Elvis ha lasciato l'edificio

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29 Gennaio - 9 Febbraio 2014

PALAZZETTO TITO Dorsoduro 2826 30123, Venezia Opening: 28 Gennaio – h. 18.30


mostra a cura di: Rachele Burgato Valentina Lacinio Giulia Morucchio allestimento: Valentina Lacinio Giulia Morucchio ufficio stampa e comunicazione: Valentina Lacinio Ilaria Gentilini sito web: Giulia Morucchio si ringrazia: Alberto Garutti Caterina Rossato Angela Vettese Fondazione Bevilacqua La Masa UniversitĂ IUAV di Venezia


2 9 . 0 1 - 0 9 . 0 2 . 2 0 1 4 // E L V I S H A L A S C I A T O L’ E D I F I C I O

“Ladies and Gentlemen... Elvis has left the building, thank you and Goodnight.” Al Dovrin, speaker ufficiale ai concerti di Presley, invita l’audience a lasciare la sala: Elvis non tornerà, né per un bis, né per i saluti. È già sulla sua limousine diretta all’aeroporto, pronto per la prossima data. ELVIS HA LASCIATO L’EDIFICIO raccoglie i lavori di quindici artisti che, affiancati da tre curatori (Rachele Burgato, Valentina Lacinio, Giulia Morucchio), si sono confrontati con una dimensione condivisa carica di suggestioni. Lo spettacolo dell’arte si articola come un trucco di magia, tra l’artista e il pubblico viene sigillato un patto, la condivisione di un momento preciso: è il tempo dello show, entro il quale l’audience chiede di essere meravigliato e alla fine del quale non resta che “andare a casa”. Ultimo giorno della 55° Biennale di Venezia, la mostra chiude. E anche per quest’anno la città ha vissuto il suo momento: Venezia culla delle esposizioni. La cultura mette in scena se stessa, e l’Arte dei grandi artisti internazionali fa la sua comparsa come una star, come acclamata regina del palco. Ma allo

scadere del tempo, cosa rimane? I riflettori sono spenti e sembra “non esserci altro da vedere”, ma non è così. Dietro il sipario restano i giovani artisti, le nuove generazioni pronte a sigillare un nuovo patto con il pubblico, a offrire un ulteriore evento visivo, limitato ma denso. A partire dal linguaggio del paradosso costruito su giochi linguistici, visivi e di concetto (Lorenzo Commisso, Leonardo Mastromauro, Laura Tinti), si percorre la ricerca del limite, inteso come confine stabilito (Francesco Nordio) o come deriva (Graziano Meneghin), come tracciato liquido che dà spazio all’ubiquità (Edoardo Aruta) o come imprescindibile vocazione all’esaurimento (Valentina Furian), o ancora come fobia paralizzante (Guido Modanese) che richiede un rituale di espiazione (Serena Oliva). I concetti di limite e paradosso si intrecciano poi con l’eterno quesito dell’identità, che si rinnova continuamente (Susanna Alberti), che chiede di essere problematizzata (Pietro Bonfanti) e accudita (Marzia Avallone), reinventata (Yulia Knish), ridefinita (Gaia Ceresi) o rievocata (Fabio Valerio Tibollo). La mostra, ispirata dall’esperienza di Laboratorio di Arti Visive IUAV con la supervisione di Alberto Garutti e Caterina Rossato, viene ospitata nello spazio della Fondazione BLM che intende in questo modo rinnovare l’attenzione ai luoghi di formazione del territorio.



ARTISTI



SUSANNA ALBERTI MUTA PANICA

Il lavoro nasce dalla necessità di placare l’ansia di ottimizzare il tempo, un horror vacui del fare che crea confusione. La Muta Panica è una muta che viene a crearsi come residuo di un’operazione che costringe ad un momento di attenzione e cura verso sé stessi. La sua realizzazione avviene in tre momenti. Il primo, durante il quale per “indossare” la muta occorre ricoprire con estrema precisione la superficie del proprio corpo con della colla vinavil. Focalizzando l’attenzione su questo gesto apparentemente inutile, smettiamo di pensare alle mille cose che intasano la nostra testa, le quali spontaneamente si depositano e riordinano. La seconda fase dell’azione consiste in un’attesa, una delle cose che forse più irritano l’uomo contemporaneo. L’essere costretti a questo stato porta lentamente il soggetto ad arrendersi allo scorrere del tempo, cominciando a usare quel tempo per sé. L’ultima fase di “svestimento” è un’ulteriore fase di rallentamento forzato. Il soggetto vorrebbe liberarsi velocemente dalla muta, ma l’aderenza al corpo della colla ormai solidificata, non permette gesti frettolosi, costringendo di nuovo ad arrendersi di fronte alla fretta e a compiere dei gesti dolci verso di sé.

