Officinae Marzo 2013

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Trimestrale internazionale di attualità , storia e cultura esoterica — Anno XXV - Marzo 2013 - n.1


Trimestrale internazionale di attualità, storia e cultura esoterica Anno XXV - n.1 - Marzo 2013 Direttore Editoriale e Responsabile LUIGI PRUNETI Direttore ANNA GIACOMINI Segreteria di Redazione ROBERTO PINOTTI SIMONE TADDEI Comitato di Redazione LINA ROTONDI LUISA CERAVOLO SABRINA CONTI VALERIA DI PACE STEFANO MOMENTÉ FEDERICA POZZI GIANCARLO GUERRERI MATTEO BARTOLETTI RENATA SALERNO Comitato Scientifico VINCENZO CIANCIO ALDO ALESSANDRO MOLA PAOLO ALDO ROSSI IDA LI VIGNI RAFFAELE MARR PAOLO MAGGI RENATO ARIANO BARBARA NARDACCI Consulente Legale PIERPAOLA MELEDANDRI hanno collaborato a questo numero GIULIANO BOARETTO GIUSEPPE CIRILLO PAOLO DE SANTIS MAURIZIO GALAFATE ORLANDI GIUSEPPE IVAN LANTOS IDA LI VIGNI PAOLO MAGGI ALDO ALESSANDRO MOLA ANTONELLA OREFICE LUIGI PRUNETI PAOLO ALDO ROSSI ANNALISA SANTINI JEAN MARC SCHIVO ANTONINO ZARCONE ISABELLA ZOLFINO progetto e realizzazione PAOLO DEL FREO


L.Pruneti - All’insegna del mandorlo fiorito — 2 A.A.Mola - 1814-1861: Il mito della Costituzione spagnola nell’unificazione dell’Italia — 4 A.Orefice - Eleonora de Fonseca Pimentel — 12 I.Zolfino - Toussaint Louverture — 20 G.Boaretto - Massoneria e politica — 30 A.Zarcone - Massoni in divisa: Giovanni Battista Ameglio — 34 M. Galafate Orlandi - Il manoscritto di Cooke — 38 J.M.Schivo - La città massonica — 42 P.A.Rossi - I Misteri di Eleusi — 50 G.Cirillo - Le necropoli di Pompei — 56 L.Pruneti - I vampiri e la ‘Nuova Antologia’ — 58 G.I.Lantos - Cultura mitteleuropea ed ebraismo — 62 P.De Santis - Eredità ed ereditarietà — 68 I. Li Vigni - Homo Homini Diabolus — 72

Sommario

P.Maggi - La Montagna Incantata — 78 L.Pruneti - Per non dimenticare — 82 A.A.Mola - Asterischi — 86 Ex Libris — 88 In Biblioteca — 92 Fregi di Loggia — 95


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l sole ha lasciato il segno dei Pesci ed è entrato in quello dell’Ariete, è tempo d’equinozio, è tempo di Primavera. Primavera, stagione di giorni luminosi, di verde rinnovato, d’incanto e di attese. Non vi è periodo dell’anno più felice di questo, ora ogni sogno sembra realizzabile, ogni progetto possibile. Fra i tanti simboli della Primavera, uno dei più comuni è il mandorlo fiorito. Pianta fausta per eccellenza, venne considerato dagli Ebrei promessa di vita e come tale si ritrova nelle vicende bibliche di Mosé1 e di Giacobbe, mentre Geremia2 udì la voce del Signore che gli domandava cosa vedesse. Quando il Profeta rispose “un ramo di mandorlo”, l’Altissimo disse: “Hai visto bene perché

mente giungere al termine del cammino che conduce a scoprire il tesoro invisibile che è in noi”. Da questo punto di vista, la mandorla potrebbe essere assunta come simbolo massonico. Che cosa è, infatti, il nostro percorso, se non un viaggio nell’interiorità per liberare la parte migliore di noi? Il Visita interiora terrae, rectificando inveniens occultum lapidem non è forse l’incipit del percorso iniziatico? Officinae, in questo numero primaverile dedicato alla ricerca e alla scoperta, propone luoghi particolarmente evocativi, testi fondamentali per lo studio della Massoneria, riflessioni e studi a tutto campo, ma sempre prossimi allo specifico latomistico.

“ Si leva il vento! … E di nuovo la vita! L’aria immensa apre e richiude il mio libro, L’onda il suo fiotto avventa dalle rocce! Volate via, pagine abbacinate! Rompete onde! Rompete acque inebriate… ” Paul Valèry

io vigilo sulla mia parola per realizzarla”. Se il mandorlo è un simbolo positivo, ancor di più lo è il suo frutto che “allude all’interiorità nascosta nell’esteriorità, e perciò racchiude il mistero dell’illuminazione interiore, il mistero della luce”3. Non solo: “in ogni tradizione rompere il guscio della mandorla4 significa allegorica1 Numeri 17, 16-23. 2 Geremia 1, 11-12. 3 A. Cattabiani, Florario. Miti, leggende e simboli di fiori e piante, Milano 2010. 4 Ivi.

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Da segnalare in particolare due nuovi collaboratori: Jean Marc Schivo, architetto di fama internazionale, con la prima parte di un lungo articolo dedicato al progetto di una città “massonica”, e Antonella Orefice, storica affermata, che ci propone un enigma irrisolto: la tomba scomparsa di Eleonora de Fonseca Pimentel. Tanti spunti interessanti dunque da leggere come scriveva Compiuta Donzella nella “stagion che foglia e fiora”. P.2-3: Mandorlo, 2013, (fotografia P.Del Freo).


All’insegna del mandorlo fiorito Luigi Pruneti

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parte II

Aldo A.Mola

1814-1861: Il mito della Costituzione spagnola nell’unificazione dell’Italia 4


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La costituzione siciliana del 1812 Su ordine del plenipotenziario inglese in Sicilia, lord William Bentick, il 1 maggio 1812 Ferdinando di Borbone promulgò la costituzione della Sicilia, subito e generalmente considerata una versione scritta della “Costituzione britannica”, mai scritta. Approvata dall’assemblea provvisoria dell’11 agosto e da quella eletta il 25 maggio 1813, la Carta venne promulgata con i placet del Re, che pro tempore trasferì i poteri al figlio Francesco, duca di Calabria. Essa confermò la legge salica ma previde la successione femminile “se mai il regnante venisse a mancare senza figli (…) estinti tutti i maschi di maschio della sua discendenza”. Istituì due camere, una elettiva, l’altra di Pari, formata dai baroni e dagli ecclesiastici aventi diritto di sedere in parlamento, e confermò che “la religione dovrà essere unicamente, ad esclusione di qualunque altra, la cattolica, apostolica, romana; e che il re sarà obbligato professare la medesima religione; e quante volte ne professerà un’altra sarà ipso facto decaduto dal trono”.

7 - 1817-1820: Le cospirazioni settarie, Massoneria e Carboneria Dal 1814 in Italia non rimase in vigore nessuna costituzione, a parte il regno di Napoli di Murat, destinato a tragica fine l’anno seguente. Il 14 maggio 1814 Vittorio Emanuele I di Savoia proclamò da Genova il ritorno all’ “antico lustro di nostra santa religione”. All’ingresso in Torino, il 21 maggio decretò che “non avuto riguardo a qualunque altra legge, si osserveranno le Regie costituzioni del 1770 e le altre previdenze emanate sino all’epoca del 23 giugno 1800”. Vennero annullate tutte le leggi franco-napoleoniche emanate negli Stati di Terraferma dal 1798, inclusa la parità dei diritti civili e politici di valdesi ed ebrei. Furono ripristinati i tribunali separati per gli ecclesiastici e per i cavalieri dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. Dell’età napoleonica venne tenuta in piedi solo la macchina di controllo poliziesco, molto efficiente, conferita al Corpo dei Reali Carabinieri. Il 14 giugno il re decretò l’abolizione della tortura quale strumento per estorcere la confessione dei reati. Se l’indagato però non rispondeva all’accusa o, a giudizio degl’inquirenti, si fin-

geva pazzo, veniva considerato colpevole e giustiziato nei modi previsti (assai barbarici). Il re promulgò la grazia per i delitti minori commessi prima del 21 maggio precedente e rimise le pene corporali, afflittive e pecuniarie previste, estendendo la grazia anche a quanti, già condannati, stessero espiando. Vennero però esclusi dall’indulto i delitti gravi: lesa maestà, sia divina sia umana; fab5


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bricazione di moneta falsa, fuga dal carcere, parricidio, uxoricidio, fratricidio, infanticidio, assassinio, veneficio, omicidio premeditato o senza causa, incendio doloso, furto con violenza, estorsione a mano armata, ricatto con minacce segrete, falsificazione di scritture pubbliche o private, fallimenti dolosi, furto sacrilego, peculato, furto di bestiame nelle campagne o nelle stalle, truffa o ricettazione dolosa, resistenza alla forza pubblica, specialmente agli agenti fiscali, concussione, malversazione. A ben vedere vennero dunque amnistiati solo reati davvero minori. I recidivi sarebbero stati puniti con aggravio di pena. I parenti dei rei, sia incriminati sia ammessi all’indulto, furono esentati dalla pena dell’infamia, che consisteva nella pubblica denuncia dei loro nomi a perpetua damnatio memoriae. Col 1814 nel regno di Sardegna la responsabilità penale divenne dunque personale, come già nel Codice napoleonico: un piccolo passo sulla via della modernità. Lo stesso giorno Vittorio Emanuele I ribadì l’editto decretato da Vittorio Amedeo il 20 maggio 1794: “proibizione delle congreghe ed adunanze segrete, qualunque ne sia la denominazione loro, e mas6

sime quelle dei così detti liberi muratori”, sotto pena di perdita dell’impiego e inabilitazione ad averne di nuovi. I massoni erano puniti con due anni di carcere se impiegati, cinque anni se cittadini qualunque e dieci se recidivi. Era stabilita inoltre la confisca in tutti i casi di effetti, denari o mobili trovati nelle sale delle adunanze. I delatori sarebbero stati premiati con 500 lire a carico dei rei e con un sussidio regio. Gl’inquisiti sarebbero stati iscritti in apposito catalogo. Governatori, comandanti, vicario di polizia, prefetti e magistrati furono chiamati a “invigilare particolarmente sovra tali adunanze, fare improvvise visite e perquisizioni ne’ luoghi sospetti e sorprenderle, e di procedere sollecitamente contro simili delinquenti”. I Massoni furono dunque indiziati di attentato alla sicurezza dello Stato e dell’ordine pubblico. Vittorio Amedeo III aveva vietato la Massoneria cinque anni dopo la Rivoluzione del 1789, quando la Francia di Robespierre, da due anni in armi contro il suo regno, era sospettata di essere ispirato da Massoni. La Massoneria venne proibita perché considerata rivoluzionaria, come aveva affermato l’abate Lefranc e poi ripeté Augustin Barruel.

Altrettanto fecero nel 1814 Vittorio Emanuele I e gli altri sovrani restaurati in Italia (il duca di Modena, il Granduca di Toscana, Maria Luisa d’Asburgo a Parma e Piacenza, Maria Luigia di Borbone a Lucca...) Il 15 agosto 1814 papa Pio VII richiamò in vigore le scomuniche e le pene stabilite dai suoi predecessori (Clemente XII e Benedetto XIV), inclusa la pena di morte stabilita sin dal 1739 dal cardinal Firrao. Le sette segrete furono proibite, con pene conseguenti, anche nei territori direttamente annessi all’impero d’Austria (il regno Lombardo-Veneto) ove erano state disciplinate ma non vietate durante l’impero pre-rivoluzionario. Comunque, i divieti della Massoneria ribaditi dai sovrani restaurati non ebbero valore retroattivo. Mentre richiamavano in vigore decreti pre-rivoluzionari, i sovrani misero tra parentesi quanto era accaduto negli anni del dominio franconapoleonico. Del resto per quasi dieci o quindici anni, secondo le loro vicende politico-militari, in tutti gli Stati della Penisola italiana (con esclusione di Sicilia e Sardegna) le Logge massoniche erano state non solo notorie ma avevano funto da centro di unione ufficioso e tal-


volta ufficiale per la concertazione tra la dirigenza italo-napoleonica e quella ormai tutta “francese” nelle terre direttamente annesse all’Impero (Piemonte e Liguria). Se non proprio alla luce del sole, le logge erano “pubbliche” e raccoglievano migliaia di personalità di spicco da Roma a Firenze, da Milano a Brescia, Torino. Gran Maestro del Grande Oriente in Italia era il figlio adottivo di Napoleone I, Eugenio di Beauharnais. Altrettanto valeva nel regno di Napoli che ebbe per grandi maestri del suo Grande Oriente Gioacchino Murat, già alto dignitario massonico a Milano, circondato da dignitari dello Stato, militari, magistrati, docenti famosi… I nuovi regimi non avevano una dirigenza da sostituire completamente a quella in carica. Anche perché avvenne all’improvviso, nei pochi mesi tra l’abdicazione di Napoleone e la restaurazione dei sovrani, il cambio fu circoscritto ai vertici e non arrivò agli innumerevoli tentacoli della burocrazia. Perciò molti giovani massoni che avevano dato ottime prove nell’età franco-napoleonica si affermarono nel servizio dei sovrani assoluti. Il caso di Antonio Salvotti, iniziato alla Massoneria in età napoleonica e poi inquirente nei processi a carico di Carbonari e Massoni nel 1820-23 (Pellico, Maroncelli, Confalonieri…) e altissimo magistrato dell’Impero d’Austria, è solo uno tra i moltissimi casi emblematici. A sua volta Ferdinando IV di Borbone, I delle Due Sicilie, revocò la costituzione del 1812 e ripristino proibizioni e condanne delle congreghe segrete. Centinaia di migliaia di persone vennero colpite dalla Restaurazione e si organizzarono in associazioni o società con varie denominazioni, come hanno documentato in molte opere illustri studiosi (Oreste Dito, Giuseppe Leti, Alessandro Luzio, Rinaldo Soriga, Carlo Francovich, Tommaso Pedio, Giuseppe Gabrieli...) Le più importanti furono la Carboneria e la Massoneria. La Carboneria nacque giacobina e antinapoleonica. Ma era e rimase una cornice. Divenne cristiana e nazionale. Contò centinaia di migliaia di affiliati. Non fu dunque una società “segreta”, ma una associazione di massa. Al suo interno o ai suoi margini operarono nu-

clei di Massoni e di altre sette: gli Adelfi (o Fratelli) in Piemonte e i Federati in Lombardia. I governi repressero i settari non per le loro denominazioni, catechismi, ideologie, ma per la loro vera o presunta pericolosità politica: a Macerata, a Fratta Polesine, ovunque vi fosse un sospetto di cospirazione “liberale”, come in tempi recenti è stato ripetuto da Franco della Peruta e da altri studiosi. I settari avevano le loro ragioni, ma anche la Santa Alleanza aveva le sue: dopo vent’anni di guerre e almeno cinque milioni di morti nelle guerre franco-napoleoniche l’Europa aveva bisogno di pace. Tra la repressione di idealisti e la quiete la Santa Alleanza optò decisamente per la prima, a tutto vantaggio dello sviluppo demografico, della produzione (seconda industrializzazione), della trasmissione di beni e messaggi (canali, strade, ferrovie, telegrafo...) Durante la Grande Conservazione (1815-1848) l’Europa compì enormi progressi, che prepararono la Rivoluzione anche tramite la stampa. 8 - L’insurrezione carbonaro-liberale di Napoli del 1820 e l’adozione della Costituzione di Spagna. Lo scontro fratricida tra la Sicilia e Napoli. Su impulso del pronunciamento militare che nel gennaio 1820 chiese in Spagna il ripristino della Costituzione di Cadice, un analogo “moto” iniziò nel luglio 1820 nelle Due Sicilie, per iniziativa di due ufficiali e di un prete, Morelli, Silvati e don Menichini. L’insurrezione ebbe

il sostegno di numerosi militari e chiese al re Ferdinando I la promulgazione della costituzione di Cadice. Dopo giorni convulsi, il sovrano acconsentì, promulgò la Costituzione e giurò sui Vangeli di osservarla, con riserva di modifiche da parte della assemblea che sarebbe stata

Storia eletta proprio in forza della Carta costituzionale. Ma che cosa rappresentava la Costituzione di Cadice per Carbonari, Massoni e liberali del Mezzogiorno d’Italia? Don Menichini dichiarò che aveva avuto troppe cose da fare nei giorni dell’insurrezione e non aveva avuto né tempo né modo di leggerla. Come tanti altri “insorti” la voleva senza sapere che cosa fosse, quali diritti garantisse. Quella Carta era l’etichetta di un cambio: dalla monarchia assoluta alla sovranità della nazione. Lo stesso valeva per le generalità degli affiliati alle sette e per i loro capi. Il fascino della costituzione di Cadice del 1812 non constava nei suoi contenuti, molto modesti sul piano della libertà e addirittura rigidamente conservatori in specie per quella di culto, ma per l’ammirazione suscitata dagli Spagnoli nella Guerra di indipendenza contro Napoleone, Giuseppe I e la Francia di Napoleone I. Non solo: la nazione spagnola divenne il modello per i liberali italiani perché con il pronunciamento del gennaio 1820 spezzò per prima la piastra di

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piombo della Santa Alleanza. Gli Italiani si illusero di fare come in Spagna e per farlo presto e bene ne adottarono la Carta, senza conoscerla: la forza del mito. Molti notabili italiani erano stati iniziati alla Massoneria in età napoleonica, ma le Logge di età francese erano considerate strumento del potere politico. Altri furono iniziati Massoni dagli Inglesi. Il caso più importante è quello di Federico Confalonieri, accettato massone dal fratello del re di Gran Bretagna. Ferdinando I e i suoi ministri e consiglieri accettarono e decisero di promulgare la Costituzione perché era viva la memoria dei torbidi rivoluzionari del ventennio precedente. Il re era cognato di Luigi XVI e di Maria Antonietta. Napoli era lontana dalle capitali della Santa Alleanza. Poiché i militari più prestigiosi, come il colonnello De Concilj e il 8

generale Guglielmo Pepe, si schierarono con gli insorti, il sovrano aderì. Ma i liberali non avevano affatto un piano organico, una regia unitaria. Palermo insorse contro gli insorti e rivendicò l’identità della Sicilia. In poche settimane si ripresentarono motivi secolari di divisione tra l’isola e il continente. Il governo “liberale” decise la repressione armata dell’indipendentismo siciliano. Inviò un corpo di spedizione agli ordini di Florestano Pepe, fratello di Guglielmo, che nei confronti dei siciliani usò la mano di ferro. Fu una piccola guerra civile, da dimenticare. Il liberalismo vi scrisse una brutta pagina. 9 - La risposta della Santa Alleanza (Troppau, Lubiana e la spedizione Frimont) La Santa Alleanza (Russia, Austria, Prussia con la Francia in seconda fila perché il restaurato Luigi XVIII di Borbone era af-

fannato nel farsi riconoscere dall’opinione liberale del paese) non rimase inerte dinnanzi ai moti insurrezionali costituzionali. I governi conservatori non rifecero l’errore del 1792-1798 quando rimasero alla finestra nella convinzione che la rivoluzione minasse dall’interno la Francia come grande potenza. Nel 1820 stabilirono il principio dell’ “intervento” militare per affermare i principi del Congresso di Vienna: pace nell’ordine costituito. Imperatori e re si attribuivano il dovere di impedire ai popoli europei di proclamarsi sovrani e di darsi costituzioni. Erano pedagoghi, speculari ai giacobini. Ogni regime pretendeva di fare gli uomini a propria immagine e somiglianza. Perciò prima nel congresso di Troppau e poi, con maggior decisione, in quello di Lubiana la Santa Alleanza decise di cancellare i regimi costituzionali sia a Napoli sia in Spagna, prima che il loro esempio contagiasse altre terre con conseguenze catastrofiche. Va ricordato che Napoleone I era ancora vivo a Sant’Elena e che era sempre più rimpianto anche dai liberali che sino al 1814 lo avevano combattuto come tiranno. Per Vienna il regno delle Due Sicilie era a portata di mano: bastava attraversare lo Stato Pontificio. Papa Pio VII era prudente sui dettagli e sulle conseguenze che la spedizione poteva avere nei suoi domini, ma era del tutto d’accordo sul suo scopo ultimo: estirpare le sette dalle radici. Infatti era in gioco il primato assoluto della chiesa cattolica in Italia. In sé e per sé la costituzione di Cadice non lo mutava affatto, ma la Santa Sede capì che per i liberali del Mezzogiorno la Carta spagnola era il pretesto per aprire un nuovo corso storico. L’Assemblea nazionale avrebbe potuto modificare la costituzione di Cadice, forse tornando allo spirito e alla sostanza della repubblica Napoletana del 1799. Mentre in Spagna liberali e servili si confrontavano sempre più aspramente, in nome della Santa Alleanza Vienna inviò dunque un’armata agli ordini del generale Frimont per abbattere il governo costituzionale delle Due Sicilie. Ferdinando I di Borbone, spergiuro, dall’estero ordinò ai regnicoli di schierarsi con i soccorritori/occupanti. Il duca di Calabria fu più cauto. La rivoluzione libera-


le ebbe le ore contate anche perché indebolita dal conflitto fratricida fra la Sicilia e Napoli, tra il baronato e frange liberali dell’Isola e la capitale di uno Stato che tentava la via dell’unione tra diverse nazioni separate da secoli di storia. 10 -La “rivoluzione piemontese” del marzo 1821: Santa Rosa, Marentini, il Principe Carlo Alberto di Savoia e l’adozione della Costituzione di Spagna. Vienna decise l’intervento nel timore che esistesse davvero una rete cospirativa internazionale capace di scatenare una nuova rivoluzione generale. Nel 1817 si erano registrati moti settari in città di modesta importanza. A Fratta Polesine vennero scoperti e arrestati una manciata di notabili nostalgici dell’età napoleonica: un cenacolo di illusi, niente affatto pericolosi. Ma l’imperial-regio governo ritenne di dover infliggere una punizione esemplare. In modo casuale nell’ottobre 1820 la polizia scoprì la trama di carbonari lombardi, imperniati su Piero Maroncelli (anche massone), Silvio Pellico e il conte Luigi Porro Lambertenghi (carbonari), amico di Federico Confalonieri (massone): personaggi che si collegavano al costituzionalista Gian Domenico Romagnosi, massone di spicco in età napoleonica ma ormai del tutto in disparte, e ad altri settari, veri o presunti, in parte già collaboratori di “Il Conciliatore”, periodico liberale milanese di respiro europeo. Malgrado le indagini più accurate, la polizia non accertò nulla di veramente pericoloso. I “federati” lombardi erano collegati agli “adelfi” piemontesi e tutt’insieme avevano contatti con carbonari e con qualche massone, ma la trama politico-militare rimase debole. Infatti nessun liberale del LombardoVeneto si mosse in aiuto del regime costituzionale del Napoletano. Nel marzo 1821 iniziò invece il moto liberale nel regno di Sardegna. Nel gennaio a Torino si era registrato un episodio emblematico: alcuni studenti furono arrestati perché entrarono in un teatro con cappelli i cui colori, contrariamente al vero, vennero ritenuti emblema della carboneria. All’Università avvennero proteste schiacciate con le armi. I feriti ebbero le attenzioni di Cesare Balbo, di sentimenti liberali, e di Carlo Alber-

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to di Savoia, principe di Carignano. La tensione crebbe sino a quando alcuni reparti militari si mossero verso Torino ove il 12 marzo una folla in piazza chiese la costituzione, dapprima in modo confuso, poi quella spagnola: la costituzione di Cadice. Nel tumulto venne ucciso il comandante della Cittadella, unica vittima dell’insurrezione. Carlo Alberto, che nei giorni precedenti aveva avuto due colloqui con giovani cospiratori liberali, dialogò con i dimostranti. Il re, Vittorio Emanuele I di Savoia, rifiutò ogni trattativa e, dopo una giornata di consultazione col governo, decise di abdicare a favore del fratello, Carlo Felice, in quel momento a

Modena, ospite del genero. Affidò la reggenza a Carlo Alberto e partì per Nizza. Scordò di firmare l’atto di abdicazione e rimase nei confini del regno. Dopo molte esitazioni, incalzato dall’ “impero delle circostanze” e per “rendere al nuovo Re salvo, incolume e felice il suo popolo, e non già straziato dalle fazioni e dalla guerra civile”, il 13 marzo il principe reggente Carlo Alberto annunciò che avrebbe proclamato la costituzione spagnola, insediò una ampia “giunta provvisoria” di governo, in attesa della elezione dell’Assemblea nazionale, e il 15 la promulgò e giurò la Carta, con riserva che venisse confermata dal sovrano legittimo, al quale sin dal 13 dichiarò for9


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malmente piena “sommessione”. Carlo Alberto era stato creato conte dell’Impero da Napoleone I. Dall’infanzia aveva conosciuto guerre civili e grandi guerre. Una Carignano, la principessa di Lamballe, era stata assassinata dalla plebaglia di Parigi, che le staccò la testa e la portò su una picca sotto le finestre della regina Maria Antonietta di cui si diceva fosse stata amante. Conosceva bene anche le divisioni all’interno di aristocrazia, militari, funzionari, liberi professionisti di un Paese anfibio e bilingue come il regno di Sardegna da poco ingrandito con l’annessione della Liguria. Il timore della guerra civile era dominante. Il 16 marzo fece pubblicare la costituzione spagnola in traduzione italiana ufficiale dalla stamperia reale per renderla famigliare ai cittadini. Vi enunciò due modifiche: la successione al trono rimase vincolata alla legge salica, cioè alla successione di maschio in maschio “quale si trova stabilito dalle antiche leggi e consuetudini di questo regno e dai pubblici trattati”; “la religione cattolica apostolica romana sarà quella dello Stato, non escludendo però quell’esercizio di altri culti, che fu permesso insino ad ora”. La Carta di Cadice aveva senso per gli Spagnoli, ma gli abitanti del regno di Sardegna non avevano alcun motivo di considerarla propria. Era una bozza. Gli Stati italiani avevano sperimentato tante costituzioni e molti statuti costituzionali. Non avevano bisogno di leggere quella Carta. Perciò anche dai “piemontesi” la costituzione di Cadice venne considerata non solo come provvisoria ma come estranea, anche se forse apprezzarono gli articoli 6, 7 e 8 del titolo II: “L’amore della patria è uno degli obblighi principali di ogni spagnolo, non meno che l’essere giusto e benefico...” Santorre di Santa Rosa, che fu tra i maggiori protagonisti della “Rivoluzione piemontese”, scrisse che preferiva la costituzione siciliana del 1812: due Camere, anche se egli stesso, di piccola nobiltà e privo di mezzi, non aveva alcuna speranza di farne parte. Da patriota non pensava a sé, ma al Paese. 11 - La Massoneria e i moti costituzionali del 1820-1821 La Massoneria ebbe un ruolo determinante nella rivoluzione piemontese del


1821? La risposta è no. Certo alcuni suoi attori erano stati affiliati a logge, ma non esiste alcuna prova che vi sia stata una regia unitaria, con obiettivo coerente. Anche all’epoca vi erano molte e diverse massonerie, massoni attivi e quotizzanti, massoni in sonno, ma, ripetiamo, non vi era alcun centro direttivo unitario e univoco. Vi erano Massoni monarchici, repubblicani, federalisti, filofrancesi, filobritannici, indipendentisti: un caleidoscopio di posizioni perché tutti insieme mancavano di una figura di riferimento, come era stato Napoleone negli anni 1805-1814 e sarà poi Casa Savoia dal 1859. Sulla base della documentazione acquisita si può dire che nel 18201821 nei moti vi furono anche Massoni. Di Michele Gastone, sempre considerato una eminenza grigia del moto, si sa che venne fermato e rilasciato. Ancora non si sa perché. Sulla scorta di un antico articolo di Giorgio Spini, di quasi sessant’anni addietro, è stato ripetuto che i Massoni cercarono di diffondere qualche centinaio di copie di costituzioni, specialmente di quella di Cadice: è però un fatto del tutto irrilevante perché dall’aprile 1821 l’Austria ebbe il pieno controllo dell’Italia. Essa sconfisse senza sforzo i costituzionali delle Due Sicilie e fece fuggire quelli del regno di Sardegna. Carlo Felice dette tempo affinché i liberali potessero riparare in esilio. Si può dunque parlare di partecipazione di massoni, non di un disegno della massoneria. Tra i massoni notevoli del 1821 va tuttavia ricordato un ecclesiastico: monsignor Bernardo Marentini, presidente della giunta provvisoria di governo del regno di Sardegna, affiliato dal 1814, proprio alla vigilia della Restaurazione. Al crollo del regime costituzionale si rifugiò a Lione e vi rimase dieci anni. 12 - L’eredità del biennio liberale italiano: gli Statuti del Rito scozzese antico e accettato del 1821. Nel marzo 1821, proprio alla vigilia della sconfitta dei costituzionali da parte degli austriaci, a Napoli venne pubblicata la Costituzione del Rito scozzese antico e accettato. Fu un atto simbolico: come Hiram, la libertà morì ma lasciò alle sue spalle un atto formale: la Costituzioni dell’Ordine, un messaggio a futura memoria.

13 -Spagna, Portogallo e Americhe, rifugio e palestra di liberali e settari italiani Molti liberali italiani scamparono alla repressione fuggendo all’estero. L’esilio divenne un destino non solo individuale, come era stato con Ugo Foscolo che dopo il crollo del napoleonico regno d’Italia e dei sogni di libertà preferì migrare in Inghilterra. L’esilio fu la profezia dell’Europa nuova: quella dei popoli, delle “nazioni” sovrane, come enunciato dalla Costituzione di Cadice. Dal 1821 la lotta però non ebbe più per obiettivo quella Carta, che vincolava a una sola religione, precisamente alla fede cattolica. Sia nella Penisola iberica, sia a fianco dei Greci contro il secolare dominio turco, sia nelle Americhe i patrioti italiani costretti all’esilio impararono a battersi non per una costituzione rigida o per il sovrano di una Casa regnante ma per principi ideali superiori, per i diritti dell’uomo e del cittadino. Fu il caso di Santorre di Santa Rosa. 14 -Lo Statuto di Carlo Amedeo Alberto di Savoia come punto di arrivo e volano del liberalismo italiano. La sua lunga durata. Nel 1823 Carlo Alberto partecipò alla spedizione dei centomila “figli di San Luigi” inviati da Luigi XVIII di Borbone d’intesa con la Santa Alleanza e il benestare della Gran Bretagna per la repressione dei liberali in Spagna e si distinse nell’assedio del Trocadero. Nell’aprile 1831 salì al trono. Diciotto anni dopo, il 4 marzo 1848, nel quadro della Rivoluzione in corso in tutt’Europa, promulgò lo Statuto del regno di Sardegna: appena 84 articoli. Il 24 recita: “Tutti i regnicoli qualunque sia il loro titolo o grado sono uguali dinanzi alla legge”. Il 17 febbraio era stata decretata l’uguaglianza dei diritti civili e politici dei valdesi (e quindi di evangelici e protestanti). Poche settimane dopo altrettanto avvenne per gli ebrei. L’articolo 1 dello Statuto affermò che “La religione cattolica apostolica e romana è la sola religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi”: come già nel marzo 1821. Molto più avanti della Costituzione di Cadice e delle altre costituzioni italiane del 1848. Quella promulgata da Ferdinando II di Borbone a

Napoli recitava infatti che la cattolica era la sola religione dello Stato e le altre erano proibite. Mai iniziato in loggia, forse Carlo Alberto fu un massone “sotto la volta del cielo”? Di sicuro sappiamo che il suo Statuto rimase in vigore sino al 1

Storia dicembre 1847. Quella di Cadice terminò il suo ciclo, importante ma caduco, nel 1823. Il suo mito tuttavia rimase efficace e alimentò l’ansia di libertà anche in Italia. _______________ Bibliografia: C.Ghisalberti, Dall’Antico regime al 1848. Le origini costituzionali dell’Italia moderna, Bari, 1974. A.Aquarone – M. d’Addio, G. Negri, Le costituzioni italiane, Milano, 1958. J.A.F.Benimeli, Las Cortes de Cadiz, América y Masoneria, in AA.AA., Cortes y Constitucion de Cadiz 200 anos, dir. J.A. Escudero, Madrid, 2011, vol. II, pp. 69-97. J.A.F.Benimeli, Masoneria espanola contemporanea. I, 1800-1868, Madrid, 1980. F.Mastroberti, Pierre Joseph Briot. Un giacobino tra amministrazione e politica, Napoli, 1998. G.Marsengo - G.Parlato, Dizionario dei Piemontesi compromessi nei moti del 1821, Comitato di Torino dell’Istituto Italiano per la storia del Risorgimento, Torino, 1982, voll. 2. AA.VV. La Carboneria, Rovigo, 2003. F.Ambrosini, Piemonte giacobino e napoleonico, Milano, 2000. A.A.Mola (a cura di), Sentieri della libertà e della fratellanza ai tempi di Silvio Pellico. Atti del Convegno, Saluzzo, 1990, Foggia, 1991. A.A.Mola (a cura di), Saluzzo e Silvio Pellico nel 150 de ‘Le mie prigioni’, Atti del Convegno di studio, Saluzzo 30 ottobre 1984, Torino, 1984. A.A.Mola (a cura di), Silvio Pellico cristiano, carbonaro profeta della Nuova Europa, Milano, 2005. L.Contegiacomo (a cura di), Spielberg. Documentazione sui detenuti politici italiani. Inventario 1822-1859, Rovigo, 2010.

P.4, 6, 7, 8, 9 e 10: Monumento alla Costituzione, Plaza de España, Cadiz; p.5 in alto: Corte di Cadiz, il Giuramento del 1810, stampa; p.5 in basso: Pagina di incipit di una riproduzione della Costituzione Spagnola del 1812.

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Eleonora de Fonseca Pimentel Il mistero della Tomba scomparsa Antonella Orefice

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l 20 agosto 1799 finiva nella piazza del Mercato a Napoli la vita della marchesa Eleonora de Fonseca Pimentel, grande protagonista della Repubblica Napoletana. La vita della Pimentel è stata da sempre costellata di incertezze, dalla sua data di nascita (Roma, 13 gennaio 1752), rimasta dubbia fino agli inizi del Novecento, all’unico ritratto di lei in nostro possesso che, come riporta Benedetto Croce nell’Albo Storico sulla Rivoluzione Napoletana del 1799, non sarebbe autentico, bensì postumo e realizzato attraverso il ricordo di chi l’aveva conosciuta (Fig.1). Ma fu la morte ad avvolgerla nel suo più grande mistero: il luogo della sepoltura. Condannata a morte dal dispotico Re Borbone, Ferdinando IV, con l’accusa di Rea di Stato, per essere stata la redattrice del Monitore Napoletano durante i sei mesi della Repubblica, la Pimentel salì sul patibolo il 20 agosto del 1799 dopo essere stata rinchiusa settimane nelle carceri della Vicaria. Secondo i registri dei Bianchi della Giustizia, i monaci che avevano il triste compito di assistere i condannati a morte, il cadavere fu seppellito nel-

la chiesa di S. Maria di Costantinopoli, una piccola congrega funeraria, demolita poi nel primo Ottocento. Nonostante la fioritura dei testi, nessun ricercatore ha tentato di andar oltre il luogo comune secondo il quale, scomparendo il sito che aveva ospitato la salma, fosse scomparsa anche questa. Qualsiasi biografia finisce in Piazza Mercato con l’esecuzione del 20 agosto del 1799 e tutte alla fine stendono un velo sulla questione della sepoltura. In diversi testi di toponomastica storica esistono elencati ben cinque riferimenti a chiese intitolate a S. Maria di Costantinopoli site nel quartiere Mercato alla fine del 1700: Chiesa di S. Maria di Costantinopoli ai Barrettari, dei funari e campanari / Chiesa di S. Maria di Costantinopoli alla strada dei foretani / Confraternita di S. Maria di Costantinopoli in Santa Caterina in Foro Magno / Cappella di S. Maria di Costantinopoli dei fusi e cocchiari / Chiesa di S. Maria di Costantinopoli a Santo Eligio (fratelli cappellisti). La molteplicità dei siti è stato, senza dubbio, uno dei motivi che hanno scoraggiato gli studiosi. Eppure, se prima di intraprendere una così ardua indagine si fosse

concentrata un po’ più l’attenzione sulla testimonianza dei Bianchi, si sarebbe scoperto che essa conteneva la chiave per una indagine più mirata. Come scriveva Luigi Conforti: “I documenti non basta raccoglierli, bisogna esaminarli”. Di seguito sono integralmente riportati i passi relativi all’esecuzione del 20 agosto 1799 tratti dai registri dei Bianchi della Giustizia; le omissioni riguardano note d’ufficio tra i confratelli celebranti il triste rito. “Immediatamente eseguita la giustizia si dia sepoltura ai cadaveri dei nominati Colonna e Serra, lasciando sospesi sul patibolo gli altri, cioè Vescovo Natale, Lupo, Piatti e Fonseca Pimentel che poi nel giorno seguente dovranno essere sepolti. Si uscì dal Castello alle ore 18 e mezza passate e giunti al largo del Mercato per l’esecuzione, si incamminò al patibolo Don Giuliano Colonna e gli altri sette pazienti furono condotti nel guardione da Birri del Mercato dove venivano assistiti dai nostri fratelli nel mentre si eseguiva la giustizia del Colonna e così si praticò agli altri fino all’ultima che fu la Fonseca Pimentel, i quali disgraziati riferirono dai rispettivi criminali tutti bendati, e così 13


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furono decollati i primi due e affocati gli altri. Tutti e otto morirono con non equivoci segni di vero e noto pentimento delle loro passate colpe, e speriamo che diano al pregante negli altresì riposi a godere quella gloria che per darcela in confessione si faticò con tanto impegno a premura, augurando la sorte che vogliano implorare dal cielo alla nostra Compagnia tutta quella copia di luci e grazia che sono necessarie per una tanta opera di pietà e

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contemporaneamente preppiù la medesima nello zelo a favore di essi sempre rifugge. Lo stato di Eleonora Pimentel Fonseca è il seguente. Ella ha due fratelli, il primo si chiama Don Michele il quale ha moglie che abita in Chieti ed ha due figli ed è incinta. L’altro si chiama Don Giuseppe, ha moglie chiamata Donna Patronilla, che abita alla strada dei Greci numero 26 ed ha un ragazzo ed una ragazzina di tenera età tutti e due.

