TRE ERRE (3R) - Quaderno Informativo N°0

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INDICE Pag. 04 Percorso di Conoscenza e di Auto-

Coscienza

Pag. 05 Perchè Fondazione Romanì Italia Pag. 10 Azione di sistema TRE ERRE (3R) Pag. 14 TRE ERRE (3R)

Campagna di comunicazione sociale

Pag. 16 INSEGNARE

Un sogno da realizzare

Pag. 20 Il Teatro oggi tra pedagogia

e Intercultura

Pag. 22 Storia e memoria del Porrajmos per

il tempo presente

Pag. 31 Il disastro della “pedagogia zingara” Pag. 35 Un’idea Rom per uscire dalla logica

dei campi nomadi

Pag. 38 Mi chiamo Blanka Pag. 39 Per 30 anni non ho mai lavorato progetto editoriale a cura di: Fondazione romanì Italia Via Zoe Fontana, 220 00131 Roma Tel 06.41531263 Fax 06.4131671 www.fondazioneromani.it

Pag. 41 U Chavurò, bambino emotivamente

intelligente Pag. 44 Le capriole Pag. 46 La popolazione romanì

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PERCORSO DI CONOSCENZA E DI AUTO-COSCIENZA di On. Letizia La Torre

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on la campagna TRE ERRE e con la pubblicazione trimestrale di questo “quaderno” informativo da parte della Fondazione Romanì Italia si mette in moto un importante percorso comunicativo e di sensibilizzazione, volto a far conoscere all’esterno delle comunità rom la cultura, i valori, la storia di un popolo troppo spesso oggetto di discriminazione. Ma soprattutto la campagna intende rivolgersi all’interno delle comunità rom ed in particolare ai bambini e ai giovani che sono i primi a soffrirne le conseguenze e a vivere una profonda crisi di identità, ignorando troppo spesso le proprie radici, la propria storia e le proprie tradizioni che non trovano posto nei programmi scolastici e sono misconosciute dalla società. Come recita la campagna: “occorre ritrovare la ‘giusta direzione’ che per i ragazzi e le ragazze rom deve fondarsi su una riscoperta dei valori della propria cultura romanì. Solo così si potrà ricostruire un sentire interiore da cui può scaturire un nuovo rispetto di sè, il rispetto degli altri e la responsabilità delle proprie azioni”. In questo senso, l’azione avviata ha una forte valenza culturale ma anche sociale, perché ben si innesta in un mondo globalizzato e contemporaneamente tutto composto di minoranze, nella accresciuta e generalizzata mobilità dei popoli.

E sono proprio i bambini e i giovani di oggi a cui dobbiamo fornire gli strumenti necessari per “riconoscersi” in una comunità, in una storia, in una cultura affinchè siano in grado domani di vivere consapevolmente la loro identità di uomini e donne consci della propria identità e appartenenza, al di là delle etnie, ma in grado di “abitare” qualunque luogo della terra. In questo senso, la scuola ha una grande responsabilità nella formazione e nell’inclusione, accoglienza e conoscenza di minoranze ed etnie composite. Alla scuola sono richieste oggi coraggio, visione strategica e apertura ai cambiamenti. Per questo ritengo che la campagna TRE ERRE sia molto importante in questo percorso di conoscenza e auto-coscienza, in particolar modo per i ragazzi e i giovani rom e possa davvero contribuire a rendere non solo le nostre scuole e i nostri ragazzi, ma tutti noi più preparati al conoscerci e all’incontrarci in un dialogo tra i valori proposti da persone diverse, prima ancora che da diverse culture. L’interculturalità si rafforza, infatti, sui motivi dell’unità, della diversità e della loro conciliazione dialettica e costruttiva nella società multiculturale, attraverso l’educazione alla reciprocità e all’integrazione, in grado di formare i nostri ragazzi, tutti, ad essere cittadini di domani, costruttori della propria realtà locale ma capaci di agire da cittadini del mondo.


PERCHÈ FONDAZIONE ROMANÌ ITALIA?

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a scelta di costituire Fondazione Romanì Italia nasce dalla necessità di utilizzare il miglior strumento gestionale per creare sinergie e dare “risposte ragionate” ad esigenze che hanno radici profonde e che sinteticamente possiamo definire come un diverso processo cognitivo della romanipè per “elaborare una nuova romanipè”, basata sulla consapevolezza: 1. di vivere all’interno di una cultura che evolve senza sosta e che non è statica e immutabile; 2. che la società moderna esige l’introiezione di strumenti decodificatori con i quali è possibile interloquire con essa;

3. che il patrimonio umano e culturale della persona sono parte integranti della società e contribuiscono alla crescita sociale e culturale; 4. che occorre pensare in termini di interculturalità per avviare processi di evoluzione culturale dinamici, inclusivi e valorizzanti per le culture; 5. che le dimensioni dell’incontro con le culture diverse non possono prescindere dell’utilizzazione consapevole di competenze cognitive;

6. di costruire un progetto culturale ed una diversa comunicazione sociale per avviare un dibattito pubblico. Di fronte alla facile e diffusa tendenza ad elencare e denunciare i problemi, la Fondazione romanì Italia si propone come strumento positivo per pensare e costruire soluzioni, non improvvisate, bensì azioni di sistema di un progetto ampio, coerente ed inserito in un contesto dotato di senso. Soluzioni che rispondano ai bisogni complessivi delle comunità, che non siano staccate e lontane dalla società. La Fondazione romani Italia, nella sia accezione di fondazione di partecipazione, è aperta al contributo ed alle idee delle tante persone/associazioni disponibili e sensibili alla tematica delle minoranze etniche e dell’immigrazione, dei diritti, della cultura, dell’interculturalità, della crescita sociale e culturale delle giovani generazioni. Uno sguardo alla realtà della popolazione romanì pone subito in primo piano un peggioramento sempre maggiore delle condizioni di vita delle comunità rom e sinte.

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PERCHÈ FONDAZIONE ROMANÌ ITALIA?

In linea generale per la popolazione romanì si continua: • a pensare in termini di politiche differenziate, di assistenzialismo culturale e di folclorismo, ignorando tutti i fallimenti del passato; • a teorizzare l’interculturalità e l’interazione culturale e si mette in pratica il multiculturalismo e la segregazione culturale; • a giustificare il “fatalismo persecutorio” e lo “sviluppo di una mentalità assistenziale” da parte della popolazione romanì, si tende a generalizzare e denunciare il disagio, l’esclusione e la discriminazione senza individuare soluzioni integrati in un contesto dotato di senso; • ad ignorare il patrimionio umano e culturale di gran parte della popolazione romanì, che NON vive in soluzioni abitative segregante, e costretta all’assimilazione culturale per l’assenza di una casa comune, l’elaborazione di un progetto culturale; • ad utilizzare le opportunità di partecipazione attiva per per esaltare o accreditare la visibilità personale e l’autorefenzialità, che alcune volte è “l’eccezione che conferma la regola” degli stereotipi, troppe volte è la conferma degli stereotipi.

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Sembra evidente che non esista la volontà, e spesso le competenze, per vedere le cause reali che portano a peggiorare la condizione della popolazione romanì, ed il “SISTEMA”, composto da metodi-strategie-interventi, finora utilizzato non ha prodotto benefici utili alla popolazione romanì. Un “sistema” che sta conducendo la minoranza romanì verso la delegittimazione dei

diritti, della partecipazione attiva e della diversità culturale romanì. Un “sistema” che legittima l’apartheid della popolazione romanì con proposte e soluzioni prive di senso per le politiche sociali e culturali pubbliche del terzo millennio, perchè troppo spesso non sono inserire in un contesto dotato di senso. Un “sistema” che appiattisce la comunicazione sociale su stereotipi, pregiudizi e folclorismo. Con la promessa di diffondere la conoscenza della cultura romanì si attivano progettazioni che irrimediabilmente conducono verso la conferma di stereotipi e pregiudizi negativi, del folclorismo che producono discriminazione. Numerosi sono gli esempi di progettazione, anche istituzionali, che confermano gli stereotipi e pregiudizi negativi della popolazione romanì. Non abbiamo alcun dubbio sulla buona fede dei promotori di queste progettazioni, ma la loro continuità pone molti dubbi. Per poter svolgere un ruolo attivo e propositivo e realizzare azioni di sistema occorre disporre di autonomia, non solo da ideologie e da lobbies, ma anche finanziaria. L’istituto giuridico della fondazione, per sua natura, risponde a questa necessità. Intervenire con soluzioni adeguate basandosi esclusivamente sui contributi dell’ente pubblico, fa allontanare la soluzione delle problematiche. La Fondazione, nella accezione di partecipa-


zione, risulta essere lo strumento giuridico più adeguato per autofinanziarsi e creare azioni di sistema. La scelta di una fondazione di partecipazione come aiuto agli altri per aiutare se stessi non è solo un valore, ma un indicatore di cambiamento possibile. Le Istituzioni europee sollecitano ad elaborare politiche integrate, specifiche e non esclusive, ed a migliorare la comunicazione sociale, ma il cambiamento di metodo e delle scelte sbagliate del passato fanno paura a troppi opportunisti, esperti in false interpretazioni e illusorie promesse. Teoricamente a tutti i livelli è riconosciuto che la partecipazione attiva dei rom è la strategia, efficace ed efficiente, per migliorare il processo di percezione delle informazioni e per mettere in discussione il modello degli interventi di sviluppo che hanno condizionato la nostra esistenza individuale e di minoranza etnico lunguistica. Praticamente i bisogni della popolazione romanì sono ridotti a pura assistenza sociale. Il tema della cultura è spostato verso una ba-

nale sopravvivenza e l’evoluzione della cultura romanì è ancora un tabù, ostaggio del folclorismo e dell’autorefenzialità, mentre la partecipazione attiva dei rom è considerato “un mezzo” per obiettivi occasionali, autoreferenziali e personali. Si è innescato un meccanismo perverso e confuso di ruoli che si confondono e si sovrappongono, di strategie tecnicamente mirate che NON permettono di mettere in discussione il modello degli interventi di sviluppo, che hanno peggiorato la comunicazione sociale ed impedito di interiorizzare corrette informazioni di base. La mente umana ha bisogno di schemi e di aspettative dove contenere le informazioni, e per suddividere ed organizzare le informazioni percepite utilizza gli stereotipi. Le infinite informazioni che arrivano dalla realtà esterna alla mente umana vengono filtrati: 1. PASSANO alcune informazioni, altre sono ESCLUSE dalle fasi successive (selezione). Come vengono “trattati” le informazioni distorte del mondo rom e della cultura romanì? Come vengono selezionate tali infor-

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mazioni in funzione della possibilità di inserirli in un contesto dotato di senso? 2. Dopo la selezione le informazioni prendono una struttura ed acquiscono stabilità, vengono divisi ed organizzati in categoria (categorizzazione). La “categorizzazione sociale” si base su stereotipi, che vengono conservati nella memoria come associazione tra la denominazione del gruppo e le caratteristiche ad esso attribuite. Quale categorizzazione sociale della popolazione romanì si è strutturata dalle politiche diffenziate, dall’assistenzialismo culturale, dal folclorismo, senza possibilità di inserirle in un contesto dotato di senso; 3. La fase finale del processo di percezione è l’interpretazione, in cui viene assegnato un significato allo stimolo categorizzato. Quante false interpretazioni del mondo rom e della cultura romanì si sono strutturate nel passato dal processo di percezione delle informazioni?

08 Gli stereotipi sono rappresentazioni cognitive

che hanno origine nella fase di categorizzazione delle informazioni. “Gli stereotipi fanno parte del funzionamen-

to della mente umana e sono uno strumento di economizzazione delle risorse cognitive, finché non sconfinano verso la formazione di dicotomie esasperate, esercitando forzature gratuite sui fatti.” Gli stereotipi costituiscono il nucleo cognitivo del pregiudizio. Le informazioni che smentiscono lo stereotipo sono rilevate quando sono inserite in un contesto dotato di senso, perchè la memoria é un processo ricostruttivo interpretativo, in cui la persona recupera o perde le informazioni in funzione della possibilità di inserirli in un quadro interpretativo dotato di senso. Perchè Fondazione romanì Italia? • Perchè il “sistema” utilizzato finora per migliorare le condizioni di vita della popolazione romani e per l’evoluzione della cultura romanì, non ha funzionato e non funziona; è necessario individuare lo strumento gestionale migliore per avviare il cambiamento dell’attuale “sistema”; • Perchè l’esclusione e la discriminazione della popolazione romanì derivano in gran parte dalla stigmatizzazione prodotta dagli stereotipi che si sono strutturati nella fase di categorizzazione delle informazioni, durante il “processo di percezione”; • Perchè NON è sufficiente unire un gruppo di persone e/o di associazioni, più o meno numeroso, ma condividere l’elaborazione di una nuova romanipè per evitare una profonda crisi della cultura romanì, abbandonando il modello di “resistenza etnica” di chiusura verso l’altro, attivata dalla popolazione romanì con l’intento di tutelare la propria cultura, condizione che sta conducendo verso l’isolamento culturale;


PERCHÈ FONDAZIONE ROMANÌ ITALIA?

• Perchè occorre fare un salto di qualità per uscire dalla logica etnocentrica, pensare in termini di interculturalità e coniugare “uguaglianza e differenza”; • Perchè è necessario un diverso processo cognitivo della romanipè per elaborare una nuova romanipè. Elaborare una nuova romanipè vuoldire spingersi verso un futuro, senza negare quando di valido c’è nella tradizione, che rafforzi una maggiore consapevolezza culturale per un reciproco riesame critico, e che sappia superare il rischio di falsi modelli che possono orientare verso una distorta coscienza dell’essere rom.

La Fondazione romanì Italia vuole essere un avamposto che faccia vedere concretamente un differente modo di porsi nelle relazioni tra gli uomini, nei rapporti tra le istituzioni, nella scala delle priorità per gli individui e per i corpi sociali. La Fondazione romanì Italia è una organizzazione nazionale con dislocazioni territoriali, per un maggiore radicamento nei territori e per attivare azioni di filantropia comunitaria, una delle strategie per l’autonomia della fondazione. “La mente è come un paracadute. Funziona solo se si apre” (A. Einstein)

Una nuova romanipè per rimuovere le convinzioni che hanno manipolato la realtà e la cultura romanì nel processo di percezione delle informazioni, per riformulare l’orientamento verso il futuro, per una diversa comunicazione sociale, per “una riforma morale, intellettuale e politica” della causa romanì, per passare dal multiculturalismo all’interculturalità. La Fondazione romanì Italia è lo strumento gestionale e progettuale per un diverso processo cognitivo della romanipè per elaborare una nuova romanipè, per costruire soluzioni e motivare progetti, per assumere posizioni proprie con l’autorevolezza che gli deriverà dalla qualità del lavoro di cui sarà capace, per intraprendere iniziative che non si limitino all’elaborazione di teorie astratte, ma si dimostrino capaci di costruire progetti concreti, utili ed innovatori.