A sinistra: dettaglio dell’opera Sopra: Veduta dell’installazione 2013 - installazione materiali: colla vinavil dimensioni: variabili

“Ciononostante, ho capito che non ci poteva essere autentica guarigione se non si passava all’azione concreta.” (A. Jodorowsky)


Tra cielo e terra è lo spazio di un’azione. Essa consiste nella richiesta a diversi Paesi nel mondo dell’emissione di un francobollo che rappresenti le nuvole. Questo francobollo viene però a collocarsi in uno spazio inteso come performativo più che della rappresentazione. Per cercare le nuvole con lo sguardo dobbiamo alzare gli occhi al cielo e guardare verso la dimensione infinita dell’universo dove esse, viaggiando, mutano forma e cambiano il paesaggio. La loro “evoluzione” ci suggerisce quanto ciò che muta continuamente in fondo è duraturo mentre ciò che sembra solido e definitivo in realtà, è condannato a deteriorarsi. Perché le nuvole sono movimento e teatralità, universo cangiante di forme e colori, scenografia sempre diversa, minaccia all’orizzonte ma anche rifugio e oggetto di fantasie infantili, da esse si può apprendere il senso della mutevolezza così intimamente connesso all’emergere di nuove identità. L’identità non saprebbe affermarsi né consolidarsi a partire da regole, prescrizioni o leggi che ne fondassero d’autorità la natura o ne garantissero a forza l’immutabilità. Per queste ragioni, Tra cielo e terra si pone come ritratto del nostro tempo. Tale proposta, individuale e collettiva, assume il valore di un atto poetico: la richiesta di usare l’immagine e il significato mai univoci delle nuvole per rappresentare il proprio Stato-Nazione insiste, infatti, nel paradosso.

Sopra: francobollo A destra: lettera di richiesta d’emissione

EDOARDO ARUTA TRA CIELO E TERRA

Nella pagina successiva: stampa su francobolli e diapositiva 2013 - installazione materiali: stampe inkjet su francobolli dimensioni: variabili






In uno scorcio di presente futuribile, un’Entità pura ed evanescente, giunta da sponde remote, ritrova un reperto. Questo reperto è una scultura, una statuetta raffigurante la Dea madre arcaica. Focalizzata l’attenzione sull’Entità arcana essa viene plasmata, prende forma fisica. Un Essere che rispecchia l’habitat da lui stesso creato, composto di codici della nostra epoca, un tempo usati e poi scartati, tornano alla vita. Frammenti in equilibrio precario anche se posizionati accuratamente l’uno accanto all’altro. L’Essere si appropria degli oggetti che ha creato e si nutre di loro: forme, materiali si animano in quest’Entità dove il fruitore scorge una componente di sè. La trasformazione degli oggetti dimenticati si configura come processo alchemico, l’armonia è ricreata, la dignità sottratta dal tempo e dall’uso ripristinata. Puro e sublime surrealismo senza tempo che ribadisce il potere trasfigurante dell’arte, ma anche la capacità del genio umano di creare a seguito di ogni forma di distruzione; un essere, lì, con la sua realtà oggettiva, vuole comunicare e far riflettere.

