Ricerca sul campo

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Mischa Berlinski

RICERCA SUL CAMPO Traduzione di Francesca Frulla

gran vĂ­a


Titolo originale: Fieldwork Copyright © 2007 by Mischa Berlinski Published by arrangement with Farrar, Straus and Giroux, llc, New York, and Marco Vigevani Agenzia Letteraria © 2011 gran vía edizioni s.r.l. Tutti i diritti riservati Prima edizione: ottobre 2011 isbn 978-88-95492-18-6 Progetto grafico: Mirko Visentin | www.spaziosputnik.it La citazione di Sigmund Freud è tratta dalle Opere (1930-1938), edizione Bollati Boringhieri del 1965, quella di Robert Lowell da Poesie (1940-1970), edizione Longanesi del 1972, le citazioni di Argonauti del Pacifico occidentale. Riti magici e vita quotidiana nella società primitiva di Bronislaw Malinowski sono tratte dall’edizione Newton Compton del 1973, mentre quelle de Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione di James G. Frazer dall’edizione Bollati Boringhieri del 1965. La traduzione delle altre citazioni è della traduttrice.


Ricerca sul campo

per mia madre e mio padre



Il successo principale della religione, se la si paragona all’animismo, consiste nell’aver psichicamente vincolato la paura dei demoni. Ciononostante a un elemento sopravvissuto dell’epoca primitiva è rimasto un posto nel sistema della religione sotto forma di spirito maligno. freud



Prima parte

Una buona storia



Uno

Oddio, no

Il mio amico Josh O’Connor aveva finito l’università alla Brown da un anno, quando vinse una vacanza per una spiaggia della Thailandia grazie a un biglietto della lotteria comprato in un bar. Passò due settimane a Ko Samui, decise che la Thailandia era il posto dove voleva vivere e così fece. Questo accadeva almeno dieci anni fa, e da allora Josh ha svolto quasi tutti i lavori saltuari che uno straniero può fare in Thailandia. Per un po’ ha insegnato inglese ed è stato comproprietario di un nightclub a Phuket. È stato corrispondente per un’agenzia telegrafica e di tanto in tanto ha fatto alcune foto per l’Agence France-Presse. Da ragazzino aveva suonato la tromba nella banda della scuola, così per qualche anno ha messo a frutto la sua esperienza ed è diventato il leader dei King’s Men, un gruppo thailandese di musica ska. Ha fondato un’agenzia per cuori solitari. Ha lavorato anche per un gruppo ambientalista che cercava di fermare la costruzione di un’enorme diga sul Mekong, ma, quando il tentativo è fallito, ha cominciato a scrivere materiale pubblicitario per una ditta che esportava cemento. Una volta mi accennò che molti anni prima, in un momento di grossa crisi finanziaria, aveva portato negli Stati Uniti quasi mezzo chilo di hashish nascosto nello stomaco. Non so se credere davvero a questa storia, ma non mi sembra discordante con quello che so di Josh, anche se a vederlo si farebbe molta fa11


tica a percepire il suo spirito avventuroso. Non è né alto né basso, ma piuttosto rotondo; ha le guance paffute, i capelli ricci e il naso a patata, gli occhi sporgenti e la testa più grossa del normale. Le sue labbra sono carnose e ha una fessura tra gli incisivi: ogni volta che parla emette un leggero fischio che dà alla sua conversazione un tono nervoso e affannato. Ha il corpo a forma di pera e il sedere enorme e sporgente: quando cammina, dondola come una papera; e quando ride, cosa che fa spesso, trema tutto. «Io piaccio» mi disse una volta, «alle donne che sono attratte dagli uomini in carne». Chiaramente la Thailandia è piena di donne minute a cui piacciono proprio gli uomini in carne, e così Josh non è mai solo. È uno degli uomini più felici che io abbia mai incontrato ed è suo vanto saper ordinare un pasto meglio di qualsiasi altro farang del regno. La prima volta che lo incontrai ero in vacanza. Avevo appena finito il college e stavo viaggiando zaino in spalla per la Malaysia e l’Indonesia, molto tempo prima di trasferirmi in Thailandia con Rachel. Josh e io stavamo nello stesso hotel a Penang. Lui aveva dovuto lasciare Bangkok perché gli era scaduto il permesso di soggiorno. Mi aveva notato al bar dell’hotel e cinque minuti dopo era già seduto di fianco a me. Con ammirevole franchezza, mi aveva informato del suo progetto di fondare una compagnia di produzione pornografica in Vietnam. Aveva i soldi, diceva, i contatti col governo e una star incredibile. Questi progetti, come tanti altri del resto, non si realizzarono, ma il suo racconto fu talmente irresistibile che ogni volta che mi trovo a Bangkok lo chiamo. Quella volta venivo da Chiang Mai. Stavo scrivendo un articolo per una rivista d’arte di Singapore su un promettente scultore thailandese e mi misi d’accordo con Josh per incontrarci subito dopo il tramonto davanti al mercato di Ratchawat. Passai il lungo pomeriggio afoso cercando di tirar fuori delle frasi argute dal mio scultore; poi, quando le luci delle strade di Bangkok comincia12