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Azione di sistema TRE ERRE (3R) Rispetto per te stesso Rispetto per gli altri Responsabilità per le tue azioni

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a Fondazione romanì Italia si propone lo scopo di “contribuire alla crescita sociale e culturale delle giovani generazioni appartenenti alle comunità romanès (rom, sinte, kale, manousches, romanichels), favorire il benessere sociale e culturale del fanciullo e del giovane, superare il disagio giovanile, promuovere l’interculturalità e la cultura romanì.” TRE ERRE (3R) - Rispetto per te stesso, Rispetto per gli altri, Responsabilità per le tue azioni - è un’azione di sistema della Fondazione romanì Italia, un network di comunicazione sociale, di processi di acculturazione e di comunity welfare per ricercare ed evidenziare le cause di “equivoci ed incomprensioni” verso il fanciullo rom (e non solo) che hanno ostacolato “conquiste è scoperte”.

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L’azione di sistema TRE ERRE (3R) è un progetto culturale strutturato nello sviluppo di tre azioni progettuali finalizzati all’elaborazione di una nuova romanipè: 1. TRE ERRE (3R) Campagna di comunicazione sociale; 2. TRE ERRE (3R) Adozioni in vicinanza; 3. TRE ERRE (3R) Fuochi attivi

Le strategie per la realizzazione dell’azione di sistema TRE ERRE (3R) sono l’etica come norma e la partecipazione attiva e professionale dei rom specifica e non esclusiva. In brevissima sintesi le tre azioni progettuali dell’azione di sistema TRE ERRE (3R): 1. TRE ERRE (3R) Campagna di comunicazione sociale per dare una risposta cognitiva alla rappresentazione sociale negativa che si abbatte sui bambini ed i giovani rom: i pregiudizi, l’integrazione culturale ed i diritti del fanciullo. Per rimuovere le convinzioni che hanno manipolato la realtà romanì e promuovere l’interculturalità. “L’etica della comunicazione” come filosofia del linguaggio per disancorarsi dalle rappresentazioni sociali negative. 2. TRE ERRE (3R) Adozioni in vicinanza: processi di integrazione culturale individualizzati attraverso l’adozione in vicinanza. Il malessere educativo del bambino rom si manifesta con il suo inserimento a scuola, quando vengono a mancare la conoscenza reciproca, ovvero la corrispondenza tra i due modelli di educazione: quello della scuola e quello della famiglia. Di conseguenza il problema diventa allora capire che cosa si rompe in quel momento nel rapporto tra emozione-conoscenza-


interazione e soprattutto quali tipi di risposte dare. 3. TRE ERRE (3R) Fuochi attivi: La Fondazione romanì Italia intende accendere piccoli fuochi. Piccolo fuochi, non incendi. Piccoli fuochi per fare luce, essere visibili ed avviare un grande movimento. Attraverso borse lavoro la fondazione romanì Italia intende avviare la formazione di attivisti romanì in ambito sociale e culturale, professionisti qualificati per avviare processi di acculturazione e di comunity welfare. Le relazioni umani sono cose complicate, lo sono perchè siamo complicati, lo siamo tutti anche se pensiamo che siano gli altri ad esserlo. Manca spesso la trasparenza nei rapporti umani per il semplice motivo che non riusciamo ad essere trasparenti con noi stessi, non riusciamo ad essere onesti verso noi stessi. L’essere umano fa così fatica a leggere se stesso perchè abituato a difendersi in continuazione, prima da se stesso poi dall’altro. Eppure riusciamo a ferire l’altro con grande facilità, in tutti i modi e spesso senza rendercene conto. Ci crediamo il centro dell’universo, le nostre piccole conoscenze ci fanno gonfiare il petto per fare ombra all’altro o metterlo in cattiva luce, è più forte di noi, sembra che ci sia come una molla interiore che ci spinge a disumanizzare l’altro, a farne una controfigura negativa. Dobbiamo chiederci verso quale modello di sviluppo umano stiamo andando? Verso che tipo di democrazia? Il rischio che possa profilarsi una società dove le differenze diventano diseguaglianze e dove

la distanza aumenta tra chi è competente, competitivo e chi non lo è diventa un rischio concreto. L’identificazione costante con un unico tratto ritenuto anomalo non permette di vedere la richezza complessa dello sviluppo globale della persona come persona. Oggi la tendenza è di oscillare tra differenzialismo che esclude, separa e ghettizza e assimiliazionismo che nega le differenze; non dobbiamo dimenticare che siamo insieme simili e diversi. Troppo poco è stato fatto per l’evoluzione culturale delle culture diverse, qualche volta è ridotta all’occasionalità, estemporaneità e superficialità, spesso è ostaggio del folclorismo, dell’autorefenzialità, del personalismo. Si è innescato un meccanismo perverso e confuso di ruoli che si confondono e si sovrappongono di strategie a volte empiriche a volte tecnicamente mirate che hanno impedito all’opinione pubblica di interiorizzare CORRETTE informazioni di base. “La mente umana è un computer la cultura è il suo software” La cultura è come siamo programmati a fare le cose di ogni giorno, influenza il nostro modo di comportarci, di reagire alle situazioni, di stabilire la priorità delle cose. Le culture sono dinamiche si modificano sempre, sono i processi di acculturazione ed inculturazione che si scelgono di attivare che determinano il modello di adattamento. Le dimensioni dell’incontro con le culture diverse sono: Conoscenza, Interpretazione, Intervento. Una certa tendenza nella tematica dell’inter-

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culturalità collega interpretazione e intervento nelle sfere etiche e socio affettive, mentre la conoscenza è collegata nella sfera cognitiva. L’interpretazione della cultura diversa può limitarsi a fornire competenze culturali astratte rispetto a comportamenti e scelte da assumere? No. Perchè produce buonismo, assistenzialismo culturale ed apartheid. La società tende a generalizzare e ridurre i bisogni a pura assistenza sociale, nessun aiuto all’evoluzione culturale e politica, sposta il tema dalla cultura spesso ad una banale sopravvivenza. L’esclusione del popolo rom è una esclusione cognitiva perchè al posto della conoscenza prevalgono pregiudizi e stereotipi e la diversità culturale è esorcizzata dalle paure. Pregiudizi e stereotipi sono usate e diffuse dall’azione istituzionale, nascono e crescono dalle soluzioni sbagliate, producono repressione, razzismo e discriminazione. 50 anni di politiche per la popolazione romanì sono stati contraddistinti da: Politiche differenziate, Assistenzialismo culturale, Folclorismo. Eccessivamente è stato giustificato alla popolazione romanì un “fatalismo persecutorio” e lo “sviluppo mentalità assistenziale”. La strada più semplice per autorefenziarsi.

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Il disagio, l’esclusione e la discriminazione della popolazione romanì sono stati eccessivamente generalizzati e denunciati senza individure soluzioni integrati in un contesto dotato di senso, ignorando il patrimionio umano e culturale di quella parte romanì che NON vive in condizioni segreganti e che troppo spesso deve subire l’umiliazione culturale oppure

all’assimilazione culturale per l’assenza di un progetto culturale. La regola è stata quella di utilizzare le opportunità di partecipazione attiva per accreditare la visibilità personale e l’autorefenzialità, oppure “l’eccezione che conferma la regola” degli stereotipi e dei pregiudizi. Non esista la volontà (più che le competenze) per analizzare le cause reali che hanno peggiorato le condizione di vita della popolazione romanì, ed il “SISTEMA” finora utilizzato ha peggiorato le condizioni della popolazione romanì. Un “sistema” che produce delegittimazione culturale, dei diritti e della partecipazione attiva. Un “sistema” che legittima l’apartheid con soluzioni inserite in un contesto privo di senso. Un “sistema” che appiattisce la comunicazione sociale su stereotipi, pregiudizi e folclorismo. Le responsabilità: della Politica e dei media, delle Comunità romanès, dei Leaders romanì, della società civile. Le Istituzioni europee sollecitano politiche integrate “specifiche e non esclusive” per migliorare il processo di percezione delle informazioni e per mettere in discussione il modello degli interventi di sviluppo del passato (che hanno condizionato la nostra esistenza individuale e di minoranza etnico lunguistica). Un popolo con una storia di rifiuto attiva una “resistenza etnica” per tutelare e/o difendere la propria cultura: • Chiusura nei confronti dell’altro per TUTELARE la sua cultura; • Lotta armata contro l’altro per DIFENDERE


Azione di sistema TRE ERRE (3R)

la sua cultura; • La scelta di chiusura verso l’altro non ha permesso lo scambio cultiurale e quindi una corretta conoscenza. Questa scelta ha ostacolato una evoluzione della cultura romanì. Cosa fare? Acquisire gli strumenti per essere consapevoli di vivere all’interno di una cultura che evolve senza sosta e che non è statica e immutabile, fare un salto di qualità per uscire da una logica etnocentrica, attivare scambio e confronto per la valorizzazione reciproca, le culture sollecitate ad una evoluzione interculturale. Tutto questo presuppone di pensare in termini di interculturalità, non più di multiculturalismo. Lo sviluppo dell’intercultura è possibile se il patrimonio umano della persona è considerato parte integrante della società e contribuisce alla crescita sociale e culturale, se il suo bagaglio culturale è considerato un valore. Un radicale cambiamento passa attraverso azioni di sistema. Abbandonare la “resistenza etnica” di chiusura verso l’altro attivata dalla popolazione romanì con l’intento di tutelare la propria cultura per pensare e costruire soluzioni di un progetto culturale inserito in un contesto dotato di senso, soluzioni ai bisogni complessivi delle comunità che non siano staccate e lontane dalla società. Avviare processi di acculturazione, di comunuty welfare e comunicazione sociale per: 1. spingersi verso un futuro senza negare quando di valido c’è nella tradizione;

2. superare il rischio di falsi modelli che possono orientare verso una distorta coscienza dell’essere rom; 3. rimuovere le convinzioni che hanno manipolato la realtà e la cultura romanì nel processo di percezione delle informazioni. Processi di accultutazione, Processi di comunity welfare, Comunicazione sociale sono tutti processi da attivare per definire un diverso processo cognitivo della romanipè. Una nuova romanipè” basata sulla consapevolezza di vivere all’interno di una cultura che evolve senza sosta che non è statica ed immutabile, che la società moderna esige l’introiezione di strumenti decodificatori con i quali è possibile interloquire con essa, che è necessario pensare in termini di interculturalità per avviare processi di evoluzione culturale dinamici inclusivi e valorizzanti per le culture. Una nuova romanipè che rafforzi una maggiore consapevolezza culturale per un reciproco riesame critico e riformulare l’orientamento verso il futuro. Fondazione romanì Italia

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TRE ERRE (3R)

Campagna di comunicazione sociale

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a crisi d’identità dei ragazzi e delle ragazze rom è sotto gli occhi di tutti. Senza alcuna oppurtunità di interazione culturale, assistiamo a fenomeni di identificazione extra culturale, dove i bambini ed i giovani rom ogni giorno perdono un pezzo della loro vita e della loro storia, e rischiano di approdare in terreni minati, alienanti sul piano psicologico ed identitario, dove il confine tra consentito e non consentito salta e lascia spazio all’inquietudine del nulla, un vuoto in cui penetrano i virus della società. Per le nuove generazioni rom il fascino che regola la “giusta direzione” non proviene più da un sentire interiore, cioè riflesso da un pregresso culturale, ma la sorgente di attrazione proviene dall’esterno, dai margini della comunità civile, dove fonti di “lavoro” si trovano a “buon prezzo” e dove il solo requisito richiesto è la disperazione alla vita, la pura sopravvivenza. La “giusta direzione” per i ragazzi e le ragazze rom si può trovare nella riscoperta di un sé troppo spesso negato, nell’elaborazione di un nuovo processo cognitivo della romanipè.

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Oggi la comunicazione è un tema di forte rilevanza sociale e culturale che incide profondamente nella vita delle persone e dei gruppi, perchè l’orizzonte cognitivo della maggior parte dei cittadini è determinato dai contenuti diffusi dai mezzi di comunicazione, che sono gli artefici della creazione delle tendenze di

opinioni. Ciclicamente ondate di notizie ed informazioni colpiscono la popolazione romanì ed i bambini rom sono le prime vittime di un sistema e di processi comunicativi che si nutrono di stereotipi e pregiudizi, gli stessi che li hanno generati. Si accendono dibattiti, si presentano denunce, si promuovono manifestazioni, si attivano progetti, si disegnano tentativi di “sensibilizzazione”, iniziative che si nutrono di stereotipi e pregiudizi negativi, gli stessi che li hanno generate, e che mettono in evidenza un abuso della comunicazione e dei mezzi di informazione, utilizzati in un senso strumentalmente ideologico ed asserviti a scopi di parte. La Campagna TRE ERRE (3R) è la risposta ragionata alla rappresentazione sociale negativa che si abbatte sui bambini ed i giovani rom, è una articolata campagna di comunicazione, progettata con la partecipazione attiva, specifica e non esclusiva, di professionisti rom, per decriptare stereotipi e pregiudizi, e promuovere l’interculturalità. Produzione ed attività del progetto TRE ERRE (3R): • studio e produzione di n. 3 video/spot di circa 60 secondi. Ciascun spot è dedicato ad una tematica. Gli spot saranno diffusi attraverso le TV nazionali, locali ed europee. • Studio e realizzazione di una campagna contro la romanofobia, l’odio contro le comu-


nità rom e sinte. Studio e definizione di un messaggio comunicativo incisivo della campagna. Produzione di un manifesto 6X3 che sarà diffuso nelle diverse province Italiane • Produzione di materiale informativo, cartaceo e mediatico • Il materiale del progetto sarà presentato con la realizzzione di eventi (minimo 20) da relizzare nelle diverse province dell’Italia ed in alcune città europee, con la collaborazione di organizzazioni rom e della società civile, istituti di ricerca, il coinvolgimento della politica, delle istituzioni, dei media e dei rom. La Campagna TRE ERRE (3R) avrà inizio da Novembre 2012 e si concluderà a Dicembre 2013: • Novembre 2012: Presentazione nazionale della campagna • Novembre 2012/Febbraio 2013 diffusione del 1° video e del 1° manifesto. • Marzo 2013/Luglio 2013 diffusione del 2° video e del 2° manifesto • Agosto 2013/Novembre 2013 diffusione del 3° video e del 3° manifesto • Dicembre 2013 evento nazionale conclusivo della campagna TRE ERRE (3R) Novembre 2012/novembre 2013 con la collaborazione delle organizzazioni rom e della società civile sarà realizzato un evento pub-

blico in ciascuna regione Italiana, in cui sarà presentato e diffuso il materiale della campagna e saranno coinvolti a politica, le istituzioni, i media, le comunità rom e sinte, l’opinione pubblica. Sostieni il progetto TRE ERRE (3R) con l’erogazione di un contributo, che potrai dedurre dal reddito imponibile: c/c postale n. 1007507740 intestato a Fondazione romanì Italia IBAN: IT 47 S 07601 15300 001007507740 Qualsiasi importo vorrai donare sarà un aiuto concreto e visibile per contribuire alla crescita sociale e culturale delle giovani generazioni. “Con tutto il denaro del mondo non si fanno gli uomini, li si degrada; ma con persone che donano se stesse, si fa tutto, compreso il denaro, che allora non è più padrone ma servitore” (Abbè Pierre – Presbitero cattolico, partigiano, uomo politico).

