La casa dei racconti

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LA CASA DEI RACCONTI Laboratorio di narrazione e scrittura “Nella terra dei racconti� Circolo Arci Nuraghe, Fiorano Modenese, autunno 2013 Piccola raccolta dei frutti prodotti


Partecipanti Michela Barchi Cecilia Bondi Barbara Brighetti Federica Cornia Claudia Drei Davide Giovanni Lai Elena Montorsi Aurelio Pittalis Elena Poltronieri A cura di Giulia Bondi

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INDICE LA CASA DEI RACCONTI Campo Pane e formaggio di Giovanni Lai Vincenzo di Giovanni Lai Cortile A quattro zampe di Cecilia Bondi Citofono Drei di Claudia Drei Porte Università/1 di Cecilia Bondi Università/2 di Elena Montorsi Discoteca di Federica Cornia Ufficio di Barbara Brighetti Libreria racconto collettivo Non c’è stato modo di Claudia Drei In spalla di Elena Poltronieri In spalla /2 di Giovanni Lai Soggiorno Zia Loretta di Federica Cornia Ultima di sei di Barbara Brighetti Cameretta 2006/2007 di Elena Montorsi Studio Il gigante di Giovanni Lai Torce di stracci di Aurelio Pittalis Soffitta Sgombero di Elena Poltronieri Porta dell’ignoto Se non fosse stato di Aurelio Pittalis Perché e come: il metodo di lavoro

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Campo Pane e formaggio Il pane e formaggio che ho portato oggi mi riporta indietro nel tempo, quando da ragazzino andavo a zappettare le piantine del grano che ogni anno seminavamo per avere il fabbisogno del pane per tutto l’anno. La mia famiglia era composta da undici figli, padre e madre. Totale tredici persone. Perché non ci mancasse il pane dovevamo coltivare due ettari di terreno a grano. Se l’annata era buona producevamo all’incirca 26-28 quintali di grano. Per fare un paragone, se dovessimo coltivare due ettari di grano qui in Emilia la produzione sarebbe di 80 o 90 quintali, con molto meno ore di lavoro, dato che qui il grano si semina poi gli danno una passata di erpice per smuovere la terra e dopo, quando è maturo, si trebbia e si porta a casa. In Sardegna è molto diverso: non appena nel grano cominciano a spuntare le prime foglie, insieme iniziano a crescere anche le erbacce che vanno estirpate con la zappetta. E’ un lavoro molto faticoso, si deve stare sempre con la schiena chinata, con la mano sinistra si protegge la piantina del grano e con la mano destra, che tiene la zappetta, si estirpano le erbacce facendo molta attenzione che la piantina del grano non sia danneggiata oppure estirpata insieme alle erbacce, perché ogni piantina di grano produce da 5 a 10 spighe: se estirpata sarebbe una perdita non indifferente, vuol dire mezzo chilo di grano in meno. Io avevo dodici anni e per la maggior parte questo lavoro lo dovevo fare io, perciò per parecchi mesi, durante la crescita del grano, ero sempre in campagna. Succedeva che quando terminavo il primo grano che avevo zappettato, l’erba era ricresciuta di nuovo e tornavo ad iniziare da capo. A volte finivo quando il grano era da mietere. Ma alla fine, anche se il lavoro era duro il pane per tutta la famiglia era assicurato. Questo terreno distava 20 km dal mio paese. Io andavo in bicicletta, perciò facevo 40 km al giorno. Quando arrivavo lì non c’era anima viva per un raggio di 4 o 5 chilometri. La campagna era di un verde intenso e i fiori sbocciavano di tutti i colori e dimensioni, la vista era meravigliosa, ma la solitudine mi rendeva triste. Una mattina arrivai lì e con stupore vidi, in un terreno incolto che confinava col mio, un ragazzino che avrà avuto una decina di anni e custodiva un gregge di pecore. Andai verso di lui e lo salutai, scambiai qualche parola. Ero meravigliato che un ragazzo così piccolo, anche se io non ero molto più grande di lui, potesse stare da solo in mezzo a quella desolazione. Gli feci qualche domanda e appresi che gli era morto il padre da poco e la madre non riusciva a dare da mangiare a lui e ai suoi fratelli che erano più piccoli di lui e in qualche modo lui doveva contribuire al sostentamento della famiglia. Così lo mandarono a fare il servo pastore. Gli dissi che a mezzogiorno, quando io mi fermavo di lavorare per pranzare, se voleva potevamo pranzare insieme. A mezzogiorno trovammo un posto comodo e ci sedemmo. Io tirai fuori dal tascapane quello che mi aveva dato mia madre: due spianate di pane ozierese, che non è come questo di oggi, è un pane morbido, di grano duro, fatto in casa, tipo piadina. Per companatico due gianduie di cioccolata triangolari, avvolte in una carta dorata. Lui tirò fuori dalla sua tasca, uno zainetto fatto di pelle di capra, tipico dei pastori sardi, un pezzetto di formaggio e un coltello per tagliarlo. Il pane, questo pane, dentro la sacca si fa tutto a briciole. Per prenderlo metteva la mano dentro la sacca e ne tirava fuori un po’ di briciole alla volta. Io mi accorsi che fissava continuamente la mia cioccolata. Capii che ne aveva voglia. Era evidente che il suo mangiare era in prevalenza pane e formaggio. Io, a malincuore, presi la decisione di fare uno scambio: gli dissi che se voleva gli davo la mia cioccolata in cambio del suo formaggio. Il suo viso si illuminò dalla contentezza e mentre assaporava quella dolcezza io pensai che in quel momento si stava dimenticando la sua misera e sfortunata vita. 5


