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In memoriam

BEATRICE KLAKOWICZ 1938 - 2016

UNA VITA PER IL “NUOVO UMANESIMO EUROPEO”

Giugno 2016

1 Beatrice Klakowicz

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BEATRICE KLAKOWICZ Vienna 1938, Roma 2016

Dr. Beatrice Klakowicz has returned to the Father. UMEC-WUCT remembers with gratitude her generous and loyal dedication to the Rome office, her culture and profoundness. May we pray for her. On the gravestone which is dedicated by UMEC-WUCT, will be the logo of the Union. Following are a few testimonies of our dear Beatrice. La Dra. Beatrice Klakowicz ha vuelto a la casa del Padre. La UMEC-WUCT recordará con largo compromiso, generoso y fiel a la oficina de Roma y su cultura profunda. Oramos por ustedes. El logotipo de l UMEC será colocado en la lápida (donado por la Unión). Unido al testimonio del Presidente de la UMEC y otros amigos en la querida Beatrice.

gratitud su

Dr. Beatrice Klakowicz est retourné au Père. UMEC-WUCT se souvient avec gratitude son dévouement généreux et loyal au bureau de Rome, sa culture et la profondeur. Pouvons-nous prier pour elle. Sur la pierre tombale qui est consacré par UMEC-UMEC, sera le logo de l'Union. Voici quelques témoignages de notre chère Béatrice. La dr.ssa beatrice Klakowicz è tornata alla Casa del Padre. UMEC-WUCT ricorda con gratitudine il suo generoso e leale impegno nell'ufficio di Roma e la sua profonda cultura. Preghiamo per Lei. L'UMEC ha donato la lapide per la sua tomba. Vi sarà inciso il logo dell'Unione. Beatrice Klakowicz is teruggekeerd naar de Vader. UMEC-WUCT denkt in dankbaarheid aan haar grote en trouwe toewijding (meer dan 20 jaar) aan het bureau in Rome, en aan haar diepgevoelde culturele engagement. Laten wij voor haar bidden. Op de grafsteen (gedoneerd door UMEC-WUCT) zal de logo van de Vereniging komen te staan. Hier volgen enkele getuigenissen over onze dierbare Beatrice.

BREVI NOTIZIE SULLA SUA VITA (raccolte da testimonianze sue e di conoscenti)

La famiglia della professoressa Klakowicz ha antiche e nobili origini. Il padre era Procuratore dello Zar in Ucraina. Alla caduta dell’impero zarista si trasferì a Cracovia (ove ebbe inizio un rapporto di amicizia con il futuro Papa Giovanni Paolo II). Quando la Polonia cadde sotto il regime comunista, gli furono confiscati i beni e si trasferì a Vienna, ove il 6 luglio 1938 nacque Beatrix. Beatrice seguì gli studi a Vienna, a Parigi, a Oxford e a Roma, ove infine, pose la sua residenza, continuò gli studi, svolse attività di ricerca e d’insegnamento nelle Università Pontificie, collaborò attivamente con il santo pontefice Giovanni Paolo II il quale le affidò incarichi e missioni di fiducia. Ecco le principali tappe del suo percorso di vita e di studio: 6 luglio 1938 Nasce a Vienna 1956-1961: Diploma all'Università di Vienna in Diritto Romano, Epigrafia, Numismatica e Paleografia Classica e Orientale. Corsi di perfezionamento a Parigi, Oxford e Heidelberg; partecipazione agli scavi austriaci, francesi, inglesi e statunitensi in Medio Oriente. 1961: Laurea in Filosofia sub auspiciis Praesidentis Rei Publicae (Vienna). 1962 – 1963: Borsa di Studio dell’’Österreichische Akademie der Wissenschaften, collaborando con i Musei Vaticani, il Deutsches Archäologisches Institut e l’Accademia Svedese. 2 Beatrice Klakowicz

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1964/1965: Corso di Filosofia e Teologia Tedesca nell’Otto e Novecento nella P.U. di S. Tommaso (Angelicum). 1965-1983: Curatrice dei Musei di Orvieto, pubblica la Storia della ricerca archeologica a Orvieto e prepara il progetto di un parco archeologico orvietano per la Regione Umbria. 1982: Pontificio Istituto Biblico: studi teologico-orientali in Orientalia; edizione dei papiri egiziani RibesPalau Collection. 1984: Laurea in Teologia “summa cum laude” (Pontificia Università Lateranense) con specializzazione in Teologia fondamentale nelle concezioni e credenze religiose dell’Antico Oriente (Egitto e Asia Anteriore). Diplomi in Epigrafia e Paleografia greca e latina e in Papirologia. 1980-1985: Tiene il Corso di Catechesi e Spiritualità dei Monumenti Cristiani di Roma all’Istituto di Catechesi Missionaria (Pontificia Università Urbaniana) e il corso sulla Prima Evangelizzazione d’Italia per gli studenti di Filosofia della Pontificia Università Salesiana. Cura diverse pubblicazioni di carattere teologico, esegetico e orientalistico in varie riviste pontificie, italiane e straniere. Presenzia - con Padre Agostino Trapé - a una Sezione dell’Ottavo Congresso Tomistico Internazionale sulla Aeterni Patris. 1986 – 2013: Cura l’ufficio di segreteria dell’Unione Mondiale degli Insegnanti Cattolici (UMEC-WUCT); collabora con il Forum delle ONG e, direttamente, con la Segreteria di Stato, grazie alla vicinanza con S.S. Giovanni Paolo II, alla sua vasta cultura e alla conoscenza di diverse lingue antiche e moderne. Organizza numerose visite ai monumenti di Roma in interazione con associazioni culturali (“Passeggiate romane”, ecc). Negli ultimi anni della sua vita le precarie condizioni di salute la costringono a ridurre i suoi impegni. Dopo un lungo periodo di sofferenza e ricovero in struttura ospedaliera (amorevolmente assistita da alcuni amici e amiche) si spegne nell’ospedale di Anzio. 2016: Torna alla Casa del Padre il 17 giugno , in Anzio (Roma) Nel corso della sua vita ha curato anzitutto la formazione, la spiritualità e il servizio, mai la ricchezza. Ha reso gratuitamente molteplici e importanti servizi alla Santa Sede e ai singoli Sommi Pontefici, nonché alle associazioni cattoliche. Ha vissuto con dignità e con povertà, sempre fedele alla Chiesa Cattolica. L’Unione Mondiale degli Insegnanti Cattolici la ricorda per il suo generoso ed accurato impegno, per la sua disponibilità, per la sua elevata cultura. 20 giugno 2016 Giovanni Perrone

Segretario Generale UMEC-WUCT

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Alcune immagini dell’ultimo Congresso UMEC-WUCT al quale ha partecipato la dr. Klakowicz Roma, 26-27 ottobre 2012

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BEATRICE KLAKOWICZ UNA VITA PER IL “NUOVO UMANESIMO EUROPEO” Mauro MANTOVANI Rettore Magnifico Università Pontificia Salesiana Venerdì 17 giugno 2016 ci lasciava la professoressa Beatrice Klakowicz. L’ho incontrata per la prima volta nel 1986 quando da giovane salesiano studente di filosofia partecipavo alle visite culturali organizzate in Roma e in altre città. Una figura assai esile che tuttavia chissà dove trovava energie inimmaginabili per sostenere …i tour de force cui sottoponeva i gruppi a lei affidati. Esperienze di vera e propria interdisciplinarità, tra arte, cultura, storia civile, storia della Chiesa, filosofia, teologia, letteratura ecc., discipline che trovavamo concentrate in forma eccellente ed eccezionale proprio nella sua persona. L’ultima volta che l’ho incontrata è stato durante un’iniziativa culturale presso Sant’Ivo alla Sapienza, ove tenne un indimenticabile intervento sulla figura e sull’arte di Francesco Borromini. Erano costanti ogni anno i nostri appuntamenti telefonici per gli auguri di buon compleanno, e sono onorato di ricordarla in queste pagine facendomi eco anche dei tanti amici e illustri personalità che l’hanno ricordata durante le scorse settimane. Tra esse Luc Van Looy (Vescovo di Gent e Presidente della Caritas europea), Giuseppe Cicolini (già Ispettore Generale del Ministero della Pubblica Istruzione e Segretario UMEC-WUCT), Guy Bourdeaud’hui (Presidente UMEC-WUCT), Giovanni Perrone (Segretario Generale UMEC-WUCT), Gaspare Mura (Presidente dell’Accademia di Scienze Umane e Sociali - ASUS), Livia De Stefano (Presidente Associazione “Passeggiate per Roma”), Giancarlo Boccardi (già Vice Presidente Nazionale AIMC), l’artista Paolo Menon., la Comunità Salesiana “San Tarcisio”, il Coro Interuniversitario di Roma, il Centro Culturale “Paolo VI” di Sant’Ivo alla Sapienza, il gruppo di ex collegiali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano che vivono a Roma, personale del Policlinico Gemelli, soci dell’ “Accademia di Scienze Umane e Sociali ASUS e di “Passeggiate per Roma”. Beatrice Klakowicz nasce il 6 luglio 1938 a Vienna da una famiglia di antiche e nobili origini. Il padre era stato Procuratore dello Zar in Ucraina, trasferitosi prima a Cracovia alla caduta dell’impero zarista e poi a Vienna, mentre in Polonia – dove aveva conosciuto personalmente il futuro papa Giovanni Paolo II – venivano confiscati dal regime comunista tutti i beni della famiglia. Beatrice studia a Vienna, dove ottiene a partire dal 1956 le Lauree in Diritto Romano e in Epigrafia, Numismatica e Paleografia Classica e Orientale. Nel 1961 le viene conferita anche la Laurea in Filosofia sub auspiciis Praesidentis Rei Publicae. Seguì vari corsi di perfezionamento a Parigi, Oxford e Heidelberg, partecipando inoltre a varie campagne di scavi archeologici in Medio Oriente. Nel 1962 ottenne una Borsa di Studio dall’Österreichische Akademie der Wissenschaften che le diede la possibilità di venire a Roma, collaborando con i Musei Vaticani, il Deutsches Archäologisches Institut e l’Accademia Svedese. In Urbe pose così la sua residenza, continuò gli studi, svolse attività di ricerca e d’insegnamento. Nel 1964 le fu affidato un Corso di Filosofia e Teologia Tedesca presso l’Angelicum, mentre dal 1965 al 1983 svolse il compito di 5 Beatrice Klakowicz

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Curatrice dei Musei di Orvieto. Durante quel periodo pubblicò la Storia della ricerca archeologica a Orvieto e preparò il progetto di un parco archeologico orvietano. Collaborò attivamente con Papa San Giovanni Paolo II, il quale le affidò vari incarichi e missioni di fiducia, temi a proposito dei quali ha sempre voluto mantenere grande riservatezza. A Roma dal 1980 al 1985 ha svolto Corsi di Catechesi e di Spiritualità dei Monumenti Cristiani per l’Istituto di Catechesi Missionaria della Pontificia Università Urbaniana. Grazie alla sua vasta cultura, e alla conoscenza crescente della qualità delle visite da lei guidate e dell’interesse da queste suscitate, sono via via aumentati i gruppi e le associazioni che le hanno richiesto incontri culturali, lezioni e guide ai monumenti, come “Passeggiate romane”, la Comunità Salesiana “San Tarcisio”, il Coro Interuniversitario di Roma, il Centro Culturale “Paolo VI” di Sant’Ivo alla Sapienza, vari gruppi dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e del Policlinico “Gemelli”, ecc. Nel 1982, collaborando con il Pontificio Istituto Biblico, ha pubblicato un’edizione prestigiosa dei papiri egiziani della Ribes-Palau Collection, dopo aver ottenuto negli anni precedenti i Diplomi in Epigrafia e Paleografia greca e latina, nonché in Papirologia. Nel 1984 si è anche Laureata in Teologia presso la Pontificia Università Lateranense con uno studio molto apprezzato sulle concezioni e credenze religiose dell’Antico Oriente. Beatrice Klakowicz ha presenziato a numerosi Convegni internazionali e ha curato diverse pubblicazioni di carattere teologico, esegetico e orientalistico in varie riviste pontificie, italiane e straniere. Negli ultimi vent’anni, dal 1986, ha curato l’Ufficio di Segreteria dell’Unione Mondiale degli Insegnanti Cattolici (UMEC-WUCT) e ha collaborato con il Forum delle ONG e con la Segreteria di Stato del Vaticano. Era incaricata dei contatti con le Associazioni Nazionali degli Insegnanti Cattolici di tutto il mondo, compito che svolse con competenza ed amore. In questo lungo periodo in cui ha prestato generoso e qualificato servizio al Palazzo San Calisto, fino al 2013, ha dato viva testimonianza di impegno culturale ed ecclesiale, anche nei momenti in cui la sua salute era già più precaria. Viveva a Nettuno, nei pressi di Roma, dedicandosi soprattutto allo studio e alla preghiera, ma quando richiesta si sottoponeva ancora a grandi sacrifici pur di adempiere, con massima cura, ai suoi impegni, perché riteneva un grande onore il continuare a servire la Chiesa. Si è spenta ad Anzio dopo un lungo periodo di sofferenza e di ricovero in una struttura ospedaliera. Negli ultimi giorni della sua vita ha più volte chiesto di poter essere sepolta nel Cimitero Teutonico del Vaticano, affermando di averne antico diritto. Beatrice Klakowicz nel corso della sua vita ha curato la formazione e la spiritualità, mai la ricchezza. Ha reso gratuitamente molteplici e importanti servizi alla Santa Sede e ai singoli Sommi Pontefici, nonché a molte associazioni cattoliche. Ha vissuto con dignità e con povertà: sentiva il dovere di una missione evangelizzatrice attraverso la conoscenza della storia cristiana e la “teologia della bellezza”, e ha fatto del bene a tanti avvicinandoli a Dio attraverso il suo servizio culturale e l’appassionato gusto dell’arte cristiana e della testimonianza dei santi. Di origine polacca, di cristallina fede cristiana, di alta cultura prima tedesca e poi italiana, Beatrice si è dedicata anima e corpo affinché nei suoi studi e pubblicazioni rifulgesse la grandezza e la bellezza delle memorie cristiane e per aiutare – anche attraverso la sua straordinaria conoscenza di numerose tra le principali lingue moderne e quelle classiche – a rinverdire una coscienza ed una cultura europea degna delle sue radici più profonde. Per questo le si addice particolarmente ciò che Papa Francesco il 6 maggio scorso, ricevendo il Premio “Carlo Magno”, ha chiamato “nuovo umanesimo europeo”, affermando che esso si caratterizza per essere un costante cammino di umanizzazione cui servono memoria, coraggio, sana e umana utopia, amore per la bellezza della cultura, e una vita semplice. (Articolo in corso di pubblicazione nella rivista “Prospettiva Persona”) 6 Beatrice Klakowicz