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INSEGNARE

un sogno da realizzare

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ra il 1998 quando arrivai a Roma. Mi ero diplomata e dopo tanti lavoretti avevo trovato la possibilità di un lavoro. Nel 1999 viene bandito il concorso e tra lavoro e studio riesco ad abilitarmi all’insegnamento nella scuola dell’infanzia. Iscritta nelle graduatorie abruzzesi, regione dalla quale venivo, non ero mai stata chiamata per supplenze. Continuavo il mio lavoro a Roma da pendolare e quando mi sposai mi inserii nelle graduatorie del Lazio. Mai avrei pensato che da li a qualche anno avrei avuto la possibilità di iniziare il mio percorso di insegnate. Penso di avere l’insegnamento nel sangue come una missione da compiere. E’ evidente che la preparazione pedagogica, didattica e metodologica non possono che essere apprese attraverso lo studio e l’aggiornamento ma c’è un altro fattore fondamentale che fa la differenza tra un ottimo insegnante e un insegnante mediocre: il cuore. Forse è retorica ma nella mia esperienza nella scuola dell’infanzia ho capito che insegnare con amore può fare la differenza. Ho cominciato a fare supplenze giornaliere nel 2004 alternando l’insegnamento a lavori nel campo informatico. Nelle mie esperienze ho avuto la possibilità di imparare ed osservare sia da eccellenti colleghe che da colleghe meno eccellenti. Ho imparato come il precariato ti dia la possibilità di venire a contattato con variegate esperienze educative di essere sempre aggiornata, di porti mille domande per poter fare un buon lavoro in quei pochi giorni che hai a disposizione.

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Che soddisfazione quando anche le colleghe sono contente di lavorare con te, ma soprattutto che emozione quando il bambino ti saluta all’uscita di scuola sapendo che i tuoi giorni sono finiti e nella sua innocenza ti chiede “maestra quando torni”? Cosa ci può essere di più bello di questo? A volte la stanchezza della precarietà mi prende e avrei voluto essere tra i fortunati che sono riusciti ad insegnare. Se avessi preparato il concorso la-


sciando il lavoro forse avrei avuto un punteggio migliore ma il mio spirito di autonomia non mi ha permesso di farlo. Ma in tutte le cose della vita è possibile trovare il lato positivo. Vivendo la precarietà ed anelando così ardentemente di arrivare ad avere una mia classe, quando e se, quel giorno arriverà, quello che avrò ottenuto lo apprezzerò per tutta la mia vita. La mia gavetta mi aiuterà a rimanere fedele alla mia missione e a non perdermi nella stanchezza e nella routine quotidiana. E’ stato un cammino tormentato che ancora sto facendo lottando contro ostacoli che farebbero buttare la spugna ma il sogno è più forte. Un sogno che si stava per realizzare ma che negli ultimi mesi si è allontanato tanto. Ero ad un soffio ed il nuovo concorso annullerà le vecchie GM così eccomi di nuovo sui libri a studiare nella speranza di poter superare l’ostacolo dei quiz. A volte lo sconforto di questa meta che mi sfugge tra le mani, ora per una ragione ora per un altra mi prende, ma l’amore e la passione per l’insegnamento sono più forti. Il mio mondo Rom Venuta a Roma ho vissuto un cambiamento radicale della mia situazione. In abruzzo il mio cognome ha sempre suscitato un interrogativo “Sarà Rom?” o “Sei Rom?”. Venuta a Roma la prima volta che qualcuno mi ha fatto una domanda sulla mia provenienza con mio grande stupore mi ha chiesto “Ma sei … ” ed io attendevo la fatidica domanda … “Rom” ed invece era “parente dei proprietari delle Cliniche?”

Non ci potevo credere. Nonostante la mia famiglia sia rispettata e conosciuta al mio paese, se qualcuno domanda informazioni su di me gli viene risposto “Chi? La figlia del rom?” Immaginate quindi che sorpresa ritrovarmi anonima tra gli anonimi. Io ricordo i miei nonni, persone amate e rispettate , persone di cuore che mai hanno rubato ma che anzi avevano sempre un piatto pronto per il “paesano” (gagio) che passava per caso da quelle parti. Ricordo nonna che tra i tanti nipoti a natale tirava fuori dalla tasca della sua lunga gonna 50 mila lire in monete che divideva per darli ai suoi tanti nipoti (erano gli unici soldi che aveva). Una nonna generosa e accogliente. Penso mio zio più piccolo di me di un anno con cui giocavo per i viottoli del paese. Alcuni zii potevano essere fratelli e sorelle. Insieme ci prendevamo cura dei più piccoli, loro nipoti e miei cugini. Tra di loro io ero quella che più amava questo compito e che con piacere si occupava sin da bambina dei bambini più piccoli. E’ così che sono cresciuta. Un educazione basata sull’autonomia e sull’ autosufficienza, sull’aiuto reciproco. Un educazione che mi ha dato questo amore per l’insegnamento. Di certo questo non basta per far nascere una passione ma aiuta di certo a far sbocciare quella propensione che già ti porti dentro. Come in una favola…..per dare alla diversità un lieto fine. IMMAGINO: immagino che gli anni siano passati, cammino

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Insegnare...un sogno da realizzare

per strada e da lontano una voce …. “maestra, maestra”. Mi giro e mi trovo davanti un uomo distinto. Lo guardo con fare interrogativo. “maestra sono Giovanni si ricorda ….” e dopo qualche parola mi dice “ora sono ” e qui le affermazioni possono variare “Insegnate, avvocato, dottore, commerciante.. ” ma quello che non cambia è il risultato. Un bambino che, pur nella sua diversità ha trovato il suo posto nella società e la sua realizzazione nella vita. Un successo per la scuola e per la società. Nessun bambino ha un etichetta ma ognuno di essi è potenzialmente capace di grandi cose avendo cuore e menti pure ed aperte. Ogni bambino va conosciuto per quello che è e non per quello che rappresenta. Mia figlia 9 anni torna a casa e mi dice “Mamma, …. ha la mamma stupida perchè è venuta piangendo per il figlio ma ha dei problemi ?” Sono le parole della maestra che seppur un ottima insegnante di scuola primaria ,forse presa dallo sconforto, ha rinunciato (trasmettendo questo messaggio alla classe) alla sua missione. Ho passato la serata a spiegare a mia figlia che se il suo compagno ha una situazione difficile personalmente (a livello cognitivo, affettivo ed emotivo) e nella sua famiglia,che va capito ed aiutato e non giudicato, evitato o allontanato.

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Lotto continuamente per spiegare alle mamme della scuola dell’infanzia che gli stranieri e gli immigrati non rubano il posto ai loro figli e che se sono primi in graduatoria non è perchè sono immigrati ma perchè evidentemente hanno delle situazioni problematiche.

Queste affermazioni mi toccano molto avendo vissuto in prima persona e anche indirettamente situazioni di questo tipo (di pregiudizio e rifiuto) che hanno coinvolto persone della mia famiglia . Dalla mia esperienza personale e dalla mia esperienza come insegnante ho capito che la scuola dell’infanzia molto può fare. Purtroppo ancora adesso la scuola dell’infanzia non viene considerata dall’utenza scolastica nel suo importante ruolo educativo mentre molto potrebbe fare per garantire a tutti i bambini le stesse opportunità di successo scolastico. L’insegnante sa, come ci ha insegnato Vygotskij, che lo sviluppo del bambino è influenzato dal contesto culturale e ambientale di appartenenza. Solo conoscendolo e pregettando itinerari educativi che tengano conto di queste variabili si può fare in modo che le diversità non diventino svantaggio. Cosa c’è di più bello vedere quei bambini, che grazie ad un ottimo intervento educativo già a partire dalla scuola dell’infanzia,crescendo riescono a sviluppare tutto il loro potenziale cognitivo, sociale e morale e a porsi come attori consapevoli e capaci della propria vita nella società in cui vivono. Purtroppo questo intervento così precoce è attualmente di difficile attuazione sui rom che purtroppo spesso non frequentano la scuola dell’infanzia. Insegnante per vocazione Il bambino ha un grande desiderio di sapere e di capire, tale desiderio si manifesta nelle sue


continue domande e nelle sue richieste di spiegazioni. Cosa c’è di più bello di un bambino cerca in noi le risposte alle sue domande? La sfida educativa che ci viene posta come insegnanti è di certo faticosa e piena di ostacoli ma ci guida verso la scoperta di quanto è bello educare. L’azione educativa è un gesto d’amore, una missione i cui protagonisti sono i bambini e i loro bisogni. Vi è un emergenza educativa relativa a noi insegnanti. Tutti noi abbiamo nella nostra mente un insegnante indimenticabile. Quello che ci ha trasmesso la passione per qualcosa, la fiducia nelle nostre capacità, la fiducia negli altri. Quell’insegnante che ha fatto la differenza. La crisi che stiamo vivendo può essere una grande opportunità di rinascita ed insegnanti di questo tipo sono necessari, forse oggi più che mai, per costruire un paese nuovo negli schemi di pensiero e nei contenuti. Insegnati per passione, per vocazione, per la voglia di incidere sul futuro; insegnati che siano veicolo del cambiamento. Il mio sogno non è semplicemente quello di essere insegnante al 100% ma di essere un insegnante con cuore e passione, un insegnante capace di guardare il mondo con gli occhi dei propri bambini. Voglio concludere con una frase di Benedetto XVI sugli educatori: “ L’educatore … è fragile e può mancare, ma cercherà sempre di nuovo di mettersi in sintonia con la sua missione”.

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IL TEATRO OGGI, TRA PEDAGOGIA E INTERCULTURA Il laboratorio teatrale strumento di sviluppo dell’Intercultura

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ra le varie forme di espressione artistica, l’Arte del Teatro è quella il cui l’accadimento è legato alla presenza fisica e contemporanea, nello stesso spazio e nello stesso tempo, di due fattori, l’Attore e lo Spettatore, i quali danno vita al racconto umano. Nell’era attuale il veicolo principale della comunicazione è il linguaggio verbale. Molti anzi credono che questo sia il mezzo più importante e più rilevante tra i soggetti umani. Ma non bisogna dimenticare che il linguaggio non verbale, corporeo, ha estrema importanza, in quanto l’attività gestuale, l’uso dello spazio interpersonale, la qualità della voce e lo stesso tatto funzionano tutti come sistemi comunicativi speciali, che influenzano le persone, almeno a livello inconsapevole, più di quanto possa fare il linguaggio verbale. Il teatro riesce, ancora oggi, ad esprimere tutto questo. Diremo di più: il Teatro, inteso come una drammaturgia che pone in atto un’azione, ha evidenziato il corpo come strumento primario da cui far partire la ricerca sulle possibilità espressive dell’Attore. Per primario si intende, ovviamente, il corpo usato prima del linguaggio verbale, diciamo pure in maniera primitiva, così come lo scalpello per lo scultore, il pennello per il pittore, la penna per lo scrittore.

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Oggi il Teatro non è soltanto lo spazio dello spettacolo e del divertimento, ma crea occasioni propizie per la crescita culturale di coloro che lo frequentano, lo avvicinano, lo vivono direttamente. Un luogo di formazione e sollecitazione alla creatività e alla riflessione su cui si innesta anche il processo di maturazione della coscienza umana e civile.