Per me il suo formaggio fu il più buono che avessi mai mangiato, anche se anche io della cioccolata non ne mangiavo tanto spesso. *** Vincenzo Mio nonno si chiamava Lai Vincenzo. Era un uomo piccolo di statura, ma tutto d’un pezzo, molto autoritario, gran lavoratore, e non si piegava a nessun compromesso. Nelle associazioni delle feste paesane o nelle cooperative che a volte si formavano tra agricoltori, lui veniva spesso eletto presidente perché faceva le cose giuste senza favorire nessuno, né amici e né parenti; e quando diceva una cosa la diceva in faccia senza mai abbassare lo sguardo, guardando diritto negli occhi a tutti. Era un uomo con molta esperienza di vita: è emigrato in America per ben due volte, ha partecipato a fare il canale di Panama, e dopo ha lavorato in una fattoria. I soldi che guadagnava li mandava a mia nonna, che li metteva in banca. Qualche amico le consigliava di investirli comprando terreni o pure delle case, ma lei non ha mai voluto farlo. Diceva che quando mio nonno tornava ci avrebbe pensato lui. Mandò molti soldi. Se mia nonna li avesse investiti sarebbe diventata una delle famiglie più ricche del paese. Poi con l’evento della guerra i soldi cominciarono a perdere di valore e quando mio nonno tornò, con i soldi rimasti riuscì a comprare la casa e una bella vigna. L’orto lo prese in affitto da un possidente che glielo voleva vendere, ma lui non lo volle mai comprare. Aveva due buoi col carro e una cavalla che di nome si chiamava Gigina. Si poteva dire che la famiglia di mio padre non era ricca, ma stavano bene da potersi permettere la serva. La prima serva fu mia madre e mio padre se ne innamorò e la sposò in poco tempo, anche contro il volere di mio nonno. Il giorno del matrimonio, il nonno, poiché contrario al matrimonio, prese tutti i vestiti della festa degli altri figli e li chiuse dentro ad una cassapanca e ci si sedette sopra per impedire ai figli di andare al matrimonio. Stette seduto sopra la cassapanca tutta la mattina. Solo il più piccolo dei fratelli, zio Paolo, che era molto vivace, riuscì a prendere il vestito e andare al matrimonio: mio nonno si alzò dalla cassapanca per un bisogno corporale e lui approfittò di quel momento, prese il suo vestito, lo indossò e corse in chiesa e fece compagnia al fratello. Dopo, presero un’altra serva e se ne innamorò zio Antonio, il secondo dei fratelli. Lo stesso. Mio nonno era contrario e anche lui andò da solo a sposarsi. Della famiglia c’era solo mio padre ad accompagnarlo. Il nonno capì che se continuava a prendere delle serve i figli se le avrebbero sposate tutte e in poco tempo non avrebbe avuto la mano d’opera per lavorare la vigna e l’orto e le altre attività che faceva, perciò non prese più serve. Ma aveva anche un altro vantaggio: facendo finta di essere contrario, risparmiava anche la dote che ad ogni figlio avrebbe dovuto dare. Queste cose le so perché mio padre me le ha raccontate, ma anche io ho avuto modo di conoscerlo bene. Da piccolo andavo ad aiutarlo a coltivare l’orto. Io avrò avuto dieci o undici anni, lui una settantina. Mi metteva di fianco a lui e insieme zappavamo la terra e formavamo i solchi per piantare le piantine della verdura. I solchi servivano per fare scorrere l’acqua necessaria ad innaffiarle. L’acqua proveniva da una sorgente naturale che di notte riempiva una grande vasca. La sera, quando calava il sole e la terra si rinfrescava, levavamo il tappo dalla vasca e attraverso un sistema di solchi la facevamo arrivare dove serviva. Quando zappavamo, lui, anche se vecchio, finiva il solco prima di me. Io, essendo piccolo, a malapena riuscivo a sollevare la zappa, ma comunque cercavo di stargli dietro più che potevo perché lui mi diceva: “Non ti vergogni ? ti fai battere da un uomo vecchio!”. In questo modo mi costringeva a sforzarmi ancora di più. Non riuscii mai a finire il solco prima di lui, ma iniziò a lasciarmi da solo a fare i lavori, segno evidente che quello che facevo andava bene. Io lo rispettavo molto e quando c’era lui non toccavo mai niente di quello che cresceva nell’orto, sia 6


frutta o verdura, per paura che mi sgridasse. Lui non mi diceva mai : “Mangiati una prugna” (… un finocchio, una carota, una mela cotogna…). Niente! Molte volte tornavo a casa con la voglia di quelle cose che coltivavo con le mie mani. E la notte ci pensavo. Dentro di me cominciavo a pensare che questa cosa doveva finire. Una mattina presi la decisione: appena arrivati all’orto (mio nonno era di fianco a me), io iniziai a fissare un albero di prugne che stava in fondo all’orto. Era come vedere un albero di Natale: il più bello che avessi mai visto. Non era la prima volta che lo vedevo, dato che giorno per giorno ne avevo seguito la maturazione. Le prugne erano di due colori, una parte gialla e un’altra rossa. I rami sfioravano la terra, piegati dal peso delle prugne. Incantato da quella visione, presi la decisione e senza chiedere il permesso a mio nonno andai diritto verso l’albero, mi misi sotto e ne mangiai a sazietà. Poi tornai vicino a mio nonno e lo guardai in faccia in segno di sfida, aspettandomi una sgridata, ma stranamente non mi disse niente. Anzi, nel suo viso notai una espressione di soddisfazione. Io in quel momento capii: lui aspettava che io da solo prendessi quella decisione. Capii che la sua non era avarizia, ma era stata una lezione di vita. ***

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Cortile A quattro zampe La storia della famiglia Bondi si intreccia con quella dei loro cani. In questa famiglia gli amici a quattro zampe non sono mai mancati, anche se alcuni dei suoi componenti non erano dei veri e propri amanti. Asia, Zoe e Kira sono parte della famiglia a tutti gli effetti, tanto che non raramente il capofamiglia bipede sbaglia e chiama una delle sue tre figlie con il nome di una delle tre cagnoline. Attenzione, però, questo gesto non è assolutamente da prendere come un’offesa. Per Marco, infatti, Asia, Zoe e Kira sono compagne di avventure e risate, sono fedelissime e affettuosissime amiche. Quindi, se mai Marco dovesse scambiare il vostro nome con uno di quelli delle sue cagnoline consideratelo come una dichiarazione immensa di affetto. Marco è un cacciatore, e perciò le tre “ragazze” sono cani da caccia, per la precisione setter inglesi. Kira è la più vecchia delle tre ed è anche la madre di Asia e Zoe, che per questo sono soprannominate “Kirine”. Nel maggio del 2009 Kira ha dato alla luce, nell’emozione e agitazione di tutta la famiglia Bondi, cinque meravigliosi Kirini, due femmine Asia e Zoe, e tre maschi Macchia (diminutivo di MacchiaSulCulo), Otto (diminutivo di OttoSulCulo) e Walter (sempre e solo Walter). Il distacco dai Kirini maschi è stato molto duro per tutti i Bondi ad eccezione di Kira che non ne poteva visibilmente più di avere tutti quei figli attorno. La cagnolina, infatti, aveva bilanciato l’incredibile attenzione e affetto dimostrato verso i cuccioli nelle prime settimane della loro vita, con una continua fuga dai tentativi di attacco (alle mammelle, s’intende) perpetrati dai piccoli ormai diventati per la madre abbastanza grandi da andare per il mondo da soli. Kira è cresciuta nella famiglia Bondi insieme a sua sorella Beba. Le due erano l’una l’opposto dell’altra. Kira, dal morbidissimo mantello bianco e arancio, è una cagnolina dolce e mite, molto composta e adatta anche per stare in appartamento. Beba, invece, col suo pelo bianco e nero e un’inconfondibile mascherina nera attorno agli occhi, era un piccolo demonio incarnato: sempre agitata e irrequieta, come se avesse potuto correre e saltare per ore, ma mai troppo per schivare coccole e dolcezze. A modo loro tutte e due le sorelle erano estremamente affettuose. Purtroppo di Beba vi racconto al passato perché durante un’uscita di caccia con Marco la piccolina ebbe, a soli due anni, una specie di infarto e morì sul colpo. La disperazione della famiglia Bondi fu immensa. Cecilia, la figlia più piccola, pianse a lungo e per giorni rifiutò la presenza della povera Kira che, accortasi del dolore dei suoi cari, non li lasciava nemmeno un minuto. Marco, sconvolto dall’accaduto, non andò nei campi con Kira per più di un anno tanto era triste il ricordo di quanto accaduto a Beba. La morte della cagnolina, però, portò la famiglia Bondi all’idea di far fare a Kira una cucciolata per poter tenere una delle sue figlie, magari proprio nera e un po’ matta come la zia Beba. E così è stato. Zoe, infatti, è nera e matta forse anche di più di sua zia Beba e la ricorda talmente tanto ai suoi cari che grazie a lei sembra che Beba non se ne sia mai andata dalla famiglia. ***