Sopra: preparazione dell’opera A sinistra: dettaglio dell’opera

MARZIA AVALLONE REDIVIA E Ě

2013 - installazione materiali: materiali di recupero in ferro, alluminio, acciaio, mosaico, circuiti stampati dimensioni: cm. 60x60x200


PIETRO BONFANTI MONUMENTO A QUELL’ ANARCHICO

Due volte al giorno un incaricato colloca il secchio e l’asse di legno sorretta dai cavalletti a fianco della massa d’argilla. Dopo esser stata posata sopra l’asse, l’argilla viene rivelata da sotto il panno ormai quasi asciutto che la riveste. Il panno viene immerso nell’acqua del secchio, strizzato, per poi essere avvolto nuovamente attorno alla massa di argilla, che verrà così riposizionata nello stesso punto da cui era stata prelevata. Al termine dell’operazione, l’incaricato ricolloca tavola, cavalletti e secchio contro la parete da cui erano stati prelevati. Monumento a quell’anarchico si propone di tematizzare la critica al principio di autorità unitamente al concetto di potenza come possibilità. Da un lato minando l’idea stessa di monumento come affermazione di un’immagine unica e determinata, dall’altro accogliendo l’idea di libertà come materia priva di un volto. La procedura tradizionale all’interno del laboratorio di ceramica prevede di conservare l’argilla avvolta in un panno bagnato prima della lavorazione, al fine di mantenere la terra umida e malleabile, predisposta, cioè, ad assumere qualsiasi forma.

A destra: materiali Nella pagina successiva: performance, allestimento 2013 – performance/installazione materiali: argilla, panno, secchio, acqua, tavola di legno, cavalletti dimensioni: variabili





GAIA CERESI CONCILIAZIONI


A sinistra: veduta dell’installazione Nella pagina successiva: dettaglio 2013 - installazione materiali: colonne di pietra, risme di carta dimensioni: variabili

Tre sculture composte da più risme di carta sovrapposte l’una sull’altra in modo leggermente imperfetto compresse a terra da lastre di marmo e pietra. L’opera si propone di riflettere sul valore dell’atto artigianale rispetto all’atto artistico, mira a dare forma ad una tecnica di rilegatura di libri in cui la pietra pesante viene utilizzata come pressa. La tecnica di rilegatura diviene simbolo della potenza del vecchio e della forza del lavoro manuale scevra da uno scopo estetico. Svuotata dal suo senso originario tale tecnica diviene forma scultorea minimale. Le tre colonne dalla struttura forte e le linee essenziali sono in-mobili, pulite, frutto di un processo incompiuto e preludono il movimento impercettibile dei fogli che si comprimono lentamente, questo movimento evidenzia dei processi non-finiti espressi nella loro potenzialità materiale. La pietra viene utilizzata come richiamo alla tradizione scultorea mentre i fogli di carta sono espressione di una scrittura in divenire. Tutto ciò nasce dalla ricerca del gesto autentico.





LORENZO COMMISSO LA MISTERIOSITÀ DELL’ EVENTO VISIVO

L’opera è dunque lo specchio sospeso dell’arte che non può dar luogo a nuovi racconti, ma solo ripetere e ripetersi grazie a un destino circolare, dove immagini, figure, modelli, Muse e Dei ritornano, seguendo come un fiume sotterraneo che ogni tanto emerge in superficie. (C. Bertola, Il pescatore di perle in A. Mattirolo, G. Paolini, L’ora X. Né prima né dopo.)

L’artista prosegue una ricerca iniziata nel 2012. Partendo da uno studio concettuale ed antropologico di artisti che incontrano il suo percorso, Lorenzo Commisso dà vita ad un ipotetico scontro, con lo scopo di appropriarsi della loro immagine, del loro stile (nome/marchio d’artista). L’artista analizza e in seguito si appropria dei contenuti delle ricerche artistiche altrui, giocando con l’ambiguità di un’azione - tributo/plagio/furto d’identità. Attraverso azioni performative imposte riesce a creare un circuito di collaborazioni con figure dell’arte contemporanea che hanno sviluppato percorsi e poetiche in cui si riconosce. Si crea una riflessione sull’autenticità e sull’autorialità del processo artistico, sull’apprendere per simulazione. Questo progetto per ora ha incluso figure come Cesare Pietroiusti o Antoni Muntadas. Il tributo ad Alberto Garutti si sviluppa attraverso una performance che vede protagonista il foglio bianco, oggetto che l’artista ha utilizzato nella sua Opera dedicata a chi guarda in alto, e supporto che ricorre anche nell’esperienza di Lorenzo Commisso. Partendo da questo terreno comune dell’opera si attua un processo fraintendibile. Copia o dedica?