E’ da sempre lo strumento attraverso cui la socialità umana può indagare su di sé, sui mondi contenuti nelle miserie, negli odi, nelle passioni, nelle menti e nei corpi di uomini e donne, mondi che il teatro può ri-costruire e restituire. Se partiamo da questi presupposti fondamentali, ci rendiamo conto che il teatro è un grande mezzo di educazione al rispetto dell’altro e quindi allo sviluppo dell’intercultura. Se lo immaginiamo nelle scuole, esso consente una pedagogia sociale, un contesto nel quale un gruppo di giovani, componenti una classe,anche se di culture e tradizioni diverse ridefinisce i modi della socializzazione vivendo in prima persona l’esperienza nuova di stabilire un contatto inconsueto con sè. Qui il teatro è necessario, come pure altrove, poiché le vite ancora sottaciute o intime abbiano la possibilità di affacciarsi ed esprimersi come esistenze vere, fatte di idee, azioni, emozioni, culture differenti. La diversità è il valore aggiunto in un contesto espressivo e creativo volto al racconto: quello del personaggio e quello dell’attore. Attraverso il Teatro l’individuo-attore è posto in una situazione di catarsi, di attraversamento delle sofferenze; le abitudini, le incomprensioni della vita che vengono, attraverso la scoperta delle possibilità espressive e l’incontro con il personaggio, affrontate, comprese, forse anche superate. Tutte le fasi che l’attore compie, attraverso l’acquisizione dapprima di tecniche e possibilità espressive, successivamente di un mondo segreto o celato che vive dentro, poi con la costruzione di uno spettacolo passando per il testo, conduce ad un’abilitazione sociale che


gli permette di comunicare, favorendo un’offerta sincera che lo rende speciale agli occhi del pubblico, ma, prima ancora, dei suoi compagni di lavoro. E’ uno dei compiti di questa arte antica: restituire ad ognuno il suo statuto di soggetto creatore. Un metodo utile per permettere una corretta affermazione del sé prevede un lavoro nel quale l’applicazione di una tecnica di trasmissione quasi meccanica di possibilità di movimento, favorisce un’autonomia decisionale di movimento e quindi delle proprie azioni, restituendogli la capacità di una ritrovata armonizzazione, che possa stimolare una creatività anche psico-fisica-verbale. Nel teatro, e nell’arte in genere, la nostra esperienza è sottoposta a differenti attività di percezione, a valori che scavalcano il quotidiano il quale diventa quasi illusorio in virtù di questa nuova rivelazione, di questo nuovo mondo, e dei rapporti originali che esso determina.

sivi diversi, rapporti nuovi. Tutto questo permette la socializzazione , la conoscenza del sé, l’autostima, la comprensione degli altri attraverso l’interpretazione di un personaggio, la comunicazione tra culture diverse. Intendere l’arte teatrale come strumento fondamentale per il recupero delle identità di ognuno che possano favorire un linguaggio comune tra culture diverse, è ancora oggi la scommessa per eccellenza che il teatro si pone. La sua forza comunicativa può rappresentare, nell’era della comunicazione virtuale, il mezzo più importante per avvicinare gli uomini di ogni latitudine. Catia de Carolis, direttore CIFAPP Ottaviano Taddei, Compagnia Terrateatro

L’individuo che vive il teatro come atto creativo, si avvicina all’unità originaria tra la vita psichica e la vita organica, proprio attraverso un uso inizialmente primitivo, poi più intellettuale, del corpo. L’arte teatrale è, soprattutto una pratica, un fare, un sentire. Il training rimane il momento fondamentale di questo processo ed assume un valore assoluto laddove si prevede un processo educativo. Importante nel laboratorio della scuola, come in quello della comunità, è agire per gradi, partendo non da un testo, cioè dal teatro inteso in senso letterario, ma dalle persone, dalle loro possibilità e dai linguaggi che ognuno esprime. L’intento di un corso teatrale all’interno di un gruppo è anche quello di dare stimoli differenti, affinché possa costituirsi uno spazio metafisico, flessibile, che permetta, non tanto attraverso l’acquisizione di tecniche quanto, attraverso la percezione di sé, codici espres-

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STORIA E MEMORIA DEL PORRAJMOS PER IL TEMPO PRESENTE Una storia della scolarizzazione dei rom e dei sinti in Italia Luca Bravi, Università Telematica L. da Vinci di Chieti

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d ottobre 2012 è stato finalmente inaugurato il memoriale tedesco dedicato al ricordo delle almeno cinquecentomila vittime del Porrajmos (lo sterminio dei rom e dei sinti nel nazifascismo). E’ il momento di interrogarsi lungo la linea sottile che lega memoria, storia e tempo presente; soltanto questo percorso può far comprendere il ritardo con cui sorge finalmente il memoriale dei rom a fianco a quello dedicato alla Shoah. La mia riflessione vuole quindi partire da due interrogativi: - Che cosa lega la conoscenza del Porrajmos al presente ed in particolare alla ricostruzione della storia della progettazione educativa rivolta ai rom ed ai sinti? - Che cosa può testimoniare oggi la ricostruzione della storia della scolarizzazione di una minoranza?

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La ricostruzione storica di un processo di lunga durata permette sempre di cogliere i paradigmi utilizzati nell’approccio ad una tematica ed è quindi capace di rivelare elementi positivi e negativi, continuità e cesure conservatesi nel tempo. Possiamo affermare che qualsiasi cultura maggioritaria percepisce e tende a descrivere la storia delle minoranze come un’altra

storia, spesso disconnessa dalla propria, frequentemente in posizione oppositiva rispetto a quest’ultima. E’ ciò che è avvenuto anche nel caso della storia del popolo rom in Europa ed in Italia. Nel presente testo, cercherò invece di partire da una nuova premessa. Ricostruirò le fasi della scolarizzazione dei rom e dei sinti in Italia sottolineando come la “loro” storia e quella della scuola in particolare, ne testimoni per prima cosa una permanenza di lunga durata nel nostro Paese, descrivendoli come attori di vicende che dimostrano come le storie di maggioranza e minoranze siano tessute insieme, influenzate semmai nel loro dipanarsi temporale dai rapporti di potere che pongono un gruppo in posizione predominante e l’altro in posizione subordinata, una condizione che influenza anche il grado di costruzione di una memoria sociale in grado di scardinare stereotipi e perciò in stretta relazione con le progettazioni sociali ed educative nel tempo presente. E’ da sempre la cultura maggioritaria ad avere avuto in mano gli strumenti di costruzione dei significati; condizione che permette anche di elaborare etichette da applicare, con sguardo etnocentrico, alle popolazioni minoritarie. Nel


caso dei rom e dei sinti questo ha significato la costruzione di una etichetta omogenea e totalizzante diffusasi storicamente in Europa ed in Italia, quella dello “zingaro” definito come asociale, straniero e nomade (condizioni che poi portano ad altre caratterizzazioni secondarie che rendono lo “zingaro” anche “ladro per cultura” e “ladro di bambini”) (L.Bravi, N. Sigona, 2009b). Sono le etichette del presente, ma se la scuola non va a scoprire ed indagare le origini di queste caratterizzazioni denigranti, ogni progetto educativo elaborato sulla base dell’immagine di uno “zingaro” rimasto nell’immaginario diffuso come nomade ed asociale, rischia di riprodurre continuativamente quelle immagini che vuole distruggere, perché è da queste ultime che si continua a partire. Ne scaturisce una progettazione che si aggroviglia su se stessa e che crea un cortocircuito culturale che alimenta lo stereotipo e il conflitto sociale. Sappiamo oggi che i rom ed i sinti sono stimati in circa 150.000 individui nel nostro paese, la metà dei quali di cittadinanza italiana, perché presenti tra noi da secoli, i primi addirittura dal XV secolo, altri dal dopoguerra, gli ultimi arrivi provenienti dalle terre dell’est martoriate dalla guerra e dalla povertà. Per poter dire qualcosa su questi gruppi l’unica possibilità è evitare la generalizzazione ed indagare quale rapporto i singoli gruppi presenti sul territorio abbiano storicamente intrattenuto con la popolazione circostante; ne scopriremmo anche casi di pacifico inserimento nei contesti sociali di riferimento, inclusa la scuola (lo sottolinea l’indagine europea svolta anche in Italia e conclusasi nel 2003) (L. Piasere, 2007).

Nessuno dei rom di cui parliamo è poi nomade, più precisamente nessuno di essi ha un ereditario istinto nomade, ma lo stereotipo diffusosi da secoli continua a giustificare il fatto che queste persone debbano necessariamente vivere nei “campi nomadi” e se nascono politiche abitative differenti, queste vengono osteggiate almeno a livello popolare, perché lo “zingaro” viene percepito come qualcosa di “altro” rispetto alla maggioranza della popolazione civile. Intanto i rom, quando possono, evitano di dichiararsi tali, per non trovarsi a dover combattere contro l’etichetta socialmente condivisa dello “zingaro”: evitare di dirlo è quello che cercano di fare anche molti ragazzi rom/sinti che frequentano le scuole, soprattutto se hanno la fortuna di non rientrare nel cliché dello “zingaro” previsto istituzionalmente (quello del soggetto che vive nel campo nomadi e che ha difficoltà finanziarie e sociali): questa condizione dimostra anche che le statistiche diffuse a livello istituzionale su questa popolazione eterogenea vanno prese con cautela, perché tendono a misurarne la presenza sul territorio in base ad elementi etnicizzanti e omogeneizzanti che si avvicinano più alla fantasiosa immagine degli “zingari” diffusa a livello popolare (il nomade) piuttosto che alle reali condizioni di vita di rom e sinti oggi: un esempio sicuramente illuminante rispetto a questa situazione di confusione all’interno delle stesse istituzioni è dato dal fatto che anche nei documenti del MIUR più recenti si continua a parlare di “indagini su comunità nomadi” presso i vari plessi scolastici seppur con il lodevole obiettivo di voler ripensare la scolarizzazione dei rom e dei

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storia e memoria del porrajmos per il tempo presente

sinti, riabilitando in qualche modo l’equivalenza rom=zingaro=nomade, un fraintendimento con radici storiche profonde (inserire link a http://archivio.pubblica.istruzione.it/mpi/pubblicazioni/2000/nomadi.shtml). Tutto questo implicito richiamarsi di stereotipi all’interno di politiche che affermano di mirare all’inclusione, spiega perfettamente perché il “rom positivo” cerchi di mantenere uno stato di invisibilità sociale per la propria giustificabile sicurezza.

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La storia della scolarizzazione dei rom in Italia è da leggere come un frammento di una storia tout court dei rom e dei sinti in Europa che è stata caratterizzata da continui tentativi falliti di rieducazione coatta da parte della cultura maggioritaria ed è all’interno di una storia sociale dell’educazione nazionale che va rielaborata ed inserita. Partiamo quindi da alcuni elenchi di nomi rintracciati nei luoghi in cui sorsero i campi di concentramento italiani per gli “zingari”. Tra questi luoghi, Prignano sulla Secchia (MO) fu un’area d’internamento per “zingari”. I cognomi italianissimi riportati all’interno delle schede anagrafiche rintracciate nell’archivio comunale risalgono proprio agli anni della prigionia e sono Argan, Bonora, Bianchi, Colombo, De Barre, Esposti, Franchi, Innocenti, Marciano, Relandini, Suffer, Torre, Triberti, Truzzi. Giacomo Gnugo de Bar (nato durante il periodo di internamento a Prignano) racconta quanto gli è stato narrato dai propri genitori: Era autunno e la mia famiglia s’era appena fermata

al Bacino di Modena per fare la sosta dopo la stagione delle fiere. Un mattino che piovigginava, molto presto hanno sentito bussare alle carovane, si sono svegliati e hanno visto le carovane circondate da militari, carabinieri, questura. Piantonarono (i militari e i carabinieri) tutto il giorno e la notte intera, prendendo il nome e il cognome a tutti, poi il mattino seguente, condussero tutti quanti nel campo di concentramento di Prignano e ci portarono via tutti i muli e i cavalli che avevamo. A Prignano c’era il filo spinato e qualche baracca, poche perché noi avevamo le nostre carovane. Tutto era controllato da carabinieri e militari che nei primi giorni non ci facevano mai uscire. Le guardie, due volte al giorno, facevano l’appello e il contro appello. C’erano dei turni di un’ora e mezza in cui le donne potevano andare al paese a fare la spesa (P. Trevisan, 2005). In quel campo, ricorda Giuseppe Esposti, uno dei testimoni diretti dell’internamento a Prignano, i cosiddetti “zingari” venivano mandati ad una scuola, nello stesso edificio degli altri bambini, ma separati dagli altri studenti. In Italia l’ordine decisivo per l’internamento di rom e sinti fu firmato da Arturo Bocchini, capo della Polizia, che l’11 settembre del 1940 intimava che gli “zingari”, fossero essi italiani o stranieri, dovessero essere arrestati e chiusi in campi di concentramento. Fu un importante giro di vite a livello culturale: fino ad allora si allontanavano dal regno gli “zingari” stranieri, da quell’ordine prendeva corpo e riconoscimento istituzionale una categoria totalizzante:


se si era “zingari” non si era percepiti come cittadini del regno; in pratica la legislazione si allineava al già diffuso sentore popolare che considerava lo “zingaro” uno straniero pericoloso, anche in presenza di documenti che ne accertavano la cittadinanza italiana (L. Bravi, 2007). Un’altra lista di 150 “zingari” internati tra il 1940 ed il 1943 è stata rintracciata ad Agnone (oggi provincia di Isernia) dove, all’interno dell’ex convento di San Bernardino, era stato organizzato un campo di concentramento riservato a “zingari”, questa era la dicitura testuale dei documenti relativi a quel luogo di prigionia a partire dall’estate del 1941. I cognomi presenti in quelle liste sono Alosssetto, Brajdic, Bogdan, Campos, Ciarelli, Di Rocco, Goman, Gus, Halderas, Held, Hudorovich, Hujer, Karis, Locato, Mugizzi, Nicolic, Rach, Reinhardt, Rossetto, Suffer, Waeldo. Il 3 luglio 1943 Guglielmo Casale, direttore del campo di Agnone, riceveva risposta dalla Regia Direzione Didattica: l’idea che aveva espresso pochi mesi prima, quella di voler creare una scuola interna al campo di concentramento per educare i figli degli “zingari” internati era stata accolta; la maestra Carola Bonanni, orfana di guerra ed insegnante nella scuola rurale della borgata Collemarino, vi stava già svolgendo, a titolo gratuito, lezioni sulla disciplina e sulla storia del fascismo, allo scopo di fare di quei bambini “zingari” internati, dei soggetti utili al regime. Nel pomeriggio, un sacerdote provvedeva ad insegnare loro il catechismo. Si trattava di una «educazione intellettuale e religiosa» rivolta ai

“minori zingari” all’interno di una scuola nata su richiesta del comandante del campo e per interessamento della locale questura presso la direzione didattica. La relazione redatta il 3 luglio 1943 dal direttore didattico, Cavaliere Salvatore Bonanni, fornisce una descrizione dell’attività scolastica degli internati di Agnone: Il 9 gennaio Vi fu l’inaugurazione della scuola alla presenza delle Autorità locali. Ammirai la bella aula adornata di bandierine, con il Crocifisso, i ritratti di S.M. il Re Imperatore e del Duce, la carta d’Italia ed altre carte del teatro della guerra, nonché i piccoli ragazzi con grembiulini neri e tutti ben puliti. Le lezioni iniziarono in una data storica e con un vibrante saluto al Re ed al Duce. Ho notato in diverse visite, che le lezioni hanno avuto luogo puntualmente e che la Maestra non è stata mai assente, recandosi al Campo di Concentramento, alquanto distante, anche nelle giornate fredde e di cattivo tempo, dimostrando passione nella scuola e di sentire appieno il suo nobile apostolato. Infatti, invitato da Voi, gentilmente, per la chiusura delle lezioni e quindi per una prova finale, ho potuto constatare il paziente ed intelligente lavoro della Maestra che è riuscita a far parlare il nostro bell’idioma ai ragazzi che parlavano il loro dialetto “zingaresco”, di apprendere tante e svariate nozioni di cultura generale, infondendo loro amore alla nostra Patria, al Capo della Nazione e del Governo, rispetto a tutte le Autorità, quel senso di disciplina nei loro doveri, e di conoscere, in qualche modo, le grandezze e le bellezze dell’Italia fascista e l’opera amorosa che il governo svolge anche

