique en France au XIX siècle avant la renaissance thomiste et dans son rapport avecelle (1800-1880), Vrin, Paris 1955; A. Pasquali, Fundamentos gnoseológicos para una ciencia de la moral. Ensayo sobre la formacíon de una teoría especial del conocimiento moral en las filosofías de Kant, Lequier, Renouvier y Bergson, Universitad Central de Venezuela, Caracas 1963. G. Pyguillem, Renouvier et sa publication des fragments posthumes de J. Lequier, “Archives de Philosophie”, 48, 1985, pp. 635-668. Per quanto riguarda il v

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rapporto con William James, bene p. 117 del secondo volume dell’Equisse d’une classification systématque des doctrines philosophiques, Paris 1885-86. (dove Renouvier cita James) e Dominique Parodi Du positivisme à l’idéalisme: philosophies s’hier, études critiques, Parigi 1930 e Léon Brunschwicg, Le Progrès de la conscience dans la philosophie occidentale, Paris 1927; I commenti di Renouvier a James possono essere rintracciati nella Critique philos., a partire dal 1878, spesso sotto forma di introduzioni o repliche ai contributi jamesiani al periodico francese. Esiste anche un certo interessamento italiano all’opera di R., ma soprattutto da un punto di vista sociale e politico (che noi non abbiamo preso in considerazione):Giovanna Cavallari, Charles Renouvier filosofo della liberal-democrazia, Napoli 1979; Vittore Collina, Plurale filosofico e radicalismo: saggio sul pensiero politico di Charles Renouvier, Bologna 1980. Bene anche Nicola Abbagnano, Storia della filosofia , Torino 1950, vol. II e Gallo Galli, Studi storico-critici sulla filosofia di Charles Renouvier, Gubbio 1933. Giovanni Gentile si occupò di Renouvier al tempo in cui stava scrivendo Le origini della filosofia contemporanea in Italia, in un articolo La fine del neocriticismo (in “La cultura”, Roma 1908; ristampato in Saggi critici, Vallecchi, Firenze 1927): un’analisi critica di questo articolo si trova in G. Lequier, op. cit., Introduzione, p. 96, n. 1. Del Noce cita anche altri due studi italiani su Renouvier: G. Galli, La filosofia teoretica dei “Manuali” e La legge del numero (1933-1935; ristampati sul volume Prime linee di un idealismo critico e due studi su Renouvier, Gheroni, Torino 1945). Lo stesso Del Noce, alla fine della sua lunga Introduzione alle Opere di Lequier, analizza brevemente la presenza di motivi renouvieriani in tre filosofi italiani, il Rensi lo Juvalta e il Martinetti. Cfr. G. Lequier, op. cit, Introduzione, pp. 96-100. Per i numerosi riferimenti a Renouvier negli scritti di James è fondamentale l’indice dei lavori di James, pubblicato dal Perry nella Annotated Bibliography of The Writings of William James, cit.: molto interessante è la recensione The Emotion and the Will by Alexander Bain and Essais de Critique générale, by Charles Renouvier pubblicata sulla Nation (22), nel 1876 alle pp. 367-369, ristampato in CER, pp. 26-36, disponibile oggi anche in ECR alle pagine 321-26; Qelques Considérations sur la méthode subjective, pubblicato sulla Critique Philosophique nel 1878 (anno VI, 2) alle pagine 407-13, con una postfazione di Charles Renouvier, che mostra come James fosse noto all’estero più come filosofo che come psicologo. L’articolo è stato poi inserito nella raccolta CER, pp. 69-83. del 1920; Réponse de M. W. James aux Remarques de M. Renouvier sur sa théorie de la volonté, in Critique Philosophique, 188, 1, alle pagine 401-404. Ristampato in CER, pp. 303-1: si tratta di una replica all’articolo di Renouvier che aveva seguito l’articolo What the Will Effects, tradotto in francese sulla Critique Philosophique, 188, 1, pp. 401-420. La replica di James, oltre che a sottolineare il debito verso Renouvier, contiene una breve delucidazione della sua teoria della volontà. Cfr. anche gli articoli di J. Wahl su “William James d’après sa correspondance” in Revue philos. (1922, pp. 93-94); Review of C. Renouvier’s Principles de la Nature., pubblicato sulla Philosophical Review, 2, alle pp. 212-218, nel 1893, ristampato in ECR, pp. 440-446. Riferimenti al filosofo francese si trovano infine in The Will to Believe. (WB, passim). vi Ci sia qui consentito di riportare l’esposizione di Del Noce dell’argomentazione renouvieriana-lequieriana che abbiamo qui esposto e criticato: si tratta di un brano abbastanza lungo, ma molto utile, in quanto — sebbene a nostro parere non sia in grado di difendere meglio la linea argomentativa dei due filosofi francesi (Del Noce comunque fa riferimento solo a Lequier) — sembra aprire a una nuova possibile interpretazione della stessa: abbiamo detto che lo scopo di Renouvier (Lequier) è quello di mostrare la contraddittorietà dell’idea di necessità: Ma in che senso l’affermazione della necessità può dirsi contraddittoria, dato che si è già visto che l’ipotesi della necessità universale non ha in sé nulla di contraddittorio, e che è proprio questa sua non contraddittorietà uno degli elementi che permettono la critica dell’esperienza della libertà? Sembra che per Lequier, anche se i testi a riguardo non sono troppo precisi, occorra distinguere fra la tesi della necessità nella sua obiettività , non contraddittoria in sé, e la sua contraddizione esistenziale, fra il dire e il fare, che si produce nell’affermazione di questa tesi della necessità. E infatti: se la conseguenza ultima del pensiero necessitario è lo scetticismo assoluto [?] ne consegue che l’affermazione della libertà non è più un’affermazione necessaria; ci troviamo di fronte a due affermazioni libere: l’affermazione libera della necessità e l’affermazione libera della libertà. Ed è allora chiaro che la posizione del pensiero necessitario è contraddittoria, perché l’atto di affermazione contraddice al contenuto affermato. Dunque , l’affermazione della libertà si presenterebbe, per la contraddittorietà della posizione opposta, come quella di una “verità necessaria”? E’ chiaro come non possa essere questo il pensiero di Lequier. Quel che egli vuol dire è che la vera scelta non è tra l’affermazione della libertà e una sorta di totale afasia i [l’afasia e l’apatia di cui abbiamo parlato dianzi esponendo le supposte “conseguenze” del pensiero necessitario] Il problema va dunque posto in termini assiologici: la scelta è tra il realizzarmi come persona e il ridurmi a cosa. Alcuni passi sono molto significativi a riguardo: “Io devo credere alla mia libertà, sotto la pena di non potere portare la minima affermazione: la libertà infatti è la condizione stessa della credenza e pertanto della conoscenza che non è che credenza. Prende qui posto l’analisi di un’affermazione, per mostrare che senza la libertà è impossibile portare neppure l’affermazione del dubbio. Se si crede alla libertà , si è costretti a credere a tutto l’ordine di verità che abbiamo esposto, perché quest’ordine di verità è legato necessariamente alla esistenza della libertà. Si tratta dunque di portare sul tutto un solo atto di credenza” “Ma mi accorgo che se tutto in noi è sottoposto alla necessità, io non posso nemmeno affermare che tutto è sottomesso alla necessità, perché questa proposizione sarebbe necessaria, e per conseguenza non saprei distinguerla da ogni altra”. G. Lequier, op. cit., Introduzione, p. 73. La linea argomentativa di Lequier non sembra affatto essere più convincente; troppi sono i presupposti che si sarebbe costretti a condividere senza alcun motivo: 1) che il determinismo porti come sua conseguenza necessaria allo scetticismo (assoluto); 2) che lo scetticismo assoluto tolga necessità a qualsiasi affermazione riportando quindi le nostre credenze nel campo della libertà (ma non è lo steso Lequier a dire che lo scetticismo assoluto porta a un totale stato di afasia?) 3) che l’affermazione libera del necessitarismo sia una contraddizione che dimostri la verità dell’unica alternativa rimasta: i. e. affermazione libera della libertà. In sostanza l’argomentazione di Lequier procederebbe per via di esclusione: date le quatto possibili ‘credenze: 1) credenza necessaria della necessità, 2) credenza necessaria della libertà’, 3) credenza libera della necessità 4) credenza libera nella libertà, visto che le prime tre soluzioni si consumerebbero per la loro contraddittorietà l’unica a rimanere

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sarebbe l’ultima: affermazione libera della libertà; abbiamo già detto quali sono i motivi per cui una conclusione di questo tipo non è affatto costringente (oltretutto le prime due ‘soluzioni’ sono eliminate in partenza dall’identificazione fra determinismo e scetticismo e fra scetticismo e impossibilità ad affermare qualsiasi cosa necessariamente); d’altronde, se fosse valida, questa sarebbe una vera e propria dimostrazione (non solo assiologica) e questo non è forse in contraddizione con la fondamentale premessa a tutto il discorso renouvieriano sulla libertà, che cioè non è possibile dirimere la questione razionalmente? La nuova “possibile interpretazione” di cui abbiamo sopra parlato, e che si affaccia fra le parole di Del Noce, è che forse l’unico modo per affrontare la questione della libertà è con l’esprit de finesse, che sembra mancare totalmente in questa argomentazione e che invece apparirà evidente nel James della Will to Believe: la domanda che James porrà a chi si interroga — o anche a chi non lo fa — sulla libertà dell’uomo è questa: “Qual è l’idea di uomo che emerge dalla tua filosofia e dalla tua scienza?” ; e poi: “Che uomo vuoi essere?”: se fra la risposte alle due domande non esiste contraddizione non c’è ragione di proseguire, ma se una contraddizione esiste (e all’idea di uomo come ‘cosa’ si contrappone il desiderio e anche l’intima consapevolezza di essere qualcos’altro) allora lì nasce la vera possibilità di dare vita a una filosofia della libertà.

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Capitolo 2.2 Vita e filosofia in William James La scelta di una filosofia dipende da quel che si è come uomini, perché un sistema filosofico non è una inerte suppellettile, che si possa prendere o lasciare a piacere, ma è animato dallo spirito che l’uomo ha. — G. Fichte C’è un solo problema filosofico ed è quello del suicidio. A. Camus

2.2.1 Tra sociologia e psicoanalisi per un’interpretazione ‘esterna’ Noi cercheremo di difendere qui la tesi secondo cui il pensiero filosofico e scientifico di James intorno al determinismo e al libero arbitrio non fu effettivamente causa, nemmeno prossima, del lungo periodo di crisi che questi attraversò a partire dalla fine degli anni ’60 e che durò almeno quattro anni, né tantomeno di quell’attacco cui possiamo riferirci come “l’episodio dell’epilettico”; secondo questa tesi, che ha preso consistenza solo negli ultimi anni, il periodo depressivo di James non può essere considerato una lunga “crisi spirituale”, né la lettura dell’opera di Renouvier può essere considerata la soluzione cui James si affidò per la sua ‘rinascita’1. Gli argomenti a sostegno di questa interpretazione sono in parte affidati a documenti precedentemente ignorati, ma anche a una nuova lettura di documenti e di fatti noti da sempre, ma sottovalutati. Come per la storia delle nazioni, così per quella delle persone sembra che sia necessario un certo periodo di tempo affinché si possa raggiungere un punto di osservazione più equilibrato.

1 James e tutti i suoi studiosi attribuiscono a Renouvier il merito di averlo condotto alla sua posizione indeterministica. L’influenza di Renouvier cadde in momento cruciale della vita di James. James non fu mai completamente libero da attacchi di depressione, ma la sua depressione alla fine degli anni ’60 e all’inizio dei ‘70 fu acuta. Essa ebbe sicuramente numerose dimensioni psicologiche, non c’è dubbio, non ancora comprese pienamente, ma ebbe anche una dimensione concettuale. James soffriva di un senso di impotenza morale e non aveva un’adeguata teoria filosofica che potesse imprimere alla sua vita una direzione differente. WB, p. xxvi.


[William James] non era l’unico ad avere problemi psichici. Chi legga oggi le lettere di James rimane stupito di scoprire quanti suoi amici, per non parlare dei membri di famiglia, si dedicassero, secondo le parole di Alice James, “al mestiere di ristabilirsi”2.

La depressione di James, a parere di Feinstein, non dovrebbe essere considerata un fenomeno straordinario, né all’interno della sua famiglia, né all’interno dell’ambiente sociale in cui viveva. William aveva quattro fratelli3; due di questi soffrirono di crisi depressive, o quanto meno non riuscirono mai ad avere un equilibrio psichico che gli permettesse di vivere una vita serena e l’unica sorella di William, Alice, ebbe una vita molto travagliata, soprattutto da un punto di vista psicologico:

Il 1° Agosto [1866] era il diciottesimo compleanno di Alice; sembrava che stesse bene e chi fosse entrato come ospite nella casa dei James l’avrebbe trovata una ragazza normale e attraente. Ma se si fosse trovata coinvolta in una vivace conversazione sarebbe molto probabilmente svenuta. Già all’età di quattordici anni aveva cominciato a soffrire di improvvisi attacchi isterici, i cui sintomi erano già presenti nella sua fanciullezzai.

Anche il fratello Henry, il famoso romanziere, soffrì fin da giovane di quelli che potremmo chiamare disturbi psicosomatici — spesso identici a quelli patiti da William — e di veri e propri periodi di depressione4. Infine, dobbiamo ricordare che lo stesso Henry James Sr., come abbiamo visto nel Capitolo 1.1 passò attraverso un’esperienza che difficilmente potrebbe sfuggire al paragone con quella esperita dal figlio primogenito.

Come interpretare questa ‘epidemia’ in un’agiata famiglia del New England? Le possibili spiegazioni sono numerose; la prima ipotizza una sorta di ereditarietà: Henry James Sr. avrebbe trasmesso ai figli, in maggiore o minor misura, un carattere fragile e un corpo debole. Quest’interpretazione è stata sostenuta per la prima volta dallo stesso William James: nel 1867 La sua salute cominciò a deteriorarsi. I dolori alla

2

H. Feinstein, op. cit., pp. 183-184.

James fu in intimi rapporti, durante tutta la sua esistenza, soprattutto con Henry (1843-1916) e Alice (1850-1892); gli altri due fratelli, Garth Wilkinson — detto Wilky — (1845-1883) e Robertson (1846-1910) ebbero un ruolo meno importante nella vita di William James; nessuno dei due visse comunque una vita felice e il maggiore finì alcolizzato — anche il padre, Henry James Sr, aveva avuto problemi con l’alcol in gioventù — ; su di loro è stata scritta una biografia: Jane Maher: Biography of Broken Fortunes: Wilkie and Bob, Brothers of William, Henry and Alice James, Archon, Hamden (Conn.) 1986. Un’altra fonte importante è R. W. B. Lewis., The Jamses; A Family Narrative, Farrar, Straus and Giroux, New York 1991. 3

4 James, senza specificare se si potesse parlare di una predisposizione ereditaria, parlava a questo proposito di una “peculiarità familiare”; Cfr. Feinstein, op. cit., p. 223. Cfr. anche R. W. B. Lewis, op. cit., capp. VII (pp. 207-243) e IX (pp. 289-325).

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schiena erano peggiorati. Più tardi ipotizzò che i membri della famiglia soffrissero di una “insania dorsale” 5. Che William James non trascurasse un’eziologia genetica dei propri disturbi è poi dimostrato dal fatto ch’egli, nei periodi di crisi, riconoscendosi malato nel corpo e nella psiche, pensò di rinunciare alla possibilità di sposarsi e di avere dei figli così da interrompere la ‘catena’ di infermità di cui egli non sarebbe stato che l’ultimo anello:

William si pensava inadatto al matrimonio. Nel 1869 scriveva a Robertson, che si era appena fidanzato: “Penso che sia veramente un crimine contro l’umanità per chiunque, quello di rischiare di mettere al mondo una stirpe insana”6.

Al tempo in cui James scriveva queste parole non era di certo stravagante l’immagine dell’uomo come di una creatura incatenata alla forza dell’ereditarietà e incapace di affrancarvisi7. Gli studi medici che aveva seguito durante quegli anni non potevano poi che confermarlo nell’ipotesi che ci fosse una trasmissione di tare fisiche e psichiche da una generazione all’altra. La vastation di Henry James Sr. sembrerebbe essere ulteriore ‘prova’ di questo legame 8; vedremo in seguito come però i due episodi critici furono simili solo all’apparenza, poiché nel primo caso si trattò di una crisi mistico-religiosa, risolta, almeno in parte, con l’avvicinamento a una dottrina — quella swedenborghiana — che sembrò pacificare l’animo di Henry Sr. Nel secondo caso, quello di William, è più corretto parlare di una crisi

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D. Bjork, op. cit., p. 75.

6 Ivi, p. 95; Bjork parla a questo proposito di una “paura vittoriana di degenerazione ereditaria” sentita da James, come da molti altri della medesima generazione ed estrazione sociale. 7 La tendenza a ‘ridurre’ l’uomo al suo patrimonio ereditario — ancora non si poteva parlare di patrimonio genetico — crebbe notevolmente alla fine del secolo scorso; Cotkin, attento studioso dell’ambiente culturale e sociale in cui visse James, riporta a riguardo un fatto esemplificativo: James Garfield, Presidente degli Stati Uniti, venne assassinato nel 1881 da un certo Charles Guiteau; Alcuni esperti ritennero l’assassino moralmente responsabile e colpevole per i suoi crimini, ma alcuni medici sostennero che Guiteau fosse vittima di circostanze ereditarie. La pazzia ereditaria aveva ottuso la capacità di ragionamento di Guiteau; a causa della sua ereditarietà genetica, questi era incapace di controllare le sue azioni G. Cotkin, op. cit., p. 76. Su questo caso Charles Rosenberg scrisse un libro: The Trial of the Assassin Guiteau: Psychiatry and Law in the Gilded Age, University of Chicago Press, Chicago 1968. È ovvio che un’eziologia di questo tipo si legava strettamente a una supposta ‘terapia’ preventiva che consisteva nell’impedire la continuazione della tara ereditaria. È probabile che James, nei momenti di maggiore sconforto, pensasse, temendo di non potere affatto guarire, almeno di impedire che i propri figli avessero a soffrire le stesse pene. Interessa poi ricordare che Galton cominciò un’analisi statistica della trasmissione ereditaria delle capacità mentali nel 1864. Lo scopo del suo saggio Hereditary Talent and Character, pubblicato l’anno seguente, era quello di mostrare che gran parte del talento mentale — per la scienza, la matematica, la letteratura, la pittura etc — si trasmettesse nelle famiglie, che il carattere e la mente si ereditassero biologicamente.. R. J. Richards, op. cit., p. 171. 8 Questo periodo di sconvolgimento emotivo nella vita del padre naturalmente non fu senza influssi sulla vita familiare. Henry Jr. era probabilmente troppo piccolo per accorgersi di alcunché, ma William, bambino molto precoce da tutti i punti di vista, deve aver sentito questa tensione. G. W. Allen, op. cit., p. 19. [...] paragoni tra il ‘timor panico’ di William e la ‘vastation’, attraversata dal padre circa trent’anni prima, sono difficili da evitare. G. Cotkin, op. cit., p. 59. Allen sembra condividere, almeno in parte, un approccio di tipo psicobiologico per l’eziologia dei disturbi di cui soffriva William James, ricordando come questa ingombrante ‘eredità’ divenne inconsapevolmente il volano dei suoi studi psicologici: Dal padre e dal nonno paterno William James ereditò o acquisì, insieme con il suo genio, molti problemi di tipo psicologico, e il tentativo di risolverli durante la propria vita fecero di lui un pioniere nell’investigazione della psiche umana.. G. W. Allen, op. cit., p. 4.

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depressiva, che seguì a un lungo periodo di disagio psichico e che non venne affatto risolta ‘religiosamente’; lo stesso Perry prende in esame l’ipotesi ereditaria, ma pur trovando delle notevoli affinità caratteriali e comportamentali in padre e figlio — cosa che ovviamente non dovrebbe affatto stupire — conclude che non è possibile spiegare ‘biologicamente’ la crisi spirituale di James né tantomeno equiparare la vastation con quello che abbiamo chiamato “l’episodio dell’epilettico”9. Ma il legame tra William James e suo padre, come abbiamo visto nei capitoli precedenti, andava ben al di là della mera biologia. Howard Feinstein ha proposto un’interpretazione psicoanalitica della crisi di James: questi avrebbe in sostanza ereditato, con l’educazione e con l’esempio, quel conflitto che Henry James non aveva risolto rispetto alla figura paterna (‘William di Albany’); il senso di colpa provato da Henry James per non aver rispettato i desideri paterni — e soprattutto per non avere rispettato la sua volontà testamentaria — si sarebbe così riversato sul figlio, a sua volta ‘colpevole’ di non aver soddisfatto i progetti del padre.

Tale linea interpretativa, che potremmo chiamare forse un po’ sommariamente ‘psicoanalitica’, è stata per la prima volta esposta compiutamente da Cushing Strout del 1868. Altri hanno seguito la strada aperta da Strout: a noi basti soltanto dire che questo nuovo approccio ha stimolato l’analisi, anche in chiave non freudiana, dei legami fra la fanciullezza di James e gli anni della giovinezza e della maturità, aprendo nuove prospettive di ricerca10.

Senza scomodare oltre Sigmund Freud possiamo dire, anche alla luce dei fatti riportati nei primi due capitoli, che certamente Henry James Sr. fu causa di notevole tensione e frustrazione per il giovane William11: Questi fu ‘trasferito’ da una scuola all’altra e da un precettore all’altro durante tutti gli anni

Qualsiasi spiegazione in termini di profonde cause biologiche non può che restare su un piano ipotetico. TCWJ I, p. 129. Secondo l’interpretazione di King, invece, l’attacco di James deve essere interpretato come una versione secolarizzata della conversione puritana. Secondo King non si può fare riferimento perciò a nessuna particolare nevrosi. James sarebbe stato travolto dalla sua crisi vocazionale e dalle contraddizioni della sua cultura.; John O. King, The Iron of Melancholy; Structures of Spiritual Conversion in America from the Puritan Conscience to Victorian Neurosis, Wesleyan Univ. Press, Middletown 1983. 9

10 È ancora cagione di controversia fra gli studiosi di James se il suo tortuoso cammino verso una vita sana e produttiva possa essere indagabile attraverso categorie psicoanalitiche. P. Diggins, op. cit., p. 115. Altri studiosi hanno infine rigettato decisamente un approccio psicoanalitico; tra i più noti Gerald E. Myers, William James; His Life and Thought, Yale University Press, New Haven 1986 e R. W. B. Lewis, op. cit..; l’articolo di Strout del ’68 è intitolato William James and the Twice-Born Sick Soul, “Dedalus”, 97 (1968), pp. 1062-1082. Sempre dello stesso autore vale la pena di ricordare The Pluralistic Identity of William James; A Psychohistorical Reading of ‘The Varieties of Religious Experience, “American Quarterly”, 23 (1971), p. 143. Con particolare riferimento ai primi anni di vita di James, ma in relazione alla madre, sono da citare due articoli di James William Anderson: In Search of Mary James , “Psychistory Review” 8 (1978), pp. 63-79 e Id., The Worst Kind of Melancholy; William James in 1869, “Harvard Library Bullettin”, 30 (1982), pp. 369-386. 11 Un uomo soggetto a “manie religiose” non era certo una persona con cui poter vivere serenamente, né un’atmosfera soffocante era l’ideale per aiutare un uomo che cercava di evitare disperatamente un collasso psichico. G. W. Allen, op. cit., p 154.

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della sua fanciullezza in un clima familiare solo apparentemente permissivo e libertario. Il suo desiderio di soddisfare le alquanto imprecise aspettative paterne si scontrava con quello di percorrere una strada autonoma e i suoi fallimenti — il tentativo di diventare pittore e quello di diventare naturalista o fisiologo — suscitarono soddisfazione piuttosto che comprensione in un padre che continuava a sperare per il figlio una improbabile quanto confusa carriera di ‘erudito’, dedicata al tentativo di riconciliare, senza sapere bene come, le verità della religione con quelle della scienza. Questa confusione di propositi di Henry James Sr. e il suo tentativo di attuarli in maniera sotterranea non potevano certo rendere il giovane William un uomo sicuro di sé e dei propri mezzi, tant’è che, come riportato alla fine del precedente capitolo, il nostro autore si trovava, all’età di ventisette anni, e con una laurea poco desiderata quanto sofferta, senza avere mai avuto delle reali esperienze lavorative, con il fisico e il morale a pezzi e senza avere idea di che cosa fare della propria vita. Se questa condizione non è sufficiente per spiegare un collasso nervoso o anche un generico stato di depressione certamente può ben intendersi come premessa per un futuro inquieto e irto di difficoltà che si aggravavano col passare del tempo e la relativa inattività: Per il settembre [1869] James cominciò ad accusare un lento ma inarrestabile declino nella propria salute, probabilmente il risultato del senso di colpa accumulato per avere perso del tempo [dopo avere terminato l’università]12.

James soffriva di sensi di colpa, ma soprattutto soffriva d’insicurezza13 e di mancanza di autostima e le sue ansie riguardo alla vita professionale14 si intrecciavano con quelle della vita affettiva. James si

G. W. Allen, op. cit., p. 159. Di fatto, il giovane Dr. James si era esplicitamente riproposto un lungo periodo di riposo come ‘premio’ per la conclusione del corso di studi; egli aveva messo a parte di questo progetto Henry Jr.; questi condivideva in toto le intenzioni di William, convinto che il fratello abbisognasse principalmente di un riposo mentale piuttosto che fisico. William James, subito dopo il conseguimento della laurea, si recò dunque con tutta la famiglia a Pomfret, nel Connecticut, per un soggiorno estivo. Egli passava molte ore a leggere sdraiato su un’amaca; sua madre pensava che si riposasse eccessivamente e che, sebbene migliorato, egli si trovasse ancora in uno ‘stato patologico’ [morbid state], quasi che il figlio non volesse reagire affatto. William affermava di non essere in grado di studiare seriamente e dovesse quindi soffocare tutti i suoi desideri in proposito. Ma ‘studio’, nel vocabolario di James, è una parola molto flessibile. Un taccuino riporta i titoli cui William diede almeno un’occhiata negli ultimi sei mesi dell’anno 1869. Si tratta di una collezione di testi filosofici e letterari in varie lingue: opere di Henry James Sr. insieme con Spencer, Comte, Kant, Fichte, Mill e altri; la poesia di Browning e gli scritti di Balzac, George Sand, Dumas figlio, Leopardi e così via. R. W. B. Lewis, op, cit., pp. 200-201. Nel capitolo precedente abbiamo già avuto modo di costatare come James tenesse in poco conto la sua attività intellettuale, soprattutto nei momenti di maggiore crisi. 12

13 Il dubbio sembra essere, a prima vista, la caratteristica principale del giovane James: dubbi sulla sua vocazione, dubbi sulle conseguenze delle sue azioni, e dubbi sui suoi dubbi sembrano il fulcro della sua vita tra il 1867 e il 1872. G. Cotkin, op. cit., p. 52. 14 Anche chi rimarca l’importanza delle preoccupazioni di James per la sua carriera e per la sua futura vita affettiva in relazione alla sua depressione ne riconosce allo stesso tempo l’insufficienza eziologica: è comunque improbabile che la sola indecisione vocazionale di James possa essere stata la causa di quella che verrà conosciuta come la sua crisi psichica o spirituale. D. Bjork, op. cit., p. 49. Anche Cotkin inserisce il tema della difficoltà a trovare una propria carriera in un contesto interpretativo più ampio e sfaccettato: “Io sono una vittima della nevrastenia”, scriveva James nel 1895, “e del senso di vacuità e di irrealtà che l’accompagna”. La nevrastenia che accompagnò James per tutta la vita era in parte la funzione di preoccupazioni intellettuali concomitanti con un declino della certezza religiosa, così come il portato delle proprie indecisioni riguardo alla propria carriera, e l’espressione di un insieme di considerazioni filosofiche e culturali. G. Cotkin, op. cit., p. 77.

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trovava alla fine degli anni ‘60 senza avere mai avuto un rapporto sentimentale con una donna15, e la sua condizione attuale certamente non lo incoraggiava a trovarsene una. Come detto sopra, James temeva di sposarsi e di mettere al mondo dei figli ‘malati’, ma allo stesso tempo sentiva l’esigenza di avere una compagna che lo aiutasse ad affrontare la vita16; a questo si aggiungeva un senso di castità molto forte che contrastava, solo apparentemente, con l’educazione ricevuta dal padre:

William era stato senza dubbio molto interessato alle Fräuleins, ma durante l’anno trascorso in Germania egli era un mezzo invalido e così trascorse il suo tempo per la maggior parte da solo, sia a Dresda che alle terme [...]. Oltretutto, invece delle dottrine fourieristiche del libero amore, che erano così idealistiche che probabilmente non sembravano realizzabili nemmeno al padre stesso, William era cresciuto con un fortissimo senso di castità 17.

E passò ancora molto tempo prima del matrimonio: Fino ai trentaquattro anni [James] non aveva mai avuto una relazione affettiva. G. W. Allen, op. cit., p. 212. È vero che lo stesso William aveva dichiarato, a Berlino (1867), di essersi ‘innamorato’ di un’attrice di origine boema, ed è altrettanto vero che durante uno dei suoi soggiorni a Dresda egli rimase positivamente impressionato da una giovane newyorchese — certa Miss Havens — , ma in entrambi i casi si trattò più di un’infatuazione di tipo adolescenziale piuttosto che di una vera relazione affettiva. Sicuramente William nutrì fin da fanciullo dei sentimenti molto forti per la cugina Minny Temple, ma questa morì però, giovanissima, nel Marzo del ’70 (di tubercolosi). William James, come il fratello Henry, venne sconvolto da questa notizia; molti ipotizzano che fu proprio questo tragico fatto a far precipitare le già precarie condizioni di salute di James. Cfr. Ivi, p. 162. Sulla figura di Minny Temple, vedi Alfred Habegger, New Light on William James and Minny Temple, “New England Quarterly”, 28 (1987); Habegger è anche autore di una biografia di Henry James Sr.: The Father, a Life of Henry James, Farrar, Straus & Giroux, New York 1994. 15

Il padre Henry aveva trovato in Mary James una grande consolatrice e un saldo sostegno; William aveva potuto osservare quanto poco indipendente fosse il padre, a prescindere dalla sua menomazione fisica, e probabilmente aspirava a una medesima condizione di serenità e sicurezza. Allen descrive così la relazione tra i genitori di William: Sotto vari riguardi, il matrimonio di Henry James fu una fortuna per lui. Sua moglie era un’irlandese dai lineamenti schietti e dai modi privi di affettazione. Ancor più importante, ella era una persona fidata, sicura e risoluta e Henry James aveva bisogno esattamente di una donna del genere per proteggerlo dagli eccessi del suo temperamento introspettivo e impaziente. [...] Suo marito soffriva di sensi di colpa e d’indecisione e speculava su questioni religiose. G. W. Allen, op. cit., p. 10. Anche Croce sottolinea questa differenza: Il padre era il sognatore, mentre la madre era la dura lavoratrice. P. J. Croce, op. cit., p. 37. 16

G. W. Allen, op. cit., p. 212. La contraddizione che viveva James era senza dubbio frutto dell’ambigua pedagogia paterna; come Henry James aveva insegnato ai figli che il valore più importante era la libertà, ma si era comportato spesso in maniera ‘tirannica’, così aveva sostenuto una qualche visione fourieristica del rapporto uomo-donna, ma si era poi dimostrato con le parole e coi fatti moto rigido in materia di sentimenti e di matrimonio. Ma il suo influsso andò ben oltre l’educazione: fu proprio lui infatti a conoscere per primo Alice Howe Gibbens, futura Mrs. William James: Henry James Sr. incontrò Alice nell’inverno del 1876 a una riunione del Radical Club. Fin dall’inizio egli pensò a quella ragazza come alla futura sposa del suo primogenito. G. Cotkin, op. cit., p. 63. Per un’analisi ampia e dettagliata intorno al matrimonio nell’America vittoriana, vedi: John S. Haller e Robin M. Haller, The Physician and Sexuality in Victorian America, Norton, New York 1977, pp. 191-234; Barbara Rees, The Victorian Lady, Gordon and Cremonesi Publishers, London 1977; Sidney Ditzion, Marriage, Morals and Sex in America; A History of Ideas, Octagon Books, New York 1975; Carl N. Delger, At Odds; Women and The family in America from the Revolution to the Present, Oxford University Press, New York 1980. 17

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Il conflitto tra i suoi desideri e la sua idealizzazione della donna certamente furono un fattore aggravante, se non completamente determinante, della sua condizione nervosa.18 Anche la Simon, nella sua recentissima biografia, fa riferimento esplicito ai problemi sessualiii e sentimentali di James, che non diminuirono fino a dopo il matrimonio con Alice Howe Gibbens.

Consumato dal desiderio per Alice [William James] temeva che la propria castità e il proprio “istinto all’isolamento personale” avrebbero impedito un rapporto sessuale fra loro. Sebbene egli credesse che gli impulsi sessuali fossero “istintivi, nel senso di ciechi, automatici e precedenti il pensiero” egli era anche consapevole che una simile forza istintiva avrebbe potuto essere repressa da “[...] abitudini acquisite e da impulsi contrari operanti nell’intimo”19.

I dubbi sulla propria capacità di essere un ‘buon marito’ — sotto tutti i punti di vista — furono spazzati via solo dopo il matrimonio:

I soli ostacoli al matrimonio fra Alice Gibbens e William James erano le loro tormentate coscienze. William era ancora convinto di essere fisicamente un invalido o per lo meno un nevrastenico, nonostante il lavoro compiuto negli ultimi due anni di insegnamento, nonostante avesse avviato un laboratorio di psicologia e nonostante avesse tenuto la direzione di un museo20.

18 Si intenda chiaramente desideri sessuali, oltre che sentimentali; Bjork è ancora più esplicito: Comunque, la crisi di James non era esclusivamente intellettuale [...]. Sebbene le sue lettere e i suoi diari non diano testimonianza diretta che suoi disturbi fossero correlati a frustrazioni sessuali, ci sono buone ragioni per supporre che lo fossero. D. Bjork, op. cit., p. 79. Una testimonianza indiretta sarebbe rappresentata da una lettera che William scrisse al fratello Robertson, il 22 Giugno 1872: Il tuo caso [depressione con problemi alla schiena, costipazione e timore di essere impotente], come lo descrivi, non sembra essere di rilevante importanza e può essere curato; qualora poi risulti refrattario alle cure mediche, vedrai che scomparirà da sé quando l’attività sessuale ricomincerà regolarmente. Questa lettera è conservata nella Vaux Collection (Henry Vaux, Berkeley, Calif) e citata da D. Bjork, op. cit., in nota 44 a p. 79. Cfr. anche G. W. Allen, op. cit., p. 149. 19 L. Simon, op. cit., p. 158. La ‘lotta’ di James tra istinti all’autoisolamento e istinti sessuali ovviamente non faceva che aggravare il suo stato di frustrazione. Che i problemi sessuali e sentimentali fossero alla base della depressione di James, nella sua fase ‘cronica’, sarebbe dimostrato dal fatto che il matrimonio con Alice Gibbens fu per il nostro autore estremamente salutare. 20 G. W. Allen, op. cit., p. 219. William James si sposò nell’anno 1878; la data è stata considerata estremamente significativa già da Ralph Barton Perry, che se ne servì infatti per la divisione in periodi della vita di James: Tre momenti di passaggio [nella vita di James] sono chiaramente individuabili, nonostante frequenti oscillazioni: la crisi spirituale del 1870; l’inizio dell’insegnamento nel 1872; il suo matrimonio nel 1878. TCWJ I, p. 321. Dopo la morte di Wyman (1874) James aveva assunto ad interim la direzione del Museo di Anatomia Comparata. Cfr. G. Cotkin, op. cit., p. 63. James, com’è noto, fu il primo psicologo americano a organizzare, nel 1876, un laboratorio finalizzato a esplorare le relazioni tra la fisiologia e la psicologia. Cfr. D. Bjork, op. cit., p. 109.

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Il matrimonio era poi legato alla carriera non solo nelle preoccupazioni di William, ma anche nei fatti: egli non si sarebbe di certo potuto sposare senza avere un lavoro che gli permettesse di mantenere una famiglia; alla carriera James affidava dunque non solo la sua realizzazione professionale, ma anche la sua felicità affettivaiii. Poco più di un anno prima di laurearsi James scriveva al fratello Robertson, che già lavorava da tempo: “Provo sentimenti di vergogna alla mia età a stare in presenza tua e di Wilky senza aver ancora guadagnato un centesimo [...]”21.

2.2.2 Una generazione di nevrotici James non era però il solo della sua generazione e della sua classe sociale a provare sentimenti di questo tipo; George Cotkin, nel suo felice tentativo di spiegare in chiave sociologica alcuni aspetti della vita di William James, ha recentemente posto l’accento su un tema che precedentemente era rimasto un po’ nell’ombra e cioè sulla ‘diffusione’ di un certo tipo di disturbi psicologici — le nevrosi — nei giovani dell’America postbellica22. Le cause del malessere di James supererebbero dunque i confini della vita familiare.

Dobbiamo ricordare che i problemi di James — incapacità di decidere riguardo alla propria carriera, difficoltà nel prendere qualsiasi decisione, incertezza metafisica e fastidiosi disturbi fisici — erano comuni a molti giovani della classe sociale, intellettuale ed economica di James23.

G. W. Allen, op. cit., p 142 (WJ a Robertson, 27 Gennaio 1868). Pochi giorni prima William, scrivendo al padre da Teplitz, si era rammaricato per lo stesso motivo: Lui [Garth Wilkinson] e Bob sono ancora gli unici della famiglia a lavorare. (anche Henry!), ma arriverà anche il mio tempo. LWJ I, p. 136. I due fratelli minori avevano tentato la fortuna nelle piantagioni della Florida, ma con scarso successo. Nel periodo in cui James scrisse le due lettere Wilkinson si stava rimettendo a Cambridge dalla malaria contratta proprio in Florida e Bob era impiegato come timekeeper (addetto al conteggio delle ore lavorative degli operai) in una compagnia ferroviaria (in Iowa secondo G. W. Allen e in Wisconsin secondo R. W. B. Lewis). Anche Henry, come si evince dalla seconda lettera, aveva ‘superato’ il primogenito in quanto a guadagno: pur non avendo infatti un lavoro fisso, il giovane scrittore aveva guadagnato durante il soggiorno europeo di William almeno 800 dollari per la pubblicazione di nove racconti sull’Atlantic Monthly e sulla Galaxy e per alcuni articoli e recensioni scritti per la Nation. William aveva guadagnato fino ad allora soltanto venti dollari [!] come compenso per due recensioni letterarie. Cfr. G. W. Allen, op. cit., p. 142 e R. W. B. Lewis, op. cit., p. 188. Henry raggiunse il successo molto prima di William, che non ricevette una grande rinomanza prima del 1890 [48 anni], quando finalmente pubblicò i Principles of Psychology. Henry, almeno due lustri prima, aveva già pubblicato The American, The Europeans, Confidence, Washington Square e The Portrait of a Lady. I suoi saggi, le sue recensioni e i suoi racconti apparivano frequentemente nelle riviste più importanti, sia in Europa che in America egli era considerato un grande scrittore. L. Simon, Henry James, in id. (a cura di), William James Remembered, cit., p. 2. 21

22

Il riferimento è ovviamente alla Guerra Civile americana: 1861-1865.

23

G. Cotkin, op. cit., p. 6.

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William James apparteneva a quella generazione di giovani che avevano potuto godere di una solidità economica e di una tranquillità sociale sconosciuti ai genitori e ai nonni. William di Albany, come abbiamo visto nel primo capitolo, era arrivato ancora ragazzo in America dall’Irlanda con una sola valigia e aveva passato tutta la sua vita a lavorare, accumulando, grazie alla sua abilità e alla sua tenacia, un’ingente fortuna. Suo figlio Henry era stato perciò estremamente privilegiato, ma, se non fosse riuscito a invalidare il testamento paterno, avrebbe dovuto trovarsi una professione — plausibilmente ricoprendo un incarico in una delle attività ereditate dal padre — e lavorare onestamente per tutta la vita. William invece, come tanti suoi coetanei, ebbe fin dall’infanzia tantissime strade aperte davanti a sé; il lavoro doveva essere — secondo la pedagogia di Henry James — la sua ultima preoccupazione. Che il padre avesse poi dei progetti ben precisi per il figlio non toglie il fatto che quest’ultimo poté rimanere indeciso intorno al suo futuro sino a trent’anni, una cosa certamente impensabile qualche decennio avanti; si può quindi concludere che la generazione nata intorno agli anni Quaranta si trovò a vivere una sorta di adolescenza prolungata, fatta di dubbi e di indecisioni24. Oltretutto, proprio nella seconda metà del diciannovesimo secolo gli Stati Uniti d’America videro un rapido mutamento di tutto il sistema produttivo e distributivo: il lavoro cominciava a specializzarsi sempre più e, se questo faceva accrescere la ricchezza del popolo americano — o almeno di una sua piccola parte — allo stesso tempo toglieva al lavoro quella dimensione ‘eroica’ e avventurosa vissuta da coloro che avevano assoggettato le popolazioni indigene e la natura stessa; la vita, e la vita lavorativa soprattutto, non sembrava offrire più la possibilità di essere uomini come lo erano stati i Padri Fondatori. Le condizioni di vita sembravano essere decisamente migliorate, ma a quale prezzo? Qual era il ruolo della singola persona? Quanto era libero un uomo nell’America sempre più industrializzata?

Il lavoro e l’applicazione delle tecniche amministrative strappò la capacità deliberativa da ogni attività: i lavoratori non potevano decidere alcunché, mentre gli amministratori, non potevano che attenersi alla ripetizione del già fatto25.

Il giovane ambizioso che si tuffava nel mondo del lavoro in un’era di burocratizzazione e di specializzazione prima sconosciute non riusciva a sentirsi coinvolto nella totalità del processo produttivo. William James stesso parlerà di taedium vitae della vita moderna, così come Harriet Beecher

24 Erik Erikson, in uno dei sui testi, dedica alcune pagine proprio alla figura di William James e alla sua adolescenziale incapacità di decidere. Cfr. Erik Erikson, Identity, Youth and Crisis, W. W. Norton and Co., New York 1969, pp. 151-153. Con la religione tradizionale non più capace di fornire regole di condotta, entrambi gli scrittori [Adams e James] dovevano ora trovare un modo per avere a che fare con un mondo che essi non riuscivano più a comprendere appieno. Entrambi, in breve, si confrontavano con la prima [sic] sfida della modernità, che sarebbe stata la dura prova del secolo ventesimo, la pluralizzazione delle prospettive e la drammatizzazione del crepuscolo della mente, unite all’incertezza e all’oscurità. P. Diggins, op. cit., p. 112. Al proposito cfr. anche G. Cotkin, op. cit., p. 8, n. 22.

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Stowe parlerà di una torpid age26. Il tanto criticato individualismo che James svilupperà nella sua filosofia matura nasce proprio in questi anni come esigenza di trovare una dimensione nella società dove il singolo possa partecipare alla vita della comunità senza perdere però la sua autonomia.

La presa di coscienza dell’‘immoralità’ di un universo totalmente determinato nacque in James anche fuori dalle aule della Harvard University e la stessa idea di libertà fu per lui, fin dalla giovinezza, qualcosa di vivo e di urgente, da realizzare nella propria vita, personale e sociale, prima che in una elaborazione filosofica27.

Se questa situazione di ‘confusione’ sociale non può essere ritenuta la causa principale della nevrasteniaiv che fece soffrire James per molti anni, certamente essa non deve essere sottovalutata, visto anche che James era un ragazzo molto sensibile e intelligente e per questo sentì in maniera ancora più profonda quel senso di espansione, confusione e frammentazione che accomunava tutti i suoi contemporanei 28.

25

B. Ramsey, op. cit., p. 23.

26 Harriet Beecher Stowe, “House and Home Papers”, in Writings of Harriet Beecher Stowe: Household Papers and Stories, Houghton Mifflin, Boston 1896. L’era in cui James maturò come uomo era però ‘torpida’ solo da un punto di vista che potremmo definire morale. Di fatto era in atto un progresso frenetico e apparentemente inarrestabile, e chi si buttava nel mondo del lavoro rischiava di soffrire del ‘male’ opposto di James, quello di un’attività eccessiva, quel che in inglese si chiama overwork. Feinstein cita a proposito il parere di Herbert Spencer; il filosofo inglese aveva potuto notare, durante uno dei suoi viaggi negli Stati Uniti, che moltissimi erano coloro che avevano sofferto un crollo psichico per overwork. H. Feinstein, op. cit., p. 190 (vale però la pena di ricordare che lo stesso Herbert Spencer non fu immune da quell’overwork, sebbene nella sua declinazione intellettuale — che stigmatizzava nella borghesia statunitense: come ricorda Richards, Spencer, dopo aver pubblicato la sua Psychology nel 1855 soffrì di una depressione che durò un anno e mezzo. R. J. Richards, op. cit., p. 281; cfr. anche ivi, p. 409). George Cotkin, nella sua avvincente analisi del milieu in cui maturò William James ricorda che il periodo cui stiamo facendo riferimento in queste pagine, che va indicativamente dal 1870 al 1910, suscitava confusione anche nella sua ‘definizione’, riproponendo quell’incertezza e quell’indecisione che caratterizzavano James e i suoi contemporanei: se la Stowe parlava infatti di torpid age, Howard Munford Jones definì questo periodo The Age of Energy. Le due definizioni sono contraddittorie solo all’apparenza, visto che la maggior parte delle energie dei giovani del tempo erano impiegate proprio per cercare di risollevarsi da una cronica condizione di malessere psichico: Di fronte a questa orribile visione [di un mondo meccanicistico e predeterminato], James, come molti altri uomini della sua generazione maturati dopo la Guerra Civile, cadde in quella che Henry Adams chiamava “la viscosità dell’inerzia”. Per sfuggire da quest’inerzia, gli uomini “erano costretti a spendere tre quarti delle loro energie”. G. Cotkin, op. cit., p. 38. Cfr. Henry Adams, The Education of Henry Adams, Houghton, Mifflin & Co, Boston and New York, 1918, p. 314.

Parleremo più avanti dell’individualismo jamesiano; per ora ci basti riportare un autorevole giudizio che ci sentiamo di condividere pienamente: [...] James non era tanto il filosofo dell’individualismo quanto piuttosto un grande teorico delle relazioni; nella sua metafisica c’è un’implicazione sociale che è stata largamente trascurata. D. Bjork, op. cit., p. 223. 27

28 D. S. Browning, Pluralism and Personality; William James and Some Contemporary Culturesof Psychology, Bucknell University Press, Lewisburg 1980, p. 133. La crisi dell’autonomia dell’individuo che affronterà la filosofia matura di James era solo in parte provocata dal nascente darwinismo e dalle varie forme di scientismo. Essa risultava anche da un insieme di forze sociali, culturali ed economiche. [...] la presunta morte del libero arbitrio era frutto non solo delle idee scientifiche e dei dubbi religiosi; essa rappresentava anche l’espressione di difficoltà sociali e culturali. G. Cotkin, op. cit., p. 10. Browning, sebbene non circoscriva la depressione jamesiana nei limiti di un’impasse filosofica, può a pieno titolo far parte della critica che ha interpretato intellettualisticamente la crisi di James: La sua depressione si era legata nella sua mente con l’ideologia del determinismo, così fondamentale per lo scientismo del suo tempo. Questa era infatti una delle molte forze del mondo moderno che stavano riducendo l’essere umano — e James non ne era certo escluso — alla passività al fatalismo.1 D. S. Browning, op. cit., p. 134. 115


Lo stesso James, vinta — almeno in parte — la sua “battaglia con i nemici metafisici e personali” riconoscerà, grazie al maggiore distacco che la sua condizione attuale gli permetteva, che molti Americani, soprattutto suoi coetanei, avevano sofferto ‘di dubbi’ e di un conseguente stato di abulia e di nevrastenia29. Sarebbe però un errore pensare che la generazione nata intorno agli anni ’40 in America fosse tutta ‘ammalata della stessa malattia’; molti fra gli stessi amici di James, e anche i suoi due fratelli minori, sembravano essere diventati adulti precocemente e aver lasciato dietro le proprie spalle il dubbio e l’indecisione per ‘tuffarsi’ in una vita piena di prospettive e di soddisfazioni; si trattava solo di una differenza caratteriale, di una diversa costituzione fisica e ‘morale’? Tra coloro che hanno cercato di rispondere a questa domanda Cotkin dà forse la spiegazione più convincente: gran parte dell’insicurezza e della dubbiosità che caratterizzavano un giovane come James all’inizio degli anni’ 60 sarebbe stata protratta (innaturalmente) durante il decennio successivo in coloro che non avevano partecipato alla Guerra di Secessione. Potrebbe sembrare un’ipotesi interpretativa azzardata, ma non è affatto così.

29 Cfr. G. Cotkin, op. cit., p. 71. Abbiamo già detto di quanti membri della famiglia James soffrirono, in maggiore o minor misura, di problemi psichici (oltre a quelli già menzionati bisogna anche ricordare aunt Kate, sorella di Mary James, la madre di William), ma anche molti amici e conoscenti di James stavano passando, nel terzo quarto del diciannovesimo secolo, un ‘periodo buio’: Steele MacKaye, William Morris Hunt e John La Farge, ma anche Alexander Agassiz, figlio di Louis e Chauncey Wright (quest’ultimo soffrì anche di alcoolismo), per citarne solo alcuni. Vedi anche John Clendenning, The Life and Thought of Josiah Royce, University of Wisconsin Press, Madison 1985, pp. 168-75. Robert Richards, nella sua acuta e interessante analisi del pensiero scientifico dell’Ottocento sembra addirittura ipotizzare uno stretto legame tra l’attività intellettuale e una certa predisposizione alla ‘fragilità di nervi’: Per essere un intellettuale nella metà del diciannovesimo secolo era necessario soffrire di dure crisi spirituali o di crolli psichici. Almeno, la vita dei pensatori più famosi del tempo suggerisce questo. Dopo aver citato al proposito J. S. Mill, Richards prosegue: i problemi digestivi e cardiaci che immobilizzavano Darwin cominciarono quando egli cominciò a lavorare alla sua teoria; e, cinque anni dopo, Herbert Spencer, nel grande sforzo di finire i suoi Principles of Psychology, disse che il suo “sistema nervoso alla fine l’aveva abbandonato” e infatti lo lasciò completamente prostrato per almeno diciotto mesi. Francis Galton [cugino di Darwin] che a Cambridge non era riuscito a soddisfare le aspettative del padre, soffrì di disturbi ossessivi, insieme con “varie forme di sintomi cerebrali allarmanti”. Uno studente di Wilhelm Wundt descrive il periodo del suo insegnante come assistente di Helmholtz, come “diciassette anni di depressione”. R. J. Richards, op. cit., p. 409. È evidente che Richards solo provocatoriamente propone di rilevare nelle “crisi spirituali e nei crolli psichici” i crismi di appartenenza alla comunità scientifica nella seconda metà del diciannovesimo secolo, ma è altrettanto evidente che la diffusione di ‘sintomi nevrastenici’ non può essere del tutto disgiunta dall’esercizio di una determinata professione in un determinato clima intellettuale, sociale e religioso. Richards aggiunge poi: Sono stati fatti pochi sforzi per comprendere l’impatto che queste crisi private ebbero sulle idee filosofiche e soprattutto scientifiche degli uomini considerati in questo volume. Ivi, p. 410. Effettivamente si riscontra, negli storici della scienza così come in quelli della filosofia, un certo ‘timore’ anche solo a nominare certe condizioni ‘esterne’ di autori la cui opera si vorrebbe frutto di un’indagine asettica e scevra da qualsiasi ‘contaminazione’ con elementi personali caratteriali etc, soprattutto quando questi assumono il rilievo di una vera e propria patologia psichica. A proposito della ‘nevrastenia’ di cui soffrì James come ‘fenomeno sociale’ Cfr. H. Feinstein, The Use and Abuse of Illness in the James Family Circle; A View of Neurasthenia as a Social Phenomenon, “Psychohistory Review”, (1979), pp. 6-14.

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Nel 1861 William James, come abbiamo visto, invece di partecipare al conflitto appena esploso, si era iscritto alla Lawrence Scientific School. La sua salute era già stata in parte messa in crisi l’anno precedente, durante lo stage nello studio di Hunt, ma non in maniera tale da non consentirgli di partecipare alla guerra. Abbiamo già accennato alle varie cause che potrebbero spiegare il mancato arruolamento del giovane William, ma quali furono poi gli effetti? Forse fu proprio uno dei più cari amici di James a dare la migliore risposta a questa domanda: Oliver Wendell Holmes Jr.30aveva partecipato alla Guerra Civile distinguendosi per il coraggio dimostrato sul campo; egli riconobbe quest’esperienza, per quanto tragica, estremamente salutare: la guerra lo aveva aiutato a risolvere numerosi problemi che sembrano essere identici a quelli di cui soffriva James ⎯ incapacità di scegliere, ‘mania’ di dubitare di tutto e soprattutto di se stesso ⎯ e gli aveva dato quella forza e quella disciplina, quel senso del dovere e quell’autostima che gli permisero di arrivare fino alla Corte Suprema degli Stati Uniti d’America. James, al contrario, non aveva rischiato la propria vita per la patria e aveva lasciato ai fratelli minori l’onore di distinguersi sul campo. Per Cotkin, che ha dedicato un intero capitolo del suo libro a questo argomento31, la Guerra Civile ebbe sugli americani degli effetti notevoli, soprattutto di tipo psicologico, (sia su chi combatté sia su chi rimase a casa): chi combatté fu costretto a crescere più rapidamente, a prendersi delle responsabilità — gli amici e conoscenti di James, data la loro estrazione sociale, parteciparono ovviamente col grado di ufficiale — e, una volta finita la guerra, poté mettere a frutto la maturità raggiunta in tanti anni di sofferenza; si trattò in sostanza di una sorta di ‘rito di iniziazione’; a questo rito James non aveva partecipato, o meglio: non aveva voluto partecipare e questo, indubbiamente, non fece che accrescere la sua insicurezza e i suoi sensi di colpa, questa volta rivolti non più solo verso il padre, ma anche verso i suoi fratelli, i suoi amici e tutta la comunitàv

Quale fu dunque ‘la causa’ del periodo di depressione di James? Gli autori cui abbiamo fatto affidamento nelle pagine precedenti per cercare di rispondere a questa domanda hanno dimostrato chi implicitamente chi esplicitamente che non si può parlare di una causa, ma di un concorso di diversi fattori. Ciò che poi accomuna queste diverse interpretazioni è il tentativo di comprendere e in qualche modo di ‘giustificare’ la crisi depressiva di James in una maniera che potremmo definire non intellettualistica; né Cotkin, né Feinstein, né Bjork, per citarne solo alcuni, hanno ‘sottovalutato’ l’importanza che il problema filosofico del determinismo e della predestinazione ebbe per la crisi che il

Figlio di quell’ Oliver W. Holmes ch’era stato professore di James alla facoltà di medicina di Harvard. O. W. Holmes, Touched with Fire: Civil War Letters and Diary of Oliver Wendell Holmes Jr., 1861-1864, a cura di mark De Wolfe Howe, Harvard University Press, Cambridge 1947 e Id., The Mind and Faith of Justice Holmes:; His Speeches, Essays, Letters and Judicial Opinions, a cura di Max Lerner, Little, Brown and Co., Boston 1951. 30

31

G. Cotkin, op. cit., cap. II, pp. 19-39.

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giovane William James dovette attraversare dopo il conseguimento della laurea, ma tutti hanno dimostrato l’importanza di quei fattori esterni che nella critica precedente non erano stati affatto tenuti in considerazione, o comunque erano stati notevolmente sottovalutati; la vulgata del Perry, secondo cui il fattore fondamentale che scatenò la ‘nevrastenia’ ⎯ nella sua forma cronica e non in quella acuta ⎯ di James fu un problema etico-filosofico, quello del determinismo (e, a esso strettamente legato, quello religioso della predestinazione) e la ‘cura’ la lettura dell’opera di Renouvier è, alla luce della critica più recente, difficilmente sostenibile. Questo non vuol dire affatto che il problema della libertà dell’uomo non fosse in questi anni, per William James, il problema per eccellenza; lo fu, ma considerarlo come la causa di un malessere che ebbe ragioni familiari, psicologiche — se non addirittura psicoanalitiche — sociali ed economiche sarebbe fuorviante, non tanto per la comprensione della vita del filosofo, quanto per quella del suo pensiero, che manterrebbe così quella dimensione ‘magica’ di risposta perentoria a problemi esistenziali, senza però potere spiegare con i medesimi strumenti il prosieguo di quella ricerca ⎯ di una filosofia della libertà, ma non solo ⎯ che accompagnerà William James per tutta la vita. Nel tentativo di trovare ragioni ‘esterne’ a una crisi che fino a pochi decenni fa era vista come qualcosa di squisitamente spirituale si nasconde però il rischio di dimenticare quanto fossero strettamente legate filosofia e vita già nel giovane James32. Nessuno ha in effetti negato l’esistenza di questo legame, tantomeno il Perry cui dobbiamo la maggior parte di ciò che ancor oggi conosciamo della vita del nostro autore; il difficile è forse cercare di capire di che tipo di legame si tratti. Ora che abbiamo mostrato quali furono, o poterono essere, le cause ‘esterne’ degli anni bui di James dobbiamo tornare a quell’ipotesi che abbiamo definito ‘spiritualistica’ e, solo dopo averne mostrato le incongruenze ⎯ oltre che i meriti ⎯ potremo cercare di porci in una prospettiva meno parziale, per quanto provvisoria, per affrontare la ‘filosofia della libertà’ di William James: il suo rapporto con Charles Bernard Renouvier, il suo interesse per il tema della libertà e del determinismo, la sua decisione di affrontare questi argomenti prima di tutto in un’opera di psicologia, l’importanza dell’evoluzionismo darwiniano, il fatto che il problema della libertà rimase vivo e fertile anche nelle sue ultime opere, scritte in anni apparentemente così lontani dai suoi ‘anni bui’.

Coloro che sottovalutano l’importanza della depressione di James in relazione al suo pensiero futuro non solo assumono un approccio testuale che ‘va stretto’ al filosofo americano: chi non vuole occuparsi di James ‘uomo’ o comunque chi ritiene che la sua filosofia non abbia bisogno di una contestualizzazione non solo culturale, ma anche personale, rischia di dare per scontata un’interpretazione ‘preconfezionata’ del rapporto fra filosofia e vita, magari quella fornita dallo stesso William James, che determina inconsapevolmente l’analisi del testo filosofico. L’importanza attribuita a questi anni di depressione e il loro ruolo nello sviluppo della personalità di James appaiono strani nella nostra era di pura testualità. [...] Anche Wittgenstein era incapace di separare il James uomo dal testo filosofico. G. Cotkin, op. cit., p. 19. Anche per Dewey non avrebbe alcun senso separare gli scritti di James dalla sua vita : Un’esposizione di William James come filosofo non può [...] prescindere dallo svolgimento di William James uomo, da come questo svolgimento è stato influenzato dalle sue relazioni familiari, dalla sua educazione non formale ma vitale e dai suoi vari contatti con professioni e uomini. J. Dewey, I Problemi di tutti, cit., p. 462. 32

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2.2.3 Le due ipotesi a confronto — per una cronologia rivisitata Nell’esposizione delle ipotesi interpretative prese in esame per sostenere un’eziologia esterna della depressione di James non abbiamo rimarcato quella distinzione che invece ora, accingendoci ad affrontare definitivamente la validità dell’interpretazione spiritualistica, dobbiamo ricordare: il termine depressione — ma anche melanconia, mania dubitativa, etc. — viene spesso usato dai critici per fare riferimento a periodi e a situazioni ben distinte della vita di William James: a volte si parla della depressione di James in riferimento a un singolo avvenimento, che poi sarebbe quello celato dietro ‘l’episodio dell’epilettico’, a volte invece in relazione a un lungo periodo della vita di James. È evidente che ciò che può servire per comprendere una situazione isolata e di durata estremamente breve può risultare insufficiente per comprendere una condizione molto più estesa nel tempo e più complessa33; le varie cause ‘esterne’ di cui abbiamo parlato sopra non sono in grado — tantomeno singolarmente prese — di dare ragione di quello che potremmo definire, con gli strumenti clinici di oggi, un attacco di panico. Anche chi pensa che furono più che altro situazioni di vita — per utilizzare la terminologia della psichiatria contemporanea — a provocare la depressione di James, fa riferimento al periodo di crisi di James e non al momento, alla sua fase acuta. Lo stesso Perry ha messo in strettissimo rapporto la crisi dell’epilettico con quella di Renouvier per un’esigenza di semplificazione e di schematizzazione ch’è in qualche modo necessaria per non perdere il filo in una vicenda così complessa. Per il Perry, il momento non sarebbe che l’apice, raggiunto da James all’inizio del 1870, di quel periodo che durava già da quasi un anno; questa crisi, che fu più psichica che spirituale, più fisica che mentale, sarebbe comunque il simbolo, l’emblema di tutto il periodo nero che James stava affrontando. A noi non interessa capire tanto quali furono le circostanze contingenti che, secondo l’autore di The Thought and Character of William James, acutizzarono la depressione di James pochi mesi dopo la laurea — anche se, come vedremo, gli studiosi discordano anche sulla data del momento — , quanto di comprendere la spiegazione del Perry, e di quelli che lo hanno poi seguito sulla medesima strada, intorno alle cause del periodo.

La cronologia dei fatti è però fondamentale: grazie a una ben precisa contiguità temporale (che in parte metteremo qui in discussione) molti critici hanno posto in stretta relazione (causale) la crisi acuta di James con la sua supposta ‘soluzione’ in seguito alla lettura dell’opera di Charles Renouvier; per fare

33 Ovviamente vale anche l’opposto; il Perry, come abbiamo visto sopra, è forse stato il primo a distinguere, nella depressione di James, fra cronicità e fasi acute, mostrando di essere maggiormente interessato alla prima piuttosto che a quest’ultime; anche noi, pur assumendo una prospettiva differente dal protégé di James, abbiamo seguito questa distinzione.

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chiarezza su questi ‘anni bui’ cercheremo di seguire da vicino la recentissima interpretazione di Louis Menand.

La tentazione naturale è quella di vedere l’episodio del paziente epilettico come la crisi per cui la lettura di Renouvier fu la cura. Questo è ciò che fece Henry, figlio di James [e curatore del suo epistolario]: egli suggerisce l’ipotesi che la visione del paziente epilettico sia riferibile all’inverno 1869-1870 e che il passaggio nel suo diario in data 30 Aprile 1870 segni il risollevarsi di James dalla sua crisi. Ralph Barton Perry, collega di James a Harvard e poi suo biografo ufficiale, unisce allo stesso modo i due episodi nella sua opera [The Thought and Character of William James (1935)]: egli chiama l’episodio di Renouvier il “punto di svolta” della “crisi spirituale” di James e data l’episodio del paziente epilettico nel 1870, poco prima della ‘conversione’ a Renouvier. Molti biografi hanno seguito questa linea interpretativa34.

Il fatto che quest’interpretazione segua a una “tentazione naturale” non è certo garanzia di validità. C’è da dire prima di tutto che di questo episodio — l’episodio dell’epilettico — sappiamo ben poco. Lo stesso Henry James, curatore delle lettere del padre, seppe dell’autobiograficità del fatto — oggi non più in discussione35 — allo stesso modo degli altri, cioè attraverso il libro di Flournoy; noi possiamo oggi affermare che l’episodio può essere indicativo di un periodo molto esteso, che va dal 1861 al 1878, data del matrimonio con Alice Gibbens. Barzun — insieme con il Perry e tanti altri — sembra essere invece certo della data e colloca la crisi di James all’inizio del 1870, giusto pochi mesi prima della ‘conversione’ a Renouvier36. Feinstein, al contrario, in un articolo pubblicato nel 1981 avanza addirittura l’ipotesi che l’episodio del paziente epilettico accadde dopo la lettura dell’Essay di Renouvier37! Ma anche se Feinstein si sbagliasse, e anche se in effetti fosse vero che James raggiunse l’apice della depressione poco prima della lettura di Renouvier, rimane un fatto: che lo stesso William, nell’estate del 1870 — e cioè mesi dopo la ‘conversione’ a Renouvier — scriveva al fratello Robertson che i sintomi di miglioramento si erano

34

L. Menand, William James & the Case of the Epileptic Patient, cit., p. 9.

35 Che motivi avrebbe avuto James di attribuire alla sua persona quell’episodio? L’unica ragione sarebbe quella di nascondere l’identità di qualche suo amico o parente, ma anche in questo caso avrebbe potuto agevolmente riferire la memoria a un anonimo paziente di qualche collega. 36 Cfr. Jacques Barzun, A Stroll With William James., Harper and Row, New York 1983, p. 313. Barzun non fornisce però elementi di prova per la sua teoria; del periodo in questione infatti — dal Dicembre del 1869 all’Aprile del 1870 — non ci sono testimonianze di una qualche visita di James a istituti di cura per malattie mentali. Lo stesso Perry ha molte meno certezze di Barzun; sebbene egli propenda per collocare la data dell’episodio all’inizio degli anni ’70, riconosce che potrebbe tranquillamente cadere in un qualsiasi momento fra il suo ritorno dall’Europa e il definitivo miglioramento della salute del 1872. TCBV p. 120.