A sinistra: proiezione, veduta dell’installazione 2013 – video digitale b/n durata: 2’22” circa / loop



Questo progetto è figlio di un processo artistico che esamina il concetto di fine. L’usura vista come una vita vissuta dalla nascita fino alla morte. Una storia narrata dall’incipit all’epilogo, dal suo inizio, fino al suo esaurimento che diviene tale quando siamo noi ad assistervi.Si tratta di meccanismi che non sperimentano il concetto di vita comunemente inteso poiché prodotti industriali creati dall’uomo e dei quali non abbiamo la consapevolezza delle durate o dei percorsi, nessuna necessità, nessun bisogno di controllo o interesse di rilevamento. R, G, B 128, 128, 128 si concretizza nel rilevamento di piccoli cambiamenti avvenuti durante il processo, mutazioni che hanno portato il nostro occhio verso una nuova scoperta, attraverso un nuovo colore. Le tonalità si creano con l’esaurimento progressivo delle tre gradazioni. Tecnicamente le stampanti dispongono di cartucce nere separate da quelle a colori. Questa particolarità non esiste in natura, il nero è il risultato della sintesi sottrattiva nel sistema dei colori RGB (rosso, giallo, blu), che riguarda la combinazione di pigmenti colorati, come per i colori per dipingere, ma che nei processi di stampa si serve di una miscela di tinta nera proiettata direttamente sul foglio ma non costituita da una mescolanza costante di particelle dei tre colori contenute nell’altro serbatoio cartuccia. Il grigio nella stampa, invece, è un pigmento costituito dalle stesse percentuali di tutti e tre i colori (rosso, giallo, blu) che danno vita ad un colore simile al grigio. In R, G, B 128, 128, 128, l’intero processo viene tolto agli occhi dello spettatore per lasciare i quattro cambiamenti che sono avvenuti nel “naturale” corso “vitale” della stampante. Quattro fogli incorniciati che lasciano intendere il passato prossimo e il futuro del loro itinerario; mostrano una sfumatura raccontata poeticamente da un dosaggio natural-meccanico della macchina stampante. Il vuoto presente in quest’opera è un intero racconto celato alla vista. Le cornici sono, invece, dei nuovi capitoli.

VALENTINA FURIAN R, G, B 128, 128, 128

A sinistra: veduta e dettagli dell’installazione 2013 - installazione a parete materiali: fogli A4 dimensioni: variabili



YULIA KNISH 44

Il lavoro nasce da un incontro casuale con un giovane ragazzo che ha messo in vendita in un mercatino delle fotografie scattate da lui. Ne scelgo 44. Lo incontro per fare delle riprese. Dietro ognuna di queste si cela una storia, il ricordo di chi ha catturato quei momenti. Successivamente ho realizzato altre riprese con persone dai diversi percorsi di vita, mestieri e provenienze, chiedendo di raccontarmi quelle foto come se appartenessero a loro. La durata di questo video è in costante cambiamento, in quanto il lavoro si configura come work in progress. “La fotografia mette a morte qualsiasi cosa che tocca”, in questo caso mi interessa il processo inverso e cercare di darle vite differenti con sguardi nuovi. L’oggetto viene riposizionato su una traccia di tempo, spazio e territorio diversi. Il lavoro é intorno all’oggetto e non su di esso. Delegare ad altri lo sguardo e il racconto e infine la creazione.

A sinistra: una delle fotografie acquistate dall’artista Sopra: still da video 2013 - video digitale a col. durata: 13’


LEONARDO MASTROMAURO SOTTERRARE LA TERRA

L’intento scaturisce dall’esito. Un gesto quotidiano, e vano. Scavo con cura e frenesia. Non ci sono alternative, scavare è un gesto perpetuo, potenzialmente infinito. Sotterro con altrettanta delicatezza, la terra sotto le mie mani cambia consistenza, si sgretola, si ammorbidisce per poi riassemblarsi, una rinvigorita forma compatta. Non sembra essere cambiato nulla laddove tutto è mutato. La terra risotterrata è una terra rinnovata, è materia trasformata poiché riposta dopo essere stata accudita. Le fasi di fine e principio sono rimescolate, i due fotogrammi di incipit e chiusura si fondono, tutto sembra rimasto immutato, eppure, in uno spazio infinitesimale tutto è cambiato. Questo atto nudo è la dichiarazione di una poetica in cui un’azione minima può farsi portatrice di una rivoluzione, intesa come derivato di “revòlvere”, volgere indietro, voltare, volgere sottosopra.