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per gli internati. Dei 21 alunni che hanno frequentato la I classe, e non tutti dal giorno dell’inizio delle lezioni, sono stati promossi 8, ma tutti sono stati in grado di calcolare, rispondere con qualche precisione alle domande, dimostrando disciplina ed attaccamento alla scuola. (L. Bravi, 2007) Le lezioni finivano il 30 giugno 1943 ed otto studenti del campo superavano l’esame finale, ma tutti avevano imparato la lingua italiana e dimostravano di aver appreso «uno stile di vita civile ed il rispetto verso il governo della nostra nazione e verso il suo capo supremo». In generale quindi la scuola funzionava ed i funzionari fascisti del luogo annotavano che quei giovani abbandonavano il loro stile di vita degradato. Lo scopo individuato per la scuola rivolta agli “zingari” di Agnone lo si intuisce da quella stessa relazione: A voi, poi, Sig. Commissario, che con cuore paterno avete voluto ai figli degli internati affidati alla Vostra sapiente vigilanza, aprire il cuore e la mente con una sana educazione italiana, perché un giorno questi ragazzi, intelligenti e bravini, possano seguire non più le orme dei loro genitori, e che date continua prova di ottimo e scrupoloso funzionario, giunga il mio plauso sentito e cordiale.(Idem)

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I piccoli “zingari rieducati” ad Agnone non furono comunque liberati, si stava infatti muovendo sullo sfondo la ricerca razziale fascista che avrebbe inserito anche i rom ed i sinti tra i soggetti da sottoporre ad un diverso trattamento per la bonifica della razza; lo aveva affermato il professore Renato Semizzi (R. Se-

mizzi, 1939), che insegnava medicina sociale a Trieste e lo aveva ripetuto Guido Landra in un proprio articolo comparso su La Difesa della Razza nel 1940, pochi mesi prima dell’ordine d’internamento degli “zingari”: Non avendo alcun dato per l’Italia, ci limiteremo a riportare alcune osservazioni compiute da Römer in Sassonia per incarico dell’Ufficio Politico Razziale del Partito Nazionalsocialista. Come scrive questo autore, indipendentemente dagli ebrei e dai loro meticci, vivono in Germania numerosi individui razzialmente molto diversi dal popolo tedesco. In primo luogo bisogna tenere presente gli zingari che vivono talora in bande e talora invece dispersi in mezzo al resto del popolo. […] Questo autore ricorda come in una località della Sassonia, accanto a tipi che rappresentavano il tipico aspetto levantino, mongoloide e negroide, ma di cui era impossibile stabilire con esattezza l’origine, vivevano tre famiglie razzialmente ben identificate. La prima di queste famiglie che potrebbe essere confusa con una comune famiglia di povera gente, comprende invece degli zingari che vivono in maniera del tutto asociale, senza alcun mestiere preciso (G. Landra, 1940, p.11). Il problema risultava di chiaro stampo razziale e l’assimilazione non poteva quindi rappresentare una soluzione percorribile: Questi esempi mostrano quindi come in Europa esista tuttora un grave problema dei meticci che non si limita a quello degli ebrei e che non si può esaurire tentando l’assimilazione degli individui della prima o anche della seconda generazione. […] Ricordiamo il pericolo dell’incrocio


storia e memoria del porrajmos per il tempo presente

con gli zingari, dei quali sono note le tendenze al vagabondaggio e al ladroneccio. […] Come si sa gli zingari sono particolarmente numerosi nell’Europa dell’est e in Spagna, tuttavia la loro presenza negli altri paesi desta serie preoccupazioni soprattutto per l’incertezza che si ha circa il loro numero effettivo (Ivi, p. 12). Solo l’armistizio ed il successivo caos in cui piombò il sistema concentrazionario italiano evitarono che i fini indicati dalla scienza della razza si realizzassero concretamente. In quel momento riconquistarono la libertà non soltanto i rom ed i sinti di Prignano ed Agnone, ma anche quelli di Tossicia (Teramo) altro luogo d’internamento di almeno 108 “zingari” provenienti dall’Istria come pure tutti gli altri rom e sinti che erano stati imprigionati nei campi del duce sorti sul territorio nazionale. L’ossessione rieducativa rivolta verso la minoranza rom sembra quindi accompagnare costantemente le vicende storiche di rom e sinti nel loro rapporto con i non-zingari. Tale idea appare talmente strutturata e sedimentata all’interno degli schemi mentali della cultura maggioritaria da veder riproporre lo stesso binomio campo-rieducazione anche all’interno di luoghi sorti per la persecuzione o addirittura come punto intermedio verso il genocidio. E’ stato infatti anche il caso di BerlinoMarzhan, campo di sosta forzata riservato agli “zingari” sorto a Berlino nel 1936 che fu tappa dello sterminio dei rom e sinti del Terzo Reich. All’interno di quel campo, il sinto Otto Ro-

senberg (O. Rosenberg, 2000) fu mandato a scuola per epurarlo dalla “cultura zingaresca”. Da quel campo e dalle altre zone di sosta forzata controllate dal Terzo Reich, i rom e sinti vennero spostati, dalla fine del 1942, per essere definitivamente liquidati nello Zigeunerlager (campo degli zingari) sorto ad AuschwitzBirkenau, il settore BIIe del campo polacco in cui si trovava significativamente il laboratorio di Joseph Mengele; tra i sinti sottoposti agli atroci esperimenti del dottore di Auschwitz, anche il testimone diretto Adolf Hugo Höllenreiner (A. Tuckermann, 2005). Da AuschwitzBirkenau passarono ventitremila rom e sinti degli almeno cinquecentomila considerati vittime dello sterminio nazista. Il Porrajmos avvenne perché gli “zingari” furono considerati dal nazismo e dal fascismo come portatori di due caratteri ereditari ineliminabili: l’istinto al nomadismo e l’asocialità. I primordi della scolarizzazione italiana dei rom e dei sinti sono quindi da rintracciare nei campi d’internamento voluti dal fascismo e riservati agli “zingari”. Luoghi in cui si pensava alla rieducazione di questi soggetti contemporaneamente alla loro classificazione su base razziale come gruppo con fattori ereditari sconvenienti e pericolosi. L’idea che gli “zingari” fossero pericolosi come gruppo, perché caratterizzati ereditariamente da asocialità ed istinto al nomadismo si unì con un modello di rieducazione coatta che trovò elaborazione implicita ed esplicita durante i

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storia e memoria del porrajmos per il tempo presente

regimi dittatoriali europei. In Germania il Porrajmos è stato riconosciuto soltanto negli anni Ottanta (precedentemente questa vicenda storica non era considerata una persecuzione razziale, ma veniva indicata come una politica di prevenzione del crimine che quindi non prevedeva risarcimento delle vittime da parte dello Stato), mentre in Italia il primo riconoscimento a livello centrale è avvenuto soltanto il 16 dicembre 2009 presso la Camera dei Deputati in occasione del settantunesimo anniversario della promulgazione delle leggi razziali.

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E’ dunque evidente che per i rom ed i sinti, il periodo del post-Auschwitz è stato caratterizzato da un prolungato silenzio: non si è sedimenta la memoria del Porrajmos; i rom ed i sinti non furono ascoltati al processo di Norimberga, quando offrirono la propria testimonianza non furono creduti, non ottennero i risarcimenti dovuti alle vittime del nazifascismo, restarono in una condizione di ghettizzazione e di negazione dei diritti che li lasciava privi di parola. Restavano invece in servizio presso enti pubblici i carnefici, coloro che avevano stabilito i criteri razziali per l’invio di rom e sinti verso i campi di concentramento e di sterminio(tra questi Robert Ritter, Eva Justin, Adolf Würth e Sophie Erhardt) i principali esperti della “questione zingara” che ricostruirono gli alberi genealogici di tutti i rom e sinti nel Terzo Reich (furono schedati almeno ventimila soggetti) e che anche attraverso misurazioni antropometriche ne decretarono l’appartenenza ad una “razza inferiore” equiparando

la “questione zingari” alla “questione ebraica”. Lo stereotipo che dipingeva gli “zingari” come un gruppo compatto di nomadi e asociali è rimasto dunque attivo e diffuso a livello di cultura maggioritaria anche nel post-Auschwitz. Siamo perciò dentro una storia della scolarizzazione fortemente conflittuale, perché continua ad inserirsi in un contesto sociale che relega una minoranza dentro i confini di un’etichetta etnico-razziale fasulla. Nel dopoguerra sono infatti rimasti evidentissimi gli effetti del silenzio e della non-memoria (L. Bravi, 2009a).

In Italia, a metà degli anni Sessanta, in condizione di assoluta assenza di memoria sociale del Porrajmos, iniziava una progettazione pedagogica legata alla “prima pedagogia zingara” delineata dalla pedagogista Mirella Karpati ed alla nascita dell’Opera Nomadi. In quel periodo si conosceva poco del popolo rom e sinti in Italia, molti restavano gli stereotipi attivi; l’immagine del “nomade pericoloso” fungeva ancora da catalizzatore del nomadismo stesso: i rom ( spesso erano sinti italiani presenti nelle zone del nord e centro Italia) dediti a lavori ambulanti cercavano dove fermarsi, ma venivano costantemente cacciati dai municipi italiani. L’attività di ricerca della pedagogista si fondò anche sul riferimento ai testi di Hermann Arnold, un ufficiale medico tedesco. Nel dopoguerra Arnold era considerato un “esperto di zingari” e nei suoi testi continuava a proporre il controllo delle nascite della popo-


lazione rom e sinti attraverso l’eugenetica. Le sue posizioni cominciarono ad essere profondamente criticate soltanto negli anni Ottanta, ma fino ad allora i suoi scritti venivano letti da chi si interessava dell’argomento “zingari” in tutta Europa. Nei suoi libri, egli affermava appunto la “primitività dello zingaro” e l’ “incapacità dello zingaro di raggiungere un quoziente d’intelligenza normale” (Arnold, 1958); nel testo Die Zigeuner (1965) lo stesso Arnold cita come fonte i dati e le ricerche fatte da Robert Ritter ed Eva Justin quando entrambi lavoravano all’interno dell’Istituto di ricerca e di igiene razziale ed ereditarietà del Reich, centro all’interno del quale avevano elaborato le teorie sulla pericolosità razziale dello “zingaro” che avevano portato rom e sinti alla deportazione verso Auschwitz-Birkenau (H. Arnold, 1965, 259-297); uno degli ultimi paragrafi viene dedicato alla confutazione delle accuse penali rivolte proprio a Ritter e Justin nel dopoguerra relativamente alla loro responsabilità diretta nel genocidio di rom e sinti in Germania. L’incipit al capitolo dedicato al “profilo psicologico” degli “zingari” nel primo studio di Mirella Karpati sul mondo rom, intitolato Romanò Them (1963), richiama anche gli studi di Hermann Arnold: Non esistono per ora studi psicologici sullo zingarato. Infatti mancano i mezzi e le possibilità di rilevamento scientifici, sia per l’inadeguatezza dei reattivi, sia per la difficoltà di introdursi nell’ambiente zingaro e di coglierlo nella sua realtà. Gli studi psico-sociologici condotti dall’Arnold, da Wernink e dallo Haesler riguardano infatti l’ambiente nomade in generale e solo di riflesso quello zingaro. Io mi

sono fondata soprattutto sull’osservazione diretta del comportamento spontaneo, annotando atteggiamenti e reazioni rilevanti nella quasi totalità dei casi e delle persone esaminate (Karpati, 1963, p. 87). In quel periodo Arnold era considerato un esperto a livello internazionale e il testo Die Zigeuner con la sua conclusiva difesa dell’operato di Ritter e Justin durante il Terzo Reich sarebbe stato edito soltanto due anni più tardi; in questo senso non si può imputare a Mirella Karpati una colpa oggettiva nell’utilizzarne la bibliografia, ma questo fatto è sintomo di un contesto sociale e culturale da prendere in considerazione: negli anni Sessanta era talmente assente la storia e la memoria del Porrajmos che nel momento in cui, anche in Italia, si comincia ad operare con l’obiettivo dell’inclusione di rom e sinti, lo si fa prendendo per buone le posizioni di chi auspica l’eugenetica e considera l’asocialità e il quoziente intellettivo inferiore alla media come elementi caratterizzanti questo gruppo di persone; tali erano le tesi difese da Arnold in Vaganten, Komödianten, Fieranten, und Briganten (Arnold, 1958). Dott. Luca Bravi

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storia e memoria del porrajmos per il tempo presente

Bibliografia in riferimento alle note Arnold H. (1965), Die Zigeuner, Georg Thieme Verlag, Olten Arnold, H. (1958) Vaganten, Komödianten, Fieranten, und Briganten; Untersuchungen zum Vagantenproblem an vagierenden Bevölkerungsgruppen vorwiegend der Pfalz, Georg Thieme Verlag, Stuttgart Bravi L.(2009a), Tra inclusione ed esclusione. Una storia sociale dell’educazione dei rom e dei sinti in Italia, Unicopli, Milano Bravi L., Sigona N. (2009b), Rom e sinti in Italia. Permanenze e migrazioni, in M. Sanfilippo, P. Corti (a cura di), Storia d’Italia, Annali 24. Migrazioni, Einaudi, Torino Bravi L .(2007), Rom e non-zingari. Vicende storiche e pratiche rieducative sotto il regime fascista, Cisu, Roma, 2007 Bravi L. (2002), Altre tracce sul sentiero per Auschwitz, Cisu, Roma Bravi L, Sigona N. (2007), Educazione e rieducazione nei campi per “nomadi”: una storia, in Studi Emigrazione, XLIII (164) Giunipero E. e Robbiati F. (2011), I rom di via Rubattino, una scuola di solidarietà, Paoline, Milano Karpati M. (1963), Romanó Them, Missione cattolica degli zingari, Roma Karpati M., Sasso R. (1976), Adolescenti zingari e non zingari, Lacio Drom, Roma Landra G., Il problema dei meticci in Europa, in «La Difesa della Razza», a. IV, n. 1, 1940 Osservazione Onlus (a cura di) (2006), Cittadinanze imperfette. Rapporto sulla discriminazione razziale di rom e sinti in Italia, Edizioni Spartaco, Santa Maria Capua Vetere Piasere L., (2007) Rom, sinti e camminanti nelle scuole italiane: risultati di un progetto di ricerca di etnografia dell’educazione, in F. Gobbo (a cura di), Processi educativi nelle società multiculturali, Cisu, Roma Piasere L. (1986), “A scuola dai gagé, in P. Zatta (a cura di), Scuola di stato e nomadi: ricerca e sperimentazioni, Francisci, Abano Terme Rosenberg O. (2000), La lente focale, Marsilio, Venezia Trevisan P., (2005) Storie e vite di sinti dell’Emilia, Cisu, Roma Tuckermann A. (2005), Denk nicht, wir bleiben hier! Die Lebensgeschichte des Sinto Hugo Höllenreiner. Carl Hanser Verlag, München 2005