H. M. Feinstein, The “Crisis” of William James; A Revisionist View, “The Psychhistory Review”, 10 (1981). Feinstein ritiene che l’episodio di Renouvier” non rappresenti il momento della ‘rinascita’, ma sia al contrario l’avvisaglia di una crisi che stava per abbattersi sulle spalle di William James. questa crisi sarebbe giunta nel 1872, due anni e mezzo dopo la data attribuita con certezza da Barzun e dal Perry; come ricorda Menand, quest’interpretazione, per quanto possa a tutta prima sembrare azzardata — soprattutto perché sconvolge la precedente cronologia — è difesa anche da Ignas Skrupskelis e Elizabeth M. Berkley, curatori della monumentale edizione dell’epistolario jamesiano. 37

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risolti in un nulla di fatto. Mesi dopo la ‘conversione’ a Renouvier James si trovava insomma in quella situazione di disperazione che lo accompagnava ormai da tempo. Non solo, il brano che viene spesso citato come ‘prova’ dell’importanza ‘terapeutica’ della lettura dell’opera di Renouvier per il giovane James, a una lettura più attenta si rivela essere un’arma a doppio taglio: ci riferiamo alle già citate parole di Henry Sr. Interessa qui riprenderle:

William è venuto a trovarmi l’altro pomeriggio, mentre stavo da solo e, dopo aver camminato nervosamente per qualche istante mi ha detto: “Benedici la mia anima; che differenza tra come sto ora e come stavo la primavera scorsa! Allora ero così ipocondriaco, e oggi la mia mente così illuminata e di nuovo sana. È come la differenza tra la vita e la morte”. Era molto espansivo. Temevo di interferire con questa sua gioia, ma mi sono arrischiato a domandargli che cosa lo avesse prodotto in lui un tale cambiamento. Ha fatto riferimento a molte cose: la lettura di Renouvier (in particolare la sua difesa della libertà del libero arbitrio) e di Wordsworth [...], ma più di ogni altra cosa, l’avere abbandonato l’idea che tutti i disturbi mentali [mental disorders] debbano avere un’origine fisica38.

Di quest’importante testimonianza vanno sottolineati almeno sei punti: 1) William James attribuisce il proprio miglioramento psichico ⎯ che noi sappiamo non esser mai indipendente dalle sue condizioni fisiche ⎯ alla lettura, allo studio di alcuni autori e alla soluzione di alcuni problemi psico-fisiologici; 2) fra gli autori citati James fa esplicitamente riferimento alla lettura di Renouvier (in particolare alla sua difesa della possibilità di una volontà libera); 3) James fa esplicitamente (e genericamente) riferimento anche alla lettura di Wordsworth; 4) James dice che più di tutto lo ha aiutato l’avere abbandonato l’idea che tutti i disturbi mentali debbano avere un’origine fisica; 5) Henry Sr. riporta solo alcune delle molte cose di cui gli parlò il figlio (certamente non esaurite in queste tre qui citate) e, visto che delle altre ‘cose’ non è detto nulla, rimane il dubbio se la ‘selezione’ operata dal padre sia il frutto più di un suo interesse che dell’effettiva importanza data dal figlio a questi fattori. 6) c’è infine la questione cronologica: James si riferisce alla primavera passata (quella del 1872) come a un periodo decisamente negativo, ma il fatto è che secondo la ‘versione tradizionale’ che vede nella ‘conversione’ a Renouvier la rinascita del nostro, il miglioramento doveva essere cominciato ⎯ senza mai essere veramente interrotto — ben due anni prima.

Solo i primi due punti sembrano favorire un’interpretazione ‘spiritualistica’. C’è poi da sottolineare il fatto che il nostro autore, all’inizio degli anni ’70, non conosceva che una piccola parte dell’opera di

38

LWJ I, pp. 169-170.

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Renouvier, né egli riuscì in seguito a colmare al proposito le lacune che anzi si allargarono vieppiù. Nonostante James faccia esplicitamente riferimento ad altre ‘cause’ del suo rinnovato benessere, oltre alla lettura dell’Essai di Renouvier, la maggior parte dei commentatori ha ‘isolato’ la figura del filosofo francese attribuendogli un ruolo superiore a quello che le stesse parole di James sembrerebbero suggerire. Non bisogna poi dimenticare che William James ebbe sempre la tendenza a ‘glorificare’ gli autori che ai suoi occhi erano stati più importanti per il suo sviluppo intellettuale: le lettere di James sono piene di passaggi in cui il personaggio cui si rivolge sembra, di volta in volta, essere il più importante per la sua filosofia e per la sua stessa vita. Il 2 Novembre del 1872 il nostro autore scrive a Renouvier:

Io sono convinto che ogni anno si avvicinerà il giorno in cui Voi sarete riconosciuto come il più grande tentativo filosofico che questo secolo abbia visto nascere in Francia e che Voi verrete considerato per sempre come uno dei grandi ‘jalons’ nella storia della speculazione39.

Nessuno può seriamente mettere in dubbio la sincerità delle parole di James, ma spesso esse rappresentano il modo a lui più consono per esprimere una profonda ammirazione40; altre volte i suoi elogi, che possono quantomeno apparire eccessivi, sembrano essere finalizzati ad avvicinare alla propria filosofia quegli autori ch’egli riteneva utili alla propria ‘causa’. Lo stesso succederà in seguito con Schiller e Dewey nel tentativo di fare accettare a un vasto pubblico la dottrina pragmatica, in un momento in cui essa raccoglieva più critiche che consensi.

Se Renouvier ebbe dunque un influsso positivo sulle condizioni di salute41 di William James, di certo questo non durò a lungo e non fu affatto decisivo. Numerose sono le testimonianze dello stesso James riguardo a un protrarsi della sua depressione fino all’anno 187242: James stava combattendo contro i suoi demoni ancora due anni e mezzo dopo la lettura di Renouvier. Se Renouvier fu fondamentale per la futura elaborazione della filosofia indeterministica e pluralistica di James, certamente non rappresentò una ‘cura’ — tantomeno definitiva — per la sua malattia.

39

LWJ I, p. 164.

Anche chi leggesse distrattamente solo una parte del suo immenso epistolario si troverebbe continuamente di fronte a passi che sembrano fare dei personaggi cui James fa riferimento i veri ‘ispiratori’ del suo pensiero (o quanto meno di una sua parte importante): questo ruolo spettò di volta in volta a Hodgson, Münsterberg, Wright, Peirce, Mach, Flournoy, Delboeuf, Pillon, Bergson e tanti altri. 40

Qui non si sta mettendo in dubbio infatti l’importanza, indiscutibile, ch’ebbe la dottrina del filosofo francese per il pensiero di James. 41

42

Cfr. LWJ I, capp. V e VI.

122


Contro l’interpretazione ‘classica’ dobbiamo poi ricordare un’ipotesi, sostenuta per la prima volta nel 1979, nella sua dissertazione di laurea, da William James Anderson43 e poi ripresa da Robert J. Richards44, Howard Feinstein e Alfred Kazin45 e, ancor più di recente, dalla Simon46: William James sarebbe stato ricoverato — per un periodo tra il 1866 al 1872 — in un ospedale psichiatrico, e più precisamente al McLean Asylum, di Somerville, nel Massachusetts, non distante dalla casa dei James. Questo fatto, comunque tutto da provare, fornisce a Menand il destro per diminuire ulteriormente l’importanza di Renouvier nella risoluzione della crisi di James — di cui il ricovero sarebbe presumibilmente il momento peggiore — : un ricovero in un ospedale psichiatrico non sarebbe per Menand facilmente giustificabile come effetto della frustrazione con ciò che era, dopo tutto, un classico problema filosofico, e cioè se la volontà sia libera o meno47. In sostanza, la gravità48 delle condizioni di James — di cui si 43 William Anderson, William James Depressive Period (1867-1872) and the Origins of His Creativity: a Psychobiographical Study, University of Chicago; Anderson ha pubblicato anche un articolo sull’argomento, intitolato The Worst Kind of Melancholy; William James in 1869, cit. Per quanto concerne il periodo in cui James poté essere ricoverato Menand cita Kim Townsend, autore di Manhood at Harvard. William James and Others, Norton, New York 1996 che pone il ricovero di James prima del 1870.

Robert J. Richards, The Personal Equation in Science: William James’s Psychological and Moral Uses of Darwinian Theory, “Harvard Library Bullettin”, 30 (1982), pp. 387-425; l’articolo anticipa il voluminoso Darwin and the Emergence of Evolutionary Theories of Mind and Behavior, cit. 44

Alfred Kazin, William James: To Be Born Again, “Princeton University Library Chronicle”, 54 (1930), p. 248. Kazin cita come fonte lo psicologo di Harvard Henry A. Murray. 45

La Simon tratta del possibile ricovero di William James in una lunga nota della sua biografia, senza riuscire a raggiungere una conclusione (cfr. L. Simon, op cit., pp. 121-122). Gli ‘indizi’ a favore dell’ipotesi di Anderson sembrano essere numerosi; oltre alla testimonianza di Henry A. Murray (cfr. nota prec.), la Simon cita una psichiatra (certa Ruth Tiffany Barnhouse) che, lavorando al McLean negli anni ’50, avrebbe avuto modo di costatare che William James venne ricoverato molte volte e sottoposto a un trattamento antidepressivo. Questa testimonianza troverebbe poi conferma nelle parole di William Herbert Sheldon, anch’egli impiegato al McLean. Di fatto Sheldon riferisce di avere visto i documenti del ricovero di William James senza fare riferimento ad alcuna data. La Simon, pur non mettendo in dubbio la buona fede di Sheldon, ipotizza che quest’ultimo si sia potuto confondere con William James figlio del nostro autore (1882-1961) anch’egli sofferente di crisi depressive. Kim Townsend, poi, cita una lettera di Henry Sr. al figlio Harry in cui si parla di una “esperienza” di William al “Somerville Asylum”, ma, a prescindere dal fatto che non è chiaro nella frase se sia William il soggetto cui si riferisce questa “esperienza”, William avrebbe potuto frequentare l’ospedale per motivi di ricerca o, più semplicemente, per andare a trovare un amico ricoverato; cfr. Kim Townsend, op. cit., p. 43. È vero poi che ci sono delle notevoli lacune nella corrispondenza di James (27 Gennaio 1870- 4 Marzo 1870 e 29 Dicembre 1870- 8 Aprile 1871) che potrebbero essere giustificati proprio da un ricovero al McLean. Anche Richards dichiara di avere contattato direttamente il McLean Asylum senza ricevere però alcuna informazione veramente utile; egli aggiunge poi di essersi informato anche con qualcuno che aveva lavorato nell’archivio dell’Ospedale e di avere ottenuto la conferma di un ricovero di William James; Richards però, oltre a mantenere anonima la sua fonte, non è in grado di fornire dettagli importanti come la data di ricovero e di dimissioni, la durata del ricovero etc. Cfr. R. J. Richards, op. cit., p. 415, n. 21. 46

47

L. Menand, William James & the Case of the Epileptic Patient, cit., p. 17.

Allen, nella sua biografia, ricorda come anche i familiari di William James non sapessero mai bene quali fossero le sue reali condizioni di salute: Prima che Henry [Jr] ritornasse a Cambridge [dal proprio viaggio in Europa] in Maggio [1870] egli aveva potuto apprendere che William aveva sofferto un altro collasso nervoso — come quello di Gennaio, ma Henry non sapeva mai quanto William esagerasse la gravità delle proprie condizioni e non aveva perciò realizzato la gravità della situazione. G. W. Allen, op. cit., p. 161. Questa confusione era aggravata dal fatto che, mentre delle volte accentuava i propri sintomi, delle altre James cercava in tutti i modi di nascondere la gravità della situazione: quest’ultimo atteggiamento, improntato a una forma di stoicismo — elaborato consapevolmente durante i primi tentativi di risolvere “con la forza della volontà” la propria nevrosi — lo avvicinava alla sorella Alice che, come abbiamo visto, appariva serena e felice, o per lo meno cercava di apparire tale, anche 48

123


potrebbe dubitare data la sua tendenza, già rilevata precedentemente, a ‘sfruttare’ le proprie cattive condizioni di salute — sarebbe la prova definitiva che non si trattò affatto di una crisi ‘spirituale’ ma di un serio disturbo psichico, difficilmente curabile con la lettura di un capitolo di un’opera filosofica. Il fatto che James sia stato ricoverato o meno in un istituto di cura per ‘malati di nervi’ — come allora si diceva — non pare a noi, come nemmeno alla maggior parte dei critici49, di cruciale importanza e lo sarebbe solo se ipotizzassimo una costante e prolungata (quanto improbabile) simulazione a proposito delle sue condizioni di salute50: i suoi riferimenti più o meno espliciti alla possibilità di togliersi la vita solo difficilmente possono essere ritenuti delle ‘esagerazioni’:

Egli era depresso, irritabile, emotivamente esausto. Soffriva di mal di schiena e di gastriti croniche. Non era in grado di concentrarsi. Confidò al padre [siamo nel 1866] che era arrivato a pensare al suicidio. Ma tranne [il fratello] Henry e i suoi genitori, nessuno conosceva le sue condizioni di salute51.

Mentre si trovava a Bad Teplitz, James scrisse al padre, confessandogli che i pensieri suicidi continuavano a presentarglisi alla mente e che sentiva l’esigenza di una svolta importante, decisiva52. Anche nel Gennaio del 1868, confessando all’amico Tom Ward la gravità delle sue condizioni, fa esplicitamente riferimento al suicidio53. Sebbene in età matura James non pensò più ‘concretamente’

nei momenti di massima disperazione. James, che amava molo conoscere la biografia degli autori che studiava, provava sentimenti di grande rispetto e ammirazione per quegli uomini che erano riusciti a superare grandi ostacoli prima di raggiungere una vita serena, o che comunque si erano ‘battuti’ virilmente contro i propri demoni; anche quando furono trascorsi molti anni dal primo e più grave periodo depressivo (1869-1872 ca.), proprio perché consapevole della sofferenza psicologica cui ogni uomo può andare incontro nella propria esistenza, James scriverà parole di elogio per Charles Darwin, una figura che, come vedremo, egli amò molto sia dal punto di vista scientifico che umano: Egli [James] ammirava profondamente gli uomini che erano riusciti a sconfiggere i propri demoni interiori e a superare le costrizioni sociali. “ Ho appena finito di leggere la vita di Darwin” scrisse un giorno a un amico, “ e, mentre il suo sistema nervoso fa della malattia nervosa qualcosa di rispettabile, la sua storia chiude la bocca a tutti gli uomini inferiori che si lamentano del proprio stato... e fa sembrare tutto facile”. L. Simon, op. cit., p. xxi. (WJ a George Croom Robertson, 22/8/1888 Houghton Library). 49 La stessa Simon, pur avendo svolto direttamente ricerche sul possibile ricovero di James dichiara infine che le fonti migliori per comprendere lo stato mentale di James rimangono le sue stesse parole. L. Simon, op. cit., p. 122n. 50 Anche quei critici che, come Feinstein, interpretano la malattia di James come un necessario ‘espediente’ per ottenere dei privilegi (come quello di viaggiare) non disconoscono affatto la gravità delle sue condizioni di salute: anzi, una certa ‘esagerazione’ dei sintomi sarebbe tipica del suo quadro clinico. 51

Ivi, p. 101.

52

Cfr. LWJ I. pp. 95-96; James parla qui di continui pensieri della pistola e del pugnale.

53 Il brano di questa lettera è citato molto spesso dagli studiosi di James; la lettera è riportata per intero in LWJ I, pp. 127-133. Lewis scrive: Non c’è alcun dubbio che, costantemente per quanto riguarda l’anno 1867 e a intervalli per parecchi anni a seguire, William visse col pensiero del suicidio. R. W. B. Lewis, op. cit., p. 185. Dopo aver citato la lettera a Ward (cfr. nota prec.) e quella al padre — scritta, secondo Lewis, anche al fine di assicurarsi le spese del viaggio per Teplitz — Lewis ricorda come William, ormai a Dresda (Maggio 1868) cercò di dare un aspetto filosofico e razionale ai propri pensieri di morte che lo accompagnavano ormai da molti mesi: [...] William cercò di definire la sua “condizione presente” a Wendell Holmes [Jr] in termini filosofici generali: “Che ragioni puoi dare per continuare a vivere? Che base perché il filo della tua esistenza non sia tagliato ora?”. Ibidem.

124


“alla pistola e al pugnale”, mantenne certamente viva la propria sensibilità rispetto a questo argomento e di certo non si scordò dei pensieri avuti in gioventù. In una lettera a Paul Blood del 28 Giugno 1896 James scrive che ogni uomo con una certa educazione si è ‘trastullato’ con l’idea del suicidio54. Le considerazioni di James intorno alla possibilità di compiere il gesto estremo datano comunque molto prima della fine dagli anni ’60: poco dopo la sua iscrizione alla Lawrence egli, dopo aver letto Balzac e Stendhal, scrive sul suo taccuino una nota, abbastanza criptica, sul “suicidio, moralmente, realmente considerato”;

La lettura di Stendhal in particolar modo potrebbe avergli posto la questione del suicidio. Questa è la prima volta in cui James accenna all’ipotesi di togliersi la vita, un’ipotesi che alla fine degli anni ’60 sarebbe diventata una vera ossessione55.

Anche Menand ritiene la possibile ospedalizzazione del giovane James un elemento non decisivo, ma se ne serve comunque per sostenere la tesi che i disturbi psichici di James non sono affatto riducibili a ‘manie filosofiche’.

Nel Marzo del 1870, proprio nel periodo più nero della sua depressione, William aveva cominciato a lavorare a una filosofia di un crudo esistenzialismo, che di certo non gli forniva una grande consolazione, una sorta di stoicismo dove la soluzione alle proprie sofferenze stava nell’accettazione e nella sopportazione del male: sicuramente sono qui rintracciabili influssi di Marco Aurelio56, ma anche

LWJ II, p. 39. James disse le stesse parole alla notizia del suicidio della morte della moglie di Henry Adams, nel 1866. Cfr. P. Diggins, op. cit. p. 112. Sicuramente James non mancò di osservare, nelle sue vaste letture, come molti uomini di lettere avessero riflettuto a lungo e si fossero tormentati con l’idea del suicidio: egli, come Tolstoji, considerò per lungo tempo l’ipotesi del suicidio.. Richard R. Niebuhr, William James on Religious Experience, in Ruth. A. Putnam (a cura di), The Cambridge Companion to William James, Cambridge University Press, Cambridge 1997, p. 225. 54

55 D. Bjork, op. cit., p. 44. Cotkin ricorda come per la generazione di James il suicidio fosse qualcosa di più di un gesto disperato: Dopo tutto, i suicidi di fin-de-siècle e i suicidi potenziali soffrivano di una mania dubitativa simile a quella che aveva afflitto James. La tendenza di James verso il gesto estremo era commisto alla tendenza culturale del tempo di tradurre il suicidio in un eroismo moderno o in un peana alla prova ultima dell’autonomia [dell’uomo] in un mondo squallido. G. Cotkin, op. cit., 89. Paradossalmente, il gesto estremo richiedeva però quel dominio della volontà sulla vita di cui James si sentiva privo: In altre parole, se uno adotta l’alternativa del “moralismo” [e dunque dell’essere uomini morali], sia che questo si risolva nella speranza di sconfiggere il male, sia che si risolva nella decisione di morire coraggiosamente, in ogni caso si ha bisogno di quella “forza di volontà” che nasce dalla consapevolezza di essere liberi. TCWJ I, p. 323. 56 Cfr. anche R. W. B. Lewis, op cit., p. 179. James inizialmente aveva cercato conforto filosofico nel pensiero dei greci antichi, ma senza effettivamente trovare la risposta che cercava: Mentre infatti i Greci erano orientati verso una vita d’azione ed eroica, essi erano anche, come James avrebbe riconosciuto in seguito, colpevoli di una mentalità ‘once-born’. Non avendo raggiunto gli abissi della disperazione della vita, i Greci, secondo James, avevano una concezione della natura e dell’esistenza troppo semplicistica. Sebbene infatti dovessero essere ammirati ed emulati come uomini d’azione, essi, alla fine, risultavano soffrire di una “limitazione intellettuale”. G. Cotkin, op. cit., p. 58. Secondo Allen però, questo atteggiamento stoico di James deve essere riportato alla sua prima educazione, dove — come abbiamo visto — fu preponderante la figura paterna; questo sarebbe poi confermato dal fatto che la stessa Alice (la sorella) tenne sempre un contegno di disprezzo per le proprie malattie (probabilmente ‘ispirato’ inconsapevolmente 2 da Henry Sr., che per tutta la vita cercò di ignorare il fatto di non avere una gamba). Cfr. G. W. Allen, op. cit., p. 145. 125


di Emerson, che in The Conduct of Life, esaltava il coraggio verso il fato e immaginava una lotta del fato contro il fato; Fu ora che William prese ancora tra le mani le opere di Renouvier, che aveva scoperto due anni prima, e finalmente trovò quel che cercava.57. Per Allen dunque la ‘scoperta’ di Renouvier non fu affatto casuale; William James, in quei mesi del ’70, era a quanto pare alla disperata ricerca di una filosofia, di un pensiero, che potesse aiutarlo a superare le propria difficoltà psicologiche, ch’egli vedeva legate a doppio filo col problema della libertà e del determinismo. Il fatto che questa ricerca fosse “disperata” non gli forniva certamente quella serenità di giudizio necessaria per cogliere l’importanza e soprattutto il valore di un’opera; sembra quasi che Renouvier sia capitato ‘al momento giusto’, in un momento cioè in cui il requisito fondamentale di un autore, per suscitare l’attenzione di James, era quello di sostenere la possibilità della libertà dell’uomo; gli argomenti addotti, almeno in questa prima fase, assumevano certamente un’importanza relativa. Anche per questo l’influsso di Renouvier — pur rimanendo imprescindibile per comprendere il pensiero futuro di James, soprattutto quello della Will to Believe — deve a nostro parere essere notevolmente ridimensionato, per lo meno per quanto riguarda la sua importanza ‘terapeutica’.

Tutti coloro che hanno fatto del legame tra la crisi dell’inizio del 1870 e della successiva ‘crisi’ di Renouvier il caposaldo per la propria teoria interpretativa debbono inoltre fare i conti con il fatto che di questo periodo — e non solo dell’episodio ‘acuto’ — abbiamo pochissime informazioni certe: La maggiore difficoltà nel farsi un’idea corretta intorno agli avvenimenti di questi anni è costituita dal fatto che gran parte delle pagine del diario di James sono andate perdute. [...]58. Menand ipotizza che queste pagine siano state tagliate, da James stesso o più probabilmente dalla moglie; più precisamente le pagine che mancano riguardano il periodo post-laurea, quando James andò in vacanza in Connecticut. C’è da dire inoltre che di questo lasso di tempo non abbiamo nemmeno la consueta fitta corrispondenza di James ad aiutarci nelle nostre congetture: del periodo che va dal 25 Luglio del 1870 fino al 30 Marzo del 1872, quasi due anni, ci sono rimaste solo quattro lettere. Può essere che James non abbia scritto, in questo periodo, a causa dei suoi problemi alla vista, ma è più probabile che le lettere siano state fatte sparire così come le pagine del diario.

57

G. W. Allen, op. cit., p. 168.

58

L. Menand, William James & the Case of the Epileptic Patient, cit., p. 29.

126


Menand è poi dell’avviso, d’accordo con la Simon, che l’episodio dell’epilettico, per quanto reale, debba essere considerato in qualche modo ‘rimaneggiato’, per lo meno nella parte finale, dove si fa riferimento all’invocazione alle sacre scritture per la soluzione della crisi di panico. In effetti sembra che si tratti più che altro di una storia adatta — ovvero adattata — a un libro, come le Varieties, che tratta di esperienze religiose, anche singolari. Una delle conclusioni di Menand, totalmente condivisibile, è dunque questa: “[...] la versione della crisi di James [quella che viene identificata con il ricordo del paziente epilettico, per intenderci] data dal figlio Henry nell’edizione delle sue Letters e quella del suo protégé Ralph Barton Perry nella biografia del 1935 è in sostanza una versione autorizzata.59. L’identificazione dell’episodio dell’epilettico con l’esperienza personale di James, oltre ad avere favorito, grazie anche a una cronologia quanto meno dubbia, la sopravvalutazione del ruolo di Renouvier per la vita e — indirettamente — per la filosofia di William James, ha poi contribuito ad attribuire al nostro autore una dimensione religiosa che certamente non gli appartenne: che James infatti si sia sollevato dalla sua crisi grazie prima di tutto a un appello a Dio non è giustificato da nessun documento né dagli stessi scritti di James: Non c’è nulla nella corrispondenza del periodo da cui si possa trarre una qualche conclusione intorno a una conversione di James; al contrario, egli insiste sulla sua incapacità a partecipare a riti religiosi e sui suoi dubbi sull’esistenza di Dio

60.

L’esplicito, quanto ambiguo, riferimento dell’immaginario corrispondente francese ha invece fatto credere a molti critici che fu proprio la fede in Dio a dare al giovane James la forza necessaria per uscire dal suo stato di crisi. George Cotkin è fra questi:

Quando James tremò di fronte al suo “timor panico”, egli invocò Dio [...]. Sebbene comunemente si interpreta la ‘guarigione’ di James come il risultato dell’accettazione della filosofia della libertà di Charles Renouvier e di quella dell’abitudine di Alexander Bain, la salvezza nacque inizialmente da un appello emotivo a Dio61.

James, al contrario non ebbe mai una vera fede religiosa. Una lettera del professor James a H. Leuba del 17 Aprile 1904 sembra non lasciare dubbi in proposito:

59

Ivi, p. 34.

L. Simon, op. cit., p. 127. Ramsey, al contrario, sembra affidare a un profondo sentimento religioso l’unica possibilità per James di emergere da una condizione di “radicale melanconia”; il suo presupposto (che questa ‘radicalità’ non possa essere combattuta con armi ‘laiche’) lo porta necessariamente verso una visione squisitamente intellettualistica della crisi di James e soprattutto della sua ‘guarigione’: Il melanconico radicale, che vede tragedia e inconsistenza alla radice di ogni cosa, non potrebbe essere guarito da un cambiamento della sua vita abituale o da un qualche mutamento nelle abitudini della propria coscienza. Tutto questo sarebbe troppo umano. Ciò che veniva richiesto era, in un certo senso, un rimedio soprannaturale. Per una tale persona il mondo naturale si mostrava disunito, disintegrato. [..] B. Ramsey, op. cit., p. 95. 60

61

G. Cotkin, op. cit., p. 104.

127


La mia posizione personale è semplice. Io non possiedo alcun rapporto vivo con Dio. Invidio coloro che lo hanno, perché so che un sentimento del genere mi potrebbe aiutare enormemente. L’elemento divino, per la mia vita concreta, è limitato a concetti astratti e impersonali che , in quanto ideali, mi interessano e mi determinano, ma in una maniera molto più blanda in confronto a quel che potrebbe essere se avessi un vero sentimento religioso62. Spesso l’interesse – storico, teoretico e morale - del nostro autore per la religione e per il sentimento religioso fu scambiato per qualcosa di più profondo, o comunque di radicalmente differente63; il fatto che James abbia scritto un libro sulle “varie forme dell’esperienza religiosa” e il fatto ch’egli parlò del santo come dell’esempio massimo di moralità64 non vuol dire affatto ch’egli si ritenesse un uomo di fede, come non vuol dire naturalmente ch’egli si ritenesse un santo...Purtroppo anche in questo caso si è fatto riferimento più alle parole di chi gli stava vicino piuttosto che a quelle sue proprie: La moglie Alice non aveva mai messo in dubbio la religiosità di James: “Una volta egli mi disse” scrisse a un amico di James, “‘Io sono un uomo veramente religioso’ — e infatti tale egli era.”

65

Quest’amico era George Angier Gordon; la

Simon nel suo bel William James Remembered riporta un articolo di Gordon che sembrerebbe confermare le parole di Alice H. Gibbens66. Posto che la moglie sia sincera (cosa che non ci sentiamo di mettere in dubbio) e che ricordi bene le parole del marito, viene fatto però di dire ch’è decisamente strano che un uomo di quasi settant’anni debba dichiarare alla propria consorte di essere religioso. Se non glielo avesse detto, essa avrebbe forse avuto dei dubbi in proposito? È evidente, e lo era tanto più per James, che la religiosità, o sarebbe meglio dire la fede, non si manifesta con le parole, ma coi fatti, con le azioni: James interpretava la religiosità come una forma, la più elevata sicuramente, di moralità e quindi quando disse di essere religioso alla moglie, ch’era una donna molto pia, voleva presumibilmente dire in una maniera a lei più comprensibile ch’egli si riteneva un uomo morale, un uomo cioè che aveva fatto della

62

TCWJ II, p. 350.

Dooley, anche al proposito, ha acutamente sottolineato l’aspetto ‘umanistico’ del pensiero di William James: Secondo James uno studio sull’esperienza religiosa è importante prima di tutto perché ci dice qualcosa intorno alla natura dell’uomo piuttosto che a quella di Dio. P. K. Dooley, op. cit., p. 93. James era interamente conscio (come non lo sono stati invece molti filosofi della religione) che lo studio della religione non può essere un sostituto della realtà viva, dal momento che la conoscenza intorno a qualcosa non deve essere confusa con la cosa stessa. J. E. Smith, op. cit., p. 162. 63

64 James crede che i caratteri della santità siano indispensabili per raggiungere l’ideale etico. Il carattere santo [...] può essere chiamato la più alta forma d’esistenza umana, dal momento che il santo è massimamente adatto a vivere nella più elevata società immaginabile. J. K. Roth, op. cit., pp. 85-86. Nel santo James scopre l’apice della perfezione umana. Nella santità egli scopre il più alto sviluppo dell’evoluzione morale dell’uomo, un’evoluzione ch’è ottenuta con gli sforzi congiunti dell’uomo e degli uomini valorosi. P. B. Brennan, op. cit., p. 154. 65

L. Simon, op. cit., p. 387.

66 Id. (a cura di), William James Remembered, cit.; lo scritto commemorativo di George Angier Gordon (1853-1929) occupa le pagg. 46-49 e si intitola A Profoundly Religious Man. Alle pp. 43-45 la Simon fornisce un breve schizzo biografico dell’autore.

128


ricerca di un codice di comportamento giusto uno degli scopi della sua vita; questo però non ha nulla a che fare con un living commerce con Dio, per usare le parole di James67. Anche la testimonianza di Gordon, ch’era stato discepolo di James, ci pare poco convincente; riferendosi al suo vecchio professore come a un uomo profondamente religioso, scrive:

Il professor James era un uomo religioso, ma faceva di tutto per nasconderlo [perché poi?]: la verità comunque non può essere celata. Egli era troppo elevato, troppo fine, troppo profondo per potere essere qualcosa di meno di un uomo profondamente religioso68.

Qui però ci troviamo di fronte più a una deduzione che a una testimonianza, una deduzione che poi James non avrebbe sicuramente condivisovi.

La stessa idea di una ‘improvvisa’ conversione dal determinismo all’indeterminismo (ch’è parte integrante dell’approccio spiritualistico) può essere stata suggerita dal fatto che l’episodio dell’epilettico si colloca all’interno di un’opera in cui le descrizioni e le testimonianze di conversioni — da quella classica di S. Agostino a quelle meno conosciute di semplici, e forse immaginari, corrispondenti — sono moltissime; a guardar bene però, l’episodio dell’epilettico non tratta di alcuna conversione69. In conclusione: la religiosità di William James e la sua repentina ‘conversione’ all’indeterminismo (una sorta di ‘illuminazione’ intellettuale) sono stati suggeriti proprio dai contenuti e dallo spirito delle Varieties, piuttosto che dallo studio della sua vita e delle sue opere70.

Il fatto che James fosse “sull’orlo del suicidio71” nel 1870 — ma come abbiamo visto lo fu anche anni addietro — e il fatto che poi egli abbia deciso di continuare la propria vita, sarebbe invece per alcuni

Ivi, pp. 46-49. Per trent’anni [James] aveva invidiato coloro che avevano provato un’illuminazione religiosa, la conversione e la consolazione. L. Simon, op. cit., p. 297. 67

68

Ivi, p. 46.

69 L’invocazione alle Sacre Scritture sembra riferirsi piuttosto a un soggetto molto religioso che ‘naturalmente’ ricorre alla sua fede in un momento critico. Non si capisce poi come siano effettivamente conciliabili, per chi (come Allen) sostiene un'interpretazione fondamentalmente intellettualistica, l’invocazione alle Sacre Scritture e l’adesione alla filosofia di Charles Renouvier (che, come abbiamo soltanto accennato sopra, si distinse affatto per la sua religiosità né tantomeno per la sua ‘ortodossia’).

Come vedremo verso la fine del presente capitolo, anche il concetto di Twice-Born Soul, cardine dell’interpretazione filosofica jamesiana delle ‘varie forme d’esperienza religiosa’, è in parte ‘responsabile’ del successo di un certo tipo di approccio intellettualistico-spiritualistico dell’interpretazione del periodo di crisi di James. 70

71

Cfr. G. Cotkin, op. cit., p. 50.

129


critici la ‘prova’ che fu proprio Renouvier a rappresentare quella svolta invocata dal giovane William nella lettera al padre dal suo soggiorno in Germania. William James avrebbe raggiunto l’acme della sua depressione agli inizi del 1870 e proprio allora, nella primavera in cui lesse l’opera del filosofo francese, sarebbe cominciata la sua ‘guarigione’. Nonostante il fatto che lo stesso James disse, a mesi dalla sua ‘conversione’ a Renouvier, che il suo miglioramento era stato più che altro ‘un fuoco di paglia’, molti critici hanno continuato ad avallare questa linea interpretativa:

I passi attraverso cui William James rifiutò la credenza in un universo monistico [i. e. deterministico] possono essere tracciati seguendo la storia delle sue crisi psicologiche. Nel 1870 James si salvò dalla disperazione in cui si trovava e dal possibile suicidio scegliendo deliberatamente di credere nel libero arbitrio. Sostenendo che egli poteva avere “un pensiero perché ho scelto questo mentre potevo averne altri” egli giunse alla conclusione che questa libertà di scelta non fosse un’illusione e decise che il suo primo atto di libertà sarebbe stato quello di credere nella libertà. Questa conclusione si dimostrò essere una buona terapia psichiatrica per la sua condizione psichica, e questa scoperta gli aprì la strada per le sue carriere psicologica e filosofica. Per credere nel libero arbitrio si deve rigettare l’idea di un universo “ferreamente compatto” propria dei deterministi, ciò che significa anche rifiutare il monismo, ovvero l’idea si un universo in cui tutte le sue parti siano già formate e in cui ogni attimo futuro sia teoricamente prevedibile72.

Il fatto è che James, nel 1870, non raggiunse alcuna “conclusione”; anche la conoscenza della dottrina di Renouvier, una conoscenza per altro molto limitata in quegli anni, sebbene fondamentale in seguito, ebbe inizialmente solo l’effetto di distoglierlo dal pensare al tema del determinismo; James fu in certa misura ‘rincuorato’ da Renouvier, questo certamente, ma la sua analisi della filosofia deterministica e soprattutto la sua proposta di una ‘metafisica’ indeterministica e pluralistica, sarà ben successiva a questi anni e va collocata in un periodo in cui James aveva già di fatto sconfitto — anche se non definitivamente — i suoi demoni. Che la lettura di Renouvier, oltre a non dimostrarsi affatto “una buona terapia psichiatrica” non abbia affatto segnato l’inizio di un approfondimento del problema della libertà è dimostrato poi dallo stesso James, che, in una lettera a Henry P. Bowditch del 29 Dicembre 1870, scrive che “il pensiero è tabù”. Egli ricorda come passa il tempo a leggere romanzi, quotidiani, biografie. In sostanza James, mesi dopo la ‘conversione’ a Renouvier, invece di dedicarsi

72 G. W. Allen, op. cit., p 498. L’identificazione tra monismo e determinismo e tra pluralismo e indeterminismo è uno dei capisaldi della filosofia jamesiana; ne tratteremo nell’ultima parte del nostro lavoro, per quanto i testi più importanti di James al proposito eccedano i confini che ci siamo posti nell’esame della filosofia jamesiana della libertà; ci affidiamo per ora alle poche ma efficaci parole a riguardo del Perry e di Ford: L’unica filosofia che è fatale alla libertà è il monismo con il suo Tutto onni-comprensivo e onni-invasivo. TCWJ I, p. 659. Per il filosofo monista Tutto è come ‘dovrebbe essere’ [...]. La libertà, la capacità di introdurre una reale novità nel mondo, non può esistere. Dire che nel mondo esiste concretamente la libertà significa ritenere che il futuro è aperto, che il futuro potrebbe darsi in un modo o nell’altro, e questo sarebbe in contraddizione con la nozione che tutto è come deve essere. M. P. Ford, op. cit., p. 40.

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all’approfondimento delle sue opere, stava cercando una ‘distrazione’ proprio da quel rimuginare intorno al determinismo, al meccanicismo etc, ch’egli riteneva essere la causa principale dei suoi mali73. Questo d’altronde non dovrebbe affatto stupire: James, nell’ormai famoso brano del diario datato 30 Aprile 1870 — di cui abbiamo riportato le prime righe nel capitolo precedente — scrive:

Per la rimanente parte dell’anno mi asterrò dalla mera speculazione e dalla Grübelei contemplativa nella quale la mia natura sembra trovare gusto e coltiverò volontariamente il sentimento della libertà morale, leggendo libri favorevoli a essa, così come agendo di conseguenza. Dopo il primo di Gennaio, quando la mia pelle non sarà più implume come ora, potrò presumibilmente tornare agli studi metafisici e allo scetticismo senza temere per la mia capacità di azione. Per il presente ricorda: occupati poco della speculazione; più della forma della mia azione; ricorda che solo quando si sono formate delle sane abitudini ci si può addentrare in campi d’azione veramente interessanti [...]; non dimenticare come la debolezza di un anello possa rompere l’intera catena. Principiis obsta. La giornata di oggi mi ha fornito quell’eccezionale appassionata iniziativa che Bain pone come necessaria per l’acquisizione delle giuste abitudini. Vedrò poi alla fine. Non in massime, non in Anschauungen, ma nell’accumulazione di atti di pensiero sta la possibilità di salvezza. Passer outre. Fino ad oggi, quando mi sentivo di prendere una libera iniziativa, osando un’azione veramente originale, senza aspettare che la contemplazione del mondo esterno determinasse tutto per me, il suicidio mi sembrava essere la forma più virile di manifestazione della mia volontà; ora io farò un passo avanti per quel che riguarda la mia volontà, non solo agire con essa, ma anche crederci. Credere nella mia realtà individuale e nel mio potere creativo. La mia credenza, a dire la verità, non può essere ottimistica — ma io metterò la vita nella resistenza autogovernantesi dell’io verso il mondo. Allora la vita sarà fare, soffrire e creare. 74

73 La lettera a Bowditch (29 Dicembre 1870) è contenuta in LWJ I, pp. 150-160. La frase thought is tabooed si trova a p. 160. William James dichiara, all’inizio della lettera, dopo essersi scusato con l’amico per il ritardo nel rispondere, di soffrire di una physical imbecillitas (ivi. p. 159), segno che le sue condizioni fisiche erano ancora tanto gravi da non permettergli una corrispondenza regolare.

LWJ I, pp. 147-148. Il tedesco Grübelei cui James si riferisce come a una sua tendenza ‘naturale’ è tradotto in LWJ come “grubbing among subtilities” (ivi, p. 147n) Per Lewis questa forma abbreviata di Grübeleien (dal verbo grübeln) potrebbe essere tradotta con l’inglese “mental rummaggings ” (R. W. B. Lewis, op. cit., p. 205n); in italiano il termine tedesco potrebbe essere reso efficacemente con “rimuginare” (traduzione molto simile a quella inglese di Lewis). Perry parla chiaramente di un jamesiano inward brooding, cioè di un’innata tendenza a rimuginare. Cfr. TCWJ I, p. 301. Allen traduce con musing, meditation, ma ci paiono entrami dei termini troppo ‘neutri’. Lo stesso James si lamenta più volte di questa suo inward brooding e se certamente sarebbe avventato supporre un’origine ereditaria di questa disposizione, pare proprio di trovarsi qui di fronte a un tratto costituzionale del nostro autore che, senza mai veramente modificarsi negli anni, divenne, da strumento di auto-tortura e di sofferenza psicologica, uno dei più grandi alleati del James maturo, capace di tornare ripetutamente sullo stesso argomento da nuovi punti di osservazione: un esempio biografico di come vecchie funzioni possano essere adattate a nuovi usi...William [...] non leggeva niente che avrebbe potuto compromettere le sue convinzioni attuali. Renouvier offriva a James qualcosa in più dei positivisti inglesi: “l’universo conoscibile è per lui, come per la scuola di Mill e Bain”, scrisse James, “un sistema di fenomeni, e la metafisica è un’analisi dei suoi elementi. Ma fra questi elementi egli rintraccia la possibilità, negata degli empiristi inglesi, di azioni spontanee [“absolute beginnings”] o, in altri termini, del libero arbitrio.” Ammettere questa spontaneità per James significava liberarsi dalle costrizioni di una personalità ereditata dai propri genitori, determinata dalla propria costituzione fisiologica, o dalla società in cui si trovava a vivere; egli sarebbe stato in grado di essere il padrone e l’artefice di un Sé liberato. [...] James decise che dirigere la propria volontà verso un nuovo modo di pensare sarebbe stato più importante che desiderare semplicemente la propria autonomia. Queste nuove abitudini personali avrebbero necessariamente condotto a nuove azioni; ma il difficile stava proprio nell’assunzione di un tale nuovo modo di pensare. L. Simon, op. cit., p. 128. Il brano di James è tratto da un articolo scritto nel 1873, intitolato Renouvier’s Contribution to La Critique Philosophique, ora disponibile in ECR, pp. 265-266. Come vedremo nei prossimi capitoli, la necessità di “liberarsi dalle costrizioni di una personalità ereditata dai propri genitori etc.” è anche la base, emotiva oltre che intellettuale, che spingerà James ad 1 abbracciare entusiasticamente l’evoluzionismo darwiniano e a rifiutare in toto la dottrina lamarckiana. 74

131


Questo atteggiamento di rinuncia e di allontanamento, piuttosto che di approfondimento e di avvicinamento, alla “speculazione” e alla “metafisica”, appare paradossale solo a chi ritiene che la crisi di James si concluda nella Primavera del 1870 in seguito alla lettura di Renouvier; questa linea interpretativa, che è stata felicemente definita da Menand una “versione autorizzata” sembra essere dura a morire, anche se fu lo stesso James a dare alla sua seconda ‘crisi’ piuttosto un’importanza programmatica, se non addirittura simbolica: egli era infatti un pensatore troppo serio, un uomo troppo onesto e uno psicologo non abbastanza inesperto per credere di avere ‘risolto’ in un giorno il problema del determinismo e con esso i propri disturbi psichici; all’entusiasmo per la ‘scoperta’ di Renouvier fecero infatti seguito altri mesi e anni di quella depressione che accompagnò — non necessariamente in maniera strettamente correlata — la riflessione di James sulla libertà e il determinismo fino ai suoi ultimi giorni di vita.

2.2.4 Charles Renouvier primus inter pares La data del 30 Aprile 1870 non segna né la fine della depressione di William James né l’inizio, se non in termini di intenzioni, della sua filosofia indeterministica. Ciò che non convince dunque nel brano succitato di Allen non è tanto la sottolineatura dell’importanza della lettura di Renouvier in questo periodo, quanto il fatto che questa viene messa in relazione con una, di fatto inesistente, ‘guarigione’. La lettura del saggio del filosofo francese rappresentò per il nostro autore solo il punto di partenza, inizialmente più simbolico che reale, di una futura filosofia della libertà, ma soprattutto esso non fu affatto “una buona terapia psichiatrica per la sua condizione psichica”.

Purtroppo si è stabilita negli anni una sorta di equivalenza tra l’importanza della vita in relazione alla filosofia di James — e viceversa — e l’interpretazione ‘spiritualistica’75 della ‘caduta’ e della ‘rinascita’

75 Di fatto, pare che si sia più propensi a dare una lettura intellettualistica della depressione di James quando non si conoscano approfonditamente i fatti della sua vita, che, come abbiamo avuto modo di vedere, fu molto tormentata per il nostro autore e difficilmente decifrabile per il critico; Hofstadter, che si occupa di James solo all’interno della prospettiva ben più ampia della ricezione del darwinismo nell’America dell’Ottocento, sembra infatti non avere quei dubbi che sorgono a una lettura più attenta della vita di William James: Negli anni 1869-70 egli attraversò una dura depressione durante la quale egli perse la voglia di vivere; riuscì a emergere da questa situazione grazie a una soluzione di carattere squisitamente intellettuale, un’appassionata fiducia nella libertà del volere umano. R. Hofstadter, op. cit., p. 127. Scrive Owen Flanagan: Noi sappiamo da ogni biografia di William James, che egli era ossessionato dal problema della libertà del volere. Owen Flanagan Consciousness as a Pragmatist Views it, In R. A. Putnam (a cura di), The Cambridge Companion to William James, Cambridge University Press, New York 1997, p. 40. La diffusa,

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del filosofo americano. Negare questo approccio interpretativo non significa affatto negare lo strettissimo legame tra filosofia e vita in James; come abbiamo già detto, si tratta di comprendere la qualità di questo legame.

Sebbene gli scritti di James debbano essere trattati come serie opere scientifiche, esse furono anche motivate dalla sua psicologia personale in una maniera troppo importante da essere ignorata. [...] All’età di ventott’anni James attraversò una crisi spirituale che lo portò sull’orlo del suicidio. James (figlio di un mistico swedenborghiano) era tormentato dall’esistenza del male e dalle implicazioni scoraggianti del monismo e del determinismo. Poiché, se Dio è onnipotente, egli è (ahimè) responsabile del bene come del male. Se un Dio siffatto non esiste in un universo deterministico, allora l’universo è amorale e senza senso. E, se tutte le nostre azioni sono predeterminate da cause fisiche operanti all’interno del nostro sistema nervoso, allora le nostre battaglie morali, le nostre agonie e il prendere una decisione [...] sono tutte un inganno. In un universo deterministico noi non abbiamo scelta, noi non possiamo fare il bene e niente importa. Per James, questi problemi apparentemente astratti erano letteralmente faccenda di vita o di morte [...]76.

ma spesso superficiale, conoscenza dei problemi psichici di James sembra avere allontanato i critici, in una maniera paradossale quanto facilmente comprensibile, dallo studio serio e approfondito della sua vita e della relazione di questa col suo pensiero; come abbiamo sopra ricordato, non c’è saggio sul filosofo americano che non citi, anche solo indirettamente, la sua ‘crisi intellettuale’ e la sua ’conversione’ a Renouvier, senza poi fornire alcuna spiegazione del carattere intellettuale di un periodo depressivo durato anni e senza peritarsi poi di non analizzare nemmeno per sommi capi il pensiero del filosofo francese; purtroppo questo atteggiamento ‘disinvolto’ ha portato all’ossificarsi di una tradizione interpretativa (quella spiritualistico-intellettualistica) che si regge per lo più su notizie di seconda o di terza mano, una tradizione che spesso ha portato all’elaborazione di ipotesi totalmente insostenibili; scrive Richard Gale: Durante tutto il corso della sua vita James credette ardentemente nella dottrina della libertà della volontà [...]. Fu questa credenza che lo sostenne attraverso la sue crisi emotive rendendolo capace di sostenere una vita morale. Richard M. Gale, John Dewey’s Naturalization of William James, in R. A. Putnam (a cura di), The Cambridge Companion to William James, cit., p. 56. Com’è noto, James non credette affatto “durante tutto il corso della sua vita” nella dottrina della libertà della volontà; secondariamente il “sostegno emotivo” che la sua teoria poteva fornirgli nei momenti di crisi spirituale può essere collocato soltanto negli anni in cui James aveva già — in parte — vinto ‘i propri demoni’; Gale sembra fare confusione fra le sue ipotesi interpretative che abbiamo fin qui preso in considerazione: James avrebbe attraversato delle ‘crisi spirituali’, apparentemente indipendenti dalle sue speculazioni filosofiche (ipotesi ‘esterna’), ma sarebbe riuscito a combatterle con le armi della sua filosofia della libertà (ipotesi ‘intellettualistico-spiritualistica’). La semplicità e la tranquillità con cui Hofstadter, Flanagan e Gale racchiudono in due righe questi lunghissimi anni della vita di James fanno venire in mente le parole di Goethe, citate in inglese dallo stesso William James in un articolo del 1903; vale la pena di riportare la versione originale: “They who see the half of a matter are apt to talk and say a great deal about it; but he who sees the whole of it feels inclined to act and speaks late or not at all”. “Epidemic of Lynching” 1903, in ECR, p. 173. Jonathan Schull, Selection — James’s Principal Principle, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James cit. p. 140. Anche Dooley, come Schull, ricorda come il tema — filosofico — del determinismo sia legato in James a quello — teologico — della predestinazione: Il primo approccio di James alla filosofia risale all’anno 1870. Egli si sentiva oppresso e disperato di fronte al calvinismo del padre e alla relativa dottrina della predestinazione. La lettura degli Essais de Critique Général lo aiutò a combattere il sentimento di impotenza e gli diede la speranza di una giustificazione della libertà dell’uomo. P. K. Dooley, op. cit., p. 63. La sua depressione si era legata nella sua mente con l’ideologia del determinismo, così fondamentale per lo scientismo del suo tempo. Questa era infatti una delle molte forze del mondo moderno che stavano riducendo l’essere umano — e James non ne era certo escluso — alla passività, al fatalismo. D. S. Browning, op. cit., p. 134. Il fatto che la sua depressione fosse legata alla concezione deterministica della natura non significa però che la seconda fu causa della prima. Purtroppo molti critici sono andati più in là facendo di questo un legame “causale”; l’incontro di James con la scienza e la filosofia deterministica avrebbe provocato in James uno stato di depressione da cui poi si sarebbe sollevato solo dopo aver trovato un’alternativa filosofica al determinismo; il fatto che la depressione di James fosse cominciata già prima del suo “contatto” con la filosofia meccanicistica, il fatto che la sua salute psichica non sia mai stata ‘normale’ per tutto il corso della sua vita dovrebbero essere motivi sufficienti per lasciare spazio a un’interpretazione meno schematica e più complessa dei fatti. 76

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Che questi problemi fossero “questione di vita o di morte” non implica però il fatto che fu grazie alla loro soluzione — abbiamo visto ancora lontana da venire — che James salvò la sua vita, o, meno drammaticamente, uscì dalla sua depressione: né, viceversa, la soluzione — per quanto provvisoria — della depressione coincise in James con la definitiva formulazione del suo pensiero intorno alla libertà e al determinismo.

Anche giusta un’ipotesi ‘spirituale’ del periodo depressivo di James bisogna poi ricordare che questi attribuì ad altri, oltre a Renouvier, il merito di averlo aiutato a risollevarsi:

Se a volte James si sentiva sollevato, erano più le volte che invece provava frustrazione e scontento. John Stuart Mill e Alexander Bain, i riferimenti intellettuali di James a quel tempo [primi anni ‘70] lo aiutarono ad avere fiducia nell’importanza della forza di volontà, ma allo stesso tempo lo convinsero dell’immutabilità del carattere umano. James avrebbe anche potuto cercare di controllare i propri sentimenti, le proprie idee, le proprie azioni, — ma fondamentalmente egli non avrebbe potuto diventare un’altra persona, che non fosse soggetta a continui e debilitanti stati di depressione. Sebbene James a volte se ne uscisse con celebrazioni del potere della volontà, non riusciva però ad applicare questi “proclami” nella propria vita quotidianavii.

Schull, pur ricordando l’importanza della religione e dell’opera di Renouvier, ipotizza che James sia stato notevolmente aiutato, nella sua ‘guarigione’, dall’opera di Gustav Fechner:

Egli dovette la preservazione della sua salute mentale alla fede religiosa e la soluzione di uno stato di indecisione immobilizzante alla risoluzione filosofica ispirata dalla lettura di Renouvier, un filosofo francese [sostenitore] del libero arbitrio, e (a mio parere) alla psicologia di Gustav Fechner, che James stava leggendo durante il periodo in cui si stava rimettendo [dalla crisi spirituale]77.

Che Fechner abbia aiutato James a risollevarsi sembra quantomeno singolare. Sicuramente James lesse Fechner nei suoi primi anni di studi e certamente si possono tracciare delle affinità fra i due pensatori, ma le parole dello psicologo americano e soprattutto la sua prima opera che in qualche modo fu la — provvisoria — risposta ai temi fondamentali di questo periodo, i Principles, non consentono affatto di

77 J. Schull, Selection — James’s Principal Principle, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 141.

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ritenerlo un autore il cui influsso possa essere paragonabile a quello di Bain o di Renouvier (tantomeno nella sua qualità positiva):

La lotta tra la sua ragione e il suo senso di disperazione furono intensificati dai colloqui con Chauncey Wright, un logico formidabile e un pertinace determinista, e pure lo furono dalla lettura di psicologi come Fechner, per esempio, che, nei suoi Elemente der Psychophysik e Über die Seelenfrage, affermava di aver misurato la sensazione e di essere riuscito a ridurla a una formula matematica. La successiva dottrina jamesiana della “Volontà di Credere” e il suo interesse, scientifico e personale al tempo stesso, nelle conversioni e nei fenomeni paranormali, sono già chiaramente anticipati nell’introspezione rammentata nel suo diario di una possibile relazione tra il suo carattere morale e la sua patologia fisica [mal di schiena]78. È evidente che, per Allen, Fechner ebbe semmai il ruolo di esacerbare il conflitto che James stava vivendo tra l’accettazione di una scienza deterministica e l’esigenza di una dimensione morale. Joseph Rychlak, forse troppo teso a superare la visione classica ‘sostituendo’ a Renouvier un altro autore piuttosto che cambiando sostanzialmente approccio interpretativo, ipotizza che l’influsso di Locke sia stato superiore, rispetto a quello del filosofo francese, in ordine alla trattazione jamesiana del tema del libero arbitrio79; a prescindere dalla validità di questa interpretazione, quello che a noi importa

G. W. Allen, op. cit., p. 165. Di Wright e del suo “esacerbato determinismo” parleremo nell’ultimo Capitolo. La coincidenza tra eventi psicologicamente traumatici e peggioramento delle condizioni di salute fu notato da James parecchie volte: emblematico è il caso della morte della cugina Minny (Mary) Temple: Nel 1870, all’incirca quando seppe della morte della cugina Minny Temple, James accusò quello che chiamò ‘un grande collasso dorsale’ [...]. G. Cotkin, op. cit., p. 50. Schull fu probabilmente portato a fraintendere l’importanza di Fechner anche data una certa affinità fra quest’ultimo e William James; Helmut E. Adler, ha sottolineato quest’affinità, più che altro da un punto di vista biografico: Sebbene James non abbia mai incontrato Fechner, che era più anziano di lui di 41 anni, essi condivisero molte “condizioni”. Entrambi erano il prodotto di famiglie nelle quali il padre, o il suo surrogato — uno zio, nel caso di Fechner — erano interessati a problemi religiosi. Il padre di William James era devoto al pensiero swedenborghiano, professato da una setta mistica protestante. Fechner era il figlio di un pastore luterano e, dopo la morte prematura del padre, fu allevato dallo zio, anch’egli un pastore. Entrambi svilupparono proprie convinzioni religiose. Lo Zend Avesta di Fechner e le Varieties of Religious Experience di James esprimono il misticismo iconoclastico del loro approccio alla religione. Inoltre, sia James che Fechner erano tormentati da problemi di salute.. Fechner si era guastato la vista durante i suoi esperimenti giovanili [...]; egli sviluppò tra gli altri, molti sintomi di fotofobia e, nel 1840, dovette rassegnare le sue dimissioni come professore di fisica all’università di Lipsia. [...] Anche James ebbe problemi agli occhi, risultato del vaiolo [come abbiamo visto si trattò invece di una forma di varicella; inoltre i problemi alla vista erano cominciati anni prima della Thayer Expedition] contratto a Rio de Janeiro [...]. H. E. Adler, William James and Gustav Fechner; From Rejection to Elective Affinity”, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 254. 78

Joseph F. Rychlak, William James and the Concept of Free Will, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 323. L’articolo di Rychlak è molto interessante, ma il tentativo di ridimensionare l’importanza di Renouvier — qui intesa più da un punto di vista filosofico che prettamente psicologico-esistenziale — poggia su un presupposto a nostro avviso sbagliato e cioè che James, per avvicinarsi al pensiero del filosofo francese, avrebbe allo stesso tempo dovuto abbracciare la filosofia kantiana: se è vero che Renouvier può essere pacificamente essere considerato un kantiano (o un neokantiano) è altrettanto vero che per apprezzarne il pensiero, soprattutto riguardo al tema della libertà, non è necessario condividere una qualche ‘impostazione’ kantiana. Scrive Rychlak: L’approccio formale di James alla psicologia sembra essere lockiano piuttosto che kantiano, più vicino all’empirismo britannico che alla filosofia continentale.. Ivi, p. 324. Rychlak, da due premesse vere — perché effettivamente James si rifaceva, anche, all’empirismo di Locke, per il proprio pensiero psicologico — giunge a una conclusione falsa, e cioè che James non poteva concordare con Renouvier data una differente tradizione filosofica di riferimento. Anche altri hanno cercato di ridimensionare l’importanza di Renouvier, “sostituendolo” con un altro autore: [James] attribuì alla lettura di Renouvier la sua “rinascita” dalla tremenda depressione che lo aveva tormentato per due lunghi anni! Ma l’idea è comunque pascaliana nel suo significato. Robert. J. O’Connell., William James on the Courage to Believe., Fordham University Press, New York 1984, p. 42. Per O’Connell sarebbe Pascal dunque, e non Renouvier, il vero 135 ‘ispiratore’ di James. 79


qui sottolineare è il fatto che la maggior parte dei critici, nella foga di sottolineare l’importanza di Renouvier per la filosofia futura di James, o, viceversa, nel tentativo — quasi mai felice —, di ‘sostituire’ l’autore dell’Esquisse con altri filosofi o scienziati, ha finito per sottovalutare l’autonomia del pensiero del nostro autore che, come vedremo nel prossimo capitolo, si delinea già in tutta la sua forza nei Principles per poi trovare una prima e compiuta formulazione filosofica nella Will to Believe.

Certo, rimane il fatto indiscutibile che fu James stesso il primo a sostenere di essere ‘guarito’ in seguito alla lettura dell’opera di Renouvier; a questo proposito non bisogna però dimenticare che, come scrive la Simon nel brano succitato, se James a volte se ne usciva con celebrazioni del potere della volontà, non riusciva però ad applicare questi ‘proclami’ nella propria vita quotidiana: la celebrazione di Renouvier potrebbe essere dunque l’aspetto intellettuale di quel “proclama” scritto da James nelle pagine del suo diario del 1870. Il fatto poi che James continuò per anni a parlare di Renouvier80 con parole di ammirazione e di riconoscenza può essere interpretato come il tentativo, di fatto riuscito almeno in parte, di autoconvincersi di essere uscito da una situazione di profonda depressione grazie alla forza del proprio spirito, in sostanza grazie agli sforzi della propria volontà applicata all’elaborazione teoretica del concetto di volontà e alla coerenza pratica nel far seguire i fatti alla teoria. Dobbiamo infine ricordare che James dimostrò, dall’inizio alla fine della

80 La maggior parte dei critici che hanno sottolineato l’importanza di Renouvier (sia rispetto alla soluzione della sua depressione sia rispetto al suo futuro pensiero indeterministico) non spiegano però perché James fece riferimento a un filosofo praticamente sconosciuto, per giunta straniero, per trovare sostegno filosofico a una teoria, quella appunto del libero arbitrio, che da decine di altri filosofi era già stata sostenuta con argomentazioni di pari o superiore efficacia; un’ipotesi — come già detto sopra — è che Renouvier sia stato “il filosofo giusto al momento giusto”, ma è più probabile che agli occhi di James Renouvier sia apparso, prima di tutto, come un filosofo poco ‘compromesso’ con gli indirizzi filosofici del tempo — soprattutto metafisici — che James disprezzava (a volte anche a causa della sua scarsa comprensione). Se infatti è certamente vero che James non aveva una solida cultura filosofica, è altrettanto vero che per lo meno, per aver letto il determinista Schopenhauer, aveva idea di quali potessero essere, primo fra tutti Kant, questi filosofi che lo avrebbero potuto “aiutare” nel trovare una strada che lo facesse uscire dall’impasse deterministica. Forse contribuì anche il fatto che Renouvier era un filosofo vivente, con cui poteva entrare, come poi fece, in corrispondenza, mentre i grandi filosofi del passato erano ormai morti e sepolti e non potevano più rispondere alle sue domande e dargli le conferme sperate?

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sua carriera, la tendenza a ‘glorificare’ gli autori, soprattutto se viventi, cui egli si avvicinava di volta in volta81.

2.2.5 Per una lettura equilibrata La nostra ipotesi è che la depressione di James si risolse, parzialmente82, solo con un cambiamento concreto delle sue condizioni di vita: con l’affrancamento dalla tutela paterna, con il raggiungimento di una solida posizione professionale e con il matrimonio.

Probabilmente una lettura di questo tipo può sembrare a molti estremamente ‘riduzionistica’ — come riduzionistica può apparire l’eziologia esterna considerata nelle pagine precedenti — e certamente James non sarebbe stato facilmente disposto ad accettare che la sua ‘guarigione’ fosse interpretabile non come il frutto di uno sforzo della propria volontà, ma come il risultato di una serie di circostanze esterne; una spiegazione del genere avrebbe in qualche modo ridimensionato il ruolo del suo “libero arbitrio” riproponendo nei fatti quel materialismo, quella dipendenza dello psichico dal fisico, negato con le parole.

Non solo, egli andò spesso ben oltre le sole parole di ammirazione; molte sono le persone che James aiuterà durante tutta la sua vita e spesso senza distinguere in ragione del valore dell’opera di chi voleva aiutare; è noto il fatto ch’egli sostenne sempre — anche finanziariamente — l’amico Charles Sanders Peirce, ma spesso il suo sostegno andò a personaggi di secondo piano destinati a rimanere nell’ombra nonostante i suoi generosi sforzi: Quanto tempo e quanto denaro spese per filosofi half-baked. G. H. Palmer, William James, in L. Simon (a cura di), William James Remembered, cit., p. 31. Anche in ambito accademico James si prodigò per aiutare chi aveva bisogno: James non sapeva dare un giudizio equilibrato sulle persone; si faceva corrompere dalla cortesia. Nella nostra Commissione, quando si doveva votare per qualche candidato a un posto di alto livello, egli generalmente badava all’aspetto umano: “certamente Smith non è un genio, ma povero diavolo, ha lavorato così tanto!”. La sua sopravvalutazione di Charles Peirce e il troppo grande debito riconosciuto al suo pensiero, penso che sia sorto tanto dalla sua pietà quanto dalla sua ammirazione. Ibidem. Per quanto la testimonianza di Palmer sia senz’altro fedele ai fatti, il suo appunto sull’eccessiva considerazione di Peirce non rende onore non tanto a questo quanto allo stesso James, cui va dato il merito di avere riconosciuto nell’eccentrico amico quelle qualità che pochi in vita gli riconobbero. L’ammirazione di James per Peirce fu sempre sincera e fu in primis un’ammirazione intellettuale. 81

Come già detto, in difesa della tesi che la depressione di James né cominciò con la lettura di filosofi materialisti (o lo studio di una scienza riduzionistica), né terminò con la lettura di Renouvier, dobbiamo ricordare che James soffrì di depressione, di “fragilità di nervi”, di melanconia o che dir si voglia, per tutta la vita; dai diciott’anni circa fino alla sua morte: La Simon più di tutti, nella sua recentissima biografia, ha posto l’attenzione su questo fatto. Gli anni 1862, 1867 , 1872 1873-74, 1880, 1882 e 1893, 1901, 1909— anni che potremmo chiamare di depressione — testimoniano chiaramente la cronicità di una condizione di fragilità psichica che va ben al di là di un episodio isolato. Cfr. Menand, William James & the Case of the Epileptic Patient, cit., p. 36 e Simon, op. cit., passim. Bjork dipinge il James degli ultimi anni come angosciato e depresso dal problema della morte e in cerca di una “soluzione filosofica” che gli permettesse di raggiungere un atteggiamento “degno” nei confronti di essa: James stava di nuovo dirigendosi verso la soluzione trovata alla fine degli anni ’60: l’uomo ha il potere di scegliere un atteggiamento, di credere una cosa o l’altra. Ciò che doveva fare era dunque riposizionare, rifocalizzare il centro della propria visuale. D. Bjork, op. cit., p. 243. Poco prima di morire James si trovò di fronte agli stessi demoni che lo avevano angosciato in gioventù; anche questa volta però la filosofia non fu sufficiente per strapparlo dalle morse della depressione. 82

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Molti critici hanno forse subito eccessivamente il fascino di questo “romanzo di formazione”, le cui prime pagine sono state scritte dallo stesso James: la sua opera non sarebbe altro che la traduzione concettuale di una battaglia ‘vinta’ prima nella vita; la Volontà di credere sarebbe così stata scritta, nei fatti, decenni prima che sulla carta; quest’interpretazione, oltre che poco fondata, rischia di far dimenticare tutto il cammino percorso da James soprattutto negli anni ’80, quando questi cercò di combattere il determinismo sul campo scientifico.