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Citofono Drei Ante-nati = nati prima. Ce ne sono tanti, e ognuno ha i suoi. Anche io ho cercato i miei, soprattutto per capire da dove proviene il mio strano nome di famiglia. Cominciò l’indagine mio padre e io ho proseguito, cercando di ricostruire un nostro albero genealogico. Fra l’altro, è curioso come ai cognomi sia quasi sempre legato un fatto che ci battezza. Le notizie che abbiamo raccolto arrivano intorno al 1500. A quel tempo la Svizzera era un paese molto povero ed esclusivamente agricolo. (Cosa ben diversa da ciò che è oggi !) Chi non amava il lavoro dei campi aveva solo un’unica altra alternativa: fare la guardia del corpo o fare la guerra per i signorotti dell’epoca. Guerra contro pecunia: era nato il mercenariato elvetico, una sorta di guardia giurata, fedele a chi pagava di più. Uno di questi ignoti mancati contadini, abbastanza temerario da affrontare le armi e abbastanza convinto di volere cambiare il proprio futuro, decise di intraprendere quella nuova carriera che lo avrebbe portato per lo meno ad avere un po’ di denaro in tasca, cibo, buon vino e coperte, qualche onore e tante avventure. Fu proprio durante una di queste pericolose avventure, quando già faceva parte della Guardia Svizzera Pontificia ed era diventato Capitano, che il nostro cosiddetto capostipite perse due dita, chi dice in battaglia, chi dice in singolar tenzone contro un marito tradito...tant’è che essendogli rimaste solo tre dita in una mano, qualcuno cominciò a chiamarlo ‘tre dita’ poi semplicemente ‘tre’. In Svizzera, nel cantone tedesco, tre si dice ‘drei’. Quando fuggì dalla Svizzera, rafforzando l’opinione maliziosa che non fu una battaglia, bensì un marito tradito a farlo fuggire, si fermò nella zona del ravennate dando origine ad una stirpe di tanti ‘Drei’ in quella zona. Poi, quella particella del nostro DNA che contiene la voglia di conoscere, esplorare, di andare più in là, di vivere all’avventura, ha portato qualche Drei ad emigrare in Francia, in Germania, in America e anche in Argentina, dove, a Buenos Aires, risiede ancora una famiglia discendente da un fratello di mio nonno Antonio, Nabore Drei. E’ uno dei miei sogni nel cassetto, quello di andare un giorno a Buenos Aires e cercare gli eredi del ‘mio zio d’America’, per la semplice curiosità di vedere come sono oggi le loro fisionomie, se hanno ancora i tratti tipici della mia famiglia e se a loro è stato tramandato qualcosa di noi che siamo rimasti in Europa. Vi prometto il seguito di questa storia quando sarò di ritorno dal mio viaggio ! ***

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Porte Università/1 Ero piuttosto piccola, avrò avuto circa 10 anni. Mia sorella maggiore si laureava a Milano in una prestigiosa università. Arrivati alla facoltà di economia e commercio ho cominciato a vedere ragazzi neo-laureati che attraversavano il portone d’ingresso nelle maniere più strane: chi travestito, chi saltando, chi correndo, chi trasportato da altri amici. Quando ho chiesto a mia sorella, mi ha spiegato che il passaggio per quel portone era un rito dei neo-laureati perché si diceva che lo studente che avesse attraversato la porta principale prima del dovuto non si sarebbe mai laureato. Anche lei attraversò quella porta, e questo ha rappresentato molte cose, ma questa, ovviamente, è un’altra (lunga) storia! *** Università/2 Non c'è stato esame univeristario in cui io non abbia fissato, per tutto il tempo la porta dell'ufficio del docente di turno. Mai andata a pranzo, mai andata in biblioteca a ripassare, mai andata ad aspettare al bar. Il solo pensare di abbandonare il pezzo di corrodoio davanti alla porta sembrava impossibile. Ed eppure, dopo 19 porte fissate intensamente per ore, l'unica che ricordo davvero è quella dell'aula dove sono entrata per discutere la tesi. O forse ricordo solamente il caldo tropicale del corridoio, le mie amiche che chiacchieravano, la sensazione che a differenza degli altri esami quella volta sapevo davvero tutto. La porta più tranquillizzante e liberatoria di tutta la facoltà. *** Discoteca Ancora a ripensarci mi sbalordisco. Era una serata d’inizio inverno, un venerdì credo. Io e le mie amiche dopo la solita birretta siamo andate al More, un locale che mi piaceva moltissimo in via Lancillotto. Davanti all’ingresso c’era già qualche persona. Fuori piovigginava. Ci siam messe in fila per entrare e se non altro eravamo al coperto. Man mano la gente s’accumulava alle nostre spalle. A un certo punto dal fondo della coda sento due voci familiari che sovrastano il brusio e lancian lì su quella neonata micro ressa frasi del tipo “ oh, fuori piove, guarda qua se questo è il modo di trattare la gente!, non è possibile, fateci entrare, cos’è sta’ fila!” e via così. Loro scherzavano, stavano semplicemente facendo i coglioni, ma c’è voluto un attimo perché la porta del locale venisse sfondata e il buttafuori gettato a terra. *** Ufficio 8° piano, ore 15.00: sono riuscita ad arrivare puntuale. Il ragazzo che mi illustra il tipo di lavoro che dovrei svolgere sembra simpatico e grazie al suo modo di fare, questo colloquio non mi spaventa più come all'inizio, anzi non vedo l'ora di cominciare. Ore 15.55: a colloquio finito mi da già del “tu”, mi accompagna fuori dalla sala dicendomi “a lunedì, la strada la conosci” e si infila frettolosamente nel primo ufficio a destra lasciandomi sola. Io convinta proseguo lungo il corridoio raggiungendo senza accorgermene una macchinetta del caffè dove alcune persone stanno facendo pausa. Queste mi guardano allibite, io più di loro e vorrei letteralmente sprofondare. Finchè una ragazza bionda molto dolce mi indica la porta dell'ascensore sul lato del piano che dall'emozione con quel suo colore grigio-neutro-uguale al 10