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IL DISASTRO DELLA PEDAGOGIA ZINGARA Luca Bravi, Università Telematica L. da Vinci di Chieti

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agli anni Sessanta, la politica di espulsione, adottata da quasi tutte le città settentrionali, rendeva la vita delle famiglie rom e sinte precaria e impediva ai bambini di poter frequentare in modo continuativo la scuola. Fu proprio quest’ultimo aspetto a spingere un gruppo di volontari a sperimentare, dapprima a Bolzano e a Milano, le classi speciali “Lacio Drom” (“buon viaggio” nella lingua romanes), che in pochi anni diventarono oltre sessanta e divennero la politica di Stato verso un gruppo considerato soprattutto nomade e asociale; in un certo senso lo stato italiano appaltò il compito della scolarizzazione dei rom all’esterno. Alla base di quelle classi speciali c’era “la pedagogia zingara” che nel descrivere l’intelligenza dei bambini rom e sinti nel 1963 affermava che erano incapaci di raggiungere un quoziente d’intelligenza adeguato, perciò incapaci di razionalità in quanto appartenenti ad un gruppo considerato in una situazione di costante deculturazione o addirittura privo di cultura; anche questa un’immagine dello “zingaro” rimasta costante nel tempo e condivisa con Hermann Arnold. Negli anni ‘60 e ‘70 “la pedagogia zingara” era diventata una base “certa” su cui istruire insegnanti da indirizzare alle scuole speciali ed assistenti sociali, reiterando di fatto l’effetto del pregiudizio relativamente a nomadismo e deculturazione dei rom e dei sinti. Il tema della deculturazione di rom e sinti è infatti un’altra questione centrale per capire l’impostazione pedagogica della prima pedagogia zingara e le implicite linearità con la visione dello “zingaro” diffusa durante la seconda metà del XX secolo e che si collega al presente; questa lettura si basa sull’idea ancora oggi diffusa che sia esistito uno “zingaro buono” vissuto prima dell’industrializzazione. Un soggetto che era inserito, con i suoi mestieri tipici, all’interno del sistema produttivo e che quindi viveva in armonia con i non-zingari. Sarebbe stata l’industrializzazione a far crollare questo “incanto” mettendo in crisi i lavori dei rom e dei sinti e quindi non rendendoli più in grado di garantirsi la sussistenza.

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I rom ed i sinti non sarebbero stati in grado di adattarsi alle nuove condizioni economiche e ne sarebbe seguita la marginalizzazione, poi il degrado culturale ed infine la necessità di vivere di espedienti; il passaggio che viene immaginato sarebbe quello da un periodo aureo che fu espressione della “originaria cultura zingara” ad un periodo di deculturazione segnato dalla devastazione della cultura originaria. La pedagogia zingara condivideva questo tipo di lettura e la portava alle estreme conseguenze: la pedagogista si diceva convinta che la modernità causava il costante allontanamento dei rom dalla cosiddetta “cultura ancestrale zingara” e che questo li avrebbe fatti dissolvere come popolo. Questo tipo di lettura trova una sua linearità con le prime teorizzazioni in fatto di “questione zingari” da parte dell’Unità d’igiene razziale del Reich: prima che questa precipitasse definitivamente nel genocidio di Auschwitz Birkenau, Robert Ritter aveva proposto una netta distinzione tra “zingari puri” da salvaguardare e “zingari misti” da eliminare; la lettura dell’Unità d’igiene partiva da un contesto di studio razziale che era evidentemente opposto alle finalità della prima pedagogia zingara italiana, ma l’idea che potesse in qualche modo esistere una pura ed incontaminata “cultura ancestrale zingara” era già attiva nel contesto dei regimi totalitari.

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Nel dopoguerra italiano, l’assenza di storia e di memoria del Porrajmos a livello europeo, ha in un certo senso riadattato alcune vecchie e problematiche visioni sugli “zingari” ripulen-

dole dal riferimento razziale, ma lasciandole di per sé attive e diffuse perché non si era cancellato definitivamente lo stereotipo. Questo chiarisce come gli interventi educativi attuati in Italia a partire dalla metà degli anni Sessanta abbiano influito ben oltre la questione della scolarizzazione dei bambini, perché hanno coniato un nuovo vocabolario ed una nuova modalità di gestione del “problema zingari” che edificò una pedagogia zingara esplicita (quella delle classi Lacio Drom) ed una pedagogia implicita (quella cui si sarebbero richiamati gli amministratori, le istituzioni, i dirigenti dei servizi sociali). L’idea della pedagogia esplicita pensata per le Lacio Drom voleva innescare, attraverso i bambini, un processo di cambiamento all’interno della comunità perché, scrive un volontario al tempo, «i condizionamenti tradizionali del gruppo, quali il sesso, il culto dei morti, la religione ecc. rendono difficile l’evoluzione dello zingaro e la sua maturazione sociale. Tale maturazione è ostacolata inoltre dallo stato di marginalità e di inferiorità in cui si trova a vivere il popolo nomade». Il doppio binario che lega educazione e rieducazione, intervento sui bambini e sviluppo degli adulti, si palesa in un altro passaggio dello stesso documento, dove si afferma: «A causa della sua cultura lo zingaro è in ritardo, è un bambino che deve essere aiutato a crescere, a recuperare il suo gap» (L. Bravi, N. Sigona, 2007). E’ evidente che scaturiva da queste letture anche una pedagogia implicita, ad uso e con-


il disastro della pedagogia zingara

sumo di coloro che avrebbero dovuto progettare un luogo dove far vivere rom e sinti, un nuovo sistema di inserimento sociale, un rapporto pacifico tra minoranza e maggioranza. Per queste persone lo “zingaro” era asociale, scarsamente intelligente, nomade e primitivo; era il gergo derivato dalla pedagogia zingara esplicita, la stessa che parlava di gap culturale e di nomadismo. Negli anni Ottanta e Novanta, in Italia i movimenti a difesa dei rom e dei sinti lottavano per ottenere un luogo in cui questi gruppi, costantemente allontanati dalle città, potessero fermarsi. Fu il momento delle leggi regionali per “la tutela della cultura nomade” che individuarono nell’idea astratta del “campo nomadi” il particolare luogo di residenza adatto ai rom e sinti; questo progetto nasceva come diretta conseguenza della percezione dello “zingaro” come “nomade”: «Un’azione concentrica di ordine educativo, sociale, sanitario ed economico (formazione al lavoro) - dirà ancora l’antropologo Leonardo Piasere - centrata completamente sul nuovo campo sosta allestito». Il campo sosta diventava subito il luogo strategico in cui si dovevano concentrare le azioni rivolte all’integrazione effettiva dei rom. Per vincere le resistenze dei nomadi fu necessario ricorrere ad un intervento da più fronti, «da parte delle insegnanti nei corsi, da parte degli assistenti sociali negli incontri con i capi famiglia» e da parte di coloro che seguivano il lavoro nei cantieri dove venivano addestrati i rom e viene verificata «la loro resistenza alla fatica».

Il campo nomadi diventa emblema ed espressione degli effetti aberranti della pedagogia zingara implicita: il campo nomadi si sostanziava come la soluzione abitativa per gli “zingari” secondo l’idea che se questi erano “nomadi” si sarebbero mossi continuamente di campo in campo; ma lo “zingaro” pedagogicamente connotato era anche un “asociale” da rieducare e dunque quei luoghi di sosta non potevano che sorgere nelle periferie, in attesa che la rieducazione portasse i suoi frutti; ma lo “zingaro” era anche un soggetto pedagogicamente dipinto come scarsamente intelligente ed in preda alle passioni, in pratica un primitivo che non necessita di quei servizi che sono essenziali per le persone civilizzate. Fu così che da un contesto di tentata costruzione di qualcosa di “positivo”, appesantiti ancora da una cultura maggioritaria che edificava progetti e luoghi in base allo “zingaro” nomade immaginato della fervida fantasia occidentale, in Italia si finì per dare vita ad un luogo che sarebbe presto diventato elemento di segregazione e ghettizzazione. Chi progettava non aveva uno scambio diretto con i rom e con i sinti oggetto della propria progettazione, li si considerava inappellabili perché irrazionali ed i progetti nascevano senza mai chiamarli in causa, considerandoli come quei “bambini sprovveduti” che la pedagogia zingara aveva contribuito a descrivere. La scuola, all’interno di questa visione, doveva

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diventare veicolo per la promozione sociale e spirituale di rom e sinti che, nel processo di sedentarizzazione in atto, subivano un regresso delineato dall’abbandono della suddetta vita nomade che veniva descritta come elemento fondante della “cultura ancestrale zingara” ormai in degrado. Si immaginava che potesse essere la scuola ed il suo indotto a fornire nuovi valori, tutti da mutuare dalla società maggioritaria, essendo lo “zingaro” “incapace di vivere la contemporaneità”, cioè il tempo della post-industrializzazione. Le classi speciali concludevano la propria esperienza negli anni Ottanta con scarsi risultati didattici e pedagogici, ma segnavano un elemento decisivo: anche se animate da buona volontà avevano riprodotto e trasmesso i consueti stereotipi in fatto di “zingari”, facendo percepire ai non-zingari che quella minoranza rappresentava un gruppo omogeneo di nomadi e asociali da rieducare. Reinseriti nelle classi ordinarie, montava quindi la rivolta dei genitori che non volevano degli “zingari” come compagni di banco dei propri figli.

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La storia della scuola allora ci insegna che non si tratta semplicemente di una questione di didattica o di definire la popolazione di piccoli rom e sinti in toto come segnata dalla dislessia o da disturbi specifici d’apprendimento individuando tecniche ad hoc per intervenire. La scuola da sola non potrà mai invertire la rotta ed operare in senso positivo là dove i rom e i sinti, dipinti nuovamente come nomadi ed asociali, vengono sottoposti a continue misure di sgombero e rimozione dal tessuto cittadino. C’è dunque in gioco una questione culturale prima che di didattica quando si parla di co-

struire le premesse adeguate alla scolarizzazione dei rom e dei sinti ed è una questione che attiene strettamente alla scuola, perché legata alla cultura ed alla decostruzione di facili stereotipi rimasti attivi nel tempo postAuschwitz ed espressi da pedagogie esplicite ed implicite. Non si indirizza semplicemente alle classi al cui interno si ha la presenza di rom e sinti, ma è un percorso culturale rivolto a ragazze e ragazzi del presente, al di là della propria appartenenza etnica. Lo strumento è la conoscenza storica, è la fuga dalla costruzione di categorie sociali massificanti e stereotipate tornate attualmente in voga. Ce lo insegna e ce lo ripete la legislazione relativa al Giorno della Memoria che può anch’esso essere alla base delle linee per la scolarizzazione al positivo dei rom e dei sinti. Questa è la premessa per la creazione di un contesto culturale, sociale e politico inclusivo, che porti al riconoscimento dei rom e dei sinti come soggetti politici attivi, in grado di sedersi al tavolo comune della progettazione, anche quando si parla di scuola; non più inappellabili, non più appesantiti dall’etichetta di “nomadi” e di “asociali”, le due medesime caratterizzazioni che li portarono nei campi di concentramento e di sterminio, rimaste attive all’interno dei progetti pensati per una loro rieducazione coatta e che segnalano il più lineare dei percorsi d’esclusione camuffati, loro malgrado, da forme di educazione inclusiva. Dott. Luca Bravi


UN’ IDEA ROM PER USCIRE DALLA LOGICA DEI CAMPI NOMADI

I

dea Rom è un’associazione di promozione sociale nata a Torino da pochi anni, con l’obiettivo di favorire l’integrazione e la partecipazione attiva della popolazione Romanì all’interno della società italiana. Nel territorio torinese Idea Rom è l’unica associazione formata da Rom ed ha una forte connotazione di genere, essendo nata ad opera di un gruppo di donne appartenenti alle diverse comunità presenti sul territorio torinese. La sua Presidente è una storica mediatrice culturale di Torino con un’esperienza ventennale nel lavoro a contatto diretto con le varie comunità Rom torinesi. Gran parte del lavoro dell’associazione è infatti costituito da lavoro di campo, a diretto contatto con le famiglie e i singoli utenti. Tramite un’azione di mediazione e orientamento, si cerca di sensibilizzare le famiglie su determinati tipi di problematiche ma soprattutto si tenta di indirizzarle sul territorio cittadino in modo da poterle rendere autonome. Lavoro, casa, salute scuola. Sono questi gli ambiti di intervento che Idea Rom decide di priorizzare. Tasseli di un unico puzzle che devono combaciare e complementarsi per poter raggiungere un livello di qualità di vita degno. Nell’ideale comune il Rom è visto come quella persona che conduce uno stile di vita nomade e precario, che non vuole lavorare né stabilizzarsi. Ma molti non sanno che un gran numero di questi “nomadi” che stanziano nelle zone marginali delle nostre città italiane, sono qui da anni. Molti non sanno come può essere dura la vita priva di servizi all’interno di un campo non autorizzato sorto spontaneamente e in continua espansione. Molti non sanno che in questa variegata massa umana che semplicisticamente si denomanita con la parola Rom c’è chi invece ha voglia di lavorare, di avere un tetto sulla testa e assicurare una vita migliore ai propri figli.

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Idea Rom si oppone fermamente al concetto di “Campo Nomadi”. La casa e il lavoro devono essere un diritto di tutti. Si oppone anche ai progetti di tipo assistenzialistico che hanno abituato i Rom all’idea che tutti i servizi debbano essere portati nelle aree sosta. Vuole favorire l’integrazione e contrastare i pregiudizi, ma per fare questo è necessario agire affinchè le persone che vivono nei campi nomadi imparino a uscire e a relazionarsi con il resto della società. I campi Rom sono simili a dei ghetti, a dei lager, dove le comunità Romanì si abitua a vivere, o sopravvivere, in attesa che qualcuno risolva i loro problemi. Tra Rom e gagè sembra esistere quindi un muro che purtroppo alcuni hanno interesse a mantenere ben alto e invalicabile. C’è chi finge di non vedere e c’è chi riconosce nello stato di “emergenza Rom” la giustificazione della propria esistenza.