“La volontà di credere” di William James era già stata anticipata più volte nella vita stessa di James, perché almeno a partire dall’anno (1868) in cui scoprì l’opera di Renouvier, o forse anche prima, egli era alla ricerca di una fede che avrebbe reso la sua vita più felice, e poi, come insegnante e psicologo, aveva cercato di rendere più facile anche la vita delle altre persone83.

Anche il concetto di Twice-born soul, di anima nata due volte, sviluppato nelle Varieties ha contribuito alla ‘divisione’ della vita di James in due parti ben distinte: prima e dopo la rinascita84; anche in questo caso James volle far coincidere parte della sua vita con parte della sua filosofia;

Gli studiosi di James hanno solitamente ritenuto che dopo il periodo travagliato della fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70 egli acquisì un durevole, sebbene fragile, equilibrio interno. Essi hanno notato che la nevrastenia cronica continuò e che un cuore malato tormentò gli ultimi anni della sua vita; ma hanno dato per scontato che, dopo la lettura di Renouvier nel 1870, dopo aver ricevuto l’incarico di professore nel 1873 e certamente dopo il matrimonio nel 1878 egli non soffrì mai più di una profonda malinconia. È stata così tracciata una falsa linea di demarcazione tra il James malato e quello ottimistico. [...] Lo stesso James fu responsabile di questa errata interpretazione85.

83

G. W. Allen, op. cit., p. 375.

84 C’è una stretta relazione tra l’interpretazione jamesiana della conversione religiosa e la propria “crisi” degli anni 1870-72. Il suo senso di nera disperazione e di terrore sono utilizzati nelle Varieties per illustrare lo stato dell’“anima malata”. Egli racconta che quell’esperienza lo rese “simpatetico con le insane sensazioni degli altri” [...] La sua stessa “salvazione” gli venne attraverso l’idea di libertà morale, piuttosto che grazie a un senso di grazia ricevuta — [...] ma egli certamente esperì un sentimento di rinascita simile a quello del “twice-born”. TCWJ II, p 324. Sebbene giustamente il Perry non attribuisca la ‘guarigione’ di James a una sorta di conversione religiosa — e sottolinei invece l’importanza che ebbe per il nostro autore la possibilità di una dimensione morale ⎯ in questo brano egli sembra volere far coincidere la figura del corrispondente francese con quella di William James. Daniel Bjork, teso a rintracciare l’originale center of the vision di James, e desideroso di distinguersi da tutti coloro che hanno analizzato attentamente gli anni del giovane James come premessa per la comprensione di tutto il suo pensiero, parla addirittura della “rinascita” di James negli anni ‘70 come di una “leggenda”, attribuendone la maggiore responsabilità allo stesso William James: La leggenda comunque, è in gran parte opera dello stesso James, che a lungo ha parlato della sua “risalita” dalla depressione all’ottimismo, dal determinismo al libero arbitrio, dall’inerzia all’azione. D. Bjork, op. cit., p. 107. Se effettivamente è stato dato troppo risalto a questo breve periodo della vita del nostro autore, è anche vero che risulta eccessivo parlare di una “leggenda”; probabilmente si otterrebbe una visione più equilibrata se si riconoscesse che le “rinascite” di James furono molte, come furono molte le sue “ricadute” e se, allo stesso tempo, si riconoscesse che in lui il legame tra vita e filosofia, per quanto fortissimo, è più complesso e articolato di quanto potrebbe apparire data una semplicistica relazione causale. 85

Ivi, p. 229.

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2.2.6 Gli effetti della depressione ⎯ oltre le cause e le terapie James, questa è la nostra tesi, non cadde in uno stato di crisi a causa della visione materialistica del mondo ⎯ ma soprattutto dell’uomo ⎯ che forniva la scienza positivistica dell’epoca, né per l’incapacità di venire filosoficamente a capo del problema del male86; le cause87 furono più strettamente legate alla sua situazione professionale, affettiva e familiareviii. Il legame con le teorie scientifiche del tempo è fortissimo, ma deve essere visto in un’altra prospettiva: James venne attratto dalla problematica mente-corpo e quindi dalla psicofisiologia proprio in quanto si trovava in una situazione che in qualche modo lo ‘obbligava’ a farsi carico di questi problemi; il fatto che ci fossero delle strette relazioni fra le sue condizioni fisiche, il suo malessere psicologico e la sua attività mentale (che diventava frenetica88 nei

86 Il primo approccio filosofico di James al problema del male fu molto probabilmente stimolato dalla precoce lettura di Schopenhauer; ma, fin da subito, il giovane William si era reso conto di non potere accettare la visione pessimistica del filosofo tedesco; in seguito la sua critica a Schopenhauer (e a ogni dottrina radicalmente pessimistica) diventerà sempre più forte e motivato: era il pessimismo di Schopenhauer, piuttosto che la sua metafisica teoretica, a stimolare vivamente James e anche a farlo dissentire dal filosofo tedesco. Egli considerava Schopenhauer il primo tra i filosofi a dire “la concreta verità intorno ai mali della vita”. Ma sebbene anche James sentisse realmente e vivamente il male, egli non poteva però accettarlo. TCWJ I, p. 721. Comunque, a Schopenhauer James concesse sempre il merito di avere un atteggiamento ‘virile’ nei confronti del male del mondo e della sua stessa filosofia pessimistica; molto spesso, nel nostro autore, a una consapevole disamina della debolezza filosofica di una dottrina si affianca il rispetto per l’autore che ne è il padre: in una lettera a Hillebrand del 10 Agosto 1883 James scrive: “Ci sono pessimisti patetici e pessimisti “litigiosi”. Schopenhauer non era patetico, Leopardi sì”. Ivi, p. 724.

Occupati a rintracciare le cause e i rimedi della depressione di James si rischia di perdere di vista ciò che per noi è veramente importante, e cioè gli “effetti”; James fu spinto ad approfondire il problema del rapporto mente-corpo, e ad ampliare la propria prospettiva, di indagine, certamente in relazione alla propria esperienza personale: [...] la stessa salute precaria di James, che durò almeno per un decennio (e che in qualche misura sarebbe continuata per tutta la sua vita) lo rese particolarmente sensibile alle relazioni che intercorrono tra mente e corpo. G. W. Allen, op. cit., p. 89. Dunque la malattia di William — qualunque fossero la sua esatta causa e a sua esatta natura — lo stavano spingendo verso quel campo nel quale egli avrebbe un giorno dato il suo importante contributo. Incapace di praticare il lavoro di laboratorio che sarebbe stato necessario per un suo approfondimento dello studio nel campo della fisiologia e profondamente preso dai propri problemi psicologici, egli si dedicò allo studio della psicologia, attraverso la lettura di testi e l’introspezione. Ivi, p. 135. A questo si aggiunga che James venne influenzato anche da un punto di vista che potremmo definire un po’ semplicisticamente caratteriale: Il temperamento di James, aperto alle differenze e tollerante verso le diversità non può essere attribuito alle sue letture o alle teorie filosofiche da lui sviluppate. Da giovane infatti, egli aveva provato una profonda depressione e quest’esperienza lo aveva reso capace di comprendere i problemi della vita e le sue sfumature. G. Cotkin, op. cit., p. 136. L’immaginario “corrispondente francese” sembrerebbe in questo caso veramente “coincidere” con William James; come riportato sopra, egli scrisse che quell’esperienza mi rese sensibile nei confronti di chi soffre per pene simili. Anche coloro che furono avversari di James gli riconoscevano quell’apertura mentale e quella sensibilità — per gli uomini oltre che per le idee — che spesso mancano a un professore universitario; Ho l’impressione che, per quanto riguarda la versatilità egli [James] sia la figura intellettuale più significativa che gli Stati Uniti abbiano prodotta. J. Dewey, I problemi di tutti, cit., p. 456. Versatilità, eclettismo, elasticità, sensibilità, apertura mentale: sono tutti termini che difficilmente riescono a dare l’idea della passione con cui James si dedicava ai propri studi con quella freschezza che fu spesso scambiata per ingenuità — come nel caso dello studio dei fenomeni paranormali — ma che venne sempre riconosciuta, prima di tutto dai suoi amici e studenti, ma anche dai suoi avversari più ostinati, un simbolo di nobiltà d’animo: Il suo senso di frammentazione (una volta ‘superata’ la sua crisi) [...] si trasformò in un’ampia e profonda simpatia per la pluralità di vite differenti che esistono nel mondo. D. S. Browning, op. cit., p. 134. Il pluralismo di James fu prima che una filosofia un modo di vedere le cose e di confrontarsi con gli altri. 87

88 Leggendo le biografie di James si rimane stupiti di quanto la sua capacità di leggere e di studiare, nonostante le sue lamentele in proposito, rimanesse apparentemente inalterata dalla sua condizione di debolezza psichica e fisica; Perry suggerisce che fu anzi la sua malattia a renderlo estremamente “avido” di sapere: James era, come abbiamo visto, sempre impaziente e scontento. La sua insoddisfazione funse da agente irritante ed evitò che la sua mente si ossificasse. TCWJ I, p. 234. Anche Cotkin sottolinea la relazione tra “voracità” di letture e depressione, ma in una prospettiva più “consapevole” (da parte di James): Egli era un lettore vorace, come dimostrano le innumerevoli citazioni che riempiono le pagine dei Principles of Psychology e le Varieties of

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periodi di crisi), il fatto che la depressione sembrasse svuotarlo di qualsiasi autonomia e capacità di cambiamento e il fatto ch’egli non riuscisse, nonostante ‘erculei’ sforzi a uscire da una situazione fattasi ormai insopportabile, non poteva che farlo riflettere ⎯ dati il suo carattere e la sua formazione scientifica e culturale ⎯ intorno all’efficacia della volontà e alla possibilità di dirigerla, ovvero intorno al problema della libertà.

L’esempio della psicopatologia è a questo proposito chiarificatore; James ebbe sempre un interesse spiccato per i fenomeni psicopatologici e questo sicuramente fu dovuto al fatto ch’egli stesso aveva sofferto in prima persona di questi problemi. Riferendosi alla sua ‘crisi’ del 1870 James scrive: [...] l’esperienza mi ha reso sensibile da allora con le sensazioni malsane [morbid feelings] degli altri89, ma sarebbe poco convincente, da un punto di vista storico filosofico, ma ancora di più da un punto di vista clinico, pensare che James si sia ammalato perché studiava quei determinati argomenti. Un’interpretazione del genere renderebbe James affatto incomprensibile e principalmente sotto due punti di vista: prima di tutto la sua nevrastenia non sarebbe affatto spiegata (e bisognerebbe ricorrere a un’improbabile, e comunque non documentabile, enorme ‘fragilità nervosa’), ma soprattutto non sarebbe spiegata la sua filosofia, che verrebbe così ritenuta una sorta di medicina incomprensibile: perché James non si riebbe dalla sua depressione anche anni dopo la conoscenza di Renouvier90? Perché altri periodi di profonda

Religious Experience. Soprattutto durante i periodi d’infermità, James cercò sostegno in racconti e in lavori di analisi culturale, così come nella regolare lettura di autobiografie. G. Cotkin, op. cit., p. 137. James poi, rinunciava a mantenere la propria fitta corrispondenza solo quando le sue condizioni fisiche e psichiche erano insopportabili: Anche quando molto occupato o malato [James] si teneva in contatto con un grande numero di amici, sebbene a volte fosse obbligato a servirsi di sua moglie per scrivere le lettere. J. J. Putnam, William James, in L. Simon (a cura di), William James Remembered, cit., p. 10 (le testimonianze di molti suoi amici e della stessa moglie sono in proposto numerosissime). Oltre che nella quantità di lavoro James venne influenzato anche nella qualità; le domande che si poneva, sul determinismo, sulla causalità, sul rapporto mente-corpo e sull’autonomia della volontà, andarono ben presto al di là della mera ricerca fisiologica: La sua depressione e la sua innata tendenza a rimuginare lo avvicinarono sempre più al campo della filosofia. Egli era in cerca di qualche scopo verso cui indirizzare la propria vita. TCWJ I, p. 301. Di fatto l’“innata tendenza a rimuginare” fu in James sempre accompagnata da un genuino interesse per le questioni filosofiche; le testimonianze in proposito sono numerose. Il tipo di letture (abbiamo citato sopra l’‘episodio’ più che altro simbolico di Schopenhauer; cfr. supra, Capitolo 1.2, p. 21, n. iii)gli argomenti trattati nella sua fitta corrispondenza, il tipo di approccio ⎯ che potremmo definire epistemologico ⎯ alla scienza psicologica e infine le stesse parole di James non lasciano alcun dubbio in proposito. Mentre si trovava in Sudamerica, con la spedizione Thayer, scrisse, quasi in maniera profetica: Quando sarò di nuovo a casa mi dedicherò tutto il giorno allo studio della filosofia. TCWJ I, p. 219. 89 Ma non solo; Browning ricorda come James, una volta trovato un certo equilibrio psichico, rimase sempre attento non soltanto alle personalità ‘disturbate’, ma genericamente a tutti gli individui come rappresentanti un diverso modo di vedere e di vivere la vita: una volta ‘superata’ la sua crisi Il suo senso di frammentazione [...] si trasformò in un’ampia e profonda simpatia per la pluralità di vite differenti che esistono nel mondo. D. S. Browning, op. cit., p. 134.

Con questo non vogliamo dire che la lettura di Renouvier non fu affatto importante; sicuramente essa segnò un punto importante della vita di James, che avrebbe visto ancora numerose ‘crisi’ e ‘conversioni’. Anche la Simon si oppone a una visione miracolistica dell’incontro di James col pensiero del filosofo francese, ma ne riconosce l’importanza, ch’è anche per noi innegabile: Sebbene Renouvier non provocò un’immediata rivoluzione nella vita di James, e sebbene la convinzione dell’esistenza della libertà avrebbe in seguito subito numerose “prove”, la sua “crisi” del 1870 rappresentò un cambiamento significativo per la costruzione del proprio futuro. L. Simon, op. cit., p. 129. 90

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crisi appaiono evidenti anche quando la sua filosofia sarà pienamente sviluppata? Questo approccio inoltre porta a una (superficiale91) sopravvalutazione dell’importanza di alcuni autori, Renouvier primo fra tutti, che rimarrebbero così i costanti punti di riferimento di un James che invece maturava un pensiero sempre più autonomo negli anni. Oltretutto lo renderebbe un filosofo abbastanza superficiale; William James avrebbe risolto il problema della libertà decidendo di ‘scegliere di essere libero’... Ma questo non è sufficiente per noi, come non fu sufficiente per James stesso: come abbiamo già detto, il problema filosofico della libertà non venne affatto ‘risolto’ con la — parziale e mai definitiva — soluzione dei suoi problemi psicologici, anzi, esso cominciò a svilupparsi proprio quando James cominciò a rimettersi in forze, cioè durante i primi anni d’insegnamento e soprattutto dopo il matrimonio. Se seguissimo invece un’interpretazione eccessivamente incentrata sui rapporti fra salute (psichica e fisica) e filosofia in James dovremmo poi chiederci quali furono i problemi filosofici che ‘causarono’ tutti i suoi successivi periodi di crisi e capire poi quali soluzioni filosofiche egli adottò per risollevarsi, un’operazione filosofico-biografica che di fatto (e a ragione) non è mai stata intrapresa da nessun critico.

Alla fine di questa lunga disamina delle due linee interpretative (entrambe variegate) atte a comprendere le cause e i ‘rimedi’ del lungo periodo di depressione patito da William James ci sentiamo di concludere con una felice frase di Jerome Croce, che efficacemente riassume la nostra posizione: il carattere intellettuale e spirituale della lunga crisi di James può essere inteso come la forma assunta da un complesso disagio emotivo, professionale, familiare e sociale:

Verso la fine degli anni ’60, mentre il giovane James stava combattendo con il suo proprio processo di individuazione, il duro contrasto fra scienza assolutista e religione dogmatica diede vita alle alternative in cui prese forma la sua crisi personale92.

Il fatto che per James la filosofia dovesse essere tutto fuorché astrazione, dovesse accompagnare l’uomo anche oltre le aule universitarie e dovesse in sostanza essere uno “strumento” da utilizzare intelligentemente, ha favorito spesso inconsapevolmente un approccio spiritualistico, mentre James non

91 Come abbiamo mostrato nel precedente capitolo, Renouvier può ben dirsi, abbracciando così il giudizio del Perry, il filosofo che ha avuto nella giovinezza di James l’influenza più profonda e più duratura, ma ben al di là di quanto si potrebbe supporre giusta l’ipotesi intellettualistica, che ‘riduce’ la dottrina del filosofo francese a poche ‘formule’. L’abbiamo già detto, ma conviene forse ripeterlo: la nostra tesi, che Renouvier non fu affatto ‘la medicina’ del lungo periodo di depressione di William James, non ha nulla a che fare con l’importanza che il primo ebbe nella formazione filosofica e intellettuale del nostro autore. 92

P. J. Croce, op. cit., p. 109.

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pensava certamente che la filosofia, anche una filosofia indeterministica, anche una filosofia che ‘garantisse’ la morale e la libertà e che desse allo stesso tempo forza e vigore all’uomo e fiducia nei suoi mezzi, fosse sufficiente per superare gli infiniti ostacoli che si frappongono fra l’uomo e il raggiungimento della felicità, o più semplicemente della soddisfazione personale e sociale. Compito del filosofo era per James prima di tutto comprendere i limiti della filosofia93, come per lui la ricerca della libertà, nei fatti e nei concetti, fu sempre accompagnata dalla consapevolezza della sua impotenza.

L’attenzione per i disturbi psichici di James può certamente dunque farci comprendere quale fu il ‘ruolo’ che la libertà e l’indeterminismo ebbero per James in un determinato periodo — i. e. libertà come possibilità di agire e reagire a una determinata situazione; indeterminismo come possibilità di spontaneità e di forza autonoma — ma vedremo in seguito come la libertà e l’indeterminismo avranno per il nostro autore un ruolo diverso, più ampio e meno legato alla sua attuale situazione psichica e fisica. La libertà sarà fondamentale per la gnoseologia jamesiana: per il filosofo americano non si dà conoscenza senza libertà, e viceversa; la sua stessa ‘metafisica’ , cui potremo dedicare solo alcuni brevi cenni alla fine del nostro lavoro, si regge sulla possibilità di un’azione umana veramente libera e allo stesso tempo garantisce quell’indeterminazione dell’universo che può essere il solo terreno su cui l’uomo libero può camminare con le proprie gambe. Sicuramente questi rapporti tra la filosofia della libertà e altri ‘settori’ della filosofia jamesiana (come altri di cui tratteremo in seguito) sono stati tenuti spesso in scarsa considerazione proprio in virtù di un’interpretazione eccessivamente volontaristica94

Sini sottolinea come l’attenzione per la concretezza della vita, per la sua pienezza irriducibile, sia la chiave di volta per comprendere la filosofia dell’esperienza di James: il “fatto vivo” è il presupposto di tutta la sua teoria dell’astrazione, [...] è il presupposto “empiristico” al quale James non riterrà di dover mai venir meno, della ricchezza originaria dell’esperienza, dell’infinita diversità sensibile, della libertà incommensurabile e concettualmente non concepibile, o non afferrabile in tutta la sua totalità, del dato. In virtù di tale presupposto James può indicare il solco, per lui incolmabile, tra vita e filosofia; quest’ultima non può mai tentare di stabilire “l’essenza di questa cosa concreta”, di questo dato vivente, [...]. L’uomo intero (the entire man), che sente volta per volta tutti i suoi bisogni “non accetterà nulla come equivalente della vita se non la pienezza della vita stessa”. C. Sini, op. cit., p. 259. Anche la nostra Tesi rischia però di porre l’attenzione solo sulle condizioni esterne (sia come “cause” che come “rimedi”) della depressione di James. Il fatto è che, nel tentativo di analizzare le diverse sfaccettature di una condizione esistenziale e intellettuale molto complessa , si tende a separare fattori diversi che non furono mai effettivamente isolati; Cotkin sembra riuscire più di altri, a ricostruire quell’unità perduta: Questo dilemma della depressione, il terrore di scorgere nell’universo un rigido determinismo o l’assenza di significato fu alla fine risolto da James attraverso un insieme di fattori (la carriera di insegnante, il matrimonio), di impegni psicologici (enfatizzando le abitudini che portano a migliori condizioni) e di letture filosofiche (l’adozione dell’atteggiamento libero suggerito da Charles Renouvier). James combinò tutti questi metodi nel suo programma di rinnovamento personale e filosofico. G. Cotkin, op. cit., p. 9. 93

94 Il valore della filosofia di James rischia perciò di dipendere dal maggiore o minore successo della sua volontà di credere: Nelle sue linee principali, la stessa vita di James può essere interpretata come il testamento della possibilità d’una vita eroica. Il suo trionfo sui dubbi personali e filosofici certamente suggeriscono una battaglia erculea. Ivi, p. 101. Nonostante siano evidenti e numerosi i momenti in cui James si occupo’ del problema della libertà e del determinismo prima della pubblicazione della Will to Believe, molti critici sembrano dimenticarsene; è vero che non è lo scopo dei Principles quello di dimostrare la realtà della libertà della volontà — d’altronde James pensava che non fosse dimostrabile, come d’altronde non è dimostrabile il determinismo — ma è altrettanto vero che proprio nell’opera del 1890 James raccoglie tutti i suoi sforzi di più di dieci anni finalizzati a mostrare come una scienza non

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del pensiero di William James incentrata sugli anni della sua giovinezza95, così come è stata sottovalutata l’argomentazione scientifica che James sviluppò nei Principles al fine di trovare anche una base fisiologica (potremmo dire biologica anche data l’importanza dell’influsso di Darwin a questo proposito) alla libertà dell’uomo:

[...] l’argomento fondamentale a favore del libero arbitrio non è scientifico, ma morale. Da giovane James era stato così colpito dalla possibilità che la realtà fosse deterministica che per un certo tempo non riuscì a fare alcunché. Fu solo la sua credenza che la libertà fosse reale che lo salvò dalla sua paralisi volitiva96.

Nel prossimo capitolo cercheremo dunque di mostrare l’importanza del ruolo di Darwin (e di altri scienziati e filosofi) nell’elaborazione jamesiana di una teoria del rapporto mente-corpo che ‘lasci spazio’ alla spontaneità dell’uomo, seguendo da vicino il lavoro di R.. J. Richards, lo storico della scienza che forse più di tutti ha analizzato recentemente le relazioni tra la psicologia indeterministica jamesiana e la teoria darwiniana dell’evoluzione per selezione naturale (soprattutto nella sua parte più rivoluzionaria: le variazioni spontanee), inserendo questi elementi in un ampio contesto scientifico e culturale della seconda metà dell’Ottocento”

rigidamente meccanicistica e — per quanto riguarda il rapporto mente-corpo — riduzionistica, sia ugualmente plausibile e anzi riesca a spiegare un maggior numero di fenomeni. Il fatto poi che James dichiarò quest’opera scevra di qualsiasi ambizione filosofica ha portato sicuramente — come vedremo nel prossimo capitolo — a una sottovalutazione della sua importanza per il tema del determinismo e della libertà della volontà; in questo caso, come in altri, è lo stesso James a essere in parte responsabile di questo atteggiamento nei confronti dei Principles; James non è un volontarista, se per volontarismo si intende una visione della volontà che la vede come completamente distaccata dalle regolarità della realtà biologica e sociale.. E’ vero che James vede solo un piccolo spazio per il ruolo della “volontà libera” nel dramma della vita, ma questa piccola differenza può cambiare tutto il mondo. D. S. Browning, op. cit., p. 132. E questo “piccolo spazio” fu trovato da James proprio nei Principles of Psychology, in particolar modo nei capitoli sulle facoltà della volontà e dell’attenzione dove le — scientifiche per quanto ipotetiche — variazioni spontanee diventano la premessa per quella scelta fra ipotesi che fa dell’uomo un essere, almeno potenzialmente, libero. Bjork lamenta esplicitamente questa eccessiva attenzione a una piccola parte, per quanto importante, della vita e dello sviluppo intellettuale di James: Fra tutti i diari e i taccuini di James, gli studiosi si sono interessati eccessivamente al diario che copre il periodo che va dal 1868 al 1873. troppo peso è stato dato al problema del perché James fosse depresso, perché prendesse in considerazione il suicidio e perché dopo l’Aprile del 1870 egli sembrò emergere da una situazione disperata. D. Bjork, op. cit., p. 81. Un motivo che può avere considerevolmente spinto la critica meno recente ad affidarsi a un’interpretazione intellettualistica per spiegare la vita e la filosofia del nostro autore può essere poi rintracciato proprio nella scarsità di informazioni (Cfr. per esempio il supposto ricovero di James al McLean Asylum di cui il Perry non fa cenno) sulla vita di James; altrettanto vero è che difficilmente la critica jamesiana si sentiva spinta ad approfondire certi ‘dettagli’ (spesso poco ‘filosofici’...) vista la generale accettazione di un approccio intellettualistico-spiritualistico apparentemente esaustivo. 95

M. P. Ford, op. cit., p. 27. Sarebbe errato pensare che James ritenga il sostegno morale alla libertà della volontà qualcosa di irrazionale o comunque di estraneo alla razionalità: è vero il contrario. James infatti, soprattutto nelle ultime opere dove introdurrà il concetto di “esperienza pura”, definirà un “nuovo” concetto di razionalità legato a un “nuovo” concetto di esperienza; razionale non sarà più allora ciò che è coerente con le sole leggi della logica: la razionalità richiede più della sola coerenza logica. Per essere razionale, una teoria o un oggetto deve soddisfare non solo le esigenze intellettuali di una coerenza teoretica, ma anche le esigenze dei ‘dipartimenti’ della volontà e delle sensazioni. P. B. Brennan, op. cit. p. 82. 96

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La crisi spirituale di James continuò per tutta la prima parte degli anni ’70 e probabilmente cominciò a risolversi soltanto dopo il suo matrimonio. Probabilmente fu proprio durante la sua luna di miele ch’egli pensò i suoi scritti filosofici e scientifici più importanti. Il sostegno emotivo garantito da una moglie e la sicurezza raggiunta dalla sua situazione accademica lo aiutarono considerevolmente. Ma la ‘cura’ di Renouvier, presa singolarmente, non era abbastanza potente per avere un effetto duraturo. Il filosofo francese kantiano aveva dimostrato che la posizione deterministica non era logicamente più persuasiva di quella indeterministica, ma non era stato in grado di combattere l’enorme forza della scienza vittoriana, che sembrava difendere [e difendersi con] il determinismo. James aveva bisogno di un’evidenza oggettiva da combinare con la sua preferenza soggettiva per la libertà. Questo sostegno lo trovò, abbastanza stranamente, nelle idee di un personaggio cui viene comunemente attribuita l’introduzione di un pervadente meccanicismo in biologia, Charles Darwin. Ma, per capire esattamente quello che Darwin poteva offrire a James e in che maniera questi ne accettò la teoria, conviene prima considerare la sua relazione intellettuale con un altro evoluzionista del diciannovesimo secolo, Herbert Spencer97.

97 R. J. Richards, op. cit., p. 422. Bisogna comunque ricordare che, come mostra sapientemente lo stesso Richards, il darwinismo non coincise mai, nemmeno all’inizio, con una visione deterministica della natura, almeno nella lettura che altri scienziati ne diedero, prima e dopo James (vedi per esempio George Romanes e Conwy Lloyd Morgan). La posizione di Richards sembra essere molto convincente, e infatti lo è. Come abbiamo già detto, il risultato più ‘pericoloso’ cui può portare un approccio intellettualistico che faccia della figura di Renouvier la fons et origo della ‘guarigione’ di James così come della sua elaborazione di una filosofia indeterministica, è che vengano ‘dimenticati’ tutti quegli autori che, spesso in misura pari a quella del filosofo francese, contribuirono enormemente all’elaborazione di una psicologia indeterministica (prima ancora che questa divenisse ‘parte’ di grande progetto filosofico). Richards è considerabile il ‘campione’ di questo atteggiamento teso alla rivalutazione di un personaggio, come quello di Charles Darwin, precedentemente sottostimato nella sua importanza per la psicologia e la filosofia jamesiane; pur all’interno di questo approccio storico scientifico, Richards non dimentica la multifattorialità che caratterizzò la crisi depressiva di James, ancor prima della sua filosofia: L’alternativa filosofica proposta da Renouvier sembra aver avuto un effetto positivo e continuativo nella vita emotiva di James. Il suo umore crebbe nella primavera del 1870, subendo però un calo l’anno seguente. Ma nel 1872 sembra che egli sia finalmente riuscito a trarre un definitivo giovamento dalla lettura di Renouvier. Ivi, p. 421. Richards, nella sua divisione della crisi spirituale di James in tre componenti (professionale, interpersonale e psico-metafisica) sembra unire efficacemente i pregi dell’approccio intellettualistico con quello esterno (cfr. R. J. Richards, op. cit., p. 417), ma, troppo teso ad ‘affiancare’ alla figura di Renouvier quella di Darwin, rischia di propendere infine verso un approccio spiritualistico in cui l’unica differenza con la ‘versione autorizzata’ è la grande importanza tributata all’influsso dello scienziato inglese: Io credo che James abbia sviluppato la sua dottrina evoluzionistica tra la fine del 1872 e l’inizio del 1873 e che ciò lo abbia aiutato a risollevarsi. Le condizioni di James migliorarono per il Marzo del 1873 quando suo padre scrisse a Henry Jr. riguardo al suo miglioramento. [...] l’argomento darwiniano era la dimostrazione più forte dell’autonomia della mente. Ivi, p. 433 . [...]. Come abbiamo visto sopra, nella lettera di Henry Sr. al secondogenito non viene però affatto citato né Darwin né la teoria evolutiva; anche il fatto che James disse di avere abbandonato l’idea che tutti i disturbi mentali debbano avere un’origine fisica difficilmente può essere messo in relazione con l’accettazione della teoria darwiniana; è più probabile invece che le parole di William al padre sull’importanza della teoria della selezione naturale siano state da questo dimenticate o escluse a bella posta dal suo ‘resoconto’, ma ancor più probabile è che, nel 1873, James, non avendo ancora studiato in tutte le sue conseguenze la dottrina dello scienziato inglese, non potesse affatto farvi riferimento come a uno dei ‘fattori’ del proprio ritrovato benessere. Il fatto che James non parli esplicitamente dell’importanza di Darwin come fece a proposito di Renouvier non deve però essere considerato di una qualche rilievo per il nostro giudizio storico filosofico; l’influsso di Darwin è nei Principles (e anche in gran parte delle opere future) più che evidente e non c’è perciò bisogno di alcuna testimonianza diretta in proposito. Oltretutto, l’atteggiamento di Richards sembra riproporre, come abbiamo già accennato, quell’approccio intellettualistico che vuole ‘verificare’ l’importanza di una teoria per la psicologia e la filosofia jamesiane attraverso il ‘filtro’ dell’importanza che questa avrebbe avuto per un suo miglioramento psico-fisico; ancora una volta (per Darwin come per Renouvier) riteniamo che le due cose (elaborazione di una teoria psicologica o filosofica e miglioramento delle condizioni di salute) debbano andare nettamente distinte e riportate su due piani differenti che trovano la loro giusta relazione in un rapporto dinamico, ma non causale.

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Nel prossimo capitolo cercheremo allora di seguire il suggerimento di Richards, cominciando col considerare la pars destruens della psicologia di William James (il cui foil fu Herbert Spencer) prima di giungere alla descrizione di quell’indeterminismo psicofisiologico che sarà la base scientifica su cui il pragmatista americano potrà costruire la filosofia della volontà di credere; il 21 Aprile del 1868 James, riflettendo sulla relazione tra legge morale e libertà creativa, in maniera quasi profetica scriveva sulle pagine del suo Diario:

Nella prima penso che debba esserci sempre un elemento di paura personale [...]; mentre la seconda ne è priva. Come spiegare quest’ultima in base a principi utilitaristici o darwiniani è un problema degno di investigazione.98”

98

D. Bjork, op. cit., p. 84.

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G. W. Allen, op. cit., p 122. Alice condivideva molti sintomi con William: ella veniva sovrastata da sensazioni violente, tempestose e incontrollabili, che si accompagnavano a pensieri di autodistruzione ed era così in collera col padre che non solo voleva rifiutare le sue idee, voleva addirittura ucciderlo. L. Simon, op. cit., p. 114. I cattivi rapporti con il padre erano palesi: quest’ultimo, nel 1869, non era riuscito a convincere la figlia a non andare a Newport senza di lui e William scrisse al fratello che la sua ragione principale [per andarsene] era di sbarazzarsi di lui [il padre]. CWJ I, p. 61, cit. ibidem. Lo stesso James riconosceva la sua profonda affinità, evidenziata dalla malattia, con la sorella: William purtroppo, sentiva di condividere con la sorella lo stesso “temperamento morale” [...]. “Morale”, nel linguaggio diagnostico per i disturbi psichici dell’epoca, era riferito al comportamento pubblico di una persona. Un comportamento pubblico socialmente accettabile era il risultato dell’autocontrollo o della forza di volontà. Una malattia “morale” si dava quando “la volontà mostra di aver perso la sua influenza sulle azioni dell’individuo”. L. Simon, op. cit., p. 118. (il testo tra virgolette è tratto da J. G. Spurzheim, Observations on the Deranged manifestations of the Mind or Insanity. Baldwin, Cradock & Joy, London 1817, p. 243). Il fratello maggiore aveva trovato Alice in pessime condizioni psichiche al suo ritorno dal viaggio in Germania (1867-1868); certo, in Europa aveva saputo della cattiva salute della sorella, ma probabilmente aveva sottovalutato la gravità della situazione; Alice non riusciva a dedicarsi alla minima attività intellettuale e qualsiasi sforzo o tensione morale la prostrava fisicamente e psichicamente. Di fatto, essa stessa riteneva che la sua malattia fosse dovuta a una deficienza di “moral power” e che i suoi sintomi fossero la drammatica rappresentazione di una battaglia combattuta tra il suo corpo e la sua volontà, una battaglia che la volontà era destinata a perdere. Della gravità delle condizioni della figlia si era invece accorta Mary James: È un vero e proprio caso di isteria, di cui non si può conoscere la causa. Si tratta di una forma di malattia tra le più difficili da sopportare, e tra le più difficili da curare, dal momento che se ne sa così poco”. A prescindere dalla validità della diagnosi clinica — isteria — è certamente vero che ben poco si sapeva al tempo di quello che stava capitando ad Alice James e ben poco si riuscì a fare per alleviare le sue sofferenze: Alice rimase per tutta la vita un’invalida, costretta a letto da una malattia di cui non si conosceva né la causa né il rimedio. È però interessante notare che, se è vero che William e Alice condivisero, almeno per un certo periodo, lo stesso “temperamento morale”, differente — in relazione al sesso — era il giudizio che generalmente la società vittoriana americana dava di questa condizione: una certa “fragilità nervosa”, in una donna era quasi universalmente considerata, almeno per i ceti elevati, una sorta di ‘qualità’, o comunque un motivo di attrazione; anche William pensava che la sorella avesse, insieme con una vita tormentata, acquisito un maggiore fascino femminile. Questo atteggiamento non fu certo molto salubre per Alice, anche quando si comprese che la sua “delicatezza” era qualcosa di ben più grave di una semplice fragilità di nervi tipica del gentil sesso: ‘delicata’ era la condizione che si pensava dovessero avere le signorine della classe media vittoriana. Con tutte le sue sfumature, da raffinato, sensibile, fragile e gentile a malaticcio e debole la parola delicato descriveva l’ideale vittoriano della bellezza: un grazioso languore, pallore e vulnerabilità — fino agli estremi della malattia — erano visti come segni di femminilità. Jean Strouse, Alice James, Houghton Mifflin, Boston 1980, p. 100. i

Abbiamo già fatto riferimento all’importanza che ebbe l’insicurezza affettiva di James nell’aggravare il suo stato ansioso; un’interpretazione esplicitamente ‘sessuale’ è quella fornita da Strout in William James and the Twice-Born Sick Soul, “Daedalus”, 97 (1968), pp. 1062-1082. L’autore colloca l’episodio dell’epilettico tra il 1866 — ritorno dal viaggio in Brasile con Agassiz — e il 1869, quando decise che, nonostante la laurea, non avrebbe esercitato la professione di medico. Strout suppone che James al tempo fosse tormentato dalla possibile relazione, suggerita probabilmente dalla lettura di un’opera di William Acton, The Functions and Disorders of the Reproductive Organs, tra un’eccessiva introspezione, il ‘rimuginare’ che caratterizzava il James di questi anni, e la masturbazione e tra l’onanismo e la malattia mentale. Sander Gilman, seguendo questa linea interpretativa, suggerisce che la possibile fonte da cui James avrebbe tratto la descrizione del paziente epilettico fosse un libro di Jean Etienne Dominique Esquirol, Des maladies mentales, datato 1838. Questo libro descrive un epilettico simile a ‘quello’ di James e il fatto che questo paziente fosse dedito alla masturbazione sarebbe la ‘prova’ che James aveva il timore di finire allo stesso modo. Data questa interpretazione potremmo affermare allora che James aveva il timore di non avere una forza di volontà sufficiente a fargli mantenere un comportamento sessuale ‘sano’, unito al timore che questa deficienza di volontà potesse portarlo in una condizione di vera psicosi. Menand infine cita un’opera che James sicuramente lesse, mentre la sua conoscenza delle due succitate rimane ipotetica: si tratta di Henry Maudsley, Body and Mind, An Inquiry nto their Connection and Mutual Influence, Specially in Reference to Mental Disorders, Macmillan 1870, dove viene trattato del tema della malattia mentale in relazione a un vizio masturbatorio (di altri scritti di Maudsley, James scrisse delle recensioni negli anni ’70; Cfr. Responsability in Mental Disease (1874) e The Phisiology of Mind (1877) — gli articoli si trovano in ECR, rispettivamente alle pp. 87-88 e 331-332. R. W. B. Lewis, nella sua bella biografia su tutta la famiglia James, ipotizza che il giovane William, prima del fidanzamento — o addirittura prima del matrimonio — avesse un rapporto molto combattuto con il sesso femminile: Probabilmente c’era qualcosa intorno al sesso femminile che, per lo meno temporaneamente, gli repelleva.; e forse, in relazione a ciò, egli stava esperendo un senso di disgusto per ciò che appare (l’evidenza è scarsa) essere stata una pratica autoerotica difficile da superare. La nausea fisica [cui James fa spesso riferimento] potrebbe essere il frutto di queste sensazioni. R. W. B. Lewis, op. cit., p. 188. ii

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A questo proposito cfr. anche D. Bjork, op. cit., p. 79, che sembra non avere dubbi sull’effettivo self-abuse di William James. Non è comunque provato che James avesse timori di un decadimento cerebrale dovuto al suo ‘insano’ comportamento sessuale; d’altronde ubbie di questo tipo non erano un’eccezione per un giovane Wasp dell’America Vittoriana, tanto più per uno studente di medicina (bisogna poi ricordare che la psichiatria della seconda metà dell’Ottocento racchiudeva i disturbi psichici in poche quanto generiche classificazioni: overwork, ansia, disturbi ereditari e masturbazione; per quanto risulti difficile, oggi, fare una ragionata diagnosi dei disturbi di cui soffrì James, sarebbe di certo scorretto affidarsi a una nosologia vecchia di più di cent’anni). Quel che possiamo dire con certezza è che James cercò di risolvere la sua depressione con tutti i mezzi che aveva a disposizione; in una condizione disperata come la sua, ogni ipotesi poteva essere quella giusta; tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70 i suoi dolori alla schiena si diffusero anche al collo e alle braccia; provò una cura galvanica, ma le scariche elettriche non alleviarono per nulla i suoi dolori. Per riuscire a dormire si “curò” col cloralio, ma ne prese quantità tali che le sue palpebre si infiammarono. L. Simon, op. cit., p. 120. Senza dubbio, il fatto che le cure della scienza medica dell’epoca non riuscissero ad alleviare le sue sofferenze, fisiche e psichiche, fu per James uno stimolo a cercare aiuto altrove: I lavori di psicologi classici e di “romantic improvers”, come anche quelli di filosofi, mistici e scrittori popolari, dominarono le letture jamesiane degli anni ’70. Questi testi, sperava James, gli avrebbero offerto consolazione, una guida, e gli avrebbero permesso di comprendere la propria condizione di fragilità, la sua paura di cadere in uno stato di follia che sembrava, spesso, nascondersi sulla soglia della propria coscienza. Ivi, pp. 124-125. iii Abbiamo già fatto riferimento all’importanza dell’indipendenza economica per tutti i membri della famiglia James nel Capitolo precedente. William James, anche una volta raggiunta una sicura posizione accademica a Harvard, non si sentì mai finanziariamente sicuro, ma non per questo diventò avaro. Ancora adolescente aveva scritto: “Non mi interessa di accumulare una fortuna”, William scriveva a Edgar, “Solo, voglio fare un mestiere che mi dia soddisfazione e che mi renda indipendente economicamente” WJ a Edgar van Winkle, 4 Gennaio 1858. CWJ IV, p. 9, cit. in L. Simon, op. cit., p. 58. James troverà un lavoro capace di soddisfarlo, anche da un punto di vista economico ma, alla fine degli anni ‘80 [...] egli era un professore di Harvard con un salario di quattromila dollari all’anno, non male al tempo come stipendio accademico, ma non abbastanza per le esigenze della famiglia James. G. W. Allen, op. cit., p 299. James in effetti condurrà sempre una vita molto costosa, per quanto non lussuosa: dovrà mantenere diverse case, una numerosa famiglia e, soprattutto, i suoi frequenti viaggi all’estero. Il fattore economico assume per l’interpretazione dell’opera di William James una particolare importanza: la maggior parte delle sue opere dopo i Principles saranno in sostanza una serie di raccolte di conferenze tenute in varie università, club etc. e questo fu determinato in grandissima parte proprio dall’esigenza di rimpinguare le casse familiari. Come vedremo, anche negli ultimi anni di vita, James stesso si lamenterà del suo squash popular-lecture style, e desidererà — senza riuscirci — scrivere finalmente per un pubblico di attenti lettori piuttosto che di ascoltatori. Howard Feinstein individua nel problema finanziario un elemento fondamentale nella vita di James anche da un altro punto di vista; William, come d’altronde il fratello Henry, aveva dovuto faticare non poco per ottenere dal padre i soldi per i suoi viaggi, primo fra tutti quello in Europa del 1867-68. Il fatto che il vecchio James non fosse tanto propenso ad allentare i cordoni della borsa sarebbe per l’autore di Becoming William James un elemento indispensabile per comprendere il permanere di cattive condizioni fisiche e psichiche del nostro autore durante il suo soggiorno europeo: in sostanza, il giovane William avrebbe ‘accentuato’, nei resoconti, i suoi disagi per ottenere quell’attenzione, anche pecuniaria, che gli permettesse di rimanere nel Vecchio Continente più a lungo. Questo comportamento però, sebbene utile al fine desiderato, aumentò certamente i suoi sensi di colpa e la sua scarsa fiducia nei propri mezzi; Se essere degli invalidi aveva dunque un’utilità sociale e interpersonale, era però sempre un compromesso. L’invalido avrebbe goduto del tempo libero che la malattia gli concedeva, ma al prezzo di un sicuro senso di colpa. H. Feinstein, op. cit., p. 202. Ma, per Feinstein, William non fu certo l’unico, fra i giovani americani del suo ceto, a entrare in questo ‘circolo vizioso’: Il capitale [finanziario] [...] era un ingrediente importante del fenomeno nevrastenico. Per quanto fossero solide le sostanze di una famiglia, [...] i soldi non potevano essere spesi per viaggi e divertimenti. [questa la mentalità del tempo]. Era perciò troppo semplice giustificare i viaggi per motivi di salute. Tra il 1866 e il 1873 la malattia divenne un mezzo con cui i figli di [Henry] James lottarono per spartirsi le risorse della famiglia. la malattia era stata il prezzo che Henry [Senior] aveva dovuto pagare per aver ottenuto quanto gli spettava e ora la cattiva salute divenne un’arma nelle mani dei figli per avere la propria parte. Ivi, p. 194. La malattia aveva sollevato James dagli studi scientifici [non potendo seguire le lezioni di laboratorio etc.] ed egli era sicuro che lo avrebbe liberato anche dalla responsabilità di sposarsi e di mantenere una famiglia. Ivi, p. 213. Per dei giovani [...] frustrati dalla difficoltà di scegliere una carriera, la nevrastenia si rivelò [...] una scusa per l’inattività [...]. G. Cotkin, op. cit., p. 27. iv Trattando delle condizioni psicofisiche del James di questi anni abbiamo spesso usato l’aggettivo “nevrastenico”, un termine oggi decisamente superato per descrivere i sintomi di cui egli soffriva (insonnia, pensieri ossessivi, disistima di sé, dolori agli occhi e alla schiena, ipocondria, irritabilità etc). Alla fine dell’Ottocento era però più che normale raggruppare sotto la parola “nevrastenia” tutta una serie di disturbi anche molto diversi fra loro, e fu James stesso, come abbiamo visto, a parlare di sé come di un “nevrastenico”. Com’è noto, fu George Miller Beard (1839-1883) a coniare il termine neurasthenia; Beard si laureò a Yale nel 1862 e al New York’s College of Physicians nel 1866. Dopo avere conseguito la laurea egli decise quasi immediatamente di specializzarsi nei disturbi del sistema nervoso. Nel 1868 — gli anni in cui James vide peggiorare le proprie condizioni di salute — iniziò una serie di lezioni sui disturbi nervosi alla New York University e già un anno dopo, sulle pagine del Boston Medical and Surgical Journal, pubblicava la prima descrizione della nevrastenia. Nel 1880 scrisse A Practical Treatise on Nervous Exhaustion (Neurasthenia) dove espose le proprie considerazioni sulla sintomatologia, la natura e la possibile terapia del ‘nuovo’ disturbo: i sintomi rilevati erano quasi una quarantina (tra cui: insonnia, dolori, ronzio

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auricolare, cefalea, difficoltà di concentrazione, irritabilità, scoramento e paure). Beard considerò le nevrastenia un disturbo nervoso “funzionale”, intendendo così esprimere la propria speranza nell’unità del disturbo e in un futuro riconoscimento di una patologia organica alla sua origine; egli descrisse la nevrastenia (al di là dei suoi sintomi) come una diminuzione o una completa mancanza di potere (power) del sistema nervoso che era visto come un circuito energetico chiuso, dotato di una specifica e fissata quantità di forza nervosa (Beard scrisse anche un libro intitolato: American Nervousness: Its Causes and Consequences, G. P. Putnam’s Son, New York 1881, che contiene un capitolo intitolato proprio Causes of American Nervousness. Sempre a questo proposito vedi anche Tom Lutz, American Nervousness, 1903, Cornell University Press, Ithaca 1991). Anche altri termini venivano spesso utilizzati per descrivere gli stessi disturbi cui faceva riferimento Beard: I termini nevrastenico, isterico, melanconico, dubbioso e amletico erano usati in questo periodo [dal 1880 al 1910] per descrivere la classe borghese. G. Cotkin, op. cit., p. 74. Che James non risolse affatto i suoi problemi psichici durante la prima parte degli anni ’70 è dimostrato nella maniera migliore dalla sua vita futura; nel periodo, di dodici anni, in cui James fu occupato dalla composizione della sua opera più importante e voluminosa, i Principles, James fu soggetto nuovamente a periodi di depressione: oltre ai turbolenti eventi della sua vita privata, James soffriva anche di forti dolori fisici che gli impedivano di proseguire nel lavoro sul libro [i Principles]. I sintomi di James, compresi problemi di affaticamento visivo, insonnia e “affaticamento cerebrale” non erano diversi da quelli descritti da George Beard nel 1881 con il termine di neurasthenia , un termine che racchiudeva sotto di sé un ampio spettro di disturbi psicosomatici durante il periodo vittoriano. Qualunque fosse l’origine di questi disturbi, James poteva lavorare seriamente soltanto quando essi erano minimi. Brett King, Evolution and the Revision of the Principles, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 70. Lo stesso King, una pagina prima, scrive: Senza dubbio, il periodo che a dal 1878 al 1890 può essere considerato il periodo più turbolento della vita di William James. Una posizione certamente non in accordo con l’interpretazione tradizionale che colloca nella fine degli anni ’60 il periodo di maggiore crisi; senza cercare di fare una graduatoria dei periodi critici della vita di James possiamo però dire che questi furono certamente numerosi e moltissime sono le testimonianze in proposito; coloro che vogliono dividere la vita di James ⎯ Myers è uno di questi ⎯ in due parti (prima e dopo la depressione) debbono fare i conti con quelle che potremmo chiamare le sue ricadute; nell’Agosto del 1873 William comunicò al presidente Eliot la sua intenzione di astenersi per un anno dall’insegnamento. Il 12 di Settembre la madre [di William] scrisse a Harry che Will era di nuovo in procinto di imbarcarsi per l’Europa. [...] Egli sembrava essere più forte, ma ancora in uno stato di “malattia”. G. W. Allen, op. cit., p. 184. Vedremo alla fine di questo capitolo come la constatazione della periodicità, quasi ciclotimica, delle crisi depressive di William James (che durarono fino alla sua morte) deponga decisamente a sfavore di qualsiasi interpretazione che voglia racchiudere in pochi anni, se non addirittura in poche settimane, la ‘caduta’ e la ‘rinascita’ del nostro autore. v Lo stesso Cotkin comunque, pur attribuendo grande importanza al non arruolamento di James in relazione alla sua nevrosi, riconosce che non si può parlarne come della causa principale: la mancata partecipazione alla Guerra Civile causò a James dei problemi, sebbene non si può tracciare una connessione causale diretta tra la sua passività rispetto al conflitto e l’inizio dei suoi disturbi fisici e mentali. G. Cotkin, op. cit., p. 32. Di fatto, Anche Alexander Agassiz e Chauncey Wright non parteciparono al conflitto sviluppando sentimenti di vergogna, se non un vero e proprio senso di colpa. Cfr. Ivi, pp. 33 e 34. Sull’importanza della Guerra Civile e dei suoi ‘effetti morali’ sui giovani americani vedi anche George M. Fredrickson, The Inner Civil war: Northern Intellectuals and the Crisis of Union, Harper Torchbooks, New York 1968. Bennett Ramsey dipinge abbastanza efficacemente il clima di disorientamento seguito alla fine del conflitto: […] le persone cominciarono a sentirsi libere, ma in una maniera nuova e terrificante: liberi non nel senso di avere il controllo del proprio destino, dove la libertà rappresenta la liberazione da costrizioni esterne, ma piuttosto liberi nel senso di “gratuito”, dove la libertà è l’enorme e coercitivo terreno nel quale siamo presi, dove la vita semplicemente è data, senza ragione e senza fine. B. Ramsey, op. cit., pp. 6-7. Ramsey, e lo vedremo meglio in seguito, cerca di portare prove a sostegno della sua tesi, che la libertà per James significhi in sostanza passività, decisione di non crearsi le proprie regole di condotta, ma di accettane di già fatte. Giusta questa prospettiva, James avrebbe radicalmente mutato il suo concetto di libertà dai Principles fino agli Essays on Radical Empiricism: James si allontana dall’idea di un Sé forte, assertivo e romanticizzato per avvicinarsi invece a un Sé essenzialmente convertito che vive religiosamente, cioè con un senso di responsabilità piuttosto che di controllo sul libero gioco delle forze nelle quali vive. Ivi , p. 7. Al controllo si sostituirebbe la responsabilità, ma non si capisce come possa esserci responsabilità senza controllo; sembra che Ramsey confonda la filosofia di William James con la dottrina di Henry James Sr., un’operazione che sembra finalizzata ad ammantare di religiosità un pensiero morale che invece trovava la sua forza proprio nell’autonomia dell’uomo, non solo dalle pulsioni e dai desideri, ma anche dai dogmi e dai comandamenti. E’ vero che James si oppose a un’idea “eroica” di libertà, intesa come possibilità di fare tutto ciò che si vuole a dispetto di qualsiasi regola ⎯ un’idea che fu rappresentata emblematicamente a livello politico dall’imperialismo ⎯ ma questo non coincide affatto con un indebolimento dei poteri della nostra volontà, che per James non può essere ridotta alla facoltà conoscitiva di comprendere qual è il nostro ruolo e di adattarvicisi, in una maniera che come sembra suggerire inconsapevolmente Bennett Ramsey, sembra avvicinare artificiosamente il pensiero del nostro autore a quel soft determinism che cerca di conciliare determinismo e libertà lasciando poi insoddisfatte sia la scienza che la morale. Daniel Bjork, al contrario, sembra cogliere veramente lo spirito della ricerca jamesiana di una filosofia della libertà che sia prima di tutto base solida per la costruzione di una morale individuale: La legge morale richiedeva che si seguissero le convenzioni sociali, che si scegliesse una vocazione e si sviluppasse una professione. Ma la grazia, il senso estetico, l’immaginazione richiedevano un libero gioco. La radice antinomiana di James non rappresentava per William il desiderio di raggiungere una grazia di tipo teologico, ma di trovare [...] quello stato mentale creativo che gli artisti

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greci possedevano come una qualità innata, istintiva. D. Bjork, op. cit., p. 84. Essere liberi significa prima di tutto potere costruirsi una morale che vada al di là dell’etica dominante e che vada anche al di là delle alternative, religiose, politiche etc, che a quest’etica dominante si contrappongono; ciò non significa che James non auspicasse la combinazione di queste morali individuali in un’etica comune; solo, il processo doveva “partire dal basso” e non essere imposto all’individuo (pena la perdita della sua autonomia): il punto che Ramsey sembra non comprendere è proprio questo. vi Scriveva James a Henry W. Rankin — sostenitore americano della realtà della possessione demoniaca — : “[...] sebbene la religione rappresenti una parte importante dei miei interessi, devo ritenermi senza speranza non-evangelico, e trattare della cosa in maniera troppo impersonale” G. W. Allen, op. cit., p. 386. Anche nella parte finale della propria vita, dominata da forti momenti di depressione causati — anche — dalle sue pessime condizioni di salute, James non riuscì mai a vedere la religione come possibile strumento di consolazione: Ora [negli ultimi anni di vita] la soluzione religiosa lo tentava come mai aveva fatto prima. Una filosofia dell’esperienza pura, per quanto piena di risorse, aveva limiti ontologici che la religione sorpassava. Ma William non si arrese mai alle consolazioni fornite dalla religione. D. Bjork, op. cit., p. 243. La sua mente ossessivamente speculativa e il suo temperamento scientifico gli impedirono di esperire l’unica profondità [quella religiosa]che avrebbe potuto essergli d’aiuto nella crisi finale. James passò gli ultimi anni della sua vita andando e venendo dall’Europa, tenendo una conferenza dopo l’altra, e, ovviamente, inseguendo la propria metafisica. Era come se muovendosi, tenendosi occupato e rimanendo sul piano speculativo egli potesse evitare di scontrarsi con la realtà metafisica a cui l’avrebbe portato la religione. La volontà di credere non era abbastanza; né lo era il pragmatismo o la filosofia dell’esperienza pura; e scrivere le Conferenze Gifford [Varieties] sull’esperienza religiosa non era certo un valido sostituto della fede stessa. La prospettiva “religiosa” di James, per quanto sensibile e profonda, non era di fatto una vera prospettiva religiosa [ma rimaneva una prospettiva squisitamente filosofica]. Ivi, p. 244. D’altronde la ‘fede’ di James può difficilmente dirsi tale proprio perché essa mancava di quell’elemento di passività che forse più la caratterizza: La fede di James, al contrario di quella del padre e della madre, richiedeva un ferreo esercizio della propria volontà. L. Simon, op. cit., p. 288. Quell’interesse [per la religione] risale all’influenza di suo padre, Henry James Sr., la cui vitale carriera come scrittore, conferenziere e uomo di conversazione fu ardentemente dedicata a questioni religiose. La toccante devozione di James per il padre era in lui unita a una grande ammirazione per l’uomo, anche se egli non riuscì mai a trovarsi completamente in accordo con la sua prospettiva religiosa. R. J. O’Connell, op. cit., p. 26. Perry, al contrario, sottolinea le affinità tra padre e figlio, piuttosto che le differenze: [...] la religione era sicuramente uno [dal momento che una volta James aveva detto il] dei grandi interessi della sua vita. Così stando le cose non c’è da sorprendersi che l’influenza del padre sia stata profonda e duratura. TCWJ I, p. 165. Certamente, possiamo dire che l’atteggiamento di James subì un notevole cambiamento dalla giovinezza alla maturità; nei primi anni, infatti, possiamo dire ch’egli rifiutava in toto l’appello alla fede come possibile soluzione (per altri se non per sé) di problemi esistenziali o morali: Parlare d’intuizione morale e credere nel libero arbitrio su basi morali significa valutare la credenza stessa come un’attività umana. Accettare l’uguale valore di un’altra “verità morale” per le sue conseguenze positive è un atto di fede e perciò comporta un rischio. Ma negli anni ’70 e ’80, quando James stava discutendo questi argomenti, la fede era diventata un concetto negativo; la fede era: non scientifica, illusoria, priva di senso, [...]. Quelli che assunsero questo atteggiamento si definirono positivisti, dal nome dato da August Comte alla sua filosofia della conoscenza. J. Barzun, p. 160. Altri critici, come il nostro Riconda (cfr. Invito al pensiero di James, cit., passim) hanno invece sottolineato l’importanza dell’elemento religioso nel pensiero di James. Indubbiamente sarebbe avventato l’atteggiamento di chi volesse allontanare James da quella spiritualità che anima saggi importanti come quello sul valore della vita (Is Life Worth Living?), e che innalza la religione a solida base su cui fondare la nostra morale; certo, possiamo dire che in James, a questa grande esigenza non seguì poi un’effettiva capacità di vivere religiosamente molti momenti della sua vita. Questo argomento meriterebbe ovviamente un’attenzione ben differente da quella che vi abbiamo prestato qui; ma possiamo forse concludere efficacemente citando una di quelle metafore che tanto hanno contribuito a far comprendere, in poche essenziali parole, la profondità, e a volte l’ambiguità del pensiero di William James: [...] “Dopo aver fatto un bagno nella religione”, disse una volta ai suoi studenti, “uscite e fatene un altro nella filosofia”. TCWJ II, p. 354. vii L. Simon, op. cit., p. 125. Anche Allen ricorda l’importanza di Bain: Un altro libro che a quel tempo diede un qualche aiuto a James fu The Senses and Intellect di Alexander Bain, che aveva acquistato a Parigi nel 1868. Più tardi James avrebbe trovato motivi di disaccordo col filosofo scozzese, ma sarebbe sempre stato debitore all’analisi fornita da Bain sull’“abitudine” e per averlo aiutato a tirarsi fuori dalla depressione nera che lo aveva attanagliato nel 1870. G. W. Allen, op. cit., p. 168. La ripetizione di una determinata azione diventa più semplice e più automatica. Questa è una legge fisiologica, basata sulla natura plastica del cervello. Una volta che una corrente nervosa “ha attraversato un percorso, essa lo farà molto più facilmente la seconda volta”. Basandosi sul lavoro dello psicologo britannico Alexander Bain — la cui psicologia dell’abitudine completava l’enfasi data da Renouvier alla libertà della volontà — James costruì il suo ruolo per l’abitudine nel rendere l’azione possibile.. Il quotidiano “gratuito esercizio” di abitudini utili prometteva la liberazione da quella dolorosa inattività che aveva tormentato James. Il suo primo atto non fu solo quello di credere nel libero arbitrio, ma anche di agire di conseguenza, nonostante ci fossero fatti e argomenti contrari. G. Cotkin, op. cit., p. 70. H. Feinstein è fra coloro che sottolineano l’importanza della lettura delle opere di Bain per la ‘guarigione’ di James: Un’attenta lettura mostra che la ‘crisi’ di Renouvier [i. e. la sua ‘conversione’]non fu affatto unica, né provocò un cambiamento nelle convinzioni di William o un impatto risolutivo [“a dramatic impact”] sulla sua salute. Inoltre Alexander Bain, lo psicologo associazionista, fu più importante di Renouvier nelle ‘battaglie’ di James degli anni’ 70. H. Feinstein, op. cit., p. 308. D. W. Viney, che abbiamo già ampiamente citato sopra in ordine all’influsso di Renouvier (e soprattutto di Lequier) sulla filosofia di William James, non è ovviamente d’accordo con Feinstein: Feinstein è nel giusto quando afferma che James ebbe altre crisi [qui sembra che Viney si riferisca però alle crisi ‘negative’ e non a quelle ‘positive’ come fu quella di Renouvier] e che la sua salute non migliorò semplicemente in seguito alla lettura di Renouvier. Certo, l’importanza della psicologia di Bain per James, specialmente riguardo al

