Giustizia Tributaria n.1 2007

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direzione scientifica Claudio Consolo professore ordinario di diritto processuale civile Università di Padova Lorenzo del Federico professore ordinario di diritto tributario Università di Chieti e Pescara Francesco Tesauro professore ordinario di diritto tributario Università di Milano-Bicocca comitato scientifico Massimo Basilavecchia professore ordinario di diritto tributario Università di Teramo Silvia Cipollina professore straordinario di diritto tributario Università di Pavia Roberto Cordeiro Guerra professore straordinario di diritto tributario Università di Firenze Maria Cecilia Fregni [coordinamento] professore ordinario di diritto tributario Università di Modena e Reggio Emilia Alessandro Giovannini professore ordinario di diritto tributario Università di Siena Enrico Marello professore associato di diritto tributario Università di Trieste Sebastiano Maurizio Messina professore straordinario di diritto tributario Università di Verona Mario Nussi professore associato di diritto tributario Università di Udine Maria Cristina Pierro professore associato di diritto tributario Università dell’Insubria Francesco Pistolesi professore straordinario di diritto tributario Università di Siena Roberto Schiavolin professore ordinario di diritto tributario Università di Padova Loris Tosi professore ordinario di diritto tributario Università di Venezia Ca’ Foscari Alessandro Turchi professore associato di diritto tributario Università di Modena e Reggio Emilia Giuseppe Zizzo professore straordinario di diritto tributario Università LIUC - Castellanza comitato di redazione Christian Califano Angelo Contrino Alessandra Magliaro Alessandra Villecco [coordinamento]

Claudio Consolo Lorenzo del Federico Francesco Tesauro

www.giustiziatributaria.it


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hanno collaborato a questo numero Massimo Basilavecchia professore ordinario di diritto tributario, Università di Teramo Andrea Bodrito dottore di ricerca in diritto tributario, Università di Genova Samantha Buttus professore a contratto di diritto tributario, Università di Udine Christian Califano ricercatore di diritto tributario, Università di Chieti e Pescara Roberto Cigarini magistrato ordinario, Trib. Modena; vice presidente di sezione, Comm. trib. prov. Modena Filippo Dami dottore di ricerca in diritto tributario, Università di Siena Lorenzo del Federico professore ordinario di diritto tributario, Università di Chieti e Pescara Chiara Franzon dottore in economia e legislazione d’impresa, Università di Verona Maria Cecilia Fregni professore ordinario di diritto tributario, Università di Modena e Reggio Emilia Attilio R. Gastaldello avvocato in Verona Alessandra Magliaro ricercatrice di diritto tributario, Università di Trento Cristina Marcolongo avvocato in Siena Enrico Marello professore associato di diritto tributario, Università di Trieste Gabriele Marini dottore di ricerca in diritto tributario, Università di Chieti e Pescara Sebastiano Maurizio Messina professore straordinario di diritto tributario, Università di Verona Francesco Montanari dottorando in diritto tributario, Università di Bologna Manuela Moras dottore di ricerca in diritto tributario, Università di Roma La Sapienza Mario Nussi professore associato di diritto tributario, Università di Udine Angelo Paolo Patumi presidente Corte dei Conti, sede di Trento; presidente Comm. trib. II grado Trento Francesco Pistolesi professore straordinario di diritto tributario, Università di Siena Francesco Tesauro professore ordinario di diritto tributario, Università di Milano-Bicocca Luigi Theodossiou dottore in giurisprudenza, Università di Catania Alessandro Turchi professore associato di diritto tributario, Università di Modena e Reggio Emilia Giovanni Alduino Ventimiglia dottore di ricerca in diritto tributario, Seconda Università di Napoli stampa Press Service (Osmannoro FI) progetto grafico Avenida (Modena) casa editrice Gedit edizioni, via Irnerio 12/5, 40126 Bologna tel. 051 4218740, fax 051 4210565, mail@gedit.com Abbonamento 12 mesi € 160,00 Singolo fascicolo € 50,00 ISSN 1590-5831 I materiali per la pubblicazione vanno inviati per posta elettronica a: redazione@giustiziatributaria.it. Gli autori devono uniformarsi ai criteri redazionali che possono essere richiesti via e-mail allo stesso indirizzo oppure scaricati dal sito www.giustiziatributaria.it.


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EDITORIALE

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DOTTRINA SAGGI Gli atti impugnabili e i limiti della giurisdizione tributaria di Francesco Tesauro Note sul giudizio di appello tributario di Francesco Pistolesi

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NOTE A SENTENZA Sulla delimitazione territoriale dell’esenzione Ici per le aree agricole svantaggiate di Andrea Bodrito

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Il trust nell’ambito dell’imposizione indiretta: arresti giurisprudenziali e novella legislativa di Francesco Montanari

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Rapporti tra condono e rimborso Irap nell’ipotesi di assenza di un’autonoma organizzazione dell’attività di Giovanni Alduino Ventimiglia

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Interesse di gruppo e inerenza di Filippo Dami

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La rettificabilità della misura dei compensi agli amministratori di società da parte dell’amministrazione finanziaria di Cristina Marcolongo

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Orientamenti e disorientamenti sull’applicabilità della compensazione nel diritto tributario di Sebastiano Maurizio Messina

96

Sulla natura del reddito derivante dalla cessione dei diritti di sfruttamento di una cava di Alessandro Turchi

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Rimborso Iva a non residenti: l’art. 38-ter, D.P.R. 633/1972 e il difficile coordinamento tra VI e VIII direttiva di Gabriele Marini

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Limiti all’attività accertatrice successiva al giudicato che riconosce un rimborso di Massimo Basilavecchia

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Applicazione dell’imposta sulla pubblicità ai cartelli segnaletici installati sulle autostrade di Attilio R. Gastaldello

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GIURISPRUDENZA ACCERTAMENTO Commissione tributaria provinciale di Udine, sez. V, 3 aprile 2006, n. 16 Accertamento - Avviso di accertamento - Donazione di bene immobile dal genitore alla figlia Successiva vendita a terzi - Plusvalenza da cessione di bene immobile - Interposizione fittizia di persona - Prova per presunzioni - Fattispecie - Insufficienza delle prove fornite dall’Ufficio

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AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA Commissione tributaria provinciale di Roma, sez. LII, 12 gennaio 2007, n. 555 Amministrazione finanziaria - Agenzie fiscali - Natura giuridica - Enti pubblici - Insussistenza di potere normativo - Ripartizione competenza tra uffici del medesimo Comune - Decreti direttoriali - Rilevanza interna Iva - Regime del margine - Condizioni per l’applicazione - Acquisto veicoli provenienti da altro Stato membro - Onere della prova a carico del contribuente - Sussistenza

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ESENZIONI E AGEVOLAZIONI Commissione tributaria provinciale di Firenze, sez. XIV, 13 settembre 2006, n. 163 Esenzioni e agevolazioni - Conferimento ramo d’azienda - Continuità rapporti di lavoro tra la cedente e la cessionaria - Agevolazioni ex art. 7, L. 388/2000 - Trasferimento del credito d’imposta per incremento dell’occupazione - Configurabilità

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ICI Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. V, 21 febbraio 2006, n. 12 Ici - Esenzione terreni agricoli - Delimitazione - Vecchia zonizzazione - Nuova delibera Cipe Applicazione ad aree non indicate in precedenza - Ammissibilità nota di Andrea Bodrito

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IMPOSTA DI REGISTRO Commissione tributaria provinciale di Brescia, sez. I, 11 gennaio 2006, n. 205 Imposta di registro - Atto costitutivo di trust - Natura di atto a contenuto non patrimoniale Imposta di registro in misura fissa - Applicabilità nota di Francesco Montanari

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Commissione tributaria regionale della Lombardia, sez. XI, 23 giugno 2006, n. 56 Imposta di registro - Rimborso - Istanza del notaio - Inammissibilità Processo tributario - Capacità processuale - Rimborso dell’imposta principale di registro Legittimazione attiva del notaio nelle controversie - Esclusione

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Commissione tributaria regionale della Lombardia, sez. XX, 14 luglio 2006, n. 76 Imposta di registro - Accertamento - Condono - Mancata fruizione delle norme sul condono Estensione della proroga del termine per l’accertamento - Applicazione della proroga anche all’imposta di registro “sulla prima casa”

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Commissione tributaria II grado di Trento, sez. I, 19 settembre 2006, n. 55 Imposta di registro - Motivazione per relationem - Riproduzione del contenuto essenziale ex. art. 52 del Testo unico del registro - Contrasto con art. 7 dello Statuto del contribuente - Preminenza della norma dello Statuto

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Commissione tributaria regionale del Piemonte, sez. IV, 25 ottobre 2006, n. 32 Imposta di registro - Acquisto mediante cessione volontaria di immobili a favore della T.A.V. S.p.A. - Esenzione imposta ex art. 57 - Insussistenza

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IMPOSTE E TASSE IN GENERE Commissione tributaria provinciale di Ferrara, sez. I, 18 agosto 2006, n. 105 Imposte e tasse in genere - Fattispecie considerata esente secondo la prassi amministrativa Mutamento di orientamento dell’amministrazione finanziaria - Tutela della buona fede ai sensi dello Statuto del contribuente - Sussistenza

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IRAP Commissione tributaria provinciale di Verona, sez. I, 14 giugno 2006, n. 136 Irap - Istanza di rimborso per annualità definite tramite condono tombale - Inammissibilità Irap - Assoggettamento dei liberi professionisti all’imposta - Valutazione del caso concreto sulla base degli “elementi di organizzazione” nota di Giovanni Alduino Ventimiglia

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IRES Commissione tributaria provinciale di Treviso, sez. III, 21 giugno 2006, n. 99 Ires - Costi per operazioni intercorse con imprese di Paesi black list - Omessa indicazione separata in dichiarazione - Errore formale - Correzione - Dichiarazione integrativa - Ammissibilità Avvenuta constatazione della violazione - Irrilevanza

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Commissione tributaria provinciale di Treviso, sez. II, 5 luglio 2006, n. 77 Ires - Costi sostenuti per operazioni intercorse con imprese di Paesi black list - Omessa indicazione separata in dichiarazione - Errore formale - Correzione - Dichiarazione integrativa Ammissibilità - Inizio attività istruttoria - Irrilevanza

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Commissione tributaria provinciale di Lucca, sez. IV, 14 luglio 2006, n. 64 Ires - Reddito d’impresa - Compensi dovuti agli amministratori - Necessità di preventiva delibera o previsione di statuto - Esclusione Ires - Reddito d’impresa - Accordo tra società avente per oggetto la sottoposizione ad una direzione unitaria - Compensi degli amministratori riversati dalla controllata alle controllanti - Fattispecie - Deducibilità nota di Filippo Dami

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Commissione tributaria provinciale di Siena, sez. II, 17 luglio 2006, n. 35 Ires - Redditi d’impresa - Compensi corrisposti ad amministratori di società - Valutazione di congruità da parte dell’amministrazione finanziaria - Ammissibilità - Compensi eccessivi rispetto al normale Indeducibilità nota di Cristina Marcolongo

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IRPEF Commissione tributaria provinciale di Verona, sez. I, 22 marzo 2006, n. 62 Irpef - Credito di imposta per utili distribuiti da società - Omessa indicazione in dichiarazione Decadenza Compensazione civilistica in materia tributaria - Non è prevista dall’ordinamento

91

Commissione tributaria provinciale di Napoli, sez. 23, 10 ottobre 2006, n. 338 Compensazione civilistica in materia tributaria - Diretta ed immediata applicazione - Operatività della compensazione giudiziale nel processo tributario nota a entrambe le sentenze di Sebastiano Maurizio Messina

92

Commissione tributaria provinciale di Pordenone, sez. V, 4 maggio 2006, n. 91 Irpef - Reddito di impresa - Cessione d’azienda verso costituzione di rendita vitalizia - Plusvalenza - Insussistenza

100

Commissione tributaria regionale del Friuli Venezia Giulia, sez. I, 21 novembre 2006, n. 84 Irpef - Indennità supplementare dirigenziale - Natura reddituale - Imponibilità - Esclusione

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IRPEF E IVA Commissione tributaria regionale della Lombardia, sez. XXXVIII, 21 giugno 2006, n. 69 Irpef e Iva - Vendita di materiali inerti da estrarre da una cava - Esercizio di impresa commerciale da parte del proprietario della cava - Esclusione nota di Alessandro Turchi

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IRPEG Commissione tributaria provinciale di Firenze, sez. IX, 21 dicembre 2006, n. 159 Irpeg - Reddito di impresa - Contratti di appalto - Accordi di durata infrannuale - Valutazione delle rimanenze a costi specifici

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IVA Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. XXXVI, 27 giugno 2006, n. 80 Iva - Momento impositivo - Cessione di immobili - Pagamento di corrispettivo anteriore alla stipulazione dell’atto - Natura di acconto e non di caparra confirmatoria - Momento di effettuazione dell’operazione - Obbligo di rivalsa al versamento dell’anticipo

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Commissione tributaria provinciale di Pescara, sez. II, 30 agosto 2006, n. 89 Iva - Rimborso - Società non residente e senza stabile organizzazione in Italia - Applicazione del reverse charge - Diritto al rimborso in assenza di rappresentante fiscale - Insussistenza Contrasto dell’art. 38-ter, D.P.R. n. 633/1972 con il diritto comunitario - Esclusione nota di Gabriele Marini

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Commissione tributaria II grado di Trento, sez. I, 19 settembre 2006, n. 53 Iva - Condono - Presentazione della dichiarazione modello Unico senza compilazione del quadro Iva - Inammissibilità del condono

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PROCESSO TRIBUTARIO Commissione tributaria regionale del Piemonte, sez. IV, 1 febbraio 2006, n. 54

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Processo tributario - Impugnazione del silenzio rifiuto - Competenza territoriale della Commissione nella cui circoscrizione ha sede l’Ufficio cui è stata presentata l’istanza - Sussistenza Istanza di rimborso - Presentazione ad un Ufficio territorialmente incompetente - Inesistenza del provvedimento - Sussistenza Commissione tributaria provinciale di Vicenza, sez. II, 8 marzo 2006, n. 20 Processo tributario - Deposito di documenti e memorie - Termini ex art. 32, D.Lgs. 546/1992 Perentorietà Catasto - Classamento - Modifiche apportate all’immobile - Pregio e qualità inalterati - Rettifica di classe e di rendita - Illegittimità

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Commissione tributaria provinciale di Verona, sez. I, 3 aprile 2006, n. 51 Processo tributario - Giudicato - Rimborso da indebito - Successiva azione accertatrice Deducibilità questioni del precedente giudizio - Legittimità nota di Massimo Basilavecchia

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TRIBUTI LOCALI Commissione tributaria provinciale di Vicenza, sez. VII, 10 febbraio 2006, n. 199 Tributi locali - Ici - Avvisi di liquidazione - Termini legali di decadenza per la notifica - Regolamento comunale ex art. 59 - Efficacia dal periodo d’imposta successivo alla sua approvazione

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Commissione tributaria provinciale di Massa, sez. I, 17 febbraio 2006, n. 4 Tributi locali - Imposta comunale sulla pubblicità - Insegne sulle cabine fototessera - Applicabilità - Esclusione

147

Commissione tributaria regionale del Veneto, Verona, sez. 15, 4 luglio 2006, n. 61 Tributi locali - Imposta comunale sulla pubblicità - Cartelli segnaletici installati sulle autostrade - Idoneità a pubblicizzare il nome di un albergo - Imponibilità nota di Attilio R. Gastaldello

148

Commissione tributaria provinciale di Siena, sez. V, 21 settembre 2006, n. 61 Tributi locali - Tarsu - Avviso di accertamento - Omessa indicazione dei criteri che differenziano le tariffe - Carenza di motivazione - Sussistenza

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ATTI E INTERVENTI Consiglio di presidenza della giustizia tributaria Relazione al Ministro dell’Economia e delle Finanze sull’andamento della giustizia tributaria (1 gennaio 2005 - 31 dicembre 2005: stralcio del testo approvato nella seduta del 28 novembre 2006)

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Rimborsi Irap. Orientamenti giurisprudenziali della Commissione tributaria provinciale di Modena di Roberto Cigarini

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Il punto sulla tutela cautelare nel giudizio tributario d’appello di Angelo Paolo Patumi

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Il contratto di sponsorizzazione sottoscritto a garanzia dallo sportivo. I primi orientamenti giurisprudenziali di Alessandra Magliaro

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Indice cronologico delle sentenze

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EDITORIALE

Riprende le pubblicazioni Giustizia Tributaria, nata nel 1998 per impulso di un gruppo di giudici tributari, con l’avallo del compianto professore Angelo Bonsignori dell’Università di Bologna. Direzione, comitato scientifico e redazione sono stati completamente rinnovati. I tratti distintivi della rivista sono due: pubblica solo giurisprudenza di merito e dedica particolare attenzione al processo tributario e alle procedure in genere. La rivista intende infatti valorizzare gli orientamenti della giurisprudenza tributaria di merito, mediante la selezione e l’analisi delle sentenze delle Commissioni tributarie, che per originalità, tempestività e pregi argomentativi si prestano a fungere da ausilio interpretativo ed informativo per gli studiosi e per i pratici. La riflessione si presenta particolarmente stimolante e proficua, perché sono le sentenze di merito ad affrontare e a dare soluzione per prime alle questioni nuove. La scelta è giustificata non solo dal rilievo crescen-

te della giurisdizione tributaria, ma anche dal vasto interesse professionale che caratterizza il settore. L’obiettivo è di contribuire alla crescita della cultura e della sensibilità giuridica in campo fiscale, partendo proprio dalla giurisprudenza, in cui si riflette e si compone il confronto dialettico fiscocontribuenti. Giustizia Tributaria intende quindi aprirsi ai giudici tributari, rivolgendo altresì la propria attenzione alle varie categorie professionali interessate al processo ed alle procedure tributarie (avvocati, dottori commercialisti, consulenti del lavoro, funzionari delle Agenzie e degli enti locali, ecc.). Al presente “osservatorio” sulla giurisprudenza delle Commissioni tributarie, a cadenza trimestrale, si collega come utile integrazione il sito www.giustiziatributaria.it, che consente la lettura immediata e tempestiva non solo del materiale destinato alla rivista, ma anche di sentenze, documentazione e scritti di interesse applicativo, che non possono trovare spazio sui fascicoli cartacei. I direttori


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GLI ATTI IMPUGNABILI ED I LIMITI DELLA GIURISDIZIONE TRIBUTARIA di Francesco Tesauro 1. Carattere impugnatorio del giudizio tributario - 2. Gli atti impugnabili secondo l’art. 16 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636 - 3. Gli atti impugnabili secondo l’art. 19 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 - 4. Il riparto di giurisdizione tra giudice tributario e giudice ordinario - 5. Il riparto di giurisdizione tra giudice tributario e giudice amministrativo - 6. I pareri e i dinieghi - 7. Il diniego di annullamento e gli atti di annullamento - 8. Gli atti istruttori - 9. Gli atti doganali - 10. L’ingiunzione - 11. Atti impugnabili delle entrate non tributarie - 12. Gli atti non impugnabili autonomamente. Conclusione

1. Carattere impugnatorio del giudizio tributario 1.1. Il processo dinanzi alle Commissioni ha oggi, ed ha sempre avuto, carattere impugnatorio. Il regolamento per l’imposta di ricchezza mobile del 1877 prevedeva che il contribuente potesse reclamare alle Commissioni di prima istanza «contro l’operato dell’agente»1. Formula non diversa troviamo nel “Nuovo regolamento” del 19072. Le riforme tributarie degli anni ’30 toccano anche le Commissioni, che diventano Commissioni distrettuali, competenti anche per le imposte indirette sui trasferimenti di ricchezza3. Il ricorso alle Commissioni è sempre connotato come contestazione dell’operato dell’ufficio, con la precisazione che il ricorso è proposto entro un termine perentorio di 30 giorni “dalla notificazione del provvedimento”4. È l’art. 16 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636 che introduce un elenco di atti impugnabili. Modifiche furono introdotte nel 1981. Il sistema attuale non differisce, nella sostanza, da quello tracciato nel 1981. 1.2. La “barriera” degli atti impugnabili connota il processo tributario come processo impugnatorio. Ne seguono taluni corollari, che trovano puntuale riscontro nella giurisprudenza. L’atto introduttivo del processo è un atto di impugnazione di un provvedimento amministrativo. I poteri cogni-

1 R.D. 24 agosto 1877, n. 4024, art. 80. 2 R.D. 11 luglio 1907, art. 91. 3 R.D.L. 7 agosto 1936, n. 1639, conv.

tori e decisori del giudice sono delimitati dalla domanda, che a sua volta non può andare al di là dell’atto impugnato. Non sono ammesse azioni di mero accertamento (fatta eccezione – a seguito delle nuove norme in tema di invalidità dei provvedimenti amministrativi – per le azioni di nullità degli atti impugnabili)5. L’amministrazione finanziaria che si costituisce in giudizio non può fondare la sua difesa su titoli diversi da quelli che fondano l’atto impugnato, né può esercitare azioni riconvenzionali. 2. Gli atti impugnabili secondo l’art. 16 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636 2.1. Il problema degli atti impugnabili nasce – come accennato – con la riforma degli anni ’70. La giurisdizione delle Commissioni è ampliata, perché investe nuovi tributi (si pensi all’imposta sul valore aggiunto), il catasto e nuove funzioni: al sindacato giurisdizionale sull’accertamento amministrativo del tributo e sulla riscossione si aggiunge quello sulle sanzioni, sui rimborsi e sugli atti catastali. Gli atti impugnabili, elencati nell’art. 16 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, appartengono pertanto a cinque aree: a) accertamento; b) riscossione; c) sanzioni; d) rimborso; e) catasto. Il primo comma dell’art. 16, nella sua versione originaria, prevedeva che «il termine per proporre ricorso alla Commissione di primo grado è di sessanta giorni e decorre dalla notificazione dell’avviso di accertamento, dell’ingiunzione, del ruolo, del provvedimento che irroga le sanzioni pecuniarie». Lo schema di decreto delegato conteneva un terzo comma, che, in sostanza, autorizzava il ricorso anche in presenza di atti non autoritativi. Il terzo comma, su proposta della commissione parlamentare, fu eliminato. Fu insomma sancito l’insuccesso del tentativo di immettere l’azione di mero accertamento nel processo tributario, in aggiunta alle azioni di annullamento, e fu quindi confermata la natura esclusivamente impugnatoria del processo tributario6.

con L. 7 agosto 1936, n. 1016. 4 R.D. 8 luglio 1937, n. 1639, art. 23. 5 Cfr. TESAURO, Istituzioni di diritto tribu-

tario, vol. I, 9a ed., Torino, 2006, 369. 6 Cfr. TESAURO, Profili sistematici del processo tributario, Padova, 1980, 81-85.


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2.2. Sotto il vigore del testo originario dell’art. 16, l’indicazione degli atti impugnabili non era tassativa7. Non la considerò tassativa la giurisprudenza8, che ritenne impugnabile l’avviso di liquidazione già in base alla formulazione originaria dell’art. 169. La Corte costituzionale – cui era stata sottoposta una questione di legittimità costituzionale dell’art. 16 del D.P.R. n. 636 del 1972, in rapporto all’art. 24 Cost. – affermò, nella sentenza 3 dicembre 1985, n. 313 (sentenza interpretativa di rigetto), che l’elenco contenuto nell’art. 16 D.P.R. 26 ottobre n. 636 (sia nel testo originario, sia nel testo novellato dall’art. 7 del D.P.R. 3 novembre 1981, n. 739), non era di ostacolo a una interpretazione estensiva di tale norma. Ritenne perciò, a proposito del diniego di condono, che «la mancanza di una specifica previsione, sia pure giustificata e razionale, non può impedire all’interprete di ritenere il suddetto atto impugnabile in via giurisdizionale». Precisò la Corte che «tutti gli atti che hanno la comune finalità dell’accertamento della sussistenza e dell’entità del debito tributario siano equivalenti, qualunque sia la denominazione data ad essi dal legislatore»; e che «essi, siccome suscettibili di produrre una lesione diretta ed immediata della situazione soggettiva del contribuente, sono immediatamente impugnabili dinanzi ai giudici tributari»10. 2.3. Il testo dell’art. 16 del D.P.R. n. 636 fu sostituito dall’art. 7 del D.P.R. 3 novembre 1981, n. 739. Tra gli atti impugnabili fu incluso l’avviso di liquidazione. E venne sancito che «Gli atti diversi da quelli indicati non sono impugnabili autonomamente». Alla categoria chiusa degli atti autonomamente impugnabili fu affiancata la categoria degli atti non impugnabili autonomamente, ossia la categoria degli atti a tutela differita. Si delinea perciò una tricotomia: a) atti impugnabili autonomamente, indicati in modo tassativo; b) atti a tutela differita, non nominati; c) atti non impugnabili. È dunque la novella del 1981 che segna il passag-

7 Cfr. GIOVANNINI, Il ricorso e gli atti impugnabili, in AA.VV., Il processo tributario. Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, diretta da TESAURO, Torino, 1999 8 Come osserva Corte Cost., 6 dicembre 1985, n. 313, in Giur. It., 1986, I, 1, 1593, «L’indirizzo giurisprudenziale che riteneva meramente esemplificativa la elencazione contenuta nell’art. 16 citato e, quindi, la possibilità dell’impugnazione anche dell’avviso di mora, era del tutto preva-

gio da un sistema aperto al sistema chiuso degli atti autonomamente impugnabili; sistema chiuso affiancato, però, dalla clausola aperta degli atti non impugnabili autonomamente. La novella del 1981 introduce infatti nel sistema la categoria degli atti ad impugnazione differita. Fino al 1981, erano dunque giustificate le operazioni interpretative che miravano ad allargare il novero degli atti impugnabili, perché un atto non compreso nell’elenco non era impugnabile in assoluto. Dopo la novella del 1981, e dopo la riforma del 1992, occorre invece considerare che gli atti non compresi nell’elenco non sono sottratti al sindacato giurisdizionale, ma sono impugnabili congiuntamente all’atto autonomamente impugnabile che li segue. Se dunque, in precedenza, le interpretazioni estensive trovavano giustificazione nel fatto che la non inclusione di un atto nel novero di quelli espressamente indicati ne comportava la non impugnabilità in assoluto; dal 1981, la situazione è diversa, perché la non inclusione ne comporta la tutela in forma differita11. 3. Gli atti impugnabili secondo l’art. 19 del D.Lgs. n. 31 dicembre 1992, n. 546 3.1. Il sistema introdotto nel 1981 non muta nel 1992. L’art. 19 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, infatti, allarga il novero degli atti autonomamente impugnabili, ma conferma sia la tassatività dell’elenco degli atti “nominati”, impugnabili autonomamente, sia la dicotomia tra atti impugnabili autonomamente ed atti “innominati”, a tutela differita12. Residuano gli atti che non sono mai impugnabili, perché non lesivi. 3.2. Per stabilire quali siano gli atti impugnabili autonomamente, dobbiamo restare ancorati all’elenco dell’art. 1913. Per stabilire quali atti siano impugnabili in via differita, e quali invece non siano impugnabili in assoluto, il criterio da seguire va tratto dal diritto processuale comune, che in questo ca-

lente, costante ed uniforme». 9 Cass., 25 novembre 1980, n. 6262, in Boll. Trib., 1981, 728; Cass., 3 febbraio 1986, n. 661, ivi, 1986, 919; Cass., 19 marzo 1991, n. 2941, in Comm. Trib. Centr., 1991, II, 1075. 10 Corte Cost., 3 dicembre 1985, n. 313, in Giur. It., 1985, I, 1, 1593. 11 Cfr. MUSCARÀ, Condono e processo tributario, in Rass. Trib., 1985, I, 362. 12 Il recente intervento legislativo, con il quale nell’elenco degli atti autonomamente impugnabili sono stati in-

seriti l’iscrizione di ipoteca ed il fermo di beni mobili registrati (ex art. 86 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602) può essere visto come una conferma del carattere tassativo degli atti autonomamente impugnabili. 13 Per chi segue la teoria dichiarativa l’art. 19 è un enigma. Se ne è tentata una spiegazione ipotizzando che la ratio della norma consisterebbe nella «limitazione delle occasioni di tutela a quelle in cui sussista un grado di incertezza del diritto particolarmente


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so è costituito dal processo amministrativo. Sono quindi impugnabili solo gli atti che siano espressione della funzione amministrativa propria delle autorità fiscali e producano effetti giuridicamente pregiudizievoli14. Non sono, per contro, impugnabili né gli atti interni (come le circolari), né gli atti che siano espressione di funzione consultiva (pareri), né gli atti confermativi od esecutivi. In definitiva, se un atto è estraneo all’elenco degli atti autonomamente impugnabili, occorre verificare se è suscettibile di impugnazione, secondo i criteri generali ora indicati; se lo è, lo si considererà impugnabile in via differita, insieme con l’atto successivo. 3.3. Nell’interpretare l’art. 19, occorre, in primo luogo, tener presente che l’elenco degli atti autonomamente impugnabili è tassativo. Una enumerazione tassativa ammette letture estensive ma esclude integrazioni analogiche15. Si può dunque, ma solo in via di interpretazione estensiva, privilegiare l’ampliamento della classe degli atti impugnabili autonomamente, e restringere l’altra classe, nei casi in cui la tutela differita appaia inefficace. Le interpretazioni che allargano il novero degli atti impugnabili oltre i limiti dell’interpretazione estensiva, sconfinando nell’analogia, erano giustificate nel sistema ante-1981, quando un atto, se non nominato tra quelli impugnabili, non era impugnabile in assoluto. Non hanno invece ragion d’essere nel sistema “duale” introdotto nel 1981, che ha affianca-

qualificato» (RUSSO, Manuale di diritto tributario. Il processo tributario, Milano, 2005, 103). La tesi è stata pensata, probabilmente, avendo riguardo solo all’avviso di accertamento, come se questo atto non fosse autoritativo. Ma, anche ragionando in termini dichiarativistici, il bisogno di tutela non è tanto una questione di certezza, ma di eliminazione di effetti lesivi. Si ricorre al giudice non per rimuovere un’incertezza, ma per rimuovere gli effetti lesivi di atti che, senza il ricorso, si consolidano. La tesi è ancor più insostenibile con riguardo agli altri atti impugnabili (ruolo, provvedimenti sanzionatori, atti di diniego, atti catastali, ecc., senza trascurare il fermo amministrativo e l’ipoteca) e non offre alcun aiuto nella individuazione degli atti a tutela differita. 14 Si veda, ad esempio, GUICCIARDI, La giustizia amministrativa, Padova 1957, 191. 15 TESAURO, Lineamenti del processo tributario, Rimini, 1991, 89.

to, al numerus clausus degli atti impugnabili autonomamente, la classe aperta degli atti a tutela differita16. Una “forzatura” dell’elenco degli atti autonomamente impugnabili sarebbe concepibile, in ipotesi, solo per atti lesivi che non devono essere seguiti da atti autonomamente impugnabili. 3.4. Ogni operazione interpretativa condotta sull’art. 19 deve essere ancorata alla ratio di quella disposizione. Si tratta cioè di tener presente che il legislatore del processo tributario, nel disciplinare i modi di introduzione di un processo impugnatorio, non ha adoperato una formula generale, come quelle usate per il processo amministrativo17, e non ha lasciato all’interprete il compito di distinguere tra atti impugnabili in via immediata ed atti impugnabili in via differita18. Nel diritto tributario, quali siano gli atti da impugnare in via immediata è indicato dallo stesso legislatore; all’interprete è lasciato invece il compito di discernere, tra gli atti non nominati, quelli impugnabili e quelli non impugnabili. L’enumerazione degli atti da impugnare in via immediata ha lo scopo di limitare i casi di accesso alla tutela, vuoi per ragioni di economia processuale, via per concentrare, nel ricorso contro determinati atti, le controversie riguardanti un unico rapporto d’imposta. La tutela immediata è esclusa contro gli atti intermedi, essendo limitata agli atti finali dei procedimenti tributari di accertamento, riscossione, rimborso, ecc.19.

16 Si consideri Cass., sez. I, 25 novembre 1996, n. 10394, in Foro It., 1997, I, 483, che, a proposito del rigetto delle istanze di esonero dalla cd. minimum tax – rivolte alle commissioni provinciali previste dall’art. 11-bis, D.L. 19 settembre 1992, n. 384, conv. nella L. 14 novembre 1992, n. 438 - , ha escluso la giurisdizione del giudice amministrativo e ritenuto trattarsi di decisione impugnabile in via differita, dinanzi alle commissioni tributarie, insieme con il ricorso contro il ruolo. Non condivisibile appare perciò T.A.R. Toscana, sez. I, 26 giugno 1995, n. 352, in Foro It., 1996, III, 184, secondo cui avverso tali decisioni il contribuente potrebbe ricorrere al giudice amministrativo. È invece da condividere T.A.R. Lombardia, sez. I, 16 maggio 2002, n. 2093, che afferma la giurisdizione delle Commissioni sugli atti di diniego di disapplicazione di norme antielusive.

17 L’art. 3 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, ammette il ricorso ai T.A.R. in generale, contro «atti e provvedimenti». L’art. 26 del T.U. 26 giugno 1924, n. 1034, parla di ricorso (al Consiglio di Stato) «contro atti e provvedimenti di un’autorità amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante che abbiano per oggetto un interesse di individui o di enti morali». 18 Cfr., ad esempio, Cons. Stato, sez. IV, 26 aprile 2006, n. 2295, secondo cui l’atto amministrativo, quando non è immediatamente lesivo di un interesse legittimo, e non debba pertanto essere impugnato ex se, può rilevare nell’impugnazione di atti successivi, o come atto presupposto, o come atto pregiudiziale. Al contrario, sono immediatamente impugnabili le determinazioni amministrative che sono in grado di produrre effetti negativi costitutivi. 19 Cons. Stato, sez. IV, 26 giugno 2006, n. 3199.


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Gli atti non nominati, se sono atti lesivi, non sono da impugnare immediatamente, ma con ricorso contro gli atti successivi, rispetto ai quali l’atto non impugnabile ha valore di atto presupposto o di atto pregiudiziale20. 3.5. Gli atti impugnabili autonomamente sono indicati nominativamente; quelli a tutela differita debbono possedere i caratteri degli atti impugnabili; debbono essere, cioè, atti lesivi. Da ciò deriva de plano la non impugnabilità, in assoluto, dei c.d. avvisi bonari. La giurisprudenza ne ha sempre negata l’impugnabilità21. 4. Il riparto di giurisdizione tra giudice tributario e giudice ordinario 4.1. Il perimetro del sistema degli atti impugnabili è anche un limite della giurisdizione tributaria (limite c.d. funzionale, o interno). Si può qui notare che gli atti indicati dall’art. 19 sono impugnabili dinanzi alle Commissioni a prescindere dal tipo di situazione soggettiva su cui hanno inciso. Ciò significa che, in presenza di un atto indicato dall’art. 19, non se ne può negare l’impugnabilità sostenendo che le Commissioni tributarie possono tutelare interessi legittimi e non diritti soggettivi, o viceversa. Nessuna norma legittima simili assunti. Il sistema tracciato dall’art. 19 dimostra che il limite cd. interno della giurisdizione tributaria è dato dal sistema degli atti impugnabili, e che non ha rilevanza il tipo di situazione soggettiva lesa22. D’altro canto, l’art. 103 della Costituzione, pur attribuendo al Consiglio di Stato e agli altri organi di giustizia amministrativa (tra cui le Commissioni tributarie) la giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi, non esclude che, in determinati casi, una giurisdizione amministrativa possa essere organo di tutela giurisdizionale di diritti soggettivi23. Se le cause d’impugnazione degli atti impo-

20 Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12 maggio 2006, n. 2797 (in tema di processo amministrativo). 21 Cass., sez. trib., 15 ottobre 2004, n. 1791; Cass., sez. trib., 28 gennaio 2005, n. 1791; Cass., sez. trib., 4 febbraio 2005, n. 2302; Cass., sez. trib., 11 febbraio 2005, n. 2829. È rimasta isolata Cass., sez. trib., 6 dicembre 2004, n. 22869, che ha ritenuto impugnabile un «invito al pagamento» della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche (Tosap), considerandolo erroneamente atto impositivo.

sitivi sono cause in cui sono coinvolti interessi legittimi cd. oppositivi, le cause di rimborso sono cause di diritti soggettivi, affidate ad una giurisdizione amministrativa. 4.2. Il riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice tributario dipende dalla natura dell’atto da impugnare, non dalla problematica da affrontare. Ai sensi dell’art. 19, comma 1, lett. g, del D.Lgs. n. 546/1992, è impugnabile dinanzi alle Commissioni tributarie «il rifiuto espresso o tacito della restituzione di tributi, sanzioni pecuniarie ed interessi o altri accessori non dovuti». Ciò rende non condivisibile la giurisprudenza, secondo cui non sarebbe impugnabile dinanzi al giudice tributario il rifiuto di rimborso di una somma della quale l’amministrazione abbia riconosciuto la spettanza al contribuente24. Per completezza, va ricordato che non sono impugnabili dinanzi al giudice tributario gli atti esecutivi, poiché, a norma dell’art. 2, appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario le «controversie riguardanti gli atti dell’esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento e, ove previsto, dell’avviso di cui all’art. 50 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602». Per espressa (recente) disposizione, il fermo amministrativo dei beni mobili registrati e l’iscrizione di ipoteca sono impugnabili dinanzi alle Commissioni. 5. Il riparto di giurisdizione tra giudice tributario e giudice amministrativo 5.1. La giurisprudenza ha sempre ritenuto e ritiene che la posizione soggettiva del contribuente, di fronte agli atti concreti d’imposizione, sia una posizione di diritto soggettivo. L’origine di questa impostazione risale alla legge abolitrice del contenzioso amministrativo e trae la sua giustificazione tecnica dall’assenza di discrezionalità che caratterizza il potere impositivo. Si ritiene però che,

22 Cfr. Cass., sez. un., 24 febbraio 1987, n. 1948, in Fisco, 1987, 2450, ove il rilievo che, quando la posizione soggettiva di cui si invoca la tutela giurisdizionale è correlata alla qualità di soggetto passivo del rapporto d’imposta e si impugna un atto che inerisce ad un determinato rapporto d’imposta, «è inutile discutere, ai fini del riparto della giurisdizione, della consistenza di tale posizione rispetto all’atto in questione – se, cioè, si configuri un interesse legittimo [...] o un diritto soggettivo – giacché, una volta stabilita la natura

tributaria dell’atto medesimo e, di conseguenza, della controversia cui dà luogo la sua impugnazione, deve essere tout court affermata la giurisdizione esclusiva del giudice tributario, che – come questa Corte ha di recente precisato – è anche giurisdizione di annullamento dei provvedimenti dell’amministrazione finanziaria» (v. sent. n. 2085 del 1985). 23 Corte cost., 6 luglio 2004, n. 204, in Giur. It., 2004, 2255. 24 Cfr., per tutte, Cass., sez. un., 5 marzo 2001, n. 88, in Giur. It., 2002, 204.


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anche in materia tributaria, vi siano atti connotati da discrezionalità, a cui corrispondono posizioni di interesse legittimo, donde la competenza giurisdizionale del giudice amministrativo. In tal modo, il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario (fino a quando era giudice di merito per alcune imposte) e giudice amministrativo, in materia tributaria, appariva regolato secondo il criterio generale, per cui il giudice ordinario è giudice dei diritti soggettivi, il giudice amministrativo giudice degli interessi legittimi. In questa impostazione, le questioni relative agli atti individuali di imposizione sono considerate questioni di diritto soggettivo, per cui anche il riparto di giurisdizione tra Commissioni tributarie e giudice amministrativo sembra informato agli stessi criteri. Il giudice amministrativo considera perciò comprese nella sua giurisdizione sia le controversie d’impugnazione di regolamenti e di atti generali, sia quelle relative ad atti individuali discrezionali, in quanto questioni di interesse legittimo, mentre considera questioni di diritto soggettivo quelle relative agli atti concreti d’imposizione25. I giudici amministrativi si considerano giudici esclusivi degli interessi legittimi; le Commissioni tributarie sono assimilate ai giudici ordinari in quanto giudici di diritti soggettivi. Sembra quasi escluso che anche le Commissioni tributarie, che pure sono giudici amministrativi, possano operare a tutela di interessi legittimi. Questa impostazione, che riflette poco l’art. 103 della Costituzione, pur profondamente radicata, può essere ridiscussa e messa in crisi in base agli orientamenti recenti della giurisprudenza amministrativa in tema di definizione dell’interesse legittimo, secondo i quali, a fronte dell’attività discrezionale, la posizione soggettiva del cittadino è sempre una posizione di interesse legittimo; non sempre, invece, di fronte ad una funzione vincolata, vi è una posizione di diritto soggettivo.

25 T.A.R. Veneto, sez. II, 14 aprile 1992, n. 299, secondo cui il criterio di riparto della giurisdizione in materia di tributi comunali si fonda sulla distinzione tra procedimento di introduzione del tributo, nel quale la valutazione delle condizioni cui la legge subordina l’imposizione riveste carattere latamente discrezionale con correlativa sussistenza di posizioni di interesse legittimo, e procedimento di liquidazione e riscossione del medesimo tributo, nel quale l’attività dell’amministrazione è vincolata e sussistono posizioni di diritto soggettivo; pertanto, sussiste la giurisdizione amministrati-

Secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato, occorre distinguere tra attività vincolata nell’interesse pubblico e attività vincolata nell’interesse privato. Nel primo caso vi è un interesse legittimo, nel secondo un diritto soggettivo26. Se le norme siano dettate nell’interesse pubblico o in quello privato non è però questione risolubile in base al diritto positivo, per cui la scelta sembra affidata a motivazioni metagiuridiche. La ragione del vincolo cui è soggetta la pubblica amministrazione non è però l’unico criterio adottato dalla giurisprudenza, che – avendo quasi del tutto abbandonato sia la distinzione guicciardiana tra norme di azione e norme di relazione, sia la distinzione tra cattivo uso e carenza di potere – attribuisce rilievo alla natura del potere amministravo ed al tipo di tutela giurisdizionale. Vi sono, secondo il Consiglio di Stato, provvedimenti che, pur essendo espressione di attività vincolata (per cui non sono configurabili le tradizionali forme sintomatiche dell’eccesso di potere), hanno tuttavia carattere autoritativo, e quindi, nei loro confronti, sono configurabili situazioni di interesse legittimo, non di diritto soggettivo27. Ora, non v’è dubbio che, dinanzi al giudice tributario, si impugnano atti autoritativi, e si mira quindi ad una tutela (necessariamente) costitutiva. Il processo tributario – ha detto recentissimamente Cass., sez. un., nella sentenza 18 gennaio 2007, n. 1057, in tema di litisconsorzio necessario – «è strutturato secondo le regole proprie del processo impugnatorio di provvedimenti autoritativi» 28. 5.2. Poste queste premesse, come subito intuisce chi conosca la discussione in corso nella dottrina tributaria, il passo è breve per ravvisare nel contribuente, secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato, una situazione soggettiva di interesse legittimo, convalidando così, alla luce della giurisprudenza amministrativa recente, posizioni

va in ordine alla impugnazione dell’atto istitutivo del tributo o modificativo delle relative aliquote. 26 Cons. Stato, sez. IV, 8 luglio 2003, n. 4041; Cons. Stato, sez. IV, 6 ottobre 2003, n. 5855; Cons. Stato, sez. IV, 7 giugno 2004, n. 3585. 27 Cons. Stato, sez. IV, 7 ottobre 1993, n. 850, secondo cui il carattere vincolato di un potere conferito all’amministrazione è del tutto inidoneo a qualificare la corrispondente posizione soggettiva del privato in termini di diritto soggettivo, dovendosi per contro ritenere che, ove l’attività abbia natura provvedimentale

in senso tecnico e sia espressione di un potere pubblicistico, la posizione del privato ha consistenza di interesse legittimo. 28 È da considerare inoltre il saggio di BASILAVECCHIA, Funzione impositiva e situazioni soggettive, in AA.VV., Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli, 2006, 185 ss., che esamina gli orientamenti recenti della Corte costituzionale e della Cassazione, da cui emerge «una sostanziale omogeneità ricostruttiva tra le tecniche di tutela proprie del processo tributario e del processo amministrativo» (ivi, 198).


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dottrinali ben note29. Mi riferisco, come è ovvio, alla dottrina di Allorio (che considera il contribuente titolare d’un interesse legittimo di fronte all’attività d’imposizione, e costruisce il processo tributario come processo costitutivo, avente per oggetto – secondo lo schema chiovendiano – un diritto potestativo, e, come esito, in caso di accoglimento, l’annullamento o la riforma del provvedimento impositivo). Se dunque, di fronte all’emanazione di atti normativi o di atti generali, il contribuente è in posizione di interesse legittimo, non diversa è la sua posizione di fronte agli atti concreti d’imposizione, che sono impugnati dinanzi al giudice tributario. Ne deriva che il riparto di giurisdizione tra giudice tributario e giudice amministrativo non è fondato né sulla causa petendi né sul petitum (trattandosi, in entrambi i casi, di tutela di un interesse legittimo, con giurisdizione d’annullamento), ma sul tipo di atto impugnabile. 5.3. La competenza giurisdizionale del giudice amministrativo in ordine alle impugnazione di regolamenti ed atti generali con oggetto tributario non è prevista da una norma espressa, ma deriva dalla generale competenza del giudice amministrativo sulla impugnazione di atti e provvedimenti amministrativi30. Ciò è sempre stato pacifico. Di recente la Cassazione, con sentenza delle sezioni unite del 20 settembre 2006, n. 20318, ha confermato che i ricorsi contro regolamenti e atti generali appartengono alla giurisdizione del amministrativo. È stata respinta la tesi secondo cui l’ampliamento della giurisdizione tributaria, disposta dall’art. 12, comma 2, della legge 28 dicembre 2001, n. 448, in modo da farvi rientrare «tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie» («comunque denominati», come ha specificato – superfluamente – l’art. 3-bis, comma 1, del D.L. n. 203/2005, aggiunto dalla legge di conversione n. 248/2005), comporterebbe l’impugnabilità dinanzi al giudice tributario, ratione materiae, di tutti gli

29 Gli atti autoritativi postulano una tutela di tipo costitutivo; ciò comporta che il cittadino si trovi in posizione di interesse legittimo; pertanto, ogni contestazione deve essere proposta dall’interessato nel termine decadenziale decorrente dall’atto lesivo (Cons. Stato, sez. V, 3 ottobre 2003, n. 5744; Cons. Stato, sez. VI, 7 agosto 2002, n. 4135). 30 Cfr. Corte cost., 23 maggio 1985, n. 159, in Foro It., 1985, I, 1577.

atti ed i provvedimenti, anche di carattere generale, che abbiano comunque contenuto tributario. È confermato che le Commissioni tributarie possono annullare gli atti amministrativi individuali, ma non sono dotate del potere di annullare regolamenti e atti amministrativi generali31. 5.4. Il riparto di giurisdizione tra giudice tributario e giudice amministrativo, come detto, non è fondato sulla natura della situazione soggettiva di cui si chiede tutela, ma sul tipo di atto impugnabile. È, questo, un dato di diritto positivo, che si trae dall’art. 19 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546. Come già notato, l’art. 19 non si limita ad indicare un numero chiuso di atti autonomamente impugnabili, ma ammette l’impugnazione di qualsiasi atto lesivo, che sia seguito da un atto impugnabile. Residuano gli atti che non sono mai impugnabili, perché non lesivi; o non sono impugnabili dinanzi alle Commissioni, perché sono estranei al sistema dell’art. 19. La giurisdizione del giudice amministrativo può essere affermata solo con riguardo ad atti estranei al sistema dell’art. 19. Ossia ad atti che non sono autonomamente impugnabili, né sono inseriti in una sequenza che ha come esito un atto impugnabile. 5.5. Va pertanto affermata la giurisdizione del giudice amministrativo sul diniego di sospensione amministrativa della riscossione. Anche il Consiglio di Stato afferma al riguardo la giurisdizione amministrava, fondandola però sulla natura discrezionale del diniego di sospensione32. In realtà, la giurisdizione del giudice amministrativo deriva dall’estraneità di questo atto al sistema dell’art. 19. Per la stessa ragione, appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo l’impugnazione dei provvedimenti in tema di domicilio fiscale di cui all’art. 59 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 60033. 6. I pareri e i dinieghi 6.1. È pacifico, nel processo amministrativo, che i pareri delle pubbliche amministrazioni, anche se

31 Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 15-2001, n. 732, in Foro Amm., 2001, 303, secondo cui, al di fuori dell’area riservata al giudice tributario speciale, riprendono vigore i criteri generali di riparto della giurisdizione tra giudici ordinari e giudici amministrativi, per cui spettano a questi ultimi le controversie inerenti ad interessi legittimi che non siano devolute alla giurisdizione del giudice d’imposta, ed, in particolare, le controversie aventi ad ogget-

to l’impugnazione di atti normativi (regolamenti) e di atti amministrativi generali in senso stretto. 32 Cons. Stato, sez. IV, 19 aprile 2005, n. 6269; Cons. Stato, sez. IV, 11 ottobre 2005, n. 5592, Cons. Stato, sez. IV, 26 aprile 2006, n. 2334. 33 T.A.R. Lombardia, sez. Milano, 4 febbraio 1981, n. 109, in Dir. e Prat. Trib., 1981, II, 246.


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vincolanti, non sono impugnabili. Analogamente, non sono impugnabili (dinanzi al giudice tributario) i pareri resi in risposta ad un interpello tributario (ordinario o speciale), tra cui il parere in materia elusiva reso dal “Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive” e i pareri resi dall’amministrazione in risposta all’interpello previsto dallo Statuto. 6.2. Ma va notato come le molteplici procedure di interpello mettano capo, in alcun casi, ad atti che possiamo definire di tipo autorizzatorio (senza che ciò implichi il riconoscimento di poteri di tipo discrezionale). Ora, mentre per i pareri va affermata la non impugnabilità, per i dinieghi di autorizzazione – trattandosi di provvedimenti, non compresi tra gli atti autonomamente impugnabili – va affermata l’impugnabilità in via differita. Mi riferisco, ad esempio: – al diniego reso in risposta all’ interpello cd. disapplicativo, che si propone al direttore regionale dell’Agenzia delle Entrate, al fine di ottenere un provvedimento che autorizzi la disapplicazione di norme antielusive34; – al diniego opposto alla richiesta di disapplicazione della norma in tema di indeducibilità dei costi connessi a rapporti con paradisi fiscali35; – al diniego di disapplicazione della disciplina delle “imprese estere controllate”36; – alla risposta negativa data all’interpello relativo alla sussistenza delle condizioni per l’esercizio dell’opzione per il consolidato mondiale37. 6.3. Gli unici dinieghi impugnabili in via autonoma sono quelli indicati espressamente dall’art. 19. Gli altri dinieghi sono impugnabili in via differita. Non ha quindi ragion d’essere l’equiparazione, ai fini della impugnabilità immediata, dei dinieghi di autorizzazione non indicati nell’art. 19 a quelli espressamente indicati38. D’altro canto, l’impugnazione immediata non è una via attraverso cui possa essere soddisfatto il bisogno di tutela del contribuente, perché neppure l’impugnazione immediata permette di conseguire una risposta definitiva in tempo utile (cioè una deci-

34 D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis, comma 8. 35 T.U.I.R., art. 110, commi 10 e 11. 36 T.U.I.R., art. 167, comma 5. 37 T.U.I.R., art. 132, commi 3 e 4. 38 RUSSO, Manuale, cit., 100, equipara, per affermarne l’impugnabilità immediata, i dinieghi di applicazione

sione passata in giudicato prima della presentazione della dichiarazione dei redditi, relativa al periodo d’imposta cui si riferisce l’interpello). 6.4. È impugnabile in via autonoma il diniego tacito di rimborso. Non sono previste altre ipotesi di ricorso contro l’inerzia (dinieghi impliciti). Ecco perché la giurisprudenza ha affermato la non impugnabilità in via autonoma di un diniego implicito di condono, in base alla considerazione che, a differenza di quanto previsto per il rifiuto di restituzione, che può essere sia espresso sia tacito, il diniego della definizione agevolata è impugnabile solo se è esplicito, non essendo prevista l’impugnazione di un provvedimento implicito39. 7. Il diniego di annullamento e gli atti di annullamento 7.1. Il diniego di autotutela si pone, di solito, come atto di conferma di un atto precedente. La giurisdizione non può essere diversa. La giurisdizione sull’impugnazione del diniego di autotutela è la stessa dell’impugnazione dell’atto di cui, con l’istanza di autotutela, è stata chiesta la rimozione. Va perciò affermata la giurisdizione del giudice tributario, non quella del giudice amministrativo, sul diniego di autotutela (ossia sul diniego di annullamento di atti impugnabili dinanzi al giudice tributario). Non è dunque accettabile l’orientamento seguito da una nota, elaborata sentenza del T.A.R. Toscana40 e dal Consiglio di Stato41, che, ravvisando nella istanza di autotutela l’esercizio di un interesse legittimo cd. pretensivo, ha per ciò ritenuto giurisdizionalmente competente in materia il giudice amministrativo. Individuata la giurisdizione, è problema distinto se il diniego di autotutela possa essere fondatamente impugnato. 7.2. Il potere impositivo è un potere vincolato; è invece discrezionale il potere di autotutela (inteso come potere di annullamento di atti illegittimi). Nel diritto amministrativo, è impugnabile l’atto di autotutela (cioè la revoca o l’annullamento di un precedente provvedimento), «allo scopo di far rico-

di particolari regimi impositivi ai dinieghi di agevolazioni. 39 Cass., sez. trib., 1 ottobre 2004, n. 19665, in applicazione di tale principio, non ha ritenuto autonomamente impugnabile l’invito, rivolto al contribuente, a presentarsi - presso il funzionario responsabile del procedimento -

per la formazione di un accertamento con adesione. L’invito era stato impugnato assumendo che contenesse un diniego implicito di condono. 40 T.A.R. Toscana, sez. I, 22 ottobre 1999, n. 767, in Foro It., 2001, III, 27. 41 Cons. Stato, sez. IV, 9 novembre 2005, n. 6269, in Boll. Trib., 2005, 1829.


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noscere la validità dell’atto che era stato annullato», ma non il diniego di annullamento. In particolare, «l’annullamento, sebbene non possa essere validamente pronunziato se non rispetto ad atti illegittimi, non è atto vincolato e obbligatorio»42. Anche con riguardo al diniego di autotutela (nel senso di annullamento di atti impositivi) in materia tributaria è stato detto che il potere degli uffici dell’amministrazione finanziaria di procedere all’annullamento (totale o parziale) dei propri atti riconosciuti illegittimi o privi di fondamento «costituisce una facoltà discrezionale il cui mancato esercizio non può essere sindacato nel giudizio di impugnazione dell’atto»43. Se revoca e annullamento di un precedente provvedimento non sono atti obbligatori, il ricorso contro il diniego di autotutela non potrebbe essere fondatamente motivato allegando la violazione di una norma di legge44. Inoltre, la ragione della non impugnabilità deriva anche dal fatto che il diniego di annullamento equivale a conferma del precedente provvedimento. E, per regola generale, gli atti di conferma non sono impugnabili (al pari degli atti di esecuzione). L’impugnabilità può essere ipotizzata solo con riguardo a casi in cui la risposta alla domanda di autotutela non costituisca mera conferma, perché la domanda adduce vizi sopravvenuti, e la risposta sia o debba essere il frutto di una nuova istruttoria45. 7.3. Va inquadrato come atto di autotutela (a favore dell’amministrazione), e non come diniego o revoca di agevolazioni, il provvedimento di revoca dell’accertamento con adesione, che è dunque impu-

42 ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, vol. I, 8a ed., Milano, 1958, 319. 43 Cass., sez. trib., 4 febbraio 2005, n. 2305. Nello stesso senso, Cass., sez. trib., 9 ottobre 2000, n. 13412, in Riv. Dir. Trib., 2001, II, 464; Cass., sez. trib., 5 febbraio 2002, n. 1547, in Finanza loc., 2002, 1369. 44 Cass., sez. trib., 1 dicembre 2004, n. 22564, ha ritenuto inammissibile il ricorso proposto contro il provvedimento di parziale rettifica di un rimborso, adottato in via di autotutela. 45 LOVISOLO, Osservazioni sull’ampliamento delle giurisdizione e sui poteri istruttori del giudice tributario, in Dir. e Prat. Trib., 2006, I, 1073, ipotizza che l’amministrazione finanziaria, in sede di autotutela, emetta un nuovo accertamento, sostitutivo del precedente. Si veda Cass., sez. trib., 20 febbraio

gnabile, perché l’impugnazione mira a far rivivere l’atto impugnato: non è atto compreso nell’art. 19, per cui è impugnabile in via differita, congiuntamente all’avviso di accertamento che lo segue46. 8. Gli atti istruttori 8.1. In tema di atti istruttori, è necessario distinguere tra processi verbali ed ordini (istruttori). Gli uni hanno valore solo probatorio, e, quindi, non sono (mai) impugnabili47; per gli altri si impone una ulteriore distinzione tra atti che hanno come destinatario il contribuente ed atti che hanno come destinatari i terzi. Gli atti che hanno come destinatari il contribuente non sono impugnabili autonomamente, ma insieme con l’atto successivo impugnabile autonomamente. Tali atti (come, ad esempio, un ordine di rinnovo della verifica) sono atti intermedi del procedimento impositivo. Non sono compresi nell’elenco degli atti autonomamente impugnabili dell’art. 19, difettano di concreta lesività, per cui la relativa contestazione deve essere differita al momento dell’impugnazione – per illegittimità derivata – del provvedimento finale48. Invece gli atti rivolti a terzi non hanno valenza tributaria: sono estranei al sistema dell’art. 19; i terzi possono chiedere tutela al giudice amministrativo o al giudice ordinario, a seconda della natura della situazione soggettiva di cui si lamenti la lesione. 9. Gli atti doganali 9.1. L’art. 12, comma 2, della legge 28 dicembre 2001, n. 448, modificando la tassativa elencazione dell’art. 2, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, ha generalizzato la giurisdizione delle Commissioni.

2006, n. 3608, la cui massima recita: «In materia tributaria, l’istanza del contribuente di adozione, da parte dell’amministrazione finanziaria, di un provvedimento di autotutela sulla base di eventi sopravvenuti - vale a dire di leggi successive - all’atto impositivo (nella specie, il condono e la modifica del sistema sanzionatorio) è cosa diversa dalla domanda di annullamento dell’atto stesso per suoi vizi originari; da ciò consegue che il ricorso proposto al giudice tributario avverso il diniego (parziale, nella specie) di autotutela non si risolve in una (inammissibile) impugnazione di atti impositivi in ordine ai quali siano già decorsi i termini per esperire la tutela giurisdizionale». 46 Lo ha invece considerato immediatamente impugnabile Cass., sez. un.,

26 marzo 1999, n. 185, in Fisco, 1999, 8078, perché ricompreso, con interpretazione estensiva, nella nozione di avviso di accertamento. 47 Cfr. Cass., sez. I, 28 aprile 1998, n. 4312, in Giur. it., 1998, 2428, secondo cui il processo verbale di constatazione non è direttamente impugnabile, perché atto endoprocedimentale il cui contenuto e le cui finalità consistono nel reperimento e nell’acquisizione degli elementi utili ai fini dell’accertamento. Vedi inoltre: Cass., sez. trib., 30 ottobre 2002, n. 15305, in Fisco, 1, 2003, 3669; Cass., sez. trib., 20 gennaio 2004, n. 787, in Dir. Prat. Trib., 2004, 2, 836; Commiss. trib. centrale, 7 giugno 2001, n. 4347, in Fisco, 2001, 10662. 48 Cons. Stato, sez. IV, 26 maggio 2006, n. 3199.


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Ciò ha fatto sorgere il problema dell’innesco del processo per tributi come le accise e i diritti doganali, le cui controversie appartenevano in precedenza alla giurisdizione del giudice ordinario49. Se l’elenco dell’art. 19 era adeguato alla struttura attuativa dei tributi appartenenti in precedenza alla giurisdizione delle Commissioni, ciò non può dirsi per i nuovi tributi, «alcuni dei quali presentano marcate diversità di disciplina sia quanto alla denominazione e alla struttura degli atti del procedimento sia quanto alla proposizione dell’azione giudiziaria: si pensi, ad esempio, all’imposizione doganale, per la quale sono previsti speciali procedimenti ed atti relativi alla quantificazione e qualificazione delle merci oggetto delle operazioni imponibili, alla liquidazione e riscossione del tributo, quale l’ingiunzione doganale (a seguito della definitiva abrogazione dell’art. 11 del D.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43, che prevedeva il procedimento di riscossione coattiva a mezzo ruoli)»50. 9.2. Si è ritenuto – nella circ. delle dogane 17 giugno 2002, n. 41 – che l’attribuzione della giurisdizione, in materia tributaria-doganale, alle Commissioni tributarie ha determinato l’eliminazione dei ricorsi gerarchici, ma non l’eliminazione dei procedimenti amministrativi per la risoluzione delle controversie doganali, previsti dagli artt. 65 ss. del Testo Unico doganale (D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43), considerati «procedure di natura prevalentemente fattuale e tecnica che rientrano, come sub-procedimenti, nell’ambito dell’attività amministrativa di accertamento». Perciò, «l’onere di impugnare l’accertamento avanti la competente Commissione tributaria provinciale sorge soltanto al termine del procedimento amministrativo previsto dal T.U.L.D., vale a dire a seguito della notifica della determinazione che definisce l’accertamento medesimo». A norma dell’art. 9, comma 1, del D.Lgs. 8 novembre 1990, n. 374, qualora il dichiarante o il suo rappresentante non contesti le difformità riscontrate nella fase di controllo della dichiarazione mediante instaurazione della controversia doganale, l’ufficio appone sulla bolletta apposita annotazione e liquida i diritti doganali (rettificando l’ammontare indicato

49 Il T.A.R. Emilia-Romagna, sez. I, 18 febbraio 2003, n. 119, in Fisco, 1, 2003, 3683, in materia di accise, ha affermato «la piena riconducibilità degli atti impugnati (avviso di pagamento, rigetto istanza di abbuono e decisione recettiva del ricorso gerarchico) alle tipologie degli atti opponibili dinanzi al giudice tributario,

dal dichiarante). In base al secondo comma del suddetto articolo 9, la data dell’annotazione costituisce la data in cui l’accertamento diviene definitivo; da quel momento decorre il termine di 60 giorni per proporre ricorso alla Commissione tributaria. Inoltre, si è ritenuto – nella circolare citata – impugnabile dinanzi alle Commissioni tributarie l’avviso di rettifica dell’accertamento di cui all’art. 11, comma 5, del D.Lgs. n. 374 del 1990 e l’avviso di accertamento suppletivo e di rettifica51. Osserva la circolare che questi atti impositivi, – a norma dell’articolo 244 del reg. (CEE) n. 2913/92, istitutivo del codice doganale comunitario – sono immediatamente esecutivi nei confronti del contribuente e autonomamente impugnabili davanti alle Commissioni tributarie. 10. L’ingiunzione 10.1. Il D.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43, attuativo della legge di delega 4 ottobre 1986, n. 657, riformò la riscossione dei tributi, affidando ai concessionari la riscossione coattiva di tutte le imposte erariali (in precedenza, invece, gli esattori riscuotevano in base a ruoli solo le imposte dirette). Il ruolo è divenuto così titolo esecutivo sia delle imposte sui redditi, sia delle imposte indirette; l’ingiunzione ha cessato di essere titolo esecutivo. È sorto quindi il problema della sopravvivenza della ingiunzione come atto impositivo. Prima di tale riforma, secondo giurisprudenza consolidata, l’ingiunzione fiscale era definita atto formale di accertamento della pretesa d’imposta e, al contempo, ordine di pagamento della somma in essa indicata52; si affermava che l’ingiunzione fiscale cumulava in sé la duplice natura e funzione di titolo esecutivo (unilateralmente formato dalla p.a. nell’esercizio del suo peculiare potere di autoaccertamento e autotutela) e di atto prodromico all’inizio dell’esecuzione coattiva, equipollente al precetto53. 10.2. Sulla portata abrogatrice dell’art. 130 del D.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43, si sono formati due orientamenti giurisprudenziali. Si è ritenuto che l’ingiunzione sia stata espunta del tutto dall’ordinamento54. L’opposto (più recente) indirizzo

fermo restando l’ambito della giurisdizione amministrativa che continua ad essere limitato, ex art. 7, D.Lgs. n. 546/1992, ai regolamenti ed atti generali presupposti». 50 CANTILLO, Aspetti problematici dell’istituzione della giurisdizione generale, in Rassegna tributaria, 2002, 803. 51 Su cui si veda la circolare 19 aprile

2000, n. 79/D. 52 Cass., 8 settembre 1983, n. 5529, in Riv. Leg. Fiscale, 1983, 2033. 53 Cass. 3 aprile 1997, n. 2894, in Mass. Giur. It., 1997. 54 Cfr. Cass., sez. I, 23 giugno 1998, n. 6242, in Boll. Trib., 1999, 158; Cass., sez. I, 23 ottobre 1998, n. 10542, in Giust. civ., 1999, I, 1043.


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distingue tra funzione esecutiva e funzione impositiva (o accertativa) e ritiene che l’ingiunzione fiscale sia sopravvissuta, come atto d’imposizione, all’abrogazione delle norme che regolavano la riscossione coattiva delle imposte indirette55. L’ingiunzione esiste dunque tuttora come atto di accertamento delle imposte indirette erariali. Non è menzionata nell’art. 19 ma la Cassazione ne ammette l’impugnabilità autonoma, in ragione della sua natura impositiva. Inoltre, l’art. 52, comma 6, del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, consente a Province e Comuni di riscuotere i tributi (e altre entrate) sia a mezzo di concessionari sia «in proprio», in tale ultima evenienza richiamando la procedura indicata dal R.D. 14 aprile 1910, n. 639; perciò, secondo la giurisprudenza56, l’ ingiunzione emessa dal comune per la riscossione di una somma di danaro a titolo di tributo evaso (in relazione all’abusiva occupazione di un tratto di suolo pubblico) si atteggia univocamente come atto impositivo, e la giurisdizione sulla relativa controversia spetta alle Commissioni tributarie. In sostanza, la giurisprudenza interpreta l’impugnabilità dell’avviso di accertamento, menzionato nell’art. 19, come impugnabilità di qualsiasi atto di accertamento, a prescindere dalla sua denominazione57. 11. Atti impugnabili delle entrate non tributarie 11.1. L’art. 3-bis, comma 1, lett. b, del D.L. 30 settembre 2005, n. 203, convertito con L. 2 dicembre 2005, n. 248, ha modificato l’art. 2, comma 2, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, affidando alle Commissioni anche le controversie relative ad alcuni canoni di natura privatistica. Si tratta del canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche58, del canone per lo scarico delle acque reflue e per lo smaltimento dei rifiuti urbani 59 e del canone sulla pubblicità. L’attribuzione di queste controversie al giudice tributario pone problemi di legittimità costituzio-

55 Cfr. Cass., sez. trib., 9 maggio 2000, n. 5906, in Riv. Giur. Trib., 2002, 872; 2 settembre 2002, n. 12761, in Giur. It., 2003, 1044; Cass., sez. trib., 11 luglio 2003, n. 10923, in Mass. Giur. It., 2003; Cass., sez. trib., 10 novembre 2006, 24079. 56 Cass., sez. un., 21 gennaio 2005, n. 1240, in Dir. e Prat. Trib., 2005, 2, 1282. 57 Vi è anche una sentenza che ammette l’impugnabilità dell’ingiunzione perché la equipara alla cartella di paga-

nale, che la Cassazione – nella sentenza del 2 febbraio 2006 n. 4895 in tema di giurisdizione sulle liti in materia di tariffa di igiene ambientale (Tia)60 – ha risolto ritenendo che l’ampliamento della giurisdizione delle Commissioni si sottrarrebbe al sospetto di illegittimità costituzionale – sotto il profilo della violazione dell’art. 102 e della VI disp. trans. Cost. - perché «i canoni indicati nella disposizione sopravvenuta [...] attengono tutti ad entrate che in precedenza rivestivano indiscussa natura tributaria». Con l’ordinanza 10 febbraio 2006, n. 2888 (in tema di sanzioni amministrative per lavoro irregolare), le sezioni unite hanno ribadito che l’espansione della giurisdizione tributaria oltre i confini tracciati dalla legge in vigore non incontrerebbe precisi limiti costituzionali, fatto salvo il più generale criterio della ragionevolezza, che non si opporrebbe all’attribuzione, alla cognizione delle Commissioni tributarie, di materie estranee alle imposte e ai tributi ma commesse «per ragioni di connessione in senso ampio». 11.2. I canoni e le tariffe vengono richiesti all’utente con bolletta o fattura a opera dell’ente locale o del gestore del servizio, ossia con atti di natura privatistica, che non sono impugnabili. Per le entrate patrimoniali, la carenza di tutela giurisdizionale per atti diversi da quelli indicati nell’art. 19, in quanto non lesivi, comporta che la tutela del privato si realizzi impugnando il primo atto successivo autonomamente impugnabile (ingiunzione fiscale o ruolo). È stato notato che il sistema sembra affetto da una lacuna difficilmente emendabile per via di interpretazione nel caso di affidamento del servizio a un gestore “industriale” (art. 113, D.Lgs. n. 267/2000), al quale non è sempre possibile avvalersi dell’ingiunzione o del ruolo (per esempio tale facoltà non è prevista per il gestore del servizio di fognatura e depurazione)61.

mento. Cfr. Cass., sez. un., 25 maggio 2005, n. 10958, in Riv. Dir. Trib., 2005, II, 471, con nota di RANDAZZO, In tema di giurisdizione nelle controversie su ingiunzione fiscale. 58 Cass., sez. un., 7 marzo 2002, n. 8231, in Mass. Giur. it., 2002, 982.; Cass., sez. un., 7 marzo 2002, n. 8231. 59 La giurisprudenza delle sezioni unite è costante nell’attribuire al canone di fognatura e depurazione delle acque reflue la natura di tributo comunale sino al 3 ottobre 2000, e, a

partire da tale data, di corrispettivo del servizio idrico. 60 In Riv. Dir. Trib., 2006, II, 352 ss., con nota di RUSSO, L’individuazione del giudice fornito di giurisdizione in materia di controversie concernenti la tariffa di igiene ambientale. 61 RAGUCCI, La giurisdizione tributaria in materia di canoni, tariffe, imposte e diritti locali, alla luce del riformato art. 2 del D.Lgs. n. 546/1992, in Finanza loc., 2007, fasc. 1.


