Keith Haring

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KEITH HARING

«Mi è sempre più chiaro che l'arte non è un'attività elitaria riservata all'apprezzamento di pochi. L'arte è per tutti e questo è il fine a cui voglio lavorare.» Keith Haring

Keith Haring il pazzo, Keith Haring il buffone, Keith Haring l'artista, Keith Haring l'amico di Andy Warhol, Keith Haring il gay, Keith Haring! Quello che dipingeva con i gessetti; Keith Haring, quello che hanno arrestato questa mattina, Keith Haring! Quello che ha dipinto la chiesa di Sant'antonio a Pisa; "Keith Haring? Ah si, quello che ha dipinto il murale contro il crack infondo alla strada"; "Keith Haring chi?" "Quello del bambimo raggiante!”; Keith Haring quello che ha dipinto sul muro di berlino; Keith Haring, quello della Pop-Art; "Keith Haring, quello che dipinge coi gessetti e si sente un writer".


Per alcuni un finto artista, per altri un buffone, per altri ancora un genio. Sicuramente uno degli artisti che, col suo estremo minimalismo, ha fortemente influenzato l'arte e la grafica moderna. Sicuramente uno che sapeva comunicare alla gente e che per la gente si batteva. Uno che non aveva paura di manifestare quello che pensava, un artista lontano dai soliti schemi, lontano dalla logica del profitto, che era capace di dipingere un cartellone pubblicitario per strada, senza curarsi del fatto che le sue opere valevano migliaia di dollari.

Non capita spesso di raccontare un momento storico attraverso la vita e l'opera di un artista. Ma la meteora colorata di Keith Haring smentisce quanto appena affermato. Lui incarna la New York tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta, con tutto il chiasso, le invenzioni scapigliate e il lusso, il viavai tra una factory e un atelier di stilista. Con lui l'arte esce dalle gallerie e invade la strada come mai era successo prima. Lui esprime il segno immediato, primitivo e pop al tempo stesso, un curioso miracolo che non si avvererà più.

Insieme a Andy Warhol e Jean Michel Basquiat è il simbolo di un decennio, gli amati e odiati anni Ottanta, che non a caso muore con lui. Keith Haring era molto più di un graffitista o un decoratore, sia pure bravo e fantasioso. Era un artista nel senso pieno, figlio della cultura dei fumetti, ma anche di quella dei Maya, delle civiltà precolombiane in generale, dei pittogranni giapponesi e di Picasso, di cui assorbe la rivoluzionaria lezione grafica. Che poi fosse un'artista che avesse scelto di lavorare, anziché con mezzi usuali e su superfici tradizionali, con spray, pennarelli e vernici, dimostra solo la radicalità della sua posizione. Una scelta di leggerezza, un disimpegno rispetto alla tradizione nobile dell'arte, che consente alle sue immagini "di essere comunicative in modo universale".


Perché questo era ciò che gli interessava. E per questo, gli spray e le vernici, li ha usati ovunque. All'inizio su carta, tele viniliche, poi su metalli, plastiche, pelli animali e corpi umani, fino a invadere i muri della metropolitana, ospedali, chiese, negozi e discoteche.

E raramente un artista è stato così impegnato socialmente come lui, sia per la scelta dei luoghi dove intervenire, sia per il coraggio dei contenuti. Si è fatto promotore di campagne decisive per quegli anni: contro l'Aids e a favore dell'uso del preservativo, contro la droga ("crack is wack": il crack è una porcheria, recita un suo murale) e contro l'intolleranza, la discriminazione che ancora resisteva verso gli omosessuali.

Ma con i suoi disegni paradossali ha denunciato anche l'uso smodato della tv, senza per questo diventare un nostalgico antimoderno. E poi ha usato il suo talento per celebrare la festa del libro, per convincere la gente che è meglio vivere in una città pulita e per rendere, a Montecarlo come a New York, meno anonimo un ospedale.