(Fig. 2) I cadaveri di Domenico Piatti e Lupo furono sepolti nella chiesa di Santa Maria di Costantinopoli. Gli altri due di Antonio Piatti e Pimentel si dovevano seppellire nella chiesa di S. Caterina al Mercato, ma essendo venuta una considerevole pioggia, si mandarono a prendere dalla forca ove erano sospesi dai becchini, e furono sepolti nella stessa chiesa di Santa Maria ove furono sepolti vestiti interamente come furono spiccati”. Ad un’attenta lettura queste scarne annotazioni hanno fornito dei particolari di fondamentale importanza. Innanzitutto, è stato possibile stabilire che Eleonora nel 1799 aveva in vita solo due fratelli, Michele e Giuseppe; di quest’ultimo, sempre dai Registri della Congregazione dei Bianchi, si sono accertati l’arresto e la condanna a morte prevista per il 26 ottobre dello stesso anno, e fortunatamente non eseguita. Per quel che concerne Michele, maggiore dell’esercito, egli morì ottantenne, lasciando in vita solo una ragazza nubile di nome Eleonora, come la celebre zia. Ad Eleonora non fu concesso il privilegio (riservato solo ai nobili) della decapitazione, nonostante fosse marchesa. Arrivò bendata al patibolo con quella stessa fermezza di spirito con cui aveva affrontato la vita. Secondo le disposizioni date, il suo corpo sarebbe dovuto rimanere un solo giorno sulla forca, tuttavia, la Cronaca dei Bianchi e quella di Diomede Marinelli concordano nel riportare che, subito dopo le esecuzioni, sopravvenne un forte temporale estivo interpretato dalla folla superstiziosa come un castigo divino: la pioggia torrenziale si mescolò al sangue dei martiri e inondò tutta la piazza. I cadaveri di Eleonora e degli altri patrioti giustiziati in quel giorno (i Piatti, padre e figlio, e Vincenzo Lupo) furono frettolosamente rimossi e sepolti nella chiesa di S. Maria di Costantinopoli, prossima al patibolo, anziché essere portati fino a quella di S. Caterina al Mercato, un po’ più distante. La scelta della chiesa avvenne, dunque, solo per ragioni pratiche e non altro. (Fig.3) Da una pianta topografica del tempo, l’unica chiesa che rechi una tale intitolazione e sia prossima alla piazza del Mercato era quella di S. Maria di Costantinopoli nel complesso religioso di Sant’Eligio. Della chiesa di S. Maria di Costantinopoli ubicata nel Fondaco del-


la Corona, al vico Campane a Santo Eligio, presso l’Archivio Storico Diocesano di Napoli, esiste ancora qualche documento dal quale è stato possibile stabilire come nel 1836 essa fosse definita angusta ed esaurita, per poi sparire del tutto dalle mappe topografiche di metà Ottocento. D’altra parte, proprio nel 1836, il complesso religioso di S. Eligio risultava aver subito mutamenti per l’abbattimento di alcuni edifici ad esso appartenenti. La notizia è riportata anche nel testo di Carlo Celano Notizie del bello e del curioso della città di Napoli, ripubblicato con degli aggiornamenti nel 1859 a cura di Gian Battista Chiarini. Nel 1836 il pio luogo fu di nuovo restaurato a cura dell’arch. Orazio Angelini. Il risanamento edilizio operato nel quartiere Mercato a partire dal 1886 finì col trasformare l’intera zona, inghiottendo vicoli e fondachi nella costruzione dell’attuale Corso Umberto I. Successivamente, i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale hanno determinato la definitiva modificazione urbanistica dell’area. Ciò nonostante, proprio sul lato sinistro della chiesa di S. Eligio, quello che dà su piazza Mercato, è stata posta una colonna di marmo che fa da supporto ad un’edicola con un crocifisso; essa ricorda il punto preciso dove sono avvenute centinaia e centinaia di esecuzioni. Ma come può una chiesa sparire senza lasciare traccia? Dove sono finiti i resti di Eleonora e di tutti coloro che in quel luo-

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go erano stati seppelliti? Tra le ipotesi c’è quella della traslazione dei defunti dalle chiese soppresse al nuovo cimitero di Poggioreale; tuttavia, nel Registro Generale delle Congreghe del 1840, custodito presso l’Archivio Storico del cimitero di Poggioreale di Napoli, non vi è traccia di una congrega intitolata a S. Maria di Costantinopoli. Le prime congreghe sorte nel cimitero di Poggioreale intorno al 1836 (lo stesso anno in cui sono avvenuti i restauri dell’architetto Orazio Angelini nel complesso religioso di S. Eligio) erano state ubicate tutte all’interno del chiostro monumentale e riportavano lo stesso nome del quartiere da cui erano state tra-

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sferite in seguito alle nuove disposizioni relative alle Terre Sante emanate durante il decennio francese (1806-1815) e poi riprese da Ferdinando II nel 1836. Il chiostro rappresenta un raro esempio di architettura claustrale, realizzata secondo il gusto neoclassico, ed è circondato da numerose cappelle gentilizie collocate sotto un portico che disegna un rettangolo dalle ampie dimensioni. Cento colonne di travertino in stile dorico conferiscono al sito un aspetto molto suggestivo. Realizzato in epoca successiva al decennio francese e completato da Ferdinando II nel 1836, esso ospitava le salme di nobili e di membri delle confraternite e delle congreghe religiose. Al centro del chiostro, imponente e misteriosa, campeggia una statua marmorea, che assumerà un ruolo fondamentale ai fini di questa ricerca: La Religione dello scultore napoletano Tito Angelini. (Fig.4) La statua rappresenta una Madonna posta su di un piedistallo con un’aureola a raggiera; sul lato destro regge una croce mentre nella mano sinistra leva la palma della Gloria. Ci sono quattro angeli inginocchiati ai suoi piedi, tutti con lo sguardo rivolto verso il basso: il primo sulla destra ha le braccia incrociate sul petto e un fiore tra le mani, quello alle sue spalle ha una mano sul cuore e nell’altra tiene una ghirlanda; sulla sinistra è inginocchiato un terzo angelo dall’espressione assorta in preghiera mentre alle spalle siede l’unico messaggero, privo di ali. Pare che queste siano andate distrutte in 15


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seguito al disinnesco di una bomba che, però, non provocò ulteriori danni, né al chiostro, tanto meno alla statua. Con il braccio destro il quarto angelo regge uno scudo crociato, mentre nella mano sinistra tiene una spada, alla cui estremità dell’impugnatura vi è la testa alata di un putto. Dei quattro lati del piedistallo centrale dove è posta la Madonna, su due di essi sono incisi degli epitaffi: Ferdinando II Borbonio regnante, senatus populus que neapolitanus, quo jura Piorum Manium sanatoria in Christi tutela forent. Sepolcretum A.D. MDCCCXXXVI ed Ecce Ego Iesuchristi religio, apeniam in sono tubae sepulcra vestra, ut dormientes in polve-

re, excientur in vitam aeternam, palmam gloriae, sub crucis signo recepturi. Sul lato anteriore si trova il bassorilievo di un angelo che spicca il volo, mentre sul posteriore lo stemma dei Borbone. Le cappelle riservate che si affacciano sul chiostro monumentale sono quasi tutte intitolate alle congreghe di quartiere curate dai religiosi appartenenti all’ordine dei Bianchi della Giustizia, o alle tante famiglie blasonate del tempo, come i Caracciolo, i Ruffo, i Pignatelli. (Fig.5) Ubicata al N. 22, esiste anche quella dei Pimentel Fonseca, intitolata a CLEMENTE FONSECA anno 1849. Attraverso la massiccia porta, sovrastata da una grata nella parte superiore, a malapena si riesce a leggere una lapide: Clemente Fonseca, Generale del Genio, nato il 3 agosto 1797 e morto il 6 novembre 1865, nipote di Eleonora, figlio di Giuseppe. Gli Atti ottocenteschi relativi alla cappella sono custoditi presso l’Archivio del cimitero di Poggioreale e sono collocati nel fascicolo 39, incartamento 14. Il titolo di marchese risulta più volte nei documenti relativi alle traslazioni di cadaveri avvenute nel primo Ottocento (1843 e il 1848) dalla congrega di S. Maria delle Grazie a Toledo alla cappella di famiglia. Si tratta dei resti di Ferdinando e Giulio Fonseca, rispettivamente zio e cugino di Eleonora, coloro che si erano trasferiti da Roma, assieme alla sua famiglia, a Napoli e con i quali aveva convissuto durante gli anni dell’adolescenza. È’ probabile che la data di erezione della cappella non sia corretta, dal momento che quei cadaveri risultano già essere stati traslati anteriormente al 1849. La traslazione dei resti di parenti contemporanei e diretti potrebbe far supporre che la stessa Eleonora abbia trovato lì sepoltura; considerata, però, la feroce censura borbonica di quegli anni, il passaggio deve essere avvenuto in gran segreto, senza che se ne facesse menzione scritta. Tra i documen-


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ti della cappella gentilizia ritornano a più riprese i nomi di famiglia; tuttavia, per quanto attiene a tutta la documentazione ottocentesca, traspare il timore politico dovuto certo alla vicenda della celebre antenata, bandita anche nella memoria. Solo dopo il 1860, con l’Unificazione dell’Italia e gli studi commemorativi del primo centenario, i parenti dovettero sentirsi più liberi dal timore persecutorio abbattutosi su di essi in epoca borbonica. Questo è provato da un documento del 1920, in cui è possibile trovare l’unico riferimento al cognome intero con titolo nobiliare annesso, Marchese de Fonseca Pimentel (evidenziato in rosso). La cronologia non lascia pensare a un controllo politico, quanto alla mano di uno storico, con molta probabilità quella di Benedetto Croce. Questa, che per adesso è data come una supposizione, troverà forse in seguito un suo fondamento. L’interno della cappella Fonseca, tuttora adibita ad accogliere i defunti di famiglia, è quello tipico delle cappelle gentilizie ottocentesche. Nel tetro ipogeo, a cui si accede scendendo per una minuscola scala posta dietro l’altare, esistono numerose

cellette, piccoli siti creati per i resti dei bambini o di coloro dei quali erano rimasti solo mucchietti di ossa. Alcune risultano vuote, altre chiuse da lapidi illeggibili. Tra le nicchie più antiche poste sui quattro lati dell’ipogeo, proprio di fronte a quella di Ferdinando e Giulio Fonseca, ne esiste una diversa dalle altre sulla cui lapide è stato posto il bassorilievo di un uomo. Si tratta della tomba di Antonio Fonseca, nato il 4 luglio 1859 e morto il 23 marzo 1897, e di sua moglie Eleonora, della quale però non esistono date di riferimento né sulla lapide, né agli atti archiviati. Chi è questa misteriosa Eleonora ricordata su una tomba di cent’anni dopo? È stato forse posto quel bassorilievo a custodire un secolare segreto di famiglia? (Fig.6) Uscendo nel chiostro, ecco stagliarsi imponente la statua di Tito Angelini. Tutti e quattro gli angeli guardano verso il basso, intenti a pregare sul primo grande ipogeo comunale situato proprio nell’area verde del quadrato monumentale. Ma è la posizione assunta della palma della Gloria tra le mani della Madonna che sembra voler indicare un punto pre-

ciso alla destra del chiostro, e non solo. L’angelo scolpito in bassorilievo sul lato anteriore del piedistallo spicca il volo verso destra ed anche il messaggero con le braccia incrociate sul petto ha tra le mani un fiore che punta a destra e con esso una parte dell’indice. Il punto indicato è proprio quello dove è situata la cappella gentilizia di Clemente Fonseca. Negli artisti del XVIII e XIX secolo è facile rinvenire un certo gusto per l’esoterico, il mistero, la storia e le leggende. Anche la statua di Angelini sembra custodire in sé un suo segreto. Frequentando la corte, Eleonora doveva aver conosciuto parecchi nobili e cortigiani, tra cui forse lo stesso Costanzo Angelini (1760-1853), pittore e ritrattista della corte borbonica e padre di Tito (1806-1878), autore della statua La Religione, realizzata nel 1845. (Fig.7) Tito Angelini deve aver ereditato dal padre e dal suo tempo un’impronta storica notevole per quel che concerne la rivoluzione del ’99. Aveva trascorso la sua prima giovinezza durante il decennio francese, poi tornarono i Borbone e le loro oppressioni. L’artista, come tanti, 17


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fig.8

visse quei momenti con grande inquietudine, scolpendo nel proprio cuore il sacrificio dei martiri della libertà. In quegli anni anche le opere d’arte erano bandite e censurate per il preciso intento dei Borbone di cancellare dalla memoria dei posteri i sei mesi della Repubblica del 1799 e i patrioti che per lei avevano sacrificato la vita. I ritratti, come i documenti, andarono dispersi, altri furono tenuti nascosti dalle famiglie dei patrioti uccisi, dai loro amici e dai collezionisti ed alcuni vennero alla luce solo con l’Unificazione dell’Italia e le celebrazioni del primo centenario promosse da Spinazzola, allora sovrintendente del museo di San Marti18

no, e dagli storici Croce, d’Ayala, di Giacomo e Ceci. Il cimitero di Poggioreale fu reso funzionale a partire dal 1836, ma Tito Angelini lavorò alla statua de La Religione fino al 1845, proprio nel periodo durante il quale erano avvenute le traslazioni delle salme di Cesare e Ferdinando Fonseca e, in incognito, anche quella di Eleonora. Probabilmente fu informato della traslazione da S. Maria di Costantinopoli dal parente architetto Orazio Angelini, che aveva eseguito i lavori di restauro del complesso religioso di S. Eligio nel 1836. Fu allora che, pur se messo a tacere dalla censura borbonica, Tito Angelini pensò di suggellarne il segreto

nella sua opera, dando un preciso indirizzo della cappella di famiglia attraverso quei particolari che indicano tutti la destra del chiostro. Gli angeli guardano verso il prato, l’ossario, dove riposano i resti mortali probabilmente anche degli altri martiri del 1799. Un messaggio forse troppo chiaro e anche molto suggestivo. Lo scultore avrebbe voluto ricordare Eleonora e gli altri martiri liberamente, ma durante gli anni della Restaurazione fu costretto a usare un linguaggio simbolico. Solo dopo l’Unità d’Italia poté esprimersi senza censure, divenendo il più rigoroso interprete di quel sacrificio rivoluzionario, tanto che la strada antistante Castel Sant’Elmo, il sacrario dei martiri della libertà, porta il suo nome. (Fig.8) I quattro bassorilievi, da lui realizzati negli anni successivi al 1860, raffiguranti gli ultimi momenti di vita dei protagonisti della Rivoluzione del 1799, rappresentano la più grande opera scultorea di carattere celebrativo-risorgimentale di quel periodo e la prova del sentimento che mosse Angelini nel ’45 a celare nella sua opera il segreto della


tomba di Eleonora. Essi pervennero al Museo di San Martino agli inizi del Novecento, come dono dei Lambiase Sanseverino di Sandonato, e sono attualmente esposti nella Sala 51 dello stesso Museo, la famosa Sala del ’99. Nei quattro bassorilievi: Esecuzione di Domenico Cirillo, Mario Pagano, Ignazio Ciaja, Giorgio Pigliacelli; Suicidio del capitano Velasco; Esecuzione di Ettore Carafa; Esecuzione di Eleonora Fonseca Pimentel e Gennaro Serra di Cassano, eseguiti in gesso patinato color terracotta, con una resa bozzettistica, l’autore coglie il momento eroico in cui i fieri rivoluzionari affrontano il patibolo o vanno incontro volontariamente alla morte; in una contingenza storica costituita da forti passioni politiche, venne fissato l’attimo più significativo, carico di valore morale, che riveste così un pregno carattere esemplare. Come Angelini volle suggellare il momento della morte e il segreto della tomba di Eleonora nelle sue opere, così il suo giovane e prediletto discepolo Giuseppe Boschetto (Napoli 1841-1918) ne immortalò il passaggio dalla prima sepoltura in un famoso dipinto del 1868, La Pimentel condotta la patibolo. (Fig.9) Vestita di nero, con un crocifisso tra le mani, Eleonora viene ritratta con volto mesto, rassegnato, scortata dalle guardie, dai fratelli della Congregazione dei Bianchi e da un corteo di lazzari, mentre si avvia al patibolo percorrendo proprio la strada antistante la chiesa di S. Eligio. Pur ritraendo di questa solo una parte del portale, alla pari di quella del maestro, è chiaro l’intento simbolico. Eleonora fu seppellita nel complesso religioso di S. Eligio e all’incirca quarant’anni dopo i suoi resti furono traslati nella cappella gentilizia situata nel nuovo cimitero di Poggioreale. Da allora nessuno ha mai violato un gran segreto di famiglia, nemmeno Croce. Il ciclo dei bassorilievi dell’Angelini era già noto al nostro filosofo, tanto che ne aveva pubblicato uno, e non a caso quello relativo all’esecuzione di Eleonora, sul frontespizio con cui si apriva l’Albo Storico. Questo lascia supporre che Croce fosse anche a conoscenza del mistero suggellato nelle opere dello scultore napoletano e che quella sottolineatura in rosso tra i titoli della cappella gentilizia del 1920, apportata al nome per intero, sia opera sua. Tra l’al-

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tro, Croce aveva avuto modo di conoscere anche alcuni discendenti di Eleonora e, pertanto, deve essere stato informato su molti particolari inediti relativi non solo alla vita, ma anche agli anni successivi alla morte. È probabile che gli stessi abbiano chiesto al Croce di non svelare il temuto segreto di famiglia e di tenerlo seppellito nella polvere dei secoli. Ciononostante, anch’egli ha lasciato un’arcana traccia. Forse a quel tempo non era giunto ancora il momento di svelarlo. (Tratto da Antonella Orefice, La Penna e La Spada, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli 2009) _________________ Bibliografia: Archivio Storico Diocesano di Napoli, Registri dei Bianchi della Giustizia, Scrivano Calà, Vol.240. Archivio Storico Diocesano di Napoli, Registri

dei Bianchi della Giustizia, Scrivano Minutolo, Vol.241. Archivio Storico Diocesano di Napoli, Fondo Arcivescovi, Sez. Filangieri, fascicolo 107 n.28. Archivio Cimitero di Poggioreale di Napoli, Titoli di Cappelle gentilizie, Fascicolo 39, Incartamento 14. AA.VV., Memorie storiche della Repubblica Napoletana del 1799. L.Conforti, Napoli nel 1799, Critica e documenti inediti, Napoli 1889. C.Celano, Notizie del bello e del curioso della città di Napoli, Con aggiunzioni de’ più notabili miglioramenti posteriori fino al presente, a cura di G.B. Chiarini, 1856, Napoli 1972.

P.12: Documento della Repubblica Napoletana, fine’700; p.13: I reclusi in attesa di giustizia, olio di anonimo, Napoli, coll. priv.; p.15: Emissione filatelica delle Poste Italiane; p.17: Veduta di Napoli e Vesuvio, olio di anonimo, Roma, coll. priv.; p.18: Napoli, truppe francesi combattono i lazzaroni, stampa sec. XIX coll. priv.; per tutte le altre illustraz. vd. testo.

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Toussaint Louverture e le radici dell’albero della libertà dei Neri Isabella Zolfino

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n me renversant on n’a renversé que le tronc de l’arbre de la liberté des Noirs: mais les racines restent, elles repousseront parce qu’elles sont profundes et nombreuses.” Sembra fossero queste le semplici parole profetiche che avrebbe pronunciato Toussaint Louverture, capo indiscusso della Rivoluzione di Santo Domingo, al momento del suo arresto avvenuto con l’inganno per mano del Generale francese Brunet. Quest’uomo coraggioso e leale visse i primi anni della sua vita di schiavo senza offrire spunti di interesse storico: ebbe infatti una vita anonima fino all’età di quarantacinque anni; di lui si diceva che avesse una particolare sensibilità per gli animali e che fosse dotato di una pazienza degna di ammirazione. Toussaint Louverture (François-Dominique) era nato a Santo Domingo nel 1743 nella piantagione Bréda, una sucrerie situata nella Piana del Nord non lontano dalla città di Le Cap. In quanto schiavo, le sue prime mansioni furono quelle di fare il guardiano del bestiame della tenuta che lo aveva visto nascere ma, essendo molto intelligente e dotato di un buon carattere, fu ben presto preso a ben volere dal suo superiore che gli insegnò a leggere e a scrivere. Toussaint era un allievo sveglio e dotato di quella curiosità intellettuale che gli permetteva di imparare velocemente e con profitto. Acquisisce ben presto non solo la stima degli altri neri condannati a uno stato di profonda ignoranza ma anche quella del procuratore della piantagione, tale Bayou de Libertas, che decide di sollevarlo dai lavori dei campi e di nominarlo cocher, mansione che gli dà la possibilità di migliorare il suo status e di avere anche qualche risorsa economica1. In questa nuova posizione, con la piena fiducia del suo padrone, Toussaint può disporre di una certa libertà di fatto che impiega proficuamente per migliorare la sua istruzione, arricchire il suo spirito, addolcire i suoi modi e aspirare a un destino migliore. Nel 1789, la colonia francese di Santo Domingo si estendeva per un terzo dell’intera isola; gli altri due terzi appar-

tenevano alla Spagna. La popolazione della colonia consisteva in circa tremila bianchi, un numero equivalente di neri e mulatti liberi e circa settecentomila schiavi di cui poco più di duemila mulatti. Si può immaginare quanto fosse costato all’Africa in termini di sangue, di sofferenze, di torture, di devastazione, di crimini questo enorme numero di schiavi strappati al loro paese d’origine e trasportati a Santo Domingo su quelle navi negriere che Mirabeau chiamava “tombe ambulanti”. In questo numero, se pur grande di schiavi, non erano però inclusi né i bambini né gli adulti al di sopra dei quarantacinque anni: se fossero stati considerati, il numero totale avrebbe superato la cifra di novecentomila unità!2

Alla vigilia della Rivoluzione, che avrebbe emancipato non solo la Francia ma l’Europa intera, Santo Domingo, la regina delle Antille, era il più grande mercato del Nuovo Mondo e muoveva, fra importazioni ed esportazioni, un giro di affari che ammontava a una quantità di denaro pari ai due terzi del PIL dell’intera Francia3. Potentemente ricchi, gli ambiziosi proprietari di Santo Domingo continuavano ad accrescere i loro immensi patrimoni grazie al lavoro forzato degli schiavi, il cui numero aumentava ogni anno a causa della vergognosa pratica della tratta e, sebbene nel 1789 l’Assemblea Nazionale Costituente avesse emanato La Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino e un decreto che stabiliva l’egua-

1 M. Charles-Malo, Histoire de l’Ile de SaintDomingue. Paris 1814

2 Malefant, Des Colonies, et particuliérement de celle de Saint-Domingue. Paris 1814.

3 P. de Lacroix, Mémoires pour servir à l’Histoire de Saint-Domingue, Paris 1819, Vol. II.

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glianza dei diritti degli uomini (liberi) non menzionante le differenze di razza fosse stato inviato alle Colonie in data 8 marzo 1790, i gruppi sociali dominanti nel Nuovo Mondo non si trovarono affatto favorevoli ad accettare passivamente gli ordini provenienti dai molti legislatori che continuavano a succedersi negli anni della Rivoluzione; fu quindi logico che, almeno inizialmente, i grossi proprietari cominciassero a rivendicare la gestione autonoma degli affari interni alle colonie acuendo le conflittualità proprie della società coloniale che accarezzava da tempo il desiderio di liberarsi dal dominio della madre patria. Non furono però i desideri di indipendenza, ma solo il comportamento crudele di un gran numero di proprietari di piantagioni a scatenare negli schiavi un odio così implacabile da indurli, nel 1791, alla ribellione. In preda allo spirito di vendetta, molti neri non si accontentarono di esercitare rappresaglie contro gli autori delle loro sofferenze ma, confondendo padroni umani con quelli tirannici, sterminavano, nella loro furia, tutti coloro che avevano lo stesso colore della pelle dei loro oppressori. Molti aderenti al movimento rivoluzionario chiesero ardentemente a Toussaint di unirsi alla causa ottenendo solo un ostinato rifiuto: il suo senso di rispetto per l’essere umano era tanto forte da non permettergli di partecipare a degli assassinii e, comunque, nutrivano un profondo sentimento di affetto e ricono22

scenza verso il suo padrone. Nella situazione sempre più disastrosa che si stava creando nella Colonia, molti planteurs sarebbero stati felici di scappare da Santo Domingo anche senza mezzi di sussistenza pur di avere salva la vita. Per quelli che fossero rimasti c’era solo la certezza della morte. Presagendo una disgraziata conclusione per il suo maître Bayou de Libertas, Toussaint, che non aveva dimenticato l’umanità con la quale lo aveva trattato alleggerendo le sue catene di schiavo, senza aspettarsi da lui alcun ringraziamento, decise di salvarlo imbarcandolo con successo per l’America Settentrionale alla volta Baltimora, nel Maryland, insieme a tutta la sua famiglia. Ora che il suo debito morale era stato pagato, non ebbe più alcuna remora ad arruolarsi nelle armate rivoluzionarie dove fece ben presto una sfolgorante carriera, pur riuscendo a conservare quel senso di umanità che lo aveva sempre contraddistinto. Ricoprì le funzioni di Generale e di Governatore con scrupolo infaticabile e, lontano dall’imitare la condotta degli altri capi che adulavano il popolo per eccitarlo al crimine e alla vendetta, cercò sempre, con il suo comportamento, di ispirarsi all’amore e alla virtù, al lavoro e all’ordine, stimolando l’ammirazione anche dei suoi nemici. Era di un’integrità così indiscutibile che i Creoli e gli ufficiali Inglesi che si erano battuti con lui si dichiaravano tutti

d’accordo nell’affermare che non avrebbe mai violato alcun giuramento. Con lui a condurre le cose la guerra fra i neri e i loro vecchi maîtres ebbe una battuta d’arresto. La gente aveva una tale e assoluta fiducia nella sua parola che un gran numero di planteurs e di commercianti che si erano rifugiati nell’America settentrionale fecero ritorno a Santo Domingo sulla base della sua promessa di protezione e di restituzione dei beni di cui erano stati privati. Si mostrò sempre, anche in seguito, degno della loro fiducia. La situazione in Francia però era diventata di giorno in giorno sempre più critica e tutto lasciava presagire che ci sarebbero stati presto dei grandi cambiamenti; dopo la fuga e l’arresto del re nel giugno 1791, si era visto aumentare senza tregua la fazione che, poco tempo dopo, avrebbe rovesciato la monarchia e trascinato il monarca Luigi XVI al patibolo; molti, nelle Colonie, si erano dichiarati fedeli alla monarchia ma il partito giacobino, diventato ormai onnipotente, aveva acquistato grande forza nel corpo legislativo. Il 4 aprile 1792 l’Assemblea sancì4 che gli uomini di colore e i neri liberi delle colonie avevano gli stessi diritti politici dei bianchi e che sarebbero stati nominati tre Commissari civili per la Colonia di Santo Domingo per garantire l’unione, 4 M. Charles-Malo, Histoire de l’Ile de SaintDomingue. Paris 1814.


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l’ordine e la pace. I tre commissari della Repubblica francese, Sonthonax, Ailhaud e Polverel, forniti di forze militari sufficienti per stabilire la loro autorità, arrivarono a Santo Domingo nel settembre 1792 per sedare la rivolta degli schiavi, mettere fine ai dissensi indipendentisti dei coloni e garantire i diritti delle persone di colore. Il lavoro dei Commissari sembrava procedere bene; Sonthonax era prossimo a ottenere i risultati per i quali era stato inviato, compresa la resa degli schiavi ribelli, ma la situazione si complicò con la dichiarazione di guerra alla Francia da parte delle altre nazioni del Continente europeo. La guerra appena dichiarata aveva già fatto sentire il suo effetto disastroso sulle colonie del Nuovo Mondo che dipendevano dai belligeranti. Nell’isola, i Francesi fedeli alla repubblica dovevano lottare non solo contro i neri insorti, e dai quali i sostenitori della monarchia e gli emigrati dipendevano per i loro interessi, ma anche contro gli Inglesi che non mancavano di dare serie preoccupazioni sulle coste e contro le colonie spagnole che erano apertamente ostili alla Francia. Santo Domingo divenne presto teatro di una nuova lotta civile esplosa tra i sostenitori della monarchia e quelli della Convenzione; gli Spagnoli fornivano agli schiavi in rivolta armi e appoggio logistico nella parte dell’isola da loro controllata, gli Inglesi erano in combut-

ta con i coloni bianchi e si accordavano con loro per trasformare Santo Domingo in una colonia britannica. All’inizio dell’anno 1793 gli Spagnoli, ormai in guerra aperta contro la Repubblica francese, volendo potenziare le loro forze utilizzando quanto più possibile chiunque fosse nemico della Repubblica francese chiamarono sotto la loro bandiera tutti i neri insorti di Santo Domingo. Naturalmente questi ultimi non si fecero pregare molto e accettarono l’invito senza indugio. Toussaint Louverture passò così nelle fila spagnole dove fu nominato Maresciallo di campo e decorato con le insegne distintive del rango che gli competeva. Era la prima volta che si vedevano dei neri e per di più schiavi decorati con cordoni, croci e

altri segni di nobiltà. I Commissari francesi erano in difficoltà. Le truppe spagnole erano contro loro, i neri erano contro loro, i bianchi rimanenti erano divisi fra chi portava la coccarda nera e chi bianca; le truppe e gli amici dei commissari il tricolore; i mulatti il rosso … la guerra era dappertutto e nessuno era al sicuro se non con le armi in mano e nel partito del più forte5. Sonthonax comprese che l’unica mossa possibile era quella di guadagnare alla causa francese l’appoggio degli schiavi. Unilateralmente, il 23 agosto 1793, proclamò la liberazione di tutti gli schiavi della colonia francese. L’entusiasmo fra i neri fu grande, ma non universale. I loro leaders diffidavano dei Commissari e dubitavano della stabilità della Repubblica francese; la guerra quindi andò avanti. A fine agosto Sonthonax indisse l’elezione di tre rappresentanti della popolazione coloniale da inviare a Parigi per sollecitare la ratifica dell’abolizione della schiavitù e la sua estensione a tutte le colonie francesi. La delegazione si presentò alla Convenzione il 3 febbraio del 1794. Era composta da Jean-Baptiste Belley (nero), Pierre Dufay (bianco) e J. B. Mills (di colore). Il 16 Pluviôse anno II, 4 febbraio 1794, dopo i discorsi dei tre inviati, l’Assemblea approvò finalmente, senza di5 C. W. Elliott St. Domingo, its Revolution and its Hero, Toussaint Louverture New York 1855.

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scussione, il decreto di abolizione della schiavitù in tutti i territori della Repubblica francese. La guerra ai Francesi fu orribile e atroce; parecchie volte Toussaint aveva intuito di essere diventato solo uno strumento di morte per tutti quelli che servivano la causa repubblica-

Storia na, di qualunque colore fossero. Il giorno 25 luglio 1794, dopo aver partecipato alla messa nella città di Marmelade, le truppe spagnole entrarono nella piazza della chiesa e massacrarono tutti: uomini, donne, vecchi e bambini. Tutti vennero passati a fil di spada o furono preda della brutalità dei neri aggregati alle truppe spagnole. Le stesse atrocità

si ripeterono a Gonaives, a Gros-Morne, a Dondon, a la Petit-Riviere e in tutte le altre comunità occupate dagli Spagnoli. Dopo questo ultimo, ennesimo, atroce massacro Toussaint Louverture riconosce che stare con gli Spagnoli non è la cosa più giusta perché questi ultimi non sono pronti a liberare davvero gli schiavi e tanto meno lo avrebbero fatto gli Inglesi. Solo la Francia si era pronunciata sulla Libertà ai neri. Deciso perciò di cambiare bandiera, si dirige con le sue truppe a Port au Paix, dove giura fedeltà alla Repubblica francese in presenza del generale Etienne Laveaux, militare di carriera che in quel momento è governatore a Santo Domingo. Laveaux, a dire il vero, diffidava della sincerità di Toussaint tanto che lo tenne

sotto sorveglianza per parecchio tempo; tutto faceva ritenere che la sua carriera politica fosse finita quando, ad un tratto, un avvenimento tanto disgraziato quanto straordinario venne a cambiare il suo destino ricollocandolo sulla scena con nuove prospettive. Nel mese di Ventôse dell’anno IV (febbraio 1796), una sedizione popolare fomentata e appoggiata da tre capi mulatti esplose nella città di Cap-Français. Vittima di questo intrigo, e del quale era l’oggetto, fu il generale Laveaux che venne arrestato e fatto prigioniero con l’accusa di aver cospirato ai danni della libertà. Immediatamente Toussaint, appoggiato dai sostenitori della Francia, si mise in marcia sulla città di Le Cap alla testa di mille uomini per liberare e reintegrare nelle sue funzioni il governatore Laveaux che senza il suo intervento sarebbe stato infallibilmente vittima del furore del popolo. Questo atto di fedeltà e coraggio spazzò via ogni possibile dubbio sulle sue reali intenzioni e gli fece guadagnare la considerazione e la stima di Laveaux che, nell’ebbrezza della sua riconoscenza, lo proclamò vendicatore delle autorità costituite e salvatore dei bianchi e, come ricompensa, Luogotenente Generale della Colonia di Santo Domingo. Nel successivo mese di agosto, fu nominato Maggiore Generale. Nel giro di pochi giorni, Toussaint, coadiuvato dai suoi uomini (neri, mulatti e anche alcuni bianchi) sbaragliò i suoi vecchi alleati spagnoli e tolse loro una decina di città. Il suo talento era notevole. I neri di ogni posto rispondevano al suono della sua voce, lo guardavano come si guarda un eroe, un difensore e una guida. Dovunque passasse, confermava l’emancipazione degli schiavi. Organizzava la ripresa delle piantagioni invitando i coloni a ritornare, anche quelli che avevano combattuto contro la Repubblica6. Non è tutto: il nome di Toussaint Louverture e la fama delle sue vittorie raggiunse rapidamente anche la Francia. Di lui si parlò nella tribuna del Consiglio degli Anziani dove venne dipinto come il salvatore della Colonia, il più scrupoloso combattente della Repubblica Fran6 C. W. Elliott St. Domingo, its Revolution and its Hero, Toussaint Louverture. New York 1855, pag. 37.

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cese. Le guerre civili e le rivoluzioni offrono spesso al genio delle opportunità e innalzano a livelli più importanti uomini che, per nascita, sembrano destinati a rimanere tutta la vita nelle ultime classi della società. La rivoluzione di Santo-Domingo provò, in modo molto sorprendente che, tra quelli che gli Europei avevano guardato come esseri di natura inferiore, condannati a una schiavitù perpetua, esistevano delle menti in grado di dare leggi a uno Stato, cuori infiammati di ardore eroico e mani capaci di maneggiare la spada. Toussaint disponeva, di fatto, di un potere pressoché illimitato e, del resto, nessuno poté mai muovergli l’accusa di averne abusato. Si mostrò sempre devoto agli interessi della Francia malgrado i diversi cambiamenti operati da chi, alternandosi nel governo della Repubblica, inviava a Santo Domingo Commissari latori di tutto lo spirito di rapina di cui i loro padroni potevano essere capaci. Era per natura portato alla dolcezza; in parecchie occasioni, anche quando il regolamento militare imponeva di usare una certa ferocia sui nemici, mostrava invece la generosità che avrebbe fatto onore al più illuminato dei monarchi europei. Quando era libero dagli impegni della guerra, cercava in tutti i modi di favorire e incoraggiare il progresso della sua gente; nei suoi decreti si ritrova la stessa saggezza, la stessa prudenza e la stessa umanità con cui si era distinto sui campi di battaglia. Sapeva bene che era l’agricoltura il bene da cui dipende la prosperità di uno Stato ma, per poterla incrementare, dovette superare uno dei più grossi ostacoli: il fatto che i beni erano stati restituiti ai proprietari, ma non la forza-lavoro degli schiavi e che non era più permesso acquistare o vendere uomini. Stabilì quindi che se i proprietari delle terre avessero voluto avere a disposizione la manodopera non avrebbero dovuto più far lavorare i neri a colpi di frusta, ma dare loro un compenso. Gli operai coltivatori avrebbero ricevuto, per legge, un terzo del raccolto e, poiché la principale risorsa era rappresentata dalla produzione di zucchero e caffè, questa innovazione avrebbe favorito anche la produzione industriale.

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Gli effetti benefici di queste regole si fecero sentire ben presto in tutto il paese: l’agricoltura fece notevoli progressi, malgrado i dissensi provocati da dieci anni di guerra, e la raccolta di zucchero e caffè superò di un buon terzo quella ottenuta nei migliori anni. Finita la guerra, molte chiese furono riaperte e il culto cattolico ristabilito. Anche i teatri ricominciarono a vivere. A Cap-Français fu innalzato un maestoso edificio, una specie di tempio, in onore dei commissari francesi Sonthonax e Polverel e la città, incendiata nel 1793, era destinata a ritornare all’antico splendore. La principale taverna di Le Cap, che aveva nome Hotel de la Republique era, per eleganza e cortesia, pari ai migliori caffè di Parigi. Qui si riunivano numerosi viaggiatori americani e anche molti neri. Erano presenti uomini di tutti i livelli sociali e, durante le riunioni, regnava fra loro la più perfetta uguaglianza. Lo

stesso Toussaint frequentava quel luogo, ma non si metteva mai a capo del tavolo perché, diceva lui, la differenza di rango doveva esistere solamente durante una rivista militare o sul campo di battaglia7. I suoi soldati erano, infatti, assoggettati a una disciplina ferrea; ognuno di loro era rispettoso del rango assegnato e l’inferiore non dava segno di familiarità col superiore, cosa che invece era permessa durante le riunioni alla taverna. La precisione e la facilità con la quale erano in grado di eseguire le manovre militari avrebbe stupito qualunque militare europeo. Testimoni oculari hanno detto: è stupefacente vedere africani nudi che danno un esempio della disciplina più severa e combattono senza avere niente da mangiare se non qualche banana e un poco di granturco8. La notorietà che 7 M. Charles-Malo, Histoire de l’Ile de SaintDomingue. Paris 1814, pag. 200. 8 C. W. Elliott St. Domingo, its Revolution and

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Toussaint aveva acquisito con le sue imprese militari e le sue virtù lo avevano reso l’oggetto dell’amore del suo popolo; visitava le città, passava in rassegna le truppe nelle varie province per rendersi personalmente conto di come andassero le cose e la gente guardava a queste visite con piacere. Il nuovo ordine delle cose, del resto, aveva influito su tutta la popolazione; i neri delle piantagioni, liberati da poco dalla schiavitù, lavoravano non più per forza ma per un onesto salario, avevano la possibilità di sceglieits Hero, Toussaint Louverture. New York 1855, pag. 46.