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12. Gli atti non impugnabili autonomamente. Conclusione 12.1. Un punto da ribadire è che il sistema di tutela appare compiuto, perché il numero chiuso degli atti impugnabili autonomamente è integrato dalla impugnabilità differita di ogni altro atto lesivo. Se dunque un atto non è compreso tra quelli impugnabili autonomamente, la sua impugnabilità in via differita priva di ragione sia le tesi che cercano di sostenerne l’impugnabilità immediata assimilandolo ad un atto impugnabile in via autonoma, sia le tesi che ne prospettano l’impugnabilità dinanzi al giudice amministrativo. Ad esempio, il diniego di disapplicazione di una norma antielusiva è da considerare impugnabile dinanzi alle Commissioni in via differita. Il contribuente può adeguarsi interinalmente al diniego in sede di dichiarazione; ma può, poi, presentare istanza di rimborso e impugnare, congiuntamente, il diniego di disapplicazione ed il diniego di rimborso. In alternativa, può disattendere il diniego di disapplicazione ed impugnare, in caso di rettifica, l’atto impositivo insieme con il diniego di disapplicazione. L’impugnazione immediata del diniego di disapplicazione non sarebbe una forma di tutela molto più utile, perché il contribuente non otterrebbe comunque un responso definitivo in tempo utile, ossia prima della presentazione della dichiarazione. 12.2. Nella sentenza delle sezioni unite 10 agosto 2005 n. 16776, n. 16776, in tema di giurisdizione sul diniego di autotutela62, la Cassazione ha osservato, incidenter tantum, che l’estensione della giurisdizione tributaria a materie originariamente escluse – e segnatamente a entrate destinate a trovare attuazione al di fuori degli schemi tipici

62 Sentenza in tema di giurisdizione, non di impugnabilità del diniego di autotutela. La Cassazione non ha stabilito se il diniego di autotutela sia impugnabile o no, ma a chi spetta decidere se sia impugnabile o no.

dell’imposizione – avrebbe comportato il superamento della tassatività dell’elenco degli atti impugnabili avanti alle Commissioni, ben potendo tale carattere venire riconosciuto anche ad atti che, come il diniego di autotutela, siano finalizzati a scopi e dotati di effetti diversi da quelli degli atti espressamente indicati. Si legge in quella sentenza che «l’avere consentito l’accesso al contenzioso tributario in ogni controversia avente a oggetto tributi, comporta [...] la possibilità per il contribuente di rivolgersi al giudice tributario ogni qual volta l’amministrazione manifesti (anche attraverso la procedura del silenzio-rigetto) la convinzione che il rapporto tributario (o relativo a sanzioni tributarie) debba essere regolato in termini che il contribuente ritenga di contestare”»63. La tesi è condivisibile, se riferita ad atti lesivi, suscettibili di impugnazione differita. Si deve altresì ammettere che, a seguito dell’ampliamento della giurisdizione delle Commissioni tributarie, «la stretta tipicità degli atti impugnabili [...], va adeguata al nuovo assetto della giurisdizione tributaria generale, con riferimento alla varietà dei nuovi tributi e all’evoluzione dei diritti del contribuente, sempre, però, nell’alveo di rapporti tributari concreti»64. Ma non va trascurato che permane immutato il sistema tracciato dall’art. 19, per cui vanno conclusivamente riaffermati, pur in presenza dell’allargamento della giurisdizione tributaria, i tratti essenziali del sistema, vale a dire: il carattere impugnatorio del processo tributario; la tassatività degli atti impugnabili in via autonoma; l’impugnabilità in via differita degli atti non nominati, e, quindi, la completezza del sistema di tutela prefigurato dall’art. 19, nei confronti di tutti gli atti tributari potenzialmente lesivi.

Cfr. ROSSI, L’impugnabilità del rifiuto di autotutela: sezioni unite, sentenza del 10 agosto 2005, n. 16776, in Fisco, 2005, n. 43, 1-6700. 63 Cfr. la valutazione critica di MUSCARÀ, La giurisdizione (quasi) esclusi-

va delle Commissioni tributarie nella ricostruzione sistematica delle ezioni unite della Cassazione, in Riv. Dir. Trib., 2006, II, 36. 64 Cass., sez un., 20 settembre 2006, n. 20318.


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NOTE SUL GIUDIZIO DI APPELLO TRIBUTARIO di Francesco Pistolesi 1. Premessa - 2. Dal regime previgente all’odierno assetto dell’appello tributario - 3. Il divieto dello ius novorum - 4. La rimessione alla Commissione tributaria provinciale - 5. I motivi di appello - 6. Conclusioni sulla natura del processo di appello tributario.

1. Premessa L’appello, tradizionalmente ed idealmente, si caratterizza come un mezzo di impugnazione cd. “rinnovatorio”, ossia quale gravame “a critica libera”, diretto a consentire il pieno riesame della lite decisa in primo grado, quasi come se si trattasse di una naturale prosecuzione della pregressa fase (assicurando così la realizzazione, almeno in via tendenziale, del principio del doppio grado di giurisdizione). In tale contesto, al giudice dell’appello sono attribuiti gli stessi poteri di cognizione e di decisione riconosciuti a quello che l’ha preceduto, tant’è che la sentenza resa in esito al processo di gravame riveste valenza sostitutiva di quella impugnata. Il modello appena delineato rappresenta, tuttavia, una sorta di dato ideale o astratto, in quanto nel vigente ordinamento normativo la disciplina dell’appello vi si discosta ed assume alcuni connotati che sarebbero propri dei cd. “giudizi di impugnativa”. Difatti, mentre nel gravame cd. “rinnovatorio” si dovrebbe assistere alla meccanica ed incondizionata trasposizione dell’ambito cognitorio nella fase di appello, il sistema attuale (così nel processo tributario, come in quello civile o amministrativo), seppur caratterizzato dal cd. “effetto devolutivo” (in base al quale è rimessa all’esame del giudice di seconda istanza la controversia sottoposta al vaglio del giudice di primo grado), ha introdotto dei penetranti temperamenti all’automatica riemersione in sede di gravame dell’intera materia del contendere introdotta dinanzi al primo giudice. Tali limiti sono rappresentati, per un verso, dal principio della domanda (di appello) o, che è lo stesso, della necessaria corrispondenza che deve intercorrere fra impugnativa esercitata e potere decisorio del giudice di appello, al quale si lega poi il fenomeno dell’acquiescenza,

che preclude il riesame dei capi della sentenza in ordine ai quali il soccombente abbia espressamente accettato il dictum di prime cure o abbia compiuto atti incompatibili con l’intento di porlo in discussione (cd. “acquiescenza propria”), nonché delle parti autonome ed indipendenti della sentenza non coinvolte dall’impugnazione (cd. “acquiescenza impropria”). Per l’altro verso, l’automatismo dell’effetto devolutivo può risultare ulteriormente contratto per effetto dell’applicazione di puntuali norme volte a sancire la decadenza delle domande ed eccezioni non accolte nella pronuncia di primo grado e non espressamente riproposte nella fase successiva (si vedano, rispettivamente, gli artt. 346 c.p.c. per il processo civile e 56, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 per il giudizio tributario). Ancora, se nel modello puro del gravame cd. “rinnovatorio” la sentenza impugnata non è dotata di efficacia esecutiva, adesso risulta recepita la regola contraria (tanto nel processo civile, quanto in quello tributario ed amministrativo: v., nell’ordine, artt. 282 c.p.c., 68, D.Lgs. n. 546/1992 e 33, L. 6 dicembre 1971, n. 1034) e la pronuncia appellata è (in tutto o in parte, a seconda dei casi) suscettibile di essere eseguita. Inoltre, ove ravvisi determinati vizi della sentenza o del processo di primo grado, al giudice di appello è interdetto conoscere nel merito la causa, dovendola rimettere al giudice a quo: l’appello viene così ad accostarsi ad un vero e proprio “giudizio di impugnativa”, vertente cioè sulla legittimità della sentenza impugnata (v., per il rito civile, artt. 353 e 354 c.p.c., per il processo tributario, art. 59, D.Lgs. n. 546/1992 e, per il giudizio amministrativo, art. 35, L. n. 1034/1971). Infine, il corretto rispetto del canone del “doppio grado di giurisdizione” (che ispira la rimessione al primo giudice) imporrebbe che solo ciò che ha formato oggetto del giudizio di primo grado sia devoluto alla cognizione del secondo giudice, con divieto quindi di domande ed eccezioni nuove, di nuove prove, e via dicendo. Altrimenti, sulle questioni introdotte per la prima volta in appello non vi sarebbe la concreta possibilità di una doppia indagine di merito, assistendosi per converso esclusivamente alla pronuncia del secondo giudi-


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ce (che assolverebbe, in sostanza, la funzione di giudice di primo ed unico grado). Peraltro, anche sotto quest’ulteriore punto di vista, il regime attuale si discosta dal modello ideale cui in precedenza si è fatto riferimento. La deducibilità di ulteriori prove e di motivi aggiunti (cfr. art. 58, D.Lgs. n. 546/1992) e di nuove eccezioni rilevabili d’ufficio (v. art. 57, D.Lgs. n. 546/1992) comporta, ad esempio, che il thema disputandum in appello risulti arricchito (e, quindi, diverso) rispetto a quello in primo grado. Lo stesso deve dirsi per la riforma in appello della sentenza che aveva definito il giudizio mediante l’accoglimento di un’eccezione preliminare di rito o di merito, in quanto l’esame e la decisione del merito della lite avverranno solo dinanzi al secondo giudice. Pertanto, l’appello ha perso taluni dei caratteri propri del mezzo di gravame puro e si trova, nell’attuale momento storico, in una fase di evoluzione che, sebbene solamente per qualche verso, lo avvicina al giudizio di impugnativa. Ciò non toglie che l’odierna disciplina dell’appello, siccome consente la conoscenza diretta del rapporto controverso e non dà vita (di regola) ad un mero controllo della sentenza impugnata, induce ancora ad annoverare questo mezzo di impugnazione fra quelli aventi funzione “rinnovatoria” del giudizio in precedenza svoltosi. 2. Dal regime previgente all’odierno assetto dell’appello tributario Nel passato (ossia nel regime regolato dalla scarna disciplina ritraibile dagli artt. 22, 23 e 24, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636), vi era concordia nel riconoscere all’appello alla Commissione tributaria di secondo grado la natura di mezzo di gravame “a critica libera”, volto a dare attuazione al cd. principio del “doppio grado di giurisdizione”1. Ora, le norme contenute nella sezione seconda del capo terzo del titolo secondo del D.Lgs. n. 546/1992 delineano in termini più chiari e precisi la fase di appello e ne sanciscono lo spiccato adeguamento al corrispondente grado del processo ordinario di cognizione. Ciò ha indotto parte della dottrina a sostenere che il nuovo appello tributario sia riconducibile più al paradigma della revisio prioris instantiae che alla struttura del novum iudicium, siccome risultano raffor-

1 V., per tutti, RUSSO, Processo tributario, in Enc. Dir., XXXVI, Milano, 1987, 800. 2 Cfr., in specie, BATISTONI FERRARA, Appunti sul processo tributario, Padova,

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zate le preclusioni all’ingresso di nuovo materiale di cognizione2. Sennonché, se impiegando l’espressione revisio prioris instantiae si intende attribuire al giudice di appello piuttosto il compito di verificare l’operato del primo giudice che non l’incombenza di riesaminare direttamente il rapporto litigioso, si rischia di perdere di vista il reale assetto del giudizio di cui ci stiamo occupando. Più precisamente, l’impostazione qui sottoposta a verifica non può che fondarsi sugli aspetti di seguito indicati: a) gli artt. 57 e 58, D.Lgs. n. 546/1992 pongono limiti alla deduzione di nuove prove, eccezioni e richieste probatorie; b) si registra l’ampliamento (cfr. art. 59, D.Lgs. n. 546), rispetto al previgente regime, delle fattispecie nelle quali il giudizio di appello ha natura solo “rescindente”, dovendosi limitare la Commissione tributaria regionale a rimettere la causa dinanzi alla Commissione tributaria provinciale senza procedere all’esame del merito della lite ad essa devoluta; c) è richiesta, dall’art. 53, comma 1, D.Lgs. n. 546, l’indicazione nell’atto di appello dei “motivi specifici dell’impugnazione”, a pena di inammissibilità di quest’ultima. 3. Il divieto dello ius novorum Prendiamo le mosse dal cd. “divieto dello ius novorum” recepito dagli artt. 57 e 58, D.Lgs. n. 546. Nel processo di gravame è comunque consentito produrre nuovi documenti, formulare motivi aggiunti (in virtù dell’avvenuto deposito di nuovi documenti ad opera dell’avversario), dedurre nuove eccezioni rilevabili d’ufficio, ecc.: allora, in queste ipotesi (che non sono affatto di inconsueta verificazione: basta pensare all’allegazione dei nuovi documenti), è indubbio che il giudice di appello non può compiere alcuna revisione dell’operato del giudice di prima istanza, perché quest’ultimo non aveva a disposizione tale nuovo materiale cognitorio e probatorio. Va poi soggiunto che parte della dottrina e della giurisprudenza3 già sosteneva che nel processo retto dal D.P.R. n. 636/1972 operasse il divieto di introdurre nuovi motivi, domande ed eccezioni in sede di gravame, onde trova conferma la circostanza che, con la riforma realizzata dal D.Lgs. n. 546/1992 (in attuazione della delega contenuta

1995, 110. 3 Si veda, in particolare, RUSSO, op. cit., 803 ss., TESAURO, Lineamenti del processo tributario, Rimini, 1991, 195, BATISTONI FERRARA, op. cit., 107,

nonché Cass., 23 marzo 1994, n. 2792 e Cass., 15 luglio 1995, n. 7739.


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nell’art. 30, L. 30 dicembre 1991, n. 413), non si è assistito ad un radicale mutamento di disciplina, suscettibile di giustificare la nuova configurazione che si vorrebbe offrire al processo destinato a celebrarsi dinanzi alla Commissione regionale. Non solo, il secondo giudice può, in ogni caso, affrontare aspetti non vagliati dal suo predecessore, come succede quando questi si avvede di fattispecie rilevabili d’ufficio o le parti ripropongono questioni assorbite o pretermesse nella prima fase. Quindi, la deduzione dei nova non rappresenta l’unica occasione in cui non viene esercitato un controllo sull’attività antecedentemente svolta, sì che deve ritenersi perfettamente fisiologico che il giudice del gravame si occupi di profili non esaminati in primo grado. 4. La rimessione alla Commissione tributaria provinciale Quanto alla disciplina della rimessione dalla Commissione regionale a quella provinciale, il legislatore del 1992 non ha fatto altro che estendere al processo tributario le ipotesi di rinvio della causa in primo grado contemplate nel contesto del processo civile. Ciò in ossequio alla direttiva, recata nella legge delega, di realizzare una sempre più marcata assimilazione del rito tributario a quello civile. Pertanto, è azzardato assegnare un rilievo decisivo alla nuova formulazione dell’art. 59, D.Lgs. n. 546/1992 al fine di rafforzare l’impostazione dell’appello come revisio prioris instantia”, atteso che questa norma non rappresenta altro che il portato dell’iter di naturale avvicinamento e conformazione del nostro contenzioso a quello civile. 5. I motivi di appello Per i motivi, il discorso si fa lievemente più complesso. Finché era in vigore il D.P.R. n. 636/1972, si erano al riguardo registrati due orientamenti. Da un canto, si era sostenuto4 che i motivi di appello assolvevano la duplice (essenziale) funzione di esprimere le censure mosse alla sentenza gravata e di individuare le parti della pronuncia che l’appellante intendeva impugnare, sicché la mancanza o la genericità degli stessi determinava l’inam-

4 Si veda RUSSO, op. cit., 803. 5 Si veda TESAURO, op. cit., 193 e GLENDI, Commentario delle leggi sul processo tributario, Milano, 1990, 506. 6 Cfr., ad esempio, Cass., 30 ottobre 1992, n. 11795. 7 CONSOLO, Le impugnazioni in genera-

missibilità dell’appello. Dall’altro canto, si era espresso l’avviso5 che i motivi non rappresentavano una componente irrinunciabile dell’appello, dal momento che la delimitazione dell’ambito del processo di gravame veniva operata attraverso l’oggetto della domanda di appello, inteso come la richiesta di riforma della pronuncia in contestazione: i motivi costituivano, in sostanza, soltanto un elemento giustificativo del potere di impugnazione esercitato e potevano, tutt’al più, svolgere un’utile funzione per fornire al giudice di secondo grado elementi che lo inducessero ad addivenire alla riforma della decisione. La giurisprudenza6, per parte sua, si era allineata all’indirizzo più rigoroso, orientandosi così nel considerare inammissibile l’atto di gravame privo dell’enunciazione dei motivi di impugnazione. A seguito della riforma, dinanzi all’esplicito precetto dell’art. 53, D.Lgs. n. 546/1992 di indicare i “motivi specifici dell’impugnazione” a pena di “inammissibilità” dell’atto di appello, si è affermato che: a) i motivi, sebbene occorrenti per rendere ammissibile l’atto di impugnazione, non valgono a confinare il campo cognitorio della Commissione tributaria regionale, imponendole di esaminare solo i vizi dedotti; sono semplicemente una sorta di veicolo di accesso alla fase di appello7; b) i motivi individuano le singole questioni sulle quali il giudice di appello è chiamato a pronunciarsi8; c) i motivi occorrono per individuare le parti della sentenza impugnata ed il petitum9; d) con i motivi è dato, oltre che individuare i capi impugnati, anche sottoporre al giudice di appello le ragioni in fatto ed in diritto in forza delle quali è richiesta la riforma della pronuncia di prima istanza10. Per parte nostra, siamo indotti a pensare che il ruolo dei motivi di appello non può che essere apprezzato alla luce della rilevata non automaticità dell’effetto devolutivo del gravame. In specie, il principio enunciato dall’art. 56, D.Lgs. n. 546/1992 dimostra come l’impugnazione di un capo della decisione non comporta il necessario passaggio nella fase di appello di tutte le questioni di fatto e di diritto sollevate nel grado di giudizio precedente dalle parti con riferimento al capo predetto. Ne discende, perciò, che il soccombente

le e l’appello nel nuovo processo tributario, in Fisco, 1994, 3380. 8 Cfr. RUSSO, Manuale di diritto tributario. Il processo tributario, Milano, 2005, 258 ss., 264. 9 Si veda BATISTONI FERRARA, op. cit., 110.

10 Cfr. BAFILE, Il nuovo processo tributario, Padova, 1994, 163 e A. FINOCCHIARO, M. FINOCCHIARO, Commentario al nuovo contenzioso tributario, Milano, 1996, 750.


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non deve solo individuare la parte della pronuncia formante oggetto di impugnazione (mercé l’enunciazione dell’oggetto della domanda di appello), ma è altresì obbligato a sottoporre al secondo giudice – per il tramite di puntuali censure – le specifiche questioni dal cui riesame può scaturire l’auspicata riforma della decisione medesima. Altrimenti detto, se l’appellato è tenuto a riproporre in secondo grado le questioni sulle quali il primo giudice non si è pronunciato, significa che, a maggior ragione, l’appellante deve, indicando le proprie dettagliate doglianze, richiamare l’attenzione del secondo giudice sulle questioni che possono consentire la riforma della pronuncia impugnata. E questa incombenza può essere assolta solo con l’esposizione dei motivi di appello. L’appellante, quindi, attraverso l’enunciazione dei motivi, è chiamato ad esprimere i rilievi critici mossi alla decisione impugnata, delimitando al contempo il novero delle questioni sulle quali la Commissione regionale è tenuta a pronunciarsi. I motivi, pertanto, consentono di individuare le questioni sottoposte al vaglio del giudice dell’appello (dal riesame delle quali può scaturire la riforma della decisione impugnata), con le sole eccezioni delle questioni di diritto (che possono sempre essere sollevate dal giudice pur in assenza di una specifica richiesta in tal senso ad opera delle parti, in base al principio secondo cui iura novit curia) e di fatto rilevabili d’ufficio. Ancora, e per finire, va rilevato che i motivi di appello differiscono nettamente da quelli addotti nella pregressa fase processuale. I primi investono la pronuncia impugnata e devono correlarsi alle argomentazioni svolte nella sentenza, al fine di incrinarne il fondamento logico e/o giuridico, ancorché poi valgano – come detto – a far riemergere le questioni dibattute in primo grado. Anche se l’appello non è un mezzo di impugnazione di natura cd. “rescindente” o “a critica vincolata” (ossia volto all’eliminazione della pronuncia impugnata attraverso l’enunciazione dei vizi dai quali la si assume affetta), ma è un’impugnativa di carattere cd. “rescissorio” o “a critica libera” (tesa cioè ad ottenere il riesame della controversia decisa in primo grado), i motivi devono essere diretti a porre in evidenza i profili della pronuncia in contestazione che appaiono incondivisibili. Ciò comporta che essi non possono coincidere con le ragioni addotte nella prima fase del giudizio. Invero, niente vieta che la sentenza tragga conforto da motivi sui quali il soccombente non si è pronunciato nella prima fase del processo. Si ponga, poi, il caso (tutt’altro che infrequente) in cui il primo giudice, pur riconoscendo il fondamento di

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taluni dei motivi svolti da una parte, accolga la domanda avversaria: qualora l’appello si limitasse a richiamare le argomentazioni spese in primo grado, la pronuncia verrebbe censurata, in termini contraddittori, pure in base a ragioni che sono state condivise dall’organo giurisdizionale. Insomma, i motivi di gravame, considerati i menzionati limiti all’incondizionata operatività dell’“effetto devolutivo”, si atteggiano quali necessari veicoli per l’individuazione delle questioni sulle quali il giudice di seconde cure è chiamato a pronunciarsi (e che gli possono consentire di accogliere la domanda formulata dall’appellante), ma non introducono un giudizio in ordine alla correttezza della pronuncia gravata, salvo che nelle eccezionali ipotesi, enucleate dall’art. 59, comma 1, D.Lgs. n. 546/1992, nelle quali si rende necessario annullare la pronuncia contestata e rimettere le parti di fronte alla Commissione provinciale. Una volta che dette questioni vengano fatte riemergere dinanzi al giudice di appello, quest’ultimo ben può disinteressarsi della sentenza impugnata, essendogli consentito avere diretta e piena cognizione del rapporto controverso. I motivi sono, dunque, il “mezzo” per giungere ad un giudizio indubbiamente rinnovatorio (che cioè non verte sul riesame dell’operato del primo organo giurisdizionale) e non il “fine” cui il processo di appello deve tendere (ossia la Commissione regionale non deve accertare la sussistenza dei vizi della pronuncia impugnata). Un chiarimento è opportuno quanto ai giudizi nei quali è prevista la rimessione al primo giudice: sebbene in tal caso l’appello abbia carattere solo “rescindente”, ciò non consente lo snaturamento del relativo mezzo di impugnazione. Significa che, se l’appellante si è limitato a far valere soltanto motivi di nullità della sentenza e la Commissione regionale non condivide tali doglianze, si assisterà all’inevitabile conferma della sentenza impugnata. Non essendo stati dedotti profili idonei ad ottenere la riforma della pronuncia appellata, l’appello sarà sì ammissibile (è lecito, difatti, invocare soltanto la dichiarazione di nullità della sentenza di prime cure a termini dell’art. 59, comma 1, D.Lgs. n. 546/1992), ma il secondo giudice non potrà che avallare quanto deciso in prima istanza. E lo stesso è da dirsi allorché siano stati spesi unicamente motivi diretti a conseguire la chiusura in rito dell’intero processo (si pensi al caso in cui venga censurata la pronuncia poiché non è stata dichiarata l’inammissibilità del ricorso introduttivo o l’estinzione del giudizio). Diversamente, qualora l’appellante non abbia fatto valere come motivi di impugnazione asseriti


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vizi della pronuncia che non autorizzano la rimessione della lite alla Commissione provinciale e che non impongono l’adozione di una pronuncia che sancisca la chiusura in rito dell’intero giudizio, i motivi non assolvono la rilevata veste di mezzo idoneo a condurre alla riforma od all’annullamento della sentenza o ancora alla definizione del processo per ragioni attinenti al rito. Di modo che il gravame dovrà essere considerato inammissibile in quanto i motivi non consentono di supportare efficacemente l’oggetto della domanda di appello. In conclusione, i motivi non vanno apprezzati solo quali semplici ragioni di critica della sentenza impugnata, ma come strumenti necessari per segnalare al secondo giudice le questioni che possono determinare il risultato effettuale cui il mezzo di impugnazione è predisposto e, cioè, l’adozione di una pronuncia che assecondi l’interesse della parte che è rimasta soccombente in primo grado. Interesse che può consistere – in ragione della domanda rivolta alla Commissione regionale – nella riforma della sentenza appellata oppure nella rimessione al primo giudice o ancora nella definizione del giudizio per vizi d’indole processuale. 6. Conclusioni sulla natura del processo di appello tributario Emerge, allora, come non possa ritenersi mutata la natura del giudizio di appello a seguito dell’intervento riformatore del 1992: si tratta, in ogni caso, di un giudizio rinnovatorio, che consente alla Commissione regionale, nei limiti dell’ambito di cognizione individuato dalle parti con l’enunciazione dei motivi di impugnazione e la riproposizione delle questioni ed eccezioni non accolte in prima istanza, di avere conoscenza diretta del rapporto controverso. Insomma, il giudice di appello decide la causa, non controlla

la legittimità della sentenza di prime cure (fatta eccezione per i casi indicati nell’art. 59, comma 1, D.Lgs. n. 546/1992). Quindi, risultano accresciute rispetto al passato le preclusioni e, per così dire, la rigidità del giudizio di gravame, anche per scoraggiarne l’instaurazione, se diretta solo a rimediare alle negligenze della condotta processuale in primo grado. Ma è altrettanto vero che la richiesta dell’enunciazione dei motivi specifici dell’impugnazione va letta nell’ottica del tentativo di “moralizzare” il giudizio di appello, evitando – per quanto possibile – la proposizione di gravami aventi finalità dilatorie e privi di fondamento. Tuttavia, non si può condividere la tesi che configura il giudizio di appello in termini di revisio prioris instantiae. A tale conclusione è dato giungere poiché le preclusioni sancite dal D.Lgs. n. 546/1992 lasciano aperto più di un varco entro cui è consentito l’ingresso di nuovo materiale cognitorio e probatorio ed altresì in virtù del fatto che i motivi di appello non rappresentano l’oggetto diretto del processo di gravame (esprimendo determinati vizi della sentenza impugnata), ma costituiscono solamente lo strumento attraverso il quale è dato sottoporre al secondo giudice le questioni dal cui esame può discendere la riforma della pronuncia contestata. Cosicché, in definitiva, le preclusioni all’introduzione di elementi di novità sono dirette ad evitare che l’appello possa essere utilizzato per porre rimedio alle negligenze delle parti nel primo grado. Tant’è vero che non mancano occasioni per permettere l’ingresso di nuovo materiale probatorio e cognitorio, stante la rilevata natura rinnovatoria dell’appello e perché nella materia tributaria è sempre pressante l’esigenza di appurare la verità dei fatti controversi (e ciò ha indotto il legislatore a mitigare le preclusioni rispetto a quelle dell’analoga fase del processo civile).


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Commissione tributaria provinciale di Udine, sez. V, 3 aprile 2006, n. 16 Presidente: Andretta – Relatore: Marinig Accertamento - Avviso di accertamento - Donazione di bene immobile dal genitore alla figlia Successiva vendita a terzi - Plusvalenza da cessione di bene immobile - Interposizione fittizia di persona - Prova per presunzioni - Fattispecie - Insufficienza delle prove fornite dall’Ufficio (C.c. art. 2729; D.P.R. n. 600/1973, art. 37, comma 3; D.P.R. n. 917/1986, art. 81). Nel caso di donazione di bene immobile da un genitore alla figlia, seguita da successiva rivendita dello stesso bene a terzi, al fine di dimostrare l’interposizione fittizia della donataria, l’Ufficio deve fornire la prova che il prezzo della vendita sia stato corrisposto dal cessionario al donante (nella fattispecie non è stata ritenuta sufficiente la prova per presunzioni tratta dal rapporto di parentela tra donante e donataria e dalla circostanza che la vendita fosse avvenuta lo stesso giorno della donazione e per un corrispettivo dichiarato corrispondente al valore indicato in sede di donazione). Svolgimento del processo La controversia in esame scaturisce dalla notifica dell’avviso di accertamento sopra citato con cui l’Ufficio, dopo aver preso atto di una serie di presunzioni gravi precise e concordanti, ha contestato alla ricorrente l’omessa dichiarazione della plusvalenze da assoggettare a tassazione separata Irpef, realizzata nell’anno 1999 a seguito della cessione di un terreno edificabile. Nella fattispecie si è verificato un duplice passaggio di proprietà e cioè: – la sig.ra A. con atto in data […] regolarmente registrato donava alla figlia B. la quota di 3/4 di piena proprietà di un terreno edificabile dichiarando il valore di lire […]; – a sua volta la figlia B. con atto stipulato lo stesso giorno donava alla madre la quota di 1/4 di piena proprietà sul medesimo terreno dichiarando il valore di lire […]; – nella stessa data detto terreno veniva ceduto dalle due signore sopraindicate, ciascuna per la quota di cui era diventata titolare, alla Y. S.p.A. per il prezzo dichiarato di lire […] (pari alla somma di quanto dichiarato in sede di donazione) e definito in accertamento con adesione in lire […]. Avverso tale avviso propone ricorso la sig.ra A.

mentre la sig.ra B. pur destinataria di un avviso di accertamento analogo non ha opposto alcuna contestazione. In via preliminare, la parte ricorrente, dopo aver premesso che i trasferimenti suddetti sono stati effettuati sulla base di quanto stabilito nelle disposizioni del T.U.I.R. all’epoca vigente, ritiene che i predetti atti sono pienamente validi ed efficaci tant’è vero che non sono stati contestati dall’Ufficio e che la plusvalenza redditualmente rilevante emergente nel caso di specie è pari a zero e cioè derivante dalla differenza tra il corrispettivo percepito dalla compravendita alla Y. S.p.A. ed il valore dichiarato nel contratto di donazione debitamente registrato. Osserva altresì che, per l’inapplicabilità nel caso di specie dell’art. 37-bis del D.P.R. 600/1973, ogni eventuale risparmio d’imposta conseguito deve ritenersi lecito. Contesta pertanto l’orientamento dell’Ufficio con cui, ritenendo invece applicabile l’art. 37, comma 3, del D.P.R. n. 600/1973, accerta l’omessa plusvalenza in capo ad entrambe le donanti. Per le considerazioni che precedono, la ripresa fiscale deve ritenersi illogica e totalmente infondata nel merito stante che, nella realtà, l’Ufficio, nonostante sostenga la sussistenza di presunzioni aventi i requisiti della gravità, precisione e concordanza, non fornisce alcuna prova della configurazione dell’ipotesi di interposizione di persona ma si limita ad elencare alcune circostanze quali il rapporto di parentela, la corrispondenza di data e l’eguaglianza tra corrispettivo e valore dichiarato, senza fornire alcuna dimostrazione dell’effettivo possesso del reddito in capo alla donante. L’Ufficio infatti ha implicitamente ritenuto che gli atti posti in essere dalle parti fossero perfettamente validi ed efficaci. Una diversa considerazione avrebbe determinato la nullità dei contratti di compravendita, facendo così sorgere in capo alla Y. il diritto alla restituzione delle somme indebitamente corrisposte alla venditrice non legittimata ed è per questo che l’Ufficio ha scelto la ricostruzione basata sulla interposizione di persona. La parte ricorrente evidenzia altresì come l’Ufficio applichi la norma più avanti richiamata sia all’odierna ricorrente sia alla donataria, a sua volta donante dell’ultimo quarto di terreno, così imputando reciprocamente il reddito a due persone nell’ambito di un unico atto di compravendita immobiliare, con la conseguenza che un soggetto non può essere contemporanea-


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mente interposto ed interponente. In via subordinata, la ricorrente fa notare che l’Ufficio ha errato nel calcolo della plusvalenza effettuata sulla quota di 3/4 e di 1/4 non tenendo rispettivamente conto che nel primo caso i terreni oggetto di compravendita sono stati oggetto di contratti di permuta mentre nel secondo caso l’acquisto in comunione legale era avvenuto oltre cinque anni prima dell’inizio delle opere intese a renderli edificabili. Si oppone l’Ufficio precisando che nel caso di specie non è stata applicata la norma di cui all’art. 37bis del D.P.R. n. 600/1973, bensì l’art. 37, comma 3, il quale prevede espressamente il potere di accertamento fissando regole di imputazione dei redditi imponibili e legittima l’amministrazione finanziaria a disconoscere gli effetti fiscali delle suddette operazioni allorquando queste hanno per oggetto terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria e vengono attivate con lo scopo di ridurre o annullare il valore della plusvalenza. Tale norma, infatti, opera esclusivamente come norma di accertamento per consentire all’amministrazione finanziaria di contestare, avvalendosi di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, la situazione di apparenza nel possesso del reddito al fine di attribuirlo al reale possessore in luogo di quello apparente. Nella fattispecie in esame, tale situazione di apparenza risulta di tutta evidenza atteso che, senza alcuna giustificazione, nella stessa data madre e figlia si scambiano le rispettive quote di proprietà di un terreno edificabile provvedendo sempre nello stesso giorno a vendere le relative quote scambiate ad un soggetto terzo. Per quanto attiene alla presunta ed errata determinazione della plusvalenza, l’Ufficio sostiene di averla correttamente quantificata ai sensi dell’art. 81, comma 1, lett. a del D.P.R. n. 917/1986. Con memoria illustrativa depositata in data […], la parte ricorrente ribadisce il comportamento errato dell’Ufficio nell’applicazione dell’art. 37, comma 3 del D.P.R. n. 600/1973 utilizzandolo come norma antielusiva nel mentre ricorda come la giurisprudenza di legittimità sia ferma nel ritenere che tale norma si applichi solo in ipotesi di interposizione fittizia, cioè simulata, nel possesso del reddito (Cass. civ., n. 3979/2000, n. 11351/2001, n. 3345/2002). Fa notare altresì che l’Ufficio, nelle sue controdeduzioni, perviene ad una inequivoca ammissione dei propri errori allorquando afferma di aver tenuto conto del valore iniziale quale era stato dichiarato nei titoli di provenienza ed ammettendo in tale modo di aver operato ai sensi dell’art. 81, comma 1, lett. b, del D.P.R. n. 917/1986 anziché lett. a e dell’art. 82, comma 2, quarto periodo. Inoltre mancando gli elementi

idonei alla corretta determinazione della plusvalenza che si sarebbe realizzata, l’Ufficio non può sostenere l’interposizione di persona in relazione ad un reddito che non ha saputo calcolare. Per tali ragioni la ricorrente ribadisce che il ricorso, in mancanza di prove e di allegazione dei fatti costitutivi della pretesa tributaria, non può essere accolto. Da ultimo osserva che in merito al corrispettivo, l’Ufficio ha errato non considerando il prezzo di compravendita pattuito dalle parti, ma il diverso valore risultante dal procedimento di adesione esperito dalla società acquirente, valore che risulta del tutto indifferente alle norme per il calcolo dell’eventuale plusvalenza. Analogamente dicasi per quanto riguarda i valori presi in considerazione dall’Ufficio per l’individuazione dei minuendi delle due operazioni, valori che risultano del tutto non dimostrati e palesemente bassi. Motivi della decisione In relazione al primo motivo di doglianza con cui si eccepisce la carenza di motivazione dell’atto impugnato e la mancata evidenziazione da parte dell’Ufficio delle necessarie prove atte a dimostrare l’interposizione fittizia di persona e la sussistenza nel caso di specie di presunzioni gravi, precise e concordanti, la Commissione rileva preliminarmente che la questione relativa ai limiti di utilizzo delle presunzioni nell’accertamento tributario è tuttora molto dibattuta dalla dottrina e dalla giurisprudenza di legittimità che, frequentemente, hanno generato posizioni opposte. Da un lato c’è chi è senz’altro favorevole all’uso delle presunzioni nell’avviso di accertamento anche senza riscontri oggettivi che possono essere apprezzati dal contribuente sin dal momento della notifica di tale atto, dall’altro chi, invece, è contrario ad un simile impiego dello strumento presuntivo e ciò in quanto lo stesso non sarebbe sufficiente a tutelare il diritto alla difesa del contribuente, invertendo così il principio dell’onere della prova che nel contenzioso tributario è posto a carico dell’amministrazione finanziaria. A fronte di queste controverse posizioni, la Commissione ritiene di poter senz’altro condividere la tesi maggioritaria, secondo la quale deve ritenersi illegittimo l’accertamento che si basi su presunzioni semplici prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 2729 del codice civile. Tutto ciò premesso, la Commissione rileva che, nella controversia in esame, l’Ufficio non fornisce alcun elemento concreto di riscontro del suo operato e gli addebiti contestati non risultano supportati da fatti idonei certi atti a convalidare l’obbligazione


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tributaria. Lo stesso Ufficio, infatti, non ha esibito alcuna prova documentale utile a dimostrare gli addebiti a carico del contribuente, basandosi per contro, su semplici presunzioni e deduzioni, in assenza di rilievi autonomi sulla loro attendibilità. Dette presunzioni e deduzioni, risultano, pertanto, del tutto arbitrarie e prive di riscontro oggettivo, difettando, in particolare, dei necessari requisiti di gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 2729 del codice civile. Che trattasi di semplici presunzioni risulta comprovato anche dal fatto che l’Ufficio nell’avviso di accertamento, a sostegno della pretesa impositiva si limita ad affermare che «[...] dal comportamento posto in essere dai soggetti (donante e donatario) [...] emerge con netta evidenza [...] che [...] il donante (interponente) è l’effettivo possessore del reddito mentre il donatario (interposto) è l’apparente titolare di tale reddito [...] avuto riguardo sia al rapporto di parentela intercorrente tra donante e donatario sia alle incontestabili circostanze che la vendita è avvenuta lo stesso giorno della donazione e che il corrispettivo dichiarato è uguale al valore indicato complessivamente negli atti di donazione, il che porta a concludere che di fatto la transazione è avvenuta per la quota di 1/4 tra la donante [...] e la società acquirente, e per la quota di 3/4 tra la

donante [...] e la stessa ditta». In sostanza, nel caso concreto, si è verificato che l’Ufficio non ha fornito alcuna prova dell’interposizione fittizia di persona e non dimostra con elementi certi che il corrispettivo ottenuto dalla cessione alla Y. S.p.A. sia effettivamente percepito, nonostante l’apparenza, per i 3/4 dalla ricorrente, donante, anziché dall’effettiva alienante, già donataria. L’Ufficio, infatti, ha implicitamente ritenuto che gli atti posti in essere dalle parti fossero perfettamente validi ed efficaci e non poteva che comportarsi in siffatto modo atteso che una diversa considerazione, avrebbe determinato la nullità dei contratti di compravendita, facendo così sorgere in capo alla Y. il diritto alla restituzione delle somme indebitamente corrisposte alla venditrice non legittimata. Per le ragioni dianzi evidenziate, le affermazioni dell’Ufficio non costituiscono prove certe ma semplici presunzioni per cui ne consegue che, in assenza di elementi probatori certi che avallino la tesi accusatoria, l’avviso di accertamento così come formulato deve ritenersi illegittimo. Il ricorso deve quindi essere accolto, ritenendosi con ciò assorbite le argomentazioni di cui agli altri motivi di doglianza sollevati dalla ricorrente. Sussistendo giuste e valide ragioni, le spese di giudizio sono compensate tra le parti.

Nota

in caso di cessione a titolo oneroso di immobili ricevuti per donazione, si assuma quale prezzo di acquisto o costo di costruzione, quello sostenuto da parte del donante. Per le fattispecie poste in essere prima della modifica legislativa – come quella oggetto della sentenza in commento – dunque, l’Agenzia delle Entrate prima e le Commissioni tributarie poi si sono trovate nella necessità di individuare uno strumento di contrasto all’utilizzo di tale disegno negoziale. Il caso che ha dato luogo alla vertenza è, peraltro, peculiare: madre e figlia si donano reciprocamente una porzione di un medesimo terreno edificabile per poi, nella stessa data, cederlo ciascuna per la porzione di cui era divenuta titolare, alla società Y S.p.A. per un prezzo pari al valore dichiarato in sede di donazione. Bisogna tuttavia precisare che dalla lettura della decisione e in particolare dalla descrizione del fatto, non risulta con chiarezza se l’accertamento sia stato condotto sulla base della norma sopra menzionata o ai sensi della lettera a dello stesso art. 81 (numerazione ante riforma). In ogni caso la motivazione della sentenza non sembra attribuire importanza alla descritta circostanza, incentrandosi, invece, sul-

Il giudice di Udine è stato chiamato a pronunciarsi su un disegno negoziale piuttosto diffuso nella prassi, volto ad evitare l’imposizione sulla plusvalenza da cessione a titolo oneroso di bene immobile attraverso la previa donazione dello stesso a soggetto compiacente, molto spesso parente del donante. Lo schema donazione-compravendita era sovente utilizzato dai contribuenti al fine di sfuggire all’applicazione della norma di cui agli attuali artt. 67, comma 1, lett. b e 68, T.U.I.R. (artt. 81 e 82 nella numerazione ante riforma). Come noto, infatti, le disposizioni assoggettavano ad imposizione come redditi diversi le plusvalenze realizzate mediante cessione a titolo oneroso di terreni edificabili acquisiti per successione o donazione assumendo come prezzo di acquisto i valori indicati nelle relative denunce. Come spesso accade – si pensa alla nota vicenda del dividend washing ed alla conseguente introduzione del comma 6-bis nel corpo dell’allora art. 14, T.U.I.R. – il legislatore è intervenuto ad arginare la diffusione nella prassi di un tale escamotage. Con il D.L. 223/2006, art. 37, si è, infatti, disposto che,


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l’idoneità della via scelta dall’Ufficio a contrastare l’operazione posta in essere dal contribuente. In particolare nel caso di specie si è fatta applicazione dell’art. 37, comma 3, D.P.R. 600/1973 in virtù del quale è in potere dell’Ufficio accertatore imputare al contribuente i redditi di cui appaiano titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona. La norma disciplina, pertanto, le ipotesi di interposizione di persona confermando la regola secondo la quale il reddito deve essere inciso in capo all’effettivo possessore, da intendersi «nel senso delineato dalla disciplina sostanziale dei tributi sui redditi, in sede di individuazione del relativo presupposto» (così NUSSI, L’imputazione del reddito tra soggetto interposto ed effettivo possessore: profili procedimentali, in Rass. Trib., 1998, 733). In dottrina si sottolinea, dunque, come la disposizione in esame sia volta al contrasto di ipotesi di vera e propria evasione più che di elusione (sul punto, oltre all’autore testè citato si confronti per tutti GALLO, Prime riflessioni su alcune recenti norme antielusione, in Dir. e Prat. Trib., 1992, I, 1768), di modo che ne deve essere esclusa una valenza sostanziale e deve esserne affermata la natura procedimentale. In particolare, nella dicotomia interposizione fittizia (che nel sistema civilistico integra una simulazione soggettiva) ed interposizione reale, dottrina e giurisprudenza maggioritarie riconducono lo schema dell’art. 37, comma 3 alla sola ipotesi di interposizione fittizia (si confronti, ad esempio, Cass., sez. trib., sent. n. 3345/2002, in Giur. Imposte, 2002, 867, cha fa riferimento a Cass., sez. trib., n. 3979/2000, in Rass. Trib., 2000, 917, con nota di NUZZO, Il dividend washing tra la cessione temporanea di titoli azionari e dell’usufrutto su azioni e nota di PICCONE FERRAROTTI, Sull’applicabilità dell’art. 37, comma 3, del D.P.R. n. 600/1973 al cosiddetto dividend washing), nelle quali la Suprema Corte si è pronunciata nel senso di negare l’applicabilità della disposizione in commento all’ipotesi di dividend washing; in dottrina, per la delimitazione del-

l’operatività della disposizione alle ipotesi di interposizione fittizia, per tutti, PAPARELLA, Possesso di redditi ed interposizione fittizia, Milano, 2000, 293 ss.; cfr. però NUSSI, L’imputazione del reddito tra soggetto interposto ed effettivo possessore, cit., 740, che propende per una ricostruzione dell’ambito di operatività della norma interna al diritto tributario giungendo a svalutare la distinzione tra interposizione fittizia e interposizione reale). Lo schema concettuale cui si fa riferimento è, dunque, quello della simulazione (cfr. art. 1414 ss. c.c.). In particolare quanto alla simulazione soggettiva, si ricorda che essa presuppone un accordo simulatorio trilaterale tra contraente apparente, contraente effettivo e controparte. Venendo, dunque, alla decisione che ci occupa, si deve innanzitutto osservare come nel caso di specie non vi sia prova diretta che il corrispettivo della cessione versato dalla Y S.p.A. sia stato ottenuto pro quota e rispettivamente dalla donante e non dalla donataria. La circostanza è comunque sostenuta dall’Ufficio attraverso la prova presuntiva; da quanto è dato capire, si sono ritenute presunzioni gravi precise e concordanti le conseguenze che si potevano trarre dai seguenti fatti noti: il rapporto di parentela tra donante e donataria e la circostanza che la vendita fosse avvenuta lo stesso giorno della donazione e per un corrispettivo dichiarato corrispondente al valore indicato in sede di donazione Da un tanto si è desunto, dunque, che la “transazione” sia avvenuta pro quota tra le donanti e la società acquirente. A tal proposito si ricorda che l’utilizzo di presunzioni semplici al fine di provare la sussistenza di un’interposizione non solo deriva dai principi in tema di simulazione, ma, come si è detto, è espressamente ammesso dalla norma. Ciò su cui si incentra la motivazione della decisione, dunque, è l’aspetto della prova dell’interposizione: dalla lettura della parte motiva della sentenza si desume che, contrariamente a quanto sostenuto dall’Ufficio, i giudici non abbiano riconosciuto gravità precisione e concordanza alle presunzioni invocate.


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Commissione tributaria provinciale di Roma, sez. LII, 12 gennaio 2007, n. 555 Presidente: Cupelli – Relatore: Clemenzi Amministrazione finanziaria - Agenzie fiscali Natura giuridica - Enti pubblici - Insussistenza di potere normativo - Ripartizione competenza tra uffici all’interno del medesimo Comune Decreti direttoriali - Rilevanza interna (L. 15 marzo 1997, n. 59; D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112; D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300) Iva - Regime del margine - Condizioni per l’applicazione - Acquisto veicoli provenienti da altro Stato membro - Onere della prova a carico del contribuente - Sussistenza (Dir. 14 febbraio 1994, n. 94/5/CE; D.L. 23 febbraio 1995, n. 41; D.L. 30 agosto 1993, n. 331, artt. 38 e 40) Le Agenzie fiscali, aventi natura di enti pubblici, non sono dotate di potere normativo, in quanto lo stesso non è stato loro attribuito da alcuna specifica disposizione legislativa. Conseguentemente i decreti direttoriali volti alla suddivisione delle competenze territoriali delle Agenzie all’interno di un medesimo comune hanno una rilevanza meramente interna e non sono, quindi, in alcun modo, vincolanti, né per i contribuenti, né per lo stesso ente impositore. Il contribuente che acquista veicoli da altro soggetto comunitario può avvalersi dello speciale regime del margine Iva solo nel caso in cui anche il venditore si sia avvalso del medesimo regime e lo scambio abbia ad oggetto veicoli “usati”, incombendo sul contribuente l’onere di provare la sussistenza dei presupposti per l’applicazione di detto regime. Svolgimento del processo Con atto depositato in data 13 febbraio 2006 la […] impugnava gli avvisi di accertamento ai fini Iva n. RCC037000321, n. RCC037000322 e n. RCC037000323, rispettivamente, per l’anno 2000, 2001 e 2002 emessi dall’Agenzia delle Entrate – Ufficio di Roma 2, con i quali richiedeva una maggiore imposta di euro 117.943,26 per l’anno 2000, di euro 218.234,03 per l’anno 2001 e di euro 79.545,00 per l’anno 2002, nonché i relativi interessi e sanzioni di legge. Le rettifiche traggono origine da un processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di Fi-

nanza di Fiumicino con il quale veniva rilevato che la società aveva indebitamente usufruito dello speciale regime Iva cosiddetto del margine nel commercio interno dei veicoli usati provenienti dal fornitore francese M.O.S. La società con tempestivo ricorso eccepiva la nullità degli avvisi di accertamento poiché emessi da un ufficio delle Entrate che non aveva alcun potere di accertare in quanto territorialmente incompetente, avendo la ricorrente il proprio domicilio fiscale nel comune di Fiumicino che per competenza rientra nella giurisdizione dell’Ufficio delle Entrate di Roma 7. Nel merito sosteneva l’infondatezza degli addebiti inerenti all’erronea applicazione dello speciale regime Iva e in proposito faceva presente di avere operato correttamente nell’applicare l’imposta all’atto della rivendita dei veicoli e quindi solo sul margine realizzato come disciplinato dalla direttiva CEE n. 94/5 recepita dallo Stato italiano con D.L. n.41/1995 convertito nella L. n. 85/1995. Inoltre faceva presente che nel periodo 2000-2002 aveva fatto legittimo affidamento sull’orientamento espresso dall’amministrazione finanziaria con la circolare n. 136168 del 7 luglio 2000, di conseguenza non era dovuta la pretesa tributaria, né le sanzioni, né gli interessi. L’ufficio con nota prot. n. 116069 del 22 giugno 2006 si costituiva in giudizio e controdeduceva al reclamo sostenendo la legittimità del proprio operato, e, quanto all’eccezione circa la non competenza dell’Ufficio di Roma 2 nell’emissione degli avvisi di accertamento, faceva rilevare che la società aveva il domicilio fiscale in [...] quindi legittimi devono ritenersi gli accertamenti in questione. Nelle more del giudizio veniva emessa la cartella esattoriale con la quale l’ufficio effettuava l’iscrizione provvisoria di un terzo per un importo complessivo di euro 238.784,49. La società, in merito, inoltrava istanza di sospensione cautelare ai sensi dell’art. 47 del D.Lgs. n. 546/1992 e chiedeva la sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato. Nell’udienza del 6 ottobre 2006 questa Commissione rigettava l’istanza di sospensione e fissava la trattazione del ricorso per la discussione di merito in data 1° dicembre 2006 ed il Collegio si riservava la decisione ai sensi dell’art.35 del D.Lgs. n. 546/1992.


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Motivi della decisione Sciolta la riserva all’odierna camera di consiglio, la Commissione, esaminati gli atti del processo, rileva che nella fattispecie in esame non appaiono sussistere i presupposti richiesti dalla società circa la presunta carenza di competenza dell’Ufficio di Roma 2 nell’emissione degli atti de quibus in quanto l’articolazione periferica dei Ministeri è stata oggetto di un disegno di legge di ristrutturazione ad opera della L. 15 marzo 1997, n. 59, del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112 e del D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300. In particolare quest’ultima legge ha previsto all’art. 57 l’istituzione di quattro Agenzie fiscali che sono diventate operative dall’1 gennaio 2001. La dottrina maggioritaria, seppure con argomentazioni differenti, al momento della nascita di queste Agenzie, non ha esitato a qualificarle come enti pubblici facendo leva sulla esperienza che di questa nozione, in ambito dottrinale e giurisprudenziale, era maturata nel diritto amministrativo. In proposito si deve partire dal presupposto che il concetto di ente pubblico deve essere storicizzato in quanto il riconoscere natura pubblica di un ente non è un problema teorico, ma storico: dipende dagli elementi ai quali l’ordinamento dà rilievo. Tenuto conto che in un periodo storico in cui il legislatore ha ridisegnato ex novo le articolazioni periferiche del Ministero in guisa da riservare alle Agenzie fiscali un trattamento differente rispetto alle altre Agenzie, ha riconosciuto alle prime un grado di autonomia che le altre non hanno, quindi appare evidente come questa diversità di trattamento altro non è che un forte indice rilevatore della pubblicità dell’ente nell’attuale momento storico. La natura di ente pubblico delle Agenzie fiscali risiede proprio nella diversa regolamentazione, in termini di autonomia regolamentare, amministrativa, patrimoniale, organizzativa, contabile e finanziaria che queste hanno ricevuto rispetto alle altre Agenzie che paiono invece qualificabili come amministrazioni dello Stato. L’attribuzione del potere normativo ad un ente pubblico deve essere espressamente prevista da una disposizione legislativa; ciò perché, in genere, ogni manifestazione di attività normativa dell’amministrazione deve trovare il proprio fondamento in una legge generale. Muovendo da tale principio si deve tener presente che alle Agenzie fiscali il potere normativo non è mai stato attribuito da alcuna norma. Nel tessuto normativo di cui al D.Lgs. n. 300/1999 si trova più di una conferma che il potere in questione non è stato conferito in alcun modo. È evidente, quindi, come il legislatore abbia chia-

ramente voluto escludere dalle congerie di poteri attribuiti alle Agenzie fiscali volutamente quello normativo. Pertanto gli enti in questione, per quanto pubblici, sono sforniti del potere normativo, di conseguenza non possono emettere atti o provvedimenti che abbiano contenuto normativo. Ne consegue che i decreti direttoriali, con i quali si è proceduto a suddividere le competenze territoriali delle Agenzie all’interno di un comune, abbiano una rilevanza meramente interna alla stessa Agenzia e non siano, per l’effetto, vincolanti in alcun modo né per i contribuenti né per lo stesso ente impositore. La ripartizione territoriale risponde anche alla esigenza di meglio garantire una più adeguata e razionale distribuzione interna del lavoro. Nel caso di specie, pertanto, non ricorre l’invocata nullità degli avvisi di accertamento emessi da un ufficio ritenuto territorialmente incompetente dalla società. Nel merito si rileva che gli avvisi di accertamento traggono origine da un processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza di Fiumicino in data 22 novembre 2002 e integrati da ulteriore attività istruttoria eseguita dall’ufficio che si è concretizzata nella formalizzazione di specifici verbali di contraddittorio consegnati in copia alla società. L’elemento più significativo che dà concreta legittimità all’operato dell’ufficio è la documentazione fornita dall’amministrazione finanziaria francese dalla quale emerge che il sig. […], socio unico della M., non ha mai emesso, né firmato, né inviato direttamente o indirettamente alla […] documenti attestanti di avere effettuato operazioni ai fini Iva con l’applicazione del regime del margine. Di conseguenza le transazioni in questione vanno ad inquadrarsi quali normali cessioni di beni intracomunitari escluse dall’ambito dell’art. 40, comma 2, del D.L. 30 agosto 1993, n. 331 in mancanza dei requisiti necessari per l’applicazione del regime speciale del margine ed in particolare delle due condizioni che debbono essere presenti contestualmente: chilometraggio del mezzo superiore ai 6.000 km e data del provvedimento di prima immatricolazione del mezzo superiore a sei mesi. Nella specie, pertanto, gli autoveicoli sono da considerarsi fiscalmente “nuovi”, come disciplinato dall’art. 38 del citato D.L. n. 331/1993. Tale circostanza, come sostenuto dall’ufficio nelle controdeduzioni, viene confermata dagli atti notori presentati dalla società e dalle attestazioni di acquisto in fase di importazione di autoveicoli “usati”, rientranti nel regime speciale del margine, risultano essere presentate in misura margina-


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le rispetto alla mole di automezzi fatti indebitamente rientrare nel regime speciale del margine. Al riguardo la società non produce alcuna documentazione idonea a contrastare l’operato dell’ufficio impositore che ha legittimamente proceduto

a rettificare le dichiarazioni Iva, applicando le sanzioni previste dal D.Lgs. n. 471/1997. Alla luce di quanto sopra esposto, il Collegio giudicante ritiene conforme a giustizia respingere il ricorso compensando le spese di giudizio.

Nota

speciale del margine, ha considerato intracomunitari e, quindi, assoggettati all’ordinaria disciplina dettata dall’art. 38, del D.L. 331/1993, gli acquisti di veicoli effettuati dalla società ricorrente. A tal proposito, appare opportuno ricordare che, nel caso di acquisto di beni usati provenienti da altro Stato comunitario, l’acquirente può avvalersi del regime del margine solo ove anche il venditore si sia avvalso di tale regime (a tal proposito, si vedano la risposta 10 maggio 2001, n. 964/01, del commissario dell’Unione europea alla fiscalità, nonché la circolare 18 luglio 2003, n. 40/E, dell’Agenzia delle Entrate, in banca dati fisconline). In difetto, lo scambio, pur riguardando un bene usato, sarà soggetto alle regole generali dettate in materia di acquisti intracomunitari. Incombe, poi, sull’acquirente, che voglia avvalersi del regime del margine, verificare, preliminarmente, se il cedente comunitario (che, comunque, emette fattura senza indicazione dell’imposta), abbia effettuato una cessione con utilizzo del regime de quo. Detto onere appare volto ad arginare fenomeni di abuso e le conseguenti distorsioni dei meccanismi del libero mercato. Nel caso esaminato dai giudici romani, la ricorrente non forniva alcuna prova di detta circostanza. Al contrario, dalla documentazione fornita dall’amministrazione francese emergeva che il socio unico della società venditrice dei veicoli non aveva emesso, firmato, o inviato direttamente o indirettamente alla ricorrente documenti attestanti l’effettuazione di operazioni Iva con l’applicazione del regime del margine. Di conseguenza, non essendovi prova che il venditore si fosse avvalso del regime speciale, difettavano, anche in capo all’acquirente, i requisiti per la sua applicazione. La Commissione prosegue, tuttavia, affermando che le transazioni andavano inquadrate quali normali cessioni di beni intracomunitari a causa della mancanza delle due condizioni che consentono di qualificare i veicoli “usati”, secondo i principi dettati dall’art. 38, comma 4, del D.L. 331/1993, e cioè: chilometraggio del mezzo superiore ai seimila chilometri e data del provvedimento di prima immatricolazione del mezzo superiore a sei mesi. I giudici ritengono, quindi, l’inapplicabilità alla fattispecie della disciplina del margine anche per

La sentenza in rassegna affronta un duplice ordine di problematiche. La prima concerne la natura degli atti volti a disciplinare la ripartizione della competenza territoriale tra i diversi uffici delle Agenzie fiscali all’interno di un medesimo comune. La seconda riguarda, invece, la prova delle condizioni per poter usufruire del regime del margine Iva in merito all’acquisto di autoveicoli provenienti da uno Stato comunitario. Relativamente alla prima questione, il contribuente eccepiva la nullità degli avvisi di rettifica perché emessi da un ufficio (Roma 2, anziché Roma 7) asseritamente privo di potere accertativo, in quanto territorialmente incompetente rispetto al proprio domicilio fiscale. La Commissione, premessa la natura di enti pubblici delle Agenzie fiscali (sull’argomento, cfr. Cass., sez. un., 14 febbraio 2006, n. 3118, in banca dati fisconline; Cass., 8 marzo 2006, n. 4935, in Foro It., 2006, 4, 1024; Cass. 8 marzo 2006, n. 4936, in Giust. Civ. Mass., 2006, 3; Cass. 29 marzo 2006, n. 7292, in Boll. Trib., 2006, 11, 951), evidenzia l’assenza di potere normativo in capo alle stesse, a causa della mancanza di un’espressa previsione legislativa in tal senso. Da ciò fa discendere la rilevanza meramente interna dei decreti direttoriali volti alla suddivisione delle competenze territoriali delle Agenzie all’interno dello stesso comune. Detti decreti non sarebbero, quindi, vincolanti, né per i contribuenti, né per lo stesso ente impositore, con la conseguenza che gli avvisi di rettifica non potevano essere considerati emessi da un ufficio territorialmente incompetente. Detta impostazione appare conforme a quanto, in precedenza, espresso da Cass., 27 ottobre 2004, n. 23349 (in banca dati fisconline), secondo cui la distinzione tra gli uffici della medesima Agenzia all’interno di uno stesso comune sarebbe espressione di una distribuzione delle competenze avente valore meramente interno, essendo stata disposta con decreti direttoriali privi di efficacia verso i contribuenti, in quanto aventi natura oggettiva e soggettiva di atti amministrativi. Quanto alla seconda problematica, la Commissione romana ha ritenuto corretto l’operato dell’ufficio che, disconoscendo l’applicabilità del regime


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l’ulteriore (e diversa) argomentazione in base alla quale i veicoli sarebbero da considerare fiscalmente “nuovi”. Si è visto, però, come, nel caso di acquisto di veicoli “nuovi”, l’applicabilità del regime del margine sia, in re ipsa, esclusa (cfr. artt. 36 e 37 del D.L. 41/1995); infatti, solo nel caso in cui lo scambio abbia ad oggetto veicoli “usati” può essere utile verificare se il cedente si sia o meno avvalso del regime del margine, con le conseguenti problematiche in ordine all’onere della prova di detta circostanza. Sembra, quindi, che entrambe le condizioni affermate dalla Commissione (da un lato, la mancata prova dell’utilizzo del regime del margine da parte del venditore comunitario e, dall’altro, la qualifica di “nuovi” dei veicoli) sarebbero, da sole, di per sé, state idonee ad escludere l’applicazione del regime del margine. Un’ultima considerazione riguarda l’irrogazione delle sanzioni e le incertezze applicative sul margine, notoriamente determinate dalla nota n. 136168, del 7 luglio 2000, del Dipartimento delle entrate, che il

contribuente richiama in sede di ricorso. Sul punto, la Commissione tributaria provinciale di Udine, sez. II, 9 febbraio 2005, n. 13 (in banca dati fisconline) ha ritenuto che detta nota poteva generare perplessità in relazione alla procedura descritta per l’applicazione del margine, in quanto lasciava intendere che lo stesso si potesse applicare in ogni transazione commerciale dell’usato estero. I giudici friulani, investiti di una controversia riguardante l’anno di imposta 2000, ritenevano, quindi, che l’Ufficio fosse legittimato alla richiesta dell’imposta dovuta, ma non delle relative sanzioni. Annullava, quindi, la relativa irrogazione ai sensi dell’art. 8 del D.Lgs. n. 546/92, secondo cui la Commissione tributaria dichiara non applicabili le sanzioni non penali qualora la violazione sia giustificata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferisce. La Commissione romana ha ritenuto, invece, legittima, unitamente alla rettifica delle dichiarazioni, anche l’applicazione delle sanzioni.


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Commissione tributaria provinciale di Firenze, sez. XIV, 13 settembre 2006, n. 163 Presidente: Menichetti – Relatore: Carpano Esenzioni e agevolazioni - Conferimento ramo d’azienda - Continuità rapporti di lavoro tra la cedente e la cessionaria - Agevolazioni ex art. 7, L. 388/2000 - Trasferimento del credito d’imposta per incremento dell’occupazione - Configurabilità (L. 23 dicembre 2000, n. 388, art. 7; c.c. art. 2112) In caso di conferimento di azienda, se i rapporti di lavoro di cui era titolare la società conferente perdurano immutati presso la società conferitaria, il credito d’imposta riconosciuto alla società conferente, per effetto di incremento dell’occupazione, ai sensi dell’ art. 7 della legge 388/2000, si trasferisce alla conferitaria. Svolgimento del processo Con atto notificato a controparte in data 2 febbraio 2005 e depositato in data 15 febbraio 2005, la società S. S.p.A., con sede in Firenze, in persona del legale rappresentante V.G., rappresentata e difesa dall’Avv. M. M. e dall’Avv. F. P. ricorre contro l’Agenzia delle Entrate-Ufficio di Firenze I avverso l’avviso di recupero del credito d’imposta indebitamente utilizzato per incremento della occupazione ex art. 7 della legge 388/2000, per gli anni d’imposta 2001, 2002 e 2003, notificato in data 5 settembre 2005. Occorre premettere che la S. S.p.A. è una impresa costituita nel dicembre 2000 tra il Comune di Firenze e la S. S.c.r.l. con conferimento alla ricorrente di un ramo d’azienda con conseguente successione in tutti i rapporti attivi e passivi afferenti tale ramo, ivi compresi, secondo la ricorrente, i rapporti di lavoro agevolati ai sensi della legge 388/2000, art. 7. Di contrario avviso è l’Agenzia delle Entrate secondo cui la società ricorrente avrebbe continuato ad utilizzare in compensazione il credito d’imposta relativo ai dipendenti provenienti dalla conferente S., malgrado l’assenza dei presupposti richiesti dalla legge 388/2000 (assenza di rapporto di lavoro a tempo indeterminato nel biennio precedente). Da qui, l’avviso di recupero emesso dall’Agenzia delle Entrate per indebito utilizzo in compensazione per euro 133.039,21. Invero l’Agenzia delle Entrate ritiene che a seguito del conferimento d’azienda i dipendenti assunti da S. avrebbero perso il requisito soggettivo, ne-

cessario per beneficiare della agevolazione, al momento della assunzione da parte della neo costituita S. S.p.A. Col proposto ricorso la S. S.p.A. ritiene che la tesi recepita dalla Agenzia delle Entrate sia in palese contrasto con le norme sull’utilizzo del bonus assunzioni in occasione di conferimento d’azienda. In concreto la ricorrente ritiene che il “contendere” non consiste nello stabilire se i rapporti di lavoro ceduti siano o meno agevolabili, ma, piuttosto nel verificare se il credito di imposta maturato dalla società conferente si trasferisca o meno alla società conferitaria. La ricorrente invoca, quanto alla disciplina del trasferimento di azienda, l’art. 2112 c.c. secondo cui i rapporti di lavoro proseguono immutati presso la società cessionaria in tutti i loro aspetti contenutistici, senza soluzione di continuità, come affermato dalla Corte di Cassazione (29 settembre 2005, n. 17418) e come si evince dall’art. 7 della legge 388/2000, talché, nella fattispecie, il credito d’imposta maturato in capo alla società conferente si trasferisce alla società conferitaria. Si chiede che sia accertata la illegittimità del recupero d’imposta come operato dalla Agenzia delle Entrate, con vittoria di spese. Con atto depositato il 17 gennaio 2006 l’Agenzia delle Entrate si costituisce in giudizio e resiste argomentando sulla legittimità del proprio operato suffragata dalla motivazione dell’avviso di recupero. Si chiede la reiezione del ricorso con vittoria di spese. Motivi della decisione Il Collegio esaminati gli atti e udite le parti, ritiene il ricorso fondato e meritevole di accoglimento. L’affermazione dell’Agenzia delle Entrate assunta a motivo del recupero del credito d’imposta ex art. 7 della legge 388/2000, secondo cui con il conferimento d’azienda, «essendo le due società distinte ed autonome», i dipendenti assunti da S. perderebbero «il requisito soggettivo (assenza di rapporto di lavoro a tempo indeterminato nel biennio precedente) al momento della assunzione da parte della neo costituita S. S.p.A. per cui non sarebbero più suscettibili di produrre il beneficio di legge» deve essere disattesa. Invero, ritiene il Collegio che il credito di imposta maturato in capo alla società conferente si trasferisce alla società conferita-


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ria. Detto convincimento è suffragato dalla lettera dell’art. 2112 c.c. per un verso e dalla ratio che ha ispirato l’art. 7 della legge 388/2000 per l’altro. L’art. 2112 stabilisce che col trasferimento di azienda i rapporti di lavoro proseguono immutati in capo alla società cessionaria, talché il singolo lavoratore conserva tutti i diritti contrattuali acquisiti. Quanto alla legge 388/2000, ritiene il Collegio che la suddetta “continuità” prova che la S. spa non ha effet-

tuato nuove assunzioni nei confronti dei lavoratori pervenuti direttamente dalla S. S.c.r.l., per cui è evidente che la agevolazione consistente nel credito d’imposta si trasferisce alla ricorrente, nel pieno rispetto della finalità dell’art. 7, non solo dell’aumento dei dipendenti (in capo alla società cedente), ma anche mantenendo la base occupazionale. Ritiene il Collegio che ricorrano giusti motivi per compensare tra le parti le spese del giudizio.