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tema dell’abitudine, non può essere negata, ma è un’esagerazione, comunque, dire che l’influenza di Bain possa eclissare quella di Renouvier, ed è singolare, proprio in virtù delle parole di William James, affermare che la lettura di Renouvier non portò alcun cambiamento nelle sue convinzioni. D. W. Viney, op. cit, p. 31. La Simon sembra dare nessuna importanza a Bain per la recovery di William James, anzi, dalle sue parole la figura dello psicologo inglese emerge come ‘causa’ piuttosto che come ‘rimedio’ dei mali di cui soffriva il nostro autore: Il 30/4/1870 c’è la famosa “crisi” dovuta alla lettura degli Essays di Renouvier : la credenza nel libero arbitrio sarebbe stato niente meno che un atto di fede. Dopo tutto, egli era stato persuaso da Bain che non sarebbe mai potuto essere libero, ma piuttosto costretto all’interno dei confini di una data personalità e di un dato contesto culturale. James aveva definito la volontà come una forte determinazione capace di condurre a un’attività produttiva e a un nuovo intreccio di relazioni con gli altri. L. Simon, op. cit., p. 127. Ci sia consentito un appunto alle osservazioni della Simon: certo, William James ebbe con Bain sempre un rapporto ambivalente (vista anche la posizione ‘sfumata’ di James verso la teoria associazionistica), e certamente la ‘psicologia dell’abitudine’ di Bain poteva coincidere facilmente con una visione deterministica della personalità dell’uomo e quindi essere poco adatta a sostenere una psicologia ‘creativa’ com’era nelle intenzioni di James; ma è altrettanto vero che lo stesso psicologo americano riconobbe — proprio nel brano che viene citato come la ‘conversione’ a Renouvier — l’importanza dell’abitudine come strumento utile per la preservazione di comportamenti ‘sani’, citando esplicitamente Alexander Bain: La giornata di oggi mi ha fornito quell’eccezionale appassionata iniziativa che Bain ritiene necessaria per l’acquisizione di abitudini. LWJ I, p. 148. Robert Richards, dopo avere ricordato che il primo ad attribuire la ‘rinascita’ di James alla filosofia di Renouvier fu Ralph Barton Perry, sottolinea il fatto che il filosofo francese non può essere considerato il solo salvatore, e, al fine di sostenere la sua ipotesi si serve proprio dell’autorità di Howard Feinstein (Cfr. H. Feinstein, op. cit., pp. 311-312): Feinstein afferma che la lettura di Renouvier non cambiò drasticamente le convinzioni filosofiche di James, né che ebbe un impatto decisivo sulla sua salute. Ma è naturale che uno psicoanalista debba ritenere che l’intellettualizzazione data da un paziente ai suoi problemi maschera ben più profonde difficoltà edipiche — un assunto che non appartiene allo storico della scienza.. R. J. Richards, op. cit., p. 421, n. 43. È anche vero però che se uno storico della scienza o della filosofia ‘si serve’ di contributi squisitamente psicoanalitici, egli deve anche in qualche misura condividerne gli assunti; a noi sembra che le conclusioni che raggiunge Feinstein siano da distinguere nettamente e da valutare differentemente: per quanto riguarda il fatto che la salute di James non migliorò affatto sensibilmente dopo la lettura di Renouvier (subito dopo e anche dopo parecchi mesi) ci sentiamo di condividere completamente il giudizio di Feinstein; per quanto invece concerne l’importanza che il filosofo francese ebbe per le “convinzioni filosofiche” del nostro autore, sembra che Feinstein, questa volta ‘mischiando’ impropriamente l’analisi clinica con il giudizio filosofico, tenda a far coincidere il possibile miglioramento delle condizioni di salute con un radicale cambiamento di prospettiva filosofica, in una maniera — paradossalmente tipica di un approccio intellettualistico che dovrebbe essere ben lontano dalla sua impostazione scientifica — che non possiamo affatto condividere. Bain, lo vedremo meglio nei prossimi Capitoli, ebbe sicuramente un’importanza decisiva per l’elaborazione della psicologia jamesiana del sistema nervoso; anche in questo caso però, come in quello di Renouvier e per gli stessi motivi, il suo influsso si dimostrerà più nelle opere che nella vita di William James. Il fatto che poi James si sia allontanato da Bain non vuol dire granché; anche con Renouvier i rapporti si raffreddarono lentamente e quella che sembrava destinata a diventare una grandissima amicizia, si trasformò in una cortese corrispondenza fra due filosofi che alla fine si riconobbero molto diversi l’uno dall’altro; molti hanno sottovalutato l’importanza di Bain proprio data la sopravvalutazione di Renouvier, soprattutto dopo che James scrisse un articolo sulla Nation: In una recensione pubblicata sulla Nation l’8 Giugno 1876, intitolata Bain e Renouvier, egli criticò il cauto rifiuto di Bain di abbracciare un’idea che non fosse stata precedentemente dimostrata scientificamente [la posizione che poi James criticherà in Clifford nella Will to Believe] con la libertà che Renouvier mostrava nell’accettare credenze che fossero utili. Egli continuò poi a tenersi in contatto con Renouvier, al quale aveva scritto la prima lettera nel 1872.. Il 29 Luglio del 1876 egli [James] assicurava Renouvier che “è solo una questione di tempo [prima che] lei occupi il suo posto nella storia universale del pensiero umano come il rappresentante ultimo e classico di quella tendenza che prese avviò con Hume e alla quale scrittori a lei precedenti hanno dato solo sporadici contributi, mentre lei è stato in grado di fondere l’intera materia in un sistema definitivo, elegante e solido, perfettamente in grado, in ragione della sua moralità vitale, di diventare popolare, per quanto questo sia permesso a un sistema filosofico”. G. W. Allen, op. cit., p 202. viii A questo proposito la cronologia dei fatti ci viene ancora una volta in aiuto; James infatti cominciò a stare meglio de facto e non solo de iure (cioè secondo i suoi “proclami”) dopo avere ottenuto la cattedra di insegnante e soprattutto dopo avere raggiunto una serenità sentimentale e affettiva con il matrimonio; questo porta a credere che le “cause” fossero della stessa natura delle “cure”: sebbene James soffrisse di insonnia, dolori agli occhi e depressioni altalenanti, durante i primi anni di matrimonio non gli capitò più di raggiungere i più profondi stati di depressione che aveva provato in gioventù. L. Simon, op. cit., p. 212. Lo stesso James non cercò mai di negare l’importanza ch’ebbe per la sua vita il matrimonio con Alice: William in seguito riconobbe che il matrimonio con Alice aveva rappresentato la reale ed effettiva terapia capace di farlo uscire dalla depressione. D. Bjork, op. cit., p. 105. Il suo matrimonio non fu mai in crisi, e William in seguito riterrà che proprio il suo legame familiare lo salvò da una nevrastenia senza speranza, anche se trovava la famiglia una costante distrazione dalla concentrazione mentale e dal pensiero creativo. G. W. Allen, op. cit., p. 228. James si sposò nella primavera del 1878 con Alice H. Gibbens, e cominciò subito a rimettersi in salute e a condurre una vita più piena e più attiva. J. J. Putnam, William James, in L. Simon (a cura di), William James Remembered, cit., p. 16. Il matrimonio con Alice Gibbens è spesso citato come uno di quei fattori esterni che hanno tratto James dalla profondità della sua depressione. G. Cotkin, op. cit., p. 62. Cotkin, pur sottolineando l’importanza del matrimonio e della carriera universitaria attribuisce gran parte del miglioramento di James al suo “sforzo di volontà”; si tratta però di una distinzione poco chiara e fuorviante: forse che James non ebbe alcun merito

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nell’ottenere un impiego a Harvard e forse ch’egli fu totalmente passivo nell’incontro con la futura Mrs. James? È vero che la nomina di professore non fu da James deliberatamente ricercata fin dai primi anni di università ed è altrettanto vero che la conoscenza con Alice Howe Gibbens fu ‘pilotata’ dal padre Henry, ma ciò non toglie che James, proprio trovandosi in una situazione decisamente critica sia dal punto di vista psicologico che fisico, dovette impiegare molto willpower per riuscire a diventare un buon insegnante e un buon marito. Separare lo “sforzo di volontà” dalle situazioni concrete in cui questo può effettivamente estrinsecarsi è un modo quantomeno singolare di interpretare la possibilità della ‘rinascita’ di William James. Attraverso la coltivazione dei suoi poteri di attenzione e attraverso lo sforzo della volontà, a forza di asserire la realtà della libertà contro le ipotesi opposte, e con l’aiuto del matrimonio e della carriera, James cominciò a emergere dai suoi anni di depressione, armato di una più sana concezione della vita. G. Cotkin, op. cit., p. 70. Sull’importanza del matrimonio nella vita di James vedi: R. W. B. Lewis, The Courtship of William James, “Yale Review”, 73 (1984), pp. 177-98; Mark Schwenn, Making the World. William James and the Life of the Mind, “Harvard Library Bullettin” 30 (1982), 439 e sgg.; Marian C. Madden e Edward H. Madden, The Psychosomatic Illness of William James, in “Thought” 54 (1979), pp 376-392. Molto interessante per comprendere la figura di Alice James e il suo rapporto col marito è il ricordo di un’amica di famiglia, Elizabeth Glendower Evans (1856-1937); Cfr. E. G. Evans, William James and His Wife, in L. Simon (a cura di), William James Remembered, cit., pp. 61-81. Anche Richards ricorda l’importanza di Alice per la salute di William: Fu Alice a risollevare James, poiché in lei riuscì a trovare quell’incarnazione del sentimento religioso ch’egli aveva rifiutato nella forma swedenborghiana proposta dal padre. R. J. Richards, op. cit., p. 417. A nostro parere l’importanza della figura della moglie Alice per il miglioramento delle condizioni di salute di William deve essere mantenuta nei confini della sicurezza affettiva ch’ella riusciva a ispirare; la sua religiosità è ben nota, ma che questa abbia avuto un qualche influsso positivo sul nostro autore rimane da dimostrare; al proposito, sono molto interessanti le parole di un ex-studente di James, John Elof Boodin: Come mi disse [James], sebbene non era affatto necessario, sua moglie possedeva proprio quelle caratteristiche di cui egli aveva bisogno per completare la sua vita brillante. ‘”Io sono un tipo nervoso”, disse, “ma mia moglie possiede la calma e la stabilità necessarie per equilibrare la famiglia”. Lei amava le sue debolezze e si prendeva la responsabilità della casa. J. E. Boodin, William James as I Knew Him, in L. Simon (a cura di), William James Remembered, cit., pp. 217-218 (il contributo di Boodin occupa le pp. 207-232). Sembra invece che James attribuisse minore importanza all’insegnamento: Le condizioni di James sembravano migliorate, [dopo l’offerta di lavoro] ma egli non era d’accordo nell’ammettere che fosse stato il nuovo lavoro a migliorare così la sua condizione fisica. Infatti, come disse a suo padre, era stata la lettura di Renouvier e di Wordsworth a provocare il suo cambiamento e a convincerlo “a rigettare l’idea che ogni disturbo psichico sia dovuto ad una causa fisica”. L. Simon, op. cit., p. 134. James non pensava che l’insegnamento lo avesse effettivamente aiutato a risollevarsi, probabilmente anche perché egli patì fin dai primi anni i numerosi impegni cui doveva adempiere come professore e ricercatore; spesso egli si prese delle lunghe vacanze — ovviamente trascorse in viaggi, soprattutto in Europa, — per interrompere la routine universitaria, e di fatto l’insegnamento gli permise di concentrare i propri sforzi intellettuali su obiettivi ben precisi, senza disperdere così le proprie forze, e gli permise anche di non sentirsi isolato, anche intellettualmente, come in passato. Purtroppo l’esigenza di rimpinguare le casse della numerosa ⎯ ma soprattutto costosa ⎯ famiglia, lo costrinsero ad assumersi impegni gravosi anche oltre alla normale attività accademica: quelle lectures che tanto lo resero popolare in tutti gli Stati Uniti e non solo furono sempre per lui fonte di ansia e di stanchezza. Quando James riuscì finalmente a fare accettare le proprie dimissioni dalla Harvard University (1907) visse una nuova ‘rinascita’; finalmente ⎯ almeno così credeva ⎯ poteva ora dedicarsi a completare il proprio sistema filosofico. Scrive in una lettera a Schiller nel Maggio del 1907: “Ora che sono sfuggito a questa vita di tumulto professionale, il senso di libertà che mi riempie è sorprendente e squisito.” D. Bjork, op. cit., p. 165. I doveri di insegnante rappresentavano per James un vero fardello. D.B. King, Evolution and the Revision of the Principles, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 69. Purtroppo James non riuscirà, anche dopo le dimissioni del 1907, a portare a termine i suoi progetti, in particolare quello di dare alle stampe un’opera di filosofia che riassumesse la sua “metafisica”; d’altronde la sua fama aveva raggiunto l’apice proprio in questi ultimi anni ed egli non riuscì mai a sottrarsi, fino agli ultimi mesi di vita, al dovere e al piacere di tenere un gran numero di conferenze.

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Capitolo 3.1 Il problema psicologico della libertà Gli uomini, dicevo, sono solo scimmie. L’amore, l’arte e l’altruismo sono solo sesso. L’universo è solo materia. La materia è solo energia. Ho dimenticato che cosa dicevo fosse solo l’energia... (J. Gresham) Confido che chi mi legge intenda ora che la via per arrivare a penetrare più profondamente il mistero dell’ordine delle nostre idee, è quella della fisiologia cerebrale. (W. James)

3.1.1 1878-1890: da un annus mirabilis a un epochal year Nel precedente capitolo abbiamo rimarcato l’importanza dell’anno 1871 per la vita — professionale e personale — di William James; in quell’anno James si sposò, pubblicò alcuni fra i suoi articoli più importanti e firmò il contratto con l’editore Henry Holt per la pubblicazione di un libro di psicologia, quello che, dodici anni dopo, si sarebbe chiamato The Principles of Psychology2.

Uno sguardo alla lista dei lavori pubblicati da James fornisce con evidenza la prova che l’anno 1878 fu decisivo nella sua carriera, e anche nella sua vita personale. Nel 1878 aveva pubblicato tre articoli importanti, Remarks on Spencer’s Definition of Mind as Correspondence, Brute and Human Intellect e Quelques considérations sur la méthode subjective, tutti molto caratteristici delle idee che aveva maturato sia in filosofia che in psicologia. Dopo il 1878 il flusso della produzione jamesiana continuò in crescendo per trent’anni — fino a pochi mesi dalla sua morte. TCWJ I, p. 378. Per la definizione del 1878 come annus mirabilis per la vita e la carriera di James cfr. R. J. Richards, op. cit., p. 430. 1

2 Il libro sarebbe dovuto essere un manuale di psicologia, come in effetti poi diventò (sebbene nella sua forma ridotta), e faceva parte di un ampio progetto scientifico divulgativo, la Holt Americamn Sciences Series. (Cfr. G. W. Allen, op. cit., p 222): Inizialmente Holt chiese a John Fiske, un noto seguace del pensiero di Spencer, di scrivere un manuale di psicologia per la serie. Quando Fiske divenne troppo occupato per accettare la proposta, egli raccomandò allora il nome di William James come sostituto adatto a compiere l’opera.. D. Brett King, Celebrating the Principles, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 68. L’andamento dei fatti è abbastanza paradossale, perché James impiegò non due ma ben dodici anni per portare a termine il lavoro; probabilmente Fiske avrebbe impiegato molto meno tempo...Holt non vide comunque tradita la sua fiducia — e la sua pazienza — : il libro rappresentò un notevole successo editoriale, soprattutto nella sua forma ridotta, più adatta a essere utilizzata come manuale (Psychology: Briefer Course), che gli studenti chiamavano scherzosamente “Jimmy” (mentre l’edizione originale era il “James”). Chi si domandasse perché Holt abbia aspettato così a lungo il manoscritto di James troverebbe la risposta all’inizio del capitolo 54 del libro del Perry: Henry Holt era ben più che un editore, era un uomo di grande cultura e di notevole sensibilità; lo stesso James intratterrà con lui un rapporto epistolare durato cinque lustri. Con un editore più frettoloso i Principles non avrebbero mai visto la luce (Cfr. TCWJ I, p. 34). Gay Wilson Allen ha intitolato il capitolo XVII della sua biografia su James “Epochal Year” (in riferimento alla pubblicazione dei Principles), ma la definizione è originalmente dello stesso William James che, nel 1890, scriveva al fratello Henry: Con quell’opera, la tua Tragic Muse, e...la mia Psychology (i. e. i Principles of Psychology) l’anno 1890 verrà ricordato come il grande anno epocale nella letteratura americana.. Cfr. G. W. Allen, op. cit., p. 295.


La vita professionale e quella personale beneficiarono quasi immediatamente dal suo matrimonio [...] Nel decennio precedente egli aveva infatti pubblicato circa quarantacinque tra saggi e recensioni , molti dei quali molto brevi e di scarso significato. Ma subito dopo il matrimonio egli pubblicò molti saggi importanti, inclusa una critica alla Definition of Mind as Correspondence di Herbert Spencer, Brute and Human Intellect, Quelques considérations sur la méthode subjectivei, e (nel 1879) The Sentiment of Rationality e Are We Automata?. Nella lezione su “Il cervello e la mente”, tenuta per la prima volta alla John Hopkins [University] e replicata al Lowell Institute in Ottobre e Novembre del 1878, James tracciò lo sviluppo delle teorie scientifiche sulla natura e la funzione del cervello e analizzò il rapporto che intercorre tra la mente e il cervello. Molti degli psicologi “da laboratorio” erano divenuti sempre più critici nei confronti del “metodo soggettivo” [i. e. l’introspezione], metodo difeso da James nell’articolo in francese. Essi ritenevano che soltanto i dati statistici fondati su misurazioni fisiologiche portassero a “verità” scientifiche. Ma James rilevò che “l’intera teoria delle diverse localizzazioni cerebrali [...] fu inizialmente derivata dalla conoscenza introspettiva del nascere e morire delle nostre sensazioni”3. James era certamente l’ultimo degli psicologi del tempo a sottovalutare l’importanza della ricerca fisiologica al fine di comprendere meglio il funzionamento della mente dell’uomo, e non poteva essere altrimenti dati i suoi studi giovanili; ma, proprio perché conosceva bene il lavoro di laboratorio non poteva non rilevare le semplificazioni e le schematizzazioni cui questo poteva portare. L’introspezione era per James uno strumento valido quanto poteva essere la misurazione dell’intervallo tra uno stimolo esterno e la risposta da parte dell’organismo; il fatto che l’introspezione dovesse essere “interpretata” non era poi per James veramente un ostacolo: anche i dati statistici che al tempo cominciavano a dominare gli studi scientifici dovevano essere interpretati e il rischio di giungere a conclusioni ingiustificate non era per James inferiore nel secondo caso4. Gli articoli succitati sono di rilevante importanza per differenti motivi: essi rappresentano l’ingresso di James a pieno titolo nella comunità scientifica internazionale, segnano il definitivo distacco di James dall’evoluzionismo di Spencer e il suo avvicinamento alla dottrina di Darwin e definiscono la posizione

3

Ivi, p. 224.

4 L’osservazione introspettiva è quella su cui ci dobbiamo prima di tutto basare. PP, p. 186. Nel suo articolo del 1894, “The Physical Basis of Emotion”, James criticò quelli che avevano interpretato materialisticamente la sua teoria. Egli era convinto che la sua teoria fosse nata grazie all’introspezione e avesse così una solida base empirica. Non si trattava di materialismo. W. Viney, A Study of Emotion in the Context of Radical Empiricism, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 246. L’introspezione rappresentò per James uno strumento fondamentale per librarsi dalle pastoie dell'automatismo: Le lezioni del 1878 [quelle sul rapporto tra mente e cervello] riflettono molto chiaramente il crescente allontanamento di James dall’automatismo. Egli sosteneva che noi conosciamo la mente meglio di quanto conosciamo il sistema nervoso e non possiamo, perciò, spiegare la psicologia con la fisiologia. TCWJ II, p. 28. L’allontanamento di James dall’automatismo nel 1878 — e il suo conseguente tentativo di formulare una psicologia della libertà — è ancora più manifesto nelle parole di Bjork: [...] nel 1878 James dette notizia che i suoi interessi professionali e scientifici sarebbero stati centrati sulla preservazione e l’estensione della libertà dell’uomo di agire secondo i propri interessi. D. Bjork, op. cit., p. 121. Nessuna produzione intellettuale, nessun membro familiare, nessun amico o collega professionale era per lui interessante come la vita della propria mente. In questo senso, il suo sforzo più grande fu quello di descrivere come la sua mente “incontrava” il mondo. James era un maestro dell’introspezione. Ivi, p. 264. Per l’importanza del metodo psicologico introspettivo in James cfr. G. E. Myers, Pragmatism and Introspective Psychology, in R. A. Putnam (a cura di), The Cambridge Companion to William James, cit., pp. 11-24.

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jamesiana sulla questione del rapporto mente-corpo, aprendo la strada a quella dottrina che verrà chiamata dell’interazionismo modificato5, e alla dottrina funzionalistica della mente; essi costituiscono inoltre una parte importante di quelli che saranno i capitoli della sua opera principaleii. Vedremo in seguito qual è il corretto significato da attribuire a termini come “interazionismo”6 e “funzionalismo”7, mentre ora affronteremo l’analisi dello scritto che forse più ci interessa da vicino, la recensione di Spencer, che fu poi il primo articolo8 firmato di William James.

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Cfr. P. K. Dooley, op. cit., p. 20.

6 Nella lezione finale [di quelle del 1878 dedicate all’evoluzionismo e al rapporto mente-corpo] James presentò gli argomenti che avrebbero dovuto mostrare l’interazionismo essere [una spiegazione delle cose] più probabile dell’automatismo. TCWJ II, p 30. Perry dice probabile; noi diremmo meglio plausibile. Vedremo fra breve come si articola, nel giovane Professor James, il passaggio dall’automatismo (conscio) all’interazionismo (modificato), del passaggio da una coscienza passiva a una attiva e, potenzialmente, libera. Come mostra Bjork (inspiegabilmente teso a identificare la critica di James a Spencer con una immaginaria critica a Darwin), James dovrà demolire le fondamenta della psicologia spenceriana per potere poi tracciare i contorni della sua ‘nuova’ psicologia: James [dopo le Lowell Lectures] divenne sempre più conscio della sua missione [...], di fornire una descrizione realistica della vita mentale. Egli aveva introdotto nelle Lower Lectures ciò che credeva essere una nuova visione psicologica. Aveva presentato un’alternativa alla mente automatica e predeterminata. Egli aveva concluso che la spiegazione darwiniana della coscienza non rappresentava nessuna spiegazione di sorta [...]. La teoria dell’evoluzione aveva presentato un’inadeguata psicologia mascherata da scienza. Il rappresentante principale di questa psicologia ingannevole era Herbert Spencer che James aveva ripetutamente criticato in aula, nelle conferenze pubbliche, e nei saggi, illustrando l’inadeguatezza della visione evoluzionistica della mente. Spencer era il contraltare per la crociata a favore del concetto di una coscienza creativa e non determinata. D. Bjork, op. cit., pp. 148-149.

Ci bastino per ora le brevi ed efficaci definizioni di Sini e di Perry: La concezione "funzionalistica" della mente [...] è in polemica diretta col determinismo evoluzionistico spenceriano: il rapporto tra l'ambiente e la coscienza [...] non è diretto ed automatico. C. Sini, op. cit., p. 302. Per James [...] il funzionalismo significava tenere costantemente davanti agli occhi la concretezza dell’individuo, concepito come attivo e facente parte di un certo ambiente. TCWJ II, p. 51. 7

Le critiche di James a Spencer trovano una prima compiuta espressione nel saggio Some Remarks on Spencer's Definition of Mind as Correspondence, pubblicato sul "Journal of Speculative Philosophy" del gennaio 1878. C. Sini, op. cit., p. 255. Nel 1878 il Journal of Speculative Philosophy pubblicò un articolo intitolato “Remarks on Spencer’s Definition of Mind as Corrispondence”, nel quale le linee del suo pensiero futuro sono distintamente tratteggiate. L’articolo mostra anche quanto la comprensione delle implicazioni del darwinismo per la psicologia fosse più dinamica di quella fornita da Spencer. R. Hofstadter, op. cit., pp. 130-1. James non smise mai di controbattere le teorie di Spencer e degli spenceriani; come vedremo, anche i Principles sono quasi cadenzati dalle critiche a Spencer, critiche che, per la maggior parte dei casi, rappresentano per James lo stimolo per aprire nuove prospettive interpretative della mente umana, dell’evoluzione e della storia. Utilizzando le parole del Perry, potremmo dire che La parte che Spencer ebbe nello sviluppo di James fu l’opposto complementare a quelle svolta da Renouvier; il primo gli repelleva, mentre il secondo lo attraeva, ma entrambi lo stimolavano. TCWJ I, p. 475. D’altronde James utilizzò le opere del filosofo inglese come manuale nei suoi corsi quando era ben distante dalle sue posizioni, a riprova ch’egli lo riteneva un filosofo degno di essere criticato e quindi di essere studiato. Per quel che riguarda la comprensione dell’utilizzo dei testi di Spencer da parte di James è molto utile l’introduzione di Ignas K. Skrupskelis all’edizione dei corsi e delle conferenze di William James, pubblicato per i tipi della Harvard University Press nel 1988 con il titolo di Manuscript Lectures. James impiegò i Principles of Psychology nell’anno accademico 1876-77, al corso di Storia Naturale 2 e nel 1878-79 a Filosofia 4. Il professor James inoltre tenne per quattro volte un corso di Filosofia dell’Evoluzione, negli anni 1879-80, 1880-81, 1883-84, 1884-85; negli ultimi tre anni ai Principles aggiunse anche i Data of Ethics. (Cfr. TCWJ I p. 482). Abbiamo già accennato al fatto che James utilizzò l’Essais de critique générale di Renouvier come libro di testo; è interessante sottolineare il fatto che lo psicologo americano non ripeté mai più quest’esperienza; scrive Skrupskelis: Nell’anno 1879-80, ancora professore di fisiologia ma in pianta stabile nel dipartimento di filosofia, James introdusse due nuovi corsi, i primi che potremmo definire filosofici. In Filosofia 5 (filosofia contemporanea) utilizzò il libro di Renouvier Essais de critique générale come testo; assistettero nove studenti, di cui due della facoltà di legge. L’altro nuovo corso, Filosofia 3 (filosofia dell’evoluzione), venne riproposto più volte. [...] Renouvier non si rivelò un autore adatto e James, il 3 Febbraio del 1880, scriveva a Josiah Royce: “Ho provato a usare Renouvier come libro di testo — per l’ultima volta! La sua esposizione presenta troppe difficoltà”. ML, p. XLII (Cfr. LWJ II, p. 205). Non vogliamo con questo dire che Spencer fu per James più importante, come “stimolo”, di Renouvier, né che le difficoltà incontrate fossero il segno di un rapido allontanamento dal testo, se non dallo spirito, del filosofo francese; sta di fatto che le opere di Renouvier, almeno in forma di testi di studio, non ebbero quella longevità raggiunta dagli scritti spenceriani 154 durante gli anni in cui James insegnò alla Harvard University 8


In questa recensione James, mettendo in crisi la supposta scientificità9 della teoria evoluzionistica spenceriana, attacca allo stesso tempo l’automatismo e il determinismo dello scientismo dell’epoca aprendo la strada a quella filosofia, o sarebbe meglio dire psicologia, indeterministica che avrà il suo sostegno più forte in un altro scienziato evoluzionista inglese: Charles Darwin10.

3.1.2 Herbert Spencer: l’uomo come ‘creta’ La prima critica che James rivolge alla dottrina di Spencer ha di mira la tendenza di quest’ultimo a limitare l’intero processo dell’evoluzione mentale a quello cognitivo. Spencer riteneva che la legge che governa la vita — degli organismi, come della mente — è quella dell’adeguamento delle relazioni interne a quelle esterne. La maggiore o minore “corrispondenza” sarebbe dunque il sintomo del maggiore o minore grado di adjustment of inner to outer relations. Prima di criticare il concetto di corrispondenza, James rileva come l’idea di mente proposta da Spencer sia decisamente “particolare”; nell’idea di mente del filosofo inglese non trovano posto i sentimenti, gli impulsi estetici e le emozioni religiose; in sostanza Spencer farebbe coincidere tutta l’attività mentale dell’uomo solo con una parte, per quanto importante, di essa11. Questo appunto, che sembrerebbe essere di scarso rilievo, è invece

Già consapevole studioso della teoria darwiniana, James sapeva che la visione meccanicistica spenceriana dell’evoluzione progressiva era sostenuta più da una sorta di fede che dall’evidenza empirica. G. Cotkin, op. cit., p. 61. Cotkin interpreta l’allontanamento di James da Spencer in chiave squisitamente scientifica, individuando in Darwin il vero “strumento” che avrebbe permesso di portare alla luce la metafisicità della filosofia spenceriana: questo è certamente in parte vero anche se bisogna riconoscere che in questo periodo ebbero in James grande importanza motivi squisitamente filosofici, piuttosto che scientifici, nel rifiuto dell’evoluzionismo spenceriano. Della consapevolezza che il meccanicismo ottocentesco avesse le caratteristiche di una “fede” James era debitore all’amico Peirce, della cui influenza sul nostro autore parleremo meglio in seguito: [...] le grandi scoperte della meccanica ispirarono la speranza che potessero bastare i principi meccanici per spiegare l’universo; e questa speranza, pur senza giustificazione logica, ha continuato da allora ad essere stimolata dai susseguenti progressi della fisica. Ciononostante, la dottrina era troppo evidentemente in conflitto con la libertà della volontà e con i miracoli per essere generalmente accettabile fin dall’inizio. C. S. Peirce, Esame della dottrina della necessità, in Id., Caso, amore e logica, a cura di M. Cohen, Taylor, Torino, Torino 1956, p. 129. James osserva che la maggior parte dei sostenitori del determinismo è influenzata dal progresso delle esplorazioni scientifiche, che poggia sull’analisi del rapporto di causa ed effetto. J. K. Roth, op. cit., p. 41. Sugli effetti filosofici del determinismo scientifico dell’Ottocento cfr. B. Ramsey, op. cit., p. 22. 9

Gli aspetti più rilevanti del pensiero jamesiano si sviluppano a partire dalla discussione delle teorie evoluzionistiche di Darwin e Spencer. In un gruppo di articoli pubblicati tra il 1879 e il 1885, alcuni dei quali ripresi integralmente nei Pinciples of Psychology, accanto al fondamentale consenso allo spirito dell’evoluzionismo, emerge chiaramente la posizione che James avrebbe continuato a mantenere: rifiuto delle concezioni deterministiche, ed esaltazione del valore dell’azione e della volontà individuali nonché della capacità dell’individuo biologico di “selezionare” la realtà che lo circonda in funzione dei propri bisogni e interessi. R. M. Calcaterra, op. cit., p. 38. 10

11 James, a p. 45 di CER (la recensione su Spencer occupa le pagine dalla 43 alla 68) rileva anche come una tale dottrina può risultare a tutta prima, e al lettore sprovveduto, estremamente scientifica e solida, data la quantità di dettagli che compongono l’opera e la sua stessa mole; qui non si tratta di una parentesi “di cortesia” (per i lettori “spenceriani”): che James comprendesse quanto fosse affascinante il pensiero di Spencer è fuor di dubbio, visto che da giovane egli stesso ne era stato attratto. William James, nella prima pagina dei Principles non si dimenticherà di sottolineare che la psicologia, la sua psicologia, si occuperà di studiare i fenomeni della vita mentale e fra questi fenomeni bisogna comprendere “sentimenti, desideri, conoscenze, ragionamenti e decisioni” e nessuno di questi ha una qualche priorità sugli altri, come invece per Spencer.

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fondamentale, soprattutto per capire la futura psicologia jamesiana12, che fu caratterizzata proprio dalla tendenza ad analizzare fenomeni, dal senso estetico alle conversioni religiose, che sembravano a molti psicologi del tempo eccedere i limiti di una psicologia scientifica. Quello che troppo banalmente è stato definito l’eclettismo jamesiano manifesta qui il suo lato euristico: analizzare la mente umana in tutte le sue dimensioni, in tutte le sue sfaccettature, significa togliere respiro, in questo caso, a una teoria che fa della passività dell’uomo la chiave per spiegarne il comportamento all’interno di una natura deterministica e significherà, in tanti capitoli dei Principles e in tutte le opere future, dare spazio a una filosofia capace di comprendere l’uomo nella sua totalità e nella sua complessità13. Scrive Sini: Che nella psicologia, e anzi nella psicologia fisiologica, James cercasse i fondamenti del suo più ampio discorso filosofico, è una conseguenza naturale di tutta l’impostazione della sua ricerca e della sua personale formazione [...]14.

Spencer dunque ‘dimentica’ una parte dell’attività mentale dell’uomo che sarebbe fuorviante definire “passionale”; non si tratta infatti di una dimensione irrazionale opposta a quella razionale (e anche in 12 Non bisogna dimenticare che James si occupò di questioni prettamente psicologiche anche dopo la pubblicazione dei Principles (e del Briefer Course, 1892) che invece per molti rappresentano la fine di una parte della carriera (quella psicologica appunto) e l’inizio di una nuova (quella filosofica); egli tenne seminari sulle psicopatologie dal 1892 al 1898 a Harvard e, grazie al Lowell Institute, tenne una serie di conferenze pubbliche nel 1896 sui sogni, l’isteria, l’ipnosi la personalità multipla e il genio. James rimase affascinato dai fenomeni paranormali (un interesse condiviso con l’editore Holt) per tutta la sua carriera continuò a pubblicare scritti sull’argomento fino alla morte.. B. King, Evolution and the Revision of the Principles, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James., cit., p. 72. Non bisogna infine dimenticare che le Varieties of Religious Experience rappresentano il frutto di un lavoro di ricerca e di documentazione psicologiche: All’inizio delle sue Gifford Lectures, le Varieties of Religious Experience, William James avverte il lettore ch’egli tratterà dell’argomento non dal punto di vista del teologo, né dello storico delle religioni, né dell’antropologo, ma come psicologo. R. R. Niebuhr, William James on Religious Experience, in R. A. Putnam (a cura di), The Cambridge Companion to William James, cit., p. 214.

Nel caso di Spencer è evidente che ridurre la mente umana al suo aspetto cognitivo sembrava favorirne un’immagine di passività — dove la conoscenza non sarebbe che il “rispecchiamento” delle cose e la scienza sarebbe dunque la “corridpondence” delle relazioni interne (tra idee) con le relazioni esterne (tra le cose) — ; ma James, già anni addietro, e in tutt’altro contesto, si era ribellato alla teologia paterna proprio perché questa “cancellava” dalla vita dell’uomo quello che per James era, e rimarrà sempre, l’aspetto più importante, quello volitivo: Il 5 Gennaio [1870], dopo aver letto Platone, egli scrisse, come suo motto: “Ein ganzer Mensch — ein ganzer Wille”. G. W. Allen, op. cit., p. 164. Anche Spencer, sebbene per altri motivi, sembrava togliere all’uomo, senza nessuna giustificazione che non fosse quella di rendere coerente il suo pensiero, la volontà e con essa la spontaneità e la libertà. un’esperienza complessa difficilmente può’ essere ridotta senza che questa venga snaturata; era in fondo la stessa critica che James faceva agli associazionisti — tra cui possiamo annoverare anche lo stesso Spencer —, il cui torto era proprio quello di voler ridurre la complessità’ del flusso di coscienza a elementi semplici, inesistenti, cioè’ non esperiti e non esperibili; in entrambi i casi bisogna dire che James riconobbe, a Spencer come a Hume e a Locke e Bain etc, il merito di aver cercato, anche se coi mezzi sbagliati, di trattare scientificamente ciò’ che in precedenza apparteneva al campo della metafisica. 13

14 C. Sini, op. cit., p. 266. E, continuando con questa sorta di deduzione genealogica della futura filosofia di William James, potremmo dire che il suo modo di fare psicologia non poteva che essere animato da quello spirito evoluzionistico ch’egli aveva respirato nelle aule della Lawrence Scientific School e poi durante le animate riunioni del Metaphysical Club (cfr. infra, cap. 4.1). Che nel campo della filosofia, James avrebbe dovuto scegliere la strada dell’empirismo, era dovuto principalmente al fatto che la sua prima educazione scientifica fu nel campo della biologia, e al fatto che i suoi insegnanti in quel campo furono Agassiz, Jeffries Wyman e Charles Darwin. TCWJ I, p. 468.

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questo caso Spencer non sarebbe autorizzato a non renderne conto), ma di un tipo differente di razionalità: Quanto della nostra mente è occupato con questioni di meglio o peggio?15 si domanda James. E quanti nostri pensieri riguardano il bello e il brutto, il piacevole e lo spiacevole, il decoroso e l’indecoroso? La parte più grande della mente, considerata da un punto di vista quantitativo, non ha nulla a che fare con la definizione di Spencer”16. James poi analizza i motivi che giustificherebbero Spencer nell’eliminare dalla mente umana, e dalla cultura di ogni civiltà, ciò che non è “scienza naturale, storia e statistica”: i giudizi estetici, etici e religiosi, essendosi sviluppati durante l’evoluzioneiii dell’uomo in una maniera che ora noi possiamo comprendere, cioè “ridurre” concettualmente, perderebbero la loro autonomia e non avrebbero quindi bisogno di ulteriore attenzione. In questo modo, gettare luce sull’origine di un concetto (di una credenza, di un principio) significa gettare luce sulla sua validità. Questo regresso genealogicoiv porterebbe per James a una reductio ad absurdum, o più che altro, se applicato a ogni cosa, condurrebbe a un punto da cui non è più possibile regredire e che dovrebbe essere la spiegazione di tutto17. La critica di James si fa poi più incalzante: che cosa intende Spencer per “corrispondenza”? Come ricorda il nostro autore, ci possono essere tantissimi modi in cui una cosa può corrispondere a un’altra, o meglio, tutto corrisponde a tutto: una qualsiasi relazione, e di relazioni tra due semplicissimi oggetti ce

15

CER, p. 45.

16 Ivi, p. 46. James qui fa esplicitamente appello al senso comune; vedremo in seguito quale sarà il suo ruolo in tutta la psicologia e la filosofia jamesiana. Nei Principles, James mostra come anche per quanto riguarda l’area cognitiva Spencer dia un’esposizione totalmente insoddisfacente e proprio per la sua concezione passiva: L’opinione di Spencer che la nostra coscienza delle relazioni classificatorie, logiche e matematiche, sia dovuta alla frequenza con la quale le corrispondenti “relazioni esteriori” hanno impressionato le nostre menti, è inaccettabile. La nostra coscienza di tali relazioni ha, senza dubbio, una genesi naturale. Ma essa è da cercarsi piuttosto nelle forze intime che hanno fatto crescere il cervello, che non in qualunque sentiero di “frequenza” delle associazioni, che stimoli esterni possono avere scavato in quest’organo. PP, p. 1268. Anni prima della pubblicazione dei Principles James era meno sicuro dei propri giudizi sulla gnoseologia di Spencer e comunque pronto ad accettare delle chiarificazioni; le chiese direttamente a Spencer nell’Aprile del 1879: “Nell’insegnare i vostri Principles of Psychology ho avuto notevoli difficoltà a chiarire a me stesso la maniera esatta in cui voi concepite la funzione della cognizione” (ML, Introduction p. XXXIV). La risposta di Spencer è conservata alla Houghton; probabilmente non fu sufficiente per chiarire le idee a James...

Questo inoltre, dice James, non dovrebbe nemmeno ‘inquietare’ gli spenceriani, dal momento che sarebbe solo una altro modo per arrivare alla teoria dell’Inconoscibile; cfr. CER, p. 48. È comunque interessante notare che alcuni critici hanno individuato nella dottrina spenceriana dell’Inconoscibile una sorta di anticipazione della futura metafisica di James (che tanto aveva criticato lo scienziato inglese per la ‘metafisicità’ del suo pensiero): La dottrina spenceriana dell’‘Inconoscibile’ divenne sempre più chiara nel tempo. In una lettera a Harald Hoeffding, il grande storico della psicologia e della filosofia, Spencer spiega che i concetti di ‘materia’ e di ‘mente’ servono come simboli “del Potere Inconoscibile di cui essi sono manifestazioni, e la loro distinzione è essenzialmente questa: ciò che noi chiamiamo la nostra coscienza è una porzione circoscritta, mentre quel che riteniamo essere inconscio o fisico è semplicemente ciò che giace al di fuori di quella porzione circoscritta che chiamiamo coscienza” (David Duncan, Life and Letters of Herbert Spencer, 2 voll., D. Appleton, New York 1909, I, p. 239). Spencer ritiene che il ‘Potere Inconoscibile’ che sottostà alla mente e alla materia sia uno e non molteplice. La sua posizione metafisica è dunque una teoria dell’identità duplice, non dissimile da quella di Wundt, Haeckel, James e Baldwin. R. J. Richards, op. cit., p. 289, n. 147. Visti i limiti della nostra tesi non possiamo qui approfondire questa apparente somiglianza tra James e Spencer, possiamo però rilevare che la critica di James a Spencer non si incentrava tanto sulla sua metafisica quanto piuttosto sul suo tentativo di supportare metafisicamente la propria scienza. In breve, per James la teoria spenceriana dell’Inconoscibile era ingiustificata non tanto perché trascendeva l’evidenza fenomenica, quanto perché lo faceva senza alcuna giustificazione: Per James ci poteva essere una sola ragione per trascendere il mondo fenomenico, cioè di soddisfare qualche teoretico o pratico “sentimento di razionalità”. L’affermazione di un Inconoscibile trascendente gli sembrava, perciò, ingiustificato e gratuito. TCWJ I, p. 486. Sull’idea jamesiana di razionalità cfr. infra, cap. 4.3, § 1. 17

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ne possono essere infinite, è allo stesso tempo una “corrispondenza”. James si permette anche un po’ d’ironia : L’uomo è squisitamente “conformato” alla trichina che lo invade o al tifo che lo consuma e la foresta si “armonizza” splendidamente con il fuoco che la brucia.18 Ovviamente Spencer non sarebbe d’accordo nel dire che questi rappresentano effettivamente dei casi di “corrispondenza” e questo perché il suo concetto implica una specificazione che chiarisce certamente la sua idea, ma allo stesso tempo la rende contraddittoria. James stesso si incarica di ridefinire la formula spenceriana perché essa abbia un qualche significato19: l’azione mentale giusta o intelligente consiste nello stabilire una corrispondenza tra le relazioni interne e quelle esterne tale ch’essa favorisca la sopravvivenza del soggetto o, almeno, il suo benessere fisico.20 Perché la “corrispondenza” debba avere un significato essa deve mostrare la sua soggettività; la sopravvivenza e il benessere sono infatti subjective interests e questo spiega bene, secondo James, il motivo per cui questa specificazione è rimasta in Spencer inespressa; quest’ultimo, al fine di non introdurre elementi non scientifici nella sua teoria, dava della mente un’idea completamente passiva: Un empirista del genere di Spencer, per esempio, considera l’individuo come dell’argilla assolutamente passiva, sulla quale piove l’esperienza21. La mente sarebbe un prodotto, un epifenomeno della materia e come tale non potrebbe avere una sua autonomia, una sua spontaneità; ma come conciliare questa teoria col riconoscimento del fatto che non ha senso parlare di corrispondenza se non in relazione a degli interessi soggettivi22, che non sono

18

ECR p. 49.

19 Poche formule recenti hanno avuto per la psicologia un effetto così utile quanto quella spenceriana secondo cui l’essenza della vita mentale e di quella corporea è una sola, cioè “l’adattamento delle relazioni interne alle esterne”. Questa formula è la vaghezza incarnata. PP, p. 19. Non bisogna stupirsi del fatto che James reputi questa formula, pur nella sua incertezza, utile, o, come dice poco avanti, “fertile”: essa infatti considera la mente nelle sue concrete relazioni, al contrario della classica “psicologia razionale” che considera l’anima come un’esistenza distaccata dal resto, autosufficiente, potremmo dire assoluta e si occupa di analizzarne poi le caratteristiche e i contenuti. Il proposito di James è dunque quello di servirsi della fisiologia nervosa al fine di rintracciare quei legami, quelle relazioni tra mente — e non più l’anima — e l’ambiente esterno (tra cui va annoverato prima di tutto il cervello), che precedentemente non venivano presi in considerazione. E il suo proposito è anche quello di servirsi di Spencer e dei suoi errori per dare forma a una psicologia che sia scientifica, ma che allo stesso tempo non “riduca” l’uomo alla mera materia; purtroppo il filosofo inglese era per James colpevole non solo di una certa vaghezza; spesso lo accusa infatti di essere confusionario a bella posta; cfr. PP, p. 438, n. 5 (in riferimento alla differenza, che Spencer non porrebbe appositamente, tra i concetti di inconcepibile e inimmaginabile). A p. 1238 dei PP, Spencer viene addirittura liquidato come “vago scrittore”.

ECR, p 49. Spencer esordì come lamarckiano, e non abbandonò mai l’idea lamarckiana che l’evoluzione sia guidata da una spinta interna verso “forme superiori”. Così per lui la domanda cruciale era: verso quale fine è diretta l’evoluzione? In quale direzione inevitabilmente ci conduce? La sua risposta era che tutte le creature, umani inclusi, hanno sviluppato forme di comportamento che servono ad accrescere la lunghezza e la comodità della propria vita. J. Rachels, op. cit., p. 78. Sul lamarckismo di Spencer cfr. anche R. J. Richards, op. cit., p. 252; p. 265 (sulla formazione scientifica dello scienziato inglese); p. 291. 20

21 PP, p. 381. Per Wiener in James c’è [...] un’enfasi sulle sensazioni piuttosto che sulle astrazioni, sulle nostre reazioni agli oggetti esterni piuttosto che sulla loro ricezione passiva, e sulla libertà individuale piuttosto che sul determinismo ambientale. P. Wiener, op. cit., p. 102. 22 A questo proposito risulta molto interessante una lettera che William James scrisse a Henry Holt, il suo editore; dobbiamo premettere che James aveva spedito a Holt, che da poco gli aveva affidato il compito di scrivere il manuale di psicologia, tre suoi articoli (Remarks.on Spencer...; Quelques Considérations...; e Brute and Human Intellect) che attaccavano Spencer per avere fatto dell’uomo un soggetto passivo e dominato solo dall’istinto per la sopravvivenza; Holt apprezzava molto Spencer e quindi non si trovava in accordo con il suo nuovo autore; il 22 Novembre del 1878 James scriveva a Holt in

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comprensibili se non in termini squisitamente mentali, cioè non riducibili? Ancora una volta Spencer deve fare i conti col senso comune: è possibile dire che la sopravvivenza sia l’unico interesse che spinge l’uomo ad agire e in base alla quale si deve giudicare la maggiore o minore corrispondence del suo comportamento? Certo, si potrebbe affermare che la coscienza, la profondità, la purezza, l’amore per la verità, l’adesione alla disciplina non sono altro che “mezzi” che servono all’uomo — anche se i maniera “mascherata” — per sopravvivere di fronte alla natura e ai suoi nemici, ma per James è evidente che non si tratta di una spiegazione sostenibile in tutta franchezza. Il fatto è che la “legge” di Spencer può essere sostenuta con questi argomenti alla stessa stregua con cui si potrebbe sostenere la legge secondo la quale è la ricchezza il criterio dell’evoluzione mentale, oppure la conoscenza o qualcos’altro. Spencer in sostanza vorrebbe far passare per costitutiva una legge ch’è invece regolativa e lo fa senza dare alcuna giustificazione, né filosofica né scientifica: Spencer e Platone sono ejusdem farinae. Cercare di eliminare la teleologia non parlandone è una delle tattiche più infruttuose.23” La teoria di Spencer potrebbe reggersi solo se

risposta a una sua lettera in proposito: “Temo che voi abbiate in qualche maniera frainteso lo scopo della mia critica a Spencer (...)Io sono talmente distante dal non tenere in considerazione l’ambiente che voglio chiamare il mio libro “Psicologia come scienza naturale”, [il fatto che invece diede poi un altro titolo è comunque significativo] e nell’introduzione ho già spiegato che la costituzione della nostra mente è incomprensibile se non facciamo riferimento alle circostanze esterne nella quale essa si è sviluppata. La mia polemica con Spencer non è imperniata sul fatto che egli dia molto peso all’ambiente, ma che egli non tenga assolutamente in considerazione l’evidente e manifesto fatto degli interessi soggettivi che cooperano con l’ambiente nel modellare l’intelligenza umana. Questi interessi formano una spontaneità vera e giustificano il rifiuto di ammettere, con le scuole aprioristiche, che la mente sia pura, passiva ricettività. .TCWJ II, p. 35. La posizione di James, pur opponendosi fortemente alla visione passiva dell’uomo rispetto al suo ambiente, non raggiunse mai l’estremo opposto: La nota posizione di James a favore dell’unicità e dell’importanza dell’individuo non implica una insensibilità peri contesti sociali e ambientali. D. A. Crosby e D. W. Viney, Toward a Psychology That is Radically Empirical:; Recapturing the Vision of William James, in M. E. Donnely (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 115. James rivendica dunque la scientificità del suo futuro lavoro e riconosce ch’essa sta soprattutto nel riconoscere il legame della mente con l’ambiente che la circonda, attualmente e nella sua costituzione; una precisazione che potrebbe sembrarci quanto meno irrilevante oggi, ma che nella seconda metà dell’Ottocento, in cui la psicologia era ancora ancilla philosophie, aveva un peso molto importante; allo stesso tempo James non vuole accettare il determinismo, l’automatismo e il riduzionismo di coloro che facevano di questo rapporto la prova della dipendenza del mentale dal fisico con un conseguente svuotamento di significato del primo. James si trovava tra l’incudine (della filosofia dell’anima) e il martello (del materialismo riduzionistico); il fatto che lo psicologo americano impiegò dodici anni per portare a termine il libro può in parte essere spiegato proprio giusta questa considerazione: alla difficoltà intrinseca della materia si aggiungeva una difficoltà metodologica ch’era forse più difficile da risolvere. Per quanto riguarda poi il significato che James attribuiva ai “pensieri soggettivi” ch’egli opponeva alla passività spenceriana, è ancora molto illuminante una sua lettera, sempre indirizzata a Holt, una sorta di prosieguo di quella succitata: Per “interessi soggettivi” io intendo qualsiasi tipo d’interesse. Da un punto di vista oggettivo io posso corrispondere al mio ambiente mangiando dell’arrosto e sopravvivendo oppure morendo e dando così da mangiare ai vermi. Quale di questi due adjustments dovrei scegliere? Nel primo caso si agisce in base a un interesse soggettivo ch’è comunemente definito egoistico; nel secondo caso in maniera simpatetica, verso i vermi. Elimina il desiderio conscio sia dell’io che dei vermi, e in nome del cielo che interesse oggettivo rimane? Tutto è ugualmente fatale, ugualmente indifferente. E James conclude (probabilmente in replica a una difesa di Spencer da parte di Holt su questo punto): Per quanto riguarda il fatto che Spencer abbia detto che la mente non è pura ricettività, mi piacerebbe vedere un passaggio che sia chiaro in proposito [...] penso ch’egli non abbia citato la parola “interesse” nemmeno una volta nella sua opera.”. TCWJ II, p. 36. ECR, p. 61. James in questo scritto pone le solide basi di quella che potremmo chiamare la sua concezione teleologica della mente; si tratta di un caposaldo di tutta la filosofia pragmatica e non solo jamesiana: la facoltà di ragionamento dell’uomo, che verrà chiamata mind’s middle department funziona cioè in vista di fini che non esistono affatto nel mondo che noi riceviamo dai nostri sensi, ma che sono posti esclusivamente dalla nostra soggettività; una teoria che James sosterrà prima di tutto, come vedremo, su basi fisiologiche (azione riflessa). Dire che la conoscenza è per l’azione non significa che l’uomo deve continuamente agire, o essere un “uomo d’azione” come si sente spesso dir in relazione alla filosofia pragmatica, significa che un pensiero, un ragionamento non è nemmeno immaginabile nella sua genesi separato dalla relazione con la parte volitiva dell’uomo, che questo porti poi a un concreta azione o a una sospensione dell’azione è 23

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riuscisse a descrivere il comportamento di un uomo, della sua mente, solo da “fuori”: allora la mente non sarebbe altro che un organo come lo stomaco e il suo successo sarebbe dato dalla sua sopravvivenza. In questo senso si potrebbe dire che il suo comportamento è “intelligente”, cioè adatto a dei fini che noi imponiamo dall’esterno, ma il fatto è che la coscienza stessa non è intelligente in questo senso soltanto. Essa è un’intelligenza intelligente.24 Essa cioè pone coscientemente i propri fini; l’errore più grande di Spencer è stato quello di non riconoscere la rilevanza dei fenomeni coscienti, che non possono essere equiparati a quelli non coscienti o addirittura inorganici; qui il “metodo” di Spencer, rilevato chiaramente da Wright (cfr. infra, cap. 4.1), mette in luce tutte le sue debolezze.

Da giovane James fu ‘trascinato con entusiasmo’ dal materialismo evoluzionistico di Herbert Spencer. Secondo lo schema di Spencer, tutto ciò che è fisico, psichico, biologico o sociale, si è evoluto o si evolve secondo un unico modello, fisso e progressivo. Ma James era turbato dal fallimento spenceriano di spiegare l’esperienza cosciente e dalla sua conseguente opposizione alla libertà25. Ma sarebbe scorretto ridurre tutta la critica spenceriana a una questione morale, per quanto il problema della spontaneità e della libertà della coscienza sia centrale; Spencer ha fallito, per James, anche da un punto di vista che potremmo definire psicogenetico; come è nata la coscienza? Come si può passare dall’assenza di coscienza del mondo materiale alla coscienza del mondo umano? Questi problemi, insieme con quello della libertà, occuperanno James per tutta la carriera.

Finché consideriamo i fatti puramente esterni della biologia il nostro compito, come evoluzionisti, è relativamente facile. Noi trattiamo continuamente della materia, dei suoi strati di aggregazione e di separazione; e, per quanto ci si aggiri nel campo delle ipotesi, ciò non toglie che il nostro lavoro possa essere ininterrotto. Il punto da cui, sempre come evoluzionisti, siamo costretti a non discostarci, è il principio che ogni nuova forma dell’essere che fa la sua apparizione, non è altro che la nuova disposizione di materiali originali ed eterni. Quegli stessi atomi che, dispersi caoticamente, formavano la nebulosa primordiale, ora, compressi e mantenuti in una data posizione, formano il nostro cervello. totalmente irrilevante. La zona volitiva domina sulle altre [...] la percezione e la riflessione esistono solo in vista dell’agire. Antonio. Santucci., Storia del pragmatismo, Laterza, Roma-Bari 1992, p. 59. ECR, p. 64. Certo è possibile definire gli interessi in termini non mentali, nel senso che le reazioni o conseguenze esterne degli interessi possono essere espresse in tal maniera. L’interesse della sopravvivenza che abbiamo considerato come un dover essere ideale, dal punto di vista esterno non è niente altro che una futura implicanza obiettiva di una reazione come fatto attuale. Se il cervello dell’animale agisce fortuitamente nella maniera giusta, sopravvive e i suoi nati fanno lo stesso. Il riferimento alla sopravvivenza non precede o condiziona l’atto intelligente, ma il fatto della sopravvivenza è legato con esso come conseguenza incidentale e può essere considerato più accidentale che strumentale nella sua produzione. Ora la posizione è perfettamente inattaccabile fin quando si considerano i fenomeni dal di fuori. Il Telos in questo caso può solo essere considerato ipoteticamente e non imperativamente: se tale sarà il fine, allora le funzioni del cervello saranno le più intelligenti, proprio come le funzioni dello stomaco sono le più appropriate all’uso dato. G. Riconda, La filosofia di William James, cit., p. 5. 24

25

M. P. Ford, op. cit., p. 26.

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Onde, strettamente intesa, l’evoluzione del cervello sarebbe semplicemente il compendio del modo come quegli atomi sono arrivati ad assumere quella data posizione Nello svolgimento di questo compendio non vengono mai introdotte delle specie nuove, né dei fattori che non vi esistessero fin da principio [visione “fisico-atomistica” dell’evoluzione, dove sembra che niente si evolva]. Ma collo spuntare della coscienza, una specie interamente nuova sembra insinuarsi nel mondo, qualcosa di cui la forza non era inclusa negli atomi dotati di vita puramente esterna, del caos originario Gli avversari dell’evoluzione si sono affrettati a mettere in rilievo questa innegabile discontinuità nei dati del mondo, e molti di essi hanno approfittato dell’insuccesso delle teorie evoluzionistiche nello spiegare questo punto, per dichiararle completamente insufficienti su tutta la linea. Ognuno ammette l’assoluta incommensurabilità del nostro sentire, come tale, col movimento della materia, preso in sé. “un movimento è divenuto un sentimento!!!” — ecco una frase priva di qualunque significato. E infatti, anche i più nebulosi fra gli entusiasti sostenitori dell’evoluzione, quando si sono accinti a paragonare i fatti mentali con quelli materiali, hanno dovuto ammettere, non meno degli altri, l’esistenza di un “abisso” fra il mondo esterno e quello interno26. Se tutta la natura può essere rappresentata come “soggetta” a delle leggi che le vengono imposte e che il filosofo ha il compito di comprendere, questo non vale però per la natura della mente. La critica alla dottrina di Spencer si fonde con quella all’automatismo: la mente non è uno specchio che Rifletta passivamente quello che per caso gli venga innanzi, ma è un’intelligenza intelligente, che propostosi consapevolmente e intelligentemente un fine, ne cerca la realizzazione attraverso un procedimento non garantito, aperto al successo o al fallimento. Lo stesso accordo con l’ambiente è un fine problematico che la mente si pone, registrando al riguardo gli scacchi e le riuscite, sottolineando e mantenendo [o meglio ancora: selezionando] quanto è congruo all’interesse cosciente e scoraggiando il resto27. PP, p. 149; James continua poi: Se si vuole ammettere che l’evoluzione si compia senza scatti, bisogna pure ammettere che una qualche forma di coscienza sia esistita fin dalla prima origine delle cose. Infatti noi vediamo che i più accorti fra i filosofi evoluzionisti cominciano col farla risalire a quel punto. Ad ogni atomo della nebulosa, essi dicono, deve essere stato accoppiato, fino dall’origine, un atomo originario, per così dire, di coscienza. E allo stesso modo gli atomi materiali, sovrapponendosi, hanno formato i corpi ed i tessuti cerebrali, così gli atomi mentali, mercé un processo di aggregazione analogo, si sono fusi in quelle forme di coscienza più ampie che noi riconosciamo in noi stessi, e che supponiamo esistano in tutti gli esseri animati come noi. Ogni filosofia evoluzionista che voglia essere profonda deve comprendere una specie di ilozoismo atomistico simile a questo. per cui esisterà un numero infinito di gradazioni di coscienza, secondo i gradi di complicazione e di aggregazione del “pulviscolo mentale” originario. Il dare una dimostrazione indiretta (perché una diretta è impossibile) dell’esistenza separata e distinta di questi gradi diversi di coscienza, è quindi il primo dovere di ogni evoluzionismo scientifico. PP, p. 152. Questi brani sono tratti dal capitolo VI, quello dedicato all’esposizione e alla critica della mind-stuff theory, ovvero della teoria del pulviscolo mentale, dei minimi psichici; l’errore più grande dei sostenitori di questa teoria è secondo James quello di ritenere che le sensazioni complesse possano essere il frutto della combinazione di sensazioni semplici. 26

27 G. Riconda, la filosofia di William James, cit., p. 5. Il ripudio del meccanicismo sociologico spenceriano porta a considerare il processo evolutivo, così della natura come della storia, non come la conseguenza inevitabile di una preordinata costituzione delle cose ( come una sorta di “armonia prestabilita” di ispirazione leibniziana), ma come un progressivo adattarsi delle cose e un migliorarsi in ordine ai fini che via via si rivelano e si costituiscono. C. Sini, op. cit., p. 39. Spesso i citrici hanno rimarcato la quasi totale assenza di interesse da parte di James per una filosofia della storia; per quanto sia vero che il filosofo americano non dedicò se non una piccola parte dei suoi scritti a questo argomento, è altrettanto vero che le pagine che ci ha lasciato in proposito sono estremamente significative; il testo più famoso, che tratteremo in seguito, è Great Men, Great Thoughts and the Environment, pubblicato originariamente sull’Atlantic Monthly nel 1880 e ristampato come capitolo di The Will to Believe col titolo, abbreviato, di Great Men and Their Environment., dove James, in diretta polemica con lo spenceriano Allen, pone le basi per una sociologia della storia fondata principalmente sui concetti darwiniani di selezione e di variazioni spontanee, in analogia e come completamento di quella psicologia “evoluzionistica” che aveva animato, in maniera sicuramente meno palese, 6 le pagine dei Principles. l’articolo venne ristampato anche nella raccolta Selected Papers on Philosophy, E. P. Dutton, New York 1917. Lo scritto venne pure tradotto in francese e pubblicato sulla Critique philosophique nel 1881.

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È evidente poi che questa spontaneità non può lasciare inalterata nessuna filosofia della natura che voglia comprendere l’uomo all’interno dei suoi confini; se l’uomo ha la possibilità di essere libero, se il suo comportamento non è determinato come le palle su un tavolo da biliardo, allora anche il mondo dove l’uomo vive, e che da esso è cambiato, modificato, non potrà più considerarsi predeterminato; ogni sistema deterministico si regge sulla sua onnicomprensività; se soltanto si apre una crepa nella sua struttura — e in questo caso la crepa sarebbe rappresentata dalla libertà dell’uomo — tutto l’edificio crolla; vedremo alla fine del nostro lavoro — anche se solo per cenni — come James giungerà, nel suo pensiero “metafisico”, in quello che Allen ha chiamato The unfinished arch, a elaborare una filosofia della natura ch’egli stesso definirà pluralistica, dove regna la possibilità e l’indeterminatezza, dove il futuro non è già contenuto nel passato e dove l’uomo rappresenta soltanto una parte, quella consapevole, giocata dalle infinite possibili relazioni. Non si può certo dire che questa breve recensione del giovane James sconfigga l’automatismo o quello che James stesso chiamava epifenomenismo (se la filosofia di Spencer28 era riduzionistica e deterministica, non tutto il riduzionismo e il determinismo29 erano spenceriani); di fatto essa pone le 28 Bisogna ricordare che la “battaglia” di James contro il determinismo fu condotta da James più contro gli spenceriani che contro Spencer; molti suoi lavori, tra cui spicca la Will to Believe, nacquero proprio in seguito a queste discussioni: Basterebbe a proposito ricordare la polemica tra Fiske e James, condotta da entrambi nell’80 sulle pagine dell’“Atlantic Monthly” circa l’interpretazione della storia in chiave spenceriana. James opponeva alla visione deterministica del Fiske ( e di un altro spenceriano inglese, Grant Allen, la cui posizione può definirsi di “lamarckismo sociale”) una propria concezione individualistica che egli ricavava dal Carlyle.. C. Sini, op. cit., p. 112. Uno di questi articoli è il testé citato: Great Men,Great Thoughts and the Environment. James incontrò Spencer una volta, ma non ne fu impressionato molto positivamente: Cfr. L. Simon, op. cit. p. 171. Fiske fu oggetto di critica anche da parte di Chauncey Wright, che vedeva in lui l’esponente americano della filosofia di Spencer: Wright condannò duramente la Synthetic Philosophy di Spencer (1860) e la versione americana datane da Fiske. Entrambi leggevano nell’evoluzione un dubbio sistema di inevitabili interpretazioni morali e teologiche alla maniera di ciò che Wright, alla fine dei suoi giorni, avrebbe chiamato German Darwinism. P. Wiener, op cit., p. 35. In questo scritto Wright sottolinea che la filosofia di Spencer ha più a che fare con la filosofia della natura di Oken che con la dottrina scientifica di Darwin, in sostanza si tratterebbe più di una metafisica evoluzionistica o di un evoluzionismo metafisico piuttosto che di una filosofia fondata sui recenti progressi della scienza. Cfr. “German Darwinism”, in C. Wright, Philosophical Discussions, a cura di C. E. Norton, Burt Franklin, New York 1971, p. 404. Herbert Spencer è per Wright il primo esempio di abuso del metodo scientifico. La perentoria asserzione spenceriana che le teorie scientifiche siano “verità ultime” rappresentava per Wright una violazione della neutralità scientifica perché rendeva la teoria un dogma. Wright sottolineava che, a causa del loro comune supporto alla teoria evolutiva, “I nomi di Darwin e Spencer sono strettamente associati”, ma aggiunse che “mai due nomi sono mai stati più separati da essenziali differenze di metodo”. P. J. Croce, op. cit., p.164. Richards interpreta invece il rapporto SpencerJames, proprio a questo proposito, in una prospettiva differente, a nostro parere meno condivisibile: Ciò che ci rende sicuri della verità delle credenze forniteci dal nostro senso comune [per Spencer] è che l’uomo non potrebbe vivere altrimenti [che basandosi su di esso]. Adottando una strategia che senza dubbio William James ammirò in seguito, egli riteneva che l’immutabilità della credenza non dovesse essere il nostro criterio ultimo di verità. R. J. Richards, op. cit., p. 279. 29 James utilizzò spesso il determinismo come sorta di ombrello sotto cui racchiudere filosofie completamente differenti, rischiando di far perdere obiettività a una critica sempre vigorosa; il caso della sua opposizione all’idealismo è un esempio chiarificatore: per James Gli hegeliani e gli spenceriani erano allo stesso modo colpevoli di presentare una visione deterministica e moralmente debole dell’universo. [...] In un universo predeterminato le azioni dell’individuo erano private della libertà e della responsabilità [...]G. Cotkin, op. cit., p. 82.

