L'ingrediente essenziale

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MARIA GRAZIA NIELI

L’ingrediente essenziale


E

mma è una ragazza che antepone la testa al cuore. Cresciuta con la madre e la nonna, sempre in compagnia delle amiche Momo e Marta, alla ricerca dell’uomo giusto. Dopo tanti fallimenti amorosi decide di scrivere una sorta di decalogo per proteggere le donne dall’amore non corrisposto. Cercherà di superare i ricordi che ancora la legano a Federico, ma le cose si complicheranno quando troverà i profondi occhi scuri di un uomo misterioso. Un viaggio sentimentale tra passato e presente alla ricerca di risposte, dove l’amore è l’ingrediente essenziale che dà sapore alle cose e ci arricchisce.

MARIA GRAZIA NIELI è nata a Noto nel 1988 e vive oggi a Catania. Ama leggere, scrivere e cucinare. Nel 2016 scrive il primo racconto breve Tepore freddo. Pubblica ora il suo primo romanzo.

ISBN 978-1671582392

€ 14,90

9 781671 582392


Auto da fé … Licenziando queste cronache ho l’impressione di buttarle nel fuoco e di liberarmene per sempre (E. Montale)


© Maria Grazia Nieli, 2019 © FdBooks, 2019. Edizione 1.0 L’edizione digitale di questo libro è disponibile su Amazon, Google Play e altri negozi online.

In copertina: © Jawon Svaby, www.javonswaby.com

ISBN 978-1671582392

Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore, è vietata ogni riproduzione, anche parziale, non autorizzata.


MARIA GRAZIA NIELI

L’ingrediente essenziale



A Lucia



Capitolo 1

«Ciao Emma, hai finito di studiare? Come ti sembra questo nuovo vestito?» le domandò Marta entrando all’improvviso in camera. «Sì, non riesco a concentrarmi, oggi. Non ho scritto una sola battuta» rispose spegnendo il computer. Si sciolse la coda che raccoglieva i ricci selvaggi, rossi come la lava di un vulcano, e si girò verso l’amica. S’infilò una mano nella chioma leonina e la scosse. Quelle spirali rosso granata sembravano avere una vita propria, molle irrequiete che rimbalzavano a ogni suo movimento, anche il più impercettibile. «In quanto al tuo abito, non ne hai uno quasi uguale? Poi, quel colore non ti dona molto, ti fa apparire grassa» commentò schietta. Odiava lusingare l’amica ma, nonostante non fosse gentile, Marta apprezzava i suoi suggerimenti. «Mi sta meglio il blu per l’appuntamento?» borbottò facendo un giro su se stessa. «Sicuramente! Poi sai cosa penso degli uomini» disse buttandosi sul letto. Cresciuta con la madre e la nonna, aveva ricevuto un’educazione femminista che, soprattutto negli anni dell’adolescenza, l’aveva portata a maturare una pessima opinione nei riguardi del sesso forte.


«A mia madre piace» mormorò Marta cercando d’appianare le pieghe. «Credo che lo terrò per l’appuntamento, poi lo regalerò a mia sorella minore.» «Non prendertela. Lo sai come la pensavano mia madre e mia nonna. Convinte femministe entrambe.» «Sì, lo so. Ora devo andare ma grazie del consiglio» infine Marta uscì un po’ seccata. «A giudicare dall’espressione imbronciata sul volto di Marta, che ho intravisto qui fuori, intuisco che è venuta a chiederti un consiglio su cosa indossare stasera» commentò Momo sventolando le mani per far asciugare lo smalto rosso appena steso. «È tutto tempo sprecato» ritornò davanti al computer. «Divertiti! Pensare troppo fa male!» aveva aggiunto come ultima battuta mentre ammirava le sue unghie rubino, prima di lasciare la stanza. A rafforzare il leitmotiv erano state proprio le disastrose relazioni amorose di Marta e Momo, le due amiche che le ruotavano attorno: le sue spalle erano ormai zuppe di lacrime amare versate da loro, che collezionavano ogni anno una delusione dietro l’altra. Ciononostante, quelle due masochiste ci ricadevano sempre e fallivano. Impersonavano il lupo di quel detto popolare che perdeva il folto pelo ma non le cattive abitudini che si ostinava a perseguire. Non riesco a spiegarmi questo sciocco ciclo, una ragione valida a sostegno di quest’atteggiamento nocivo. Non ne posso più di “stavolta è quello giusto” e “cazzo, mi ha mollato”. Per evitare questi inutili turbamenti si era tenuta alla larga dagli uomini e aveva preferito investire il suo