muro ho inavvertitamente ignorato sorpassandola, e mi ci catapulto dentro rossa in viso come un peperone. Sicuramente i futuri colleghi si ricorderanno di me! *** Libreria La quinta porta è di un negozio di libri. La proprietaria vorrebbe specializzarsi nei libri di cucina e nelle storie a tema gastronomico. Conserva anche una selezione di altri racconti e romanzi. Difficile dire se riesca a vivere dei suoi affari. In ogni caso, non è un posto da bestseller. La porta a vetri si apre, la campanella suona, entra una donna, che dopo uno squillante buongiorno si dirige allo scaffale sul lato opposto. Scorre con lo sguardo, a volte con le dita, le coste dei libri allineati. Mille e una notte. Italo Calvino, Le città invisibili. Isabel Allende, Afrodita. Gianni Rodari, Favole al telefono. Max Crick, La zuppa di Kafka. Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto. Rita Pavone, Viva la pappa col pomodoro (libro + cd). Eugenio Montale, Ossi di seppia. Virginia Woolf, Gita al faro. Antonio Tabucchi, Piazza d'Italia. Erri De Luca, I colpi dei sensi. Michael Cunningham, Carne e sangue. Adele Grisenti, Bellezze in bicicletta. Velibor Colic, Gesù e Tito. Clara Sereni, Casalinghitudine. Miljenko Jergovic, Le Marlboro di Sarajevo. Gianrico Carofiglio, Nè qui né altrove. Primo Levi, Racconti. Guido Cavani, Zebio Cotal, Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa. La donna estrae un libro dallo scaffale. Il sapore di un ricordo. Anche per lei i ricordi hanno sapori. Spesso anche odori. Apre il libro alla pagina dell'indice. È una raccolta di racconti. Un “amore” di insalata. Il sapore che credevo di avere dimenticato. Puebla mi amor. Mele e mare. Le tasche della nonna. Cosa c’era sotto quella pancetta. Milleuno modi per migliorare il minestrone. Il potere del vin brulé. “Chissà quale sarà, questo potere”, si chiede, e le dita sfogliano veloci le pagine fino a quella giusta. Un bicchiere di vino rosso speziato, bollente, che nemmeno gli piaceva tanto. Ma ora che lo teneva in mano si accorse di come le parole uscivano di bocca leggere, come se non si fossero mai persi di vista. Corra era partito per l'erasmus in spagna l'anno prima e per una serie di coincidenze e superficialità di entrambi, questa distanza li aveva allontanati. Non era mai andato a trovarlo là nel nord dove studiava, e l'amico a sua volta si era fatto sentire sempre meno. Ma poi era tornato e quella sera, proprio per potersi rivedere, Davide lo aveva inviato a vedere il musical “Jesus Christ Superstar”, dove suonava come batterista la morosa Michela. Stranamente pieni di imbarazzo, guardarono attenti l'inizio dello spettacolo per poi accorgersi presto che era una vera palla, si voltarono uno verso l'altro intendendosi al volo e fuggendo dalla sala buia immediatamente dopo. All'uscita del teatro c'era un banchetto che vendeva vin brulè, e qualche gruppetto di gente qua e là intorno. Davide non amava il vin brulè, ma per scaldarsi ne prese come l'amico un bel bicchiere e tra un sorso e l'altro scapparono sorrisi e racconti vari, le parole uscirono come se quell'anno non fosse mai passato. Più di una volta rientrarono in sala per poi riuscirne a far tappa al banchetto e alla fine, mentre guardava il suo bicchiere vuoto, Davide pensava solo a quanto fosse fortunato ad avere amici così, di quelli che anche se non vedi a lungo è come fosse ieri, amici che ti fanno apprezzare anche il vin brulè.

Quasi quasi potrebbe anche regalarlo per Natale, magari a sua sorella. Torna veloce all'indice, finisce di scorrere i titoli. Ciliegie partigiane. I surgelati della nonna. Anche un bel ricordo può essere fatto di spine, soprattutto se le mani non sono le tue. 11


Chiude il libro all'improvviso, porta un dito alla bocca con una smorfia di dolore. Con i denti si morde un polpastrello come a sfilare via qualcosa di fastidioso. Apre un altro libro, Ricettario del cuore. Nessuna illustrazione. Solo ricette stampate con un carattere che imita la bella calligrafia, e pagine quadrettate per aggiungere le proprie annotazioni. Pane con lievito madre e prosciutto. Torta salata con funghi, brutta ma buona. Pizza. Pane e nutella. Pizza con coca-cola della donna pizza. Pane, formaggio (e cioccolata). Torta di mele. Una mela. Brioches che scoppiano. “Ma come si fa a pubblicare ricette del genere”, si chiede la donna, mentre scorre le pagine quadrettate fino al Pane, burro e marmellata. Il pane con il burro e la marmellata mi fa pensare alle vacanze. Quando ero piccola il burro in monoporzione non si trovava nei supemercati, ma era un prodotto esclusivo per la grande distribuzione, quindi era una cosa impossibile da vedere, e mangiare, se non nelle colazioni in albergo. Aspetto fondamentale e caratterizzante delle mattine in albergo era il fatto che quando scendevo per la colazione il burro fosse già a temperatura ambiente. Per anni sono stata sinceramente convinta che tra lo staff dell'albergo ci fosse un gentile addetto allo "intiepidimento del burro". Convinzione purtroppo infranta quando, durante una vacanza in montagna, costretti ad alzarci all'alba per un' escursione, avevamo trovato il burro freddo. Mi sembra ancora di sentirlo mio fratello grande: "Ma secondo te è possibile? Il burro le altre mattine è a temperatura ambiente perchè tu scendi dopo 2 ore che l'hanno tirato fuori dal frigo!" Sono verità che non vorresti mai sentirti dire.

Si sofferma alcuni minuti sulla pagina dell'ultima ricetta, la crostata della nonna, come se volesse impararla a memoria. Da quando siamo nate il dolce tipico di ogni festa per la nostra famiglia era la crostata di marmellata, con ricetta tramandata dalla nonna paterna che lei sosteneva di saper fare come nessun altro. La più gettonata è quella con marmellata di amarene, anch'essa fatta rigorosamente in casa. Tutt'ora oggi nostra madre la fa spesso, utilizzando questa pasta dolce in moltissimi modi: crostate, bensone, tortelli al forno e biscotti. Questa pasta ha fatto nascere anche una tradizione attuale, che ogni Natale vede tutta la mia famiglia (padre compreso!) riunita una sera tra codette, zucchero in granella e uova sbattute a decorare i biscotti natalizi che diventano golosi regali per gli amici. 500 g farina 200 g zucchero 100 g burro 2 uova 1 bustina di lievito per dolci latte q.b. Setacciare farina con lievito e zucchero e aggiungere poi gli altri ingredienti, tra cui il burro fuso. Amalgamare aggiungendo latte fino ad ottenere una pasta soda e lucida. Lasciare riposare per 30 minuti, poi

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stendere e riempire una teglia imburrata e infarinata. Farcire con marmellata a piacere decorando la superficie con strisce di pasta. Infornare a 180° forno ventilato per circa 40 minuti o appena risulta dorato il bordo. Con lo stesso impasto si possono realizzare bensoni, tortelli, biscotti.