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re il loro padrone in tutta libertà e questo migliorava anche il loro umore. Per quanto riguardava la vita sociale, molti uomini, i più capaci, avevano potuto elevare il proprio status proprio grazie alla rivoluzione, anche se buona parte delle migliori professioni erano ancora appannaggio di neri liberi e dei mulatti che avevano occupato cariche onorabili sotto il vecchio governo. Dal momento che il vecchio sistema d’amministrazione coloniale era andato interamente distrutto e non era quasi più possibile comunicare con la Francia, Toussaint decise di dotare Santo Domingo di una Costituzione regolare. Per

la sua stesura si avvalse dell’aiuto di valenti esperti europei e, quando fu pronta, la sottopose all’Assemblea Generale per l’approvazione. La Costituzione entrò in vigore il 1 di luglio 1801. La Francia aveva decretato la libertà di tutti i suoi sudditi, bianchi, neri e mulatti. Aveva autorizzato l’elezione e l’azione delle Assemblee Coloniali mettendo legalmente in grado l’isola di auto-governarsi e, di fatto, la Costituzione di Santo Domingo riconosceva la sovranità francese solo formalmente dando a Toussaint pieni poteri a vita. Con il colpo di stato del 18 brumaio (9 novembre 1799) Napoleone Bonaparte era salito al potere. Il Primo Console aveva confermato Toussaint nel suo ruolo di governatore stimando che mantenere i lucrosi traffici con le colonie fosse più importante che riconoscere come focolaio di contagio antischiavista l’anomala “situazione Santo Domingo”. Al momento opportuno avrebbe preso le giuste contromisure. Con il trattato di Amiens (1801) arrivò la pace. Toussaint scrisse ripetutamente a Napoleone confermando la sua lealtà e quella della sua razza; per rassicurare ancora di più la Francia, mandò i suoi due figli maggiori, Isaac e Placide, a studiare a Parigi alla scuola di Liancourt, ribattezzata “Istituto delle Colonie”, ma commise l’errore di rivolgersi a lui, nella sua corrispondenza, come “il primo dei neri al primo dei bianchi”, questo fu intollerabile. Intanto, la pace in Europa preannuncia la guerra in Santo Domingo. I planteurs esasperati si riunirono a Parigi reclamando i loro vecchi diritti di ricchezza perché senza schiavitù le colonie non avrebbero prodotto reddito, i consiglieri di Napoleone raccomandarono di usare la forza contro i neri ribelli. E Napoleone prese la sua decisione. La reintroduzione della schiavitù fu approvata dal Corpo Legislativo con 212 voti contro 65. Questo avveniva nella Francia repubblicana, sotto un Console repubblicano che aveva gridato le parole “pace” e “libertà” fino a diventare rauco, ingannando tutto il mondo che ci aveva creduto. Il 20 maggio 1801, Bonaparte decretava il ripristino delle condizioni precedenti al 1789, autorizzando nelle


colonie la tratta degli schiavi e l’abrogazione della libertà. Quando il Generale Vincent gli presentò la bozza della Costituzione che Toussaint gli aveva fatto pervenire, Napoleone, cogliendo l’occasione quanto mai opportuna, disse9: qui c’è uno schiavo ribelle che deve essere punito, l’onore della Francia è stato oltraggiato. Bonaparte decide perciò di inviare suo cognato Leclerc a capo di una spedizione militare per riprendere il controllo dell’isola ed evitare di perdere una colonia tanto redditizia. Nei porti di Brest e di Rochefort vengono imbarcati alla volta di Santo Domingo 25.000 uomini, l’élite delle truppe francesi. Madame Leclerc accompagna suo marito insieme a suo fratello Jerome Bonaparte. È il 20 gennaio 1802. Era chiaro che per il Primo Console i neri dovevano ritornare alle loro catene e Toussaint a pascolare il bestiame del suo maître. “Ho preso le armi per la libertà del mio colore che la Francia ha solo proclamato”, disse Toussaint; “la nostra libertà non è più nelle loro mani ma nelle nostre, noi la difenderemo o moriremo.”10 Gli scontri si susseguono in modo irregolare e cruento; Bonaparte, in una lettera agli abitanti di Santo Domingo, parla di pace e di amicizia, afferma che la schiavitù non sarà ripristinata e che il Generale Leclerc è stato inviato solo per proteggerli dai loro nemici e da quelli della Repubblica. Ma la realtà è diversa. Napoleone definisce gli insorti dei briganti e parla di Toussaint e dei suoi uomini come di gente crudele dedita a eccessi e dissolutezze. Gli agenti di Bonaparte lo ritengono il primo ostacolo al successo della spedizione e tentano di macchiare la sua reputazione con le più meschine calunnie: hanno il compito di catturarlo con forza o con l’inganno. Il 12 Messidor dell’anno X, il Primo Console così scrive a suo cognato, il Generale Leclerc: Dés l’instant que les noirs seront désarmés et les principaux généraux envoyés en France, vous aurez 9 C. W. Elliott St. Domingo,its Revolution and its Hero, Toussaint Louverture. New York 1855, pag. 58. 10 P. de Lacroix Mémoires pour servir à la Histoire de la Révolution de Saint-Domingue. Paris 1819, Vol. II, pag. 58.

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plus fait pour le commerce et pour la civilisation de l’Europe que l’on n’a fait dans les campagnes les plus brillantes. E ancora: Défaites-nous de ces Africains dorés et il ne nous restera plus rien à désirer 11. Leclerc chiede di incontrare Toussaint per discutere, lui accetta perché vuole dimostrare fiducia; i due si incontrano e il francese lo trova molto diverso da come gli era stato descritto da Napoleone. Si parlano con gentilezza e cortesia, Toussaint si dispiace di aver dovuto usare le armi contro i suoi uomini. Dimen11 Corrispondace de Napoleon 1er – an X

tichiamo il passato, dice Leclerc, tutto si sistemerà. Ma dove avresti preso le armi per portare avanti la guerra? Toussaint risponde: Avrei preso le tue. Non avrebbe potuto dire meglio se fosse stato un bianco o un romano12. Ben presto però per i Francesi arrivano grosse difficoltà: un caldo insopportabile, cavallette oppressive e un nemico silenzioso che si insinua in mezzo a loro in modo impalpabile e mortale: la febbre gialla. I Francesi cominciano a ma12 C. W. Elliott St. Domingo, its Revolution and its Hero, Toussaint Louverture. New York 1855, pag. 74.

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ledire il giorno in cui Napoleone li ha mandati a morire così ingloriosamente a Santo Domingo. Toussaint, in attesa degli eventi, si ritira nella sua tenuta di Ennery, insieme alla famiglia. La pestilenza avrebbe ucciso i Francesi o li avrebbe messi in fuga. Ovviamente Le-

Storia clerc è convinto che i neri sarebbero stati sicuramente in grado di sfruttare la loro debolezza come avrebbe fatto qualunque avversario; riempie perciò di soldati la località di Ennery per mostrare la sua forza. Il Generale Brunet, il 7 giugno, scrive a Toussaint per invitarlo a discutere della dislocazione delle truppe; convengo-

no di incontrarsi il giorno 10 e Brunet, durante l’incontro, comunica di dovergli consegnare una lettera da parte di Leclerc. Subito dopo averla consegnata, si scusa chiedendo di doversi assentare dalla stanza per pochi istanti e gli lascia un ufficiale a tenergli compagnia13. Immediatamente dopo entrano un gran numero di granatieri, circondano Toussaint e lo arrestano come il peggiore dei criminali. Senza ricevere alcuna spiegazione o avere il tempo di potersi rendere conto dell’accaduto, Toussaint viene imbarcato sulla Creole e portato a Le Cap dove lo aspetta la fregata Heros, con la quale dovrà raggiungere la Francia. Il 13 Saint-Remy, Memoires de General Toussaint L’ouverture ecrits par lui meme, Paris 1853.

secondo giorno, la sua sposa e i suoi figli vengono imbarcati sulla stessa nave con l’ordine tassativo che non ci sia mai contatto fra loro. Toussaint, relegato nella sua cabina per tutto il viaggio, senza mai vederli o avere notizie di loro, raggiungerà Fort de Joux, al confine con la Svizzera, il 23 agosto 1802. Della sua famiglia, la moglie verrà confinata a Bayonne, i figli nell’isola di Belle-Ile-en-Mer; parte dei suoi ufficiali deportati in Corsica e all’Isola d’Elba, altri reintegrati nel Battaglione dei Pionieri Neri. Toussaint morirà di freddo e di stenti nella prigione di Fort de Joux il 7 aprile 1803, dopo nove mesi di assoluto e rigoroso isolamento. Aveva sessant’anni. L’indipendenza di Haiti, primo stato nero al mondo, viene proclamata il 1° gennaio 1804. Ma Toussaint Louverture era massone?14,15 La mancanza di documenti esplicativi impedisce di poter rispondere in modo chiaro e definitivo a questa domanda; un dato cui però va dato un giusto peso è il fatto che, nel periodo di cui abbiamo trattato, la società creola era quasi completamente controllata da una rete di personaggi socialmente importanti appartenenti alla Massoneria di origine aquitana-guascone che ne condizionava la vita amministrativa, economica e decisionale; lo stesso Bacon de La Chevalerie, uno dei primi dignitari dell’Ordine degli Eletti Cohen e Successore Universale di Martinès de Pasqually, presiedette ai destini della rivoluzione autonomista bianca fino alla fine del 1790 alla testa dell’Assemblea del Nord. Secondo alcuni testimoni dell’epoca, Bacon era un ufficiale distinto, gran maestro massone, bell’uomo ed abile oratore, molto legato ad un grosso proprietario a Santo Domingo, il duca di Orléans, futuro Philippe-Egalité, ed al suo partito. Il successore di Bacon, LarchevêqueThibault, aveva gli stessi legami bordolesi, massonici e monarchici e così molti altri personaggi, come ad esempio il commissario civile Polvérel, primo liberatore degli schiavi e testa pensante di Sonthonax, il mitico basco Jean-Baptiste Charlestéguy, uno sette bianchi sfuggi14 Alain Yacou, Saint-Domingue espagnol et la révolution négre d’Haïti, Karthala 2007. 15 Jacques Cauna, Haïti, l’éternelle révolution: histoire de sa décolonisation (1789-1804), Ed. Régionalismes, 2009.

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ti al massacro di Port-au-Prince ordinato da Dessalines nel 1804 a cui si deve, dopo la reintroduzione ufficiale del Rito Scozzese Antico e Accettato, la fondazione della nuova Massoneria haitiana indipendente. Come poteva quindi Toussaint, circondato da guasconi e protetto dal colonnello Vincent, alto dignitario della Massoneria (il presentatore della bozza della Costituzione a Napoleone Bonaparte), e dal Governatore Generale Laveaux, iniziato a Cognac nella Loggia Saint-Jean de Jerusalem anglaise di cui fu Venerabile dal 1779 al 1785, sfuggire a queste influenze? È molto probabile, anche se non ci sono documenti che lo possano provare, che fosse stato “fratello servente” in un loggia prima del 1789, spiegandosi così il suo affrancamento di fatto all’età completamente simbolica e in ogni caso molto insolita di 33 anni a opera di Bayou de Libertas, altro massone e procuratore della piantagione in cui Toussaint lavorava. Alla domanda se Toussaint fosse massone, la Società Haitiana di Storia, erede spirituale del Cercle des Philadelphes della città di Le Cap, ha una risposta che rafforza quello che la sua firma, adorna dei tre punti più uno, abitudine usuale negli alti dignitari, lascia considerare pubblicando nel 1779 il tableau della Reverenda Loggia La Réunion Désirée all’Oriente di Port-Republicain, ex Port-au-Prince, che alla data del 1800 contava fra i suoi membri un considerevole numero di fedeli di Toussaint che non avrebbero potuto raffigurare senza il suo consenso. Erano presenti oltre a suo fratello, Paul Louverture, suo nipote Paul Belair ma anche un gran numero di bianchi, di neri e di uomini di colore molto influenti come i Rosa-Croce Joseph Collignon, notaio, Venerabile; Jean Baptiste Merceron, cancelliere del Tribunale di Commercio, Segretario; Louis-Casimir Moreau-Lislet, uomo di legge, Oratore; Antoine Laborie, uomo di legge, Segretario; Jean-Pierre Bruneau-Laroque, Camera di Commercio, Guardasigilli e Archivi; l’aiutante-generale Christophe Huin, 1° Esperto; Jacques Duviella, uomo di legge, 2° Esperto; Pierre Carré, Ufficiale di Santé, Ospitaliere; JeanPierre Larquier, Sotto-Controllore della Marina, Aggiunto al Maestro delle Ce-

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rimonie; Jean Latour, negoziante, Gran Maestro di Casa, il già menzionato Charlestéguy, negoziante, Maestro Massone, e Copritore del Tempio ma ex Oratore della loggia L’Etoile d’Haïti n.5 prima della rivoluzione o ancora i maestri massoni Louis-Joseph Ferrand, militare, 2°Maestro delle Cerimonie (e futuro generale che manterrà la presenza francese a Santo Domingo dopo l’indipendenza di Haiti); Pierre Lanusse, imprenditore edile, Architetto Aggiunto ed i confratelli semplici membri, Jean-Pierre Cazeaux, Giudice di Pace, Jean Baptiste Lesca, negoziante; Joseph Delisle e altri, tali Joseph-Balthazar Inginac, negoziante, uomo di colore o André-Dominique

Sabourin, bianco creolo che diventerà Gran Giudice della Repubblica di Haiti, secondo personaggio dello Stato e futuro quadro del nascente Stato haitiano. In fin dei conti, anche se non ci sono prove evidenti sull’appartenenza di Toussaint Louverture alla Massoneria, tutti i suoi comportamenti e la stessa Costituzione da lui emanata nel 1801 testimoniano che ne condivideva le idee e vi si conformava pienamente. P.20, 24 e 28: Stampe di varia epoca raffiguranti Toussaint Louverture; p.21: Toussaint Louverture, olio, sec XIX, cllez. privata; p.22/23 in alto: Valuta dello Stato di Haiti; p.23 in basso: Emissione filatelica delle Poste di Haiti; p.25: La schiava creola, olio, sec. XIX, Port-au-Prince, coll. priv.; p.26/27: Registri di approvvigionamenti militari a Saint-Domingue; p.29: La morte in carcere di Toussaint Louverture (vd. testo).

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Massoneria

Massoneria e politica Giuliano Boaretto

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La Massoneria non è né un’istituzione politica, né una chiesa e già nel primo grado (Apprendista) i fratelli vengono ammoniti: “non è più permesso ad alcuno di intrattenersi in questioni di politica e di religione”. Queste parole sono diventate un mantra e se talora qualcuno propone temi politici e religiosi, i “tradizionalisti” insorgono, con un malinteso richiamo agli statuti, ai rituali ecc., per nascondere la pigrizia dietro il paravento dell’elaborazione esoterica. Politica è, infatti, tutto ciò che attiene alla polis, al collettivo, ai rapporti con gli altri, al pubblico, e religione è tutto ciò che religat, che lega assieme gli uomini, gli uomini e il trascendente, che è in ognuno di noi, non necessariamente dio, ma ciò che non è qui e ora (l’empirico), cioè la dimensione di speranza, desiderio, modello ideale. Ciò detto, e accantonando il problema del religioso, è evidente che il divieto di intrattenersi in questioni di politica e di religione fa parte dell’epistemologia massonica come residuo di un periodo di faziosità partitica (le rivoluzioni liberali) e confessionale (le guerre religiose) per cui “politico” significa in tal contesto “partito” “fazione”, parte, mentre l’epistemologia massonica aspira al tutto, al populus, al pubblico, alla gente: tende a costruire un luogo dove partiti, fazioni, sette trovino uno spazio comune, il luogo dello scambio, della pluralità, del rispetto per il diverso. Sul piano etico questo luogo relazionale viene subito delineato nei rituali di iniziazione di primo grado quando si parla di fratellanza: “non dimenticare mai il precetto: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te stesso”, e impara l’altro precetto che la Libera Muratoria crede doveroso aggiungere: “fai agli altri tutto il bene che vorresti che gli altri facessero a te”. Anche se per amor del vero, a me pare che al precetto evangelico, non solo la Libera Muratoria, ma anche la Bibbia (Isaia) aggiunga fai agli altri tutto il bene ecc.; credo che questo landmark relazionale abbia valenza di etica politica nel senso di un comportarsi con gli altri come vorresti che gli altri si comportassero con te. È un precetto interpersonale che consente e anzi favorisce il vivere nella collettività, la formazione di un legame civile e politico, perché la polis è ancora il luogo in cui crescere e convivere con il diverso, ove il diverso è la nostra radice di identità. Il luogo, il fine, dove io

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e l’altro sono complementari, dove individuo e persone esistono l’uno nell’altro se non l’uno per l’altro. Nei successivi gradi numerosi sono i richiami alla dimensione politica, in particolare quando si parla di filosofi, di legge, di giustizia, per evitare che l’individualismo divenga egotismo, se non egoismo, e quindi che a un individualismo esasperato corrisponda un inesistente senso del collettivo. È chiaro che non si può non occuparsi del mondo, non si può che affermare “nihil hominis alienum” (Teocrito) o “Nihil humanum alienum esse puto” (Agostino), senza occuparsi degli uomini e delle relazioni che si instaurano tra di loro, fermo restando che parliamo di filosofia della politica, di teoria generale del collettivo, di sociologia ecc., ma non certo di politica “politicata”, perché la Massoneria non è un partito, né una setta. 2– Ciò premesso, se pur insufficiente, ci consente di affrontare l’approccio epistemologico al politico nel XXX grado del Rito Scozzese Antico ed Accettato. Nel rituale di iniziazione vi è una scala a sette gradini ascendenti e discendenti. Nel settimo gradino della scala vi è un cartiglio che indi-

ca: sociologia come scienza “che studia le leggi secondo le quali la società nasce e si evolve. Essa comprende la metafisica dei costumi, la cultura del sentimento e l’opera della Libera Muratoria”. Ora la definizione può apparire ingenua, ma certo è che la Libera Muratoria non può non occuparsi delle leggi sociali, della sua dinamica, delle istituzioni, perché in essa vive e alle istituzioni giura rispetto e fedeltà “purché non contrarie alla nostra coscienza”. È nella tradizione del libero pensiero che si giustifica l’appassionata difesa del libero arbitrio che è definito il più grande bene che l’uomo possiede: “un tale bene, il più prezioso fra tutti, non lo vogliamo per noi soli, noi vogliamo concederlo anche agli altri, ma soprattutto non intendiamo proteggerlo e difenderlo nei confronti di quanto sarà loro contestato, lo fosse anche dai nostri stessi amici”. E tutto questo è detto nel rituale del massimo grado filosofico, dove si elabora quella “gnosi”, quel paradigma cognitivo, che dovrà guidare i Massoni nella vita pubblica e la Massoneria nei gradi c.d. amministrativi (XXXI e XXXII), dedicati alla giustizia e alla politica, dove si parla di processo ai Templari e delle loro condanne a morte, non in 31


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funzione anticlericale, ma in funzione antidogmatica e infatti la maledizione colpisce non solo Clemente (il papa), ma anche Filippo (il re). In realtà i martiri Templari trovarono i loro vindici in Lutero “in nome della libertà di coscienza” e nella proclamazione dei diritti dell’uomo e del cittadino da parte della Convenzione rivoluzionaria. Ma l’opera del Massone è tutt’altro che terminata perché “mai la libertà, da che è divenuta il diritto moderno, ha corso maggiori pericoli di quanti ne corre ora. Il suo principio stesso è posto di nuovo in discussione: non è soltanto la reazione religiosa o politica che si forza di guadagnare il terreno perduto; sono i cortigiani del popolo sovrano, folla sempre opaca, che si danno d’attorno per persuaderlo che la felicità è nell’asservimento dell’individuo alla collettività. Sono i partigiani del libero arbitrio, che, infedeli al loro ideale, sognano di trarre a prestito le armi del dispotismo per schiacciare i loro avversari. Sono le nazioni, che divenute padrone dei loro destini continuano a sgozzarsi in nome del diritto del più forte. Sono i capitalisti più esosi, gli scioperi violenti, gli attentati alla libertà del lavoro, l’accettazione dello spirito di parte o di setta, gli antagonisti di classe e di razza che minacciano di trasformarsi in un vero inferno il nostro secolo”. Questi sono gli avversari che il Massone deve 32

combattere. E con il giuramento che l’oratore legge, l’adepto si impegna “nello svolgimento dell’azione che deve unire e non dividere gli uomini, ad applicare tolleranza e comprensione, considerando fratelli gli oppressi e nemici tutti gli oppressori”. 3– Quanto abbiamo trascritto è un evidente manifesto politico di impronta liberale che merita una dettagliata disamina e che pone alcuni problemi metodologici relativi allo specifico massonico per comprendere il quale dobbiamo ricordare che il XXX grado non è il grado della politica, ma della “gnosi” massonica, intesa come conoscenza, sofia, saggezza, ma soprattutto come griglia cognitiva, matrice epistemologica di una associazione esoterica/essoterica, orizzonte di un cerchio interno, dove il secretum diviene prassi, il filosofare diviene azione. Diciamo che questo sommo grado della piramide filosofica segna il passaggio tra pensiero e azione, dove si delinea una filosofia della prassi. La cultura massonica non è una filosofia, non è una chiesa, non è una istituzione politica, anche se si occupa di filosofia, di politica, di religione, ma pretende di essere il “luogo” in cui le filosofie, le religioni, le ideologie politiche si incontrano e si scontrano seguendo un metodo tradizionale, trasmesso da un passato mitico e storico, che rende vivo il presente, pre-

figurando il futuro. Questo metodo è il metodo orale: di conseguenza lo scritto è il pro-memoria della tradizione, è il metodo simbolico per cui ogni significante è matrice di “N” significati, è un linguaggio di miti, di simboli di analogie, di aporie. Il rapporto di razionalità - fede - irrazionalità - emotività - sentimenti è rapporto complesso, gli opposti sono complementari, come simboleggiato dall’enneagramma del XXXII grado, per consentire alla luce della razionalità illuminata di divenire ragionevolezza. Questa razionalità “debole” consente di superare la paura dell’altro, del collettivo, dell’agorà, come scrive la giallista Camilla Lackberg in Una principessa di ghiaccio: “se non si permette ad alcuno di superare il nostro muro di paura, si tengono fuori anche gli amici”. La proposta cognitiva della Massoneria apre le porte alla costruzione del Terzo Tempio, della Gerusalemme Celeste, ma queste porte debbono essere aperte a tutti: religiosi e atei, materialisti e spiritualisti, liberali e comunisti e fascisti. A tutti, anche agli antimassoni, noi assicuriamo che ci batteremo anche contro i nostri fratelli per assicurare loro la libertà di pensiero, di coscienza, non perché siamo tolleranti, ma perché sappiamo che l’utopia diverrà realtà solo con il concorso di tutti, che il piedistallo della statua del dio dell’ignoto avrà un volto solo se tutti sapremo rap-


portarci con il diverso come vorremmo che l’altro si rapportasse a noi. Tutti i gradi massonici, anche quelli non frequentati” del rito, delineano il percorso di una dialettica a “slalom” come guida al nostro essere animali politici. A titolo esemplificativo e non esaustivo, ricordo: A) Il IV Maestro Segreto dove la fides non solo è “sustanza di cose sperate /e argumentum delle non parventi”, ma è fiducia nell’altro, sostanza di cose sperate come secretum, come effetto stocastico dell’agire collettivo, via dell’inferno lastricata di buone intenzioni. Senza fiducia nel diverso la via del paradiso non può essere lastricata che da cattive intenzioni. B) Il VII Prevosto o Giudice, per il quale il diritto di dettare leggi, discuterle, eseguirle spetta solo al popolo. C) Il IX Cavaliere Eletto sulla separazione e l’eguaglianza dei poteri, l’eleggibilità dei giudici e last but not least il discusso principio del diritto naturale. D) Il XXIV Principe del Tabernacolo ci insegna che quando le istituzioni non rispondono alla coscienza civile vanno abbattute, come le colonne del tempio di trentesim e ricostruite in nuova forma con le macerie. E) Il XXVI Principe di Compassione dove la carità e il disinteresse per il profitto morale e materiale devono connotare l’agenda di chi si occupa della cosa pubblica. F) Il XXVIII Cavaliere del Sole quando il visibile è la misura proporzionale dell’invisibile e l’armonia nasce dall’unità dei contrari. Percorso dialettico tra questi segnavia, perché il metodo massonico suggerisce di affrontare la realtà sociale alla ricerca di un principio d’ordine, nella complessità, dove la cifra è la chiave spezzata del IV e la ricostruzione della chiave è il metodo, il secretum che dà carisma, non il segreto delle conventicole e delle sette, che si auto-illuminano della loro oscurità (il sole nero), ma il secretum della luce. 4– Da quanto sopra appare chiaro che per il Massone il politico è dimensione iniziatica. L’iniziato affronta il lungo e accidentato percorso della politica come sentiero umido, non solo conscio che gli altri possono procedere per altre vie, ma certo che su questa strada il lievito sono coloro che dissentono, coloro che non lodano e non applaudono, spesso indifferenti, timorosi

e sfiduciati. Questi sono i segnavia del percorso politico di un iniziato, che non vuole né vincere né convincere, ma testimoniare con le sue azioni il secretum che dà luce, la coscienza che la via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni. Il sogno di una cosa è un aspro sentiero in salita che sulla cresta diviene scivoloso e infido, perché il pericolo di cadere nella valle del bene è fallire la meta della Gerusalemme celeste, così come cadere nella valle del male è superbia del Santo. Su questo crinale, zona grigia dell’agire, l’iniziato si muovo conscio dell’idolo narcisista, del miraggio del successo, del profitto materiale e morale. Una via difficile che non gratifica perché l’anonimato è il suo segreto, ma è la via di coloro che si sono sacrificati per un’utopia, in tutti i conflitti, la via del milite ignoto della saggezza. A valle di questa utopia moralistica corre la via umida, la palude dei fatti e dell’agire umano. Il Massone non può non essere liberale, ma conosce i limiti della democrazia rappresentativa e i suoi effetti non voluti. Il poeta milanese Carlo Porta ha dedicato un sonetto alla Santa Demucrassia che così conclude: “Santa demucrassia tant decantada / in stu secul de sapient filusufista / cumprada prumetida e regalada / due sett? Cusa fett? No t’hoo mai vista!” Anche oggi, dopo due secoli, la democrazia non è santa perché è un work in progress e v’è chi parla di democrazia telematica e chi di oligarchia dei tecnici. L’iniziato, anche se non è un tecnico della politica, sa di aver vissuto in momenti di più alta condivisione delle decisioni e delle azioni là dove si lavora senza alcun interesse personale né economico né sociale, dove si lavora tra fratelli, non all’ordine di qualcuno, perché il capo è un coordinatore carismatico e il carisma lo si guadagna giorno dopo giorno. Penso agli anni della ricostruzione, quando lavoravamo gratuitamente o con minimi corrispettivi, spesso in natura. Oggi i grandi complessi produttivi sono in crisi in tutta Europa e la loro caduta fa più rumore e danno quanto più grandi sono, producendo disoccupazione, miseria, apatia, ribellioni individuale, crimine organizzato o no. Ma accanto a questi danni la crisi ha generato in ognuno di noi il de-

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siderio di ricostruire una società più giusta, più modesta, più povera forse, ma certo meno ansiogena e compulsiva, meno sprecona. Ricostruire un Paese il cui pil comprende “la felicità media lorda”, come il Bhutan, una società armoniosa dove l’Europa sia unione delle genti e non degli stati, un’unione dei semplici … perché di loro sarà il regno, la Gerusalemme celeste, il luogo in cui si costruisce il Terzo tempio, il tempio dell’amore e della libertà. Diceva Francesco De Sanctis “la semplicità è compagna della verità, come la modestia lo è del sapere”. E i semplici e modesti sono gli attori di una liturgia nel senso che i Greci davano a questa parola: attività gratuita a favore della collettività. “Stanno i giorni futuri innanzi a noi / come una fila di candele accese / dorate, calde e vivide” (Kafavis) Buon Anno di Vera Luce 6013. ______________ Bibliografia: AA.VV., Hermeneutica, Attualità del mito, Moncelliana, 2011. M.Bonazzi, Il fantasma della libertà, Mimesis, 2011. F.Cassano, L’umiltà del male, Bari, 2012. D.Fisichella, Autorità e libertà, Carocci, 2012. G.Galli, Esoterismo e politica, Rubettino, 2010. R.Gombrich, Il pensiero del Buddha, Milano, 2012. F. von Hayek, La via della schiavitù, Libero Libri, 2011. F.Rampini, Voi avete gli orologi, noi il tempo, Milano, 2012.

P.30/31: Il vero massone costruito con elementi della Loggia, stampa colorata a mano, sec XVIII; p.32: La sfinge e le piramidi a Giza, Egitto; p.33: Guanti bianchi e maglietto.

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Giovanni Battista Ameglio Documenti su massoni in divisa Antonino Zarcone

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A

meglio Giovanni Battista nasce a Palermo il 29 ottobre 1854. Ufficiale di carriera. Allievo della Scuola Militare di Fanteria e Cavalleria a Modena dal 1 novembre 1872, viene nominato Sottotenente di Fanteria il 23 agosto 1875 e assegnato al 7° Reggimento di Fanteria “Cuneo” di Milano. Presta giuramento di Fedeltà a Milano il 26 settembre 1875. Promosso Tenente il 21 agosto 1879 e Capitano il 21 marzo 1886. Inviato in Eritrea dall’11 novembre 1887 al 21 dicembre 1888, comanda un Reparto d’irregolari. Encomiato il 6 settembre 1888. Encomio: “Per la lodevole condotta tenuta in Uanà, dopo il fatto di Saganeiti, nel raccogliere i reduci del combattimento”. Rimpatria in Italia, il 23 dicembre 1888 è riassegnato al 7° Reggimento di Fanteria “Cuneo” di Milano. Destinato nuovamente in Eritrea dall’8 dicembre 1889, presta servizio al Reggimento Cacciatori Indigeni e poi ai Battaglioni di Fanteria Indigena dal 16 agosto 1891. Nominato Cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia il 30 dicembre 1892 “In considerazione di speciali benemerenze”. Encomiato solennemente dal Comando Truppe Coloniali il 28 febbraio 1894 “Perché durante le operazioni contro i dervisci (dicembre 1893) giunto da Archico con la sua compagnia in Cheren ed assunto il comando del presidio e del forte, diede vigoroso impulso al funzionamento dei vari servizi completò alacremente la sistemazione definitiva del forte e particolarmente del ridotto e mantenne con opportune disposizioni sempre aperta la comunicazione colle truppe operanti”. Il 1 luglio 1894 è assegnato al Corpo delle Truppe Coloniali Indigene. Promosso Maggiore il 13 dicembre 1894. Comandante del 5° Battaglione Indigeni dal 10 gennaio 1895. Decorato della Croce di Cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia il 4 gennaio 1896. “Perché il 9 ottobre 1895, alla testa dell’avanguardia dell’esercito coloniale, attaccò risolutamente la retroguardia dell’esercito abissino, stabilita in posizione fortissima sull’altura di Debra Ailè (Antàlo) e, dopo averla scossa col fuoco dell’artiglieria, riuscì a cacciarla in fuga disordinata, guidando le proprie truppe all’assalto della posizione e dando prova di intelligenza, avvedutezza e valore non comune” e decorato della Medaglia d’Argento al Valore Militare perchè: “Comandante dei due

battaglioni di avanguardia, dette prova di molta intelligenza ed energia occupando di sorpresa il ciglione di Guna Guna; e, nei combattimenti del 2 e del 7 maggio, dimostrò abilità e coraggio nel dirigere l’azione della truppa ai suoi ordini. Aga a e Debra Matzo, 2 e 7 maggio 1896”. Nominato Cavaliere dell’Ordine dei SS Maurizio e Lazzaro il 4 giugno 1896 “In considerazione di speciali benemerenze”. Per il servizio prestato in Colonia è autorizzato a fregiarsi della Medaglia Commemorativa per la Campagna d’Africa e apporre sul nastro le fascette “1887 Adua”, “campagna 1887- 88”, “1893 Cheren”, “Campagna 1895 - 96” e “Campagna 1897 contro i Dervisci”. Rimpatriato, dal 17 giugno 1897

assume il comando del 2° Battaglione del 49° Reggimento Fanteria. Nominato Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia il 20 marzo 1898 “In considerazione dell’opera intelligente ed ardita compiuta nel raccogliere e sovvenire circa mille reduci della battaglia di Adua alle acque di Sefè presso Mai Agamò oltre il Bolesa, dalla sera del 1 a quella del 2 marzo 1896, ed altri millecinquecento circa a Chenafessà presso il Mareb, dal 5 al 9 detto mese”. Promosso Tenente Colonnello il 10 agosto 1898, viene incaricato del comando del 3° Battaglione del 49° Reggimento di Fanteria dal 10 agosto 1898. Comandante e Relatore al Deposito del reggimento dal 14 dicembre 1899. Autorizzato a fregiarsi della Croce d’Oro per Anzianità di Servizio il 16 gennaio 1901. Nuovamente incaricato del co-

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mando del 3° Battaglione del 49° Reggimento di Fanteria dal 5 settembre 1901. Autorizzato ad apporre la Corona Reale sulla Croce d’Oro per Anzianità di Servizio il 19 dicembre 1901. Inviato in Cina dal 25 marzo 1902 dove assume il Comando del Distaccamento Misto italiano in Cina dal 29 agosto 1900. Al termine della Missione è autorizzato a fregiarsi della Medaglia Commemorativa della Campagna di Cina e apporre sul nastro le fascette per gli anni 1902, 1903, 1904 e 1905. Promosso Colonnello il 7 febbraio 1904. Nominato Commendatore dell’Ordine della Corona d’Italia per Moto proprio del Sovrano il 1 giugno 1905 “In considerazione di speciali benemerenze acquistate quale comandante il reparto delle truppe del Regio Esercito già dislocate in Cina”- Comandante del 20° Reggimento di Fanteria dall’8 giugno 1905. Decorato della Medaglia Mauriziana al Merito Militare dei dieci lustri il 21 luglio 1907. Non si conosce la Loggia d’iniziazione. Secondo V.Gnocchini nella sua opera sui massoni italiani fa parte della Loggia “Centrale” di Palermo del Grande Oriente d’Italia ma, come si evince dai documenti nel 1908 è sicuramente fra gli scissionisti ferani ed è fra i fondatori della Gran Loggia d’Italia (matricola n. 61) appartenendo alla loggia “Giorgio Washington” di Palermo. Già elevato al 33° del Rito Scozzese Antico ed accettato, il 1 febbraio 1910 è nominato attivo del Supremo Consiglio. Nominato Ufficiale dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro il 2 giugno 1910. Promosso Maggiore Generale il 9 giugno 1910. Comandante della Brigata “Piemon35


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te” a Catania dal 1° luglio 1910. Combattente della guerra italo–turca 1911/12. Comandante della IV° Brigata di Fanteria dal 15 ottobre 1911, Comandante del Corpo di Spedizione a Rodi. Mentre è a Rodi il generale Ameglio è oggetto di un’interpellanza presentata dall’Onorevole Chiesa al Ministero della Guerra che lo accusa di fare il gendarme nelle isole dell’Egeo a favore della Turchia e di “obbligarlo ad adoperarsi per soffocare i sentimenti di libertà individuale degli abitanti delle stesse isole non poteva conciliarsi con la dignità e la ben nota rinoma del Generale stesso”. Il promotore dell’iniziativa parlamentare contro il generale Ameglio è l’onorevole repubblicano Eugenio Chiesa, che pochi mesi dopo verrà iniziato nella Loggia “Propaganda Massonica” di Roma il 6 agosto 1913 e che diverrà Grande Maestro Aggiunto della Massoneria Italiana 36

in esilio nel 1930. La notizia dell’interpellanza viene riportata sul numero del 12 settembre 1912 del Giornale Elleno “Patris”, pubblicato in Atene, che interviene in favore della comunità cristiana greca. Il 5 dicembre 1912 il Tribunale Religioso del Vilaiet delle Isole dell’Arcipelago invia l’interpellanza al Presidente della Camera dei Deputati Italiani e sottoscritta dal Kadì di Rodi Ahmed Sciakia, dal Mufti Sanis e dai notabili Memed Sadik, Hassan Bassri, Mahemet Kemal. Questo, avuta notizia dell’interpellanza, scrive: “Il deputato socialista su accennato, qualora si fosse reso conto della e del contegno dei mussulmani e se avesse voluto parlare in modo imparziale e coscienzioso, certo dovrebbe ringraziare la Presidenza della Camera dei Deputati per il contegno ed i sentimenti di equità, di cui ha dato prova sua Eccellenza il Generale

Ameglio, sin dal giorno dell’occupazione di Rodi, e non avrebbe fatto dichiarazioni contrarie. I mussulmani sono veramente grati – Soltanto non vi è duopo di negare che la popolazione cristiana ha goduto molto più maggiormente la benevolenza del Generale. Questo fatto è chiaro come la luce del sole. Non è lecito che i cristiani di Rodi e delle altre isole dell’Egeo tutto quel bene che ha fatto per loro quel “Grande e Grande Generale” perché egli non ha consentito di permettere certe pretese formulate ma contrarie al buon senso. Ciò sarebbe una vera ingratitudine. È quindi una vera calunnia e non conforme alla verità la dichiarazione che si fa il Gendarme della Turchia. Il Generale Ameglio è realmente un comandante che conosce il suo compito e che quindi siano cristiani o mussulmani rispettano la legge. Egli sa mantenere la sua dignità personale, come pure quelle della sua carica. Le pretese dei cristiani e le dichiarazioni dell’Onorevole Chiesa ci addolorano, poiché non sarebbe cosa conciliabile col progresso e con la civilizzazione di una grande Nazione il constatare che il contegno equo del Generale Ameglio sarebbe stato lodato ed apprezzato qualora avesse servito a favore delle popolazioni cristiane. La libertà ed i favori goduti dagli abitanti delle Sporadi sotto il governo ottomano sono confermati dai Firmani che essi posseggono. Tale privilegio non è stato mai concesso a nessun suddito estero - di più la loro indipendenza individuale non fu mai violata - le pretese avanzate sono puramente non fondate. Anche le notizie pubblicate da altri giornali circa la questione delle armi sono assolutamente false, poiché mentre tosto dopo l’occupazione dell’Isola tutte le armi possedute dai mussulmani vennero raccolte, dai cristiani se ne raccolse un minimissimo numero, ed anche questo nella città. I cristiani attualmente posseggono ogni specie di arma, mentre che i mussulmani non posseggono neppure il coltello per tagliare il pane. I rapporti dei consoli delle grandi potenze alle loro Ambasciate attestano quanto sopra è detto. Per questi motivi respingiamo con tutte le energie le accuse intenzionate dal Sig. Chiesa e dalla stampa contro il Generale Ameglio e smentiamo le notizie pubblicate al riguardo”. Una lettera che difende l’operato del generale italiano. Un generale Massone che si trova a mediare con la comunità turca


mentre in Turchia operano associazioni come quella dei Giovani turchi che hanno trovato i natali in Logge, alcune delle quali legate da rapporti con quelle italiane. Promosso Tenente Generale per Merito di Guerra il 16 marzo 1912. Autorizzato a fregiarsi della Medaglia Commemorativa della Guerra Italo-Turca per gli anni 1911/12, 1913/14. Collocato a disposizione dal 16 marzo 1912 al 6 novembre 1913. Nominato Grand’Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia il 30 maggio 1912 e decorato della Croce di Commendatore dell’Ordine Militare di Savoia il 16 marzo 1913 perché “Comandante dell’avanguardia nello sbarco di viva forza sulla spiaggia della Giuliana (Bengasi 19 ottobre 1911), diresse il combattimento con grande energia, perizia e valore, conducendo personalmente i battaglioni all’attacco alla baionetta, quando erano caduti feriti i loro capi. Raggiunse completamente gli obiettivi che gli erano stati fissati dal suo Capo. Diede pure insigne prova di valore e di perizia nella fazione delle Due Palme (Bengasi), ed è a lui dovuta l’occupazione dell’isola di Rodi e la cattura di tutto il presidio”. Governatore della Cirenaica dal 6 novembre 1913 al 15 luglio 1915. Nominato Commendatore dell’ordine dei SS Maurizio e Lazzaro su proposta del Ministro dell’Interno il 28 dicembre 1913, Grande ufficiale dell’Ordine Coloniale della Stella d’Italia il 4 febbraio 1915. Governatore della Tripolitania dal 15 luglio 1915 all’8 agosto 1918. Mentre è incaricato del Governo della Tripolitania Giovanni Ameglio è nuovamente oggetto di accuse, stavolta da parte di alcuni ufficiali dipendenti. Il senatore generale Adolfo Tittoni è incaricato di svolgere un’inchiesta, di cui esistono le carte all’interno del fascicolo dell’ufficiale. Tra le dichiarazioni, interessante, una datata Tripoli 14 novembre 1918 e firmata dal Colonnello Vieri, Presidente del tribunale Militare di Guerra. Nella sua relazione Vieri ricorda che “nell’assumere la carica sopra detta ebbi una personale preoccupazione, sapendo purtroppo come la massoneria imperante a Tripoli avesse estese le sue branchie non solo tra il personale della giustizia militare, ma anche tra gli ufficiali alcuni dei quali erano giudici del tribunale militare. Per cui ebbi sempre un’oculata prevenzione, con la quale cercai sempre di sventare qualsiasi trama a danno della giustizia. Credo di esservi riuscito

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in buona parte, specie nelle discussioni fatte in camera di consiglio, ma è mia morale convinzione che in qualcuna delle cause la massoneria abbia avuto la sua influenza”. Una dichiarazione che evidenzia in modo palese come sia prevenuto il redattore dello scritto che, peraltro, cita cause nelle quali “l’assoluzione del reo fu ottenuta con lieve maggioranza o a parità di voti (processi Sergente Cagliari imputato di insubordinazione, Aspirante Venturi - violenza carnale - eccitamento alla corruzione di una minorenne, Tenete Benzi appropriazione indebita - Soldato Vigna ed altro in licenza straordinaria senza assegni lesioni colpose)”. Il Presidente del Tribunale Militare ricorda che il Generale Ameglio alcune volte si era raccomandato di essere severo mentre ebbe a richiamare l’attenzione dei componenti il tribunale per la assoluzione di un ascaro del 15° Battaglione eritreo libico, imputato di alto tradimento, ma per il quale in pubblica udienza venne a mancare la prova”. Uno scritto con il quale l’autore sembra voler sollevare il dubbio di ingerenze da parte del Governatore anche se “pressioni vere e proprie sua Eccellenza non ne ha mai fatte”, basandosi su dichiarazioni di alcuni ufficiali che nel corso di alcune cause gli avevano riportato che “in alto si desidera il proscioglimento”. Accuse di un ufficiale che ricopre la carica di Giudice del Tribunale Militare, formulate senza portare prove concrete e forse motivate dal fatto che “il Generale Ameglio non ebbe per me quei riguardi che era solito ad usarmi in antecedenza. E di questo mi

lagnai con amici poiché moralmente ciò mi fece male”. Al termine dell’inchiesta il generale Ameglio viene assolto da tutte le accuse, inclusa quella di aver portato la Massoneria al Governo della Tripolitania. Nominato Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran Cordone dell’Ordine della Corona d’Italia su proposta del Ministro delle Colonie il 18 luglio 1916. Il 26 luglio 1917 sposa la signora Carolina Malavasi. Nominato Grand’Ufficiale dell’Ordine dei SS Maurizio e Lazzaro il 10 gennaio 1918 “In considerazione di lunghi e buoni servizi”. Nominato Senatore del Regno il 23 febbraio 1917 (categoria 14°: Ufficiali Generali). Il 12 gennaio 1918 è nominato Luogotenente Sovrano Gran Commendatore del Rito Scozzese Antico ed Accettato di Piazza del Gesù, per cui viene confutata l’affermazione di Gnocchini circa il suo rientro al Grande Oriente d’Italia. A disposizione per ispezioni dall’8 agosto 1918. Comandante del Corpo d’Armata Territoriale di Napoli dal 10 gennaio 1919. Decorato della Croce al Merito di Guerra per la Campagna di Libia il 31 gennaio 1919. A disposizione del Ministero degli Interni come Comandante della Guardia Regia dal 29 luglio 1920 al 20 ottobre 1921. Partecipa alle Operazioni di Soccorso durante l’Eruzione dell’Etna. Muore a Roma il 29 dicembre 1921. P.34: Carta topografica dell’Eritrea (part.), 1896; p.35: Il generale Ameglio in due ritratti fotografici; p.36 in alto: Cartolina postale con foto del generale Ameglio e diciture in greco e in italiano; p.36 in basso: Il forte turco all’imbocco del porto di Rodi; p.37: Bersaglieri a Rodi, guerra Italo-Turca.