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tempo nello studio di materie psicologiche, cercando di capire gli assurdi meccanismi che portavano a innamorarsi di qualcuno per esserne infine deluse. La laurea aveva fatto chiarezza e, grazie all’esperienza indiretta accumulata negli anni, si era ripromessa di salvare più donne possibili da questa spirale emotiva. «Mia cara, alla fine cederai anche tu, fidati!» Marta aveva sentenziato più volte. L’amica era l’apoteosi del romanticismo. Lunghi capelli biondi contornavano gli occhi turchesi. Era facile da imbambolare e non perché fosse tonta, ma tendeva a fidarsi troppo in fretta. La ricerca dell’uomo giusto era stressante per lei poiché ogni volta aveva bisogno del successivo per dimenticare il precedente. Adorava tutte quelle smancerie da commedia romantica americana alla “ti amo, sposiamoci”. Era lei che chiamava Emma nel cuore della notte, tra le due e le tre generalmente, singhiozzando perché era stata scaricata dall’ennesimo imbecille di turno. Secondo Emma, aveva davvero le fette di salame sugli occhi, era un caso disperato e non c’era cura. Anche Momo era un altro caso infelice. I suoi capelli corti, così scuri da essere paragonati alle ali di calabroni, e gli occhi da cerbiatta erano molto, molto ricercati. Adorava le moine e andava dritta al sodo: se un ragazzo le piaceva, ci finiva dritta sotto le coperte. Questa era la sua regola e ne aveva tratto una condotta di vita. Tuttavia la ricerca del ragazzo giusto anche per lei era diventata estenuante: analizzava troppi soggetti in un periodo abbastanza breve. Secondo Emma, lei non voleva perdere troppo tempo con un uomo che alla fine si poteva rivelare sbagliato, dunque

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approfondiva la conoscenza rapidamente. Il termine delle sue storie era sancito dal congedo: “È stato bellissimo, ci sentiamo”. A mitigare i due poli c’era lei, Emma, selettiva e scrupolosa ma al contempo dolce e piena d’amore da dare. Era l’analitica del trio e la causa scatenante di questa razionalità era facile da intuire dopo la breve presentazione dei soggetti con cui si accompagnava. A marzo la temperatura era ancora fredda. Durante la settimana aveva piovuto quasi ogni giorno e quel pomeriggio non era stato da meno. Cominciò a scendere qualche goccia ed Emma accelerò il passo. Aveva dimenticato l’ombrello. Per non inzupparsi entrò nella caffetteria all’angolo della piazza, le piaceva stare lì e respirare l’aroma intenso del caffè. Era ossigeno per la sua mente. Le stimolava i pensieri dandole la carica per iniziare a scrivere il suo saggio su cosa ci spingeva a soffrire, pardon ad amare. Purtroppo, da quando si era imbarcata in quel progetto, non riusciva a scrivere, anche se l’ispirazione non le mancava. Rimaneva ore e ore davanti a quella pagina bianca. Squillò il cellulare. «Come stai, oggi? Passato il blocco dello scrittore?» infierì Marta ridacchiando. «Sono sempre allo stesso punto!» rispose stanca di sentire la solita domanda. «Secondo me, dovresti cambiare aria e magari rivolgerti agli uomini!» le suggerì Marta. «Mica male! Il segreto sta lì, parlare ai diretti interessati, i responsabili dell’instabilità emotiva delle donne» continuò elencando qualità che era meglio omettere.