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BEATRICE KLAKOWICZ - ALCUNE TESTIMONIANZE

S.E. Mons. Luc Van Looy, vescovo di Gand, presidente Charitas Europea Beatrice ha fatto molto per noi, benché anche le sue forze negli ultimi tempi mancavano. E’ stata una grazia per noi averla in UMEC. + Luc van Looy

UMEC-WUCT – Président Après une vie ‘au service du catholicisme’, Béatrice nous a quitté en silence et grande modestie. Son œuvre était achevée après une longue vie au service de sa conviction. Elle pouvait enfin en toute tranquillité retourner à la maison du Père et de sa famille Polonaise. Nous n’oublierons jamais sa croyance sans aucun compromis, sa fidélité, son respect absolu pour les valeurs transmises par ses parents, sa foi plus que profonde. L’UMEC-WUCT perd en elle une vraie ‘aficionado de l’enseignement’ et tout l’Exécutif et les membres du Conseil l’appréciaient bien fort pour cet engagement sans limites. Nous croyons qu’elle restera avec nous et qu’elle continuera à être présente dans nos pensées et nos décisions. Chère Béatrice, je suis sûr que la porte du Ciel vous était largement ouverte et que même les anges vous y ont accompagné. Requiescat in pace! Guy Bourdeaud’hui

Università Pontificia Salesiana – il Rettore Che il Signore l’accolga nel suo regno di luce e di sapienza, e la ricompensi del bene che ha fatto per avvicinare tante persone a Lui attraverso il suo servizio culturale e l’appassionato gusto dell’arte cristiana e della testimonianza dei santi. d. Mauro Mantovani

Giuseppe Cicolini, già segretario UMEC-WUCT La professoressa Beatrice Klakowicz è volata al cielo. La sua memoria è in benedizione. Collaborò per molti anni con l’UMEC. La ricordano e pregano per lei: l’UMEC, l’AIMC e l’UCIIM; e gli amici dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e del Policlinico “Gemelli”, che per anni hanno seguito le sue lezioni e le sue visite guidate in Roma.

Era di nobile famiglia, di origine polacca e di alta cultura tedesca, e poi italiana. 7 Beatrice Klakowicz

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Persona di grande Fede cristiana, non ha risparmiato le sue energie perché nei suoi studi e pubblicazioni rifulgesse la grandezza e la bellezza delle memorie cristiane di Roma, che Ella aveva approfondito per anni. La sua conoscenza delle principali lingue moderne e delle lingue classiche le favorì l’accesso allo studio di documenti storici e teologici importanti. La Segreteria di Stato la ebbe come collaboratrice nel delicato lavoro di traduzione da e verso più lingue. Nell’UMEC fu segretaria e incaricata dei contatti con le Associazioni nazionali degli Insegnanti Cattolici di tutto il mondo. Negli ultimi anni visse a Nettuno, presso Roma, dedicandosi allo studio e alla preghiera. Giuseppe Cicolini, già ispettore centrale Ministero P.I. e segretario generale UMEC-WUCT

IL PRESIDENTE DELL’ACCADEMIA DI SCIENZE UMANE E SOCIALI (ASUS, Roma) Il 17 giugno è mancata la Professoressa Beatrice Klakowicz, studiosa di fama internazionale, docente in varie Università italiane e straniere, autrice di opere sulla cultura classica e cristiana di grande livello culturale, amica e collaboratrice dell’Accademia di Scienze Umane e Sociali (www.asusweb.it). L’ ASUS, nella persona del suo Presidente, prof. Gaspare Mura, del Direttivo e dei soci, si unisce nel ricordo e nella preghiera a quanti la conobbero e la stimarono, nell’auspicio che l ’opera della studiosa continui ad animare e sostenere soprattutto i giovani nello studio della cultura umanistica. Gaspare Mura

PAOLO MENON, artista La scomparsa della professoressa Beatrice Klakowicz ci addolora. Mi addolora. Mi lascia un vuoto incolmabile per tante ragioni, una in particolare: averla conosciuta, grazie a Cristina Buschi, nel suo «habitat» vaticano per lavorare insieme al più bel progetto artistico della mia vita, «L’Uomo da Dioniso a Cristo», terza parte della mia trilogia sculturale. E per quanto non l’avessi frequentata come avrei voluto a causa della non trascurabile distanza geografica che ci separava, nutrivo tuttavia per lei profonda stima e gratitudine incommensurabile per la vicinanza intellettuale oltre che spirituale che invece ci univa. Beatrice aveva accettato di scrivere il primo dei suoi testi critici ed esegetici su alcuni miei lavori (link in calce) con intuito, ispirazione e passione unici, per meglio dire, tipici del suo modo di rapportarsi con empatia alla «non banalità» dell'esperienza artistica autoriale; oltre a recepire la bellezza del segno contemporaneo generato dall'arcaico, farlo proprio per poi dispensarlo attraverso le sue dotte analisi con inclusiva e impagabile generosità: testi messi a disposizione di chiunque ne fosse stato attratto per sensibilità o per studio. Mi mancherà, anche se l'ho conosciuta soltanto per un tempo troppo breve, nel quale tuttavia ci siamo confrontati, scambiato opinioni, testimonianze e – perché no? – anche qualche critica necessaria, a me quantomeno indispensabile, per definire i canoni estetici della bellezza intrinseca dei nostri bagagli culturali – il mio così leggero rispetto al suo magistero, da essere ripiegato su se stesso come un sacchetto di carta – e del nostro Dna spirituale. Mi mancheranno, dicevo, la dolcezza e le sue spigolature caratteriali, 8 Beatrice Klakowicz

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la frugalità spesso eccessiva nel rapportarsi con il cibo da cui mi sembrava non ne traesse il ben che minimo piacere, forse con qualche rara eccezione, a suo dire. Di contro so per certo che le piaceva sorseggiare di tanto in tanto un buon bicchiere di vino, in particolare il bianco spumantizzato, purché di qualità, e ciò mi riempiva di gioia. A Verona mi confidò che se ci fosse stato qualcosa di irrinunciabile nei piaceri della vita, non necessariamente da gustare a tavola, quello sarebbe stato per lei un ottimo Prosecco! E ciò la dice lunga sul suo scrivere intorno alla bellezza che l'arte nei secoli ha messo in scena cantando il vino e le uve, recitandone gli effetti e ritraendone il dionisiaco, o rapportandosi con la sacralità critica del vino, inteso come elemento rituale della liturgia eucaristica. Mi mancherà la sua ironica intelligenza mai disgiunta dal buonumore – sorrido ancora delle sue barzellette inaspettate, non sempre all'acqua di rose, in un contesto serioso e, soprattutto, il suo velato romanticismo. Visitando le città lacustri di Malgrate e Lecco mi disse di avvertire o, meglio, di captare nel paesaggio manzoniano, soprattutto nei monti alti che sovrastano Lecco e che si rispecchiano sul lago di Como il riverbero, i colori, l'aria, gli odori dei luoghi della sua infanzia, la nostalgia che dal cuore saliva con tremore e dolcezza nei suoi gesti silenziosi tali da coglierne la sorpresa, l'intensità, l'emozione espresse con impercettibili sottolineature che accompagnavano i suoi pensieri sussurrati con voce sottile e minuta. I suoi scritti che direttamente e indirettamente mi riguardano o, meglio, che riguardano i miei lavori continuerò a considerarli una vera lectio magistralis: una perla di estetica teologica (chissà se il termine è corretto – mi farò perdonare altrimenti dal professor Gaspare Mura – ma è ciò che mi trasmettono) che orientano tuttora le mie scelte, il mio sentire progettuale, i miei deliri artistici intorno alla figura di Cristo e a quella mitologica di Dioniso che l'ha preceduto. Vorrei ricordare ancora altre cose belle di Beatrice, ma penso che alcune vogliano restare intime in fondo al cuore. Ciao, principessa, anche Dona ti saluta e ti abbraccia con grande affetto: riposa in pace. Paolo Menon (www.paolomenon.it)

GIANCARLO BOCCARDI, già vice presidente nazionale AIMC Ho conosciuto Beatrice Klakowicz a motivo del rapporto che l’Aimc – della quale dal ’75 al ’93 sono stato Vive Presidente nazionale – intratteneva con l’Umec, e sempre sono rimasto ammirato della sua illuminata e illuminante capacità intellettuale e pratica di riferirsi alle problematiche socioeducative degli educatori cattolici con una visione ”ecumenica”, in spirito cristiano e pur con laica intelligenza. Perché questo era il suo approccio culturale alle cose: secondo “fede” e secondo “ragione”. E quando ho avuto la grazia, a partire dagli anni ’90, di far parte di quel gruppo di amici che l’avevano scelta come “maestra” e “guida”- in un itinerario di scoperta delle bellezze dell’arte, a cominciare da quella “classica”, da “imparare a respirare spiritualmente” - ho potuto apprezzare la sua straordinaria capacità di penetrare nei suoi misteri e di “svelare in essa la presenza dello Spirito Santo ( così aveva intitolato anche una sua relazione ) , in una visione capace di abbracciare l’universalità delle cose. 9 Beatrice Klakowicz

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Non per niente – proponendoci di incamminarci verso il Giubileo del 2000 – Bea scelse per incipit della su eccezionale relazione un passo della Lettera Enciclica “ Fides et ratio” di Giovanni Paolo II: “Alle soglie del terzo millennio cristiano è necessario che l’umanità prenda più chiara coscienza delle grandi risorse che le sono accordate, e che s’impegni con rinnovato coraggio nella realizzazione del piano di salvezza nella quale è scritta la storia. Per questa ragione il ricorso alla tradizione non è un semplice rammentare il passato, bensì il riconoscere la validità di un patrimonio culturale che appartiene a tutta l’umanità. E’ dunque giusto andare fino alla radice della tradizione che ci permette di formulare, oggi, un pensiero originale, nuovo e rivolto al futuro”. Questa è stata - al di là dell’enorme sua personale cultura storico- artistica, linguistica, teologica e della capacità pedagogica di comunicarla - la visione delle cose di Beatrice. Con mia moglie, profondamente riconoscenti, la ricordiamo pensandola nell’eterna gloria.