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parte I

Il manoscritto di Cooke Maurizio Galafate Orlandi

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uando venni in possesso della prima edizione di The History and Articles of Masonry (titolo del libro che successivamente verrà semplicemente chiamato il “manoscritto di Cooke”), notai con soddisfazione che si trattava di una copia autografata dall’editore. Fu in quel momento che decisi di approfondirne lo studio, non soltanto per analizzare le informazioni che conteneva, non soltanto perché questo manoscritto è stato da sempre considerato una pietra miliare nella storia della Massoneria, ma soprattutto per comprendere meglio se e quanto venne utilizzato per dare alla Libera Muratoria una nobile discendenza. Ricordavo ancora le parole della storica Frances Yates che avevo letto su un suo libro: “Le origini della Libera Muratoria costituiscono un problema molto dibattuto dagli storici che, ancora oggi, non ha trovato una soluzione univoca”. Ma che cos’è la Massoneria? Se proprio lo vogliamo sapere, dovremo prima affrontare e risolvere la questione sollevata dalla Yates, e non solo da lei, tenendo sicuramente conto di notizie storiograficamente accertate, ma anche valutando attentamente tutte le testimonianze, anche se non completamente accertabili, che sono giunte fino a noi, per poter così formulare quantomeno ipotesi che potessero essere attendibili. Molti sono gli elementi dei moderni rituali della Massoneria che trovano riscontro in quella “di mestiere” e, sicuramente, un’attenta lettura del manoscritto in questione contribuirà a farci conoscere meglio le nostre origini di “speculativi”; termine che, peraltro, appare per la prima volta proprio in questo documento. Il Manoscritto venne pubblicato per la prima volta, nel 1861, a Londra da R.Spencer e Matthew Cooke ne fu l’editore. Il testo si divide in due parti: la prima è composta da 19 articoli e narra la storia della Geometria e dell’Architettura, mentre la seconda, dopo un’introduzione di carattere storico, elenca i cosiddetti “Doveri”, nove articoli che trattano dell’organizzazione del lavoro e che sarebbero stati promulgati in un’assemblea generale indetta dal re Athelstano. Seguono poi nove consigli di carattere morale e religioso e infine quattro regole

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inerenti la vita sociale dei Muratori. La narrazione inizia con un’elaborata invocazione a Dio, il quale aveva creato tutte le cose affinché fossero assoggettate all’uomo, gli aveva dato la conoscenza delle Arti, inclusa la Geometria, che viene considerata come la generatrice di tutte le cose e fondamento delle Scienze, con il compito di misurare la terra. Nel testo originale, alle righe 89-92, troviamo infatti, evidenziata in rosso, la seguente frase: “Et sic dicitur a geo ge quin R ter a latin et metron quod est mensura. Una geometria in mensura terra vel terrarum”. Di seguito troviamo alcuni personaggi biblici, fra questi Jabal, maestro costruttore, ed Enock. Si tratterebbe di coloro che, successivamente, avrebbero trasmesso i segreti dell’Arte ad Abramo, il cui allievo, Euclide, l’avrebbe insegnata a sua volta agli Egizi, da questi sarebbe stata poi trasmessa agli Ebrei, fino a giungere a Re Salomone, che la utilizzò per costruire il suo Tempio. Dopo che questo venne distrutto definitivamente, la cosiddetta Arte Muratoria, che in Inghilterra sarebbe stata protetta da Sant’Albano e successivamente codificata dal Re Athelstano, sarebbe stata (sempre secondo il nostro manoscritto) tramandata ai cristiani e tra questi anche a quattro martiri europei, i Santi Quattro Coronati, costruttori di professione. Un elemento fondamentale per coloro che fecero della Libera Muratoria una scuola di pensiero è la “Parola del Muratore”, che, proprio per questo, ritro39


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veremo nei rituali dei nostri giorni. La “Parola” venne usata per la prima volta in Scozia per esigenze, almeno all’inizio, esclusivamente pratiche. “Dare la Parola” permetteva infatti ai capimastri e agli imprenditori, naturalmente legati a una Corporazione di mestiere, di riconoscere i lavoratori che vi appartenevano e proteggere così il sistema da tutti gli altri che non avevano compiuto il regolare periodo di apprendistato stabilito dagli Statuti delle Corporazioni stesse e, allo stesso tempo, avrebbero avuto la certezza di assumere soltanto “liberi muratori”. Il 24 giugno 1721 John, secondo duca di Montague, venne eletto Gran Maestro della Gran Loggia di Londra. Alla cerimonia era presente anche un certo William Stukeley, il quale nel suo diario scrisse che il predecessore del Duca, George Payne, nel periodo della sua Gran Maestranza, aveva mostrato 40

in occasione di una riunione un antico manoscritto, che si presume risalisse a oltre cinquecento anni prima. Secondo quanto riportato dallo Stukeley stesso, alcuni documenti che si trovano raccolti nella “Bodleian Library” farebbero supporre che fosse lo stesso manoscritto che oggi si trova nella “British Library”, contrassegnato dalla sigla Additional Manuscript 23198 e che, come abbiamo già visto, successivamente alla sua pubblicazione, sarà universalmente conosciuto come il manoscritto di Cooke. Anche se la presunta testimonianza oculare di William Stukeley potrebbe far apparire poco credibile quanto dirò, ritengo che potrebbe essere fondata l’opinione di coloro secondo i quali il manoscritto in questione, redatto in prosa, non sia così antico come lo Stukeley sostenne e che invece sia stato il frutto di una compilazione realizzata nel pri-

mo ventennio del XV secolo (in seguito vedremo quali altre datazioni dell’opera sono state ipotizzate dagli storici). Robert Freke Gould, nel suo libro Storia della Libera Muratoria, sostenne che la parte leggendaria narrata nel manoscritto rappresentava un’antica tradizione dei muratori che fino a quel momento era stata tramandata oralmente. Non possiamo stabilire con assoluta certezza se questa affermazione sia vera o si tratti di una mera ipotesi, perché non possediamo un’adeguata documentazione al riguardo. Se teniamo conto di quanto hanno sostenuto anche altri studiosi in materia, potremmo anche supporre che la storia narrata sia nata dal desiderio di precostituire una prova che il Mestiere, o Arte, aveva nobili origini molto antiche e che non vi fossero gerarchie tra i muratori. Il Cooke, è così che per semplicità lo chiameremo d’ora in poi, risalirebbe, secondo Hughan, al 1450 circa; una datazione che, successivamente, è stata condivisa anche da molti altri storici, anche se altri autori hanno sostenuto che il libro dei Doveri, che costituisce la seconda parte del nostro documento, risalirebbe al XIV secolo, mentre la prima parte, quella dal contenuto storico, all’inizio del XV. Il dott. Begemann cercò anche di individuare il luogo in cui il manoscritto potrebbe essere stato compilato e arrivò alla conclusione che avrebbe potuto trattarsi della parte sud-est delle Midlands occidentali, nel Gloucestershire, oppure nell’Oxfordshire.


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George Payne ebbe sicuramente accesso a questo manoscritto quando, nel 1720, compilò i Regolamenti Generali, gli stessi che il Rev. James Anderson incluse successivamente nelle sue prime Costituzioni, pubblicate nel 1723. Dalla loro lettura comparata emerge con chiara evidenza che egli fece uso delle righe del manoscritto che vanno dalla 901 alla 960. Anche George William Speth si cimentò nell’impresa di individuare la data in cui il Cooke venne compilato e arrivò alla conclusione che esso fosse la trascrizione di un documento scritto da muratori in tempi molto più antichi. Non solo, ma che si trattava della più pura versione degli Antichi Doveri giunta fino a noi. Edward Augustus Bond, curatore dei manoscritti e, successivamente, bibliotecario della “British Library”, a sua volta sostenne che, senza alcun dubbio, il manoscritto in questione fosse da datare alla prima metà del XV secolo. Dopo alcuni anni, quando gli venne chiesto di riesaminare il manoscritto in questione, confermò che, a suo giudizio, la datazione era quella a suo tempo individuata e cioè la prima metà del XV secolo. Tali conclusioni vennero soltanto parzialmente confermate da Douglas Hamer, il quale aggiunse che il Cooke era stato scritto nel dialetto parlato nell’area sud-ovest delle Midlands inglesi ma che, secondo lui, risaliva al tardo 1300. Il Cooke non contiene soltanto notizie di esclusivo interesse per i Massoni; si tratta invece di un testo letterario che, anche secondo la medievalista Helen Cam, da sempre sostenitrice della forte influenza che il Medioevo avrebbe avuto sull’era moderna, descrive un’orga-

nizzazione sociale la cui influenza si fa sentire ancora oggi. Un documento che riflette la società dell’epoca: questo è in estrema sintesi il pensiero di Helen Cam ed è anche quanto ha sempre sostenuto Lisa Cooper, la quale ritenne di poter stabilire che quelle 960 righe (in realtà 959 per la ripetizione di una di esse) ci potessero dire molto sul modo di pensare e sui costumi dell’epoca in cui venne redatto ed in particolare quelli degli artigiani medievali. La ricercatrice sostenne che il testo voleva mettere in evidenza quale fosse il senso della comunione di intenti dei muratori che rispecchiava, nel suo insieme, l’orgoglio che essi provavano di essere costruttori, esprimendo altresì un forte senso di autostima. Per Lisa Cooper il nostro manoscritto dimostra che i liberi muratori si legitti-

mavano come costruttori fedeli alla tradizione più antica. [continua] ________________ Bibliografia: - Anonimo, The History and Articles of Masonry (Editor Matthew Cooke), Londra, 1861. - F. Yates, L’Illuminismo dei Rosa-Croce, Torino 1976. - H. Cam, Liberties and Communities in Medieval England, London, 1963. - D. B. Haycock, William Stukeley, Science, Religion and Archaeology in Eighteenth-Century, Woodbridge (Inghilterra), 2002. - R.F. Gould, The History of Masonry, Jack, Londra, 1885. - J. Anderson, Le Costituzioni dei Liberi Muratori 1723, Cosenza, 2000. - M. Galafate Orlandi, Riflessioni sulla massoneria, Atanor, Roma, 2011.

P.38-41: Oggetti massonici vari provenienti da collez. private.

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parte I

La cittĂ massonica Un metodo per lo sviluppo ecosostenibile di questo nuovo secolo Jean Marc Schivo

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remessa: in che modo i contenuti presenti all’interno dell’ampio Codice Massonico possono oggi veicolare nuovi comportamenti, nuove speranze per una società alla ricerca di un equilibrio duraturo e di un nuovo dinamismo costruttivo? L’individuazione di un sistema e di un metodo per realizzare una città che abbia fondamenti massonici e applicabili sia alla costruzione che al suo sviluppo economico e sociale è l’obbiettivo che mi sono prefisso oltre un anno fa. Dopo aver analizzato l’opera di maestri, filo-

sofi, scrittori, architetti del passato vicini al pensiero massonico e aver indagato nel nostro articolato spazio ricco di codici, simboli e metodi formativi presenti nei vari gradi, sono riuscito a ricostruire una struttura e una filiera di informazioni per elaborare un sistema progettuale, una sorta di guida per chi intende operare in questa direzione. La ricerca attuale da parte di organismi internazionali, quali onu e unesco, governi e istituzioni di metodi per indirizzare le collettività e i loro operatori verso un futuro sostenibile delle città porta

a una profonda riflessione sui contributi che il nostro metodo può apportare. Questa riflessione, dopo un primo excursus storico preliminare, deve leggersi come una sequenza di spunti che non possono essere completamente svelati per aggregare, coinvolgere e stimolare più attori possibili nell’intento di realizzare una società più coesa.

La mancanza di una struttura integrata, con lo sviluppo dell’età della macchina,

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fig.1

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la coerenza e l’efficienza delle antiche comunità caratterizzate dall’artigianato, si sono rapidamente dissolte. L’assenza di una struttura comunitaria nuova e integrata, che si attagli alle mutate condizioni di vita, dell’età’ della macchina, è il più serio ostacolo ad un autentico progresso democratico … abbiamo cominciato ad intendere che modellare il nostro ambiente non significa applicarvi uno schema formale fisso, ma vale piuttosto un continuo, interno sviluppo, una convinzione che va continuamente ricreando il vero, al servizio dell’umanità [W. Gropius 1943]. Tutto questo non è precisamente ciò che 44

oggi viene proposto nei sedicenti nuovi quartieri “innovativi”, in appartamenti “ideali”, in forme di agglomerazione che divorano ogni spazio di territorio in un’espansione solo apparentemente controllata, con illusori spazi verdi più di maquillage che di sostanza, anch’essi alterati da una qualità dell’aria spesso fortemente inquinata. La città in quanto sistema di comunicazione, centro di sviluppo delle attività umane e collegamento tra funzioni locali e territorio circostante, dovrebbe proporre abitazioni e servizi adeguati per poter vivere in una reale dimensione ecologica una vita non solo bella, ma

soprattutto diversa in cui ogni azione di sviluppo possa essere creativa. Queste nuove identità territoriali, come attive cellule staminali, riusciranno a stimolare un vero progresso non distruttivo, forte di un corretto sistema di veicolazione delle idee e indipendente dalle grandi lobby dell’economia che tentano in ogni modo di sfruttare le risorse del pianeta a loro esclusivo vantaggio. La grande forza del messaggio Massonico è di saper trasmettere alla società civile idee capaci di rinnovarla in momenti di estrema criticità. Da sempre i fondamenti della sua struttura e i suoi campi di intervento danno vita a un metodo caratterizzato da libertà di pensiero, saggezza, scienza e ricerca, valido non solo per l’evoluzione dell’individuo, ma utile per la società intera. Pertanto un modello di città “ecosostenibile” inteso come sistema aperto, adattabile e sensibile alle realtà culturali e territoriali locali, non può che essere una logica applicazione di questi principi, un modello per una società che cerca di evolversi in armonia con tutte le forme di energia nel rispetto dei suoi valori palesi ed esoterici. Il sogno di una società perfetta, ideale, mirata alla trasformazione dell’uomo si ritrova nei differenti periodi storici con esempi talvolta utopici di città strutturate da un’architettura espressione di modelli cosmici o di particolari sistemi di organizzazione politica. Nella cultura occidentale l’idea di un’architettura utopica risale all’antica Grecia del V secolo a.C. D’allora in poi si è avuta una successione di esempi di schemi urbanistici a volte concreti a volte completamente astratti. Ricordiamo Ippodamo da Mileto (V sec. a.C.) (fig.1) e la sua proposta urbanistica di città scandita da uno schema geometrico suddiviso in tre settori nel tentativo preciso di rappresentare nella città l’ordine e l’armonia dell’universo. L’architettura e l’urbanistica affermano così il nuovo ordine sociale e le sue leggi per garantire all’uomo la felicità. E ricordiamo Platone che in Repubblica (428 a.C.) definisce le basi di uno stato ideale suddiviso in tre classi - commerciale, militare e politico-amministrativa - organizzate in uno schema in cui donne e uomini condividono la stessa formazione con lo scopo di costituire un uni-


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fig.2

co processo armonico evolutivo. Il suo modello educativo, Paideia, comprende: ginnastica, musica, matematica, astronomia, filosofia e dialettica. Molto più avanti, tra il 1337 il 1339, l’utopia della città si esprime anche con la tecnica degli affreschi. Ambrogio Lorenzetti (1290) (fig.2) nei palazzi senesi rompe gli schemi di una tradizione religiosa medievale reinventando una visione di città e di spazio urbano ricco di spunti dinamici, espressione di un nuovo desiderio di comunicare. Lo stesso linguaggio espressivo verrà adoperato anche da Francesco di Giorgio Martini (1438-1501) (fig.3) che usa colori e schemi prospettici di raffinate architetture per rappresentare una società in movimento, ricca di comunicazione e scambi, impostata su nuove proporzioni geometriche, su piazze e sistemi comunicanti che reinventano la città immaginandola come un’unica agorà a dimensione umana. I suoi studi rappresenteranno l’uomo come fulcro e modello di proporzioni alla base dello schema di intere città: “... parmi di formare la città, rocca e castello a guisa del corpo umano, e che el capo la rocca sia, le braccia le sue aggiunte e ricinte mura, le quali circolando partitamente leghi el resto di tutto el corpo, … e le partizioni con perfetta misura de’ templi, città, rocche e castella osservare si debba…” In risposta alla pestilenza che nel 1486 ucciderà a Milano oltre 50.000 persone,

fig.3

fig.4

Leonardo Da Vinci (fig.4) scardina lo schema medievale e propone un nuovo modello urbano, una “Città Ideale”, ordinata, spaziosa e soprattutto più sana.

La città rinascimentale ideale dovrà essere quindi moderna, razionale, costruita su più piani collegati da ampie scalinate, in un’integrazione funzionale tra archi45


fig.5

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tettura, meccanica e idraulica, con canali navigabili regolati da chiuse per migliorarne la fruibilità e caratterizzata dall’ingegneria al servizio della vita cittadina. Nel 1516 il pensiero umanista di Tommaso Moro (1478) (fig.5) riprende alcuni principi platonici e il termine “utopia” (ou-topos in nessun luogo e eu-topos luogo della felicità). L’isola ideale di Moro, “Utopia”, raggruppa i suoi abitanti in nuclei agricoli che costituiscono la base fig.6

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del sistema politico. Sarà successivamente anche fonte di inspirazione per Tommaso Campanella (fig.6) che, vissuto per oltre 27 anni in carcere, produrrà l’idea della “Città del Sole” (1602), modello utopico con impianto cosmologico che nella sua struttura organizzativa, fusione di differenziate culture e approcci, racchiude molteplici messaggi ermetici. Il Sole diventa l’elemento portante di tutto il sistema vitale della città e il tempio

a lui dedicato, nella sua imponenza, ne rappresenta il cuore operativo e creativo. Senz’altro lo schema della città di Palmanova (fig.7), realizzata nel 1593 a pianta poligonale stellata per circa 5.000 persone, ne ripresenterà alcune caratteristiche. Sarà invece fondata sulla scienza la visione utopica della città immaginata da Francis Bacon nel 1627. La nuova Atlantide, la cui capitale Bensalem (fig.8) incarnerà l’immagine di una società dove i meccanismi di gestione saranno garantiti per sempre da una nuova realtà interna totalmente razionale e direttamente collegata al progresso, alle scienze e alle arti. L’uomo, finalmente maestro della natura e dell’universo, finalizzerà la ricerca scientifica a una nuova realtà sociale tesa al miglioramento individuale. Nel XVIII secolo la formidabile accelerazione costituita dall’industrializzazione e dallo sviluppo della macchina come strumento di produzione delinea una città dove i parametri utopistici vengono riproposti anche in singole opere architettoniche ricche di significato e di significanti, allegorie, rimandi storici ed esoterici, in cui forma e funzione devono però coincidere. La funzione pratica dell’architettura si affianca a quella simbolica delle forme geometriche cosmiche per esaltare la supremazia della ragione sulla passione. In altri casi la visione di una società progressista passa attraverso la letteratura e i testi politici. Nei Discours sur l’origine et les fondaments de l’inégalité parmi les hommes del 1754 Jean Jaques Rousseau (fig.9) introduce il concetto di perfettibilità, base di partenza di ogni forma di educazione dell’individuo e di progresso dell’umanità. Concetto che verrà ripreso nel Contratto Sociale, Du contrat social: ou principes du droit politique (1762), come una delle idee fondanti per un nuovo stato democratico. Se negli esempi sopra citati si ritrovano a tratti legami e condivisioni sia con la ricerca dell’Ordine sia con quella degli Alti Gradi, non di meno l’impegno massonico nell’immaginare e applicare gli insegnamenti e i concetti base della Grande Opera nella società civile sembra una costante nell’evoluzione di quest’ultima. Nel tempo alcuni maestri hanno immaginato un nuovo modo di costruire la città e i suoi spazi per il lavoro e la vita


fig.9

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fig.7

fig.8

famigliare, riuscendo spesso a superare l’approccio utopico di molti grandi pensatori e applicando in termini operativi alcuni principi dell’Opera Massonica. I quattro elementi “terra – acqua – aria 47


fig.11

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fuoco”, che mantengono in equilibrio dinamico la materia elementare, e tutte le cose che ricadono sotto l’influenza dei sensi risultano parte attiva e stimolanfig.10

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te nella trasformazione del territorio da urbanizzare. È infatti dalla natura stessa che prende spunto un nuovo processo di trasformazione della città operativa,

ricco di messaggi esoterici. Agli inizi del 1700 parchi e giardini tra i più importanti d’Europa diventano materia per la realizzazione di luoghi iniziatici all’interno della città stessa. Alexander Pope (1688) (fig.10) diventerà promotore di un nuovo modo di concepire la libertà attribuendo alla natura il compito di fornire all’uomo i mezzi per ritrovare la propria identità perduta. In linea con questa filosofia nel giardino di Twickenham esalta la rielaborazione della natura nel rispetto del genius loci. Spunti simbolici, allegorie e rimandi esoterici si inseriscono in un programma complesso di cui il tema della grotta, inteso come strumento di riflessione e trasformazione dell’essere, rappresenta il punto centrale. Il tempio della Fama (1711), cuore del parco, rappresenta, con i 4 lati che esprimono le quattro parti dell’universo, un invito universale di comunicazione e fratellanza rivolto a tutte le nazioni. Il paesaggio naturale diventa così luogo di rigenerazione dell’uomo, filtro per messaggi massonici che iniziano il loro percorso di trasformazione della città partendo dalla sapiente trasformazione degli spazi naturali.


fig.12

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A Parigi il Parco di Monceau (fig.11) del duca di Chartres, Gran Maestro del Grande Oriente di Francia, fondatore nel 1744 della R.L. “St. J. Jean de Chartres à L’Orient de Monceau”, è l’esempio più calzante dell’applicazione delle idee massoniche che prevedono piantumazioni libere da schemi geometrici e spazi integrati in un’urbanistica di tipo paesaggistico, ricchi di simbologie egizie e templari che rievocano, per alcuni versi, l’atmosfera de Il flauto magico. In questo particolare momento storico fanno parte della Massoneria molti architetti, ingegneri, uomini di scienza, impresari, benefattori che contribuiranno alla costruzione di alcune importanti opere simbolo di questo nuovo modo di concepire la città operativa. Tra questi meritano particolare attenzione Maestri massoni come Bernard Poyet (1742) (fig.12) con l’Ospedale di Parigi, Charles De Wailly (1730) con la nuova Assemblea Nazionale alle Tuileries e Etienne-Louis Boullé (1728) (fig.13) con il cenotafio di Newton e il Tempio della Natura e della Ragione dedicati alla Saggezza Suprema. [continua]

fig.13

[per le illustrazioni si vedano i rimandi fra parentesi nel testo]

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Mysterium...

I Misteri di Eleusi Il kikeon estratto dalla Claviceps purpurea Paolo Aldo Rossi


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tre volte felici quelli fra i mortali, che vanno nell’Ade dopo di aver contemplato questi misteri: difatti solo a essi laggiù spetta la vita, mentre agli altri tutto va male laggiù.1 Demetra, prima di ritornare all’Olimpo con la figlia Persefone, che con lei sarebbe rimasta per i due terzi dell’anno, fonda il tempio di Eleusi: “… istruì i re che rendono giustizia, sulla norma del sacro rito, Trittolemo e Polisseno, e inoltre Diocle, agitatore di cavalli, il forte Eumolpo, e Celeo signore di eserciti; e rivelò i misteri solenni e venerandi che non si possono trasgredire né indagare né proferire: difatti una grande attonita atterrita reverenza per le dee impedisce la voce. Felice colui - tra gli uomini viventi sulla terra - che ha visto queste cose: chi invece non è stato iniziato ai sacri riti, chi non ha avuto questa sorte non avrà mai un uguale destino, da morto, nelle umide tenebre marcescenti di laggiù”.2 Si intende con misteri (da μύω, mùo = taccio, chiudo la bocca) quello su cui si deve mantenere il segreto.3 Sulla parte celata del rituale gli antichi autori sono molto sobri di notizie, più prolissi e particolareggiati sono i cristiani, ma è indubitabile che non siano molto bene aggiornati e messi al corrente dei mi-

1 Sofocle fr. 837. 2 Inno omerico a Demetra, 476-482. 3 Cfr. mystes = “colui che tiene chiusi gli occhi” in confronto all’epoptes = “colui che tiene gli occhi aperti” perché a Eleusi si va per vedere; infatti tutti gli iniziati sono mystai, ma in senso rigoroso la parola sta solo per quelli che partecipano al rito per la prima volta; gli altri sono chiamati epoptai: “coloro che vedono”, o “che hanno visto”. Cfr. Sofocle, Edipo, dove il protagonista diventa cieco per acquisire una profonda conoscenza non più con gli occhi. Ma anche “chiudere la bocca” potrebbe significare il vincolo del segreto, ossia l’obbligo del tacere quanto avveniva nel telesterion o, ancora, il silenzio che tutti i presenti erano tenuti a rispettare durante alcune fasi della cerimonia notturna (Ippolito, Refutatio haereseon V 8, 39: cfr. Plutarco, De garrulitate 505 f; Filostrato, Apollonii I 15). È probabile che il culto risalga a epoca preellenica (terzo millennio); la segretezza rimanda al carattere magico dei culti della fertilità e non è essenziale ipotizzare che fin dagli inizi Eleusi assicurasse la beatitudine dopo la morte e, visto che le persecuzioni religiose nel mondo antico sono un fatto assai raro, è molto improbabile che a ciò si debba il suo carattere misterico.

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steri; anzi, furono proprio i cristiani che, dopo che Serse (unico caso!) aveva attaccato Eleusi per distruggervi i suoi (falsi) dei, riuscirono ad annientarla completamente 880 anni dopo (391 d.C.), cancellando e abbattendo al suolo il santuario. Tutte le loro descrizioni sono contenute in quei libelli (tipicamente cristiani) contra haereses o refutatio hereseon che non sono mai sopra le parti, ed è chiaro che chi ha conosciuto l’ineffabile non ama avventurarsi in spiegazioni, mentre coloro che non l’hanno sperimentato non solo sono increduli, ma deridono, scherniscono e dileggiano. Ora fare una sto-

ria di ciò che avviene nel telesterion4 di Eleusi, utilizzando fonti prevalentemente cristiane (perché quelle greche non ne parlano quasi), è quantomeno grottesco, ridicolo e assurdo.5 Inoltre, questi (e gli 4 Il telestèrion (τεληστήριον, luogo delle iniziazioni, da τελέω, esser portato a compimento). 5 La parola omerica histor, il testimone, ossia “colui che vede” e, di conseguenza, “colui che sa in quanto è informato” (la radice indoeuropea vid, in greco id, in latino video), indica che il tipo di approccio con l’empirico passa attraverso l’osservazione di quel che si vede; il verbo ionico istoreo sta quindi per “investigo”, “esploro”, “osservo”, “indago”, “ricerco” il come stanno le cose al fine di esserne informato e non “invento” al fine di convincere con l’arte del rètore che io

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autori pagani del loro tempo) si riferiscono a una fase molto tarda, in cui il culto poteva aver subito decisivi mutamenti, trasformazioni e correzioni. Ciò che avveniva il giorno 20 del mese di Boedromione all’interno del telesterion, secondo un cristiano dell’età dei Flavi, era: “ho digiunato, ho bevuto il ciceone, ho preso dalla cista; dopo aver maneggiato, ho deposto nel calathos (canestro), e dal calathos nella cista”.6 Le parole (banali e insulse) che venivano fatte pronunciare agli iniziati son ben poca cosa di fronte a un rito che durava da un millenio e mezzo e a cui partecipavano circa 300 città greche, durante il mese di settembre-ottobre, e preparato per tutto un anno.7 Al contrario, “aver visto il sacro” (incontrarsi con la contemplazione della divinità in conoscenza mistica) è il mistero di ho ragione e il mio nemico ha torto. 6 Clemente Alessandrino, Protrepticon II 2l, 2 e Arnobio 5, 25. 7 Probabilmente era proibito indicare l’oggetto che passava dalla cista al canestro e viceversa e il termine usato per designare l’atto rituale, (ejrgasavmeno”, maneggiare) è il più indeterminato possibile, ma anche il più sconcio; questo era il simbolo dell’organo sessuale femminile kteis (Teodoreto di Ciro, Graecarum affectionum curatio VII, II, cfr. Clemente, Protrepticon II,22,5) o del simbolo fallico che, in mancanza d’altro, nelle polemiche cristiane contro i pagani fanno sempre la loro figura.

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Eleusi8. Durante la notte, con i mysti riuniti nel telesterion, si richiamava alla memoria il rapimento di Persefone, la sofferenza, l’angoscia e la dolorosa ricerca di Demetra non in forma drammatica, ma con canti, inni, musiche, preghiere salmodianti. Non è una rappresentazione teatrale, ma una visione allucinatoria. I Greci erano troppo sofisticati per quanto attiene gli spettacoli tragici per lasciarsi sedurre da trucchi teatrali anche particolarmente attraenti e seducenti. Inoltre non vi sono fonti che ci parlano di somme di denaro per artifizi e accorgimenti scenici e per pagare gli attori e, perdipiù, tutto il rito si svolgeva come sacra liturgia in cui l’officiante mantiene il proprio nome e la propria carica, resta in possesso del suo appellativo sacro, indossa le vesti prescritte per conservare la propria fisionomia e compie azioni di cui il protagonista è il dio di cui egli è solo ministro. Contenuto della visione era un’apparizione (schemasi) che si librava nell’etere come un fantasma9 o delle “presenze spirituali”: “E la bellezza era fulgida a vedersi nel tempo in cui vedemmo, assieme al coro felice, la beata apparizione e visione, noi 8 Inno Omerico a Demetra, vv. 482 sgg, Pindaro, fr.137, Sofocle fr 837, Euripide, Ippolito, 25 e Eracle, 613, Andocide, Dei misteri, 31. 9 Sopatro, 339, 25.

nel corteggio di Zeus e altri al seguito di un altro dio, ed eravamo iniziati in quella che è giusto chiamare la più beata fra le iniziazioni, quel rito segreto che celebravamo, noi stessi integralmente perfetti e sottratti a tutti i mali che ci attendevano nel tempo successivo, mentre integralmente perfette e semplici e senza tremore e felici erano le presenze spirituali - entro uno splendore puro - in cui eravamo iniziati e raggiungevamo il culmine della contemplazione: puri noi stessi, senza essere sigillati nella tomba che ora appunto portiamo in giro e chiamiamo corpo, avvinti strettamente a lui come l’ostrica al suo guscio”10. Il telesterion si riempiva di spiriti, tanto che uno degli iniziandi si spaventò a tal punto da morire11; Erodoto racconta che quando arrivarono i Persiani, e i Greci erano tutti fuggiti per non essere perseguitati, Iaccho si lamentò perchè come unici officianti eran rimasti gli spiriti12. Quel che avveniva nel telesterion lo possiamo soltanto immaginare: “Avanziamo sui prati fioriti, dove abbon10 Platone, Fedro 250 b-c. Che Platone confronti qui la sua visione mistica con quella di Eleusi lo si vede dall’uso, in questo contesto, di due parole tipiche dell’iniziaziazione eleusina: “eravamo iniziati” (mystes) e “il culmine della contemplazione” (epopteia). 11 Pausania, 10, 32, 17. 12 Erodoto, 8, 65.


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dano le rose, giocando alla nostra maniera, la più vicina alle belle danze, sotto la guida delle Moire felici. Per noi soltanto è gioioso il sole e il lume delle torce, per tutti noi che siamo iniziati e abbiamo condotto una vita religiosa verso gli stranieri e i concittadini”.13 Gli antichi usano sempre le parole “felice (o tre volte felice) colui che ha visto queste cose”, “ho avuto la fortuna di vedere queste cose”… 14, ma anche autori pagani più tardi dichiarano che gli iniziati compivano stancanti peregrinazioni attraverso profonde oscurità e tenebre oscure (il confine della morte) con sgomenti, brividi, sudori, per poi raggiungere la visione di una luce mirabile: “... che vede molte apparizioni mistiche e ascolta molte voci di questa natura, mentre si manifestano in alternanza tenebra e luce ...”15 e “… raggiunsi il confine della morte, dopo 13 Aristofane, Rane, 448-459. 14 Già visti: Inno Omerico a Demetra, 476-82; Pindaro, fr.137; Sofocle, fr. 837 e fr. 80; Euripide, Eracle, 613; “Proprio poche rimangono che possono ancora ricordare in modo bastante; e queste, quando scorgono qualche imitazione delle cose del cielo, vanno in estasi e non si tengono più, pur non sapendo di che patimento si tratti perché la percezione di ciò non è sufficientemente profonda”. Platone, Fedro 250 a; 250 b-c. 15 Dione Crisostomo, Orazione, 12.

di aver varcato la soglia di Proserpina fui condotto attraverso tutti gli elementi, e ritornai indietro. A metà della notte vidi un sole lampeggiante di fulgida luce. Mi presentai al cospetto degli dèi inferi e degli dèi superni, e proprio da presso li venerai.”16 e, ancora: “Anzitutto i vagabondaggi, i rigiri logoranti, e certi cammini senza fine e inquietanti attraverso le tenebre. In seguito, proprio prima della fine, tutte quelle cose terribili, i brividi e i tremiti e i sudori e gli sbigottimenti. Ma dopo di ciò, ecco viene incontro una luce mirabile, ad accogliere sono lì i luoghi puri e le praterie, con le voci e le danze e la solennità di suoni sacri e di sante apparizioni”.17 Aristofane fa allusione a “una splendida luce, simile a quella di quassù”, a una “luce gioiosa”, e addirittura alla luce solare verso la quale le anime degli iniziati continuano a celebrare le loro sacre cerimonie, come in vita18. Un sacerdote, nel ricordare Eleusi, dice semplicemente: “O mystai, allora voi mi vedeste, quando apparivo sulla soglia dell’anaktoron, nelle notti luminose...”19. Certo che a stare a sentire i cristiani i mi16 Apuleio, Metamorfosi II, 23. 17 Plutarco, framm. 178. 18 Aristofane, Rane, 155; 454-5. 19 Inscriptiones Grecae, II2 3811.

steri di Eleusi sono volgari, primitive e oscene allegorie di un cerimoniale di trasformazione ed evoluzione della natura, ossia un culto agrario, che aveva come suo fine quello di garantire, nel tempo della seminagione, l’abbondanza delle messi; ma il rifacimento dei misteri è imperniato su dati molto più tardi non solo dell’età omerica, ma anche dell’età classica, e, anche se fossero rimossi ed epurati i dubbi sulla credibilità e sull’oggettività dei documenti originali, avrebbe valore solo per l’età imperiale (dai Flavi in poi). Il 21 di Boedromione aveva luogo la ierogamia fra il Cielo Padre (Zeus) e la Madre Terra (Demetra)20, in una stagione in cui, appunto, la pioggia fecondava la spiga; quindi, lo ierofante, interpellando prima il cielo, poi la terra, pronunciava la frase: ὐε κύε “piovi! concepisci! ”21 L’apice del cerimoniale era costituito dall’evocazione e dall’epifania di Core; lo ierofante, chiuso nell’anaktoron, evocava la dea - senza proferirne il nome - e percuoteva una lastra di bronzo, con un grande e ter20 In realtà presso molte culture arcaiche l’atto sessuale del congiungimento avveniva fra lo ierofante e la sacerdotessa in rappresentanza degli dei; in seguito la virtù magica della manifestazione della volontà nuziale si è evoluta in un rapporto mistico tra le due divinità. 21 Isocrate, 4, 28; Clemente, Protrepticon II, 22,2.