Il tutto in una frenesia instancabile, riempiendo muri e muri di disegni senza chiedere permessi di sorta e senza avere lo straccio di uno schizzo preparatorio. Così, in diretta. Nello stile della controcultura giovanile che alla fine degli anni Settanta caratterizza i “graffitisti” delle metropoli americane. E forse è stata proprio l'immediatezza della sua espressione, il fatto di averlo portata di mano, a non farne valutare appieno il talento. Perché durante i dodici anni di attività Keith Haring si è imposto più come fenomeno mediatico e politico, che artistico. Via, via che diventa famoso, grazie a delle mostre nelle migliori gallerie di New York ed alla partecipazione ai più importanti appuntamenti internazionali ( Documenta di Kassel, le Biennali di Venezia, del Withney e di San Paolo) le sue performance richiamano sempre più folle.

Il ragazzo secco e occhialuto diventa una star, i suoi "bambini raggianti", i suoi omini che sembrano scappati da un passo di break dance o da una decorazione Wari, spuntano ovunque. Ma il successo non gli dà alla testa. Molti dei suoi guadagni sono devoluti in beneficenza e, appena può, lavora con i bambini, perché, come egli stesso racconta, "è qualcosa in cui mi sento sempre più coinvolto, è una delle cose più soddisfacenti che faccio". E coltiva un sogno: lavorare


in una città storica italiana. Un anno prima della morte, nell'89, arriva a Pisa dove, secondo alcuni critici, realizza il suo lavoro più bello: un murale sulla chiesa di Sant'Antonio.

Il murale di Pisa (1989) L'idea di realizzare un murale a Pisa nasce in modo casuale a seguito dell'incontro per strada a New York tra Haring e un giovane studente pisano. Il tema è quello dell'armonia e della pace nel mondo, visibile attraverso i collegamenti e gli incastri tra le 30 figure che, come in un puzzle, popolano i centottanta metri quadrati della parete del Convento di Sant'Antonio.

Ogni personaggio rappresenta un diverso "aspetto" del mondo in pace: le forbici "umanizzate" sono l'immagine della collaborazione concreta tra gli uomini per sconfiggere il serpente, cioè il male, che stava già mangiando la testa della figura accanto; la donna con in braccio il bambino rimanda all'idea della maternità; i due uomini che sorreggono il delfino al rapporto con la natura. Per rendere l'opera compatibile con il contesto dove è collocata, sceglie colori dalle tonalità sottili, che attenuano la violenza cromatica che lo aveva da sempre contraddistinto, recuperando in parte i colori dei palazzi pisani e della città nel suo complesso. É l'unica opera di Haring che viene concepita sin dall'inizio come "permanente", non destinata a scomparire nell'uso o nella serialità della comunicazione di massa. Infatti impiega più tempo ad eseguirla: una settimana, rispetto all'unico giorno con cui era abituato a realizzare gli altri murales.

Il primo giorno disegna da solo la linea di contorno nera, senza bozzetto preparatorio, poi, nei restanti giorni, aiutato da degli studenti e dagli artigiani della Caparol Center, il centro che ha fornito le vernici scegliendo delle tempere acriliche che potessero


mantenere intatta la qualità dei colori per molto tempo, esegue la colorazione. Il murale ha insolitamente un titolo: "TUTTOMONDO", parola che riassume la sua costante ricerca di incontro e di identificazione con il pubblico, esemplificata in questo caso dal personaggio giallo che cammina, o che corre, posto al centro della composizione sullo stesso piano di un ipotetico passante. I trenta personaggi del murale hanno la vitalità e l'energia tipiche di Haring e del suo incessante fervore creativo che gli ha consentito di lasciare, pochi mesi prima della morte per Aids, un'opera che è prima di tutto, un inno alla vita.


«Ho dodici anni e non crescerò mai» Brani tratti dai Diari dell’artista, che raccontano temi essenziali della sua vita e della sua arte: la pittura; l'ispirazione; il denaro; la malattia. Narrazioni che percorrono un vissuto che va dai 19 anni fino a cinque mesi prima di morire nel febbraio 1990, a 32 anni.

“Diari" di Keith Haring, Piccola Biblioteca degli Oscar Mondadori.