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basi filosofiche e psicologiche per la costituzione di quella che potremmo chiamare una psicologia della libertà. James non voleva arrendersi all’idea che ciò che più conta nell’uomo, la sua coscienza, la sua intelligenza, la sua sensibilità, fosse ridotto a epifenomeno spiegabile alla stessa maniera come si spiega il comportamento di un gasv, ma soprattutto non voleva combattere la scienza (deterministica e riduzionistica) con le armi della religione o della metafisica. Fin qui abbiamo esposto solo la pars denstruens del suo pensiero; solo nei capitoli dei Principles dedicati alla Volontà e all’Attenzione, e negli articoli che precedettero la pubblicazione di quest’opera, James riuscirà a dare forma alla sua pars costruens. Il soggetto conoscente non è uno specchio in cui si riflette l’ordine delle cose, non viene plasmato totalmente dall’ambiente , come ritenevano Spencer e i lamarckiani; egli dispone di un’“intelligenza intelligente”, che persegue determinati fini e ben si spiega con le differenze o “variazioni spontanee” rilevabili nelle forme del vivente le condizioni ambientali possono bensì selezionarle, preservandone alcune ed eliminandone altre, ma gli organismi che ne sono portatori reagiscono agli stimoli del loro mondo circostante e in qualche misura lo creano. ora non c’è dubbio che su questo tema James forzasse i testi di Darwin, ne trascurasse i luoghi dove egli avvertiva che le variazioni sono accidentali quanto allo scopo e non rispetto all’origine: ma tanto era richiesto da una critica radicale del fanatismo spenceriano30. Questo brano di Santucci ha il pregio di riassumere efficacemente il ruolo che ebbe la scienza darwiniana nella battaglia di James contro il riduzionismo (non solo quello spenceriano), ma allo stesso tempo non rende giustizia al filosofo americano che (sfruttando più che “forzando” il pensiero dello scienziato inglese) proprio nei Principles sottolineerà come per le variazioni spontanee si possa parlare di casualità solo ex parte subjecti, dovuta cioè alla nostra ignoranza piuttosto che a un’effettiva interruzione della catena causale. In maniera apparentemente paradossale James riuscirà a fornire una teoria scientificamente accettabile dell’indeterminismo della volontà grazie — anche — a uno scienziato che mai si occupò di tali questioni e che soprattutto era un ferreo determinista: Charles Darwin; diciamo subito che sarebbe però scorretto parlare di James come di un “darwiniano”: la prima condizione per essere dei darwiniani sta nell’essere dei biologi e James certamente non lo era; la seconda condizione, a questo punto non più necessaria, sta nel non avere un pensiero autonomo, e James sicuramente ne ebbe uno. Parleremo

30

A. Santucci, op. cit., p. 55.

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dunque di ‘darwinismo’ jamesiano riferendoci all’influsso che Darwin31 ebbe sul filosofo americano e non in relazione alle sue dottrine, che sono prima di tutto jamesiane.

Prima di intraprendere il nostro cammino nella complesso intreccio di riferimenti psicologici, scientifici e filosofici che compongono quella che abbiamo chiamato la “psicologia della libertà” è bene riprendere brevemente il tema dello “spencerismo” di James: perché James diede tanto importanza a questo filosofo, anche decenni dopo essersi allontanato da suo pensiero? Attualmente la filosofia di Spencer non può dirsi certo viva e quando se ne parla lo si fa per lo più negativamente, un po’ come stiamo facendo noi nello svolgimento di questa tesi; ma poco più di cent’anni fa le cose stavano ben diversamente, soprattutto in America32; qui James aveva riscosso un notevole successo, ancor più che in patria e se questo successo fu dovuto anche a motivi che potremmo definire extra-filosoficivi, di fatto portò a un notevole approfondimento del suo pensiero: la società moderna, e soprattutto quella americana, più dinamica di quelle europee, appariva dominata da una caotica complessità: l’ottimismo spenceriano trasformava questo caos in un universo calmo e ordinato33, ma a spese dell’autonomia

Che James abbi trovato in Darwin la replica — scientifica — all’automatismo di Spencer è stato riconosciuto da quasi tutti i critici, a cominciare dal Perry; spesso però questo influsso rimane indistinto in un generico riferimento alla teoria della selezione naturale e dell’evoluzionismo; noi cercheremo di osservare più nel dettaglio il “darwinismo” di James, in relazione prima di tutto alla psicofisiologia, una scienza che lo psicologo americano contribuì a costituire: Ciò che la legge di Spencer tralascia è, secondo James, ‘l’originalità attiva e la spontaneità produttiva’, altrimenti conosciute come ‘libero arbitrio’. Secondo James, la teoria darwiniana dell’evoluzione non solo concede la possibilità del libero arbitrio, essa la implica. M. P. Ford, op. cit., p. 27. Daniel Bjork si ostina a negare l’importanza della dottrina darwiniana per la psicologia e la filosofia jamesiane, in particolare in relazione al tema dell’indeterminismo (in diretta polemica con lo storico della scienza Robert J. Richards); vedremo fra poco di analizzarne le argomentazioni; a nostro giudizio la sua posizione è difficilmente sostenibile anche se su una posizione simile a quella di Bjork sono anche Daniel Robinson Richard High e William Woodward, William James and Gordon Allport; Parallels in their Maturing Conceptions of Self and Personality, in R. Rieber e K. Salzinger (a cura di), Psychology; Theoretical-Historical Perspectives, Academic Press, New York 1980; Richard High e William Woodward sostengono che James “educato come scienziato in un’era scossa dall’evoluzionismo darwiniano, temette le implicazioni morali di un universo interamente meccanicistico”. Il mio argomento è che fu proprio Darwin a liberare James da questi timori. R. J. Richards, op. cit., pp. 432-433, n. 80. 31

Herbert Spencer, che più di tutti fece il più ambizioso tentativo di sistematizzare le implicazioni dell’evoluzione in campi differenti da quello della biologia, fu molto più popolare negli Stati Uniti che nella terra natia.. R. Hofstadter, op. cit., p. 5. Ovviamente Spencer riscosse un grande successo, positivo o negativo che fosse, in tutta Europa: È difficile immaginare oggi l’enorme popolarità ottenuta alla fine del secolo scorso dall’ottimismo evolutivo di Herbert Spencer, una delle bête noires di Renouvier, e la convinzione che Spencer offrisse una visione scientifica del mondo. C. Logue, op. cit., p. 40. 32

33 Come scrive Cotkin: Non c’è da stupirsi del fatto che James inizialmente fosse attratto dalle idee spenceriane.. e poi aggiunge: Ma il loro fascino scemò velocemente quando Chauncey Wright diresse i suoi strali contro la non scientificità della filosofia spenceriana. [...] James divenne uno dei più fervidi e duri anti-spenceriani. G. Cotkin, op. cit., p. 55. Al proposito cfr. anche R. J. Richards, op. cit., p. 255. Com’è noto anche l’amico Charles S. Peirce ebbe una parte rilevante nel risveglio di James dal “sonno spenceriano”: L’ardore per l’evoluzionismo spenceriano però decrebbe alla luce delle fredde riflessioni del suo amico Charles Sanders Peirce, che in maniera ‘chirurgica’ espose la vaghezza la vacuità e la pretenziosità della dottrina di Spencer. In seguito James non perse mai la tendenza a smontare, con un piacere quasi sadico, le speculazioni spenceriane non appena se ne presentasse l’opportunità. R. J. Richards, op. cit., p. 424. Scrisse James negli ultimi anni della sua vita, ormai distante dalle posizioni di Spencer e in parte da quelle dell’amico Peirce: Io lessi questo libro (i First Principles) da giovane appena venne pubblicato e fui trascinato con entusiasmo dalle prospettive intellettuali ch’esso sembrava aprire. Quando un condiscepolo più maturo di me, Charles S. Peirce, lo attaccò in mia presenza, io mi sentii ferito spiritualmente, come dopo lo sfregio di un’immagine sacra, sebbene non fossi in grado di difenderlo contro le sue critiche.. W. James, Herbert Spencer’s Autobiography, in MS, pp. 127-128.

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dell’individuo; Richard Hofstadter, nella sua lucida analisi della scienza evolutiva in relazione al suo milieu sociale, politico e culturale, ricorda che sarà proprio il pragmatismo nato dalle opere di James a sostituirsi all’evoluzionismo meccanicistico spenceriano incontrando le nuove esigenze sorte nella società dei primi del ‘900:

Come la filosofia di Spencer aveva regnato suprema nell’età dell’avventura, così il pragmatismo, che, nei primi vent’anni del ‘900 divenne rapidamente la filosofia dominante negli Stati Uniti, respirò lo spirito dell’era del Progresso. La visione di Spencer era stata l’espressione congeniale di un periodo che guardava al progresso automatico e al laissez faire come alla sua salvezza; il pragmatismo fu assorbito in una cultura nazionale dove gli uomini pensavano alla possibilità di intervento e di controllo. Lo spencerismo aveva rappresentato la filosofia dell’inevitabilità; il pragmatismo divenne la filosofia della possibilità34. Spencer poi, quasi paradossalmente, fu avvantaggiato, per lo meno inizialmente, dall’estendersi di quella teoria scientifica che presto verrà chiamata “darwinismo”; sembrava infatti a molti che le idee evoluzionistiche, spesso senza distinguere fra lamarckiane, spenceriane e darwinianevii, potessero spiegare una vasta gamma di fenomeni umani: la religione, l’arte, la politica, l’etica. Molti seguirono entusiasticamente Spencer su questa strada ma il suo merito fu proprio quello di essere stato il primo a percorrerla: l’evoluzionismo sembrava essere la legge universale capace di rendere conto di tutto ciò ch’era sempre sfuggito alla metafisica, alla scienza, all’arte e persino alla religione35. “Dieci o quindici anni fa”, dichiarò Whitelaw Reid in un indirizzo al Dartmouth College nel 1873, “l’argomento principale di discussione, al di fuori delle ore di studio, era la poesia e il romanzo inglesi. Ora è la scienza inglese. Herbert Spencer, John Stuart Mill, Huxley, Darwin, Tyndall, hanno preso il posto di Tennyson e Browning, di Matthew Arnold e Dickens.36”

34 R. Hofstadter, op. cit., p. 123. Il pragmatismo, ponendo maggiore fiducia nell’attività dell’organismo, guardava all’ambiente come a qualcosa capace di essere manipolato. Fu grazie alla visione pragmatistica della teoria della mente in relazione all’ambiente che la vecchia visione fu mutata. Ivi, pp. 123-24. L’unico rilievo da fare a Hofstadter in questa sua analisi è l’utilizzo forse un po’ troppo generico del termine pragmatismo, che noi abbiamo utilizzato quasi mai proprio per il fatto che si tratta essenzialmente di una teoria della verità (che noi non tratteremo nella nostra tesi), mentre viene spesso utilizzato come ‘ombrello’ sotto il quale racchiudere aspetti anche molto differenti della teoria jamesiana (e anche delle filosofie di autori molto distanti fra loro). 35 Se l’impatto durevole [dell’evoluzionismo spenceriano] sul pensiero americano sembrò alle generazioni successive impalpabile, questo probabilmente è dovuto al fatto che esso è stato assorbito in maniera così profonda. R. Hofstadter, op. cit., p. 50. Per quanto James fosse critico nei confronti dell’evoluzionismo spenceriano e dell’applicazione sconsiderata della medesima formula esplicativa (passaggio dall’omogeneo all’eterogeneo) a tutti i fenomeni (naturali e umani) egli riconobbe al filosofo inglese il merito di essere stato il primo ad avere il coraggio di dare vita a una filosofia evoluzionistica: A Spencer bisogna senza dubbio dare l’enorme merito di essere stato il primo a vedere nell’evoluzione un principio universale. W. James, “Spencer’s Autobiography”, in MS, p. 124. 36R.

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Hofstadter, op. cit., p. 21.


Questo non deve però far pensare che la filosofia di Spencer si sia “introdotta” nelle aule universitarie americane senza incontrare alcuno ostacolo; Hofstadter scrive che [...] Quando William James usò i Principles of Psychology di Spencer come manuale a Harvard, non ci fu nessuna reazione negativa. La nuova filosofia aveva fatto la sua strada velocemente all’interno della vecchia università e, in fondo, senza eccessive controversie37. Al contrario, La bella introduzione di Ignas Skrupskelis mostra chiaramente che la decisione da parte di James di utilizzare i libri di Spencer per i suoi corsi non passò di certo inosservata e fu anche criticata; pare che l’opposizione più dura venne da parte di Francis Bowen, professore di filosofia; questi era un notevole studioso di Kant e di Schopenhauer, autori che James conosceva solo superficialmente, soprattutto alla fine degli anni ’70, ma soprattutto egli era un grande antagonista del materialismo e di qualsiasi pensiero che potesse essere considerato “infedele”; il suo modo di fare filosofia era sostanzialmente opposto a quello, che potremmo definire empirico, di James (nel 1878 era ancora assistant-professor di fisiologia). Se James poté tenere le sue lezioni “tranquillamente” fu dunque principalmente merito di quel professore di chimica38 che abbiamo dipinto sopra in maniera abbastanza incolore (cfr. supra, cap. 1.2, § 1), ma che da rettore diede sicuramente una svolta positiva all’università di Harvard.

37Ivi,

p. 20.

38 Il riferimento è ovviamente a Eliot, che, come ricordato nel terzo capitolo (Cfr. cap. 3, pp. ???), fu il primo professore del giovane James alla Lawrence Scientific School. È molto probabile che James non avrebbe trovato facilmente posto a Harvard con un altro rettore; Eliot, una persona molto colta dalla formazione squisitamente scientifica, decise di cambiare abbastanza radicalmente il cursus studiorum dell’università: la formazione dello studente di Harvard era sempre stata, come per il resto degli atenei americani e non solo, incentrata sullo studio della letteratura classica; Eliot decise di introdurre massicciamente gli studi scientifici e, se la situazione fosse rimasta immutata, James avrebbe potuto difficilmente trovare posto come professore, e certamente non avrebbe mai avuto una cattedra in filosofia. Ovviamente James fu solo uno fra i tanti professori che avrebbero dovuto, nei piani di Eliot, rinnovare il famoso Harvard College; anche il già citato John Fiske venne assunto e poté tenere un corso sul positivismo, una cosa che non era affatto normale, come farebbero intendere le parole di Hofstadter, tanto che la cosa suscitò lo stupore e l’ammirazione di Herbert Spencer. Cfr. ML, Introduction, pp. xxiixxiii. A proposito dell’università di Harvard Cfr. ML, Introduction, pp. xxxi e xxxii. Bisogna però anche ricordare che Eliot accelerò un processo di rinnovamento accademico che era in qualche modo già ‘nell’aria’ e da molti anni: A partire dagli anni ’20 la crescente autonomia di scuole scientifiche spesso come appendici delle università, rifletteva la crescente autorità della scienza e il fatto che lentamente stesse sfidando l’educazione tradizionale. P. J. Croce, op. cit., p. 97.

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3.1.3 I Principles of Psychology: tra metafisica e senso comune Nello stesso anno in cui veniva pubblicata la sua recensione sulla psicologia di Spencer, James chiedeva ai suoi studenti: La falsità della teoria dell’automatismo conscio implica la verità della teoria del libero arbitrio?39; è la domanda a cui ci accingiamo a rispondere ora, più i centoventi anni dopo la sua formulazione. Pur non avendo avuto il privilegio di assistere alle lezioni del professor William James, possiamo però dire di avere un vantaggio rispetto agli studenti di Harvard di allora: la conoscenza di tutti gli articoli jamesiani scritti sull’argomento e soprattutto di quella grande opera che segnò per James il declinare degli interessi squisitamente psicologici40 e il nascere di un nuovo modo di fare psicologia, The Principles of Psychology. Abbiamo già detto che i capitoli sulla Volontà e sull’Attenzione dei Principles sono quelli che più ci interessano per il nostro lavoro; James dà qui l’esposizione conclusiva (per lo meno da un punto di vista psicologico) della sua teoria della volontà, ma forse ancor più chiarificatori sono degli articoli che James pubblicò molti anni prima del suo opus magnum e che in questo vennero poi riportati, spesso senza sostanziali modifiche. A questo proposito è utile aprire una parentesi: Molti accusarono il libro di James di mancanza di sistematicità proprio in virtù del fatto che molti dei suoi capitoli erano la riproduzione

ML, Introduction, p. xxx. Le domande degli esami tenuti da James nel 1878 sono conservate alla Houghton Library.. queste parole, oltre che a mostrare come il “germe” della filosofia fosse ben presente in James anni prima di scrivere le sue opere filosofiche, rivelano come per il giovane professore di fisiologia fosse essenziale il rapporto fra automatismo e indeterminismo della volontà; sarebbe interessante sapere quali furono le risposte degli allievi e quali i commenti del professor James. Possiamo fin d’ora anticipare la nostra risposta al quesito di James: no, la falsità della teoria dell’automatismo non implica la validità della teoria del libero arbitrio, ma certamente è vero il contrario e cioè che una teoria che affermi la libertà dell’uomo non può essere compatibile con un materialismo riduzionistico. il compito di James sarà proprio quello di cercare di costruire una filosofia della libertà dopo aver eliminato l’ostacolo dell’automatismo riduzionistico. 39

40 Fin dai tempi del Perry la critica ha diviso la produzione jamesiana in tre periodi: il primo periodo va dagli scritti giovanili ai Principles of Psychology; il secondo periodo sarebbe caratterizzato da una ricerca di carattere morale-religioso e il terzo periodo che racchiude le opere successive alla pubblicazione delle Varieties.. Sebbene il flusso dei suoi interessi non fu mai confinato a un determinato canale, gli ultimi decenni possono essere chiaramente distinti da una determinata enfasi: negli anni ’80 sulla psicologia generale, negli anni ’90 sull’etica e la religione, e tra il 1900 e il 1910 sulla filosofia sistematica. TCWJ II, p. 363. Come tutte le schematizzazioni anche questa ha il difetto di ossificare ciò che crebbe in maniera dinamica; a questo si deve aggiungere che le opere di James, essendo per lo più raccolte di articoli e conferenze pubblicati anche a notevole distanza gli uni dagli altri, facilmente sfuggono a qualsiasi periodizzazione. Molti studiosi hanno poi proposto un’ulteriore divisione dei tre periodi e altri si sono semplicemente rifiutati di seguire cronologicamente il pensiero di William James; fra questi vale la pena di citare Bennett Ramsey: Io sostengo che la classica divisione delle opere di James in tre parti (lavori filosofici e psicologici giovanili; periodo intermedio di ricerca religiosa “tender-minded”; e poi, periodo filosofico strettamente inteso) è fuorviante. B. Ramsey, op cit., p. 4. Per Ramsey l’aspetto “fuorviante” di questa divisione sta nel “relegare” l’interesse jamesiano per le tematiche religiose a un solo periodo della sua vita. La carriera di William James in psicologia può essere divisa in due parti. Prima del 1890 egli scrisse in veste di psicologo. Dopo il 1890 egli divenne più filosofico, anche se parlava specificamente agli psicologi. E. Taylor, The Case for a Uniquely American Jamesian Tradition in Psychology, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 5.

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di articoli precedentemente pubblicati; una critica del genere è ben debole se non accompagnata da un’analisi del testo che dimostri la mancanza di sistematicità41.

Di fatto James, dal 1878 al 1890 non ebbe in mente che un solo scopo, quello di terminare il libro: piuttosto che pensare che i Principles siano una raccolta di saggi, una specie di miscellanea, bisogna credere che James scrisse tutti, o quasi, gli articoli pensandoli già come capitoli del testo: La precedente pubblicazione di questi numerosi articoli diede vita all’errata supposizione che i Principles fossero un’opera di compilazione. Non è così42. Molti furono certamente portati a una critica di questo genere dalle dimensioni e dalla varietà di argomenti dell’opera, che ancora oggi appare impressionante43; il testo di James che

41 Lo stesso James riconobbe, nella prefazione ai Principles, di non aver dato vita a un “sistema” psicologico: Il lettore cercherà invano in questo libro un sistema chiuso. PP, p. 6; ma questo non vuol dire ovviamente che il testo, che poi era nato come manuale e quindi doveva prendere in considerazioni “tutti” gli aspetti fondamentali della psicologia contemporanea, sia un’accozzaglia di articoli slegati l’uno dall’altro. James era semplicemente consapevole, sicuramente più di molti suoi critici, che la psicologia come scienza era una neonata e che sarebbe stato non solo impossibile, ma addirittura dannoso, cercare di rinchiuderla in un qualche “sistema” che James auspica, non si capisce quanto sinceramente, solo come traguardo da raggiungere in un lontano futuro. Secondo il parere di James la psicologia non era una scienza; nel 1890 essa era solo una ‘speranza di scienza’. [...] M. P. Ford, op. cit., p. 19. Ford fa certamente riferimento a un famoso brano jamesiano della Psychology: E’ strano sentire parlare de “la Nuova Psicologia” (...) quando, nelle forze e negli elementi reali che quella parola copre, non esiste un barlume di chiaro discernimento. Una sequenza di fatti bruti; una chiacchiericcio litigioso riguardo alle differenti opinioni; una scarsa classificazione e generalizzazione a un mero livello descrittivo (...) ma non una singola legge nel senso in cui noi intendiamo le leggi della fisica, non una proposizione dalla quale può essere causalmente dedotta una qualche conseguenza (...) questa non è una scienza, ma è solo la speranza di una scienza. PBC, p. 335. Al tempo in cui venne pubblicato l’opus magnum di James, La psicologia era ancora generalmente vista come una branca della filosofia. Senza dubbio, uno dei grandi obbiettivi dei Principles era quello di distinguere chiaramente tra il punto di vista psicologico e quello metafisico. D. Bjork, op. cit., p. 167; cfr. anche ivi, p. 122. Anche il Perry sottolinea questo fatto: La psicologia com’era insegnata in America non era distinguibile dalla filosofia dell’anima [...] TCWJ II, p. 12. Inoltre James farà della psicologia una scienza utile anche oltre i suoi limiti conoscitivi: un vero e proprio alleato dell’insegnante; questa nuova dimensione della scienza psicologia ai mostrerà in tutta la sua evidenza nei Talks to Teachers: Fino a quel giorno [della pubblicazione dei Principles] la psicologia era stata vista come una branca della filosofia e pochi consideravano la sua conoscenza essenziale al lavoro dell’insegnante. La maggior parte degli insegnanti che erano tra il suo pubblico non avevano studiato psicologia all’università. [...]. TT, Introduction, p. 6. Sulla difficoltà a distinguere tra psicologia come scienza e psicologia come filosofia cfr. anche M. J. Strube, J. H. Yost, J. R. Bailey, William James and Contemporary Research on the Self: The Influence of Pragmatism, Reality, and Truth, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 190. Lo stesso James scrisse al fratello Henry nel Giugno del 1890“[...] la psicologia si trova in uno stadio di tale pre-scientificità che l’intera generazione presente di psicologi è destinata a essere letta in futuro come un’illeggibile accozzaglia medievale [...]”G. W. Allen, op. cit., p. 315. E ancora: “Mi sembra che la psicologia attuale, scriveva James allo psicologo britannico James Sully, si trovi attualmente allo stesso punto in cui si trovava la fisica prima di Galileo [...]” Ivi, p. 318. James fece [...] un enorme passo teso a rendere rispettabile e scientifica la sua nuova psicologia. D. Bjork, op. cit., p. 122. La critica alla supposta frammentazione del pensiero jamesiano si ripresenterà anche all’uscita degli scritti filosofici. Tratteremo più approfonditamente di questo tema nella parte quarta del presente lavoro, a proposito soprattutto della pubblicazione dei saggi raccolti con il titolo di The Will to Believe, and Other Essays on Popular Philosophy. Cfr. infra, cap. 4.1, § 5.

TCWJ II, p 36. Anche Allen non ha dubbi nel respingere critiche basate più sulla genesi che sul contenuto del testo: Sebbene molti capitoli del libro erano stati pubblicati come articoli in diverse riviste [...] il libro non era in alcun modo un aggregato di differenti articoli [...]. G. W. Allen, op. cit., p 312. R. B. Evans, nella sua introduzione all’edizione in due volumi dei Prnciples scrive che nessuno può leggere i Principles di James dall’inizio alla fine e chiamarlo un libro non sistematico. R. B. Evans, Introduction; The Historical Context, in The Principles of Psychology, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1981, Vol. 1, p. XLI. 42

43 Lo stesso James, stremato dalla fatica di portare a termine l’opera scrisse a Holt, il 9 Maggio del 1890: Nessuno più di me può provare disgusto alla vista del libro. Nessun soggetto è degno di essere discusso per 1000 pagine! [le pagine erano poi 1400] Se avessi a disposizione ancora dieci anni, potrei riscriverlo in 500. Ma non è possibile e questa massa disgustosa, dilatata, tumefatta, gonfia e idropica testimonia soltanto due fatti: primo, che non esiste qualcosa come una Scienza psicologica; secondo, che W. J. È un incapace. G. W. Allen, op. cit., pp. 314-5. È difficile pensare che James credesse veramente a queste parole; certamente si tratta di sentimenti

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oggi noi studiamo per comprenderne il pensiero era nato come un manuale e quindi doveva riportare le più importanti teorie psicologiche del periodo, le scoperte fisiologiche, gli esperimenti condotti nel lontano e nel recente passato e tutto quanto potesse servire a chi volesse occuparsi scientificamente della mente e del cervello umani44. Ma l’ampiezza di temi trattati fu fonte di critiche e di fraintendimenti anche per un altro motivo:

Sebbene pensato per essere un libro di testo, i Principles erano composti non per una professione senza volto, ma rivolti a persone dedite alla ricerca, con diversi interessi e diversi convincimenti. I Principles contenevano qualcosa per ciascuno45. Questo non fece altro che aumentare le critiche, perché’ ciascuno vedeva nelle altre prospettive contenute nel libro un grave difetto da emendare...Altri invece ritenevano erroneamente di vedere perfettamente enunciate le proprie teorie. Scriveva Shadworth Hodgsonviii all’uscita dei Principles: Tutto il vostro libro contribuisce potentemente al sostegno della teoria cosiddetta dell’automatismo. Più lasciate spazio alle vostre spiegazioni, meno posto trova un agente trascendentale, dal momento che non vi servite mai di quest’ultimo per le vostre argomentazioni46. abbastanza comprensibili prima della pubblicazione di un’opera su cui egli e l’editore avevano investito così tanto; il fatto è che, se anche fosse vero che nessun argomento è degno di essere trattato per mille pagine, è altrettanto vero che i Principles trattano ben più di un soggetto...Ed è altrettanto vero che dopo il 1890 furono in pochi a credere che non si potesse fare psicologia scientificamente e che William James fosse un incapace; anche i suoi critici più agguerriti gli riconobbero infatti delle enormi qualità. Nessuno scrittore, prima o dopo di lui, è riuscito a uguagliare la sua capacità di rendere la psicologia interessante e comprensibile. TT, Introduction, p. 7. Rimane il fatto che James, dopo la pubblicazione del suo opus magnum sentì di dovere dedicarsi a nuove speculazioni: Sebbene i Principles divennero ben presto una dei più importanti libri di psicologia, altrettanto velocemente James si sentì disaffezionato. B. King, Evolution and Revision of the Principles, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 71. 44La

notevole quantità di riferimenti a esperienze altrui e personali e la pregevole facilità di lettura dei Principles fecero concludere a molti critici che questi non rappresentavano un’opera che rispettasse pienamente i canoni della scientificità. William Dean Howells scrisse: “Si deve ammettere che egli si è pericolosamente avvicinato alla stesura di un libro popolare”, Editor’s Study, Harper’s magazine 33 (1891), p. 314, cit. in B. Ramsey, op. cit., p. 151. Il fatto poi che molto del contenuto dei Principles sia mutuato dal lavoro di altri psicologi e medici non deve affatto mettere in dubbio l’originalità e la rivoluzionarietà di questo ‘manuale’; al proposito sono illuminanti le parole di Marcus Ford: Nel 1890 James pubblicò la sua grande opera in due volumi, i Principles of Psychology. Egli aveva quarantott’anni quando fu pubblicata e ci stava lavorando da dodici. La maggior parte di ciò che vi è contenuto non è nuovo; il testo è pieno di resoconti e di riassunti delle scoperte e delle teorie di altri psicologi. Ma ciò che è nuovo è molto significativo — sia positivamente che negativamente — per il futuro pensiero jamesiano. E ciò che non è nuovo assume un nuovo significato nella prospettiva di James. M. P. Ford, op. cit., p. 8. G. E. Myers, William James and Contemporary Psychology, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 50. 45

G. W. Allen, op. cit., p 324. Molti studiosi contemporanei, nonostante dispongano di un’enorme quantità di affermazioni contrarie dello stesso James, sostengono una lettura meccanicistica dei Principles: Il discorso di James sembrava suggerire che le conclusioni meccanicistiche fossero sufficienti per spiegare la sua immagine [del Sé]. B. Ramsey, op. cit., p. 41. Lo stesso Allen 46

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Come vedremo in seguito — anche grazie alle esplicite parole dello stesso James — questa è un’interpretazione totalmente insostenibile, ma un’incomprensione del genere non è certo da considerarsi eccezionale47 se si tiene conto del fatto che buona parte della confusione con cui molti lettori dovettero fare i conti leggendo i Principles è in parte addebitabile al suo autore; James infatti dichiara esplicitamente, all’inizio dell’opera — e più volte lo ricorda lungo tutte le sue mille e quattrocento pagine48 — di volere trattare della psicologia come di una “scienza naturale” e quindi lasciando ai filosofi, o piuttosto alle suoi futuri scritti filosofici, i problemi che non sono risolvibili su un piano strettamente scientifico:

sembra concordare in parte con le affermazioni di Hodgson e di Ramsey: egli ritiene che leggendo alcuni passi dei Principles potrebbe sembrare che James sostenga una psicologia deterministica, la teoria dell’automatismo che egli aveva sempre contrastato, ma sebbene egli affermi che gran parte del processo di stimolo e risposta sia automatico o riflesso, egli continuava a credere nella realtà dell’indeterminismo. G. W. Allen, op. cit., p. 319. Ma James non credeva nella realtà dell’indeterminismo nonostante la realtà dell’arco riflesso; questa teoria, che effettivamente venne utilizzata da molti psicologi per sostenere una teoria riduzionistica della mente umana, assume in James — come vedremo tra breve — un valore affatto rivoluzionario, e dubbi come quello di Allen, per altro legittimati dall’ampiezza e dalla complessità dell’opera, sono spesso motivati proprio da un’errata comprensione del ruolo, niente affatto deterministico, che la nozione di arco riflesso assunse per James. In ordine all’accenno di Hodgson all’assenza di qualsiasi riferimento ad “agenti trascendentali”, ovvero all’idea di “anima”, c’è da dire che James in effetti non si servì mai di alcunché di simile per spiegare il funzionamento della mente — nel significato ampio che questo termine assume nella psicologia jamesiana — : L’anima non è necessaria (almeno in psicologia) per spiegare come può darsi la conoscenza. P. K. Dooley, op. cit., p. 32. Agli argomenti [in favore dell’esistenza dell’anima] possiamo rifiutare ogni valore. Quello che si basa sul libero arbitrio non può convincere se non coloro che credono nel libero arbitrio; e questi pure saranno costretti ad ammettere che la spontaneità è almeno altrettanto possibile in un agente spirituale temporaneo, come il nostro “pensiero”, quanto in un agente permanente del genere dell’anima PP, p. 328. Ma c’è di più: James non si servì nemmeno del concetto sostanziale di coscienza (e il brano succitato mostra chiaramente come per lo psicologo americano il problema della libertà fosse affatto indipendente — in opposizione alla classica dottrina cristiana — da quello dell’anima). La coscienza coincide per James con gli atti della coscienza, si tratta di un concetto dinamico e funzionalistico, ma questo non comporta di certo una visione riduzionistica della coscienza stessa. Ancora sul finire dell’Ottocento, la possibilità di una volontà libera coincideva con la verità di un’anima immortale, che fosse in grado di comunicare col corpo, ma che al tempo stesso fosse indipendente, autonoma, e qualitativamente differente da tutto ciò che è “materiale”; Ayer è chiarissimo nel sottolineare la rivoluzionarietà del pensiero di James proprio a questo proposito: [...] con un importante punto di differenza che vedremo fra poco, James segue Hume nel considerare il Sé [self] come un “fascio di percezioni”. Come Hume, egli non vede alcun motivo per ammettere l’esistenza di ciò che è chiamato puro Io, anima, sostanza mentale. Egli non dice di essere in grado di dimostrare l’inesistenza di queste cose, ma solo che esse sono superflue per ogni fine scientifico, o di qualche altra utilità: e pragmaticamente dire questo è come dire che non esistono. La ragione principale per postularle non è di tipo scientifico. Sono state postulate per permettere l’idea di libero arbitrio, o di immortalità, di qualcosa che è passibile di pena o di ricompensa. Ma anche coloro che accettano la dottrina del libero arbitrio “dovranno ammettere che la spontaneità è solo possibile, sia in un agente spirituale temporaneo come il nostro “Pensiero” sia in uno immortale come viene intesa l’Anima” J. Ayer, op. cit., pp. 254-55. Il “punto di differenza” con Hume è che mentre questi vede prima le percezioni e poi la loro unione nel “fascio”, per James si dà prima di tutto il flusso di coscienza e solo poi, nella nostra analisi — e nell’introspezione che qualunque uomo può compiere — la sua suddivisione artificiale in sensazioni, percezioni etc. 47 Lo stesso John Dewey considerava il James dei Principles molto vicino alle posizioni dell’automatismo conscio, pur senza fornire giustificazioni valide alla propria teoria: Durante tutto il corso della sua vita James credette ardentemente nella dottrina della libertà della volontà [...]. Fu questa credenza che lo sostenne attraverso la sue crisi emotive rendendolo capace di sostenere una vita morale. Dewey ignora completamente le difese appassionate di James di questa dottrina [della libertà della volontà] nei capitoli sull’Attenzione e sulla Volontà. Richard M. Gale, John Dewey’s Naturalization of William James, in R. A. Putnam (a cura di) The Cambridge Companion to William James, cit., p. 56. La critica di Peirce, sebbene egli riconoscesse l’importanza dell’opera, fu molto dura: [egli trovava l’autore] “materialistico fino in fondo — ovvero nel metodo, ma non religiosamente, dal momento che non nega un’anima separabile né una vita futura [...] sotto la guida di un eloquente apostolo della teoria di Swedenborg [il padre] ed educato a una professione materialistica [la medicina]. G. W. Allen, op. cit., p. 324. Non bisogna però credere che l’accoglienza generale della critica fu fredda o addirittura ostile: Nonostante le critiche di G. Stanley Hall, James Sully e Charles Sanders Peirce, il libro di James rappresentò un successo di critica. B. King, Evolution and Revision of the Principles, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 71. 48

Cfr. PP, p. 263.

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Io mi sono mantenuto strettamente aderente al punto di vista scientifico per tutte le pagine del libro. Ogni scienza naturale fa suoi certi presupposti acriticamente e rinuncia alla dimostrazione del valore delle leggi su cui si fonda e da cui vengono tratte le proprie conclusioni. La psicologia, scienza delle menti individuali finite, assume come propri presupposti 1) Pensieri e sensazioni (“Thought and Feelings”) 2) un mondo fisico nel tempo e nello spazio con il quale essi coesistono e che 3) essi conoscono.49. Il fatto poi che lo stesso James dichiarasse di non poter dirimere, in una tale opera, la questione del determinismo50, ha portato molti a supporre che egli, considerato il suo impianto scientifico, si mantenga nell’alveo del materialismo. James di sicuro non si mantenne in quest’alveo, ma nemmeno si mantenne nei limiti che si era prefissato e molte volte, non solo in ordine al problema del determinismo, le sue argomentazioni eccedono di molto i limiti di una psicologia “scientifica”51. Molti criticarono James per avere mischiato questioni filosofiche con quelle scientifiche, come se poi al tempo la distinzione fosse così chiara e così giustificata; Stanley Hall definì James “un impressionista in psicologia” e Santayana, nel 1921 scriveva che i Principles sono “Un’opera di letteratura, come un’autobiografia o un romanzo psicologico, e se ne può parlare solo come di poesia e in questo senso Shakespeare è uno psicologo migliore di Locke o Kant”52.

49 Ivi, p. 6. La psicologia è una semplice scienza naturale, che accetta certi termini come dati, senza criticarli, e si tiene lontana dalle ricostruzioni metafisiche. Come la fisica, essa deve essere ingenua; Ivi, p. 114. E ancora: La psicologia è una scienza naturale, una descrizione di correnti di pensiero particolari e definite, consistenti e succedentisi nel tempo. Dalle nozioni metafisiche non deriva alcun vantaggio alla psicologia.. Ivi, p. 347. A proposito dei limiti che James pone alla scienza psicologica in ordine alla possibilità di fondare la propria epistemologia cfr. R. M. Calcaterra, Il pragmatismo americano, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 54. Era fuori dei compiti della psicologia, per esempio determinare l’oggettività nel senso di dire che cosa è vero degli oggetti del mondo reale. Questo sarebbe stato compito dela filosofia. C. H. Seigfried, The World We Practically Live in, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 85. Scrivendo i Principles of Psychology, James aveva cercato di evitare ogni questione metafisica, assumendo una prospettiva strategicamente “dualistica”, ovvero ritenendo che la mente è capace effettivamente di conoscere il mondo esterno, ma senza sentirsi in dovere di dimostrare come questo sia poi possibile e spiegabile. G. W. Allen, op. cit., p. 504. Mette conto qui di citare le chiare, ed esemplarmente sincere, parole dello stesso James: La relazione per cui si conosce è però la cosa più misteriosa del mondo. Se ci chiediamo come accada che una cosa possa conoscerne un’altra, veniamo trascinati nel cuore della Erkenntnisstheorie e della metafisica. Lo psicologo non deve considerare la cosa in maniera così profonda. PP, p. 212. Cfr. anche ivi, p. 214. 50

Personalmente io sono tratto a credere che la questione del libero arbitrio sia insolubile sul piano strettamente psicologico. Ivi, p. 1176.

James mise tra parentesi i presupposti metafisici al fine di descrivere le condizioni fenomeniche della nostra esperienza del mondo. C. H. Seigfried, The World We Practically Live in, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 79. Ma lo stesso James, all’inizio della prefazione ai Principles, scrive: Il trattato che segue è cresciuto per la maggior parte in connessione con l’attività accademica dell’autore nelle classi di Psicologia, sebbene è vero che alcuni dei capitoli sono più “metafisici” e altri più pieni di dettagli di quanto sia conveniente per uno studente che si avvicini per la prima volta a questa materia.. PP, p. 5. 51

52 G. W., Allen, op. cit., p. 325 e p. 326. Queste critiche ci paiono davvero ingiuste e insostenibili; in molti critici di allora, come di oggi, prevale il pregiudizio per cui un’opera scientifica deve, per essere tale, evitare il più possibile legami con l’arte, la letteratura etc. e deve, allo stesso tempo, confinarsi in un linguaggio rigorosamente freddo e distaccato; per fortuna James non si attenne ai consigli che potevano venire da personaggi come Hall (che peraltro viene ringraziato nella prefazione ai Principles) e Santayana; per quanto concerne il riferimento di Santayana a William Shakespeare, è interessante riportare un brano dello stesso James, in Brute and Human Intellect: Si sente spesso dire che Shakespeare possedesse più potere intellettuale (Intellectual power) di chiunque altro. Se per questo si intende il potere di passare da certe premesse alle giuste o congrue conclusioni, allora è certamente vero. I repentini cambiamenti del pensiero di Shakespeare colpiscono il lettore perla loro imprevedibilità non meno che per la loro 7 giustezza.[...] Ma per quanto questo sia vero, sebbene sarebbe assurdo dire che una mente analitica è superiore in maniera assoluta a una intuitiva, è altrettanto vero che la prima rappresenta uno stadio superiore. Per quanto quindi James stimasse Shakespeare e considerasse Amleto un personaggio capace di rappresentare l’uomo moderno meglio di qualsiasi trattato filosofico o sociologico è evidente da queste parole quanto poco avrebbe apprezzato le parole del suo “discepolo” Santayana.

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Sicuramente a James può essere imputata una buona dose di ingenuità — soprattutto quella di credere che si possa scrivere un libro “neutrale” dal punto di vista metafisico53 — ma questo non toglie il fatto che il suo fu un tentativo54 coraggioso e sostanzialmente riuscito. James, nello scrivere i Principles si era trovato infatti di fronte a una grande sfida, che consisteva non tanto nel riuscire a raccogliere e “sistemare” un’immensa quantità di teorie e di dati eterogenei, quanto nel suffragare le proprie considerazioni con prove scientifiche, restando sotto il “tiro incrociato” degli psicologi e dei filosofi del suo tempo55, questa sfida poi, come ricorda il Wiener, avveniva in un’America dominata da un clima positivistico e antimetafisico notevole e proprio per questo James avrebbe cercato di rendere il suo testo il meno metafisico possibile56, cosa a dire il vero difficilmente realizzabile, visto che la neutralità del positivismo era caratterizzata da pesanti ipoteche metafisiche che cominciavano a emergere proprio alla fine dell’Ottocento; la ‘scienza’ psicologica con cui dovette confrontare James era infatti dominata da un rigido dualismo57 (fra soggetto e oggetto, fra mente e corpo) e da un ferreo determinismo; la psicologia ‘naturalisticamente intesa’ era dunque tutt’altro che metafisicamente neutrale58:

53 Molti critici non si sono limitati però ad affermare genericamente che allo James psicologo si mischia, nei Principles, quello metafisico; Charlene Haddock Seigfried, in maniera come al solito molto lucida, chiarisce uno dei presupposti jamesiani che potremmo definire “metafisici”, e che analizzeremo meglio fra breve: [...] il fatto che James sempre utilizza come criterio è quello della spontaneità umana. Che l’uomo organizzi attivamente l’esperienza per adattarla ai nostri scopi è sia presupposto, sia dimostrato, dai fatti osservati. Il primo circolo ermeneutico della storia naturale comincia con l’usare i fatti dell’esperienza per provare che noi mettiamo in ordine il mondo, ma questi fatti appaiono come tali soltanto se già presupponiamo che l’uomo sia ordinatore del proprio mondo. Seigfried, “The World We Practically Live in”, in Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 87. Anche Dooley condivide il medesimo giudizio della Seigfried: Sebbene James aveva avuto l’intenzione di fare psicologia in una maniera “metafisicamente neutrale”, la sua convinzione che la psicologia dovesse avere a che fare con “l’uomo intero” lo portò ad adottare, fin dal principio dell’opera, una visione interazionistica nella quale la coscienza sia realmente efficace. P. K. Dooley, op. cit., p. 59. Cfr. anche ivi, p. 19. 54 Si intende qui il tentativo di distinguere tra orientamento psicologico e orientamento metafisico; il fatto poi che molti critici poterono individuarono delle parte più filosofiche nei Principles è paradossalmente la prova che James riuscì nel proprio tentativo. 55

L. Simon, op. cit., p. 228.

56 Ma Wiener sottolinea anche come questo ‘ondeggiare’ tra la scienza e la metafisica fu immediatamente rilevato dai maggiori recensori dell’opera di James [...]. Cfr. P. Wiener, op. cit., pp. 106-107.

James apparentemente si pose in una sostanziale linea di continuità con il dualismo cartesiano che ancora dominava la psicologia del tempo: Lo psicologo come tale, deve ammettere il dualismo del soggetto e dell’oggetto e la loro armonia prestabilita, qualunque monismo filosofico [cioè qualunque “riconciliazione” di questi due “poli”] egli abbia in mente. PP, p. 216. Il fatto che a questa ‘professione di fede’ non seguisse un coerente sviluppo dei temi più importanti non aiutò di certo la comprensione dello spirito dei Principles La professione di dualismo, insieme con una predisposizione al monismo, portarono a confusione e ambiguità.. TCWJ II, p. 73. Per quanto riguarda invece la ‘questione metafisica’ coscientemente evitata della realtà del mondo esterno, James non ebbe difficoltà a mantenersi nella posizione (realistica) assunta in partenza: a prescindere dal fatto che gli oggetti pensati siano o no ‘esterni’, essi vengono ‘vissuti’, ‘sentiti’ come tali e questo era quanto doveva bastare allo psicologo. Cfr. M. P. Ford, op. cit., p. 17. Sono illuminanti in proposito le parole dello stesso James: Tanto nella sensazione quanto nella percezione noi percepiamo il fatto come una realtà esterna immediatamente presente, e questo rende l’una e l’altra differenti dal “pensiero” e dalla “concezione”, i cui oggetti non ci sembrano presenti in questo modo fisico immediato. PP, 651. Interessa anche notare come, per James, la plausibilità di un pensiero psicologico fosse misurabile proprio con la sua capacità di dare conto dei fenomeni esterni o percepiti come tali: Un sistema, per essere accettabile, deve almeno implicare la realtà degli oggetti sensibili, spiegandoli, se non altro, come effetti esercitati su di noi. Quel sistema capace di implicarne il maggior numero e che li spiega definitivamente, o pretende di spiegarne la maggior parte, prevarrà, caeteris paribus. Ivi, p. 939. 57

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Presa nelle maglie del determinismo, la psicologia moderna non aveva solo rifiutato lo studio della volontà, essa aveva anche considerato quest’argomento scientificamente e filosoficamente non degno di nota59. Come avrebbe potuto James scrivere un libro che trattasse della sensazione, del pensiero e della coscienza senza articolare una teoria della volontà che desse ragione dei rapporti tra mente e corpo? Il fatto poi ch’egli non aderisse a nessuna “scuola” in particolare — che riducesse tutto a mente (spirito) o a corpo (materia) — lo costringeva ancor più a elaborare un proprio pensiero autonomo; Alla fine decise che avrebbe affrontato questo argomento come se si trattasse di scienza naturale, semplicemente ignorando le implicazioni metafisiche, non negandole e differendo la soluzione di problemi come quello del rapporto mente-corpo:

Ma se le più elementari leggi della psicologia non erano state ancora scoperte, com’egli sosteneva, come fare psicologia “scientificamente”? Al momento non poteva farlo, come rileva lo stesso libro più volte. Ma egli fece un tentativo ed ebbe successo nello scrivere un libro che per tanti anni avrebbe eclissato tanti suoi rivali60. 58 Non dovremmo sorprenderci di sentire James dire che “la questione del libero arbitrio è insolubile su basi strettamente psicologiche”. Come potrebbe essere altrimenti? Come potrebbe la psicologia scientifica, dedita com’è al discernimento delle condizioni, dei determinismi, e delle regolarità della vita, comprendere la dimensione della libertà? Proprio per la definizione dei suoi intenti, la libertà è esclusa dalle sue considerazioni. D. S. Browning, op. cit., p. 144. Di fatto James comprese che la libertà era esclusa dalla psicologia scientifica solo supponendo il carattere materialistico e riduzionistico dell’ideale di scienza. La grandezza di James sta proprio nella sua capacità di far convivere libertà e scientificità in una maniera ch’era dichiarata impensabile dalla stragrande maggioranza dei suoi predecessori: James forgiò una psicologia che trovava una base scientifica per la libertà della mente dalle maglie deterministiche. D. Bjork, op. cit., p. 229. D’altronde James si rendeva ben conto della solo apparente neutralità di certe teorie psicologiche che pretendevano di dettare legge da un’immaginaria prospettiva privilegiata: si può affermare che il sostenere la teoria dell’automatismo, com’è sostenuta attualmente facendola poggiare su basi aprioristiche e quasi metafisiche, è cosa ingiustificata nel momento attuale della psicologia. PP, p. 141. 59

D. S. Browning, op. cit., pp. 131-132.

60 G. W. Allen, op cit., p. 318. La “longevità” di questo libro è dovuta in buona parte al fatto che molti degli indirizzi psicologici futuri presero le mosse proprio da esso; non ci interessa qui di trattare questo argomento, possiamo però dire che molti critici, a seconda della loro propria formazione, vedono nei Principles l’anticipazione del comportamentismo, della psicologia cognitiva, della logica simbolica e della teoria della Gestalt. Altri invece hanno sottolineato il fatto che già nel 1890 James aveva definito, per lo meno in nuce, tutta la sua filosofia futura; non vogliamo dire che questo non è vero, ma ci sembra qui importante analizzare i Principles nella loro autonomia, soppesandone i pregi e i difetti senza coinvolgere eccessivamente il pensiero futuro del filosofo americano; dietro il tentativo, per altro utile, di rintracciare in quest’opera i germi dei successivi sviluppi speculativi di James si nasconde infatti il rischio di offuscare l’originalità e l’autosufficienza dei Principles, soprattutto per quanto riguarda il tema del libero arbitrio: James confinò il tema del libero arbitrio nei Principles, rilevando che gli argomenti concernenti la presenza o l’assenza di esso appartengono al campo della filosofia. Egli comunque, indirizzò i lettori interessati all’argomento alla sua più ampia esposizione in The Dilemma of Determinism [1884]. Nonostante ciò, egli ammetteva, già nei Principles, che “quando postulati scientifici e morali si combattono l’un l’altro e non disponiamo di alcuna verità oggettiva, l’unica strada è la scelta volontaria, perché lo stesso scetticismo rappresenta una sorta di scelta volontaria”. G. Cotkin, op cit., p.68. Riprenderemo le parole dello stesso James in proposito alla fine di questa parte dedicata all’approccio psicologico jamesiano al tema del determinismo, per ora possiamo dire che Cotkin, nel mostrare queste evidenti tracce di quella teoria che verrà sviluppata nella Will to Believe — di cui infatti lo scritto dell’84 rappresenta un importante capitolo — tende a sottovalutare quanto di originale James disse a proposito del determinismo nei Principles da un punto di vista squisitamente scientifico.

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James era pienamente consapevole del fatto che l’aspetto filosofico — o, più esplicitamente, metafisico — della psicologia, non era marginale né accessorio: esso era anzi fondativo: il riconoscimento jamesiano dell’attuale pre-scientificità della psicologia era sostenuto proprio dalla consapevolezza che una scienza, non esclusa quella psicologica, avrebbe dovuto fondarsi su una coerente visione delle cose che, nel caso particolare, desse ragione del ‘classico’ problema del rapporto mente-corpo: Era il problema filosofico del rapporto mente-corpo che toglieva alla psicologia la possibilità di essere una scienza. Questo era il nodo gordiano da sciogliere61. Di fatto, per quanto implicitamente, James offrì anche nei Principles (proprio per il tramite della dottrina dell’interazionismo modificato) un vero fondamento filosofico della sua scienza empirica dell’uomo.

Che James non sia riuscito dunque a scrivere un libro di psicologia “pura”62, cosa del resto impossibile, attualmente viene considerato giustamente molto meno problematico e, anzi, se ancora

M. P. Ford. op. cit., p. 19. Cfr. supra, p. 17, n. 41. Per alcuni, tra cui Robinson, James non fu affatto originale nell’affrontare il problema del rapporto mente-corpo né sciolse il relativo “nodo gordiano”: Il senso per cui si può dire che James non è riuscito a essere originale nelle sue osservazioni sul rapporto mente-corpo è lo stesso senso in cui possiamo dire che la sua filosofia e la sua psicologia non sono originali. Esse sono assiduamente non originali. L’assenza di novità nel pensiero di James è attribuibile non a una qualche assenza di agilità o di capacità intellettuale, ma a un disciplinato — si potrebbe anche dire ostinato — rifiuto di commentare la natura o di riscriverne i fatti e i principi., D. N. Robinson, William James on the Mind and the Body, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 313. 61

62 Come è stato da tempo notato, i Principi di psicologia di James, accanto all’intento palese di “mettere la psicologia nella posizione di una scienza naturale”, offrono quasi in ogni capitolo esempi di “sconfinamento” nella problematica filosofica; sono proprio questi esempi, d’altronde, a rendere non ancora del tutto superato il lavoro di James per il coraggio con cui, da vero “uccello della tempesta”, egli ha saputo affrontare gli enigmi più inquietanti della scienza psicologica.. C. Sini, op. cit., pp. 269-270. Ci sono importanti e numerose escursioni metafisiche ed epistemologiche inframmezzate con la psicologia attraverso tutto il libro [i Principles]nonostante le reiterate dichiarazioni in contrario di James. R. M. Gale, John Dewey’s Naturalization of William James, in R. A. Putnam (a cura di), The Cambridge Companion to William James, cit., p. 50. Anche Flanagan conferma le parole di Gale: Ci sono parti di tutta la filosofia jamesiana che lo spingono a rifiutare il naturalismo, e anche i testi scritti dal punto di vista della “psicologia come scienza naturale” non possono, se non con una buona dose di abilità interpretativa, essere letti in una maniera squisitamente naturalistica.. O. Flanagan, Consciousness as a pragmatist views it in R. A. Putnam (a cura di), The Cambridge Companion to William James, cit., p. 26. (Cfr. anche — su medesime posizioni — W. E. Cooper, William James’s Theory of Mind, “Journal of the History of Philosophy”, 28, 1990, pp. 571-593). D’altronde sarebbe strano se fosse avvenuto il contrario; William James, come abbiamo già ampiamente mostrato, non riuscì mai a confinare i propri interessi a un campo troppo limitato e questo eclettismo non poteva che tradursi anche nei suoi scritti: L’interesse di James non fu mai strettamente limitato alla psicologia. Anche mentre stava scrivendo i Principles of Psychology egli si occupava di altri problemi. Particolarmente, era interessato a temi etici e religiosi.. M. P. Ford, op, cit., p. 25.

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oggi leggiamo quest’opera, è proprio in virtù di questi “sconfinamenti” che tanto fecero irritare molti suoi contemporanei63;

James Ward, amico di William James e acuto psicologo britannico con inclinazioni teistiche, pose l’attenzione su un fondamentale dualismo in James: “Dovrei usare per te le parole di Goethe: ‘Es sind zwei Menschen in diesen Brust. Un giorno dovrò opporre James lo psicologo a James il metafisico, il moralista, l’uomo”64.

3.1.4 William James “uccello della tempesta”: tra automatismo e arco riflesso Chiusa questa lunga parentesi sull’impossibilità di distinguere nettamente fra la psicologia e la filosofia di James e sulle critiche che accompagnarono a questo proposito la pubblicazione dei Principles, cercheremo ora di analizzare la teoria jamesiana della volontà, facendo riferimento, come detto sopra, anche ad alcuni articoli che in parte vennero riproposti nell’opera del 1890, con particolare attenzione a Brute and Human Intellect (Journal of Speculative Philosophy, 1878), Are We Automata? (Mind, 1879), The Feeling of Effort (Anniversary Memoirs of the Boston Society of Natural History, 1880) che fu alla base del suo capitolo sulla volontà nei Principles e fu scritto solo due anni dopo il suo primo, cruciale articolo sulla filosofia spencerianaix e What the Will Effects (Scribner’s Magazine, 1888) uno scritto che non viene spesso preso in considerazione nonostante le sue doti di chiarezza e sinteticità. Di una certa utilità è anche il capitolo

[...] James non riuscì mai a mantenere la separazione tra psicologia e filosofia — non nei Principles e certamente non in tutti gli altri suoi scritti. D. S. Browning, op. cit., p. 145. La consapevolezza di James di non potere fare psicologia in maniera ‘neutrale’ maturò brevemente dopo la pubblicazione dei Principles, e, già con la Psychology, forse anche in seguito alle critiche ricevute al proposito, il suo atteggiamento di fondo mutò notevolmente: Quando poi parliamo della psicologia come di una scienza naturale, noi non dobbiamo pensare che questo significhi un tipo di psicologia che sta su basi solide. Vuole dire proprio il contrario; significa che è una psicologia estremamente fragile, e nella quale le acque della metafisica si riversano a ogni istante, una psicologia di cui tutti i dati e gli assunti fondamentali debbono essere riconsiderati in connessioni più ampie e tradotti in altri termini. Si tratta, in breve, di una frase di modestia e nient’affatto di arroganza. PBC, p. 400. Quando James tenne il suo Presidential Address [alla APA — American Psychological Association — nel 1894] James disse che ogni psicologia scientifica deve ammettere che nessun sistema scientifico può essere libero dalla metafisica.. E. Taylor, The Case for a Uniquely American Jamesian Tradition in Psychology, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 4. Anche Dooley sottolinea come James fosse ben più consapevole di quanto generalmente si ritenga, dell’impossibilità di fare psicologia in una maniera ‘filosoficamente neutrale’: James ritiene che una dottrina metafisica che sia in grado di unire le esperienze estetica, etica e religiosa dell’uomo, debba essere introdotta; per questo una psicologia metafisicamente “neutrale” è in fondo impossibile. P. K. Dooley, op. cit., p. 19. James, in breve, riconobbe — nei Principles — l’imprescindibilità di una fondazione filosofica della — futura — scienza psicologica, senza rendersi conto che questa non era affatto differibile a un futuro imprecisato: Ma il proposito di James nello scrivere i Principles era di affrancare la psicologia da un legame prematuro con le ultime questioni della metafisica. C. H. Seigfried, The World We Practically Live in, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 83. 63

64

P. Wiener, op cit., p. 107.

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dedicato alla volontà nella raccolta di conferenze intitolata Talks to Teachers on Psychology; and to Students on some of Life’s Ideals65. All’inizio di What the Will Effects James riconosce il fatto che le scienze che studiano l’uomo (the science of Man) hanno attraversato, negli ultimi anni, un profondo cambiamento. L’uomo non è più considerato come un essere “speciale”, o per lo meno la sua particolarità non sta nell’essere distinto dalla natura e dalle sue leggi: Cominciamo a sentire la frase “la nuova psicologia”, “psicologia fisiologica” e “psicofisica”66; in sostanza la scienza, la scienza sperimentale, si è avvicinata all’uomo e ora un requisito per un buono psicologo è quello di conoscere la fisiologiax del sistema nervoso. Questo cambiamento di prospettiva però, portò più che altro a un accumulo di materiale su cui studiare, sul quale fondare nuove teorie interpretative; di fatto la scienza che stava nascendo, com’è naturale, era ricca più di promesse che di risultati; James riconosce però che se c’è un campo della psicologia che ha approfittato del sodalizio con la biologia e la neurologia, è quello della psicologia della volontà e, cosa a tutta prima paradossale, la teoria della volontà ha trovato in una teoria apparentemente contraria al concetto stesso di volontà, la sua migliore alleata67:

L’unica concezione, allo stesso tempo nuova e fondamentale, con cui la biologia ha arricchito la psicologia, l’unico punto essenziale in cui “la nuova psicologia” sia superiore alla vecchia, è, a mio parere, la nozione molto generale, e oggi molto familiare, che ogni attività dell’uomo appartenga al tipo dell’azione riflessa e che la nostra coscienza accompagni una catena di eventi dove il primo è uno stimolo e l’ultimo è una risposta. [non necessariamente una risposta muscolare, ma anche ghiandolare o vasale]. Questa catena di eventi può essere semplice e rapida, come quando sbattiamo le palpebre a un colpo di vento, o complessa e

Queste conferenze vennero originariamente tenute a Cambridge, nell’anno 1892 e pubblicate poi nel 1899; si tratta di un’opera che potremmo definire pedagogica, molto interessante per l’applicazione in ambito educativo delle conclusioni raggiunte nei Principles. Il capitolo dedicato alla volontà è per noi particolarmente importante perché contiene, nella parte finale, una chiarificazione della posizione di James intorno al suo — presunto — materialismo. I capitoli dei Principles cui abbiamo fatto maggiore riferimento sono il II (The functions of the Brain), il V (The Automayon-Theory), l’XI (Atention), il XXIII (The Production of Movement), il XXIV (Instinct), il XXVI (The Will), e l’ultimo, il capitolo XXVIII (Necessary Truths and the Effects of Experience). 65

66

EPS, p. 216.

67Per il James naturalista, il problema era questo: come stabilire la realtà della scelta morale come parte della natura e come mostrare che questa scelta fosse un atto libero e non il risultato di “forze” estranee.. James comincia con il fenomeno base dell’arco riflesso che conosciamo bene: uno stimolo sensoriale agisce sul cervello e il risultato è una qualche forma d’azione. J. Barzun, op. cit., p. 144. Il problema non era però “soltanto” quello; una concezione meccanicistica dell’uomo è nemica del concetto di morale e di libertà come di quello di volontà e di coscienza; se il tema della libertà può apparire nei Principles secondario è perché di fatto esso è legato a doppio filo con quello della volontà e della coscienza; per James non ha senso, per quanto sia comprensibile, un concetto di coscienza che però non sia efficace (come sostenuto dagli epifenomenisti), né ha senso, per quanto possa essere sostenuto teoricamente, un concetto di volontà che non sia libera. Coscienza, volontà e libertà non sono che tre parole per definire la medesima “qualità” dell’uomo: la sua spontaneità.

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prolungata, come quando, appresa una certa notizia, dobbiamo decidere attentamente prima di compiere un’azione68. Queste parole sembrerebbero addirittura cancellare la necessità di una qualche facoltà volitiva; se ogni azione non è altro che la risposta a uno stimolo esterno, come poter considerare l’uomo qualcosa di diverso da una macchina molto sofisticata? Come è possibile parlare di libertà del volere umano quando quest’ultimo sembra essere una mera apparenza? Di fatto, a una lettura più attenta, il brano succitato non implica affatto una tale conclusione; è vero, James paragona un atto tipicamente volontario, come quello di prendere coscientemente una decisione, con quello, che potremmo tranquillamente definire istintivo, o semplicemente involontario, di sbattere le palpebre, un gesto che possiamo ripetere migliaia di volte in una giornata senza rendercene affatto conto, ma si tratta di una somiglianza e non di un’identità; ciò che accomuna queste due azioni non è la mancanza di coscienza, quanto piuttosto l’essere una risposta a un determinato stimolo.

Lo stesso James — come già ricordato — era giunto, negli anni ’70, a una visione meccanicistica dell’uomo proprio in virtù della forza della teoria dell’arco riflesso; i vantaggi esplicativi di una teoria del genere apparivano innegabili e inoltre sembrava che solo essa fosse in grado di mantenere quell’uniformità della natura ch’è la base di ogni ricerca scientifica; se natura non facit saltus allora si potrebbe dire che, come gli atti istintivi non hanno alcun bisogno di una coscienza efficace, di una facoltà volitiva, allo stesso modo non ne avranno quelli più complicati, che non sarebbero altro che una risposta estremamente complessa e una serie altrettanto complessa di stimoli69. Il principio di continuità sarebbe così il garante della identità qualitativa di istinti e atti volontari, di atti inconsapevoli e consapevoli. Il fascino di una visione di questo genere — fascino che James stesso continuò a riconoscere anche dopo avere cambiato radicalmente prospettiva — sta soprattutto nella sua semplicità, o meglio nella sua capacità di semplificare le cose70: se la coscienza non è che un epifenomeno,

68

EPS, p. 217.