“Prendo questi due”, dichiara decisa. Si avvicina alla cassa con il dito ancora infilato nelle pagine per tenere il segno. “Va bene se pago col bancomat?”. *** Non c’è stato modo Abbiamo litigato a lungo, io e mio marito, quando la nostra casa in fase di costruzione fu pronta per le porte. Non c’è stato modo di convincerlo a mettere le porte in sala e in soggiorno. Pazienza per la sala: risulta un ‘open space’ unico con l’ingresso e va bene ugualmente. Ma il soggiorno che c’entra ? Non c’entra, infatti, e la porta ci vorrebbe proprio, per tante e ovvie ragioni. Invece la porta, lui, non l’ha voluta e non l’ha messa perchè, dice, ‘’sarebbe sempre aperta, quindi che ce la mettiamo a fare?’’. Beh, sono passati 30 anni, ma io non mi sono ancora rassegnata...! *** In spalla Bhe questa è una storia vera, avevo circa due anni. Eravamo a casa nostra: io, i miei genitori e tanti loro amici, una serata di bisbocce nel 1978. Già camminavo e dai racconti di mia madre, all'ora ventiquattrenne, facevo il giro di tutta la sala tra divani e tavolini, alla ricerca di bicchieri semi vuoti da finire. Unica bambina in mezzo a tante felici e giovani coppie, piene di speranze e promettenti futuri. Comunque, i bicchieri vuoti non erano poi così tanti! Nell’entusiasmo della serata mio padre mi prende sulle spalle per farmi divertire ed è stato proprio così, fin quando non decide di andare in cucina. Nel passaggio tra le due stanze non ha calcolato alla perfezione l’altezza della porta e “sbang” una mega craniata contro lo stipite, povera me… Ovviamente questo episodio mi ha cambiato la vita. *** In spalla /2 Un giorno litigai con mia moglie. Io volevo andare al bar a bere qualcosa con gli amici e passare qualche ora in loro compagnia. Lei non era d’accordo. Mi disse che se uscivo dalla porta, quando sarei rientrato l’avrei trovata chiusa. E mi avrebbe fatto passare la notte fuori di casa ! Io la guardai con stupore e siccome non gliela volevo dare vinta, andai verso la porta, che era a due ante, ne sfilai una, me la misi in spalla e le dissi: “Adesso voglio vedere come farai a chiuderla!” e me ne andai al bar con mezza porta in spalla. ***

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Soggiorno Zia Loretta Un guizzo bizzarro anima mia zia Loretta, così come le storie che racconta. Come quella, spettacolare, in cui lei ebbe un incidente in moto. Dice che dopo l’urto vide chiaramente la scena dall’alto: il suo corpo e quello del suo ragazzo distesi sull’asfalto, la moto distrutta, i pezzi sparsi, gli oggetti sparpagliati tutt’intorno. Per questo, uscita dall’ospedale, quando tornò sul luogo dell’incidente seppe esattamente dove andare a recuperare alcune delle sue cose. Perché dall’alto, fluttuante, fuori dal suo corpo, aveva visto dove si erano imbucate! Non so quanto ci sia di vero e quanto di romanzato nelle sue storie. Alcune le ho sentite più volte e le ascolto sempre volentieri. L’occasione di questi racconti è per lo più la Vigilia di Natale, quando mia zia Loretta, delle tre sorelle di mio padre la più piccola, fa come faceva sua madre, mia nonna Arista, e apparecchia fin dal mattino presto la tavola con dolci tipici offrendo tè, vino, caffè e, immancabili, le castagne e i duroni sotto spirito. Molto spesso, quando quasi tutti i fratelli e i nipoti sono già passati a farle visita, si arriva a un momento in cui con gran godimento tira fuori album zeppi di fotografie e guardandole comincia a pizzicare vari episodi qua e là allestendo un improvvisato safari di piccole storie. Una che mi è sempre piaciuta molto anche se un po’ dolorosa è quella di questa donna, non ricordo ora se è la madre di mia nonna, o la madre di sua madre. Non ricordo il suo nome. Sta di fatto che questa Chiletti era la figlia, a quanto pare piuttosto carina, di una famiglia di contadini che stavano abbastanza bene, forse mezzadri. Chissà che progetti avevano per lei il padre e la madre. Ma lei sposò un uomo che suonava le campane. Un campanaro. Un po’ zingaro anche. Per questo fu diseredata dalla famiglia andandosene di casa senza ricevere né dote né benedizione dai parenti. Mi chiedo se sia stata felice con lui, se ne valse la pena o se fu un colpo di testa d’amore giovanile di cui poi si pentì. È così romantico questo racconto. Così tragico anche. Me li immagino questi due, ribelli e incoscienti, ancora adolescenti e già così carichi di storia. Le loro figure sono sagome epiche, sfuocate e lontane, piccoli guizzi d’intemperanza lignea che spezzano, in un punto preciso, l’armonia naturale dell’albero genealogico famigliare che implacabile, poco più in là, si ricompone e ramifica ancora, di nuovo, ripartendo da due vicini nodi selvatici, densi e storti. Alle volte penso, e ho paura, che nella mia famiglia ci sia una vena piccolina di follia. Lo penso con riguardo, con rispetto e con la consueta punta di paura. Perché sia che guardi da una parte, sia che guardi dall’altra la sagoma che si profila è quella di un albero genealogico ombroso, dai percorsi un po’ spaventosi visto da qui, da dove sono io. C’è da dire che la famiglia dei nonni materni mi è sempre apparsa meno frondosa e ventosa che quella dei nonni paterni, popolatissima e piena com’è di personaggi stravaganti e come scolpiti un po’ nel legno. Una famiglia montanara di contadini poveri, dalla scorza dura, resistenti e “testoni”. Quel “Sei proprio un Cornia” che alle volte sfodera mia madre vuol proprio sottolineare che l’attributo principe riguarda tutta la famiglia, tutti e sette, fratelli e sorelle. Non so se il loro legame con la terra poi sia stato determinante nello sviluppare un senso pratico che quasi mortifica qualsiasi tentato volo pindarico anche solo un po’ sognante, ma è per questo che sono sempre stata attirata da mia zia Loretta. Perché lei mi è sempre sembrata una che ha tentativi di volo in atto perennemente. E poi le piace raccontare. Tutto quello che so della famiglia di mio padre me lo ha raccontato lei. E le piace andare a cercare di qua e di là ma anche scavare in profondità. Le piace pensare che c’è qualcosa in più oltre a quello che si vede e si tocca. Che lei, una Cornia, abbia studiato Reiki, ad esempio, è un fatto assolutamente eccezionale. *** 14