Giancarlo Boccardi

10 Beatrice Klakowicz

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ALCUNI SCRITTI UNA «CRITTOGRAFIA» IN FORMA DI CROCE? di Beatrix Erika Klakowicz Tra le opere d’arte sacra di Paolo Menon suscita particolare interesse un Crocifisso, («Quando le parole uccidono», ndr.), composto dal solo corpus fatto di lettere e cifre, il cui colore argilla si stacca dal fondo bianco – simbolo di luce, purezza e perfezione -, che sembra non voler altro che sottolineare l’abisso che esiste tra divina armonia universale e disgregante presunzione umana. Che non è così, che questa singolare croce non «trasmette negatività o tristezza», bensì corrobora una convinta fede nel «salvificus dolor» (B. Giovanni Paolo II), l’ha evidenziato – in maniera giusta e appropriata - il teologo e pedagogista Stefano Peretti. Perciò, le seguenti considerazioni desiderano rivedere quest’opera dell’artista – altrettanto singolare quanto legata ad un millenario contesto, quello della scrittura cosiddetta enigmatica o crittografica riservata ai testi sacri: un contesto o meglio un invito a non fermarsi alle apparenze, ma a penetrare nel loro significato più vero e profondo, come lo erano state le isolate e tuttora misteriose lettere-cifre, inserite dal san Pacomio (IV sec.) nelle sue epistole a monaci e dignitari ecclesiastici. Ed il «Padre del cenobitismo» non faceva altro che applicare alla pastorale cristiana un’usanza, che contava oltre tremila anni. Infatti, mentre la letteratura sacra cuneiforme dell’Antico Oriente faceva ricorso a segni non usati dagli scribi locali per l’ordinaria amministrazione, obbligando ad una faticosa decifrazione e con ciò obbligatoria meditazione[1], l’Egitto creò verso il 3.000 a.C. il «principio del rebus o charade … per indicare non le cose stesse, bensì altre non facilmente rappresentabili»[2]. Lo stesso Plutarco († 120 d.C.) paragonerà nel De Iside et Osiride l’uso e contenuto della scrittura geroglifica, e dapprima della cosiddetta scrittura enigmatica, alle massime di Pitagora (VI sec. a.C.). E sappiamo da Giustino Martire (II sec.)[3] che la scuola pitagorica imponeva la ricerca della verità attraverso l’aritmetica, per scoprire che «cielo, terra, dèi ed uomini sono tenuti insieme dall’ordine, dalla saggezza e dalla rettitudine»[4]. Grazie al Timaios diPlatone, definito uno dei capolavori filosofici di tutti i tempi, che non mancherà il suo influsso sul pensiero filosofico e teologico dei successivi secoli – nella «Scuola di Atene» Raffaello dipingerà Platone con il Timaios sotto braccio , l’arithmologia pitagorica diventerà nel neo-platonismo pagano (Iamblichos), ma anche cristiano (Nicolaus Cusanus e Marsilius 11 Beatrice Klakowicz

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Ficinus), arithmosophia. Questa nuova ed in pari istante antica interpretazione dei numeri, inscindibile dalla theosophia,sant’Agostino elaborerà nella sua disamina ed acculturazione del pensiero platonico, in theologia arthmetica proprio nei suoi scritti più importanti: la Civitas Dei ed il De Trinitate. Ed il figlio di santaMonica riprende tanto più volentieri questa «ratio et veritas numeri» [5], in quanto trova una sua corrispondenza nelle Scritture: «Hai disposto tutte le cose nella misura, nel numero e nel peso» (Sap11,21). Identificando le immutabili regulae numerorum con le altrettanto immutabili regulae sapientiae, il vescovo di Hippona se ne serve per salire dai numeri sensibili ed intelligibili, i quali esprimono l’ordine e la bellezza delle cose, al «numerum sempiternum, che trascende l’animo umano e permette di contemplare la divina provvidenza che opera con armonia nelle cose» [6]. Non «parole che uccidono» dunque, ma «cifre e lettere» che dobbiamo imparare di nuovo a leggere nel loro valore simbolico e metaforico, per riscoprire e meditare la sofferenza ed il suo valore salvifico; «Un tema universale che accompagna l’uomo … (e) coesiste con lui nel mondo. … La sofferenza sembra appartenere alla trascendenza dell’uomo: essa è uno di quei punti, nei quali l’uomo viene in un certo senso «destinato» a superare se stesso, e viene a ciò chiamato in modo misterioso» [7]. E sant’Agostino descrive la beatitudine del paradiso – della Civitas Dei – così: «Tutti i ritmi dell’armoniosa proporzione del corpo, che ora sono latenti, allora non lo saranno. Essi, disposti dentro e fuori in tutte le parti del corpo, assieme alle altre cose che nell’eternità appariranno grandi e meravigliose, infiammeranno, col lirismo della bellezza intelligibile fondata sul numero, le intelligenze capaci del numero alla lode di un sì grande Artefice» [8] Beatrix Erika Klakowicz (Dr. Phil. Dr. Theol.)

Nelle foto: - «Quando le parole uccidono» di Paolo Menon. Composizione di piastrine alfabetiche fittili su 6 tele (60x60 cm) disposte a T, 180x240 cm, 2008. - Beatrice e Paolo Menon, [1] È una caratteristica dell’Antico Oriente, che per oltre tremila anni cambiano gli idiomi e con ciò il valore fonetico dei segni, ma mai la loro forma grafica. Perciò era possibile adottare il valore fonetico in uso in un sito vicino o lontano, per applicarla al vocabolario locale. [2] Cfr. Sir Alan Gardiner, Egyptian Grammar, 3ª ediz., Oxford 1978, p. 6sq. [3] Dialogus ad Tryphonem 2-8. [4] Platon, Gorgias 507 a. [5] Cfr. De libero arbitrio II 8,20. [6] De Trinitate IV 4,7.10 [7] Beato Giovanni Paolo II, Lett. Apost. Salvifici Doloris, 1984, I,2.[8] De Civitate Dei 22, 30.1.

12 Beatrice Klakowicz

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Educare alla comunità tra Oriente e Occidente Beatrix E. Klakowicz – Dr. Phil., Dr. Theol., Città del Vaticano LABORATORIO PEDAGOGICO “PROSPETTIVA” n. 71 – 14.04.2010 “E la Dea di buon animo mi accolse, e con la sua mano la mia mano destra prese, e incominciò a parlare così e mi disse: «O giovane, tu che, compagno di immortali guidatrici, con le cavalle che ti portano giungi alla nostra dimora, rallegrati, poiché non un’infausta sorte ti ha condotto a percorrere questo cammino – infatti esso è fuori dalla via battuta dagli uomini, ma legge divina e giustizia. Bisogna che tu tutto apprenda: e il solido cuore della Verità ben rotonda e le opinioni dei mortali, nelle quali non c’è una vera certezza. Eppure anche questo imparerai: come le cose che appaiono bisognava che veramente fossero, essendo tutte in ogni senso. Orbene, io ti dirò – e tu ascolta e ricevi la mia parola – quali sono le vie di ricerca che sole si possono pensare: l’una che è e che non è possibile che non sia – è il sentiero della Persuasione, perché tien dietro alla Verità – l’altra che non è e che è necessario che non sia. E io ti dico che questo è un sentiero su cui nulla si apprende”. (PARMENIDES, Perí phýseos, frgg 1-2) Nell’enciclica Caritas in veritate (n. 4) Benedetto XVI afferma: “Senza verità, senza fiducia e amore per il vero, non c’è coscienza e responsabilità sociale”. Che tale affermazione non sia “un’invenzione della Chiesa o addirittura dell’autorità ecclesiastica, che mira a privare l’essere umano della sua «autodeterminazione»”, ma corrisponda ad una delle più antiche, se non alla più antica esperienza ed esigenza dell’homo sapiens, sia il presente studio a provare in qualche modo. Superata l’ultima e più pericolosa prova (1) e quindi ammesso nella comunità degli iniziati, Parmenides ritorna a Velia, l’antica Elea, una trentina di chilometri distante da PaestumPoseidonia, dove raduna intorno a sé alcuni giovani per approfondire con loro temi filosofici (2), e dove istituisce la più antica “facoltà di medicina” in Occidente e apre la prima scuola pubblica per insegnare ai bambini i rudimenta dell’alfabetizzazione ed impartire loro lezioni di educazione civica. Anzi, il «Padre dell’Ontologia» va oltre. Egli impegna in quest’opera pedagogica i suoi “studenti di filosofia”, i quali imparano così, e ancor prima che Platone lo definisse un dovere del saggio, da considerare le proprie ricerche fisiche e metafisiche non fini a se stesse, ma fondamento per servire meglio la comunità (3). È vero che pure altri filosofi precedenti all’Eleate avevano voluto inaugurare la propria attività intellettuale con l’iniziazione in un culto misterico (4), prendere parte alla vita pubblica e circondarsi con persone, giovani e anziani, per discutere con loro i grandi temi compresi nel termine di filosofia; ma nessuno aveva pensato all’istituzione di uno studium medicum o addirittura all’istruzione civica per i piccoli cittadini di domani, due iniziative che dovevano sopravvivere di gran lunga non solo alla Scuola degli Eleati, ma la stessa Antichità da suggerire nel 1240 all’imperatore Federico II Hohenstaufen di fondare sulle orme di Parmenides l’Università di Napoli, il cui cuore era la Facoltà di Giurisprudenza, e di riorganizzare, grazie anche all’apporto degli Arabi, la Facoltà di Medicina a Salerno, cantata dalle epopee dei Minnesänger (5). Si pone 13 Beatrice Klakowicz

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perciò la domanda: Quale iniziazione misterica si riceveva nel temenos di Paestum, capace d’ispirare simili progetti di tale persistenza? Sappiamo che i culti esoterici sacri alle varie hypostaseis della Grande Dea Madre (6) miravano a garantire agli adepti la beatitudine nell’Aldilà. I misteri dionisiaci poi si presentavano anche nella forma mitigata dalle credenze orfico-pitagoriche come ekstasis, ossia “uscir fuori = liberarsi” da ogni vincolo comunitario per diventare un alter Dionysos e così impossessarsi dell’altro. Parmenides invece pensa alla cura degli infermi secondo il principio della mens sana in corpore sano, e alla preparazione di cittadini coscienziosi e responsabili in ossequio al comando della Dea di ricercare la Verità, di combattere le fallaci opinioni dei mortali e di mostrar loro il modo corretto in cui vanno intese le cose che appaiono, le apparenze e le opinioni! – E vedremo che appunto la Verità dell’Essere e la Giustizia sono le colonne portanti della concezione di città e comunità civili nel’antico Oriente e soprattutto in Egitto, sin dalle più antiche manifestazioni dell’homo sapiens. Una prima risposta ce la dà lo stesso toponimo Paistos–Paestum-Poseidonia. Abitato già verso il 2.000 a.C., vi arrivano nella seconda metà del millennio alcuni navigatori minoicomicenei – il racconto mitologico li identificherà con gli Argonauti –, i quali erigono in segno di gratitudine alla foce del Sele un tempio a Hera Argiva, dea del matrimonio e della famiglia. La scelta del posto era probabilmente suggerita da un insediamento pre-esistente, collegato con un temenos minoicomiceneo, come suggerisce appunto la forma lucana Paistos, nella quale sopravvive il Posis Das, «il Ragazzo (Sposo, Compagno) della Da/Ge» (7) delle tavolette del Linear B (il greco miceneo), nonché l’esistenza del Tempio di Athena Aphaia (8), divina protettrice della città, della scienza e delle arti, in seguito luogo della vestizione e del banchetto liturgico degli iniziati. A Paestum non si celebravano dunque né una dea dispotica ed irascibile, né un dio di ebbrezza ed ekstasis, bensì il temibile e temuto signore di mari e terremoti e una dea che è fedele sposa e madre premurosa, come essa veniva impersonata dall’egiziana Isis (9), ma anche dalle minoico-micenee dee: Athena Aphaia e Hera Argiva. Ora, fu Poseidon (posis das) a costruire insieme ad Apollo, dio della giustizia e della convivenza civile, le difese di Troia, ma anche a distruggerle (10), quando la città, proteggendo un illecito amore, abbandona ogni rispetto per la giustizia ed i diritti altrui; fu Hera Argiva a proteggere Jason contro il cugino usurpatore del suo trono; fu il simulacro di Athena Polias (il Palladium), che il pius pater Aeneas salvò dalle fiamme, affinché l’istituzione civica con i suoi valori non perisse con una cittadinanza che li aveva calpestati; fu Isis ad accompagnare il supremo dio nel suo quotidiano viaggio sulla terra e nell’Aldilà, dove premia i “servitori della Maat” («la verità nella giustizia e rettitudine») e condanna i malfattori alla non-esistenza. E che nei misteri di Paestum i legami con l’antico Egitto erano indiscutibili, lo dimostrano anche il collegamento con la medicina (11), nonché le due tappe finali e decisive dell’iniziazione: la “prova dell’acqua” ed il cerimoniale della “sepoltura” (12). I misteri di Paestum e delle sue divinità ci invitano perciò a indagare sulle origini del concetto di comunità civica e sui principi etici da essa postulati; un’indagine che ci conduce in tempi assai remoti ed in terre altrettanto lontane, in quanto il viaggio alle sorgenti della comunità civile inizia in una grotta dello Zagros a nord-est di Mossul e Niniveh (13), i cui oggetti, le più antiche testimonianze dell’homo sapiens che oggi conosciamo, sono dal C14 datati verso il 34.000 a.C. 14 Beatrice Klakowicz