A destra: still da video Nella pagina successiva: Due still di riferimento tratti dal film Il paese incantato di A. Jodorowsky (1968) 2013 - video digitale a col. durata: loop





“Notre vie est un voyage Dans l’hiver et dans la Nuit. Nous cherchons notre passage Dans le Ciel où rien ne luit.” (Beresinalied, Chanson des gardes suisses, 1812)

Mi approprio di questo breve verso tratto da una canzone composta dalle guardie svizzere in ritirata dalla Russia, nella notte del 28 novembre 1812, dopo la catastrofe della Beresina. La strofa, che trovò notorietà nel 1924 quando Louis Ferdinand Céline la pose come esergo del suo celebre romanzo Voyage au bout de la nuit, viene cantata in ripetizione, con una nuova melodia, fino a svuotarla del suo significato originale. Compio questa azione bendato e con delle cuffie che rimandano la mia stessa voce mentre vago per un’intera notte lungo le calli di Venezia, in una sorta di atto monastico di svuotamento dai miei condizionamenti spaziali e temporali. In sede espositiva, la mattina seguente, espongo la copia originale del libro in mio possesso di Céline, sotto il cui esergo annoto alcune frasi descrittive della stessa performance, e il registratore vocale, documentativo dell’intero atto performativo.


GRAZIANO MENEGHIN NELLA NOTTE. QUEL CHE NON SFUGGE RIMANE

A sinistra: veduta dell’installazione Sopra: dettaglio dell’installazione 20 - performance / installazione 2013 materiali: registratore vocale, libro


GUIDO MODANESE CLELIA

Video che testimonia la vita di un’anziana signora, Clelia, all’interno del suo appartamento, diventato da anni il suo guscio protettivo.

Sopra e a destra: still da video 2013 - video digitale a col. durata: 4’42’’




FRANCESCO NORDIO ZONA DI LIBERAZIONE

A sinistra: schema Nella pagina successiva: veduta dell’installazione 2013 - installazione materiali: schema incorniciato e appeso al muro, rettangolo di nastro adesivo di carta, penna, dichiarazioni da firmare all’entrata dello spazio espositivo // dimensioni: variabili

Vorrei provare a scrivere una poesia, sarà per forza bellissima, perché sarà fatta dei vostri corpi e delle vostre menti. L’opera si compone di due parti: la prima è uno schema del percorso che ha portato alla versione fnale del lavoro, per rifettere sulle enormi potenzialità di sviluppo che può avere un’idea quando viene elaborata collettivamente e liberamente. L’intenzione è di sottolineare quanto lavoro intellettuale venga perduto quando un gruppo consiglia in merito ad un lavoro, perché viene considerato “troppo altrui” per essere integrato nel lavoro in questione e troppo legato a questo, oltre che lontano dalla loro produzione per essere utilizzato dagli altri. La seconda parte del lavoro è una zona per la sperimentazione con il comportamento. L’espediente è l’istituzionalizzazione della libertà di comportamento tramite l’attenuazione della pressione sociale: viene fatto frmare a tutti, all’ingresso della mostra, un documento legale dove ci si impegna a non denigrare, a non offendersi e a non giudicare negativamente il comportamento di chi entra nella zona. Chi entra nella zona dichiarerà invece, frmando un secondo foglio, di sforzarsi a sperimentare con il proprio comportamento. La libertà, in questo modo, emerge automaticamente come la possibilità di concepire e realizzare alternative, come una ricerca, un esercizio di elasticità mentale, un lavoro di critica dell’esistente ed un processo di produzione. Vi possono essere, infine, elementi accessori, come due frasi appese al muro affanco alla zona delimitata, per attirare ed ispirare gli spettatori, oggetti di vario tipo che possono essere utilizzati a supporto degli esperimenti, ed un quaderno nel quale chi partecipa è invitato a registrarne liberamente i risultati. Non si desidera proporre un’esperienza preconfezionata allo spettatore, ma costruire un contenitore adatto allo sviluppo di una sua personale attività di ricerca in collaborazione con gli altri. Il lavoro si costituisce pertanto come un laboratorio permanente.