Le azioni che noi diciamo istintive sono tutte conformi al tipo generale dell’azione riflessa: esse sono provocate da stimoli sensoriali che vengono in contatto col corpo dell’animale, o entrano in rapporto con esso nel suo ambiente. PP, p. 1005. 69

In Are We Automata? James scrive: Il desiderio da parte degli uomini formati nei laboratori [di fisiologia] di non mischiare le proprie considerazioni fisiche con fattori incommensurabili come i sentimenti è certamente molto forte. EPS, p. 39. James, a sua volta formatosi — anche — nei laboratori di fisiologia ed egli stesso fondatore del primo laboratorio di psicologia sperimentale degli Stati Uniti, sapeva bene quanto fosse forte il fascino di una teoria che risolvesse il problema del rapporto mente-corpo dimenticandolo piuttosto che affrontandolo, ma ancora più forte era in lui l’esigenza di trovare una teoria che fosse compatibile con l’esperienza del senso comune; l’amico di sempre di James, Charles Sanders Peirce, la pensava a proposito allo stesso modo, sebbene la sua critica si rivolga genericamente ai “necessitaristi”, piuttosto che a una branca di essi (i fisiologi appunto): La voce coscienza rientra tra le “varie” [per il necessitarista], come un nonnulla dimenticato; il suo schema dell’universo sarebbe più soddisfacente se questo fatterello potesse essere lasciato cadere. Dall’altro lato, se supponiamo che la rigida esattezza della causazione cedesse, 7 non importa quanto poco — sia pure infinitesimalmente — noi guadagniamo posto per inserire lo spirito nel nostro schema, e per mettere nel posto dove ce n’è bisogno, nella posizione che esso ha il diritto di occupare quale unica cosa auto-intelligibile, quella della fonte dell’ esistenza. Peirce, Esame della dottrina della necessità, in id, op. cit., p. 141. 177 70


un’illusione potremmo dire, che ci fa credere di essere i padroni delle nostre azioni, mentre siamo soltanto gli spettatori impotenti di quello che “ci accade”, allora non ha più ragion d’essere il problema della causalità tra mente e corpo:

Così la psicologia poteva essere ridotta allo studio empirico del processo di stimolo/risposta. James era consapevole del valore di queste considerazioni, ma giunse a rifiutare questa teoria poiché essa di fatto distorceva il concetto di uomo71. Una “distorsione” che non riguarda soltanto l’annullamento di qualsiasi possibilità di una volontà libera e quindi di una morale; la visione parallelistica prospettata dalla teoria dell’automatismo72 conscio va contro a tutta la nostra visione delle cose dettataci dal senso comune. Se le sensazioni e le idee possono soltanto accompagnare le nostre azioni, come possono queste ultime essere ancora definite nostre? come è possibile dire: “Io ho deciso di fare questo e quello”, se il nostro comportamento è solo una risposta a uno stimolo o a una serie di stimoli che dobbiamo subire passivamente73? Queste

71

P. K. Dooley, op cit., p. 21.

72 All’inizio dello scritto Are We Automata? James cita gli autori cui si riferisce come esponenti della teoria dell’automatismo conscio: si tratta del “formidabile” Huxley, di D. A. Spalding, di Clifford e dell’amico Hodgson; vale la pena certamente di riportare la breve ed efficace definizione che James dà della teoria dell’automatismo conscio, esempio dell’utilizzo felicissimo del filosofo americano di metafore e similitudini: la teoria sostiene che l’uomo è una pura macchina materiale. Il sentimento [abbiamo tradotto così l’inglese feeling che in James racchiude spesso sotto di sé anche i significato di sensazione] è un semplice prodotto collaterale dei processi nervosi, incapace di reagirvi più di quanto un’ombra possa reagire ai passi del viaggiatore che essa accompagna. Inerte, ininfluente, semplice passeggero nel viaggio della vita, gli è permesso [al sentimento] di rimanere a bordo purché non tocchi il timone e non maneggi il sartiame. EPS, p. 38. 73 È evidente che abbandonare la teoria automatistica significa anche abbandonare l’idea che lo stimolo che inizia la catena dell’azione possa essere soltanto esterno: Pensiero-sensazione-coscienza rappresentano [per James] un complesso processo di interazione, e non di automatismo. Difatti non ogni fenomeno del cervello proviene da stimoli fisici presenti all’esterno del corpo (rumore, luce, odore etc) o da azioni chimiche interne al corpo (digestione, circolazione sanguigna, assorbimento dell’ossigeno, etc) G. W. Allen, op. cit., p 225. Ecco in che senso si può parlare di interazionismo “modificato” in James: anche nella filosofia di Spencer troviamo una sorta di interazionismo tra coscienza e realtà, ma si tratta di un’interazione “apparente”, che nasconde la passività dell’automatismo. Scrive Sini: L'interazionismo "modificato" di James (modificato dalla spontaneità di scelta della coscienza e quindi non "meccanico" come è in Spencer) non è d'altronde che una intelligente applicazione alla psicologia della teoria darwiniana: la progressiva "meccanicizzazione" dei centri nervosi, il loro progressivo "automatismo", è infatti un portato dell'evoluzione. C. Sini, op. cit., p. 280. E Santucci: Non si dovrà far posto [dopo l’abbandono della teoria dell’automatismo conscio] ad un nuovo rapporto tra gli atti mentali e i fatti cerebrali, a un interazionismo “modificato” secondo la concezione darwiniana della coscienza e del suo potere selettivo? A. Santucci , op cit., p. 63. Non bisogna però ritenere, come Patrick Diggins, che l’approccio interazionistico jamesiano alla psicologia segni la fine di quel dualismo naturalistico sul quale erano stati esplicitamente impostati i Principles: L’esperienza umana, sociale o individuale, richiede una comprensione delle relazioni causali. Ma come è possibile distinguere la causa dall’effetto? James credeva che gli stati mentali nascessero da fatti fisici, che a loro volta erano influenzati dall’attività mentale, e perciò il dualismo ontologico tra processi fisici e mentali non si poteva più mantenere.. P. K. Diggins, op. cit., p. 116. Semmai è vero proprio il contrario: proprio per questa possibilità di distinguere tra il mentale e il fisico, ci troviamo ancora di fronte al classico dualismo mente-corpo, che nei Principles, sebbene nella sua formulazione “biunivoca” non venne mai abbandonato [...]. Continua Diggins: James, dopo aver superato i timori fatalistici della sua gioventù, non credette mai più che ogni evento fosse l’effetto di una causa determinata.. Ibidem.; sarebbe però forse meglio dire ch’egli non credette più che ogni relazione fenomenica dovesse seguire le regole del rigido meccanicismo fisico. Scrive

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contraddizioni non rappresentano per James la rivolta impotente delle “ragioni del cuore”; una psicologia che non fosse stata in grado di farsi carico, di giustificare l’esperienza introspettiva che ha sempre accompagnato lo studio dell’uomo e aveva recentemente stimolato tutti i recenti esperimenti di laboratorio sarebbe prima di tutto caduta in contraddizione con i suoi stessi criteri di scientificità.

James si trovava di fronte a una falsa alternativa: o accettare una visione interazionistica del senso comune e rifiutare però la validità, e anche la notevole fertilità per la stessa psicologia, della teoria dell’azione riflessa, o accettare quest’ultima e far tacere la voce dell’introspezione. L’alternativa era falsa perché interazionismo e teoria dell’arco riflesso possono convivere nella medesima visione dell’uomo: Si noterà che, sebbene James, con un po’ di esitazione, rigetti la teoria automatistica, egli non mette in dubbio la nozione del cosiddetto “arco-riflesso” che al suo tempo era così strettamente associata all’automatismo. Secondo James l’arco riflesso può essere giustificato sia da un’interpretazione automatistica sia da una interazionistica74. La nozione di arco riflesso era al tempo associata all’automatismo anche perché pareva che non fosse possibile trovare una “deduzione” scientifica della coscienza; qual è il ruolo della coscienza? Come considerarla indispensabile se la natura ci mostra, negli animali e nell’uomo, che i movimenti possono essere stimolati e provocati esternamente senza che l’individuo non ne sia nemmeno consapevole? La teoria dell’arco riflesso conduce direttamente all’automatismo solo qualora si consideri primariamente che tutte le azioni rappresentano la parte conclusiva di un arco riflesso, per quanto complicata essa sia — e questo è condiviso da William James — e poi che a un tale stimolo, o serie di stimoli, la risposta non possa essere che una, non possa che essere, in sostanza, predeterminata75, ed è proprio questo

James: È dell’essenza di ogni stato di coscienza (o del processo nervoso che vi sottostà) di eccitare un movimento di qualche genere. Che, data una creatura e un oggetto determinato, essa debba essere di un certo genere, e con un’altra creatura e un altro oggetto, di genere diverso, è un problema che dovrà essere spiegato dalla storia dell’evoluzione.. PP, 1156. A prescindere dal riferimento fiducioso alla scienza evoluzionistica è qui interessante rilevare due cose: primo che, al contrario di quanto ritiene la teoria dell’automatismo conscio, lo stimolo all’azione può essere anche squisitamente mentale, secondo, che la teoria edonistica, se le cose stanno come le descrive James, deve arrendersi alla realtà che non tutte le nostre azioni sono finalizzate al raggiungimento di un qualche piacere, a meno che non si intenda che ogni nostro stato di coscienza abbia come contenuto il piacere stesso. James, come vedremo, non nega affatto che molte nostre azioni siano finalizzate al raggiungimento del piacere, egli nega che tutte le nostre azioni siano teleologicamente ordinate in questo senso. Anche Ayer sottolinea il legame tra teoria dell’azione e utilitarismo (ma sarebbe meglio dire edonismo) in James: La convinzione jamesiana che “l’essenza di ogni stato di coscienza consiste nello stimolare un qualche movimento” gli spiana la via per rifiutare la teoria utilitaristica secondo la quale il piacere e il dolore sono i soli stimoli ad agire. J. Ayer, op. cit., p. 204. TCWJ II, p 32. Perry è forse stato il critico che più di tutti, e con maggiore autorità, ha messo in luce la coerenza della prospettiva jamesiana: In breve, l’interpretazione teleologica della mente non contraddice né il suo ruolo cognitivo, né quello biologico, anzi essa li spiega entrambi. Ivi, p. 76. 74

Non posso evitare di sospettare che il pregiudizio scolastico che “l’effetto deve in qualche modo essere contenuto nella causa” abbia a che fare con il pregiudizio degli psicologi che la fine di un processo debba già essere data al suo inizio.[...] Nell’onda diffusiva, nell’azione riflessa e 75

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punto che James finì col non accettare76; il luogo della possibilità di un’azione libera, e prima di tutto volontaria, sta in quello spazio di novità e di indeterminatezza, apparentemente piccolissimo e tutto ancora da giustificare scientificamente, che si apre fra lo stimolo e la risposta77; qui troverà luogo la coscienza descritta da James, giustificata, sebbene non dimostrata né dimostrabile, nella sua efficacia grazie soprattutto a quella teoria che tanto lo aveva attratto sin dai tempi della Lawrence Scientific School, l’evoluzionismo darwiniano78. È bene fin d’ora sottolineare che James non pretende affatto di dimostrare l’efficacia della coscienza; a suo giudizio non esistono ragioni indiscutibili che possano farci decidere con sicurezza se aderire alla teoria dell’automatismo conscio o a quanto suggerito dal senso comune79:

nell’espressione emozionale, i movimenti che sono effetti non sono in alcun modo anticipati negli stimoli che sono la loro causa. PP, pp. 1105-6. Questo “pregiudizio scolastico” rappresenta per James l’ingerenza ingiustificata della metafisica nella scienza; lo psicologo americano era convinto che gran parte dei “falsi problemi” con cui la psicologia si trovava ad avere a che fare fossero dovuti proprio a queste “contaminazioni” tra filosofia scolastica e scienza; un altro esempio molto significativo, è quello della — presunta — confutazione dell’evoluzionismo darwiniano in virtù degli assiomi per cui nemo potest supra seipsum e nemo dat quod non habet. Nel caso specifico la teoria evoluzionistica sarebbe falsa “in partenza” perché presuppone che specie inferiori abbiano dato vita, abbiano “dato”, a specie superiori. Cfr. Ivi, p. 1263, n. 30. 76 Nel rifiutare l’automatismo psicologico James stava certamente seguendo le orme del filosofo francese Renouvier, ma egli aveva attentamente esaminato gli argomenti “scientifici” a favore del determinismo e comunque non rifiutò la nozione di “arco riflesso” [...] G. W. Allen, op cit., p 225. Allen sembra non avere ben capito, come del resto molti con lui, che in James la nozione di arco riflesso non solo non ostacola una teoria indeterministica, essa la sostiene. La volontà ha bisogno di qualcosa su cui esercitarsi, ha bisogno di una base sulla quale esercitare la propria forza; non si può volere nel vuoto (EPS, p. 218); questa è la prima fondamentale conclusione a cui James giunge nei suoi scritti dedicati al tema della volontà. In seguito parleremo di libertà “limitata”; e anche di volontà “limitata”; possiamo dire fin d’ora che l’indeterminismo di James non è mai stato la base per una volontà illimitata, per la libertà di poter fare tutto ciò che si vuole, tutto ciò ch’è possibile fare; il limite della volontà, come vedremo, è anche la sua forza, o meglio è la sua stessa possibilità, come, mutatis mutandis, per Kant la conoscenza del fenomeno è solo apparentemente inferiore a un’ipotetica conoscenza della cosa in sé; e, come a Kant molti rimproverarono di avere “ridotto” la possibilità di conoscere dell’uomo, così molti, fra i sostenitori del libero arbitrio, rimprovereranno a James di avere tolto l’uomo dalle grinfie del determinismo per lasciargli in dote una volontà mutilata. 77 la mente non si limita a reagire a degli stimoli, essa risponde a dei significati. Visto da questa prospettiva, il modello dell’arco riflesso è una metafora per comunicare l’idea che la mente risponde alla percezione di un mondo fatto di significati e, perciò la nostra natura percettiva e intellettiva è al servizio della nostra natura passionale e volitiva. D. S. Browning, op. cit., p. 136. 78 Lo studio dell’evoluzione biologica aveva poi convinto James che tutti i processi evolutivi che avevano attraversato gli esseri viventi fossero stati determinati dal loro “valore di sopravvivenza”. Se non fosse stato così essi non si sarebbero mai evoluti negli animali più primitivi, né si sarebbero poi sviluppati in modelli più complicati in animali più alti nella scala evolutiva, fino ad arrivare alla coscienza umana. Perciò, diceva James “la psicologia più recente tende a trattare la coscienza sempre più come se sia nata solo per la ricerca del comportamento che essa sembra introdurre, e cerca di spiegarne le caratteristiche (per quanto possano essere spiegabili) in base alla loro utilità”. G. W. Allen, op. cit., p. 506. Il Perry, sottolineando l’importanza del darwinismo per tutta la psicologia contemporanea, scrive: Nella nostra generazione il darwinismo aggiunse nuove prospettive all’interno delle vecchie dottrine [associazionistiche etc]. Esso ha gettato luce sulla nostra costituzione istintiva e passionale e ha portato a numerosi tentativi di spiegare geneticamente numerosi fatti psicologici. TCWJ II, p. 53. 79 È bene anche ricordare che la teoria indeterministica jamesiana —che vedremo svilupparsi gradualmente attraverso la lettura dei principali capitoli dei Principles — si fonda sulla teoria dell’efficacia della coscienza, ma non coincide affatto con essa; perciò, anche se fosse possibile dimostrare l’efficacia della coscienza questo non comporterebbe l’obbligo di accettare la visione indeterministica di questo rapporto. Di fatto James, grazie a un sapiente utilizzo della teoria darwiniana della selezione naturale, arrivò a mostrare di avere accumulato una quantità di informazioni sufficienti a dimostrare la maggiore plausibilità della teoria interazionistica (modificata), ma non mai pensò di potere fornire ‘indizi’ scientifici altrettanto validi per una visione indeterministica di questo rapporto, che, come vedremo alla fine di questa terza parte e soprattutto nei capitoli dedicati ala teoria della volontà di credere, sarà sostenibile principalmente in virtù di ragioni che superano il ristretto concetto di razionalità utilizzato abitualmente dalla ricerca scientifica e anche dalla speculazione filosofica.

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Entrambe sono concezioni del possibile e affermare dogmaticamente la verità di una o l’altra sarebbe, allo stato attuale delle nostre conoscenze, una procedura estremamente non scientifica80. Per James l’unica possibilità che ha lo psicologo di togliersi da un’impasse in cui sembrerebbe trovarsi proprio in virtù della sua scrupolosità scientifica è quella di trovare “un’evidenza circostanziale” che faccia inclinare la nostra bilancia da una parte o dall’altra. James trovò quest’evidenza proprio nella teoria evolutiva81. È generalmente ammesso, anche se sarebbe poi difficile provarlo, che la coscienza diventi tanto più complessa e intensa, quanto più ci si innalzi nella scala animale. La coscienza di un uomo supera di molto quella di un’ostrica. Da questo punto di vista essa sembra veramente che sia un organo aggiunto a quegli altri organi utili all’animale nella lotta per l’esistenza. Ma è evidente che la coscienza non potrebbe essere utile se non avesse una qualche influenza sul suo fisico. Se dunque si riuscisse a dimostrare in qual modo la coscienza possa influenzare il corpo, e di più, che le deficienze di certi suoi organi (in cui la coscienza è più sviluppata) sono tali da aver bisogno per l’appunto di quella data specie di aiuto che la coscienza potrebbe dare loro, quando fosse efficace; in tal caso sarebbe giusto e logico l’inferire che essa è sorta appunto perché è efficace. In altre parole la sua influenza sarebbe induttivamente provata. Ora, lo studio dei fenomeni della coscienza, di cui ci occuperemo nelle pagine di questo volume, ci mostrerà che la coscienza è continuamente e prima di tutto un agente selettivo. Sia che la si osservi nella sfera inferiore dei sensi, sia che la consideriamo in quella, più alta, dell’intelligenza, noi la vediamo sempre fare una cosa: scegliere uno fra i tanti materiali che le si offrono accentuandolo, mettendolo in rilievo e sopprimendo, per quanto è possibile, tutto il resto. L’oggetto così posto in rilievo è sempre in stretta connessione con qualche interesse, sentito dalla coscienza, in quel momento, predominante82. La coscienza si è dunque evoluta lentamente a livello filogenetico negli animali, proprio come gli organi: ciò vuol dire che la coscienza, per quanto non di certo un organo, è una funzione utile all’uomo (altrimenti, secondo la teoria darwiniana essa non sarebbe stata selezionata positivamente) e per essere

80

W. James, Are We Auromata?, in EPS, p. 40.

81

Cfr., J. K. Roth, op. cit., p. 29.

PP, p. 142. James non reputa nemmeno concepibile l’esistenza di organismi che non siano prima di tutto, ma ciò non vuol dire esclusivamente, determinati dall’interesse per il proprio corpo: Se la nostra coscienza non fosse che puramente conoscitiva, se non avesse delle preferenze per alcuni degli oggetti, che successivamente ne occupano il campo, essa non potrebbe mantenersi a lungo esistente; [...] Per la via della sopravvivenza dei più adatti, se non per una via più diretta tutte le menti debbono essere arrivate a prendere un interessamento intenso per i corpi a cui sono aggiogate, distinto da qualunque interessamento che esse possano avere per il puro io come tale. PP, p. 303. Scrive Wiener: Evoluzione in psicologia significa [per James] dare una spiegazione empiricamente verificabile della genesi degli stati mentali, mostrando come questi siano utili a servire gli interessi dell’organismo umano, senza cercare di dare ragione dell’origine ultima di ognuno dei suoi interessi spontanei. P. Wiener, op. cit., p. 119. Quel che qui Wiener sembra dire quasi distrattamente, e che cioè James non intenda “dare ragione dell’origine ultima di ognuno dei suoi interessi” è invece di rilevante importanza per il problema dell’effettiva possibilità che la volontà dell’uomo sia libera. Se infatti, come abbiamo visto, l’uomo non può che agire in vista di interessi, quanto può considerarsi libero se egli non è prima di tutto indipendente nella scelta di questi interessi? È evidente che una libertà limitata alla sola scelta dei mezzi sarebbe infatti ben poca cosa. 82

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utile una funzione deve ovviamente essere efficace83 (eccoci finalmente giunti al funzionalismo jamesiano di cui parlammo inizialmente). In una recensione del 1875 dedicata ai Grundzüge der physiologischen Psychologie di Wilhelm Wundt, James aveva posto la questione in maniera molto chiara: Trattando l’argomento [dell’efficacia della coscienza] da un punto di vista puramente naturalistico, sembra ragionevole supporre che, a meno che non sia di qualche utilità, la coscienza non sarebbe stata aggiunta alla vita. Ipotizzando che le cose stiano così, ne consegue un importante problema per gli psico-fisici, quello cioè di capire come la coscienza 83 A un livello generale, ci sono due alternative teoretiche che possono rendere ragione del comportamento adattivo delle specie più elevate. Una è la teoria dell’automatismo, vestigia del celebrato disprezzo cartesiano per qualsiasi psicologia infraumana [...] Secondo questa teoria, anche i modi di adattamento comportamentale più complessi possono essere pienamente spiegati considerando niente più che l’anatomia motoria e sensoriale degli organismi e i principi che ne regolano il funzionamento. L’alternativa a questa è una teoria che nasce dalla presupposizione dell’esistenza di una forma di coscienza, almeno nelle specie superiori, e dalla conclusione che, se tale coscienza esiste, essa deve servire a qualche scopo fondamentale o a qualche interesse dell’organismo. D. N. Robinson, William James on the Mind and the Body, in M. E. Donnelly (a cura di) Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 317. La coscienza è un tratto evidente degli organismi più elevati; come tutte le caratteristiche dell’uomo deve essersi evoluto e non avrebbe potuto farlo senza essere selezionato naturalmente. Ma, in quanto selezionato naturalmente esso deve avere una qualche utilità e se ha una qualche utilità, allora non può essere inerte. La mente deve essere allora qualcosa di più che una secrezione del cervello. R. J. Richards, op. cit., p. 431. Cfr. anche T. A. Goudge, Pragmatism’s Contribution to an Evolutionary View of Mind, “The Monist”, 57 (1973), pp. 133-51. Il cap. 5 [dei Principles], attaccando la teoria dell’automatismo, rappresenta una difesa metafisica di un dualismo di tipo interazionistico. Esso contiene un argomento in favore dell’efficacia causale della coscienza basato sul successo evolutivo. Richard M. Gale, John Dewey’s Naturalization of William James, in R. A. Putnam (a cura di), The Cambridge Companion to William James, cit., p. 55. È bene ricordare qui che la teoria interazionistica di James, sostenuta dalla sua interpretazione evolutiva della coscienza, entrava in contraddizione direttamente con quella teoria dei minimi psichici (o, in inglese, mind-stuff theory) che abbiamo già visto essere poco apprezzata da James anche per altri motivi (cfr. supra, p. 10, n. 26): La teoria [di Clifford] dice che gli atomi della mind-stuff, quando si incontrano fortunosamente in una certa maniera, formano uno stato di coscienza, e in altri casi no. Ora, notando che le combinazioni consce tendono a sopravvivere più la loro coscienza è in grado sviluppata, che cosa c’è di più naturale che il concludere che la coscienza come tale le aiuta [le combinazioni] con la sua presenza, e possiede una reale utilità, facendo dell’autopreservazione il fine per il quale essa attivamente lavora, rafforzando tutte le sensazioni e le azioni che conducono a essa [all’autopreservazione], e frenando tutto il resto? Ma questa conclusione ci obbligherebbe ad attribuirle [alla coscienza] proprio quell’efficacia causale che Clifford nega. W. James, Lectures and Essays and Seeing and Thinking, by William K. Clifford, in ECR, p. 360. Anche Romanes, autore molto citato da James nei Principles trova nell’evoluzionismo darwiniano un forte alleato contro il materialismo riduzionistico: Romanes afferma che, in base al principio dell’evoluzione, che i materialisti non possono rifiutare, sarebbe veramente singolare se tutta una serie di fenomeni mentali si fosse sviluppato costantemente attraverso il regno animale senza avere alcuna utilità per gli animali medesimi. [...] Per cui, la mente non può essere un mero prodotto del cervello. [...] Questa trasposizione della teoria della selezione naturale in un nuovo campo, operata da un darwinista ortodosso, mostra in maniera abbastanza conclusiva, credo, la poca accortezza di coloro che pensano che il darwinismo porti inevitabilmente al materialismo e all’agnosticismo R. J. Richards, op. cit., p. 366. Come ricorda Sini, L’idea di un’evoluzione psichica nell’uomo, e, prima ancora che nell’uomo, nelle specie animali fu invece sostenuta da [...] Edward Drinker Cope, professore di paleontologia alla Pennsylvania University. Malgrado il Cope si attenesse ancora, come si disse, al modello lamarckiano per quanto concerne l’ereditarietà biologica e sostenesse l’idea dello sviluppo psichico sulla base della legge spenceriana “dall’omogeneo all’eterogeneo”, legge parecchio svalutata sia dagli scienziati che dai filosofi, nondimeno egli è il maggior precursore della psicologia di James [...] nel considerare l’intelligenza come il prodotto dell’esperienza, e la coscienza un meccanismo di adattamento utile alla sopravvivenza dell’organismo. Questa “interpretazione funzionale della coscienza”, come la definisce lo Schneider, sarà il tema dominante non solo in James, ma, possiamo aggiungere, anche in Dewey e in Mead. Su analoghe posizioni è anche il medico scozzese Edmund Montgomery, emigrato in America nel 1870. C. Sini, op. cit., pp. 53-54. Darwin, sebbene spesso inconsapevole delle profonde implicazioni psicologiche e filosofiche del suo pensiero scientifico, pensava che anche le capacità intellettive fossero soggette alla selezione naturale, ma il suo riduzionismo gli impedì però di comprendere la possibile parziale “autonomia” della mente rispetto al cervello; in una lettera a Lyell dell’11 Ottobre 1859 egli scrive “Io devo supporre che i poteri intellettivi sono importanti per il benessere dell’individuo come la struttura corporea; se le cose stanno così, non vedo difficoltà a pensare che gli individui intellettualmente più dotati di una specie siano selezionati continuamente; e la capacità intellettiva delle nuove specie così aumenta, aiutata probabilmente dagli effetti dell’ereditarietà dell’esercizio mentale.”. R. J. Richards, op, cit., p. 166. Questo passaggio mostra chiaramente quanto Darwin fosse meno deciso di quanto vorrebbero farlo apparire i suoi critici intorno al meccanismo di trasmissione e di selezione dei caratteri: numerosissimi sono i passi dei suoi scritti dove al meccanismo della selezione naturale sembra affiancarsi quello dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti; James, come vedremo alla fine del prossimo Capitolo, non riconobbe questa complessità — qualcuno direbbe ambiguità — della dottrina darwiniana, in una maniera che potremmo dire strumentale al proprio pensiero.

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sia di aiuto a un animale [...]. In una parola, la coscienza è un economico sostituto del meccanismo84? James, nei Principles dice che non si tratta di un sostituto, quanto piuttosto di un aiuto, un aiuto di cui un animale complesso com’è l’uomo non può fare a meno85. Giusta questa conclusione, che può essere negata solo ritenendo che la coscienza non si sia effettivamente evoluta nelle diverse specie animali o che l’evoluzione stessa non sia determinata dall’utilità che un organo — o una funzione — ha per la specie, James cerca quindi di mostrare quale sia questa utilità86. In vista di questo fine James comincia con osservazioni che apparentemente sembrano avere poco a che fare con il tema trattato: se si osservano le azioni degli animali inferiori e le azioni dei gangli inferiori negli animali più evoluti, dice James, ciò che colpisce è la determinatezza, e quindi la prevedibilità, con cui essi rispondono a un dato stimolo. Quando invece trattiamo di organismi dotati di emisferi cerebrali sviluppati (primo fra tutti l’uomo), notiamo come si introduca nelle nostre osservazioni una notevole indeterminatezza, un’incapacità di prevedere il comportamento di un individuo in seguito a un dato stimolo o a una serie di stimoli; questa imprevedibilità raggiunge ovviamente il suo massimo grado nell’uomo87; non bisogna comunque dimenticare che anche negli animali inferiori gli emisferi possono completare i centri inferiori, ma questi ultimi rassomigliano ai primi per la loro natura, ed hanno almeno un po’ di spontaneità e di scelta88. Tutti centri, in tutti gli animali, mentre sotto un certo aspetto sono meccanismi, probabilmente sono, o almeno furono una volta, sotto un altro aspetto organi di coscienza, sebbene la coscienza sia molto più sviluppata negli emisferi che in qualunque altro organo. La coscienza deve sempre preferire, alcune sensazioni ad altre; e se può ricordare, per quanto nebulosamente, alcune di queste sensazioni quando non sono presenti, queste debbono essere i fini del suo desiderio. In questo senso persino il midollo spinale può avere un

84

ECR, pp. 302-303.

85 Per ottenere una valida guida per le proprie sopravvivenza e sviluppo, gli organismi con un sistema nervoso molto flessibile sembrerebbero necessitare di qualcosa di addizionale che li aiuti nella scelta dell’azione. Se la coscienza fosse effettivamente efficace, allora essa potrebbe avere questa funzione. J. K. Roth, op. cit., p. 30.

.86 James, in Are We Automata? è in proposito molto chiaro; Il nostro problema è: di che utilità è per un sistema nervoso le presenza della coscienza? Può un cervello che la possiede funzionare meglio di uno che non la possiede? Per rispondere a tale questione noi dobbiamo, prima di tutto, conoscere i difetti naturali del cervello e, secondariamente, i poteri peculiari del suo correlato mentale. Dal momento che la coscienza si trova presumibilmente in misura minore nelle creature in cui il sistema nervoso è semplice, e al massimo grado nel cervello ipertrofico dell’uomo, come una sorta di organe de perfectionnement, essa è maggiormente utile ai sistemi nervosi altamente sviluppati.[...] Quali sono quindi le carenze caratteristiche di sistemi nervosi altamente sviluppati? EPS, p. 41. 87W.

James, Are We Automata?, in EPS, p. 41.

88 Cfr. PP, p. 82. Sembrerebbe quindi che negli esseri più elevati i centri inferiori siano meno sufficienti di quanto non siano nei gradini più bassi della scala zoologica. Ivi, p. 83.

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qualche potere di volontà e di sforzo, per modificare la sua condotta in seguito a nuove esperienze che la sua sensibilità abbia fatto89. Queste sono osservazioni che lo stesso James aveva potuto condurre di prima persona nei primi laboratori90 di fisiologia che nacquero in Europa nella seconda metà del secolo diciannovesimo.

Scrive James in Are We Automata: Possiamo dunque stabilire per certo che le parte più perfette del nostro cervello sono quelle le cui azioni sono meno determinate91. Questo fatto potrebbe a tutta prima rappresentare una debolezza: se il comportamento degli animali inferiori è stato selezionato positivamente, ed è quindi risultato utile alla loro sopravvivenza, è evidente che una costanza di questo comportamento, di questa reazione determinata a determinati stimoli, rappresenta la migliore garanzia di sopravvivenza anche per il futuro; ma perché gli animali superiori, che non sembrano affatto essersi adattati con maggiore difficoltà all’ambiente che li circonda, possiedono in minor grado (in maniera direttamente proporzionale alle dimensioni degli emisferi) questa determinatezza di comportamenti? James non lascia dubbi in proposito: È questa vaghezza che costituisce il loro vantaggio (sulle altre specie)92.

Ivi, p. 85. Di questo brano bisogna soprattutto valutare la grande importanza che James dà alla continuità ch’è possibile rintracciare tra il funzionamento degli emisferi superiori nell’uomo e quello dei centri nervosi meno evoluti degli animali. Lo psicologo americano infatti si rese ben presto conto che solo attraverso una giustificazione genealogica di tipi evolutivo incentrata sulla continuità tra uomo e animale sarebbe stato possibile superare le obiezioni di chi, da una prospettiva spiritualistica come da una materialistica, vedeva nell’apparizione della coscienza un miracolo accettabile solo su un piano religioso (spiritualisti) o inaccettabile da un punto di vista scientifico (automatisti): Il bisogno della continuità ha mostrato quasi di possedere un potere profetico in molti campi della scienza. Dobbiamo quindi provare sinceramente a concepire quali possano essere veramente stati i primi albori della coscienza, sicchè essa non ci appaia come una nuova specie, non esistita fino ad allora ed irrompente all’improvviso nell’universo! PP, p. 151. 89

90 Il fascino esercitato da questi esperimenti sugli scienziati consisteva nella possibilità di trattare un essere vivente alla stregua di una sostanza chimica; la possibilità di ripetere ad libitum lo stesso esperimento sullo stesso individuo o su individui della stessa specie rappresentava la massima garanzia di scientificità; molti di questi scienziati rinunciavano perciò a priori ad accettare una teoria che li ponesse di fronte a dei fenomeni unici e irripetibili, come lo sono gran parte dei comportamenti degli organismi più sviluppati; in William James il concetto di Stream of Consciousness si legò profondamente all’impossibilità di avere “lo stesso flusso” per due volte; in sostanza, come vedremo, e anche per motivazioni squisitamente fisiologiche, la caratteristica del flusso di pensiero dell’uomo è proprio quella dell’irripetibilità, un concetto che non poteva andare di certo a genio a chi volesse limitare tutta la propria conoscenza alle strette mura di un laboratorio; per James la conoscenza, e l’esperienza fisiologiche furono sempre e solo un mezzo, uno strumento e non il fine da raggiungere; come d’altronde lo furono anche le teorie stesse di cui si servì — darwinismo incluso — per pervenire alle proprie conclusioni. 91 EPS, p. 42. L’importanza dell’indeterminatezza cerebrale per la psicologia di James è stata sottolineata da molti critici recenti, a volte in maniera eccessiva — dimenticando cioè che questa rappresenta il presupposto, piuttosto che il luogo di espressione della volontà umana — : La psicologia di James dipende dall’instabilità dei centri cerebrali superiori. D. Bjork, op. cit.., pp. 119-120. 92

EPS, p. 42.

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Questo vantaggio però, ch’è pacifico, deve ancora venire spiegato — finora siamo solo riusciti a dire perché una ripetibilità di comportamento può essere utile all’organismo che la possiede — e per fare ciò James dovrà superare i limiti di una concezione puramente cerebrale dell’uomo per introdurne una che potremmo chiamare mentale:

Noi potremmo costruirne uno [di sistema nervoso]che reagisca infallibilmente e con certezza [l’ideale dell’automa] ma questo sarà capace di reagire solo a pochi cambiamenti dell’ambiente, e non riuscirà ad adattarsi al resto. Oppure possiamo, d’altro lato, costruire un sistema nervoso potenzialmente adatto a rispondere a un’infinita varietà di situazioni; ma la sua fallibilità sarà grande quanto la sua elaborazione. Non potremo mai essere sicuri che il suo equilibrio si darà nella giusta direzione. In breve, un cervello sviluppato può fare molte cose [il cervello di un mammifero molte più di quelle di un insetto]ma in maniera sconsiderata o giusta alla stessa maniera. [in maniera casuale, può andare bene o male, a seconda del caso, come una goccia che cade sul picco di una montagna e va da una parte piuttosto che dall’altra, secondo una similitudine jamesiana]; Un cervello poco sviluppato fa poche cose, ma nel farle esplica perfettamente il proprio compito. I comportamenti di un cervello sviluppato sono come dadi buttati su un tavolo all’infinito. A meno che essi non siano truccati, che possibilità c’è che i numeri più alti escano più frequentemente di quelli più bassi93? Una situazione del genere sembrerebbe a tutta prima tutt’altro che favorevole agli esseri più sviluppati, e fra questi al più evoluto in assoluto, l’essere umano. I fatti ci dicono però che l’essere umano è l’organismo che più di tutti riesce ad adattarsi a nuove situazioni, e la nostra stessa esperienza personale ci mostra che l’uomo non agisce aleatoriamente, come se le sue azioni fossero i numeri di un dado gettato sul tavolo del destino; in nessun animale94, come nell’uomo, noi scorgiamo l’efficienza nell’adattarsi a situazioni impreviste, che lascerebbero gli animali inferiori a districarsi con i loro pochi e certi comportamenti prestabiliti e il fatto che il suo comportamento non sia facilmente prevedibile non dipende di certo dalla sua casualità, ma dalla complessità dell’ambiente (sociale, familiare, economico

EPS, p. 43. La medesima metafora viene utilizzata da James al cap V (The Automaton-Theory) dei Principles: Un cervello inferiore fa poche cose e le esegue alla perfezione; ma si mostra inetto per ogni altra cosa. Ciò che un cervello molto evoluto può fare, ricorda molto ciò che avviene quando si gettano i dadi sulla tavola . Se questi non sono piombati, ma sono genuini, quali probabilità esistono perché si ottenga più spesso il numero più alto, anziché quello più basso? PP, p. 143. 93

Non bisogna comunque dimenticare che, sebbene nell’uomo l’indeterminatezza cerebrale raggiunga il suo massimo grado — e di conseguenza la necessità di una “guida” da parte della coscienza — , questa non è assente anche in altri animali: ovviamente gli animali il cui comportamento è meno prevedibile, sono più vicini, nella scala evolutiva, all’uomo; nonostante James fosse sempre convinto dell’eccezionalità dell’uomo — l’unico capace di creare e di seguire un comportamento morale — altrettanto certo era del fatto che questa eccezionalità fosse stata raggiunta lentamente attraverso il corso dell’evoluzione: Prendete per esempio la prensione del cibo e supponiamo che sia un arco riflesso dei centri inferiori: L’animale sarà condannato fatalmente e irremissibilmente ad afferrare il cibo tutte le volte che lo vede, indipendentemente dalle circostanze: esso non potrebbe mancare a questo come l’acqua non potrebbe rifiutarsi di bollire, quando le è acceso sotto il fuoco. L’animale sarà così continuamente esposto alle vendette, alle insidie, ai veleni. La mancanza di ogni attività superiore per cui possa valutare il danno in confronto all’attrattiva dell’esca e l’assenza di ogni volontà, che gli serva per rimanere piuttosto qualche tempo con la fame, è la diretta misura della sua scala mentale. PP, p. 34. 94

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etc, oltre che naturale) in cui vive e dalla varietà di interessi e di possibili soluzioni che gli si presentano come possibilità di azione. Nel primo capitolo dei Principles James, per distinguere un comportamento meccanico — che rappresenta all’estremo il comportamento di un organismo privo di coscienza — da quello dell’uomo, cita i personaggi di una tragedia il cui autore era fra i suoi preferiti: Romeo vuole Giulietta come la limatura di ferro vuole il magnete e, se nessun ostacolo si frappone, egli si muove verso di lei direttamente. Ma Romeo e Giulietta, se fossero separati da un muro, non rimarrebbero con le facce schiacciate dai lati opposti del muro in maniera idiota come farebbe la limatura di ferro separata dal magnete da una carta. Romeo troverebbe una via alternativa, scalando il muro o in altra maniera, per toccare direttamente le labbra di Giulietta. Con la limatura di ferro il percorso è fisso; se il fine viene raggiunto dipende da accidenti. Con l’amante è il fine a essere fissato, ma il percorso può essere mutato infinitamente95. Chi leggesse le prime battute del dramma scespiriano difficilmente potrebbe prevedere la fine della vicenda e il modo in cui vi si giunge, ma questo non toglie che lo svolgimento dei fatti sia perfettamente comprensibile (mentre nel caso del magnete con la limatura non è immaginabile alcuna alternativa); ma ciò che distingue il comportamento umano non è per James solo la sua estrema complessità (che potrebbe da sola rendere conto della nostra incapacità di previsione dettagliata), è la reale possibilità di diverse alternative e la sua intenzionalità96. Le due “storie” [quella mentale e quella fisica] non spiegano lo stesso fenomeno. Eliminando il lato mentale della composizione shakesperiana dell’Amleto si elimina qualcosa di fondamentale che dev’essere spiegato, e propriamente, il carattere intenzionale della produzione da parte di Shakespeare dell’Amleto [...]. Certamente, da un punto di vista fisico quest’opera chiamata “Amleto” consiste in una serie di macchie d’inchiostro sulla carta, ma per Shakespeare e per noi, è una storia, un oggetto intenzionale significativo. Ogni analisi di un atto umano significativo costruita totalmente col linguaggio delle scienze

95

Ivi, p. 20.

Il brano citato sembra fare intendere però che l’uomo sia libero soltanto nella scelta dei propri mezzi, ma questo solo perché la similitudine sia più efficace; di fatto James, anche se, bisogna dirlo, nei Principles non è molto chiaro in proposito, estende la possibilità di libertà dell’uomo anche alla scelta dei fini (viceversa ci troveremmo di fronte solo a una differenza di grado). È interessante notare come, in un altro brano dei Principles la negazione del determinismo (nella sua ‘versione’ parallelistica) nell’uomo passi ancora una volta “attraverso” la figura di Shakespeare: Conoscendo esattamente il sistema nervoso di Shakespeare, e con esattezza uguale tutte le condizioni dell’ambiente in cui egli visse, dovremmo poter dimostrare come, ad una certa epoca della sua vita, la sua mano dovesse arrivare a tracciare su di una certa carta quei piccoli segni neri che esistevano nella mente di Shakespeare. Ivi, p. 136. Un esempio che ricorda da vicino le parole dell’amico Peirce: Così dato lo stato dell’universo nella nebulosa generale, e date le leggi della meccanica, uno spirito sufficientemente dotato potrebbe dedurre da questi dati la forma precisa di ogni ghirigoro di ciascuna lettera che sto ora scrivendo. C. S. Peirce, Esame della dottrina della necessità, in Id., op. cit., p. 129. 96

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naturali, incluse le neuroscienze, non sarà mai in grado di afferrare certi fatti legati al significato di quell’atto. Una scienza che studi la mente deve richiedere differenti livelli di descrizione, alcuni intenzionali e altri no, perché riesca a rispondere a differenti questioni. Ma da un punto di vista parallelistico, la mera catena fisica degli eventi può difficilmente spiegare la stessa cosa come riesce a fare la catena mentale [dei pensieri]97.

97 O. Flanagan, Consciousness as a Pragmatist Views it, In R. A. Putnam (a cura di.),The Cambridge Companion to William James, cit., p. 33.

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3.1.5 Attività e passività della selezione Ma come è spiegabile questa radicale differenza (ch’è qualitativa e non solo quantitativa) tra comportamento meccanico e umano? Il fatto è, rileva James, che fino a qui si è trattato il cervello semplicemente come una macchina e, a questo livello, è evidente che una macchina meno complessa, ma più sicura (il sistema nervoso di una rana per esempio) è più utile all’individuo che la possiede di una macchina molto complessa, ma che ha tante probabilità di trovare la risposta giusta quanto di fallire; e fallire, nel mondo della lotta per l’esistenza, significa fallire per sempre, senza più avere la possibilità di tirare i dadi un’altra volta; ecco allora riproporsi la coscienza, e una coscienza efficace ovviamente (che non stia solo “a guardare”) come possibilità di fare di quest’apparente debolezza una grande forza: Può la coscienza accrescere la sua [del cervello] efficienza truccando i suoi dadi? Questo è il nostro prossimo problema98. Per rispondere a quest’ulteriore domanda bisogna comprendere quale sia l’essenza, la caratteristica, della coscienza. In breve: che cosa fa la coscienza? Sebbene a questa domanda si possa rispondere più con gli strumenti della nostra introspezione, piuttosto che con quelli di un laboratorio, è proprio qui che James comincia a mostrare come i riferimenti al darwinismo, già emersi a proposito della possibilità di mostrare l’esistenza di una coscienza efficiente in virtù del suo essere selezionata positivamente nell’evoluzione delle specie, non siano affatto sporadici e costituiscano anzi l’ossatura scientifica sulla quale lo psicologo americano riuscirà a dare forma a una — parzialmente nuova — teoria della volontà.

Secondo William James, esistono molti modi di definire passivamente la coscienza; questa può essere considerata una funzione (se non una sostanza) dotata di poteri cognitivi, ricettivi; ma c’è una sola cosa

98 EPS, p. 43. James poi apre una lunga parentesi sul significato di efficienza riferito alla coscienza: è evidente che qualsiasi cosa può dirsi più o meno efficiente solo quando si conosca il fine da raggiungere; questo tema l’abbiamo già trattato sopra, a proposito del saggio-recensione su Spencer (Some Remarks...); quando diciamo che un animale si adatta meglio di un altro al suo ambiente, non intendiamo (nessuno di noi in buona fede intende) che esso raggiunge più in fretta la terra per farsi pasto dei vermi; dire che un animale si adatta meglio di un altro all’ambiente, o meglio ai cambiamenti dell’ambiente (perché se l’ambiente fosse immutato non ci sarebbe alcuna scala gerarchica in questo senso) significa presupporre che il suo fine sia quello di sopravvivere e di far proseguire la sua specie. È evidente che già questo concetto di adattamento, che abbiamo rimarcato trattando della supposta oggettività di corrispondenza di Spencer perde di qualsiasi significato se rimaniamo su un piano puramente fisico. È la coscienza che decide qual è il fine? La coscienza è anche in grado di agire in vista di questo fine? È in grado di essere causa, di fornire i mezzi che permettano il raggiungimento i questo fine? per ora ci limitiamo al fine della sopravvivenza. James non metterà mai in dubbio che questo sia in qualche modo il fine principale anche dell’uomo, ma le sue successive considerazioni mostreranno come nell’uomo esista una pluralità di fini, sconosciuta alle altre specie animali e sarà questa pluralità di fini (per cui un uomo, in un dato momento può scegliere di rinunciare al fine della sopravvivenza per seguire un altro fine, che per ora possiamo definire soltanto morale) a fare dell’uomo un essere “speciale”, non per le sue origini dunque, ma per il suo comportamento.

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ch’essa fa sua sponte e che sembra essere la sua peculiarità: essa seleziona, ma non solo, essa selezione in base a degli interessi99.

Noi guarderemo a questa capacità della coscienza (quella di selezionare in base a degli interessi) come al “luogo” dove potere guardare alla possibilità di una volontà libera; possiamo dire fin d’ora che perché si dia una volontà libera è necessario che questi interessi non siano precostituiti e che, dati gli interessi (interni) e gli stimoli (esterni) la selezione dei mezzi con cui raggiungere i propri fini non sia essa stessa predeterminata100: che cioè, data una situazione in cui si trova l’uomo, e data la sua costituzione fisica, caratteriale etc, il comportamento di quest’uomo non è in nessun modo totalmente predeterminato; è importante sottolineare l’avverbio “totalmente” perché come già abbiamo accennato, James non vorrà mai essere il padre di una filosofia della libertà che faccia coincidere questa con la possibilità di fare tutto ciò ch’è immaginabile. Vengono in mente, au contraire, le parole di quello che forse fu il primo filosofo conosciuto da William James: Arthur Schopenhauer; e non potevano non venire in mente anche a James, che considerava il filosofo tedesco uno dei più fieri avversari della propria filosofia indeterministica:

Schopenhauer, il quale, per appoggiare il suo determinismo, si serve dell’argomento che dato un carattere immutabile, in immutate circostanze, una reazione sola è possibile, dimentica che, in questi critici momenti etici, ciò che coscientemente appare essere in gioco, è il carattere stesso. Il problema per l’uomo è meno quale atto deve egli preferire di fare, anziché quale essere risolve egli di diventare101. Questo passo è molto bello perché rappresenta emblematicamente il modo con cui James cercò di rispondere, spesso con successo, alle teorie di filosofi che sembravano aver posto definitivamente fine,

99 La coscienza è interessata sempre in modo più intenso ad una delle sue parti piuttosto che alle altre, e riceve e respinge, ossia sceglie continuamente, ciò che pensa. PP, p. 273. Ovviamente l’interesse (attraverso cui la coscienza seleziona) è tutto fuorché un corollario della teoria jamesiana dell’efficacia della coscienza: se questa si limitasse a selezionare, senza alcun fine in vista e senza la scelta dei mezzi, ci troveremmo di fronte a niente più che a un epifenomeno, alla consapevolezza di un meccanismo che, per quanto complesso, è considerabile come predeterminato; in questo caso ci troveremmo di fronte a un concetto passivo di volontà, che non ha nessun ruolo effettivo nel selezionare né mezzi né fini (che possono essere semplici movimenti o complesse decisioni esistenziali). 100 Ma, tra lo stimolo e l’azione c’è la risposta, e il tipo di risposta non è sempre automatico. Quale che possa essere il legame tra il cervello e la mente, noi abbiamo esperienza dello stimolo. Tranne che nei casi semplici come il toccare una stufa bollente o una lama tagliente, la risposta può cambiare enormemente. La mente interpone a metà dell’arco le sue peculiari e complesse caratteristiche individuali. J. Barzun, op. cit. p. 144. 101 PP, p. 277. Come abbiamo già rilevato (cfr. supra, cap 1.2, n. iii ) James conobbe giovanissimo Schopenhauer e fu inizialmente affascinato dal suo pessimismo, analogamente a quanto avverrà qualche anno dopo con il materialismo ottimistico di Spencer.

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in maniera negativa, al problema della libertà. Il determinismo di Schopenhauer è decisamente affascinante; chiunque abbia letto anche solo le poche pagine del suo scritto del 1838, presentato a un concorso bandito dalla Reale Società norvegese delle Scienze di Trondheim, su La libertà del volere umano102 non può non rimanere colpito dal suo stile vigoroso e dalla forza degli stessi argomenti; James aveva un grande rispetto per la filosofia deterministica, pensava cioè ch’essa rappresentasse la conclusione di una serie di ragionamenti logicamente impeccabili e scientificamente utili; di fatto, come sempre accade, fu la forza delle teorie da lui non condivise a dargli quell’energia capace di superare i limiti di una querelle (fra deterministi e indeterministi) che sembrava essere ormai priva di sbocchi originali103; il brano citato rappresenta uno di questi casi: è vero, sembra dire James, che data tutta una serie di caratteristiche interne (memoria, carattere, istinti, capacità intellettiva etc.) ed esterne è difficile anche solo immaginare come il comportamento di un determinato individuo possa fuggire al determinismo, ma è anche vero che il carattere dell’uomo non è come la disposizione geometrica degli atomi di un minerale.

James, si ricorderà, aveva trovato il pensiero di Bain “inadatto” ad aiutarlo a superare i suoi anni di crisi proprio perché questi rimarcava l’immutabilità del carattere, garanzia di uniformità di comportamento (e conseguentemente della sua prevedibilità) ma allo stesso tempo scoglio insuperabile per chi riconoscesse solo nella possibilità di cambiare il proprio carattere la via per migliorare la propria esistenza sofferente; per James invece, la libertà non è immaginabile tanto come un ‘miracolo’ che fa sì che un determinato “carattere” agisca in una maniera imprevedibile: essa deve piuttosto essere concepita come l’effettiva possibilità, in determinati momenti della propria vita, di cambiare il proprio carattere, di cambiare, anche in maniera apparentemente insignificante, la propria visione delle cose e con essa la reazione agli stimoli che l’ambiente ci presenta; James in sostanza non si oppone alla conclusione di Schopenhauer introducendo un saltus fra le premesse e la conclusione, fra gli stimoli e la risposta, egli si oppone alla premessa più forte che sottende le parole di Schopenhauer e che cioè il carattere sia immutabile; questo ovviamente non risolve affatto il problema del libero arbitrio, perché ora James deve dimostrare come sia possibile cambiare il proprio carattere; sembra quasi che la situazione sia ancora più difficile di quella precedentemente prospettata; saranno le variazioni spontanee a livello mentale (e corrispondentemente anche a livello cerebrale) e la selezione — interessata — di esse da parte della coscienza dell’uomo a garantire la possibilità di leggere il comportamento dell’uomo non come

102

Arthur Schopenhauer, La libertà del volere umano, Introduzione di Cesare Vasoli, Laterza, Roma-Bari 1988.

103 Sulla consapevolezza di James che il tema del determinismo era stato tutt’altro che esaurito in tutti i suoi aspetti, cfr. infra, cap. 4.2.

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una risposta predeterminata, per quanto complessa, a determinati stimoli, ma come la spontanea, creativa, soluzione a quello che introspettivamente appare assumere i contorni della domanda: “Che fare?”; per il determinista si tratta solo di una domanda retorica (perché la risposta è già contenuta, per quanto sconosciuta, nelle condizioni — interne ed esterne — date) per William James si trattò sempre di una domanda vera, quanto vere e reali sono le angosce che avvolgono l’uomo dominato dal dubbio104.

Ma torniamo ora al meccanismo della selezione, che appare essere la chiave di volta105 per comprendere la possibilità dell’efficacia della coscienza. Abbiamo detto che sarà proprio in virtù della possibilità di un’attenzione selettiva che James riuscirà a dare forma a una filosofia in grado di strappare l’uomo dal determinismo riduzionistico; prima di trattare più specificamente della funzione dell’attenzione (selettiva) dobbiamo però osservare che il meccanismo selettivo agisce per James a tutti i livelli della mente umana106 e non solo a quello volitivo.

104 Sebbene l’uomo spesso non se ne renda conto (perché ogni atto libero non viene preceduto dalla domanda: “Che uomo debbo diventare”?) l’effetto fondamentale di ogni comportamento libero e consapevole non si esaurisce nelle conseguenze dell’azione cui dà vita, ma, aggiungendosi a tutte quelle passate, contribuisce alla formazione di una personalità sempre più definita e, forse, sempre più immodificabile. La consapevolezza di questo fatto sfuma nelle pagine dei Principles, ma emergerà nettamente nei capitoli più importanti della Will to Believe. 105 La selezione è la vera chiave di volta su cui si basa tutto il nostro edificio mentale. PP, p. 640. La selezione è anche la chiave di volta per comprendere i capitoli principali dei Principles: I germi del darwinismo di James e dei suoi interessi morali e metafisici si nascondono in più di un capitolo dei suoi Principi di psicologia. Li vediamo proliferare abbondantemente nei capitoli del suo grande libro che trattano delle funzioni del cervello, dell’istinto, delle emozioni, della volontà, del ragionamento e nelle ultime dieci pagine del capitolo finale, On Necessary Truths and The Effects of Experience. P. Wiener, op. cit., p. 108.

Come vedremo in seguito, soprattutto a proposito di un tema che sempre occupò le energie di James — quello della genialità — il meccanismo selettivo agisce per James anche a livello sopraindividuale, o, in parole più semplici, a livello sociale; Jonathan Schull sottolinea il fatto che poco è stato studiato il meccanismo selettivo nell’opera di William James, che nei Principles si manifesterebbe come “il meccanismo essenziale del funzionamento della mente”; responsabile, almeno in parte, di questa situazione sarebbe poi lo stesso James che non avrebbe dedicato sufficiente spazio a una definizione in abstracto del meccanismo selettivo. Sebbene noi concordiamo ampiamente con la prospettiva interpretativa che vede il meccanismo della selezione come fulcro della teoria jamesiana della volontà (e non solo) allo stesso tempo non comprendiamo come avrebbe potuto James trattare di questo argomento distaccandolo dagli specifici temi trattati; d’altronde anche per lo stesso Darwin non avrebbe avuto alcun senso parlare di selezione tout court; tutti i concetti che James mutuò da teorie scientifiche o filosofiche hanno senso solo all’interno della complessa struttura del suo pensiero; molti critici, come Bjork, cercano di mostrare che Darwin non fu “decisivo” per James (senza specificare bene che cosa si intenda per decisivo) proprio in virtù del fatto che il filosofo americano non fece del suo pensiero un corollario della dottrina evoluzionistica; Scrive Schull: [...] la selezione è un processo molteplice e che agisce a più livelli, che va dall’aspetto intraneurale a quello sopraindividuale. [...] Ma, poiché James stesso non discusse mai la sua concezione della selezione indipendentemente dai temi trattati [...] egli non è conosciuto per la teoria [della selezione] dalla quale [le sue considerazioni] sono derivate. J. Schull, Selection, James’s Principal Principle, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., pp. 143-144. 106

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Mentre una parte di ciò che noi percepiamo viene dagli oggetti che ci stanno davanti attraverso i nostri organi di senso, un’altra parte, ed è possibile sia la parte maggiore, proviene sempre dal nostro proprio cervello107. La selezione, per James, agisce anche a livello delle regioni che potremmo definire subconsce (infraconscious regions). Gli stessi sensi dell’uomo sono prima di tutto organi di selezione108. Pensare che noi sentiamo tutto quello che potremmo sentire, che noi vediamo e siamo consapevoli di vedere tutto ciò che potremmo vedere, che udiamo ogni suono che giunge alle nostre orecchie etc. è per James una di quelle ingenuità che sempre hanno accompagnato una certa filosofia empiristica: In mezzo a ciò ch’è in se stesso un continuum, [il plenum dell’esperienza possibile] privo di distinzioni e di accentuazioni, i nostri sensi ci danno, soffermandosi su quel movimento piuttosto che su quell’altro, un mondo fatto di contrasti, di accenti, di bruschi cambiamenti, in una parola, un mondo in chiaroscuro109. Ovviamente, anche in questo caso possiamo supporre che i nostri sensi ci forniscano le informazioni che più ci interessano110; se un oggetto appare davanti ai nostri occhi mille volte senza che noi ce ne accorgiamo, allora non possiamo certamente dire che abbiamo avuto esperienza di un tale oggetto; può darsi poi che, una volta che, per un determinato motivo, quell’oggetto sia veramente esperito allora sia

107

PP, p. 747.

108 Non solo: i sensi sono anche oggetto di selezione; James riconosce che il tatto è il senso che più di tutti viene selezionato positivamente dall’uomo per farsi la propria immagine della realtà esterna, e ne dà anche una giustificazione: Perché mai scegliamo noi così spiccatamente le qualità tattili come reali? Esse sono le meno fluttuanti. Se le percepiamo, le percepiamo come le stesse; mentre le altre qualità fluttuano enormemente col mutare della nostra posizione di fronte all’oggetto. PP, p. 934.

W. James, Are We Automata?, in EPS, pp. 46-47. Al proposito cfr. anche C. Sini, op. cit., p. 344. Anche in The Sentiment of Rationality — articolo che formerà uno dei capitoli fondamentali della prossima opera che analizzeremo, la Will to Believe — James ricorda l’importanza della selettività dei nostri organi sensoriali e rimarca il suo debito nei confronti di Helmholtz. Gli immortali lavori di Helmholtz sull’occhio e l’orecchio sono in un certo senso poco più che un corollario alla legge che l’utilità pratica determina la selezione di quella parte delle nostre sensazioni che dobbiamo sentire e di quella che dobbiamo ignorare. WB, p. 72. James ebbe nei confronti del fisiologo tedesco un atteggiamento ambivalente: egli rispettava enormemente il suo lavoro — come testimonia il brano sopra riportato — , ma, allo stesso tempo rifiutava le sue conclusioni più importanti: interessa qui ricordare che sempre nel 1879, anno in cui pubblicava per la prima volta The Sentiment of Rationality, James, in Are we Automata ? attaccava Helmholtz e Clifford presentando l’evidenza empirica dell’efficacia della coscienza. Cfr. TCWJ II, p. 31. Rimane il fatto che Helmholtz fu per James forse lo scienziato che più di tutti lo avvicinò alla psicologia fisiologica — anch’egli poi, come il nostro autore, aveva studiato medicina — così importante per tutto il suo pensiero, anche filosofico: Helmholtz non fu soltanto la fonte da cui James apprese la psicologia fisiologica durante la sua gioventù [...], egli rappresentò anche uno dei suoi idoli scientifici. Ivi, p. 55. Sull’importanza dello studio delle sensazioni per tutta la scienza psicologica di James cfr. P. K. Dooley, op. cit., p. 14. L’interesse del James psicologo per la sensazione è infine testimoniato dal fatto che egli continuò comunque a dedicare al suo studio larga parte del proprio tempo, anche dopo la pubblicazione dei Principles e dopo avere ceduto a Münsterberg la direzione del laboratorio di fisiologia sperimentale da lui fondato. Sulla precocità dell’interesse di James per lo studio delle sensazioni cfr. G. W. Allen, op cit., p. 41, che riconduce spesso l’attività intellettuale del James maturo alle sue ‘passioni giovanili’. 109

110 Anche i nostri sensi si sono evoluti; per certi animali alcune frequenze visive o sonore hanno assunto un’importanza decisiva per la sopravvivenza che invece altri animali hanno trovato in altre frequenze.

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impossibile non farci più caso una volta che ci si presenti l’occasione111; allo stesso modo può darsi che un oggetto apparsoci una sola volta in tutta la nostra vita, dato il nostro interesse per le sue caratteristiche, rimanga indelebilmente impresso nella nostra memoria. È evidente che un oggetto (colore, suono, figura, unione di tutti questi, etc) può presentarcisi o può essere volutamente ricercato112. Per ora ci basti dire che James distingue fra un’attenzione113 “passiva” e una “attiva”; ovviamente sarà la seconda a offrire l’uomo la maggiore possibilità di agire liberamente, cioè introducendo un elemento di spontaneità tra la ricezione dello stimolo e la risposta. Possiamo per il momento affermare che alla prima (dal punto di vista logico e non cronologico) selezione operata dai nostri sensi si aggiunge poi quella della nostra attenzione:

Oltre al fatto che le cause delle sensazioni che riceviamo da un determinato organo sono scelte per noi grazie alla conformazione speciale delle terminazioni [nervose] di quell’organo, l’Attenzione, d’altra parte, fra tutte le sensazioni che ci colpiscono ne sceglie alcune come meritevoli della sua osservazione e sopprime tutto il resto114.

Sarebbe molto interessante analizzare nel dettaglio la teoria jamesiana delle sensazioni, proprio perché su di essa si basa tutta la sua gnoseologia, ma quel che qui ci interessa è soprattutto mostrare l’applicazione quasi universale del principio della selezione alla vita mentale dell’uomo; per quel che riguarda l’importanza della preprecezione (ovvero della selezione inconsapevole) per la possibilità di conoscere oltre che di ricordare, vale comunque la pena di citare questo brano dei Principles: In breve, le sole cose che noi vediamo abitualmente sono quelle che prepercepiamo, e le sole cose che noi prepercepiamo sono quelle che hanno dato un marchio, una data etichetta, questo marchio essendo rimasto impresso nel nostro cervello. Se perdessimo il nostro magazzino di marchi o di etichette, ci troveremmo intellettualmente perduti in mezzo al mondo. PP, p. 420. 111

Quanto all’attenzione sensoriale immediata, difficilmente qualcuno potrebbe considerarla altrimenti che come un effetto. Noi ci siamo ‘evoluti’ in modo tale da rispondere a certi stimoli con certi determinati atti accomodativi [...] Questo accomodamento e la relativa sensazione sono l’attenzione. Esse dipendono da noi, ma è l’oggetto che le procura. È l’oggetto quello che prende l’iniziativa e non la mente. Ivi, pp. 424-5. È però importante notare che la sensazione (che — vedremo fra breve — è il terminus a quo e il terminus ad quem di ogni nostra attività mentale) per James rimane, sia quando essa viene recepita passivamente, sia quando viene intenzionalmente ricercata, un elemento esterno irriducibile: Le sensazioni, ricevute una volta, modificano l’organismo nervoso, cosicché le loro copie risorgono nella mente anche quando ha cessato lo stimolo esterno originario. Non può però sorgere nella mente alcuna copia mentale di una sensazione qualunque, se questa non sia stata direttamente eccitata dall’esterno. [...] Per servirci delle parole di Locke, “La mente non può costruire per sé sola nessuna idea semplice nuova”. Ivi, p. 690. Come vedremo bene in seguito, James non farà mai della capacità creare (ex novo)un’idea, un pensiero complesso, etc. l’essenza della libertà dell’uomo: questa sarà piuttosto individuata nella capacità di scegliere (di selezionare) liberamente fra diversi ‘percorsi mentali’ che si presentano all’uomo come effetto della tendenza del cervello a raggiungere un certo equilibrio nervoso: non dobbiamo infatti dimenticare che per James la psicologia della libertà è possibile solo all’interno delle regole — ancora in buona parte ignote — della fisiologia cerebrale. Lo scoprire, o (ciò che conviene meglio nello stato attuale della fisiologia nervosa), l’adombrare con qualche congettura possibile, da qual fatto chimico o meccanico molecolare possa dipendere questo equilibrio instabile del cervello umano, dovrebbe essere il precipuo ufficio del fisiologo che medita sul passaggio dalla bestia all’uomo. Qualunque sia la peculiarità fisica in questione, essa è la ragione per cui un uomo, il cui ne è privo, ragiona così poco. Non possiamo che affidare il problema a mani più abili delle nostre. Ivi, p. 989. 112

113 Attenzione e selezione sono in James quasi sinonimi; potremmo dire che la selezione, il selezionare, è l’essenza dell’attenzione e che l’attenzione può dirsi attiva solo quando selezione: [...] il principio della selezione è così importate, che nessun esempio è superfluo a dimostrare quanto sia grande la sua funzione. La conclusione di ciò che io dico è semplicemente che la selezione implica tanto la scelta quanto il rifiuto, e che la funzione per cui si ignora, per cui non si sta attenti, è un fattore così vitale per il progresso mentale, quanto lo è la funzione stessa dell’attenzione. Ivi, p. 993. 114

193

Ivi, p. 274.


E la selezione è il filo rosso che unisce la parte più semplice della nostra attività conoscitiva a quelle più complesse: Se poi, lasciando la combinazione empirica degli oggetti115, ci chiediamo come accada che la mente proceda razionalmente per metterli in relazione noi vediamo ancora una volta l’onnipotenza della selezione116.

3.1.6 Ragionamento come selezione: l’esempio del genio Il corretto ragionamento, o il ragionamento che ha successo (che per James è la stessa cosa), è quello che riesce a selezionare, in una miriade di nozioni cui un uomo si trova di fronte, quelle che più gli sono utili per raggiungere determinati fini; ovviamente qui ci troviamo già in un campo che è squisitamente volontario anche se è indubbio che spesso “ci si trovi” a ragionare intorno a un certo problema senza accorgercene sino alla fine, quando si è presa una certa decisione; James tratta di questo tema soprattutto nel cap. XXII dei Principles (intitolato appunto: Reasoning), e nell’articolo che, alla base del capitolo stesso, uscì sul Journal of Speculative Philosophy nel luglio del 1878 col titolo di Btrute and Human Intellect. Vale certamente la pena di approfondire il pensiero di James in proposito.

Il ragionamento è tipico dell’uomo; sebbene ci siano racconti e aneddoti di animali, soprattutto cani117, che avrebbero dimostrato una capacità che potremmo definire simile al ragionamento, non ci sono prove del fatto che un animale possa condurre effettivamente un ragionamento e anche nell’uomo

115 Qui James fa riferimento alla “costruzione” inconscia degli oggetti da parte dei nostri sensi; si tratta di una parte molto interessante, che non possiamo analizzare qui, che dimostra la distanza di James sia dall’associazionismo inglese, sia dal trascendentalismo kantiano; nel lungo capitolo ventesimo dei Principles James si occupa di un tema per noi periferico, ma centrale nella globalità del pensiero jamesiano, quello dello spazio; ci basti qui dire che anche nella percezione dello spazio la selezione giuoca un ruolo fondamentale: Noi abbiamo delle sensazioni spaziali congenite e fisse: ma l’esperienza ci guida a sceglierne alcune come sostenitrici esclusive della realtà, le altre divenendo semplici segni o suggeritrici di queste. Il fattore della selezione, su cui abbiamo già insistito tanto, è qui come altrove la parola che risolve l’enigma. Ivi, p. 869. IL capitolo XX è intitolato The Perception of Space. 116 W. James, Are We Automata?, in EPS, p. 50. Nei Principles James scrive [...] Il ragionamento è un’altra forma dell’attività selettiva della mente. PP, p. 276. 117 James, dimostrando qui come altrove, una conoscenza accurata delle opere di Darwin, riporta un episodio, quello dei cani artici che si separano quando il ghiaccio si assottiglia per non spezzarlo, che potrebbe avvicinare il pensiero animale a quello umano. Viene poi citato anche un altro episodio, che non riportiamo qui, che mostra bene quale sia la differenza, in James, tra ragionamento per continuità e per analogia.(Cfr. Brute and Human Intellect, in EPS, p. 23). James non disdegnava affatto il metodo comparativo e il fatto ch’egli riconoscesse la difficoltà d’interpretarne i dati, come ricorda Dooley, non è molto significativo, visto che una difficoltà del genere è presente anche nel metodo introspettivo e in quello sperimentale: Il metodo comparativo, James lo vede come uno straripamento dell’entusiasmo darwiniano. Gli studi sugli istinti degli animali, sull’intelligenza di api e formiche, sulla mente delle popolazioni selvagge, i pazzi e i bambini vengono usati per completare i dati forniti dagli altri due metodi [sperimentale e introspettivo]. Sebbene James apprezzi la conoscenza che ci può giungere dal metodo comparativo, egli riconosce anche la difficoltà di interpretarne i dati. P. K Dooley, op. cit., p. 15.