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«Ok, abbiamo capito la tua grande simpatia per tutto ciò che ha un membro» intervenne Momo sarcastica. «Comunque, perché non trascorri qualche giorno in campagna da tua nonna? Senza distrazioni, immersa nel verde. Quante estati laggiù a ridere come matte! Sembra passato un secolo. E poi potresti incontrare qualcuno d’interessante» disse a denti stretti senza aggiungere altro e aspettandosi insulti gratuiti. «Dieci anni per l’esattezza» precisò Emma guardando il suo riflesso sulla vetrata del bar. «Stiamo invecchiando» sussurrò con lo sguardo perso nel vuoto. Un velo di nostalgia oscurò i suoi occhi. «Non è stata una mia scelta» riagganciò mentre arrivava il caffè che aveva ordinato. Si sentiva gli occhi puntati addosso, così alzò lo sguardo notando un uomo che la scrutava. «Hai i ricci più belli che io abbia mai visto» commentò il custode di comande con gli occhi da pesce lesso. «Apprezzo il coraggio che hai avuto a venire fin qui a farmi il complimento peggiore che le mie orecchie abbiano mai sentito. Ma ti perdono e non ti faccio perdere altro tempo, grazie per il caffè!» rispose di getto, molto infastidita. All’improvviso una voce maschile alle sue spalle intervenne in difesa del povero cameriere, che era fuggito senza ribattere. «Wow, hai distrutto l’autostima di quel ragazzo in pochi secondi per un complimento. Non oso immaginare cosa faresti a chi cercasse di portarti a letto» esordì quell’uomo irritandola ancor più.

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Suo malgrado, Emma aveva appena iniziato uno di quegli scontri verbali che amava tanto e nei quali dava il peggio di sé. «Perché ti preoccupi tanto? È tuo fratello?» rispose voltandosi per guardare in faccia il malcapitato di turno. «No, difendo solo la categoria!» replicò sicuro di sé con voce profonda quasi da doppiatore. «Spero non mi lapiderai per questo» infierì. «Ti risparmio! Ma solo perché non ho tempo da perdere.» Si alzò fingendo mezzo sorriso e uscì in fretta. Non avrebbe retto quel confronto ancora per molto. L’aveva innervosita con quel suo atteggiamento da spaccone. «Ma che stronzo!» esplose scandendo bene le parole mentre si accendeva una sigaretta per calmare i nervi. «Non vale colpire alle spalle.» Aveva colto l’apprezzamento. «Ma che fai, mi segui?» gli urlò in faccia con la sigaretta fumante in una mano e l’accendino nell’altra. Lo sconosciuto la fissò sogghignando e se ne andò senza proferire verbo. «Non sei solo stronzo ma anche maleducato» mormorò gettando a terra la sigaretta appena accesa, che non era servita a placare l’umore. In quell’istante comprese che era indispensabile scrivere il saggio in modo da mettere in guardia più ragazze possibili sugli uomini interessati solo al sesso e al proprio ego smisurato. Non c’era tempo da perdere! Decise di seguire il consiglio di Marta e partire quel fine settimana.