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L’obiettivo dei progetti promossi da Idea Rom è quindi quello di far uscire le persone dal campo, renderle autonome e protagoniste attive della costruzione di una vita diversa.

bino Rom il primo passo verso l’integrazione nella società maggioritaria. In questo senso, preoccupazione di Idea Rom è quella di facilitare le iscrizioni scolastiche per le famiglie Rom e assicurare la frequenza regolare dei bambini. Tramite un’attività di accompagnamento, orientamento e mediazione, l’organizzazione si propone di avvicinare scuola e famiglie Rom perché imparino a parlarsi senza l’intervento di agenti esterni. Perchè l’ambiente scolastico non si trasformi in un luogo di discriminazione è attenta anche alla qualità della frequenza scolastica e interviene per verificare se vi siano problemi nel percorso di apprendimento. Il bambino Rom non deve essere isolato, portato avanti come una zavorra che deve essere al più presto gettata in mare aperto. Al contrario dev’essere seguito e compreso nella sua specificità, adattando l’insegnamento al suo vissuto di vita personale. Don Milani diceva: «Qualche volta viene voglia di levarseli di torno (i ragazzi più difficili). Ma se si perde loro, la scuola non è più la scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati».

A PARTIRE DALLE GIOVANI GENERAZIONI I bambini di oggi sono gli adulti di domani e per questo motivo si cerca di investire sui più piccoli e sui giovani perchè possano rappresentare un agente di trasformazione in vista di un futuro migliore. Proprio per questo Idea Rom lotta per assicurare che i diritti dei più piccoli siano rispettati, acominciando dal diritto a ricevere un’istruzione. La scuola non solo è un obbligo, ma è anche un diritto. Rappresenta il secondo agente di socializzazione dopo la famiglia e per un bam-

Grazie a progetti promossi in questo senso, si sono raggiunti grandi risultati in quanto a frequenza scolastica di bambini Rom. Grazie al progetto “Diklem Piccoli Rom”, realizzato nelle zone a ridosso dei più grossi insediamenti di Torino, nell’anno 2010/11, la frequenza scolastica è aumentata del 20%. L’anno dopo, grazie al progetto “Aerodrom” realizzato nel quartiere di Mirafiori, la frequenza media dell’intero anno scolastico si è attestata al 70%, toccando la punta nel 90% nel periodo invernale in cui, tra l’altro, si stavano ef-


un idea rom per uscire dalla logica dei campi rom

fettuando sgomberi forzati degli insediamenti spontanei. Un aumento della frequenza scolastica da parte di minori che vivono in strada è un risultato tangibile di un processo di sensibilizzazione delle famiglie tramite la costruzione di relazioni di fiducia reciproca. Una fiducia che può garantire sostenibilità nel tempo. LAVORO? YES, WE CAN! Il lavoro rende degna la persona ed è il primo passo verso l’emancipazione. Per questo parte del lavoro di Idea Rom si incentra sulla formazione e l’inserimento lavorativo dei Rom che vivono in situazione di disagio e carenza estrema ai margini della città. Tramite i progetti “We Can” e “Clean” (20112012) si è realizzata un’attività di sostegno all’orientamento e all’inserimento lavorativo dei Rom. La finalità delle iniziative è stata la concreta proposta di opportunità lavorative per Rom privi di occupazioni regolari, con un occhio di riguardo alla componente femminile delle diverse comunità presenti nel territorio. I progetti, realizzati con il contributo della Fondazione Compagnia di San Paolo, sono riusciti a realizzare 35 inserimenti lavorativi. Con “We Can” sono stati svolti 18 tirocini formativi, dei quali 4 si sono tramutati in vere e proprie assunzioni. Risultati simili, realizzati nello stesso territorio e con lo stesso bacino di destinatari, erano stati raggiunti anche da altri importanti progetti (citati ripetutamente tra le buone prassi italiane), che però avevano usufruito di budget di oltre 20 volte superiore. La relativa modestia dei

risultati (in relazione agli investimenti economici) in qualche caso era stata giustificata con la scarsa adesione dei Rom ai percorsi d’integrazione. Da sottolineare che nel nostro caso più del 75% della disponibilità economica dei progetti sui temi del lavoro è stata destinata ai Rom beneficiari diretti dell’iniziativa. ALLE RADICI Idea Rom ha mosso importanti passi in materia di integrazione e pari opportunità, arrivando ad ottenere una Targa Speciale da parte del Presidente della Repubblica come riconoscimento per l’operato svolto. Ma è possibile ottenebere risultati effettivi anche con limitate risorse economiche? Secondo Idea Rom si. Basta focalizzare l’attenzione su quelle che sono le problematiche reali, cercando di andare alla loro radice, anche se questo significa compiere un lavoro più difficile, puntando sulla qualità degli interventi, cercando di operare in modo efficace ed efficiente. Spesso si preparano progetti di qualsiasi tipo, con l’obiettivo dei finanziamenti e dimenticando, talvolta, come gli interventi dovrebbero costituire una delle risposte ai concreti bisogni dei Rom. Le risorse disponibili dovrebbero essere utilizzate con attenzione, focalizzandosi sulla risoluzione del problema individuato piuttosto che sulla promozione delle attività. Poi occorrerebbe considerare la sostenibilità degli interventi e per fare questo un elemento fondamentale è la consapevolezza e la partecipazione alle iniziative da parte dei beneficiari stessi.

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Un proverbio dice: “Regala un pesce e sfamerai un uomo per un giorno; insegnagli a pescare e lo sfamerai per tutta la vita.” Se si continua a portare i servizi nei campi nomadi, le persone resteranno dipendenti dai progetti e prigioniere di un sistema di tipo assistenzialistico che non eliminirà la discriminazione nei confronti dei Rom. Devono aprirsi le porte di questi ghetti e occorre varcare la frontiera tra i margini e la città, impararando a viverla per diventarne così cittadino. Come tutti gli altri. di Vesna Vuletic’ e Laura Caviglia IDEA ROM Onlus c/o Centro Studi Sereno Regis via Garibaldi 13 - 10122 Torino fax +39.011.82731123 www.idearom.it - idea.rom@gmail.com

MI CHIAMO BLANKA

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i chiamo Blanka, sono cittadina rom Slovacca, in Italia da otto anni e non ho mai subito discriminazioni. Ho visto tanta sofferenza ed ingiustizia contro la popolazione rom nel mio paese, in Italia e tutta Europa. Non riesco a rimanere ferma, senza far nulla, ed ho cominciato scrivere per far conoscere la verità, visto che negli ultimi anni la condizione della popolazione rom è peggiorata. Gran parte delle famiglie rom in Slovacchia hanno studiato, vivono nelle case eppure su-

biscono discriminazioni. Dicono che i rom non vogliono lavorare e le persone rom sono discriminate nella ricerca del lavoro. Nel mio paese, in Slovacchia, siamo molti i rom che lavoriamo, che abitiamo nelle case, i nostri figli sono puliti e educati eppure sentiamo forte la pressione della discriminazione e segregazione nelle scuole, in ospedale, nel lavoro, ecc. Questa pressione è il risultato delle bugie che si inventano. Voglio dire al Governo Italiano ed al Governo Slovacco che le persone rom sono persone simili a tutte le persone del mondo e che la politica non può usare i rom per cercare di aumentare il consenso elettorale, e lo fate per farvi dire dai cittadini elettori che siete bravi, anche se non rispettate le regole democratiche. Non riesco capire perché odiate tanto le persone rom, eppure sono persone, non animali. Spesso in diretta TV ci sono persone che piangono perché in famiglia qualcuno ha perso il lavoro, i telespettatori sono tristi (qualcuno piange). Quando in diretta TV ci sono persone rom, in particolare bambini, che piangono per le difficoltà e la discriminazione, nessuno si preoccupa (qualcuno ride). Perchè tanto odio? Prendersela con i rom oggi è diventato una moda, in particolare nei periodi elettorali come per le prossime elezioni politiche in Italia ed in Slovacchia. Blanka Balazova


PER 30 ANNI NON HO MAI LAVORATO

“P

er trent’anni non ho mai lavorato. Niente. Ora che ho avuto la possibilità di farlo, devo ammettere che mi manca. Molto”. Giovanni (lo chiameremo così perché ha chiesto di non mettere il suo nome vero) è un rom napoletano, con alle spalle una vita in roulotte tra Napoli, Milano, Genova e Torino. Parla piano, con lunghe e pensierose pause e l’inconfondibile accento partenopeo. La sua vita nell’ultimo anno è cambiata radicalmente: ha trovato un lavoro, una casa e guarda con velata fiducia al futuro. Ma andiamo con ordine. Giovanni è arrivato a Torino con la moglie e le due bambine piccole da oltre un anno. Vivono in camper e la situazione economica è, usando un eufemismo, precaria. C’è la crisi e i soldi languono. “Vendevamo rose in via Garibaldi ma poca roba. Oramai si fa attenzione ad ogni singolo euro”. Un aiuto, nella difficoltà, arriva dall’associazione Idea Rom Onlus. Costituita nel 2009 da donne Rom delle comunità presenti nel torinese, Idea Rom lavora con le diverse realtà per promuovere l’integrazione sociale. Tra le tante iniziative, l’organizzazione ha dato il via

nell’ottobre 2011 a “We Can”, un progetto realizzato per favorire l’inserimento nel mondo del lavoro per Rom privi di occupazione (finanziato dalla Fondazione Compagnia di San Paolo). Diciotto sono state le borse di lavoro attivate e quattro persone sono state inserite in modo stabile nelle rispettive aziende o realtà lavorative. Un successo vista anche la situazione italiana dove il precariato sembra quasi un privilegio. “Uno degli scogli da superare – mi spiegano le attiviste di Idea Rom - è la diffidenza di uomini e donne verso un mondo che li ha abituati a non sentirsi all’altezza. Talvolta la segregazione ha portato molte di queste persone a immedesimarsi nella condizione di subumani, una condizione imposta dall’esterno, dalla società”. Questa svalutazione di sé nasce sia dalla crescente intolleranza (si veda il pogrom della Continassa del dicembre 2011) sia, purtroppo, da un atteggiamento eccessivamente paternalistico di alcune istituzioni. Per dare una svolta a una situazione decisamente oltre il sostenibile, sembrerebbe preferibile adottare un approccio che responsabilizzi i Rom di fronte ai loro diritti e doveri. Dunque non offrire

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dei servizi emergenziali ad hoc ma spiegare alle diverse comunità come usufruire dei servizi accessibili ad ogni cittadino, senza differenziazioni.

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Prigioniero di una sensazione di inadeguatezza, Giovanni in prima battuta rifiuta la proposta di Idea Rom di lavorare come apprendista per una cooperativa che lavora nei cimiteri. “Non avevo mai lavorato e non credevo di essere in grado di alzarmi tutti i giorni e farmi otto ore consecutive. In un cimitero poi!”. Non sarebbe la prima volta che Giovanni rifiuta un lavoro. “Quando ero ragazzino mi avevano offerto un lavoro da portinaio a Napoli ma non mi sembrava una vita adatta a me”. Vendere penne, raccogliere ferro, fare l’elemosina e qualche furtarello sono le occupazioni principali di Giovanni. “Ora mi rendo conto che quella non era vita. Tanti sacrifici pericolosi, torni a casa con la paura degli sgomberi. Sei sempre in movimento”. Nelle sue parole si legge il rammarico per aver perso anni della sua vita, rincorrendo situazioni che oggi gli sembrano insostenibili. Non c’è condanna né autocommiserazione, piuttosto la consapevolezza di aver lasciato per strada delle possibilità che oggi invece vuole cogliere. “Per fortuna ho cambiato idea sul lavoro al cimitero e ho accettato. Mi sono detto, posso anche fallire ma almeno ci devo provare”. Non so quanti di noi non si farebbero remore nel decidere di lavorare in un cimitero. O come direbbe il ministro Fornero, sarebbero choosy nel dover affrontare un’esumazione. “Non volevo toccare i defunti all’inizio e ammetto che stare al cimitero quando scendeva il buoi mi faceva paura”, ricorda Giovanni. Poi, gradualmente, tutto entra nella routine quotidiana, ci

si abitua e anche un luogo apparentemente poco ospitale per i vivi, diventa un normale posto di lavoro. I datori di lavoro apprezzano la dedizione e l’impegno di Giovanni tanto da nominarlo capo di una squadra. Gli affidano le chiavi del cimitero e si fidano di lui. “La prima busta paga l’ho incorniciata - racconta sorridente – certo quando ho visto quanto trattengono di tasse, ho cominciato a capire perché la gente si lamenta del fisco”. Non è solo il primo impiego a cambiare la quotidianità di Giovanni. Con l’aiuto dell’associazione Idea Rom, con la moglie e le bambine riesce a sistemarsi in una casa. Un’altra prima volta per lui. “I miei parenti hanno delle case giù a Napoli ma io ho sempre vissuto in roulotte, con tutta la famiglia”. All’inizio le mura dell’appartamento, lo soffocano. “I primi giorni non riuscivo a dormire. Mi mancava l’aria. Sapevo però che era la cosa migliore per la mia famiglia e piano piano mi sono abituato”. Quando gli chiedo cosa gli manca del suo passato, risponde la famiglia. “Ero abituato ad avere attorno a me tutti i parenti e mi piaceva questa sensazione di vivere tutti sempre a contatto. Comunque non tornerei indietro. Questo è il futuro che voglio per le mie figlie”. Il suo contratto è finito a settembre e a dicembre dovrebbe rinnovarglielo. Giovanni ha trovato una sua dimensione. “Sento sempre i miei colleghi, il mio capo. Siamo rimasti in contatto e mi chiedono sempre quand’è che torno a lavorare con loro”. Lui aspetta fiducioso con la volontà di andare avanti sulla nuova strada che si è costruito. di Daniel Reichel e Giulio Taurisano IDEA ROM ONLUS


U CHAVURÒ

BAMBINO EMOTIVAMENTE INTELLIGENTE familiare e della comunità, rispetto al mondo esterno dei gagé), ed allo stesso modo diversamente attento ai rapporti prossemici verso l’adulto di riferimento od alla comunicazione con il gagiò.