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Ora, più che la datazione stupisce il fatto che alcuni di questi utensili si distinguono per il graffito di una rudimentale stella. Evidenza archeologica e tradizione letteraria ci informano sugli ulteriori sviluppi del significato di questa stella, la quale indica nei più antichi rappresentanti della ceramica (Tell Halaf e Samarra: V millennio a.C.) l’oggetto sacro per diventare nei vari idiomi cuneiformi ideogramma e determinativo della divinità stessa. Gli studiosi suppongono perciò che sin dagli esordi l’uomo si concepisse come essere in uno specifico rapporto con la divinità, che lo chiama a viverlo in rispetto verso tutte le cose create «in una grande famiglia» (14 ) in continua crescita ideale e reale (15). E forse non sarà un mero caso che nel 1951, sei anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, gli Americani scoprirono proprio quella grotta di Šanidar, quasi un invito a ricostruire ciò che era stato distrutto e a ritornare a essere zóa politiká (esseri sociali e socievoli), dando nuovamente a Dio e alla Verità dell’Essere la centralità nella vita pubblica e privata. Mancano le testimonianze che ci permetterebbero di ricostruire il cammino della comunità umana subito dopo Šanidar. Ma quando la incontriamo di nuovo verso la fine del VIII millennio a.C. a Tell-es-Sawwan e poi a Muallafat e Djarmo, tutti siti non lontani da Šanidar, l’homo sapiens si era trasformato da cavernicolo e nomade in uomo sedentario che aveva fatto le prime esperienze di una dimora stabile per sé e per i suoi, nonché per gli animali e le messi. In un iter probabilmente non privo di ostacoli e contrattempi, gli abitanti dell’Iraq settentrionale erano giunti ad una comprensione della propria esistenza e attività come liturgia divina che si espleta inserendosi nella comunità e ponendosi al suo servizio, per cui il lavoro in tutte le sue forme diventerà sempre più cammino verso bellezza e armonia cosmica, dove l’arte non è solo «astrazione», ma pure «concretizzazione» di intramontabili valori – ponte tra divino e umano. André Malraux disse: “L’invisibile acquista figura soltanto attraverso l’arte, anche se lontano dal poter esser concepito come arte” (16). Sintesi e ulteriore elaborazione di questi primordi portano all’alba del V millennio a.C. alla fondazione di Hassuna, città minuscola ma urbanisticamente perfetta, le cui caratteristiche stupiscono ancor oggi: una pianta armoniosa, una disposizione appropriata, un’architettura «funzionale». L’articolazione dell’habitat intorno al sacello, eretto nel mezzo del cerchio, evidenzia da un lato la centralità del numen, che regge e protegge la comunità umana con la natura – animata e non – che la circonda; d’altra parte prova che “tutto era stato pensato prima di venir eseguito” (André Parrot). Tale sentirsi costantemente guardati e accompagnati dalla sovrana divinità non solo come individuo ma come comunità ha fatto sì che a Hassuna per la prima volta persino gli utensili della vita quotidiana non si considerano meri e semplici oggetti d’uso, per cui vi si aggiunge un qualche ornamento - né accessorio né superfluo-, bensì portatore di un senso, di un messaggio, quello cioè che nessuno lavora da solo e per sé, ma “in e per” una comunità per comporre una figura bella e armoniosa. E “mentre in Europa la vita sociale, politica e artistica si trova ancora in uno stadio di formazione elementare, il Vicino Oriente non solo aveva già varcata la soglia della civiltà, ma era passato anche attraverso quelle fasi storiche, nel corso delle quali l’uomo dimostra in molteplici forme la propria raggiunta superiorità” (André Parrot). Simbolo, officina e baluardo di 15 Beatrice Klakowicz

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questa superiorità fu – e rimane - la città, basata essenzialmente su tre principi: 1. la centralità del numen, che istituisce e custodisce la città, governandola in armonia e bellezza; 2. la città non è un casuale e confuso agglomerato di abitazioni e abitanti, ma una comunità-famiglia che si sviluppa sotto la guida di un principe-padre – le tavolette sumere lo chiamano LÚ.GAL («il Grande Uomo»), scelto dalla divinità; 3. la comunità civile s’inserisce nel contesto delle realtà terrestri, rispettandole e coltivandole secondo la Verità dell’Essere. La città nasce dunque quale luogo d’incontro tra sfera divina ed umana, dove l’armonia celeste si esprime con un linguaggio umano, e dove il multiforme trova e occupa il proprio posto, giungendo così all’unità dell’Essere. Ma l’educazione civica visualizzata dal piano regolatore valeva finché l’insediamento urbano contava pochi cittadini. Non appena ne cresceva il numero e si necessitava di ulteriori case, sorgeva il problema del come adattare i traguardi raggiunti alle circostanze cambiate: allargare il cerchio comportava un allontanamento dal centro e correva il rischio di una crescente secolarizzazione; sistemare le abitazioni in cerchi concentrici poteva far perdere la consapevolezza della sostanziale uguaglianza di tutti i cittadini. Le maestranze dell’antica Mesopotamia riuscirono a dirigere la nave salva e sana tra Skylla e Charybdis. Verso il 3.500 a.C. Uruk, la patria di Gilgameš (17), diventa anche quella di uno tra i più begli esempi di educazione civica della storia, accolto in qualche particolare dall’antichità pagana, ma compreso e seguito nella sua essenza soltanto dalle cattedrali del Medioevo cristiano. Prendendo lo spunto dalla ceramica di Samarra, gli artisti di Uruk rompono per la prima volta la tristezza dei grigi mattoni di fango e la monotonia dell’intonaco bianco con la policromia dei rivestimenti musivi dalle più svariate figure geometriche: esattamente come nel mosaico geometrico e policromo l’assenza anche della più piccola tessera minaccia la stessa esistenza dell’intera composizione, così nella comunità civile ogni abitante è ugualmente significativo, ugualmente essenziale. Ma gli architetti di Uruk evidenziano il rapporto tra divino ed umano, tra unità e molteplicità in un altro modo ancora, che sarà adottato da tutte le altre città della Mesopotamia e perciò elemento costitutivo non solo di famiglia e comunità cittadina, ma anche e soprattutto dell’unione «sopra-urbana» di queste città in uno Stato: di fronte all’È. ANNA («la Casa del Cielo») sorge, ad una distanza di circa mezzo chilometro, la ziqqurat («la Scala tra Cielo e Terra»). La specificità della ziqqurat si rileva, confrontandola con l’È. ANNA stessa. Ambedue s’articolano intorno ad un ambiente centrale, assai ampio nel tempio che deve contenere la massa dei fedeli, i quali vi depongono «in eterno ricordo» della loro fiduciosa e riconoscente devozione una statuetta dal volto «individualizzato». Il tempio presenta perciò un’architettura «orizzontale» in quanto luogo di adorazione, supplica e gratitudine rivolte dalla comunità umana alla divinità. Non così nella ziqqurat che si distingue per la sua architettura «verticale», che va sempre più restringendosi verso l’alto nei suoi cinque o addirittura sette piani. – L’architettura cristiana unirà ambedue nelle cattedrali con i loro campanili. – “Dimostrazione di una fede ardente” (André Parrot), la ziqqurat deve assicurare la venuta-discesa degli dèi. In cima a questa «scala tra cielo e terra» era un piccolo sacello, dove il principe-sacerdote aspettava che la nave celeste «attraccasse all’imbarcadero terrestre» (18), e dove offriva al divino «ospite» i doni di benvenuto e ringraziamento, perché veniva ad abitare tra gli uomini e a concedere al paese i doni che 16 Beatrice Klakowicz

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garantiscono la vita. Non documento di arroganza umana – come lo sostiene il racconto biblico della «torre di Babele» – ma memoriale d’istituzione e conservazione divina della città, la ziqqurat riprende nel piano in basso la disposizione interna del tempio, sia pure in scala ridotta. Qui il principe riceveva la sua investitura quale rappresentante della divinità e «pastore delle teste nere», come lo chiameranno le tavolette accadiche (19), e dove la divinità gli consegna «la tavola delle leggi» (20). Probabilmente si compiva qui il rito principale dell’a-ki-tum, festa del Nuovo Anno, la cui liturgia propiziatoria culminava appunto nella celebrazione dell’ieroj gamoj, le «sacre nozze» di divinità e umanità, per assicurare fecondità e fertilità alla sfera terrestre. Comunque, il temenos di Uruk esemplifica non solo il rapporto tra dio e cittadini, ma anche uno dei precipui doveri della «casa-città» umana, quello cioè di accoglienza e ospitalità, aggiungendo ai due templi per i divini padroni della città (Anu e Ištar) non solo il «Tesoro» (magazzini e laboratori) per la prosperità della comunità urbana, ma anche un terzo tempio, una sorta di «foresteria», dove ospitare qualche altra divinità «di passaggio». Sembrava davvero che la città avesse raggiunto quell’optimum di cui parla sant’Agostino nel De Civitate Dei: «una moltitudine unanime di individui … uniti da un determinato rapporto sociale». Ma l’arrivo di nuove etnie, il sorgere dei grandi regni e l’alternarsi di periodi di guerre e penurie con altri di eccessivo benessere di alcune famiglie a scapito di altre, trasformarono i monumenti sacri da “scuole di educazione civica” in fortificazioni di difesa contro rivali interni e nemici esterni (21). Un declino, al quale neanche le varie codificazioni di legge degli ultimi secoli del III millennio a.C. e di quello seguente potevano ovviare efficacemente e a lungo. La città stava per smarrire il suo carattere di immagine dell’ordine cosmico per diventare istituzione di utile. Niente può evidenziare meglio questa nuova concezione che un confronto tra la città mesopotamica e quella anatolica: La città mesopotamica è nonostante tutte le crisi «comunitàfamiglia», guidata da un princeps scelto dalla divinità perché educhi – ed educare significa condurre fuori dagli orizzonti ristretti dell’egocentrismo – all’armonia del molteplice nell’Essere-Uno. La città anatolica (22) invece è «collettività di subordinati» comandati dal rex– paredros («compagno») della divinità concepita più come «angelo custode» che non come sovrana creatrice (23), che realizza un altissimo grado di organizzazione per garantire all’intera collettività progresso socio-culturale e sussistenza materiale. Ambedue questi concetti sopravvivranno grazie ai mercanti e marinai orientali e più tardi minoico-micenei con i loro pregi e difetti al cataclisma del 1200 a.C.; ambedue ispireranno i vari modi di convivenza umana dall’epoca greco-romana fino a quella moderna (24). Ben diverso si presenta il concetto di «città» e «comunità civile» in Egitto, che deve al Nilo e al sole, ambedue sovrani assoluti, il suo carattere di terra dei contrasti altrettanto assoluti, dove l’abbondanza alimentata dal fiume s’accompagna all’immensità del deserto. “Da quest’ordine immutabile deriva l’affermazione di permanente immutabilità o meglio, di un perpetuo ricominciare, che domina l’universo egiziano” (Jean Leclant), e che trova la sua espressione filosofico-religiosa nella periodica celebrazione liturgica dell’heb-sed, rinnovamento 17 Beatrice Klakowicz