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Alle nove in un punto del giorno seguente Emma era già seduta al solito tavolo in attesa delle due matte. Dalla vetrata vide che Marta era da sola e scosse la testa sapendo già quale fosse la ragione del ritardo di Momo che, solita ritardataria cronica, non si era smentita neanche quella volta. «Cosa ti è capitato questa volta?» le chiese Emma, quando si presentò, conoscendo la risposta. «Sarebbe meglio dire “chi” mi è capitato!» sospirò Momo con sguardo languido ed esaustivo. «Va bene, sei perdonata. Sappiamo dove portano le tue scuse» precisò Marta che era rimasta al bar con lei, in attesa della terza compagna. «Potrei scrivere un’antologia sulle tue storie travolgenti e appassionate. Ho già il titolo: “notti bollenti”. Che ne pensate?» E scoppiò una fragorosa risata. Mentre ridevano di gusto, si avvicinò il cameriere stringendo intimorito il blocchetto degli ordinativi. «Siete pronte per ordinare?» chiese senza aggiungere altro, con lo sguardo fisso sul quadernetto che aveva tra le mani. «Scusami per ieri. Comunque, per me un caffè nero e una ciambella» asserì Emma senza neppure guardarlo in faccia. All’oscuro di tutto, Momo e Marta rimasero in silenzio fin quando Emma confessò come, il giorno prima, aveva zittito in malo modo il povero ragazzo. «Poveretto, sei una strega! Ha fatto bene quell’uomo a intervenire» precisò Momo mentre Marta conveniva con lei. «Voi siete matte. Difendete anche quello stronzo?» sbottò alzando le mani al cielo.

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«Buongiorno, lo stronzo in questione sarei io» si palesò alle loro spalle lo sconosciuto accomodandosi al tavolo vicino. Un’incudine le piombò sulla testa. Non sapeva come uscirne e nessuno disse nulla per toglierla dall’imbarazzo: erano troppo distratte dall’aspetto dello sconosciuto. «Però, alla faccia dello stronzo» sussurrarono quelle due mentre lo spogliavano con gli occhi e s’ inumidivano le labbra. «Smettetela, vi prego» sussurrò a disagio distogliendo lo sguardo dall’altra parte per nascondere il rossore che era di certo apparso sulle sue gote. «Comunque ho deciso di partire domani. Chissà che non riesca a concentrarmi a casa della nonna. Mi state ascoltando?» domandò agitando le mani davanti alle loro facce imbambolate. «Devo tornare domani verso quest’ora per ammirare questo spettacolo?» chiese Momo accavallando le lunghe gambe velate dai collant. «Sai se ha qualche amico?» aggiunse Marta slacciandosi qualche bottone della camicia. «Ma come devo fare con voi!» sospirò Emma ormai rassegnata alzando gli occhi al cielo.

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Capitolo 2

Immaginava l’amore come un virus, uno di quelli subdoli e silenti che s’attaccavano ai neuroni o come un vizio che causava crisi d’astinenza, come i fumatori dalla nicotina o i bulimici dal cibo, per intenderci. Pensava proprio a questo “male” mentre tirava giù la valigia dall’armadio. Subito le venne in mente quello sconosciuto e provò ribrezzo. L’aveva infastidita con le sue risposte maleducate e solo a ripensarci sentiva i peli rizzarsi su tutto il corpo. Scostò i pantaloni del pigiama e s’osservò le gambe per controllare che fosse solo suggestione. Un ronzio la destò da quei pensieri. Era marzo e con la primavera non iniziava solo la stagione amorosa, ma si apriva anche la caccia alle maledette succhia sangue. Si tirò un sonoro ceffone sul naso tentando d’uccidere una zanzara, ma invano. Notò che la finestra era aperta e, mentre stava per chiuderla, evitando così che un’intera colonia d’insetti le occupasse la casa, un alito di vento tiepido le accarezzò il viso e respirò a fondo socchiudendo gli occhi. L’aria stava cambiando e la primavera con i suoi profumi inebriava ogni cosa. Le tornò in mente la sua cara nonna e le stranezze che era solita insegnarle: assaporare il vento era una di quelle perché ci “aiutava a capire da che parte andare”.