rono ad accendersi, una motocicletta taxi mi depositò davanti al negozio della catena 7-Eleven che si trova di fronte al mercato, dove Josh mi stava già aspettando, con un sorriso bonario sul volto paffuto. Lo stretto marciapiede era stipato di tavoli di plastica. L’odore pungente che si sprigionava dai peperoncini fritti mi faceva lacrimare gli occhi, mentre dal mercato, ormai in chiusura, gli odori dolci del gelsomino, dei gigli, dell’incenso e della citronella si mescolavano a quelli del pesce marcio, dei durioni ammuffiti, del sudore, dei gas di scarico e dei rifiuti. All’angolo, due venditori rivali di noodle servivano scodelle di guoy tieo con una salsa di zenzero e coriandolo, mentre poco più avanti, lungo la strada, la signora del curry aveva allestito la sua bancarella con enormi recipienti di curry verde e rosso, curry della giungla, curry panang e zuppa piccante di pesce. Una graziosa ragazza tagliava manghi freschi e li metteva su del riso appiccicoso condito con salsa di cocco. C’era qualcuno che arrostiva spiedini di pollo su una debole fiamma e li serviva con salsa di arachidi. Ma noi eravamo lì per la famiglia che vendeva il pesce. Tutti gli altri commercianti erano banali, niente di speciale, diceva Josh, di quelli che si possono trovare fuori dal mercato di un qualsiasi villaggio, dall’Isan fino al confine con la Malaysia. Ma la signora del pesce e famiglia, signori miei, loro sì che erano diversi. «È stato il nipote del primo ministro a parlarmi di questo posto» disse Josh, indicando la bancarella del pesce. C’erano file di pesci d’argento, stesi su un letto di ghiaccio, con gli occhi neri e le branchie dai mille colori, freschissimi, come se fossero appena usciti dall’acqua e stessero solo riposando; e, sotto di loro, fitte schiere di vongole, cozze, ostriche e minacciosi anemoni neri. «È meglio dell’Oriental Hotel». Ci sedemmo e Josh ordinò per entrambi. Due volte il cameriere si allontanò dal nostro tavolo e due volte Josh lo richiamò per or13


dinare ancora più cibo. Si sentiva a suo agio, nel suo regno, rilassato sulla sedia come un pascià. Era agosto, quando la stagione delle piogge sta per finire e tutto trasuda. Josh prese un pezzo di carta igienica dal rotolo che era sul tavolo e con delicatezza si asciugò la faccia e le mani, poi aprì la borsa e tirò fuori una bottiglia mezza vuota di Johnny Walker Black. Josh era un narratore nato, ma non era molto portato per lo scambio di battute che avviene in una normale conversazione: mi chiese come era andata la giornata e ascoltò le mie parole con aria assente, annuendo ogni tanto, finché non riuscì più a trattenersi. «È semplicemente fantastico» mi interruppe. Bevve un altro sorso dalla sua bottiglia. «Sono così contento che tu sia in città. Ho bisogno di qualcuno che conosca bene il Nord del paese». Questo era il solito espediente che Josh usava per passare dalla conversazione al monologo: in tutti gli anni trascorsi in Thailandia, lui aveva imparato a conoscere il Nord molto meglio di me. Non c’era quasi più angolo del regno che non gli fosse familiare, dove non sarebbe stato salutato con un gran sorriso dall’abate del tempio buddista, o dalla maîtresse del migliore bordello. Aspettai di sentire cosa avesse da dirmi. Si fermò per un secondo, quasi a raccogliere le forze. Appoggiò le braccia pesanti sul tavolo di plastica. Sporse le labbra carnose e respirò dilatando le narici. Si stirò il collo da un lato e dall’altro. Poi fece partire la sua storia. Non c’è altro modo per descriverla: una storia di Josh O’Connor è come un’enorme nave da crociera che salpa dal porto e, quando vai a cena con lui, sai in anticipo che stai per prendere il largo a vele spiegate. Fa parte dell’affare. È una caratteristica del prodotto, non un difetto di fabbrica. «Ti ricordi di Wim DeKlerk?» incominciò Josh. Non attese la mia risposta. Comunque mi ricordavo di Wim: 14