Nota

to) i rapporti di lavoro proseguono immutati presso la cessionaria, implica la necessaria unità e continuità dell’originario contratto di lavoro, che continua a vincolare il cessionario dell’azienda, salva la diversa volontà del dipendente (Cass., sentenza 29 settembre 2005, n. 17418). I requisiti soggettivi che i dipendenti agevolati devono possedere ai sensi dell’art. 7 unitamente alla previsione dell’art. 2112 c.c. (secondo il quale, appunto, sussiste una prosecuzione in capo alla società conferitaria dei rapporti lavorativi senza soluzione di continuità) consentono quindi di ricollegare il beneficio tributario unicamente alla persona del lavoratore. Come precisato anche in giurisprudenza, il mutamento del titolare di azienda lascia inalterata la struttura e l’unicità organica del complesso aziendale, senza in particolare che sussista la necessità che il datore di lavoro debba procedere di nuovo alla assunzione dei dipendenti (cfr. Cass., sentenza 10 gennaio 2004, n. 206 in Corriere trib., 2004, 11, 862; Comm. trib. prov. Firenze, 13 maggio 2005, n. 89, risoluzione Agenzia delle Entrate n. 239 del 19 luglio 2002, in Fisco 2002, 2, 34, 4941, n. 26/E del 5 febbraio 2003, in Fisco, 2003, 2, 6, 917).

La Commissione tributaria provinciale di Firenze ha ritenuto che, in caso di conferimento di un ramo di azienda, l’agevolazione relativa al credito d’imposta maturato per l’incremento dell’occupazione si trasferisce legittimamente dalla società conferente alla società conferitaria, in virtù della successione di quest’ultima in tutti i rapporti attivi e passivi afferenti tale ramo, ivi compresi i rapporti di lavoro “agevolati” ex art. 7, L. 23 dicembre 2000 n. 388. Contrariamente a quanto sostenuto dall’Ufficio, secondo il quale a seguito del conferimento di azienda «essendo le due società distinte ed autonome» i dipendenti assunti dalla cedente «perderebbero il requisito soggettivo (assenza di rapporto di lavoro a tempo indeterminato nel biennio precedente) al momento della assunzione da parte nella neo costituita S. S.p.A.» non risultando quindi «più suscettibili di produrre il beneficio di legge», la Commissione ha stabilito che il trasferimento del credito d’imposta dalla conferente alla conferitaria sia pienamente giustificato: il comma 1 dell’art. 2112 c.c., disponendo che nel trasferimento di azienda (cui è assimilabile il conferimen-


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ICI SULLA DELIMITAZIONE TERRITORIALE DELL’ESENZIONE ICI PER LE AREE AGRICOLE SVANTAGGIATE 4

Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. V, 21 febbraio 2006, n. 12

La nuova classificazione delle aree agricole svantaggiate effettuata ai fini previdenziali dalla delibera Cipe del 1° febbraio 2001 deve intendersi sostitutiva della precedente delimitazione rilevante ai fini dell’esenzione Ici ex art. 7, comma 1, lett. h, D.Lgs. 504/92. Essa, pertanto, si applica anche ai terreni che ricadono in territorio comunale precedentemente non agevolato e adesso ricompreso.

l’Ici, tale imposta non è dovuta per i terreni agricoli ricadenti aree montane o di collina delimitate ai sensi dell’art. 15 della L. 27 dicembre 1977, n. 984. Un prima delimitazione fu fatta dal Ministero delle finanze con la circolare n. 9/E del 14 giugno 1993, ma una nuova classificazione è stata fatta in data 1 febbraio 2001 con deliberazione n. 13 del Cipe sulla base dell’art. 2 del D.Lgs. 16 aprile 1997, n. 146. Tale nuova delimitazione si sostituisce alla precedente e la abroga. Lamenta nel rito di avere presentato istanza di pubblica udienza presso la Commissione tributaria provinciale di Viterbo, ma di non aver avuto notizia della nuova data dell’udienza, con preclusione della possibilità di difesa. Il Comune di Montalto di Castro, costituito in giudizio, contesta le affermazioni del ricorrente e conclude per la reiezione dell’appello.

Svolgimento del processo

Motivi della decisione

Il sig. A. L., titolare di un’azienda agricola sita nel Comune di Montalto di Castro, per l’anno 2001 ha calcolato l’Ici relativa ai suoi terreni applicando ad essi la classificazione di zone svantaggiate prevista a fini previdenziali dalla delibera Cipe n. 13 dell’1 febbraio 2001. Il Comune non ha accettato tale classificazione in quanto i terreni non rientrano tra le zone svantaggiate descritte dalla circolare del Ministero delle finanze n. 9/E del 14 giugno 1993 ed ha inviato ad A. L. un avviso di liquidazione in rettifica (n. xxx), dell’importo di euro 5.716,11, oltre ad euro 1.714,83 per sanzioni ed euro 357,25 per interessi. La Commissione tributaria provinciale di Viterbo con sentenza n. 236 del 15 gennaio 2005 ha respinto il ricorso col quale A. L. ha impugnato il suddetto avviso ritenendo che la normativa da lui invocata non possa essere applicata all’imposta Ici sui terreni in quanto si riferisce esclusivamente alle agevolazioni in materia di previdenza agricola. A. L. ha impugnato tale sentenza con atto di appello consegnato alle poste il 16 aprile 2005 e pervenuto al Comune il 20 aprile 2005. Sostiene che a norma del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, istitutivo del-

Va preliminarmente esaminato il motivo di appello relativo alla regolarità dello svolgimento del giudizio di primo grado sotto il profilo dell’integrità del diritto di difesa. In proposito val bene ricordare che l’art. 33 del D.Lgs. n. 546/1992 stabilisce che «La controversia è trattata in camera di consiglio salvo che almeno una delle parti non abbia chiesto la discussione in pubblica udienza, con apposita istanza da depositare nella segreteria e notificare alle altre parti costituite entro il termine di cui all’art. 32, comma 2». In nessuna parte le norme di procedura stabiliscono che la trattazione in udienza pubblica determini uno spostamento di data della trattazione stessa. In altri termini, di tutte le cause viene dato avviso alle parti per una certa data; a quella stessa data tutte le cause sono trattate in camera di consiglio, ad eccezione di quelle per le quali sia stata chiesta la pubblica udienza, che sono trattate in pari data. Ne consegue che nessun nuovo avviso doveva essere dato alla parte che ben conosceva il giorno dell’udienza. Per quanto attiene al merito, l’appello è fondato. A norma dell’art. 2 del D.Lgs. n. 146/1997 a decorrere dall’ 1 gennaio 2000, il complesso delle

Presidente: Bajardi – Relatore: Barberio Corsetti Ici - Esenzione terreni agricoli - Delimitazione Vecchia zonizzazione - Nuova delibera Cipe - Applicazione ad aree non indicate in precedenza Ammissibilità (Delibera Cipe n. 13 dell’1 febbraio 2001; D.Lgs. 16 aprile 1997, n. 146, art. 2; D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504; L. 27 dicembre 1977, n. 984, art. 15)


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agevolazioni di cui all’art. 11, comma 27 della L. 24 dicembre 1993, n. 537, e all’art. 1, comma 50 del D.L. 31 gennaio 1997, n. 11, convertito, con modificazioni, dalla L. 28 marzo 1997, n. 81, è ridistribuito in base ad una nuova classificazione delle zone svantaggiate, tenendo anche conto del regolamento CE n. 1260/1999 del Consiglio del 21 giugno 1999. La classificazione di cui al comma 1 e la misura delle agevolazioni sono determinate dal Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe), su proposta del Ministro delle risorse agricole, alimentari e forestali, d’intesa con il Comitato permanente delle politiche agro-alimentari e forestali, di cui all’art. 2, comma 6 della L. 4 dicembre 1993, n. 491, di concerto con i Ministri del lavoro e della previdenza sociale e del tesoro, sentite le organizzazioni sindacali di categoria, sulla base dei seguenti criteri di individuazione delle zone: a) zone interessate dalla realizzazione dell’obiettivo n. 1 del regolamento CEE n. 2081 del 20 luglio 1993; b) zone, comprese quelle di cui alla lettera a), svantaggiate in relazione alle condizioni socio economiche e fisico-ambientali, tra cui quelle previste ai fini dell’obiettivo n. 5b del regolamento CEE n. 2081 del 20 luglio 1993; in tale ambito viene attribuito, anche ai fini della misura dell’agevolazione, particolare rilievo al parametro altimetrico. È vero che la “nuova classificazione delle zone svantaggiate” è prevista nell’attuazione di una delega avente per oggetto il riordino previdenziale, ma è anche vero che l’aggettivo “nuova” con tutta evidenza si riferisce ad una precedente classificazione che deve intendersi superata. Ne consegue che la nuova classificazione si sostituisce alla precedente a tutti gli effetti e che essa deve costituire il presupposto per l’applicazione di qualsiasi dispo-

sizione faccia riferimento alle aree svantaggiate. Né sembra di ostacolo a tale interpretazione la lettera dell’art. 7, comma 1, lettera h, del D.Lgs. n. 504/1992 laddove attribuisce il beneficio fiscale dell’esenzione solo ai terreni agricoli ricadenti in aree montane o di collina delimitate ai sensi dell’art. 15 della L. 27 dicembre 1977, n. 984. Il Cipe, infatti, quando ha provveduto ad elaborare la nuova classificazione delle aree svantaggiate l’ha fatto in base alla disposizione di cui al D.Lgs. n. 146/1997, ma in forza dei poteri attribuitigli dalla L. n. 984/1977, che il D.Lgs. n. 146 non ha richiamato, ma che debbono considerarsi impliciti nella lettera della disposizione sopra citata, laddove parla di “nuova classificazione”. La classificazione resta pertanto sempre quella di cui alla L. n. 984, che l’attribuiva alla competenza del Cipaa, in sostituzione del Cipe, il quale riceve dal decreto legislativo solo il compito di rinnovarla, secondo i poteri già definiti dall’ordinamento. Solo questa interpretazione consente di risolvere il dubbio di legittimità costituzionale di disposizioni che, facendo riferimento ad un solo presupposto (la delimitazione delle aree svantaggiate), nell’interpretazione dell’amministrazione delle finanze lo duplicherebbero, con l’effetto perverso che aree considerate svantaggiate ai fini contributivi non lo sarebbero ai fini fiscali, con violazione del principio della capacità contributiva. Ne consegue che l’appello deve essere accolto. Sussistono tuttavia giusti motivi per compensare le spese del giudizio.

Nota di Andrea Bodrito

vecchia delimitazione di cui all’art. 15, L. 984/77, cui fa rinvio la disciplina agevolativa dell’Ici.

Nel commento viene analizzato l’articolato e complesso quadro legislativo riguardante la delimitazione territoriale dell’esenzione Ici per le aree agricole svantaggiate, di cui all’articolo 7 del D.Lgs. n. 504/92, con una disamina critica del percorso argomentativo seguito dal giudice di appello, il quale ha ritenuto che la nuova elencazione delle aree collinari e montane svantaggiate, individuate dalla delibera del Cipe 1 febbraio 2001, n. 13 (ai fini dell’applicazione di benefici previdenziali recati dal D.Lgs. 146/97), sostituisca la

P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata e l’avviso di liquidazione impugnato in prime cure. Compensa le spese del giudizio

La fattispecie esaminata La sentenza in rassegna, di cui non constano precedenti, riguarda la delimitazione territoriale dell’esenzione Ici per le aree agricole svantaggiate disposta dall’art. 7, comma 1, lett. h, D.Lgs. 504/92. Questa norma, infatti, esenta dall’imposta i terreni ricadenti nelle aree “delimitate ai sensi dell’art. 15 della legge n. 984/1977”, di cui l’amministrazione finanziaria ha effettuato una specifica ricognizione1. Un contribuente, proprietario di un terreno agri-

1 Cfr. circ. min., 14 giugno 1993, n. 9/249, in I quattro codici della riforma tributaria Big, cd rom Ipsoa.


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colo ricadente in un Comune non rientrante tra i terreni agevolati ai fini Ici in base alla detta circolare, ha però rilevato di ricadere nell’ambito territoriale di applicazione delle agevolazioni previdenziali, e ciò in base alla zonizzazione effettuata dal Cipe con delibera 1 febbraio 2001, n. 132. Il contribuente, ritenendo che questa nuova “zonizzazione” debba intendersi come sostituiva della precedente, e quindi applicabile anche ai fini Ici, non versò il tributo. Da ciò il recupero dell’ente impositore mediante un avviso di liquidazione, dalla cui impugnazione è scaturita la lite decisa con la sentenza in rassegna. Il complesso quadro normativo La sentenza in esame, che riforma la decisione di primo grado, decide in favore del contribuente, ma si deve subito affermare che il percorso argomentativo non è convincente. Vediamo i dati normativi interpretati. Il quadro è complesso, perchè occorre seguire lo sviluppo della disciplina tributaria e di quella previdenziale, che hanno un punto d’incontro nella “delimitazione” di cui all’art. 15, L. 984/77. Seguiamo ora la traccia relativa al versante tributario. L’art. 7, comma 1, lett. h, D.Lgs. 504/92, sancisce che «sono esenti dall’imposta […] i terreni agricoli ricadenti in aree montane o di collina delimitate ai sensi dell’articolo 15 della legge 27 dicembre 1977, n. 984». Con tale legge viene disciplinato il «coordinamento degli interventi pubblici nei settori della zootecnia, della produzione ortoflorofrutticola, della forestazione, dell’irrigazione, delle grandi colture mediterranee, della vitivinicoltura e della utilizzazione e valorizzazione dei terreni collinari e montani». L’art. 1 attribuisce al Cipe e, limitatamente alla politica agricolo-alimentare al Cipaa, i poteri di fissazione degli indirizzi generali e degli obiettivi dell’economia agricola nazionale e della utilizzazione e valorizzazione dei terreni collinari e montani. L’art. 3 attribuisce al Cipaa il potere di predisporre il piano nazionale con l’indicazione, tra l’altro, degli indirizzi generali, degli obiettivi da conseguire e degli interventi di competenza nazionale da attuarsi ai fini dello sviluppo dell’economia agricola nazionale. Il successivo art. 15 specifica che «gli indirizzi di cui al precedente art. 3 relativamente ai terreni di collina e di montagna avranno riguardo alle esigenze» fissate dalla legge e individuano, tra l’al-

2 In La legge, cd rom Ipsoa. 3 Art. 9, comma 5, L. 11 marzo 1988,

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tro, «le zone di intervento suscettibili di valorizzazione produttiva e le produzioni da sviluppare nelle medesime», e «le opere da realizzare, le priorità e le forme di incentivazione, favorendo in particolare la creazione e lo sviluppo di forme associate e cooperative alle quali assegnare i terreni incolti in base alle norme di legge vigenti». Il Cipaa, con deliberazione 13 dicembre 1979, adottò il piano agricolo nazionale pluriennale ed effettuò la delimitazione delle aree di intervento indicate nel piano di settore relativo ai terreni di collina e di montagna. Questa zonizzazione costituisce l’oggetto del rinvio effettuato dalla lettera dell’art. 7, lett. h, D.Lgs. 504/92. Esaminiamo ora la legislazione sul versante previdenziale. Già l’art. 13, ultimo comma, D.L. 29 luglio 1981, n. 402, relativo ad agevolazioni contributive previdenziali, ne estendeva l’ambito d’applicazione mediante rinvio «alle zone agricole svantaggiate, delimitate ai sensi dell’art. 15 della L. 984/77». Mediante successive disposizioni venne poi variamente modificata l’aliquota agevolata dei contributi previdenziali dovuti dai datori di lavoro agricolo operanti nelle zone svantaggiate “delimitate” ai sensi dell’art. 15, L. 984/773. La “nuova” zonizzazione in materia (quella che la sentenza in esame ha ritenuto sostitutiva della “vecchia”) scaturisce, però, dalla riforma dell’intero sistema pensionistico e previdenziale, introdotta con la legge 8 agosto 1995, n. 3354. Per le specificità proprie della previdenza del settore agricolo, il legislatore ordinario, con l’art. 2, comma 24, L. 335/95, delegò il governo «ad emanare, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, norme intese a rendere compatibili con tali specificità i criteri generali in materia di calcolo delle pensioni e di corrispondenza tra misura degli importi contributivi e importi pensionistici». Nel fissare i principi direttivi, il legislatore delegante stabilì, tra l’altro, alla lett. b, la «razionalizzazione delle agevolazioni contributive al fine di tutelare le zone agricole effettivamente svantaggiate», e alla successiva lett. d la «fiscalizzazione degli oneri sociali in favore dei datori di lavoro, in coerenza con quella prevista per gli altri settori produttivi, nella considerazione della specificità delle aziende a più alta densità occupazionale site nelle zone di cui agli obiettivi 1 e 5b del regolamento

n. 67. 4 Recante il titolo Riforma del sistema

pensionistico obbligatorio e complementare.


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CEE n. 2052/88 del Consiglio del 24 giugno 1988». In altri termini, la legge 335/95, disponendo la riforma del sistema previdenziale generale, sancì il raccordo tra la riforma del sistema e la previdenza del settore agricolo anche mediante la razionalizzazione delle agevolazioni contributive per le aree svantaggiate, tenendo specificatamente conto dell’occupazione per le zone di cui agli obiettivi 1 e 5b del reg. CEE 2052/88. In attuazione di queste direttive venne emanato il D.Lgs. 16 aprile 1997, n. 146 che, all’art. 2, dispose la riclassificazione delle zone svantaggiate. Il potere di effettuare detta riclassificazione venne attribuito espressamente al Cipe5 allo specifico fine di ridistribuire il complesso delle agevolazioni recate dall’art. 11, comma 27, L. 537/93 e dall’art. 1, comma 50, D.L. 11/97: si tratta delle norme che determinano aliquote previdenziali agevolate per il settore agricolo6. Il Cipe ha poi esercitato i poteri di riclassificazione delle zone svantaggiate ai fini previdenziali con la delibera 1 febbraio 2001, n. 13, delibera richiamata nella sentenza qui in esame come legittimante l’esenzione Ici ad aree non incluse nella “vecchia” delimitazione ex art. 15, L. 984/77. In questo articolato e complesso quadro legislativo si inserisce la ricostruzione operata dalla sentenza in esame. La decisione del giudice di appello si fonda sulla tesi che la nuova elencazione delle aree collinari e montane svantaggiate, individuate dalla delibera del Cipe 1 febbraio 2001, n. 13, ai fini dell’applicazione di benefici previdenziali recati dal D.Lgs. 146/97, sostituisce la vecchia delimitazione ex art. 15, L. 984/77, cui fa rinvio la disciplina agevolativi dell’Ici. Il percorso argomentativo seguito dal giudice Nella sentenza si dà atto che vi è una asimmetria,

5 Il Cipaa, nel frattempo, era stato soppresso con l’art. 2 della L. 8 novembre 1986, n. 752, e le sue funzioni erano state devolute al Cipe. 6 Si riporta il testo dell’art. 2, D.Lgs. 16 aprile 1997, n. 146 (nel testo modificato dall’art. 27, comma 19, L. 23 dicembre 1999, n. 488, a decorrere dall’1 gennaio 2000): «1. A decorrere dal 1 gennaio 2000 il complesso delle agevolazioni di cui all’articolo 11, comma 27, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, e all’articolo 1, comma 50, del decreto legge 31 gennaio 1997, n. 11, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 1997, n. 81, è ridistribuito in base ad una nuova classificazione delle zone

un salto, tra le delimitazioni territoriali che si succedono nel tempo, e ciò sotto due profili: 1) quanto alle fonti di legge, perchè la “vecchia” delimitazione è effettuata dall’art. 7, D.Lgs. 504/92 mediante rinvio all’art. 15, L. 984/77, mentre la “nuova” è stata disposta dall’art. 2, D.Lgs. 146/97; 2) quanto alla materia oggetto delle due diverse fonti di legge, perchè l’art. 7, D.Lgs. 504/92 riguarda le agevolazioni fiscali, mentre il D.Lgs. 146/97 riguarda la materia dei contributi previdenziali. Per superare questa asimmetria, il giudice ricorre all’argomento dell’interpretazione adeguatrice, e quindi alla necessità di interpretare le leggi in modo che la norma applicabile alla specie sia conforme alla costituzione7. Questo argomento richiede di individuare il parametro costituzionale violato dall’interpretazione della legge proposta da una delle parti, nella specie il Comune, e quindi di indicare il percorso ricostruttivo delle disposizioni di legge rilevanti che conduce a individuare la norma conforme alla Costituzione applicabile al caso concreto. Nella motivazione si afferma, infatti, che ove si ritenesse che la nuova elencazione, relativa alle agevolazioni previdenziali, non si estendesse all’Ici, si dovrebbe ritenere leso il principio di “capacità contributiva” per «l’effetto perverso che aree considerate svantaggiate a fini contributivi non lo sarebbero ai fini fiscali». Ne deriva che una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni rilevanti deve condurre a estendere l’applicazione della nuova elencazione delle aree collinari e montane ex D.Lgs. 146/97 anche all’Ici. La ricostruzione del quadro normativo in questo senso sarebbe possibile perchè il Cipe avrebbe effettuato la nuova classificazione ai fini del D.Lgs. 146/97, «ma in forza dei poteri attribuitegli dalla legge 984/1977», cui fa espresso rinvio l’art. 7,

svantaggiate, tenendo anche conto del regolamento CE n. 1260/1999 del Consiglio del 21 giugno 1999. 2 La classificazione di cui al comma 1 e la misura delle agevolazioni sono determinate dal Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe), su proposta del Ministro delle risorse agricole, alimentari e forestali, d’intesa con il Comitato permanente delle politiche agroalimentari e forestali, di cui all’articolo 2, comma 6 della legge 4 dicembre 1993, n. 491, di concerto con i Ministri del lavoro e della previdenza sociale e del tesoro, sentite le organizzazioni sindacali di categoria, sulla base dei seguenti criteri di individua-

zione delle zone: a) zone interessate dalla realizzazione dell’obiettivo n. 1 del regolamento CEE n. 2081 del 20 luglio 1993; b) zone, comprese quelle di cui alla lettera a), svantaggiate in relazione alle condizioni socio-economiche e fisico-ambientali, tra cui quelle previste ai fini dell’obiettivo n. 5 b del regolamento CEE n. 2081 del 20 luglio 1993; in tale ambito viene attribuito, anche ai fini della misura dell’agevolazione, particolare rilievo al parametro altimetrico». 7 Sull’interpretazione adeguatrice e suoi suo problemi, cfr. MELIS, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2003, 302 ss.


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comma 1, lett. h, D.Lgs. 504/92. Il giudice non manca di rilevare che, invero, l’art. 2, comma 1 del D.Lgs. 146/97, afferente la materia previdenziale, attribuendo al Cipe il potere di effettuare una nuova classificazione delle zone svantaggiate, non rinvia ai poteri di cui alla legge 984/77, ma – si legge in motivazione – il rinvio ai poteri ex lege 984/77 debbono «considerarsi impliciti nella lettera della disposizione sopra citata, laddove parla di “nuova classificazione”. La classificazione resta pertanto sempre quella di cui alla legge 984, che l’attribuiva alla competenza del Cipaa, in sostituzione del Cipe, il quale riceve dal decreto legislativo solo il compito di rinnovarla, secondo i poteri già definiti dall’ordinamento». Le argomentazioni esposte pongono pongono alcuni rilevanti problemi non affrontati. Uguaglianza e capacità contributiva La sentenza in esame afferma che la non coincidenza tra l’ambito di applicazione delle agevolazioni territoriali Ici e previdenziali configurerebbe una disparità di trattamento (art. 3 Cost.) incompatibile con il canone della capacità contributiva (art. 53 Cost.). Si deve però rilevare che l’insegnamento della Corte costituzionale è costante nel circoscrivere l’ambito oggettivo di applicazione dell’art. 53 cost. alla sola materia tributaria. La Corte ha semmai precisato che all’interno della materia tributaria esso «ha riguardo soltanto alle contribuzioni relative a prestazioni di servizi il cui costo non si può determinare divisibilmente» (Corte cost., 20 aprile 1977, n. 62, e ha quindi concluso che le tasse sono escluse dall’ambito di applicazione del principio in esame (Corte cost., 20 aprile 1977, n. 62; 23 luglio 1980, n. 119; 21 giugno 1988, n. 55)8. Non solo, quindi, l’ambito di applicazione dell’art. 53 è interno alla materia tributaria, ma non si estende neppure a tutto l’ambito delle entrate fiscali, ma solo a quelle che debbano essere ascritte alla categoria delle “imposte” tecnicamente intesa. Esso, dunque, non può ricondursi alla materia previdenziale9. Si osservi che nessuna assimilazione della due materie, previdenziale e tributaria, può essere operata muovendo dall’esistenza di obblighi comune-

8 Cfr. MARONGIU, I fondamenti costituzionali dell’imposizione tributaria, Torino, 1995, 102. 9 Specificatamente, sul punto, LA SALA, Le prestazioni imposte nell’ordinamento

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mente definiti “contributivi”, e quindi aventi per oggetto il pagamento di una somma di denaro. Infatti sebbene le obbligazioni tributarie e previdenziali hanno lo stesso oggetto generico (somma di denaro) ben distinti sono i titoli, che hanno propri nomina iuris, costituiti da termini tecnicizzati, che rimandano a precisi fatti della vita, tassativamente individuati dalla legge, verificandosi i quali sorgono i relativi distinti obblighi10. L’obbligazione tributaria per Ici è a titolo di “imposta”, l’obbligazione previdenziale è a titolo “contributo”. Gli obblighi tributari e previdenziali sono poi distinti e diversi anche sotto il profilo della funzione. L’imposta ha lo scopo di assicurare il concorso di tutti, cittadini e non cittadini, alle spese pubbliche, i contributi previdenziali hanno lo scopo di apprestare un’idonea protezione al cittadino nei cui confronti si verifichi un evento impeditivo che lo allontani dal lavoro. I fondamenti costituzionali sono distinti. Già si è fatto riferimento, con riguardo all’imposta, all’art. 53 Cost., il quale contiene sia la sanzione dell’obbligo del concorso alle spese pubbliche, sia l’individuazione del criterio fondamentale di riparto delle spese pubbliche tra i consociati, la “capacità contributiva”. Con riguardo alla previdenza e assistenza sociale si deve invece fare riferimento all’art. 38 Cost., e in particolare, per i profili previdenziali, al comma 2, il quale garantisce i lavoratori a che siano «preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria». Se la contribuzione previdenziale è estranea al campo di applicazione della capacità contributiva, quest’ultimo non può logicamente essere impiegato come parametro di riferimento per affermare che le aree svantaggiate debbono godere di agevolazioni sia fiscali che previdenziali. In altri termini, laddove siano stabilite delle agevolazioni fiscali di tipo territoriale, il principio di capacità contributiva non richiede che a queste vengano aggiunte anche agevolazioni previdenziali, perchè i presupposti dell’obbligo tributario e dell’obbligo previdenziale non sono tra loro comparabili: si tratta di posizioni diverse che certamente meritano trattamenti diversi rispetto al

tributario e parafiscale, Milano, 2006, 187. 10 Il presupposto dell’Ici è costituito dal possesso del terreno agricolo, il presupposto previdenziale è costituito

dalla maturazione del diritto a percepire una retribuzione (L A SALA, op. cit., 197).


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principio di capacità contributiva, richiamato dalla sentenza in esame, il quale è estraneo all’ordinamento previdenziale. La stretta interpretazione delle norme di esenzione Un ulteriore profilo che deve essere posto riguarda il principio secondo il quale nell’ambito dell’ordinamento tributario le fattispecie agevolate, proprio perchè costituiscono eccezione al principio di parità di trattamento rispetto al canone della capacità contributiva, sono di stretta interpretazione11. Ne deriva che l’ambito territoriale di applicazione oggettiva di una agevolazione non può essere esteso in via interpretativa a un oggetto diverso da quello fissato dalla legge. L’ambito di applicazione dell’esenzione di cui all’art. 7, lett. h, D.Lgs. 504/92, definito mediante il riferimento alle aree delimitate ex art. 15, L. 984/77, non può essere ampliato con l’interpretazione analogica. Nella specie si tratterebbe – nella prospettazione delineata nella sentenza in esame – dell’analogia dei principi: un territorio il quale secondo la lettera della legge non è agevolato ai fini Ici ma agevolato ai fini previdenziali, dovrebbe intendersi agevolato anche ai fini Ici, perchè se manca la capacità previdenziale, manca anche la capacità contributiva. Si deve allora osservare che dottrina e giurisprudenza prevalenti12 affermano che il legislatore individua discrezionalmente le agevolazioni, con valutazione insindacabile che non ammette allargamenti per analogia all’interno del settore tributario. Dubbi sulla riferibilità della nuova delimitazione all’art. 15 L’art. 7, lett. h, D.Lgs. 504/92 è un’agevolazione territoriale il cui ambito di applicazione non è individuato direttamente, ma indirettamente, mediante rinvio alle aree montane o di collina «delimitate ai sensi dell’art. 15, L. 984/77». Si è dianzi evidenziato che la nuova classificazione, realizzata in attuazione dell’art. 2, D.Lgs. 946/77, è disposta dal comma 1 dello stesso articolo allo specifico fine di ridistribuire il complesso delle agevolazioni recate dall’art. 11, comma 27, L. 537/93 e dall’art. 1, comma 50 D.L. 11/97: si tratta delle norme che determinano le aliquote

11 La dottrina e giurisprudenza prevalenti tendono a negare la possibilità di integrare analogicamente le norme di esenzione, trattandosi comunque di norme derogatorie o eccezio-

previdenziali agevolate per il settore agricolo. Il Cipe ha poi esercitato i poteri di riclassificazione delle zone svantaggiate ai fini previdenziali con la delibera 1 febbraio 2001, n. 13, che ha incluso in dette zone aree non agevolate dalla “vecchia” delimitazione. Appare dunque dubbio che vi sia una continuità tra la “vecchia” e la “nuova” classificazione, per cui la seconda avendo finalità diverse dalla prima, non può dirsi rivestire carattere sostitutivo. La definizione della “nuova” classificazione, infatti, non ha alcun nesso diretto con i poteri relativi alla determinazione del piano agricolo nazionale attribuiti dall’art. 15 della legge 984/77, poiché costituisce esercizio dei poteri espressamente attribuiti al Cipe ai fini della riforma della previdenza del settore agricolo nell’ambito della riforma del sistema di previdenza obbligatoria e complementare recata dalla legge 335/95. Ciò trova conferma nella sentenza della Corte costituzionale, 18 maggio 1989, n. 254, la quale, dovendo decidere dell’estensione dei presupposti soggettivi di applicazione delle agevolazioni previdenziali per le zone agricole svantaggiate, ha precisato che la zonizzazione di cui alla legge 984/77 è stata effettuata in base a «pertinenti e specifici criteri di zonizzazione, con correlata individuazione, per i singoli territori, delle cause di preminente depressione, atte a validamente giustificare gli interventi agevolativi ai sensi del piano agricolo nazionale, redatto dal Cipaa e successivamente approvato dal Consiglio dei Ministri». Se il legislatore tributario ha delimitato l’esenzione Ici mediante rinvio alla zonizzazione strumentale agli obiettivi della politica agro-alimentare, non v’è alcun collegamento tra detta delimitazione mediante rinvio e una nuova zonizzazione strumentale ad un diverso e più limitato obiettivo, quale quello della riforma previdenziale. La mancanza di collegamenti con la disciplina tributaria è confermata pure dall’assenza del Ministro delle finanze tra i soggetti coinvolti nella nuova classificazione territoriale. Ai sensi dell’art. 2, D.Lgs. 146/99, i soggetti coinvolti sono, infatti, il Ministro delle risorse agricole, alimentari e forestali, come proponente, e il Ministro del lavoro e della previdenza sociale e il Ministro del tesoro per il concerto.

nali rispetto alla ratio del tributo. Nella manualistica, per tutti, TESAURO, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale. Torino, 2003, 58 e FANTOZZI, Diritto tributario, Torino, 2003, 185. In

senso contrario, FALSITTA, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Padova, 2003, 182. 12 Vedasi gli autori citati nella nota precedente.


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Si deve dunque ritenere dubbio che la nuova classificazione delle aree svantaggiate, diposta dall’art. 2, D.Lgs. 146/97, sia riconducibile ai poteri di cui alla legge 984/77. Il concetto di “nuova classificazione” I dati normativi, in sintesi, portano a ritenere che l’aggettivo “nuova” designi una classificazione che supera e sostituisce ai soli fini previdenziali la “vecchia” classificazione, come risulta dai seguenti specifici argomenti: 1) la vecchia classificazione era uno strumento di politica agricola, la nuova classificazione di politica previdenziale; 2) le agevolazioni previdenziali agricole per le zone svantaggiate anteriori alla “redistribuzione” erano dunque agganciate a una delimitazione territoriale effettuata mediante rinvio alla classificazione predisposta nell’ambito del coordinamento della politica agricola; 3) è logico ritenere che la nuova classificazione, informata strettamente all’esigenza della “redistribuzione” delle agevolazioni previdenziali costituisca un totale superamento della “vecchia classificazione” esclusivamente ai detti fini. Non appare dunque condivisibile la sentenza in esame laddove afferma che siccome «l’aggettivo nuova con tutta evidenza si riferisce a una precedente classificazione […] ne consegue che la nuova classificazione si sostituisce alla precedente a tutti gli effetti, e che essa deve costituire il presupposto per l’applicazione di qualsiasi disposizione faccia riferimento alle aree svantaggiate». Detta affermazione, infatti, per un verso appare frutto dell’errata interpretazione sistematica delle norme in base alle quali sono state predisposte sia la “vecchia” che la “nuova classificazione”, per altro verso sembra voler colmare una vagheggiata lacuna (rinvio alla classificazione sostituita) che invero non si configura se solo si considerino distintamente le nozioni di “rinvio formale” e di “rinvio materiale” ad altra disposizione di legge, come ora si illustrerà. Il carattere “materiale” del rinvio alle aree delimitate ex art. 15 Esaminiamo ora il rapporto intercorrente tra l’art. 7, comma 1, lett. h, D.Lgs. 504/92 e la disposizione cui è fatto rinvio, e precisamente le “aree delimitate” ai sensi dell’art. 15, L. 984/77. Si deve ricordare che i riferimenti di una proposizione normativa ad altra proposizione normativa possono avere il carattere di rinvio “formale o mo-

13 GUASTINI, Teoria e dogmatica delle fonti, Milano, 1998, 662.

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bile” o di rinvio “materiale o statico o recettizio”. Nel primo caso la legge rinvia ad altra legge intendendo richiamare la fonte, prima ancora della disposizione recata dalla fonte. Ne deriva che il rinvio formale comprende tutte le successive modificazioni relative alla fonte richiamata. Nel secondo caso l’oggetto del rinvio non è un’altra fonte normativa, ma proprio la disposizione o norma vigente in quel dato momento, determinata una volta per tutte, sicché la fattispecie di cui si tratta resta senz’altro disciplinata da quella disposizione o norma anche se per avvenuta tale disposizione o norma dovesse essere abrogata o sostituita da una disposizione o norma diversa13. Il problema è quindi interpretare la natura del rinvio operato dall’art. 7, D.Lgs. 504/92 all’art. 15, L. 984/77. La sentenza in esame ha attribuito ad esso natura di rinvio “formale” o alla fonte. Avendo quindi affermato che la “nuova” classificazione delle aree svantaggiate recata dalla delibera Cipe 1 febbraio 2001, n. 13, è riconducibile all’art. 15, L. 984/77, e quindi alla fonte oggetto del rinvio di cui all’art. 7, D.Lgs. 504/92, il giudice ha concluso che detta nuova classificazione è rilevante anche ai fini dell’Ici. Si è dianzi affermato che, invero, la nuova classificazione non è riconducibile alla legge 984/77, trovando fondamento nel D.Lgs 146/99 di attuazione della delega contenuta nella legge 335/95, afferente la riforma del sistema previdenziale. Ma per completezza dobbiamo ora verificare se sia corretta anche la premessa maggiore del sillogismo giudiziale, e quindi se sia corretto ritenere la “natura formale” del rinvio contenuto nell’art. 7, comma 1, lett. h, D.Lgs. 504/92. Si deve in contrario osservare che più argomenti militano nel senso della natura “materiale” del rinvio. La lettera della legge L’art. 7, comma 1, lett. h, D.Lgs. 504/92 dispone l’esenzione per «i terreni agricoli ricadenti in aree montane o di collina delimitate ai sensi dell’art. 15, L. 984/77». In altri termini, la littera legis rinvia non alla fonte, ma al contenuto (le “aree delimitate”) dalla fonte di legge indicata. L’oggetto del rinvio non è l’art. 15, L. 984/77, ma le aree delimitate ai sensi del citato art. 15, L. 984/77. Il criterio letterale qui utilizzato per distinguere tra rinvio formale e materiale trova conferma nel-


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la sentenza della Corte costituzionale, 9 luglio 1993, n. 311. La Corte ha affrontato una fattispecie di rinvio operato da una legge a un regolamento. La Corte doveva valutare la natura formale o materiale del rinvio, perchè solo ove si fosse configurato un rinvio materiale, il contenuto del regolamento avrebbe acquisto forza di legge e sarebbe stato sindacabile dal giudice delle leggi. Al fine di sciogliere la questione, la Corte costituzionale utilizza proprio il criterio letterale così affermando in motivazione: «che si tratti di mero rinvio formale, privo di efficacia novatrice della fonte delle norme richiamate, è attestato, sul piano della struttura linguistica della norma rinviante, dal rilievo che il richiamo si riferisce genericamente al regolamento, cioè a un complesso di norme non meglio determinate, laddove, perchè sia possibile configurare un rinvio recettivo (superando la presunzione favorevole al rinvio formale), occorre che il richiamo sia indirizzato a norme determinate ed esattamente individuate dalla stessa norma che lo effettua». Anche nel nostro caso, dunque, posto che l’art. 7, D.Lgs. 504/92 opera un rinvio al contenuto dell’art. 15, L. 984/77, e non alla fonte, si tratta di rinvio materiale. Si osservi che la Suprema Corte14 ha qualificato come “materiale” il rinvio contenuto dall’art. 13, ultimo comma, D.L. 29 luglio 1981, n. 402, alle «agevolazioni contributive previste dall’art. 17, comma 1, L. 160/75 […]», sancendo, così, che solo quelle specifiche agevolazioni si estendevano ai soggetti indicati nella norma recata dall’art. 13 citato. L’appartenenza delle fonti normative a diversi settori dell’ordinamento Deve essere apprezzato il fatto che la fonte di legge che opera il rinvio (art. 7, D.Lgs. 504/92) e quella oggetto del rinvio (art. 15, L. 984/77) appartengono a diversi settori dell’ordinamento: la prima al settore tributario, la seconda al settore degli interventi pubblici nell’economia. Questa differenza milita a favore del rinvio materiale perchè i due settori sono informati da principi giuridici peculiari e diversi e hanno obiettivi diversi nel tempo. Nel caso di specie, poi, come si è sopra dimostrato, vi è anche diversità nei settori di appartenenza delle classificazioni della aree svantaggiate di cui

14 Cfr. Cass., sez. lav., 27 ottobre 1994, n. 8822, in I quattro codici della riforma tributaria Big, cd rom Ipsoa, e, altresì,

alla delibera Cipaa del 1999 (emessa ai sensi dell’art. 15, L. 984/77) e della riclassificazione di cui alla delibera Cipe del 2001 (emessi ai sensi dell’art. 2, D.Lgs. 146/99). Infatti la prima è strumentale a interventi di politica agricola generale, la seconda alla riorganizzazione del sistema previdenziale del settore agricolo nell’ambito della riforma generale del sistema previdenziale ex lege n. 335 del 1995. Non si comprende, quindi, come, sotto il profilo della ratio del richiamo, si possano ritenere equiparabili classificazioni che hanno così diverse funzioni. In altri termini, se il legislatore ha operato un rinvio ad una classificazione afferente interventi di politica economica generale di settore, non può ritenersi che egli abbia voluto riferirsi anche ad una successiva riclassificazione afferente interventi normativi in materia previdenziale, ancorché dello stesso settore. Sotto altro profilo, avendo riguardo al quadro costituzionale attuale, quale è delineato a seguito della riforma recata dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, si pone anche il problema di coordinamento tra i diversi livelli di governo. L’Ici è un tributo statale (Corte cost., 24 febbraio 2006, n. 75), ma il gettito è destinato ai comuni. Le modificazioni sull’ambito di territoriale di applicazione delle esenzioni incide sul gettito percepito dai comuni. Configurare un rinvio formale vuol dire, nella specie, ritenere che il gettito del tributo comunale possa essere determinato dallo Stato con una norma di altro settore di esclusiva pertinenza statale, in contrasto con i canoni di lealtà e trasparenza tra i livelli istituzionali, e con il divieto di reformatio in peius degli spazi di autonomia tributaria locale tratteggiato dalla Corte costituzionale (sentenza 26 gennaio 2004, n. 37). Il principio di chiarezza e trasparenza della disposizioni tributarie L’art. 2 dello Statuto dei diritti del contribuente (legge n. 212/00) detta disposizioni in materia di produzione delle norme tributarie, per garantire una disciplina scritta per principi, stabile nel tempo, affidabile e trasparente. Al riguardo, la norma in esame ha enucleato alcune regole, tra le quali vi è la seguente: (comma 3) i richiami di altre disposizioni contenuti nei provvedimenti normativi in materia tributaria si fanno, in quanto possibile, indicando «anche il contenuto della disposizione alla quale si intende fare rinvio».

Cass, sez. trib., 10 gennaio 2001, n. 273, ivi, che ha qualificato come rinvio materiale il rinvio che l’art. 49.

D.Lgs. 546/92 opera «alle disposizioni del titolo III, capo I, del libro II del c.p.c.».


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Questa disciplina riguarda specificatamente le norme di riferimento, quali l’art. 7, D.Lgs. 504/92 in esame, sancendo che la norma di rinvio deve indicare anche il contenuto della disposizione alla quale si fa rinvio. Sul piano interpretativo questa regola deve essere intesa nel senso che, ove vi siano dubbi sulla natura del riferimento, essa deve essere qualificata come “rinvio materiale o recettizio” piuttosto che come “rinvio formale”. Infatti la Corte di Cassazione ha affermato che i principi dello Statuto debbono orientare l’interprete nella sua attività, in modo da attribuire alla legge una portata conforme a detti principi15. La stessa Supre-

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ma Corte ha precisato la portata dello Statuto nel tempo, sancendo che esso si applica anche alle fattispecie anteriori alla sua entrata in vigore, a causa della suo valore che quello di attuazione dei principi costituzionali della materia (artt. 3, 23, 53 e 97 Cost.). Conclusioni In conclusione si ritiene che il percorso argomentativo seguto dalla sentenza in rassegna non sia condivisibile, e che l’esame dei dati normativi generi una pluralità di profili problematici che non sono stai affrontati, ma la cui risoluzione conduce a conclusioni diverse rispetto a quelle cui è giunta la sentenza in esame.

15 Cfr. Cass., 10 febbraio 2002, n. 17576, in I quattro codici della riforma tributaria Big, cd rom Ipsoa.


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IMPOSTA DI REGISTRO IL TRUST NELL’AMBITO DELL’IMPOSIZIONE INDIRETTA: ARRESTI GIURISPRUDENZIALI E NOVELLA LEGISLATIVA 5

Commissione tributaria provinciale di Brescia, sez. I, 11 gennaio 2006, n. 205 Presidente: Melluso - Relatore: Paghera Imposta di registro - Atto costitutivo di trust - Natura di atto a contenuto non patrimoniale - Imposta di registro in misura fissa - Applicabilità (D.P.R. 131/1986, art. 11 della Tariffa allegata) L’atto costitutivo di trust, nel quale l’attribuzione patrimoniale al trustee ha la sola connotazione di una efficiente ed efficace gestione di risorse patrimoniali al fine di conseguire un futuro previsto beneficio, è soggetto ad imposta di registro in misura fissa ai sensi dell’art. 11, Tariffa allegata al D.P.R. 131/1986, in quanto atto non avente un contenuto patrimoniale. È proposto ricorso contro il silenzio-diniego dell’Agenzia delle Entrate in ordine al rimborso di imposte relative all’atto costitutivo di trust. Il carico fiscale addebitato riguarda imposta di registro, imposta ipotecaria e imposta catastale riconoscendosi all’atto la connotazione di una rendita costituita a favore dei beneficiari finali. L’opposizione all’interpretazione dell’Ufficio mette in evidenza come il conferimento patrimoniale al trustee abbia la sola connotazione di un’efficiente ed efficace gestione di risorse patrimoniali al fine di conseguire un futuro previsto beneficio a favore della stessa disponente o degli individuali aventi diritto. Non si costituisce pertanto, per effetto dell’atto, un valore aggiunto o una rendita né a favore dell’immediato destinatario del patrimonio, trustee, che assume solo l’obbligo di gestire per conto e di far conseguire sperabili utilità conclusive ai beneficiari finali, né ai beneficiari finali stessi che sono portatori di una sola non certa aspettativa futura; non è altresì un attuale valore la previsione di possibile utilizzazione di liquidità, anche attraverso cessioni patrimoniali, a favore dei beneficiari principali in presenza di non quantificabili straordinarie gravi motivazioni. Il vantaggio finale sperato non è un diritto ma semplicemente un’aspettativa condizionata dal finale apprezzamento del gestore e dallo sperato mantenimento o incremento dei valori patrimoniali conferiti. L’atto dispositivo di costituzione di tru-

st, redatto in forma pubblica, dovrebbe essere assoggettato alla sola imposta fissa di registro ex art. 11 della Tariffa – parte prima – del D.P.R. 131/1986, non avendo per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale. Di fatto l’atto è solo prodromico all’erogazione di sperati benefici che saranno assoggettati ad imposta nel momento del loro godimento in capo ai beneficiari. In opposizione l’Ufficio insiste sulla debenza dell’applicata imposta proporzionale di cui si chiede il rimborso non riconoscendo esclusività al rapporto fiduciario che lega conferente e trustee, ma sostenendo l’indispensabilità, secondo legge, di un’interpretazione che vada oltre il rapporto meramente strumentale al conseguimento del risultato finale. Ricerca pertanto e chiede conforto con una interpretazione della volontà delle parti da cui è desumibile che: «deve attribuirsi rilievo preminente nell’imposizione di un atto alla sua causa reale e che il richiamo all’autonomia dei soggetti ed ai requisiti del negozio non può valere ad escludere la rilevabilità fiscale degli effetti economici della regolamentazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti, anche se mediante una pluralità di pattuizioni non contestuali». Da ciò ha fatto conseguire l’applicazione dell’imposta sui trasferimenti e quindi di una percentuale proporzionale del 3% del valore del conferimento in applicazione dell’art. 9 del D.P.R. 131/86 in tema di imposte di registro prevista per le categorie contrattuali residuali. È pur vero che la volontà del disponente predispone strumenti di possibile godimento futuro di utilità da parte dei beneficiari finali, ma appare altrettanto vero che dall’atto di conferimento, in quanto tale, non può farsi conseguire una favorevole certezza di positivi risultati gestionali, tanto che lo stesso patrimonio consegnato in gestione potrebbe anche affievolirsi se dovesse essere mancata l’aspettativa di positivo riscontro differenziale finale. Il risultato, in termini di valori, sarà riscontrato con lo spirare del contratto di destinazione patrimoniale a favore del trustee e quindi con l’erogazione in retrocessione del capitale o del capitale e del plusvalore o con la liquidazione intermedia di quote economiche a su-


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peramento di disagi psico-fisici gravi e riconosciuti e come riferiti in contratto. Appare conseguentemente, in una materia disciplinata da incerta normazione, non condivisibile l’applicazione di imposta proporzionale su un atto neutro sotto il profilo dei valori messi in gioco. Non c’è arricchimento attuale di alcuno dei soggetti individuati in con-

tratto e nel dubbio sul risultato non appare coerente la provvisoria richiesta anticipata di imposta. La Commissione

Nota di Francesco Montanari

nati beni ad un trustee affinché quest’ultimo possa soddisfare le esigenze di vita dei beneficiari ed il trasferimento finale della proprietà dei beni che formano il trust fund avviene al verificarsi di una determinata condizione od allo spirare di un termine indicato nell’atto costitutivo. La Commissione tributaria bresciana ha statuito che l’atto di costituzione del trust deve essere sottoposto ad imposta di registro in misura fissa ai sensi dell’art. 11, Tariffa allegata al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, in quanto atto non avente un contenuto patrimoniale. Ciò che interessa maggiormente è la ricostruzione “civilistica” posta in essere dai giudici di merito, i quali hanno ritenuto che l’attribuzione patrimoniale al trustee «ha la sola connotazione di una efficiente ed efficace gestione di risorse patrimoniali al fine di conseguire un futuro previsto beneficio a favore dello stesso disponente o degli individuati aventi diritto». Sulla base di tale assunto, pertanto, la Commissione tributaria è giunta alla conclusione che, per effetto dell’atto costitutivo posto in essere dal disponente non si costituisce «un valore aggiunto o una rendita né a favore dell’immediato destinatario del patrimonio, trustee, che assume solo l’obbligo di gestire per conto e di far conseguire sperabili utilità conclusive ai beneficiari finali né ai beneficiari finali stessi che sono portatori di una sola non certa aspettativa futura». In ragione di ciò, riguardo alla posizione dei beneficiari «il vantaggio finale sperato non è un diritto ma semplicemente un’aspettativa condizionata dal finale apprezzamento del gestore e dallo sperato mantenimento od incremento dei valori patrimoniali conferiti». Rispetto ad altre pronunce di merito che si sono occupate di tale problematica2, la motivazione della sentenza appare particolarmente articolata ed apprezzabile. Il collegio, infatti, ha rafforzato il proprio convincimento circa l’applicabilità del tri-

Gli atti posti in essere nell’ambito di un’operazione di trust devono essere analizzati in chiave unitaria in quanto i singoli negozi sono funzionali al definitivo arricchimento dei beneficiari del trust stesso. In particolare, l’atto di costituzione del trust fund non costituisce un “atto avente contenuto patrimoniale”, ai sensi dell’art. 9 della Tariffa allegata al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, poiché non comporta un arricchimento del trustee ed essendo, infine, a titolo gratuito. La sentenza è di particolare interesse in quanto si inserisce in un quadro evolutivo ove il legislatore ha reintrodotto l’imposta sulle successioni e sulle donazioni, ampliando, tuttavia, in maniera significativa l’ambito di applicazione del tributo e lasciando irrisolti taluni aspetti significativi. La sentenza pone un punto fermo circa le caratteristiche peculiari dei trust liberali, alla luce di un dibattito dottrinale che ha, certamente, riacquisito il proprio vigore. I principi enunciati La sentenza in commento1 offre lo spunto per talune considerazioni di carattere generale circa la disciplina tributaria del trust, con particolare riguardo alla recente riforma dell’imposta sulle successioni e sulle donazioni. Pur nella difficoltà di ricostruire la vicenda all’origine della sentenza de qua, essendo quest’ultima piuttosto limitata in punto di fatto, sembra che il trust in questione rivesta la tipica struttura trilaterale (disponente – trustee – beneficiari) ed, in particolare, traspare che si tratti di un trust liberale a favore di un soggetto gravato da disturbi di natura psichica. In estrema sintesi, e dovendo necessariamente ricorrere ad una generalizzazione, in tali tipologie di trust il disponente affida determi-

1 Già edita in Corr.Ttrib., 2006, 1745. 2 Comm. trib. prov. Treviso, 29 marzo 2001, n. 27 e Comm. trib. prov. Lodi, 5 novembre 2001, n. 135, in Dir.e Prat. Trib., 2002, II, 270, con nota di

P.Q.M. Accoglie il ricorso. Spese compensate.

MONTANARI, Aspetti civilistici e fiscali dei trusts disposti inter vivos: un contrasto giurisprudenziale; Comm. trib. reg. Venezia, 23 gennaio 2003, in Trusts e attività fiduciarie, 2003, 253, con no-

ta di ROTONDO, SONINI, LIZZA, Profili donativi nel trasferimento al trustee di un trust liberale, ivi, 2003, 371.


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buto di registro in misura fissa sulla base del fatto che «dall’atto di conferimento, in quanto tale, non può farsi conseguire una favorevole certezza di positivi risultati gestionali, tanto che lo stesso patrimonio consegnato in gestione potrebbe anche affievolirsi se dovesse essere mancata l’aspettativa di positivo riscontro differenziale finale». Le implicazioni tributarie del trust liberale analizzato in chiave “unitaria” Le problematiche fiscali dei trust connesse ai profili dell’imposizione indiretta non hanno mai trovato una pacifica soluzione e ciò è stato dovuto, in larga misura, ad una “altalenante” prassi dell’amministrazione finanziaria orientata, in molte occasioni, ad esigenze prettamente di tutela dell’interesse fiscale piuttosto che ad una reale volontà di ricostruire le caratteristiche peculiari dell’istituto. Se è vero, infatti, che, a tutt’oggi, appare recessiva la tesi che individua nell’atto di costituzione del trust una donazione3, la “disputa teorica” riguardante i profili tributari del trust è tutt’altro che sopita e si contrappongono, sostanzialmente, due tesi4: l’una che ravvisa due “momenti” impositivi fiscalmente rilevanti e distinti in base alla quale, pertanto, troverebbe applicazione l’imposta proporzionale di registro, sia all’atto di trasferimento dei beni dal disponente al trustee, sia alla successiva attribuzione ai beneficiari; l’altra tesa a valorizzare, esclusivamente, sotto il profilo degli effetti tributari, quest’ultimo trasferimento. L’originaria posizione ministeriale era orientata

3 Tesi sostenuta dalla Comm. trib. prov. Treviso, 29 marzo 2001, cit., secondo la quale si sarebbe «in presenza di un atto che, pur avendo una causa giuridica particolare, realizza comunque lo scopo economico che caratterizza una donazione definita come contratto col quale, con spirito di liberalità, una parte arricchisce l’altra, disponendo a favore di questa un suo diritto o assumendo verso la stessa una obbligazione, come stabilito dall’art. 769 c.c». Tale posizione era stata già sostenuta dal Secit, delibera 11 maggio 1998, n. 37, La circolazione dei trusts esteri in Italia, nonché, in dottrina, da PALUMBO, Pianificazione fiscale dei trusts alla luce della giurisprudenza italiana e svizzera, in Fisco, 1999, 11655. 4 Oltre a queste occorre dar conto di una ulteriore tesi recentemente sostenuta ma che non appare condivisibile in base alla quale l’atto di costi-

nel senso di una ricostruzione unitaria dell’istituto del trust liberale, ritenendo applicabile all’atto costitutivo il tributo di registro in misura fissa e “posticipando”, conseguentemente, il momento impositivo alla successiva attribuzione ai beneficiari5; oggi, viceversa, prevale, la tesi opposta, maggiormente ispirata al rigore fiscale. L’Agenzia delle Entrate, infatti, con una nota in risposta ad una istanza d’interpello6 ha esplicitamente affermato che «l’atto di conferimento […] da parte del disponente non può essere qualificato quale atto di liberalità indiretta e, quindi, non sussistono i presupposti necessari per l’applicazione del regime previsto per le donazioni»: l’Agenzia, pertanto, è del parere «che […] trovi applicazione l’art. 9 della Tariffa allegata al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 1317, secondo cui, in via residuale, per «gli atti diversi da quelli altrove indicati aventi per oggetto prestazioni aventi un contenuto patrimoniale» si applica l’imposta di registro nella misura proporzionale del 3%». Il Ministero, pertanto, giunge a tale conclusione sulla base di una asserita “patrimonialità” dell’atto di costituzione del trust e ritiene che la medesima qualificazione debba essere attribuita al successivo trasferimento dal trustee ai beneficiari8. Tale tesi, come si è sottolineato da più parti9, limitatamente al trust liberale, non sembra condivisibile stante, da un lato, l’assenza di patrimonialità dovuta al mancato “ingresso” dei beni che formano il trust fund nel patrimonio del trustee, dall’altro, dalla assenza di qualunque profilo di corrispettività nell’atto di costituzione del trust, essen-

tuzione del trust sarebbe equiparabile ad un atto di conferimento: «il trasferimento patrimoniale coinvolge non la relazione settlor - trustee, ma quella che intercorre tra il settlor e il trust, inteso come soggetto di diritto. E tanto perché il trustee riveste esclusivamente un ruolo di gestione del patrimonio che è e resta del trust, in quanto completamente separato dal patrimonio personale del suo gestore, con la conseguenza che solo sul patrimonio del trust riverberano effetti gli atti compiuti dal trustee nell’espletamento del suo incarico […].Verificato che l’atto di trasferimento intercorre tra il settlor e il soggetto impersonale trust e che ha lo scopo di dotare quest’ultimo di un patrimonio autonomo, segregato rispetto a quello del suo gestore, evidentemente esso va ricondotto nel novero degli atti di conferimento». Così SALVATI, Profili fiscali del trust, Mi-

lano, 2004, 272. 5 Dir. regionale Emilia Romagna, studio dal titolo Il trust riconosciuto in Italia. Profili civilistici e fiscali, 2001 in Fiducia e trust, 2002, in allegato a Fisco, 1271. 6 Nota del 28 settembre 2004 7 Sul punto v. AA. VV., La nuova disciplina dell’imposta di registro : il T.U. n. 131 del 26 aprile 1986 commentato articolo per articolo, a cura di D’AMATI, Torino, 1989. 8 In termini analoghi, recentemente, Agenzia delle Entrate, direzione regionale dell’Emilia Romagna, Fiscalità generale, 2 novembre 2005, in Corr. Trib., 2006, 313 con nota di SEMINO, Trusts liberali e trust commerciali. 9 Per una approfondita ricostruzione delle diverse linee interpretative v., per tutti, CONTRINO, Trusts liberali e imposizione indiretta sui trasferimenti dopo le modifiche al tributo sulle donazioni in Rass. Trib., 2004, 434.


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do, quest’ultimo, a titolo gratuito10. Proprio in relazione a tale ultimo profilo, la riconducibilità dell’atto costitutivo di trust nell’ambito di applicazione dell’art. 9 della Tariffa porrebbe non pochi problemi in termini di determinazione della base imponibile posto che, come recita l’art. 43 del D.P.R. 131/1986, «per i contratti diversi da quelli indicati nelle lettere precedenti, aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale» ove il rinvio è, essenzialmente, agli atti contenuti nel menzionato art. 9 - occorre considerare i «corrispettivi in danaro pattuiti». È appena il caso di evidenziare che, al contrario, nessuna norma del D.P.R. 131/1986 sembra legittimare l’applicazione del criterio del valore normale per la determinazione della base imponibile relativamente agli atti a titolo gratuito. Da una interpretazione sistematica delle suddette disposizioni si potrebbe, pertanto, concludere per la impossibilità di ricondurre gli atti a titolo gratuito nell’alveo del menzionato art. 9. Agli aspetti testé menzionati si aggiunga che se, da un lato, stante l’abolizione del tributo sulle donazioni di qualche anno addietro11, l’interesse per i profili della fiscalità indiretta sembrava essersi sensibil-

10 Osserva, altresì, condivisibilmente, CONTRINO, op. loc. cit., 466 - 467, che il modello atomistico «non convince e sembra inadeguato: il settlor è animato - nel suo agire - dall’intento di arricchire i beneficiari del trust (come inequivocabilmente risulta dal programma iniziale) e i negozi dispositivi, sia iniziali che finali, sono funzionalmente collegati nella prospettiva del raggiungimento di siffatto scopo» 11 Legge 18 ottobre 2001, n. 383. Sul punto v. FEDELE, Il regime fiscale di successioni e liberalità in Riv. Dir. Trib., 2003, I, 800; GHINASSI, Primi appunti sulla nuova imposta sulle donazioni in Rass. Trib., 2003, 57; ID., L’abolizione dell’imposta sulle successioni e donazioni, in Riv. Dir. Trib., 2005, I, 315; MASTROIACOVO, Considerazioni relative all’entrata in vigore della riforma dell’imposta sulle successioni e sulle donazioni, in Riv. Dir. Trib., 2001, I, 597. Sul punto v. anche l’approfondito studio della Commissione studi tributari del notariato, studio n. 90/2001/T, Il nuovo regime delle successioni e delle donazioni e liberalità tra vivi. 12 Osserva, attentamente, CONTRINO, Trusts liberali e imposizione indiretta sui trasferimenti dopo le modifiche al tributo sulle donazioni, op. cit., 445, con ampi riferimenti ad autorevole dottrina, che «la struttura complessa del trust

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mente attenuato, dall’altro, oggi, al contrario, tali problematiche tornano evidentemente “alla ribalta”, in quanto l’imposta è stata reintrodotta (vedi infra). La sentenza bresciana si inserisce nell’alveo di quella “corrente” interpretativa, condivisibile e maggioritaria, che individua il regime impositivo degli atti posti in essere nel contesto di un trust in termini unitari, ovvero qualificando la fattispecie impositiva in virtù del risultato finale che il disponente intende raggiungere.12 È chiaro che, se, da un lato, nel momento in cui ci si pone innanzi alle implicazioni tributarie dei trust, le generalizzazioni possono portare a risultati non corretti, stante la poliedricità dell’istituto, dall’altro, appare condivisibile la tesi unitaria, già espressa in altra sede13, in base alla quale il trust liberale può essere qualificato alla stregua di una donazione indiretta14. Come si è osservato, infatti, «l’atto di dotazione, in quanto tale, nulla dice sulla causa dell’attribuzione ai beneficiari e si configura, pertanto, come atto neutro», fiscalmente irrilevante15. Diverso discorso vale, naturalmente, per la definitiva attribuzione dei beni ai beneficiari in relazione

sarà scomposta in una serie di fattispecie negoziali semplici [...] ma ciò non porterà a procedere ad un apprezzamento di tali fattispecie in modo autonomo e svincolato dall’atto da cui traggono titolo e dalla struttura globale dell’istituto cui si riferiscono». 13 MONTANARI, Trusts interni disposti inter vivos e imposte indirette: considerazioni civilistiche e fiscali a margine di un rilevante dibattito dottrinale in Dir. prat. trib., 2002, I, 384 nonché ID., Aspetti civilistici e fiscali dei trusts disposti inter vivos: un contrasto giurisprudenziale, cit. 14 È stato espressamente osservato che «il trust, se riguardato come fenomeno unitario, appare suscettibile di esprimere la volontà del disponente di attuare una liberalità a favore di soggetto diverso dal trustee». Così GIOVANNINI, Problematiche fiscali del trust, in Boll. Trib., 2001, 1126. Il trust è stato, altresì, qualificato come una “donazione fiduciaria indiretta”: «Il disponente realizza il proprio intento di arricchire spontaneamente un terzo (individuato o meno) facendo affidamento sul trustee e sull’obbligo da costui assunto di adempiere alle direttive impartite dal beneficiante medesimo. Cosicché la fiducia riposta nel trustee diviene il perno essenziale che permette il dispiegarsi degli effetti della attribuzione libera-

le che il settlor si propone di compiere». Così PISTOLESI, La rilevanza impositiva delle attribuzioni liberali realizzate nel contesto dei trusts, in Riv. Dir. Fin., 2001, 154. Analogamente DOMINICI, Brevi note sull’incidenza della soppressione dell’imposta sulle successioni e donazioni con riguardo alle imposte indirette gravanti sui conferimenti in trust, in Fiducia e trust, allegato a Fisco n. 44, 3 dicembre 2001, 25. Sul punto, ancora, CONTRINO, op. ult. cit.; STEVANATO, Profili fiscali del trasferimento dei beni e diritti al trustee e ai beneficiari del trust, in Giur. Imposte, 2002, 754; MONACO, Trust: fattispecie ed effetti fiscalmente rilevanti, in Riv. Dir. Fin., 2002, I, 647. Su tali aspetti v., per tutti, STEVANATO, Donazioni e liberalità indirette nel tributo successorio, Padova, 2000, 186. Per una completa ricostruzione civilistica dell’istituto v., tra i contributi maggiormente recenti, GATT, La liberalità, Torino, 2002; VECCHIO, Le liberalità atipiche, Torino, 2002. 15 CESARO, Il trust: quale disciplina?, in Contratti, 1998, 626 – 627. Sul punto v., autorevolmente, FEDELE, Destinazione patrimoniale: criteri interpretativi e prospettive di evoluzione del sistema tributario, in Quaderni romani di diritto commerciale, Destinazione di beni allo scopo. Strumenti attuali e tecniche innovative, Milano, 2003, 291.


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alla quale è ragionevole individuare il verificarsi della fattispecie imponibile. Si è, infatti, posto in luce che tale atto «realizza il vero risultato economico perseguito dal settlor e trasferisce, questa volta definitivamente e pienamente, il diritto di proprietà. Trattandosi quindi di un trasferimento vero e proprio sotto tutti i profili, pare corretto ritenerlo suscettibile di imposizione fiscale, che andrà ricercata nella causa propria del trasferimento, da individuarsi caso per caso, ma che normalmente sarà donativa […] con il trattamento tributario corrispondente al negozio che viene posto in essere»16. In termini analoghi si è espressa la giurisprudenza di merito17 laddove si è statuito che l’atto attributivo di beni al trustee deve essere assoggettato ad imposta in misura fissa in quanto «costituisce solo il mezzo per la realizzazione del programma voluto, che è quello di attribuire un vantaggio patrimoniale ai beneficiari finali»: al contrario, «può ravvisarsi l’intento di liberalità in favore dei beneficiari al momento del compimento dell’atto dispositivo alla scadenza del trust ed il passaggio dal trustee ai beneficiari è suscettibile di imposizione tributaria». La recente introduzione dell’imposta sulle “gratuità” Le considerazioni che precedono devono essere lette alla luce del recente decreto legge n. 262 del 3 ottobre 200618. Il comma 47 della legge di conversione, in particolare, recita che «è istituita l’imposta sulle successioni e donazioni sui trasferimenti di beni e diritti per causa di morte, per donazione o a titolo gratuito e sulla costituzione di vincoli di destinazione, secondo le disposizioni del Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni, di cui al decreto legislativo 31 ottobre 1990, n.346, nel testo vigente al-

16 Commissione studi tributari del notariato, studio n. 80/2003/T, 21 novembre 2003, Trust e imposte indirette, con commento di CONTRINO, Il trust liberale e l’imposta sulle donazioni in Dialoghi di diritto tributario, 2004, 457; LUPI, Il trust liberale e l’imposta sulle donazioni, id., 2004, 468. Come si è osservato, d’altro canto, in dottrina, «il panorama delle liberalità indirette è estremamente ampio e può scaturire da più vicende tra loro connesse rispetto alle quali l’incremento patrimoniale del beneficiario diviene il fine ultimo di una operazione articolata». Così MASTROIACOVO, Considerazioni relative all’entrata in vigore della riforma dell’imposta sulle successioni e sulle donazioni, op. cit., 597.

la data del 24 ottobre 2001». Come appare evidente già ad una prima lettura della norma in esame il legislatore ha ampliato sensibilmente l’alveo degli atti da sottoporre ad imposizione, tanto che appare più appropriato discorrere in termini di “tributo sulle gratuità”19, piuttosto che di “imposta sulle successioni e sulle donazioni”. Detta norma deve, poi, essere coordinata con il successivo comma 48, a mente del quale «per le donazioni e gli atti di trasferimento a titolo gratuito di beni e diritti e la costituzione di vincoli di destinazione di beni l’imposta è determinata dall’applicazione delle seguenti aliquote al valore globale dei beni e dei diritti al netto degli oneri da cui è gravato il beneficiario […]». Il problema che si pone è certamente quello di qualificare quale tipologia di atti a titolo gratuito sia riconducibile nell’ambito di operatività delle summenzionate disposizioni in quanto se, da un lato, non sembrano sussistere particolari difficoltà interpretative circa l’individuazione degli atti liberali, dall’altro, non è altrettanto agevole “districarsi” nel “panorama” atipico degli atti a titolo gratuito. Come ha osservato, infatti, autorevole dottrina, «la classe degli atti a titolo gratuito che non costituiscono liberalità costituisce una zona grigia non perfettamente definibile»20. Un dato che sembra incontestabile concerne il fatto che il legislatore abbia ricondotto nell’ambito del presupposto del tributo qualunque attribuzione patrimoniale priva di corrispettività determinante il “depauperamento” di un determinato soggetto ed il contestuale arricchimento di un altro, a prescindere dall’accertamento della causa liberale del trasferimento. In base ad una affrettata interpretazione della novella, si potrebbe giungere alla conclusione che il

17 Comm. trib. reg. Venezia, cit. 18 Convertito dalla legge 24 novembre 2006, n. 286 e modificato dalla legge 27 dicembre 2006, n. 296 (legge finanziaria 2007). Per un primo commento v. STEVANATO, La reintroduzione dell’imposta sulle successioni e donazioni: prime riflessioni critiche, in Corr. Trib., 2007, 247; BELLINI, La nuova imposta sulle successioni e sulle donazioni, in Fisco, 2006, 16554; BUSANI, Ritorna in vigore l’imposta sulle successioni e donazioni, in Corr. Trib., 2007, 91. 19 La “tradizione” vorrebbe che si parlasse di imposta sulle donazioni o sulle liberalità ma la formulazione delle disposizioni di riferimento inducono a “coniare” una terminologia maggiormente aderente al dato nor-

mativo e, soprattutto, ad estendere la riflessione ad un campo ben più ampio di quello degli atti caratterizzati dall’animus donandi. 20 SACCHETTO, La donazione nel diritto tributario, in Riv. Dir. Trib., 1999, 1002 e l’ampia bibliografia ivi citata. Per considerazioni connesse v. STEVANATO, Le liberalità tra vivi nella riforma del tributo successorio, in Riv. Dir. Trib., 2001, I, 339; LUPI, Le liberalità non formalizzate nella riforma del tributo successorio, in Rass. Trib., 2001, 33. Sul punto v. la approfondita ricostruzione di GIANOLA, Atto gratuito, atto liberale: ai limiti della donazione, Milano, 2002. Per ulteriori considerazioni v. MANZINI, Il contratto gratuito atipico, in Contratto e Impresa, 1986, 908.