In quell’istante si rese conto che ormai da qualche tempo aveva perso quell’abitudine. Si soffermò a riflettere su quelle parole e si chiese se la direzione che stava per intraprendere fosse davvero quella giusta, salendo su un treno che l’avrebbe riportata nel passato. Lo stesso passato che l’aveva ferita e aveva relegato nell’oblio; un passato dove avrebbe cercato le risposte che le avrebbero permesso di procedere verso il futuro. Ancora immersa in silenziosa riflessione, si preparò un bagno. La vasca era piena fino all’orlo e la schiuma sembrava panna montata, profumava di lavanda e le solleticava il naso. Prese fiato e scivolò sotto quel soffice manto, come a voler sfuggire da quel pensiero che, di tanto intanto, le tornava in mente e che le lasciava in bocca il gusto amaro del rimpianto. I ricci rossi sembravano coralli ondeggianti tra la bianca schiuma. Uscì dall’acqua dopo quasi un’ora. Avvolta nell’accappatoio blu cobalto, sistemò le ultime cose mentre sorseggiava una tisana. Era tutto pronto per il tuffo nel passato. Poggiò la testa sul cuscino, socchiuse gli occhi e Morfeo l’accolse tra le sue braccia. S’addormentò cullata dal rumore della pioggia che batteva dolcemente sui vetri della finestra. Un tuono la svegliò all’improvviso alle sette, mentre le nubi antracite non lasciavano trapelare la luce del giorno. Fece colazione con la sua solita tazzina di caffè nero bollente accompagnata da una sigaretta per attivare il cervello mentre un pallido sole cominciava a fare capolino tra una nuvola e un’altra. Il treno partiva alle 12.05 e la stazione era molto gremita quella mattina. Si sedette sulla prima panchina

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libera e si mise a osservare i passanti. Le piaceva immaginare le loro vite, intuire quale fosse il loro stato d’animo, ipotizzare chi li attendesse a destinazione: un amore, un amante o la ragione più banale del mondo, il lavoro. Tra un pensiero e l’altro, quegli sconosciuti cui cercava d’attribuire un’identità, l’accompagnarono nell’attesa non tanto lunga. Si accomodò nel vagone di seconda classe, vicino al finestrino perché le piaceva veder sfrecciare il paesaggio che le ricordava quei disegni creati in fondo alla pagina. Sfogliati in velocità, prendevano sempre vita. Purtroppo s’appisolò poco dopo la partenza. Il costante andamento del treno la rilassava, troppo forse, data la botta con la fronte che diede sul finestrino. Uno sguardo, accompagnato da un sorriso, iniziò e concluse l’interazione con gli altri passeggeri che avevano assistito a quella scena imbarazzante. S’impose di stare sveglia per preservare la sua fronte già ammaccata. Il paesaggio sfrecciava veloce e sembrava lasciarsi dietro le nuvole. Un timido sole illuminava a chiazze le colline verdi. Usciti dall’ultima galleria, tutto mutò: le rondini si rincorrevano come impazzite e un fiero sole l’abbagliò tanto che fu costretta a strizzare gli occhi mentre il treno rallentava la corsa. La sua fermata era ormai prossima. Si alzò e nello stesso instante lo fecero anche altri passeggeri. «Prego» la fece passare un ragazzo. «Grazie!» rispose e gli passò davanti, spinta dalla calca di gente che attendeva per scendere. «Ti sei fatta male poco fa?» le chiese lo stesso ragazzo appena misero piede sulla banchina.

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Nello stesso istante, un bambino aveva cominciato a piagnucolare e strillare impedendo a Emma di capire la domanda. «Scusa, puoi ripetere?» chiese voltandosi verso quel ragazzo. «Non ho sentito» si bloccò incrociando lo sguardo del misterioso passeggero. «Sai come arrivare al paese? Sono le cinque del pomeriggio e a quest’ora non ci sono autobus.» La fissava in attesa di una risposta, con un sorriso accennato e le mani dentro le tasche dei jeans. Emma lo riconobbe all’istante. Provò una fitta al cuore ritrovandoselo davanti. Sapeva che l’avrebbe rivisto ma non immaginava così presto. Avrebbe voluto saltargli addosso e stritolarlo in un abbraccio ma, non erano più adolescenti come la prima volta che s’incontrarono. Contenne le emozioni e decise di stare al gioco e assecondare quell’assurda conversazione. «Si possono incontrare le mucche per strada?» cominciò, guardandosi attorno preoccupata. «Beh, potrebbe capitare!» le rispose con tono serio incrociando le braccia per poi scoppiare in una risata fragorosa che non riuscì a trattenere. «Emma, bentornata!» esclamò incredulo. «Fede!» bisbigliò a fior di labbra. Lo guardò dritto negli occhi e si perse in quel verde scuro. «Forse la barba incolta ti ha confuso» allargò le braccia per accoglierla in un abbraccio. *** Per tutto il tempo del viaggio l’aveva osservata ma lei, rapita dal panorama, non gli aveva prestato attenzione.