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spirituale e morale in quanto ritorno alle origini che rinvigoriscono e rincuorano. In questa visuale, la morte non è fine bensì inizio di una diversa forma di vita, che bandisce il termine «funebre» dal vocabolario egiziano – Johann Wolfgang von Goethe dirà quasi cinque mila anni più tardi: “la morte è un artifizio per avere più vita”. E c’è da chiedersi se l’arte funeraria, predominante nella civiltà egiziana durante tutta la sua storia, sia davvero «funeraria» o non sia piuttosto espressione mistica di quell’essere mechrw («giustificato») e quindi ∋ h («spirito glorioso e benefico»), auspicato a chi varca la soglia dell’Aldilà. Dalla risposta a questa domanda dipende anche se e quale comunità civica possiamo attenderci in questa terra «dono del Nilo», dove la particolare cura riservata a costruzione e manutenzione delle dimore dei defunti evidenzia, sin dai più antichi monumenti, la costante aspirazione degli Egizi: l’eternità intimamente legata all’universalità, esemplificata dal tempio, pur esso sin dai primordi concepito quale parte integrante dei complessi funerari (25). Ed il concetto di città e cittadinanza si sottomette a questa apertura «trascendentale» che non può chiudersi in una città «immanente», per cui l’insediamento umano è chiamato st mect («sede della verità»), i suoi abitanti b∋ kw m st mect («servitori nella sede della verità»). Di conseguenza, l’Egitto non ci ha regalato insediamenti urbani, ma offerto una diversa concezione di città ed educazione civica, radicata in quel «perpetuo ricominciare», che determina e accompagna la civiltà egiziana durante tutta la sua storia (26): Prima ancora che i Testi delle Piramidi potessero gettare le prime luci sulla persona del pharaoh, le iscrizioni dell’epoca tinita (30002660 a.C.) inaugurano un pensiero teologico e antropologico, parlandoci della mect, figlia del supremo dio, creatore e signore dell’universo e di tutte le sue realtà. Difendere e propagare la verità – rettitudine e giustizia, è compito di ogni essere umano, per cui nasce e vive, per cui riceve «sin dal concepimento nel grembo materno» – così gli antichi testi – una scintilla della divina sapienza. L’essere umano è libero di accettare questo dono oppure d’ignorarlo. Chi si mette al servizio della Maat, vivrà nell’Aldilà per sempre beato; chi la ostacola, sarà condannato alla non-esistenza. Ora, non si può vivere in rettitudine e giustizia per se stessi, in quanto tali concetti postulano «l’altro» e quindi la comunità con la sua dimora per quanto «trascendentale» possa essere. Questa dimora è personificata dal pharao (pr-c∋ ), termine che significa «la Grande Casa», che accoglie e riassume tutte le realtà create, simboleggiate dalla piramide che si restringe verso l’alto – punto d’incontro, dove il faraone le presenta mediante il suo nomen alla sfera divina, la quale, simboleggiata dalla piramide capovolta, lo riveste della potenza divina e gli conferma, nella forma dell’Horusname, la sua filiazione divina ma anche il mandato d’incarnare in mezzo alle realtà sensibili una delle note divine. L’Egitto dei faraoni concepisce perciò la città come un’istituzione che comprende tutte le realtà create e tende verso l’assoluto, l’universale, l’eterno. Va da sé che una tale concezione non trovava grande seguito prima della nascita dei sistemi filosofici greci e delle aspirazioni cosmopolite dell’Ellenismo. Sarà soprattutto il Cristianesimo a cogliere e accogliere le grandi possibilità inerenti alla concezione egiziana. Non a caso sarà Alessandria d’Egitto ad ospitare la prima facoltà di teologia, fondata da Clemens Alexandrinus, dove Origenes, su invito delle imperatrici della dinastia Severiana, redigerà il primo catechismo – de principiis – della fede cattolica. Egitto e Asia Anteriore avevano elaborate concezioni della città, degne dello spirito 18 Beatrice Klakowicz

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umano e meritevoli di venir considerate autentici valori da tramandare alle future generazioni, di qualunque etnia e cultura fossero (27). Avevano perciò bisogno di un veicolo «sopra le parti» che potesse assumersi tale ruolo. Spetterà a Troia, ponte tra Asia ed Europa, a crearlo, e a Creta, crocevia degli antichi popoli e crogiuolo delle loro culture, a riempirlo di significato. La città di Priamos, antenate di Roma, sintetizza già intorno al 3.000 a.C. nel suo megaron («il Grande Vano») (28) le funzioni sacre e profane di templi e palazzi dell’Asia Anteriore, mentre Creta amalgama un millennio più tardi con sorprendente abilità due concezioni urbanistiche, quella mesopotamico-anatolica e quella egiziana, apparentemente inconciliabili. Infatti, l’isola riprende idea e funzione del megaron, ma l’intensivo impiego di colonne e pilastri gli conferisce un’apertura materiale e spirituale, che richiama il senso egiziano per l’eterno ed universale. In maniera altrettanto ingegnosa quanto naturale, la proposta troiana, indossando abiti cretesi, unisce perciò espansione orizzontale con elevazione verticale e getta le basi per una compagine civile che “guardando il cielo non dimentica la terra” (Giovanni Paolo II), perché “la contemplazione … non esime dall’impegno storico” (29), sicché curando le realtà terrestri la comunità cittadina venera il divino Creatore (30). E poiché il poimhn «pastore dei popoli» minoico si sente obbligato e responsabile verso la divinità senza, tuttavia, pretendere né una speciale investitura come il LÚ.GAL mesopotamico, né addirittura una filiazione divina come il pharaoh egizio, il megaron con i suoi messaggi e significati può realizzarsi indipendentemente da culture, costituzioni e convinzioni religiose (31). Infatti, il «grande vano» nasce quale ambiente di adunanza di una comunità che vi esplica l’unità, non l’uniformità, della propria molteplicità; e tale rimarrà nelle agorai e fora delle città greche e romane, nelle basiliche e cattedrali del Cristianesimo, nelle sale capitolari dei monasteri, nelle piazza pubbliche delle città medievali e rinascimentali. Oltre quindici secoli prima che Aristoteles mettesse in guardia dall’indagare esclusivamente sulla migliore costituzione immaginabile, per la cui realizzazione i sovrani dovrebbero essere dèi, ed invitasse a riflettere sulla migliore costituzione possibile, che consiste nella partecipazione di tutti i cittadini nella vita della polis, il megaron dei palazzi cretesi l’aveva già concretizzata (32). Ma gli architetti cretesi, responsabili dell’educazione civica, fanno di più. Prestando grande attenzione affinché la comunità non perdesse il suo centro sacro e quindi il suo essere comunità istituita e retta dal volere degli déi, gli urbanisti inseriscono nell’area di rappresentanza e vita pubblica il cosiddetto «teatro», munito su due lati da sedili a gradini e probabile luogo del cosiddetto «Salto sul toro», dal significato tuttora poco chiaro, sebbene attribuibile a credenze e riti religiosi. Purtroppo, nonostante tutti questi sforzi, la sostituzione del «grande uomo», rispettivamente della «grande casa», con il «grande vano» ridimensionava nel corso dei seguenti secoli anche l’apertura su universalità ed eternità, nonché il concetto di comunità che si comprende come «liturgia divina». Quando verso il 1400 a.C. gli Achei invadono Creta e distruggono i suoi palazzi, ma non il megaron, questo risorge, sì, come la fenice araba, rinvigorito, dalle ceneri, diventando il cuore dei palazzi micenei, dove arde inestinguibile la fiamma nel focolare, offrendo asilo a profughi e perseguitati.

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I numerosi racconti mitologici, che ci riferiscono di sopraffazioni e contese fratricide, sono altrettante prove di quanto era diventato piccolo lo stesso «grande vano». Intorno al 1200 a.C. si avvera un cataclisma, che forse nessuno aveva ritenuto possibile, almeno non in queste dimensioni. I grandi regni di Siria e Anatolia, ma anche quelli piccoli della Grecia micenea vengono letteralmente spazzati via. E pur salvandosi per il rotto della cuffia, Egitto, Persia e Mesopotamia soffrono del generale clima d’insicurezza politica e di crisi sociale ed economica. Il sovrano univa ormai in sé divino e umano da non sentire più il bisogno di un «consenso dall’alto e dell’altro», mentre il palazzo era diventato temenos, dove il sacro fuoco non ardeva più al centro offrendo asilo, bensì accanto al trono, indicando l’onnipotenza del dio-re. Perciò il figlio di Filippo il Macedone, Alessandro, ne rimarrà entusiasta, e Kallisthenes, nipote di Aristoteles, pagherà con la vita tale entusiasmo. Una morte più che sintomatica: responsabile dell’educazione dei giovani, Kallisthenes aveva dibattuto con questi i temi del governo costituzionale, dei tiranni e del tirannicidio. Egli muore nel 330 a.C. in difesa di verità e giustizia, Alessandro sette anni più tardi (estate del 323) per mancanza di moderazione. Il crepuscolo delle città dell’Antico Oriente, che il regno dei Parthi poteva ritardare ma non fermare a lungo, era ormai inarrestabile. Comunque, ad ogni notte segue un nuovo giorno; e poiché in quel caso il sole era tramontato in Oriente, esso non poteva che sorgere in Occidente. Così il concetto di città, nato e sviluppatosi in riferimento alla sfera divina, provò di essere davvero valore intramontabile, che obbedisce a una volontà superiore alle vicende umane con i loro alti e bassi, la quale sa provvedere a salvarlo con straordinaria tempestività (33). Nelle Puglie, aperte a più rapide trasformazioni, è precisamente a Porto Badisco presso Otranto, si rinvenne nel 1970 una grotta, che conserva alcuni tra i più interessanti complessi pittorici dell’Europa neolitica (circa 3000 a.C.), di singolare importanza non solo per le raffigurazioni stesse, ma per il contesto sociopolitico, in cui esse s’inseriscono. Infatti, il soggetto preponderante sono le figure geometriche, le quali richiamano, sebbene nel loro groviglio di spirali, intrecci e linee a zig-zag, le armoniose composizioni della ceramica mesopotamica e soprattutto dei mosaici policromi dei templi di Uruk. Ma quel che importa ancor più è che questa opzione per i motivi geometrici ed il conseguente passaggio dalle raffigurazioni concrete e naturalistiche del Paleolitico alle forme astratte ed universalistiche del Neolitico coincidono con la trasformazione delle precedenti strutture abitative di cacciatori nomadi nei villaggi ben organizzati di agricoltori sedentari: un profondo mutamento dei modi di vita, importato dal Vicino Oriente e simboleggiato, secondo l’archetipo orientale, dalle figure geometriche. Pare che la dolina al Pulo di Altamura sia il più antico esempio di questo significativo processo.

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L’accresciuta conoscenza dell’epopea mesopotamica, corroborata dalle ricerche archeologiche sia in Oriente, sia nell’Europa centrosettentrionale dalla Laguna veneta fino alle sponde del Baltico, ha dimostrato che verso la metà del III millennio a.C. mercanti provenienti dalla Mesopotamia, dalla Siria e dalle isole dell’Egeo, si erano messi in rotta via mare e via terra verso il Mare del Nord con i suoi ricchissimi giacimenti d’ambra, mentre i loro partner nordici scendevano poco dopo verso Sud, amalgamandosi, come molte altre volte nella storia delle migrazioni, con le popolazioni locali per intensificare i promettenti ed in ogni senso proficui rapporti commerciali con l’Oriente. Ed il grande centro di smistamento diventa la Puglia dal Gargano fino a Brindisi, che grazie appunto a questo elemento nordico filo-orientale, «accasatosi» nelle Puglie secoli prima del cataclisma del 1.200 a.C., seppe non solo resistere alla catastrofe, ma soprattutto mantenere vivi e convincenti i valori civili, sociali e culturali, nati ed elaborati in Oriente (34).