SERENA OLIVA QUATTRO CERIMONIE PER DISINFETTARE GLI OCCHI (MARTEDÌ)

La camera fissa assiste a quattro riti domestici eseguiti da un impasto di burro e zucchero. Venerdì si tuffa nel canale, sabato diventa polvere, domenica si appropria di un campo visivo, martedì de-lievita. Ogni azione segue un’istruzione e una posologia. Ogni azione è un farmaco che promette di purificare l’immaginario.

Sopra: still da video A destra: composizione dei frame totali del video 2013 - video digitale a col. durata: 21’11”



FABIO VALERIO TIBOLLO URTO CHI NON RIESCO A SCHIVARE


A sinistra: veduta dell’installazione 2013 - installazione sonora materiali: traccia sonora, tavolo, impianto audio durata: 2’ circa

Gli altoparlanti e il dispositivo di riproduzione sono agganciati sotto il piano di un tavolo di legno. La traccia è presentata in loop e ha una durata di due minuti, compresa una pausa di trenta secondi. I materiali selezionati durante le registrazioni sono stati utilizzati per sfregamento. La tensione prodotta dalla dissociazione di un dato sensoriale rispetto al contesto di appartenenza porta a riconsiderare le proprie leggi di misurazione. I visitatori sono invitati a chiudere gli occhi.



LAURA TINTI GIOCOFORZA

La possibilità della duplicazione é la premessa ontologica per la trasformazione del mondo degli oggetti in mondo di segni: l’ immagine riflessa della cosa è sottratta a rapporti pratici (di spazio, di contesto, di scopo) a essa connaturati, e perciò può essere facilmente inclusa nei rapporti modellizzanti della coscienza umana. Eppure a seguito di questo processo non finito di duplicazione, gli strumenti da stabili e accoglienti divengono corpi minacciosi, gli spazi liberi scoscesi ed infidi, e l’orizzonte si tramuta in un abisso. La durata del processo non è prevedibile. È bene stare in guardia: le regole conosciute non valgono nello spazio capovolto.

A sinistra: dettaglio dell’opera Nella pagina successiva: opera 2013 - scultura materiali: due piani inclinati, black cardboard, acciaio inossidabile dimensioni: base cm. 70x100x28, scivolo cm. 24x36x30, altalena cm. 18x26x20





BIOGRAFIE

MARZIA AVALLONE

Viggiano (PZ), 1985

SUSANNA ALBERTI

Seriate (BG), 1988

Nel 2011 consegue il Diploma Accademico di primo livello in Pittura all’Accademia di Belle Arti “G. Carrara” di Bergamo. Vive e lavora tra Venezia e Bergamo. Il lavoro dell’artista è recentemente diventato una pratica terapeutica, nascendo dalla necessità di rallentare i ritmi quotidiani e rimediare ad una sensazione di asincronia. Assecondando il tempo necessario alla creazione della forma estetica, spesso attraverso una lavorazione lenta e minuziosa, Alberti si concede di immergersi in un tempo dilatato, di meditazione, all’interno del quale abbandonare ogni fretta, distendere la mente e lasciare che tutti i pensieri si depositino e le idee emergano spontanee.

Diplomata in Pittura all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Spirito itinerante, momentaneamente alberga a Venezia. Mutazioni, ibridazioni, infezioni/invasioni, Avallone scruta gli aspetti più reconditi del mondo che la circonda analizzando i segni lasciati dalla kosmopolis umana; scandagliare le visioni che l’attraversano per poi cercare di plasmarle sono il leitmotiv della sua ricerca. PIETRO BONFANTI

Bergamo,1987

Laureato in Scienze dell’Educazione indirizzo Socio-culturale presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca. Vive e lavora tra Venezia e Bergamo. La sua pratica nasce da processi di annullazione volti ad indagare differenti forme del non-fare o sfaccettature della potenza intesa come possibilità irrisolta di fare qualcosa. La critica al principio di autorità insieme all’esercizio sperimentale della libertà costituiscono i capisaldi della sua ricerca.