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Guardarla, dopo la goffa botta data al finestrino, gli aveva confermato che quello che avevano vissuto anni prima era ancora vivo, come fuoco sotto la brace. Desiderava da qualche tempo chiamarla e le aveva anche scritto decine di lettere mai spedite. Era stata una continua e faticosa lotta tra il cervello e il cuore. Aveva anche provato ad amare altre donne ma nessuna odorava di lavanda; nessuna lo faceva ridere come Emma. In quell’istante, fu come se il tempo si fosse fermato o meglio, come se fosse tornato indietro, all’epoca delle musicassette. Con la mente ripercorse quei pomeriggi trascorsi a girare per le vie del paese, con i finestrini abbassati, cantando a squarcia-gola le canzoni del momento. Ora lei era di nuovo lì, in quella stazione, proprio come tanti anni prima, ma con una nuova consapevolezza, data dal peso degli anni e dalle esperienze di vita. Vedendola in tutto il suo splendore, si rese conto che la difficile decisione d’allontanarla non era stata vana. Non le avrebbe mai potuto rivelare la ragione di quella scelta, altrimenti Emma avrebbe deciso di stargli vicino e sostenerlo nel difficile cammino che lo attendeva, anziché realizzare i suoi sogni. Non avrebbe voluto farsi vedere stanco e vulnerabile. Preferiva che lei lo ricordasse com’era, seppur cocciuto. La sua vita era cambiata dalla scoperta della malattia. Trascorreva meno tempo alla tenuta e molto nelle sale d’attesa dei vari studi medici. Aveva assunto un aiutante per i lavori pesanti e quand’era costretto ad assentarsi per i vari appuntamenti. A causa di questa sua vita aveva conosciuto Sara, l’infermiera apparentemente irascibile ma dal cuore tenero. In poco tempo

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avevano instaurato un rapporto che andava oltre l’amicizia, ma che per Federico non era mutato mai in amore. Quel giorno era di ritorno da un controllo medico. Non amava viaggiare in treno, ma il dottor Stranamore, così lo chiamava Federico, gli aveva vietato di stancarsi in auto. Di malavoglia, era salito sullo stesso vagone di Emma e il viaggio gli era parso più piacevole. Mentre lei dormiva, Federico l’osservava. La sua mente si perse nei ricordi dei loro pomeriggi spensierati, addolcendo quel tragitto. Il più divertente riguardava i capelli di Emma. Lei si era affezionata a Carolina, la mucca della tenuta. Ma, un giorno, mentre le spazzolava le zampe anteriori, il povero bovino cominciò a ruminare i suoi ricci rossi come fossero fieno appena mietuto. Le grandi risate di Federico finirono non appena Emma riuscì a divincolarsi dalla presa; e lei cominciò a rincorrerlo per fargliela pagare. Le mani gli rammentarono un altro momento condiviso con Emma. Non era neanche l’alba quando la vide arrivare quella mattina dal vialetto con il volto assonnato. Aveva espresso il desiderio d’imparare a mungere una mucca e quale occasione migliore di fare tirocinio con Carolina. Nonostante il cielo fosse ancora buio, si presentò all’appuntamento e non si lamentò di nulla. Federico, da buon fattore, la fece accomodare, pose sotto le mammelle un secchio e cominciò a mostrarle i movimenti. Le sue mani su quelle di Emma e un pallido chiarore, che tinteggiava il cielo, furono la cornice del loro primo bacio. ***

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