Ultima di sei Si erano appostati sul tavolo della grande cucina a scartavetrare e intagliare ramoscelli di legno trovati nel frutteto, contenti di poter dare spazio ai nuovi coltellini automatici regalati dal padre la domenica precedente. I ragazzi erano soliti giocare in giardino, ma quel giorno si presagiva già l'arrivo dell'inverno e la pioggia incessante li aveva costretti in casa tutti quanti, totalmente insofferenti a quegli spazi ristretti in cui erano relegati. Anche la vecchia stufa a legna era accesa per scaldare l'ambiente e attendere la pentola in cui sarebbe stata scaldata la cena. Maria, appena 3 anni e ultima dopo 5 maschiacci il cui maggior divertimento era fare dispetti alla sorella più piccola, veniva ovviamente esclusa e cercava in ogni modo di catturare la loro attenzione. Cantava le filastrocche che mamma le aveva insegnato, ma i ragazzi la zittivano. Sbatteva i piedini contro le loro sedie, ma loro la scacciavano. Dava ripetuti pizzicotti a quelle schiene curve sulla superficie dove lei nemmeno vedeva quanto si stava realizzando, ma a malapena allontanavano la sua mano molesta, senza nemmeno voltarsi indietro per guardarla. Finchè lei, addocchiando coi suoi piccoli occhietti un bastone sporgente sull'angolo più a nord del tavolo, si rizzò sui piedi più che potè arrivando ad afferrarlo, e immediatamente scappò via col suo tesoro in mano, sorridendo ai fratelli con un ghigno. Quando Damiano, il fratello più piccolo che aveva iniziato a intagliare quel bastone vedendoci già la sua futura spada, se ne accorse, sbottò sulla sedia con un urlo e diede inizio alla rincorsa per acchiappare la sorella capricciosa. Seppur piccola correva veloce, si infilava dietro al divano e tra le sedie spostate, ma la sala affollata la costrinse a una fuga troppo breve e presto fu acchiappata da due braccia molto più grandi di lei. I fratelli, complici, si erano a loro volta alzati per partecipare alla vendetta. Tenendola ferma in due, gli altri la legarono con una corda alla seggiola in ferro che lei usava per i giochi e, mentre si divertivano a farle il solletico, al fratello maggiore balenò un'idea e fermò gli altri nei loro giochi. Maria vide solo che le sue mani l'afferrarono, sollevandola fino all'altezza della faccia del fratello, che con un sorriso soddisfatto le disse “adesso ti cuciniamo per benino” e appoggiò la seggiola con la bimba legata sulla stufa ardente. I ragazzi ridevano a crepapelle mentre lei iniziava a piangere, forse non tanto per il calore che stava salendo da sotto il suo sedere, quanto per quelle cinque facce che la guardavano deridendola. Le urla incessanti richiamarono la madre, che dalla cantina dove stava stendendo i panni risalì correndo le scale e si trovò dinnanzi la scena appena descritta. Spaventata agguantò un burazzo e tirò giù la sedia già calda, liberando la sua piccola e affondandola in un abbraccio. Quando lei si calmò, ogni fratello fu preso per le orecchie e rimproverato a dovere, vennero sequestrati i coltellini e le future spade divennero braci per la cena. Maria ebbe la sua rivincita, ma i ragazzi si addormentarono escogitando il prossimo scherzo, in fondo avrebbero avuto tutto il giorno seguente a loro disposizione! Brutta storia essere l'ultima di 6 fratelli. E per giunta unica femmina. ***

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Cameretta 2006/2007 L'anno tra l'ottobre del 2006 e l'ottobre del 2007 è quello immortalato nel quadro appeso sopra al mio letto. Non è un quadro in senso classico, è una cornice con dentro un collage di foto che raccontano, più o meno, gli eventi salienti di quell'anno straordinario. A guardarlo bene però, forse non è un quadro, è una cartina geografica. Ci sono io che brindo con un'amica in una birreria di Berlino. Ci sono pezzi di red carpet in giornate sotto il sole alla festa del Cinema di Roma e a quella di Venezia. Ci sono foto scattate a Genova, in Val D'Aosta e in boschi di cui a malapena ricordo la collocazione geografica, ma ricordo benisismo la gioia e i sorrisi. Incontri, viaggi, concerti, vacanze, amiche, feste. Il volantino del festival della filosofia di quell'anno, in cui la Vita non era solo il tema delle conferenze, ma quella che vivevo passeggiando per la mia città sempre così uguale a come la conosco, e per tre giorni l'anno sempre così diversa. Ma i ricordi, le persone che c'erano e in qualche modo sento che ci saranno, quelle che io considero i miei antenati non si fermano all'interno della cornice. Scivolano sul letto sottostante e nuotano verso l'armadio, dove tengo i souvenir della mia amata Irlanda, ma anche più in là. Nel corridoio dove corro con la mia nipotina giocando a nascondino. In cucina dove chiacchieravo con mia nonna mentre lei m'insegnava a cucinare i piatti di Natale. Per dire da dove vengo il legame di sangue è troppo poco, ma il mondo è grande, il tempo infinito, e io penso ai tamburi. A quelli fatti con le pelli di animali, il cui suono mi fa pensare al battito del cuore, e a come questo accomuni tutti gli esseri viventi in una danza mai iniziata e mai finita. Quando penso agli antenati e alle vite vissute che si fanno passato, io penso ad un suono. ***