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trasferimento dei beni dal disponente al trustee debba scontare l’imposta sulle donazioni, in quanto atto a titolo gratuito oppure in quanto vincolo di destinazione posto sui beni “conferiti” in trust. Ciò non appare, tuttavia, condivisibile alla luce delle seguenti osservazioni. In primo luogo, sembra potersi escludere che l’imposta sia applicabile in ragione della gratuità dell’atto disponente - trustee, ciò in quanto se, da un lato, è vero che la norma in questione menziona espressamente gli “atti a titolo gratuito”, dall’altro, per non giungere a conclusioni confliggenti con il principio della capacità contributiva, occorre che tali atti importino un arricchimento del beneficiario. Come si è già avuto modo di osservare in altra sede, infatti, il destinatario del trasferimento, cioè il trustee, soggetto al quale vengono “affidati” i beni, non ottiene alcun tipo di incremento in relazione al proprio patrimonio, stante da un lato la segregazione dei beni, causa del trasferimento e, dall’altro, l’affidamento degli stessi per il soddisfacimento degli interessi del beneficiario21. Sul piano civilistico, come è noto, gli atti a titolo gratuito sono definiti, sostanzialmente, per contrapposizione con gli atti a titolo oneroso: «dai negozi a titolo gratuito esula il concetto di qualsiasi corrispettività, equivalenza o proporzione fra le prestazioni, in quanto si tratta di una prestazione unica ed a carico di una sola parte»22, difettando, rispetto agli atti liberali, del requisito dell’animus donandi. Nel diritto tributario, al fine della imponibilità, occorre un requisito ulteriore: l’atto attributivo, oltre all’impoverimento del soggetto che lo pone in essere ed al contestuale arricchimento del donatario, deve essere dotato dei requisiti della definitività, espressione di una capacità contributiva attuale ed effettiva. Come si è condivisibilmente osservato in dottrina, infatti, «il concetto di liberalità, sottende qualcosa in più rispetto ad un mero

21 MONTANARI, Trusts interni disposti inter vivos e imposte indirette: considerazioni civilistiche e fiscali a margine di un rilevante dibattito dottrinale, op. cit., 394. Evidenzia autorevole dottrina che «ciò che anima il costituente a compiere l’atto di spossessamento in favore del trustee non è lo spirito di liberalità ovvero l’intenzione di arricchire lo stesso, tanto è vero che il bene o complesso di beni conferiti in trust costituiscono un patrimonio separato da quello del titolare e da destinare ad uno scopo specifico o in favore di soggetti ben individuati o da individuare». Così PALAZZO, Atti gratuiti e donazioni, in Trattato di diritto civile, diretto da SAC-

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trasferimento patrimoniale»23. In altri termini, se, da un lato, è vero che, sotto il profilo soggettivo – cioè della volontà del disponente – la novella del 2006 ha esteso il presupposto del tributo a qualunque categoria di atto privo della corrispettività, dall’altro, è ragionevole sostenere che, sul piano oggettivo, per quanto anzi detto, debbano comunque sussistere i requisiti tipici delle liberalità. D’altro canto, la recente giurisprudenza del Supremo Collegio tende anch’essa a “sminuire” il profilo soggettivo del contratto di donazione, sostenendo che «per aversi donazione non basta l’elemento soggettivo o spirito di liberalità […] ma occorre anche l’elemento oggettivo costituito dall’incremento del patrimonio altrui ed il depauperamento di chi ha disposto del diritto, mentre non assumono rilievo i motivi interni psicologici che inducono a compiere la donazione»24. Ad avviso di chi scrive, pertanto, l’elemento da prendere in considerazione ai fini della imponibilità o meno di una determinata attribuzione patrimoniale, non può essere esclusivamente la causa dell’atto, ma principalmente, gli effetti determinati dal medesimo25. Se così non fosse, infatti, si giungerebbe a risultati per molti versi paradossali quali, a titolo meramente esemplificativo, la riconducibilità nell’ambito di applicazione del tributo a fattispecie contrattuali tipiche, quali il contratto di comodato piuttosto che quello di deposito, caratterizzati dalla gratuità della causa ma che non implicano alcun trasferimento dei beni o diritti oggetto del negozio26. Sostanzialmente, se si ragionasse in tali termini, si dovrebbe ritenere applicabile l’imposta sulle donazioni a qualunque tipologia di atto privo di corrispettività, seppur con effetti meramente obbligatori, laddove, al contrario, non sembra possibile prescindere dagli effetti reali e, conseguentemente, definitivi, dell’atto stesso.

CO, Torino, 2000, 435. 22 CASULLI, voce Donazione, in Enc. Dir., Milano, 1993, 966. 23 STEVANATO, Donazioni e liberalità indirette nel tributo successorio, op. cit., 173. 24 Cass. civ., 26 maggio 2000, n. 6994. Specularmente, la Corte ha osservato che «se un diritto reale immobiliare è attribuito senza corrispettivo e non costituisce adempimento di un’obbligazione, neppure morale od etica, l’animus donandi si presume […]». Così Cass. civ., 19 marzo 1998, n. 2912. 25 È appena il caso di osservare che anche l’art. 13, comma 2 della L. 383/2001 sanciva l’assoggettamento

al tributo sulle donazioni non in ragione del tipo di atto posto in essere ma, degli effetti del medesimo, ovvero, testualmente, del «trasferimento di beni e diritti per donazione od altra liberalità tra vivi». 26 Osserva autorevole dottrina che non costituiscono liberalità il mandato gratuito, piuttosto che la prestazione d’opera senza compenso: «in questi casi non vi è quell’aumento del patrimonio dell’altra parte che è necessario per realizzare l’arricchimento; chi riceve gratuitamente la prestazione si limita a risparmiare una spesa». Così TORRENTE, SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, Milano, 2004, 1027.


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In conclusione, secondo l’impostazione che qui si sostiene, per la qualificazione della fattispecie impositiva e per non incorrere in ricostruzioni confliggenti con il principio di capacità contributiva, è opportuno prescindere dal nomen iuris dell’atto posto in essere. Infatti, in un contesto di “stravolgimenti”, ad opera del legislatore tributario, delle categorie civilistiche tradizionali, occorre confrontarsi con casi limite in cui è di tutta evidenza la necessità di un approccio all’imposta sulle gratuità in un’ottica “sostanzialista”, prescindendo dal dato formale: ancora, a titolo esemplificativo, non saranno riconducibili al suddetto art. 47 le donazioni obbligatorie, in quanto prive di una definitiva attribuzione patrimoniale in favore del beneficiario27. È necessario giungere a conclusioni non dissimili circa il profilo della “costituzione di vincoli di destinazione”. Se si adotta una impostazione “unitaria” dell’istituto – unitaria nel senso di qualificare l’intero schema negoziale come una donazione indiretta o, comunque, come un negozio funzionale all’arricchimento dei beneficiari – non sembra possibile, neppure con riferimento ai “vincoli di destinazione”, l’applicazione del tributo sulle successione al trasferimento dei beni disponente – trustee. Anche se si volesse qualificare tale atto come un vincolo di destinazione – il ché può anche avere una propria ratio – l’atto stesso sarebbe comunque prodromico al successivo arricchimento del beneficiario e, pertanto, la fattispecie imponibile dovrebbe verificar-

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si solamente in relazione a tale ultimo atto dispositivo ed, in tale ipotesi, definitivo. Conclusioni Tornando al caso di specie, l’apprezzabile sentenza in commento, non solo non è superata dalla novella, ma, al contrario costituisce un punto fermo nell’ambito della tassazione dei trust interni. La sentenza, infatti, ha il pregio di avere fornito all’interprete una lettura dei trust liberali in chiave unitaria, che costituisce un prezioso ausilio nell’ambito di una disciplina – qual è quella testè analizzata – di non agevole comprensione. A ben guardare, infatti, l’introduzione del tributo sulle “gratuità” non incide sulla fattispecie esaminata, cioè sulla applicabilità o meno dell’imposta di registro all’atto di costituzione del trust: come chiaramente statuito nella sentenza bresciana, il soggetto al quale vengono affidati i beni che formano il trust fund non ottiene alcun incremento del proprio patrimonio, ergo, nei suoi confronti non si verificherà il presupposto oggettivo della novellata imposta sulle gratuità. Pertanto, nell’ambito dei trust liberali, l’unico trasferimento che avrà rilevanza impositiva, qualora ne ricorrano i presupposti, sarà il successivo atto di attribuzione posto in essere dal trustee nei confronti dei beneficiari, unici soggetti, questi ultimi, ad ottenere un beneficio di natura economica, derivante da un trasferimento definitivo di beni o diritti.

Commissione tributaria regionale della Lombardia, sez. XI, 23 giugno 2006, n. 56 Presidente: Buono – Relatore: Ceruti Imposta di registro - Rimborso - Istanza del notaio - Inammissibilità Processo tributario - Capacità processuale - Rimborso dell’imposta principale di registro - Legittimazione attiva del notaio nelle controversie Esclusione (D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, artt. 57 e 77; D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 11)

27 Come ha statuito il Supremo Collegio, «il contratto di donazione può essere non solo ad effetti traslativi, ma anche ad effetti obbligatori, limitandosi a far sorgere un semplice

Il notaio, pur essendo obbligato a pagare l’imposta principale di registro in solido con le parti contrattuali, è un mero responsabile d’imposta ed è estraneo al rapporto tributario. Ne deriva che esso non ha il diritto di chiedere il rimborso del tributo versato in misura eccessiva. Il notaio, quale mero responsabile d’imposta, non è legittimato ad adire il giudice tributario in caso di rifiuto di rimborsare l’imposta principale di registro da parte dell’amministrazione finanziaria.

rapporto d’obbligazione in cui il donante assume la posizione di debitore nei confronti del donatario, il quale viene arricchito dall’acquisto di un diritto di credito senza alcun sacrifi-

cio». Così Cass. civ., 14 luglio1986, n. 4618. Sul punto v. LENZI, Donazione obbligatoria, in Contratto e Impresa, 2003, 1615.


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Svolgimento del processo Con ricorso alla Commissione tributaria provinciale di Milano, il dott. P. L., notaio, rinnovava la richiesta di rimborso, già presentata con separata istanza, delle somme versate a titolo di imposta di registro, ipotecaria e catastale, in eccedenza al dovuto, per l’importo di euro 2.814,69. Asseriva il notaio che esisteva un errore nel calcolo dell’imposta gravante sul contratto di compravendita stipulato con il proprio ministero, poiché le imposte sui contratti assoggettati ad Iva devono essere pagate in misura fissa. L’Ufficio non si costituiva in giudizio. La Commissione tributaria provinciale di Milano, con sentenza n. 60/08/03, accoglieva il ricorso, disponendo il rimborso e liquidando le spese a favore del ricorrente in euro 250,00. Avverso detta sentenza proponeva appello l’Agenzia delle Entrate eccependo il difetto di legittimazione attiva del dott. P. L. alla richiesta del rimborso in quanto legittimati a richiedere il rimborso della somma corrisposta in eccedenza sono solo le parti contraenti. L’intervento del notaio per il rogito dell’atto di trasferimento non fa sorgere alcun collegamento tra quest’ultimo e la ricchezza trasferita e pertanto il notaio è completamente estraneo al rapporto tributario ed è privo della relativa legittimazione processuale. Concludeva chiedendo la declaratoria di inammissibilità del ricorso e la nullità della sentenza impugnata, con la condanna alle spese. Si costituiva ritualmente in giudizio il dott. L. rilevando che l’Ufficio sotto il profilo di merito non aveva mosso alcuna critica alla decisione di primo grado. Contestava quanto asserito dall’Ufficio in ordine al difetto di legittimazione attiva del notaio, chie-

Nota La sentenza della Commissione regionale si conforma all’indirizzo ormai consolidato della Cassazione (13 giugno 2005, n. 12694, in Giur. It., II, 427; 6 maggio 2005, n. 9440, in Dir. e Prat. Trib., 2005, II, 1250; 23 settembre 2004, n. 19172, in Vita Notar., 2005, 388; 21 novembre 2002, n. 16390, in Il Notaro, 2005, 32), ad avviso della qua-

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dendo il rigetto dell’appello con la condanna delle spese. La difesa del dott. L. depositava memorie nonché manleva della parte stipulante G. A. e C. M. nei confronti dell’Agenzia delle Entrate e presentava istanza di discussione in pubblica udienza. La Commissione tributaria regionale, all’udienza del 19 maggio 2006 pronunciava sentenza. Motivi della decisione Questione preliminare ed assorbente è l’eccezione sollevata dall’Ufficio del difetto di legittimazione attiva ad causam del dott. L. P., quale notaio rogante dell’atto di compravendita stipulato tra i signori G. A. e C. M. in qualità di parte acquirente e la S. I. M. S.r.l. in qualità di parte venditrice. Deve premettersi che la legitimatio ad causam è elemento costitutivo dell’azione la cui carenza può essere rilevata d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento. Orbene la giurisprudenza ormai consolidata della Cassazione non riconosce il diritto di azione in giudizio al notaio per il rimborso della somma che si assume corrisposta in eccedenza a titolo di imposta di registro per la registrazione di un atto dallo stesso rogato. Soggetti passivi, ai fini dell’imposta di registro, sono solo le parti contraenti, in quanto l’obbligazione tributaria sorge tra l’amministrazione finanziaria ed i soggetti contribuenti, che sono le parti che hanno stipulato l’atto rogato dal notaio. Il notaio è infatti solo un responsabile d’imposta estraneo al rapporto tributario, pur obbligato a pagare l’imposta principale in solido con le parti nel cui interesse è richiesta la registrazione. La Commissione dichiara quindi inammissibile il ricorso del notaio rogante in quanto carente di legittimazione attiva.

le il notaio non è legittimato a chiedere all’amministrazione il rimborso dell’imposta principale di registro ma può soltanto esercitare la rivalsa nei confronti delle parti contrattuali per il recupero delle somme pagate al fisco. Però il fatto che il notaio non sia titolare del diritto al rimborso comporta l’infondatezza della domanda, non difetto di legittimazione sul piano processuale.


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Commissione tributaria regionale della Lombardia, sez. XX, 14 luglio 2006, n. 76 Presidente: Squassoni – Relatore: Luciani Imposta di registro - Accertamento - Condono Mancata fruizione delle norme sul condono Estensione della proroga del termine per l’accertamento - Applicazione della proroga anche all’imposta di registro “sulla prima casa” (L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 11, commi 1 e 1-bis) La proroga biennale del termine per effettuare l’accertamento stabilito dal comma 1 dell’art. 11 della L. 27 dicembre 2002, n. 289 per coloro che non si sono avvalsi della facoltà – concessa dallo stesso comma 1 dell’art. 11 – di sanare le violazioni commesse in materia di imposta di registro e delle altre imposte indirette sui trasferimenti, si applica, benchè non sia espressamente previsto, anche alle fattispecie contemplate dal comma 1-bis del predetto art. 11, concernente specificamente la sanatoria delle violazioni commesse nella fruizione di regimi di favore relativi alle imposte innanzi citate (come quello previsto per la prima casa). Svolgimento del processo Con le sentenze in epigrafe la Comm. trib. prov. Milano accoglieva i ricorsi dei contribuenti sig.ra C. G. + altri e M. R., avverso gli avvisi di liquidazione per imposta di registro e irrogazione delle sanzioni, notificati il 3 luglio 2003 dall’Agenzia delle Entrate – Ufficio di Milano 5. Gli avvisi di liquidazione della maggiore imposta e di irrogazione delle sanzioni erano stati emessi in conseguenza della decadenza dei benefici fiscali “prima casa” richiesti in relazione all’acquisto di un immobile a rogito notaio P. L., stipulato il 12 gennaio 2000 e registrato il 28 gennaio 2000. Con tale atto di compravendita la sig.ra C. G. ed il proprio coniuge M. F., nel frattempo deceduto, in atti l’erede M. E., acquistavano l’usufrutto di un immobile di civile abitazione, sito in Milano [...] mentre il figlio, M. R., appellato nel presente procedimento, ne acquistava la nuda proprietà. Per entrambi i diritti, usufrutto e nuda proprietà venivano richiesti i benefici “prima casa”. L’Ufficio di Milano 5, appurato che gli acquirenti dell’usufrutto erano proprietari di altro immobile ad uso abitazione in Milano, ai sensi della lett. b della nota II-bis allegata all’art. 1, tariffa, parte prima del D.P.R. 131/86, dichiarava la decadenza dei benefici fiscali in argomento ed emetteva il citato avviso di liquidazione per un importo complessivo di euro 16.012,98 a carico degli acquirenti.

Circa la decadenza dei benefici “prima casa” i ricorrenti eccepivano l’illegittimità dell’azione dell’Ufficio che aveva dichiarato decaduti non solo gli acquirenti dell’usufrutto ma anche l’acquirente della nuda proprietà, R. M., adducendo l’autonomia delle diverse disposizioni contenute in un unico atto. Eccepivano inoltre che la notifica della revoca dei benefici “prima casa” era avvenuta il 3 luglio 2003, olte tre anni dalla registrazione del 28 gennaio 2000. Secondo la Comm. trib. prov. il comma 1 dell’art. 11 della L. 289/2002 che regola la definizione agevolata delle imposte di registro, ipotecarie, catastale sulle donazioni, successioni e sulle altre imposte indirette e che prevede la proroga di due anni per la rettifica e la liquidazione non è collegato con il comma 1-bis aggiunto all’art. 11 della L. 289/2002. Pertanto non prevedendo il su indicato comma 1bis alcuna proroga dei termini dell’azione della finanza di cui all’art. 76, comma 2, del D.P.R. 131/86, secondo la Comm. trib. prov. la revoca è stata notificata oltre i termini di legge. Inoltre asserivano i ricorrenti che non vi erano i presupposti per chiedere l’adempimento in via solidale del debito tra l’acquirente della nuda proprietà, R. M. e gli acquirenti dell’usufrutto, C. G. e per M. F., l’erede E., per l’atto di compravendita che pur essendo unico conteneva due distinte disposizioni (usufrutto e nuda proprietà). Gli acquirenti dell’usufrutto sostenevano infine di non possedere alcun diritto reale su altri immobili. Con gravame d’appello l’Agenzia delle Entrate – Ufficio di Milano 5 impugna la sentenza della Comm. trib. prov. Si costituiscono nei modi di rito gli appellati, C. G. ed eredi e M. R., rappresentati e difesi dalla dott.ssa Monica Spera, commercialista, e dall’avv. Alberto Maria Gaffuri con studio in Milano Largo Augusto 3. L’Agenzia delle Entrate nel ribadire la legittimità del proprio operato rileva che nell’atto è indicato un solo negozio giuridico che contiene due disposizioni. Per evitare la decadenza dei benefici “prima casa” i contraenti avrebbero dovuto indicare due diversi negozi giuridici, uno relativo all’usufrutto e l’altro relativo alla nuda proprietà, e chiedere per ognuno di questi le agevolazioni in questione. Conclude chiedendo la riforma della sentenza con vittoria di onorari e spese processuali. Controdeducono in replica gli appellati sostenendo l’illegittimità della liquidazione compiuta dall’Ufficio nel provvedimento impugnato poiché essendo stato l’accordo concluso tra gli acquirenti ed una società è a questa che l’Ufficio avrebbe dovuto chiedere maggiore iva al 10% rispetto a quella


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del 4% per i benefici “prima casa”. La liquidazione invece concerne le imposte proporzionali di registro, ipotecarie e catastali estranee alla fattispecie in questione. Ribadiscono la nullità dell’atto per il ritardo della notifica. Contrariamente a quanto sostenuto dall’amm.ne finanziaria dal testo dell’atto registrato il 28 gennaio 2000 si desume che sono stati conclusi due distinti negozi giuridici: trasferimento della nuda proprietà all’appellato M. R. e contemporanea costituzione di usufrutto a favore dei genitori. Non è possibile, sostengono gli appellati, dichiararli decaduti dalle agevolazioni concesse dalla disciplina fiscale sulla prima casa perché erano e sono residenti nel comune dove è ubicato l’immobile e non avevano mai acquistato alcuna unità immobiliare, avvalendosi delle agevolazioni fiscali, prima del 28 gennaio 2000, data della registrazione dell’atto. Nel sostenere che occorre mantenere i benefici almeno per il negozio relativo all’acquisto della nuda proprietà, concludono chiedendo di confermare, in via principale, la sentenza di primo grado e, in via subordinata confermarla relativamente all’annullamento della parte dell’atto impugnato e della pretesa impositiva e sanzionatoria in esso contenuta riguardante l’acquisto della nuda proprietà. Motivi della decisione Dall’esame delle carte processuali emerge che le parti appellate non si sono avvalse delle agevolazioni di cui alla L. 27 dicembre 2002, n. 289 e pertanto l’azione dell’Ufficio, ai sensi dell’art. 11, comma 1 e comma 1-bis aggiunto dal D.L. 282/2002, è legittima come legittima è la proroga dei termini di due anni per la rettifica e liquidazione anche ai sensi dell’art. 76 del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131. Il comma 1 dell’art. 11, per la parte che interessa proroga ex lege i termini di anni due per i tributi specificati tra i quali rientra quello per cui è procedimento. Nota Mentre il comma 1 dell’art. 11 della L. 27 dicembre 2002, n. 289 riguarda la sanatoria delle violazioni commesse da chi era tenuto al pagamento dell’imposta di registro in misura piena, il comma 1-bis disciplina le violazioni commesse da chi era tenuto al pagamento dell’imposta di registro in misura piena, il comma 1-bis disciplina le violazioni commesse da chi ha fruito di regimi di favore, come quello sulla prima casa. Il comma 1 prevede

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Il comma 1-bis che deve essere letto congiuntamente ed in connessione logica con il comma 1 non introduce deroga alcuna per i tributi agevolati; per tali tributi introduce una condizione specifica rappresentata dalla rinuncia al beneficio. Al di là di tale considerazione va detto che dalla motivazione dell’avviso di liquidazione risulta che parte appellata C. G. è titolare esclusivo o in comunione con il coniuge dei diritti o di proprietà, usufrutto, od uso ed abitazione di altra casa di abitazione nel territorio del comune in cui è situato l’immobile acquistato con agevolazione. Dall’esame del testo dell’atto di compravendita emerge, a parere di questa Commissione, che sono stati conclusi due distinti negozi giuridici: il trasferimento della nuda proprietà di un appartamento al sig. M. R. e la contemporanea costituzione di un diritto di usufrutto avente ad oggetto lo stesso appartamento in favore della sig.ra C. G. e del suo defunto marito, F. M. Il sig. R. M. si trova nella condizione per fruire delle norme vantaggiose previste dalla legislazione sulla prima casa poiché è residente nel comune ove è ubicato l’immobile di cui ha acquistato la nuda proprietà e poiché non aveva mai acquistato alcun fabbricato prima del 28 gennaio 2000 usufruendo di tali vantaggiose norme. Il sig. M. R. non può, quindi, essere considerato decaduto dalle agevolazioni fiscali relative alla prima casa. P.Q.M. La Commissione, in parziale accoglimento dell’appello dell’Ufficio – Milano 5 dichiara insussistente il beneficio relativo alla definizione agevolata limitatamente al negozio giuridico dell’usufrutto. Rigetta nel resto l’appello. Si compensano le spese in quanto il problema dell’interpretazione congiunta dell’art. 11, comma 1, della L. 289/2002 e 1-bis del D.L. 282/2002 non è di facile soluzione e ha dato luogo a contrasti giurisprudenziali. che il termine per l’accertamento sia prorogato di due anni nei confronti di chi non si avvale della possibilità di definizione agevolata. Una simile disposizione non è prevista dal comma 1-bis. Nonostante le norme sul condono siano norme speciali e la proroga dei termini dell’accertamento contrasti con le disposizioni dello Statuto dei diritti del contribuente, la Commissione ha stabilito che il precetto sul prolungamento del tempo del termine si applica anche alle fattispecie regolate dal comma 1-bis.


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Commissione tributaria di II grado di Trento, sez I, 19 settembre 2006, n. 55 Presidente e Relatore: Patumi Imposta di registro - Motivazione per relationem - Riproduzione del contenuto essenziale ex. art. 52 del Testo unico del registro - Contrasto con art. 7 dello Statuto del contribuente - Preminenza della norma dello Statuto (D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 52; L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7) In caso di avviso di rettifica, motivato per relationem, l’amministrazione finanziaria deve allegare l’atto richiamato, in ossequio a quanto previsto dall’articolo 7 dello Statuto dei diritti del contribuente, e non limitarsi a riprodurre il contenuto essenziale dell’atto richiamato, in quanto la norma dello Statuto prevale sull’art. 52 del D.P.R. 131/1986, benché quest’ultima norma sia stata emanata successivamente allo Statuto. Le norme dello Statuto hanno infatti una rilevanza particolare ed una sostanziale preminenza rispetto a tutte le altre norme vigenti in materia tributaria e prevalgono anche sulle norme speciali, entrate in vigore successivamente allo Statuto stesso. Svolgimento del processo Con ricorso n. 255/05, depositato il 29 aprile 2005, la S. P. S.r.l. impugnava l’avviso di rettifica e liquidazione n. 20032V002542000 con il quale l’Agenzia delle Entrate di Trento aveva accertato un valore di euro 260.730,00 (a fronte di un dichiarato di euro 80.040,00), con maggiori imposte di registro di euro 14.455,00 ed ipotecaria di euro 3.614,00, oltre ad interessi e sanzioni, per l’acquisto di un terreno, destinato ad estrazione di porfido, nel Comune di Trento. L’accertamento con adesione, richiesto dal contribuente, si era concluso negativamente, non avendo le parti raggiunto un accordo. L’Agenzia, ritualmente costituitasi in giudizio, sosteneva la legittimità del proprio operato, chiedendo il rigetto del gravame. La Commissione di primo grado, con la sentenza n. 77/2/05, depositata il 5 dicembre 2005, respingeva il ricorso, compensando le spese. Il contribuente, con atto depositato il 14 aprile 2006, si appella a questa Commissione sostenendo la censurabilità della sentenza di primo grado per i seguenti motivi: – non avrebbe considerato l’annullabilità della rettifica per l’assoluta inattendibilità del metodo comparativo; – avrebbe erroneamente affermato che, nella fat-

tispecie, non era necessaria l’allegazione dell’atto in contestazione; – non avrebbe tenuto conto della convenienza del contribuente a dichiarare un valore inferiore a quello intrinseco; e chiedendo, conclusivamente: – discussione in pubblica udienza; – annullamento della sentenza appellata; – condanna dell’Agenzia al pagamento delle spese; – sospensione della pretesa sanzionatoria ai sensi degli artt. 19, comma 2, del D.Lgs. n. 472/1997 e 47, comma 1, del D.Lgs. n. 546/1992. Si costituisce in giudizio l’Agenzia delle Entrate, con atto depositato il 6 giugno 2006, confutando le argomentazioni dell’appellante. Sulla richiesta di sospensione delle sanzioni, la Commissione, con ordinanza n. 10/06 del 24 maggio 2006, stabiliva che la riscossione delle sanzioni, applicate dall’Agenzia delle Entrate con l’atto di accertamento oggetto del giudizio in questione, fosse sospesa a condizione che la contribuente prestasse idonea garanzia bancaria, assicurativa o fideiussoria. Con memoria aggiuntiva depositata il 22 giugno 2006, la contribuente ribadisce l’inattendibilità del metodo comparativo, allegando un parere tecnico scientifico sull’argomento, redatto dall’Ing. Castelli dell’Università degli studi di Trieste. Alla pubblica udienza del 20 luglio 2006, le parti ribadivano i rispettivi punti di vista. Motivi della decisione Con la seconda censura contenuta nel suo gravame, l’appellante lamenta che i giudici di primo grado avrebbero erroneamente ritenuto che la mancata allegazione, all’avviso di rettifica, dell’atto cui si fa riferimento, non costituisce violazione dell’art. 52 del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 che, al comma. 2-bis stabilisce: «La motivazione dell’atto deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che lo hanno determinato. Se la motivazione fa riferimento ad un altro atto non conosciuto né ricevuto dal contribuente, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama, salvo che quest’ultimo non ne riproduca il contenuto essenziale. L’accertamento è nullo se non sono osservate le disposizioni di cui al presente comma». L’Agenzia delle Entrate ha, sull’argomento, sostenuto che «non si può negare che nel momento in cui l’Ufficio riporti nella motivazione dell’avviso di rettifica i valori dell’atto preso come raffronto, con ciò ne riproduca anche il contenuto essenzia-


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le, nel senso voluto dalla norma da ultimo citata». Ritiene il Collegio, anzitutto, che “riportare nella motivazione i valori dell’atto” è cosa ben diversa dal “riprodurne il contenuto essenziale”; ma, in disparte ciò, si osserva che, nella fattispecie, risulta violata una norma avente un peso specifico di gran lunga superiore a quello dell’art. 52 appena citato: l’art. 7 della L. 27 luglio 2000, n. 212 «Disposizioni in materia di Statuto dei diritti del contribuente» che, al comma 1, stabilisce testualmente: «Gli atti dell’amministrazione finanziaria sono motivati secondo quanto prescritto dall’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, concernente la motivazione dei provvedimenti amministrativi, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione. Se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama». Orbene, quest’ultima disposizione, molto simile a quella precedentemente riportata, da quest’ultima tuttavia si differenzia per un particolare molto significativo: non contiene la limitazione “salvo che quest’ultimo non ne riproduca il contenuto essenziale”: il che significa che, secondo lo Statuto dei diritti del contribuente, l’atto cui ci si riferisce deve essere allegato e non semplicemente riprodotto. Il Collegio non può ignorare che, in teoria, alle considerazioni appena svolte potrebbe opporsi che, in base al noto principio lex posterior derogat legi anteriori , l’art. 52, comma 2-bis, del D.P.R. n. 131/1986, introdotto con l’art. 4 del D.Lgs. 26 gennaio 2001, n. 32, prevale sulle disposizioni del citato “Statuto”, risalenti al luglio 2000. Tale ipotetica obiezione, tuttavia, non terrebbe conto di una precisa disposizione – molto rara nel nostro ordinamento – contenuta nell’art. 1 di tale legge: «Le disposizioni della presente legge, in attuazione degli articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione, costituiscono principi generali dell’ordinamento tributario e possono essere derogate o modificate so-

lo espressamente e mai da leggi speciali». Questo significa che i princìpi contenuti in tale normativa hanno una rilevanza particolare ed una sostanziale preminenza rispetto a tutte le altre norme vigenti in tale materia e, naturalmente, si applicano anche ai rapporti tributari sorti anteriormente alla sua entrata in vigore. La Suprema Corte, infatti, ha stabilito: «Il principio della tutela del legittimo affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, che trova la sua base costituzionale nel principio di eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge (art. 3, Cost.), e costituisce un elemento essenziale dello Stato di diritto e ne limita l’attività legislativa e amministrativa, è immanente in tutti i rapporti di diritto pubblico ed anche nell’ambito della materia tributaria, dove è stato reso esplicito dall’art. 10, comma 1, della legge n. 212 del 2000 (cosiddetto Statuto del contribuente). Quest’ultima previsione – a differenza di altre che presentano un contenuto innovativo rispetto alla legislazione preesistente – costituisce una delle disposizioni statutarie che, per essere espressive – ai sensi dell’art. 1 della stessa legge n. 212 del 2000 – dei principi generali, anche di rango costituzionale, già immamemti nel diritto e nell’ordinamento tributario, vincolano l’interprete in forza del canone ermeneutica dell’interpretazione adeguatrice a Costituzione, ed è – pertanto – applicabile anche ai rapporti tributari sorti in epoca anteriore alla sua entrata in vigore». (Cass., sez. trib., 12 dicembre 2003, n. 19062). Non allegando, all’avviso di rettifica, l’atto a cui ci si riferiva, l’amministrazione finanziaria ha violato l’art. 7 prima citato, emanando, quindi, un provvedimento irrimediabilmente viziato. Alla luce delle suesposte considerazioni, la censura del contribuente – concernente il difetto di motivazione dell’atto – si rivela pienamente fondata. Assorbiti gli altri motivi. Il Collegio ritiene che sussistano giuste ragioni per compensare integralmente le spese di giudizio.

Nota

tionem riferita ad atto non «conosciuto né ricevuto dal contribuente», a condizione che l’atto richiamante «riproduca il contenuto essenziale» dell’atto richiamato (con similare formulazione si vedano anche l’art. 42, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e l’art. 56, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633). La sufficienza della riproduzione del contenuto essenziale costituisce una regola differente rispetto a quanto dettato dall’art. 7 dello Statuto che rigidamente richiede l’allegazione dell’atto richiamato, senza consentire altre condizioni di legittimazione della motivazione per relationem.

La sentenza in rassegna tratta della legittimità della motivazione per relationem, suggerendo una peculiare interpretazione dell’art. 52, D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro) e dell’art. 7, L. 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente). A seguito delle riforme legislative operate nel 2001 (D.Lgs. 26 gennaio 2001, n. 32), l’art. 52, D.P.R. 131/1986 consente la motivazione per rela-


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Nel caso di specie, l’avviso di rettifica richiamava un atto di natura similare, riproducendone i soli valori imponibili: la decisione della Commissione tributaria regionale avrebbe quindi potuto ben concludersi dopo l’affermazione della non sufficienza del richiamo di tali soli valori ai fini dell’integrazione della riproduzione del «contenuto essenziale» richiesto dall’art. 52, D.P.R. 131/1986. Non paghi di tale risultato, però, i giudici trentini hanno inteso riportare l’illegittimità dell’atto alla violazione diretta dell’art. 7, L. 212/2000: la norma statutaria è ritenuta prevalente rispetto all’art. 52, benché quest’ultimo sia cronologicamente posteriore. Infatti, la Commissione, valorizzando l’auto-qualificazione operata dall’art. 1, L. 212/2000 come legge contenente «principi generali dell’ordinamento tributario», attribuisce alle disposizioni dello Statuto «una sostanziale preminenza» rispetto alle norme ordinarie aventi oggetto similare. La decisione in epigrafe si inserisce nell’alveo di quell’autorevole orientamento giurisprudenziale che attribuisce alle norme statutarie un’efficacia peculiare. Oltre a Cass., 12 dicembre 2003, n. 19062 richiamata dalla decisione stessa, si possono ricordare: Cass., 14 aprile 2004, n. 7080 che, ribadendo la superiorità delle disposizioni dello Statuto rispetto alle altre norme tributarie, ha pure teorizzato una interpretazione adeguatrice minor: «Qualsiasi dubbio interpretativo o applicativo sul significato e sulla portata di qualsiasi disposizione tributaria, che attenga ad ambiti materiali disciplinati dalla legge n. 212 del 2000, deve perciò essere risolto dall’interprete nel senso più conforme ai principi dello Statuto del contribuente» (in termini v. anche Cass., 6 maggio 2005, n. 9407); e Corte cost., ord. 6 luglio 2004, n. 216, ove la Corte costituzionale prende atto dell’orientamento della Cassazione e legittima l’impostazione secondo cui «le disposizioni della legge n. 212 del 2000, proprio in ragione della loro qualificazione in termini di principi generali dell’ordinamento, rappresentano (non già norme interposte ma) criteri di interpretazione adeguatrice della legislazione tributaria, anche antecedente». Sulla scorta di tale insegnamento, la Commissione tributaria regionale ha ritenuto di poter operare una sorta di overruling dello Statuto a danno del Testo unico per l’imposta di registro. In chiave critica, si possono invece rinvenire due punti suscettibili di argomentazioni contrarie rispetto a quanto sostenuto nella decisione in epigrafe. In primo luogo, può non convincere l’opera di costrizione dell’efficacia rafforzata dello Statuto al ristretto ambito della motivazione per relationem. Come ben chiarito da Cass., 6 ottobre 2006, n.

21513, è necessario distinguere tra norme dello Statuto «che presentano un contenuto innovativo» e norme espressione «di principi generali, anche di rango costituzionale, immanenti nel diritto e nell’ordinamento tributario anche prima della L. 212/2000», essendo chiaro che solo a queste ultime è possibile riconoscere – eventualmente – un’efficacia rafforzata. Ora, non pare che l’obbligo di allegazione possa assurgere direttamente a principio generale dell’ordinamento: i principi generali si caratterizzano per quell’ampiezza che consente loro di costituire il sostrato di molte norme, anche strutturalemente differenti tra loro (si può pensare, sempre rimanendo nell’ambito dello Statuto, alla irretroattività della normativa o all’affidamento e alla buona fede). Lungo questa linea, l’unico principio desumibile dall’ordinamento pregresso è quello secondo cui al contribuente deve essere garantita l’immediata ripercorribilità dell’iter logico seguito dall’amministrazione nella formazione degli atti impositivi. Tale principio, che impronta i metodi di motivazione e notificazione, ma anche le tutele giurisdizionali garantite al contribuente, trova il proprio referente costituzionale nell’art. 24 Cost. In relazione alla fattispecie, la tutela del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., si può ritenere attuata in differenti modi: tra questi anche per il tramite della riproduzione del contenuto essenziale (in quanto per mezzo della riproduzione, se correttamente effettuata, il contribuente può approntare al meglio le proprie difese). La scelta tra allegazione e riproduzione attiene alla politica normativa contingente e non al sostrato dei principi generali. Se si ritiene quindi che la Costituzione non garantisca specificamente l’allegazione dell’atto richiamato, ne discende che la norma statutaria non compie una operazione di emersione di un principio immanente, ma piuttosto detta una nuova regola di tutela del contribuente e quindi non gode di alcuna tutela rafforzata: in questa prospettiva dovrebbe allora prevalere la norma cronologicamente posteriore. In secondo luogo, anche a voler ritenere che un principio generale dell’ordinamento copra l’obbligo di allegazione dell’atto richiamato, si potrebbe contestare la correttezza ermeneutica della disapplicazione della norma successiva con contestuale applicazione della norma statutaria. Non si è infatti in presenza di un caso di interpretazione adeguatrice, perché quest’ultima presuppone la percorribilità di una pluralità di differenti interpretazioni del dettato normativo: nel caso di specie l’art. 52, D.P.R. 131/1986 consente invece di evitare l’allegazione, legittimando la semplice riprodu-


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zione del contenuto essenziale: poiché è evidente che non è possibile altra interpretazione se non quella discendente dalla chiara formulazione letterale, ne discende che il giudice, per rimanere fe-

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dele al proprio assunto, avrebbe dovuto piuttosto sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 52, D.P.R. 131/1986, in relazione all’art. 24 Cost.

Commissione tributaria regionale del Piemonte, sez. IV, 25 ottobre 2006, n. 32 Presidente: Comoglio – Relatore: D’Addesio Imposta di registro - Acquisto mediante cessione volontaria di immobili a favore della T.A.V. S.p.A. - Esenzione imposta ex art. 57 - Insussistenza (D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 57) Non spetta l’esenzione da imposta di registro, prevista nell’ottavo comma dell’art. 57 del D.P.R. 131/1986, agli atti pubblici di acquisto per cessione volontaria da parte dei proprietari soggetti a procedimento di espropriazione per pubblica utilità posti in essere dalla T.A.V. Treno Alta Velocità S.p.A, in quanto l’esenzione si riferisce solo agli atti posti in essere dallo Stato e tale non può definirsi una società per azioni – la T.A.V. S.p.A – anche se a controllo interamente statale. Svolgimento del processo La vicenda ha per oggetto la tassazione ai fini dell’imposta di registro e dell’imposta di bollo degli atti pubblici di acquisto per cessione volontaria da parte dei proprietari soggetti a procedimento di espropriazione per pubblica utilità (n. 81 rogiti meglio descritti nei singoli ricorsi introduttivi del giudizio di prime cure), con i quali la T.A.V. Treno Alta Velocità S.p.A. acquisiva i terreni sui quali eseguire l’opera. Relativamente a tali atti la T.A.V. richiedeva ed otteneva il seguente trattamente tributario, non ostante l’esito contrario dell’interpello del notaio rogante ex art. 11, L. 212/2000: – Esenzione delle imposte di registro, ipotecaria e catastale ex art. 57, comma 8 del D.P.R. 131/1986 nonché dell’art. 1, comma 2 del D.Lgs. 347/1990; – Esenzione dall’imposta di bollo ai sensi dell’art. 22 della tabella all. B del D.P.R. 642/1972. L’agenzia delle entrate procedeva al recupero delle normali imposte di registro, ipotecarie e catastali e di bollo sulla scorta del parere 1846 del 10 marzo 2005 emesso dal Consiglio di Stato, secondo il quale la società contribuente non avrebbe titolo per godere dell’esenzione non essendo partecipata direttamente dallo Stato, emettendo gli av-

visi di liquidazione impugnati. Tutti gli atti impositivi venivano tempestivamente impugnati dalla T.A.V. sulla scorta di tre motivi così schematicamente riassumibili: 1) insufficiente o erronea motivazione; 2) violazione falsa applicazione dell’art. 57, comma 8 del D.P.R. 131/1986, dell’art. 1, comma 2 del D.Lgs. 347/1990 e dell’art. 22 della tabella all. B del D.P.R. 642/1972; 3) violazione e falsa applicazione dell’art. 1 della tariffa parte prima del D.P.R. 131/1986. Si costituiva ritualmente l’Ufficio in tutti i ricorsi richiamando il proprio parere negativo a seguito dell’interpello del notaio rogante, il quale richiamava a sua volta il parere del Consiglio di Stato sopra citato, nonché la risoluzione, nei medesimi termini, n. 208/2003 della direzione generale normativa e contenzioso della Agenzia delle Entrate. Più precisamente e con riferimento ai motivi di impugnazione l’Ufficio affermava di aver correttamente assolto agli obblighi motivazionali, che la T.A.V. non può essere considerata Stato e quindi non può beneficiare delle esenzioni previste dalle norme sopra richiamate in materia di registro, ipotecarie catastali e bollo, e che i trasferimenti non sono avvenuti in favore dello Stato. Peraltro, con nota successiva l’Ufficio rilevava come il capitale azionario della T.A.V. fosse diviso tra 21 azionisti ed ha osservato che la stessa è a tutti gli effetti una società per azioni soggetta alla normativa ordinaria e che non può essere assimilata allo Stato, al punto di essere titolare di una posizione fiscale ordinaria tanto che ha beneficiato del condono tombale. La Commissione Provinciale di Novara, dopo aver riunito tutti i ricorsi con articolata decisione ha rigettato il primo motivo di impugnativa, affermando la sufficienza della motivazione degli avvisi a sorreggere la pretesa tributaria, accogliendo tuttavia nel merito l’impugnazione affermando che la compagine societaria della T.A.V. vede come unico azionista totalitario la società Rete Ferroviaria Italiana S.p.A., la quale a sua volta è interamente controllata da Ferrovie dello Stato S.p.A. che a sua volta è partecipata al 100% dal Ministero dell’econo-


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mia e delle finanze. Per tale ragione la T.A.V. S.p.A. può tranquillamente essere equiparata allo Stato e come tale ha diritto alle esenzioni. I primi giudici rilevano che la compagine sociale composta da 21 azionisti si riferiva ad un periodo antecedente a quello in questione, posto che l’acquisizione totalitaria da parte di R.F.I. è avvenuta nel 1998. Peraltro la costituzione in S.p.A. delle Ferrovie dello Stato e la costituzione di altre società nel settore con capitale in mano pubblica costituisce il primo modulo della privatizzazione del settore che, fin quando non verrà completata consente di non considerare disgiunta dallo Stato la T.A.V. Da qui l’annullamento degli avvisi di liquidazione con compensazione delle spese. Appella l’Ufficio criticando il ragionamento operato dai primi giudici, riaffermando la natura strettamente privatistica della T.A.V. e la sua accidentale composizione totalitaria del capitale sociale posto che essa non sempre è stata tale, elemento che deve essere preso a sostegno della differenzizione tra lo Stato e la società contribuente. Richiama ancora a sostegno il parere del Consiglio di Stato e chiede la riforma della sentenza impugnata. Si costituisce la T.A.V. S.p.A. difendendo la motivazione della sentenza impugnata e ribadendo la propria natura di promanazione statuale, affermando che l’adozione della forma societaria da parte dello Stato consente di rendere l’attività economica diretta più agile, efficace e funzionale, divenendo la società a capitale interamente pubblico destinata a compiere opere pubbliche come una delle forme con le quali lo Stato raggiunge i propri scopi. In via subordinata la società contribuente propone appello incidentale sui capi della sentenza che hanno rigettato il profilo di nullità degli avvisi per difetto motivazionale. Motivi della decisione Risulta provato in atti che la T.A.V. S.p.A. è una società di scopo costituita da Rete Ferroviaria Italiana S.p.A. per la progettazione e la costruzione delle linee ferroviarie veloci (alta velovità/alta capacità). La costituzione della T.A.V. S.p.A. va inquadrata nel processo di trasformazione privatizzazione e liberalizzazione del settore ferroviario iniziato con la costituzione delle Ferrovie dello Stato in azienda autonoma (ente pubblico economico) prima, ed in società per azioni poi, per poi giungere alla costituzione di soggetti differenti (Rete Ferroviaria Italiana S.p.A. e Trenitalia S.p.A.) che gestiscano una la rete ferroviaria e l’altro l’attività di tra-

sporto, entrambi tuttavia partecipati nella totalità del capitale sociale da Ferrovie dello Stato S.p.A. R.F.I. costituisce il gestore della rete ferroviaria ed ha costituito T.A.V. S.p.A., per affidare alla stessa la progettazione, costruzione e gestione delle linee ferroviarie veloci. Tale affidamento è avvenuto con la stipulazione della convenzione 9 dicembre 2003 prodotta dalla T.A.V. con la memoria illustrativa depositata avanti questa Commissione il 29 settembre 2006. Poiché Ferrovie Italiane S.p.A. è socio totalitario di R.F.I. S.p.A. e poiché quest’ultima è socio totalitario di T.A.V. S.p.A. e poiché Ferrovie Italiane S.p.A. è partecipata al 100% dal Ministero delle finanze, non vi è dubbio che l’attività svolta da T.A.V. S.p.A. sia riferibile allo Stato, posto che non ostante la trasformazione del settore ferroviario, l’attività svolta è e rimane saldamente in mano pubblica. Ciò detto, e prescindendo dalla circostanza assai curiosa (ma assolutamente fortuita posto che la proprietà della controllante Ferrovie dello Stato è solo casualmente del Ministero dell’economia e delle finanze, ben potendo essere di altro Ministero) per la quale il controllore della società reclama il pagamento di una imposta dal proprio controllato, ritiene questa Commissione che la questione debba essere valutata alla luce dell’evoluzione del sistema pubblicistico avvenuta negli ultimi anni. L’art. 57, comma 8 del T.U. dell’imposta di registro, introdotto con il D.P.R. 131/1986, e prima ancora l’art. 22 della tabella all. B del D.P.R. 642/1972, nonché la stessa norma di cui all’art. 1, comma 2 del D.Lgs 347/1990, sono normative antecedenti alla trasformazione delle Ferrovie dello Stato nella struttura societaria attuale sopra descritta, posto che il processo di trasformazione è iniziato nel 1999 con la Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri datata 18 marzo 1999, emanata in esecuzione di una direttiva comunitaria (la 91/440/CE) e del regolamento che l’ha recepita contenuto nel D.P.R. 8.7.1998 n. 277, con la quale si era imposto alle Ferrovie dello Stato di procedere alla separazione societaria, a far tempo dal 1 gennaio 2000, tra infrastrutture ed attività di trasporto. Tale situazione non è stata l’unica forma di dismissione da parte dello Stato di attività in precedenza direttamente gestita ed ha avuto negli anni ’90 e sino ad oggi un enorme incremento, al punto che l’attività stessa della pubblica amministrazione ha subito un radicale cambiamento ed una totale dismissione di funzioni a favore di società in alcuni casi privatizzate (si pensi alla telefonia con il collocamento sul mercato della Telecom) ed in altri casi mantenute totalmente in mano pubblica (come nel settore ferroviario).


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Le norme che pongono le esenzioni de quibus sono storicamente frutto di una concezione del tutto differente e regolamentavano la situazione esistente in allora che era caratterizzata da una forte presenza diretta dello Stato nell’economia e nei servizi, i quali erano gestiti, direttamente dallo Stato o dalle sue aziende autonome, anche con criteri di anti economicità. In tale ottica la previsione della esenzione dalla normale tassazione di bollo, registro, ipotecarie e catastali riferita alle espropriazioni operate dallo Stato rispondevano alla logica di evitare che l’ente impositore (lo Stato) dovesse corrispondere a se stesso le imposte derivanti dalla propria attività autoritativa. Pertanto il legislatore del 1972 (per l’imposta di bollo) del 1986 (per l’imposta di registro) e del 1990 (per le ipotecarie e catastali) nel prevedere le esenzioni de quibus agiva in quella prospettiva. A fronte della radicale trasformazione dell’attività svolta dalla pubblica amministrazione, occorre verificare se quella impostazione sia, o meno, ancora attuale e se l’interpretazione della norma debba essere restrittiva e letterale o possa essere estensiva. L’interpretazione letterale della norma porterebbe ad applicare l’esenzione solo agli interventi espropriativi compiuti direttamente dallo Stato con esclusione delle espropriazioni compiute da altri soggetti, comunque costituiti ed a prescindere dalla compagine e dal capitale sociale che li formano. Le norme in questione si riferiscono unicamente allo Stato e tale non può definirsi una società per azioni, anche se a controllo interamente statale. Una interpretazione estensiva si fonderebbe sullo scopo dell’attività e sulla natura dell’opera, nonché sul fatto che le società di capitali costituiscono una differente modalità di esplicazione della attività dello Stato che ha scelto di non più operare con intervento diretto ma attraverso enti di natura e struttura privatistica che costituiscono sua promanazione diretta. È parere di questa Commissione che l’interpretazione estensiva non possa essere accolta e ciò per una serie di ragioni: a) innanzi tutto la considerazione secondo la quale l’esenzione di imposta costituisce norma di carattere eccezionale, rispetto al criterio generale della tassazione degli atti espropriativi per pubblica utilità, e come tale debba essere interpretata stricto jure secondo il canone ermeneutico di cui all’art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale; b) in secondo luogo, deve considerarsi del tutto irrilevante la circostanza secondo la quale il capitale sociale e tutta la catena di controllo societario della T.A.V. sia riferibile allo Stato, posto che la trasformazione di un asset pubblico economico in società di ca-

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pitali di tipo privatistico rende casuale la mancata (o non ancora attuata) dismissione del capitale sociale in favore di privati, essendo frutto di una scelta politica e gestionale dalla quale non può, di tutta evidenza, discendere la applicazione di una esenzione tributaria, che di contro deve essere legata a fattori di carattere oggettivo e predeterminato; c) in terzo luogo riconoscere l’esenzione per gli atti espropriativi compiuti da una società che gestisce attività di pubblico interesse per il solo fatto di essere in mano pubblica, porrebbe in essere una disparità di trattamento rispetto ad analoghi atti espropriativi compiuti da una società non più in mano pubblica per essersi completato, in quel settore, il procedimento di privatizzazione; d) infine, la disparità di trattamento indicata al punto c) produrrebbe una distorsione del mercato e configurerebbe un aiuto di Stato ad una data società che potrebbe configurare una violazione dei trattati istitutivi della UE. Non si può infatti non considerare che il trattato istitutivo dell’UE prevede che le regole della concorrenza debbano essere applicate anche all’intervento governativo in campo economico: gli Stati membri sono liberi di possedere imprese, di condurre attività di tipo economico, di dare in concessione le attività ad imprese pubbliche o private, ivi compresa la possibilità di concedere diritti esclusivi nell’ambito dei servizi di interesse generale. Tuttavia l’art. 3, comma g del Trattato dell’Unione europea impedisce agli Stati membri di intervenire nel sistema economico in modo tale da distorcere la concorrenza, fornendo tra le altre cose, i cosiddetti aiuti di Stato, che l’art. 87 del Trattato individua come la concessione di «risorse statali sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza»; detti aiuti possono ben consistere in agevolazioni fiscali, ribassi tariffari, concessioni di linee di credito ecc. Ne deriva la erroneità della sentenza impugnata che pone l’accento, ai fini della concessione dell’esenzione sul fatto che la privatizzazione non si sia completata e che la titolarità del capitale sociale della T.A.V. sia riferibile allo Stato. Come si è detto, tale situazione è del tutto accidentale ed è frutto di una volontà e di una scelta di politica economica che pur legittima e rispettabile non può per le ragioni sopra indicate determinare il regime fiscale degli atti compiuti dalla T.A.V. La pronuncia dei primi giudici va, pertanto, riformata con la declaratoria della legittimità degli atti impugnati. La questione è indubbiamente complessa ed è connotata da novità e dalla assenza di precedenti: sono situazioni che impongono la totale compensazione delle spese per entrambi i gradi di giudizio.


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P.Q.M. In riforma dell’impugnata sentenza rigetta i ricorsi riuniti in primo grado proposti dalla T.A.V. con-

Nota Sul punto vedi il parere del Consiglio di Stato, sez. III, n. 1846 del 10 giugno 2003, che, in merito alla fattispecie all’esame della Commissione torinese, ha affermato che «la società Treno Alta velocità (T.A.V.) non è partecipata direttamente dal Ministero dell’economia e delle finanze (essendo il pacchetto azionario detenuto da un’altra società, a sua volta controllata dal suddetto Ministero), gli atti di espropriazione per pubblica utilità o di trasferimento coattivo della proprietà o di diritti reali di godimento di immobili posti in essere dalla medesima sono soggetti alle ordinarie imposte di registro, ipotecarie e catastali».

tro gli avvisi di liquidazione epigrafati, confermando la legittimità degli stessi. Compensa integralmente tra le parti le spese di lite per entrambi i gradi di giudizio.

In precedenza sempre la sez. III del Consiglio di Stato, n. 515/98 del 14 dicembre 1999, aveva ammesso la possibilità di applicazione del regime fiscale agevolato in materia di imposta di registro, previsto per le amministrazioni statali, anche in favore delle Ferrovie dello Stato S.p.A., che avevano mantenuto, pur dopo la acquisizione dell’assetto societario, la struttura di “impresa pubblica”, controllata al 100% dallo Stato. Per l’orientamento dell’amministrazione finanziaria cfr. ris. 7 novembre 2003, n. 208; ris. 18 maggio 2001, n. 72; circ. 26 maggio 2000, n. 111. La questione è peraltro controversa, perché gli espropri hanno per oggetto beni destinati a far parte del demanio erariale.


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Commissione tributaria provinciale di Ferrara, sez. I, 18 agosto 2006, n. 105 Presidente: Di Bisceglie – Relatore: Fregnani Imposte e tasse in genere - Fattispecie considerata esente secondo la prassi amministrativa Mutamento di orientamento dell’amministrazione finanziaria - Tutela della buona fede ai sensi dello Statuto del contribuente - Sussistenza (D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 10, n. 18; VI direttiva del Consiglio CE, 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE; L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10) La piena tutela del principio della buona fede non può attuarsi con la sola “non applicazione delle sanzioni”, ma deve estendersi alla “non applicabilità dell’imposta” nei casi in cui l’omesso tempestivo versamento dell’imposta stessa derivi da una prassi interpretativa resa dalla stessa amministrazione finanziaria (fattispecie in tema di perizie medico legali, ritenute esenti fino alle pronunce sul tema della Corte di Giustizia). Svolgimento del processo Con ricorso depositato in data 7 ottobre 2005 [...] rappresentato e difeso per mandato in atti da [...] impugnava gli avvisi di accertamento n. [...] relativo all’anno di imposta 1999, n. [...] relativo all’anno di imposta 2001 e n. [...] relativo all’anno di imposta 2002, tutti emessi dall’Agenzia delle Entrate di Ferrara e notificati al ricorrente in data 20-21 aprile 2005. Con i suddetti avvisi di accertamento l’ufficio chiedeva al contribuente il pagamento di Iva e interessi per gli anni di imposta 1999, 2001 e 2002, per un totale di euro 17.598,88, in relazione ai compensi percepiti per lo svolgimento di incarichi professionali aventi ad oggetto redazione di perizie medicolegali per conto di alcune compagnie di assicurazione. Dette prestazioni, rese in esenzione di imposta ex art. 10, n. 18, del D.P.R. n. 633/1972, venivano ritenute dall’ufficio non finalizzate alla tutela, al mantenimento e/o al ristabilimento delle condizioni di salute dell’individuo e quindi non esenti ai fini Iva. Il tutto in relazione alla giurisprudenza comunitaria formatasi con le sentenze C-212/01 e C-307/01 del 20 novembre 2003 sull’interpretazione dell’art. 13, parte A, n. 1, lettera c della VI direttiva CEE. Secondo tale giurisprudenza, le prestazioni mediche effettuate nell’esercizio delle professioni mediche e paramediche sono esenti da Iva solo se effettuate con “finalità terapeutica”. L’ufficio applica re-

troattivamente l’art. 10, n. 18 del D.P.R. n. 633/1972 sulla base della lettura datane dalla giurisprudenza comunitaria sopra richiamata. La difesa del contribuente eccepisce la «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 10 della L. 27 luglio 2000, n. 212, in relazione alla VI direttiva CEE, art. 13, parte A, n. 1, lettera c e all’art. 10, n. 18 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633». Secondo l’interpretazione univoca e perentoria data anche dall’amministrazione all’art. 10, n. 18 del D.P.R. n. 633/1972, tutte le prestazioni medico-legali e similari rese nei confronti delle società di assicurazioni o di altri enti rientravano nella categoria delle prestazioni esenti da Iva. Solo dopo le sentenze della Corte di Giustizia europea, l’amministrazione finanziaria ha emesso una circolare interpretativa, n. 4/E del 28 gennaio 2005, per precisare che le prestazioni rese da medici nella veste di periti nominati dal Tribunale, nonché quelle rese per conto di datori di lavoro, compagnie di assicurazioni, eccetera, devono essere considerate operazioni imponibili ai fini Iva in quanto non finalizzate alla “tutela della salute” in senso stretto ma a fornire pareri preventivi all’adozione di provvedimenti con effetti giuridici. A parere del contribuente, non vi è dubbio che l’interpretazione della norma data dalla Corte di Giustizia europea è vincolante per gli Stati membri; nello stesso modo, però, l’efficacia temporale di tale interpretazione deve essere limitata al periodo successivo all’emanazione delle suddette sentenze e non al periodo precedente. Ciò in osservanza del principio di certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento: il contribuente, infatti, nella gestione dei rapporti conclusi nei periodi di imposta precedenti al 2003 si è adeguato alla normativa Iva secondo l’interpretazione vigente e, soprattutto, alle disposizioni fornite dalla stessa amministrazione finanziaria con circolare 4 novembre 1992, n. 65/431007. Ne consegue che riconoscere efficacia ex tunc all’interpretazione dell’art. 10 del D.P.R. n. 633/1972 data dalla Corte di Giustizia della Comunità europea (CGCE) significherebbe riaprire rapporti giuridici indiscutibilmente esauriti ed imporre al contribuente un onere fiscale illegittimo; ciò anche in considerazione del fatto che lo stesso contribuente non potrebbe beneficiare del meccanismo di rivalsa dell’Iva né della detrazione dell’imposta assolta sugli acquisti. Per tutto quanto sopra esposto, la difesa del contribuente, richiamando altresì


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l’art. 10 della L. 212/2000, Statuto del contribuente, chiede la declaratoria di infondatezza di ogni pretesa impositiva per i periodi di imposta precedenti la data di emanazione della circolare n. 4/E dell’Agenzia delle Entrate del 28 gennaio 2005. Si costituiva in giudizio l’Agenzia delle Entrate, Ufficio di Ferrara, con memoria 8 novembre 2005 per chiedere il rigetto del ricorso ritenuto infondato in fatto e in diritto, nonché la refusione delle spese di causa. In particolare, l’ufficio rileva che le sentenze interpretative delle norme comunitarie rese dalla Corte di Giustizia europea sono per loro stessa natura di portata generale ed esplicano effetti ex tunc. Ne consegue che non essendo mutata la formulazione della norma (art. 10, n. 18, del D.P.R. n. 633/1972) ma solo precisata l’interpretazione della stessa, tutte le prestazioni rese dai medici e paramedici non aventi precise finalità di diagnosi e cura devono essere assoggettate ad Iva. È legittimo il recupero dell’imposta operato con gli avvisi di accertamento impugnati; mentre non sono applicabili sanzioni di alcun genere in relazione al principio di collaborazione e buona fede sancito dall’art. 10 dello Statuto del contribuente. Il ricorso viene trattato in pubblica udienza nella seduta del 31 marzo 2006 su istanza presentata dal ricorrente. Motivi della decisione Il ricorso è fondato e come tale deve essere accolto. Non vi è dubbio che le sentenze interpretative della Corte di Giustizia europea hanno la stessa immediata efficacia delle disposizioni comunitarie interpretate e sono vincolanti per gli Stati membri. Si tratta di stabilire l’efficacia temporale di tali interpretazioni in materia tributaria ed in relazione alla buona fede del contribuente che, fino alla pronuncia interpretativa, si è uniformato alla prassi vigente. Nel caso specifico, riconoscere effetto retroattivo all’interpretazione dell’art. 10, n. 18 del D.P.R. n. 633/1972 data dalla CGCE significherebbe sanzionare il contribuente che nel cor-

Nota Secondo l’art. 10, comma 1, n. 18 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, sono esenti dall’Iva «le prestazioni sanitarie di diagnosi, cura e riabilitazione rese alla persona nell’esercizio delle professioni e arti sanitarie soggette a vigilanza, ai sensi dell’art. 99 del Testo Unico delle leggi sanitarie, approvato

so degli anni si è adeguato alle indicazioni fornite dalla stessa amministrazione finanziaria per la liquidazione dell’imposta. Infatti, negli anni 1999, 2000 e 2001, cui si riferiscono gli avvisi di accertamento impugnati, l’interpretazione dell’amministrazione e la prassi instauratasi sulla base di tale interpretazione erano nel senso di considerare esenti tutte le prestazioni rese dal medico, comprese quelle relative all’attività medico-legale. L’art. 10 della L. n. 212/2000, Statuto del contribuente, sancisce il principio di tutela della buona fede nei rapporti tra amministrazione e contribuente. La buona fede è senz’altro riscontrabile nel caso che ci occupa in cui il contribuente ha agito nella convinzione di adempiere correttamente al disposto della norma tributaria attuando un comportamento legittimo e coerente alle disposizioni della stessa amministrazione. La piena tutela del principio della buona fede non può attuarsi con la sola “non applicazione delle sanzioni” come preteso dall’ufficio, ma deve estendersi alla “non applicabilità dell’imposta” nei casi in cui l’omesso tempestivo versamento dell’imposta stessa deriva da una prassi interpretativa resa dalla stessa amministrazione finanziaria. Ciò in considerazione del fatto che tutela della buona fede significa non aggravare di conseguenze ingiuste il contribuente che si è comportato, appunto, secondo buona fede. Infatti, considerato il particolare meccanismo di liquidazione dell’Iva, il contribuente si troverebbe oggi esposto al pagamento dell’imposta calcolata sull’ammontare dei compensi percepiti senza poter usufruire della detrazione dell’Iva assolta sugli acquisti; inoltre, trattandosi di periodi di imposta già definiti, lo stesso contribuente non potrebbe agire in rivalsa nei confronti del soggetto erogante i compensi. In tal modo verrebbe sfalsato l’intero meccanismo di liquidazione dell’imposta ai danni esclusivamente del contribuente che, in assoluta buona fede, si è uniformato, nel tempo, alle disposizioni dell’Amministrazione finanziaria in materia di liquidazione e versamento delle imposte. Considerata la natura della controversia si ritiene equo disporre la compensazione delle spese di lite.

con Regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265, e successive modificazioni, ovvero individuate con decreto del Ministro della sanità di concerto con il Ministro delle finanze». Occorre verificare se siano da includere o meno tra le operazioni esenti le perizie medico-legali, ossia delle prestazioni di medicina legale rese dai medici in sede giudiziaria, quali consulenti tecni-


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ci d’ufficio o periti di parte, nonché quali membri di commissioni sanitarie di invalidi civili. A tale proposito, si è verificato in tempi recenti un revirement dell’amministrazione finanziaria, determinato dalla giurisprudenza comunitaria. In passato, l’amministrazione finanziaria aveva espressamente sostenuto che rientravano nell’esenzione dall’imposta sul valore aggiunto, tra le altre, anche le prestazioni rese in sede giudiziaria, purché collegate con lo specifico esercizio delle professioni e arti sanitarie di cui sopra. In tal senso, circ. min., 4 novembre 1992, n. 65. Sono però successivamente intervenute due pronunce della Corte di Giustizia che hanno precisato che le esenzioni di cui all’art. 13, parte A, n. 1, lett. c della VI direttiva Iva sono da interpretarsi restrittivamente, dato che costituiscono deroghe al principio generale secondo cui l’imposta è riscossa per ogni prestazione di servizi effettuata a titolo oneroso da un soggetto passivo; in specie, è considerato oggetto di esenzione non tanto l’insieme delle prestazioni che possono essere effettuate nell’ambito dell’esercizio delle professioni mediche e paramediche, quanto solo la prestazione medica in senso stretto, descritta in modo particolareggiato dalla disposizione comunitaria, ed escludente interventi medici diretti ad uno scopo diverso da quello di diagnosi, cura, e, per quanto possibile, guarigione di malattie e problemi di salute. Ne consegue l’assoggettamento ad Iva di una serie di prestazioni, in cui rientrano le perizie medicolegali; in specie, rientrano nel normale regime di imponibilità le perizie mediche la cui realizzazione, «sebbene faccia appello alle competenze mediche del prestatore e possa implicare attività tipiche della professione medica, come l’esame fisico del paziente e l’esame della sua cartella clinica», persegua «lo scopo principale di soddisfare una condizione legale o contrattuale prevista nel processo decisionale altrui». Non ha rilevanza, inoltre, che l’attività peritale rivesta un interesse generale per la circostanza che l’incarico sia conferito da un giudice o da un ente di previdenza sociale, o che, in forza del diritto nazionale, le spese siano poste a carico di quest’ultimo (cfr. Corte di Giustizia CE, sez. V, 20 novembre 2003, n. C-212/01 e n. C-307/01, in Rass. Trib., 2005, 291, con nota di PROCOPIO, Il regime Iva delle prestazioni sanitarie rese a fini diagnostici). La circ. min., 28 gennaio 2005, n. 4/E ha fatto pro-

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prio questo nuovo orientamento, e, ribaltando la precedente posizione, ha affermato che è necessaria una rilettura dell’art. 10, n. 18 del D.P.R. n. 633. In generale, secondo l’amministrazione non possono beneficiare dell’esenzione: le consulenze medico-legali concernenti lo stato di salute delle persone finalizzate al riconoscimento di una pensione di invalidità o di guerra, gli esami medici condotti al fine della preparazione di un referto medico in materia di questioni di responsabilità e di quantificazione del danno nelle controversie giudiziarie (per esempio: prestazioni dei medici legali come consulenti tecnici di ufficio presso i Tribunali) o finalizzate alla determinazione di un premio assicurativo, così come le perizie volte a stabilire con analisi biologiche l’affinità genetica di soggetti al fine dell’accertamento della paternità. Oggi è dunque fuor di dubbio, anche alla luce di tali pronunce, l’imponibilità ai fini Iva delle prestazioni medico-legali, con conseguente necessità di emissione di fattura con addebito di Iva; e ciò anche se il medico operi in regime di intra moenia. In quest’ultimo caso, sarà l’ente di cui il medico è dipendente ad emettere la fattura, con applicazione dell’Iva al 20 % (cfr. SETTEMBRE e LOSCIALPO, Circolare n. 4/E del 28 gennaio 2005: hanno finalmente un volto le prestazioni sanitarie (senza scopo terapeutico) rilevanti ai fini Iva, in Fisco, 2005, 1-2609, ove si richiamano, come rimedio per le fatture irregolari, ossia emesse in esenzione da Iva, l’art. 6, comma 8, lett. b, del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, e, sia pure come “ultima spiaggia”, il ravvedimento operoso). Restano però dubbi in ordine alla decorrenza degli effetti delle sentenze della Corte di Giustizia. Ora, è ben vero che, secondo i principi generali, gli effetti di queste pronunce decorrono ex tunc; tuttavia, come osservano opportunamente i giudici ferraresi, occorre salvaguardare la buona fede di contribuenti come quello del caso de quo che si erano adeguati ai dettami della circolare del 1992, ed avevano pertanto ritenuto di poter operare legittimamente in regime di esenzione (sul tema v. amplius, PERRONE, L’armonizzazione dell’Iva: il ruolo della Corte di Giustizia, gli effetti verticali delle direttive e l’affidamento del contribuente, in Rass. Trib., 2006, 423 ss. Nel senso che i revirement delle prassi interpretative non possono essere retroattivi a tutela dell’affidamento del contribuente, cfr. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, vol. I, Torino, 2006, 58).