EDOARDO ARUTA

Roma, 1981

GAIA CERESI

Nel 2006 consegue la laurea in Scultura all’Accademia di Belle Arti di Roma. Vive e lavora tra Venezia e Roma. La pratica dell’artista è basata sulla disamina dei phenomena sottostanti la nostra esperienza di vita quotidiana, dall’interazione con i luoghi e dalla relazione tra persone e “oggetti” alle possibilità d’esplorazione di significati reali e fittizi che li circondano. Aruta attraverso l’analisi delle sfumature di realtà, intende svelarla nei suoi livelli multipli e potenziali d’apparenze e d’interpretazioni.

Senigallia (AN), 1987

Attualmente è scritta al corso di Laurea Triennale in Arti visive e dello Spettacolo all’università IUAV di Venezia. Vive e lavora a Venezia. I suoi lavori nascono da visioni e contemplazioni molto personali, quasi irrilevanti. Creando lo spazio necessario per una riflessione silenziosa che suggerisca di osservare lo sfondo: in senso letterale, ma anche nel senso di ciò che è non appariscente. Fermarsi ad ascoltarlo. Constatarne la complessità.


LORENZO COMMISSO

Pordenone, 1978

Si laurea all’Accademia di Belle Arti di Bologna nel 2006. Artista, fotografo, performer. Vive e lavora a Venezia. La sua ricerca tocca vari ambiti; lavorando con molteplici estetiche risulta difficile delineare i connotati specifici della sua ricerca. Ricorrono però punti fissi come l’utilizzo di metalinguaggi, riflessioni sul doppio, sull’idea di riflettere, sul tempo e i numeri, sul percepire, sulle proprietà intrinseche della pratica utilizzata. Commisso vede il suo lavoro come un quantitativo di liquido che prende forma in base al contenitore in cui viene versato. VALENTINA FURIAN

Venezia, 1989

Nel 2010 si iscrive all’Università IUAV di Venezia. Vive e lavora a Venezia. L’indagine dell’artista si concentra sulla ricerca della meraviglia nelle piccole cose. Con operazioni volutamente semplici, e tramite l’utilizzo di medium eterogenei, si propone di creare un mosaico di opere sempre volte ad una resa trasparente dell’idea fondante originaria. Ripetitività di gesti, segni, immagini, sono tutti espedienti atti a creare un incanto, sincero come il gioco di un bambino. L’essenziale si compie nel cuore dell’infinitesimale, e l’artista si fa portavoce della dimensione autentica del mondo, riabilitandone lo spessore e velandola di rinnovati significati. La genuinità si perpetua nei progetti passati, presenti e futuri e la semplicità si impone come parola d’ordine, o quasi. YULIA KNISH

Kirghyztan, 1979

Laureata presso l’Ashkelon Art School con specializzazione in Fine Arts. Nel

1998 si sposta in Italia e si diploma presso l’Accademia Di Belle Arti di Firenze con specializzazione in pittura. Nel 2010 si iscrive presso l’Accademia Di Belle Arti di Firenze al master in Arti visive e Nuove espressione del linguaggio. Attualmente vive in Italia ma lavora tra l’Italia e Israle. Nel suo lavoro confluiscono la memoria personale stratificata nei suoi vari spostamenti, dal Kyrgyzstan sovietico allo Stato di Israele e infine all’Italia, è un’estetica che risente dei modelli culturali dei vari territori da lei attraversati. Il risultato è la creazione di situazioni che concernono sia il passato, una storia filtrata da un’esperienza personale diretta, che un presente in cui la sua opera si inscrive aprendo all’Altro, che è il suo pubblico presente, con leggerezza e generosità tanto da far scordare la distanza dell’opera d’arte e favorire uno scambio di natura emozionale e spirituale ancor prima che strettamente artistica. LEONARDO MASTROMAURO

Trani (BA), 1988

Nel 2011 si diploma presso l’Accademia di Belle arti di Firenze. Vive e lavora a Venezia. La poiesis è modus vivendi. Continuamente linee di fuga vivisezionano il soggetto. L’accento o baricentro viene posto su quelle pratiche apparentemente fallimentari, pleonastiche, inutili ove la dialettica soggetto-oggetto viene ad essere annullata, a sottolineare la transitorietà e il senso di finitudine di ogni singolo elemento nel suo stesso farsi. GRAZIANO MENEGHIN