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Studio Nessuno, nel palazzo, è stimato e rispettato come l'archeologo. “Buonasera, professore”, lo salutano i vicini per le scale. Ma è raro incontrarlo. Gira accademie e musei di mezzo mondo per presentare la scoperta che lo ha reso famoso. Il gigante Un mio amico mi diceva, durante le nostre solite conversazioni, che loro possedevano una grossa “tanca”, (un appezzamento di terreno chiuso con muro a secco) avuto attraverso i suoi lontani avi e vi andava con suo padre. In questo terreno vi era una grotta che serviva come ricovero per il bestiame e anche per loro stessi quando pioveva, mentre stavano lì in attesa che smettesse di piovere. Il padre gli raccontava che un giorno, stanco di camminare, in questa grotta si fermò a riposare un gigante che rientrava dal lavoro dopo avere partecipato con altri giganti alla costruzione di un grosso Nuraghe. I Nuraghi sono delle costruzioni a forma di torre fatti con grossi sassi a secco, cioè senza cemento, e si dice che li abbiano fatti dei giganti. Pensando a quella storia, il mio amico un giorno decise di andare nella grotta da solo per guardarla meglio e sperava di trovare qualche traccia del gigante. La grotta aveva un’entrata non molto grande, ci poteva passare un bue di dimensioni normali. Poi, oltre il passaggio si allargava e vi era una grande stanza. Nella parete destra, all’altezza di due metri da terra, c’era una nicchia dove ci si poteva stare sdraiati. Si arrampicò e si sdraiò guardando la volta della grotta fatta di bellissime stalattiti bianche come la neve e pensò che magari il gigante si era riposato proprio lì, dove lui era sdraiato. E con la fantasia che tutti i ragazzi curiosi hanno, gli sembrò che la grotta si animasse: vedeva una donna vicino al fuoco che cuoceva un pezzo di carne ancora sanguinante infilzata in un uno spiedo di legno e due ragazzi le stavano vicino con gli occhi sbarrati, aspettando il momento di mangiarla; un uomo stava seduto per terra e costruiva le frecce che avrebbe usato quando sarebbe andato a caccia; un cane dal pelo folto e scuro era accucciato ai suoi piedi sonnecchiando. Trascorse un po’ di tempo a fantasticare, poi decise di rientrare a casa. Scese dalla nicchia. Appena toccò terra un piede urtò contro qualcosa di duro. Si chinò e vide un cerchio che affiorava dalla terra. Con le mani iniziò a scavare e man mano che scavava l’oggetto prendeva forma. Era un vaso antico. Subito pensò che il gigante l’avesse dimenticato lì. Cercò di tirarlo fuori con forza dalla terra che ancora lo avvolgeva, ma il vaso si ruppe in parecchi pezzi. Nessuno mai gli aveva parlato che vasi come quello potevano avere molto valore. Lo capì quando diventò grande. Comunque capì che anche se era a pezzi valeva qualcosa e lo vendette ai ragazzi che frequentavano le scuole medie. Non seppe che fine fece, però lui ci fece un po’ di soldi e andò a comprarsi delle castagne secche che a lui piacevano molto. Dentro di lui pensò che gli antenati avrebbero capito. *** Torce di stracci Ero bambino e come tutti i bambini avevo il dono dell’incoscienza. Andavo insieme ad altri fanciulli, armati alcuni con delle torce fatte di stracci imbevuti nella benzina, altri con pezzi di copertone da bicicletta arrotolati sulla punta di un bastone, nei cunicoli e cavità delle Grotte in cerca di qualcosa. Mano a mano che ci si spingeva all’ interno, si paravano davanti ai nostri occhi meravigliati, e allo stesso tempo impauriti da tanto buio e silenzio, tracce di altri passaggi prima di noi. Scoprimmo così dei punti precisi e decidemmo di dare loro dei nomi. Nacquero quindi ‘’su muru eladu” (la parete di ghiaccio), cosiddetto perché viscido e freddo, che percorrevamo addossati ad esso; ‘’sa mincia e’ su trau” (il pene del toro) che serviva, 17


aggrappandosi ad esso, a scavalcare un punto abbastanza difficoltoso; ‘’sa zighizaga” (la curva ad S) perché si andava prima a destra e poi subito a sinistra. Arrivati a questo punto, solo i più coraggiosi (o incoscienti?) proseguivano perché l’aria si faceva sempre più pesante e irrespirabile. Provate voi a camminare attraverso poco più che anfratti respirando il fumo che le torce posticce producevano! Ma il desiderio della scoperta e il dare un valore al coraggio di ognuno di noi,era troppo forte: bisognava proseguire! Ad ogni respiro, con le ombre che si stagliavano sulle pareti, il battito del cuore e il cuore stesso arrivava in gola. Arrivammo infine a quello che definimmo ‘’su camerone ‘e-su Re” (la sala del trono). Lo chiamammo così per la forma squadrata, con ai lati panche scolpite nella roccia calcarea e al centro, addossato alla parete, uno scranno singolo più definito, che considerammo ‘’su tronu” (il trono). Incredibile, ma vero! Tornando a ritroso nel tempo, l’emozione che si sentiva ad ogni ritrovamento era talmente forte che ancora oggi a distanza di anni, l’avverto in modo distinto, soprattutto rivedendo i reperti all’interno delle teche di cristallo in un museo. Fu così che conobbi quelli che considerai i miei primi antenati: attraverso vettovaglie e incisioni scolpite sulle pareti delle Grotte di San Michele, un sito archeologico di un paesino arroccato sulle colline di una provincia sarda. Sicuramente non lo sono in linea diretta, ma con un po’ di fantasia posso anche spingermi a pensare che lo fossero, se non altro perché la casa dove sono nato era sì e no a duecento metri da codeste Grotte (dell’epoca preistorica, ora conosciute come Cultura e Civiltà di Ozieri). Diversi anni dopo ho imparato a conoscerli meglio attraverso i testi di storia. ***

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Soffitta Sgombero Era un caldo venerdì di luglio, non potevo alzare un braccio senza sudare, già alle nove del mattino. Quel giorno in programma avevo “pulizia e mobilitazione della soffitta” in vista del trasloco ormai prossimo e dovevo iniziare a darmi una mossa. Un bel caffè, una paglietta e via non certo più veloce della luce, ma più con tranquillità flemmatica e riflessiva, all’apparenza meditativa. Solo un piano di scale mi separava dall’angusto solaio, ma risultò essere una scalata verso l’antro dei ricordi, trentasei anni di vita impolverati e raccolti in scatole, armadi, cassetti e alla rinfusa. Come scegliere cosa eliminare, buttare, regalare o accatastare nuovamente in un garage altrettanto umido e polveroso? Varcai la porticina, dopo aver aperto il vecchio e pesante lucchetto. L’impatto fu immediato, l’odore di chiuso e le particelle grigie già erano entrati nell’apparato respiratorio e si apprestavano ad arrivare al cervello. Alla vista era solo un ammasso di robaccia buttata a caso da tutte le parti, ma dopo il secondo attento sguardo iniziavo a mettere a fuoco: sulla mia destra due sacchi neri dell’immondizia condominiale, schiacciavano una serie di scatole in cartone a righe e sopra di essi un vecchio lenzuolo blu copriva la mia chitarra, ormai con una sola corda penzolante, che bella… i ricordi si manifestarono istantaneamente e in un micro secondo mi ritrovai seduta su una roccia, al fiume, il fuoco acceso, come in to the wild guardavo lo scorrere lento del fiume… “Se ammettiamo che l'essere umano possa essere governato dalla ragione, ci precludiamo la possibilità di vivere” (S. Penn). E questo era anche il live-motive in quel periodo, le emozioni dominavano le scelte e la vita vissuta a pieno seguendo questa “ammissione”. Osservai la mia chitarra e poi mi girai dalla parte opposta, dove una scaffalatura, non molto alta conteneva vinili di mio padre, in precedenza accantonati ed eliminati dalla collezione, d’altronde Celentano, gli Intillimani, la Bionda e altri assurdi gruppi degli anni ’70 non erano ancora stati riscoperti e per il momento potevano continuare a riposare in pace. Aprii poi un armadio, che era stato nella mia camera circa fino alle scuole medie e sull’anta con scrittura di bambina della terza elementare avevo segnato i “cattivi” alla lavagna, nel fare il gioco della maestra. Ora Simone, Roberto e Marcello (addirittura sottolineato) erano indelebili nella mia soffitta e nei miei ricordi con le loro faccette di bambini furbetti e diciamo pure un po’ bastardelli. Comunque aprii quel benedetto armadio, e l’odore della naftalina assalì le mie narici, come un attacco di zanzare a San Martino Spino, che per poterti muoverti le devi spostare con le mani e almeno dieci te le ritrovi appiccicate al palmo. Giacche, pellicce sintetiche turchesi, cappotti scozzesi, giubbottini senza maniche in finte piume di struzzo rosa, un guardaroba vintage da regina della disco o meglio perfetta Drag queen del Cassero. Dei pezzi storici di vita della mia ex coinquilina non che compagna di classe alle scuole medie. Intoccabili. Passai oltre, sopra l’armadio da mille e una notte impilate trenta/quaranta tele impolverate; si mescolavano quadri ad olio, acrilici, poster di squadre con atleti ormai in pensione, ben applicati sotto vetri e cornici. Il diploma dentro una cartella di cuoio con disegni a matita e sanguigne, esperimenti con il caffè e pastelli colorati…anni di scuola raccontati da calici e bottiglie disegnati dal vero. Ma anche foto in bianco nero, sviluppate come si faceva, non poi molto tempo fa, con ingranditore e chimica. Ormai le mie forze iniziavano a indebolirsi, il sudore perlava la mia fronte e la schiena bagnata risentiva della calda umidità intorno a me. Non avevo ancora concluso niente, solo fatto un salto nel passato a zonzo nel tempo dei miei ricordi. 19