era un funzionario dell’ambasciata olandese e un suo compagno di bevute. L’ultima volta che ero stato a Bangkok, li avevo portati entrambi a casa in taxi dalla Royal City Avenue, mentre cantavano a squarciagola le canzoni degli Steely Dan. Festeggiavano una soffiata su alcune azioni che Josh aveva ottenuto dal nipote del primo ministro e che aveva passato all’amico. Era chiaro che Wim ci aveva guadagnato parecchio. «Bene, circa un anno fa, mi ha chiamato Wim. Una donna lo aveva contattato dall’Olanda, per chiedergli se conosceva qualcuno che potesse andare a far visita a sua nipote nella prigione centrale di Chiang Mai. A questa donna – alla nipote, non alla signora in Olanda; la nipote si chiama Martiya, la zia Elena, e tutte e due sono delle van der Leun, mi segui? – era appena morto lo zio, e lei aveva ereditato un po’ di soldi. Wim mi dice che la zia vuole che qualcuno vada là e si occupi della faccenda, cioè guardi questa Martiya negli occhi, le spieghi cosa è successo, si assicuri che abbia capito tutto. La zia è una vecchia ultracentenaria, non vuole viaggiare, la nipote continua a non rispondere alle sue lettere, quindi lei ha bisogno di qualcuno che si faccia carico della questione. Wim mi chiede se lo voglio fare io». La storia non mi sorprese: ricordavo che Wim mi aveva parlato del suo lavoro all’ambasciata. Ogni giorno, mi aveva detto, un genitore preoccupato lo chiamava da Amsterdam, in cerca di un investigatore che lo aiutasse a rintracciare il figlio scomparso tra i meandri della cultura rave di qualche isola; oppure chiamava un importatore tessile da Utrecht per chiedere di indicargli un ragioniere in gamba che controllasse i libri contabili di potenziali soci in affari. Era la sua specialità dare consigli agli olandesi su come risolvere le cose in Thailandia. Una volta, mi disse, aveva anche aiutato un circo di Maastricht a ottenere un permesso per esportare un elefante. «Ovviamente ho accettato» disse Josh. 15


Questo è il motivo per cui lo chiamo sempre quando sono a Bangkok. A Josh cose del genere accadono davvero. «Così faccio una telefonata a questa donna in Olanda prima di andare fino a Chiang Mai» continuò. «Lei non sa niente. L’ultima volta che l’aveva vista, la nipote era una bambina. Non ci parlava da molto tempo. Non riceveva una sua lettera da più di dieci anni, da quando era finita in prigione. Comunque la ragazza era di un altro ramo della famiglia van der Leun. Era cresciuta in California, era stata lì fin da piccola e adesso era una cittadina americana. Prima di finire in carcere, era vissuta in un villaggio al confine con la Birmania. Conosci quella zona? A sud-est di Mae Hong Son?» «Non proprio» risposi. «Ci vivono solo le tigri lì. Ma cosa ci faceva in quel posto? La zia in Olanda non lo sa. Io mi immagino questa nipote come uno di quei giovani coinvolti nel traffico di droga. Le chiedo: ‘Per quanto tempo è rimasta lì?’ Viene fuori che la nipote è in Thailandia da sempre. Forse dagli anni Settanta. E non è una ragazzina, ma ha più di cinquant’anni. Strano, penso io. ‘Quando esce di prigione sua nipote?’ chiedo. Silenzio all’altro capo del filo. ‘Tra cinquant’anni’ dice la zia. ‘Cosa ci fa in carcere?’ Altro silenzio. Mi sembra che non me lo voglia dire. ‘È un’assassina’, risponde alla fine, con un accento olandese molto forte. Che cosa si dice in questi casi? Io le chiedo: ‘Chi ha ucciso?’ Ancora silenzio. Non lo sa. Questo è quanto Elena van der Leun è in grado di dirmi. Vuole che io vada là e dica alla nipote che lo zio è morto». Quando il cameriere arrivò al nostro tavolo con un calderone fumante di tam yam guum, Josh si interruppe. Il giovane accese una candela di paraffina sotto la zuppiera e Josh mise prima il cibo nel mio piatto, poi nel suo. Come mi aveva promesso, la zuppa era deliziosa, con un delicato sapore di lime, cilantro, zenzero e citronella; i gamberetti, che quella stessa mattina se la spassavano ancora nel Golfo della Thailandia, erano enormi e teneri, con un 16