LA VITA. «Se cerco di modellare la mia vita su quella di qualcun altro, finisco per sprecarla riproducendo le cose per puro e vacuo spirito di accettazione. Ma se vivo la vita a modo mio e faccio in modo che gli altri artisti mi influenzino solo come riferimenti esterni o come punti di partenza, posso costruire una consapevolezza ancora maggiore invece di restarmene qui inattivo. Se sarò in grado di capire questo e di metterlo in pratica mi sarà d'aiuto, ma ho di nuovo paura... Vorrei soltanto essere più sicuro di me e cercare di scordare tutti i miei stupidi preconcetti e le idee sbagliate e limitarmi a vivere. Semplicemente vivere. Finché non morirò.» (29 aprile 1977)

LA MORTE. «E quando morirò non c'è nessuno che prenderà il mio posto. Non c'è nessuno di quelli che stanno lavorando in questo momento che si avvicini neppure vagamente al mio stile, al mio atteggiamento o ai miei principi. Lo dico seriamente. Credo che valga lo stesso per molte persone (o per tutti), perché ognuno è un individuo ed è importante in quanto non può essere sostituito. Ma, in questo preciso momento, non c'è nessuno al mondo che possa essere associato a me sotto il nome di un movimento. Il mio movimento consiste di un'unica persona. Ci sono svariate persone il cui lavoro ha delle somiglianze, per certi aspetti, con quello che sto facendo, ma nessuno le ha tutte. Persino Andy Warhol, a cui vengo spesso paragonato, è di fatto un tipo di artista molto, molto differente.» (7 luglio 1986)


BAMBINI. «Un giorno mi piacerebbe fare un libro fotografico con immagini di me insieme a bambini di tutto il mondo... I bambini sanno qualcosa che la maggior parte della gente ha dimenticato. I bambini subiscono una fascinazione per la loro esperienza quotidiana che è molto speciale e che sarebbe di grande aiuto agli adulti se potessero imparare a capirla e a rispettarla. Adesso ho 28 anni esternamente e quasi 12 internamente. Voglio restare sempre un dodicenne, dentro.» (7 luglio 1986)

IL VALORE DEI QUADRI, 1978. «La tela come materiale in sé è meravigliosa. È robusta, può essere venduta e in un certo senso è duratura. Ma mi inibisce. Spendo otto dollari per una tela di 75 centimetri per cento e per la pittura a olio; poi vado in paranoia per come riuscirà perché ho speso 12 dollari per quel quadro e penso che debba valere qualcosa. Invece, quando dipingo su un pezzo di carta che ho trovato oppure ho comprato a poco prezzo, e uso l'inchiostro ad acqua, faccio un intero quadro di 120 centimetri per duecentosettanta senza aver speso praticamente nulla.» (14 ottobre 1978)

IL VALORE DEI QUADRI, 1987. «Non ho ancora ricomprato nulla di mio, ma ho cominciato a seguire le aste almeno per scoprire se e a quale prezzo le cose sono state vendute. Soprattutto dal momento che ci sono persone là fuori che potrebbero cercare di influenzare il mio mercato: per esempio facendo credere che sia in atto una manovra al ribasso, creando una specie di "crac nella Borsa valori" cui tutti vanno dietro... L'altra faccenda strana è che il lavoro di un tempo è già in concorrenza con quello attuale... Le mie cose hanno cominciato ad apparire alle aste intorno al 1984 e da allora ce ne sono state parecchie. Sfortunatamente, molte delle persone che hanno comprato le mie opere all'inizio, nel 1982 o '83, lo facevano come un mero investimento. Non importava se fossero di loro gusto oppure no fintanto che avrebbero potuto ricavarci dei soldi. Penso che molte di queste persone fossero degli stronzi all'inizio, e che ingenuamente io abbia venduto loro delle opere che non necessariamente erano di grandissima qualità. Adesso stanno rivendendo tutto guadagnandoci molto più di quanto non abbia guadagnato io in origine.» (9 ottobre 1987)


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