Sacile (PN), 1982

Nel 2012 si laurea in Arti Visive e dello Spettacolo allo IUAV di Venezia, città in cui vive e lavora. “Il mio interesse è legato a tutti quei processi che si danno di per sé come fallimentari. Credo che il fallimento rappresenti una sorta di


allegoria dell’intero processo artistico, nel quale si mira ad una perfezione che ovviamente non può essere raggiunta ma solo avvicinata. Come artista sento l’esigenza di sfidare continuamente i miei limiti attraverso l’esibizione di azioni che possono risultare inutili nella loro assurdità. In generale credo che il legame che si instaura tra il fallimento e l’assurdo sia il principio stesso della vita, in cui viviamo la nostra condizione di esseri finiti in un tempo ed in uno spazio che si danno come infiniti. In maniera analoga nei miei ultimi lavori ho allargato il campo della mia ricerca a diversi processi di apprendimento legando questi alla mia stessa attività processuale e performativa. In tal modo intendo utilizzare l’atto artistico come esperienza esplorativa e conoscitiva del mio stesso io autoriale, esibendo in maniera plateale la mia incapacità di utilizzare un qualsivoglia media o mezzo artistico e installando così una relazione tra apprendimento e fallimento basata su un ironizzazione del mio ruolo artistico”. GUIDO MODANESE

Treviso, 1987

Nel 2010 si iscrive all’Università IUAV di Venezia. Vive e lavora tra Venezia e Treviso. Inizia a studiare pianoforte all’età di dieci anni, in seguito la passione per il disegno e la pittura lo portano a iscriversi al liceo artistico durante il quale scopre una nuova passione, quella per la musica elettronica e inizia a collezionare diversi sintetizzatori e drum-machine. A partire dal 2008 incomincia un progetto dedicato alle performace live, trasferendosi a Berlino per approfittare del panorama fiorente della città. Dal 2010 decide di iscriversi al corso di Laurea in Arti visive allo IUAV di Venezia, in modo da poter dare nuove linee guida al suo percorso artistico.

FRANCESCO NORDIO

Mestre (VE), 1989

Nel 2011 si laurea in Arti Visive e dello Spettacolo all’Università IUAV di Venezia. Vive, lavora e studia tra Mestre e Venezia. È interessato non tanto a produrre opere d’arte, quanto a compiere operazioni culturali che lavorino concretamente su e con la cultura e la realtà. Il valore di tali operazioni è nei loro effetti, considerati da un punto di vista più ampio possibile, o nella loro effettiva utilità come supporti per elaborare pensiero. SERENA OLIVA

Sanremo (IM), 1988

Laureata in Cinema e Arti della Visione all’Università Roma Tre. Vive e lavora a Venezia. L’immaginario sedimenta, cresce in maniera autonoma e incontrollata. Non c’è luogo migliore in cui abitare. Oliva perlustra un territorio intricato misurandolo. Registra e cataloga, ma poi inventa. Consapevole di non poter sciogliere il groviglio, segue un filo, poi un altro, e insieme altri ancora. Vede con il video, spia con il suono, mescola le materie. Paradossalmente questo le insegna ad essere costante. Non eclettico, narrativo. FABIO VALERIO TIBOLLO

Roma, 1989

Nel 2011 si laurea in Cinema e Arti della Visione presso l’Università degli Studi Roma Tre. Vive e lavora tra Venezia e Roma. “La macchina fotografica è una protesi che mi invita a raccontare. Ogni scatto archivia un’esperienza, contestualizzandola. Il desiderio di un campo visivo amplificato si coniuga con quello di un occhio freddo e nitido, che analizzi nel dettaglio la situazione allestita. Le forze che legano l’organismo all’ambiente, la sinestesia e i prolungamenti corporei costituiscono il mio campo d’indagine”.


LAURA TINTI

Decimomannu (CA), 1979

Laureata in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Cagliari, diplomata in Pittura all’Accademia delle Belle Arti di Firenze. Attualmente vive e lavora a Venezia. La sua attività artistica si fonda sull’accostamento di aspetti grotteschi e drammatici della realtà sociale, stemperati da elementi ludici o destabilizzanti: l’oggetto della ricerca é uno status quo in crisi o prossimo al cambiamento.




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