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ribile rumore22, quindi veniva accesa una “grande fiamma”, si apriva la porta dell’anaktoron, da cui la luce si diffondeva ed emanava per tutto il telesterion, e lo ierofante si presentava alzando in alto una spiga d’orzo23 proclamando: ἱερὸν ἐτεκε πότνια κυὃρον Βριμὼ Βριμὸν (“la Dea Signora ha generato il sacro fanciullo; da Brimò, Brimos fu generato!)24. Ma questo 22 cfr. Apollodoro, 244; cfr. Velleio Patercolo, 14, l. 23 Plutarco, De profectibus in virtute 81; Ippolito, Refutatio haereseon V 8, 39-40; la dea signora è Demetra (chiamata Brimò da Clemente, Protrepticon II 1 5,1). Ma in quest’ultimo si dovrà riconoscere Pluto, il raccolto abbondante: già nel nostro inno Pluto appare accanto alle dee come colui “che dispensa ricchezza agli uomini mortali.” (vv. 488-90). 24 “... gli Ateniesi, nell’iniziazione di Eleusi, mostrano a coloro che sono ammessi al grado supremo il grande e mirabile e perfettissimo mistero visionario di là: la spiga di grano mietuta in silenzio. Lo ierofante in persona ... che si è reso impotente con la cicuta e si è staccato da ogni generazione carnale, di notte a Eleusi, in

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era ciò che si sapeva del culto a uno/due secoli dalla sua estinzione. Imbattersi con la contemplazione della divinità, in conoscenza mistica, all’interno di un contesto visionario (stati alterati di coscienza, visioni, apparizioni di eventi inconcepibili, fenomeni inspiegabili …) era quel che accadeva a grandi folle che praticavano cerimonie, riti e liturgie ripetitive, con alla base formule magiche iterate con urla, strepiti, canti, danze, inni… Gli iniziati compivano e portavano a termine stancanti vagabondaggi attraverso le perfette oscurità e le tenebre oscure (il confine della morte) con sgomenti, brividi, sudori, per poi raggiungere la visione di una luce mirabile. Per ottenere tutto ciò è necessaria una sostanza psicotropa (eccitante, euforica e, a certe condizioni, allucinogena). mezzo alla luce delle fiaccole, nel compiere il rituale dei grandi e ineffabili misteri, grida e urla proclamando: Brimò Signora ha generato il sacro fanciullo Brimós ...” Ippolito, Confutazione, 58, 39-40.

“Allora Metanira, riempita una coppa di vino dolce come il miele, a lei la porgeva; ma la dea la respinse: disse che, in verità, le era vietato bere il rosso vino, e comandò che le offrisse come bevanda acqua, con farina d’orzo, mescolandovi la menta delicata. ἀνωγ δ᾿ἀρ᾿ άλφι καί ὐδορ δοῦναι μίξασαν πίεμεν γληχῶννι τερείν La donna preparò il ciceone e lo porse alla dea come ella aveva ordinato: Demetra, la molto venerata, accettandolo, inaugurò il rito”.25 Sappiamo, dall’Inno Omerico a Demetra, che il kykeon (il ciceone), la bevanda sacra, era una parte determinante dei Misteri: gli ingredienti di questa pozione sono riportati: orzo (alphi), acqua (ùdor) e menta (blechon). Sembra banale: è una bevanda ristoratrice per Demetra, e la menta (mentha pulegium, viridis, acquatica …), unico ingrediente a bassissimo contenuto eccitante, dà il gusto alla mistura di acqua e orzo. E se non fosse così ovvio? E se il ciceone fosse un composto “farmaceutico” con alla base una sostanza psicotropa? E come doveva venire preparato per essere rimedio e droga? καί ὁ κυκεὼν διίσταται μὴ κιούμενος (“Anche il ciceone si digrega se [non] è agitato”26). Quali sono le reazioni degli iniziati allìingestione di questo stupefacente, ipnotico e narcotico? Risponderemo nel prossimo numero … per il momento ricordiamoci che nell’anno anno 1978 Albert Hoffmann, lo scopritore dell’lsd, rispondeva a Gordon Wasson che gli poneva la mia stessa domanda (personamente lo conobbi due anni dopo!): “Ampiamente dimostrata è la proprietà psicoattiva di queste semplici amidi dell’acido lisergico, molto simile all’lsd. Il problema, a questo punto, era quello di verificare se l’ergonovina, essendo un alcaloide costitutivo non solo dell’ergot, ma dello stesso ololiuqui27 (*), manifestasse un’azione allucinogena. Alla luce della sua struttura chimica, il fenomeno non 25 Inno Omerico a Demetra, vv. 206-212, Fondazione Valla, 1975, a cura di Filippo Càssola. 26 22 B 125 DK; Teofrasto, Sulla vertigine, 9. 27 Piccolo seme, simile ad una lenticchia, proveniente da una pianta: la Rivea corymbosa (una ipomea). Nel 1960 A. Hofmann ricevette i semi dall’etnobotanico R. Evans Schultes e arrivò a dichiarare che contevano gli stessi alcaloidi della segale cornuta.


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sembrava improbabile: difatti essa non differisce molto dall’lsd. Potremmo comunque chiederci perché, se è allucinogeno, questa notizia sorprendente non sia mai stata annunciata, considerato soprattutto il suo vasto uso terapeutico nel corso degli ultimi decenni. Senza dubbio la risposta risiede nel dosaggio molto basso di questa sostanza compreso tra 0,1 e 0,25 mg - impiegato per arrestare l’emorragia uterina. Sapendo che la dose efficace di amide dell’acido lisergico oscilla tra 1 e 2 mg per via orale, decisi pertanto di sperimentare personalmente una quantità simile di ergonovina … Tra i tipi di ergot prodotti dalle varie specie del genere Claviceps che si trovano su cereali e erbe selvatiche, ne esistono alcuni contenenti alcaloidi allucinogeni, gli stessi presenti nei convolvoli psicoattivi messicani. Questi alcaloidi, soprattutto amide dell’acido lisergico, idrossietilamide dell’acido lisergico ed ergonovina, sono idrosolubili, al contrario di quelli non allucinogeni del tipo ergotamina ed ergotossina impiegati in medicina. Grazie alle tecniche e alle strumentazioni di cui dispone-

va l’antichità era quindi facile preparare un estratto allucinogeno a partire da determinati tipi di ergot”. (A. Hoffman, Un problema stimolante e la mia risposta, Harcourt Brace Jovanovich).

P.50: Iniziando ai Misteri, bassorilievo in marmo, periodo Augustano ca.; p.51 in alto: Eleusi, ricostruzione del telestèrion; p.51 in basso: Claviceps purpurea su spighe di Orzo (Hordeum vulgare); p.52/53: Rovine ad Eleusi, Grecia (foto P.Del Freo); p.54: pittura raffigurante i Misteri, Atene; p.55 a sin.: Demetra, marmo, periodo ellenistico; p.55 a destra: Figura femminile con attributi e simboli misterici, periodo ellenistico, Atene.

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Le necropoli di Pompei Giuseppe Cirillo

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ompei fuori le mura. È bello seguire un itinerario non compreso fra quelli turistici ufficiali, ma non per questo privo di un suo fascino particolare che ispira mistero e riflessione. Un tragitto da percorrere immergendosi nel silenzio rotto dall’eterno cantare estivo della cicala fra querce e pini mediterranei e all’ombra incombente e inquietante del Vesuvio. Sei a pochi chilometri dalla tentacolare megalopoli di Napoli che in meno di mezzo secolo ha fagocitato gli antichi comuni di Portici, Ercolano (Hercolaneum), Torre del Greco (Turris octava), Torre Annunziata (Oplontis) per arrivare a Castellammare di Stabia (Sta56

biae) cancellando le loro individualità fatte di secoli di storia e cultura per ridurle a periferie anonime come lo sono tutte le periferie delle attuali megalopoli. Sei così vicino a queste realtà degli anni 2000, ma sei trasportato a duemila e passa anni addietro. I rumori sono solo naturali, il vento che scuote i pini, le cicale e su tutto il silenzio caratteristico di questi luoghi, un silenzio fatto di mestizia, di dolore, ma anche intriso di sacralità e di fede. Questa città, Pompei, che si manifesta sempre in due aspetti che però non sono poi tanto distanti fra loro, anche se una disamina superficiale potrebbe indicarlo. Qui la città antica, con i suoi templi ad Apollo, Giove, Iside. Città che venera i

suoi morti nelle necropoli ed è protetta da Venere. Fuori la Pompei moderna, sede di un Santuario meta di migliaia di pellegrini ogni anno e che serba migliaia di ex-voto come testimonianze di fede. Una città protetta dalla Madonna del Rosario, una donna anch’essa, a testimoniare una continuità, Venere/Madonna del Rosario, non interrotta dalla tremenda eruzione che – nel 79 d.C. – la seppellì, cancellandola (mai termine fu più veritiero) dalla faccia della Terra. Le necropoli restano testimonianza di quanto fosse presente nella civiltà romana il culto della morte con usanze che in un qualche modo sono giunte fino ai nostri giorni e a ogni latitudine o cultura.


Lasciare un cadavere privo di sepoltura avrebbe causato negative ripercussioni sul destino dell’anima del defunto e grave onta per i suoi parenti, ma questo lo si conosceva già dal mondo greco descritto da Omero nell’Iliade. La cerimonia funebre (per cremazione o inumazione) terminava con un banchetto e libagioni. Tanti anni fa - ero ancora bambino mi capitò di assistere al funerale di una delle mie nonne. Non capivo perché, in quell’aria di tristezza e pianto, parenti e amici portassero dolci, pesce, cibi e vino come per una festa. Un mio zio, laconico, mi disse che dopo avremmo mangiato. Si rivolgeva a un bambino di sei anni! Molti anni dopo, visitando il cimitero egiziano de Il Cairo, rimasi meravigliato nel constatare che numerose tombe erano sovrastate da una specie di stanza in muratura. La guida mi disse che serviva per mangiare dopo la visita ai defunti. Così nella civiltà anglosassone e americana i film e documentari mostrano che l’uso del banchetto funebre persiste. Anche allora alcuni giorni del calendario erano dedicati alla commemorazione dei defunti (Parentalia 13/21 febbraio) e l’ultimo giorno era dedicato alle cerimonie pubbliche (Feralia). Le aree cimiteriali, come era uso in quei tempi, venivano incontro al viaggiatore ai lati delle strade afferenti la città immediatamente prima delle porte e costituivano le silenziose città dei morti prima della città dei vivi. La notte si aggiravano fra i tumuli le prostitute che attiravano il viandante con le loro offerte (lupae). A Pompei, arrivando da Napoli, si incontra, dopo numerose ville suburbane fra cui la inquietante Villa dei Misteri (su cui tanto è stato scritto per l’evidente simbolismo dei suoi affreschi), la Porta Ercolano e la sua necropoli. Qui troviamo le tombe più imponenti e maestose, risalenti a quando Pompei divenne colonia sillana. Sono state individuate e scavate alcune decine di tombe, tutte databili tra l’80 a. C. e il 79 d. C. Qui furono sepolti tra gli altri Marco Porcio, il costruttore del Teatro Coperto e dell’Anfiteatro, e Mammia, la sacerdotessa che dedicò il tempio del Genio di Augusto nel Foro. In questi luoghi, in cui due millenni dopo sarebbe nato il principe De Curtis (Totò) e la sua ‘Livella’, già esisteva una suddivisione in caste anche dopo la morte. Sarà stato senz’altro ca-

suale, ma le tombe dei notabili dell’epoca facevano bella mostra di sé ai cigli della strada più importante, quella che giungeva da Napoli e, quale prolungamento della via Appia, da … Roma. Come dire che i vip dell’epoca, anche da morti, volevano essere in prima fila per salutare chi veniva da Roma che … poteva essere importante. Dopo porta Ercolano abbiamo due possibilità: muovendoci a destra arriveremo a porta Marina, che è l’unica a non avere una necropoli. Bisogna ricordare che Pompei era una città marittima (anche se oggi il mare è distante due chilometri). Dopo porta Marina si giunge, attraversando Porta Stabia, alla necropoli di Porta Nocera. I tumuli sono meno maestosi di quelli di Porta Ercolano e molto diversi fra loro a testimonianza che la varietà dell’architettura funeraria della necropoli pompeiana non trova alcun riscontro nelle necropoli di altre città campane, la qual cosa testimonia l’estrema diversità di gusti e di estrazione sociale dei cittadini di Pompei. Su tutte spicca il complesso funerario della sacerdotessa di Venere Eumachia. Su un’alta terrazza sorge l’esedra, con camera sepolcrale e recinto retrostante. La struttura era rivestita di tufo di Nocera e articolata in nicchie con statue, separate da semicolonne, quindi coronata da un fregio figurato. Tornando a Porta Ercolano, ma muovendoci a sinistra, dopo la Torre di Mercurio (l’unica agibile fra le torri delle mura, ma chiusa al pubblico dal terremoto del 1980!) si arriva alla necropoli di Porta Vesuvio. Monumentale è la tomba di C. Vestorius Priscus edile (amministratore per la cura di strade ed edifici pubblici), morto a 22 anni nel 75-76 d.C. pochi anni prima dell’eruzione: un recinto chiude un basamento sormontato da un altare. Qui si conservano stucchi a rilievo con Menadi e Satiro; sulle pareti interne del recinto sono affreschi con scene di caccia, lotte gladiatorie, episodi della vita del defunto. Una mensa con servizio d’argenteria esibisce lo stato sociale del defunto. Vicino c’è la tomba di tufo, a esedra (sedile semicircolare con stele e colonna), che appartenne a Arellia Tertulla, probabilmente consorte di M. Staborius Veius Fronto, duoviro e augure. Sia che abbiamo proceduto da valle (P. Marina, P. Nocera) che da monte (P. Vesuvio), si giunge alla necropoli di Porta di

Nola situata in una posizione opposta a Porta Ercolano. Da questa porta la strada proseguiva verso i villaggi dell’agro campano (Campania felix), ancora oggi ricco di coltivazioni agricole. Fuori della porta solo tre tombe, ma in un luogo decisamente suggestivo. La tomba a recinto

Mysterium quadrangolare appartiene a M. Obellio Firmo, tra i personaggi più importanti degli ultimi anni di Pompei: all’interno del recinto si trovava una stele, il foro che conteneva le libagioni e l’urna di vetro per le ceneri. Invece le altre due tombe sono del tipo a esedra: una è anonima, l’altra è di Aesquillia Polla, moglie di N. Herennius Celsus, personaggio influente in età augustea: al centro c’è un podio con colonna ionica, sormontata da un vaso marmoreo, che nella simbologia funeraria doveva contenere l’acqua lustrale per il bagno della defunta. Alla base della colonna una lapide ancora leggibile. Oggi la tomba è posta all’ombra di una quercia secolare che completa il senso di pace del luogo. Forse era così anche 2000 anni fa quando quella porta (secondaria) della città non dava il transito a ricchi mercanti provenienti da mare o a potenti funzionari in missione da Roma, ma a contadini che portavano al mercato i loro frutti e trovavano breve riposo prima della giornata di lavoro o prima di intraprendere la via del ritorno. Un breve riposo e un saluto, con una carezza sulla lapide di Aesquillia, giovane donna morta a 22 anni (probabilmente di parto, visti i tempi). Anche allora le lapidi funebri racchiudevano, spesso con abbreviazioni, la vita di un individuo, poche parole scritte sul marmo. Chi era Aesquillia? A chi aveva prestato il volto fra gli affreschi che ammiriamo ancora oggi negli scavi o al Museo Nazionale di Napoli? Alla casta mater familiæ o alla prostituta del lupanare? Alla Venere in conchiglia o a una delle Baccanti della villa dei Misteri? Ma forse è giusto che nella lapide non vi sia immagine, è giusto che resti solo un nome e un’età. Il mistero aiuta a far volare la mente e anche a liberarla da terra. P.56: Pompei, Casa del Bracciale d’Oro, ritratti su affresco.

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I vampiri e la ‘Nuova Antologia’ Luigi Pruneti

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rrrrrr, basta la sola parola “vampiro” per far accapponare la pelle. Non esiste, infatti, figura dell’immaginario collettivo così terrorizzante come il vampiro, un revenant che si ciba di sangue umano per protrarre la propria esistenza oltre la morte. L’ origine di siffatte figure è ancestrale, giacché i loro antenati furono Lilith, Empusa, le striges1 e le lamiae2. In seguito, sotto aspetti diversi, questi esseri orripilanti, terrorizzarono l’umanità3; fu però solo nel XVIII secolo che si ebbe una vera e propria epidemia di vampirismo, tanto che Jean – Jacques Rousseau, scrisse: “È da un po’ di tempo che non si parla altro che di vampiri”4. Si badi bene i philosophes non solo consideravano il vampirismo una delle superstizioni più sciocche, ma si affannarono a combatterlo con ogni mezzo. Voltaire, ad esempio, fece sfoggio di tutta la propria corrosiva ironia, affermando che i vampiri esistevano veramente e infestavano soprattutto Londra e Parigi; si vestivano elegantemente, frequentavano la borsa e si chiamavano banchieri. Il fenomeno dell’esplosione del vampirismo, nell’età di François – Marie Arouet, è così strano e intrigante che il compianto amico a Fratello Charles Porset scrisse un interessante saggio sull’argomento dal titolo significativo Vampires et Lumieres5. Alla fine la battaglia fu vinta dagli Illuministi e la credenza nei vampiri, anche se non scomparve del tutto, cessò di essere una paura collettiva. La tribù dei succhiasangue, tuttavia, riemerse vitalissima nella letteratura del secolo successivo con Il vampiro di John Polidori, Varney, il vampiro di James Malcom Rymer, Carmilla di Sheridan Le Fanu e il celeberrimo Dracula di Bram Stoker6. Di questa nuova invasione, anche se in una dimensione diversa, si è cercato di offrire una spiegazione sociologica e alcuni hanno sottolineato 1 M. Centini, Il vampirismo, Milano 2000, p. 34 e segg. 2 L. Pruneti, A volte s’incontrano … Folletti, gnomi e oscure presenze in Toscana e nel mondo, Firenze 2012, p. 221 e segg. 3 E. Petoia, Vampiri e lupi mannari, Roma 2006, p. 202. 4 J. –J. Russeau, Lettre à Christophe de Beaumont, in “Pleiade”, IV, 1969. 5 CH. Porset, Vampires et Lumières, Paris 2007. 6 M. Beresford, Storia dei vampiri, Bologna 2009, p. 111 e segg.

Cultura

come Dracula fosse pubblicato nel 1897, lo stesso anno in cui un certo Karl Marx dette alle stampe Il Capitale. Vi era, dunque, un possibile nesso fra il modo di produzione e l’oscuro personaggio letterario. D’altra parte lo stesso Marx scrisse: “Il capitale è lavoro morto che, come un vampiro, si mantiene solo succhiando lavoro e più è vitale, più lavoro succhia”7. Ora i mostri dai canini aguzzi sono scomparsi dalla letteratura, l’ultimo romanzo celebre sull’argomento è quello di Ann Rice del 1976, da cui è stato tratto il celebre film Intervista col vampiro. Dato, tuttavia, che i vampiri sono dei “ritornanti”, immortali, come nei secoli precedenti, sono usciti dalla porta per rientrare dalla finestra; infatti, hanno occupato la sfera della narrativa adolescenziale e delle fiction televisive. I nipotini odierni di Dra7 Ivi, p. 131.

cula sono ben diversi dai loro predecessori: sono giovani languidi e bellissimi o tontarelli che si fanno far fuori da una fanciulletta ipercinetica. A tal punto si pone, però, una domanda: se il revival vampiristico fu generato nel Settecento, a detta di Porset, da un “nouveau rapport à la mort”8 e nell’Ottocento per “la sussunzione reale, in cui il Capitale esercitava il proprio dominio”9, a cosa è dovuto oggi? Secondo me, il vampirismo attuale è meno evidente ma ancor devastante rispetto al passato, succhia dalla mente delle vittime valori e autonomia di coscienza e di giudizio, per rimodellarla a suo uso e consumo. Svuota e riempie, toglie e inietta, sognando una comunità standardizza8 CH. Porset, Vampires et Lumières … cit, p. 40. 9 V. Evangelisti, Il mostro seducente, in M. Beresford, Storia dei vampiri … cit, p. 7.

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ta e indirizzata su parametri precostituiti, apparentemente libera ma in realtà serva di signori senza volto. Per combattere i nuovi Dracula non servono né paletti di frassino, né aglio, occorre una particolare acqua santa: la cultura, quella vera che non è un morto cimitero di nozioni, ma è viva, animata da un continuo desiderio di apprendere, di valutare, di ricercare. Ho sempre guardato di malocchio le enciclopedie che sentenziano e stabiliscono, dettando la verità; e quando penso che fra qualche anno si rischierà di averne una sola, Wikipedia, mi si accappona la pelle. D’altra parte il pericolo è stato segnalato da diverso tempo10. Già Giovanni Sartori individuava nella televisione un rischio giacché privilegia “una cultura dell’immagine in cui c’è una prevalenza del visibile sull’intelligen10 Cfr. A. Barbano, L’Italia dei giornali in fotocopia, Milano 2003; P. Ercolani, L’ultimo Dio. Internet, il mercato, la religione stanno costruendo una società post – umana, Bari 2012; A. Lami, Avanti popolo! Piazze, TV, Web: dove va l’Italia senza partiti, Marsilio, Venezia 2011.

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za che porta a vedere senza capire”11. Più tardi, affermandosi il web, diversi studiosi hanno sostenuto l’ipotesi che nella mente degli utenti appiccicati allo schermo del computer prevalga “l’illusione di essere attivi e partecipanti, mentre in realtà diventano sempre più passivi nei confronti di un flusso enorme di immagini nei cui confronti sono impotenti a compiere una qualche valutazione critica e conseguente selezione. L’utente del web crede di poter conoscere e di fare tutto, ma si tratta di un’illusione che maschera una mancanza di consapevolezza circa la propria sostanziale impotenza di fronte al mondo reale”12. Insomma, “il populismo informativo di Wikipedia, le ondate emozionali dei blog, il contagio umorale della rete13” devasteranno le menti incapaci di reagi11 P. Bonetti, Dallo Stato spettacolo al populismo della rete, in Nuova Antologia, a. 147°, fasc. 2264, Ottobre – Dicembre 2012, p. 221. 12 Ivi, p. 221. 13 L. Pruneti, Radici lontane e recenti del terzo millennio e possibili orizzonti, in Etica, coesione e solidarietà: valori per il terzo millennio?, a.c. di A. Foccillo, Roma 2011, p. 85.

re, per mancanza del “sangue – cultura” e il rischio che s’instauri una cyberdemocrazia o una mediacrazia “perfettamente in grado di affermarsi e di dominare in un mondo in cui siano mantenute le forme esteriori della democrazia”14 è notevole. Gli orizzonti del prossimo futuro sono desolanti, già mi vedo un pianeta di zombie che siano servi obbedienti di un grande ciurmatore, capace di muoverli attraverso i fili invisibili della rete. Fra i bacili che contengono l’acqua santa della cultura, la sola panacea in questo scenario da incubo, ve ne è uno particolarmente capiente: si tratta di un periodico e si chiama Nuova Antologia. Questa, rassegna di “lettere, scienze ed arti”, fu fondata nel 1866 in Firenze, ormai capitale del neonato Regno d’Italia, da Francesco Protonotari, professore di economia all’Università di Pisa, riprendendo la tradizione culturale, politica e civile della prima Antologia di Gino Capponi e Gian Pietro Vieusseux, stampata a Firenze dal 1821 al 1833. Nuova Antologia è stata diretta fra gli altri da Francesco Protonotari fino al 1897, poi da Maggiorino Ferraris, quindi da Luigi Federzoni e Giovanni Gentile negli anni dal fascismo. Mario Ferrara diresse la testata nel dopoguerra e a lui subentrò, dalla metà degli anni cinquanta, Giovanni Spadolini, che ne è stato direttore fino alla scomparsa, avvenuta il 4 agosto del 1994. Direttore da allora è Cosimo Ceccuti, già vicedirettore con Spadolini, affiancato da un Comitato di garanti presieduto da Carlo Azeglio Ciampi e composto da Pierluigi Ciocca, Antonio Maccanico, Claudio Magris, Antonio Paolucci. Trasferita a Roma nel 1878, Nuova Antologia fu riportata a Firenze da Spadolini, esattamente cento anni dopo, presso l’editore delle origini Felice Le Monnier. Proprietaria della testata è la Fondazione Spadolini Nuova Antologia che per statuto ne assicura la continuità e l’indipendenza da qualsiasi potere politico ed economico. Nel suo ampio arco di vita Nuova Antologia, una delle più antiche riviste d’Europa, “riassume la nascita, l’evoluzione, le conquiste, il travaglio, le sconfitte e le riprese della nazione italiana, nel suo inscindibile nesso coi liberi ordinamenti”. 14 P. Bonetti, Dallo Stato spettacolo al populismo della rete … cit, p. 221.


Fra gli autori delle migliaia di articoli apparsi sulla prestigiosa rassegna dal 1866 ad oggi ricordo fra gli altri, in campo letterario Carducci, Capponi, Manzoni, impegnati nel dibattito sulla lingua; Francesco De Sanctis che vi “anticipa” i capitoli della Storia della letteratura italiana, De Amicis le pagine di Cuore, Verga quelle di Don Gesualdo, D’Annunzio le Laudi, Pirandello Il fu Mattia Pascal, Palazzeschi Le sorelle Materassi, Bacchelli Il Mulino del Po. Con loro Fucini e Matilde Serao, Pascoli e Grazia Deledda, Papini e Gadda, Cecchi e Maria Bellonci, Saviane e poeti quali Ungaretti, Saba, Montale, Luzi. Scrissero per Nuova Antologia critici letterari come Bo e Pampaloni, filosofi come Croce, Gentile e Garin, giornalisti scrittori come Prezzolini e Montanelli, economisti come Luzzati ed Einaudi, critici musicali come Panzacchi e Mila, scienziati come Fermi e Marconi, storici come Salvemini, Salvatorelli, Romeo, De Felice, giuristi come Jemolo, Calamandrei e Barile. Infine vi collaborarono e vi collaborano storici dell’arte e dei beni culturali, gli esperti del cinema, i protagonisti in ogni tempo del dibattito sui grandi temi sociali, economici, politici e istituzionali caratterizzanti il divenire del paese nel contesto europeo15. Nuova Antologia ha oggi periodicità trimestrale, con fascicoli di quattrocento pagine. Ogni numero è un vero e proprio libro, come diceva Giacomo Leopardi oltre un secolo fa a proposito dell’Antologia. Questa rivista conta di assicurare un quadro fedele della cultura italiana a tutti coloro che si ritrovano nelle sue pagine classiche, pagine che non si sono piegate alle mode, vacillanti e oscillanti dell’industria 15 Riporto, a titolo di esempio, alcuni argomenti trattati nell’ultimo numero del 2012: A. A. Mola, Mussolini, 31 ottobre 1922, un governo di unione nazionale; G. Napolitano, Croce 1943 – 1944. Da Napoli per la salvezza dell’Italia; B. Montale, Randolfo Pacciardi, ultimo uomo del Risorgimento; A. E. Cardinale, Medicina e storia; A. Colombo, L’umanitaria e la lezione del teatro del popolo; G. Pennisi, La preveggenza di un musicista e di un intellettuale scomodo: Benjamin Britten; A Zanfarino, Critica liberale e questione morale; P. Bonetti, Dallo Stato spettacolo al populismo della rete; G. Galasso, Croce: la gloria inutile; C. Bertoni, Il delitto; T. L. Rizzo, Ritratti di Presidenti: Sandro Pertini. In Nuova Antologia, a. 147°, fasc. 2264, Ottobre – Dicembre 2012.

Cultura

culturale. La Nuova Antologia è, pertanto, un richiamo ai sentimenti di libertà, di individualità, di spirito critico, che fanno parte insopprimibile della nostra storia. Il problema è che con la crisi economica la rivista trova un minor numero di lettori. Nonostante costi veramente poco - € 54,00 per i quattro fascicoli annuali di ben 1600 pagine - scuole, istituti, fondazioni, privati, dovendo tirare la cinghia, sono costretti, obtorto collo, a farne a meno, rinunciando così a uno strumento che porta un notevole contributo alla deriva culturale dei nostri giorni16. “Giunto17 al palazzo di Assur-bani-pal si fermò e guardò in tralice una statua di pietra calcarea che si ergeva sgraziata: ali frastagliate; piedi artigliati; […] e la bocca 16 Per informazioni sulla Nuova Antologia: Mondadori Education spa, servizio periodici, Viale M. Fanti n. 53 - 50137 Firenze, tel. 055 – 50.83.223. www.nuovaantologia.it 17 W. P. Blatty, L’Esorcista, Milano 1974, pp. 15-16.

stirata in un perenne ghigno ferino. Il demone Pazuzu. Improvvisamente, l’uomo si sentì mancare. Sapeva. Sarebbe successo. Fissò la polvere. Le ombre si allungavano rapidamente. Udì il lontano ululato di un branco di cani del deserto che si aggiravano affamati alla periferia della città. Il globo del sole cominciava a scomparire alla periferia dell’orizzonte. Si tirò giù le maniche e si abbottonò i polsini: una brezza improvvisa lo aveva fatto rabbrividire. Veniva da sud-ovest. Si affrettò verso Mossul, verso il suo treno, il cuore stretto nella morsa di una convinzione agghiacciante: presto avrebbe dovuto affrontare l’annoso nemico”. Il nostro annoso nemico si chiama ignoranza e sub-cultura, cerchiamo di combatterlo. P.58/59: L’attore rumeno Bela Lugosi (1882-1956), elegante ‘Dracula’ cinematografico per eccellenza; p.60: Fascicoli della ‘Nuova Antologia’ con un contributo di G.Carducci; p.61: Il demone assiro Pazuzu in una statuetta votiva in bronzo.

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Cultura mitteleuropea ed ebraismo Giuseppe Ivan Lantos 62


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ella notte tra il 9 e il 10 dicembre 1938, in Germania, l’episodio conosciuto come la “Notte dei cristalli” segnò l’inizio del processo che avrebbe avuto il suo esito nella Shoah. Quella notte, con il rogo delle Sinagoghe, il potere nazionalsocialista intese lanciare al mondo, nel fatto e nel simbolo, il messaggio della distruzione dell’ebraismo come religione; con la devastazione dei negozi di proprietà degli ebrei, l’eliminazione degli stessi dal tessuto economico e con il rogo dei libri di autori ebrei la soppressione dell’eredità culturale ebraica. Poi sarebbero venuti le camere a gas e i forni crematori per completare l’opera con l’eliminazione fisica di esseri che, ormai privati dell’identità religiosa, economica e culturale, erano stati classificati unmensch, “non uomini”, in nome della discriminazione di razza. Il progetto, così come era stato concepito da Adolf Hitler e condiviso dai suoi seguaci, in Germania e altrove, avrebbe voluto essere di portata non soltanto tedesca, ma europea e, verosimilmente, universale. La realizzazione del piano è riuscita soltanto parzialmente. È vero che lo sterminio nazista ha distrutto per sempre l’humus del quale s’erano alimentati quei contributi di matrice ebraica mitteleuropea che avevano profondamente segnato di sé la cultura del mondo occidentale. Ma è altrettanto vero che l’apocalisse non è stata in grado di cancellarne il patrimonio del quale siamo eredi e verso il quale siamo debitori. Un patrimonio sopravvissuto e tuttora vitale che la moderna diaspora ha ricollocato soprattutto negli Stati Uniti e in Israele. In occasione del convegno Ebraismo e cultura europea del ’900, tenuto a Torino nel 1988, lo studioso di questioni ebraiche Riccardo Calimani affermava: “Dopo diciotto secoli di oppressioni e dopo un secolo, l’Ottocento, di ambigua e non completa emancipazione, si può ben dire che il Ventesimo secolo è stato un secolo cruciale per il piccolo popolo ebraico, una minoranza ormai sparuta rispetto alla popolazione mondiale. Ma proprio i numeri, piuttosto aridi, permettono di porre in rilievo quanto sia stato incisivo in Europa l’apporto di questo piccolo gruppo e quanto fecondo”. Da Aba-Nóvák Vilmos, pittore unghe-

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rese, a Stefan Zweig, scrittore austriaco, l’ampio dizionario dei protagonisti della cultura mitteleuropea di matrice ebraica abbraccia tutti i campi dell’attività intellettuale, da quello delle arti figurative alla filosofia, dalla letteratura alla musica, dalla medicina alle scienze matematiche e fisiche, dalla politica alla sociologia. Lo scenario sul quale si muovevano i protagonisti di una vicenda, che ha prodotto tra l’altro il marxismo, la psicoanalisi e la teoria della relatività, entrati nella koinè universale, è stato quello della Mitteleuropa, i cui punti cardinali si possono identificare in Vienna, Berlino, Budapest, Praga e Trieste. Ed è legittimo chiedersi: perché? La Mitteleuropa e il Ventesimo secolo non sono che i terminali spazio-temporali di un processo iniziato molti secoli fa e altrove. Il francese Claude Riveline afferma: “È possibile dire che di tutti gli esseri umani l’ebreo

sia il solo ad avere la certezza di non contare un solo analfabeta tra i suoi antenati, se ebrei. Un buon ebreo, dice il Talmud, deve avere durante tutta la sua vita almeno un maestro e un compagno di studi e ogni giorno deve riuscire a riservare anche soltanto un minimo di tempo alla cultura. Questo straordinario attaccamento allo studio ha prodotto dalla Bibbia in poi un’immensa raccolta di dotti scritti commentati a loro volta di gene63


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razione in generazione”. Il popolo ebraico è, soprattutto nella diaspora, il “popolo del Libro”. “La Mishnà e il Talmud”, dice Stefano Levi Della Torre “sono compilazioni dell’esilio e della sudditanza, così come la fissazione del canone biblico; sono gli organi di preservazione di una minoranza, patria portatile, identità fattasi scrittura, sradicata dalla terra”. Tuttavia, nella diaspora, l’ebraismo si presenta come una cultura osmotica, capace di dare e di ricevere nello scambio tra diverse concezioni, capace di assimilare la saggezza straniera senza assimilarsi, capace anche di fare da tramite tra diverse culture, tra diverse epoche del pensiero. E Fernando Terracina, in Ebrei e non Ebrei, ricorda: “Lungo il medioevo e il rinascimento, si deve in gran par64

te agli ebrei, oltre che agli scrivani arabi e ai monaci cristiani, la trascrizione, trasmissione e preservazione di testi fondamentali. La conoscenza delle opere filosofiche e scientifiche greche (Aristotele, Ippocrate, Platone) pervenne all’Europa dell’Alto Medioevo principalmente attraverso la traduzione in latino e in arabo fatta dagli ebrei della Spagna, della Sicilia, del Levante… Una vocazione di ponte tra le civiltà che è inscritta nell’ebraismo e nella sua profezia espressa da Isaia”. Una funzione di ponte tra nazioni, aggiungiamo, che si manifesta nella storia dell’ebraismo attraverso la tipicità transnazionale della diaspora. Fondamentale per la grande vitalità della cultura ebraica erano i modi di vita derivati dalla tradizione. Gli ebrei della dia-

spora si raccoglievano in comunità urbane e rurali nell’osservanza rispettosa delle norme religiose ed etiche. Lo studio della lingua ebraica era un dovere, lo studio delle lingue straniere era una necessità. La precarietà della situazione sociale ed economica privilegiava i valori intellettuali e da questi derivava l’uso intensivo del linguaggio e dei suoi trucchi. I giochi mnemonici legati allo studio del Talmud e degli altri testi religiosi erano un fatto abituale e contribuivano a tenere allenata un’elasticità mentale indispensabile nel rapporto dialettico tra le tradizioni ebraiche della famiglia e della comunità e l’ambiente esterno spesso ostile. La lettura in ebraico di parole prive di vocali costituiva un proficuo e costante esercizio intellettuale per la possibilità di attribuire a parole soltanto apparentemente simili significati profondamente diversi. E non ultima la proibizione espressa dal Decalogo mosaico di farsi immagini divine (e per gli ortodossi, d’ogni altro genere) era una sollecitazione a pensare in termini formali astratti. La presenza ebraica nell’area geopolitica che siamo soliti definire Mitteleuropa è registrata da oltre un migliaio di anni. Nei territori dell’Impero germanico, già prima del 1000 dell’era volgare, avevano residenza importanti comunità e segnatamente a Colonia, Metz, Worms, Magonza, Praga, Magdeburgo, Merseburgo, Ratisbona e a Vienna. In Ungheria lo stanziamento di ebrei ebbe origine nell’VIII secolo con l’immigrazione dall’Impero bizantino e dal principato dei Chazari, dove attorno al 740 s’era verificata la conversione all’ebraismo del sovrano e di un numero ragguardevole di sudditi tanto da consentire la costituzione di un piccolo principato ebraico. Esso fu soppresso all’inizio dell’XI secolo dai principi di Kiev e di Bisanzio. Le condizioni di vita delle comunità ebraiche conobbero fasi alterne tra brevi periodi di relativa tranquillità e periodi segnati da terribili persecuzioni, come quelle attuate in coincidenza con le prime Crociate, quella seguita al Concilio Lateranense del 1215 e quella culminata nel 1394 con l’espulsione degli ebrei dalla Francia, che ebbe forti ripercussioni sull’area mitteleuropea in quanto i profughi andarono a incrementare le comunità tedesche e polacche. Agli ebrei venne attribuita