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NOTE 1 Che le varie tappe dell’iniziazione nei culti misterici, e dapprima in quegli “isiaci” non fossero prive di serie difficoltà e addirittura del rischio di perdervi la vita, lo afferma all’epoca degli Antonini (117-193 p.C..) Apuleius di Madaura nelle Metamorphoseis XI 22, spiegando che la pericolosità era voluta dalla divinità stessa, che in tal modo indicava se e fino a quale grado un candidato le era gradito. Affrontare le varie tappe dell’iniziazione senza o addirittura contro il volere divino era giudicato temerarietà, punibile e punita con la morte. 2 Benedetto XVI afferma nella sua enciclica Spe salvi (n. 6): “Per filosofia allora (nota 3), in genere, non si intendeva una difficile disciplina accademica, come essa si presenta oggi. Il filosofo era piuttosto colui che sapeva insegnare l’arte essenziale: l’arte di essere uomo in modo retto – l’arte di vivere e di morire”. E in un altro punto (Spe salvi 36) avverte che bisogna certamente fare tutto il possibile per diminuire la sofferenza: impedire, per quanto possibile, la sofferenza degli innocenti; calmare i dolori; aiutare a superare le sofferenze psichiche. Sono tutti doveri sia della giustizia che dell’amore che rientrano nelle esigenze fondamentali dell’esistenza cristiana e di ogni vita veramente umana. 3 vedi in nota 2. 4 Parlando di Ugo di San Vittore, Benedetto XVI affermò: “Così, per Ugo di San Vittore, la storia non è l’esito di un destino cieco o di un caso assurdo, come potrebbe apparire. Al contrario, nella storia umana opera lo Spirito Santo, che suscita un meraviglioso dialogo degli uomini con Dio, loro amico. Questa visione teologica della storia mette in evidenza l’intervento sorprendente e salvifico di Dio, che realmente entra e agisce nella storia, quasi si fa parte della nostra storia, ma sempre salvaguardando e rispettando la libertà e la responsabilità dell’uomo” (Udienza del 25 novembre 2009). 5 Herakleitos di Ephesos era addirittura stato iniziato in tutti i culti esoterici esistenti nel VII sec. a.C. 6 Basti pensare all’epos di Hartmann von der Aue, Der arme Heinrich. 7 Apuleius di Madaura, Metamorphoseis XI 2, offre un interessante elenco di queste hypostaseis, tutte in un modo o nell’altro improntate al modello isiaco. 8 La Terra come hypostasis della Grande Dea Madre. 9 Si tratta dell’antica dea di Aigina, una hypostasis della Dea Madre venerata come Potnia theron («signora degli animali»), caratteristica della concezione minoica della Grande Dea. 10 Le tappe essenziali dell’iniziazione mostrano una sbalorditiva affinità con il culto misterico della terra sul Nilo. 11 Infatti, gli scavi eseguiti dalla Scuola americana di Archeologia hanno dimostrato che la Troia homerica venne distrutta da un terremoto (“il cavallo ligneo”), seguito immediatamente da un’invasione nemica. 12 Una trentina di anni fa si celebrò a Baltimore un congresso di farmacologia, dove si lamentò unanimemente la perdita dei papiri medici egiziani, che avrebbero al dire degli esperti “risparmiato agli studiosi un duemila anni di ricerche”. 13 L’iniziando veniva durante cinque o addirittura sette giorni rinchiuso in un avello, il cosiddetto “sacello sotterraneo”. 14 Niniveh, esplorata dai Francesi sin dal 1842, aveva inaugurata la lunga serie degli scavi in Medio Oriente (Mesopotamia=Iraq, Elam/Persia=Iran, Anatolia=Turchia e Siria), che costituiscono tuttora il vanto delle Scuole di Archeologia e Orientalistica europee, statunitensi ed iracheni. 15 Sant’Agostino, De Civitate Dei I 15,2 e XV 8,2, definisce la città come «una moltitudine unanime di individui […] uniti da un determinato rapporto sociale». Cfr: Benedetto XVI, Enciclica Caritas in veritate: “Tutti gli uomini avvertono l’interiore impulso ad amare in modo autentico: amore e verità non li abbandonano mai completamente, perché sono la vocazione posta da Dio nel cuore e nella mente di ogni uomo. Gesù Cristo purifica e libera dalle nostre povertà umane la ricerca dell’amore e della verità e ci svela in pienezza l’iniziativa di amore e il progetto di vita vera che Dio ha preparato per noi”.(n. 1);: “La verità, infatti, è “lógos”che crea “diá-logos” e quindi comunicazione e comunione. La verità, facendo uscire gli uomini dalle opinioni e dalle sensazioni soggettive, consente loro di portarsi al di là delle determinazioni culturali e storiche e di incontrarsi nella valutazione del valore e della sostanza delle cose” (n. 4). 16 Nel 1452 Enea Silvio Piccolomini riconosce in una lettera uguale importanza al fiorire della scienza e a quello delle arti, il futuro pontefice romano mette in risalto il “nuovo” significato dell’opera d’arte, intesa come manifestazione dello spirito, e sottolinea il ruolo dell’artista, la cui professione è definita come una vocazione. 17 L’eroe dalle qualità sovrumane è amico degli dèi, che gli concedono la grazia di trovare la pianta dell’immortalità per portarla agli uomini. Ma, soggetto alle leggi fisiologiche della condizione umana, la perde perché non sa resistere al sonno. 22 Beatrice Klakowicz

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18 E sono i numerosi sigilli, rinvenuti in tutto il territorio iracheno, ad attestare questo benvenuto dato alla divinità che scende dalla nave venuta dall’alto. 19 Un’investitura documentata anche dagli splendidi dipinti murali di Mari, conservati nel Louvre. 20 Un evento riprodotto in numerose stele e sigilli, non in ultimo sulla stele del Codex Hammurabi, rinvenuta a Susa e conservata nel Louvre. 21 Ancora un mille anni più tardi, questi templi «fortificati» ispireranno gli impianti difensivi nei palazzi micenei, a loro volta prototipi di castelli e monasteri medievali. 22 Accogliendo e continuando l’eredità – autoctona e straniera – dei precedenti secoli, l’Anatolia crea forme nuove e determinanti per le future generazioni e realizzazioni. Tali novità non riguardavano tanto la tecnica ed i materiali da costruzione, quanto la concezione e sistemazione urbanistica, le imponenti fortificazioni, gli edifici monumentali sacri e profani. 23 Si tratta dunque di una mentalità fiduciosa nei confronti della divinità e consapevole delle proprie capacità, dove la ratio, sostenuta dalla fides, non pretende dagli dèi ciò che è responsabilità degli uomini. 24 Infatti, spetta alla concezione anatolica della città la gloria d’aver resa possibile un’istituzione, ripresa dai Greci e non solo da essi: il kârum = emporium. Tradizione letteraria ed evidenza archeologica ci parlano di vivaci scambi commerciali sin dal sorgere delle prime città, ci documentano le audaci imprese di mercanti sumeroaccadici che oltrepassarono già verso la metà del III millennio a.C. le «Colonne di Herakles» (Gibraltar) e giunsero – per mare e per terra – alle sponde del Baltico; e, infine, ci assicurano la presenza di mercanti e artigiani stranieri nelle città mesopotamiche; ma non offrono alcun indizio di una eventuale distinzione di un quartiere per stranieri, perché la famiglia accoglie, non segrega. Non così la città anatolica, a priori divisa in quartieri: tempio, palazzo, abitazioni, ecc. Questa impostazione favorisce verso il 1900 a.C. la nascita di un’istituzione – pietra miliare nella storia di economia e commercio, e non solo. Alcuni mercanti dell’Assiria decidono di conferire stabilità ai loro rapporti commerciali con l’Anatolia centrale, costruendo a Kaniš (oggi: Kültepe) il primo emporium – colonia mercantile della storia, tanto importante da far premettere al toponimo di Kaniš il distintivo di Kârum. Tuttavia, non furono solamente le ditte import-export e la filiale della Banca Centrale di Niniveh ad indurre gli studiosi – e dapprima Paul Garelli – a paragonare Karum Kaniš alla Firenze dei Medici. Sono soprattutto le tavolette cuneiformi con le loro meticolose registrazioni di operazioni bancarie e clausole assicurative a informarci che all’alba del XIX sec. a.C. i mercanti assiri avevano già «inventato» il giro-banca, la carta di credito ed il traveller cheque. 25 Questa vicinanza tra Essenza divina ed esistenza umana, operata dalla morte, si manifesta soprattutto nelle costruzioni che riproducono in pietra gli edifici lignei dei tempi delle origini con le loro numerose porte aperte verso tutte le realtà visibili ed invisibili, aperte verso l’universo, verso l’eterno. 26 Una storia inscindibile dalle inondazioni del Nilo ed impensabile senza la presenza di quel fiume. Per quanto creatori e portatori di espressioni artistiche tra le più sublimi, gli abitanti si sentono soprattutto chiamati a coltivare la terra, una vocazione tanto forte e profonda da augurare a ogni defunto che possa “giungere ai Campi Earu, per essere nei Campi Hotep nel Gran Possedimento favorito dalle brezze, per prendervi possesso ed essere glorificato, per poter arare e mietere, mangiare e bere, e compiere tutte le cose che si fanno sulla terra” (Libro dei Morti cap CX). Perciò, essere fellah – contadino non è un’umiliazione, bensì la strada diretta per compiere la m ct secondo il volere divino in questa vita e diventare h nell’altra. 27 Cf. Benedetto XVI, Discorso nel Castello di Praga, 26 settembre 2009 (Incontro con le autorità civili ed il Corpo Diplomatico): “La sete di verità, bontà, bellezza, impressa in tutti gli uomini e donne dal Creatore, è intesa a condurre insieme le persone nella ricerca della giustizia, della libertà e della pace”. 28 Un’aula con il focolare al centro ed un vestibolo che la precede, fungeva quale centro sacro, giuridico, amministrativo ed economico. 29 Giovanni Paolo II, Omelia nella festività dell’Ascensione 2001. 30 Cf. Benedetto XVI, Discorso nel Castello di Praga, 26 settembre 2009 (Incontro con le autorità civili ed il Corpo Diplomatico): “La loro [sc. chiese, castello, piazze, ponti] bellezza esprime fede; sono epifanie di Dio che giustamente ci permettono di considerare le grandi meraviglie alle quali noi creature possiamo aspirare quando diamo espressione alla dimensione estetica e conoscitiva del nostro essere più profondo. Come sarebbe tragico se si ammirassero tali esempi di bellezza, ignorando però il mistero trascendente che essi indicano. … Tale visione, nel plasmare il patrimonio culturale di questo continente, ha chiaramente posto in luce che la ragione non finisce con ciò che l’occhio vede, anzi essa è attratta da ciò che sta al di là, ciò a cui noi profondamente aneliamo: lo Spirito, potremmo dire, della Creazione”.. 31 Aristoteles definì il bene come «ciò a cui tutte le cose tendono», e giunse a suggerire che «benché sia degno il conseguire il fine anche soltanto per un uomo, tuttavia è più bello e più divino conseguirlo per una nazione o per una polis» (Etica Nicomachea 1). 32 Cf. Benedetto XVI, Enciclica Caritas in veritate n. 7:”Accanto al bene individuale, c’è un bene legato al vivere sociale delle persone: il bene comune. Volere il bene comune e adoperarsi per esso è esigenza di giustizia e di 23 Beatrice Klakowicz

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carità. Impegnarsi per il bene comune è prendersi cura, da una parte, e avvalersi, dall’altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale, che in tal modo prende forma di pólis, di città”. 33 Cf. Benedetto XVI, Udienza del 25 novembre 2009: “Così, per Ugo di San Vittore, la storia non è l’esito di un destino cieco o di un caso assurdo, come potrebbe apparire. Al contrario, nella storia umana opera lo Spirito Santo, che suscita un meraviglioso dialogo degli uomini con Dio, loro amico. Questa visione teologica della storia mette in evidenza l’intervento sorprendente e salvifico di Dio, che realmente entra e agisce nella storia, quasi si fa parte della nostra storia, ma sempre salvaguardando e rispettando la libertà e la responsabilità dell’uomo.” 34 Cf. Benedetto XVI, Enciclica Caritas in veritate n. 53: “Una delle più profonde povertà che l’uomo può sperimentare è la solitudine. A ben vedere anche la altre povertà, comprese quelle materiali, nascono dall’isolamento, dal non essere amati o dalla difficoltà di amare. Le povertà spesso sono generate dal rifiuto dell’amore di Dio, da un’originaria tragica chiusura in se medesimo dell’uomo, che pensa di bastare a se stesso, oppure di essere solo un fatto significante e passeggero, uno «straniero» in un universo costituitosi per caso. L’uomo è alienato quando è solo o si stacca dalla realtà, quando rinuncia a pensare e a credere in un Fondamento”.

24 Beatrice Klakowicz

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«DAL SANGUE DEI TIRSI A DIO» BEATRIX E. KLAKOWICZ Prolusione pronunciata dalla professoressa Klakowicz all’inaugurazione della mostra in itinere «L’Uomo, da Dioniso a Cristo» di Paolo Menon, presso la Biblioteca Capitolare Veronese il 27 agosto 2011.

A poche settimane dall’apertura del Sinodo dei Vescovi, dedicato alla «Nuova Evangelizzazione», questa mostra delle sculture di Paolo Menon, giunge quanto mai salutare, dato che qui non si tratta tanto di una memoria rievocativa del mito dionisiaco da parte del pensiero filosofico ed ideologico, quanto di unavisualizzazione riflessiva dalle implicazioni teologiche, antropologiche ed escatologiche. Infatti, guardando quei venti volti (l'installazione-scultura: «Dibattito sui baccanali aboliti», ndr), ognuno con il proprio p?thos, ognuno con una diversa prosopopea, come se egli – ed egli solo – conoscesse la via alla salvezza, ma tutti con l’epitrachelion, la lunga stola sacerdotale, tutti con il thyrsos, simbolo di fecondità ed immortalità, e tutti delimitati dalle mani intrise di sangue, fanno tornare alla mente la contesa tra Elijah ed i sacerdoti di Baal sul Monte Carmelo, che «pone davanti ai nostri occhi … la minaccia che incombe sull’umanità quando – invece di aprire il cuore … all’autentica Alterità, ad una relazione liberante che permetta di uscire dallo spazio angusto del proprio egoismo per accedere a dimensioni di amore e di dono reciproco – chiude la persona nel cerchio esclusivo e disperato della ricerca di sé, e (la costringe) ad azioni estreme» (Benedetto XVI). Illudendosi di poter gestire le difficoltà con le proprie forze, l’essere umano si lascia «sedurre dalle forze del male». «Ispirandosi» alla pedagogia di Elijah, nonché al metodo «horaziano» del ridens dicere verum, Paolo Menon risponde con una paradox?a – con un «inaspettato e meraviglioso» – al in qualche modo tremendo monito di Kierkegaard che, distinguendo tra Cristianesimo e cristianità stabilita, aveva avvertito ancora pochi mesi prima della sua morte: «L'eresia più sottile e carica di pericoli consiste nel giocare al Cristianesimo». Scegliendo Dionysos come punto di partenza, Paolo Menon si inserisce perciò in quella tradizione culturale che ha saputo conferire all’arte nuovi impulsi per tramandare gli «eterni ed immutabili valori sociali» con modi e linguaggi adattati ai tempi che cambiano. Ora, Dionysos è colui, che spezza le catene e libera dai sterili formalismi della consuetudine; egli rimescola le componenti della vita civile e raccoglie in sé tanto l’esigenza della salvezza individuale, quanto le forme di protesta partorite dalle ingiustizie e discriminazioni. Ma Dionysos è anche colui che inganna, portando l'essere umano a credere in una sorta di auto-salvezza e quindi ad un «giocare al Cristianesimo». Appunto per ovviare a questa insidia, Paolo Menon non si ferma ad essere praeambulum ad Fidem, ma va oltre - plus ultra. Facendo suo il principio agostiniano dell'ottimismo cristiano, che non nega il male ma lo risolve nel trionfo del bene sul male, un trionfo inscindibilmente legato al Eterno Logos, che è venuto «a cercare e a salvare ciò che era perduto» (Lc 19,10), ma anche l’appello di Henri Bergson che postula «geni mistici, di cui l'umanità ha un urgente bisogno, in quanto essa, attraverso la tecnica, ha ampliato la propria azione incisiva sulla natura ed … ingrandito il corpo umano oltre misura da attendere un supplemento di anima ... necessario per guarire i mali del mondo contemporaneo», l’artista, animato da profonda fede e genuino 25 Beatrice Klakowicz