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osserviamo oggi, come poteva osservare James cent’anni fa, che esistono persone più abili di altre nel ragionamento; è proprio concentrandosi su queste persone, e sulla differenza con chi è meno dotato, che si può più facilmente capire in che cosa consista il ragionamento. Per James ragionare significa estrarre, dal plenum esperienziale, delle caratteristiche (dell’oggetto, della situazione, della relazione, etc.) che possano esserci utili per la nostra conclusione; è qui evidente che James non pensa che sia possibile un ragionamento “puro”, che cioè non abbia un qualche traguardo come suo fine da raggiungere; a prescindere dal tipo di traguardo, è evidente dunque, che ragiona bene chi riesce a raggiungere il suo fine nella maniera più breve e con gli strumenti a disposizione. Il fatto che il ragionamento sia sempre interessato non deve assolutamente essere ritenuto accessorio nella trattazione del nostro tema: non solo un ragionamento ‘disinteressato’ è inconcepibile: un uomo che possiede pochi interessi, pratici o estetici che siano, avrà dei limitati poteri di ragionamento e questo perché avrà pochi fini da raggiungere e poche possibilità da vagliare. Allo stesso modo, visto che la capacità di vagliare le alternative è affidata essenzialmente al ragionamento, è evidente che, posto che possa effettivamente agire liberamente, l’uomo che ha più alternative “a disposizione”, l’uomo che si crea più alternative, avrà ampliato la propria libertà. Scrive James:

Ora, una creatura che ha solo pochi interessi, pratici o estetici, dissocerà pochi caratteri e avrà limitato il proprio potere di ragionamento (reasoning powers)118. James parla chiaramente di dissociazione e non di associazione: la conoscenza, dal momento che comincia con una vaga confusione — quel plenum di feelings che ci troviamo di fronte in ogni nuova situazione — non è il semplice risultato dell’associazione; il principio del ragionamento è proprio questo: non riduzione di pluralità di impressioni a una, ma apertura di una in molte119. Il potere di ragionamento di un uomo è dunque direttamente proporzionale al suo potere di dividere, o meglio di selezionare, perché non si tratta di scomporre il dato esperienziale in tutte le sue componenti (che sono poi infinite), ma di estrarre quelle parti che ci possono essere utili per la nostra conclusione120: quando vogliamo

118

W. James, Brute and Human Intellect, in EPS, p. 15.

119

Ibidem.

120 Estrarre le caratteristiche utili e “buttare” il resto; non si può fare una cosa senza fare anche l’altra. James era maestro nel riassumere il proprio pensiero in immagini estremamente efficaci, e belle: La mente, in breve, lavora attorno ai dati che riceve e in modo molto simile a quello in cui lo scultore lavora attorno al proprio blocco di marmo. In un certo senso la statua era già lì fin dall’eternità. PP, p. 276 (a proposito di questa metafora e della visione ‘artistica’ della mente secondo James cfr. P. Diggins, op. cit., p. 128). Questo brano è molto interessante perché anticipa, qui a livello gnoseologico, la stessa situazione che vedremo riproporsi parlando della libertà; anche la libertà è selezione: selezione di un comportamento su tanti possibili (e qui si intenda effettivamente possibili e non immaginabili); anche in questo caso l’uomo si trova di fronte a un blocco di marmo, fatto delle caratteristiche dell’uomo e di quelle dell’ambiente, della situazione data; il blocco di marmo non può essere costruito dall’uomo, la sua libertà è in questo senso limitata; dal blocco però possono nascere migliaia di forme, belle o brutte, grandi o piccole e qui è l’uomo, se si fa carico della propria responsabilità, a essere autore del proprio destino. L’anima non presenta nulla per sé sola; essa nulla crea; essa è alla mercé delle forze materiali per ogni possibilità, 1 ma fra queste possibilità essa sceglie. PP, p. 1186. Com’è evidente già da quanto detto sinora, conoscenza e libertà, gnoseologia e morale sono indissolubilmente legate in James e lo saranno ancor più nelle opere future — dalla Will to Believe in poi — ma già nei Principles sarebbe impossibile comprendere la teoria della volontà di James separatamente da quella della conoscenza.

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conoscere la relazione fra un fenomeno e l’altro è così che agiamo: estrapoliamo dall’esperienza di quello che potrebbe essere la causa quegli elementi che potrebbero essere in relazione con quel che chiamiamo effetto. Di nuovo emerge qui la facoltà dell’attenzione: che cosa vuol dire selezionare uno o più aspetti di un fenomeno, di un datum, se non porvi attenzione? Come dissociamo gli elementi dell’originalmente vago sincretismo della coscienza? Notando e ponendo attenzione a essi, ovviamente. Ma che cosa determina quali elementi dobbiamo selezionare? Ci sono due risposte immediate e ovvie: primo, i nostri interessi pratici, secondo, i nostri interessi estetici121. Come spesso accade, è Spencer il contraltare che serve a James per meglio spiegare il proprio pensiero: Come già ricordato all’inizio del presente Capitolo, Spencer dà una visione dell’uomo totalmente passiva, anche dal punto di vista cognitivo. Per Spencer, o meglio per lo Spencer di William James, l’uomo è come creta, che viene formata dall’esperienza che “gli piove” addosso122; una tabula rasa che prende forma col “subire” l’esperienza che si trova a dover fare. Un’immagine che, per James, oltre a sminuire certamente la nobiltà dell’essere umano, non è in grado di rendere conto proprio di quel processo, il ragionamento, che vorrebbe spiegare: se la conoscenza è soprattutto selezione, e selezione per interesse, come può conoscere un organismo che si pone passivamente di fronte al mondo? James si serve del genio per dimostrare, accentuando ciò che vale per ognuno, le caratteristiche dell’uomo: come accade infatti che ci sia bisogno di un genio per scoprire delle leggi fino ad allora ignote a tutti gli altri, ovvero per selezionare dei fenomeni e poi combinarli? Come accade che anche l’uomo comune non venga colpito da fenomeni che cadono sotto il suo raggio d’esperienza ogni giorno eppure non diventano, né mai diverranno, parte della sua esperienza, della sua memoria, di un suo possibile ragionamento? Rispondere a queste domanda ci porta ad approfondire e concludere, per quanto riguarda i Principles, l’analisi della facoltà razionale in William James; abbiamo detto sopra che ragionare significa prima di

W. James, Brute and Human Intellect, in EPS, p. 15. Ancora una volta emerge la presenza e l’importanza dell’interesse; che non solo ci spinge a ragionare, esso è anche una sorta di cartina tornasole che ci fa soffermare su alcuni elementi, dopo che noi stessi li abbiamo selezionati, piuttosto che su altri. 121

Un empirista del genere di Spencer, per esempio, considera l’individuo come dell’argilla assolutamente passiva, sulla quale piovono quelle impressioni del mondo esteriore che costituiscono l’“esperienza”. PP, p. 381. 122

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tutto selezionare123; ciò non vuol dire affatto che significhi esclusivamente selezionare; alla scomposizione del datum (ch’è incomprensibile per chi, come gli associazionisti, parta già da un’esperienza “divisa”) deve seguire l’associazione; anche gli animali mostrano di potere associare un fatto a un altro, uno stimolo a una reazione, ma si tratta sempre di associazioni per contiguità; L’associazione per contiguità non deve però essere affatto sottovalutata; essa ha un’importanza notevolissima nell’economia gnoseologica dell’uomo; soltanto, l’errore è quello, commesso spesso dagli psicologi e dai filosofi associazionisti, di ridurre ogni genere di associazione a questa specie124:

Gli oggetti che abbiamo trovati uniti una volta, tendono ad associarsi nella nostra immaginazione; cosicché, quando uno qualunque di essi vien pensato, gli altri facilmente sorgono nel pensiero nel medesimo ordine di successione e di coesistenza di prima. Questa possiamo chiamarla la legge dell’associazione mentale per contiguità125. E, ancora una volta, giova rimarcare l’importanza che la fisiologia nervosa sempre ebbe nella psicologia di James:

Del resto, qualunque nome si dia a questa legge, siccome essa rappresenta puramente un fenomeno di abitudine mentale, il modo più naturale di spiegarla è quello di concepirla come il risultato delle leggi dell’abitudine nel sistema nervoso; in altre parole, è quello di ascriverla ad una causa fisiologica126. La causa fisiologica sarebbe poi questa: l’associazione di pensieri per contiguità ha come corrispettivo fisico un preciso percorso di “sentieri nervosi”; anche senza abbracciare il determinismo che sembrerebbe essere omogeneo a questa teoria, James riconosce che l’associazione per contiguità può essere spiegabile solo se noi riconosciamo che le correnti nervose si propagano più facilmente lungo quelle vie di conduzione che furono usate maggiormente in passato. James riconosce che questa legge, ancora da perfezionare, era stata scoperta da Locke e da Cartesio, ma ciò che più importa è rilevare ovviamente come una possibilità di azione libera, giusta questo stretto legame che lo stesso James

123Il ragionamento ci dà il mezzo di trarci fuori da circostanze inusitate, per le quali tutta la nostra scienza associativa ordinaria, tutta l’“educazione” che possiamo avere comune con gli animali, ci lascerebbero senza risorse. Ivi, p. 957. E ancora: I loro pensieri [delle bestie] non richiamano quelli che sono simili, ma soltanto quelli che si succedono abitualmente; il tramonto non suggerisce la morte degli eroi ma l’ora del pranzo. Ecco perché l’uomo è il solo animale metafisico. Ivi, p. 977. 124 È merito della scuola associazionistica di aver saputo scorgere la vasta cerchia di questi effetti della contiguità nel tempo e nello spazio e l’applicazione esagerata fatta da loro di questo principio della pura contiguità non dovrebbe farci perdere di vista l’eccellente servigio che esso ha reso alla psicologia per opera loro. Ivi, p. 1229. 125

Ivi, p. 529.

126

Ivi, pp. 529-530.

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individua con la realtà nervosa che sta di base all’attività mentale, è possibile solo se la mente è in grado di interrompere e dirigere il ‘percorso associativo’, senza essere determinata dalla maggiore o minore percorribilità delle vie nervose127.

Ma torniamo ora all’analisi del ragionamento umano: ciò che distingue l’uomo dagli animali, e ne fa l’unico essere razionale, è la possibilità di associare per similarità: [...] Perché si sono dovuti aspettare tanto un Darwin o un Newton? Il lampo della similarità fra una mela e la luna, fra la lotta per il cibo in natura e la lotta per la selezione [naturale] dell’uomo era troppo recondito per soccorrere alla mente di persone che non fossero eccezionali. Il genio, come abbiamo già detto, coincide con il possesso in grado eccellente di associazioni per similarità. Bain dice: “È questo, secondo me, il fatto principale del genio (...) per me è impossibile fornire una qualche spiegazione dell’originalità intellettuale, se non supponendo una straordinaria energia a questo riguardo”, Nelle arti, in letteratura, nelle questioni pratiche, come in scienza, è l’associazione per similarità che costituisce la condizione fondamentale per il successo128. La grande memoria di fatti che mostrano un Darwin e uno Spencer nei loro libri, non è incompatibile col possesso da parte loro di un cervello che abbia soltanto un grado mediocre di ritenzione fisiologica129. Lasciate che un uomo, fin da giovane, si proponga il compito di verificare una teoria quale quella dell’evoluzione e presto i fatti gli si presenteranno, raggruppandosi insieme, come i grappoli sul loro tralcio130.

Cfr. Ivi, p. 531. Come ricorda James (cfr. Ivi, p. 544) Il meccanismo di fondo che sembra sottendere ogni ‘azione cerebrale’ è quello della ricerca del maggiore equilibrio. James non dà alcuna giustificazione di questo ‘principio’, ma sembra proprio ch’esso stia alla base dell’attività cerebrale. 127

128

Ivi, p. 984.

129 Naturalmente James poté sostenere una teoria del genere solo dopo avere annullato la supposta coincidenza delle qualità della mente con quelle del cervello. È bene ricordare infatti che per lo psicologo americano la mente è in relazione col cervello, ma non è riducibile a esso. Cfr. a proposito dell’assenza di differenza squisitamente fisiologica tra il cervello di un uomo normale e quello di un genio: P Carus, Evolution and the Soul, “The Monist”, 18 (1908), p. 203.

PP, 623. La tendenza di James fu di utilizzare l’anatomia comparata [...] come sorta di prova e di illustrazione della teoria evolutiva e la fisiologia [...] come approccio alla psicologia. La dottrina evolutiva cui James pensava era, ovviamente, quella di Darwin. Egli aveva conosciuto l’opera di Darwin già come studente e, nel 1868 egli aveva scritto recensioni delle Variations of Animals and Plants under Domestication, nelle quali elogiava Darwin come scienziato e rilevava però l’assenza di qualsiasi legge in grado di rendere ragione dell’origine di queste variazioni. [vedremo poi come James volse quest’ignoranza a vantaggio della sua teoria della volontà libera] [...]; è chiaro che egli ne ammirava il carattere, il suo scrupoloso attenersi ai fatti e la sua modestia. Ma egli ne aveva adottato anche le idee. L’idea jamesiana che ci fosse una dimensione a priori nella conoscenza umana non era altro che l’applicazione della nozione darwiniana di variazioni accidentali e fortuite; darwiniana era anche la sua tendenza a vedere la vita come un esperimento azzardato [...]. Che la natura non faccia salti — natura non facit saltum [sic] — non era parte della sua visione delle cose. Al contrario, egli sentiva che l’individuo rappresentava un luogo di inaspettate differenze. L’essenza del darwinismo, per James come per Huxley, sta nell’idea che sia che le variazioni sia grandi o piccole, esse provano o meno se stesse — sopravvivono o scompaiono — in relazione all’ambiente. TCWJ I, pp. 469-470. A proposito della recensione del 1868, Wiener sottolinea come questa già contenesse le premesse delle future critiche a Spencer: Una maniera per confutare Spencer stava nascendo [con la lettura di Darwin]in James. Senza dubbio, nella stessa recensione del 1868, James aveva già notato due fattori fondamentali: la variazione e l’adattamento che rendono possibile la sopravvivenza. Spencer, sostenendo la teoria lamarckiana, non poteva apprezzare il meccanismo biologico della selezione per variazione. James avrebbe tratto [dalla teoria darwiniana] la teoria mentale dell’evoluzione, o “psicogenesi”. William Woodward, James’s Evolutionary Epistemology, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the 1 Legacy of William James, cit., p. 158. 198 130


Il genio è per James colui che possiede in massimo grado due qualità: una è la perseveranza131; come dimostra il brano succitato persone come Darwin e Spencer non debbono la loro scienza tanto a un’eccezionale memoria, quanto a una sorta di disciplina, acquisita col tempo e sostenuta da un fortissimo interesse; l’altra, che sembra essere opposta alla prima potremmo definirla il coraggio; James non utilizza questo termine, ma ci sembra che sia il più adatto a rendere l’idea. Coraggio vuol dire lasciare la vecchia via per la nuova; coraggio vuol dire cambiare radicalmente prospettiva da cui guardare le cose, come Galileo, che fu molto più coraggioso guardando il cielo che guardando gli uomini che dovevano giudicarlo; il genio è colui che riesce a far convivere, in una maniera unica, l’abitudine e la novità, la fatica nel raccogliere i dati e accumularli, per tutta una vita, e allo stesso tempo mettere in crisi tutte le conclusioni finora tratte da questi dati. Per fare un esempio concreto: James sicuramente riteneva Agassiz un grande scienziato, ma egli aveva in massimo grado solo una delle qualità indispensabili al genio; ciò di cui egli mancava era proprio quel coraggio che sembra impensabile prima della formulazione di una nuova teoria, e banale dopo si essa: Darwin era sicuramente per James un genio par excellence132. Ma ciò che più importa, perché un uomo sia un genio, è la sua negazione di ogni fissità133. La sua superiorità, come essere razionale, rispetto alle altre specie animali, che potremmo in alcuni casi definire intelligenti, sta nella facilità con cui egli può spezzare un pensiero nei suoi elementi e ricombinare questi in un modo affatto diverso xi.

Se ci guardiamo indietro, dopo la breve analisi dei luoghi dove la selezione appare esercitare il suo più alto ufficio134 possiamo notare che la mente è per James, un “teatro di possibilità simultanee”135. Il Anche Darwin riteneva che gran parte della genialità di un uomo risiedesse nella sua costanza e nel suo impegno, anche se col tempo dovette riconoscere, anche grazie a gli studi del suo famoso cugino, che gran parte della differenza tra i risultati intellettuali raggiunti dagli uomini è dovuta a un “differente grado intellettivo”: La dimostrazione fornita da Galton del differente grado intellettivo fra gli uomini civilizzati, nel suo Hereditary Genius, portò Darwin a dichiarare al cugino [lettera del 3 Dic. 1869]: “Mi hai in certo modo convertito; io infatti, ho sempre pensato che, eccetto che per i folli, gli uomini non differissero tra loro tanto per l’intelletto, quanto per lo zelo e la determinazione. E, ancor oggi, penso che questa sia una differenza eminentemente importante” R. J. Richards, op. cit., p. 169. 131

L’influenza di Darwin fu immediata e profonda e i suoi effetti affiorano in campi diversi e spesso imprevisti. Darwin, come Jeffries Wyman, rappresentava per James il modello di scienziato. TCWJ I, p. 469. 132

133 Il nostro studio sull’associazione per similarità e del ragionamento ci ha insegnato che tutta la superiorità dell’uomo dipende dalla maggiore facilità colla quale nel suo cervello i sentieri battuti dalle coesioni esteriori più frequenti possono essere interrotti. Le cause dell’instabilità, le ragioni per cui ora questo punto e ora quello divengono in lui la sede dell’interruzione, abbiamo visto essere interamente oscure per ora. PP. pp. 1234-35.

Il meccanismo della selezione non è presente solo nella percezione sensoriale e nel ragionamento: James ricorda come la selezione sia presente anche nell’attività estetica della mente e più precisamente nell’attività dell’artista, che deve selezionare i colori, i materiali le forme, perché esse possano armonizzarsi nel fine desiderato; Salendo ancora più in alto [nelle facoltà umane] raggiungiamo il piano dell’etica, dove la scelta regna notoriamente suprema. Un atto non può avere una qualità etica, a meno che esso non sia scelto tra molti [atti] ugualmente possibili.. Ivi, p. 628 134

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compito della coscienza, potremmo dire il suo “lavoro”, consiste nella continua comparazione di queste possibilità, nella selezione positiva di alcune e negativa di altre. Come abbiamo accennato, è attraverso l’attenzione che la coscienza svolge questo suo compito e sarà proprio nell’analisi di questa facoltà che giungeremo infine a comprendere in che modo la coscienza effettivamente diventa efficace, in una maniera che non è predeterminata, ma libera.

Pagine addietro abbiamo detto che James, nei Principles (e negli articoli che stiamo qui considerando), cerca di dimostrare il fatto che la coscienza è una facoltà utile all’uomo; non qualcosa di accessorio, non qualcosa di epifenomenico, ma qualcosa di efficace, di efficiente. Il fatto che la coscienza si sia evoluta nella scala del regno animale dovrebbe bastare a mostrare, se non a dimostrare, la sua reale utilità; ma lo psicologo americano, come abbiamo visto, non si limita a quest’induzione; egli cerca di mostrare come accade che la coscienza sia utile all’organismo che la possiede; torniamo quindi alla domanda iniziale: un cervello sofisticato come quello dell’uomo sarebbe migliore o peggiore — cioè capace di adattarsi all’ambiente in maggiore o minore grado — senza la coscienza? La risposta di James in ordine a questa domanda è chiara: Noi abbiamo visto che un’azione non controllata degli emisferi superiori sarebbe probabilmente casuale e capricciosa; che i processi nervosi atti a soddisfare gli interessi dell’animale potrebbero non predominare in un determinato momento. D’altro lato abbiamo visto che una coscienza imparziale è una non entità, e che di tutto ciò che occupa la nostra mente il Feeling seleziona sempre ciò che è più congruo coi nostri interessi136.

. 135 W. James, Are We Auromata,?, in EPS, p. 51. [...] Ciò che forma il centro del pensiero di James è stato descritto ogni volta in maniera diversa: un mondo sempre in movimento, un universo plurale e ancora incompleto, capace di svilupparsi, con le porte e le finestre aperte. Al suo cuore comunque, c’è il “teatro delle possibilità”, il gioco di un’esperienza in una realtà libera, “cosicché il prossimo avvenimento può essere veramente ambiguo[...]”. B. Ramsey, op. cit., p. 130. L’uomo può dunque essere definito, in questa prospettiva, come maître du possible.

W. James, Are We Automata?, in EPS, p. 52. È infatti difficile comprendere come, senza un effettivo ideale regolatore [la coscienza] un organo così instabile come il cervello de mammiferi possa essersi evoluto. Ivi, p. 54. Quando James descrive come “capricciosa e casuale” un’azione che non fosse controllata dall’attività cosciente della mente non vuole fare riferimento a un’assenza di causalità; come vedremo meglio in seguito James, almeno nei Principles, non fonda la possibilità della libertà dell’uomo su un’interruzione della catena causale; dire che il cervello dell’uomo agirebbe “capricciosamente e casualmente” senza una guida da parte della coscienza significa sottolinearne l’assenza di fini e quindi l’impossibilità a trovare una via di adattamento a un ambiente complesso e in continua evoluzione come quello in cui vive l’uomo. Bisogna inoltre sottolineare che anche gli emisferi superiori, per quanto possano essere l’unica sede per una volizione libera, non sono considerabili, à la Spencer, una tabula rasa: La verità è che né nell’uomo, né negli animali, gli emisferi sono quegli organi vergini che lo schema [di Meynert] richiedeva. Lungi dal non essere organizzati al momento della nascita, essi debbono avere tendenze innate e qualche forma speciale di reazione. È a queste tendenze che noi diamo il nome di emozioni e di istinti. PP, p. 83. 136

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La conclusione dunque che la coscienza sia utile è dopo tutto, più che giustificabile. Ma, se è utile, essa deve essere anche efficace e la teoria dell’automatismo conscio deve soccombere alla teoria del senso comune137. Questo ‘grido di vittoria’, sostenuto su un sillogismo le cui premesse non sono necessariamente condivisibili, per molti rappresentò, e rappresenta tuttora, un ulteriore esempio dell’ingenuità di James; bisogna però ricordare che se il brano succitato sembra essere perentorio, lo stesso autore, in altri passi, riconosce di avere proposto solo una teoria utile alla spiegazione di certi fenomeni — in particolar modo quelli introspettivi —, non l’unica teoria possibile: l’equiparazione della coscienza a un “organo”, che ha permesso a James di applicarvi le — ancora incerte — leggi della selezione naturale, non può certo considerarsi pacifica. Di fatto, dice James, questa teoria, ch’egli chiama del senso comune, per quanto debole, riesce a rispondere a problemi che il materialismo riduzionistico si limita semplicemente a negare. Consci, almeno quanto James stesso, dell’ipoteticità di una teoria che faccia della coscienza una funzione indispensabile della vita, della sopravvivenza stessa, di quell’animale estremamente evoluto ch’è l’uomo, cercheremo ora di capire come, nel dettaglio, l’efficacia della coscienza si manifesti, attraverso l’attenzione, nella facoltà del volere umano; qui troveremo quella che potremmo definire la prima formulazione jamesiana di una filosofia, o di una psicologia, della libertà.

Sebbene fosse evidentemente un uomo di forti sentimenti morali, James non mostra grande interesse nei più specifici problemi di filosofia morale. L’unico che abbia mai discusso in dettaglio è quello della libertà del volere. Per comprendere i termini nei quali egli pone il problema è necessario sapere qualcosa circa la sua teoria generale della volizione. Si tratta di una teoria psicologica; il suo fine è quello di descrivere esattamente che cosa accade nella mente quando un uomo si decide a un atto volontario138. W. Jamees, Are We Automata?, in EPS, pp. 56-57. La coscienza è esattamente quale avremmo dovuto aspettarci che fosse, cioè un organo aggiunto allo scopo di dirigere un sistema nervoso divenuto troppo complesso per regolarsi da sé. PP, p. 147. James osserva che, se la coscienza umana è vista come un epifenomeno strettamente causato da processi fisiologici, e priva di qualsiasi efficacia, allora l’utilità della sensazione e della conoscenza diverrebbe dubbia, dal momento che queste non esistono se non nella coscienza.. J. K. Roth, op. cit., p. 30. 137

J. Ayer, op. cit., p. 202. Il fatto che James non abbia dedicato molte pagine dei suoi scritti ai “più specifici problemi di filosofia morale” è cosa universalmente riconosciuta; l’unico lavoro veramente dedicato a questo argomento è rappresentato da un articolo scritto nel 1891 e pubblicato poi come capitolo della raccolta di popular essays nella Will to Believe: The Moral Philosopher and the Moral Life: noi non ci occuperemo di quella che potremmo chiamare l’applicazione concreta della morale Jamesiana (un campo che, anche dato anche il poco materiale pubblicato dal nostro autore in proposito, continua a suscitare accesi dibattiti), ma certamente avremo modo di trattare, già in questa terza parte dedicata principalmente alla psicologia di James, della ‘deduzione’ darwiniana dei principi morali; cominceremo però da quella che Richards chiama la “seconda parte”, e cioè la “spiegazione del modo in cui la volontà opera per rendere la libera scelta possibile” consapevoli però del fatto che questo punto assume nell’economia di tutto il pensiero jamesiano un’importanza che va ben oltre gli “specifici problemi di filosofia morale” di cui sopra: essa rappresenta prima di tutto la fondazione dell’uomo come essere consapevole e capace di conoscere oltre i limiti dell’esperienza immediata e dell’educazione ricevuta: In molti saggi e in vari capitoli dei Principles of Psychology, soprattutto nel capitolo sulla volontà, James pose le fondamenta scientifiche per la morale umana. La sua costruzione può dividersi in due parti: primo, una spiegazione evoluzionistica dell’origine degli interessi morali, e secondo, una spiegazione del 138

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Che cosa accade dunque nella mente di un uomo quando egli compie un atto volontario? Il fatto che James abbia “dimostrato” (circostanzialmente) l’efficacia della coscienza139 non ci basta certo per comprendere quale sia il processo che sottende alle azioni, ai movimenti volontari; il fatto poi che la coscienza sia per James efficace non ci deve fare affatto dimenticare che non tutti gli atti dell’uomo sono volontari, anzi, come vedremo, e come abbiamo già visto, è proprio vero il contrario.

Gli atti involontari sono per James quelli che vengono compiuti istintivamente o senza che alcuna intenzione conscia preceda l’atto stesso, negli atti volontari invece noi notiamo che esiste sempre un’idea che ne preceda l’esecuzione: questo è quello che James chiama il sine qua non di ogni azione volontaria140.

James dovrebbe essere considerato come il primo e il più importante filosofo della volontà. Il suo capitolo lungo cento pagine verso la fine del secondo volume dei Principi rappresenta uno dei saggi più ambiziosi e più riusciti riguardo alla volontà mai scritti in psicologia moderna141.

modo in cui la volontà opera per rendere la libera scelta possibile. Per quanto riguarda la prima parte, la strategia di James era quella mostrare come gli interessi morali [...] fossero variazioni spontanee mentali selezionate. Come Darwin, egli concepiva questi interessi, nei suoi primi saggi e lezioni, come istinti che hanno un valore di sopravvivenza, e così trasmessi selettivamente negli organismi intelligenti. R. J. Richards, op. cit., pp. 445-46. 139

Comunque, James non pensa di avere fornito una prova esaustiva del fatto che la coscienza è causalmente efficace. J. K. Roth,, op. cit.,

p. 31. 140

W. James, What the Will Effects, in EPS, p. 218.

141

D. S. Browning, op. cit., p. 131.

202


3.1.7 Il movimento: fra istinto e volontà Nelle azioni involontarie di tipo istintivo non si ha affatto consapevolezza di ciò che accade, o meglio: non si ha consapevolezza di ciò che sta per accadere; ci si rende conto dell’azione, del movimento, solo dopo che questo è stato compiuto, quasi che fossimo degli spettatori esterni. Proprio per questo, proprio per il fatto che niente si frappone fra lo stimolo (esterno) e la risposta, e proprio per il fatto che si tratta di una reazione istintiva, l’azione involontaria di questo tipo è facilmente prevedibile142; se io vedo un uomo che inavvertitamente si appoggia su una stufa bollente, posso essere certo ch’egli si scosterà in maniera repentina dalla stufa senza nemmeno rendersene conto. In questo caso i movimenti dell’uomo non sono affatto diversi dalle reazioni degli organismi inferiori della scala animale. La spiegazione di questi atti involontari, per quanto complessa, è molto più semplice di quella degli atti volontari143: si tratta di atti conformi al tipo generale dell’azione riflessa144: sono provocate da stimoli sensoriali che vengono in contatto col corpo dell’animale, o entrano in rapporto con esso nel suo ambiente145.

142 James non pensava però che gli istinti fossero “perfetti”; se c’era un insegnamento che Darwin poteva aver dato ai fisiologi e agli etologi era proprio questo: che niente in natura è perfetto e che nessun organismo si adatta perfettamente all’ambiente che lo circonda: Negli istinti dei mammiferi e anche in quelli degli animali inferiori, non esiste quell’uniformità e quell’infallibilità che vent’anni or sono venivano considerate come caratteri essenziali degli istinti. Gli studi più attenti di questi ultimi tempi hanno scoperto in essi la continuità, la transizione e la variazione, dovunque siano state ricercate, e hanno stabilito che ciò che viene chiamato un istinto è, per solito, soltanto una tendenza ad agire in un modo in cui la media è abbastanza costante, ma che non ha bisogno di essere matematicamente “vera”. PP, p. 1012, n. 4. In ordine a questo tema James cita poi The Origin of Species di Darwin, la Mental Evolution in Animals di Romanes, Mind in the Lower Animals di W. L. Lindsay e Animal Life as Affectedby the Natural Conditions of Existence di K. Semper. Ibidem. Qui è importante notare, oltre al discorso specifico sugli istinti, la rivoluzionarietà del modo di fare scienza che con Darwin e con la moderna fisica vennero introdotti nella comunità scientifica; per le prime volte si parlava di media e di verità che non fossero matematiche, cioè valide universalmente; fu questa una rivoluzione certamente enorme e James non fu insensibile a essa: per la prima volta si poteva parlare di una scienza che poteva fare a meno del rigido determinismo come base solida per la costruzione di una teoria scientifica e che poneva la capacità di fornire ipotesi esplicative valide al di sopra di quella di dimostrare perentoriamente le proprie conclusioni. Vedremo bene in seguito (cfr. infra, cap. 4.1) come l’accettazione jamesiana della dottrina darwiniana al fine di spiegare il funzionamento e l’evoluzione della coscienza umana portò con sé, quasi necessariamente, l’abbandono del ‘vecchio modo’ di fare scienza in favore di un approccio che potremmo definire fallibilistico.

James cominciò a scrivere intorno agli istinti in una recensione di Mind in the Lower Animals di Lindsay. Il capitolo sugli istinti nei Principles è la ristampa, con poche modificazioni, di articoli apparsi sulla Scribner’s Magazine e su Popular Science Monthly Donald A. Dewsbury, James and the Instinct Theory, in M. E. Donnelly, Reinterpreting the Legacy of William James., cit., p. 272. 143

Per quanto riguarda la genesi delle azioni istintive e riflesse, James sembra non avere dubbi: Tutte le ordinarie azioni riflesse utili e i movimenti di alimentazione e di difesa appartengono alla nostra conservazione fisica. La paura e l’ansia spingono ad atti che sono utili allo stesso modo. PP, p. 292. In questi casi l’azione riflessa è il comune denominatore del comportamento umano e quello degli animali meno evoluti anche da un punto di vista qualitativo. Come abbiamo già sottolineato sopra, solo in quei comportamenti in cui a uno stimolo dato non segue una reazione determinata è possibile per James rintracciare quell’elemento di spontaneità — base necessaria per un’ipotizzata libertà d’azione — che rappresenta poi la differenza specifica tra l’uomo e gli animali. 144

145 Ivi p. 1005. L’istinto viene ordinariamente definito come la facoltà di agire in modo da produrre certi effetti finali, senza averli previsti e senza previa educazione ad agire in quel modo. Ivi, p. 1004.

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Sebbene James dedichi molte pagine dei Principles all’istinto, appare evidente che il suo interesse principale sta nelle possibilità che una corretta analisi dell’evoluzione146 e del funzionamento dell’istinto ci fornisce per la comprensione di quel comportamento, quello volontario, che raggiunge il massimo sviluppo nell’uomo; questo non vuol dire affatto che James ritenesse l’uomo un animale meno istintivo — ovvero dotato di un numero minore di istinti — di altri; tutt’altro147: il fatto che l’uomo appaia agire in una maniera meno istintiva degli altri animali significa ch’egli possiede delle facoltà in più — e non degli istinti in meno — che possono inibire gli istinti e, proprio il meccanismo dell’inibizione degli istinti — che sembra distinguere nettamente l’uomo da tutti gli altri animali — è uno dei temi più importanti affrontati dalla psicologia di William James.

Il nostro autore è a questo riguardo chiarissimo: Al contrario [di quanto si è soliti pensare] l’uomo possiede tutti gli impulsi che essi [gli animali] hanno, e molti altri ancora per giunta. In altre parole, non esiste un antagonismo materiale fra istinto e ragione. La ragione, per sé, non può inibire alcun impulso; la sola cosa che può inibire un impulso è un impulso contrario. La ragione può però determinare un’inferenza, la quale ecciterà l’immaginazione a liberare l’impulso contrario; e così, sebbene l’animale più ricco di ragione possa essere pure l’animale più ricco di impulsi istintivi, esso non sembrerebbe mai quell’automa che apparirebbe un animale provvisto semplicemente di istinti148. Non solo poi gli istinti non devono ritenersi opposti alla ragione; essi sono la base sulla quale l’uomo ha costruito il proprio comportamento volontario; proprio per questo non si capiscono alcune critiche

James era certamente interessato alle varie teorie dell’evoluzione degli istinti — quella lamarckiana e quella darwiniana prime fra tutte — , ma, nonostante questo interesse e nonostante il fatto che lo studio dell’evoluzione degli istinti fosse il tema principale del tempo, James spostò il tema dalla questione dell’evoluzione, potremmo dire della filogenesi, a quella dello sviluppo all’interno all’individuo, potremmo dire dell’ontogenesi, una distinzione che al tempo, come oggi, spesso rimane confusa. Che James fosse più interessato all’aspetto ontogenetico dell’evoluzione degli istinti — e quindi del rapporto tra atti istintivi e volontari, tra istinti e abitudine, etc — è anche dimostrato dal fatto ch’egli parla dell’origine e dell’evoluzione degli istinti al già citato ultimo capitolo dei Principles, dove sembra volere fare i conti definitivamente con il lamarckismo e abbracciare definitivamente, soprattutto dopo che Weismann sembrava avere tolto per sempre credibilità a ogni teoria che facesse della trasmissibilità dei caratteri la propria base interpretativa di ogni fenomeno, la teoria darwiniana della selezione naturale. 146

l’uomo non è privo di queste reazioni impulsive, egli anzi ne abbonda. P. K. Dooley, op. cit., p. 54. James, anzi, fu forse troppo sbrigativo nel classificare come istintivi tutta una serie di comportamenti umani eterogenei fra loro. Alcuni atti infatti, come la simpatia, il risentimento, la vergogna sembrano difficilmente essere assimilabili all’azione riflessa! In proposito Cfr. D. A. Dewsbury, James and Instinct Theory, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 273. A proposito dell’elenco degli istinti stilato da James nei Principles interessa notare che la prima metà della lista contiene le osservazioni di James sul comportamento dei propri figli; esse sono simili ai resoconti forniti da Darwin sulla psicogenesi dei suoi figli. P. Wiener, op cit., p. 112. Com’è evidente da questa stretta analogia — e anche da molte altre che emergono nel suo opus magnum — James ammirava tanto Darwin da seguirlo anche ben oltre le linee generali del suo pensiero e la sua conoscenza dello scienziato inglese è sempre di prima mano. 147

148

PP, p. 1013.

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rivolte all’analisi jamesiana di questo tema. Donald Dewsbury pur apprezzando l’interesse dimostrato da James per il tema degli istinti (soprattutto nell’uomo) si rammarica del fatto che lo psicologo americano non abbia fatto “il passo successivo” di vedere il comportamento dell’uomo adulto come guidato dagli istinti. James avrebbe dunque lasciato agli istinti il ruolo di “base” della sua psicologia enfatizzando invece temi come quello della volontà e del sé149. Una critica alquanto singolare dato che James non dichiarò mai di volere spiegare tutto il comportamento umano in base agli istinti, o di volere scrivere un’opera al cui centro stesse il funzionamento e l’evoluzione degli istinti umani. Potremmo dire che l’istinto rappresenta per James una sorta di scala su cui salire per giungere alle vette del comportamento umano, quello volontario, una scala che però James non ebbe mai intenzione di buttare. Come si lega dunque l’azione istintiva, che effettivamente è un esempio di azione riflessa, all’azione volontaria? Per rispondere a questa domanda è bene prendere in considerazione soprattutto quanto dice James a proposito del movimento; in questo caso la semplicità dell’azione sarà la migliore garanzia per non fare confusione nel tentativo di spiegarne il funzionamento; che cosa accade quando muoviamo un braccio volontariamente? Quali sono i presupposti fisiologici e psicologici perché un movimento apparentemente così semplice possa avere luogo? Abbiamo poco sopra definito l’atto volontario — qui parleremo di movimento volontario — come quell’azione in cui un’idea della stessa ne precede l’esecuzione; fin qui James non dice niente di speciale e difficilmente qualcuno avrebbe da obiettare su una simile definizione; ma l’idea dell’azione da compiersi non è il solo presupposto di un movimento volontario: Nessun atto può essere volontario la prima volta che viene eseguito. Fino a quando non lo sia abbia compiuto almeno una volta, noi non possiamo avere idea di che cosa si tratti, e non possiamo quindi sapere in che direzione dobbiamo disporre la nostra volontà perché quell’atto si dia. Non si può volere nel vuoto. Molti fra noi non hanno mai mosso le

149 Cfr. D. A. Dewsbury, James and Instinct Theory, in M. E. Donnelly, Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 277 e sgg. Lo stesso Dewsbury poi, in un altro brano, sembra quasi sminuire ulteriormente il ruolo che lo studio sugli istinti ebbe in James, attribuendo gran parte del suo interesse per l’argomento a una sorta di obbligo che un “erudito” — nella scienza psicologica — come James avrebbe dovuto senz’altro adempiere; come abbiamo già detto, James, per quanto veramente un erudito, fu sempre uno psicologo e un filosofo incapace di studiare un argomento o di approfondire delle ricerche con una finalità meramente compilativa, anche nelle primissime recensioni anonime che ebbe a pubblicare: La necessità [sentita da James] di stabilire una psicologia della coscienza e della volontà su una fondazione degli istinti era stimolato dagli sviluppi contemporanei nei campi di cui si occupava. Nella sua Zoonomia, Erasmus Darwin aveva cercato di spiegare come i modelli istintivi fossero dovuti all’apprendimento infantile, sostenendo così il ruolo della volizione come opposto a quello dell’istinto. James, comunque, scriveva dopo la pubblicazione delle opere di Charles Darwin, T. H. Huxley, A. R. Wallace, G. J. Romanes, Herbert Spencer, G. H. Schneider e Douglas Alexander Spalding ed era stato stimolato da questi e simili autori. [...] C’era una gran quantità di articoli [sull’istinto] nelle riviste e nei giornali del tempo. Il problema dell’istinto non poteva essere lasciato fuori dagli interessi da un uomo di erudizione come William James. Esso spiccava negli scritti del tempo. Ivi, p. 265.

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proprie orecchie; nessuno di noi ha fermato il proprio cuore. Se noi sapessimo da dove cominciare potremmo disporci a imparare questi movimenti. Ma noi non sappiamo da dove cominciare, o che tipo di sforzo dobbiamo compiere. Sarebbe come chiedere a qualcuno di dire una qualsivoglia frase in lingua etiope. [...] abbiamo bisogno di un’idea più precisa di quel che dobbiamo fare. Ora, che cosa costituisce l’idea definita di un movimento? [...] la nostra idea di movimento è la nostra immagine del modo in cui noi sentiremmo una volta completato il movimento150. Ma se non possiamo muovere un solo braccio volontariamente senza avere in mente l’idea di come ci sentiamo quando lo muoviamo e allo stesso tempo non possiamo avere l’idea senza aver prima mosso il braccio, sembra che ci si sia messi in un terribile circolo vizioso. Ma non è così; semplicemente, la prima volta che muoviamo il braccio, dobbiamo farlo involontariamente151. Ecco il primo e imprescindibile legame tra azioni volontarie e azioni involontarie: Appare così che l’attività volontaria deve essere considerata sempre di tipo secondario e mai primario152. È evidente a questo punto che la memoria153 giuoca un ruolo fondamentale anche in un campo che le sembrerebbe almeno in parte estraneo: una creatura senza memoria non può avere volontà, non può cioè compiere atti volontari154; può certo compiere moltissimi movimenti, anche complessi, ma si tratterà sempre di

150

W. James, What the Will Effects, in EPS, p. 218.

Per quanto a molti potrà sembrare un’inutile precisazione, vale la pena di ricordare che James non intende dire che ogni azione volontaria deve essere preceduta da una involontaria; James stesso fa l’esempio dell’assassinio; non è vero che ogni assassino deve prima avere ucciso involontariamente per poi poterlo fare volontariamente; un assassinio infatti è un’azione complessa formata da molte azioni semplici: il camminare, il brandire la spada etc: è solo in riferimento ai movimenti, cioè alle azioni elementari, che la teoria jamesiana deve riferirsi. Cfr. Ivi, p. 219, n. 1. 151

152 Ivi, p. 219. Similmente James si esprime nei Principles, all’inizio del capitolo dedicato alla Volontà: I movimenti che ci apprestiamo ora a studiare, essendo desiderati e voluti prima, sono fatti, naturalmente, con la piena intelligenza di ciò che saranno. Ne consegue che i movimenti volontari debbono essere funzioni secondarie, non primitive, del nostro organismo. PP, p. 1099. 153 Scrive James nei Principles: Quando un movimento particolare, essendo accaduto una volta in maniera casuale, riflessa o involontaria, ha lasciato nella memoria un’immagine di sé, allora il movimento può essere nuovamente desiderato, può essere proposto come un fine ed essere così voluto deliberatamente. Ma è impossibile vedere come avrebbe potuto essere voluto prima.. Una proposta di idee dei vari movimenti possibili formatisi nella memoria, per l’esperienza fatta compiendoli involontariamente, è perciò il primo requisito della vita volontaria. PP, pp. 1099-1100. Ancora una volta James non perde occasione di sottolineare l’universalità del principio della selezione: Questa miscela singolare di ricordi e dimenticanze non è che un esempio dell’attività selettiva della nostra mente. La selezione è la vera chiave di volta su cui si basa tutto il nostro edificio mentale. E nel caso della memoria, la sua utilità è fuor di dubbio. Ivi, p. 640. La necessità dell’assenza di volontarietà di un movimento prima della sua esecuzione consapevole potrebbe a buon diritto essere considerata una limitazione nella nostra capacità di compiere azioni volontarie; James era il primo a rendersi conto di questa “limitazione”, ma ancora più consapevole egli era del fatto che i Principles — e anche le opere future sull’argomento — non avrebbero dovuto trovare prove per un’idea di libertà precostituita, ma capire, se veramente libero, di quale libertà possa disporre l’uomo.

[...] gli atti volontari, consapevoli dei fini e delle conseguenze, sono costruiti su atti involontari; gli atti involontari ci forniscono di quella varietà di azioni che verranno poi ricordate e richiamate nel nostro comportamento volontario. D. S. Browning, op. cit., p. 137. È evidente però che anche gli atti volontari, anzi, soprattutto gli atti volontari precedentemente compiuti — e la conoscenza dei loro effetti — costituiscono la base delle future deliberazioni; in questa maniera si crea dunque un circolo virtuoso: l’uomo, giorno dopo giorno, ha la possibilità di costruirsi un patrimonio di esperienze (costituito dalle sue deliberazioni e dagli effetti cui queste hanno portato) cui potrà fare appello una volta che si trovi in una situazione di indecisione; come vedremo verso la fine di questa parte, si tratta dunque per James di un effettivo accrescimento della nostra possibilità di essere liberi; ovviamente il determinista guarda alla medesima situazione in un modo radicalmente opposto per cui il passato rappresenta il maggior vincolo nei confronti del futuro: se un uomo ha agito in una determinata maniera più volte in passato, egli 206 sarà portato (determinato) ad agire analogamente in futuro (date circostanze simili). 154


movimenti istintivi, risposte predeterminate a stimoli dati, che sono stati selezionati insieme con la specie stessa, ma che non possono diventare, nella memoria, riserva preziosa cui attingere nei momenti in cui ci si presentino situazioni inaspettate. È evidente che ogni atto istintivo, in un animale dotato di memoria, deve cessare di essere “cieco”, una volta che sia stato ripetuto, e deve essere accompagnato dalla previsione del suo “fine”, almeno per quanto l’animale può avere avuto conoscenza di esso155. Gli istinti sono dunque ciechi, negli organismo dotati di autocoscienza e di memoria, soltanto al loro primo apparire: è ovvio che ogni atto istintivo, in un animale dotato di memoria, deve cessare di essere “cieco” una volta che venga ripetuto e poiché gli istinti si definiscono come esistenti in centri nervosi fisiologicamente definiti, James pensava che fossero suscettibili d’inibizione, proprio come lo sono gli archi riflessi.

Prima che un’idea possa essere generata, dev’essere accaduto il movimento in una maniera cieca, inaspettata, lasciando dietro di sé l’idea di se stesso; in altre parole, l’esecuzione volontaria del movimento dev’essere preceduta dall’esecuzione riflessa istintiva o accidentale, del movimento stesso156. Ma non solo il movimento involontario deve necessariamente precedere quello volontario: quest’ultimo è possibile — nella sua ripetizione di ciò ch’era precedentemente accaduto in una maniera istintiva e riflessa — solo qualora ci si soffermi (e qui emerge di nuovo l’importanza della facoltà dell’attenzione) sull’idea del movimento stesso e, più specificatamente, sull’idea delle conseguenze sensoriali che quell’atto compiuto in maniera originalmente involontaria ha portato con sé.

Non è certamente mancato chi, anche recentemente, ha posto seriamente in dubbio questa teoria del movimento volontario, una teoria che, com’è evidente, si basa sull’introspezione piuttosto che su esperimenti di laboratorio; scrive Ayer: 155

PP, pp. 1010-1011.

156 Ivi, p. 1183. A questo proposito cfr. anche ivi, p. 113, n. 4. Interessa notare che in James l’instabilità fisiologica del cervello — che è fondamentale per la ‘dimostrazione’ dell’efficacia della coscienza — era anche responsabile della sua frenetica attività motoria inizialmente esclusivamente involontaria e questo permetteva al nostro autore di introdurre il movimento riflesso come base di quello volontario senza dovere venire a patti con teorie psicologiche pre-scientifiche come quella di Erasmus Darwin, che rifacendosi alla psicologia sensazionalistica di Albrecht von Aller riteneva che i primi tipi di movimento animale fossero una contrazione delle fibre dei muscoli e degli organi di senso, convinto che questa reazione fosse prodotta da una sorta di spirito di animazione, una sottile sostanza materiale che fluisce attraverso i nervi e il cervello per raggiungere infine le fibre dei muscoli e degli organi. R. J. Richards, op. cit., pp. 31-32.

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Io ho il sospetto comunque, che egli presuma che ogni atto volontario deve essere preceduto da una vaga anticipazione, e questo è sicuramente un errore. Se l’azione è volontaria c’è senza dubbio un senso in cui si è portati a sapere che cosa si va a fare, ma questo sapere che cosa si sta facendo non consiste sicuramente in una “anteprima” mentale delle sensazioni che ci si aspetta accadano. Certamente la mia introspezione nega la presenza di anticipazioni di tal fatta. Può darsi che non ci abbia fatta la giusta attenzione, ma sono piuttosto propenso a ritenere che questo sia uno dei rari casi in cui la stima di James dell’evidenza empirica sia viziata all’interno da una teoria scorretta157. Posto dunque che perché un movimento possa essere compiuto volontariamente esso debba essere preceduto dall’idea del movimento stesso, o meglio dall’idea del feeling risultante dal movimento stesso; che cosa manca perché il movimento si compia effettivamente? Qual è la molla, quella “spinta” che fa sì che un’azione si traduca in realtà? La risposta di James è: niente. Tutto quanto detto finora è sufficiente per spiegare la fisiologia del movimento volontario; Ora vi è o non vi è qualche cosa d’altro nella memoria quando vogliamo compiere un atto? In questo capitolo [il XXIV, sull’istinto] dobbiamo procedere dal semplice al complesso. La mia prima tesi è dunque questa, che non è necessario che vi sia niente altro, e che negli atti volontari perfettamente semplici non vi è altro, nella mente, all’infuori dell’idea cinestetica, così definita, di ciò che l’atto sarà per essere158.

157

J. Ayer, op. cit., p. 204.

158

PP, p. 1014.

208


3.1.8 Il movimento come pre-visione: la teoria ideo-motoria Questo ci introduce a quella che James stesso definiva teoria ideo-motoria: l’unica causa per l’esecuzione di un movimento è l’idea delle sensazioni conseguenti all’esecuzione del movimento; questo sembrerebbe essere smentito dall’esperienza quotidiana di ciascuno: quante volte una nostra idea, un’idea di movimento, non si traduce in atto? Quante volte abbiamo pensato, avuto l’idea di afferrare un oggetto dalla nostra tasca e poi abbiamo rinunciato? Una critica del genere è giusta finché non si specifichi meglio la teoria testé esposta; potremmo allora dire che l’idea sfocia immediatamente nel movimento a condizione che la mente sia priva di altre idee che si oppongono (negli effetti) a quell’idea. James, nei Principles159, ha reso famoso l’esempio dell’uomo che, in una fredda mattinata d’inverno, deve alzarsi dal letto per cominciare la propria giornata di lavoro; è un esempio molto noto e che rimane in mente sia per la sua chiarezza sia per il fatto che ognuno, almeno una volta nella propria vita, si è trovato in una situazione del genere160.

Un uomo si deve alzare dal letto per andare a lavorare: alla sua mente si affacciano immediatamente due ordini di idee: il primo riguarda i doveri che si devono compiere nella giornata, fare questo e quest’altro, incontrare Tizio e Caio etc; a questo si oppone quello delle condizioni della stanza: il pavimento gelido, l’aria fredda, la previsione dei brividi del corpo opposta al tepore delle coperte; si può rimanere in una tale situazione d’indecisione anche per un’ora e più; a un certo punto l’uomo si alza: che cosa è accaduto, si chiede James, nella mente di quest’uomo? Com’è accaduto che di colpo ha tratto le coperte ed è sceso risoluto dal letto? L’uomo si trovava in una situazione di indecisione; quest’indecisione era causata dal conflitto delle diverse idee, o gruppi di idee, che si affacciavano alla sua mente; quando un’idea o un gruppo di idee è prevalso sulle altre allora la situazione si è sbloccata e l’idea di alzarsi per andare a lavorare, non più ostacolta, o ostacolata debolmente, dalle idee antagoniste ha immediatamente — cioè senza l’aggiunta di alcuna “facoltà” ,di alcuna volontà — dato il via al movimento.

L’esempio si trova nei Principles, nel capitolo XXVI (intitolato The Will) alle pp. 1132-33, in What the Will Effects, in EPS, alle pp. 220-221 e in The Feeling of Effort¸ in CER a p. 184. Purtroppo James, in questo caso come in altri, rischia di ingenerare confusione nel lettore utilizzando una medesima similitudine o analogia per rappresentare due situazioni differenti: in una nota (al capitolo sulla volontà) dei Principles infatti, egli scrive: Ci sono dei casi in cui il fiat [dell’azione volontaria] richiede un grande sforzo della volontà , come quando si deve uscire dal letto in una fredda mattinata. PP, n. 63 a p. 1167. Come vedremo fra breve questo esempio sarebbe riferibile a quella che chiameremo la volition of effort e non alla volition of consent (di cui parleremo immediatamente). 159

160 Questa è un’ennesima testimonianza della capacità di James di avvicinare il lettore ad argomenti di una certa complessità con l’utilizzo di esempi che potremmo definire “universali”. Sullo ‘stile’ jamesiano cfr. infra, cap. 4.1, § 5.

209


Quest’esempio, per quanto bello, lascia però al lettore molti dubbi: cosa vuol dire che, a un certo punto, prevale un gruppo di idee sulle altre? Si tratta forse di una casualità161? Se escludiamo la casualità, che cosa regola il prevalere di certe idee su altre? È tutta qui la differenza fra un atto volontario e un atto istintivo? Come accade che la semplice idea possa “trasmettersi” in un movimento? Quel che possiamo dire fin da subito è questo: l’esempio succitato non descrive ogni possibile azione volontaria, ma soltanto un tipo: James parla a proposito di volition of consent: ci siamo enormemente avvicinati all’azione volontaria che più ci interessa — quella dove all’uomo non accade di vedere prevalere nella propria mente un’idea su un’altra, ma sceglie, sforzandosi, quale idea seguire — ; con l’esempio dell’uomo che, a un dato momento, senza sapere come, si alza risolutamente dal letto e comincia la propria giornata, ci troviamo di fronte a un acconsentire, da parte della nostra coscienza a un’idea piuttosto che a un’altra; nessuno sarebbe disposto a dire che l’alzarsi dal letto sia un’azione istintiva come lo è il levare la mano dal fuoco o il chiudere gli occhi quando un oggetto sta per colpirci, ma considerare la maggior parte delle azioni che compiamo nell’arco di una giornata il frutto di deliberazioni — azioni volontarie dove ci sentiamo totalmente padroni dell’immagine che finalmente si fissa alla nostra attenzione determinando i movimenti conseguenti — sarebbe per James un grande errore.

Browning, in riferimento all’episodio dell’uomo che deve decidersi di alzarsi dal letto, sottolinea la complessità e allo stesso tempo la “sdrammatizzazione” del giudizio sulla volontarietà o meno di un atto: La descrizione fenomenologica [i. e. introspettiva] delle nostre azioni suggerisce l’ipotesi che la volontà sia strettamente legata ai nostri interessi soggettivi e alle nostre passioni. Il concetto Jamesiano di volontà non è ristretto alle “deliberate volizioni”. [...] la volontà si nutre dei nostri istinti, di abiti acquisiti, della pressione esercitata dalla società e di emozioni162. Lo stesso James chiarisce che l’uomo — come del resto appare evidente a chiunque — non si trova, a ogni piè sospinto, di fronte alla domanda: “Che fare?”; Una situazione del genere sarebbe patologica e senza dubbio James non si era dimenticato dei mesi passati a pensare a che fare della propria vita, a quali sono le effettive possibilità di autodeterminazione dell’uomo, al suo futuro affettivo etcxii. Di fatto,

Evidentemente no perché altrimenti dovremmo statisticamente alzarci una volta e una volta rimanere a letto, mentre non è così. 161

162

D. S., Browning, op. cit., pp. 135-136.

210


in una giornata “normale” di una persona “normale163”, accade poche volte che la nostra volontà sia veramente messa a dura prova; essere liberi di scegliere non significa perciò essere obbligati a scegliere continuamente:

Non c’è alcuna decisione espressa, non c’è alcun fiat [...] in tutti quegli atti abituali che occupano tutte le ore della nostra giornata, e che sono eccitati così immediatamente dalle sensazioni centripete, che è spesso difficile decidere se sia più opportuno chiamarli atti riflessi anziché volontari164. Tornando alle azioni più elementari, la maggior parte dei movimenti che compiamo in una giornata non sono certo azioni che potremmo definire, con James, “energetiche”, o “positive”: Consenso, in breve, è la parola che descrive la maggior della nostra attività, più che volizione. La volizione implica qualcosa di positivo, di energetico, simile allo sforzo. Il consenso è passivo e tre quarti della nostra condotta quotidiana consiste nel lasciare che le idee e gli impulsi facciano la loro strada. [...] penso che ogni uomo sia testimone della verità di quanto affermo165. Per rispondere alla domanda sul “che cosa” determini il prevalere di determinate idee su altre, è ancora utile tornare al summenzionato esempio dell’uomo che non si decide a scendere dal letto: Che cosa lo fece rimanere tanto tra le coperte? James risponde chiaramente: Era la coscienza acuta del tepore e del freddo durante il periodo della lotta ciò che paralizzava la nostra attività, e che manteneva la nostra idea di alzarci nella condizione di desiderio [wish] e non di volontà [will]. Nel momento in cui erano cessate queste idee inibitrici, l’idea originaria aveva manifestato i suoi effetti166. E che cosa fece decidere l’uomo ad alzarsi? probabilmente la previsione dei problemi, delle difficoltà, potremmo anche dire delle sofferenze, che sarebbero derivate da un’eccessiva permanenza a letto.

163 Come vedremo ancora meglio nella prossima parte della nostra tesi, James si servì sovente dell’idea di ‘normalità’ — spesso, come abbiamo visto — affiancandole l’analisi dell’eccezione, come nel caso del ragionamento spiegato attraverso il genio — per condurre i propri studi e per spiegare le proprie teorie. In questo capitolo non interessa qui muovere alcuna critica a questa posizione, che è del resto condivisa a ragione da tutta la psicologia scientifica, ma è ben anticipare che, forse troppo ingenuamente, James riproporrà una medesima ‘normalizzazione’ dell’uomo anche nei suoi scritti più squisitamente filosofici, rischiando spesso di estendere a ogni uomo le caratteristiche proprie o della propria classe sociale rischiando di incorrere così in quella ; per parafrasare una consueta formula utilizzata in campo psicologico dallo stesso James, potremmo dire che egli, trasferendo i propri strumenti conoscitivi e la propria metodologia dalla psicologia alla filosofia, cade nella “fallacia filosofica” dopo avere per anni cercato di sfuggire a quella psicologica. 164

PP, p. 1131.

165

Ibidem.

166

PP, p. 1133.

211


Da quanto detto sinora sembrerebbe che James ci mostri l’immagine di un Uomo tutt’altro che libero: in balìa della proprie idee che si selezionerebbero autonomamente in base al minore o maggiore piacere previsto in base alla loro esecuzione. Bisogna però ricordare che questi atti che abbiamo definito volontari, per quanto numerosi — James, come abbiamo visto, azzarda una proporzione di ¾ sul totale dei nostri atti — non sono di certo gli unici possibili e la possibilità di una volontà veramente libera sta proprio nel rimanente quarto, quelli che James definisce di volition of effort, dove, come vedremo, è la coscienza, per il tramite dell’attenzione volontaria, a selezionare, consapevolmente, le idee che debbono tradursi in realtà. Per quanto riguarda poi il supposto edonismo degli atti di “consenso”, James non lascia dubbi: anche da un punto di vista schiettamente psicologico è assolutamente falso che gli unici motivi che possano spingere un uomo ad agire siano quelli di piacere e di dispiacere:

I nostri primi atti, di qualsiasi sorta, sono ciechi, eseguiti per nessun motivo propriamente detto, ma fatalmente stimolati dalle sensazioni dovute a determinate cose esterne o a stati interni. I nostri atti successivi [che sono quelli della “volition of consent” che abbiamo appena analizzato] sono determinati dalle idee o dalle rappresentazioni di cose e situazioni. I nostri ultimi atti (come possiamo vedere nell’uomo profondamente colto) sono il frutto di idee di qualche bene astratto, possa essere il bene del piacere, o di qualcosa che possa escludere il piacere, come viene spesso sentito il “dovere”167. Si potrebbe pensare che James attribuisca la possibilità di evadere dalla necessità di agire in vista del raggiungimento del piacere ai soli atti volontari che presuppongono uno sforzo morale, gli atti in cui l’uomo compie — faticosamente — il proprio dovere, ma non è così: anche gli atti puramente istintivi e quelli di “consenso” solo raramente sono eseguiti per la ricerca di un qualche piacere; è vero che rimane difficile, forse impossibile, capire se un atto è sentito come piacevole pur essendo stato ricercato per altri motivi, oppure se esso è stato ricercato perché piacevole, ma quando l’atto stesso non è né piacevole né spiacevole? James, ancora una volta, mostra come la maggior parte delle infinite logomachie filosofiche o psicologiche sono possibili solo in virtù della condivisione di un medesimo pregiudizio: nel caso specifico il pregiudizio è che un’azione debba essere o piacevole o spiacevole, tertium non datur168; al contrario, per James, non solo è possibile che si diano azioni “neutre”; queste rappresentano

167

W. James, What the Will Effects, in EPS, p. 224.

168 Il fatto che spesso l’uomo ripeta un medesimo atto per il piacere ch’esso provoca (fino a quando il piacere non cessa o si trasforma addirittura in dolore) ha fatto credere a molti che gli unici stimoli per l’azione siano di tipo edonistico: [...] una filosofia prematura ha deciso che questi [i piaceri] siano gli unici stimoli all’azione e che, anche quando essi paiono essere assenti, è solo perché si trovano troppo nascosti e non vengono perciò riconosciuti. PP, p. 1156. Questo rappresenta un tipico caso, per James, di universalizzazione ed estensione indebita di un fenomeno ch’è invece limitato. L’unico modo per opporsi a una psicologia edonistica è quello di rimanere quanto più possibile aderenti alla nostra esperienza interiore, in caso contrario è evidente che ogni teoria può divenire infalsificabile. C’è poi un fatto da considerare, e cioè che, per quanto sia riconoscibile il ruolo che piacere e dolore giocano nella vita psichica dell’individuo, non è altrettanto facile comprenderne il meccanismo 212 sottostante: [...] dobbiamo confessare che non si sa assolutamente nulla delle sue condizioni. Ivi, p. 1185.


la maggior parte delle azioni che compiamo senza alcuna consapevolezza; dall’atto di vestirsi, di farsi la barba, di camminare, di respirare e così via: Chi pretenderà che quando uno giocherella col coltello, a tavola, lo fa in vista di qualche piacere che può derivarne, o per il dolore che così facendo può evitare? Noi facciamo tutte queste cose perché in quel momento non possiamo farne a meno; i nostri sistemi nervosi sono organizzati in modo da traboccare proprio in quella maniera; e per molti degli atti inutili e puramente “nervosi” che facciamo non è affatto possibile trovare alcuna ragione169. Qui emerge nuovamente il lato fisiologico della psicologia jamesiana: è evidente infatti che in una psicologia che non si interessi di scariche nervose, di equilibrio cerebrale etc., non avrebbe alcun senso parlare di azioni che siano puramente “nervose”170; in James è invece presente l’idea del sistema nervoso, dell’uomo come degli animali, come di un complesso fisico-chimico estremamente

169

Ivi, p. 1158.