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IRAP RAPPORTI TRA CONDONO E RIMBORSO IRAP NELL’IPOTESI DI ASSENZA DI UN’AUTONOMA ORGANIZZAZIONE DELL’ATTIVITÀ 11

Commissione tributaria provinciale di Verona, sez. I, 14 giugno 2006, n. 136 Presidente e Relatore: Sandrini Irap - Istanza di rimborso per annualità definite tramite condono tombale - Inammissibilità (D.Lgs. 19 dicembre 1997, n. 446, artt. 2 e 3; Legge 27 dicembre 2002, n. 289, art. 9). Irap - Assoggettamento dei liberi professionisti all’imposta - Valutazione del caso concreto sulla base degli “elementi di organizzazione” Il ricorso alla definizione automatica di cui all’art. 9, della Legge 289/02 (cd. condono tombale) produce l’effetto di cristallizzare la materia imponibile come risultante dalla dichiarazione integrativa non ricusata dall’Ufficio. Di conseguenza, la situazione tributaria non può più essere rimessa in discussione dal contribuente mediante la richiesta del rimborso di un’imposta (Irap) indicata a debito – e versata – nelle dichiarazioni relative alle annualità definite. La sussistenza del requisito dell’autonoma organizzazione, al fine dell’assoggettamento ad Irap dei professionisti, non può essere esclusa unicamente sulla base della natura intellettuale dell’attività svolta, dovendosi verificare, nelle concrete fattispecie, che alla produzione del valore aggiunto non concorrano (in misura rilevante e, comunque, economicamente valutabile) investimenti di natura materiale (immobiliare, mobiliare o tecnica), ovvero prestazioni di lavoro (manuale, impiegatizio o anche intellettuale) altrui. Svolgimento del processo Il ricorrente notaio X ha chiesto il rimborso dell’Irap versata per gli anni 2000-2004, impugnando il silenzio-rifiuto serbato dall’amministrazione finanziaria (Agenzia delle Entrate - Ufficio di Verona 2) sull’istanza di rimborso presentata in via amministrativa ai sensi del combinato disposto degli artt. 19, comma 1, lett. g e 21, comma 2, D.Lgs. 546/92. La richiesta di rimborso è motivata sia sull’asserito contrasto della normativa nazionale istitutiva dell’I-

rap con l’art. 33 della direttiva UE n. 77/388/CEE del 17 maggio 1997 che vieta agli Stati membri l’istituzione di imposte sulla cifra d’affari già costituente materia imponibile dell’Iva; sia sulla qualità di esercente una libera professione, come tale (asseritamente) priva del requisito dell’autonoma organizzazione necessario ad integrare il presupposto applicativo dell’Irap. L’Ufficio, costituitosi in giudizio, ha rilevato preliminarmente la tardività, rispetto al termine di decadenza di 48 mesi stabilito dall’art. 38, D.P.R. 602/73, dell’istanza di rimborso, presentata il 29 novembre 2004, limitatamente al versamento d’imposta effettuato il 28 novembre 2000; ha eccepito che il ricorrente si è avvalso della sanatoria di cui all’art. 9 legge 289/02 per quanto riguarda le annualità dal 2000 al 2002, così rendendo definitiva la liquidazione delle imposte (ivi inclusa l’Irap) risultanti dalle relative dichiarazioni; in ogni caso, e con particolare riguardo alle annualità escluse dal condono fiscale (2003-2004), l’Ufficio ha chiesto il rigetto della domanda sulla base di una serie articolata di argomentazioni intese a dimostrare, da un lato, la radicale differenza del presupposto d’imposta e del regime fiscale dell’Iva, imposta che si applica alla cessione di beni e servizi, che è proporzionale al valore dei beni ceduti e dei servizi prestati e che grava su ogni fase del processo di produzione e distribuzione, e dell’Irap, che grava invece sulla ricchezza creata ed il cui imponibile non è correlato al valore delle singole operazioni ma alla redditività complessiva dell’impresa; e, dall’altro, la soggezione ad Irap del professionista che disponga di elementi di organizzazione alla stregua della nota pronuncia n. 156 del 2001 della Consulta, elementi sicuramente sussistenti nel caso di specie in relazione ai costi inerenti l’esercizio dell’attività dichiarati dallo stesso contribuente negli anni interessati dalla richiesta di rimborso. Motivi della decisione Questa Commissione osserva preliminarmente: – che la tardività, e dunque l’inammissibilità, del-


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l’istanza di rimborso relativamente al versamento Irap effettuato il 28 novembre 2000 trova pacifico riscontro documentale nelle stesse allegazioni della parte ricorrente; – che con riguardo alle tre annualità che vanno dal 2000 al 2002 risulta assorbente – e preclusiva dell’esame di ogni altra questione – la preclusione derivante dal pacifico ricorso del contribuente alla sanatoria prevista dall’art. 9 della legge 289/02 (cd. condono tombale), il cui comma 9 stabilisce espressamente che la definizione automatica così perfezionatasi per gli anni pregressi rende definitiva la liquidazione delle imposte risultanti dalla dichiarazione (salvi gli effetti delle imposte liquidate ex artt. 36-bis e 36-ter, D.P.R. 600/73 e 54-bis, D.P.R. 633/72), specificando che la dichiarazione integrativa non costituisce titolo per il rimborso di ritenute, acconti e crediti d’imposta precedentemente non dichiarati, né per il riconoscimento di esenzioni o agevolazioni non richieste in precedenza, ovvero di detrazioni d’imposta diverse da quelle originariamente dichiarate. Il ricorso alla definizione automatica produce pertanto, in conformità alla funzione dell’istituto che è quella di rendere definitiva e non più contestabile – sia da parte del fisco che del contribuente – la situazione tributaria del soggetto che ha scelto di aderire al condono, l’effetto di cristallizzare la materia imponibile come risultante dalla dichiarazione integrativa non ricusata dall’Ufficio; ditalchè la situazione tributaria ormai cristallizzata non può più essere rimessa in discussione dal contribuente mediante la richiesta del rimborso di un’imposta (Irap, nella fattispecie) indicata a debito – e versata – nelle dichiarazioni relative alle annualità definite. Va poi rilevato che l’art. 38 del D.P.R. n. 602 del 1973 prevede il rimborso di somme direttamente versate all’erario nei casi di errore materiale, duplicazione ed inesistenza totale o parziale dell’obbligo di versamento: nessuno di tali presupposti ricorre nel caso di specie, posto che la domanda di rimborso riguarda un’imposta (l’Irap) regolarmente pagata da un soggetto tenutovi in applicazione delle norme vigenti, la cui conformità al dettato costituzionale è stata ripetutamente riconosciuta dalla Consulta a partire dalla sentenza n. 156 del 2001. Quanto alle annualità 2003-2004, non ricomprese nel condono, devono pienamente condividersi le argomentazioni dell’Ufficio resistente, osservandosi ulteriormente che: – l’Iva è un’imposta indiretta, applicata alle cessioni di beni e alle prestazioni di servizi e gravante sui consumatori e sugli utenti finali, che si rivela neutrale rispetto al reddito dei soggetti passivi per

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effetto della rivalsa ex lege nei confronti dei cessionari e dei committenti e della detrazione dell’imposta pagata sugli acquisti inerenti l’attività esercitata (artt. 18 e 19 del D.P.R. 633/72), mentre l’Irap è un’imposta diretta il cui imponibile è costituito dal valore della produzione netta derivante dall’attività svolta nel territorio della Regione cui è destinata, che grava giuridicamente sul produttore del bene o del servizio e che è trasferibile sul consumatore/utente finale solo dal punto di vista economico, in quanto influisce sul prezzo finale del bene o del servizio; – è notorio che la questione è stata sottoposta all’esame della Corte di Giustizia della Comunità europea e che l’avvocato generale ha espresso il suo parere nel senso della non infondatezza delle censure mosse all’Irap sotto il profilo della violazione del divieto della doppia imposizione: trattasi tuttavia di una questione tuttora sub iudice, la cui pendenza (nonostante il pur autorevole parere espresso dall’avvocato generale) non può certo comportare la disapplicazione nell’ordinamento nazionale di un’imposta sulla quale in larga misura si fonda il sistema impositivo italiano e, di conseguenza, il finanziamento della spesa pubblica nazionale; – in ogni caso è evidente come una eventuale pronuncia della Corte di Giustizia sfavorevole allo Stato italiano avrebbe valore meramente dichiarativo e non comporterebbe l’immediata disapplicazione dell’Irap nell’ordinamento nazionale, limitandosi ad imporre all’Italia (a pena di sanzioni) l’adozione di una disciplina adeguatrice, i cui contenuti appaiono allo stato del tutto imprevedibili. Anche per quanto concerne la pretesa carenza del requisito dell’autonoma organizzazione in capo al ricorrente, vanno integralmente richiamate le ragioni esplicitate dall’Ufficio di Verona 2 nelle sue controdeduzioni, pienamente condivise dalla Commissione perché coerenti, da un lato, alla disciplina giuridica dell’imposta come risultante dal D.Lgs. 446/97 istitutivo dell’Irap (e in particolare, per quanto qui interessa, dagli artt. 2, 3 e 8), interpretato alla luce della giurisprudenza della Corte costituzionale che ne ha ripetutamente ribadito la legittimità (a partire dalla nota sentenza n. 156 del 2001, cui hanno fatto seguito le ordinanze n. 286/01, 103/02, 426/02, 124/03, tutte dichiarative della manifesta infondatezza delle medesime questioni riproposte in via continuativa), e perché rispondenti, dall’altro, alla concreta situazione impositiva del contribuente quale risultante dai dati in possesso dell’amministrazione finanziaria risultanti dalle interrogazioni all’anagrafe tributaria. A sostegno della pretesa esclusione dal presupposto di applicazione dell’Irap, il ricorrente deduce,


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in sostanza, la propria qualità di esercente una libera professione, di per sé connotata dall’importanza decisiva delle qualità personali e professionali del titolare dello studio come fattore di produzione del valore aggiunto soggetto ad imposizione, con conseguente marginalità dei relativi – incontestabili – elementi organizzativi. La tesi del ricorrente, che si risolve – in definitiva – nella pretesa esclusione dall’Irap dell’attività (protetta) esercitata dal libero professionista in quanto tale, essendo difficilmente contestabile l’importanza che le qualità personali e professionali del titolare dello studio sono destinate ad assumere (almeno nella maggioranza dei casi) nell’instaurazione del rapporto fiduciario con la clientela in cui si collocano le prestazioni di servizio integranti il presupposto d’imposta, non è tuttavia condivisibile alla luce del diritto “vivente” risultante (come si è detto) dalla lettura della normativa in vigore avallata dalle pronunce della Corte Costituzionale. L’art. 3, comma 1, lett. c del D.Lgs. 446/97 individua infatti tra i soggetti passivi dell’imposta, esercenti una delle attività previste dall’art. 2, gli «esercenti [anche in forma associata] arti e professioni di cui all’articolo 49, comma 1» del T.U.I.R.; e l’art. 8 detta poi la disciplina specifica per la determinazione della base imponibile – corrispondente al valore della produzione netta – degli esercenti arti e professioni come sopra individuati. Non può dunque sussistere alcun dubbio sulla soggezione ad Irap dei liberi professionisti, in relazione all’attività (protetta) dagli stessi esercitata; e tale scelta legislativa è stata ritenuta conforme a ragionevolezza (e perciò insindacabile), nonché rispettosa dei principi costituzionali di eguaglianza, di capacità contributiva e di tutela del lavoro, anche dalla Consulta, nelle numerose decisioni – i cui estremi sono stati sopra riportati – pronunciate in materia: la sentenza n. 156 del 2001 ha in particolare dichiarato infondate le relative questioni di legittimità costituzionale sollevate da diverse Commissioni tributarie, mentre le quattro ordinanze successive hanno richiamato e ribadito quanto affermato nella prima pronuncia circa la compatibilità sistematica della disciplina istitutiva dell’Irap, anche nella parte in cui non distingue l’attività professionale (o di lavoro autonomo) da quella imprenditoriale agli effetti della soggezione ad imposta del valore aggiunto prodotto dalla relativa attività organizzata. La rilevanza, l’importanza, la preminenza, naturalmente (e normalmente) ricollegabili all’apporto intellettuale e fiduciario della caratura personale del singolo professionista nell’esercizio della re-

lativa attività, e dunque nella produzione del relativo valore aggiunto, non assumono perciò di per sè alcun rilievo nel giudizio (positivo) formulato dalla Consulta sulla coerenza al dettato costituzionale della scelta normativa di assoggettare ad Irap – oltre agli imprenditori – anche i professionisti ed i lavoratori autonomi. In punto di diritto, la soggezione ad Irap del professionista non può dunque essere esclusa in via di principio, né tantomeno in via presuntiva, sotto il profilo del contributo apportato dall’intuitus personae nell’espletamento della prestazione professionale. La citata sentenza n. 156 del 2001 della Consulta ha peraltro precisato – nella parte motiva – che, dovendo in ogni caso concorrere ad integrare il presupposto d’imposta, oltre alla qualifica soggettiva (professionista) del contribuente, anche l’elemento oggettivo costituito dall’esercizio abituale di “una attività autonomamente organizzata” (art. 2), non può escludersi la ricorrenza, nei singoli casi concreti, di un’attività professionale che sia svolta in assenza di qualsiasi organizzazione di capitali o di lavoro altrui, nel qual caso l’esclusione dall’Irap discenderà, dunque, non già dalla natura professionale, in sé, dell’attività esercitata dal contribuente, quanto dall’assenza (positivamente dimostrata) del requisito dell’organizzazione (o meglio, di “elementi di organizzazione”), secondo un giudizio di mero fatto demandato di volta in volta all’interprete. Anche con riguardo alla sussistenza del requisito della organizzazione nell’esercizio dell’attività professionale, non appare corretto – agli effetti di stabilire la soggezione o meno ad imposta del singolo contribuente – il ricorso a presunzioni di segno positivo o negativo: occorrerà invece verificare, nei singoli casi di specie, se alla produzione del valore aggiunto concorra, oltre all’indefettibile apporto della prestazione intellettuale (e del prestigio personale) del professionista, anche il contributo rappresentato dagli investimenti di capitale di natura materiale (immobiliare, mobiliare o tecnica) ovvero da prestazioni di lavoro (manuale, impiegatizio, o anche intellettuale) altrui. Nel caso di specie, l’esistenza di un’organizzazione di mezzi e di energie lavorative altrui, capace di contribuire in modo importante, e comunque economicamente valutabile, alla produzione di un valore che si aggiunge alla diretta prestazione lavorativa/intellettuale del titolare dello studio notarile, risulta – in punto di fatto – positivamente e pienamente provata da quanto allegato dall’Ufficio resistente (e non contestato, sul punto, dal ricorrente) in merito ai costi annualmente dichiarati come so-


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stenuti dal notaio X per l’esercizio della sua attività professionale, ammontanti a lire 199.060.000 nel 2000, lire 249.930.000 nel 2001, lire 117.352.000 nel 2002, lire 130.068.000 nel 2003. Per tali assorbenti ragioni il ricorso deve essere respinto, con conseguente condanna del ricorrente, in applicazione del principio della soccombenza, a rifondere all’Ufficio resistente le spese processuali, liquidate d’ufficio nella misura di cui al dispositivo

Nota di Giovanni Alduino Ventimiglia La sentenza della Commissione tributaria provinciale di Verona affronta la questione concernente il rapporto tra il condono tombale e le istanze di rimborso dell’Irap relative alle medesime annualità definite ex art. 9 della legge 289/2002. Esamina, inoltre, la problematica concernente l’individuazione del contenuto minimo di “organizzazione” al fine dell’assoggettamento all’imposta dei liberi professionisti. Premessa La fattispecie sottoposta al vaglio della Commissione veronese concerne la controversa questione relativa all’assoggettabilità dei professionisti all’imposta regionale sulle attività produttive. In particolare, il giudizio riguardava il silenzio tenuto dall’amministrazione finanziaria su istanze di rimborso proposte da un notaio per diverse annualità di imposta, talune delle quali erano state, poi, definite ai sensi dell’art. 9 della legge 289/2002 (cd. condono tombale). La sentenza in rassegna affronta, quindi, un triplice ordine di problematiche. Una prima investe il rapporto tra il condono tombale ed i giudizi da rimborso incardinati in relazione alle medesime

1 Un analogo orientamento è stato, di recente, espresso da Cass., 8 febbraio, 2007, n. 3682, in banca dati fisconline, secondo cui l’adesione del contribuente alle sanatorie previste dall’art. 9, della legge 289/2002, sarebbe ostativa alla prosecuzione del giudizio di rimborso per l’Irap che si assume indebitamente versata. 2 Nello stesso senso, Comm. trib. prov. Rovigo, sez. I, 27 gennaio 2006, n. 6, in banca dati fisconline, secondo cui, ai fini fiscali, i periodi d’imposta coperti da condono non potrebbero più essere messi in discussione, proprio a causa della scelta fatta dal contribuente di avvalersi della definizione, che rappresenterebbe una impli-

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P.Q.M. dichiara inammissibile, quanto al versamento Irap effettuato il 28 novembre 2000, e rigetta, quanto ai successivi versamenti Irap oggetto della richiesta di rimborso, il ricorso; condanna il ricorrente notaio X al pagamento delle spese processuali, liquidate in complessivi euro 600,00.

annualità. Le altre due riguardano, da un lato, il lamentato contrasto tra la disciplina istitutiva dell’Irap e la direttiva n. 77/388/CEE e, dall’altro lato, la spinosa questione relativa all’individuazione del contenuto minimo di organizzazione dell’attività svolta dal libero professionista al fine del suo assoggettamento ad imposta. Sul rapporto tra condono e istanza di rimborso dell’Irap Quanto al rapporto tra istanza di rimborso e condono, i giudici escludono che, in presenza della sanatoria, il contribuente possa chiedere a rimborso le somme versate a titolo di Irap1. Secondo la Commissione, il ricorso alla definizione automatica produrrebbe (in conformità alla funzione dell’istituto che è quella di rendere definitiva e non più contestabile – sia da parte del fisco che del contribuente – la situazione tributaria del soggetto che ha scelto di aderire al condono) l’effetto di cristallizzare la materia imponibile come risultante dalla dichiarazione integrativa non ricusata dall’Ufficio. Con la conseguenza che la situazione tributaria non potrebbe più essere rimessa in discussione dal contribuente mediante la richiesta di rimborso dell’imposta indicata a debito – e versata – nelle dichiarazioni relative alle annualità definite2.

cita rinuncia ad ogni pretesa che, direttamente o indirettamente, trovasse fondamento in fatti relativi agli anni condonati. Una sanatoria che non chiudesse il contenzioso, ma che lasciasse aperto il giudizio per altre concessioni o pretese, non risponderebbe ad alcuna logica di politica fiscale, non consentendo di raggiungere la finalità che lo Stato si propone di raggiungere con la concessione di sanatorie, che è quella di chiudere le liti fiscali. Quanto, poi, all’esito dei giudizi da rimborso precedentemente incardinati, secondo Comm. trib. reg. Lombardia, sez. IX, 2 luglio 2004, n. 12, in Servizio di Documentazione Economia e Tributaria del Ministe-

ro dell’Economia e delle Finanze, la vanificazione della pretesa di rimborso sarebbe una conseguenza preterintenzionale dell’istanza del contribuente volta a definire a proprio vantaggio le possibili pendenze fiscali relative agli anni suscettibili di contestazioni. Apparirebbe, quindi, più corretta una formula conclusiva che rigettasse nel merito il ricorso contro il rifiuto di rimborso; Comm. trib. prov. Brescia, 2 agosto 2004, n. 360, che ravvisa, invece, il ricorrere di un’ipotesi di cessazione della materia del contendere per volontario abbandono della controversia da parte del contribuente.


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Sul punto, si registra, invero, una certa contraddittorietà tra gli orientamenti espressi dalle Commissioni di merito. Infatti, mentre taluni giudici hanno espresso un orientamento analogo a quello fatto proprio dalla sentenza in esame, secondo altri, il condono tombale non comporterebbe l’infondatezza dell’istanza di rimborso dell’Irap versata anteriormente alla sanatoria, bensì solo l’irripetibilità delle somme pagate dal contribuente in virtù del condono stesso. Pertanto, secondo questa tesi, gli importi precedentemente versati a titolo di Irap, se non dovuti, potrebbero essere chiesti a rimborso, in quanto il condono cristallizzerebbe solo l’entità del reddito, ma non impedirebbe la restituzione di quanto non dovuto3. In altre parole, la controversia da rimborso riguarderebbe, in questi casi, la ripetizione di un indebito, la cui rinuncia non sarebbe implicita nella domanda di condono4. Conclusione, questa, esclusa dai giudici veneti, i quali, dopo aver evidenziato che l’art. 38, del D.P.R. 602/1973, prevede il rimborso di somme direttamente versate all’erario nei casi di errore materiale, duplicazione ed inesistenza totale o parzia-

3 Così Comm. trib. reg. Roma, sez. V, 6 giugno 2006, n. 220, in banca dati fisconline. Nello stesso senso, Comm. trib. prov. Viterbo, sez. V, 18 dicembre 2004, n. 202, in banca dati fisconline, secondo cui l’adesione del contribuente alle sanatorie fiscali previste dagli artt. 7 e 9, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, non è ostativa della prosecuzione del giudizio di rimborso per l’Irap indebitamente versata; Comm. trib. prov. Torino, sez. XX, 16 settembre 2004, n. 31, in banca dati fisconline. Secondo Comm. trib. reg. Veneto, sez. XXXIII, 28 febbraio 2005, n. 7, in Servizio di Documentazione Economia e Tributaria del Ministero dell’Economia e delle Finanze, la dichiarazione di condono non comporterebbe la rinuncia ai rimborsi Irap, non essendo ciò previsto dalla legge, sicché la definitività delle imposte risultanti dalla liquidazione andrebbe intesa come riferita alle sole imposte dovute dal contribuente, mentre le imposte che non erano dovute in origine, per mancanza del presupposto impositivo, resterebbero tali anche dopo la definizione automatica. Ciò consentirebbe il rimborso dei relativi versamenti nei termini di legge. 4 Comm. trib. prov. Viterbo, sez. V, 18 dicembre 2004, n. 202, cit. Nello stesso senso Comm. trib. reg. Emilia Romagna, sez. XXXIII, 16 giugno 2004, n. 89; Comm. trib. prov. Par-

le dell’obbligo di versamento, precisano che nessuno di tali presupposti ricorrerebbe laddove la domanda di rimborso riguardasse un’imposta (l’Irap) regolarmente pagata da un soggetto tenutovi in applicazione delle norme vigenti5. Sull’argomento, l’amministrazione finanziaria ha adottato un orientamento particolarmente restrittivo6. In particolare, l’Agenzia ha distinto tra l’ipotesi in cui la richiesta di rimborso derivi da un errore di calcolo commesso nella dichiarazione originariamente presentata, da quella in cui a fondamento della stessa venga addotta una pretesa esclusione dal campo di applicazione dell’Irap. Solo nel primo caso la definizione non comporterebbe la rinuncia all’istanza di rimborso7. Nel secondo, invece, il condono comporterebbe la rinuncia ad eventuali cause di esclusione e, di conseguenza, ad ogni contenzioso derivante da esse8. A ben vedere, le impostazioni ravvisanti una presunta incompatibilità tra istanza di rimborso e condono non sembrano meritevoli di essere condivise. Infatti, come meglio si vedrà in prosieguo, la pretesa esclusione dei professionisti dal campo di

ma, sez. VI, 25 maggio 2004, n. 16, entrambe in Riv. Notar., 2004, 1521, con nota di LUCARIELLO. 5 Secondo i giudici risulterebbe assorbente la preclusione derivante dal pacifico ricorso del contribuente alla sanatoria prevista dall’art. 9, della legge 289/02, il cui comma 9 stabilisce espressamente che la definizione automatica così perfezionatasi per gli anni pregressi rende definitiva la liquidazione delle imposte risultanti dalla dichiarazione (salvi gli effetti delle imposte liquidate ex artt. 36-bis e 36-ter, D.P.R. 600/73 e 54-bis, D.P.R. 633/72), e che la dichiarazione integrativa non costituisce titolo per il rimborso di ritenute, acconti e crediti d’imposta precedentemente non dichiarati, né per il riconoscimento di esenzioni o agevolazioni non richieste in precedenza, ovvero di detrazioni d’imposta diverse da quelle originariamente dichiarate. 6 Cfr. circolari dell’Agenzia delle Entrate, 5 febbraio 2003, n 7/E, punto 5.7, e 25 marzo 2003, n. 18/E, in Servizio di Documentazione Economia e Tributaria del Ministero dell’Economia e delle Finanze. 7 In tal senso, la circolare n. 7/2003, cit. In detta ipotesi, la possibilità di chiedere il rimborso deriverebbe dall’applicazione del principio, contenuto nell’art. 7, comma 13, e nell’art. 9, comma 9, della legge 289/2002, che fa salvi gli effetti della liquidazio-

ne delle imposte in base all’art. 36bis, del D.P.R. 600/1973. Secondo l’a.f., poiché il rimborso compete qualora l’errore di calcolo sia stato rilevato in sede di liquidazione delle imposte, se il medesimo errore sia stato rilevato dal contribuente, esso compete egualmente e, di conseguenza, la definizione ex art. 7 o art. 9 non comporta la rinuncia al ricorso contro l’eventuale rifiuto tacito o espresso. 8 In particolare, l’amministrazione fonda detta conclusione sulla base delle disposizioni della legge 289/2002, secondo le quali la definizione automatica, limitatamente a ciascuna annualità, rende definitiva la liquidazione delle imposte risultanti dalla dichiarazione con riferimento all’applicabilità di esclusioni. Sul punto, si veda, tra gli altri, GAVELLI, L’Irap e i lavoratori autonomi “non organizzati”: appunti per gestire correttamente il contenzioso, in Fisco, 2005, 2, 205 ss., il quale (richiamando, a tal proposito, FOSSATI, Il condono non frena il rimborso, in Il Sole 24 Ore, 11 novembre 2003) evidenzia come la stessa amministrazione sembrerebbe perplessa sul punto, ritenuto che la direzione regionale della Liguria, in risposta al quesito di una banca, avrebbe ritenuto l’istanza di rimborso non incompatibile con la sanatoria di cui all’art. 9, della legge 289/2002.


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applicazione dell’Irap (laddove ammessa) si fonda sull’assenza del requisito dell’autonoma organizzazione dell’attività, previsto dall’art. 2 del D.Lgs. 446/1997, il quale individua il presupposto dell’imposta9. Con la conseguenza che l’eventuale difetto di detto presupposto sembra rendere, in radice, non dovute le somme versate a titolo di Irap. Né, evidentemente, la domanda di condono sembra poter influire (sanandola) sull’assenza di un requisito fissato dalla legge per l’applicazione dell’imposta10. In questi casi, l’eventuale versamento delle relative somme si rivelerebbe indebito (in quanto eseguito da un soggetto non tenutovi in applicazione delle norme vigenti) e, come tale, sarebbe rimborsabile ai sensi dell’art. 38 del D.P.R. 602/1973. E proprio l’inesistenza di un obbligo di versamento consentirebbe, tra l’altro, di considerare legittime anche le eventuali istanze di rimborso inoltrate successivamente alla domanda di sanatoria11. Le superiori considerazioni rendono, infine, evidente che, da un punto di vista logico, la pronuncia in merito alla compatibilità o meno tra sanatoria ed istanza di rimborso non possa che seguire alla pre-

9 Quest’ultimo, in particolare, è il fatto o la circostanza fattuale nella quale si compendia o per il cui tramite si disvela la situazione assunta dal legislatore, nel suo riferimento ad un determinato soggetto, quale titolo giustificativo dell’imposizione. Così, RUSSO, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Milano, 2002, 130. Sull’argomento, si vedano pure TESAURO, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, Torino, 2003, 101 ss.; FALSITTA, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Padova, 2005, 209 ss. 10 Di contrario avviso, Cass., 8 febbraio 2007, n. 3682, cit., che ha ritenuto errata l’affermazione contenuta nella sentenza di merito, secondo cui «l’utilizzo della sanatoria non preclude ex lege istanze di rimborso di imposte inapplicabili per assenza di presupposto impositivo». Ciò in quanto, secondo la Suprema Corte, «il condono ha, tra l’altro, proprio lo scopo di definire “transattivamente” la controversia sull’esistenza (ritenuta dall’Agenzia e negata dal contribuente) di tale presupposto». 11 A tal proposito, v. GAVELLI, L’Irap e i lavoratori autonomi “non organizzati”, cit., il quale evidenzia come, secondo parte della dottrina (SORGATO, Il condono non compromette il diritto di rimborso dell’Irap, in Corriere Trib., 2003, 34, 2804; DI MARTINO, ZAMBELLO, Il nodo è la dichiarazione, in Il

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via verifica circa la sussistenza del presupposto impositivo. Solo ove si ravvisasse la sussistenza di un’autonoma organizzazione dell’attività (e, quindi, il versamento delle somme a titolo di imposta non potesse essere considerato indebito) la domanda di condono potrebbe essere considerata come un’implicita rinuncia all’istanza. Non sembra, quindi, potersi condividere l’assunto della Commissione veronese che, in relazione alle annualità coperte da condono tombale, ha ritenuto assorbente all’esame di ogni altra questione la preclusione derivante dal ricorso del contribuente alla sanatoria. Sul significato del concetto di “autonoma organizzazione” al fine dell’assoggettamento all’imposta dei liberi professionisti Quanto, invece, alle annualità non coperte da condono, si è detto come la sentenza affronti le questioni concernenti, da un lato, l’eventuale contrasto della disciplina istitutiva dell’Irap con l’art. 33 della direttiva UE n. 77/388/CEE e, dall’altro lato, l’individuazione del corretto significato del concetto di “autonoma organizzazione” al fine dell’assoggettamento all’imposta dei liberi professionisti12.

Sole 24 Ore, 2 luglio 2004, 18), l’istanza di rimborso verrebbe, invece, ad incidere sull’originaria quantificazione della base imponibile (rideterminandola ex tunc), con la conseguenza che essa parteciperebbe alla definizione del tributo oggetto della sanatoria. In altri termini, l’intervenuta adesione avrebbe l’effetto di cristallizzare la situazione riportata dall’istanza di rimborso (la quale costituirebbe un addendo alla dichiarazione originaria), senza possibilità di opposizione da parte dell’Agenzia delle Entrate. Un’eventuale adesione a detta impostazione comporterebbe, tuttavia, la negazione della validità dell’istanza di rimborso inoltrata successivamente al condono (COMMITTERI, Sui rimborsi Irap si abbatte la scure del condono: per il fisco l’adesione blocca le istanze di recupero, in Guida normativa, n. 158, 10 settembre 2003, 2). L’autore richiama, poi, altra dottrina (PAPA, Il condono automatico non importa rinuncia ai rimborsi Irap, in Boll. Trib., 2003, 823 ss..), che, sulla base dell’interpretazione degli artt. 7 e 9, della legge 289/2002, secondo i quali la definizione automatica rende definitiva la liquidazione delle imposte risultanti dalla dichiarazione con riferimento, tra l’altro, all’applicabilità di “esclusioni”, ritiene che l’inapplicabilità dell’Irap non potrebbe, a rigore, definirsi “esclusione”, e,

pertanto, ci si ritroverebbe al di fuori dell’ambito di applicazione di dette norme. Nel caso di professionisti privi di autonoma organizzazione ci si dovrebbe, più correttamente, riferire ad una esenzione (FERRAÙ, La definizione automatica non comporta rinuncia all’istanza di rimborso Irap, in Corriere Trib., 2004, 42, 3326). 12 Detto presunto contrasto è stato, di recente, escluso dalla Corte di Giustizia europea, la quale, con sentenza del 3 ottobre 2006 (causa C475/03), in banca dati fisconline, ha ritenuto che «differentemente dall’Iva, l’imposta regionale sulle attività produttive (Irap) è un tributo calcolato sul valore netto della produzione dell’impresa nel corso di un certo periodo. La base imponibile è determinata dalla differenza tra il valore delle produzione ed i relativi costi e non può ritenersi proporzionale al prezzo dei beni e servizi forniti contemplando le variazioni delle rimanenze, gli ammortamenti e le svalutazioni che non hanno diretto rapporto con le forniture dei beni o servizi. Il sistema di detrazione dell’Iva garantisce una perfetta neutralità del tributo, gravando esso esclusivamente sul consumatore finale. Tale risultato non è conseguito nell’applicazione dell’Irap in quanto anche laddove il soggetto passivo potesse determinare l’importo dell’imposta nel


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Relativamente alla prima problematica, la Commissione di merito, nell’escludere detta presunta incompatibilità, non manca di evidenziare le differenze sussistenti tra Iva ed Irap. In particolare, secondo i giudici, mentre la prima è un’imposta indiretta, applicata alle cessioni di beni e alle prestazioni di servizi e gravante sui consumatori e sugli utenti finali (che si rivela neutrale rispetto al reddito dei soggetti passivi per effetto del meccanismo di detrazione e rivalsa), l’Irap è un’imposta diretta il cui imponibile è costituito dal valore della produzione netta derivante dall’attività svolta nel territorio della Regione cui è destinata, che grava giuridicamente sul produttore del bene o del servizio e che è trasferibile sul consumatore solo dal punto di vista economico, in quanto influisce sul prezzo finale del bene o del servizio13. Anche in relazione a detta problematica si sono registrati orientamenti opposti. Talune Commissioni hanno, infatti, riscontrato nell’Irap caratteristiche proprie dell’Iva come, ad esempio, l’applicazione generalizzata alle cessioni, la proporzionalità al prezzo, l’applicazione in ogni fase del processo di produzione e distribuzione ed, infine, l’imposizione sul valore aggiunto dei beni e servizi. Pertanto, per la preminenza del diritto comunitario, il giudice italiano avrebbe dovuto disapplicare la normativa Irap14. Su quest’ultimo punto, la sentenza in rassegna adotta, invero, una soluzione interlocutoria. Infatti, evidenziate le differenze sussistenti tra le due imposte, i giudici proseguono affermando che la pendenza della questione relativa alla compatibilità dell’Irap con l’ordinamento comunitario (essendo, in quel momento, sub iudice) non poteva

costo del bene o servizio acquistato al fine di ripercuoterlo nella successiva fase del processo di distribuzione la base imponibile comprenderebbe comunque non solo il valore aggiunto ma anche il prelievo già subito. Ne consegue che l’introduzione dell’Irap non costituisce violazione dell’art. 33 della VI direttiva». 13 Nello stesso senso, Comm. trib. prov. Padova, sez. VI, 27 gennaio 2006, n. 177, in Giur. di Merito, 2006, 5, 1296, secondo cui, mentre l’Iva colpisce la singola cessione del bene o la singola prestazione di servizio, presupposto dell’Irap è l’esercizio di un’attività autonomamente organizzata, intesa in senso globale, di un’impresa, arte o professione, esercitata da un Ente, da una società o da una persona fisica, diretta alla

comportare la disapplicazione nell’ordinamento nazionale di un’imposta sulla quale in larga misura si fonda il sistema impositivo italiano e, di conseguenza, il finanziamento della spesa pubblica nazionale. I giudici precisano, poi, che un’eventuale pronuncia della Corte di Giustizia sfavorevole allo Stato italiano avrebbe avuto valore meramente dichiarativo e non avrebbe comportato l’immediata disapplicazione dell’imposta nell’ordinamento nazionale, limitandosi ad imporre all’Italia (a pena di sanzioni) l’adozione di una disciplina adeguatrice dai contenuti imprevedibili15. Relativamente alla controversa questione relativa all’assoggettabilità ad imposta dei liberi professionisti, è noto come sul tema sia intervenuta la Corte costituzionale che, con sentenza 21 maggio 2001, n. 15616, ha, in sostanza, dichiarato conforme ai principi di eguaglianza e di capacità contributiva l’assoggettamento ad Irap del valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate, siano esse di carattere imprenditoriale o professionale. In entrambi i casi, l’idoneità alla contribuzione sarebbe ricollegabile alla nuova ricchezza prodotta. Tuttavia, nel ritenere l’elemento organizzativo connaturato alla stessa nozione di impresa, la Corte ha, altresì, precisato che, con riferimento all’attività di lavoro autonomo, sarebbe possibile ipotizzare la sussistenza di attività professionali svolte in assenza di organizzazione o lavoro altrui; condizione, questa, da verificare, in assenza di specifiche disposizioni normative, in via di fatto17. A tal proposito, gli orientamenti espressi dalle Commissioni di merito appaiono oscillanti. Secondo taluni giudici, ai fini Irap rileverebbe la presenza di un’organizzazione d’impresa e questa non sa-

produzione o lo scambio di beni o la prestazione di servizi; Comm. trib. prov. Rovigo, 27 gennaio 2006, n. 6, cit.; Comm. trib. prov. Pordenone, sez. II, 18 febbraio 2006, n. 18, in banca dati fisconline. 14 Così, Comm. trib. reg. Roma, sez. XIX, 14 marzo 2006, n. 30, in banca dati fisconline; Comm. trib. reg. Piemonte, sez. I, 27 maggio 2005, n. 15, in Riv. Dir. Trib., 2005, 9, II, 479. 15 Sull’argomento, MARONGIU, Secondo l’avvocato generale l’Irap è contraria alle norme comunitarie, in Corriere Trib., 2005, 16, 1269 ss.; MARINI, LUPI, Irap e Iva: aspetti giuridici di distinzioni economiche, in Dialoghi Dir. Trib., 2005, 3, 465 ss.; FORTE, LUPI, Il rapporto tra Irap e Iva nelle nuove conclusioni dell’avvocato generale, in Dialoghi Dir. Trib., 2006, 3, 413 ss.; CENSI, MAGLIA-

RO, Incompatibilità tra Irap e VI direttiva: i giudici piemontesi anticipano la Corte di Giustizia, in Riv. Dir. Trib., 2005, 9, 483, a commento di Comm. trib. reg. Piemonte, sez. I, 27 maggio 2005, n. 15, cit.; BODRITO, La Corte di Giustizia UE “salva” l’Irap, in Corriere Trib., 2006, 41, 3263 ss.; 16 In Dir. e Prat. Trib., 2001, 2, 659, con nota di MARONGIU. 17 Sul punto, si veda Cass., 7 ottobre 2004, n. 21203, in banca dati fisconline, a conferma di una sentenza della Commissione regionale piemontese che ha escluso l’assoggettamento ad Irap di un professionista che, argomentatamene, escludeva la sussistenza del requisito dell’autonoma organizzazione dell’attività pur in presenza di beni strumentali e di occasionali compensi a terzi.


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rebbe data dal coordinamento e dalla organizzazione più o meno complessa di cui è capace il professionista per migliorare e rendere più agevole lo svolgimento del proprio lavoro, ma da quella organizzazione autonoma rispetto al lavoro professionale, capace di spersonalizzare l’attività svolta e di fornire, come struttura a sé stante, quella stessa prestazione professionale che connota l’attività personale tipica del professionista18. Altre pronunce ravvisano nella semplice predisposizione mentale a lavorare in autonomia, nonché, ad esempio, nella capacità di ottenere credito o nella possibilità di procurarsi clientela, quel minimum di organizzazione tale da integrare il presupposto di cui al citato art. 2. Un’attività libero professionale, anche se esercitata da professionista iscritto in un albo professionale, non sarebbe autonomamente organizzata solo nell’ipotesi in cui fosse indirizzata e controllata da altri19. In questi casi, infatti, il rapporto professionale si svilupperebbe con il soggetto che coordina l’attività e non con il committente che ha richiesto la prestazione20. Altri giudici, quanto meno in relazione alle professioni protette, ritengono, al contrario, che la preminenza che la figura del professionista assu-

18 In tal senso, cfr. Comm. trib. prov. Bologna, sez. I, 21 agosto 2003, n. 421, in Boll. Trib., 2003, 1348, con nota di BRIGHENTI. In particolare, secondo detta pronuncia, l’attività del professionista intellettuale, di per sé considerata, non può mai trasformarsi in attività “autonomamente organizzata” e non può, quindi, costituire il presupposto impositivo dell’Irap di cui all’art. 2, del D.Lgs. 446/1997, che, senza contraddire la disciplina civilistica di cui all’art. 2238 c.c., sussiste quando l’attività faccia capo ad una struttura diversa di tipo imprenditoriale, idonea a creare reddito con il concorso del lavoro del professionista e degli altri fattori produttivi (ad es., il medico che gestisce una casa di cura o il professore che gestisce un istituto di istruzione). Secondo Comm. trib. reg. Veneto, sez. XXXIII, 28 febbraio 2005, n. 7, in Servizio di Documentazione Economia e Tributaria del Ministero dell’Economia e delle Finanze, non sussistono i presupposti per l’applicazione dell’Irap nel caso in cui, pur in presenza di alcuni beni strumentali e di occasionali compensi a terzi, manchi una struttura organizzativa stabile con lavoratori subordinati o con collaborazioni parasubordinali; Comm. trib. reg. Roma, sez. V, 6 giugno 2006, n. 220, cit.

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me rispetto alla dotazione costituita per lo svolgimento dell’attività sia sufficiente ad escludere la soggettività passiva ai fini Irap21. Infatti, il profilo organizzativo dell’attività professionale non costituirebbe requisito qualificante dell’attività poiché, complesso o meno che sia, l’attività non potrebbe mai svolgersi senza la presenza personale del professionista abilitato e la struttura organizzativa, da sola, non potrebbe mai supplire alla sua assenza22. Anche sul tema in esame, gli orientamenti espressi dall’autorità finanziaria appaiono particolarmente restrittivi. Al riguardo, l’Agenzia delle Entrate, con risoluzione 31 gennaio 2002, n. 3223, ha ritenuto che l’esistenza, pur minima, del requisito dell’organizzazione sia una connotazione tipica del lavoro autonomo. Secondo l’amministrazione, le attività professionali svolte in assenza di organizzazione sarebbero, ad esempio, ravvisabili nelle collaborazioni coordinate e continuative, o in quelle attività che, ai sensi dell’allora vigente art. 49, comma 2, lett. a, del T.U.I.R., rimasto in vigore fino al 31 dicembre 2000, erano qualificate quali attività a contenuto intrinsecamente artistico o professionale svolte senza impiego di mezzi propri24.

19 Comm. trib. reg. Emilia Romagna, sez. XXXIII, 16 giugno 2004, n. 89, cit.; Comm. trib. reg. Veneto, sez. XIX, 23 giugno 2004, n. 5, in Servizio di Documentazione Economia e Tributaria del Ministero dell’Economia e delle Finanze, nel senso di assoggettare ad Irap l’attività del libero professionista, qualunque sia l’entità e la dimensione dell’organizzazione di cui dispone, ad esclusione di quei casi in cui si avvalga di un’organizzazione da altri apportata. Secondo Comm. trib. reg. Veneto, sez. I, 30 aprile 2004, n. 11, in Servizio di Documentazione Economia e Tributaria del Ministero dell’Economia e delle Finanze, poiché l’Irap deve considerarsi un’imposta di carattere reale che colpisce il valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate, deve ritenersi che anche modiche quantità di organizzazione del professionista autonomo sono sufficienti ed idonei ad integrare l’ipotesi legislativa in esame. 20 Secondo Comm. trib. reg. Veneto, sez. VI, 10 ottobre 2002, n. 82, in GT Riv. Giur. Trib., 2003, 81, con nota di FICARI, il presupposto per l’applicazione dell’imposta difetterebbe solo nell’ipotesi in cui il professionista svolgesse l’intera sua attività in favore di associazioni, di categorie, enti o altro.

21 Cfr. Comm. trib. reg. Toscana, sez. XXII, 28 maggio 2003, n. 15, in Fisco, 2003, 5102, nel senso del ricorrere di un’autonoma organizzazione nel caso in cui gli strumenti materiali e personali utilizzati dal professionista siano in grado di svincolare, almeno potenzialmente, l’attività dell’organizzazione da quella dell’organizzatore ovvero ogni qualvolta la medesima (organizzazione) si sviluppi e possa essere esercitata in assenza del lavoratore autonomo. 22 In tal senso, Comm. trib. reg. Emilia Romagna, sez. XXXV, 2 aprile 2003, n. 320, in banca dati fisconline. 23 In banca dati fisconline. 24 In tutti gli altri casi, invece, ricorrerebbe soggettività passiva di imposta. In particolare, l’a.f. fonda il proprio convincimento su una particolare interpretazione del combinato disposto dgli artt. 2 e 3, del D.Lgs. 446/1997. Invero, mentre il primo fissa il presupposto dell’imposta, annoverando, a tal fine, l’esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata diretta alla prestazione di servizi, il secondo individua i soggetti passivi e, tra essi, gli esercenti arti e professioni. Secondo l’a.f., il requisito dell’organizzazione connoterebbe le attività esercitate da tutti i soggetti passivi indicati nell’art. 3. La


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Quanto, in particolare, al caso esaminato dai giudici veneti, il ricorrente, a sostegno della pretesa esclusione dal presupposto di applicazione dell’Irap, deduceva unicamente la propria qualità di esercente una libera professione, di per sé connotata dall’importanza decisiva delle qualità personali e professionali del titolare dello studio come fattore di produzione del valore aggiunto soggetto ad imposizione, con conseguente marginalità dei relativi – incontestabili – elementi organizzativi. La Commissione (pur riconoscendo l’importanza di dette qualità) ha ritenuto che, in punto di diritto, la soggezione ad Irap del professionista non possa essere esclusa in via di principio, né tanto meno in via presuntiva, per il contributo apportato dall’intuitus personae nell’espletamento della prestazione professionale. A tal proposito, facendo proprio l’orientamento espresso dalla Corte costituzionale con la citata sentenza n. 156/2001, ha precisato che l’esclusione del professionista dall’Irap può discendere, non già dalla natura professionale, in sé, dell’attività esercitata dal contribuente, quanto dall’assenza (positivamente dimostrata) del requisito dell’organizzazione (o meglio, di “elementi di organizzazione”), secondo un giudizio di mero fatto demandato, di volta in volta, all’interprete. I giudici sottolineano, poi, come, con riguardo alla sussistenza del requisito della organizzazione nell’esercizio dell’attività professionale, non apparirebbe corretto – agli effetti di stabilire la soggezione o meno ad imposta del singolo contribuente – il ricorso a presunzioni di segno positivo o negativo, occorrendo, invece, verificare, nei singoli casi di specie, se alla produ-

stessa amministrazione con la precedente circolare 4 giugno 1998, n. 141/E, in banca dati fisconline, aveva precisato che attraverso l’utilizzo della locuzione “autonomamente organizzata”, il legislatore avrebbe inteso perseguire l’obiettivo di escludere dall’ambito di applicazione del tributo tutte quelle attività che, pur potendosi astrattamente ricondurre all’esercizio di impresa, arte o professione, non sono, tuttavia, esercitate mediante un’organizzazione autonoma da parte del soggetto interessato. A titolo esemplificativo, venivano indicate le attività di collaborazione coordinata e continuativa. 25 Sull’argomento, si vedano le diverse sentenze (nn. 3672, 3673, 3674, 3675, 3676, 3677, 3678, 3679, 3680, 3681, 3682, tutte in banca dati fisconline) pronunciate dalla sezione tributaria della Corte di cassazione in data 8 febbraio 2007. In particolare, secondo la n. 3677, il requisito della

zione del valore aggiunto concorra, oltre all’indefettibile apporto della prestazione intellettuale (e del prestigio personale) del professionista, anche il contributo rappresentato dagli investimenti di capitale di natura materiale (immobiliare, mobiliare o tecnica) ovvero da prestazioni di lavoro (manuale, impiegatizio, o anche intellettuale) altrui25. Nella fattispecie, l’esistenza di un’organizzazione di mezzi e di energie lavorative altrui, capace di contribuire in modo importante, e comunque “economicamente valutabile”, alla produzione di un valore aggiunto rispetto alla diretta prestazione lavorativa ed intellettuale del titolare dello studio notarile, risultava, in punto di fatto, positivamente e pienamente provata (e non contestata) da quanto allegato dall’Ufficio resistente in merito ai costi annualmente sostenuti dal notaio. Sulla scorta di dette considerazioni, la Commissione rigettava il ricorso del contribuente. Come si vede, i giudici ravvisano un’autonoma organizzazione laddove alla produzione del valore aggiunto, oltre alla prestazione intellettuale del professionista, “concorrano” investimenti di capitale o prestazioni di lavoro altrui. Resta, tuttavia, da chiedersi se detto “concorso” all’attività del professionista possa, effettivamente, essere ritenuto idoneo a conferire all’organizzazione carattere di autonomia o, al contrario, non sia più opportuno guardare il fenomeno da una visuale diversa, tale da ravvisare detta autonomia solo laddove l’organizzazione fosse in grado di spersonalizzarsi e, quindi, di produrre ricchezza a prescindere dall’apporto lavorativo del professionista26.

“autonoma organizzazione” «ricorre quando il contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui». Con detta pronuncia, la Corte ha confermato una sentenza di merito che aveva escluso l’applicazione dell’Irap ad un ragioniere commercialista che non si avvaleva di personale dipendente o di collaboratori di altro genere, ma soltanto di beni strumentali di modesta entità. Con la n. 3672 ha ritenuto l’imposta non applicabile ove, in concreto, i mezzi personali e materiali costituiscano un mero ausilio dell’attività personale, simile a quello di cui abitualmente dispon-

gono anche soggetti esclusi dall’applicazione dell’Irap (collaboratori continuativi, lavoratori dipendenti). La Cassazione ha, quindi, confermato una sentenza di merito che aveva escluso l’applicazione dell’imposta ad un dottore commercialista privo di dipendenti, con attrezzature consistenti nei mobili di ufficio, telefono, automezzo, computer. 26 Come, ad esempio, nel caso in cui la tenuta delle contabilità per conto dei clienti non fosse direttamente svolta dal commercialista, ma da suoi dipendenti o, comunque, da suoi delegati, i quali sarebbero in grado, autonomamente, di immettere dati per l’elaborazione automatica. Cfr. BAIGUERA, Secondo la commissione tributaria di Brescia per il prelievo manca il requisito dell’organizzazione, in Il Sole 24 Ore, 25 novembre 2003, a commento di Comm. trib. prov. Brescia, n. 134/1/2003.


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Commissione tributaria provinciale di Treviso, sez. III, 21 giugno 2006, n. 99 Presidente: La Valle – Relatore: Callegari Ires - Costi per operazioni intercorse con imprese di Paesi black list - Omessa indicazione separata in dichiarazione - Errore formale - Correzione - Dichiarazione integrativa - Ammissibilità Avvenuta constatazione della violazione - Irrilevanza (D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 110, commi 10, 11 e 12; D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, art. 2, commi 8 e 8-bis; L. 212/2000, art. 10) Il principio generale di emendabilità della dichiarazione dei redditi deve valere in ogni ipotesi di errore del contribuente anche se è già stata constatata la violazione. Ciò in quanto la preclusione prevista dalla legge relativa all’inizio di accessi, ispezioni e verifiche opera solo nel caso di ravvedimento operoso e non anche in caso di dichiarazione integrativa. Pertanto, in virtù di tale principio generale, al contribuente che abbia omesso di indicare separatamente i costi sostenuti per operazioni con soggetti residenti in paesi a fiscalità privilegiata, è consentito correggere il suo errore presentando una dichiarazione integrativa. Trattasi di ricorso avverso avviso di accertamento ai fini Irpeg-Irap 2003 elevato dall’Agenzia delle Entrate di [...] Svolgimento del processo La ricorrente che opera nella produzione e commercio di frutta secca, acquista da paese incluso nella black list farina di cocco ed in sede di D.U. non riporta separatamente il costo relativo così come tassativamente previsto dall’art. 76 comma 7ter del T.U.I.R. (ora art. 110, comma 11). Tale omissione viene rilevata in sede ispettiva dalla G. di F. In conseguenza di ciò, la ricorrente provvede a presentare dichiarazione integrativa, compilando i righi RF32 e RF50 non compilati in sede di presentazione della D.U. originaria. L’Ufficio, fatte proprie le rilevazioni della G. di F. e disconoscendo la dichiarazione integrativa, procede all’avviso di accertamento qui impugnato. Le ragioni del contendere così si riassumono: – A detta della ricorrente la dichiarazione integrativa è valida perché corregge un errore formale dovuto alla dimenticanza di annotare separatamente

i costi dell’importazione rilevata dalla G. di F. – A corollario di tale convincimento afferma che la transazione commerciale di cui al rilievo della G. di F., è l’unica su numerose operazioni d’importazione ed è vera. Allega documenti doganali e certificazioni. – Conclude infine richiamando i principi di cui all’art. 10, comma 3 dello Statuto del contribuente in ordine alla irrogazione delle sanzioni. L’Ufficio sostiene che la dichiarazione integrativa è inefficace in quanto non verifica le ipotesi di cui ai commi 8 e 8-bis dell’art. 2, D.P.R. 322/98. Infatti nel caso in specie non vi è variazione di reddito. L’art. 110, T.U.I.R. commina la indeducibilità dei costi, se non correttamente esposti in sede di D.U. ed insiste sulla valenza di tale disposto in ordine alla funzione accertativa dell’Ufficio per le importazioni da paesi cosiddetti paradisi fiscali. Per quanto concerne gli invocati, principi di cui all’art. 10, L. 212/2000, questi non operano qualora siano iniziati accessi o verifiche come nel caso in esame, ove la dichiarazione integrativa è successiva alla visita ispettiva della G. di F. Conclude infine nel rilevare che la ricorrente non fornisce documentazione circa l’effettiva attività commerciale svolta dalla ditta esportatrice così come disposizione del citato articolo del T.U.I.R e pertanto, anche in questo senso, ritiene indeducibile il costo inerente questa operazione d’importazione. Motivi della decisione Il principio generale di correggibilità della dichiarazione dei redditi deve valere in ogni ipotesi di errore del contribuente, anche se è già stata constata la violazione. Tale principio viene ribadito dalla stessa circolare n. 6 del 2000 dove si precisa che l’inibizione è prevista solo nel caso di ravvedimento operoso ma non anche nel caso di dichiarazione integrativa. In questo senso si è espressa anche la Corte di Cassazione in sezioni unite con sentenza n. 17394/2002. Fatto salvo questo principio, non resta che verificare la veridicità della transazione che ha come dirimpettaio un’entità che opera in un paese incluso nella black list – così come preteso dal citato art. 110, T.U.I.R. Oggettivamente e soggettivamente la transazione


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appare corretta. Si tratta di un’importazione di farina di cocco e l’importatore opera nel settore del confezionamento e commercio di frutta secca. Nella verifica della veridicità dell’importazione, la documentazione esibita in sede contenziosa comprende: Fattura, packing list, lettera di vettura, certificato d’origine, certificato d’analisi, certificato fitosanitario, bolla doganale, fattura di nolo, – ovvero di tutti i documenti propri di una normale operazione di importazione di prodotti alimentari. L’art. 110, comma 11 testualmente recita: «Le disposizione di cui al comma 10 non si applicano quando le imprese residenti in Italia forniscano la prova che le imprese estere svolgono prevalentemente un’attività commerciale effettiva, ovvero che le operazioni poste in essere rispondono ad un ef-

fettivo interesse economico e che le stesse hanno avuto concreta esecuzione». La prova che le imprese estere svolgano prevalentemente un’attività commerciale effettiva deve essere data in alternativa e non congiuntamente alla prova della veridicità oggettiva e soggettiva dell’operazione di importazione. Nella specie, la prova è stata data. Resterebbe comunque a carico dell’Ufficio, così come disposto dallo stesso articolo di legge, di richiedere, prima di procedere ad elevare avviso di accertamento, eventuale (e nel caso in specie) ulteriore documentazione. Per tutto ciò il ricorso va accolto ed in considerazione della natura interpretativa del contendere, si ritiene di compensare integralmente le spese di giudizio.

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Commissione tributaria provinciale di Treviso, sez. II, 5 luglio 2006, n. 77 Presidente: Mascolo - Relatore: Sordi Ires - Costi sostenuti per operazioni intercorse con imprese di Paesi black list - Omessa indicazione separata in dichiarazione - Errore formale Correzione - Dichiarazione integrativa - Ammissibilità - Inizio attività istruttoria - Irrilevanza (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 41-bis; D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 110, commi 10, 11 e 12; D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 13; D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, art. 2, comma 8-bis) La dichiarazione integrativa presentata dal contribuente al fine di correggere l’omessa indicazione separata dei costi sostenuti per operazioni intercorse con Paesi a fiscalità privilegiata, è riconducibile all’ipotesi di cui all’art. 2, comma 8-bis, del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322 e pertanto è necessario che sia presentata non oltre il termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo di imposta successivo e al solo fine di correggere errori di natura formale. Dall’applicazione di detta norma discende che è irrilevante l’inizio dell’attività istruttoria di verifica da parte dell’amministrazione finanziaria, in quanto la preclusione opera solo con riferimento al ravvedimento operoso disciplinato dall’ art. 13 del D.Lgs. n. 472/1997. Svolgimento del processo La competente Agenzia delle Entrate - Ufficio di [...] notifica in data 17 agosto 2005 all’epigrafata società avviso di accertamento ai fini Irpef e Irap relativo al periodo di imposta 2003; accerta, ai sensi dell’art. 41 bis del DPR n° 600/73, un reddito complessivo netto imponibile di euro 564.066,00 con-

tro quello dichiarato di euro 472.249,00, siccome meglio analizzato nei prospetti di liquidazione allegati al provvedimento stesso. Motivazione del recupero a tassazione del maggiore imponibile: 1) La G. di F. di [...] con Pvc 13 aprile 2005, ritualmente notificato al rappresentante legale della società, rileva la non deducibilità, ai sensi dell’art. 110, commi, 10 e 11 del T.U.I.R., di costi per complessivi euro 91.817,12 relativi a fatture acquisto materie prime emesse da soggetto domiciliato fiscalmente in Stato o territorio extracomunitario, nel caso in esame Filippine, avente regime fiscale privilegiato. 2) Indicazione non separata nella dichiarazione dei redditi dei costi e delle spese oggetto di ripresa. 3) Mancata prova che le imprese esterne svolgono effettiva attività commerciale di interesse economico, avuto riguardo alla concreta esecuzione delle operazioni poste in essere, ex art. 110 e 11 del T.U.I.R. Con propria istruttoria 27 aprile 2006, n. 14491/06, l’Ufficio controdeduce che la contribuente non può correggere la dichiarazione avvalendosi delle procedure previste dall’art. 2, commi 8 e 8-bis del D.P.R. n. 322/1998 (R.M. 17 gennaio 2006, n. 12); ribadisce che l’integrazione della dichiarazione, con separata indicazione dei costi di specie, è ammessa a condizione che non siano iniziati accessi, ispezioni, verifiche o accertamenti; precisa che la dichiarazione integrativa presentata dall’istante in data successiva al Pvc della G. di F. non sana la violazione commessa; il mancato rispetto della separata indicazione dei citati oneri e/o


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componenti negativi, determina la loro totale indeducibilità ancorché la ricorrente fornisca la prova antielusiva. Chiede, il rispetto del ricorso con il favore delle spese di giustizia. Allega fotodocumentazione varia. La deducente società oppone: – trattasi di mero vizio formale non avere separatamente indicato nella dichiarazione redditi 2004 i costi ripresi a tassazione; la loro incidenza è pari all’1.7% rispetto al totale degli acquisti anno 2003; – in data 6 luglio 2006 la società ha presentato dichiarazione integrativa in conformità alla previsione normativa dell’art. 2, comma 8-bis del D.P.R. n. 322/1998 che non prevede alcuna preclusione collegata alla preventiva esistenza di un’attività istruttoria di verifica da parte dell’a.f.; non rileva, pertanto, che la G. di F. abbia effettuato una verifica in data 13 aprile 2005; – la dichiarazione integrativa, di cui l’Ufficio non eccepisce preclusione alcuna, è stata presentata entro il 31 ottobre 2005 allo scopo di correggere un’omissione compiuta a proprio danno; il comma 8-bis del citato D.P.R. n. 322/98 non contempla preclusione e sanzione alcuna perché non sussiste alcun danno per l’erario; in tal senso, anche, la circolare 25 gennaio 2002, n. 6 nonché copiosa dottrina e giurisprudenza susseguitasi in tale materia; – l’Ufficio era tenuto, prima di elevare l’accertamento, a invitare la ricorrente società, nelle forme e termini di legge, a fornire la prova contraria, ossia la prova sancita nell’art. 110, comma 11, primo e secondo periodo del T.U.I.R. Chiede: – l’annullamento dell’impugnato avviso di accertamento; – la restituzione di eventuali indebite riscossioni da parte dell’a.f., oltre agli interessi di legge. Allega fotodocumentazione varia. [omissis] Motivi della decisione La questione sottoposta a giudizio trova appropriata collocazione giuridico-fiscale nell’ambito applicativo della fonte normativa dell’art. 2, comma 8bis del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322 che recita: «Le dichiarazioni dei redditi, dell’imposta regionale sulle attività produttive [...] possono essere integrate dai contribuenti, per correggere errori od omissioni che abbiano determinato l’indicazione di un maggior reddito o, comunque, di un maggior debito d’imposta o di un minor credito, mediante di-

chiarazione da presentare [...] non oltre il termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo». In sostanza, con la testé citata decretazione, il legislatore ha inteso acclarare che il presupposto essenziale, ai fini dell’efficacia e della validità operativa della dichiarazione integrativa prevista dall’art. 2, comma 8-bis del D.P.R. n. 322/98, si basa sulla sintomatica combinazione delle condizioni appresso riportate: – che l’attivazione della dichiarazione di specie avvenga su impulso del contribuente interessato, allo scopo di emendare e/o correggere errori od omissioni compiuti in sede di dichiarazione originaria; ciò, è puntualmente avvenuto nel caso specifico, come giustamente rilevasi dalla documentazione prodotta e acquisita agli atti; – che gli errori ed omissioni siano di natura formale e a danno del contribuente stesso e non siano di natura sostanziale, cioè concettualmente commessi allo scopo di evadere il fisco; nel caso che interessa, la mancata separazione nella dichiarazione dei redditi 2003 – mod. 2004 – dei costi ritualmente fatturati dalla società extracomunitaria “Kewalram Philippines inc. – Philippines”, avente regime fiscale privilegiato, concretizza l’ovvia ipotesi della “mera irregolarità formale” perché non determina, di per sé stessa, alcun pregiudizio all’erario e nessuna maggiore incombenza in capo all’a.f. La prova documentale, non eccepita dall’Ufficio, fornita dalla deducente società in adita sede contenziosa, conferma che l’impresa extracomunitaria non residente svolge effettiva attività commerciale di interesse economico mentre le transazioni intercorse hanno avuto concreta esecuzione; con ciò, la contestata irregolarità può ritenersi sanata essendo state soddisfatte le condizioni richieste dall’art. 110, comma 11 del T.U.I.R; – che la dichiarazione integrativa sia tempestivamente presentata, in conformità alle disposizioni e ai modelli stabiliti dalla vigente legislazione, non oltre il termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo; adempimenti, questi, rispettati avuto riguardo, anche, al termine temporale dell’avvenuta integrazione: 5 luglio 2005, rispetto alla normale scadenza della successiva dichiarazione 2004 – mod. 2005 – fissata al 31 ottobre 2005. La preclusione dedotta dall’Ufficio in ordine alla procedura prevista dal già citato comma 8-bis, non opera in capo alla fattispecie impositiva accertata in quanto gli accessi, le verifiche da parte della G. di F. sono correlati al ravvedimento operoso, ex art. 13 del D.Lgs. n. 472/97, che disciplina situazioni fiscali totalmente diverse e difformi dal contenzioso oggetto d’esame.


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È quasi superfluo riaffermare che la mancata presentazione di dichiarazione integrativa avrebbe comportato una opposta e non estranea azione da parte della competente a.f. in relazione, appunto, al sopravvenuto accesso e verifica fiscale effettuati dalla G. di F. Le doglianze di parte privata soro fondate; li ricorso va integralmente accolto, l’obbligazione tributa-

ria pretesa dall’Ufficio non è, pertanto, dovuta; all’a.f. è demandato l’onere di riliquidare e riconsiderare la contestata dichiarazione integrativa come sopra deciso restituendo, con relativi interessi di legge, eventuali somme indebitamente percette. La peculiare questione trattata impone una ragionevole ed equa compensazione delle spese di giudizio.

I - II Nota Le sentenze in commento, che possono essere annoverate tra le prime pronunce dei giudici di merito in materia, si pronunciano sulla possibilità di correggere, attraverso la presentazione di idonea dichiarazione integrativa, l’omessa separata indicazione in dichiarazione delle spese e degli altri componenti negativi derivanti da operazioni intercorse con soggetti residenti in paesi a fiscalità privilegiata. In particolare, viene riconosciuta la possibilità di presentare detta dichiarazione anche nel caso in cui siano già iniziati ispezioni, verifiche e accessi da parte dell’amministrazione finanziaria. In entrambi i casi le società ricorrenti, a seguito di acquisti in paesi a fiscalità privilegiata, non avevano riportato separatamente i relativi costi nella dichiarazione dei redditi, così come previsto dall’art. 110, comma 11, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917. Questa norma stabilisce che, al fine di poter dedurre i suddetti costi, è necessario indicarli separatamente nella dichiarazione dei redditi (in tal senso si era pronunciata l’Agenzia delle Entrate con la risoluzione del 6 giugno 2003 n. 127/E, in Fisco, n. 23/2003, 3634 ss. e successivamente con risoluzione del 16 marzo 2004 n. 46/E, in Fisco, n. 14/2004, 2083 ss.). A seguito della rilevazione dell’omissione in sede ispettiva, le società provvedevano a presentare una dichiarazione integrativa ai sensi dell’art. 2 del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322. L’Ufficio, però, disconoscendo tale integrazione, procedeva a notificare avviso di accertamento per recuperare i costi indebitamente dedotti. L’orientamento prevalente ritiene ammissibile la possibilità di presentare una dichiarazione integrativa al fine di correggere eventuali errori ed omissioni di natura formale, nei quali è da comprendere quello relativo all’omessa separata indicazione dei componenti negativi di cui all’art. 110, comma 11, T.U.I.R. (sulla natura formale dell’omessa separata indicazione di detti costi, ANDRIOLA, LUPI, Sulla possibilità di sanare le omesse segnalazioni, nella dichiarazione dei redditi, di costi “da paradisi fiscali” o di minusvalenze su partecipazioni, in Dialoghi di diritto tributario, n. 9/2005, 1155 ss.). Trattasi di una

norma recente, pertanto in giurisprudenza, oltre le sentenze in rassegna e la sentenza della Comm. trib. prov. Frosinone, sez. V, n. 158 del 19 agosto 2006, con nota di BOCCALATTE, TOMASSINI, La dichiarazione integrativa “sana” l’omessa indicazione di costi per operazioni black list, in Corr. Trib., n. 46/2006, 3649 ss., non constano precedenti sul punto. In dottrina si sono espressi: ANDRIOLA, LUPI, Sulla possibilità di sanare le omesse segnalazioni, nella dichiarazione dei redditi, di costi “da paradisi fiscali” o di minusvalenze su partecipazioni, cit; BUSCEMA, CERIANA, TOMASSINI, STEVANATO, nell’intervento L’ostensione di operazioni derivanti da soggetti ubicati in paradisi fiscali: aspetti procedimentali e possibilità di integrare segnalazioni inizialmente omesse, in Dialoghi di diritto tributario, n. 7-8/2005, 997 ss. Nella prassi sono da segnalare la risoluzione del 17 gennaio 2006 n. 12/E, e la circolare del 25 gennaio 2002 n. 6/E dell’Agenzia delle Entrate, rispettivamente in Fisco, n. 5/ 2006, 768 ss. Fisco, n. 5/2006, 680 ss. Risulta, viceversa, estremamente controversa la possibilità di presentare la dichiarazione integrativa ai sensi dell’art. 2, D.P.R. n. 322/1998, una volta iniziati accessi, ispezioni e verifiche da parte dell’amministrazione finanziaria. Con risoluzione del 17 gennaio 2006, n. 12/E, cit., l’Agenzia delle Entrate ha riconosciuto la possibilità di emendare la dichiarazione originaria attraverso la presentazione di una dichiarazione integrativa, ma a condizione che non siano iniziati accessi, ispezioni e verifiche. In una precedente circolare (circolare del 25 gennaio 2002, n. 6/E, cit.), l’amministrazione finanziaria aveva riconosciuto l’effetto preclusivo dell’inizio di attività di controllo solo nel caso del ravvedimento operoso ex art. 13 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 e non anche nel caso di dichiarazione integrativa ex art. 2, commi 8 e 8-bis, del D.P.R. n. 322/1998. Le pronunce dei giudici trevigiani, anche se con percorsi logici differenti, hanno riconosciuto il diritto del contribuente, che ha omesso di indicare separatamente le spese e gli altri componenti negativi di cui all’art. 110, comma 11, T.U.I.R., di presentare la dichiarazione integrativa ai sensi dell’art. 2, D.P.R. n. 322/1998, anche dopo l’inizio dei controlli da parte della amministrazione finanziaria.