Decisi di sospendere quella tortura per un po’ e mi avviai verso l’uscita, un passo e inciampai su una scatola da scarpe facendone cadere il contenuto: alcune medaglie vinte, un cioccolatino a forma di cuore mezzo mangiato, la foto della mia gatta Pirina con un paio di mutande su cui era ancora visibile l’impronta di una sua zampetta, la commozione prese il sopravvento. C’era anche una scatolina che aveva contenuto orecchini d’oro o una catenina… la aprii piena di speranza. La scatoletta conteneva: 12 denti tra cui almeno 5 completamente neri ed un biglietto su cui avevo scritto: “il topolino dei denti non esiste”. In quel momento presi la decisione di buttarli via e per quel giorno mi sembrava di aver rivoluzionato la mia vita fin troppo. ***

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Porta dell’ignoto Se non fosse stato Se non fosse per la testardaggine, che ebbi nell’insistere presso i regnanti dell’epoca a finanziarmi quello che è stato il mio più affascinante viaggio, non avrei mai scoperto il Nuovo Mondo. Tra Re e soprattutto Regine, con l’ incoscienza, ma con la consapevolezza di ciò che mi attendeva, discesi così il Guadalquivir su una caravella e puntai la prua verso quella porta che fin’ ora nessuno aveva mai osato varcare: la porta dell’ignoto ! E dopo ben 70 travagliati giorni ebbi la certezza di avere aperto anche la porta della conoscenza. ***

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Perché e come: il metodo di lavoro Perché una “casa dei racconti” sulla “terra dei racconti”? La struttura di questa piccola raccolta è un omaggio a La vita istruzioni per l'uso di Georges Perec. I racconti dei partecipanti, ispirati a “porte” o a “antenati” si prestavano bene a essere considerati parte di una stessa casa, un grande condominio sui cui corridoi si affacciavano le diverse storie. Quando ho raccontato questa idea a un'amica, lei ha detto “Lo hanno già fatto” e mi ha prestato il libro di Perec. Il racconto collettivo “Libreria” dà un assaggio delle storie di cibi, sapori e profumi emerse nella serata di narrazione orale ma solo in parte trascritte. In questo stesso racconto, i titoli dei libri sullo scaffale sono quelli da cui sono stati tratti alcuni spunti letterari usati nel corso del laboratorio. Come abbiamo lavorato Questi racconti sono frutto di un piccolo laboratorio di narrazione e scrittura promosso dall'Arci di Modena, e intitolato "Nella terra dei racconti: quattro incontri, un po' di compiti a casa e un banchetto finale". Il laboratorio, gratuito, si è svolto tra ottobre e novembre al circolo Nuraghe di Fiorano Modenese. Nel primo incontro, di presentazione, si è parlato delle storie necessarie, come quella di Sharazad e sua sorella Dunyazad, del perché scrivere e perché leggere, dei nostri autori preferiti, di cosa aspettarsi da un laboratorio di scrittura. Dieci persone hanno poi partecipato al lavoro vero e proprio. "Dissodare", dare una smossa al terreno della memoria e far riaffiorare le storie perdute: incontro di circa 4 ore, con scambio di racconti orali sul tema “Il sapore del ricordo”. "Seminare", compiti a casa: scrivere una storia sul tema “antenati” e una sul tema “porta”. Poi scambiarsi, a coppie, i raccontini sul tema “porta” e riscriverli”. "Coltivare", confronto sul materiale prodotto: ognuno ha raccontato oralmente la propria storia sul tema “antenati” e il gruppo si è scambiato consigli su come migliorarla, rendendola più efficace (l'azione, il linguaggio, i colpi di scena, la concretezza) e più narrativa (più avvenimenti e meno opinioni). Nell'ultimo incontro si è lavorato sui raccontini a tema “porta” per individuare le componenti che li rendono più efficaci e divertenti. Alcuni dei partecipanti hanno scelto di fare correzioni e ritocchi ai racconti, altri hanno mantenuto la prima stesura. Il progetto originariamente prevedeva anche altri due momenti: "raccogliere" (piccola performance o lettura pubblica) e "nutrirsi" (incontro con un "vero" autore o autrice, per confrontarsi e arricchirsi di nuove storie) che però non sono (ancora) stati realizzati per ragioni organizzative o di timidezza. Il lavoro proposto si è ispirato al metodo della narrazione orale perfezionato insieme al gruppo di insegnanti e narratrici modenesi guidato da Pialisa Ardeni e negli stage della Casa laboratorio di Cenci con Franco Lorenzoni. Nelle intenzioni originarie, il lavoro e il risultato finale avrebbero dovuto essere più marcatamente collettivi, ma alcune cose sono cambiate in corso d'opera per adattarsi alle inclinazioni e possibilità dei partecipanti. Grazie Ringrazio chi ha condiviso le proprie storie e ha fatto vivere quelle altrui con l'attenzione e l'ascolto. Grazie anche a Michela Iorio, Serena Lenzotti, Mario Ledda, Anna Lisa Lamazzi. Grazie a Melissa e Chiara per avermi fatto conoscere Perec e contribuito così alla costruzione di questa casetta. 23


Realizzato a ottobre 2013 al circolo Nuraghe di Fiorano Modenese, grazie alla raccolta fondi 5x1000 di Arci, comitato provinciale di Modena. Il progetto fa parte di “Lettura, scrittura e memoria per l'anno europeo dell'invecchiamento attivo�.

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