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anche la responsabilità della pestilenza che colpì molti Paesi europei tra il 1348 e il 1350, tanto devastante da meritarsi il nome di “morte nera”. La persecuzione che ne seguì provocò cospicui spostamenti dalle città del Reno e del Danubio verso la Germania centrale e verso la Polonia. I flussi migratori nell’ambito dei territori della Mitteleuropa e verso quelli orientali contribuirono alla diffusione dello yiddish, la lingua formatasi a partire dal IX secolo nelle regioni della Renania e della Mosella. Lo yiddish si presenta strutturalmente come una varietà di tedesco con numerosi apporti, specie lessicali, ebraici, aramaici, slavi e in misura minore anche romanzi. Per il suo carattere di lingua eminentemente orale lo yiddish fu impiegato fino al XVIII secolo soltanto come koinè delle diverse comunità e per la redazione di testi di non eccelso valore letterario e artistico (letteratura edificante, racconti moraleggianti, libri di preghiere), destinati per lo più ai ceti meno colti. Nel corso del sec. XVIII, con la rinascita religiosa e la formazione di una maggior coscienza nazionalistica legata ai movimenti dello chassidismo e soprattutto della haskalah, l’illuminismo ebraico, lo yiddish divenne il veicolo di diffusione di questo nuovo sentire, sviluppando una letteratura più raffinata e valida sia sul piano stilistico che su quello dei contenuti. Nel corso del Me-

dioevo e del Rinascimento la sostanziale segregazione e le persecuzioni delle quali erano vittime gli ebrei avevano fatto in modo di impedire scambi significativi tra la cultura ebraica e le culture locali, ma non erano riuscite a ostacolare una sostanziale europeizzazione della cultura degli ebrei, i quali non arrivarono impreparati ad affrontare quello straordinario fenomeno che doveva essere l’Illuminismo portatore di un messaggio di emancipazione. Personaggi come Moses Mendelsshon e Gotthold Ephraim Lessing diedero vita alla haskalah, l’Illuminismo ebraico, che trovò ampio diritto di cittadinanza nel più vasto contesto dell’Illuminismo europeo. La vocazione degli ebrei all’osmosi, al confronto, ad assimilare più che ad assimilarsi, ebbe in questo clima un terreno fertile sul quale incominciò a crescere in maniera rilevante il numero e il ruolo degli intellettuali ebrei nell’ambito di un processo che giunse a maturazione tra il XIX e il XX secolo. Capitale di questo radicamento dell’intellighenzia ebraica, alla quale la cultura mitteleuropea e più in generale europea deve una delle sue stagioni più felici, fu la Vienna del periodo compreso tra la fine del’Ottocento e l’Anschluss, che segnò istituzionalmente l’avvento del nazional-socialismo in Austria. Lo scrittore Karl Kraus, amante dei paradossi, affer-

mò che le strade di Vienna erano lastricate di cultura, mentre altrove venivano ricoperte d’asfalto. Vienna, capitale di quell’impero che Robert Musil, ispirandosi alle due k asburgiche di Kaiserlich e Königlich definì di Kakania, fu lo scenario sul quale si mossero personaggi come Franz Brentano, Martin Buber, Elias Canetti, Joseph Roth, Edmund Husserl, Ludwig Wittgenstein, Stefan Zweig, Gustav Mahler, Alban Berg, Arnold Schönberg e anche personaggi di primo piano dell’allora neonata arte cinematografica come Erich von Stroheim e Joseph von Sternberg. Per non citarne che alcuni. Se nell’immaginario collettivo Praga era e resta un luogo dell’anima e della mente abitato da alchimisti, astrologi, poeti e rabbini taumaturghi, nella realtà riferita al periodo che ci interessa essa era soprattutto una Dreivölkerstadt, una città di tre popoli, il ceco, il tedesco e l’ebraico, che a questa sua peculiarità, come ha scritto Angelo Maria Ripellino, doveva in gran parte il suo sortilegio. Agli inizi del XX secolo la popolazione di Praga era così ripartita: 414.899 cechi, 33.776 tedeschi dei quali oltre 25.000 erano ebrei. Sede di una comunità ebraica antica di secoli, Praga era stata il crogiolo di un curioso fenomeno di alchimia culturale, efficacemente descritto da Franz Werfel sulla rivista Der Jude: “Da secoli ebraismo e germanesimo si erano iden65


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tificati a Praga a tal punto che il ghetto aveva svolto il ruolo di avamposto della cultura tedesca realizzando una singolarissima unità che lo aveva preservato dall’antisemitismo. L’ebreo praghese si faceva forte del suo ebraismo e della sua cultura tedesca che lo rendeva invulnerabile”. E, come dice Riccardo Calimani: “Praga divenne il luogo nel quale tutte le contraddizioni della simbiosi culturale ebraico tedesca potevano sopravvivere e svilupparsi, luogo dell’esistenza ebraica e luogo dell’esistenza letteraria, unico luogo nel quale uno scrittore ebreo di lingua tedesca potesse trovarsi nelle condizioni di condurre, con lo strumento di una cultura d’avanguardia e con l’eredità ebraica alle spalle, l’esperimento letterario più significativo dell’intero Novecento”. Sullo scenario della cultura ebraico-tedesca di Praga giganteggia la figura di 66

Franz Kafka, l’ombra del quale si proietta sull’intero mondo occidentale. Kafka, che al di là della sua travagliata vicenda umana diventa la metafora profetica del travaglio e delle antinomie di una condizione che lo accomuna a tanti altri intellettuali ebrei costretti a confrontarsi con il dissolvimento dell’Austria Felix (se felice lo era poi davvero) nella Gaia apocalisse che avrebbe avuto il suo esito nella notte tra il 9 e il 10 dicembre 1938 e più oltre nelle fiamme dei forni crematori. Franz Kafka che scriveva a suo padre: “Cerco di afferrare il simbolo del Talled che mi sfugge”. Nel teatro della storia Kafka rappresentò la parabola della cultura ebraico mitteleuropea che non poteva avere palcoscenico più adeguato che quello di Praga. Ma Kafka non fu il solo. Con lui divisero la scena, non certamente da comprimari e men che meno in ruoli secondari, Max

Brod, Franz Werfel, Oskar Baum, Leo Perutz, Ernst Weiss, Paul Kornfeld, Rudolf Fuchs, Ludwig Winder, Hermann Ungar, Otto Pick, Egon Edwin Kisch, Georg Mannheimer e Camill Hoffman. Se Praga era una Dreivölkerstadt, a Berlino spettava il titolo di Weltstad, una qualifica al cui merito avevano contributo in larga parte anche gli intellettuali ebreotedeschi. La loro condizione non era certamente quella dei loro omologhi praghesi perché diversa era la situazione in generale degli ebrei dell’Impero asburgico rispetto a quelli che vivevano in Germania. Una condizione di malessere e lacerazione, nei decenni centrali del XIX secolo, espressa, per esempio, da Heinrich Heine e da Karl Marx, e di una faticosa ricerca dell’integrazione alla quale aspiravano personaggi come Ernst Cassirer, Hermann Cohen, Edmund Husserl, Franz Rosenzweig e Georg Simmel. Se, nel corso dei secoli, gli ebrei erano stati vittime dell’antiebraismo, condiviso sia dalla cultura cattolica, sia da quella protestante, nella transizione tra l’Ottocento e il Novecento esso aveva subito una spaventosa mutazione genetica nell’antisemitismo: non più dunque l’odio religioso, ma l’odio di razza. La sconfitta della Germania nella Prima Guerra Mondiale e l’infelice esperienza della Repubblica di Weimar, alla quale molti intellettuali ebrei avevano contribuito anche per inseguire un sogno di integrazione, consolidarono il fenomeno antisemita a tal punto che i nazionalisti definirono la Repubblica di Weimar la Judenrepublik. Al di là dell’intento ingiurioso qualche verità in quell’etichetta c’era se si considera che tra i protagonisti di quella stagione rivoluzionaria molti erano gli ebrei come Rosa Luxemburg, Oskar Cohn, Kurt Eisner e altri. Anche se non mancarono ebrei attestati sulla barricata del capitalismo e del sistema come Water Rathenau, erede dell’impero industriale della aeg, e poi Ministro degli esteri, assassinato nel giugno del 1922 dai nazionalisti. Il catalogo degli intellettuali ebreo-tedeschi è davvero ragguardevole: da Hannah Arendt a Albert Einstein, Else Lasker-Schüler, Jakob Wassermann, Teodor Lessing, Kurt Tucholsky, Walter Benjamin, Max Horkheimer, Ernst Bloch, Lion Feuchtwanger, Her-


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bert Marcuse, Arnold Zweig. Su tutti loro, seppure con modalità diverse, s’abbattè la bestiale furia nazista che avrebbe voluto cancellarne non soltanto il contributo alla cultura tedesca (e universale), ma anche la memoria. Il ruolo di Budapest, capitale della piccola nazione ungherese, nella cultura della Mitteleuropa non è stato né marginale, né sussidiario rispetto a quello di Vienna. Negli anni di passaggio tra il XIX e il XX secolo la popolazione ebraica di Budapest era il doppio rispetto a quella di Vienna e la comunità ebraica costituiva un corpo abbastanza omogeneo sia dal punto di vista sociale, sia dal punto di vista culturale, peraltro con caratteristiche peculiari. Budapest era infatti la capitale europea dell’ebraismo riformato, legato alle tradizioni ma senza ossessione, aperto al nuovo, inserito nel tessuto cittadino, tanto da far etichettare Budapest come Judapest. Sebbene la popolazione, soprattutto quella cattolica, non fosse del tutto immune da sentimenti antiebraici, l’integrazione, difficile se non impossibile a Vienna e a Berlino, a Budapest si rivelò un percorso praticabile tanto che agli ebrei non fu impedito di occupare anche posti di rilievo nell’amministrazione locale e nel governo nazionale. Tutto ciò contribuì in maniera positiva alla formazione di un’intellighenzia attiva e vivace dalle file della quale uscirono autentici protagonisti della cultura del

nostro secolo. Tra questi Theodor Herzl, scrittore e padre del sionismo, Kun Bèla, Lukàcs György, Koestler Arthur, Ferenczi Sàndor, Polany Kàroi, Ferenc Molnàr, Bàlint Mihaly, Radnòti Miklòs. E tanti altri destinati a far grande una nazione territorialmente piccola la quale, nell’immaginario collettivo, soffre ingiustamente dell’immagine di un paese di musicisti zigani, paprika, gulyàs, csàrdàs e operette. Gli eventi hanno dissolto la Mitteleuropa come entità geopolitica. Due guerre mondiali hanno trasformato la fisionomia del nostro vecchio continente e, oggi, il nuovo Verbo pare essere quello della “Grande Europa”. Qualcuno s’illude, o ci illude che essa sia ormai una realtà. Semmai ciò fosse vero lo sarebbe nell’ottica dei politici, dei banchieri e dei finanzieri. La verità è che oggi non esiste un’Europa, grande o piccola che sia, della cultura e dei cittadini. È semmai lo spettro di nuovi e pericolosi nazionalismi a gettare la propria ombra su una buona parte di essa. Ma semmai un giorno ci potremo riconoscere come europei a tutti gli effetti lo dovremo forse anche a quell’eredità di pensiero, di cultura, della quale oggi abbiamo compiuto la nostra sintetica quanto riconoscente ricognizione.

Bibliografia: Riccardo Calimani, Di ebrei, di cose ebraiche e del resto, in “Shalom” n. 8, 1983. Riccardo Calimani, Destini e avventure dell’intellettuale ebreo, Milano 1996. Riccardo Calimani, Capitali Europee Dell’ebraismo tra Ottocento e Novecento, Milano 1998. Riccardo Calimani, Ebrei eterni inquieti. Intellettuali e scrittori del XX secolo in Francia e Ungheria, Milano 2007. Ebrei e Mitteleuropa: cultura letteratura società (a cura di Quirino Principe), Atti del XVI Convegno “Cultura ebraica e letteratura mitteleuropea”, Brescia 1984. Michael Lowy, Redenzione e utopia. Figure della cultura ebraica mitteleuropea, Torino 1992. Claudio Magris, Lontano da dove, Joseph Roth e la tradizione ebraico-orientale, Torino 1971. Claudio Magris, Trieste. Un’identità di frontiera (in collaborazione con Angelo Ara), Torino 1982. Roman Vishniac, Un mondo scomparso, Roma 1985 . Robert Solomon Wistrich, Gli ebrei di Vienna 1848-1916. Identità e cultura nella capitale di Francesco Giuseppe, Milano 1994.

P.62/63: Illustrazioni da codici miniati ebraici; p.63 in alto: Tomba di Franz Kafka nel Nuovo Cimitero Ebraico di Praga a Žižkov; p.64/65: Arredi e scritture da una sinagoga; p.66/67: Diverse foto di Franz Kafka, a pag. 67 con la sorella Ottla.

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EreditĂ ed ereditarietĂ Paolo De Santis

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uomo nasce con un bagaglio di caratteri genici, alcuni manifesti, altri nascosti come le leggi di Gregor Mendel hanno codificato. Se così fosse – siamo nel pieno Positivismo – nulla vi sarebbe da fare per modificare ciò che è già scritto nelle nostre cellule. Chi nasce con i tratti per una maggiore capacità d’introspezione non avrebbe alcuna difficoltà ad assecondare le caratteristiche ereditate e si troverebbe iniziato, al primo scalino di una lunga ascesa. Come altra ipotesi l’uomo, senza alcuna caratteristica esoterica, affronterebbe una lunga e quasi impossibile trasformazione che lo porterebbe a creare prima e maturare poi quelle specificità che lo condurrebbero sulla via della luce. Forse le cose non stanno proprio così. Esiste una terza via, che si pone equidistante e che fa sì che entrambe le situazioni si verifichino. Ma queste considerazioni trovano oggi un riscontro in recenti ricerche scientifiche che gettano una nuova luce sulle teorie della genetica. Questa nuova apertura ha preso il nome di epigenetica (dal greco επί = “sopra” e γεννετικός = “relativo all’eredità familiare”) . L’epigenetica Questa studia le modificazioni ereditabili dai caratteri codificati nel genoma (il patrimonio genetico dell’organismo), non provocate dalle classiche mutazioni. In sostanza alcune zone del nostro dna vengono legate a gruppi metilici che ne provocano una riposizione nello spazio, rendendo alcuni geni nascosti, dunque non più leggibili per la replicazione e quindi silenti. Viceversa altri tratti della duplice elica vengono posti in una posizione favorevole per la duplicazione e replicazione rendendoli manifesti e di facile trasmissione. Per essere più chiaro, alcuni Autori (Perroud N., et al, 2011 Translation Psychiatry 1, e 59) hanno dimostrato che soggetti maltrattati nell’infanzia presentano metilazioni in quel tratto di dna denominato recettore dei glucocorticoidi, come adattamento a fattori di stress. Giovani donne olandesi, che subirono gravi privazioni alimentari durante il periodo bellico negli anni 1944-45, hanno tramandato alla progenie un basso peso alla nascita a termine (small for date) e ridotta crescita nei loro nipoti, concepiti e cresciuti con l’appor-

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Ogni legge scientifica è il relitto di un sogno mitologico Friedrich Nietzsche

to di tutte le costituenti fondamentali per un corretto sviluppo. Quindi donne nate in quel periodo atroce e diventate a loro volta madri fornirono alla progenie caratteri genici che producevano una maggior incidenza di cardiopatie. L’interpretazione di tali eventi è che tali caratteristiche siano state trasmesse alla seconda generazione attraverso modificazioni epigenetiche del genoma. In questo caso la trasmissibilità riguardava non più la mitosi cellulare (mitosi è la divisione in due cellule da una progenitrice), quanto la meiosi (divisione del genoma che dimezzato dà luogo alle cellule genitrici dell’ovocita e dello spermatozoo che sono dotate entrambe della metà del codice genetico), rendendo di fatto trasmissibile agli eredi ciò che gli eventi avevano determinato. Lamarck e Darwin L’epigenetica non è una scienza recentissima, anche se negli ultimi lustri è emerso sempre un numero maggiore di eventi coinvolti nella regolazione dell’espressione genica. Andando a ricordi scolastici si ritorna al Lamarckismo, vale a dire l’antica teoria che sosteneva l’ereditarietà dei caratteri acquisiti. Jean Baptiste de Lamarck nel 1809 tracciò la sua teoria dell’evoluzione, che suscitò polemiche e critiche da parte dei contemporanei. Nella sua opera Philosophie zoologique 69


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giunse alla conclusione che gli organismi, così come si presentavano, fossero il risultato di un processo graduale di modificazione che avveniva sotto la pressione delle condizioni ambientali. L’affermazione che “la funzione crea l’organo”, seppur forte e forse proprio per questo rimasta nella memoria, rende bene il concetto che l’uso di determinati organi, o parti di questi, determinasse il loro sviluppo; in questo modo essi rispondono meglio alle esigenze di sopravvivenza dell’animale. Queste si sarebbero poi trasmesse alla generazione successiva e l’accumularsi dei caratteri acquisiti, di generazione in generazione, avrebbe determinato l’apparire di nuove specie me70

glio adattate all’ambiente. A questi concetti rivoluzionari per l’epoca, e non solo, seguirono i viaggi e le considerazioni di Charles Darwin riportati ne L’Origine delle specie del 1859. Secondo la teoria evoluzionistica, gli individui presentano variazioni imprevedibili e l’evoluzione viene determinata dalla selezione naturale. Questi cambiamenti vengono anche denominati mutazioni aleatorie, per sottolinearne il carattere teoricamente non indotto. La teoria darwinista si è imposta alla teoria lamarkista, secondo la quale i caratteri acquisiti durante la vita degli individui erano trasmessi ai discendenti. Per chiarire meglio le due posizioni riporto l’esem-

pio classico dell’evoluzione della giraffa. Secondo la teoria di Lamarck, i primi esemplari, per lo sforzo continuo fatto per stirare il collo in cerca di alimenti, riuscivano ad allungarlo procreando poi discendenti con il collo un po’ più lungo; da parte sua, Darwin sosteneva che le giraffe nate per caso con il collo più lungo erano quelle che si erano adattate meglio all’ambiente circostante ed erano sopravvissute meglio, generando più discendenza. I concetti del Novecento Con un salto di un secolo si arriva al premio Nobel per la Medicina del 1965 Jaques Monod. Con il libro Il caso e la necessità (1970), s’inserisce nella polemica affermando che nell’evoluzione degli esseri viventi esiste un fatto fortuito, un “caso” che una volta inscritto nel codice viene replicato e tradotto fedelmente in miliardi di copie, entrando nel campo della selezione della “necessità”. Da questo esame sulla trasmissione dei geni e quindi delle caratteristiche acquisite, emerge che gli esseri umani, così come le specie che condividono con essi il pianeta, hanno affinato una - mi si passi il termine - “macchina per la sopravvivenza”, perfettibile, tuttavia avanzata, per garantire un adeguamento con l’ambiente. Ma discostandoci dalle posizioni illuministico-positiviste, esiste una trasmissione da padre a figlio che non sia genica, o meglio che possa influire sulla manifestazione dei caratteri, così come l’epigenetica indica? La risposta è affermativa! Questa è la cultura. Geni e Memi Così come nel brodo primordiale, un coacervo di sostanze chimiche hanno costituito prima gli aminoacidi indi le proteine, così replicatore anch’esso, la cultura ha incominciato a essere codificata, copiata, replicata all’infinito. Parlo di cultura non nel suo senso snob, ma come bagaglio di conoscenza. Richard Dawkins, alla fine degli anni ’70 del secolo scorso, associa a questo nuovo replicatore un nome che rende l’idea di un’unità di trasmissione culturale. Utilizza la radice greca mimema (imitazione) deformandolo con un bisillabo che affiancato a gene diventa meme. Meme sono le melodie, le frasi e i racconti che poi si fanno mito, l’arte del faber, di modellare i vasi e dipingerli, di costruire armi. Così


Scienza

come i geni si propagano trasferendosi di corpo in corpo, così i memi si diffondono da cervello a cervello in un processo che si può chiamare imitazione. Quando un meme fertile si inserisce in una mente ricettiva, questa viene coinvolta, così come una cellula viene parassitata dal virus e dal suo codice. Quando abbandoniamo questo mondo, sono due le cose che possiamo lasciare in eredità: i geni ed i memi. La nostra macchina è costruita per tramandare i geni. Ma questo nostro aspetto verrà dimenticato in almeno tre generazioni. I figli, i nipoti, forse avranno alcune caratteristiche dei nostri tratti, del colore degli occhi, del talento musicale o artistico. Ma via via che passano le generazioni il numero dei nostri geni si dimezza fino a diventare una proporzione del tutto trascurabile. Se contribuiamo alla cultura del mondo, a scrivere una poesia, a dipingere un quadro, a inventare un ogget-

to, a dettare regole morali ed etiche universali, questa luce potrà vivere intatta per lungo tempo anche quando i nostri geni si saranno dissolti. I memi complessi di Pitagora, Platone, Dante, Giordano Bruno, Galileo, Voltaire, Mozart, Carducci, Picasso e Dalì e di tutti quelli che a vario titolo nella storia dell’Umanità hanno apposto la loro firma sono ancora più vivi che mai. Chissà se l’epigenetica consentirà a noi che viviamo di memi e ai nostri figli che li assorbiranno con l’esempio e l’imitazione di nascondere quei geni negativi per non farli duplicare e innalzare quei “templi alla virtù”? Non ricorda questo lo sgrossare della pietra grezza? Uomo come essere che utilizza l’imitazione per conoscere, crescere, costruire, Massone che con i lavori di Loggia trova nuove e stimolanti ispirazioni da condividere con le Sorelle e i Fratelli. Imitazione del kalos kai agazos (bello e buono), l’unità nella stessa persona

di bellezza e valore morale, un principio che coinvolge dunque la sfera etica ed estetica e che forse, in un remoto futuro, cambierà il nostro genoma. Dobbiamo crederci! Chi ne darà l’esempio? ______________ Bibliografia: Perroud N. et alii 2011 Translation Psychiatry 1, e 59. J.B. Lamarck, 1809 Philosophie zoologique, ou exposition des considérations relatives à l’histoire naturelle des animaux (Zoological Philosophy. An Exposition with Regard to the Natural History of Animals - Translated by H.Elliot). R. Dawkins, Il gene egoista, Milano, 1992, pagg. 198 e sgg.. K. Popper, The rationality of scientific devolution, 1974, in Problem of scientific revolution, pag 72-110. http://www.sciencephoto.com/media/93381/ enlarge P.68/69: Ricostruzioni al computer di filamenti di DNA; p.69 in basso: Friedrich Nietzsche; p.70: Fossile di vertebrato; p.66/67: Modello del cranio di Lucy (Australopithecus afarensis, ca. 3.2 milioni di anni fa).

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‘Homo Homini Diabolus’ Ida Li Vigni

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el Faust di Marlowe, ad un certo punto, Mefistofele dichiara: “ ... Dove stiamo noi, c’è l’inferno e dove c’è l’inferno, dobbiamo stare sempre ... “; e un detto proverbiale, assai diffuso nel Rinascimento, precisa: “L’uomo è un inferno che non può più mettere neppure un segno di confine ad un modesto praticello”. Di simili affermazioni e giudizi negativi abbonda la letteratura laica del XV e del XVI secolo, a testimonianza indiscutibile di un pessimismo laicizzato, ormai privo di ogni connotazione religiosa, che cerca sfogo in un contemptus mundi ancor più cupo e amaro di quello medievale proprio perché tragicamente sganciato dalle certezze della fede. Il fatto è che in un mondo come quello rinascimentale che ha “perduto il proprio centro”, sicchè gli uomini si sentono in balia di forze oscure e malvage che li trascinano verso l’abisso, la presenza del Male sembra attestarsi saldamente sulla terra, tanto che il regno degli uomini si trasforma in un universo corrotto e caotico che nulla ha a che invidiare con quello degli Inferi. Assediati dall’esterno e dall’interno, ossessionati da un’angoscia profonda che di volta in volta si incarna in “nemici” sfuggenti e insidiosi, gli intellettuali del Rinascimento scoprono dunque con orrore che l’Avversario è ormai in loro, che (come proclama Thomas Nasche) “l’uomo è un demonio per l’uomo” e che la società umana è un mondo alla rovescia dove ormai regnano l’egoismo e la legge del più forte. Di fronte a tale drammatica rivelazione c’è chi si rifugia nella sua torre d’avorio a teorizzare d’armonia e di bellezza e c’è chi si affianca agli uomini della Chiesa per combattere i servitori di Satana, ma c’è anche qualcuno che ne trae una cinica quanto realistica lezione di politica che lo spinge ad analizzare con spietata lucidità le leggi del potere e del vivere civile alla luce del principio inconfutabile che l’uomo è malvagio di sua natura e che sempre sarà “lupo per l’uomo”. Questo qualcuno fu in primis Niccolò Machiavelli, il quale non si limitò a insistere sulla necessità di fondare l’azione politica sul dato evidente che gli uomini sono egoisti e malvagi (portando evidentemente a compimento una riflessione che affonda le sue radici nel primo Uma-

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nesimo), ma si preoccupò anche di portare sulla scena lo spettacolo desolante di una società in cui, volenti o nolenti, è necessario farsi “volpe e leone” per sopravvivere e in cui anche il diavolo è costretto a battere in una assai poco dignitosa ritirata pur di sfuggire all’avidità e all’astuzia umana. In quest’ottica, più ancora dei suoi trattati e della sua produzione teatrale, risulta illuminante la splendida novella Belfagor Arcidiavolo, ironica denuncia di quell’inferno all’ennesima potenza che è la società umana. Già nell’Asino d’oro, un poemetto destinato a rimanere allo stato di abbozzo, Machiavelli aveva dato voce alla sua visione pessimistica attraverso le riflessioni di un uomo trasformato in porco. Vediamo dunque come nel canto VIII il protagonista esalta il suo nuovo stato contrapponendolo a tutti gli orrori della sua precedente condizione: Sol nasce l’huomo d’ogni difesa ignudo Et non ha cuoio, spine o piume o vello, Setole o scaglie che li faccia scudo. Dal pianto il viver suo comincia quello Con tuon di voce dolorosa e roca; 73


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Tal ch’egli è miserabile a vedello. Di poi, crescendo, la sua vita è poca, Sen’alcun dubbio, a paragon di quella Che vive un Cervo, una Cornacchia, un’Oca ... Le man vi dié Natura et la favella, E con quelle anco Ambition vi dette, Et avaritia che quel ben cancella ... Vostr’è l’ambition, lussuria e ‘l pianto E l’Avaritia, che genera scabbia. 74

Nel viver vostro, che stimate tanto, Nessun altro animal si trova ch’abbia Più fragil vita, e di viver più voglia, Più confuso timore o maggior rabbia. Non dà l’un porco all’altro porco doglia, L’un cervo all’altro; solamente l’huomo L’altr’huomo ammazza, crocifigge e spoglia. Pens’hor come tu vuoi ch’io ritorni huomo ...

Sentina di tutte le turpitudini, bestia immonda che agisce contro natura e che non esita a uccidere il proprio simile pur di appagare la sua sete infinita di potere, l’uomo per Machiavelli è un essere mostruoso, rovesciato, più prossimo all’Avversario che a Dio, che sempre più si allontana dalla sua missione civilizzatrice e che in luogo della “città degli uomini” si


preoccupa di fondare sulla terra la “città di Satana”. Un uomo a tal punto maligno da trasmettere il proprio peccato anche alla Natura, che deturpa e contamina assai più di quanto potrebbero fare tutti i diavoli dell’Abisso, vincolati a quell’ordine universale a cui si sono ribellati ma a cui non possono sfuggire. Se nell’Asino d’oro i toni sono quelli accesi e cupi del contemptus mundi rivisitato in chiave laica, in Belfagor Arcidiavolo sentiamo riecheggiare passi noti degli exempla medievali, filtrati però attraverso una vena popolare e contaminati dalla recente narrativa sul “mondo alla rovescia”. Analizziamo dunque più da vicino questa singolare novella. Di partenza Machiavelli prende le mosse da un racconto popolare, di probabili origini orientali ma largamente diffuso fin dal Medioevo nella versione cristianizzata, in cui si metteva in risalto la protervia delle mogli e l’infelicità coniugale che ne deriva. È questo un tema sfruttatissimo dalla letteratura medievale e umanistica, tanto più che tutta una pubblicistica (religiosa e laica) insegnava essere la donna strumento del diavolo, da cui ha appreso tutte le armi della seduzione e dell’adulazione e che ha superato in astuzia e perfidia. Tuttavia questo tema, nelle mani di Machiavelli si trasforma, grazie anche alla cornice diabolica, diventando da semplice satira antimatrimoniale o scontata stigmatizzazione dei vizi femminili violenta denuncia e contestazione della corruzione morale del tempo. Si diceva dell’importanza della cornice diabolica, la quale non è puramente decorativa, ma svolge una precisa funzione “morale” di rovesciamento dei valori. Anche in questo caso Machiavelli attinge alla tradizione popolare e agli exempla medievali, in cui spesso il diavolo si trova a essere vittima di donne e contadini ben più astuti di lui. Ma il materiale diabolico, se così lo si può definire, si tinge di nuove sfumature e si arricchisce di diverse connotazioni morali, proponendosi quale paradigma di un mondo alla rovescia in cui l’Inferno appare come una paradisiaca corte cortese e la terra come il più terribile degli inferni. Tale capovolgimento satirico appare evidente fin dalle battute iniziali, in quel prologo “in inferno” dove viene annunciato un solenne concilio di demoni chia-

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mati a esaminare il singolare e preoccupante fenomeno dei molti mortali che si dannano per colpa delle mogli. Non avendo pratica dei commerci umani, gli “infernali principi” decidono di inviare sulla terra un loro rappresentante, Belfagor, in sembianze umane per scoprire che cosa sia il matrimonio. I tratti di questo strano concilio sono tali da suggerire implicitamente l’idea (confermata poi dagli sviluppi terreni del racconto) di un rovesciamento radicale dei valori, di uno scambio inquietante di parti tra l’inferno (disvelato come corte ideale, retta da un principe illuminato che si sottomette saviamente all’autorità delle leggi) e la terra, la cui vita tumultuosa e inquieta riesce persino a mettere in fuga un povero diavolo dell’inferno. La corte di Plutone, principe degli Inferi, ha tutte le connotazioni di un’ideale corte cortese, perfettamente integrata in un ordine

universale di cui rispetta le leggi e le gerarchie e di cui si sente inderogabilmente partecipe. Lo stesso linguaggio di Plutone si conforma al modello cortese e i suoi modi sono quelli di un principe illuminato pronto ad ascoltare il giudizio dei suoi vassalli per il bene dello Stato: “ ... Ancora che io, dilettissimi miei, per celeste disposizione e fatale sorte al tutto inrevocabile possegga questo regno, e che per questo io non possa essere obligato ad alcun iudicio o celeste o mondano, nondimeno, perché gli è maggiore prudenza di quelli che possono più sottomettersi più alle leggi e più stimare l’altrui iudizio: ho deliberato esser consigliato da voi come, in uno caso il quale potrebbe seguire con qualche infamia del nostro imperio, io mi debba governare. Perchè dicendo tutte l’anime degli uomini che vengono nel nostro regno esserne stato cagione la moglie, e parendoci questo impossibile, dubitiamo 75


che dando iudizio sopra questa relazione, ne possiamo essere calunniati come troppo creduli, e non ne dando, come manco severi e poco amatori della iustizia. E perché l’uno peccato è da uomini leggieri e l’altro da ingiusti, e volendo fuggire quegli carichi che da l’uno e l’altro potrebbo-

Letteratura no dependere, e non trovandone il modo, vi abbiamo chiamati acciò che consigliandone ci aiutiate e siate cagione che questo regno, come per lo passato è vissuto sanza infamia, così per lo advenire viva. ...”. Se all’Inferno i diavoli possono permettersi di parlare di giustizia e di rispetto delle leggi, ci si può immaginare quale caenna sia la terra, le cui uniche leggi, come apprenderà a sue spese il povero Belfagor mandato in missione fra gli uomini, sono la disonestà e l’avidità. L’esordio infernal-cortese, dunque, prospetta già al lettore il quadro esatto del vero e proprio nucleo del racconto: le avventure terrene di Belfagor-Roderigo; anzi, le sue disavventure, poiché il povero diavolo, già di partenza poco soddisfatto della strana inchiesta affibbiatagli, finisce vittima della più superba e luciferina delle mogli, Onesta Donati, e del più astuto e avido dei contadini, Gianmatteo. Costretto a risiedere sulla terra per dieci anni, privato di ogni potere magico al fine di non alterare fraudolentamente i dati dell’inchiesta, ma ben provvisto di denari (l’unica arma vincente fra gli

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uomini), ecco Belfagor a Firenze (la città che gli sembra “più atta a sopportare chi con arte usuraria esercitassi i suoi denari”) alle prese con una splendida fanciulla, onesta sì ma spietatamente ambiziosa, che lo fa cadere nella trappola crudele del matrimonio. La scelta di Belfagor, un diavolo tradizionalmente legato all’universo femminile (San Gerolamo lo chiama Priapo), accentua il carattere satirico del racconto: diavolo licenzioso e lussurioso, Belfagor dovrebbe essere in grado di domare la più bisbetica e viperina delle donne, ma le sue arti impallidiscono dinnanzi alla determinata e sfrontata avidità di Onesta e della sua famiglia. Già, perché col matrimonio (come se non bastassero i continui prelievi della dolce metà), il povero diavolo si trova a dover fronteggiare un’armata di ingordi parenti e servitori che in poco tempo lo porta alla rovina, involando dalla casa persino le suppellettili. Perseguitato dai creditori e impossibilitato a far ricorso alle sue arti magiche, Belfagor-Roderigo si dà alla più veloce e furtiva delle fughe, ma mal gliene incoglie che dalla padella finisce nella brace, ovvero fra le grinfie di un astuto contadino, Gianmatteo, che ha subodorato la possibilità di arricchirsi alle spalle di questo cavaliere perseguitato da oscuri nemici. A dire il vero l’errore lo fa proprio l’ingenuo Belfagor quando, dando libero sfogo al proprio malumore, gli narra le sue disavventure coniugali e gli rivela la sua vera identità, recuperando al contempo

i suoi poteri magici (è un’incongruenza narrativa, funzionale però all’esito finale della vicenda che vedrà il povero diavolo scornato e sconfitto). Non avendo niente da perdere, Gianmatteo non esita ad accettare le proposte del suo demonico compare che gli promette di arricchirlo “insegnandogli” a esorcizzare gli indemoniati: Belfagor prenderà dunque possesso di qualche nobile e ricca fanciulla e Gianmatteo si improvviserà esorcista, incassando poi il lauto onorario che si è soliti pagare nei casi di possessione. Non è difficile scorgere dietro questa farsa la sapida satira di quei veri e propri spettacoli di piazza che nell’età del Machiavelli stavano diventando gli esorcismi, tanto che la coppia BelfagorGianmatteo non sfigurerebbe nelle liste di quei ciarlatani e lestofanti di cui abbandona la letteratura rinascimentale e barocca sui vagabondi. Già la “prova generale” rivela la natura illusoria e ciarlatanesca della pratica esorcistica, con Belfagor acquattato nel corpo di una ricca fanciulla, da lui costretta a farneticare in latino e a improvvisarsi in feroce accusatrice dei peccati altrui (un altro topos, quest’ultimo, della letteratura religiosa e della novellistica che a fini diversi sfruttano la credenza secondo la quale gli indemoniati avevano il potere di riconoscere e denunciare i peccatori, soprattutto qualora di trattasse di frati gaudenti e lussuriosi), e Gianmatteo pronto a incassare dallo sventurato e frastornato padre una congrua sommetta in cambio del suoi falsi servigi: “ ... Nè passorno molti giorni che si sparse per tutto Firenze come una figliuola di messer Ambruogio Amidei ... era indemoniata, né mancorno i parenti di farvi tutti quegli remedii che in simili accidenti si fanno: ponendole in capo la testa di San Zanobi e il mantello di San Giovanni Gualberto; le quali cose tutte da Roderigo erano uccellate. E per chiarire ciascuno come il male della fanciulla era uno spirito e non altra fantastica imaginazione, parlava in latino e disputava delle cose di filosofia e scopriva i peccati di molti: intra i quali scoperse quelli d’uno frate che si aveva tenuta una femmina vestita ad uso di fraticino più di quattro anni nella sua cella ... Viveva pertanto messer Ambruogio malcontento. E avendo invano provati tutti i remedii, aveva perduta ogni


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speranza di guarirla, quando Gianmatteo venne a trovarlo e gli promise la salute della sua figliuola quando gli voglia donare cinquecento fiorini ...”. Ma la guarigione di questa fanciulla non è nulla rispetto al secondo tempo della farsa che vede vittima degli inganni del diavolo e del suo compare umano nientemeno che la figlia di Carlo, re di Napoli. E’ evidente che quanto Belfagor va proponendo al suo complice è una gustosa sceneggiata di cui l’unico protagonista, signore e padrone dell’azione e del suo scioglimento spettacolare, sarà (o, meglio, dovrebbe essere) proprio lui, il Diavolo, cui è concesso di entrare e uscire a proprio piacimento dal corpo degli uomini. Il fatto è che Belfagor, una volta recuperata la sua vera natura, non può fare a meno di ordire una trappola maligna, fosse anche soltanto per vendicarsi delle angherie subite in qualità di infelicissimo marito. Anche i diavoli, tutto sommato, hanno una loro dignità e devono salvaguardarla! Senonché Gianmatteo, di cui Machiavelli non ci fornisce il ritratto fisico, appartiene inequivocabilmente a quella stirpe di grifagni villani, magari rossi di pelo e scuri di carnagione, che sempre una ne sa più del diavolo e che

sembra provare un enorme piacere nel gabbare proprio l’Avversario, quando addiritura non si identifica con esso. Belfagor sfoggi pure tutte le sue arti di perfido uccellatore; Gianmatteo ha comunque dalla sua quell’astuzia tipicamente contadina che gli consente di trarsi d’impaccio e di capovolgere a proprio favore anche gli eventi più nefasti. È quanto puntualmente avviene allorquando il sinistro Roderigo, nel pieno delle sue funzioni diaboliche, adempiuta alla promessa fatta al villano di farlo ricchissimo, si prende la briga di dimorare nella figlia del re di Francia, pregustando fra sé e sé l’atroce fine dell’improvvisato esorcista che, privo del suo aiuto, non potrà sloggiarlo da quella comoda abitazione. Costretto suo malgrado a recarsi a Parigi, minacciato di morte atroce qualora fallisca la guarigione, gabbato e sbeffeggiato dal diavolo che si rifiuta di lasciare la fanciulla, Gianmatteo non si scoraggia: tra suoni di tamburi e di campane annuncia al perplesso avversario che sta arrivando Onesta, la temutissima moglie. Gli effetti di tale notizia sono portentosi: “ ... Fu cosa maravigliosa a pensare quanta alterazione di mente recassi a Roderigo sentire ricordato il nome della moglie.