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In entrambi i casi, i giudici hanno affermato che la preclusione connessa all’inizio di accessi, ispezioni e verifiche da parte dell’amministrazione finanziaria è prevista dalla legge solo con riferimento al ravvedimento operoso disciplinato dall’art. 13 del D.Lgs. n. 472/1997 e non anche in relazione alla dichiarazione integrativa ex art. 2 del D.P.R. n. 322/1998 (conforme Comm. trib. prov. Frosinone, sez. V, 19 agosto 2006, n. 158, cit.). In dottrina si sono espressi: ANDRIOLA, LUPI, Sulla possibilità di sanare le omesse segnalazioni, nella dichiarazione dei redditi, di costi “da paradisi fiscali” o di minusvalenze su partecipazioni, cit.; BUSCEMA, CERIANA, TOMASSINI, STEVANATO, nell’intervento L’ostensione di operazioni derivanti da soggetti ubicati in paradisi fiscali: aspetti procedimentali e possibilità di integrare segnalazioni inizialmente omesse, cit. Si veda altresì: MONTUORI, L’omessa indicazione dei costi di cui all’art. 110, commi da 10 a 12, del T.U.I.R. Nuove strategie di difesa per il contribuente alla luce delle prime pronunce dei giudici di merito, in Fisco, n. 45/2006, 6987 ss.; PETRONE, Presupposti e limiti dell’emendabilità, con il ravvedimento o attraverso la presentazione di dichiarazioni integrativa, dell’omessa indicazione dei costi derivanti da operazioni intercorse con imprese residenti in Stati e territori a fiscalità privilegiata, in Fisco, n. 6/2006, 863 ss. Rimane da chiarire, ancora, la natura della dichiarazione integrativa presentata per la correzione dell’omessa indicazione separata dei costi di cui all’art. 110, comma 11, T.U.I.R. I giudici trevigiani sembrerebbero aderire alla tesi che esclude la sussistenza di un tertium genus di dichiarazione integrativa rispetto a quelle previste dai commi 8 e 8-bis dell’art. 2 del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, anche se poi non concordano in merito alla tipologia di appartenenza. Infatti, nella sentenza n. 77/2006, i giudici hanno ritenuto che la correzione della dichiarazione sia riconducibile all’ipotesi di cui all’art. 2, comma 8bis, del D.P.R. n. 322/1998, riconoscendo che la dichiarazione integrativa andrebbe a correggere un’omissione compiuta dal ricorrente a proprio danno. Di conseguenza, la stessa non può essere presentata oltre il termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo di imposta successivo. Nella sentenza n. 99/2006, invece, i giudici sembrerebbero lasciare aperta la possibilità di emendare la dichiarazione dei redditi nel termine più lungo previsto dal comma 8 dell’art. 2, D.P.R. 322/98 (in senso sostanzialmente conforme è la sentenza n. 158/2006 della Comm. trib. prov. Frosinone, cit.). Sul punto, in dottrina: ANDRIOLA, LUPI, Sulla possibilità di sanare le omesse segnalazioni, nella dichiarazione dei redditi, di costi “da paradisi fiscali”

o di minusvalenze su partecipazioni, cit.; BUSCEMA, CERIANA, TOMASSINI, STEVANATO, nell’intervento L’ostensione di operazioni derivanti da soggetti ubicati in paradisi fiscali: aspetti procedimentali e possibilità di integrare segnalazioni inizialmente omesse, cit. L’amministrazione finanziaria, invece, nella risoluzione del 17 gennaio 2006, n. 12/E, cit., ritiene che la dichiarazione integrativa per la correzione dell’omessa indicazione separata dei costi con paradisi fiscali non sarebbe inquadrabile nell’ambito applicativo dei commi 8 e 8-bis dell’art. 2, D.P.R. n. 322/1998, non essendo detta dichiarazione né a vantaggio, né a svantaggio del contribuente. Ciò, comporta, secondo l’amministrazione, la possibilità per il contribuente di rimediare all’omissione attraverso la presentazione di una dichiarazione integrativa senza particolari limiti di tempo, ma a condizione che non siano iniziati accessi, ispezioni o verifiche. È da segnalare che la Finanziaria 2007 (legge 27 dicembre 2006, n. 296), con i commi 301-303 dell’art. 1, è intervenuta sulla disciplina dei costi sostenuti in Paesi black list. In particolare, il comma 301 ha soppresso l’ultimo periodo del comma 11 dell’art. 110 del T.U.I.R., che prevedeva la subordinazione della deducibilità delle spese e degli altri componenti negativi derivanti da operazioni intercorse tra imprese residenti e imprese domiciliate fiscalmente in Stati o territori non appartenenti all’Unione europea aventi regimi privilegiati, alla separata indicazione nella dichiarazione dei redditi dei relativi ammontari. Il comma 302 ha aggiunto un nuovo comma all’art. 8 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, prevedendo che, nel caso in cui l’omissione o l’incompletezza riguarda l’indicazione delle spese e degli altri componenti negativi di cui all’art. 110, comma 11, T.U.I.R., si applica una sanzione amministrativa pari al 10% dell’importo complessivo delle spese e dei componenti negativi non indicati nella dichiarazione dei redditi, con un minimo di euro 500 e un massimo di euro 50.000. Il comma 303 prevede, infine, che la disposizione del comma 302 si applica anche per le violazioni commesse prima dell’entrata in vigore della legge finanziaria, sempre che il contribuente fornisca la prova di cui all’art. 110, comma 11, primo periodo, del T.U.I.R., ovvero dimostri che le imprese estere svolgono prevalentemente un’attività commerciale effettiva, o che le operazioni poste in essere corrispondono ad un effettivo interesse economico e che le stesse hanno avuto concreta esecuzione. Il comma 303 prevede, inoltre, che in tal caso resta ferma l’applicazione della sanzione di cui all’art. 8, comma 1, del D.Lgs. n. 471/1997 per la dichiarazione irregolare, ovvero da euro 258 a euro 2.065.


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INTERESSE DI GRUPPO E INERENZA

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Commissione tributaria provinciale Lucca, sez. IV, 14 luglio 2006, n. 64 Presidente: Di Bugno - Relatore: Pizzi Ires - Reddito d’impresa - Compensi dovuti agli amministratori - Necessità di preventiva delibera o previsione di statuto - Esclusione (D.P.R. 917/1986, art. 109; c.c., artt. 2497, 2497ter , 2497-sexies) Ires - Reddito d’impresa – Accordo tra società avente per oggetto la sottoposizione ad una direzione unitaria – Compensi degli amministratori riversati dalla controllata alle controllanti – Fattispecie - Deducibilità (D.P.R. 917/1986, art. 109; c.c., artt. 2497, 2497ter , 2497-sexies) Ai fini della deducibilità fiscale del compenso agli amministratori, non è necessario che la quantificazione del compenso sia stabilita da una preventiva delibera assembleare ovvero da apposita previsione statutaria, potendosi determinare unitamente all’approvazione del bilancio. Vi è rapporto di gruppo anche quando vi sia un accordo tra società giuridicamente distinte che si sottopongono ad una direzione unitaria; in tal caso, la società controllata può dedurre i compensi corrisposti agli amministratori, pur quando il compenso sia riversato a più controllanti. Svolgimento del processo L’Agenzia delle Entrate ha proceduto con avviso di accertamento nei confronti della società S. S.r.l. contestando l’indeducibilità dei costi rappresentati dal compenso agli amministratori e procedendo al conseguente recupero della maggiore imposta e delle sanzioni. L’ufficio, dopo avere acquisito la documentazione con le operazioni di accesso dal 3 al 5 maggio 2005, ha accertato l’indeducibilità dei detti costi sia perché né certi né determinati sia perché riversati alle società controllanti in assenza di una delibera o di una previsione statutaria ad hoc. L’ufficio ha altresì evidenziato l’illegittimità della detrazione atteso che società controllante (a cui riversare il compenso) non può essere che una sola e non, come nel caso in esame, tre società distinte rappresentate da tre persone (fisiche) amministratori della società controllata. La società ricorrente ha, preliminarmente, eccepito la violazione dell’art. 12 della L. n. 212/2000 atteso

che le operazioni di verifica hanno avuto una durata ben superiore a quella prevista (trenta più eventuali altri trenta giorni) con ciò, impedendo al contribuente di esporre i motivi del proprio comportamento nella gestione. Rileva inoltre che, trattandosi di compensi reversibili alle società, il recupero a tassazione dei compensi agli amministratori non è fondato essendo legittima la fatturazione degli stessi. Quanto all’assenza di una delibera che abbia determinato il compenso agli amministratori così come l’indeterminatezza della stessa e, infine, la mancanza di un atto ulteriore che preveda la reversibilità del compenso alle società, il ricorrente osserva che, pur attenendo esclusivamente ai soci il potere di contestare e/o impugnare la determinazione del compenso così come ogni altra violazione “privatistica” del rapporto societario, le eccezioni dell’ufficio sono infondate atteso che l’approvazione del bilancio e la fatturazione dei compensi attestano la sussistenza dei requisiti invocati per la deducibilità dei costi. Nella memoria di costituzione l’ufficio ha osservato come l’accesso per l’acquisizione della documentazione presso il contribuente non possa essere confuso con la verifica pertanto alcuna violazione è stata compiuta; l’accesso ha avuto la durata di soli tre giorni e non si è avuta alcuna verifica riconducibile alla previsione richiamata dal contribuente. Nel merito ha evidenziato che l’unica fattispecie di deducibilità del costo relativo al compenso all’amministratore è rappresentata dalla reversibilità dello stesso alla società controllante, ma non a società che, in relazione alla loro minoritaria partecipazione, non possano assolvere a tale controllo tenuto conto che non assolvono neppure al concetto di “gruppo”. La società ricorrente ha depositato memoria aggiunta con la quale, riaffermati i motivi dedotti nell’atto introduttivo, argomenta sia in punto di determinazione dei compensi sia in tema di gruppo di società per giungere alla conclusione della corretta fatturazione del costo e la conseguente legittima deducibilità. Le parti in pubblica udienza, hanno riaffermato le rispettive posizioni. Motivi della decisione Osserva - In primo luogo la Commissione rileva come alcuna violazione sia stata posta in essere dal-


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l’ufficio in sede di accesso per l’acquisizione dei documenti atteso che tale operazione si è svolta nell’arco temporale di soli tre giorni; non rileva che, il successivo esame, sia terminato dopo circa quattro mesi. Infatti la norma richiamata dal ricorrente è relativa solo alla garanzia del contribuente di vedere limitata temporalmente la presenza degli organi accertatori presso la propria attività. Quanto al merito è necessario esaminare le varie questioni sollevate in relazione alla contestazione oggetto del presente contenzioso ovvero all’indeducibilità dei costi rappresentati dal compenso degli amministratori riversati a società di riferimento. È pacifico e, comunque, non contestato che le persone fisiche facenti parte del consiglio di amministrazione della società ricorrente sono state “nominate” dalle società destinatarie delle fatture per le quali è stata eccepita l’indeducibilità del costo indicato. È altrettanto indiscutibile, ancorché non esente da perplessità pur non essendo contestato il versamento ed il pagamento degli importi in fattura, che il compenso agli amministratori sia di esclusiva competenza dell’assemblea della società e l’assenza di una delibera ad hoc non rende inesistente o indeterminato lo stesso compenso essendo stato, quantificato in uno con l’approvazione del bilancio. Allo stesso modo la mancanza di una delibera o di una previsione statutaria circa la reversibilità del compenso alle società, anziché il pagamento diretto alle persone fisiche, non costituisce elemento ostativo all’emissione della fattura a favore della prima atteso che non è in contestazione né lo svolgimento dell’incarico né l’avvenuta corresponsione dell’importo. È altresì vero che il compenso reversibile deve essere versato alla società controllante ed è altresì vero che, nel caso di specie, il compenso è versato a tre società distinte con diverse partecipazioni azionarie della controllata. Il ricorrente sostiene che le società fanno parte di un “gruppo” e in tal senso la fatturazione da parte di più società alla controllata è legittimo; afferma che si è in presenza di

gruppo quando si verifica il controllo da parte di una società capogruppo sulle società figlie o controllate o quando partecipa al capitale di queste ultime (controllo interno) o quando sono collegate da vincoli contrattuali (controllo esterno). Il gruppo può essere rappresentato sia in senso verticale che in senso orizzontale (accordo tra società giuridicamente distinte che si sottopongono ad una direzione unitaria senza che necessariamente l’una abbia il controllo o l’influenza dominante sulle altre). L’ufficio invece afferma che la fattispecie richiamata dal ricorrente non è riconducibile a quella di gruppo di società non sussistendo i requisiti di legge. La Commissione ritiene l’argomentazione del ricorrente condivisibile. La Suprema Corte ha affermato che il gruppo di società è “la situazione che si determina quando una società abbia il possesso delle azioni di un’altra ovvero quando, pur non ricorrendo tale circostanza, si verifichi che a) più imprese svolgono in sostanza una attività coordinata ed interdipendente sicché appaiono necessariamente informate ad unità di indirizzo, b) si assicuri tale unità di principi direttivi mediante la cosiddetta “unione personale” estrinsecatesi nell’identità dei dirigenti o dei titolari delle azioni (o quote della società)”. Ed ancora precisa che la comunanza personale degli amministratori è idonea di per sé a dar luogo ad una aggregazione societaria finalizzata alla realizzazione di un disegno economico unitario in presenza anche della omogeneità dell’oggetto sociale (cfr. Cassazione 26 agosto 1998, n. 8472 e 5 dicembre 1998, n. 12325). Nel caso in esame si verifica una situazione rispondente ai principi enunciati dalla Suprema Corte per cui la società ricorrente ha legittimamente dedotto, come costi, i compensi agli amministratori riversati alle società di riferimento. La particolare complessità delle questioni trattate costituisce giusto motivo per compensare delle spese di giudizio.

Nota di Filippo Dami

Premessa Nel caso in esame la Commissione toscana ha riconosciuto la deducibilità dei compensi spettanti agli amministratori di una società, poi da questa (ri)addebitati alle controllanti che li avevano nominati nel proprio CdA, ravvisando la presenza di una legittima scelta gestionale effettuata da soggetti avvinti da un legame unificante che assicurava l’inerenza del costo alla formazione del reddito della “figlia”. In tal senso, i Giudici mostrano una certa sensibilità nel confrontarsi con il delicato proble-

La sentenza in commento offre lo spunto per alcune brevi riflessioni che travalicano l’analisi strettamente connessa con l’oggetto della controversia e che coinvolgono, in termini più generali, i profili legati all’apprezzamento dell’incidenza che il perseguimento di obiettivi imprenditoriali metaindividuali (i.e. di gruppo) può avere in punto di apprezzamento delle componenti reddituali fiscalmente rilevanti.


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ma dell’interferenza del c.d. interesse di gruppo con quello della singola struttura societaria o, per meglio dire, con la verifica delle implicazioni prodotte dal (necessario) coordinamento tra i due (non sempre coincidenti) interessi. È questo un tema che impegna da molto tempo (anche) gli studiosi di diritto tributario1 e che ha recentemente trovato un nuovo slancio grazie alla rilevanza assunta dal fenomeno dell’aggregazione di imprese sottoposte ad una direzione unitaria, tanto nella riforma del diritto societario, quanto in quella dell’Ires2. Ed è proprio dal collegamento tra i principi affermati in queste fondamentali riforme – che, sia pur in modo latente, sembrano cogliersi anche nella considerazioni del collegio toscano – che scaturiscono le sintetiche riflessioni sistematiche cui si faceva cenno. La disciplina civilistica dei rapporti di gruppo Prendendo le mosse dall’ordinamento primario, si osserva, infatti, come nel novellato codice civile il legislatore abbia finalmente preso concretamente atto del fenomeno dei c.d. gruppi, quale modello organizzativo dell’attività imprenditoriale fondato sull’azione combinata e coordinata che più soggetti attuano al fine di conseguire un comune e condiviso obiettivo strategico. In tale sede si assiste, in particolare, al pieno riconoscimento dell’interesse di gruppo, al cui raggiungimento può essere temporaneamente (ma non definitivamente) sacrificato l’interesse della singola società facente parte della più ampia struttura. Nel disegno del legislatore civilistico, in particolare, l’interesse collettivo (di gruppo) e quello indi-

1 Con riferimento ai principali studi condotti precedentemente alla presentazione del disegno di legge delega per la riforma tributaria, cfr. GREGGI, La fiscalità dei gruppi di società- profili tributari italiani e comparati, Bologna, 2000, passim; GALLO, I gruppi di imprese e il fisco, in Studi in onore di V. Ukmar, Padova, 1997, 577 ss.; GIOVANNINI, I gruppi di società, in Imposta sul reddito delle persone giuridiche, Imposta locale sui redditi, Collana di Giurisprudenza sistematica di diritto tributario a cura di Tesauro, Torino, 1996, 107 ss.; ID, Soggettività tributaria e fattispecie impositiva, Padova 1996, 363 ss.; UKMAR, “Gruppi” e disciplina fiscale, in AA.VV., I gruppi di società – Atti del Covegno internazionale di studi – Venezia 16/17/18 novembre 1995, Milano, 1996, 2237 ss.; FICARI, Liquidazione congiunta dell’IVA di gruppo ex art. 73

viduale (delle singole strutture societarie coinvolte) tendono a coordinarsi secondo un ben definito equilibrio. In estrema sintesi, il perseguimento dell’interesse di gruppo deve sempre e comunque assicurare il soddisfacimento anche del singolo interesse sociale, secondo modalità che lo stesso legislatore si è fatto carico di esplicitare. Segnatamente, l’art. 2497 c.c. sancisce che l’eventuale sacrificio sopportato dalla singola società del gruppo vada prioritariamente compensato attraverso i risultati dell’attività di direzione e di coordinamento. Nella fisiologia del fenomeno, tale ultima attività dovrebbe, infatti, assicurare a ciascuno dei consociati adeguati benefici, ancorché non unicamente di tipo reddituale3. Qualora, al contrario, tali effetti non si producano in concreto, il sacrificio patito dovrà allora essere puntualmente compensato attraverso apposite attribuzioni (cfr. art. 2497 co. 1 c.c.). Interesse di gruppo ed inerenza delle componenti reddituali Le conseguenze di questo nuovo assetto in ambito fiscale sono evidenti e coinvolgono, tra l’altro, proprio l’apprezzamento dei profili di economicità e di inerenza delle operazioni gestionali, nel senso indicato – sia pur senza questi riferimenti al mutato quadro normativo di riferimento – nella sentenza in commento. Il legislatore civilistico ha, per quanto detto, riconosciuto e codificato il principio in base al quale una singola attività d’impresa può essere supportata da un programma gestorio che la inquadra in un contesto più ampio rispetto a quello nel quale ver-

DPR 633 e rilevanza del gruppo di società, in Riv. dir. trib., 1992, I, 151 ss.; DI PIETRO, Il bilancio delle società di gruppo “domestico” alla luce della legge tributaria, in Atti del convegno “Gruppi di imprese” – Brescia 13/14 marzo 1992; TABELLINI, Gruppi di società nel diritto tributario, in Digesto Disc. priv. sez. comm., VI, Torino, 1991; ID, I “gruppi” quali “nuovi” soggetti passivi dell’irpeg, in Il reddito di impresa nel nuovo testo unico, Padova, 1988; LOVISOLO, Gruppo di imprese e imposizione tributaria, Padova, 1985, passim; ID, L’imposizione dei gruppi di società, in L’evoluzione dell’ordinamento tributario italiano, Padova, 2000, 313 ss.; VOGLINO, L’assenza di una specifica rilevanza dei gruppi di società al di fuori delle ipotesi espressamente previste, in Boll. trib., 1990, 1503 ss.; TREMONTI, La fiscalità industriale – Strategie fiscali e gruppi di società in Ita-

lia, Milano, 1988, passim;.LA ROSA, I gruppi di società nel diritto tributario, in I gruppi di società. Ricerche per uno studio critico a cura di Pavone La Rosa, Bologna, 1982, passim. 2 Al riguardo ci sia consentito rinviare anche per ulteriori riferimenti bibliografici relativi anche alla recente riforma dell’Ires, a DAMI, I gruppi di imprese nell’imposizione sui redditi, ed. provvisoria, Firenze, 2006, passim. 3 La maggiore facilità di accedere al credito, la più efficiente ed economica gestione di servizi accentrabili, la garanzia di una partecipazione costante a processi di sviluppo, ecc. favoriti dall’appartenenza ad una più ampia struttura organizzativa sono di per sé elementi che da soli giustificano il temporaneo sacrificio pur potendosi non risolvere in un incremento reddituale della singola società.


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rebbe altrimenti perseguito un interesse meramente individuale4. Quell’attività può, in particolare, costituire legittimamente la “parte necessaria” di una macro struttura organizzativa, nella quale gli obiettivi di ciascuno si sostanziano e si realizzano grazie al loro coordinato interagire verso un risultato condiviso. Tutto questo, peraltro, non determina, quantomeno nella lettura data da parte della dottrina maggioritaria, l’esistenza di una sola impresa del (o di) gruppo5. Proprio il riferimento codicistico ai concetti di direzione e coordinamento testimonia, piuttosto, che nell’ambito dei rapporti di gruppo ci si trova di fronte ad una pluralità di attività ciascuna giuridicamente imputata ad un distinto soggetto e pur alle altre legata dalla “necessità” di realizzare il medesimo interesse. L’idea che il collegamento funzionale di ciascun atto di gestione si esprime non più con la singola attività ma con la complessiva attività parcellizzata tra le molteplici strutture determina, quindi, la necessità di spostare nettamente il parametro di valutazione sia dell’inerenza che dell’economicità. Entrambe queste caratteristiche andranno, in effetti, d’ora in poi valutate nel contesto complessivo nel quale ciascun atto viene compiuto. Conseguentemente, dovrà ritenersi inerente ed economicamente giustificata ogni operazione che, pur pregiudizievole al soggetto che l’ha posta in essere o (apparentemente) priva di un diretto collegamento alla sua attività, sia in realtà spiegabile alla luce del programma di gruppo. Attraverso tali operazioni, infatti, il soggetto non si limita a permettere l’altrui vantaggio ma realizza, in realtà, il proprio autonomo interesse. Il conseguimento di quest’ultimo, infatti - al di là di una (eventuale) compensazione diretta del sacrificio secondo quanto previsto dal codice civile - discende proprio dall’appartenenza ad una struttura in grado di assicurargli alcuni ben precisi vantaggi, ancorché, come detto, non sempre aventi natura (direttamente) reddituale. Se tutto questo è vero, significa che l’organizzazione di gruppo, rappresentando il nesso di pertinenza di attività economiche integrate, strumentali e connesse comporta un apprezzamento profondamente diverso degli interessi ai quali la gestione è diretta e, segnatamente, impone una

4 È quello che in dottrina viene efficacemente definito programma imprenditoriale metasocietario o di gruppo. Cfr, al riguardo, SCHIANO PEPE, Il gruppo di imprese, Milano 1990, 97 e, in ambito tributario, recentemente FICARI Reddito di impresa e programma impren-

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(ri)considerazione del confine che distingue i fini imprenditoriali ed extraimprenditoriali che i singoli atti di gestione sono diretti a soddisfare. Detto in termini espliciti, nelle società del gruppo l’apprezzamento circa l’avvenuta soddisfazione di una finalità propria o estranea all’impresa si differenzia profondamente dall’identico apprezzamento effettuato nei confronti di una società autonoma. Mentre in quest’ultima, infatti, una finalità estranea sarà riscontrabile quando manchi una relazione di causa ad effetto rispetto alla specifica attività esercitata, nella seconda tale estraneità potrà ravvisarsi solo quando tale relazione manchi rispetto all’attività di gruppo, da intendersi quale attività funzionalmente unitaria, ovvero come “complesso di sub-attività” che trova la propria unitarietà nell’esistenza di un comune scopo oggettivo6. Accettando queste conclusi - che valorizzano l’innovato contesto normativo di riferimento - è possibile trarre con facilità alcune ulteriori conseguenze concernenti gli aspetti qui considerati. Alla luce dei risultati interpretativi appena raggiunti si deve, in particolare, ritenere che l’operazione imprenditoriale che venga effettuata a sostegno del programma gestionale di gruppo dovrà (tendenzialmente) sempre considerarsi inerente siccome non riconducibile ad un’attività diretta a soddisfare una finalità estranea all’impresa (i.e. una finalità extraimprenditoriale): tale non potendosi considerare quella del perseguimento dell’interesse di gruppo che, come detto, è in sé interesse (pur particolare) cui può essere legittimamente diretta la specifica attività. Per altro verso, l’effettiva economicità di tale operazione non potrà che essere apprezzata in una logica aggregata. Tale caratteristica, cioè, non andrà parametrata guardando al risultato immediato generato dalla stessa nella sfera economico-patrimoniale del soggetto, quanto a quello che al medesimo è derivato grazie al prodursi della complessiva attività rispetto alla quale essa (operazione) ha costituito una quota-parte necessaria. Tutto questo presenta, peraltro, una precisa limitazione nella necessità di evitare che, grazie all’assetto organizzativo aggregato delle singole imprese, venga perpetrata un’illecita pianificazione fiscale. Il riconoscimento civilistico della perseguibi-

ditoriale, Padova, 2004, spec. 266. 5 Cfr., anche per riferimenti alla dottrina giuscommercialistica, DAMI, op. cit., 64. Il più qualificato sostenitore dell’unicità dell’impresa di gruppo è GALGANO, da ultimo in Il nuovo diritto societario – Trattato di diritto commer-

ciale e di diritto pubblico dell’economia, Padova, 2003, 168. 6 È questa, in particolare, la condivisibile definizione di attività di gruppo proposta da TOMBARI, Il Gruppo di società, Torino, 1997, 74.


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lità di un interesse di gruppo non può, insomma, fungere da copertura rispetto ad operazioni scientemente dirette a pilotare una (favorevole) formazione dell’imponibile. Restano, al riguardo, due brevi considerazioni. La prima attiene il ruolo, ai fini che qui interessano, della disciplina relativa al c.d. consolidato fiscale. Quest’ultimo, a ben vedere, lungi dal rappresentare il regime tributario dei gruppi costituisce, piuttosto, un sistema opzionale di imposizione sui redditi societari attivabile da “coppie” di soggetti qualificati secondo specifiche caratteristiche e diretto a consentire in maniera dichiarata e lineare una trasmigrazione tra gli stessi delle perdite fiscalmente rilevanti7. Esso (regime) assume certamente rilevanza nell’ambito dell’apprezzamento dell’inerenza e dell’economicità delle componenti reddituali gemmate da un programma imprenditoriale di gruppo ma, proprio per il suo ristretto ambito applicativo, non ne esaurisce i profili di interesse. Detto esplicitamente, le considerazioni testé effettuate in merito ai condizionamenti sotto il versante fiscale del riconoscimento civilistico della legittima perseguibilità dell’interesse di gruppo, prescindono dall’attivazione del consolidato stesso che: a) presenta una perimetrazione applicativa piuttosto ristretta e, comunque, non esaustiva rispetto alla completa identificazione del fenomeno dei c.d. rapporti imprenditoriali di gruppo e, b) conseguentemente, assume rilevanza esclusivamente per le valutazioni legate al comportamento dei soggetti che si sono avvalsi (o avrebbero potuto avvalersi) dell’opzione8. La seconda considerazione riguarda, invece, l’importanza di quanto previsto dall’art. 2497 ter del c.c. che, espressamente, impone l’analitica motivazione e la puntuale indicazione delle ragioni e degli interessi la cui valutazione ha inciso sulle decisioni delle società soggette all’altrui direzione e coordinamento. Attraverso tale norma il legislatore impone cioè di esplicitare il disegno imprenditoriale di gruppo che giustifica le scelte adottate nel perseguimento del complessivo ed unitario disegno gestionale. Tale motivazione, che in ambito civilistico rappresenta un fondamentale riferimento nella valutazione della responsabilità di

7 Riguardo a questi profili, v. amplius DAMI, op. cit., 97 ss. 8 È così evidente che l’eventuale fine elusivo delle transazioni infragruppo (inteso come indebita ricerca di uno spostamento intrasoggettivo delle perdite) sarà più facilmente dimo-

chi ha agito, presenta (e sempre più dovrà rappresentare) un utile strumento anche dal punto di vista tributario. La delibera o, comunque, gli altri atti nei quali dovrà darsi corso all’obbligo imposto dal citato art. 2497 ter, costituiranno, infatti, un utilissimo parametro probatorio cui riferirsi, tanto nella fase istruttoria quanto in quella processuale, per verificare l’effettiva esistenza di un (legittimo) disegno imprenditoriale di gruppo giustificativo di un apprezzamento particolare (nel senso prima indicato) dell’inerenza e dell’economicità delle operazioni gestionali. La nozione di gruppo La sentenza in commento suscita, infine, un’ultima e sintetica riflessione che attiene il tema, dibattuto e controverso, della nozione di gruppo. Anche con riferimento a questo profilo i Giudici toscani mostrano una giusta flessibilità interpretativa. Non solo, infatti, il gruppo non può essere ricostruito in termini soggettivi, ma è altresì fuorviante pensare che di tale fenomeno venga data una specifica e, magari, univoca nozione. Il diritto dei gruppi va, infatti, concepito come la regolamentazione di una particolare forma di attività che è l’attività di gruppo ovvero del coordinato agire di tutte le sub-attività che, poste in essere da distinti ed autonomi centri di riferimnento, trova la propria unitarietà nel perseguimento di un obiettivo comune e condiviso. In tal senso, il riferimento delle norme continua ad essere il singolo, non più però considerato isolatamente ma per il suo essere parte del gruppo9 o, per meglio dire, per il fatto di svolgere un’attività che, per quanto riferita a soggetti giuridicamente autonomi, risulta programmaticamente coordinata con quella di altri soggetti attraverso un legame che determina la definizione di una logica gestionale unitaria10. Per questo, non si riscontra una univoca definizione normativa di gruppo. Nelle singole norme non viene definito il gruppo ma viene, semmai, circoscritto il concetto di controllante e controllata e, correlativamente, quello di direzione unitaria direttamente rilevante nell’ambito della specifica disciplina. Il legislatore, cioè, volendo regolare certe conseguenze connesse al-

strabile allorché si accerti che i soggetti potevano attivare il consolidato ma hanno omesso di farlo. Di fatto, così facendo, si sono scientemente sottratti proprio a quel sistema che, in maniera dichiarata e lineare (e con le opportune garanzie per la tu-

tela dell’interesse fiscale), assicura la compensazione dei risultati. 9 Ancora TOMBARI, op. cit. 122. 10 È quello che lo stesso TOMBARI, op.cit.., 129 ss, individua nello statuto organizzativo delle società di gruppo.


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l’attività di gruppo si premura di individuare quand’è che, a quei precisi fini, egli la ritiene realizzata; e nel far questo definisce quand’è che, in quel determinato ambito, una società si può dire dominante o dominata11. E proprio con questo riferimento gli interpreti devono muoversi, distaccandosi da errati formalismi che, seguiti ad

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esempio dall’Amministrazione finanziaria nel caso della controversia oggetto di questo commento, finiscono con l’identificare il gruppo (ma sarebbe più giusto dire: i rapporti imprenditoriali di gruppo) in una sola – e magari la meno rilevante – delle sue multiformi (e giuridicamente rilevanti) manifestazioni.

LA RETTIFICABILITÀ DELLA MISURA DEI COMPENSI AGLI AMMINISTRATORI DI SOCIETÀ DA PARTE DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA

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Commissione tributaria provinciale di Siena, sez. II, 17 luglio 2006, n. 35 Presidente e Relatore: Guasparri Ires - Redditi d’impresa - Compensi corrisposti ad amministratori di società - Valutazione di congruità da parte dell’amministrazione finanziaria – Ammissibilità – Compensi eccessivi rispetto al normale – Indeducibilità (D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 75, comma 5, ora art.109, comma 5; D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 29; D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, art. 59) L ‘amministrazione finanziaria ha il potere di valutare la congruità dei compensi corrisposti agli amministratori delle società, per cui tali compensi non possono essere considerati deducibili quando non corrispondono al normale valore di mercato e costituiscono costi non economicamente giustificati rispetto ai prezzi comunemente praticati (nel caso di specie, i compensi agli amministratori, oltre a risultare antieconomici, contrastavano altresì con i verbali assembleari con cui ne era stata definita la misura). Svolgimento del processo [Omissis] Con l’avviso di accertamento n. R6H200042 del 10 dicembre 2001 l’Agenzia delle Entrate di Montepulciano rettificava, ai fini Ilor per l’anno di imposta 1995, il reddito d’impresa dichiarato dalla società X, accertando una maggiore imposta di lire 381.000.000 «quali compen-

11 Tali società finiscono, infatti, con il diversificarsi profondamente nel loro modo di essere e di operare da una qualsiasi altra società autonoma. Mentre quest’ultima è infatti padrona del proprio agire, l’altra (ed i suoi organi), proprio per il suo essere or-

si agli amministratori indeducibili», in quanto non inerenti all’attività d’impresa (art. 75, comma 5, D.P.R. 917/86), oltre sanzioni ed interessi. In particolare secondo l’Ufficio, l’inattendibilità dei compensi agli amministratori emergerebbe: a) dall’analisi dei valori di bilancio, da cui risulta un’evidente sproporzione tra l’utile di esercizio ed i compensi agli amministratori; b) dalla palese antieconomicità dei suddetti compensi a ben tre amministratori a fronte di un risultato di esercizio addirittura inferiore a quello ottenuto negli anni precedenti come impresa familiare; c) dalla lettura dei verbali assembleari con i quali i soci hanno fissato l’ammontare dei compensi. Ricorre la società sostenendo la nullità dell’avviso di accertamento per eccesso di potere, in quanto nessuna norma consente all’a.f. di contestare costi di cui la stessa ha accertato la regolare registrazione e imputazione temporale; sostiene inoltre l’erronea e illogica motivazione dell’avviso d’accertamento impugnato in quanto in contrasto con i più elementari principi del diritto commerciale e tributario, essendo normale, in una società, che si paghino compensi agli amministratori e che gli stessi siano deducibili senza che sia sindacabile la loro entità non riportando più l’attuale disciplina il limite quantitativo della precedente. Si fa infine presente che la IV sezione di questa Commissione ha accolto l’identico ricorso riferito al precedente periodo d’imposta (anno

ganizzata in gruppo. deve costantemente relazionarsi con coloro con i quali è legata. Cfr. TOMBARI, op. cit. 61 il quale evidenzia che una società può essere “definita come controllante qualora sia organizzata in modo da poter determinare unilatermalente e con

qualche stabilità l’attività di un altro ente societario” così come sarà controllata quella società “organizzata in modo da essere potenzialmente soggetta al potere di influenza dominante di un’altra compagine societaria.


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1994) e che l’Ufficio non ha appellato la sentenza (n. 78 del 17 luglio 2002), ormai passata in giudicato. Si chiede pertanto l’annullamento dell’atto impugnato e, in via subordinata, l’accoglimento parziale del ricorso con determinazione dei costi deducibili in contestazione; in ogni caso l’annullamento della parte sanzionatoria dell’atto per carenza di motivazione ed assenza di colpa da parte del ricorrente. Distinti ricorsi hanno presentato i singoli soci avverso i rispettivi avvisi di accertamento con cui viene consequenzialmente rettificato il loro reddito personale di partecipazione e determinata una maggiore imposta Irpef ed un maggior contributo Ssn, chiedendo l’annullamento dell’atto impugnato anche nella parte sanzionatoria e la condanna dell’a.f. al rimborso delle somme versate in corso di giudizio. Nel suo atto di costituzione in giudizio, l’Ufficio ribadisce la legittimità del proprio provvedimento, sostenendo l’esistenza di una sproporzione fra l’utile dichiarato dalla società e i compensi agli amministratori tale da consentire all’amministrazione di contestare la congruità degli stessi, come da giurisprudenza della Suprema Corte che viene citata. Con propria ordinanza n. 112/2/2004 del 15 luglio 2004 questa sezione, richiamandosi al principio generale desumibile dall’art. 9 del D.P.R. del T.U.I.R. n. 917/1986, ha disposto una Ctu allo scopo di accertare la congruità dei compensi iscritti in bilancio per lire 381.000.000 in quanto corrisposti agli amministratori nell’anno 1995. Il Ct, sulla base di un criterio di equità e di ragionevolezza, ha ritenuto eccessivi i compensi in questione e pertanto li ha ridotti nella misura di 1/4 portandoli quindi all’ammontare – ritenuto congruo – di lire 285.750.000. Motivi della decisione Preliminarmente il collegio ritiene di dover riunire i ricorsi ai sensi dell’art. 29, D.Lgs. 546/1992, per evidenti motivi di connessione. Ancora in via preliminare, il collegio ritiene di doversi pronunciare in ordine al lamentato – da parte ricorrente – vizio di ultrapetizione da cui verrebbe ad essere affetta la decisione del presente giudizio in quanto basata sulla Ctu disposta con la citata ordinanza n.112/2/2004 dal momento che la stessa risulterebbe inutiliter data presupponendo una questione – la sindacabilità dei compensi agli amministratori delle società – che esula sia dal provvedimento impositivo impugnato sia dall’atto introduttivo del giudizio: orbene il collegio esclude la sussistenza della violazione dell’art. 112 c.p.c. dal momento che nel ricorso risulta espressamente la

domanda subordinata di «[…] accertare l’esistenza, certezza e determinatezza dei costi in contestazione e, per l’effetto, ammetterli in deduzione per la parte ritenuta inerente e conseguentemente annullare l’atto impugnato in parte qua», mentre nella successiva memoria si è concluso in via subordinata, chiedendo «[…] sulla scorta della relazione tecnica del Ctu accertare l’esistenza, certezza e determinatezza dei compensi per la parte ritenuta congrua dal Ctu». Nel merito ritiene i ricorsi medesimi parzialmente fondati. Infatti, in primo luogo merita censura il provvedimento impugnato nella sua motivazione laddove fonda l’indeducibilità dei compensi agli amministratori sulla «non inerenza all’attività di impresa», nella considerazione che – come ha osservato la Suprema Corte – il limite dell’inerenza, cioè della riferibilità dell’attività svolta dall’amministratore nella conduzione dell’impresa, è un limite qualitativo e non quantitativo (Cass., sez. trib., 9 maggio 2002, n. 6599). Peraltro, comprendendo il potere di cognizione del giudice sia il provvedimento impugnato sia il ricorso (Cass., sez. trib., 21 febbraio 2001, n. 7407), dal momento che il petitum di quest’ultimo investe anche il quantum della pretesa fiscale, il collegio ritiene di poter considerare nella materia del contendere anche la questione della sindacabilità nel quantum dei compensi agli amministratori della società in esame. Al riguardo la tesi dell’amministrazione si richiama ad una giurisprudenza della Suprema Corte ancorata all’esistenza di un potere generale dell’a.f. di valutare i costi e i ricavi esposti in bilancio e quindi di negare la deducibilità di un costo in quanto sproporzionato ai ricavi (nel senso della sindacabilità delle scelte imprenditoriali da parte dell’a.f. vedansi – tra le prime sentenze in materia – Cass., 27 settembre 2000, n. 12813, 9 febbraio 2001, n. 1821 e 30 ottobre 2001, n. 13478): orbene tale giurisprudenza non sembra superata dal contrario orientamento assunto dalla sezione tributaria della stessa Suprema Corte con la sentenza 9 maggio 2002, n. 6599, confermato dalla recente sentenza sella sez. V civile, 31 ottobre 2005, n. 21155 che alla prima espressamente si richiama (orientamento che – peraltro già espresso in due precedenti sentenze della sezione tributaria, la n. 8458 del 21 giugno 2000 e la n. 9948 del 28 luglio 2000 – non può comunque ritenersi maggioritario come assume parte ricorrente) in quanto contraddetto dalle successive sentenze Cass., 25 maggio 2002, n. 7680, 24 luglio 2002, n. 10802, 30 luglio 2002, n. 11240 e 14 gennaio 2003, n. 398, che dunque vanno a costituire l’orientamento prevalente della Suprema Corte favorevole alla sindacabilità di tali scelte da


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parte dell’a.f.; va rilevato che il contrasto giurisprudenziale emerso è stato evidenziato dalla stessa Corte con tre ordinanze del 20 giugno 2002, n. 9024, 9025 9026 con cui la sezione tributaria ha rimesso la questione al primo presidente al fine di investirne le sezioni unite, le quali peraltro, a tutt’oggi non risultano essersi pronunziate. A fronte di tale contrasto giurisprudenziale, è il caso di esplicitare le ragioni per cui il collegio ritiene di seguire la tesi favorevole alla sindacabilità delle scelte imprenditoriali e quindi al potere dell’a.f. di valutare la congruità dei compensi corrisposti agli amministratori delle società di persone. Secondo l’orientamento espresso dalla Suprema Corte con la citata sentenza n. 6599/2002 – richiamata da parte ricorrente – in mancanza di una norma generale antielusiva e non rientrando la fattispecie all’esame nelle ipotesi tassative previste dall’art. 37-bis, D.P.R. 600/1973, ai sensi dell’art. 62, comma 3, del T.U.I.R. l’a.f. non detiene il potere di valutare la congruità dei compensi dati agli amministratori, laddove tale carenza di potere è desumibile dal confronto con la norma previgente di cui all’art. 59, D.P.R. 597/1973 che poneva un limite quantitativo alla deducibilità dei compensi in questione con riferimento alle «misure correnti per gli amministratori non soci», limite non più esistente; né per riconoscere tale potere di valutazione potrebbe farsi riferimento alla disciplina dell’inerenza – come precisa la sentenza citata – che ha un contenuto qualitativo e non quantitativo, per cui non può certo dubitarsi – sotto tale profilo – che i compensi dati agli amministratori siano costi inerenti all’attività d’impresa, mentre la loro spettanza e deducibilità è determinata dal rapporto negoziale privatistico instaurato fra società e amministratore. Appare evidente che tale orientamento è fondato su una interpretazione del citato art. 62, comma 3 fondata sul fatto che tale norma non prevede più – come faceva la previgente norma di cui all’art. 59, D.P.R. 597/1973 – la deducibilità di tali compensi «[…] nei limiti delle misure correnti per gli amministratori non soci» – e pertanto ne desume la voluntas legis di escludere il potere dell’a.f. di verificare la congruità di tali compensi, sulla base del noto brocardo ubi lex dixit voluti, ubi noluit tacuit, e pertanto – come osserva parte ricorrente – tale disposizione costituirebbe una «disciplina speciale derogatoria» a quella generale dei componenti del redditi d’impresa desumibile dall’art. 9, T.U.I.R. cui si è richiamata questa sezione nell’emettere la suindicata ordinanza volta ad accertare la congruità dei compensi in questione. Senonchè il Collegio non ritiene di poter condividere tale interpreta-

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zione dell’art. 62, comma 3, T.U.I.R. sia nella considerazione che il citato brocardo non ha – com’è noto – valore assoluto, sia perché la desunta voluntas legis non risulta confermata dai lavori preparatori del T.U.I.R., laddove la relazione governativa, esprimendosi su tale disposizione aveva espresso parere favorevole in quanto, «subordinando la deducibilità dei compensi agli amministratori all’effettivo pagamento, risponde ad esigenze di cautela fiscale», mentre la Commissione parlamentare aveva espresso parere contrario, ritenendo «[…] non giustificabile la deroga al principio di competenza», senza comunque soffermarsi, in entrambi i casi, sull’opportunità o meno di eliminare la preesistente parametrazione quantitativa. Tale silenzio del legislatore sul punto consente, ad avviso del collegio, di rifarsi ai principi generali, come del resto aveva ritenuto ammissibile la stessa Suprema Corte nella stessa sentenza n. 6599/2002, laddove parla di «[…] mancanza nel sistema di una clausola generale antielusiva»: ebbene, nella fattispecie tale principio generale – almeno per quanto riguarda il regime generale dei componenti del reddito d’impresa – può ritenersi quello desumibile dall’art. 9, T.U.I.R., secondo cui «[…] l’a.f. è tenuta a valutare ai fini fiscali le varie prestazioni che costituiscono le componenti attive e passive del reddito secondo il normale valore di mercato» e pertanto premesso che «la regola alla quale si ispira chiunque svolga una attività economica è quella di ridurre i costi, a parità di tutte le altre condizioni […] questo principio, e il criterio oggettivo di valutazione che ne discende, impediscono che possano essere posti in detrazione […] costi non economicamente giustificati, al di sopra, in maniera rilevante, […] rispetto ai prezzi praticati comunemente. Ovviamente ciò vale ancor più quando l’unico fine possibile dell’esposizione […] di questi costi appaia quello di abbattere i redditi del soggetto per diminuire la tassazione a suo carico. Simili costi ingiustificati non possono avere efficacia nei confronti del fisco per la parte che supera il normale valore di mercato» (Cass., sez. V, sent. 10802 del 24 luglio 2002). Del resto anche la dottrina più recente – citata da parte ricorrente (Bonafini) – riconosce che «[…] in ipotesi di patente irragionevolezza della spesa e di coincidenza tra compagine societaria e composizione dell’organo amministrativo […] in difetto di convincenti spiegazioni da parte del contribuente per la giustificazione razionale della spesa potrà inferirne […] che si tratti di una erogazione del reddito prodotto mascherata da retribuzione per l’ufficio di amministratore e pertanto che sia ammissibile […] un sindacato sul quantum dei compensi eroga-


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ti agli amministratori». Nel rifarsi a tale principio, che – come si osserva nella sentenza da ultimo citata – non richiede neppure la dimostrazione specifica dell’esistenza di un intento elusivo nel comportamento delle parti, la Suprema Corte dimostra un certo travaglio interpretativo, laddove assimilando due fenomeni – evasione ed elusione che sono in realtà nettamente distinti – in presenza di un comportamento antieconomico non giustificato dal contribuente, ha riconosciuto la legittimità di un accertamento analitico-induttivo ex art. 39, comma 1, lett. d, D.P.R. 600/1973 (espressamente richiamato proprio in motivazione al provvedimento impugnato) e in qualche caso addirittura dell’accertamento induttivo ex art. 39, comma 2, stesso D.P.R., accertamenti tipicamente finalizzati a contrastare l’evasione. È il caso di precisare –a questo punto- che nel caso in esame si tratta di una fattispecie di elusione e non di evasione come invece prospettata dall’Ufficio nel provvedimento impugnato laddove essa giustifica l’accertamento analitico-induttivo ex art. 39, 1° comma, lett. d del D.P.R. 600/1973 – non essendovi volontario inadempimento di una pretesa tributaria già validamente sorta in base a specifiche disposizioni legi-

slative e pertanto con violazione di queste per occultamento di attività non dichiarate o per deduzione di passività inesistenti, di talchè – come si precisa in dottrina (Lunelli) – mentre l’evasione è contra legem (e, come tale va repressa) l’elusione è extra legem (e va pertanto prevenuta). La correttezza del ricorso al citato principio generale ex art. 9, T.U.I.R., si desume – ad avviso del collegio – anche dal fondamento che esso trova in un principio generale di bilancio, il principio di veridicità, che è strettamente connesso all’esigenza dell’attendibilità del bilancio, principio anche penalmente sanzionato con il reato di falso in bilancio. Per quanto precede i ricorsi riuniti vanno parzialmente accolti nei limiti di congruità dei compensi agli amministratori riconosciuti dalla Ctu, nonché in relazione alla non debenza delle sanzioni, in quanto infondatamente applicate nel presupposto della violazione di una norma tributaria (l’art. 75, comma 5, D.P.R. 917/1986) violazione – che per quanto sopra precisato – si appalesa invece inesistente. Le spese della Ctu – determinate in euro 2.300,00 oltre Cap e Iva sono poste a carico delle parti costituite in ragione di 3/4 per l’a.f. e di 1/4 per i ricorrenti.

Nota di Cristina Marcolongo

Premessa La vigente disciplina delle imposte sui redditi (art. 62, comma 3, T.U.I.R., attualmente rinumerato art. 95, comma 5) ha abolito ogni distinzione soggettiva ed oggettiva, ammettendo in linea generale la deduzione dei compensi agli amministratori nel periodo di imposta in cui avviene il pagamento, senza ulteriore condizione o limite sia relativamente alla tipologia del compenso e al corrispondente ammontare che alla qualità del soggetto percipiente2. La constatazione che nel vigente Testo unico sia stato eliminato ogni riferimento alla misura dei compensi riconoscibili e la mancanza, dunque, di una disposizione di carattere generale in materia, ha indotto la Commissione tributaria provinciale

La sentenza in rassegna affronta la questione della discussa rettificabilità della misura dei compensi agli amministratori di società da parte dell’amministrazione finanziaria. Tale potere era espressamente consentito nella previgente disciplina delle imposte sui redditi (contenuta nell’art. 59, comma 3 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597), la quale operava una distinzione fra i compensi erogati agli amministratori soci e quelli erogati ai non soci, secondo la quale, i primi erano deducibili nella “misura corrente” per gli amministratori non soci, mentre per i secondi non era prevista nessuna limitazione sostanziale1 .

1 PINO, Non è sindacabile dal fisco l’ammontare dei compensi agli amministratori di società, in Corr. Trib., 5, 2006, 375. 2 Il terzo comma dell’art. 59 recitava «i compensi corrisposti dalle società in nome collettivo e in accomandita semplice ai soci amministratori sono deducibili nei limiti delle misure correnti per gli amministratori non soci» e il quarto comma proseguiva «le somme corrisposte agli amministrato-

ri delle società in nome collettivo e in accomandita semplice a titolo di partecipazione agli utili non sono ammesse in deduzione. Di esse non si tiene conto agli effetti del precedente comma». La formulazione della disposizione contenuta all’art. 59 dava luogo ad incertezze circa la determinazione dell’effettivo ammontare deducibile, in quanto non esistevano parametri certi a cui fare riferimento

per stabilire tale “misura corrente”. Tale incertezza applicativa è stata superata nel 1986, al momento dell’introduzione del Testo unico, ed infatti il terzo comma dell’art. 62 prescriveva che «i compensi spettanti agli amministratori delle società in nome collettivo e in accomandita semplice sono deducibili nell’esercizio in cui sono corrisposti; quelli erogati sotto forma di partecipazione agli utili sono dedu-


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di Siena a seguire il principio di matrice giurisprudenziale, secondo cui la indeducibilità di costi economicamente non giustificati andrebbe parametrata al principio generale desumibile dall’art. 9, T.U.I.R., in base al quale l’amministrazione deve valutare le varie prestazioni che costituiscono le componenti attive e passive del reddito secondo il normale valore di mercato. L’art. 9, T.U.I.R. non avrebbe in questa accezione una finalità meramente contabile, bensì un preciso valore sostanziale, assumendo la funzione di indicare il criterio di valutazione delle varie componenti del reddito, e pertanto, anche dei limiti di ammissibilità delle componenti negative. A detta della Commissione la rilevanza dell’art. 9, T.U.I.R. sarebbe confermata dal collegamento al principio di veridicità in materia di redazione del bilancio. La rettificabilità dei compensi agli amministratori di società Le motivazioni addotte dalla Commissione appaiono tuttavia opinabili, principalmente perché costruite su basi fragili. Se in via di principio risulta corretto il richiamo al principio generale di cui all’art. 9, T.U.I.R., il cui ruolo è essenzialmente quello di parametro normativo dell’accertamento dei componenti del reddito, sulla base del valore normale di mercato, a livello sostanziale appare forzata una soluzione che su di esso fondi il potere del fisco di valutare a priori se, di fronte alla singola attività di impresa, un costo possa essere considerato inerente o meno: l’ambito applicativo dell’art. 9, T.U.I.R. si limita esclusivamente alla determinazione dei componenti di reddito in natura o in valuta estera, ovvero di quelli per i quali tale criterio sia espressamente stabilito, in deroga al

cibili anche se non imputati al conto dei profitti e delle perdite». Anche dal vigente art. 95, comma 3 non viene posto nessun tetto quantitativo alla misura dei compensi attribuiti agli amministratori, né esistono riferimenti esterni ai compensi attribuiti ad altre figure similari o tabelle contenenti limiti massimi, oltre i quali i compensi degli amministratori non possono essere dedotti. 3 SCHIAVOLIN, Comportamento “antieconomico” dell’imprenditore, Giur. Trib., 2002. Tolta questa base per affermare un generale potere di sostituire ai corrispettivi i valori normali, gli ulteriori argomenti addotti si rivelano inutili a tale specifico fine. Non si nega cioè la ragionevolezza di alcuni di essi, ma

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principio della rilevanza del corrispettivo3. Alla luce di quanto detto, anche il riferimento formulato dalla Commissione al principio di veridicità perde di rilevanza, poiché una eventuale valutazione di non inerenza di un costo da parte dell’amministrazione (laddove tale sindacato non tenga conto delle concrete vicende aziendali) può essere contestabile, potendo il bilancio risultare ugualmente redatto in modo veritiero. Va altresì rilevato come sui compensi erogati agli amministratori di società e sull’eventuale potere dell’amministrazione di sindacarne la deducibilità, si è sviluppato negli ultimi anni un vivace dibattito giurisprudenziale, nel quale possono distinguersi due opposte tendenze. Da un lato si pone l’orientamento della sezione tributaria della Corte di Cassazione, secondo il quale, in tema di accertamento del reddito d’impresa, il carattere antieconomico di un’operazione, ossia un comportamento assolutamente contrario ai canoni dell’economia, che il contribuente non spieghi in alcun modo, sarebbe di per sé sufficiente a giustificare il potere dell’amministrazione di valutare la congruità dei costi e dei ricavi iscritti in bilancio, anche al fine di evidenziarne eventuali intenti elusivi, senza che l’ammontare riportato nelle delibere sociali o nei contratti rappresenti un ostacolo a tale controllo4. Tale linea di pensiero (espressamente richiamata dai giudici senesi nella sentenza in nota) non appare condivisibile, poiché se la rilevanza della ragionevolezza economica di un comportamento può valere come criterio ai fini degli accertamenti presuntivi (dunque per valutare la credibilità o meno dei fatti risultanti dalla contabilità), non è altrettanto corretto attribuirle il valore di criterio per la deducibilità dei costi, che va invece ricondotto al

non bastano da soli a dimostrare che i prezzi pattuiti valgano per la determinazione dell’imponibile purché rimangano nell’area segnata dalle oscillazioni dei prezzi di mercato. 4 Cfr. Cass., 27 settembre 2000, n. 12813, in Boll. Trib., 2001, 308; Cass., 30 ottobre 2001, n. 13478, in Corr. Trib., 2002, 7, 597. La sentenza n. 13478/2000 era stata aspramente criticata in dottrina, in quanto la tesi sostenuta dalla Cassazione, secondo la quale «l’amministrazione finanziaria ben può valutare la congruità anche se non vi sono irregolarità nelle scritture o vizi negli atti giuridici compiuti nell’esercizio dell’impresa», non poteva essere interpretata nel senso di ritenere possibile il ricorso

indiscriminato a metodi induttivi di determinazione del reddito in carenza di presupposti di legge. Secondo tale dottrina non sembrava neppure praticabile una strategia di contrasto da parte dell’amministrazione finanziaria basata sulla pura e semplice antieconomicità dell’operazione o del richiamo al valore normale, e ciò in quanto, in presenza di norme antielusive che richiamavano le “valide ragioni economiche” per determinate categorie di atti, si doveva escludere l’applicabilità di tale disposizione alle generalità delle operazioni. Cfr. anche Cass., 25 maggio 2002, n. 7680; 24 luglio 2002, n. 10802; 30 luglio 2002, n. 11240; 14 gennaio 2003, n. 398.


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principio di inerenza (al fine di poter collegare un certo costo all’attività d’impresa alla luce della oggettiva funzionalità all’attività medesima). Gli argomenti contrari all’indirizzo sopra accennato hanno trovato ascolto nella sentenza 9 maggio 2002, n. 65995, con la quale la stessa sezione tributaria ha escluso la possibilità di sindacare la congruità dei compensi corrisposti agli amministratori di società, non solo per la scomparsa nel T.U.I.R. del limite previsto nel previgente art. 59, D.P.R. 597/1973, non solo per la mancanza di una norma generale antielusiva, la quale dia all’amministrazione il potere di valutare le “valide ragioni economiche” di un comportamento (al di fuori delle ipotesi tassative previste dall’art. 37-bis, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600), ma anche in base all’osservazione che la inerenza del costo rileva tendenzialmente sotto il profilo della qualità, piuttosto che della quantità, perché l’ordinamento riconosce all’imprenditore la libertà di impostare la sua strategia d’impresa; ed una valutazione quantitativa, in mancanza di un’indicazione normativa specifica, appare difficile, senza «scivolare in una zona grigia tendenzialmente molto discrezionale»6. Tale impostazione di pensiero, seppur in parte contraddetta da successive pronunce di segno contrario, è stata interamente richiamata dalla Corte di Cassazione nella recente sentenza 31 ottobre 2005, n. 211557. Distante dal poter dirsi concluso, tale contrasto giurisprudenziale ha indotto la sezione tributaria a rimettere la questione alle sezioni unite8, dalle quali ancora si attende una pronuncia.

5 In Giur. Imposte, 2002, vol. XXV, n. 45, 1066. 6 SCHIAVOLIN, op. cit. 486. 7 In realtà esistono almeno due precedenti che anticipano tale tendenza di pensiero, ai quali tuttavia né la dottrina, né la giurisprudenza di legittimità hanno attribuito altrettanto risalto – considerando anche che in nessuna delle tre sentenze successive (Cass. 12813/2000, 13478/12000 e 6559/2002) la Corte ha avuto cura di richiamare i propri precedenti dicta: cfr. le sentenze Cass., 21 giugno 2000, n. 8458, in Foro It., Rep., 2000, voce Redditi (imposte), n. 764 e Cass., 28 luglio 2000, n 9948, ibidem, n. 765, nelle quali si fa rispettivamente riferimento alla nuova disciplina del Testo unico sulle imposte sui redditi e alla necessità, che in mancanza di un limite legale alle deducibilità dei compensi, venga valorizzato il principio dell’inerenza,

Giunti a questo punto, al fine di comprendere la reale complessità del tema affrontato, si rende più che mai necessaria una approfondita riflessione volta a chiarire alcuni equivoci di fondo che hanno caratterizzato il dibattito dottrinale e giurisprudenziale. Il concetto di inerenza ai fini della deducibilità dei costi L’intera questione ruota in realtà intorno al concetto di inerenza e all’interrogativo se una scelta imprenditoriale antieconomica renda di per sé non inerente il relativo costo siccome incompatibile con la nozione stessa di inerenza. Il principio di inerenza (previsto all’art. 75, comma 5 del D.P.R. 917/1986, attualmente rinumerato art. 109, comma 5), prevede che la deduzione di un costo sia limitata alle sole spese relative all’attività d’impresa, ossia sostenute per fornire all’impresa una qualche utilità anche se solo in via mediata e indiretta; spese che vengono dette per tali ragioni “inerenti”9. Non possono essere considerate quindi tali le spese sostenute nell’interesse personale dell’imprenditore o dei suoi familiari o, nel caso di società, nell’interesse esclusivo dei soci o dei gestori o ancora nell’interesse esclusivo dei terzi10. Il controllo dell’inerenza delle singole spese non può però tradursi in un sindacato di merito da parte del fisco delle scelte imprenditoriali, dal momento che non è sufficiente a negare l’inerenza di un costo, il fatto che l’impresa possa ad esempio farne a meno, ma dovendo in positivo risultare che il costo stesso risponda ad una finalità personale o comunque extraimprenditoriale11.

espressamente escludendo la successiva pronuncia la possibilità di ricorrere ad una nozione di “inerenza” del costo di tipo quantitativo, correlata alle dimensioni dell’impresa. Se ne deduce pertanto che le sentenze n. 12813/2000 e n. 13478/2001, lungi dal costituire un orientamento consolidato, rappresentano un’inversione di rotta della Corte, che in tali occasioni si è posta in netto, ma forse inconsapevole contrasto con le proprie precedenti pronunce. BONAFINI, I compensi degli amministratori di società per azioni, in Quaderni di giur. comm., Milano, 2005, 268 ss. 8 Si tratta delle tre ordinanze della sezione tributaria della Cassazione emesse in data 20 giugno 2002, n. 9024, n. 9025 e n. 9026 con le quali la Corte prende atto del dibattito insorto nell’ambito della V sezione, a seguito del nuovo orientamento che si pone in consapevole e meditato

dissenso rispetto alle precedenti pronunce (Cass. n. 12813/2000 e n. 13478/2001). 9 ZIZZO, Reddito d’impresa, in FALSITTA (a cura di), Manuale di diritto tributario, p.s., Padova, 2005, 273 ss., RUSSO, Manuale di diritto tributario, p.s., Milano, 2002, 80 ss.; LUPI, Diritto tributario, p.s., Milano, 2004, 109. 10 ZIZZO, op. cit.; BEGHIN, Atti di gestione “anomali”o “antieconomici” e prova dell’afferenza del costo all’impresa, in Riv. Dir. Trib., 1996, I, 420 ss. 11 LUPI, op. cit., 109: «Quando un costo è superfluo non diventa perciò automaticamente indeducibile, anche se ciò costituisce talvolta un indizio per presumere che tale costo risponda ad un bisogno personale dell’imprenditore o dei soci piuttosto che alle esigenze dell’impresa. […] l’accertamento “in positivo” dell’esistenza di un’utilità del costo per l’impresa, non serve direttamente, ma serve ad


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D’altro canto, la distinzione non sempre risulta agevole, potendo anche una spesa apparentemente irragionevole avere una funzione esclusivamente aziendale: da qui nasce l’esigenza di abbandonare le formule astratte per stabilire l’inerenza di una spesa, dovendosi piuttosto in concreto considerare l’attività dell’impresa, le sue dimensioni, le sue esigenze specifiche e via dicendo. Ciò che rileva, quindi, ai fini dell’apprezzamento dell’inerenza non è un profilo “quantitativo”, bensì “qualitativo”, che tenga conto della funzionalità della spesa alla gestione d’impresa. È ovvio che non si può considerare non inerente un costo solo perché l’affare ad esso collegato non ha dato i ricavi sperati12. In caso contrario, identificando cioè l’attività d’impresa con l’attività “conforme alla logica economica”, si correrebbe il rischio di reputare estranee al concetto di impresa operazioni che appaiono semplicemente non riconducibili ai criteri di gestione corretta, senza far riferimento alla concreta motivazione “gestionale” del costo, alla convinzione soggettiva dell’imprenditore che questo sia funzionale alla sua attività, a prescindere dall’erroneità di tale opinione13. Occorre ancora affrontare un altro aspetto del trattamento delle operazioni contestate come antieconomiche, ma, in effetti, censurate in quanto fasi di un preteso meccanismo di elusione fiscale. Una delle maggiori argomentazioni spese anche in passato dagli Uffici tributari per dare fondamento al proprio ritenuto potere di sindacare la congruità dei compensi agli amministratori, si imperniava sull’asserito vantaggio fiscale (per i soci e per le società) derivante dall’attribuzione di un’elevata remunerazione ai soggetti chiamati ad assolvere il compito di amministratori delle imprese collettive (l’attribuzione di un sostanzioso compenso avrebbe potuto comportare un minor prelievo impositivo rispetto alla percezione degli utili ritratti dalla società). Con l’attuale sistema di tassazione degli utili societari, questi ultimi sconteranno il prelievo in ca-

escludere un’utilità personale (cioè “privata”) per l’imprenditore o per il socio, dopodiché il costo sarà deducibile. In altri termini per l’inerenza basta la mancanza di una finalità extraimprenditoriale». SCHIAVOLIN, op. cit., 502 «[…] se la ragion d’essere del requisito dell’inerenza è di individuare il risultato netto effettivamente derivante dall’attività d’impresa, esso da un lato preclude la deduzione di spese estranee a quest’ultima,

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po alla società che li ha prodotti con l’aliquota del 33% e verranno poi sottoposti ad imposizione nei confronti dei soci che li percepiranno solo nella misura del 40% del relativo ammontare (si vedano, rispettivamente, i nuovi artt. 77 e 47, comma 1 del D.P.R. n. 917\1986). Ne deriva, quindi, che, con ogni probabilità, il socio che sia anche amministratore subirà un prelievo fiscale inferiore sugli utili che gli saranno attribuiti anziché sul compenso che gli verrà erogato, laddove specialmente, il compenso sia sostanzioso, non essendo ancora state ridotte le aliquote dell’imposta sul reddito delle persone fisiche. Si aggiunga che la percezione del compenso comporta altresì (a differenza della distribuzione degli utili) l’obbligo di versare i contributi previdenziali. In virtù della vigente disciplina normativa, pertanto, almeno con riferimento al prelievo fiscale e contributivo a carico agli amministratori che siano soci, non risulta più conveniente, sia dal punto di vista fiscale che da quello contributivo, comprimere la mole degli utili a vantaggio dell’ammontare del ricordato compenso. Il che fornisce un’ulteriore conferma del fatto che nell’attuale dibattito dovrebbe essere abbandonata l’argomentazione relativa al rischio di una fattispecie elusiva. Conclusioni È legittimo ritenere pertanto che, in mancanza di un parametro normativo individuato dal legislatore, non sia realmente possibile per il fisco effettuare una valutazione di merito senza correre il rischio della arbitrarietà. E come correttamente statuito dalla Corte di Cassazione nelle pronunce suindicate, l’amministrazione non può, nell’attuale panorama legislativo, intervenire in rapporti che sono puramente privatistici, salvo in caso contrario esercitare arbitrariamente i propri poteri. Il dato normativo esplicito resta l’unico al quale l’interprete deve ancorare il suo operato. Sotto questo profilo nella giurisprudenza si è di volta in volta invocato un concetto lato e quantitativo di

ma dall’altro sembra imporre di considerare rilevanti tutti i costi effettivamente rientranti in concreto nella gestione della stessa, per quanto “sprecona” o poco oculata essa sia: anche gli imprenditori inetti, incapaci di corrette valutazioni, destinati al fallimento, debbono essere tassati tenendo conto della loro reale situazione, e non su una base fittizia, quale risulterebbe se si disconoscessero i costi non conformi ad una razionale

gestione, ancorché sostenuti dal contribuente al fine di svolgere la propria attività». 12 ZIZZO, Regole generali sulla determinazione del reddito d’impresa, in TESAURO, (a cura di), L’imposta sul reddito delle persone fisiche, Torino, 1994, II, 562 ss. 13 TINELLI, Il principio di inerenza nella determinazione del reddito d’impresa, in Riv. Dir. Trib., 2002, I, 461 ss.


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inerenza, una possibile applicazione delle norme antielusive o anche delle norme di interposizione fittizia, ma senza arrivare a nessuna soluzione convincente, a meno di non forzare oltremisura lo spirito dei principi via via richiamati14. Ma la profonda contraddittorietà del ragionamento della Commissione, emerge anche dal capo della pronuncia relativo all’applicazione delle sanzioni. Secondo i giudici senesi, le misure afflittive non sarebbero applicabili nei confronti dei singoli soci, poiché non si sarebbe concretizzata nessuna violazione della norma che disciplina il principio di inerenza (art. 109, comma 5, T.U.I.R.). Senonché, la riconosciuta seppur parziale legittimità dell’operato dell’amministrazione finanziaria nel considerare indeducibile parte dei compensi erogati agli amministratori implica inevitabilmente una valutazione di non inerenza dei medesimi costi e, di conse-

14 PINO, op. cit., 379

guenza, la violazione del relativo principio. Ferme le considerazioni critiche che precedono, non si può non prendere atto che l’orientamento espresso nella sentenza della Commissione tributaria provinciale di Siena ha anticipato di poco la recente L. 4 agosto 2006, n. 248 (di conversione al D.L. 4 luglio 2006, n. 233, “Visco-Bersani”), di pochi giorni successiva alla pubblicazione della sentenza 35/2006. L’art. 35, comma 3, infatti, recante «Misure di contrasto dell’evasione e dell’elusione fiscale» integrando l’art. 39, comma 1, lett. d, D.P.R. 600/1973, ai fini dell’accertamento analitico in via presuntiva, ha dato all’amministrazione finanziaria la possibilità di ancorare le rettifiche del valore della cessione di beni immobili, ovvero della costituzione o trasferimento di diritti reali di godimento sui medesimi beni, al valore di mercato, computato in base all’art. 9, T.U.I.R.