I

n risposta ai limiti dei test psicometrici, formulati per valutare l’intelligenza umana, evidenziati a partire da Piaget (1947), la nuova concezione dell’intelligenza emotiva è stata elaborata come meta-abilità, ossia come una capacità che consente di servirsi di altre capacità considerate superiori, attraverso la gestione dell’esperienza emotiva. Le diverse abilità di cui si compone sostengono la salute mentale ed il benessere psicosociale del soggetto. Nella definizione di Daniel Goleman, l’intelligenza emotiva si fonda su due tipi di competenza, una “personale” – centrata sul sistema dell’autocontrollo - e l’altra “relazionale” – legata alla gestione dei meccanismi che ciascuno mette in atto nel rapportarsi con gli altri. Queste due competenze sono particolarmente esercitate dal chavurò, il bambino Rom, sia nell’adozione di un comportamento fortemente imitativo (e quindi controllato) dei ruoli, degli atteggiamenti, delle modalità d’azione dei genitori (ma anche diversificato tra ambiente

A fronte di una società poco disponibile alla solidarietà ed alla valorizzazione delle differenze, fortemente competitiva, violenta e fragile al tempo stesso, le cui radici affondano negli stereotipi e nei pregiudizi, e che comunica soprattutto utilizzando la ratio per avere il controllo di ansie e timori, proporre l’alternativa di una comunicazione fatta con il cuore, per aprirsi al cuore dell’altro, significa praticare la cultura del dialogo, teorizzare l’uguaglianza nella diversità, aprire la strada al riconoscimento della parità dei diritti. Tradizionalmente e culturalmente quella del bambino Rom è un’identità forte, benché in evoluzione. Ciò che comunemente porta a dedurre l’emozione come un comportamento di risposta profondamente legato alle motivazioni da esso dipendenti, porta il chavurò a prediligere le manifestazioni motorie dell’emozione (teoria comportamentistica della motivazione profonda del comportamento). Gli atteggiamenti che ne derivano spaziano dall’evitamento all’attaccamento fisico, dall’aggressione alla fuga, dalle posture provocatorie o di chiusura (tipica quella a riccio), all’espressione del viso soprattutto degli occhi. La mancanza di elementi di lettura di tali sintomi nella professionalità dell’insegnante ha portato spesso a scambiare per irrequie-

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tezza o aggressività incontrollabili una disperata richiesta d’aiuto, uno stato di disagio che, in condizioni normali, notoriamente il bambino Rom vive nei primi tempi del suo inserimento nell’ambiente scolastico, a volte così profondamente lontano dal modello educativo della famiglia. Del resto, se è vero che l’emozione dà colore e sapore alla vita, dall’altra essa è sintomo di disagio e turbamento, se non di grande conflitto, rispetto ad un atteggiamento razionale che promette controllo e dominio dell’uomo su di sé e sulla realtà. C’è una forte componente emotiva nel legame di simbiosi e di amore tra il bambino Rom con la conoscenza e la natura. Ma attenzione a non cadere nell’errore di contrapporre ad un rapporto di tutto rispetto e di ammirazione le immagini del degrado ambientale dei campi d’accoglienza, dove niente è di nessuno e dove ad essere marcatamente presenti sono le frontiere di recinzione. I rom invece da sempre vivono il ritmo delle scadenze stagionali che continuano a determinare il loro orologio biologico e le loro attività.

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L’emozione è vissuta in modo altrettanto personale nell’esperienza artistica. Molti sono i bambini rom che imparano a suonare fin da piccolissimi e continuano a farlo da adulti, spesso senza conoscere uno spartito o senza poter studiare la musica. Una volta cresciuti il lirismo della loro melodia trova origine nelle esperienze di viaggio e dal contributo di una tipica sensibilità che viene valorizzata e rivitalizzata dalla propria tradizione, per diventare espressione profonda dell’esistenza, mezzo di comunicazione di valori etici e culturali e all’occorrenza “mezzo di deconcentrazione

psicologica”, di liberazione dalle repressioni. La carica emotiva della musica di tutti va ad essere oltre e al di là del solo mezzo di espressione profonda di intime sensazioni; nella storia del Rom è anche un mezzo di difesa, di sfogo, di liberazione da una realtà che spesso non si lascia compenetrare, o lo fa incuneando nei propri sentimenti un innato senso di libertà che con la musica sprigiona e distende paure, timori, diffidenze, tristezze, gioie e amori. E l’emozione musicale s’accompagna ad una grande dicotomia: una produzione con connotazioni di allegria, propria dell’indole gioiosa romanì ed una musica con connotazioni di tristezza e di dolore, che non è dello spirito del Rom, ma appartiene alla storia delle sue persecuzioni. L’emozione trova espressione negli stimoli dati dalla narrazione e dal narrarsi, dalla simulazione dei giochi di ruolo o nell’affettività. Sono modi diffusi tra i bambini, che i piccoli Rom vivono in un ambiente familiare lontano da divieti e costrizioni e dal timore delle punizioni. Nulla (che non sia riconducibile ai riti tradizionali) è programmato o preordinato nella vita dell’adulto come in quella del bambino, ma ogni giorno è un giorno da organizzare, anche se l’attività è sempre la stessa. Perché qualsiasi evento o attività, anche l’apprendere o l’insegnare, sono sempre ricondotti a mezzo dinamico dell’essere mobili, non necessariamente fisicamente, comunque frutto dell’instabilità imposta. Psicologia, antropologia, etnografia sono scienze che ci insegnano come un comportamento stia in stretto rapporto con le motivazioni, dal quale esse dipendono (studio, perchè


u chavurò

devo imparare ed essere promosso). Nel caso del chavurò è lo stesso comportamento ad essere determinato dall’esistenza di motivazioni diverse (non posso far dispiacere alla mamma, allora imparo). Il rapporto empatico è una chiave indispensabile per arrivare al suo cuore ed è spesso legato al desiderio di compiacere alla propria maestra o al genitore (motivazione), pur nutrendo uno scarso o nessun interesse per un argomento od un’attività. Lo stretto legame esistente fra i Rom e la loro cultura con l’intelligenza emotiva è ulteriormente chiarito dall’etimologia di riferimento, spiegata da Walter Fornasa che ne sottolinea la valenza del “portar fuori” (ex-motus), dell’insegnare, cioè del “dare segno” o significanza. La cultura romanì è tradizionalmente fondata sull’evoluzione sociale dei miti, cui va riconosciuto il carattere di emozioni collettive, e sui riti tramandati in Italia e altrove dai diversi sottogruppi Rom. Il kris – che rappresenta storicamente il tribunale dei saggi – eleva la più alta delle emozioni, la saggezza, a strumento d’insegnamento e d’educazione morale, ambientale, economica del giovane attraverso la riflessione, il buon senso e la gestione dei conflitti. Il bambino cresce dunque gioioso, in un ambiente protetto, fino al suo primo contatto con l’esterno, con i non Rom. Il malessere educativo si manifesta con il suo inserimento a scuola, quando vengono a mancare la conoscenza reciproca, ovvero la corrispondenza tra i due modelli di educazione: quello della scuola e quello della famiglia. Di

conseguenza il problema diventa allora capire che cosa si rompe in quel momento nel rapporto tra emozione-conoscenza-interazione e soprattutto quali tipi di risposte può e deve dare l’istituzione. Il primo passo da compiere è “prestare una maggior attenzione alle competenze sociali ed emozionali di insegnanti ed alunni”, avendo cura di investire nella formazione di competenze affettive relazionali degli stessi insegnanti. L’importanza dell’impatto emotivo nel contesto educativo consiglia di trasferire le emozioni nella scuola delle discipline tradizionali e in attività parallele. Un secondo intervento deve partire dalla considerazione che la scuola è un luogo di comunicazione e d’incontro. Una corretta interrelazione è attenta alle modalità tipiche della cultura romanì. “Lavorare pertanto sugli stimoli culturali crescenti del bambino e sulle sue motivazioni” può confermarsi un sistema valido per trovare gli strumenti dell’intelligenza emotiva e poter intervenire in funzione del suo successo formativo, ed “adottare” subito dopo il criterio della problematizzazione dei contenuti (problem solving), sempre attuale e praticato nella quotidianità della sua esperienza di bambino. Il piacere di ascoltare e di raccontarsi, l’uso ricorrente dell’immaginazione e del dare spazio e memoria a vecchie storie sono sempre presenti nel suo essere e vivere da Rom, sottolineano l’efficacia degli stimoli e devono diventare centrali nei metodi di insegnamento / apprendimento e di stesura del curricolo.

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u chavurò

Ciò che in questo contesto mi preme sottolineare rispetto alla proposta operativa (educazione alla comunicazione/relazione, intervento sugli stimoli delle emozioni, problematizzazione dei contenuti) è ciò che riguarda un sistema di verifica della comprensione a scuola che sia estensibile a tutti gli alunni. L’esecuzione di esercizi analoghi a quelli adottati ad esempio durante le lezioni non offrono alcuna garanzia ed inducono in molti casi ad una valutazione errata del livello di conseguimento degli obiettivi. I bambini, soprattutto quelli che appartengono ad un ambiente linguistico culturale diverso o deprivato, apprendono spesso in modo meccanico; la memorizzazione è temporanea, quindi non riescono a metabolizzare le conoscenze. Anche le domande rituali di verifica con la risposta presente nel testo non garantiscono un apprendimento significativo, riconducibile cioè alla cultura d’appartenenza. E’ invece un sistema che banalizza lo stesso apprendimento ed assicura di contro risultanti esemplari a chi risponde all’insegnante secondo il modello del suo insegnamento.

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Il metodo più efficace sembra essere quello di una forma conversazionale controllata, andando a ragionare insieme sui rapporti causa-effetto, sui risultati ottenuti, dove l’errore venga ad acquistare la sua valenza di criterio apprenditivo per uno studio attivo. Diversamente l’errore di valutazione dell’insegnante diventa causa, o concausa, dello scarso successo scolastico dell’alunno. Se poi tali attenzioni ci vengono parimenti in

aiuto della valutazione dei risultati dell’intera classe, anche il più sprovveduto dovrà convincersi che, nella loro ricchissima diversità, tutti i bambini, autoctoni o stranieri, Rom o diversamente abili, alla fine sono prima di tutto dei bambini. Giuliana Donzello Bibliografia di riferimento GOLEMAN, D., Intelligenza emotiva, Rizzoli, 1997 FORNASA, W., Tu chiamale se vuoi…., Atti del Seminario Nazionale di Studi “Intelligenza emotiva e scuola”, Milano 14-15 dicembre 1998, Scholé Futuro SALOMONE, M., La scuola che emozione, Atti del Seminario Nazionale di Studi “Intelligenza emotiva e scuola”, Milano 14-15 dicembre 1998, Scholé Futuro

LE CAPRIOLE

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i fronte a bilanci pubblici difficili, disoccupazione incalzante, partiti che mostrano tutto il loro fallimento, ecco giungere dal cielo una questione che accomuna tutti, quella della popolazione romanì, che fa sentire uniti ed appartenenti ad un unico partito ed una razza migliore, e soprattutto non fa più litigare perché attenua tutti gli altri dolori. Fino a quando si sazieranno e si accecheranno di “motti incantatori”? Fino a quando “i motti incantatori” faranno presa sulla gente?


Fino a quando saranno capaci di non vedere loro stessi dall’altra parte? Non voglio convincere alcuno a guardare con occhi diversi la diversità ed immaginare che domani tuo figlio può essere quel bambino ROM che oggi soffre. La peculiarità di certe disquisizioni attraenti è che si realizzano sempre quando ci sarebbe altro e di più grave entità da analizzare e da risolvere. Quando sento dire: “non sono razzista ma…” allora mi preoccupo al punto da farmi pensare al Cristo accampato nell’orto del Getsemani, sgombrato dalle guardie di Pilato e voglio citarlo visto che dichiarate di adorarlo. Quando il figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo

vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”. Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?” Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”.» “Tutto ciò che ha valore nella società umana dipende dalle opportunità di progredire che vengono accordate ad ogni individuo.” (Albert Einstein)

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LA POPOLAZIONE ROMANÌ om, sinti, zingari, nomadi, viaggianti, giostrai, ecc. tanti termini utilizzati in modo dispregiativo per puntare il dito verso una popolazione poco e mal conosciuta.

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per cui i termini Sinto e Rom sono da considerarsi etnonimi che vanno considerati sinonimi, non vanno separati come se si trattasse di due popoli differenti.

Nel corso del 1° Congresso della Romani Union Internazionale svoltosi a Vienna a partire dal 8 aprile 1971 erano presenti rappresentanti della popolazione Romanì di quasi tutti i paesi del mondo. In questa occasione si è condiviso la bandiera della popolazione romanì, l’inno Gelem gelem, ed il nome Rom (romanì, romanò, romanipè, ecc.)

I Kale o Cale derivano il loro nome dall’aggettivo hindi kŠlŠ che significa nero. Per Kale si intendono le comunità romanès della Finlandia e del Galles, mentre con Calo e Calão si designano rispettivamente le comunità romanès della Spagna e del Portogallo. In Brasile esistono gruppi romanès che si autodeterminano come Kalãos così come in Iraq e in Africa del Nord (Algeria) si designano come Kaulja.

Il mondo romanó oggi è costituito essenzialmente da cinque grandi comunità: Rom, Sinti, Kale, Manouches e Romanichals, un’unica lingua, il romanès o romanì chib, e sono stati classificati circa 18 dialetti. Rom, Sinti, Kalè, Manousches, Romanichels sono etnonimi e significano essenzialmente uomo e, da un punto di vista generale, possono essere considerati, fra loro, sinonimi, ovvero Rom è l’etnonimo originario e tutti gli altri sono dei derivati. Gli etnonimi Rom (sostantivo invariabile) e Roma (plurale di Rom) sono quelli più largamente usati fra le comunità romanès di tutto il mondo e derivano dal termine Ûom che designava nei territori persiani un gruppo etnico eterogeneo d’origine indiana.

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Gli Sinti, singolare Sinto, deriverebbero il loro nome da Sindhi ovvero la popolazione che viveva nella regione del Sind a Nord ovest dell’India (oggi in Pakisthan). Quindi il termine Sinto è un toponimo (nome del luogo). Sinti e Rom parlano il romanès ed è la ragion

I Manouches derivano il loro nome dal sànscrito manuÒ che significa uomo, essere umano. I Manouches si trovano soprattutto in Francia meridionale, il loro dialetto romanès ha molti imprestiti tedeschi. I Romanichals o Romanichels sono insediati soprattutto in Inghilterra (ma anche in Australia e in Nord America) derivano il loro nome da due termini romanès: romaní (aggettivo) e da chals o chels che deriva dal romanès havo/ have che significa figlio, figli, ma anche giovane, giovani. La traduzione letterale sarebbe dunque i figli/giovani Rom.




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