La quale fu tanta che non pensando s’egli era possibile o ragionevole se la fussi dessa, sanza replicare altro, tutto spaventato se ne fuggì lasciando la fanciulla libera; e volse più tosto tonarsene in inferno a rendere ragione delle sua azioni che di nuovo con tanti fastidii, dispetti e periculi sottoporsi al giogo matrimoniale. ...”. L’ultima prova per il povero diavolo di quale inferno sia la terra si è così realizzata: vinto dalla moglie, vittima di un astuto e avido villano, a Belfagor non resta che tornarsene scornato e indubbiamente traumatizzato in quel regno cortese e ordinato che sono gli Inferi per testimoniare e avvertire i suoi compagni di come in mezzo alla malvagità e alla corruzione degli uomini non possa esserci possibilità di sopravvivenza neppure per un autentico diavolo venuto dall’Inferno: “ ... E così Belfagor tornato in inferno fece fede de’ mali che conduceva in una casa la moglie. E Gianmatteo, che ne seppe più che il diavolo, se ne ritornò tutto lieto a casa.” P.72: Niccolò Machiavelli in una scultura alla Galleria degli Uffizi; p.73 in alto: N.Machiavelli, olio su tavola, Firenze; p.73 in basso: La tomba di Niccolò Machiavelli; p.74-77: Rappresentazioni medievali e rinascimentali del diavolo (a pag.75 un celebre demonio di A.Dürer).

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‘La Montagna Incantata’ Ovvero della malattia e della salute, del Santo Graal e della Massoneria Paolo Maggi

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el 1924 Thomas Mann termina La Montagna Incantata. Il filo conduttore di questo monumentale romanzo è la storia di Hans Castorp, un giovane ingegnere che si reca a fare una breve visita al cugino, malato di tubercolosi, a Davos-Plaz, una ridente località inerpicata sui monti della Svizzera, dove si trova un grande sanatorio. Qui scoprirà di essere anch’egli malato e, così, trascorrerà sette anni in questo luogo fuori dal mondo. Il romanzo narra delle vite degli ospiti di Davos, dei loro amori e dei loro litigi, delle indagini mediche e delle cure a cui vengono sottoposti (il libro è anche un affascinante testo di storia della medicina) e, infine, delle loro morti. Ma narra anche molte altre cose: Thomas Mann è uomo di enciclopedica cultura e, se si è disposti a farsi trascinare da quell’impetuoso fiume di parole che è il suo romanzo, tra le sue pagine ascolteremo storie di politica e di religione, di medicina, di scienza e di arte. E di iniziazione. Nel 1939 l’autore tenne una conferenza sul suo romanzo all’Università di Princeton. In quell’occasione raccontò di aver da poco ricevuto un manoscritto di un giovane studioso americano dal titolo The quester hero. Myth as universal symbol in the work of Thomas Mann (L’eroe cercatore. Il mito come simbolo universale nell’opera di Thomas Mann). Questo saggio sostiene, come lo stesso Mann spiega nella conferenza, che La Montagna Incantata faccia parte di una tradizione di romanzi che hanno in comune la Cerca del Santo Graal. La teoria non è completamente nuova: già la critica aveva definito l’opera un “romanzo d’iniziazione”. Thomas Mann ammette che la cosa non era assolutamente intenzionale ma, come egli stesso ci dice, sa bene che un’opera d’arte, una volta uscita dalla mente del suo autore, non appartiene più a lui, ma al pubblico, che troverà significati nuovi, di cui lo stesso autore non era pienamente consapevole. Mann è tuttavia molto interessato a questa chiave di lettura del suo romanzo e dice: “la lettura mi è servita non poco a rinfrescare il ricordo e la coscienza di me stesso”. Ma perché La Montagna Incantata sarebbe un romanzo iniziatico, al pari delle saghe che illustrano le gesta di


Parsifal o di Galahad, al pari dello stesso Faust di Goethe, il principale esempio nella letteratura tedesca della Cerca del Graal? Perché Castorp, novello eroe cercatore, come Mann stesso ci dice, è: “… colui che cerca e interroga, che percorre il cielo e l’inferno, che tiene testa al cielo e all’inferno e stringe un patto col mistero e con la malattia, col male, con la morte, con l’altro mondo, con l’occulto, con quel mondo che, ne La Montagna Incantata è detto problematico… alla ricerca del Graal, cioè del supremo, del sapere, di conoscenza e iniziazione, della pietra filosofale, dell’aurum potabile, della bevanda di vita”. È come se, quindici anni dopo aver terminato il suo romanzo, Thomas Mann ne riscoprisse un’origine profonda e misteriosa: egli riflette sul fatto che, inconsciamente, ha più volte descritto Castorp come un uomo semplice, schietto, quasi un sempliciotto. “Come se un oscuro senso della tradizione mi avesse costretto a insistere su questa qualità”. Ma l’eroe cercatore non è forse, per definizione, come egli stesso ricorda, un semplice, un Guilless Fool? “Ne La Montagna Incantata si parla a lungo di una pedagogia ermetico-alchimistica, di transustanziazione, ed ecco che io stesso, Guilless Fool, anch’io ero guidato da una tradizione segreta, perché quelle sono le stesse parole che si usano di continuo a proposito dei misteri del Graal”. “La montagna magica – continua Mann – è, insomma, una variazione del tempio di iniziazione, una sede della pericolosa ricerca del mistero della vita e Hans Castorp, il viaggiatore in cerca di cultura, è il tipico neofita, quanto mai curioso che, volontariamente, fin troppo volontariamente, abbraccia la malattia e la morte, perché il primo contatto con esse gli permette una comprensione straordinaria, un avventuroso progresso, congiunto, beninteso, a un congruo rischio”. “Ci sono due strade – dice a un certo punto del romanzo Hans Castorp – che conducono alla vita: una è la solita, diretta, onesta. L’altra è brutta, porta attraverso la morte ed è la strada geniale”. È questa concezione della malattia e della morte come passaggio obbligato al sapere, alla salute e alla vita, che fa di quest’opera un romanzo di iniziazione. E, nella logica del romanzo d’iniziazio-

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ne, la Massoneria non ha certo un ruolo secondario: come Thomas Mann stesso dice durante la sua conferenza americana: “Non per nulla c’entrano ne La Montagna Incantata la Massoneria e i suo misteri, poiché questa è la diretta discendenza dei vecchi riti iniziatici”. E non per nulla colui che guida Hans Castorp nel suo viaggio è il massone Ludovico Settembrini. È lui il Virgilio che prende per mano l’eroe viaggiatore e lo conduce attraverso i misteri e le sofferenze dalla malattia e della morte, alla Cerca del Santo Graal. Settembrini è una figura affascinante: colto e idealista, a volte un po’ saccente, la malattia lo ha strappato ai suoi studi, al suo impegno politico, alla sua Loggia e lo ha confinato sulla Montagna Magica. La tubercolosi consuma lentamente l’italiano ma né il suo male né le sue fin

troppo evidenti ristrettezze economiche ne appannano minimamente la dignità, la compostezza e l’entusiasmo verso la vita. Certo, ai nostri occhi, la sua visione della Massoneria potrebbe apparire alquanto discutibile: fatta più d’impegno politico e sociale, di visioni di nuovi equilibri mondiali fra le nazioni che di percorsi interiori, più di positivismo che di simbolismo. Ma Settembrini assolve benissimo il suo ruolo di Maestro Esperto e, dopo aver condotto il suo “alunno del dolore”, il suo “pupillo della vita”, per gli impervi sentieri della Montagna, lo porta a intuire, se non a trovare, il suo Graal, come è lo stesso Mann a dirci. Come ricordavo all’inizio, La Montagna Incantata è frequentemente citata nei testi di storia e di filosofia della medicina. Non di rado, per esempio, sono state 79


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analizzate le dotte discussioni tra i personaggi sul senso e il significato della malattia. Vi è su questo argomento un passo centrale: il confronto tra Ludovico Settembrini e il suo amico-nemico, il gesuita Leo Naphta. Costui è un mistico molto sui generis, armato di robusto cinismo e spirito di contraddizione. I due discutono e litigano su tutto. È inevitabile che lo facciano anche sui temi della salute e della malattia. Per Settembrini, la malattia è disumana e va combattuta con ogni mezzo perché degrada l’uomo a mero corpo: “La malattia è un potenziamento del corpo ed è pertanto nociva alla dignità umana”. Per Naphta invece, essere uomo significa essere malato e, se l’uomo è essenzialmente un malato, chi lo volesse guarire non mira che a disumanizzarlo, ad abbrutirlo. La malattia, dice Naphta, è 80

spirito, perché è antitetica alla vita organica, ed è la via per abbandonare progressivamente e, a volte, deliberatamente, il corpo, per “conquistare conoscenza. […] Questa è la vera morte sulla croce”. E il gesuita, quasi eroicamente, concluderà la sua vita in coerenza con i suoi principi, nonostante Settembrini, in un epico duello all’ultimo sangue, cerchi nobilmente di risparmiargli la vita, a rischio della propria. Questi due punti di vista sulla malattia, per quanto estremizzati (soprattutto quello di Naphta) rappresentano tuttora la due più comuni visioni dell’argomento: la malattia come male assoluto, trionfo della materia bruta sull’uomo e, all’opposto, la malattia come espressione di una volontà superiore, di una chiamata superiore, da parte della divinità. I due amici-nemici duellano solo in apparenza. Infatti, per antitetiche che possano sembrare, queste due filosofie sono molto simili e hanno una radice comune. Entrambi dicono, senza saperlo, la stessa cosa. Entrambi i personaggi di Thomas Mann, e tutti i loro epigoni al giorno d’oggi, sono infatti il prodotto di una cultura, ancora molto attuale, che vede corpo e mente come due unità in antitesi e la malattia come un’entità astratta ed estranea all’essenza dell’uomo. Ma mente e corpo non possono essere separati se non con un atto di arbitrio scientifico e filosofico e la malattia non è un’entità a se stante, diabolica o divina che si voglia, ma una condizione umana. Settembrini ha ragione quando dice che la malattia potenzia il corpo e

ne fa sentire la voce all’anima, ma questo aspetto non è necessariamente negativo e non è questa la ragione per cui va curata. Naphta ha ragione invece quando dice che la malattia è umana perché essere uomo vuol dire essere malati, ma non è per questo che va lasciata al suo destino di disfacimento e morte, perché la sua missione non è la separazione del corpo dall’anima. L’uomo, che è unità corpomente, va sempre curato, perché egli ha diritto, nei limiti del ragionevole, all’oblio del dolore. Ma senza dimenticare che questo non sempre è consentito, che il tessuto di cui la salute è costituito è intimamente intrecciato dalla nascita con quello della malattia, come si intrecciano le colonne ofitiche nelle cattedrali gotiche. E non è assolutamente vero, come dice Settembrini, che “La malattia è una condizione a sé”. Ma l’aspetto davvero rivoluzionario di quest’opera, il nuovo e inedito paradigma che Thomas Mann propone a medici e pazienti attraverso le pagine de La Montagna Incantata, e che personalmente mi affascina moltissimo, è l’idea che il percorso attraverso la malattia può essere vissuto come Cerca del Graal, come una via possibile verso l’iniziazione. Uno dei compiti più importanti e difficili del medico è quello di aiutare il malato a dare un senso alla propria malattia, a dare una risposta alla più frequente e terribile domanda che ogni malato si pone: “perché proprio a me?” Perché ciascuno di noi cerca instancabilmente di capire la direzione e il significato della propria vita. Ciascuno di noi può definirsi realizzato se riesce in questa ricerca. Perché se troviamo una direzione e un significato alla nostra vita, vuol dire che essa ha avuto un valore. E noi sappiamo di essere riusciti in questa ricerca solo nel momento in cui siamo capaci di tradurre la nostra vita in un racconto da poter narrare, innanzi tutto a noi stessi. E poi anche agli altri. La malattia spesso si interpone in questa difficile ricerca scompaginando il senso che, faticosamente, siamo a volte riusciti a dare alla nostra vita. Perché uno degli effetti più devastanti delle malattie gravi è il furto della progettualità: il malato non è più in grado


di progettare la propria vita, il suo futuro non gli è più garantito, egli si sente condannato al nulla. E questo gli provoca un disagio spesso intollerabile. La malattia deve far parte del nostro racconto. Deve anch’essa indicare una direzione, trovare un significato e, se possibile, un valore all’interno della storia che raccontiamo a noi stessi. Se l’entità della malattia è tale da non consentirci di dimenticarla, di bere l’acqua letea della guarigione, la malattia deve essere raccontabile. Deve far parte della trama del romanzo della nostra vita. Il medico deve aiutare il suo paziente a trovare il ruolo della sua malattia nel proprio destino traendo da questa insegnamento e saggezza. L’idea che la nostra vita e la nostra salute dipenda da quello che erano e che hanno fatto i nostri genitori, da quello che è accaduto casualmente intorno a noi o, peggio ancora, da una sentenza divina, significa ammettere che la vita è solo il risultato di eventi del tutto indipendenti dalle nostre scelte. Se dovessimo raccontare il romanzo di questa vita esso sarebbe nient’altro che la biografia di una vittima. Il medico deve contribuire a eliminare l’idea che siamo vittime di questo destino perverso. I sintomi di una malattia sono esperienze preziose, perché sono episodi del nostro romanzo personale che ci aiutano a prendere coscienza della sua trama. Sintomo vuol dire, etimologicamente, evento fortuito. La malattia è un insieme di eventi che possono accadere nella vita. E allora se il sintomo è una serie di eventi, il luogo dei sintomi non è la nostra malattia, ma è il nostro viaggio nella vita. Dobbiamo insegnare a sapere cogliere nel sintomo la sua intenzionalità nascosta. Il sintomo è anche un fenomeno. Fenomeno, nella sua accezione originale, fainomai, vuol dire mostrarsi, o mostrare. E anche questo ci suggerisce che il sintomo, che si mostra a noi, deve essere contemplato e interpretato. E noi dobbiamo contemplarlo e interpretarlo sotto una luce diversa da quella di sciagura senza una direzione e una finalità, trasformandolo nella tappa di una storia che abbia almeno il valore di accrescere la nostra saggezza e la nostra

Iniziazione

intelligenza complessiva delle cose. Ma, come ci insegna Thomas Mann, potrebbe essere qualcosa di più. Potrebbe essere un’occasione per stringere un patto col mistero, col mondo problematico, “alla ricerca del Graal, del supremo, del sapere, di conoscenza e inizia-

zione, della pietra filosofale, dell’aurum potabile, della bevanda di vita”.

P.78/80/81: Thomas Mann (Lubecca, 6 giugno 1875 – Zurigo, 12 agosto 1955) in vari ritratti fotografici; p.79: Il sanatorio di Davos-Platz in Svizzera.

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Memoria

Per non dimenticare Luigi Pruneti

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O

ggi è il 10 febbraio, una domenica d’inverno simile a tante altre. Il cielo è grigio e greve come si conviene a questo periodo dell’anno; per strada bambini mascherati celebrano il Carnevale fra stelle filanti e coriandoli, ne avverto le grida di gioia mentre sto scrivendo, in questo giorno dedicato alle vittime delle foibe, a coloro che furono uccisi due volte, prima da una fucilata, poi dall’oblio. La ricorrenza del 10 febbraio fu istituita con la Legge 92 del 30 marzo 2004 per rimediare ad una dimenticanza voluta, perdurata per oltre quaranta anni. Per un lunghissimo periodo di tempo, le foibe rappresentarono un argomento che non doveva essere trattato. I libri di testo, quando andava bene, dedicavano loro solo qualche parola buttata giù frettolosamente e la maggior parte delle enciclopedie le consideravano solo un fenomeno geomorfologico, “una depressione carsica a forma d’imbuto”, niente di più. Eppure in quegli orridi sparirono i corpi di tanti Italiani e di una minoranza di Sloveni e Croati. I più fortunati, vennero accoppati con un colpo alla nuca, altri furono soppressi in modo crudele, altri ancora furono precipitati, sempre vivi, nei carnai sotterranei. Quante furono le vittime? Secondo Elio Apih circa 11.0001, secondo altre fonti più di 25.0002, mentre i profughi istriani che riuscirono a scampare, rifugiandosi in Italia, sarebbero stati 350.000. Quando raggiunsero la Penisola, furono accolti con imbarazzo e in taluni casi con evidente ostilità. Scriveva, ad esempio, Piero Montagnani su L’Unità: “Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città, non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono

1 Cfr. E. Apih, Le foibe giuliane, Gorizia 2010. 2 D. Fertilio, Una strage non soltanto etnica. Verità sulle foibe oltre le ideologie, in “Corriere della sera” 12 febbraio 2013.

già così scarsi”3. Questo fu il destino dei profughi istriani, disperati che avevano perso tutto eccetto la vita, dannati da un’ideologia liberticida ad essere malvisti in quella Patria dove avevano riposto ogni speranza. Fra i tanti desidero ricordarne uno in particolare, Attilio Prodam, fulgida figura d’Italiano e di Massone, le cui vicissitudini sono indicate in una lettera inviata il 13 aprile 1950 dal

time dell’immane bufera che si abbatté sulle italianissime terre di oltre Adriatico. Dopo di essersi fatto col suo lavoro paziente, tenace, onesto un’invidiabile posizione di specialista tecnico e elettrotecnico in Fiume, egli si è visto spogliare […] di tutti i suoi beni […]. Non solo, ma

Fratello Raffaele Ridolfi4 a Ennio Avanzini, Sottosegretario del Ministero del Tesoro; in questo raro documento si legge: “Il Prodam è una delle principali vit-

avendo perduto anche la sua ingente attrezzatura di mestiere, si trova ora, a 73 anni, nella materiale impossibilità di lavorare, e quindi nella più squallida miseria. Illustrarti la figura morale di Prodam non è cosa facile, tante sono le prove di devozione alla nostra Patria che egli ha dato e per la quale ha resistito a tutto, ha rinunciato a tutto ed ha perduto tutto. Per essa ha subito le più vili angherie, le più gravi minacce senza mai vacillare, sorretto solo dal suo grande amore per 83

3 P. Montagnani, Profughi, in “L’Unità”- Ediz. dell’Italia settentrionale, Sabato 30 novembre 1946. 4 Raffaele Ridolfi 33° fu, il 4 dicembre del 1943, uno dei rifondatori del Supremo Consiglio d’Italia. L. Pruneti, Annales Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. 1908 – 2012. Cronologia di storia della Massoneria italiana e internazionale, a. c. di A. A. Mola, Roma 2013, p. 112.

Memoria


Memoria

l’Italia e unicamente preoccupato della difesa dei suoi sublimi sentimenti patriottici. Questa nobile figura d’Italiano si trova ora per mancanza di lavoro e di qualsiasi entrata, in uno stato di estrema indigenza; avendo anche da provvedere al sostentamento dei suoi familiari. Inoltre da oltre 5 mesi una seria malattia l’ha costretto a letto, aggravando ancor più, se possibile, le sue paurose condizioni economiche”5. Ma chi fu Attilio Prodam, questo Italiano e Massone dimenticato? Egli nacque a Fiume il 27 aprile 1877 da Giovanni e Elisa Deotto e fu dal padre, originario di Visinada d’Istria, che egli ereditò un forte sentimento d’italianità. Giovanni, infatti, laureatosi in chimica farmaceutica a Padova, aveva militato nelle file garibaldine e a Marghera, nel corso di uno scontro a fuoco, era stato ferito a una gamba. Il figlio ricalcò fin da giovane le orme del padre. Laureatosi, nel 1902, in ingegneria meccanica al Politecnico di Mittweida in Sassonia, ritornò a Fiume dove prima lavorò presso il silurificio “Whitehead” e quindi, tre anni più tardi, fondò lo “Stabilimento Tecnico Elettrotecnico”. Le sue idee filoitaliane erano note a tutti, dato che era militante nell’associazione irredentista La giovane Fiume cosicché, quando scoppiò il Primo conflitto mondiale, fu internato in Ungheria. Nel 1918, riuscì a fuggire dal domicilio coatto e a ritornare a Fiume che negli ultimi giorni 5 Archivio Storico Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. Obbedienza di Piazza del Gesù Palazzo Vitelleschi.

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di ottobre era stata occupata dal 79° reggimento croato di fanteria “Jellacic”. La situazione in città era tesa e rischiava di volgere in tragedia, per questo con altri quattro concittadini6 Prodam partì alla volta di Venezia con lo scopo di far intervenire la flotta italiana. I cinque ardimentosi raggiunsero in auto Trieste e da qui per via mare arrivarono a Venezia. Furono accolti da Sem Benelli che li condusse all’Ammiragliato, dove furono ricevuti dal Capo di Stato Maggiore della Marina, Paolo Thaon di Revel. Si narra che Attilio Prodam per vincere i dubbi dell’ammiraglio abbia, ad un certo punto, gridato ai compagni: “In ginocchio! Noi dobbiamo chiedere, quindi dobbiamo stare in ginocchio. Noi chiediamo all’Italia di farci Italiani”7. Se le cose siano andate proprio così è difficile da stabilire, fatto sta che il 4 novembre del 1918 una squadra navale della Regia Marina al comando dell’ammiraglio Rainer entrò nel porto di Fiume. A bordo del caccia Stocco era imbarcato proprio lui, il giovane ingegnere irredentista che nel 1939 testimoniò questa esperienza pubblicando il libro Gli Argonauti del Carnaro8. In seguito Attilio Prodam seguì 6 Gli altri membri della missioni furono i massoni Giovanni Matcovich, John Stiglich, Giuseppe de Meichsner e Mario Petris. G. Tirotti, Fiume, l’Olocausta, l’impresa di Gabriele D’Annunzio e la Massoneria, in “Fiume. Rivista di studi fiumani”, nuova serie a. IV, n. 2, Ottobre 1984, p. 40. 7 Ivi, p. 42. 8 A.Prodam. Gli Argonauti del Carnaro, Mila-

Gabriele d’Annunzio nell’occupazione di Fiume e anche in questa occasione recitò un ruolo importante, tenendo i rapporti con il Gran Maestro Vittorio Raoul Palermi che aveva costituito a Roma un Comitato per la raccolta di fondi pro Fiume, tanto è vero che al Fratello legionario Tommaso Cartosio fu versata, a Milano, la somma di 72.000 lire9. Dopo il Trattato di Rapallo che istituì lo Stato Libero di Fiume, avversò il governo indipendentista di Riccardo Zanella, provocandone la caduta. Quando, poi, la città, nel 1924, fu annessa al Regno d’Italia, considerò finita la propria attività politica e si ritirò a vita privata. Il suo patriottismo era stato talmente evidente che Vittorio Emanuele III lo insignì della Gran Croce della Corona d’Italia. Al termine del Secondo conflitto mondiale, prima che le truppe di Tito occupassero Fiume10, fuggì a Trieste e da qui raggiunse Roma, dove visse fino alla morte. Non si conosce la data d’iniziazione di Prodam anche se è probabile che risalga all’inizio del secolo, quando entrò nell’associazione la Giovine Fiume. A Fiume, infatti, vi era un rapporto molto stretto fra irredentismo e Massoneria. La Loggia Syrius era un vero e proprio cenacolo d’italianità, ne facevano parte giovani intellettuali ed esponenti di spicco della comunità ebraica, in gran parte favorevole all’annessione della città al Regno d’Italia11. Quindici anni più tardi, secondo la testimonianza di Marco Egidio Allegri, Prodam era Maestro Venerabile di un’altra loggia fiumana la XXX Ottobre e in tal veste avrebbe iniziato Gabriele d’Annunzio. “Nel 1920 – afferma Allegri – mentre mi trono 1939. 9 G. Tirotti, Fiume, l’Olocausta, l’impresa di Gabriele D’Annunzio e la Massoneria … cit, p. 52. 10 3 maggio 1945 11 E. Burich, Fiume prima e dopo Vittorio Veneto, Venezia 1968, p. 11 e seg; F. Gerra, L’impresa di Fiume. Fiume d’Italia, vol. I, Milano 1974, p. 22.


Memoria

vavo a Fiume quale legionario tenente aiutante maggiore dell’8° Reparto d’assalto venni iniziato alla loggia massonica XXX Ottobre per mezzo di un certo Grande Ufficiale Ettore Vecchietti che si trovava di passaggio a Fiume quale ispettore della Cassa Nazionale Infortuni. Tale loggia dipendeva dalla Massoneria di Piazza del Gesù. Venerabile di essa era l’ingegnere Attilio Prodam e fra gli iscritti vi erano molti membri del Gran Consiglio Nazionale fiumano fra i quali rammento il comandante d’Annunzio, Bacci, Bonfanti”12. Negli anni immediatamente successivi Prodam, che ormai era stato elevato al 33° Grado del Rito Scozzese Antico ed Accettato, entrò a far parte del Supremo Consiglio, tant’è vero che il 23 novembre del 1925 quando, in assenza di Palermi, il Luogotenente Sovrano Gran Commendatore Giovanni Maria Metelli sciolse la Serenissima Gran Loggia e il Supremo Consiglio, il Fiumano risultava fra i membri di quest’ultimo organismo13. Nel dicembre del 1943, Attilio Prodam era ancora a Fiume, pertanto non partecipò alla riu12 G. Vannoni, Massoneria Fascismo e Chiesa cattolica, Bari 1980, p. 52, nota 133; cfr. L. Pruneti, La tradizione massonica scozzese in Italia, Roma 1994, p. 103; L. Pruneti, Il sentiero del bosco incantato. Appunti sull’esoterico nella letteratura, Bari 2009, pp. 158 – 159. 13 L. Pruneti, Annales … cit, p. 94.

nione avvenuta a Roma, in casa di Salvatore Farina, per ricostruire il Supremo Consiglio ma, appena giunse nella Capitale, riprese immediatamente l’attività latomistica. Il 24 aprile dell’anno successivo fu, infatti, presente alla cerimonia d’inaugurazione della Serenissima Gran Loggia Nazionale14 e, subito dopo, entrò a far parte della loggia romana la “Stretta Osservanza”, ove fu nominato Maestro Venerabile ad honorem15. Il 31 ottobre del 1946 egli risultava fra i membri effettivi del Supremo Consiglio retto da Pietro di Giunta e dopo la morte di quest’ultimo, il 7 dicembre dello stesso anno, fu eletto Sovrano Gran Commendatore16. Il suo mandato durò poco, giacché l’atteggiamento ostile del Gran Maestro e Luogotenente Giulio Cesare Terzani lo costrinsero, il 6 marzo del 1947, a rimettere le dimissioni17. Nonostante le delusioni e le difficoltà dovute alla vita di esule Prodam continuò a credere nella Massoneria e, costretto ad abbandonare la Comunione madre, militò in altri gruppi massonici che si richiamavano a Piazza del Gesù. Il 9 febbraio del 194818 fu, insieme a Manfredo de Franchis, Vincenzo 14 Ivi, p. 113. 15 Ivi, p. 130. 16 Ivi, p. 138. 17 Ivi, p. 141. 18 Ivi p. 162.

Damiani, Ermanno Gatto fra i firmatari dell’atto costitutivo dell’Associazione Massoneria di Rito Scozzese Antico ed Accettato per l’Italia e il 23 ottobre del 1949 partecipò alla Costituente massonica tenuta a Milano nel Teatro delle Arti al Parco della Vittoria. Erano con lui Alfredo Bartolomei, Giovanni Nalbone, Giuseppe Fusco, Rodolfo Corselli, Giuseppe Belluzzo, Ezio Garibaldi. È questa l’ultima notizia che abbiamo sulla vita massonica di Attilio Prodam. La salute sempre più incerta e le difficoltà economiche lo costrinsero via via a ritirarsi. Morì nella Capitale il 5 maggio del 1957, fra l’indifferenza generale di Fratelli ed Italiani. Agli uni e agli altri aveva dato tutto e per gli uni e per gli altri aveva rinunciato a tutto, ne aveva ricevuto in cambio dimenticanza e solitudine.

P.82/83: La vicenda istriana vista dal vignettista Vidris (Gigi Vidrich, Pola 1897-Torino 1976); p.84/85: Alcune crude immagini della pulizia etnica istriana compiuta dagli yugoslavi.

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ASTERISCHI *** Aldo A. Mola

Asterischi

sponderebbe solo a chi lo appellasse nella sua lingua, universale, e lo invocasse “Benedicte…”. Il “Benedictus” di un vignettista non gli suona.

*

***

sta la liberazione del mondo che Cristo compie”. Secondo noi, invece, la differenza però c’è, ed è immensa, quanto meno per chi ricordi che l’Agnus è appunto l’Agnello sacrificale, il Capro espiatorio, che prende su di sé le colpe altrui e accetta la propria sorte per liberare la vita altrui a prezzo del proprio martirio.

* Quo vadis? Boh? Il latino fai da te

I

l 13 porta o no sfortuna? La disputa è aperta da millenni e altrettanto durerà. Al bravo vignettista satirico Krancic mercoledì 13 febbraio ne ha portata poca. Due giorni prima Benedetto XVI annunciò ai confratelli cardinali la rinuncia al magistero di Pietro. Per interpretare il messaggio del Pontefice, il vignettista lo ha ritratto di spalle, di bianco vestito, con mantellina e, privilegio arcano, pantofole di rosso scarlatto, verso una meta indistinta: un triangolo, il cacumine di un monte? Nella vignetta, dalla destra una voce esclama: “Quo vadis, Benedictus?!” È la fotocopia del celeberrimo “Quo vadis?…”. Ma nella vignetta di Krancic il Papa non si volge, non torna a Roma, non va a farsi sbranare nel Colosseo (che del resto ancora non c’era). Tira diritto. Possibile che proprio Benedetto XVI non senta la Voce? Troppo compreso da Quella interiore? Solo questione di udito, indebolito dalla senescenza? La verità, forse, è un’altra. Sua Santità, ora Papa emerito, pensa in latino. Ri86

Quaresima: Agnello di Dio

S

ullo “strano errore nella traduzione del vecchio Messale latino” (Agnus Dei qui tollit peccata mundi”, solitamente volto in “Agnello di Dio che toglie i peccati dal mondo…” (ne ha scritto Officinae, 2012, settembre) torna Mario Cervi ben due volte in dialogo coi lettori del “Giornale” (Battista Parolin, 9 gennaio; prof. Luciano Pranzetti, 13 gennaio). Anche secondo Parolin “il Cristo non ha semplicemente ‘tolto’ i peccati del mondo, come impropriamente risulta nella infelice traduzione postconciliare, ma se n’è fatto carico”. A giudizio del prof. Pranzetti (che ha il pregio di scrive “tollis” e non “tollit”), il tollere della Vulgata di San Gerolamo è traduzione in latino del greco “airein”, sicché “togliere” o “addossarsi i peccati del mondo” non tradisce il concetto con cui si manife-

Luigi Einaudi ebreo?

È

sicuro Franco Bassanini che non sarebbe molto più oltraggiosa l’etichetta che marchia molte sinistre famiglie ideologiche e partitiche a lui non certo ignote? Per meglio comprendere la differenza tra libertà e settarismo, torna alla memoria la motivazione che indusse Luigi Einaudi a non replicare a chi, mentre imperversava l’antisemitismo di regime e contava di nuocergli, asserì che egli era di ascendenze ebraiche. Rispose che la “gens” dalla quale (forse) arriva-


*

va erano i Liguri: né romani, né celti, né semiti, né… Non negò la propria personale “contaminazione” ebraica, proprio per far capire che essere di quella stirpe è come esserlo di tante altre etnie: un “fatto” che di per sé non costituisce certo “capo di reato”Proprio come appartenere a un Ordine o a una Setta, salvo imputazioni sulla base di prove.

Asterischi

* La Massoneria evanescente

È

Congiuntivite

M

a non solo il latino è ormai lingua morta. Anche l’italiano se la passa male. Nell’aulico “Letture”, paludato supplemento domenicale del “Corriere della Sera”, Paolo Di Stefano suggerisce nella rubrica “I consigli degli scrittori”: “Ovunque andate, fatevi accompagnare dall’ignoto”. Il viandante, aggiungiamo noi, farebbe bene a portare con sé una grammatica italiana che ricordi all’illustre autore (o al redattore) che meglio sarebbe scrivere “Ovunque andiate…”. Nulla di gravissimo. Solo un problema di… congiuntivite.

quanto le “Sette” hanno spesso fatto nel corso della storia. Prendere su di sé missioni di speranze disperate e le persecuzioni conseguenti. Perciò la loro è storia gloriosa. Esse godono del rispetto anche di chi non vi appartiene ma le comprende, cioè si fa carico di una almeno piccola porzione del loro sacrificio e pertanto si guarderebbe bene dal rifiutare un’ “etichetta” che l’accomunasse ai settari, nel timore di doverne condividere la sorte. È il caso della Massoneria, che non è affatto “evanescente”, a differenza di quanto asserito da Mario Monti, il cui movimento ha avuto effetti “effervescenti”.

le appartenenza massonica. Ha replicato secco che avrebbe adito le vie legali contro l’affermazione a suo avviso ingiuriosa: come davvero possa essere lesivo dell’onore far parte di un Ordine che ha contato tra i suoi iniziati Washington e Voltaire, Goethe e Garibaldi, Mozart e il solito lungo eccetera di Liberi Muratori?

* Franco Bassanini: settario a chi?

È

a suo modo emblematica la reazione di Franco Bassanini a chi gli ha attribuito non sappiamo bene (ma è irrilevante per questo ragionamento) qua87


I

l Novecento ha segnato una svolta per l’ex libris che, nato per “servire” il libro, diventò un oggetto alla moda e un’opera d’arte a se stante. La borghesia chiese agli artisti l’utilizzo dei simboli, come contraltare agli stemmi della nobiltà; i committenti divennero ben presto esigenti e i collezionisti crearono una fitta rete di scambi portando a una nuova concezione di questo piccolo foglio: non più un semplice attestato di proprietà, ma una piccola stampa d’arte con una sua valutazione e grado di rarità. Non vennero da allora più rispettati i canoni classici di dimensioni o di grafica tanto che fu inserito il colore nella stampa; del resto, come ogni creazione artistica, l’evoluzione formale e semantica degli ex libris va al passo con i tempi seguendone i percorsi artistici. Queste piccole impressioni a stampa sono dunque la scelta artistica alla semplice firma e, per preservarne il valore, devono essere trattati e conservati come le incisioni di maggiori dimensioni. Ovviamente parlando di valore mi sto riferendo alle condizioni di conservazio88

ne che niente hanno a che vedere con la qualità artistica, ma hanno sicuramente importanza riguardo al valore commerciale. Le stampe, e dunque gli ex libris, sono soggetti a tutti gli inconvenienti comuni agli oggetti cartacei, come i libri, i francobolli e le banconote. I loro principali nemici sono la luce, perché i raggi ultravioletti provocano l’ossidazione della cellulosa e dell’inchiostro, l’umidità, che favorisce lo sviluppo delle muffe, gli insetti xilofagi, in specie il Lepisma saccharina, più noto come pesciolino d’argento e i Collemboli, nonché il contatto con le mani, specie non del tutto pulite e asciutte. La carta è formata da cellulosa, materiale che ha delle proprietà fisico-chimiche che col tempo subiscono un inevitabile degrado che però possiamo rallentare mantenendo le condizioni ottimali di temperatura (18°-20°), di umidità (4550%), di luce (i raggi ultravioletti provocano un’ossidazione che danneggia la compattezza e la resistenza della carta e la stabilità dei colori mentre gli in-

frarossi accelerano le reazioni chimiche di degrado provocate dagli ultravioletti) e controllando le condizioni igieniche dei locali, eliminandone la polvere, asilo per batteri e insetti, con la pulizia degli scaffali con panni antistatici e l’utilizzo periodico di blandi insetticidi, come il timolo. I cristalli di timolo sublimano molto lentamente nell’ambiente e vanno utilizzati prestando attenzione a evitare il contatto diretto con il materiale cartaceo, per esempio mettendo il cristallo in un bicchierino e porre questo all’interno del contenitore nel quale conserviamo i nostri ex libris. Il timolo previene anche il formarsi di muffe. Anche conservare vicino alla carta foglie di alloro o di lavanda previene le infestazioni, ma se queste sono già presenti, ciò non è più sufficiente ed è necessario rivolgersi a degli specialisti. L’impiego d’insetticidi per uso domestico non va fatto però direttamente sulla carta, bensì sugli scaffali ed è poi necessario attendere qualche giorno prima di riporvi il materiale. Vanno evitate le esposizioni permanenti in vetrine o quadri esposti alle pareti, nel caso


Ex Libris

è utile dotare le finestre di tapparelle o vetri anti UV o comunque schermare la stanza dai raggi solari e preferire lampade a luce fluorescente con filtro per i raggi UV. Importante è non attaccare il foglio con una colla vinilica, preferendole la vecchia coccoina o, piuttosto, usare due linguette di carta di riso o un nastro da restauro cartaceo gommato con colle neutre. Quando sono conservati senza essere incollati gli ex libris vanno separati l’uno dall’altro con veline di carta a ph neutro in scatole di opportuna misura realizzate anch’esse con materiale dal ph neutro. Essendo ormai considerati piccole stampe d’arte, e non solo cartellini, gli ex libris d’arte vengono numerati e firmati, sotto la stampa o sul retro. Naturalmente non sono considerate opere d’arte gli ex libris tipografici moderni, anche se progettare e realizzare un bel lettering non è facile anche con l’utilizzo del computer, che comunque aiuta a realizzare una composizione esteticamente corretta. Si evince dunque come per la creazione di un’opera valida sia essenziale la collaborazione dell’artista con il committente che nell’ex libris deve riconoscersi e ritrovare in esso i simboli e le passioni che l’hanno ispirato nella scelta dei suoi libri. Anche le Istituzioni massoniche sono spesso committenti che desiderano connotare i libri delle loro biblioteche con un contrassegno che sia contemporaneamente un segno di possesso e un’espressione artistica e in questo caso si dovrebbe parlare di “ex bibliotheca” più che di “ex libris”.