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Commissione tributaria provinciale di Verona, sez. I, 22 marzo 2006, n. 62 Presidente: Sandrini – Relatore: Barbetta Irpef - Credito di imposta per utili distribuiti da società - Omessa indicazione in dichiarazione Decadenza (D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 14, vigente fino al 31 dicembre 2003) Compensazione civilistica in materia tributaria Non è prevista dall’ordinamento (L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 8; c.c., artt. 1241, 1242, 1243) La detrazione del credito di imposta per utili distribuiti da società non spetta nel caso in cui questi non vengano indicati in dichiarazione. La compensazione dei reciproci rapporti di debito-credito secondo i principi del codice civile non è prevista dall’attuale ordinamento tributario Svolgimento del processo Con avviso di accertamento – che rettifica l’anno 1999 – in data 20 gennaio 2005, notificato a mezzo del servizio postale, l’Ufficio ha accertato al contribuente un maggior reddito da capitale ed ha quindi irrogato le relative sanzioni. L’avviso è stato impugnato dal contribuente con ricorso depositato il 21 aprile 2005 nel quale, riconosciuto che la società Z. S.r.l ha corrisposto al ricorrente utili per lire 25.500.000, ritiene che per mero errore materiale nella dichiarazione siano stati indicati dividendi per un importo minore ma ritiene soprattutto che, poiché al contribuente è attribuito un credito di imposta pari al 58,73% dell’ammontare degli stessi utili, l’avviso possa essere annullato e dichiarata l’integrale compensazione giudiziale ai sensi dell’art. 1243 c.c. e dell’art. 8, L. 212/2000. Chiede inoltre il contribuente la declaratoria di illegittimità dell’avviso per il mancato riconoscimento degli acconti versati ammontanti a lire 4.150.000.

Nella propria costituzione l’Ufficio di V. dell’Agenzia delle Entrate, nel mentre nega la possibilità della compensazione chiesta dal contribuente per intervenuta decadenza, ammette che nel liquidare l’imposta dovuta non è stato tenuto conto degli acconti versati. Il contribuente ha dimesso memoria difensiva per l’udienza illustrando ulteriormente le proprie ragioni. Motivi della decisione La Commissione non ritiene di condividere le singolari ed ardite tesi di parte ricorrente che in effetti non sono supportate da alcuna decisione bensì solo da articoli di dottrina e che, per la verità, giungono ad una conclusione addirittura contraria al disposto della legge. Prevede, infatti, l’art. 14 del D.P.R. 917/86 al punto 5, nel testo vigente nell’anno in contestazione, che «la detrazione del credito di imposta deve essere richiesta, a pena di decadenza, nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo di imposta in cui gli utili sono stati percepiti e non spetta in caso di omessa presentazione della dichiarazione o di omessa indicazione degli utili nella dichiarazione presentata». La norma, pertanto, non ammette interpretazioni diverse da quella letterale ed appare evidente che se è omessa l’indicazione degli utili – come è accaduto nella fattispecie – il contribuente decade dalla detrazione del credito di imposta. Appare evidente come la norma possa essere ritenuta sanzionatoria ma ciò non giustifica il riferimento alla compensazione dei reciproci rapporti di debito/credito previsti dal codice civile né ad analoghe soluzioni non previste dal nostro attuale ordinamento tributario. Pertanto, ricordato che comunque il contribuente non ha contestato il rilievo mosso dall’Ufficio, ma anzi lo ha riconosciuto attribuendolo ad un proprio errore, contestando solo la non attribuzione del credito di imposta dal quale, come si è visto, è per legge decaduto, il ricorso sul punto deve essere respinto.


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In merito invece al mancato riconoscimento degli acconti versati, è lo stesso Ufficio che nella propria costituzione riconosce di non aver tenuto conto degli acconti per lire. 4.150.000. La maggiore imposta, pertanto, va quindi ridotta a lire 3.268.000 dati da lire 7.418.000 quale ammontare della maggiore imposta accertata, dedotti i ricordati acconti versati. La Commissione condivide però, l’indicazione dell’Ufficio (documentata dalla interrogazione prodotta) che non spetta l’imposta a credito calcolata dal contribuente in lire 791.000 e dallo stesso utilizzata in compensazione nell’anno 2000. Pertanto, il recupero a tassazione operato dall’Ufficio è per il complessivo importo di lire 4.049.000 (attuali euro 2.091,13) dato dalla maggiore imposta di lire 3.268.000 già indicata maggiorata di li-

re 791.000 quale imposta a credito già utilizzata in compensazione. Addizionali e sanzioni vanno di conseguenza alla maggiore imposta dovuta. La Commissione, pertanto, dispone l’accoglimento parziale del ricorso e conferma il recupero a tassazione operato dall’Ufficio nella misura di euro 2.091,13 con le conseguenti addizionali e sanzioni. L’accoglimento parziale giustifica l’integrale compensazione delle spese di procedura. P.Q.M. In parziale accoglimento del ricorso determina il recupero a tassazione operato dall’Ufficio in euro 2.091,13 oltre alle conseguenti addizionali e sanzioni. Spese compensate.

II 17

Commissione tributaria provinciale di Napoli, sez. 23, 10 ottobre 2006, n. 338 Presidente: Ingrosso – Relatore: Coscione Compensazione civilistica in materia tributaria Diretta ed immediata applicazione - Operatività della compensazione giudiziale nel processo tributario (L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 8; c.c., artt. 1241, 1242, 1243) È immediatamente applicabile la disposizione dell’art. 8, comma 1, dello Statuto del contribuente, secondo cui l’obbligazione tributaria può essere estinta anche per compensazione. Nel processo tributario è ammissibile il ricorso all’istituto della compensazione giudiziale ex art. 1243 c.c., la quale opera con efficacia ex nunc.

Svolgimento del processo Alla ditta ricorrente in data 15 marzo 2004 è stata notificata la cartella di pagamento n.[…] di euro 1.946.384,69 relativa ad Irap ed Iva oltre interessi e sanzioni dovuti per l’anno 1999. Dichiara di aver utilizzato le disposizioni della L. 289/2002 e di aver sanato il debito nei confronti dell’erario e che, in diritto, la cartella di pagamento risulta notificata oltre i termini di cui agli artt. 36-bis e 25 del D.P.R. 600/73. Richiede l’annullamento della cartella, la sospensione dell’atto impugnato, la pubblica udienza e la condanna dell’Ufficio al pagamento delle spese processuali. In data 29 giugno 2004 e 7 settembre 2004, con

note di controdeduzioni reiterate, l’Ufficio si costituisce in giudizio e richiede, in dipendenza dell’istanza di condono presentata, ma non ancora esaminata, l’emissione di ordinanza di sospensione ex art. 16, comma 8, della L. 289/2002. In data 3 dicembre 2004 si costituisce in giudizio il concessionario, eccependo che il ruolo risulta consegnato il 25 agosto 2003 e che l’art. 1 del D.Lgs. 193/2001 ha disposto la soppressione dell’intero periodo temporale relativo al termine di notifica della cartella di cui all’art. 25 del D.P.R. 600/73. Chiede il rigetto del ricorso e vittoria delle competenze e spese processuali. All’udienza del 9 febbraio 2005 la Commissione ha sospeso il giudizio per condono. In data 14 gennaio 2006 la ricorrente ha prodotto una memoria e documenti aggiuntivi con i quali rappresenta che la società M. S.p.A. ha incorporato in data 12 ottobre 2005, per atto di fusione repertorio n. […] del notaio […] di C., le società G.D. S.r.l. e G. Q. S.r.l. dalle quali ha acquisito debiti e crediti fra i quali crediti Iva che hanno consentito la compensazione della relativa imposta per l’anno 1999 di euro 1.268.852,75. Fa presente pure di aver compensato l’importo di euro 345,175,88, in data 28 dicembre 2005, in adempimento dell’Irap dovuto per il periodo di imposta 1999, comprensiva di interessi e sanzioni, come da previsione del provvedimento di diniego di condono (che allega) dell’Agenzia delle Entrate. Con le predette compensazioni Iva e Irap, la società ricorrente ritiene di avere corrisposta


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debitamente l’intera pretesa tributaria, per cui insiste nel chiedere l’accoglimento del ricorso. All’udienza del 15 febbraio 2006 la Commissione si riserva la decisione e scioglie la riserva in data 28 giugno 2006. Motivi della decisione 1. Il processo, già sospeso per condono in data 9 febbraio 2005 ai sensi dell’art. 16, comma 8 della L. 289/2002, riprende il suo corso, su iniziativa di parte, ad esito della attestazione negativa di regolarità dell’istanza di definizione da parte dell’Ufficio di N. dell’Agenzia delle Entrate e dell’atto di diniego dallo stesso emesso il 20 dicembre 2005, prot. […]. La società ricorrente fa presente di aver operato con mod. F 24 in data 28 dicembre 2005 la compensazione dell’Irap dovuta (periodo 1999), per un importo corrispondente ad euro 345.175,88 comprensivo di interessi e sanzione (ridotta ad un terzo) ed eccepisce in giudizio pure la compensazione del suo debito di imposta Iva, per il medesimo periodo 1999, con un credito Iva del 2005 dell’ammontare di euro 1.268.852,75, già richiesto a “compensazione” il 12 novembre 2003 con n. 3 modelli F 24. Poiché l’intero debito tributario, secondo quanto prospettato dalla società, sarebbe stato così soddisfatto dal contribuente, questa Commissione deve affrontare, in via preliminare al merito, la questione a lei sottoposta, e che pare assorbente, della compensazione tributaria e dunque procedere a prendere in considerazione i profili dell’ammissibilità in via generale della estinzione dell’obbligazione tributaria per compensazione e, nello specifico, dell’obbligazione così come individuata nel ruolo impugnato, nonché esaminare l’eccezione di compensazione ed i suoi effetti nel presente giudizio. 2 - La disamina della specifica tematica introdotta comporta di necessità una breve premessa di carattere generale. È noto che lo Statuto dei diritti del contribuente (L. n. 212/2000), all’art. 8, primo comma, stabilisce il principio che l’obbligazione tributaria può essere estinta anche per compensazione. Rappresenta quindi un dato strutturale l’applicabilità, anche in ambito tributario, delle comuni disposizioni civilistiche sulla compensazione. Non va invero sottaciuta la circostanza che, in passato, si è negata l’ammissibilità della compensazione vuoi perché si è detto che essa non era esplicitamente regolata dal diritto tributario (Cass. sez. I, n. 6932 del 25 luglio 1994) vuoi perché si è ritenuto che le leggi tributarie, nel regolamentare specificamente le singole operazioni di versamento e di rimborso, già avessero – in deroga ai generali canoni del codi-

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ce civile sull’estinzione dell’obbligazione per compensazione – previsti casi e limiti della compensazione tributaria (Cass. sez. V, n. 14588 del 20 novembre 2001 e n. 14579 in pari data). Peraltro la stessa Cassazione, a seguito dell’entrata in vigore dello Statuto, ha precisato che l’applicabilità della compensazione è subordinata alla emanazione del regolamento previsto dallo stesso art. 8, al comma 6 ed ha altresì sostenuto che gli effetti di tale istituto dovessero essere rinviati a decorrere dall’anno di imposta 2002, termine entro il quale la norma prevedeva l’intervento dell’apposita disciplina di attuazione. Quindi la disposizione di cui primo comma dello stesso art. 8 sarebbe tuttora inoperante, stante il fatto che il detto regolamento(ministeriale) non è stato ancora emanato. Nel senso della immediata applicazione della disposizione però vi sono decisioni di alcune Commissioni tributarie ed anche parte della dottrina ha abbracciato tale interpretazione. La richiamata posizione della Cassazione non pare in grado di precludere al Collegio un diverso percorso argomentativo. Infatti la disposizione del cit. art. 8, comma 1 costituisce un principio generale dell’ordinamento tributario espressione di valori fondamentali portanti della Costituzione o di principi già esistenti ed operanti nell’ordinamento. Così Cass. sez. trib., n. 17576 del 12 febbraio 2002, n. 4760 del 30 aprile 2001, n. 5860 del 20 aprile 2001. In quanto la norma sulla compensazione dà senso esplicito a principi, anche di rango costituzionale, già immanenti, essa ha carattere precettivo ed è di diretta ed immediata applicazione, anche (per cd. retroattiva) a controversie relative a debiti concernenti periodi di imposta anteriori all’entrata in vigore della L. 212/2000. Va anche aggiunto, a sostegno dell’orientamento circa la immediata applicabilità della disposizione dell’art. 8 cit., che il detto regolamento – il quale dovrà risolvere i problemi che si pongono sotto il profilo specificamente organizzativo-attuativo – non potrà, per sua natura, che essere emanato in conformità alla norma di legge cui da attuazione e non potrà alterare contenuti e portata dei principi civilistici della compensazione immanenti all’ordinamento giuridico, anzi dovrà utilizzarli come norme di principio e criteri direttivi, pur tenendo conto della “particolarità” del diritto tributario. Il principio generale che si evoca è quello della tutela dell’integrità patrimoniale del contribuente senza la necessaria collaborazione dell’amministrazione o anche in caso di sua inattività. Si consideri che il fisco ha interesse ad incassare al più presto (anche in via anticipata) il proprio cre-


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dito tributario ed a procrastinare nel tempo, per quanto la legge gli consente, il pagamento dei propri debiti. Con questo meccanismo, il contribuente è soccombente patrimonialmente tutte le volte in cui si trova in una posizione al contempo creditoria/debitoria nei confronti dell’amministrazione e non sempre ha gli strumenti per realizzare coattivamente il suo credito; con la compensazione riesce invece a realizzare il credito, e dunque a soddisfarsi, in modo diverso, liberandosi della propria posizione debitoria. 3. Va fatto caso, a tal riguardo, alle omonimie. Non bisogna apparentare la particolare compensazione (come la denomina il legislatore tributario) ex art. 17, D.Lgs. 241/1997, che opera in sede di riscossione delle imposte purché queste formino oggetto di versamento attraverso il modello F 24 (e che ha la funzione di semplificare i versamenti dei tributi), con la compensazione vera e propria, che è un modo di estinzione del debito tributario diverso dall’adempimento. A sua volta occorre non confondere la compensazione che opera automaticamente per effetto della legge con quella giudiziale, che è formulata nel corso del processo tributario ed è sollevata quale eccezione, come nel caso in esame, in sede di impugnazione della cartella di pagamento. Trattasi, a questo proposito, di una compensazione che costituisce una eccezione in senso stretto (come tale soggetta all’onere di allegazione e prova dei fatti su cui l’eccezione stessa si fonda che incombe sulla parte che la invoca) che non è opposta dall’Ufficio, ma dalla società ricorrente la quale introduce nel giudizio fatti estintivi dell’Irap e dell’Iva, cioè i controcrediti Irap ed Iva in compensazione e chiede al giudice di riconoscerne l’esistenza (certezza) e stabilirne l’ammontare. La rilevanza della circostanza eccepita va colta sul piano processuale, operando la compensazione ex nunc, previo accertamento di cognizione da parte di questo giudice della ricorrenza delle condizione proprie di essa. Quindi può ben accadere che i due debiti non siano coesistenti, come nel caso di specie in cui il contribuente oppone la compensazione di un suo debito Iva verso l’erario attinente al periodo d’imposta 1999 con suo credito Iva successivo e relativo al periodo d’imposta 2005. 4 - La presente eccezione di compensazione implica allora un accertamento in via incidentale del credito del contribuente che si connota di aspetti di cognizione circa la reciprocità delle obbligazioni (rapporto di debito/credito tra i medesimi soggetti) e sul controcredito che deve avere come oggetto una somma di denaro esigibile e, se non liquida (cioè certa e determinata nel suo quantum) quanto-

meno di facile e pronta liquidazione. La particolare struttura del processo tributario, come giudizio di impugnazione di atti dell’amministrazione finanziaria, implica peraltro che la eventuale rilevanza della compensazione giudiziale comporti una sentenza di accoglimento del ricorso e quindi l’eliminazione totale o parziale della cartella di pagamento e non già la sola determinazione, con sentenza, dell’effetto estintivo. Orbene la compensazione prospettata dal contribuente, che ha ad oggetto tributi di competenza dell’Agenzia delle Entrate […], è opposta nei confronti di un suo debito d’imposta Irap-Iva 1999 risultante da iscrizione a ruolo ex art. 36-bis D.P.R. n. 600/73. Ne consegue che è incontestabile la definitività dell’atto impugnato, il che comporta che il credito tributario abbia i caratteri della certezza, liquidità ed esigibilità. Peraltro, essendo l’obbligazione tributaria concretamente riferita al carico complessivamente richiesto dall’Ufficio con la cartella di pagamento, la compensazione può avere ad oggetto non solo il debito d’imposta, ma anche quello per interessi e sanzioni. La S.p.A. M. invoca la compensazione a seguito di incorporazione per atto di fusione di altre due società, la G. D. e la G. Q. Per quanto concerne la fusione, essa realizza l’assunzione da parte dell’incorporante dei diritti e degli obblighi delle incorporate, con il consequenziale proseguimento in tutti i loro rapporti anteriori alla fusione (art. 2504-bis c.c.). In particolare, la incorporazione di una società realizza una successione universale e produce gli effetti, tra loro interdipendenti, dell’estinzione delle società incorporate e della contestuale sostituzione a queste, nella titolarità dei rapporti giuridici attivi e passivi – anche processuali – della società incorporante che rappresenta il nuovo centro di imputazione e di legittimazione dei rapporti giuridici riguardanti i soggetti incorporati. Conseguentemente ogni atto di natura sostanziale o processuale deve esser diretto nei confronti del nuovo soggetto che è l’unico obbligato per debiti e titolare dei crediti degli enti definitivamente estinti per effetto della fusione. Cfr. Cass. civ., n. 9349 del 1997 e n. 4679 del 2002. Pertanto i debiti ed i crediti in ambito tributario delle incorporate sono stati trasferiti alla società incorporante che ora oppone il suo credito Iva ed Irap in compensazione. I due controcrediti non appaiono oggettivamente incerti, sono facilmente determinabili nel loro ammontare e peraltro sono stati già oggetto di richiesta di adempimento da parte del contribuente nel rispetto delle sequenze procedimentali della riscossione, senza che risulti eccepito da


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parte dell’Ufficio il mancato riconoscimento della loro spettanza o esistenza ad esito delle specifiche procedure normative stabilite a tal fine. Entrambi i controcrediti sono documentati dai bilanci delle società incorporate e sulle poste contabili degli asseverati crediti transitati in capo alla società incorporante non sono state mosse contestazioni dall’Agenzia. Risultano esigibili agli atti gli attestati di tre mod. di pagamento unificato F 24 del 12 novembre 2003 mediante i quali, in sede amministrativa, la società ricorrente ha previamente “compensato”, nelle forme di legge ed al momento del versamento del relativo importo, l’Iva di euro 1.268.852,75. L’altra parte non ha disconosciuto siffatta compensazione di versamento con un proprio provvedimento né a contestato in altro modo il corretto impiego della posizione creditoria del soggetto passivo. Per quanto concerne l’Irap, parimenti è stata documentata dal contribuente l’avvenuta imputazione a pagamento dell’imposta (periodo 1999) per un totale di euro 345.175,88 con modello di pagamento F 24 del 28 dicembre 2005 ed il punto non è oggetto di contestazione in questa sede. Nello specifico, con il modello F 24, presentato per il pagamento il giorno 28 dicembre 2005 allo sportello della banca […], è stata compensata Irap 1999, codice 3800 di euro 268.648,00; interessi su Irap, codice 3800 di euro 49.663,08, per un totale di euro 318.311,08; sanzioni Irap, codice 8907 di euro 26.864,80, il totale complessivo dell’imposta, più interessi e sanzioni risulta pari ad euro 345.175,88; per il pagamento è stato utilizzato il credito a compensazione correlato al codice tributo 6734. Trattasi del credito d’imposta previsto per i nuovi investimenti di cui all’art. 8 della L. 388/2000. Aveva diritto ad usufruire di tale credito la G. Q. S.r.l., come da comunicazione telematica dell’Agenzia delle Entrate di accoglimento del 3 luglio 2003. Dalla sua sfera giuridica, a seguito della fusione per incorporazione nella M. spa il credito è stato acquisito al patrimonio di quest’ultima società. La parte ha esibito le istanze e le autorizzazioni relative al suddetto credito d’imposta ex L. 388/2000 ed un processo verbale di accesso dell’Ufficio di N. dell’Agenzia delle Entrate datato 1 dicembre 2005 da cui risulta che il credito richiesto di euro 24.650.117,00 va rettificato in euro 21.955.286,00 e che di tale credito spettante, dopo le intervenute compensazioni con mod. F 24 negli anni 2003-2004-2005, residua ancora da compensare l’importo di euro 21.237.460,00. Quanto invece all’Iva, i tre modelli F 24 presentati per il pagamento il giorno 12 novembre 2003 allo sportello del […], riportano ciascuno la com-

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pensazione di euro 422.950,92 tra il credito emergente nella liquidazione Iva III trimestre della società M., codice tributo 6038, pari ad euro 422.950,92 ed il debito relativo ad Iva aprile 1999, codice tributo 6004, del medesimo importo di euro 422.950,92. Il totale dei tre versamenti è di euro 1.268.852,75. L’ammontare complessivo di euro 1.268.852,75, utilizzato in compensazione dalla società ricorrente, si riferisce all’utilizzo parziale di credito Iva formatosi nell’ambito della società M. in sede di liquidazione del III trimestre 2002 di euro 2.636.901,27, codice 6038. Come si evince da fotocopia di liquidazione periodica Iva della M. esibita dalla parte, nel III trimestre: l’Iva a credito del periodo precedente è di euro 62.126,00, l’Iva acquisti di euro 3.846,00, l’Iva vendite pari a zero; pertanto l’Iva a credito del periodo ammonta ad euro 65.622,00. L’Iva credito di gruppo G. Q. S.r.l. è di euro 2.571.279,27 e dunque l’Iva a credito della liquidazione del trimestre è di euro 2.636.901,27. Tra tale importo, di cui la società risultava creditrice e la somma di cui la stessa era debitrice per l’Iva aprile 1999 di euro 1.268.852,75, la M. S. G. ha effettuato una compensazione parziale di versamento nelle forme e modalità di legge. 5 - In conclusione il ricorso è parzialmente fondato. Il debito Iva 1999 a ruolo emergente dalla impugnata cartella di pagamento n. […], di euro 1.560.186,89 comprensivo di interessi e sanzione, è estinto mediante compensazione fino alla somma di euro 1.268.852,75 corrispondente all’accertato credito Iva esistente nei confronti dell’erario. La residua somma ancora dovuta per l’Iva e non opposta in compensazione è pari ad euro 291.334,14. A sua vota il debito Irap 1999 in cartella, pari ad euro 386.194,70 comprensivo di interessi e sanzione, risulta compensato con il credito d’imposta di cui la ricorrente usufruisce ai sensi dell’art. 8 della L. 388/2000 fino alla somma di euro 345.175,88, per cui residua tuttora a carico del contribuente il pagamento dell’Irap per l’ammontare di euro 41.018,82. Tale differenza è pari alla minore sanzione del 10% versata dalla società, che erroneamente ha usufruito della riduzione di un terzo della sanzione ordinariamente prevista nella misura del 30% laddove, a seguito di rigetto del condono, la sanzione resta commisurata all’imposta come risultante dal controllo ex art. 36-bis D.P.R. 600/73. La novità e la particolare complessità della questione trattata consentono di disporre la compensazione delle spese di lite.


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P.Q.M. In accoglimento parziale del ricorso, la Commissione compensa l’Irap e l’Iva per il periodo d’imposta 1999 fino all’importo totale di euro 1.614.028,03.

Dichiara ancora dovuta la complessiva somma di euro 332.352,96 oltre diritti di notifica e, per l’effetto, annulla parzialmente la cartella. Spese compensate.

I - II Nota di Sebastiano Maurizio Messina Le sentenze in rassegna danno conto delle oscillazioni che, anche fra i giudici di merito, esistono sulla delicata questione dell’applicazione della compensazione in materia tributaria dopo l’emanazione dell’art. 8 dello Statuto del contribuente ed in carenza dei regolamenti. Nel caso esaminato dalla Commissione veronese, l’Agenzia delle Entrate aveva accertato un maggior reddito di capitale ed irrogato le relative sanzioni per l’omessa dichiarazione di dividendi. Il contribuente non contestava l’omissione, ma deduceva che, pur essendo decaduto dalla detrazione (che l’allora vigente art. 14, del D.P.R. 917/1986, gli attribuiva per effetto della percezione di utili), rappresentando quest’ultima un meccanismo meramente interno alla dichiarazione, non poteva incidere sull’esistenza del diritto di credito, che trovava la sua genesi direttamente nella legge, in virtù dell’intervenuta distribuzione dei dividendi. La decadenza riguardava, quindi, solo la detrazione, non il credito. Sulla base dei superiori assunti, eccepiva quest’ultimo in compensazione nei confronti dell’ufficio, ai sensi dell’art. 8 dello Statuto del contribuente, nonché degli artt. 1241, 1242, 1243 c.c. Come si vede, il ricorrente faceva riferimento, sia all’istituto della compensazione legale, sia a quello della compensazione giudiziale. Chiedeva, quindi, che la Commissione dichiarasse l’integrale compensazione tra l’imposta reclamata dall’ufficio resistente ed il proprio credito. Secondo i giudici, anche se la previsione della decadenza finisce con il costituire una sanzione, alla disposizione non può essere data altra interpretazione se non quella che la detrazione sta e cade con la dichiarazione e, quindi, non sarebbe possibile ammettere il ricorso alla compensazione del codice civile, né ad altre soluzioni non previste dal nostro ordinamento. Ed il riferimento non può che essere, in questo caso, all’istituto previsto dall’art. 8 dello Statuto (invocato dal ricorrente). Dunque, per la Commissione, al caso di specie non soltanto non si sarebbe potuto applicare il suddetto istituto civilistico, ma, più in generale,

nell’ordinamento tributario non vi sarebbe neppure un istituto analogo a quello. Di orientamento completamento diverso è, invece, la sentenza della Commissione tributaria di Napoli. Nel caso da essa esaminato, la società ricorrente, destinataria di una cartella di pagamento, eccepiva in compensazione i crediti Iva di cui era divenuta titolare a seguito dell’incorporazione di altra società. La sussistenza di detti crediti non veniva contestata dall’amministrazione, con la conseguenza che essi dovevano considerarsi esigibili. Ed occorreva, quindi, procedere unicamente alla loro esatta quantificazione. Per la Commissione, a seguito dell’emanazione dello Statuto, l’applicabilità, anche in ambito tributario, delle comuni disposizioni civilistiche sulla compensazione «rappresenta un dato strutturale», cui non sarebbe di ostacolo la mancata emanazione della disciplina di attuazione prevista dal comma 8, del citato art. 8 dello Statuto. E, quindi, giunge a ritenere che la compensazione, in linea di principio, può applicarsi nel nostro sistema. Ma il giudice si preoccupa anche di verificare che la compensazione possa avere ingresso nel processo tributario. E, secondo la Commissione, quella sollevata in sede di impugnazione dell’atto, sarebbe un’eccezione in senso stretto, tramite la quale la parte ricorrente introduce in giudizio fatti estintivi della pretesa dell’autorità finanziaria e chiede al giudice di riconoscerne l’esistenza e l’ammontare. Essa, pertanto, implicherebbe una verifica, in via incidentale, del credito del contribuente e si connoterebbe di aspetti di cognizione circa la reciprocità delle obbligazioni e sul controcredito che deve avere come oggetto una somma di denaro esigibile e, se non liquida, quanto meno di pronta e facile liquidazione. Configurandosi, quello tributario, come giudizio di impugnazione di atti dell’amministrazione finanziaria, l’eventuale rilevanza della compensazione giudiziale comporterebbe una sentenza di accoglimento del ricorso e, quindi, l’eliminazione totale o parziale dell’atto impugnato, e non già la sola determinazione, con sentenza, dell’effetto estintivo. La questione, posta all’attenzione della Commissione veronese si rivela assai peculiare a cagione del fatto che la richiesta di compensazione sembra


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riguardare la mancata esposizione in dichiarazione di utili da partecipazione e del corrispondente credito d’imposta (riconosciuto dall’abrogato art. 14 del T.U.I.R.). Nella sostanza, a fronte della ripresa dell’Ufficio per la mancata dichiarazione dei dividendi, il contribuente oppone che, comunque, avrebbe avuto diritto al corrispondente credito. Ora, se appare condivisibile l’assunto della Commissione, laddove ritiene che la detrazione non può essere operata altrimenti se non in dichiarazione1, si mostra, d’altra parte, particolarmente rilevante l’esigenza di evitare una duplicazione d’imposta in presenza del medesimo presupposto. Ciò anche in conseguenza dell’applicazione del principio di compensazione nel nostro ordinamento. E che questa sia una caratteristica tipica del sistema è, di recente, ribadito dalla stessa Cassazione2, secondo cui, nella determinazione dell’imposta complessivamente dovuta, pur in presenza di errori del contribuente, occorre tener conto di quella già corrisposta3. E tale conclusione, per la Corte, discenderebbe proprio dall’applicazione del principio di compensazione, vigente nell’ordinamento tributario anche prima dell’espresso riconoscimento contenuto nell’art. 8 dello Statuto. Pertanto, il mancato rispetto degli adempimenti previsti dal comma 5, dell’art. 14, comporterebbe solo la preclusione dal diritto di detrazione, ossia la perdita della situazione di vantaggio che il legislatore stesso riconosceva al contribuente. Ma, in caso di mancata detrazione e di reiterazione del pagamento dell’imposta, la doppia imposizione sarebbe evidente. E la compensazione, espressione del principio secondo cui si deve tener conto dell’imposta già assolta per evitarne la duplicazione, attraverso il meccanismo dell’art. 8, finisce col costituire lo strumento per porvi rimedio. Ne deriva, ammessa l’esistenza di tale principio, che si sarebbe dovuto riconoscere il diritto alla compensazione.

1 Con riferimento a fattispecie analoghe, la Suprema Corte ha ritenuto che nessuna detrazione può aversi se non è indicata nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo di imposta in cui gli utili sono stati percepiti ed ha, altresì, negato al contribuente la facoltà di far valere il diritto alla detrazione attraverso la procedura di rimborso prevista dall’art. 38 del D.P.R. 602/73. Cfr. Cass., 15 marzo 2005, n. 18371, in banca dati fisconline; Cass., 28 giugno 2002, n. 9475, in Arch. Civ., 2003, 461.

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La posizione assunta dalla Commissione veronese si mostrerebbe addirittura singolare, poi, laddove la si volesse intendere quale affermazione della totale estraneità della disciplina della compensazione alla materia tributaria. Evidentemente, la Commissione ha ritenuto non applicabile e vigente l’art. 8 dello Statuto. E qui appare fin troppo chiaro il contrasto con la sentenza della Commissione partenopea, nella quale i giudici, disattendendo l’indirizzo fino a quel momento manifestato dalla Cassazione, ritengono immediatamente applicabile la disciplina dell’art. 8 dello Statuto. In particolare, poco dopo l’emanazione della legge n. 212/2000, la Corte di Cassazione, pur riconoscendo che l’art. 8 «[...] recepisce per l’obbligazione d’imposta i generali canoni del codice civile sull’estinzione per compensazione [...]», ha negato che esso fosse applicabile in assenza dei regolamenti di attuazione e, pertanto, fino alla loro emanazione, la compensazione sarebbe stata possibile (come prima della disposizione contenuta nell’art. 8 dello Statuto) soltanto per le ipotesi espressamente previste4. La Suprema Corte ha, poi, mutato orientamento, riconoscendo, implicitamente, l’operare della compensazione5. Successivamente, sembra nuovamente aver cambiato indirizzo6, escludendo che, allo stato attuale, la compensazione possa operare nell’ordinamento tributario al di fuori dei casi previsti. Da ultimo, con la citata sentenza 30 giugno 2006, n. 228727, ha ritenuto il principio di compensazione «vigente nell’ordinamento tributario anche prima dell’espresso riconoscimento contenuto nell’art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente». Infatti, prosegue la Corte, «l’esercizio del potere regolamentare in materia di compensazione, previsto dal citato art. 8, non può considerarsi condizione necessaria per l’operatività della compensazione, ma attribuisce soltanto all’ammi-

2 V. Cass. 25 ottobre 2006, n. 22872, in Corriere Trib., 2007, 1, 35 ss., con nota di BASILAVECCHIA. 3 In quel caso, l’imposta era già stata assolta mediante acconti, mentre, nel caso oggi in esame, dalla società. In particolare, in quella fattispecie, l’errore riguardava l’esposizione dei costi. 4 In tal senso, Cass., 20 novembre 2001, n. 14579, in Giur. Imposte, 2002, 166; Cass, 20 novembre 2001, n. 14588, in Fisco, 2002, 12, 1848. 5 Cfr. Cass., 3 dicembre 2004, n. 22761, in Giur. It., 2006, 6, con nota

di MESSINA, Osservazioni in tema di rapporto fra compensazione ed esecuzione del giudicato tributario. In quel caso, il contribuente aveva più volte, anche stragiudizialmente, chiesto l’applicazione della compensazione ex art. 8 dello Statuto. E la Corte riconosce che le reciproche posizioni debitorie si erano estinte per compensazione, confermando l’applicabilità dell’istituto nel sistema tributario. 6 V. Cass., 30 giugno 2006, n. 15123, in CED Cassazione. 7 V. nota 2.


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nistrazione finanziaria la possibilità di disciplinarne l’applicazione. Per cui […] in difetto di una specifica normativa, devono applicarsi i principi dettati dal codice civile (artt. 1241 ss.)»8. La sentenza della Commissione tributaria napoletana del 10 ottobre 2006, precorrendo la pronuncia della Cassazione, ritiene anch’essa che quella dell’art. 8 sia una disposizione precettiva, di diretta ed immediata applicazione e che il regolamento attuativo non potrà che essere emanato in conformità alla norma di legge da attuare e nel rispetto dei principi civilistici immanenti nel nostro ordinamento. Tali orientamenti in ordine alla immediata applicabilità appaiono condivisibili. Il dubbio sull’efficacia scaturirebbe dal comma 8, dell’art. 8 dello Statuto, secondo cui, ferme restando in via transitoria le disposizioni vigenti9 in materia di compensazione, saranno emanati ex art. 17, comma 2, L. n. 400/88, i regolamenti che disciplineranno la compensazione e ne estenderanno l’applicazione

8 A tal proposito, si veda BASILAVECCHIA, nota a Cass. n. 22872/2006, cit., il quale osserva che l’affermazione secondo cui la compensazione costituirebbe un principio vigente nell’ordinamento tributario, anche prima dell’espresso riconoscimento contenuto nell’art. 8, appare discutibile per la difficoltà di considerarla conforme al diritto vivente. Secondo l’autore, sarebbe più agevole aderire alla tesi secondo cui con l’art. 8 si è avuto un recepimento immediato del principio in materia tributaria, rispetto al quale la previsione di un potere regolamentare all’amministrazione, di carattere attuativo, non funge da condizione sospensiva dell’applicazione dell’istituto, ma costituisce solo l’oggetto di una facoltà per l’amministrazione, destinata ad integrare una disciplina normativa che, anche in mancanza dei regolamenti, è già comunque autosufficiente e, pertanto, in grado di operare e di condizionare, da subito, interpreti ed operatori. 9 Secondo FEDELE, L’art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente, in Riv. Dir. Trib., 883 ss., la formula “in via transitoria” conferma solamente l’effetto abrogativo della disciplina speciale oggi in vigore per effetto della ventura abrogazione da parte dei regolamenti ministeriali delegificanti; fino a quel momento, la disciplina in questione mantiene non solo il rango di legge ordinaria, ma, in quanto speciale, deroga le disposizioni in tema di compensazione del codice civile.

ad altri tributi. Dal tenore di questa disposizione non sembra possa giustificarsi la non immediata applicabilità, ma, al contrario, ne deriva che l’istituto della compensazione è vigente nell’ordinamento e che su questa materia si può intervenire con regolamento10. Pertanto, la funzione del comma 8 sembra, semplicemente, quella di autorizzare l’intervento mediante regolamenti sulla materia della compensazione. E non quello di paralizzarne l’applicazione o di subordinare la vigenza di talune disposizioni all’emanazione dei regolamenti. Anzi, al contrario, è fatto salvo il quadro normativo vigente11. E, d’altra parte, le stesse affermazioni della Corte di Cassazione12 sembrano riconoscere al principio da essa sancito un’ampia sfera di applicazione, quale consacrazione di fondamentali precetti costituzionali13. Infatti, stabilito il più generale principio dell’integrità patrimoniale del contribuente, la compensazione sembra rappresentare un precetto sostanziale che attua quel valore14. E proprio per-

10 Per giustificare la forza delegificante dei regolamenti, si è detto che la legge autorizzatrice degrada la stessa disciplina legislativa primaria in disciplina regolamentare secondaria, cfr. CAMMEO, Della modificazione di volontà dello Stato nel campo di diritto amministrativo. Legge e ordinanza (decreti e regolamenti), in Primo trattato completo di diritto amministrativo, III, Milano, 1901, 177 ss.; e si è parlato di abrogazione differita o condizionata, perché l’effetto abrogativo opera solamente dopo l’entrata in vigore del regolamento, v. CRISAFULLI, Gerarchia e competenza nel sistema costituzionale delle fonti, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 1960, 804. 11 Quest’ultimo sembra essere costituito dalla compensazione dell’art. 17, L. n. 241/97; dalla disposizione del comma 1 dell’art. 8, che certamente è vigente, essendo entrata in vigore con lo Statuto, ed è di più ampia portata della precedente; dall’art. 23, D.Lgs. 472/1997, nonché, infine, dall’art. 28-ter del D.P.R. n. 602/73, recentemente inserito dall’art. 2, comma 13, del D.L. 3 ottobre 2006, n. 262. In detta elencazione andava ricompreso anche l’art. 13, D.Lgs. n. 504/1992, oggi abrogato. 12 Cfr. Cass., 30 marzo 2001, n. 4760, in Corriere Trib., 2001, 22, 1668, secondo cui la compensazione disciplinata dell’articolo 8, comma 1, ha valenza di regola generale che sancisce per il contribuente una situazione di par condicio del dare e dell’ave-

re a partire dal momento della loro coesistenza (articolo 1424 c.c.). Per Cass., 20 aprile 2001, n. 5860, in Corriere Trib., 2001, 2497, non sembra dubitabile che l’art. 8, comma 1, costituisca, ai sensi dell’art. 1, comma 1, della stessa legge 212/2000, un principio generale dell’ordinamento tributario espressione, insieme ad altri principi contenuti nello Statuto, «[...] di valori fondamentali portati dalla Carta costituzionale [...]». 13 Il riconoscimento, nelle norme dello Statuto, di principi fondamentali dell’ordinamento giuridico è, altresì, posto dall’articolo 1, comma 1 dello Statuto, secondo cui «le disposizioni della presente legge, in attuazione degli articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione, costituiscono principi generali dell’ordinamento tributario e possono essere derogate o modificate solo espressamente e mai da leggi speciali». 14 Per FEDELE, L’articolo 8 dello statuto dei diritti del contribuente, cit., 895, in tema di applicabilità di principi generali del diritto tributario, potrebbe essere sancito il conseguente riconoscimento di una portata precettiva di norme che attuerebbero fondamentali precetti costituzionali e che attribuirebbero, se non altro, a detta norma, da un lato, il potere di derogare alle speciali norme tributarie che negano l’applicazione della compensazione e, dall’altro, un ruolo particolare in termini interpretativi e di norma di principio.


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ché tale disposizione è strumentale alla realizzazione di quella legittima aspettativa, sembra essere immediatamente precettiva ed applicabile e non con funzione meramente programmatica15. Si tratta, peraltro, di un istituto ben noto al sistema, il che ne rende concreto il contenuto e, quindi, anche per questo, immediatamente precettiva ed applicabile la disposizione. Ovviamente, in quanto compatibile con le peculiarità dell’ordinamento tributario, rinvenibili nelle differenze sussistenti tra le posizioni pretensive tributarie e l’obbligazione civilistica16. Ma la decisione della Commissione napoletana è particolarmente interessante anche perché (ed a quanto consta sembra essere la prima), pone la delicata questione della esperibilità, in concreto, della compensazione nel giudizio tributario, giustificando, innanzitutto, l’ammissibilità dell’eccezione de qua nel processo e, poi, la proponibilità di una compensazione giudiziale. Quanto al primo profilo non è mancato chi – evidenziata la mancanza di espresse previsioni normative in ordine alla possibilità di opporre la compensazione davanti al giudice tributario e, più in generale, in ordine al potere di questo di esaminare la relativa questione – ritiene che ostacoli e difficoltà alla sua proponibilità in giudizio potrebbero derivare da un’eventuale adesione a quelle teorie che configurano il processo tributario in termini di mera impugnazione, avente, cioè, ad oggetto esclusivamente l’annullamento degli atti illegittimi17. E da chi aderisce a tale orientamento si è, infatti, radicalmente esclusa la possibilità di sollevare una eccezione di compensazione nel processo, sostenendo che non potrebbe essere dedotta quale motivo del ricorso in sede giurisdizionale, non integrando un vizio proprio degli atti autonomamente impugnabili18. A questo tipo di osservazioni può, innanzitutto, rispondersi che tale concezione non è univoca. Infatti, in relazione alle diverse impostazioni

15 Per una disamina delle posizioni dottrinali sull’operare della compensazione a seguito dell’introduzione dello Statuto, sia consentito rinviare a MESSINA, La compensazione nel diritto tributario, cit., 126 ss. Sull’argomento, si veda pure MARONGIU, Lo Statuto dei diritti del contribuente, in Fisco, 2006, 1, 20 ss. 16 Sul punto, v. MESSINA, op. ult. cit., 139 ss. 17 In tal senso, FEDELE, L’art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente, cit., 891.

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secondo cui il giudizio sarebbe o di impugnazione-annullamento ovvero (fuori dalle ipotesi strettamente concernenti la legittimità formale dell’atto), di impugnazione merito (per cui la causa petendi potrebbe essere rappresentata dall’esistenza di fatti estintivi, modificativi o impeditivi, oppure dalla negazione del diritto di credito in cui si sostanzia la pretesa tributaria), occorre prendere atto del fatto che il quadro normativo non conforta la esclusiva prevalenza né dell’uno, né dell’altro degli opposti indirizzi. Questo rilievo, insieme con l’eterogeneità delle azioni esperibili nel processo tributario tramite l’impugnazione di uno degli atti elencati nell’art. 19, del D.Lgs. 546/1992, ha indotto autorevole dottrina ad escludere l’opportunità di propendere nettamente per l’una o per l’altra delle due impostazioni19. Ma, anche ad accedere a quelle teorie che configurano il processo tributario in termini di mera impugnazione, nulla osta a configurare l’eccezione come vizio dell’atto laddove essa sia stata opposta stragiudizialmente prima della sua formazione, ma anche nel caso in cui venga introdotta per la prima volta in giudizio. In tale ipotesi, come nella questione che occupa la Commissione tributaria di Napoli, con la compensazione si rileverebbe un vizio proprio dell’atto concernente la sua idoneità a costituire titolo per l’esecuzione. Dalla verifica giudiziale emergerebbe, infatti, che la posizione creditoria dell’a.f. si è estinta fin dal momento della coesistenza del controcredito, giustificando, così, l’annullamento dell’atto. Anche con riguardo all’ammissibilità della compensazione giudiziale nel processo tributario, in dottrina si registrano posizioni contrastanti20. In particolare, ad escluderne l’ammissibilità è stato evidenziato, non soltanto che essa presupporrebbe l’accertamento del controcredito da parte del giudice davanti al quale la compensazione medesima è fatta valere, ma anche, che questo non sarebbe legittimato a pronunciarsi sulla spet-

18 Cfr. BRUZZONE, L’estinzione dell’obbligazione tributaria per compensazione, in Corriere Trib., 2002, 15, 1297 ss. 19 Cfr. LA ROSA, Principi di diritto tributario, Torino, 2006, 448 ss. Invero, l’attività che il giudice tributario è chiamato a svolgere a seguito della proposizione del ricorso sembra graduarsi in relazione alla natura dell’atto impugnato. 20 Nel senso dell’operatività di detta forma di compensazione nel processo tributario, v. SALVINI, Questioni pre-

liminari e incidentali di competenza delle Commissioni tributarie, in Quaderni del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, 2004, 8, 238; BUSCEMA, Sulla spendibilità dell’eccezione di compensazione nel processo tributario ed in particolare nel giudizio di ottemperanza, in Fisco, 2005, 1, 93 ss.; ROSSI, Questioni preliminari e incidentali di competenza delle Commissioni tributarie, in Quaderni del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, 2004, 9, 51.


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tanza e sul quantum delle somme vantate dal contribuente al di fuori della rigorosa osservanza della tassativa procedura stabilita in proposito dal legislatore tributario21. Nella sentenza in commento il giudice fa riferimento all’aspetto dell’accertamento del controcredito, ritenendolo incidentale. A conforto dell’ammissibilità di una compensazione giudiziale, può osservarsi che la sua disciplina non presuppone un accertamento del credito opposto in compensazione. Infatti, secondo la dottrina civilistica, il riferimento che l’art. 1243 c.c. opera «all’accertamento» del controcredito non dovrebbe far pensare ad un’indagine sulla sua esistenza, ma solo alla sua liquidazione22. Si tratterebbe, esclusivamente, della determinazione del quantum del controcredito, e la valutazione della pron-

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tezza e facilità delle operazioni liquidative costituirebbe un giudizio di mero fatto che, come tale, sembra poter essere svolto dal giudice tributario23. Detti assunti sono, tra l’altro, riscontrabili nella pronuncia della Commissione napoletana, laddove si rinviene che l’indagine non riguarda l’esistenza del controcredito, ma solo circostanze di fatto, riguardanti la reciprocità delle obbligazioni, l’esigibilità del credito del contribuente, nonché la sua pronta liquidabilità. Tra l’altro, il fatto stesso che il credito, al fine dell’operare della compensazione giudiziale, debba essere esigibile, sembra, di per sé, escludere qualunque indagine (id est, accertamento) sulla sua esistenza. Non sembrano, quindi, esservi ostacoli alla proponibilità nel processo tributario, sia della compensazione legale, sia di quella giudiziale.

Commissione tributaria provinciale di Pordenone, sez. V, 4 maggio 2006, n. 91 Presidente e Relatore: Pitter Irpef - Reddito di impresa - Cessione d’azienda verso costituzione di rendita vitalizia - Plusvalenza - Insussistenza (D.P.R. n. 917/1986, art. 54 - ora artt. 58 e 86) In caso di cessione di azienda (nella specie, cessione di farmacia dal padre al figlio), a fronte della costituzione di una rendita vitalizia, non è ravvisabile alcuna plusvalenza tassabile, in quanto il corrispettivo non è determinabile per la natura aleatoria del contratto. Svolgimento del processo In data 13 luglio 1999, il sig. C. I. cedeva al figlio C. P., con atto di cessione di farmacia e costituzione di vitalizio del notaio Cosmo rep. n. 10684, la farmacia dott. C., avente sede a Farra di Soligo

21 Così, RUSSO, La compensazione in materia tributaria, in Rass. Trib., 2002, 6, 1861. 22 V. SCHLESINGER, voce Compensazione (diritto civile), in Nov. Dig. It., III, 729 ss., secondo cui non dovrebbe trarre in inganno l’ultima parte della norma, laddove si riferisce alla sospensione della condanna “fino all’accertamento del controcredito”. Sebbene essa potrebbe far pensare ad un’indagine relativa all’esistenza del cre-

(TV), in cambio del corrispettivo di una rendita annua di lire 84.000.000 da erogarsi in dodici rate mensili. Agli effetti fiscali le parti dichiaravano che il valore complessivo della farmacia trasferita era di lire 1.004.496.379. L’Ufficio, informato di ciò dalla direzione centrale accertamento, inviava un questionario al contribuente, il 31 maggio 2005, richiedendogli i registri prescritti ai fini Iva, il registro del beni ammortizzabili con le relative fatture di acquisto e la copia del bilancio unitamente ai relativi partitari. Tali documenti venivano tempestivamente forniti dal sig. C. In data 27 settembre 2005, l’Ufficio provvedeva a notificare al sig. C. I. l’avviso di accertamento n. R56010400837, con cui accertava il reddito complessivo imponibile di lire 1.227.368.000 per effetto della plusvalenza di lire 1.004.625.000, riconosciuta in seguito alla cessione della farmacia de

dito, il termine accertamento sarebbe, in realtà, stato introdotto solo per evitare la ripetizione della parola liquidazione. 23 Pertanto, la particolarità della compensazione giudiziale risiederebbe nel fatto di apportare una deroga al solo requisito della liquidità (e non anche a quello dell’esigibilità), nel senso che può essere opposto in compensazione anche un credito che non sia già determinato nel suo

ammontare, purché sia di facile e pronta liquidazione. Quanto, invece, all’esigibilità, occorre osservare che tale carattere può realizzarsi, anche al di fuori delle procedure normativamente previste per il rimborso, implicitamente all’interno dello stesso giudizio nel quale venga eccepita la compensazione, allorché l’a.f. non contesti la sussistenza del credito del contribuente.


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qua, inoltrando, nel contempo, al procuratore della Repubblica di Pordenone la segnalazione dell’ipotesi di reato perseguibile penalmente in base all’art. 4 del D.Lgs., 74/2000. In data 28 novembre 2005, il contribuente proponeva ricorso avanti a questa Commissione, in cui chiedeva: in via pregiudiziale, la sospensione dell’atto impugnato; in via principale, la declaratoria di nullità dell’atto stesso in quanto ritenuto manifestamente infondato e carente di motivazione; in via secondaria, la declaratoria di non debenza delle sanzioni per la mancanza di loro motivazione; infine, la condanna dell’Ufficio al rimborso delle spese di giudizio. Il ricorrente ha sostenuto, in via principale, che nel caso di specie non si può parlare di plusvalenza tassabile, sia perché, a seguito della natura aleatoria – in quanto dipendente dalla vita del beneficiario – del contratto di vitalizio, è impossibile stabilire in via preventiva se una plusvalenza si sia realizzata, sia perché mancherebbe il requisito essenziale dell’unitarietà della percezione della plusvalenza, in quanto, nel vitalizio, il corrispettivo viene erogato al beneficiario con cadenza a periodica. L’Agenzia delle Entrate di Pordenone si è costituita con atto del 24 gennaio 2006, contestando le argomentazioni del ricorrente e sostenendo le diversa tesi per cui la cessione con la contestuale costituzione di una rendita vitalizia dà vita a due redditi autonomamente tassabili, e cioè la rendita stessa, che costituisce un reddito assimilabile a quello di lavoro dipendente, e la plusvalenza come reddito di impresa. Essendo stata proposta istanza di sospensione, venne fissata udienza in camera di consiglio al 9 marzo 2006. In quella sede il ricorrente rinunciò all’istanza e la Commissione fissò udienza per la discussione del merito al 6 aprile 2006. In tale udienza la causa è stata discussa e la Commissione si è riservata di decidere, emettendo successivamente la seguente sentenza: Motivi della decisione Presupposto della determinazione degli obblighi fiscali derivati dal contratto de quo è la sua precisa qualificazione dal punto di vista del diritto civile. Il contratto contiene una cessione di farmacia e prevede quale corrispettivo la corresponsione al cedente di una rendita annua. Appare perciò evidente che il contratto integra la fattispecie del contratto di rendita vitalizia, previsto e disciplinato come contratto tipico dagli artt. 1872 ss. c.c. Va precisato che l’art. 1872 prevede, in linea generale, che la cessione abbia per oggetto un bene mobile o un bene immobile, ma pacificamente si ritiene

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che tale indicazione non sia tassativa e che il contratto, quindi, possa avere per oggetto anche la cessione di altri diritti reali diversi dal diritto di proprietà (C 84/4831) ed anche un’azienda commerciale (C 82/3394), come è avvenuto nel caso qui in esame. Il contratto di rendita vitalizia presenta due fondamentali caratteristiche. Esso è un contratto a prestazioni corrispettive, e quindi le prestazioni delle due parti sono collegate tra loro da un vincolo di reciproca dipendenza, nel senso che l’una trova la sua giustificazione nell’altra. Esso poi – a differenza dal contratto di rendita perpetua disciplinato dagli artt. 1861 ss. c.c. – è un contratto aleatorio, essendo incerta la durata residua della vita del beneficiario: l’alea è elemento essenziale del contratto, e, in suo difetto, il contratto è radicalmente nullo. È altresì da aggiungere la considerazione per cui il contratto di rendita vitalizia è un contratto tipico, disciplinato espressamente dalla legge, e come tale dotato di causa meritevole di tutela. Questo dato fondamentale non consente di ravvisare in esso un mezzo per eludere il fisco. Si dove altresì sottolineare che gli Uffici tributari hanno l’obbligo di applicare la legge, e ciò significa che essi sono tenuti ad applicare tutte le norme di legge, a qualsiasi settore dell’ordinamento giuridico esse appartengono, riferibili al caso di specie, e non solo quelle contenute nelle leggi di diritto tributario. Premesse queste nozioni sul contratto di rendita vitalizia e premesso che esse debbono costituire il necessario punto di partenza per la soluzione della vertenza fiscale, si osserva che la tesi dell’Ufficio contrasta con le caratteristiche fondamentali del contratto che sopra abbiamo delineato e che risultano dal codice civile. In particolare l’Ufficio equivoca nell’identificare, la prestazione del cessionario, tant’è che ne identifica due, sottoposte ciascuna ad una diversa tassazione, ovvero il valore della farmacia indicato nel contratto e le rate annuali che il cessionario si è obbligato a versare al cedente. Ma la configurazione del contratto, quale risulta dall’art. 1872 c.c. non autorizza una siffatta tesi: a norma dell’articolo citato. Infatti, il corrispettivo della cessione è dato soltanto delle rate che il cessionario si obbliga a pagare. L’erroneità della tesi dell’Ufficio risulta evidente anche da un’argomentazione contenuta nella sua stessa memoria difensiva, dove, citando un’opinione dottrinaria, si afferma che «non c’è doppia tassazione, come non c’è duplicazione, se un soggetto aliena un bene, realizzando una plusvalenza tassata, ed impiega il ricavato, stipulando il contratto costitutivo di rendita». Questa argomentazione è erronea se


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applicata al caso in esame, perché si riferisce ad una fattispecie del tutto diversa, data dalla presenza di due distinti negozi, un contratto di vendita con incasso del prezzo, e, a parte, un contratto costitutivo di rendita con impiego di quel prezzo. In tale fattispecie la costituzione della rendita è oggetto di un contratto staccato da quello di vendita, e successivo ad esso, che riguarda le modalità di impiego del ricavato dalla vendita, che potrebbero, però, essere di vario tipo. Applicare tale argomento al caso in esame significa perciò omettere di considerare che nel nostro diritto il contratto costitutivo di rendita vitalizia è previsto e disciplinato come fattispecie unitaria, e che, come tale, non richiede la stipulazione di due distinti contratti. Né hanno rilevanza ulteriori considerazioni svolte dall’Ufficio. Si è affermato che la tassabilità della plusvalenza deriva dal fatto che il valore della farmacia è stato indicato nel contratto, ma è pacifico che l’indicazione era richiesta proprio in base a norme fiscali, e d’altra parte l’indicazione del valore non significa affatto che l’importo sia stato corrisposto, ossia che si sia verificato il presupposto cui è collegato il venire in essere della plusvalenza. Si è osservato che se, in ipotesi, il cedente fosse morto poco dopo la stipulazione del contratto, in

concreto poche sarebbero state le rate versate, e ridotta quindi la tassazione, ma ciò è soltanto una conseguenza della natura aleatoria del contratto da un punto di vista civilistico che è rilevante anche in sede tributaria e che non può essere ignorata o contrastata in tale sede. Va peraltro osservato che, in concreto, tale aleatorietà veniva ad essere notevolmente ridotta dal momento che il contratto prevedeva che, in caso di morte del cedente, la rendita avrebbe continuato ad essere corrisposta, sia pure nella misura ridotta di due terzi, alla moglie (v. art. IV del contratto). Per le ragioni esposte non è ravvisabile nella fattispecie una plusvalenza tassabile. Pertanto il ricorso è fondato e va accolto con l’annullamento dell’avviso di accertamento impugnato. Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.

Nota

con impiego di quel prezzo, permettendo di escludere la configurabilità di un reddito assimilabile a quello di lavoro dipendente (ventilata dall’Ufficio), nell’esclusiva applicabilità della disciplina del reddito d’impresa. La Commissione giunge, tuttavia, a ritenere non ravvisabile nella fattispecie una plusvalenza tassabile per la mancanza del presupposto cui è collegato il venire in essere della plusvalenza, cioè a dire, il corrispettivo della cessione, corrispettivo non determinabile per la natura aleatoria del contratto e condanna l’Ufficio a rifondere le spese di lite. La Commissione pordenonese si è pronunciata conformemente all’indirizzo manifestato dalla Commissione centrale (decisioni 26 maggio 1999, n. 3384, sez. XXI, in Rass. Dir. Farm., 2000, 390; 11 giugno 1997, n. 3101, sez. V, in Riv. Giur. Trib., 1998, 907 con nota di DAMONTE, Avviamento commerciale: cessione di azienda mediante costituzione di rendita vitalizia, e in Rass. Trib., 1998, II, 229, con nota di PASSERI, Cessione d’azienda a fronte di costituzione di rendita vitalizia: una tassazione difficile; 15 febbraio 1990, n. 1206, sez. XXII, in Dir. e Prat. Trib., 1990, II, 522, con nota di MARCHESE, In tema di tassazione dell’avviamento derivante da cessione di azienda contro costituzione di rendita vitalizia) e seguito anche dalla Comm. trib. reg. Emilia Romagna,

Nella decisione in rassegna la Commissione tributaria provinciale di Pordenone ha avuto modo di esaminare un caso di cessione di azienda (nella specie, una farmacia) a fronte della costituzione di una rendita vitalizia a favore dello stesso cedente, con determinazione dell’importo annuo da corrispondersi in dodici rate mensili. Le parti avevano indicato il valore rilevante ai fini dell’imposizione indiretta che l’Ufficio aveva utilizzato al fine di determinare la plusvalenza da recuperare a tassazione. La commissione adita, dopo aver svolto alcune più generali considerazioni in ordine al contratto tipico di rendita vitalizia previsto e disciplinato dagli artt. 1872 ss. c.c., sgombra immediatamente il campo da possibili fraintendimenti nell’identificazione della controprestazione del cessionario, individuando nelle rate che il cessionario si obbliga a pagare, non già nel valore della farmacia indicato nel contratto (ai soli fini dell’imposizione indiretta), il corrispettivo della cessione. La Commissione, inoltre, distingue la (unitaria) fattispecie in esame dalla diversa ipotesi di stipulazione di due distinti contratti, uno di vendita con incasso del prezzo e uno di costituzione di rendita

P.Q.M. la Commissione in accoglimento del ricorso annulla l’avviso d’accertamento impugnato. Condanna l’Amministrazione Finanziaria a rifondere al ricorrente le spese della procedura che liquida In euro 5.000,00, oltre agli accessori di legge.


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sez. VIII, 14 aprile 2005, n. 63, (in Riv. Giur. Trib., 2005, 745 con nota di FERRARIO, Cessione di azienda e costituzione di rendita vitalizia: il problema della tassazione delle plusvalenze); Comm. trib. prov. Modena, sez. III, 2 aprile 2002, n. 417 (in Ragiufarm., 2003, 73 68); Comm. trib. prov. Firenze, sez. II, 11 febbraio 1999, n. 103 (in Rass. Dir. Farm., 2000, 667); Comm. trib. prov. Frosinone, sez. II, 11 novembre 1998, n. 147 (in Ragiufarm., 1999, 51 92); Comm. trib. prov. Frosinone, sez. II, 8 giugno 1998 (in Rass. Dir. Farm., 1999, 145). La segnalata giurisprudenza, in casi analoghi, ha ritenuto non realizzata alcuna plusvalenza imponibile, proprio per l’incertezza della prestazione costituita dal versamento, in rate periodiche, di un capitale concretamente determinabile nel definitivo ammontare solo alla morte del vitaliziato, escludendosi un diretto incremento del patrimonio del cedente. Contra, si segnala Comm. trib. reg. Toscana, sez. XXXIV, 10 luglio 2000, n. 58 (in Giur. It., 2001, 633), in un contratto intestato «Trasferimento di farmacia con costituzione di rendita vitalizia», tuttavia con espressa indicazione del prezzo complessivo del trasferimento e di ben precisate modalità di pagamento, ha individuato due distinti contratti (contratto di cessione di farmacia e contratto di costituzione di rendita vitalizia), ritenendo assoggettabile ad imposizione la plusvalenza realizzata. Oltre alla dottrina citata supra, cfr. NUSSI, In tema di rendita vitalizia, ovvero l’aleatorietà della misura del

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corrispettivo nell’imposizione sui redditi, in Riv. Dir. Trib., 1993, I, 107 e spec. 119 ss., secondo il quale la rilevanza reddituale della plusvalenza a rigore emergerebbe solo a partire dal periodo in cui maturino crediti alle singole rate di vitalizio (eventualmente) eccedenti il valore fiscalmente riconosciuto: soluzione di cui l’autore non manca di sottolineare l’insufficienza sistematica, a differenza di quella volta a determinare ex ante il corrispettivo della cessione, pari al credito attualizzato al vitalizio, salva la disciplina delle sopravvenienze. Sulla configurabilità in casi consimili di una plusvalenza non già da cessione a titolo oneroso, ma per destinazione (del bene) a finalità extraimprenditoriali, con possibilità di determinare la plusvalenza con riferimento al valore normale, v. MICCINESI, Le plusvalenze d’impresa, Milano, 1993, 194, note n. 78 e 197. Da ultimo, sulla configurabilità di una plusvalenza tassabile, ma nella diversa ipotesi in cui il soggetto beneficiario della rendita vitalizia sia terzo rispetto ai contraenti la cessione d’azienda, si veda il parere n. 30 del 14 ottobre 2005 del Comitato antielusivo, con il quale è stato statuito che «la cessione onerosa di un’azienda, da parte di una società, rende imponibile il corrispettivo dell’avviamento, secondo il criterio di competenza, anche nel caso in cui il corrispettivo è rappresentato da una costituzione di rendita vitalizia a beneficio dei soci», individuando il corrispettivo mediante calcoli attuariali, in funzione di tabelle di probabilità di sopravvivenza.

Commissione tributaria regionale del Friuli Venezia Giulia, sez. I, 21 novembre 2006, n. 84 Presidente: Turco - Relatore: Di Martino Irpef - Indennità supplementare dirigenziale Natura reddituale - Imponibilità - Esclusione (D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, artt. 6, 17, 49) L’indennità supplementare dirigenziale, se tesa a ristorare il danno per perdita irrimediabile del precedente status recato dalla lesione all’immagine professionale e alla vita di relazione del contribuente, non compensa la perdita di redditi futuri: se ne deve quindi escludere la natura reddituale e la tassabilità. Svolgimento del processo Con atto notificato il 21 agosto 2001 e depositato il 25 settembre 2001, l’Agenzia delle Entrate di Udine appellava dinanzi alla Commissione tribu-

taria regionale di Trieste la decisione della Commissione tributaria provinciale di Udine indicata in epigrafe, depositata il 4 settembre 2000, con la quale era stato accolto il ricorso di A. I. avverso la cartella di pagamento, annullata per l’effetto, con cui il Centro servizi di Venezia – in sede di liquidazione ex art. 36-bis, D.P.R. 600/73 della dichiarazione mod. 102 presentata per l’anno 1992 – aveva iscritto a ruolo la somma di lire 15.118.000 a titolo di maggiore Irpef, riprendendo a tassazione importi percepiti nel 1992 dal contribuente a titolo di “indennità supplementare dirigenziale” a seguito della cessazione del rapporto di lavoro dipendente causata dal fallimento del datore di lavoro, la società T. S.p.A. Con detta sentenza, distinguendosi tra prestazioni reddituali e prestazioni risarcitorie da definirsi nel momento della qualificazione dell’erogazione, si


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assumeva – in forza dell’art. 6, comma 2, T.U.I.R. – che nel caso di specie l’indennità era stata erogata al dirigente licenziato per riparare a un danno di natura emergente da lui subito e non per compensarlo di un mancato reddito futuro, concludendosi quindi che – venuto meno il presupposto di cui al citato art. 6, T.U.I.R. – si trattava nel caso de quo di coprire una perdita di natura patrimoniale, esclusa da tassazione perché non assimilabile a provento sostitutivo di reddito di lavoro dipendente, né a indennità risarcitoria di danno consistente in perdita di reddito di lavoro dipendente. Con il proprio gravame, l’appellante Agenzia delle Entrate nel chiedere con vittoria di spese riforma della sentenza e conferma dell’impugnata cartella di pagamento, contrariamente sosteneva che la somma percepita a titolo di indennità supplementare dirigenziale era stata assoggettata a tassazione separata come reddito di lavoro dipendente, in forza degli artt. 48, comma 1; 6, comma 2; 16, comma 1 e 46, comma 2 del T.U.I.R. 917/1986; veniva quindi assunto come motivo di appello avverso l’indicata sentenza la sola natura reddituale dell’indennità supplementare, abbandonandosi le altre questioni procedurali e concludendosi per la correttezza dell’operata tassazione dell’indennità supplementare dirigenziale. A sostegno, l’Ufficio affermava che in forza degli artt. 6, 46 e 48 T.U.I.R., la natura retributiva e la conseguente tassabilità delle somme erogate al lavoratore si ricava dalla corresponsione delle stesse in dipendenza del rapporto di lavoro, senza riferimento alcuno allo stretto ambito sinallagmatico rispetto al lavoro svolto; e che per l’art. 16, T.U.I.R., soggiacciono alla tassazione separata le indennità, somme e valori comunque percepiti anche a titolo risarcitorio. Con proprie controdeduzioni depositate il 25 settembre 2001, il contribuente chiedeva con vittoria di spese il rigetto dell’appello dell’Ufficio con conferma dell’appellata sentenza e condanna al rimborso di imposte eventualmente pagate e interessi al tasso fiscale nonché interessi anatocistici al tasso legale, argomentando in proposito sull’intempestività della liquidazione ex art. 36-bis, D.P.R. 600/73, nonché sull’intassabilità dell’indennità supplementare. Sotto quest’ultimo profilo, il contribuente sottolineava che l’oggetto del contendere riguardava l’errore materiale all’origine dell’iscrizione a ruolo (sommatoria errata del rigo 7, col. 2, quale numeratore della formula di calcolo), mentre la questione di diritto circa la natura dell’indennità supplementare dirigenziale riguardava una materia del contendere già pendente in Cassazione per silenzio-rifiuto sul rimborso di ritenute Irpef operate.

Con nota depositata il 18 maggio 2006, il contribuente chiedeva l’estinzione del processo per cessazione della materia del contendere ex art. 46, D.Lgs. 546/92, sul presupposto dello sgravio totale della cartella di pagamento disposto dal Centro Servizi di Venezia con avviso del 25 ottobre 2001. Con ordinanza del 6 giugno 2006 questa Commissione tributaria regionale ha chiesto l’acquisizione di elementi da parte dell’appellante Agenzia delle Entrate in ordine a detta istanza di estinzione del giudizio formulata dal contribuente, rinviando per la decisione al 3 ottobre 2006. Con nota 66717 del 21 giugno 2006, l’Agenzia delle Entrate di Udine ha precisato che lo sgravio della cartella di pagamento n. 9404102 segnalato dal contribuente è stato effettuato ai sensi dell’art. 68, D.Lgs. 546/92 in dipendenza dell’appellata sentenza 168/04/00 e che pertanto la richiesta di controparte di estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere è da respingere, essendo la controversia ancora pendente presso questa Commissione tributaria regionale su appello dell’Ufficio che, qui richiamando l’appello stesso, conferma la richiesta di riforma dell’impugnata sentenza, indicata in epigrafe. Motivi della decisione La Commissione, letti gli atti di causa e considerate le ragioni e le richieste esposte dalle parti, nel respingere per quanto sopra la richiesta di estinzione del giudizio formulata dal contribuente, ritiene infondata la tesi sostenuta dall’appellante Agenzia in ordine alla tassabilità dell’indennità supplementare corrisposta a seguito di cessazione del rapporto di lavoro dirigenziale dipendente. La somma di lire 55.220.490 erogata nell’anno 1992 al contribuente dalla società T. S.p.A. dichiarata fallita recava titolo e motivazione di “indennità supplementare dirigenziale” per cui in essa non poteva ragionevolmente configurarsi per pattuizione di contratto di lavoro alcuna valenza retributiva di perdita di redditi futuri derivante dal fallimento del datore di lavoro, piuttosto invece che elemento risarcitorio, esterno a quel medesimo rapporto di lavoro, per ciò che oggettivamente poteva conseguire alla posizione indebolita del dirigente sul mercato del lavoro proprio a seguito del fallimento della società presso cui lavorava, appunto in qualità di dirigente, con danno emergente in ordine al proprio prestigio e immagine professionale di dirigente di azienda fallita, con comprensibile calo probabilistico nella ricerca di nuova posizione lavorativa nella stessa dimensione di qualificazione professionale, dirigenziale, tempo-


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rale e territoriale all’altezza del posto perduto. Giova, nella controversa materia sulla tassazione di siffatte indennità, richiamare la recente sentenza n. 16014/2004 della Corte di Cassazione che, sul punto, invita sostanzialmente a distinguere tra indennità supplementare con cui si vuole risarcire la perdita di prestigio e di opportunità lavorative derivanti dalla cessazione del rapporto di lavoro dirigenziale e indennità supplementare con cui si vuole invece risarcire la perdita di redditi futuri in relazione all’interruzione del rapporto di lavoro. Nella concreta fattispecie oggetto della controversia, la causa dell’indennità supplementare dirigenziale, evidenziata nei richiami contenuti nelle deduzioni effettuate dal contribuente anche all’art. 19, C.C.N.L., risiedeva evidentemente nella volontà delle parti di risarcire il dirigente estromesso dal rapporto di lavoro che era venuto a cessare per situazioni aziendali non imputabili al dirigente stesso, dandosi così luogo al ristoro del danno per perdita irrimediabile del precedente status, recato dalla lesione all’immagine professionale e al-

la vita di relazione del contribuente; danno conseguente all’interruzione del rapporto di lavoro originata da intervenuta dichiarazione di fallimento del datore di lavoro, la società T. S.p.A. Detta indennità risultava fra l’altro aggiuntiva all’indennità di preavviso, essa sì funzionalizzata specificamente al recupero del lucro cessante (perdita di redditi futuri). Non si concretizzava quindi alcun diretto e univoco collegamento causale dell’indennità supplementare dirigenziale con aspetti retributivi specificamente funzionali a compensare perdita di redditi futuri, con ciò risultante esclusa nella concreta fattispecie la natura reddituale dell’indennità e la sua tassabilità. In relazione a quanto sopra, la Commissione ritiene pertanto di dover concludere per il rigetto dell’appello dell’Ufficio confermando, per l’effetto l’appellata sentenza; ogni altra questione risultante assorbita. Sussistono giusti motivi, anche per incertezze interpretative in ordine al quadro normativo di riferimento, per la compensazione delle spese.