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desiderio di far riflettere sull'autentico significato della Croce, a credere saldamente in essa e quindi accettarla nella propria vita, corona la sua creazione dei calici pro sancta missa, il cui slancio verso l’alto richiama le statue delle cattedrali gotiche, con una Theologia Crucis, come meglio essa non si potrebbe presentare «all’uomo nell’era dei codici fiscali». Con ammirevole capacità di visualizzare in un linguaggio comprensibile l’eterna verità di un «Dio, che, pienamente rispettando il libero arbitrio della sua creatura più sublime, non irrompe nella creazione, ma entra nella storia appunto attraverso l'essere umano che vuole avere accanto a Sé nella sofferenza per poterlo avere accanto a Sé nella gloria», Paolo Menon presenta un «Crocifisso» che a ragione suscita particolare interesse. Composto dal solo corpus fatto di lettere e cifre, il cui colore argilla si stacca dal fondo bianco – simbolo di luce, purezza e perfezione -, l’opera sembra non voler altro che sottolineare l’abisso che esiste tra divina armonia universale e disgregante presunzione umana. Che non è così, che questa singolare croce non «trasmette negatività o tristezza» (Stefano Peretti), bensì corrobora una convinta fede nel «salvificus dolor» (Beato Giovanni Paolo II), l’ha già evidenziato – in maniera appropriata – il teologo e pedagogista Stefano Peretti. Ma appunto perché composta da cifre e lettere, questa croce va oltre, interpellando tutti, perché vuol essere «decifrata» secondo la chiave del Prologo di san Giovanni Evangelista (1,912): «Era la luce vera, che illumina ogni uomo, quella che veniva nel Mondo. Venne nella sua proprietà ed i suoi non lo accolsero. Ma a quanti lo accolsero diede il potere di divenire figli di Dio» SEGUE TESTO PUBBLICATO NEL PAMPHLET:

Il capitolo 18 del primo libro dei Re narra la contesa tra Elijah ed i sacerdoti di Baal: un racconto assai attuale anche oggi, anzi proprio oggi. Da un lato il Signore Dio Onnipotente, «invisibile e misterioso», d’altra parte un idolo «comprensibile e prevedibile» (Benedetto XVI), da cui ottenere prosperità in cambio di sacrifici. E simile all’Israele del IX secolo a.C., anche oggi lo stesso credente è esposto alla seduzione dell’idolatria, «illudendosi di poter “servire due padroni” (cfr Mt 6,24; Lc 16,13), e di facilitare i cammini impervi della fede, … riponendo la propria fiducia anche in un dio impotente fatto dagli uomini. Perciò, proprio per smascherare la stoltezza ingannevole di tale atteggiamento, Elijah raduna il popolo di Israele sul monte Carmelo e lo pone davanti alla necessità di operare una scelta: «Se il Signore è Dio, seguiteLo. Se invece lo è Baal, seguite lui» (1Re 18, 21). Il vero Dio si manifesterà rispondendo con il fuoco che consumerà l’offerta. Comincia così il confronto tra il Signore di Israele, Dio di salvezza e di vita, e l’idolo muto e senza consistenza, che nulla può fare, né in bene né in male (cfr Ger 10,5). E inizia anche il confronto tra due modi completamente diversi di rivolgersi a Dio e di pregare»1, tra la fede e la «politica del do ut des». E Benedetto XVI continua: infatti, i profeti di Baal gridano, si agitano, danzano saltando, entrano in uno stato di esaltazione arrivando a farsi incisioni sul corpo, «con spade e lance, fino a bagnarsi tutti di sangue» (1Re 18,28). Essi fanno ricorso a loro stessi per interpellare il loro dio, 26 Beatrice Klakowicz

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facendo affidamento sulle proprie capacità per provocarne la risposta. Si rivela così la realtà ingannatoria dell’idolo: esso è pensato dall’uomo come qualcosa di cui si può disporre, che si può gestire con le proprie forze, a cui si può accedere a partire da se stessi e dalla propria forza vitale. L’adorazione dell’idolo – invece di aprire il cuore umano all’autentica Alterità2, ad una relazione liberante che permetta di uscire dallo spazio angusto del proprio egoismo per accedere a dimensioni di amore e di dono reciproco – chiude la persona nel cerchio esclusivo e disperato della ricerca di sé. E l’inganno è tale che, adorando l’idolo, l’uomo si ritrova costretto ad azioni estreme, nell’illusorio tentativo di sottometterlo alla propria volontà. Perciò i profeti di Baal finiscono con un gesto drammaticamente ironico: per avere una risposta, un segno di vita dal loro dio, essi si ricoprono di sangue e simbolicamente di morte. Torna alla mente quella scena sul Monte Carmelo, guardando quelle venti teste, scolpite da Paolo Menon e sistemate intorno a Dionysos, perché al posto di Baal si può leggere anche Dionysos: ognuno con il proprio παθος, che ricorda il celebre verso di Goethe 3: «Der Menschheit ganzer Jammer fasst mich an», ognuno con una diversa prosopopea, come se egli – ed egli solo – conoscesse la via alla salvezza, ma tutti con l’επιτραχηλιον, sebbene bianco o nero e non blu o rosso come la lunga stola sacerdotale delle Chiese d’Oriente, tutti con il thyrsos, simbolo di fertilità ed immortalità dei culti esoterici, e tutti delimitati dalle mani intrise di sangue, perché tutti convinti che solo il male può vincere il male – e fra le teste c’è anche quella del diavolo con le corna e la lingua di fuori: Un’impressionante εκ?ρασις moderna dell’anticoThiasos – ed il termine significa «brigata, schiera, comitiva» –, che «pone davanti ai nostri occhi … la minaccia che incombe sull’umanità quando si lascia sedurre dalle forze del male»4 ? O non piuttosto unasatura, che concludeva la trilogia tragica con un commento «horaziano», quello del ridens dicere verum5, più gradevole dell’ironia «socratica», perché non offende e non ferisce, ma «diverte», in quanto pronunciato – per così dire – inter poculas. E già i papiri di medicina egiziana della fine del III millennio a.C. consigliavano a chi era abbattuto da tristezza e combattuto da incertezze e rimorsi, di procurarsi «una bella danzatrice e un boccale di buon vino», e ogni problema si sarebbe risolto. «Ispirandosi» alla pedagogia di Elijah, Paolo Menon coglie dunque con una παραδοξια6 il pressante appello di Benedetto XVI, che sollecita «un forte grido profetico contro il male» (ibid.), facendo ricorso ad una «leggiadra», ma pur sempre «salutare “scossa”, che fa uscire (l’umanità) da se stessa, la strappa alla rassegnazione, all’accomodamento del quotidiano, la fa anche soffrire, come un dardo che la ferisce, ma proprio in questo modo la “risveglia”, aprendogli nuovamente gli occhi del cuore e della mente, mettendole le ali, sospingendola verso l’alto» (ibid.)7. Infatti, pur non celando l’ambiguità di Dionysos – ne valga come esempio un confronto tra il grazioso bronzo dal titolo «Prudenza quando giochi con Bacco», con un cratere attico a figure rosse del V sec. a.C. 8, – l’artista sceglie proprio in un’epoca di progressivo relativismo, dove la fede e le certezze si affievoliscono, mentre un esagerato razionalismo rende l’individuo sempre più facile preda d’inganno, il Signore della εκστασις, dell’uscir fuori da sé, dell’illusione affascinante ed affascinata, come interlocutore tra sacro e profano, tra alterità dionisiaca ed Alterità cristiana, per rivelare all’essere umano la verità e condurlo sulla via pulchritudinis – la verità è inscindibile dalla bellezza – e così «percorrere con gioia, coraggio e speranza l’itinerario della vita» (Benedetto XVI), che sbocca in una «comunità» con Dio e tutto 27 Beatrice Klakowicz

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l’universo, non in una «comitiva», incapace di comporre il molteplice nell’unità dell’armonia cosmica. Ma l’opera di Paolo Menon non è solo un «incedere sulla via pulchritudinis» verso la comunità e l’armonia universale. Essa si inserisce, optando per Dionysos come punto di partenza, in quella tradizione, felice e feconda, dei maestri che in momenti di stasi e d’incertezze, hanno saputo conferire all’arte nuovi impulsi per tramandare gli «eterni ed immutabili valori sociali e culturali» con modi e linguaggi adattati ai tempi che cambiano. Infatti, Dionysos non è solo colui, che spezza le catene, che libera dai vuoti e sterili formalismi della consuetudine, che crea una «comitiva senza frontiere», che rimescola le componenti della vita civile e raccoglie in sé tanto l’esigenza della salvezza individuale, quanto le forme di protesta partorite dalle differenze sociali9, imponendo alla stessa assemblea degli Olimpici «l’aspetto dell’Alterità10»; il figlio di Zeus e di Semele rappresenta sin dall’epoca arcaica la componente importante, anzi essenziale – stimolo fondante e forza incoraggiante – nella ricerca degli elementi-chiave che rendono l’arte «una via verso il Trascendente, verso il Mistero ultimo, verso Dio»11: quelli dello spazio e dei contorni, che troveranno il loro compimento nell’opera pittorica di un Paolo Uccello e Andrea Mantegna, e nell’architettura e scultura gotico-cistercense il proprio archetipo. E lo slancio verso l’alto nei calici pro sancta missa di Paolo Menon richiamano appunto le statue che decorano le cattedrali gotiche. Perciò, il seguente breve excursus vuole non solo sottolineare l’importanza proprio di Dionysos nell’elaborazione di nuove espressioni artistiche al servizio di un sempre più profondo sensus religiosus, ma anche e soprattutto l’incisività di queste espressioni «dell’arte dionisiaca» sull’arte cristiana. E in questo caso non si tratta di una semplice acculturazione cristiana di simboli pagani, come per esempio nell’arcosolium delle Catacombe di San Callisto, dove il thyrsos si trasforma in Vexillum Regis, bensì di unpraeambulum ad Fidem, come lo avrebbe chiamato san Tommaso d’Aquino. Già il Mantegna aveva nella, purtroppo distrutta, Cappella Ovetari a Padova concepito il sangue dei martiri, che bagnava i monumenti pagani, come mezzo di purificazione di questi monumenti e quindi del passato, affinché possano inserirsi a pieno titolo nell’opera redentrice del Signore. Fino al termine della sua carriera artistica, Exekias fa opera di creazione; a lui si deve l’invenzione del cratere a calice, che sarà una delle forme favorite dello stile a figure rosse; a lui si deve anche la creazione di un nuovo tipo di kylix, spesso decorata all’esterno con immagini di occhi – i cosiddetti «occhi apotropaici». Ma la coppa a Monaco di Baviera 12, prototipo di questo genere, è per molti aspetti unica: su un fondo rosso corallo – il colore del sangue - scivola, circondata da delfini, la nave di Dionysos, da cui scaturisce una vite alta ed ampia – «rappresentazione misteriosa che prefigura forse il misticismo dionisiaco della fine del secolo»13. Nel susseguirsi di nuove forme, che fanno la loro comparsa prima della metà del V secolo, in armonia con l’evoluzione del pensiero greco, niente è più importante dell’approfondirsi del sentimento religioso. Perciò, gli artisti cominciano a creare nuove 28 Beatrice Klakowicz