Fra le Obbedienze con un proprio ex bibliotheca va annoverato il Grande Oriente dei Paesi Bassi (Grootoosten der Nederlanden) fondato il 26 dicembre 1756 come Obbedienza delle Logge massoniche dei Paesi Bassi, che avevano un’estensione territoriale immensa che comprendeva anche le colonie olandesi. Nel 1777 si unì in trattato d’amicizia con il Grande Oriente di Francia, trattato violato da quest’ultimo nel 1812 con la costituzione in territorio olandese di Logge alla propria obbedienza. Dal 1880 al 1906 fu legato da un trattato d’amicizia con la Gran Loggia Unita d’Inghilterra, revocato a causa della guerra angloboera in Sudafrica. Nel settembre 1941 durante l’occupazione nazista la Massoneria in Olanda fu proibita e i lavori ripresero alla fine della guerra. Nel 1957 vi fu la scissione di alcune Logge che poi hanno formato la Gran Loggia dei Paesi Bassi. È un ex libris semplice di mm 78x50, di disegnatore anonimo, probabilmente creato intorno al 1970, ma riporta i dati essenziali, ossia il committente ed il soggetto, cioè dei libri con squadra e compasso impressi sulla costola, illustrando così la sua destinazione alla biblioteca

dell’Obbedienza. Questa è solo maschile e fa parte del circuito delle Obbedienze anglosassoni. La sede centrale è a L’Aia ed ha un museo massonico, il Centro Culturale Massonico “Prins Frederik”. La loggia “L’Inseparable” all’Oriente di Bergen op Zoom, città olandese del Brabante Settentrionale, fa parte del Grande Oriente dei Paesi Bassi del quale è una delle logge più antiche, come si evince dalla data di fondazione che vi è riportata, il 1767. L’ex libris è una xilografia di mm 64x64 del 1957 ad opera di Reinier Wijnand Snappers (Woerden 1907- Ammerzoden 1988) che è stato un disegnatore, illustratore e grafico olandese autore di molte copertine di libri e di molti ex libris. Rappresenta i principali simboli presenti nel Tempio1: le colonne J e B, il compasso sovrapposto alla squadra, a indicare la Maestria con al centro di essi la Stella fiammeggiante, simbolo del Compagno d’arte, con al di sopra una corona a cinque punte, che, in sostituzione del Delta, rappresenta il collegamento alle forze superiori. Al di sotto è raffigurato l’arco di 1 R.Palmirani, Ex Libris Massonici, Roma, 2000, p. 31.

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Ex Libris

cerchio misurato dal compasso e sul bordo inferiore il pavimento a scacchi del Tempio massonico, formato da piastrelle bianche e nere alternate fra loro. La parola “loggia” è rappresentata da un rettangolo con al centro un punto2, “questa figura non è il piano della Loggia come comunemente si crede, è la lettera L, purché non si dimentichi di farvi figurare al centro un punto”. Anche la Madre Loggia “Il Dovere”, all’Oriente di Lugano ha fatto realizzare un importante ex libris, zincotipia di mm 71x 49, 1920 circa3, dal celebre pittore Giulio Cisari. Egli nacque a Como il 7 maggio 1892, si diplomò in architettura all’Accademia di Brera e per sei anni 2 J.Bouchet, La Simbologia Massonica, Roma, 2001, p. 65 3 R.Palmirani, Ex Libris Massonici, Roma, 2000, p. 49.

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frequentò anche la Scuola superiore applicata all’industria dove, terminati gli studi, svolse attività d’insegnante all’Accademia, per dedicarsi poi all’arte. Attratto dal colore, affrontò prima la pittura di paesaggio, per volgersi in seguito al bianco e nero. Sotto la guida di Adolfo De Carolis, si perfezionò in tutte le tecniche di riproduzione, dalla litografia all’incisione su rame, individuando nella xilografia un medium espressivo esemplare. Al grande movimento di rinascita della xilografia originale, iniziato in Italia da De Carolis nel primo decennio del secolo, contribuì con pregevoli opere d’illustrazione, cartellonismo e grafica minore che lo indussero a raccogliere le sue esperienze nel manuale teorico pratico, La xilografia, pubblicato da Hoepli a Milano nel 1926. Attivo anche come architetto e scenografo, si dedicò prevalentemente all’il-

lustrazione e decorazione dei libri, realizzando dal 1918 oltre un migliaio di copertine per gli editori Treves, Ceschina, La Prora, Bemporad, Barbera, Alpes, SEI, ma soprattutto caratterizzando negli anni Venti e Trenta la produzione grafica di Mondadori e delle edizioni musicali Ricordi. Dal 1911 partecipò alle principali rassegne nazionali, a numerose collettive e concorsi d’arte vincendo molteplici premi. Fu cavaliere per meriti di guerra, commendatore per meriti artistici e cavaliere del Sovrano Ordine di Malta e del S. Sepolcro, membro dell’Accademia di Brera dal 1919, socio fondatore e vicepresidente degli Incisori d’Italia e Lauréat du travail de première classe a Bruxelles per meriti artistici e pubblicitari. Le sue opere sono conservate in numerose raccolte pubbliche di Milano, Firenze, Trieste, inoltre in collezioni private in Italia e all’estero. Morì dimenticato a Milano il 28 marzo 19724. La Loggia Madre “Il Dovere”, già fondata all’Oriente di Lugano quale “Loggia ticinese” nel lontano 27 gennaio 1877, fa adesso parte della Gran Loggia Svizzera Alpina, autorità massonica nei limiti territoriali della Confederazione Svizzera, che conta circa 4000 iscritti divisi in ottantatré logge (2012). La Grand Loge Suisse Alpina origina dall’unione nel 1844 della Gran Loggia Nazionale con il Gran Priorato d’Elvezia e, mentre il Priorato governava gli alti gradi, l’Alpina lavorava solamente nei primi tre gradi. Nell’ex libris intitolato alla Loggia “Il Dovere” Cisari, che nell’ornato risente in maniera evidente del linguaggio dell’Art Nouveau e nel tracciato delle ali si avvicina al coevo Jugendstil della vicina Austria, disegna un angelo, appunto “il Dovere”, accompagnato da Sole, Luna e una Stella. Un Triangolo, attraversato da un Compasso, mostra come attraverso la ricerca, che appunto il Compasso simboleggia, si possa raggiungere la Sapienza che il Triangolo raffigura, sotto l’egida del Dovere, raffigurato come unione tra il materiale e lo spirituale. Il 12 luglio 1951 a Milano si riuniscono alcune logge fuoriuscite dalla Serenissi4 Paola Pallottino, Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 34 (1988)


ma Gran Loggia di via della Mercede5; si tratta delle Logge “Washington”, “Cavalieri di San Giovanni di Scozia”, “Alberto da Giussano”, “ Sublimi Cavalieri del Sole” di Milano, “Valticino” di Pavia, “San Giovanni di Scozia” di Parma, “Sabotino II” di Trieste, “Cavalieri del Friuli” di Udine. Queste officine decidono di fondare una nuova comunione che avrà nome di Serenissima Gran Loggia d’Italia allo Zenith di Milano, ma che più tardi sarà chiamata Gran Loggia d’Italia. Quest’Obbedienza assume rituali e Costituzioni della Gran Loggia Unita d’Inghilterra e lavora in lingua inglese. Sarà comunemente chiamata “Sollazzo” dal nome di Goffredo Sollazzo, che ne sarà Gran Maestro dalla costituzione al 1968. Nel 1959 sette Logge appartenenti a questa Obbedienza lavoravano nella regione Piemonte. Nel 1967, al termine di una riunione massonica svoltasi a Londra, la Gran Loggia Unita d’Inghilterra comunicava al gruppo di Goffredo Sollazzo l’impossibilità di riconoscerla. Nel 1968 la Serenissima Gran Loggia d’Italia confluiva allora nel Grande Oriente d’Italia; siglavano l’accordo Piero Sinchetto su incarico dell’allora Gran Maestro Giordano Gamberini e Maurizio Volkhart, allora Gran Segretario dell’Obbedienza. L’ex bibliotheca della Serenissima Gran Loggia dell’Oriente di Torino mi riporta alla mente le parole di Jacopo Gelli6, che promette di aiutare nella sua guida il lettore a evitare “…il dispiacere di incappare in una delle tante reti, tessute di inganni, di falsi e di ristampe, che negli ex libris sono numerose quanto le stelle del firmamento”. Infatti, il foglietto riporta nel cartiglio accanto al labaro, come si usa fare per indicarne il titolare, il nome del fotografo Riccardo Scoffone operante a lungo a Torino e noto intorno al 1930 per essere fra i fotografi della Casa Reale Savoia, nonché insegnante in un Istituto di Belle Arti. Nell’angolo inferiore destro è riportata la sigla dell’incisore e raffigura in un ben equilibrato paesaggio un personaggio che richiama l’Eremita dei Tarocchi con una bilancia in una mano e una spada nell’altra, a simboleggiare che la pratica della giustizia, simboleggiata dalla bilancia, deve 5 Luigi Pruneti, Annales, Roma, 2013, p. 177 6 Jacopo Gelli, Ex Libris Italiano, Milano, 1908, p. 1.

Ex Libris

essere accompagnata dal potere rappresentato dalla spada. In alto è raffigurato uno scudo semipartito troncato con un Delta raggiante, un cuore e un’arca di Noè. Guardando l’immagine con una lente d’ingrandimento si nota una certa incertezza del segno grafico, e una difformità d’altezza fra le lettere della scritta “ex libris” contrapposta alla nettezza e alla precisione della scritta “Serenissima Gran Loggia d’Italia Oriente di Torino”, oltretutto in un carattere diverso dalla prima. Mi viene spontaneo il pensiero che gli ex libris di Riccardo Scoffone siano stati utilizzati per sovrapporvi a stampa la scritta che fa riferimento alla Biblioteca dell’Obbedienza, creando così

l’accostamento di un’immagine e di un titolare che non hanno molto in comune. Suol dirsi che “al proprio ex libris non si mente” e che esso deve essere il biglietto da vista del titolare che deve esservi rappresentato o dal punto di vista fisico o, più spesso, morale. L’utilizzo quindi da parte di un’Istituzione di quello del singolo appartenente, e molto probabilmente Riccardo Scoffone lo era, altera il messaggio che l’immagine deve dare e anzi l’Eremita comunica una sensazione d’isolamento meditativo che, se nel singolo massone può essere positivo, da parte di un’Obbedienza dà quasi una sensazione di distacco e di abbandono dei Fratelli. Annalisa Santini 91


Universo Massonico Luca Bagatin (prefaz. Luigi Pruneti), Bastogi editore.

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er la Befana 2013, mi trovavo sul sito di Luigi Pruneti, stavo per inviare il mio 3° messaggio nell’arco degli ultimi 3 o forse 4 anni, quando mi accorgo che anche i due precedenti li avevo mandati nei giorni di festa: Pasqua, di non ricordo quale anno, e l’Epifania del 2012. Mi sono chiesta perché nei giorni di festa mi ritrovassi casualmente a inviare messaggi proprio in quel sito: esiste la casualità? Esiste un richiamo? Sento il respiro delle costellazioni? E così, per la Befana 2013, mi ritrovo il libro Universo Massonico di Luca Bagatin, consegnatomi non da una gobba vecchietta a cavallo di una scopa, ma da un corriere: si sa, con il tempo si sono accorciati i tempi. Ma i regali arrivano ancora. E la prefazione scritta da Luigi Pruneti inizia con un ricordo personale di Pruneti con l’immagine di una gerla che conteneva i regali portati, rieccola di nuovo lei, dalla Befana a Luigi 92

Pruneti bambino. Era inevitabile che accettassi di scrivere questa recensione, la Befana lo pretende, mi ha inviato troppi segnali che non posso certo ignorare. Come ci dice l’autore, Luca Bagatin, nella nota introduttiva all’opera Universo Massonico (Bastogi editore), il volume raccoglie i suoi scritti pubblicati dal 2005 in riviste che affrontano tematiche massoniche ed esoteriche e nel suo blog (www.lucabagatin.ilcannocchiale.it) Bagatin non scrive tenendo per mano il lettore, non lo coccola, non lo guida, piuttosto lo trascina in un viaggio che lo porta dalle Radici gnostiche della Massoneria, con cui si apre il primo capitolo, per arrivare alle interviste attuali a chi la Massoneria la vive e ne porta avanti gli ideali nella propria quotidianità, ricoprendo ruoli di dignitari di loggia come Gabriella Bagnolesi Gran Maestra della Gran Loggia Massonica Femminile d’Italia; storici della Massoneria come il Prof. Aldo A. Mola; e, tra gli altri, l’articolo-intervista al Prof. Luigi Pruneti Sovrano Gran Commendatore e Gran Maestro della Gran Loggia d’Italia degli ALAM; la Prof.ssa Francesca Vigni che ha rilasciato un’interessante intervista sulla questione femminile in Massoneria; e, da non dimenticare, Nathan Gelb autore del ‘thriller’ Delitti sotto la cenere che vede come protagonista il Gran Maestro della Massoneria partenopea, Raimondo de Sangro. Da mettere in evidenza il terzo capitolo, dedicato ai ritratti di grandi iniziati, partendo da Cagliostro (…l’emblematica figura del Gran Cofto Alessandro Cagliostro, dimostra, insieme a quella dell’altrettanto misterioso Conte di Saint Germain e dei fondatori del Martinismo Martinez de Pasqually e Louis Claude de Saint-Martin, come il Secolo dei Lumi non fu solamente mera ragione e mero materialismo, bensì diede l’impulso per una rinnovata apertura verso gli antichi concetti Ellenistici, Ermetici e dunque

Gnostici del Vero, del Bello e del Buono. Che sono anche alla base di ogni Civiltà degna di questo nome.); Luca Bagatin ci ricorda poi le figure del conte di Saint Germain, di Helena Petrovna Blavatsky, fondatrice della Società Teosofica (a cui ho aderito nel 2001, condividendone totalmente i principi: Fratellanza Universale dell’Umanità senza alcuna distinzione; studio comparato delle fedi, delle filosofie e delle scienze; ricerca dei poteri latenti dell’individuo.); e poi la figura di Saverio Fera a cui si deve la fondazione della Gran Loggia d’Italia (Il Fera, in linea con lo spirito originario della Massoneria, non potendo sopportare la politicizzazione dell’Istituzione, ovvero la sua trasformazione in vero e proprio partito politico, ricostituì – nel 1908 – la Massoneria Scozzese con buona parte del Supremo Consiglio di cui faceva parte e, nel 1910, diede vita alla Serenissima Gran Loggia d’Italia, poi Gran Loggia d’Italia degli ALAM); seguono i profili di Giordano Gamberini, Lino Salvini e Giovanni Ghinazzi. Interessante, a mio avviso, il quarto capitolo Letteratura e Massoneria. Ancora un viaggio. La letteratura permette un’infinità di viaggi: tra le righe, tra le parole spesso sacre e quasi sempre un simbolo; un viaggio nel profondo e poi verso la cima “a riveder le stelle”; un viaggio letterario esoterico è anche, spesso in orizzontale, quanti personaggi vanno alla ricerca, nelle loro avventure, della risoluzione di se stessi e delle loro vite; succede ne Le Avventure di Pinocchio, succede nel Decameron, succede un po’ dovunque lo si voglia trovare. Ecco che Luca Bagatin ci presenta un esempio di quel viaggio “V.I.T.R.I.O.L”, dedicando ampia analisi al Viaggio al centro della terra di Jules Verne, in quel centro terrestre da identificare con il nostro io interiore, dove troviamo la nostra vera pietra, il nostro oro interiore; è in quelle viscere terrestri che Guenon ne Il Re del mondo,


come ricorda Luca Bagatin, colloca l’Agarthi. Si giunge al più recente (2009) Il sentiero del bosco incantato di Luigi Pruneti, un viaggio esoterico nella letteratura partendo dall’opera di Apuleio, fino a giungere alla modernità del fumetto, non tralasciando la fiaba che, di quel bosco incantato e luogo di sacralità segreta, è la protagonista assoluta. Universo Massonico, di pagina in pagina, ci porta a spaziare in un mondo che sempre ha affascinato l’uomo desideroso di conoscenza; libro che si pone come punto di partenza per chi è ancora nella fase di curioso che di conoscitore; ma anche un libro di grande interesse, per le sorprese che rivela - in quanto Bagatin ha potuto attingere da fonti non a tutti note – per coloro che già sono profondi conoscitori dell’universo massonico. Marcella Andreini

La Strega, ovvero degli inganni dei demoni.

a Mirandola –, spalleggiato dal suo vicario, il fiorentino ed ex seguace di Savonarola Luca Bettini. Tuttavia i due Inquisitori hanno un alleato d’eccezione. Si tratta nientedimeno del signore stesso di Mirandola, Giovanfrancesco Pico (14691533), letterato, filosofo e nipote del più famoso Giovanni Pico della Mirandola. Il processo, con le difficoltà sorte in merito alla competenza territoriale dell’Inquisitore al di fuori dello stretto territorio mirandoliano - origine di una lunga battaglia di autorità - presenta non pochi spunti di originalità, come ad esempio la condizione agiata di parte consistente dei coinvolti, che contraddice in maniera stridente lo status di povertà estrema in genere associato agli imputati della maggior parte dei processi di stregoneria. Dall’esperienza legata alla diretta partecipazione di Giovanfrancesco ai processi mirandoliani, che portarono a dieci condanne capitali (di cui solo sei furono eseguite, altri quattro condannati aven-

Giovanfrancesco Pico della Mirandola. Saggio introduttivo, traduzione e note di Ida Li Vigni. Ed. Mimesis, Milano 2012 – http:// www.mimesisedizioni.it/ pp. 327, € 26,00. Collana “Airesis” diretta da Paolo Aldo Rossi e Massimo Marra

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elle terre intorno a Mirandola, nel Modenese, nei primi mesi del 1522 giravano voci insistenti su congressi notturni e magici, convegni diabolici ed ereticali cui non erano estranei uomini e donne in età, anche attempati sacerdoti, che compivano licenziosi e nefandi atti di profanazione e sottomissione diabolica. Si trattava, evidentemente, di una recrudescenza del cursus, meglio conosciuto come gioco delle donne, il sabba diabolico, lo spaventoso convegno che, nelle terre ben più meridionali del Beneventano, avveniva sotto il noce e vedeva protagoniste le dianarae, le tarde e apparentemente anacronistiche seguaci di Diana. Ve ne erano abbastanza di tali voci perché di questi convegni sulle rive del Secchia si interessasse l’Inquisizione e perché si arrestassero e imputassero ben settanta persone. A capo dell’inchiesta è il solerte inquisitore di Reggio Emilia, Girolamo Armellini – di stanza proprio

do trovato provvidenziale scampo nella fuga) nacque il dialogo Strix, sive de Ludificatione Daemonum (1523), l’opera forse più singolare dell’autore. Ida Li Vigni ci fornisce oggi la prima traduzione italiana moderna del dialogo. Le uniche altre due fino ad oggi reperibili datano infatti entrambe al XVI secolo: la prima, del domenicano bolognese Leandro Alberti, viene stampata ad appena un anno dall’edizione latina e si caratterizza per una rilevante infedel-

tà (l’Alberti carica il testo di un’ingente quantità di proprie interpolazioni, che esasperano il tono dell’opera); la seconda, ad opera dell’abate Turino Turino ben più corretta e fedele - uscirà a poco più di trent’anni di distanza, nel 1555. Ad accompagnare il pregevole lavoro di

Recensioni traduzione Ida Li Vigni fornisce un lungo saggio introduttivo, in cui l’analisi storica si intreccia con l’accurata valutazione antropologica e sociologica delle dinamiche caratterizzanti la stregoneria rinascimentale, il corpus delle testimonianze processuali pervenuteci e i relativi presupposti teoretici e giuridici: una interessante sintesi frutto delle ricerche ultraventennali della curatrice, da tempo impegnata nello studio della fenomenologia stregonica. Lo Strix è un dialogo tra la strega – presenza più che discreta, la cui funzione principale consiste nella conferma delle costruzioni teoriche e degli strumenti accusatori emergenti dalla discussione degli altri personaggi – e altri tre convenuti: Dicaste (l’Inquisitore, alter ego dell’Armellini), Apistio (“colui che non crede”), e Fronomio (“l’assennato”). Il dialogo procede con la struttura canonica della esposizione delle rationes pro e contro la realtà del fenomeno stregonico ed il richiamo a un cospicuo numero di auctoritates (che Giovanfrancesco, in modo abbastanza originale, mutua più dalla tradizione classica che dalla patristica e dalla teologia) costituisce un sottofondo continuo, che Li Vigni definisce quasi come un coro, una quinta e ulteriore presenza dialogica. Nel sapiente ritratto che emerge dal lavoro di ricostruzione operato dalla studiosa, l’attenzione di Giovanfrancesco per i processi e la sua presenza agli interrogatori (presenza del tutto irregolare per le leggi del tempo e infatti il nostro ambienterà lo scritto in sede non istituzionale e senza concedere alcuna parte alla tortura, che fu invece indubbiamente protagonista di primo piano nella vicenda giudiziaria vera e propria), trova una precisa legittimazione in un interesse dominante dello scrittore. Giovanfrancesco aveva infatti, già molto anni prima, manifestato, nel De Rerum prenotione (1506), una 93


spiccata attenzione per il sovrannaturale e il demonico. Tale attenzione aveva in seguito avuto modo di accrescersi e affinarsi nei frequenti contatti che l’umanista aveva coltivato con la Beata Caterina Mattei, meglio conosciuta come Caterina da Racconigi (1486-1547), la mona-

Recensioni ca che, appena una decina di anni prima dei processi di Mirandola, era stata protagonista di sconcertanti e miracolosi episodi di digiuno prolungato, incontro con esseri angelici e scontro con entità diaboliche e che, proprio per via di questi episodi sovrannaturali, era stata giudicata dal tribunale della Santa Inquisizione di Torino. Trovata perfettamente innocente e scagionata, la beata, nel suo peregrinare in varie zone del nord Italia, sarà a più riprese ospite al castello di Mirandola (almeno due volte, tra il 1532 ed il 1533, poco prima della morte di Giovanfrancesco), rendendosi, in quelle occasioni, anche protagonista di episodi miracolosi di guarigione e profezie. L’umanista, che intratterrà costante rapporto epistolare con Caterina e si recherà a più riprese, a sua volta, a visitare la monaca, sarà molto impressionato dalla figura della mistica, cui dedicherà anche un’apposita biografia. La strega e Caterina rappresentano così i due poli, divino e diabolico, di un sovrannaturale su cui egli indaga senza sosta dalla posizione, al tempo inusitata, dell’umanista laico. Sospeso tra questi due modelli Giovanfrancesco indaga il confine, a volte sottile e ingannevole, che separa il soprannaturale stregonico da quello divino, nella costante ricerca e definizione degli elementi caratterizzanti dell’uno e dell’altro. Di particolare rilievo ci pare la seconda parte del saggio introduttivo di Ida Li Vigni, in cui, con una vasta overview sulla fenomenologia stregonica, sui suoi presupposti antropologici e sulle sue conseguenze culturali, la curatrice fornisce abbondante messe di materiale critico all’attenzione del lettore. Si tratta di un nuovo e ulteriore lavoro di sintesi, come abbiamo già sottolineato, a partire da una profonda, pluridecennale e feconda opera di studio e riflessione dell’autrice su territori ideologici e preziosi materiali testuali sovente scarsamente frequentati. 94

La Strix, in questa nuova bella e curata edizione italiana, rappresenta, oltre a una rilevante testimonianza di storia del pensiero, anche un tassello fondamentale per comprendere in profondità in quali termini e modi un principe colto e raffinato, un umanista rinascimentale, potesse aderire in modo tanto totalizzante - col proprio pensiero e la propria visione del mondo - al perverso, oscuro e sanguinario immaginario stregonico e inquisitoriale, nel tentativo di comprendere, con strumenti altri da quelli meramente teologici e giuridici, la realtà del sovrannaturale nelle sue molteplici e ingannevoli forme. Massimo Marra

Annales Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. 1908-2012. Cronologia di storia della Massoneria italiana e internazionale

ghi e alle sedi […] e alle sue personalità eminenti […] ma vi compaiono anche le altre Comunioni massoniche d’Italia, quelle straniere […] e le organizzazioni federative sovrannazionali. Non solo. Nell’architettura di Pruneti il secolo lungo della Gran Loggia non è autoreferenziale: esso è inquadrato nel flusso della storia di un’Italia che nel 1908, all’epoca dello “scisma”, aveva confini politici ancora lontani da quelli geografici. Di più. La magmatica vita della libera muratoria e degli stati nazionali è incorniciata nel quadro di eventi epocali, che nel bene e nel male scandirono i tempi di miliardi si persone […]. Il panorama qui tracciato prende luce dalle vicende puntualmente ripercorse sulla scorta di documenti, senza concessioni all’autobiografia o all’autocelebra-

Luigi Pruneti, a.c. di A. A. Mola, Atanor, Roma 2013, pp. 573, €. 30,00.

Le fondamenta degli Annales risalgono al 2010 quando Luigi Pruneti pubblicò gli Annali della Gran Loggia d’Italia. La presente opera, però, è diversa dalla precedente. I documenti di supporto sono stati sottoposti a scrupolosa revisione da parte del conservatore dell’archivio storico della Gran Loggia d’Italia, Annalisa Santini, da Aldo Alessandro Mola e dall’autore stesso. Ulteriori fonti hanno permesso di completare il vissuto di gran parte della Massoneria italiana e, infine, il periodo esaminato giunge fino al 2012, offrendo così al lettore un repertorio unico nel suo genere. Scrive Aldo Alessandro Mola: “L’opera di Luigi Pruneti ci pone dinanzi a un secolo quale spazio incommensurabile […] di eventi e di problematiche: cent’anni sui quali gli storici prudenti rimangono lontani da giudizi sintetici o sommari […]. Sotto il titolo di Annales, […] Il repertorio degli eventi comprende i fatti salienti della Gran Loggia d’Italia, con le sue denominazioni storiche, legati ai luo-

zione. La storia è tutta nella sequenza di eventi: scarna, oggettiva, incontrovertibile […] Anche la fratricida conflittualità, passata in rassegna con puntuale disincanto, non turba affatto quando la si confronti con quanto avvenne nelle file della massoneria in Italia nel Sette-Ottocento sia prima sia dopo l’unificazione nazionale[…]”. Gli Annales sono, perciò, un grande affresco dai tratti ora sfumati, ora marcati, dal quale non potrà prescindere chi voglia addentrarsi nel dedalico labirinto della storia recente d’Italia dal quale arriviamo e nel quale viviamo. la Redazione


R.L. Pitagora Oriente di Guidonia

R.L. Fedeli d’Amore Oriente di Torino

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R.L. A.Toscano Oriente di Corigliano

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ntonio Toscano nacque a Corigliano il 22 gennaio del 1774, in una famiglia facoltosa ed illustre. Il periodo trascorso a Napoli, dal 1787 al 1792, per trasferimento colà della famiglia, fu per Antonio determinante. Spirito libertario s’incontrò con gli ambienti massonici e generosamente li animò. I Toscano ritornarono in paese a seguito della morte del padre e il precettore Luigi Rossi lo propose per il sacerdozio. Al voto sacerdotale Antonio però non giunse mai, per difetto di vocazione; col Rossi fondò a Corigliano, nel 1793, la Loggia massonica “la Sala di Zaleuco” e finì in galera, a Napoli, dal ‘96 al ‘98. Scarcerato, ridiscese a Corigliano, ma qui, senza la madre deceduta, dovette sentirsi non più a casa. Perciò, acconsentì all’invito del fratello di portarsi a Cosenza per completare gli studi. Strinse amicizia con F. S. Salfi, sacerdote e massone. Quando da Cosenza partì una squadra di volontari in difesa della Repubblica Partenopea, al Toscano venne affidato il comando dei 150 legionari calabresi a presidio del fortino di Vigliena, alle porte della martoriata Napoli. Il l3 giugno 1799, le truppe borboniche del Cardinale Ruffo posero l’assedio al forte e per gli eroici difensori non vi fu scampo. Si combatté senza risparmio di forze, poi, quando il Toscano vide che la fine era prossima, si trascinò ferito alla polveriera e v’appiccò il fuoco come già Pietro Micca nel 1706. Lo scoppio distrusse la fortificazione e seppellì insieme vincitori e vinti. Rimase salvo soltanto tale Vincenzo Fabiani che poté raccontare l’eroica vicenda.

l Fregio è circolare, porta nel bordo il nome della Loggia ed è dominato al centro da un triangolo formato da dieci punti disposti per 1, 2, 3 e 4. La Tetraktis è il simbolo geometrico dei numeri fondamentali che costituiscono la decade. Essa è formata dalla somma del numero l, che esprime l’unità, del 2 che è l’addizione di 2 unità, principio dei numeri pari, femminile, divisibile e generativo, del 3 che è l’addizione della monade con la diade, oltre che cifra del Sacro, e del 4 che esprime l’universo nella sua totalità. Come rappresentazione dell’Armonia del Cosmo, la Tetraktis era posta all’ interno del santuario di Delfi. I Pitagorici davano grande importanza al quaternario e su di esso prestavano il loro giuramento e per questo abbiamo scelto la Tetraktis per la Loggia “Pitagora”. Egli, nato a Samo tra il 592 e il 569 a. C., visse a Crotone. Durante i suoi viaggi lungo il Mediterraneo penetrò i misteri di Orfeo e di Iside e fondò la “Scuola Italica” alla quale convennero da ogni parte apprendisti, anelanti di amore e di saggezza. Questa non era solo una scuola, come l’accademia Platonica, né una società filosofica, ma un vero Ordine, con riti, regole e attività spirituali e di elevazione politica. I Pitagorici accoglievano come allievi uomini e donne e il Grande maestro insegnava agli apprendisti a dominare le passioni e i sensi ed imponeva loro comportamenti di vita. Una legge di fraternità legava gli uni agli altri e costituiva un cemento per la costruzione del Tempio della Virtù. Il legame esoterico tra Pitagorismo e Massoneria è fondamentale, infatti anche questa si fonda sull’elevazione umana attraverso la rinascita rituale, senza parlare della simbologia in comune rappresentata dalla stella fiammeggiante, dal delta, dal silenzio e dalla G iscritta nel Pentalfa, il Triangolo 3-45 che corrisponde al rapporto delle proporzioni della squadra simbolo del Venerabile.

l nostro Gioiello dai due volti desidera esprimere in esso i simboli su cui la nostra Loggia fonda se stessa. Da un lato ecco l’Uròboro, simbolo che in sè rappresenta il serpente che si morde la coda, ricreandosi continuamente e formando quindi un cerchio. Simbolo associato all’Alchimia, allo Gnosticismo e all’Ermetismo, esso rappresenta in sè la natura ciclica delle cose, la teoria dell’eterno ritorno, l’unità fondamentale del Cosmo, l’Uno assoluto, attraverso la metafora di un ciclo che sempre ricomincia dall’inizio, dopo aver raggiunto la propria fine, tra morte e rinascita in un continuum eterno. L’Uròboro, nella simbologia alchemica, è quindi l’immagine di un processo, in sè concluso, che si svolge ripetutamente e che avviene attraverso l’aumento della temperatura, l’evaporazione, il raffreddamento e la condensazione di un liquido, ciclo fondamentale alla raffinazione delle sostanze. Il concetto delle due opposte nature ripropone la “coniunctio oppositorum” degli Alchimisti dalla cui unione si realizza quindi il filius philosophorum, il Rebis, partorito dalle nozze alchemiche tra il Mercurio, la donna, il principio lunare, e lo Zolfo, l’uomo, il principio solare. L’immagine dell’Uròboro, infine, nel suo intersecarsi, ricorda altresì il Nodo d’Amore Massonico, intreccio geometrico sacro, simbolo trascendente dell’Infinito e al tempo stesso della Catena d’unione, immortale, che unisce in modo indissolubile tutti i Massoni del Globo. Sul lato opposto del nostro Gioiello è incisa una frase di Dante Alighieri con la quale abbiamo desiderato celebrare il più significativo ed immortale sentimento: Amore. Dante, nel III capitolo della Vita Nova, vede in sogno ‘Amore’ stesso porgere il suo cuore a Beatrice affinchè se ne possa cibare. Ego sum dominus tuus... Amore, quindi, è per i Fr.lli Fedeli d’Amore, inteso quale dominus dell’essere umano laddove, scevro da qualsiasi connotato di dominante prevaricazione, esso si presenti bensì nel suo fulgido e supremo ruolo di “Signore” del cuore umano e del suo insondabile, immortale e sacro Mondo dei Significati.

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R.L. Nigredo, Oriente di Torino

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i sedes non is” – “Se siedi non vai” è la traduzione della frase latina, una frase palindroma che può anche essere letta nel suo magico opposto: “Si non sedes is”, “Se non siedi vai”. Questa frase interpretata in senso eso-

terico, impressa in modo indelebile sul nostro Fregio di Loggia, deve poter infondere alla “capacità soggettiva di ricerca interiore” la volontà di applicare in ogni suo aspetto il metodo oggettivo del confronto e dell’approfondimento. Metodo da utilizzare nello studio della nostra Tradizione, nel corretto uso dei Rituali e nell’applicazione delle regole dell’Obbedienza. Il primo colore che l’apprendista incontra sul suo cammino è il Nero, che per lui rappresenta l’oscurità assoluta, la passività del suo Sé

interiore, racchiuso e prigioniero nello statico materialismo della profanità. La sublimazione del rinascere Iniziato, l’avvicinarsi alla conoscenza di se stessi e del mondo che ci circonda viene ritrovata nel simbolo del colore Bianco, metafora della Luce interiore che deve essere rivelata. L’Ouroboros che cinge il cerchio perfetto è riprodotto in modo schematico: è il perfetto protettore e distruttore della circonferenza dicotoma che racchiude. Il serpente che si nutre di se stesso rappresenta l’azione e la reazione, l’inizio e la fine, la morte e la vita, cardini perenni dell’equilibrio cosmico.

La sequenza dei Fregi è in ordine alfabetico per denominazione di Loggia e successivamente per Oriente.

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14 Juillet Or di Savona 4 Giugno 1270 R.G. Or di Viterbo Ab Initio Or di Portoferraio Ad Justitiam Or di Lucca Aetruria Nova Or di Versilia Alef Or di Viareggio Aleph Or di Lecce Alma Mater Or di Arezzo Anita Garibaldi Or di Firenze A.Garibaldi/A.Giulie Or di Livorno Antares Or di Firenze A.Toscano Or di Corigliano Calabro Antropos Or di Forlì Archita Or di Taranto Aristotele II Or di Bologna Astrolabio Or di Grosseto Athanor Or di Brescia Athanor Or di Cosenza Athanor Or di Pinerolo Athanor Or di Rovigo Athena Or di Pinerolo Atlantide Or di Pinerolo Audere Semper Or di Firenze Augusta Or di Torino Aurora Or di Genova Ausonia Or di Siena Ausonia Or di Torino Bereshit Or di Sanremo C. B.Conte di Cavour Or di Arezzo C. Rosen Kreutz Or di Siena Carlo Fajani Or di Ancona Cartesio Or di Firenze Cattaneo Or di Firenze Cavour Or di Prato Cavour Or di Vercelli Chevaliers d’Orient Or di Beirut Cidnea Or di Brescia Clara Vallis Or di Como Concordia Or di Asti Corona Ferrea Or di Monza Cosmo Or di Argentario Albinia Costantino Nigra Or di Torino D.Di Marco Or di Piedim.Matese Dei Trecento Or di Treviso Delta Or di Bologna Eleuteria Or di Catania Eleuteria Or di Pietra Ligure

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Emanuele De Deo Or di Bari Enrico Fermi Or di Milano EOS Or di Bari Erasmo Or di Torino Ermete Or di Bologna Etruria Or di Siena Excalibur Or di Trieste Falesia Or di Piombino Fargnoli Or di Viterbo Fedeli d’Amore Or di Vicenza Federico II Or di Firenze Federico II Or di Jesi Fenice Or di Spotorno F.Rodriguez y Baena Or di Milano Fidelitas Or di Firenze Fra Pantaleo Or di Castelvetrano Fratelli Cairoli Or di Pavia Galahad Or di Roma G.Ghinazzi Or di Roma G.Mazzini Or di Livorno G.Mazzini Or di Parma G.Biancheri Or di Ventimiglia G.Bruno - S.La Torre Or di Roma G.Papini Or di Roma Garibaldi Or di Castiglione Garibaldi Or di Cosenza Garibaldi Or di Mazara del Vallo Garibaldi Or di Toronto Gaspare Spontini Or di Jesi Giordano Bruno Or di Catanzaro Gianni Cazzani Or di Pavia Giordano Bruno Or di Firenze Giordano Bruno Or di R.Calabria Giosue Carducci Or di Follonica Giosue Carducci Or di Partanna Giovanni Bovio Or di Bari Giovanni Pascoli Or di Forlì Giovanni Risi Or di Firenze Giustizia e Libertà Or di Roma Goldoni Or di Londra Graal Or di Livorno Herdonea Or di Foggia Hiram Or di Bologna Hiram Or di Sanremo Hispaniola Or di Santo Domingo Horus Or di Padova Horus Or di Pinerolo

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Horus Or di R.Calabria Humanitas Or di Pistoia Humanitas Or di Treviso Ibis Or di Torino Il Cenacolo Or di Pescara Il Nuovo Pensiero Or di Catanzaro Internazionale Or di Sanremo Iter Virtutis Or di Pisa Jakin e Boaz Or di Milano Kipling Or di Firenze La Fenice Or di Bari La Fenice Or di Chieti La Fenice Or di Forlì La Fenice Or di Livorno La Fenice Or di Pieve a Nievole La Fenice Or di Rovato La Prealpina Or di Biella La Silenceuse Or di Cuneo Le Melagrane Or di Padova Leonardo da Vinci Or di Taranto Les 9 Soeurs Or di Pinerolo Libertà e Progresso Or di Livorno Liguria Or di Orspedaletti Logos Or di Milano Luce e Libertà Or di Potenza Luigi Alberotanza Or di Bari Luigi Spadini Or di Macerata Lux Or di Firenze M’’aat Or di Barletta Magistri Comacini Or di Como Manfredi Or di Taranto Melagrana Or di Cosenza Melagrana Or di Torino Minerva Or di Cosenza Minerva Or di Torino Monviso Or di Torino Mozart Or di Castelvetrano Mozart Or di Genova Mozart Or di Roma Mozart Or di Torino Navenna Or di Ravenna Nazario Sauro Or di Piombino Nigredo Or di Torino Nino Bixio Or di Trieste Oltre il Cielo Or di Lecco Omnium Matrix Or di Milano Orione Or di Torino

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Palermo Or di Palermo Per Aspera ad Astra Or di Lucca Petrarca Or di Abano Terme Pietro Micca Or di Torino Pisacane Or di Udine Pitagora Or di Cosenza Pitagora Or di Guidonia Polaris Or di Livorno Polaris Or di Reggio Calabria Principe A.DeCurtis Or di Rovato Principi RosaCroce Or di Milano Prometeo Or di Lecce Re Salomone /F.Nuove Or di Milano Risorgimento Or di Milano Ros Tau Or di Verona S.Giovanni Or di Bass.d.Grappa Sagittario Or di Prato Salomone Or di Catanzaro Salomone III Or di Siena San Giorgio Or di Genova San Giorgio Or di Milano Saverio Friscia Or di Sciacca Scaligera Or di Verona Sibelius Or di Vercelli Sile Or di Treviso Silentium et Opus Or di Val Bormida SmiDe Or di Stra Stupor Mundi Or di Taranto Teodorico Or di Bologna Themis Or di Verona Trilussa Or di Bordighera Triplice Alleanza Or di Roma Ugo Bassi Or di Bologna Ulisse Or di Forlì Umanità e Progresso Or di Sanremo Uroboros Or di Milano Valli di Susa Or di Susa Venetia Or di Venezia Vincenzo Sessa Or di Lecce Virgilio Or di Mantova Virgo Or di Roma Vittoria Or di Savona Voltaire Or di Torino XI Settembre Or di Pesaro XX Settembre Or di Torino Zenith Or di Cosenza Zodiaco Or di Pinerolo


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