tocco esplosivo di sale marino. Josh mangiò la zuppa caldissima con movimenti vigorosi del cucchiaio, e solo quando ebbe finito la prima scodella e allungò il braccio per riempirla di nuovo riprese a raccontare la storia. Molte settimane dopo la sua chiacchierata con Elena van der Leun, Josh si ritrovò nella sala d’aspetto della prigione centrale di Chiang Mai. Era arrivato in città già da tre o quattro giorni, ma era rimasto a godersi il lusso compreso nella nota spese, prima di farsi coraggio e affrontare il compito che incombeva su di lui: era un uomo generoso, ma non gli piaceva venire troppo a contatto con la sofferenza altrui e questa sua debolezza gli faceva rimpiangere di aver accettato l’offerta di Wim. La visita gli incuteva una gran paura e per qualche giorno si era limitato a segnare sulla cartina la posizione della prigione, poi aveva cercato di non pensare alla spiacevole incombenza bevendo qualcosa di forte, un bicchiere dopo l’altro, finché i giorni non si erano dissolti nella nebbia. La mattina della visita alla prigione, rendendosi conto di non poter più rimandare, si era svegliato presto e si era vestito per bene. Indossò pantaloni di lino e una camicia bianca, che quando aveva lasciato l’hotel era stirata di fresco, ma quando arrivò alla prigione era già madida di sudore. Un cielo basso simile al cemento bagnato nascondeva le colline attorno a Chiang Mai. «Quanto non volevo essere lì» disse Josh. «Scesi da quel tuktuk, chiesi al conducente di aspettarmi, ed ebbi la sensazione che mi avrebbero chiuso dentro. Era così che mi sentivo, come se non sarei mai più uscito da lì. Bum! Si chiude il primo cancello alle mie spalle. Bum! Il secondo cancello si chiude alle mie spalle. Bum! Anche il terzo cancello». Josh batteva forte sul tavolo ogni volta che diceva bum, e gli altri clienti si erano girati a guardare. «Sei mai stato in un carcere thailandese?» mi chiese Josh. «No». 17


«Questo qui a Bangkok è un gran merdaio» disse con l’aria di chi la sa lunga. «Non è un posto per niente carino. Ma quello di Chiang Mai non era poi male, non come me lo ero immaginato». Infatti, mi disse, la stanza in cui le guardie lo avevano portato poteva anche essere stata la sala d’aspetto della sede provinciale di un ministero del governo. Solo le sbarre alle finestre e la guardia seduta dietro la pesante scrivania di legno tradivano lo scopo dell’edificio, oltre a un persistente odore di urina e vomito. Un gran ritratto del re vestito di tutto punto con la divisa militare era appeso vicino a un orologio, il cui ticchettio rumoroso riecheggiava con lentezza esasperante nella stanza. C’erano circa sei tavoli rotondi di metallo, ciascuno con quattro sgabelli di plastica. Josh posò la sua enorme mole su uno sgabello, troppo piccolo per un uomo della sua stazza. «Ero l’unico farang lì dentro» disse. «C’erano solo poche altre persone. Alcuni indigeni delle colline, non so, forse erano Hmong, o Dyalo, non riesco mai a riconoscere i loro costumi. Avevano lo sguardo spaventato, tipico di quelli che scendono dalle colline. Mi ricordo che uno di loro mi chiese una sigaretta, e io gliela diedi. C’era uno con le braccia tutte tatuate con dei sutra buddisti – come i gangster. Un tipo da far paura. E delle donne, delle thailandesi, che discorrevano tra loro, ma si guardavano attorno come se non volessero essere lì. Credo che nessuno abbia piacere di trovarsi lì».

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