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immagini divine, in accordo con la tragedia che inizia a mettere in discussione i rapporti tra dèi e uomini ed impone a questi ultimi la responsabilità individuale dei loro atti. Il problema sta nell’umanizzare il dio senza privarlo della sua grandezza; una frase pronunciata da Aischylos ne mostra la difficoltà: «le statue attuali sono più vive, ma quelle antiche erano più divine». La statuetta di Dionysos da Olympia, conservata nel Louvre, ne offre l’esempio, tanto più chiaro in quanto apporta una nuova interpretazione del più complesso dei tipi divini. Il Dionysos arcaico era un personaggio barbuto, … ora invece è imberbe e giovanile, calzato di stivali da viaggiatore: è il missionario, pronto ad intraprendere il cammino attraverso il mondo per diffondervi il suo culto fatto di misteri. Ma il volto dai nobili lineamenti reca l’impronta divina 14. Nel mosaico di Pella (fine IV sec. a.C.) il corpo di Dioniso è nettamente separato da quello della pantera mediante linee scure, «preannunciando in un certo modo le incisioni di Andrea Mantegna»15. Verso il 170 a.C. Hermogenes, costruttore del Tempio di Dionysos a Teos, le cui opere costituiscono una delle più importanti fonti per Vitruvio, maestro virtuale di Andrea Palladio, aveva già preparato i materiali di marmo per un tempio di stile dorico, ma li trasformò in stile ionico, più leggero ed etereo, «non certo perché le forme, lo stile o la maestà dell’ordine dorico non gli si confacessero, ma perché la ripartizione dei triglifi ed il ritmo della trabeazione erano confusi e creavano disagio»16. «Hermogenes appare così come il vero innovatore e teorico dell’architettura ellenistica, anche se l’influenza degli antichi templi di Ephesos (Artemis) e Didyme (Apollo), … hanno ritardato fino all’inizio del II secolo la trasformazione delle concezioni architettoniche ad opera della nuova estetica»17. – Un’aspirazione analoga, di rendere l’architettura sacra meno «fondata nell’immanenza terrestre» e più «lanciata verso il Trascendente», aveva animata da molto tempo le maestranze dell’architettura cristana – forse proprio sotto l’influsso di Vitruvio. Ma solo un incendio, che nel 1194 distrusse la cattedrale di Chartres, permise loro di mettere a punto alcune esperienze maturate in una lunga ricerca architettonica e dare nascita ad un’architettura europea, il Gotico. Comunque, l’opera di Paolo Menon non si ferma ad essere praeambulum ad Fidem, ma va oltre – plus ultra era il motto di Carlo V –, fedele alla vocazione degli artisti di essere «custodi della bellezza nel mondo», come li definì il Venerabile Paolo VI 18. E citando un verso di un poeta polacco, Cyprian Kamil Norwid19: «La bellezza è per entusiasmare al lavoro, / il lavoro è per risorgere»20, il Beato Giovanni Paolo II afferma21: «In quanto ricerca del bello, frutto di un’immaginazione che va al di là del quotidiano, l’arte è, per sua natura, una sorta di appello al Mistero. Persino quando scruta le profondità più oscure dell’anima o gli aspetti più sconvolgenti del male, l’artista si fa in qualche modo voce dell’universale attesa di redenzione». Le scarse notizie sulla vita di Nonnos di Panopolis, Padre della Chiesa, affermano che egli nacque nel V secolo nell’Alto Egitto, «dove era viva ancora la cultura ellenistica pagana, con i suoi miti fantasiosi ed il culto di Omero»22. La sua gigantesca opera, i Dionysiaca in 25.000 versi raccolti in 48 libri, costituiscono un’autentica megalografia, un «vasto affresco» ricco di divagazioni in cui sono narrate le imprese di Dionysos dalla nascita alla conquista dell’India e alla sua assunzione in cielo come dio della gioia. «Sontuoso, sonoro, appassionato, esuberante, influenzato dalla retorica e dal romanzo: un … genio, sebbene incapace di misura» 23. 29 Beatrice Klakowicz

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Johannes Quasten completa queste informazioni, affermando: «L’autore … compose quest’opera ad Alessandria, (ma) non lascia nessun indizio che lo riveli già cristiano in quest’opera, benché taluno abbia voluto vedere in certe allusioni dei riferimenti alla dottrina cristiana. Comunque questa opera barocca nell’espressione e nello stile, è completamente pagana quanto al contenuto. Si ritiene che Nonno sia l’autore anche della celebre Parafrasi del Vangelo di S.Giovanni, un poema in esametri composto prima del 411, il cui stile presenta molti punti in comune con i Dionysiacache da questi mutua numerosi versi. … Probabilmente la Parafrasi è opera di Nonnos divenuto cristiano. Vi si trovano numerosi riferimenti a Maria sotto il nome di Theotókos»25. Nel nostro contesto non importa tanto il fatto che Nonnos si è convertito, quanto il perché. La plausibile risposta a questa domanda viene suggerita anche dalla peculiare attenzione, che Paolo Menon rivolge proprio alla Croce, soprattutto se pensiamo a sant’Agostino 26, quando afferma: «Nessuno può attraversare il mare di questo secolo, se non è portato dalla croce di Cristo. A questa croce potrà … stringersi anche chi ha gli occhi malati. E chi non riesce a vedere da lontano dove deve andare, non si stacchi dalla croce, e la croce lo porterà». È probabile che fosse la vicinanza con la Scuola Alessandrina ad essere lo stimolo per la conversione di Nonnos. Prima facoltà di teologia cristiana, il suo primo maestro fu Clemens Alexandrinus, pure lui di nascita pagana e convertito alla fede cristiana in un momento non meglio precisato e per ragioni ignoto, seguito da Origenes, definito l’apogeo della Scuola, dotato di una personalità al di sopra di qualsiasi debolezza e di una scienza enciclopedica. Ma l’ultima ratio sarà stata la presenza della Chiesa copta27, che si concentra sin dalla sua costituzione su una accurata traduzione in bohairico dei testi sacri, e dapprima del Libro del Profeta Daniel e degli scritti di san Giovanni Apostolo (Vangelo e Lettere), non in ultimo a causa del suo Prologo: Εν αρχη ην ο λογος, και ο λογος ην προς τον θεον, και δεος ην ο λογος , in quanto doveva richiamare alla mente gli antichi testi egiziani, che inneggiavano al dio come colui che «che con la sua parola ha creato tutto sin dall’inizio». E sempre con un sottinteso riferimento alla mistica egiziana, e perciò alla letteratura funebre, rivestiva non minore importanza nella teologia copta ilDiscorso Eucaristico (Gv 6, 26-58), e dapprima il versetto 56: «Chi si ciba della mia carne e beve il mio sangue εν εμοι μενει καγϖ εν αυτϖ». Infatti, il greco, per quanto la più ricca di forme grammaticali tra le lingue «dell’Occidente», rimane sempre povera nei confronti delle lingue orientali, che dispongono di forme, le quali contengono in sé tutta una splendida esegesi che non necessità di altre spiegazioni. Una di queste forme riguarda il qualitativo, formato dalla stessa radice con il cambiamento della sola vocale, che indica non una semplice azione, come il presente, bensì una disposizione di fondo che si attua, non appena ricevuta una risposta di accettazione. Perciò, se il greco usa sia per il permanere del Signore che per il «comunicante» il presente μενει, rispettivamente μενω, il bohairico legge: «Chi si ciba della mia carne e beve il mio sangue, ΜΕΝ [presente] in me ed io ΜΟΝ [qualitativo] in lui». E vi esiste un’ulteriore giustapposizione. Mentre il qualitativo indica uno stato, una disposizione generale che non cambia, la risposta può essere una volta positiva, un’altra volta negativa. Ma quale che sia la risposta, il Signore rimane sempre presente sub specie, aspettando, senza reagire «con fuoco e spada», come avrebbe fatto 30 Beatrice Klakowicz

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Dionysos, se questa risposta di fede, di cui egli «ha sete» tarda a venire, è una spugna imbevuta di aceto, oppure non viene affatto. Ecco, la tremenda verità sulla libertà umana contenuta e rivelata in una sola parola da tre lettere, ma che implica tutto il dramma dell’agonia sul Gethsemani, dove il Signore purifica e santifica fino in fondo l’umano «Naturwille», per offrirlo e redimerlo nell’accettazione della «volontà del Padre», ma anche le ultime parole sulla Croce, quando Gesù assume in sé fino alle estreme sofferenze la lontananza della pecorella smarrita da Dio28. Resistendo alla tentazione di «auto-redimersi» – Cristo non scende dalla croce – e consegnando il suo spirito nelle mani del Padre, Gesù opera la vera liberazione dell’umanità e di tutta la creazione da ogni male passato, presente e futuro – e Blaise Pascal ascolta il Signore, che gli dice: «Quelle gocce di sangue ho versate per te». – Ecco, la ragione per la conversione di Nonnos e per ogni conversione. – Ecco, perché in un pectorale di Paolo Menon lo Spirito Santo non ombreggia la croce, ma si posa direttamente su di essa «quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene ed il loro indissolubile rapporto»30. Beatrix Erika Klakowicz (Dr. Phil. Dr. Theol.)

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NOTE 1. Benedetto XVI, Udienza Generale del 15 giugno 2011. 2. Per l’alterità dionisiaca cfr. P. Boyance, «L’autre dans les mystères de Dionysos», Atti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia, 33 (1960/61), pp.107sq. 3. Die Leiden des jungen Werther: «Tutto il lamento dell’umanità mi afferra». 4. Benedetto XVI, Incontro con gli artisti, Sabato 21 novembre 2009. 5. Sermones I 1. 6. L’inaspettato, il meraviglioso. 7. Cfr. anche H. Herter, Vom dionysischen Tanz zum kosmischen Spiel, Iserlohn, 1947. 8. Il cimelio, proveniente dalla necropoli etrusca di Spina, si conserva nel Museo Archeologico a Ferrara, mostra Zeus in trono con il piccolo Dionysos sulle ginocchia. Il fanciullo offre il kantharos al padre, il quale tuttavia lo tiene un po’ distante e lo scruta, quasi volesse esprimere una certa diffidenza nei riguardi del dono. 9. Marcel Detienne in: Yves Bonnefoy, Dictionnaire des Mythologies, Flammarion, Paris 1981, s.v. 10. Cfr. P. Boyance, «L’autre dans les mystères de Dionysos», Atti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia, 33 (1960/61), pp.107sq.; A.-J. Festugière, Études de religion grecque et hellénistique, Paris 1972. 11. Benedetto XVI, Incontro con gli artisti, Sabato 21 novembre 2009. 12. Staatliche Antikensammlung, da Vulci, dipinta e firmata da Exekias verso il 530 a.C. 13. François Villard. La Grèce archaïque, Librairie Gallimard, Paris 1968. 14. Jean Charbonneaux, La Grèce classique, Librairie Gallimard, Paris 1969. 15. François Villard, La Grèce hellénistique, Librairie Gallimard, Paris 1970. 16. Vitruvius, De architettura IV, iii, 1, 2. 17. Rolando Martin, La Grèce hellénistique, Librairie Gallimard, Paris 1970. 18. Paolo VI, Messaggio agli Artisti alla Chiusura del Concilio Ecumenico Vaticano II, 8 dicembre 1965 (Enchiridion Vaticanum, 1, p. 305). Sottolineandone necessità e urgenza, papa Montini scrisse allora: «Questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che infonde gioia al cuore degli uomini, è quel frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione. E questo grazie alle vostre mani…». 19.Contemporaneo di Fréderic Chopin, Norwid intende l’arte come una forma di amore, che per essere profonda non può che scaturire da un popolo libero e da un lavoro emancipato. Strenuamente lottando contro la volgarità, Norwid si batte per la dignità individuale coltivata in una sorta di «estetica individuale». 20. Lettera agli Artisti n. 3. 21. Ibid. n. 10. 22. Enciclopedia della Letteratura Garzanti, s.v. 23. Ibid. 24. J. Quasten, Patrologia, II, p. 116 sq. 25. Ibid. p. 117sq. 26. In Ioannis Evangelium Tractatus II 2. 27. Nel 451, dopo il Concilio di Chalcedon, si staccò da questa Chiesa Cristiana d’Egitto il gruppo minoritario dei Melchiti («i seguaci del re»), fedeli al patriarcato ortodosso. Il capo della Chiesa copta è il Patriarca di Alessandria, che dall’XI secolo risiede al Cairo. I Copti celebrano la liturgia secondo il rito alessandrino, l’antica liturgia cristiana detta di Marco. 28. Cfr. al riguardo la riflessione di Benedetto XVI nel II volume di Gesù di Nazareth. 29. Pensées, VII 553. 30. Hans Urs von Balthasar, Gloria. Un’estetica teologica.

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