170 E, ovviamente, anche nelle azioni che non sono nemmeno comprensibili se non analizzate anche nella loro componente mentale, esiste sempre un corrispettivo fisiologico, potremmo dire anche cerebrale, che se non determina la rispettiva situazione mentale, certamente la rende possibile: l’instabilità nervosa degli emisferi superiori di animali come l’uomo è, come abbiamo visto, una condizione necessaria perché si dia la possibilità di scegliere in maniera non predeterminata — vedremo fra breve poi come questo è per James scientificamente spiegabile — , e anche ogni situazione mentale particolare, come uno stato di dubbio o di indecisione, ha un suo corrispettivo fisiologico: Sembra che la sensazione, risvegliata dall’eccitamento nascente di ogni singolo tratto nervoso, stabilisca, secondo il proprio carattere attrattivo o repulsivo, se l’eccitamento debba sperdersi o debba venire completo. Quando l’indecisione è grande, come prima di un salto pericoloso, la coscienza si trova in uno stato di intensa perplessità. Ivi, p. 145. D’altronde James, sin dall’inizio dei Principles, non aveva fatto mistero del suo interesse per l’aspetto fisiologico che si accompagna a ogni stato mentale: Sarà opportuno stabilire la legge generale, che non si può mai avere una modificazione mentale che non sia accompagnata o seguita da modificazioni somatiche. Ivi, p. 18; e ancora: La coscienza, che è essa pure una cosa integrale, non fatta di parti, “corrisponde” all’intera attività del cervello qualunque ne siano in quel momento le modalità Ivi, p. 177; al proposito cfr. anche ivi, p. 227. Non bisogna però dimenticare la profonda differenza tra la posizione di James e quella degli automatisti, differenza che sembra perdersi nel brano testé riportato; giova dunque ricordare che per la teoria automatistica: Per quanto una serie di idee sia abbondante e minutamente differenziata, la serie dei mutamenti cerebrali che le corrisponde sarà esattamente[...] il correlativo preciso di essa. Ivi, p. 132. È proprio in questo avverbio, ‘esattamente’, che si racchiude tutta la differenza fra chi, come James, riconosce il legame vitale tra mente e cervello e che invece, come Huxley, non dà al primo alcuna autonomia e non contempla alcuna relazione mente-cervello che non sia quella fatta di un esatto parallelismo; James sottolineerà più volte la differenza fra la sua teoria e quella di chi voglia ridurre la mente alla sua origine cerebrale: Ma una cosa è indicare la presenza di contrazioni muscolari come concomitanti costanti dei nostri pensieri, e altra cosa è l’affermare, come fa il Lange, che il pensiero è reso possibile soltanto dalla contrazione muscolare. Ivi, p. 421. Certo, rimane il fatto che, proprio per la supposta neutralità metafisica che dovevano avere, i Principles lasciano il lettore profondamente insoddisfatto intorno alla qualità del legame che si dà tra mente e cervello; James, in maniera abbastanza disarmante, riconosce chiaramente questo problema dandogli però un peso limitato: L’unico punto oscuro che seguita a turbare il nostro animo è quello metafisico, di non riuscire a comprendere come mai una specie di mondo o di cosa possa toccarne o influenzarne un’altra. Però, siccome questo punto oscuro si pone anche entro ciascuno dei due mondi e non coinvolge né una improbabilità fisica, né una contraddizione logica, essa è relativamente tenue. Confesso quindi che a mio credere l’ammettere un’anima la quale sia influenzata in qualche maniera misteriosa dagli stati cerebrali e risponde a questi per mezzo di modificazioni coscienti sue proprie, è la linea di minor resistenza, per quello che possiamo dire fino ad ora. Ivi, pp. 181-182. Le relazioni fra una mente e il suo cervello sono di un’unica specie, misteriosissima.. Ivi, p. 212. E ancora: La natura e le cause nascoste delle idee non saranno svelate mai, fintanto che non si conosca il nesso che lega il cervello e la coscienza., Ivi, p. 656.

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complicato171 e costantemente bisognoso di trovare un equilibrio dinamico; azioni apparentemente inspiegabili da un punto di vista psicologico classico possono dunque essere il sintomo di una ricerca, inconsapevole, dell’equilibrio nervoso momentaneamente perso.

Ritorneremo sulla questione del presunto utilitarismo o edonismo di James dopo aver affrontato il tema delle azioni che implicano una volition of effort; possiamo fin d’ora anticipare che James combatté per tutta la vita contro chi voleva leggere la sua filosofia come una difesa dell’egoismo personale e la maggior parte delle critiche in questo senso furono rivolte non tanto ai Principles, opera che sfugge quanto più possibile le questioni morali (senza peraltro riuscirvi), quanto agli scritti successivi, dedicati esplicitamente alla formulazione di una coerente visione filosofica dell’uomo.

Prima di affrontare l’ultima parte del discorso jamesiano sulla volontà, quella dove trova spazio la possibilità di un’azione libera e autonoma, conviene però chiarire meglio il pensiero di James su quella che abbiamo chiamato l’azione ideo-motoria: questa infatti appartiene sia alle azioni di “consenso” che di “sforzo”, sebbene nel secondo caso sia presente un’attività e una consapevolezza della coscienza assente nelle prime.

Prima di tutto bisogna ricordare che James, nell’adottare la teoria dell’azione ideo-motoria non pretendeva nessuna originalità; egli aveva infatti potuto conoscere questa dottrina in Lotze172 prima del 1870 e poi ancora in Renouvier. Anche Alexander Bain, come ricorda lo psicologo americano in The Feeling of Effort173, aveva trattato ampiamente questo argomento nel suo Senses and Intellect sebbene in una

Per quanto riguarda però la natura delle reazioni chimiche che sono essenziali all’attività del cervello, James, come farà anche in altre occasioni, riconosce l’attuale ignoranza della scienza in proposito e differisce la soluzione di questo problema a un futuro poco definito e alquanto improbabile: L’attività cerebrale deve essere certo accompagnata da azioni chimiche, ma la natura esatta di queste è poco definita. PP, p. 106. 171

Non possiamo qui approfondire il legame, certamente degno di interesse, di James con Lotze; al proposito rinviamo ai saggi di O. F. Kraushaar: Lotze as a Factor in the Development of James’s Radical Empiricism and Pluralism, “Philosophical Review”, 48 (1939), pp. 455-471. Id., Lotze’s Influence on the Pragmatism and Practical Philosophy of William James, “Journal of the History of Ideas”, 1 (1940), pp. 439-458. Id., Lotze’s Influence on the Psychology of William James, “Psychological Review”, 43 (1936), pp. 235-257. Id., What James’s Orientation Owed to Lotze, “Philosophical Review”, 47 (1938), pp. 517-526. 172

173 CER, p. 183, n. 1. Anche Richards ricorda la pluralità di influssi che spinsero James ad abbracciare la teoria ideomotoria: nel suo saggio sulla psicologia della volontà, The Feeling of Effort (1880), che diverrà la base per il ventiseiesimo capitolo dei Principles of Psychology, egli avanzò la sua ipotesi ‘ideo-motoria’, parti della quali aveva preso da Lotze, Carpenter, Renouvier Darwin e dalle sue personali esperienze in Germania. R, J. Richards, op. cit., p. 437. Per una lucida e approfondita discussione dell’ipotesi ideo-motoria nella teoria di Carpenter cfr. Kurt Danzinger, “Mid-Nineteenth Century British Psycho-Physiology”, in The Problematic Science; Psychology in Nineteenth-Century Thought, a cura di William Woodward e Mitchell Ash, Praeger, New York 1982, pp. 119-146.

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prospettiva diversa. In What the Will Effects174 James cita anche Carpenter175 come suo precursore, anche se nel caso di quest’ultimo le azioni ideo-motorie erano considerate una curiosità, mentre per James rappresentano la regola: Secondo questa dottrina, un’idea, una volta che sia in completo possesso della mente, si traduce essa stessa in azione176.

Possiamo quindi stabilire come certo che, vi sia o no qualche cosa d’altro nella mente al momento in cui noi vogliamo coscientemente un certo atto, vi dev’essere certamente una concezione mentale, fatta delle immagini mnemoniche di queste sensazioni, che ci indichino di che atto si tratta.177. Potremmo in breve dire che, secondo questa teoria, l’idea di un’azione, posto che non sia contrastata da idee di azioni opposte, è l’unica cosa che serve perché l’azione si dia. In sostanza, non è necessaria alcuna “forza” che spinga l’idea a tradursi in azione178; non è necessario che l’uomo abbia in mente che cosa fare e poi decida che sì, si può dare il via all’azione; secondo James, quest’ultima teoria, che in qualche modo possiamo dire appartenere al senso comune tanto difeso più volte dallo stesso psicologo americano, è colpevole di introdurre, senza alcuna giustificazione, ma soprattutto senza alcun bisogno, un tertium quid che dovrebbe fungere da tramite tra l’idea e l’esecuzione della stessa179: Se io voglio scrivere Pietro anziché Paolo, è il pensiero di certe sensazioni digitali, di certi segni sulla carta e niente altro, ciò che precede immediatamente il movimento della mia penna.[...] Tutte queste sono sensazioni afferenti, e fra il pensiero di esse, per mezzo del

174

W. James, What the Will Effects, in EPS, p. 220.

175 Scrive Richards al proposito: Carpenter sviluppò una concezione che, con le debite modificazioni, avrebbe fornito la base della teoria dell’evoluzione mentale di Spencer (come di James e di Baldwin). Si trattava dell’ipotesi ideo-motoria. Secondo Carpenter, quando la volontà è sospesa, l’idea più forte, quella dominante, che rimane nella mente provoca automaticamente l’azione corrispondente. R. J. Richards, op. cit, p. 284. Per una lucida e approfondita discussione dell’ipotesi ideo-motoria nella teoria di Carpenter cfr. Kurt Danzinger, “MidNineteenth Century British Psycho-Physiology”, in W. Woodward e M. A. Praeger (ed.), The Problematic Science; Psychology in Nineteenth-Century Thought, New York 1982, pp. 119-146. 176

TCWJ II, p. 88.

177

PP, p. 1104.

178 E, come non è necessario alcuna “forza”, così non è sentito dal soggetto che agisce alcun feeling di sforzo: la grandissima maggioranza delle decisioni umane sono prese senza sforzo. Ivi, p. 1141. Come vedremo fra breve, anche le azioni che rivelano soggettivamente uno “sforzo” — quelle della volition of effort —non necessitano, proprio in virtù della teoria ideomotoria alcun tertium quid. James non nega la realtà dello sforzo sentito nell’esecuzione di molte azioni; nega invece che questo sforzo sia determinato dalla difficoltà a far sì che l’idea si traduca in azione; lo sforzo, potremmo dire, è tutto mentale e, come vedremo, coinvolge la sola facoltà dell’attenzione. 179Tutto ciò che è necessario per il movimento volontario è un’idea ideo-motoria. P. K. Dooley, op. cit., p. 57. Una volta che l’idea sia fissata nella mente, la conseguenza motoria segue spontaneamente. Ivi, p. 58. Ogni volta che un movimento segue senza esitazione e immediatamente al pensiero di esso, noi abbiamo l’azione ideo-motoria.. PP, p. 1130. i soli fini che seguono immediatamente il nostro volere sembrano essere i movimenti del nostro corpo. Ivi, p. 1098. Cfr. anche G. W. Allen, op. cit., p. 508.

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quale l’atto è mentalmente specificato con la maggiore esattezza possibile, e l’atto stesso, non vi è posto per un terzo ordine di fenomeni mentali180. James cerca di sostenere la sua teoria anche da un punto di vista rigidamente sperimentale e, ancora una volta, alla ricerca dello psicologo si affianca l’attività del fisiologo: sebbene il nostro autore riconosca che sia pericoloso trarre “dogmatic conclusions” da esperimenti condotti sulla corteccia cerebrale, ritiene che questi possano fornire un aiuto al sostegno di certe teorie frutto della psicologia introspettiva; egli fa riferimento agli esperimenti in vivisezione di Munk sui centri corticali; secondo questi esperimenti i cosiddetti centri motori di Hitzig e Ferrier che, ogni volta che vengono irritati elettricamente, provocano movimenti caratteristici in determinate parti del corpo, sono anche centri sensibili: La ragione per cui avvengono effetti motori ogni volta che questi centri sono irradiati è dovuta al fatto che un’immagine di movimento è risvegliata con una tale straordinaria vivacità dallo stimolo che nessun’altra idea nella mente dell’animale può essere forte abbastanza da inibire il suo scaricarsi nei centri motori181.

Questo articolo è molto importante per la futura teoria pragmatica di James; Riconda lo riconosce come la prima formulazione della teoria della Will to Believe; è interessante il commento che Riconda fa a proposito del rapporto fra James e il filosofo francese: Nello stesso anno (15 Settembre 1878), usciva sulla Critique Philosophique un articolo di Renouvier dal titolo Le pari de Pascal e le pari di M. W. James, in cui è evidente il tentativo di tradurre il discorso jamesiano nei termini della teoria neo-criticista, i

180 PP, p. 1111. L’eliminazione di questo tertium quid coincide poi con l’eliminazione di quei felings of innervation che gran parte della fisiologia del tempo pensava essere necessari per compiere un qualsiasi movimento: Una persona che muova un arto volontariamente, deve innervarlo sempre; e qualora sentisse di quale innervazione può disporre, dovrebbe poter sempre e determinare in qual punto si trovi l’arto, anche qualora lo stesso arto fosse insensibile. Sta di fatto però, che questo non avviene [...] Ivi, pp. 1123-1124 Confido di aver ora messo in chiaro che cosa sia questa “idea di movimento” che deve precedere il movimento, perché questo possa dirsi volontario. Essa è l’anticipazione degli effetti sensibili del movimento — locali, remoti e talvolta remotissimi — non è il pensiero dell’innervazione che il movimento esige. Ivi, p. 1130. Sembra quasi di trovarsi qui di fronte a un’anticipazione fisiologica di quella che sarà poi la massima pragmatica...

W. James, The Feeling of Effort, in CER, p. 185. L’eclettismo di James si manifesta anche in questioni tecniche come quella dell’azione ideo-motoria; egli per sostenere una sua teoria fa riferimento a tutti i campi, anche radicalmente differenti, che possono portare delle prove favorevoli: Nello stato normale dell’uomo c’è sempre la possibilità che l’azione non avvenga in questa semplice maniera ideo-motoria. Le idee motorie possono risvegliare altre idee che inibiscono lo scaricamento nei gangli esecutivi. Ma in quello stato ch’è chiamato ipnotico noi abbiamo una condizione analoga a quella del sonno in quanto le idee che sorgono non risvegliano associazioni abituali con altre idee [che possono essere inibitorie]. Gli effetti motori non sono perciò inibiti e il soggetto ipnotizzato non solo crede a tutto quanto gli viene detto, per quanto sia improbabile, egli traduce in movimento qualsiasi idea di movimento che gli viene suggerita.. W. James, The Feeling of Effort, in CER, p. 193. Per quanto queste considerazioni siano notevolmente superate dai progressi degli studi sull’ipnotismo — un soggetto ipnotizzato infatti non fa tutto quello che gli si dice — esse ci fanno comprendere come non sia affatto strano che il capitolo sulla volontà sia direttamente seguito, nei Principles, da quello sull’ipnotismo. 181

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nell’opposizione del vertige mental proprio, per Renouvier, della scommessa pascaliana, alla credenza razionale, presente secondo lui nella versione pascaliana di essa: “Ecco la scommessa pascaliana trasformata e, come dicevamo, epurata, generalizzata nel suo concetto e nelle sue applicazioni, trasportata da immaginazioni arbitrarie di una religione falsa alle più universali delle nozioni e affermazioni morali cui l’uomo possa elevarsi”. Il parallelo fra James e Renouvier non può essere spinto molto innanzi per il carattere stesso della filosofia di Renouvier, strettamente legata all’ambiente culturale e politico religioso in cui sorse (seppure in vivace polemica con esso) che lo portava a mettere in primo piano motivi del tutto estranei al pensiero di James. G. Riconda, La filosofia di William James, cit., p. 33. (Il libro è praticamente introvabile, anche nelle maggiori biblioteche; una copia fotostatica è conservata all’Università di Torino, dove ancora insegna il professor Riconda). Anche Riconda dunque sembra allentare quel legame tra Renouvier e James che una certa critica aveva invece rinsaldato in virtù di una lettura quantomeno parziale della biografia del filosofo americano. Esiste dunque nel giovane James una prima fase positivistico-spenceriana che ci è testimoniata con gran cura dal Perry. Nei primi due corsi di psicologia ad Harvard, nel 1876-77 e nel '77-78, James si era servito dei Principles of Psychology (London 1870-72) di Spencer come libro di testo. In tali corsi, come vedremo anche in seguito, James si proponeva di sollevare la psicologia al rango di scienza naturale e a Spencer andava riconosciuto il merito di avere aperto per primo il cammino alla psicologia scientifica in virtù delle sue analisi circa i rapporti tra la mente e l'ambiente naturale circostante. C. Sini, op. cit., p. 251. Qui Sini non vuole dire che nella seconda metà degli anni Settanta James fosse ancora uno “spenceriano”; come ricorda infatti nella pagina seguente, L’entusiasmo per il positivismo spenceriano è di breve durata. Esso appare già nettamente scosso all’inizio degli anni ’70 e i corsi del ‘76-’78[...] sono decisamente critici nei confronti del filosofo inglese. Ivi, p. 252. Ma lo stesso James non lasciava posto per gli eufemismi: Sebbene avesse letto i Principles of Biology e avesse addirittura utilizzato i Principles of Psychology nei suoi corsi di storia naturale negli anni ‘76-’77, egli “divenne presto completamente disgustato dal pensiero del famoso filosofo”. L. Simon, op. cit., p. 165 (cit. da WJ a Tomas Ward, 30/12/76, CWJ, IV, p. 552). Il fatto che James utilizzò gli scritti di Spencer come libri di testo per le proprie lezioni non vuole dunque dire ch’egli si trovasse a proprio agio col pensiero del filosofo inglese; nella lungo articolo-recensione del 1904 sull’Autobiography di Spencer scrive James, dopo aver ricordato che in gioventù era stato molto affascinato dall’evoluzionismo spenceriano: Più tardi adottai spesso [i suoi scritti] come libro di testo per i miei studenti, e il mio verdetto in seguito a queste esperienze è totalmente sfavorevole A parte l’insegnamento che tutto si è in qualche maniera evoluto, e a prescindere dall’effetto stimolante di questo disegno universale, io considero i suoi scritti come un museo di ragionamenti grossolani. MS, p. 128. James era disgustato dal fatto che, a suo giudizio, Spencer era scadente negli aspetti fondamentali del pensiero filosofico, quanto invece era abile negli aspetti secondari. La lettera si conclude con queste parole: La sua mente rappresenta per me un mistero [...] G. W. Allen, op. cit., p. 197. Come abbiamo visto in precedenza, l’allontanamento di James dalla filosofia di Spencer può essere datato addirittura all’anno 1867, secondo quanto ci riferisce il Perry. Nell’articolo del ’78 James, oltre a tentare di dare una solidità scientifica alla psicologia, che ancora era “divisa” fra filosofia dell’anima e fisiologia del sistema nervoso (tentativo che animerà tutta i capitoli dei Principles) mostra forse per la prima volta pubblicamente il suo interessamento, la sua passione per le questioni morali: Le lunghe discussioni con Wendell Holmes e il grande saggio-recensione della Psychology di Spencer nel 1878 furono i primi tentativi di difendere il carattere della vita morale. J. Barzun, op. cit., p. 143. ii

Herbert Spencer volle spiegare l’evoluzione con principi meccanici. Questo è illogico per quattro ragioni. Primo perché il principio di evoluzione non richiede cause estranee; si può supporre che la tendenza allo sviluppo si sia sviluppata essa stessa da un germe infinitesimale che abbia avuto inizio accidentalmente. Secondo, perché la legge, più di ogni altra cosa, si deve supporre che sia un risultato dell’evoluzione. Terzo, una legge esatta ovviamente non potrebbe mai produrre l’omogeneità dall’eterogeneità; e l’eterogeneità arbitraria è il più manifesto e caratteristico aspetto dell’universo. Quarto, perché la legge di conservazione dell’energia è equivalente alla proposizione che tutte le operazioni governate da leggi meccaniche sono reversibili; sicchè un suo immediato corollario è che non si può spiegare lo sviluppo in base a queste leggi anche se esse non sono violate nel processo di sviluppo. Insomma, Spencer non è un evoluzionista filosofico, ma solo un semi-evoluzionista, o, se preferite, solo un semispenceriano. Ora la filosofia esige un evoluzionismo radicale o nessun evoluzionismo. C. S. Peirce, L’architettura delle teorie, Id., op. cit., p. 117. iii

Tutti i critici ricordano che James cambiò radicalmente il suo parere riguardo alla validità della dottrina spenceriana dopo i colloqui con gli amici Peirce e Wright (oltre che grazie a Renouvier, che era un fiero oppositore del filosofo inglese); (cfr. C. Sini, op. cit., p. 251) purtroppo poco possiamo sapere di queste lunghe discussioni, ma fortunatamente è rimasta un articolo molto interessante di Chauncey Wright dedicato proprio alla filosofia spenceriana: si intitola The philosophy of Herbert Spencer e fu pubblicato sulla North American Review nell’aprile del 1865. Questo è il luogo, come credono molti studiosi, dove Wright chiaramente prefigura alcuni elementi del pragmatismo di C. S. Peirce, William James e John Dewey. Cfr. E. H. Madden, op. cit., p. 16. La critica di Wright a Spencer è molto affascinante e sicuramente contiene la maggior parte delle argomentazioni che convinsero James ad allontanarsi dalla filosofia spenceriana: Spencer è ‘colpevole’ in primo luogo di avere esteso indebitamente una teoria, molto limitata, all’intera natura, organica e inorganica; i confini del discorso di Wright superano di molto quelli della polemica con Herbert Spencer; questi infatti non sarebbe che il rappresentante forse più noto di un modo di fare filosofia, e scienza, ch’è radicalmente scorretto: L’idea che ha esercitato la più profonda influenza sul pensiero di Spencer, così come su tutto il pensiero contemporaneo, e che appare più o meno chiaramente in tutte le opere di Spencer, è quella ch’egli ha elaborato nei suoi First Priciples come legge dell’evoluzione [L’evoluzione è un cambiamento da un’incoerente omogeneità indefinita a una coerente eterogeneità definita attraverso continue differenziazioni e integrazioni]. Ma qual è l’origine e il valore di quest’idea? Essa è stata chiaramente derivata dalle ricerche dei fisiologi che si occupavano di embriologia, da Harvey fino ai giorni nostri. La iv

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formula di Von Baer rappresentò la prima chiara enunciazione di questa legge. Spencer ha elaborato e completato questa formula applicandola non solo ai fenomeni dell’embriologia, ma a tutti fenomeni della natura e soprattutto a quelli di cui noi sappiamo meno [...]. C. Wright, The Philosophy of Herbert Spencer, in E. C. Norton (a cura di) Philosophical Discussions, cit., p. 69. Secondo Wright invece, La selezione naturale [...] non è applicabile alle parti inorganiche della natura ed è molto limitata anche nei fenomeni della vita organica. C. Wright, Limits of Natural Selection, ivi, p. 108. Spencer inoltre, oltre ad avere esteso impropriamente una dottrina scientifica limitata ad un ambito specifico, quello dell’embriologia appunto, sarebbe anche uno scadente scienziato: Giudicando solo dai suoi scritti e dal carattere generale del suo pensiero, è difficile attribuirgli quella precisione nell’apprendimento dei fatti scientifici che deriva principalmente dall’esercizio nella ricerca matematica e sperimentale nella storia naturale e nella filosofia naturale. C. Wright, The Philosophy of Herbert Spencer, ivi, p. 68. Wright riconosceva dubbio a Spencer una certa genialità, delle notevoli qualità intellettuali, e certamente sarebbe assurdo affermare il contrario, ma pensava allo stesso tempo che queste doti avrebbero trovato la loro naturale esplicazione in un campo ben differente da quello della moderna scienza e della moderna filosofia: il suo particolare genio avrebbe trovato un impiego migliore nella filosofia scolastica (ivi, p. 57), una filosofia che, per Wright, era più propensa a provare la verità piuttosto che a scoprirla. Wright credeva che la legge dell’evoluzione di Spencer, il cambiamento dall’omogeneo all’eterogeneo attraverso la differenziazione e l’integrazione, applicato universalmente al movimento della natura, fosse la riproposizione della teleologia nel pensiero scientifico (Cfr. E. H. Madden, op. cit., p. 76).Questo non vuol dire che per Wright non ci possa essere “dialogo” fra scienza e filosofia, e anche la scienza si può servire, e anzi si deve servire, di principi astratti, ma solo quando questi ci danno la possibilità di ampliare la nostra concreta conoscenza della natura e questo non è il caso del filosofo inglese. James seguì perfettamente Wright su questa strada: Per James ci poteva essere una sola ragione per trascendere il mondo fenomenico, cioè di soddisfare qualche teoretico o pratico “sentimento di razionalità”. L’affermazione di un Inconoscibile trascendente gli sembrava, perciò, ingiustificato e gratuito. TCWJ I p. 486. Inoltre per James non era affatto possibile una vera ‘relazione’ con un Dio così asettico e lontano come quello della filosofia spenceriana (Cfr. P. B. Brennan, op. cit., p. 61). Invece di fare chiarezza, Spencer crea confusione, ammantando si scientificità delle teorie che sono squisitamente metafisiche, col risultato di indebolire la scientificità delle teorie utilizzate e questo è proprio quello che accadde a molti filosofi e scienziati del tempo; il fatto che fosse Spencer “il paladino dell’evoluzionismo” li allontanò da qualsiasi teoria evoluzionistica; è il caso, penso, di Renouvier, che nella sua critica a Spencer coinvolse tutto l’evoluzionismo — tranne quello lamarckiano cui era vicino — perdendo la possibilità di rintracciare nella dottrina darwiniana , come invece fece James, la possibilità di trovare anche un supporto scientifico al proprio indeterminismo; dice Wright: ogni idea che egli [Spencer] prende dalla scienza assume un nuovo significato, o piuttosto una certa vaghezza, che possa renderla applicabile al maggior numero di fenomeni (C. Wright, The Philosophy of Herbert Spencer, C. E. Norton (a cura di), Philosophical Discussions, cit., p. 78) Per quanto riguarda poi il “regresso genealogico”, l’attenzione cioè alle origini di una determinata idea o di una determinata teoria, Wright non lascia dubbi in proposito: Non è importante per l’astronomia scientifica capire da dove sia nata la teoria della gravitazione; se sia un’induzione dalle teorie dell’attrazione e della legge delle radiazioni, o se sia sorta dalla semplicità razionale della legge stessa [...] La scienza non si fa domande sul pedigree ontologico o sul carattere a priori di una teoria: le è sufficiente giudicarne i risultati. Ivi, p. 47. Questo è un principio fondamentale di tutto il pragmatismo, e in particolare modo di quello James, che lo applicò anche oltre i confini dell’epistemologia ed è il cuore della dottrina pragmatica del significato. Per quanto riguarda i riferimenti scientifici di Spencer c’è da sottolineare che il suo evoluzionismo, precedente com’è noto la pubblicazione dell’Origin di Darwin, si rifaceva direttamente alla dottrina di Lamarck; come ricorda Sini, Spencer si era avvicinato alle idee evoluzionistiche di Lamarck intorno al 1840 in seguito alla lettura dei Principles of Geology di Lyell; un fatto abbastanza singolare, se pensiamo all’importanza che quest’opera ebbe per la formulazione della nuova scienza darwiniana; Sebbene era stato Spencer il padre dell’espressione “la sopravvivenza del più adatto”, egli ancora credeva nella teoria lamarckiana William Woodward, James’s Evolutionary Epistemology; “Necessary Truths and the Effects of Experience, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 158. Egli [Spencer] era interessato più all’evoluzione mentale che a quella fisica ed accettò la teoria lamarckiana secondo la quale la trasmissione di caratteristiche acquisite fosse un modo in cui le specie possono nascere. Questa dottrina confermava il suo ottimismo evoluzionistico. Perché, se le caratteristiche mentali, così come quelle fisiche, possono essere ereditate, le capacità intellettive della razza divengono sempre maggiori, e, fra molte generazioni, si raggiungerà il tipo di uomo ideale. R. Hofstadter, op. cit., p. 39. Giusta questa prospettiva, la perfezione umana non solo è possibile, essa è inevitabile. mentre in James il futuro della società e dell’uomo è affidato alla volontà all’intelligenza e agli sforzi dell’uomo stesso, in Spencer e comunque generalmente nel darwinismo sociale si tratta soltanto di una questione di tempo e l’uomo non ha che da farsi “trasportare” dalle conseguenze dell’inarrestabile e necessaria evoluzione; cfr. R. Hofstadter, op. cit., p. 50. La lettura dell’evoluzione di Spencer era in contraddizione anche con le nozioni darwiniane. Darwin cercò sempre di evitare termini come “inferiore” e “superiore” quando si riferiva ai diversi stadi di sviluppo, egli rifiutava dunque non solo l’idea che ci fosse un progressivo “miglioramento” nell’evoluzione, ma che questa avesse una qualsiasi “direzione”. Cfr. J. Rachels, Creati dagli animali. Implicazioni morali del darwinismo., Edizioni di Comunità, Milano 1996. (tit. orig.: Created from Animals), 1990, p. 85. Comunque Spencer non si allontanò dal suo iniziale lamarckismo anche quando tutta la comunità scientifica si ribellò fortemente contro esso e darwinismo rappresentava ormai la “biologia ufficiale”; questo potrebbe sembrare estremamente singolare, ma c’è da dire che il lamarckismo esercitò, anche alla fine dell’Ottocento, un notevole influsso soprattutto sulle menti filosofiche (Peirce ad esempio). William James, nelle ultime pagine del suo libro, farà esplicitamente riferimento alla disputa fra darwiniani e lamarckiani, schierandosi decisamente coi primi; vedremo in seguito l’importanza di tutto ciò per la filosofia di James; il fatto che Spencer rimase lamarckiano anche

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dopo gli esperimenti di Weismann non poteva certo passare inosservato agli occhi del pragmatista americano. Cfr. R. J. Richards op. cit., p. 293. Era stato John Tyndall ad affermare che, come il fegato secerne la bile, così il cervello secerne il pensiero e Henry Huxley aveva sostenuto l’idea che la realtà mentale non fosse niente più di un epifenomeno delle funzioni cerebrali. “L’anima,” scriveva Huxley, “sta al corpo come la campana di un orologio al suo meccanismo [...]”. D. Robinson, William James on the Mind and the Body, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., pp. 314-5. Lo stesso James, esponendo la teoria automatistica di Huxley, si esprime con queste parole: ciò che noi chiamiamo volizione, non è la causa di un atto volontario, ma semplicemente il simbolo di quello stato cerebrale che è la causa immediata di quell’atto. Noi siamo degli automi coscienti.. PP, p. 135. E, come ricorda Sini: Al fondo della questione sta la cosiddetta teoria dell’automatismo o dell’epifenomenalismo [o: epifenomenismo] secondo la quale i processi mentali sarebbero il risultato, il prodotto, l’’“epifenomeno”, dei processi cerebrali (secondo la celebre frase di Karl Vogt, “il pensiero sta al cervello nella stessa relazione con cui la bile sta al fegato e l’orina ai reni”). C. Sini, op. cit. p. 270. Come La Mettrie, Cabanis illustrava la sua teoria [materialistica] con un’ardita metafora organica, e cioè che, come lo stomaco digerisce il cibo, così “il cervello [...] digerisce le impressioni e secerne il pensiero”. R.J. Richards, op. cit., p. 42. Anche Chauncey Wright, in A Fragment on Cause and Effect, ricorda il pensiero del fisiologo riduzionista Karl Vogt: “Il pensiero è una secrezione del cervello” era la dichiarazione di un noto naturalista e fisiologo, che provava una forte avversione per quegli studi e quelle visioni della natura che avrebbero potuto degradare, come pareva che facessero, la dignità di una funzione così importante della vita. Ciò che probabilmente voleva dire è la verità fisiologica che il cervello è l’organo del pensiero come una ghiandola è l’organo di alcune secrezioni, o un muscolo delle contrazioni, [...] C. Wright, A Fragment on Cause and Effect, in C. E. Norton (a cura di), Philosophical Discussions,. cit., p. 406. secondo Wright la maggior parte dei critici ha letto questa affermazione intendendo non lo stretto legame che deve riconoscersi fra il cervello e la mente, ma che il cervello, e con esso la mente, non sia un organo più importante, per l’umanità dell’uomo, di una ghiandola qualsiasi. Una posizione così ‘morbida’ verso questo rigido riduzionismo, probabilmente venne stimolata in Wright proprio dalla sua fedeltà alla dottrina di Charles Darwin: questi, lungi dall’essere un consapevole anticipatore di una qualche forma di opposizione al riduzionismo, ne era un illustre rappresentante: Il cervello era per Darwin il ‘supporto fisico e fisiologico’ capace di spiegare come gli istinti si trasmettessero da un individuo all’altro. Ovviamente questo implicava una derivazione diretta della mente dal cervello, in una visione riduzionistica che non sarebbe stata certo di gradimento per James. [...] la mente deve essere una derivazione del cervello. Dopo tutto, si chiedeva [Darwin], “perché il fatto che la mente sia un prodotto del cervello dovrebbe essere più stupefacente del fatto che la gravità sia una proprietà della materia?”. R. J. Richards, op. cit., p. 94. D’altronde la posizione riduzionistica di Darwin non deve essere poi considerata il fulcro della sua dottrina evoluzionistica: certamente lo scienziato inglese si rendeva ben conto che parlare di evoluzione e selezione degli istinti sarebbe stato molto meno problematico che introdurre all’interno della propria teoria una ‘facoltà’ — la volontà appunto — da cui anche gli psicologi erano ‘intimoriti’ e che certamente avrebbe notevolmente complicato il progetto di dare una giustificazione genealogica dell’evoluzione dell’uomo da forme dove apparentemente la volontà non esiste; ricondurre l’attività dell’uomo agli istinti che, sebbene organizzati differentemente, si trovano anche nelle forme animali meno evolute, avrebbe rappresentato invece una garanzia di coerenza per una teoria che già avrebbe dovuto superare numerosi ostacoli: infatti attribuire all’ereditarietà degli istinti il principio di cambiamento e di evoluzione della specie era un modo per evitare di considerare la volontà come principio motore dell’evoluzione. Ibidem. Questo atteggiamento di Darwin può apparire abbastanza deludente, ma di fatto egli non fece altro che riconoscere i limiti della propria teoria, consapevole però che altri — come lo stesso Chauncey Wright che ne fu ‘ufficialmente’ incaricato — avrebbero potuto applicare i principi evoluzionistica una facoltà così evanescente e sfuggente come la coscienza; un lavoro che Darwin non riuscì mai a compiere durante tutta la sua carriera: Darwin non analizzò mai profondamente il problema filosofico del rapporto mente-corpo. Ivi, p. 95. James era certamente l’ultimo a volere negare questo lo ‘stretto legame’, del fisico cl non fisico, che unisce mente e cervello, soprattutto nei Principles, ma allo stesso tempo egli non poteva accettare una visione riduzionistica dove la mente fosse considerata un mero “effetto” della “causa” cerebrale. A questo proposito è molto illuminante un passo dei Principles, nel capitolo III (On Some General Conditions of Brain Activity), dove James rivolge la sua critica a quelli che chiama i “filosofi del fosforo” (phosphorus-philosopher) cioè a coloro che pretendono di ridurre l’attività mentale a una somma di processi chimici: I filosofi del fosforo hanno spesso comparato il pensiero a una secrezione. “Il cervello secerne il pensiero, come i reni secernono l’urina, o come il fegato secerne la bile”, sono frasi che ogni tanto si sentono. [...] Le sostanze che il cervello immette nel sangue [...] sono l’analogo dell’urina e della bile, trattandosi infatti di reali secrezioni. In questo senso, il cervello è una ghiandola senza canali. Ma non conosciamo nulla di legato all’attività del fegato o dei reni che può anche lontanamente essere comparato col flusso di pensiero che accompagna le secrezioni materiali del cervello. PP, p. 108. Poche pagine prima James scrive: I “filosofi del fosforo” hanno paragonato spesso il pensiero ad una secrezione. “Il cervello secerne il pensiero come i reni secernono l’urina , il fegato la bile etc.” sono frasi che si odono spesso; ma è un’analogia che non regge. Ivi, p. 89. Come ricordano Desmond e Moore, anche Elliotson era famoso per avere paragonato il funzionamento dl cervello a quello della bile; Cfr. A. Desmond, J. Moore, Darwin, Bollati Boringhieri, Torino 1992 (tit. orig.: Darwin, Michael Joseph Ltd, London 1991), p. 286. Inoltre, mentre il funzionamento degli altri organi sembra essere totalmente comprensibile da un punto di vista puramente meccanico e chimico, lo stesso non può dirsi del cervello: Le correnti di drenaggio e di scarica del cervello non sono semplicemente dei fatti fisici. Essi sono fatti psico-fisici, e la loro qualità spirituale sembra una condeterminante della loro efficacia meccanica.. PP, p. 1186. La grandezza di James sta nell’avere posto il problema della coscienza prima di tutto da un punto di vista strettamente psicologico, o meglio, psicofisiologico e non da un punto di vista filosofico o morale: per James dunque, l’esigenza della dimostrazione della plausibilità di una coscienza efficace dovrebbe essere sentita dallo scienziato di v

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laboratorio allo stesso modo che dal filosofo morale, posto che lo scienziato non pretenda di trattare la coscienza alla stregua di un qualsiasi organo: [...] non si può dire che la coscienza abiti nessun posto. Essa ha delle relazioni dinamiche col cervello e delle relazioni conoscitive con ogni e qualunque cosa. Da un certo punto di vista noi possiamo dire che la sensazione è nello stesso luogo col cervello (se vogliamo), ma, da un altro punto di vista, possiamo dire egualmente bene che essa è nello stesso luogo in cui si trova qualunque qualità essa possa conoscere. Ivi, p. 681. vi [...] Certamente parte del suo successo [di Spencer] venne dal fatto che egli stava diceva ai tutori della società americana proprio quello che essi volevano sentirsi dire. R. Hofstadter, op. cit., p. 46. Gli Americani, o almeno parte di essi, volevano credere in una filosofia che fosse prima di tutto ottimistica, che vedesse nel futuro la speranza, o meglio la certezza di un miglioramento delle condizioni di vita e che fosse poi scientifica e si appellasse proprio a quei principi di universalità che sembravano essere sfuggiti di mano alla religione: per questo Hofstadter può dire che La filosofia di Spencer era straordinariamente adatta alla scena americana. Ivi, p. 31. Un motivo non propriamente filosofico era certamente rappresentato dal fatto che la filosofia di Spencer poteva rappresentare un tentativo, per molti riuscito, di conciliare religione e scienza, che negli ultimi lustri si erano decisamente allontanate l’una dall’altra: Le ragioni della popolarità di Spencer non sono difficili da individuare. Spencer, almeno quanto Darwin, rappresentava il centro dei nuovi sforzi di riconciliare scienza e religione da un punto di vista laico. W. R. Woodward, James’s Evolutionary Epistemolgy; Necessary Truths and the Effects of Experience, in M. E. Donnelly, Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 157. Il riferimento a Darwin sembra essere abbastanza fuori luogo: Darwin, da buono scienziato, non si occupava delle questioni teologiche del rapporto tra religione e scienza; semmai furono altri scienziati e filosofi che potremmo definire darwiniani a prendersi carico di affrontare le questioni della fede, della predestinazione della divinità dell’uomo etc. in base al pensiero del grande scienziato inglese. Per quanto riguarda il tentativo spenceriano di riconciliare religione e scienza James non ha dubbi sul suo insuccesso: La maniera [di Spencer] di riconciliare scienza e religione è assurdamente naïf. Trova, dice egli, una verità astratta sulla quale esse possono concordare e questo le riconcilierà. Una tale verità, egli pensa, è che c’è un mistero. Il fatto è che i problemi cominciano proprio da questa affermazione comune. Il fatto che entrambi credono nell’esistenza del Papa riconcilia forse Lutero e Ignazio de Loyola? Il comune riconoscimento dell’esistenza degli schiavi riconcilia forse il Nord e il Sud [degli Stati Uniti d’America]? La religione afferma che il “mistero” è interpretabile dalla ragione umana; la “scienza”, che parla attraverso Spencer, dice di no. L’ammissione del mistero è la cifra della loro disputa.. W. James, Herbert Spencer’s Autobiography, in MS, p. 129. vii Al tempo in cui James scriveva i Principles era diffusa una confusione fra i vari tipi di evoluzionismo, uno dei meriti di James fu certamente quello di avere fatto chiarezza a questo proposito: A complicare l’orizzonte evoluzionistico americano intervengono i rapporti, sovente ambigui e basati su generalizzazioni indebite e fraintendimenti, tra darwiniani, lamarckiani e spenceriani. C. Sini, op. cit., p. 41. E Cotkin: Leggendo la stampa popolare in quest’epoca di confusione culturale, James rilevava con disappunto che la sociologia deterministica si fregiasse dei meriti della scienza darwiniana. [...]. viiiIl

rapporto tra James e Hodgson è molto significativo, almeno per tre ordini di motivi: esso rivela quali furono i primi autori cui James fece riferimento per dare forma al proprio pensiero psicologico — e filosofico —, come si sviluppò il suo pensiero indeterministico e qual era il suo atteggiamento nei confronti degli autori cui si sentiva più vicino. Come ricorda la Simon, il giovane James Mentre dichiarava di non sentirsi in grado di insegnare filosofia, la lettura di Bain, di Herbert Spencer, di Shadworth Hodgson e di Wilhelm Wundt mostrano come egli avesse deciso di occuparsi di “scienze mentali”, un campo che gli appariva aperto a nuove produzioni intellettuali e non estraneo alla ricerca scientifica, all’analisi dei fatti e a riflessioni di tipo filosofico. L. Simon, op. cit., p. 134. Ma chi era Shadworth Hodgson? James, nella recensione del 1876 alle opere di Bain e di Renouvier, dopo avere dichiarato che le menti filosofiche più influenti nel mondo anglofono — dopo la morte di Mill — sono Bain e Spencer, si rammarica del posto secondario che occupa Hodgson: [...] Egli, uno scrittore a nostro giudizio di gran lunga più profondo e più originale di entrambi [Bain e Spencer] si trova a essere non letto e sconosciuto poiché nei suoi libri la concatenazione dei pensieri è tutto, mentre l’esemplificazione di essi è subordinata. W. James, The Emotion and the Will, by Alexander Bain, and Essais de critique générale, by Charles Renouvier, in ECR, p. 322. In una lettera alla moglie datata 13 Gennaio 1883 James lo definisce “l’incarnazione di un angelo, la creatura umana più squisita che io abbia mai conosciuto, un gentleman dalla testa ai piedi e un filosofo di prim’ordine” TCWJ I, p. 611. Questa descrizione a dir poco entusiastica rivela quanto James fosse spesso impulsivo nel giudicare — positivamente piuttosto che negativamente — uomini che riteneva dotati di grandi qualità; parole del genere si possono ritrovare nelle lettere di James riferite a Renouvier, a Peirce, a Darwin, a Stumpf a Mach e a tanti altri; questo non toglie lucidità al giudizio del filosofo americano, ma certamente fa comprendere com’è stato possibile che molti autori, come Renouvier, siano stati sopravvalutati nella loro importanza proprio in virtù delle parole di James stesso. (A proposito di Renouvier, la Simon cita un episodio che può essere molto illuminante; James, come abbiamo visto sopra, riteneva il filosofo francese una delle menti migliori del secolo, ma non pare che fosse ben sicuro del proprio giudizio o che anche altri potessero trovare in lui quella novità e quella lucidità di pensiero che tanto lo avevano affascinato: Quando Hodgson fu d’accordo con James nel valutare positivamente l’opera di Charles Renouvier, egli si sentì confermato nel suo giudizio. L. Simon, op. cit., p. 171); James in seguito, forse anche in virtù di questa “conferma” cercherà di avvicinare Hodgson e Renouvier in una maniera che oggi ci appare quanto meno singolare, date le notevoli differenze tra i due; Egli passò degli anni (e, deve essere detto, non con grande successo) cercando di persuadere i suoi amici Renouvier e Shadworth Hodgson delle eccezionali qualità dell’uno con l’altro.(TCWJ I, p. 383). Difficilmente sarebbero stati conciliabili l’orientamento di Hodgson verso la scienza fisica con quello di Renouvier verso un teismo spiritualistico e se non ci riuscì nemmeno tutta la buona volontà di James forse ci riuscì, almeno in parte, il suo pensiero che

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tanto prese da entrambi. Il Perry dedica tutto un capitolo, il trentottesimo (del primo volume), al rapporto fra James e Hodgson; faremo riferimento soprattutto a queste pagine per tracciare brevemente la figura del filosofo inglese. Potremmo definirlo semplicemente un empirista, o meglio un “empirista riformato”, che cercò per tutta la vita di ripristinare il prestigio della tradizione filosofica britannica; per fare questo egli riteneva necessario superare l’atomismo di Hume; questi aveva avuto certamente il grande merito di essersi attenuto il più possibile ai fenomeni dell’esperienza senza introdurre dei principi a priori, ma nel suo tentativo di dare vita a una filosofia scevra da compromessi con la metafisica aveva dipinto un universo totalmente incoerente e casuale. Hodgson propose di considerare i fenomeni come divisi in aspetti soggettivi e aspetti oggettivi: La distinzione tra oggettivo e soggettivo deve essere considerata una distinzione che si dà, a un certo livello di riflessione, all’interno del campo della coscienza.[una degli errori dell’empirismo moderno era l’asserzione di una sostanza materiale esterna] (TCWJ I p. 612). Questo potrebbe essere considerata una anticipazione vera e propria dell’empirismo radicale di James, della sua teoria dell’esperienza pura. Ma a Hodgson deve essere attribuito anche il merito di aver ispirato la dottrina jamesiana del flusso di coscienza: la divisione in parti della coscienza, in sensazioni e percezioni, in categorie, etc sarebbe infatti soltanto un effetto artificiale dell’analisi che il filosofo compie introspettivamente; non si danno quindi sensazioni semplici, ma un flusso di coscienza in perpetuo movimento. La dottrina del flusso di pensiero era tutta di James. I riconoscimenti che egli fece, non erano rivolti a qualche psicologo “scientifico”, ma al filosofo Hodgson. TCWJ II, p 332. Il fatto è che questo flusso di coscienza assunse col tempo, per Hodgson, i connotati dell’essenza, ma non quelli dell’esistenza. Ma c’era un altro e più recente Hodgson, che negava la libertà, che riduceva la mente alla dipendenza dal corpo [...] che era attratto dal monismo. TCWJ I, p. 614. James cominciò ad avere dubbi sul conto di Hodgson poco dopo averlo conosciuto personalmente, nel 1880. Hodgson, pur essendo “divino” si stava allontanando sempre di più dalla psicologia jamesiana, che aveva ormai abbandonato il determinismo fisiologico per approdare a una teoria interazionistica che farà della causalità e dell’efficacia della volontà della coscienza la sua caratteristica principale. La corrispondenza tra James e Shadworth Hodgson comincia con la “teoria dell’automatismo”, la questione cioè se la coscienza sia effettivamente attiva o meno. Per una curiosa coincidenza James cominciò come un automatista e solo in seguito venne convertito alla prospettiva opposta, mentre Hodgson prima negò l’automatismo e più tardi ne fu un sostenitore. Ivi, p. 615. A parere di Richards l’allontanamento di James da Hodgson può essere spostato indietro di almeno cinque anni; egli lega strettamente questo allontanamento dalla teoria automatistica con il suo avvicinamento all’evoluzionismo darwiniano: L’ipotesi che James abbia sviluppato le sue considerazioni evoluzionistiche nei primi anni ’70 è rinforzata dalla sua recensione dei Grundzüge der physiologischen Psychologie, pubblicato nel Luglio del 1875 per la North American Review. James, in queste pagine contrasta l’epifenomenismo di Shadworth Hodgson e di William Clifford. R. J. Richards, op. cit., p. 433. (la recensione in questione è anche molto interessante perché contiene molti spunti per la futura psicologia di James).Come visto sopra, James aveva inizialmente aderito all’automatismo che trovava in Spencer uno sei suoi maggiori, o comunque più noti, rappresentanti; secondo questa teoria la catena della causazione fisiologica è completa senza l’intervento o alcun legame della sensazione o della volontà. Ma già nel 1875 James aveva cambiato la sua posizione e parla del successivo automatismo di Hodgson come “prematuramente dogmatico”. Questa negazione dell’automatismo venne poi elaborata in un corso di pubbliche conferenze e fu pubblicato nel 1879 nella rivista Mind con il titolo: “Are We Automata?” TCWJ I, p. 615. L’incomprensione fra i due crebbe sempre più, soprattutto dopo la pubblicazione dei Principles (Cfr. ivi, p. 644) opera che Hodgson tentò di riportare sulla strada dell’automatismo, cosa che James non poteva certo permettere: Io posso comprendere il determinismo dell’intelletto meramente meccanicistico, che non ha orecchie per la dimensione morale dell’esistenza. Posso comprendere che il monismo mistico chiuda i suoi occhi davanti alla concretezza della vita, per la ricerca del suo rapimento astratto. [...] Ma non posso comprendere un determinismo come il suo, che si rallegra nella chiarezza delle distinzioni, e che è allo stesso tempo aperto alle questioni morali, a meno che queste siano interpretate da un punto di vista esclusivamente speculativo, e hanno poco a che fare con la vita. Poiché la vita è male. Due anime vivono nel mio petto; io vedo ciò che è giusto e, nell’atto di vederlo, io faccio il contrario. Dire che le molecole della nebulosa hanno portato a questo, e così per l’eternità, [...] significa condannarmi a quel “dilemma” fra pessimismo e soggettivismo di cui ho scritto una volta [il riferimento è allo scritto The Dilemma of Determinism, di cui tratteremo ampiamente nel cap 4.2] e che sembra avere così poca importanza per te e per il quale ogni discorso intorno ad astrazioni erette a identità [...] sono semplicemente irrilevanti. Quale uomo in carne e ossa si preoccupa di queste sottigliezze, quando il vero problema che gli si pone di fronte è come affrontare un mondo preordinato, privo di qualsiasi spiraglio di libertà? Ivi, p. 632. L’importanza di questo brano eccede di molto il tema del rapporto tra Hodgson e James: quest’ultimo infatti mostra come non sia da considerare contraddittorio il determinismo “in sé”, ma quel determinismo che voglia allo stesso tempo salvare i fenomeni della morale; una visione deterministica non è per James e mai sarà considerata contraddittoria — sebbene meno razionale secondo il suo concetto di razionalità — a meno che questa non voglia poi dare ragione dell’indipendenza dell’uomo e dei suoi dettami etici. Hodgson invece, pur definendosi determinista e non lasciando alcuno spazio di autonomia alla volontà dell’uomo pretendeva di sostenere una filosofia non fatalistica e dove l’uomo fosse, pur determinato, il vero padrone delle proprie azioni: egli infatti difendendosi dalle “accuse” di James scriveva , il 6 Marzo del 1886, “[...] io nego che il determinismo sia necessariamente fatalismo” ivi, p. 637. Lo scambio epistolare fra i due è molto interessante e qui non abbiamo potuto che riportarne alcuni brevi brani, ciò che però salta agli occhi è il progressivo irrigidimento delle rispettive posizioni; le ultime lettere non recano più traccia della volontà di un effettivo scambio di idee; Hodgson scrisse, il 9 Novembre del 1886: “[...] Tutt’e due crediamo nella realtà del libero arbitrio, solo, io penso che questo debba essere conciliato col determinismo, mentre voi richiedete l’indeterminismo come condizione necessaria per concepire l’esistenza del libero arbitrio”. Ivi, p. 639. Non si potrebbe chiedere maggiore chiarezza e confusione allo stesso tempo. William James continuarono a tenersi in contatto, sebbene in maniera decisamente più sporadica, fino alla morte del primo — Hodgson, sebbene più anziano, gi

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sopravvisse dieci anni — , ma ormai si trovavano su strade diverse, ancora più distanti dopo la pubblicazione, nel 1909, di A Pluralistic Universe, un’opera destinata a eliminare la stessa base su cui sarebbe stato possibile, sebbene inutile, continuare la polemica, cioè il dualismo fra mente e corpo, fra soggetto e oggetto. Sono numerosi gli articoli in cui James tratta, anche non come tema principale, della filosofia spenceriana: nel 1872 egli scrisse, sull’Atlantic Monthly una recensione (non firmata) sul Voltaire di John Morley, in cui Spencer viene criticato per la sua limitatezza (Spencer vi è definito come un “dry philosopher”); nel 1877 James pubblicò, per la Nation, una recensione (anche questa non firmata) sulla Physiological Aesthetics dello spenceriano Grant Allen, dove viene citata più che criticata la teoria evolutiva di Spencer e la sua identificazione tra ciò ch’è piacevole per l’individuo e ciò ch’è utile alla sua sopravvivenza. Nel 1879 uscì, sempre sulle pagine della Nation, una recensione (non firmata) dei Data of Etichs di Spencer: la critica svolta in questo scritto è molto simile a quella dell’anno precedente che abbiamo sopra analizzato. Nel 1880 James pubblicò, sulla Nation, una recensione di un libro di M. Guthrie, On Mr Spencer’s Formula of Evolution. Lo scritto è particolarmente interessante perché dimostra il rispetto che lo psicologo americano provava per Herbert Spencer; Guthrie viene infatti accusato di condurre una critica troppo generica e allo stesso tempo troppo lunga verso i First Principles e di dimenticare i meriti del filosofo inglese: quello principale consiste nell’avere avuto il coraggio di fare ciò che ogni filosofia deve fare, cioè di formulare l’universo fenomenico in una maniera semplice, positiva, dogmatica. Il suo secondo merito è invece quello di corroborare le sue teorie con una serie di fatti noti esposti in una maniera non specialistica e quindi avvicinabile da un pubblico molto vasto. James conclude l’articolo auspicando che la filosofia di Spencer venga superata non a furia di critiche come quella di Guthrie, ma grazie a un pensiero nuovo e coraggioso capace di fare dimenticare, grazie ai suoi propri meriti, il fascino dell’evoluzionismo spenceriano. Nel 1904 James pubblicò, sull’Atnatic Monthly, un articolo intitolato semplicemente Herbert Spencer, che venne ripubblicato, in Memories and Studies nel 1911 con il titolo di Herbert Spencer’s Autobiography (l’articolo del 1904 infatti seguì dappresso la pubblicazione dell’autobiografia del filosofo inglese): si tratta di uno scritto molto interessante, perché compendia abbastanza efficacemente la posizione di James rispetto al pensiero e alla personalità di Herbert Spencer; le prime pagine sono dedicate all’uomo Spencer e le ultime al filosofo; il pensatore inglese viene descritto come una “contraddizione vivente”: È certo che grandezza e piccolezza non vissero mai così strettamente vicine in una persona. MS, p. 108. Una delle qualità di Spencer era certamente la sua enorme erudizione, cifra di un’ambizione altrettanto grande: Il progetto di Spencer, l’unificazione di tutto lo scibile in un sistema articolato, era più ambizioso di tutto quel ch’è stato tentato dai tempi di San Tommaso o di Cartesio. Ivi, p. 110. Non bisogna infatti dimenticare che la limitatezza di Spencer, che abbiamo ricordato all’inizio del presente capitolo nella critica jamesiana al concetto spenceriano di mente come corrispondenza, è qualitativa e non quantitativa e concerne soprattutto la sua idea di uomo: Spencer non è riuscito ad abbracciare l’uomo nella sua enorme complessità, tralasciandone delle caratteristiche (in primis la soggettività) fondamentali, ma, estensivamente, egli si è occupato di tutto lo scibile: La maggior parte dei pensatori si sono limitati o alle generalizzazioni o ai dettagli, ma Spencer si è occupato di tutto: logica, metafisica, etica, cosmogonia e geologia, fisica, chimica e biologia, psicologia sociologia, politica ed estetica. La sua erudizione era prodigiosa. Ibidem. Spencer viene poi definito come un pensatore abbastanza arido, ma estremamente pervicace, dotato di scarsi talenti naturali (come quello di avere una buona memoria, secondo l’ammissione stessa del filosofo inglese) ma capace, una volta decisa la meta, di buttarsi anima e corpo nella sua ricerca, superando così anche persone più dotate. Uno dei suoi grandi difetti, riconosciuto dallo stesso Spencer, era quello di non avere il minimo interesse per un pensiero che si discostasse troppo dal suo, di non essere affatto “plastico” alle critiche dei colleghi; James cita in proposito un passo dell’autobiografia: “Libri sistematici di carattere etico o politico, scritti da punti di vista distanti dal mio, non furono da me mai consultati, oppure diedi loro solo un’occhiata, prima di abbandonarli definitivamente” (Ivi, p. 116), un atteggiamento questo radicalmente differente da quello di William James, che, come abbiamo visto proprio riguardo a Spencer, fu sempre enormemente stimolato da coloro che la pensavano differentemente. James ricorda poi un aspetto del filosofo inglese sconosciuto ai più: egli era infatti un buon disegnatore, aveva quel che si dice un buon orecchio e praticava il canto; curava molto lo stile (come d’altronde lo stesso James) e non era insensibile alla poesia; purtroppo, rileva James, anche nel campo artistico, Spencer si distinse per la propria aridità. Ivi, p. 122. Nella seconda parte dell’articolo-recensione James analizza più dappresso il pensiero filosofico di Spencer: prima di tutto rileva come le leggi ch’egli elabora per spiegare l’evoluzione dell’universo sono di tipo statistico e quindi non dotate di quell’assolutezza che lo stesso Spencer pretendeva avessero, inoltre il suo tentativo di spiegare i fenomeni naturali e umani da un punto di vista rigidamente meccanicistico è fallimentare sotto due punti di vista: prima di tutto si tratta di un modo “parziale” di vedere le cose, e inoltre, anche all’interno di questa prospettiva, Spencer non è in grado di mantenersi su un piano puramente scientifico: I termini che utilizza sono la vaghezza e l’ambiguità incarnate ed egli pare incapace di attenersi al punto di vista meccanicistico per più di cinque pagine consecutivamente. Ivi, p. 132. La critica di James prosegue con la sottolineatura dell’ambiguità delle leggi e dei termini utilizzati da Spencer, in modo simile a quanto fatto nell’articolo del ’78 sul concetto spenceriano di mente come corrispondenza, ma finisce in certo modo in maniera indulgente: Il compito di un critico malevolo è però un brutto affare. Gli Essays, la Biology, la Psychology, la Sociology e lEthics sono migliori dei First Principles, e contengono numerosi spunti di ammirevole profondità. La mia impressione è che, dei trattati sistematici, la Psicologia sia la più originale. Spencer ha aperto la strada a un nuovo modo di pensare insistendo sul fatto che mente e ambiente si sono evoluti congiuntamente [e non solo contemporaneamente] e che perciò debbono essere studiati insieme. Egli ha posto definitivamente fine allo studio della mente isolata e questo è certamente un grande risultato. A dire la verità egli, come al solito, ha esagerato e non ha lasciato alcuna autonomia alla mente, che rimane il risultato passivo delle impressioni ricevute dal mondo esterno [...] Ivi, p. 140. ix

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xi Soltanto al prezzo di non ereditare dei gruppi di tendenze istintive, egli può opportunamente classificare ogni caso nuovo, scoprendo di fresco, per mezzo della sua ragione, princìpi nuovi. Egli è, per eccellenza, l’animale educabile. Se, quindi, la legge per cui si ereditano le abitudini trovasse nell’uomo un esempio, cesserebbe ben presto la sua perfettibilità [e soprattutto la sua duttilità] e quando consideriamo le razze umane, troviamo realmente che quelle che da principio sono più istintive, sono infine le meno educate. [...] Osserviamo una differenza analoga [a quella fra uomini del Nord e del Sud] fra l’uomo e la donna, presi in complesso. PP, p. 990. Questo passo è molto interessante perché sembra dare una risposta chiara a chi si domandi perché James abbia preferito aderire alle, ancora notevolmente criticate, teorie darwiniane, quando molti suoi amici e colleghi — come Peirce, ma anche Renouvier — vedevano nel lamarckismo la forma più ‘filosofica’ di evoluzionismo; tratteremo più approfonditamente questo argomento avanti, quando tireremo le fila dell’influsso dell’evoluzionismo darwiniano su James, un tema ch’è trattato dallo stesso autore dei Principles, significativamente, nell’ultimo capitolo, intitolato Necessary Truths and the Effects of Experience. Purtroppo James, tanto abile nel cogliere i pregiudizi degli altri, spesso non si rendeva conto di averne di fortissimi; come visto dal brano succitato, James distingue abbastanza radicalmente fra popolazioni del Nord e popolazioni del Sud. Verso la fine di Brute and Human Intellect lo psicologo americano (dell’America del Nord...) si lascia andare a considerazioni che potrebbero stare in bocca tranquillamente a Montesquieau: Un italiano non educato è, in larga misura, un uomo del mondo; egli ha delle percezioni istintive, tendenze al comportamento, reazioni, in una parola, al suo ambiente, di cui un tedesco non educato è completamente carente. Se quest’ultimo non fosse educato sarebbe un personaggio ben grezzo; ma, d’altro lato, la pura assenza nel suo cervello di tendenze innate lo rende capace di innalzarsi, per il tramite dell’educazione, con lo sviluppo della sua capacità raziocinante, in quelle complesse regioni della coscienza che l’italiano probabilmente non potrà mai raggiungere. EPS, p. 37. Non vogliamo qui difendere la razionalità e l’educabilità della popolazione italiana, semplicemente viene fatto di chiederci se William James la pensasse alla stessa maniera anche dopo aver conosciuto persone come Papini, che tanto fecero per la conoscenza del pragmatismo in tutta Europa; purtroppo James non è immune da cadute di stile come quella riportata sopra ed è un po’ a malincuore — vista la nostra ammirazione per William James — che dobbiamo condividere, almeno in parte, il giudizio di Sini: [...] Se c'è un tratto caratteristico dello stile di pensiero di James è proprio questa sua felicità intuitiva, questa sua genialità nel cogliere spunti e prospettive originali, per subito dopo abbandonarli o, più spesso, annacquarli in prolisse considerazioni di psicologia spicciola o di filosofia popolare delle quali infarcisce tutte le sue opere. In James prevale sempre lo stile del "conferenziere" e il gusto per il "gioco intellettuale", come diceva suo fratello Henry. C. Sini, op. cit., p. 286, n. 67. xii I Principles si rivelano spesso utili strumenti per cercare di comprendere, insieme col suo pensiero, la personalità di William James; In un paragrafo del capitolo sulla Volontà, intitolato “The Obstructed Will”, James sembra descrivere una condizione molto simile a quella che, secondo le sue stesse parole e le testimonianze di amici e parenti, egli visse, nella sua forma più acuta, poco dopo la laurea: Cotkin sembra non avere dubbi in proposito: Di fronte a sensazioni o pensieri in competizione fra loro, l’individuo entra in un periodo di “inquietudine interna conosciuto come indecisione”. Quando l’indecisione diventa cronica e, conseguentemente, il processo di deliberazione diventa il suo unico fine, allora l’azione sembra essere impossibile. James discusse una condizione di indecisione sotto la rubrica “malattia della volontà”. La “volontà ostruita” descrive un tipo di personalità che si avvicina a quello proprio di James durante i suoi anni di depressione.. G. Cotkin, op. cit., p. 66. Per Cotkin il dilemma sulla libertà dell’uomo sarebbe un caso tipico di indecisione in cui la volontà dell’uomo può trovarsi in un determinato periodo della propria vita, che può durare anche anni, mettendo in crisi la personalità dell’individuo che subisce questo ‘blocco’ della volontà;. James ritiene che la “volontà ostruita” può darsi fondamentalmente per due motivi: o c’è una carenza di impulsi (impulsion insufficient) o c’è un eccesso di inibizione (inhibition in excess); sembrerebbe, conoscendone ora bene la biografia, che James, se soffrì di “obstructed will” lo fu principalmente per un eccesso di inibizione piuttosto che per una carenza di impulsi. Ma, a prescindere dai riferimenti autobiografici di questo capitolo, che qui ci interessano poco, è opportuno notare quali possono essere, per lo psicologo americano, le cause di questa stato di indecisione cronica. Prima di tutto bisogna distinguere fra una condizione momentanea e una condizione permanente; a tutti, dice James, è capitato di rimanere con gli occhi fissi nel vuoto in uno stato quasi catalettico senza risolversi a prendere una decisione, ma si può parlare di malattia (morbid condition) solo quando questa condizione diventa la regola e non l’eccezione; le condizioni di abulia momentanee possono essere provocate da una profonda stanchezza, da uno stato di prostrazione fisica e psichica. Per quanto riguarda i casi cronici James non sembra volere, o potere, fornire alcuna eziologia. Uno stato di indecisione, per certi versi simile a quella che coinvolge l’uomo che non riesce a decidersi di scendere dal letto, è descritta anche nel capitolo sull’attenzione (l’XI). Cfr. PP, p. 382.

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