Nota

Così statuendo, la sentenza si allinea ad una pronuncia della Corte di Cassazione che costituisce precedente autorevole e assai frequentemente richiamato in materia. La Corte, infatti, con la decisione del 2 febbraio 2001, n. 1467 (in Giur. Imposte, 2001, 519 ss.) ha sostenuto che, alla luce del dettato dell’art. 6, comma 2, T.U.I.R., l’indennità può essere considerata imponibile solo ove risulti destinata «a coprire un danno consistito nella perdita di redditi e non un pregiudizio diverso». Con il che, la Cassazione offre una lettura gerarchicamente ordinata degli artt. 7, 17 e 49 del T.U.I.R. (in precedenza, 6, 16 e 48): le somme corrisposte in dipendenza della cessione del rapporto di lavoro sono da considerarsi imponibili solo se risarciscono un lucro cessante e non ove ristorino un danno emergente. Successivamente, la Corte ha avuto modo di ribadire il principio di diritto, dogliandosi però dell’assai limitata operazione di interpretazione contrattuale solitamente operata dalle Commissioni: «Al di là delle (più o meno) conformi affermazioni di principio, però, l’esame della giurisprudenza di questa Corte [...] consente di riscontrare una effettiva difformità di risultati concreti perché, nella sostanza, sono state avallate le contrastanti soluzioni date dai giudici di merito allo stesso problema [...]. Da un’analisi più approfondita delle stesse sentenze [di merito, ndr], poi, emerge che le motivazioni fattuali date dal giudice del merito – motivazioni [...] incensurabili in sede di legittimità

Con la sentenza in epigrafe la Commissione tributaria regionale di Trieste affronta il tema del trattamento fiscale dell’indennità supplementare dirigenziale. Tale indennità non è prevista dalla legislazione, ma dalla contrattazione collettiva e spetta al dirigente che sia stato licenziato ingiustificatamente; la misura della stessa è «graduabile in relazione alle valutazioni del Collegio circa gli elementi che caratterizzano il caso in esame fra: – un minimo, pari al corrispettivo del preavviso individuale maturato, maggiorato dell’importo equivalente a due mesi del preavviso stesso; – un massimo, pari al corrispettivo di 22 mesi di preavviso» (così l’art. 19 del Contratto collettivo nazionale di lavoro per i dirigenti di piccole e medie aziende industriali); è poi prevista una corresponsione ulteriore ove l’età del dirigente sia compresa tra i 46 ed i 56 anni. Nella decisione annotata i giudici di Trieste propendono per la non imponibilità dell’indennità supplementare, in quanto questa non tende a ristorare la perdita di danni futuri, ma piuttosto il danno emergente relativo al «prestigio e immagine professionale di dirigente di azienda fallita, con comprensivo calo probabilistico nella ricerca di una nuova posizione lavorativa nella stessa dimensione di qualificazione professionale, dirigenziale, temporale e territoriale all’altezza del posto perduto».


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– non concernono affatto l’interpretazione della specifica norma contrattuale [...] e non contengono nessuna valutazione della natura desumibile dalla fonte contrattuale collettiva onde riscontrare la specifica natura risarcitoria del danno [...] che le parti collettive hanno inteso attribuire ad essa» (Cass., 17 agosto 2004, n. 16014, in Riv. Giur. Trib., 2005, 127 ss. e, con le stesse parole, Cass., 3 febbraio 2005, n. 2184, in Jurisdata - Cassazione civile). L’orientamento giurisprudenziale inaugurato da Cass., 1467/01 ha peraltro posto nel nulla una risalente posizione ministeriale (ris. 31 dicembre 1977, prot. 1383, in dt.finanze.it), mai aggiornata dall’amministrazione, in cui si assimilava l’indennità supplementare dirigenziale all’indennità sostitutiva di preavviso, con la conclusione secondo cui l’erogazione sarebbe imponibile (in origine ex art. 12, D.P.R. 597/1973, ora ex art. 17 D.P.R. 917/1986). In dottrina non si registra una posizione unitaria intorno al trattamento dell’indennità in questione: mentre parte degli autori ritiene che l’indennità abbia natura sanzionatoria del datore di lavoro e quindi non possa configurarsene l’imponibilità (cfr. CROVATO, Il trattamento tributario dell’indennità supplementare per il licenziamento ingiustificato del dirigente,

in Riv. Dir. Fin., 1990, II, 89 ss. e LOLLIO, La tassazione dell’indennità per licenziamento ingiustificato, una questione ancora aperta, in Rass. Trib., 2003, 222 ss.), altra parte ritiene che l’indennità sia imponibile, vuoi perché ha una funzione plurima (PURI, A proposito del trattamento fiscale dell’indennità supplementare per licenziamento ingiustificato, in Riv. Dir. Trib., 1992, II, 251 ss.), vuoi perché la si ritiene discendente da una clausola penale che risarcisce lucro cessante (BELLÈ, Indennità supplementare per licenziamento illegittimo di dirigente d’azienda ed imposizione sul reddito, in Giust. Civ., 1992, 2585 ss.). Da ultimo, si segnala una pronuncia della Cassazione non perfettamente allineata alla lezione maggioritaria della Corte, ma piuttosto a quella parte della dottrina che sostiene la natura ibrida dell’indennità. Cass., 16 settembre 2005, n. 18369 (in dt.finanze.it) ha infatti ravvisato nell’indennità un «carattere forfetario ed onnicomprensivo» che può far riferimento «sia a voci di risarcimento soggette a tassazione che a voci che ne sono esenti». Ne discende che, in un procedimento conseguente ad un diniego di rimborso, rimarrebbe onere del contribuente provare «che l’indennità si riferisce (in tutto o in parte) a voci di risarcimento puro, esenti da tassazione».


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IRPEF E IVA SULLA NATURA DEL REDDITO DERIVANTE DALLA CESSIONE DEI DIRITTI DI SFRUTTAMENTO DI UNA CAVA 20

Commissione tributaria regionale della Lombardia, sez. XXXVIII, 21 giugno 2006, n. 69 Presidente: Sacchi – Estensore: Colavolpe Irpef e Iva - Vendita di materiali inerti da estrarre da una cava - Esercizio di impresa commerciale da parte del proprietario della cava - Esclusione (D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 55; D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 4) La vendita di materiali inerti da estrarre da una cava non costituisce esercizio di impresa commerciale da parte del proprietario della cava, né ai fini delle imposte dirette, né ai fini Iva. Svolgimento del processo 1.1 La Commissione tributaria provinciale di Milano con sentenza (n. 173/4/04), depositata l’8 luglio 2004, ha accolto il ricorso della sig.ra M. L. M. avverso l’avviso di accertamento per l’anno d’imposta 1998 (ai fini Irpef, Irap e Iva), emesso dall’Agenzia delle Entrate – Ufficio di Milano 1 e notificato alla contribuente il 27 novembre 2003; avviso di accertamento che evidenzia maggiori imposte per complessivi euro 711.711,18 e sanzioni per euro 696.405,73 (oltre agli interessi di legge). 1.2 L’avviso di accertamento impugnato, emesso ai sensi dell’art. 38, commi 1 e 2 del D.P.R. n. 600/1973 e dell’art. 54 del D.P.R. n. 633/1972, scaturisce dal Pv di constatazione elevato dalla Guardia di Finanza di Ravenna, a carico della contribuente, il 19 settembre 2000, a cui l’avviso di accertamento fa espresso e totale richiamo, nonché dal connesso Pvc elevato dalla stessa Guardia di Finanza di Ravenna il 31 luglio 2000, a carico della società C. S. B. S.p.A. I rilievi della Guardia di Finanza si riferiscono al contratto concluso (mediante scambio di corrispondenza: 30 giugno – 8 luglio 1995) fra la sig.ra M. (proprietaria della cava in località Fosso Ghiaia, Comune di Ravenna, della superficie di circa ha 80.00.00) e la citata società (di cui la sig.ra M. era socia e ricopriva la carica di presidente e legale rappresentante). Il contratto concerne la vendita

di tutto il materiale estraibile (lapideo e non lapideo) contenuto nel terreno. In particolare, l’assunto della Finanza essenzialmente si fonda sulla asserita configurazione di imprenditore commerciale individuale, in capo alla ricorrente, quale venditrice del giacimento (cava) oggetto di escavazione da parte della C. S. B. S.p.A.”. 1.3 Propone appello l’Agenzia delle Entrate – Ufficio di Milano 1, che lamenta l’erroneità della sentenza impugnata in ordine a numerosi punti: 1) l’omessa pronuncia sui ricavi per cessione del materiale; 2) l’omessa pronuncia sulla sussistenza di un’attività di impresa assoggettabile ad Iva; 3) la motivazione della sentenza sul “tipo di contratto”; 3.1) il “contratto di vendita in genere” dell’8 luglio 1995: il contenuto delle disposizioni; 3.2) gli effetti del contratto sul piano del diritto civile; 3.3) la connotazione dello schema “misto” previsto dall’ufficio; 3.4) la censura della sentenza per contraddittorietà della motivazione. Il vantaggio fiscale dell’accordo; 4) gli elementi a favore della ricostruzione dell’Ufficio. La compagine sociale della C. S. B. S.p.A. e la carica della M. Ampiamente svolte le proprie difese l’Agenzia delle Entrate così conclude: voglia la Commissione tributaria regionale adita, ogni istanza disattesa ed eccezione respinta, ad integrale riforma della sentenza impugnata, dichiarare legittimo l’avviso di accertamento emesso dall’Ufficio. 1.4 A mezzo dei propri difensori si è ritualmente costituita, nel presente procedimento, l’appellata contribuente che propone appello incidentale avverso la citata sentenza relativamente alla compensazione delle spese di lite decisa dai primi giudici. La contribuente segnale l’inconsistenza giuridica dell’appello dell’Agenzia delle Entrate e ampiamente svolge le proprie difese riproponendo tutte le questioni già sollevate nel ricorso introduttivo del giudizio in ordine alle illegittimità e nullità dell’avviso di accertamento notificato. In particolare, precisa che l’atto di imposizione essenzialmente si fonda sull’errato presupposto: a) della qualifica di imprenditore in proprio in ca-


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po alla sig.ra M. L. M. ex artt. 2082 c.c. e 2195 c.c.; b) dell’esistenza di un contratto d’appalto ex art. 1655 c.c. fra la stessa M. e la società escavatrice C. S. B. S.p.A.; c) dell’esistenza di un contratto di permuta ex art. 1522 c.c. fra la stessa M. e la suddetta società per una pretesa (e non configurabile) compensazione fra il corrispettivo o i corrispettivi dell’appalto suindicato dovuti dalla M. e l’avere da parte della medesima di un (preteso) maggior prezzo dei materiali forniti dalla M. M. L. alla società acquirente (ibidem). La ricorrente segnala, inoltre, la sentenza di totale assoluzione (perché il fatto non sussiste) passata in giudicato, per gli stessi fatti contestati in sede penale, pronunciata dal Tribunale di Milano in data 25 ottobre 2002. L’appellata e appellante incidentale, ampiamente svolte le proprie difese, così conclude: «Piaccia a questo on. Collegio, contrariis reiectis: a) di dichiarare assolutamente infondato ed illegittimo e quindi respingere totalmente l’atto di appello dell’Agenzia delle Entrate – Ufficio di Milano 1, per plurima violazione dell’art. 53, D.L. 31 dicembre 1992, n. 546 confermando la sentenza di primo grado salvo per quanto concerne la compensazione delle spese processuali; b) di accogliere l’appello incidentale qui proposto dalla contribuente in relazione all’art. 92, comma 2, c.p.c., imputando le spese processuali interamente a carico della controparte. Con vittoria di spese, procuratorie ed onorari anche del presente grado di giudizio. 1.5 La controversia viene trattata in pubblica udienza, su richiesta della contribuente. Motivi della decisione 2.1 L’appello principale dell’Agenzia delle Entrate è infondato e, pertanto, deve essere respinto. 2.2 Con l’avviso di accertamento (n. R1PO1A400113-2003) impugnato, che scaturisce dal Pvc redatto il 19 settembre 2000 dalla Guardia di Finanza di Ravenna a carico della ricorrente sig.ra M., l’Agenzia delle Entrate attribuisce alla stessa ricorrente la qualità di imprenditore individuale e come tale la ritiene obbligata ad adempiere a quanto previsto dalla normativa civilistica e fiscale. 2.3 La tesi dell’amministrazione finanziaria, tenuto anche conto delle considerazioni svolte negli atti del procedimento contenzioso, essenzialmente, si fonda sul presupposto che la sig.ra M., in quanto proprietaria della cava (posta in località Fosso Ghiaia del Comune di Ravenna) e socia (di maggioranza) della S.p.A. C. S. B. (di cui ricopriva pure la carica di presidente e legale rappresentante)

avrebbe approfittato della sua posizione preminente per concedere fittiziamente lo sfruttamento della cava alla società medesima ed operare, in proprio, tale sfruttamento. 2.4. Inoltre, la vicenda viene frammentata in più momenti (estrazione, selezione, lavaggio, pesatura, specificazione e vendita del materiale lapideo e non) ed il contratto (stipulato mediante scambio di corrispondenza, nelle date 30 giugno - 8 luglio 1995, fra la sig.ra M. e la C. S. B. S.p.A. per la compravendita di «tutto il materiale estraibile lapideo e non lapideo» contenuto nella cava (di seguito il “contratto”), viene poi dalla Finanza scomposto in due distinti negozi giuridici di appalto e di permuta. 2.5 E più precisamente, l’amministrazione finanziaria vi ravvisa singole vendite intervenute tra due imprenditori commerciali (uno individuale ed uno societario) sotto forma di servizi d’appalto (art. 1655 c.c.) mediante operazioni di scavo, lavaggio, trasporto, pesatura ecc., da parte della società (in persona dell’amministratore delegato, A. D. V., coniuge dell’alienante) in favore della M., che le avrebbe poi pagate con compensazioni sulle misure dei prezzi di vendita: il tutto estrinsecandosi in una permuta (art. 1552 c.c.) senza fatturazione fiscalmente verificabile, in cui la M. (considerata come imprenditrice commerciale, ai sensi dell’art. 2195 c.c.) malgrado la contraria specifica affermazione della stessa M., inserita nel menzionato contratto di compravendita: cfr. art. 11) avrebbe dovuto riaddebitare i costi delle prestazioni ricevute nell’ambito della fatturazione per la cessione dei propri beni alla citata società. 2.6. Ciò premesso occorre preliminarmente considerare che, anche secondo l’orientamento giurisprudenziale oramai consolidato dalla Suprema Corte di Cassazione e della Commissione tributaria centrale, i contratti di escavazione di miniere e cave, implicanti il diritto di scavare e prendere materiali da terreni possono assumere atteggiamenti e configurazioni a seconda delle intenzioni e del loro oggetto, aderire ai tipi fondamentali della vendita immobiliare o della vendita mobiliare dei prodotti da estrarre oppure della locazione a seconda che, in conformità della volontà contrattuale, oggetto del negozio sia stato considerato il giacimento minerario nella sua complessa stratificazione intesa in unità di superficie e di volume ovvero il prodotto della estrazione, ragguagliato a peso o a misura, o, infine, il godimento temporaneo della cosa secondo la sua destinazione, con quel metodo di scavo che corrisponde al normale sfruttamento a fronte della corrensponsione di un canone forfetario, eventualmente da corrispondersi anche se non


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si proceda all’estrazione (cfr. Cass. n. 6269/1980; Comm. trib. centr. n. 2155/1986). 2.7 In altri termini, è possibile distinguere tre tipologie principali di contratto, a cui corrispondono differenti tipi di tassazione: a) vendita immobiliare: se le parti hanno considerato come oggetto del negozio il giacimento nella sua complessa stratificazione, intesa in unità di superficie e volume (si tratta, in sostanza, del terreno su cui insiste la cava); b) vendita mobiliare dei prodotti da estrarre: se le parti hanno avuto riguardo agli stessi, determinati in peso e misura con la previsione di un corrispettivo unitario per ogni tipo di materiale estratto; c) locazione: se le parti hanno fatto riferimento al godimento temporaneo della cosa in base alla sua destinazione. 2.8 Relativamente al caso in esame occorre, altresì, considerare che, secondo quanto previsto dal citato contratto di compravendita e da quanto appurato dalla Guardia di Finanza, la C. S. B. S.p.A. procedeva all’estrazione del materiale (lapideo e non lapideo) mediante sfruttamento del terreno (cava) di proprietà della sig.ra M., con proprie attrezzature e personale alle proprie dipendenze, alla selezione, al lavaggio ed al caricamento dei prodotti finiti su mezzi nella disponibilità dei clienti. Il materiale era, pertanto, di proprietà della titolare del terreno che, quindi, provvedeva a cedere e vendere alla Società medesima lo stesso maetriale. I prezzi di vendita, fra le parti, erano poi computati sulla base del listino di vendita al pubblico come indicato appositamente (v. art. 4 del contratto). 2.9. Va pure considerato, in relazione alla rilevante questione concernente la qualifica di imprenditore commerciale attribuita dalla Finanza alla sig.ra M. che, ai sensi dell’art. 2082 c.c., deve sussistere: a) l’esercizio di una attività economica; b) la produzione o lo scambio di beni e servizi; c) l’organizzazione dell’attività svolta; d) la continuità nel tempo dell’attività. 2.10 Sulla base di quanto premesso e considerato, la tesi della Finanza non risulta convincente. La fattispecie si presenta, infatti, come contratto di vendita di genere del materiale da estrarre, ai sensi dell’art. 1378 c.c. (oggetto da individuarsi qualitativamente e quantitativamente dopo la sua estrazione). Si tratta cioè di una vendita mobiliare di materiale inerte, ancora da estrarre; nonché, sotto diverso profilo, di un mero disinvestimento patrimoniale. 2.11 L’assunto, sostenuto dalla Finanza, secondo cui nel contratto in questione (simulato) se ne fondino, in realtà, due diversi (quello di appalto e quello di permuta) non risulta supportato né da

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elementi probanti, né dal testo del contratto stesso e neppure dalla volontà delle parti (che deve essere il criterio guida per l’interpretazione delle convenzioni pattizie); inoltre, non sussiste alcun elemento probante che possa far ritenere che i materiali siano stati estratti ad opera della C. S. B. S.p.A. per conto della M. e, successivamente, venduti al cliente. 2.12 Nella compravendita stipulata dalla sig.ra M. non è ravvisabile alcun tipo di attività imprenditoriale, poiché la stessa ha agito come persona fisica e non come imprenditrice. Nessuna attività sistematica e continuativa può individuarsi nel comportamento della sig.ra M. e l’unica attività posta in essere dalla stessa è consistita nella sottoscrizione del contratto e nella percezione dei corrispettivi stabiliti; ed, ancora, ai fini della sussistenza dell’ulteriore elemento “organizzazione” (necessario per l’assunzione della qualifica di imprenditore commerciale), nessuna rilevanza può assumere il fatto che il controllo sulla pesa automatica (e delle bollette di uscita del materiale), nonché l’emissione delle ricevute mensili, fossero effettuate dal figlio (G. D. V.), con l’ausilio di un proprio computer, nella propria abitazione (diversa da quella della sig.ra M.). Infine, per completezza occorre aggiungere che, a questi fini, neppure rileva il fatto che la sig.ra M. fosse anche titolare di una impresa agricola, poiché certamente non attinente alla attività di cui alla questione in esame. Tutta l’attività di estrazione, selezionatura, lavaggio e vendita a terzi è stata poi svolta dalla C. S. B. S.p.A., con una propria organizzazione e con riconoscimento alla sig.ra M. dei corrispettivi pattuiti per lo sfruttamento della cava. 2.13 Infine tenuto, altresì, conto che nella fattispecie in esame non rileva che la stessa sig.ra M. fosse socia della C. S. B. S.p.A. e ricoprisse la carica di presidente e legale rappresentante della società (dovendosi poi ritenere che la responsabilità dell’amministratore di una società per azioni, ex art. 2391 c.c. è configurabile solo in relazione alle deliberazioni del consiglio di amministrazione, al quale l’amministratore partecipi), deve escludersi che nella condotta della sig.ra M. si possa ravvisare quell’esercizio professionale di attività organizzata ai fini della produzione o dello scambio di beni o servizi che l’art. 2082 c.c. richiede perché possa sussistere un’attività imprenditoriale; e, pertanto, deve escludersi che la stessa sig.ra M. fosse tenuta agli obblighi tributari prescritti per gli imprenditori commerciali. 2.14 Tanto basta (alla luce di un’abbondante giurisprudenza tributaria in senso conforme, come pure dell’assoluzione con la formula più ampia ottenuta


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dalla sig.ra M. in sede penale) a far disattendere le censure di cui all’appello principale (con salvezza dell’impugnata sentenza), il che rende inammissibile quello incidentale (proposto dalla sig.ra M. M. L.), mentre le spese del giudizio di secondo grado seguono la soccombenza e si liquidano in complessivi ventimila euro (comprendenti spese processuali ed onorari difensivi), che l’Ufficio appellante do-

vrà rifondere alla sig.ra M. L. M. per i suoi oneri di costituzione e difesa in seconda istanza.

Nota di Alessandro Turchi

dei propri argomenti anche in sede di gravame. Dopo aver dedicato ampio spazio alla qualificazione civilistica della fattispecie (considerata un «contratto di vendita di genere del materiale da estrarre ai sensi dell’art. 1378 c.c.»), i giudici d’appello hanno infatti escluso che fosse ravvisabile «alcun tipo di attività imprenditoriale» da parte della proprietaria della cava, «poiché la stessa ha agito come persona fisica e non come imprenditrice», senza svolgere «nessuna attività sistematica e continuativa» ed affidando invece alla società «tutta l’attività di estrazione, selezionatura, lavaggio e vendita a terzi». La pronuncia si inserisce nell’ambito di un filone giurisprudenziale consolidato nell’enunciazione di alcuni princìpi generali, la cui applicazione conduce peraltro – anche in virtù delle peculiarità dei casi affrontati – a soluzioni non sempre uniformi.

L’autore esamina attraverso l’analisi di dottrina e giurisprudenza la portata del principio espresso sia nell’art. 51, T.U.I.R., in materia di imposizione diretta, nonché dall’art. 4, comma 1, D.P.R. n. 633 del 1972, in materia di Iva, per cui l’attività di impresa commerciale richiede il requisito della professionalità abituale, ancorché non esclusiva, prescindendo dal requisito organizzativo, che invece rappresenta un elemento qualificante ed imprescindibile per la configurazione dell’impresa commerciale agli effetti civilistici. Premessa Nel caso affrontato dalla sentenza in commento una signora, proprietaria di una cava e socia di maggioranza (oltre che presidente e legale rappresentante) di una società di escavazione, aveva concluso con la società un contratto avente ad oggetto la vendita di tutto il materiale contenuto nel terreno, che la stessa società si era impegnata ad estrarre, selezionare e lavare, per fornire poi ai clienti finali. Non è dato intendere dalla lettura della sentenza se il corrispettivo incassato fosse stato dichiarato dalla signora. L’Ufficio aveva riqualificato l’operazione sia sotto il profilo oggettivo – ravvisando in essa distinti contratti di appalto e di permuta, in forza dei quali la proprietaria del terreno avrebbe pagato i servizi appaltati alla società con riduzioni dei prezzi di vendita del materiale estratto – sia dal punto di vista soggettivo, attribuendo alla signora lo status di imprenditore commerciale ai fini Irpef ed Iva: dal che l’accertamento di ricavi non dichiarati e della loro omessa fatturazione. Entrambi i profili erano stati contestati in giudizio dalla contribuente che, vinto il ricorso di primo grado, ha visto riconosciuta la fondatezza

1 Cass., 2 dicembre 2002, n. 17013, in banca dati Fisconline. 2 Ai sensi del quale, come noto, «per esercizio di imprese commerciali si

P.Q.M. La Commissione conferma la sentenza impugnata e liquida le spese in euro 20.000,00 onnicomprensive, a carico della parte soccombente.

Il requisito della professionalità abituale Per quanto riguarda l’imposizione diretta, è assodato il principio secondo cui l’attività di impresa commerciale richiede il requisito della professionalità abituale, ancorché non esclusiva, ma «prescinde dal requisito organizzativo, che invece costituisce elemento qualificante ed imprescindibile per la configurazione dell’impresa commerciale agli effetti civilistici»1. Sulla base di tale principio – sancito dall’art. 51 (ora art. 55), comma 1 del Testo unico2 – la Corte di Cassazione ha censurato alcune pronunce di merito che avevano distinto l’attività d’impresa da quella di lavoro autonomo per il fatto che, nella prima, sarebbe stata richiesta «sotto il profilo oggettivo, l’esistenza di una organizzazione imprenditoriale»3; o che, in analoga prospettiva, avevano escluso la natura imprenditoriale del reddito derivante da attività d’intermediazione di beni, richiamandosi ancora «all’assenza di un’organizzazione in forma d’impresa» (in una fattispecie in cui

intende l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività indicate nell’art. 2195 c.c., anche se non organizzate in forma

d’impresa». 3 Cass., 13 dicembre 2002, n. 17894, in banca dati Fisconline.


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l’intermediario operava senza l’ausilio di collaboratori esterni, di locali adibiti a deposito e di mezzi di trasporto)4. Analogo discorso riguarda l’Iva che, ai sensi dell’art. 4, comma 1 del D.P.R. n. 633 del 1972, si applica ai soggetti esercenti attività d’impresa (commerciale ed agricola) anche non organizzata, se svolta «per professione abituale, ancorché non esclusiva». Il requisito dell’abitualità non viene ancorato dalla giurisprudenza a parametri temporali prestabiliti né al numero di operazioni compiute, perché «la abitualità, sistematicità e continuità dell’attività economica, come indice della professionalità necessaria per l’acquisto della qualità di imprenditore, vanno intese in senso non assoluto, ma relativo»: non è imprenditore chi compie occasionalmente isolate operazioni speculative, mentre lo diventa chi svolge un’attività protratta nel tempo per una durata apprezzabile, anche se finalizzata al compimento di «un unico affare di notevole rilevanza economica», articolato in «una serie di operazioni di una certa complessità»5 (come, nel caso esaminato dalla sentenza di cassazione appena citata, la costruzione di un fabbricato di notevoli dimensioni, comprendente venti appartamenti e re-

4 Cass., 6 novembre 2002, n. 15538, in banca dati Fisconline, ove si legge che «la rilevanza della natura dell’organizzazione è espressamente esclusa dal legislatore», essendo invece dato rilievo, ai fini della tassazione del reddito prodotto dall’impresa individuale, «al connotato di professione abituale, ancorché non esclusiva». 5 Cass., 10 maggio 1996, n. 4407, in Giust. Civ., 1997, I, 1062. 6 Per quest’ultima fattispecie si veda Cass., 18 giugno 2003, n. 9776, in banca dati Fisconline, la quale ribadisce che «il requisito della professionalità va desunto non astrattamente,

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lativi box destinati alla vendita a terzi; o, in altra fattispecie, la cessione, con contratti conclusi nel corso di sei anni consecutivi, di terreni estesi tra i 150 ed i 500 mq, verosimilmente destinati allo sfruttamento edificatorio perché di dimensioni troppo ridotte per l’uso agricolo6). Conclusioni Questi princìpi sono stati applicati dalla Corte di Cassazione anche con riguardo a fattispecie simili a quella in esame, perché relative anch’esse a contratti stipulati dai proprietari per lo sfruttamento di cave e la vendita dei materiali estratti. Allo sfruttamento della cava fa riferimento in particolare una recente pronuncia resa nei confronti di un Comune, proprietario del terreno, che aveva appaltato i lavori di estrazione e pagato in natura (con parte del materiale estratto) la società appaltatrice. La Corte – dopo aver ribadito che l’esercizio di impresa commerciale deve tradursi in un’attività continuativa e stabile, diversa dal compimento di atti isolati di produzione o commercio – ha escluso che potesse considerarsi tale la cessione conclusa dal Comune, seguìta dall’iscrizione in bilancio del credito dell’appaltatore e del suo corrispettivo7.

secondo parametri privi di riscontro effettivo, ma sulla base di dati strettamente correlati alla realtà che di volta in volta si presenta». Nella giurisprudenza della Commissione tributaria centrale, si vedano ex multis le decisioni n. 5667 del 6 ottobre 2000, in banca dati Fisconline (la quale ha escluso lo status di imprenditore commerciale di un “libero produttore” che, incaricato da una compagnia di assicurazione di procacciare affari e riscuotere le provvigioni pattuite, aveva incassato nel corso degli anni provvigioni assai modeste, «essendo logico presumere, in difetto di

altra prova, che la modesta entità delle provvigioni fosse ricollegabile ad un’attività occasionale, ancorché svolta in virtù di un titolo – la lettera di autorizzazione – che avrebbe legittimato lo svolgimento di un’attività diversa e più intensa») e n. 5084 del 23 ottobre 1997, ivi (che ha escluso la natura imprenditoriale dell’attività consistente nella ristrutturazione e nella successiva vendita di beni immobili). 7 Cass., 22 settembre 2003, n. 13999, in banca dati Fisconline.


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Commissione tributaria provinciale di Firenze, sez. IX, 21 dicembre 2006, n. 159 Presidente: Ognibene – Relatore: Giacinti. Irpeg - Reddito di impresa - Contratti di appalto - Accordi di durata infrannuale - Valutazione delle rimanenze a costi specifici (L. 27 luglio 2000, n. 212, artt. 7 e 12, comma 7; D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, 92, 93 e 110; L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3) Qualora un appalto sia disciplinato da due accordi separati, ciascuno di durata infrannuale, le rimanenze finali devono essere valorizzate a costi specifici, e non già in base ai corrispettivi. Svolgimento del processo La società T. S.r.l. ricorre avverso avviso accertamento, relativo al periodo d’imposta 2003, emesso dall’Agenzia delle Entrate – Ufficio di Empoli, con cui vengono accertate maggior Irpeg (euro 42.391,00), maggior Irap (euro 5.299,00), maggior Iva (euro 12.468,00) oltre irrogazione sanzioni (euro 63.586,50). L’atto impugnato deriva da P.V.C. (notificato il 22 marzo 2005) a seguito di verifica generale dell’Agenzia delle Entrate, con cui vengono recuperati a tassazione maggiori ricavi per euro 123.680,00 e costi deducibili per euro 1.000,00. Eccepisce in via preliminare il vizio di motivazione non essendo state considerate le osservazioni presentate ai sensi dell’art. 12, comma 7 dello Statuto del Contribuente, con ciò ledendo il proprio diritto alla difesa. Ritiene inoltre non corretta l’applicazione della media aritmetica a tutti i fattori della produzione per determinare i corrispettivi. Per quanto concerne le eccezioni di merito, rileva quanto segue: a) Cantiere D. F.: la società ha valutato le rimanenze a costo specifico mentre i verificatori hanno ritenuto che la valorizzazione dovesse avvenire a corrispettivo (art. 93 del T.U.I.R.) in forza del contratto d’appalto avente durata ultrannuale, rilevando maggiore valore dei fattori produttivi per euro 89.923,41. Di fatto l’appalto prevedeva due distinti accordi; non sono stati considerati i prospetti metrici estimativi e l’incidenza della manodopera sugli altri fattori produttivi è stata calcolata astrattamente a prescindere dalla realtà. È stata inoltre analizzata una fattura per acquisto mate-

riali a cui non corrisponde fattura emessa, pertanto, ritenendo ciò occultamento di corrispettivi, è stato valorizzato con ricarichi medi e recuperato ricavi non fatturati per euro 832,89; eccepisce che trattandosi di materiale per pavimentazione, è normale che vengono acquistate quantità superiori in caso di materiali fragili per sopperire ad eventuali rotture (punto 3.1 del ricorso). Censura anche l’aspetto procedurale in quanto il metodo adottato dai controllori viola il divieto del presumptio de presumpto (punto 3.2 del ricorso). b) Cantiere B. – C.: viene ritenuto indeducibile il costo di euro 1.000,00 relativo ad acquisto dall’impresa edile V. G. in quanto in fattura non è indicato il destinatario. Eccepisce che trattasi di violazione formale e non sostanziale e l’indeducibilità dovuta a mancanza degli elementi previsti dall’art. 21, comma 2, D.P.R. 633/72 si ha solo se il documento è assolutamente generico tale da non determinare l’inerenza della spesa; ciò non si riscontra nella fattispecie in esame (allega foto registri Iva) (punto 4 del ricorso). c) Cantiere T. – L.: vengono rilevati corrispettivi non fatturati per euro 31.780,79; si eccepisce il metodo utilizzato per la loro ricostruzione in quanto i dati presi a riferimento attengono ad altro cantiere le cui caratteristiche (ubicato in centro abitato) sono nettamente diverse da quelle del cantiere verificato (ubicato in aperta campagna) e quindi l’incidenza dei singoli costi (mezzi meccanici, lavori di scavo, tipologia della manodopera). Eccepisce inoltre il recupero per le opere di fondazione subappaltate, in quanto, mentre l’appalto originario è stipulato a corpo, il subappalto è stipulato a misura e quindi non sussiste il mancato addebito al committente di somme determinate con tariffe e criteri diversi. Anche in questo caso, in difetto di fatto noto, si utilizza una presunzione per arrivare ad altra presunzione (punto 5 del ricorso). d) Noleggio attrezzature: viene recuperato un maggior valore delle rimanenze finali per euro 1.192,98 in quanto i costi per noleggio attrezzature non risultano contabilizzati non essendo riaddebitati in fattura. Eccepisce che, trattandosi di beni utilizzati per brevi periodi nei vari cantieri aperti, non viene calcolata la quota d’incidenza specifica, essendo di difficile determinazione, ma viene utilizzato un criterio oggettivo cioè la percentuale tra costi sostenuti per simili attrezzature e volume


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complessivo dei ricavi; tale percentuale viene poi imputata alle rimanenze di ogni cantiere a fine anno; inoltre tali costi non vengono mai addebitati specificatamente alla clientela ma concorrono alla determinazione del corrispettivo finale al pari delle spese generali (punto 6 del ricorso). e) Blocco rapporto prestazioni operai: il rilievo per la mancata esibizione di tale registro è illegittimo non essendo obbligatoria la tenuta dello stesso e quindi non applicabile la sanzione per mancata esibizione di registri (punto 7 del ricorso). Chiede pertanto: – in tesi, dichiarare illegittimo l’avviso impugnato per difetto di motivazione; – in ipotesi, dichiarare illegittimo l’atto impugnato perché infondato in fatto ed in diritto; – dichiarare che niente è dovuto, con condanna dell’Ufficio al pagamento delle spese di giustizia nonché alla restituzione di eventuali somme versate e non dovute, nelle more del giudizio. Con istanza del 15 febbraio 2006 formula richiesta di fissazione d’udienza; in data 21 aprile 2006 presenta istanza per discussione in pubblica udienza; in data 28 aprile 2006 deposita memoria con la quale ribadisce l’infondatezza dell’atto impugnato sia in ordine alle procedure utilizzate, sia in ordine all’aver completamente disatteso le osservazioni depositate ante-contenzioso in data 21 maggio 2005, sia in ordine alla presunta precostituzione di prove per il giudizio per sopperire alla carenza in fase istruttoria. L’Agenzia delle Entrate – Ufficio di Empoli, con costituzione in giudizio del 22 novembre 2005, chiede il rigetto del gravame e la conferma del proprio operato. Espone quanto segue: 1. illegittimità dell’avviso per violazione dell’art. 12, comma 7, L. 212/00: rileva che nessuna violazione è stata commessa in quanto l’Ufficio ha esaminato la memoria al P.V.C. e ne ha dato conto, seppur succintamente, nelle motivazioni dell’avviso d’accertamento: peraltro tali osservazioni devono avere, seppur minimamente, un contenuto e forma probatoria e non limitarsi a mere dichiarazioni contrarie; 2. nel merito: l’eccezione rilevata dalla ricorrente sull’applicazione dei valori medi dei fattori produttivi derivano dai dati forniti dalla stessa società in fase di verifica. La valutazione delle rimanenze a costo specifico anziché a corrispettivo è errata trattandosi di lavori di durata ultrannuale come si evince dallo stesso contratto d’appalto (25 settembre 200231 dicembre 2003). In sede di verifica è stata chiesta la valorizzazione delle rimanenze dei lavori in corso a corrispettivo, ma la parte si è riservata di

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produrle in sede di presentazione delle osservazioni ex art. 12, comma 7, L. 212/00 (di fatto poi, questa è stata prodotta solo in sede contenziosa) e quindi i verificatori hanno correttamente proceduto in tale sede. È pretestuoso lamentare la mancata valutazione, in sede di verifica, dei computi metrici estimativi essendo evidente che tale prospetto è stato predisposto solo in un momento successivo e di fatto inutile se la valutazione è fatta a costo specifico. Peraltro i prospetti forniti solo successivamente, evidenziano distribuzioni e percentuali d’incidenza del costo della manodopera diversi da quanto accertato sulla base del P.V.C. che comunque si fonda su dati e dichiarazioni forniti dal contribuente. Per quanto attiene al recupero del cantiere T. – L., la ricostruzione effettuata dai verificatori appare ragionevole in quanto l’eccezione del ricorrente è priva di ogni valore probatorio. Parimenti non si giustifica l’eccezione del mancato riaddebito specifico del costo del noleggio attrezzature in quanto tale fatto è stato rilevato solo per alcuni lavori (riferibili al coniuge) e non a tutta la clientela. Infine per quanto attiene l’eccezione sulla mancata esibizione dei registri, si precisa che l’atto impugnato non contiene alcuna irrogazione di sanzione. Chiede il rigetto del ricorso, con condanna della controparte al pagamento delle spese processuali (allega nota). Nell’udienza del 12 maggio 2006, questa Commissione rinvia all’udienza del 20 ottobre 2006, avendo le parti concordemente chiesto un rinvio per definire il procedimento in via conciliativa, nuovamente rinviato a quella odierna, per consentire il perfezionamento della conciliazione, la quale si rileva però non aver trovato esito positivo. Motivi della decisione La Commissione visti gli atti del procedimento, udite le parti, evince quanto segue: – l’avviso di accertamento impugnato menziona nelle motivazioni, le osservazioni presentate da parte ricorrente (21 maggio 2005) ai sensi dell’art. 12, comma 7, L. 212/00; pertanto non si rileva il vizio di motivazione eccepito e a nulla vale l’eccezione esposta nelle memorie difensive circa il preconfezionamento dell’atto, giacché è evidenziata la data di invio postale; – in ordine alla valutazione delle rimanenze finali (Cantiere D. F.), si osserva, come da documentazione a fascicolo, che il contratto di appalto ha apparentemente durata ultrannuale (25 settembre 2002-31 dicembre 2003) giacché dal contenuto del contratto stesso, e confermato anche da parte ricorrente, si evince la presenza di due distinti ac-


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cordi aventi durata infrannuale, per i quali la normativa tributaria prevede la valorizzazione a costi specifici, come di fatto contabilizzato dalla ricorrente. L’Ufficio, nell’applicare il disposto di cui all’art. 93 per le opere ultrannuali, ha di fatto operato un ricalcolo delle rimanenze del 2002, anno non assoggettato ad accertamento, pervenendo a recuperare materia imponibile; ciò a prescindere dal fatto che il dato comprendeva anche lavori in economia, per i quali il ricarico è fisiologicamente maggiore e che comunque ogni fase di lavorazione prevede percentuali di incidenza diverse per i fattori produttivi impiegati. Pertanto l’applicazione tout court dello stesso ricarico anche alle opere ordinarie, ha determinato un ingiustificato aumento del valore delle rimanenze finali: – in merito poi alla determinazione di maggiori ricavi, derivanti dal mancato riaddebito di costi per materiale di pavimentazione, per euro 832,89, trattandosi di materiale fragile soggetto a rotture, si conviene che ne possa venir acquistato un quantitativo maggiore rispetto a quello strettamente necessario. Ciò non può essere interpretato aprioristicamente come occultamento di ricavi, mancando l’elemento oggettivo di prova (punto 3.1 del ricorso); – per quanto riguarda la fattura del fornitore V. G. (Cantiere B. – C.) si rileva che questa è assolutamente priva dei dati identificativi del soggetto che riceve la fattura. Pertanto manca uno degli elementi obbligatori, così come sancito dall’art. 21, comma 2, D.P.R. 633/72; a ciò consegue l’impossibilità di affermare l’inerenza del costo (punto 4 del ricorso);

– in ordine ai corrispettivi non fatturati (Cantiere T. – L.), ritiene che l’ubicazione del cantiere sia un fattore che entra nella determinazione del corrispettivo in relazione ai costi direttamente imputabili, così come l’eventuale lucro sul materiale di risulta (punto 5 del ricorso); – in relazione al noleggio attrezzature, l’imputazione di tali costi in percentuale sui ricavi viene giustificata dalla difficoltà di individuarne l’imputazione specifica e comunque formano oggetto di riaddebito. Dalla documentazione allegata si evince da un lato (all. n. 3 al P.V.C.), che il riaddebito dei costi per noleggi entra nella valorizzazione delle rimanenze (31 dicembre 2002), dall’altro, il documento utilizzato (ft. n. 89 del 30 dicembre 2004 - all. n. 2 al P.V.C.) non evidenzia tale riaddebito. Tuttavia non è dato ricostruire il nesso che lega il primo documento al secondo, il quale attiene addirittura ad annualità non oggetto di verifica (punto 6 del ricorso); – in ordine all’ultimo rilievo è inammissibile non avendo formato oggetto di irrogazione sanzioni la mancata esibizione del “blocco rapporto prestazione operai” (punto 7 del ricorso); – sussitono giustificati motivi per compensare le spese.

Nota

contratto di appalto stipulato, costituito da due accordi separati di durata ciascuno infrannuale, ne implica, conformemente alla normativa fiscale relativa (artt. 92, 93, 110, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917) la valorizzazione a costi specifici (in senso conforme, si veda Agenzia delle Entrate, risoluzione 342/E del 31 ottobre 2002, in Fisco, 2002, 2, 43, 6215). Appare al contrario erronea l’applicazione della norma per le opere e servizi ultrannuali (poiché di fatto si sarebbe creato «un ricalcolo delle rimanenze del 2002, anno non assoggettato ad accertamento») ed illegittima la valorizzazione a corrispettivo effettuata in sede di verifica, poiché il contratto di appalto comprendeva anche lavori da eseguire in economia, ai quali logicamente si applicano ricarichi maggiori rispetto alle opere ordinarie (sulle modalità di applicazione dell’art. 93, D.P.R. 917/1986 si veda inoltre Agenzia delle Entrate, risoluzione 133/E del 26 settembre 2005).

Il ragionamento della Commissione in merito alla questione preliminare di nullità dell’avviso di accertamento per carenza di motivazione non sembra condivisibile: la circostanza che l’amministrazione finanziaria abbia solo menzionato nell’accertamento le osservazioni presentate dalla ricorrente ex art. 12, comma 7 della L. 27 luglio 2000, n. 212, limitandosi a dichiararne la generica irrilevanza ai fini dell’analisi svolta, senza indicazione dei relativi motivi, concreta invece la violazione degli artt. 42, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, 3, L. 7 agosto 1990, n. 241 e 7, L. 212/00 (cfr. in tal senso Comm. trib. prov. Genova, 23 febbraio 2006, n. 15, in Corriere trib., 2006, 16, 1287). Per quanto riguarda le rimanenze finali, la Commissione ha condiviso la giusta valutazione che delle stesse ha fatto la ricorrente: la natura del

P.Q.M. Accoglie il ricorso in ordine al punto 3.1; al punto 5 del ricorso fino a euro 12.230,00; al punto 6 del ricorso. Respinge nel resto. Compensa le spese di giudizio.


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A parere del Collegio, inoltre non si concreta un occultamento dei ricavi, laddove, relativamente al materiale acquistato dalla ricorrente (materiale di pavimentazione), mancava la relativa fattura di vendita, poiché il mancato riaddebito dei costi conseguiva alla particolare natura del materiale stesso (in quanto soggetto a facili e frequenti rotture) ed alla opportunità di acquistarne una quantità maggiore rispetto al bisogno effettivo per sostituire gli eventuali pezzi inutilizzabili. Relativamente al recupero ad imposizione dell’importo corrispondente alla fattura del fornitore della ricorrente, la mancata indicazione degli ele-

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menti previsti dall’art. 21, comma 2, D.P.R. 633/72, può, in verità, implicare la indeducibilità dei costi solo allorché si riscontri una situazione di assoluta genericità del documento tale da determinare una insuperabile incertezza circa l’inerenza della spesa, circostanza che nel caso specifico non si realizza (nel senso che la irregolarità nell’emissione delle fatture non comporta automaticamente la indeducibilità del relativo costo, cfr. Cass., 4 novembre 2002, n. 15374, in Boll Trib., 2003, 1, 76; Cass., 13 febbraio 2006, n. 3107, in Corr. Trib., 2006, 12, 955; Cass., 8 settembre 2006, n. 19353, in Corr. Trib., 2006, 43, 3434).


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Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. XXXVI, 27 giugno 2006, n. 80 Presidente: Santoro – Relatore: Paparelli Iva - Momento impositivo - Cessione di immobili - Pagamento di corrispettivo anteriore alla stipulazione dell’atto - Natura di acconto e non di caparra confirmatoria - Momento di effettuazione dell’operazione - Obbligo di rivalsa al versamento dell’anticipo (D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 6, commi 1 e 4 e art. 18) Nell’ipotesi di cessione di immobili, ai sensi dell’art. 6, commi 1 e 4, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, il presupposto impositivo si verifica al momento del passaggio di proprietà degli stessi, ma, se anteriormente alla stipulazione del contratto di vendita, viene pagato in tutto o in parte il corrispettivo, l’operazione si considera effettuata, limitatamente all’importo pagato, alla data del pagamento dell’importo anticipato; ne consegue l’obbligo per il soggetto passivo di effettuare la rivalsa sulla parte acquirente alla data del versamento dell’anticipo, indipendentemente dall’emissione della fattura e senza possibilità per le parti di modificare il momento impositivo posticipandolo ad una data successiva o alla data del rogito notarile. Svolgimento del processo A seguito del processo verbale di constatazione redatto il 3 agosto 1999 nei confronti della società C. S.n.c. di N. M. e C. l’Agenzia delle Entrate di Viterbo notificava in data 21 giugno 2001 l’avviso di rettifica n. 802335/01 con il quale venivano contestate alla società: – la tardiva fatturazione di una somma di lire 50.000.000, riscossa dalla C. S.n.c. di N. M. e C. il 30 dicembre 1997 e fatturata il 25 dicembre 1998; – l’applicazione, alla compravendita di una porzione dell’immobile, dell’aliquota Iva ridotta del 4 per cento in assenza dei presupposti richiesti dalla legge. Contro il provvedimento dell’ufficio la società presentava in data 18 ottobre 2001 ricorso, sostenendo che la somma di lire 50.000.000 era stata riscossa inizialmente a titolo di caparra e quando questa si era tramutata in acconto veniva emessa il 25 dicembre 1998 la fattura n. 50 applicando aliquote distinte del 10% e del 4% in base ai rispettivi requisiti degli acquirenti.

La Commissione provinciale adita con sentenza del 13 gennaio 2003, depositata il 17 febbraio 2003, ha annullato il provvedimento motivando che la dicitura «caparra tramutata in acconto» riportata sulla fattura n. 50 dimostrava ampiamente che trattavasi in origine di caparra. Propone appello in questa sede l’ufficio con atto, notificato alla controparte l’8 giugno 2004, censurando l’erronea qualificazione di caparra alla somma di lire 50.000.000 da parte dei giudici di prime cure, in quanto, sostiene l’ufficio, la caparra, essendo una pena civile, non può essere tacitamente decisa ma occorre una preventiva esternazione dell’accordo. Data perciò l’assenza di una concreta dimostrazione della volontà delle parti, le somme corrisposte anticipatamente alla conclusione del contratto devono intendersi come semplice dazione di acconto o di anticipo sull’importo finale concordato. Chiede la riforma della sentenza impugnata con vittoria di spese. Nelle controdeduzioni l’appellata società ribadisce che la somma di lire 50.000.000 non costituiva affatto acconto sul prezzo finale dell’immobile compravenduto in data 30 dicembre 1999, poiché, prima del perfezionamento di detta compravendita, fu necessaria l’autorizzazione del giudice tutelare e perciò l’incasso della somma non poteva essere considerato corrispettivo ma solo “caparra confirmatoria”. La reale natura di detta somma è confermata dalla fattura n. 50 del 25 dicembre 1998, emessa a seguito dell’acquisizione di tutti gli incartamenti necessari per l’acquisto a favore dei minori, e nella cui descrizione è riportata la dicitura: «caparra tramutata in acconto» e che dimostra l’effettivo intento delle parti. Chiede nelle conclusioni la conferma della sentenza di primo grado con vittoria di spese. All’odierna udienza è comparso il rappresentante dell’ufficio dottor G. B. che si riporta ai motivi dell’appello. Assente la controparte. Motivi della decisione La Commissione, al termine dell’udienza, si riunisce in camera di consiglio e, in merito al versamento dei 50.000.000, osserva che nell’ipotesi di cessione di immobili, ai sensi dell’art. 6, commi 1 e 4, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (istitutivo dell’imposta sul valore aggiunto), il presupposto im-


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positivo si verifica al momento del passaggio di proprietà degli stessi, ma, se anteriormente alla stipulazione del contratto di vendita viene pagato in tutto o in parte il corrispettivo, l’operazione si considera effettuata, limitatamente all’importo pagato, alla data del pagamento dell’importo anticipato. L’art. 18 della legge citata impone inoltre al soggetto passivo dell’imposta di provvedere alla rivalsa sulla parte acquirente alla data del versamento dell’anticipo, in quanto l’obbligazione fiscale sorge per effetto del parziale pagamento del corrispettivo indipendentemente dall’emissione della fattura e senza possibilità per le parti, trattandosi di norma imperativa ed inderogabile, di modificare il momento impositivo posticipandolo ad una data successiva o alla data del rogito notarile. La Suprema Corte ha più volte statuito (v. Cass., sez. I, sent. n. 7056/1992; sez. II, sent. n. 6010/8191; sez. V, sent. n. 7348/2003) che, in caso di versamento di anticipazioni o acconti sul prezzo pattuito, la cessione agli effetti Iva si considera effettuata nel momento in cui si esegue l’anticipazione, limitatamente all’importo pagato. L’art. 3, comma 4, del D.P.R. 29 gennaio 1979, n. 24 ha modificato le previgenti disposizioni del D.P.R. n. 633/1972 al fine di adeguarle alle norme dell’ordinamento comunitario, risultante dalla direttiva del Consiglio (CEE) 17 maggio 1977, n. 77/388. Alla luce di quanto sopra esposto questa Commissione non può accogliere la tesi della società contribuente, che sostiene trattarsi in origine di caparra confirmatoria, perché manca la prova che le parti abbiano espresso la loro volontà di impegnarsi in tal senso mediante un atto specifico emesso contestualmente al versamento. L’esistenza della pregressa clausola penitenziale emerge solo in occasione della regolarizzazione, ai fini Iva, della somma versata, definita in fattura come risultato della mutazione della preesistente caparra confirmatoria in acconto sul prezzo della vendita. In mancanza quindi di un esplicito accordo il pa-

gamento anticipato non può che considerarsi come un anticipo della controprestazione. Le argomentazioni addotte a giustificazione della caparra, come il condizionamento della vendita al preventivo rilascio dell’autorizzazione richiesta al giudice tutelare per la porzione di immobile da acquistare a favore dei minori, non hanno pregio, perché in verità l’autorizzazione, richiesta il 7 agosto 1999, e cioè in prossimità del rogito, è stata rilasciata 10 giorni dopo la sua presentazione (17 agosto 1999). L’autorizzazione riguardava poi l’utilizzazione del denaro depositato su un libretto a risparmio emesso il 15 novembre 1998. Tutte date, che, a parere della Commissione, non hanno alcun nesso logico-temporale con il versamento dell’acconto avvenuto il 30 dicembre 1997. In merito al mancato riconoscimento dell’Iva agevolata sulla porzione di immobile venduta alla signora B. L. C., la Commissione rileva che l’acquirente, in base a quanto dichiarato nel rogito notarile, era in possesso dei requisiti per avere diritto a fruire dell’aliquota Iva ridotta al 4%, nella misura cioè prevista dalla tabella A, parte II, n. 21, allegata al D.P.R. n. 633/1972, applicata ricorrendo le condizioni di cui alla nota II-bis posta all’art. 1 della tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. n. 131/1986, quale modificata dal comma 131 dell’art. 3 della L. n. 549/1995. Del resto l’ufficio, a tale riguardo, non eccepisce la carenza dei presupposti o la mendacia delle dichiarazioni rilasciate nell’atto pubblico dall’acquirente B. L. C. ma si limita a non riconoscere l’applicazione dell’aliquota ridotta senza supportate l’eccezione con validi e convincenti motivi. Per le ragioni esposte la Commissione ritiene di accogliere l’appello dell’ufficio in merito alla tardiva fatturazione dell’anticipo, mentre conferma la legittimità dell’applicazione dell’Iva agevolata sulla porzione di immobile trasferita alla signora B. L. C. In presenza della parziale soccombenza si ritiene giusto compensare le spese di lite.

Nota

La somma versata come caparra confirmatoria, avente natura risarcitoria, non è considerata imponibile ai fini dell’Iva, mentre lo è, ai sensi dell’art. 6, comma 4, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, la somma versata quale acconto, così qualificata nel caso di specie. Secondo la giurisprudenza, se sussistono dubbi sull’effettiva intenzione delle parti, le somme versate antecedentemente alla stipulazione del contratto vengono generalmente qualificate come corrisposte a titolo di acconto, e non già a titolo di caparra, salva la prova contraria (in tal senso cfr. Cass., 17 dicembre 1994, n. 10874, in Fisco, 1995,

La sentenza in rassegna si uniforma all’orientamento seguito dalla Corte di Cassazione in tema di individuazione del momento impositivo delle cessioni di immobili nel caso di pagamento di tutto o parte del corrispettivo anticipatamente rispetto alla stipulazione dell’atto notarile di compravendita (cfr. Cass., 13 maggio 2003, n. 7348, in Fisco, 2003, 4921; Cass., 17 gennaio 1998, n. 371, in Fisco, 1998, 12408; Cass., 8 giugno 1992, n. 7056, in Giur. It., 1993, I, 1, 2326; Cass., 12 novembre 1981, n. 6010, in Fisco, 1982, 1763).


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1428; Comm. trib. centr., 14 dicembre 1998, n. 6438, in Giust. Civ., 2000, I, 305, con nota di E. MAZZELLA, Caparra confirmatoria e Iva. In dottrina cfr. R. BRACCINI, Caparra (diritto tributario), in Enc. Giur. Treccani, Roma, 1988, vol. IV, nonché G. FERRAÙ, Regime tributario della caparra confirmatoria contenuta in un preliminare di vendita, in Riv. Giur. Trib.,

2002, 773; A. RICCI, P. ZUCCO, Il contratto preliminare di compravendita e la caparra confirmatoria tra Iva e imposta di registro, in Fisco, 2005, 5782. Sul momento impositivo cfr., in generale, M. C. FREGNI, Il momento impositivo, in AA. VV., L’imposta sul valore aggiunto. Giur. Sist. Dir. Trib., diretta da F. Tesauro, Torino, 2001, 223 ss.).

RIMBORSO IVA A NON RESIDENTI: L’ART. 38-TER, D.P.R. 633/1972 E IL DIFFICILE COORDINAMENTO TRA VI E VIII DIRETTIVA 23

Commissione tributaria provinciale di Pescara, sez. II, 30 agosto 2006, n. 89 IVA - Rimborso - Società non residente e senza stabile organizzazione in Italia - Applicazione del reverse charge - Diritto al rimborso in assenza di rappresentante fiscale - Insussistenza - Contrasto dell’art. 38-ter, D.P.R. n. 633/1972 con il diritto comunitario - Esclusione (VI direttiva n. 77/388/CEE del 17 maggio 1977, artt. 17, par. 4 e 21; VIII direttiva n. 79/1072/CEE del 6 dicembre 1979; D.P.R. 26 ottobre 1972, artt. 17 e 38-ter) Non spetta il rimborso dell’imposta sul valore aggiunto, in relazione ad acquisti effettuati in Italia, ad una società non residente, senza stabile organizzazione, che non abbia nominato un rappresentante fiscale in Italia, come previsto dall’art. 38-ter, D.P.R. n. 633/1972, che è conforme al diritto comunitario, in quanto recepisce quanto stabilito dalla VIII direttiva. Svolgimento del processo La società S. R. S.A., con sede in Spagna, rappresentata e difesa dall’avv. L. d. F. , ha proposto ricorso contro il diniego del centro operativo di Pescara del rimborso dell’Iva ex art. 38-ter, D.P.R. 633/72. La ricorrente, soggetto non residente e senza stabile organizzazioni in Italia, dopo aver acquistato da società italiana autocaravan cedeva gli stessi a clienti italiani. Il rimborso richiesto non veniva concesso per il fatto che erano state effettuate cessioni territorialmente imponibili in Italia. Lamentava la violazione e la falsa applicazione dell’art. 17, par. 4 della direttiva n. 77/388/CEE e del principio di neutralità dell’imposta sostenendo che l’art. 38-ter, seppur conforme a quanto disposto dall’VIII direttiva che dettava norme di natura procedimentale, si poneva in contrasto con la VI direttiva che dettava norme di natura sostanziale.

Chiedeva l’annullamento del provvedimento con vittoria di spese. Si costituiva il centro operativo di Pescara che, con argomentata memoria, ribadiva la legittimità del proprio operato e allegava, a sostegno della propria tesi, un verbale di constatazione dell’Agenzia delle Entrate di Milano 5 nel quale erano descritte le varie fasi delle operazioni effettuate dalla ricorrente che testimoniavano inequivocabilmente l’effettuazione di vendite in Italia. Chiedeva il rigetto del ricorso. Con memoria difensiva la ricorrente insisteva nel riaffermare la fondatezza delle questioni sollevate quali il principio di neutralità dell’Iva e la violazione delle norme del Trattato che vietavano pratiche nazionali tendenti ad alterare la libera circolazione di beni. Chiedeva, inoltre, di sottoporre la questione alla Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 234 del Trattato. La causa è stata discussa in pubblica udienza. Motivi della decisione È certo e non contestato che il centro operativo di Pescara ha operato nel pieno rispetto della normativa nazionale poiché, rilevato che la ricorrente ha effettuato operazioni attive in Italia ha applicato, alla lettera, part. 38-ter del D.P.R. 633/72 negando il rimborso richiesto. L’effettuazione di operazioni attive non è stato negato dalla S. R. che ha tenuto ad evidenziare che dopo aver acquistato dalla società italiana S. S.p.A con Iva, ha rivenduto ad altre società residenti nello Stato senza l’applicazione dell’imposta provvedendo queste ultime ad assolvere il pagamento con autofattura ai sensi dell’art. 17, comma 3 del D.P.R. 633172. Ha voluto dimostrare pertanto che, da un lato lo Stato italiano ha incassato l’Iva due volte, la prima attraverso la società


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venditrice e la seconda attraverso le società acquirenti e che dall’altro, con la negazione del rimborso richiesto, l’Iva è diventata un costo; di conseguenza sarebbe stato violato il principio di neutralità dell’imposta sancito dalla VI direttiva. Con un articolato ragionamento sostiene che l’art. 38-ter non è conforme al diritto comunitario che nella VI direttiva ha dettato norme di natura sostanziale tra le quali il principio della neutralità dell’imposta. Il ragionamento, anche se di elevato pregio giuridico, non può essere fatto proprio dal Collegio. È pur vero che le norme dettate nella VI direttiva sono di natura sostanziale tuttavia quelle contenute nell’VIII, pur se di natura procedimentale, non sono di rango inferiore. Proprio perché di natura procedimentale hanno individuato le modalità con le quali dovevano essere attuati i principi dettati nella VI direttiva. L’art. 38-ter è conforme al diritto comunitario considerato che non è in contrasto con quanto stabilito dalla VIII direttiva che ha correttamente recepito, tantomeno la VIII direttiva è di rango inferiore o in contrasto con la VI. Il ricorrente, pur avendo richiesto il rimborso ai sensi dell’art. 38-ter, ha contravvenuto a quanto dallo stesso stabilito. La negazione del rimborso è diretta conseguenza del mancato rispetto delle disposizioni in esso previste e non del fatto che la normativa italiana è in contrasto con la normativa comunitaria. Il ricorrente, aven-

do effettuato operazioni attive, avrebbe avuto l’alternativa della nomina del rappresentante fiscale ai sensi dell’art. 17, D.P.R. 633/72. Il Collegio non ritiene pertanto necessario sottoporre la questione alla Corte di Giustizia.

Nota di Gabriele Marini

elemento strutturale del tributo non può essere oggetto di alcuna limitazione. Queste considerazioni di carattere generale rendono evidente perché, ai fini del rimborso, la condizione oggettiva dell’assenza di operazioni imponibili in Italia, nonostante l’inversione contabile. Invero nella pratica internazionale è piuttosto frequente l’intrecciarsi di scambi commerciali tra più soggetti residenti in Stati comunitari diversi aventi per oggetto merci che, nonostante le intervenute operazioni, non vengono movimentate attraverso il trasferimento da uno Stato all’altro. In tal caso un soggetto comunitario, senza rappresentante fiscale o identificazione diretta, che abbia acquistato merci in Italia e successivamente li abbia ceduti all’interno del Paese, non potrà ottenere il rimborso dell’Iva versata al momento dell’acquisto, nonostante gli obblighi relativi alla cessione siano stati adempiuti dal cessionario attraverso il meccanismo del reverse charge. La limitata operatività della procedura di rimborso di cui all’art. 38-ter, pone seri dubbi di le-

Il rimborso ex art. 38-ter riveste una funzione sostitutiva della detrazione, avendo l’obiettivo di rendere neutrale l’imposta per i soggetti non residenti in quanto questi non possono esercitare la detrazione. Infatti, diversamente dal contribuente stabilito nel territorio dello Stato, il soggetto non residente non usufruisce della detrazione poiché non è obbligato alla tenuta di una contabilità Iva in cui far transitare le operazioni passive, al fine di scomputarne l’imposta da quella dovuta a seguito dell’effettuazioni di operazioni imponibili. Talché la funzione fondamentale svolta dalla detrazione viene assolta dal rimborso che costituisce soltanto una modalità attraverso la quale viene garantita la neutralità dell’imposta nei confronti dei soggetti passivi “formali” anche laddove il cessionario/committente sia residente in uno Stato diverso da quello del cedente/prestatore. Ne consegue che il rimborso previsto dall’art. 38-ter integrando, al pari della detrazione, un

In udienza il rappresentante della ricorrente ha sollevato la questione che nel periodo di imposta oggetto del rimborso non era previsto l’art. 35-ter e che la nomina del rappresentante fiscale si poneva in contrasto con il principio di libertà di stabilimento. L’Ufficio ha controbattuto affermando che si trattava di motivo aggiunto e che tuttavia l’istituto dell’identificazione diretta era già in vigore. Il Collegio è concorde con il centro operativo nel ritenere che si tratti di motivo aggiunto in quanto tale contestazione poteva essere fatta già al momento della proposizione del ricorso e in ogni caso la nomina del rappresentante fiscale non va a violare il principio di libertà di stabilimento in quanto presuppone la nomina di una società o persona fisica che provveda esclusivamente ad effettuare adempimenti, in materia di valore aggiunto, per le operazioni effettuate nel territorio italiano da società non residenti senza stabili organizzazioni. Il ricorso deve essere rigettato. Data la complessità e novità delle questioni trattate esistono giusti motivi per compensare integralmente, ai sensi dell’art. 92 c.p.c, le spese di giudizio.


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gittimità comunitaria. In effetti, nonostante la conformità della norma nazionale con quanto previsto dall’VIII direttiva, l’adozione di ulteriori direttive ha determinato una modifica sostanziale al sistema. In particolare la direttiva n. 92/111/CEE ha aggiunto all’art. 17, par. 4, della VI direttiva un comma che individua quali soggetti passivi non residenti aventi diritto al rimborso coloro che abbiano effettuato all’interno del Paese unicamente cessioni di beni o prestazioni di servizi per le quali il debitore dell’imposta, ai sensi dell’articolo 21, punto 1, lettera a, è il destinatario. Pertanto in virtù del nuovo assetto normativo comunitario si evince chiaramente che il soggetto non residente ha diritto al rimborso dell’Iva sostenuta in Italia ogni qualvolta il cessionario o il committente provveda ad adempiere agli obblighi Iva attraverso il meccanismo dell’inversione contabile. A seguito delle intervenute modifiche all’art. 17, par. 4, appare palese l’incompatibilità dell’art. 38-ter, con le disposizioni della VI direttiva. Tenuto conto che è decorso inutilmente il termine per dare completa attuazione alla direttiva, in sintonia con l’insegnamento della giurisprudenza comunitaria e costituzionale, gli organi della Stato, quale l’amministrazione finanziaria, dovrebbero disapplicare la norma italiana in contrasto con una direttiva self-executing e conformarsi nelle loro decisioni a quanto disposto della norma comunitaria. Premessa La Commissione tributaria provinciale di Pescara è stata chiamata a pronunciarsi in merito alla richiesta di rimborso Iva di un soggetto passivo non residente, privo di stabile organizzazione nel territorio dello Stato, che ha effettuato delle cessioni di beni territorialmente imponibili. Come emerge dalla parte in fatto della decisione, la controversia trae origine dall’impugnazione del diniego dell’amministrazione finanziaria del rimborso dell’Iva corrisposta dalla società ricorrente a seguito dell’acquisto da una società italiana di autocaravan destinati alla rivendita nel mercato nazionale, per i quali la cedente ha addebitato in fattura la relativa imposta in quanto si trattava di operazioni territorialmente imponibili. Successivamente gli autocaravan venivano ceduti a dei clienti italiani, soggetti passivi d’imposta, che ai sensi dell’art. 17, comma 3, del D.P.R. n. 633/72 provvedevano ad adempiere agli obblighi di fatturazione (cd. autofattura). Nella specie il giudice ha ritenuto corretto l’ope-

rato dell’ufficio finanziario rilevando la conformità del diniego a quanto stabilito dall’art. 38-ter che prevede la possibilità di ottenere il rimborso dell’Iva purché il richiedente non abbiano effettuato operazioni in Italia. Inoltre, ha sottolineato che nel caso in esame il ricorrente, avendo effettuato operazioni attive, avrebbe avuto l’alternativa della nomina del rappresentante fiscale al fine di recuperare l’imposta sugli acquisti. La decisione della Commissione lascia perplessi sia nella parte in cui liquida il profilo della incompatibilità comunitaria della norma nazionale, postulando la conformità dell’art. 38-ter con l’VIII direttiva senza indagare la correlazione con la VI direttiva, sia nell’affermazione attraverso la quale giustifica il diniego, sostenendo che il ricorrente avrebbe potuto recuperare l’imposta attraverso la nomina del rappresentante fiscale, con il che sottintende l’obbligatorietà della nomina. Il ruolo del reverse charge In primo luogo occorre procedere ad un inquadramento sistematico del meccanismo del reverse charge, nonostante sia ignorato dalla decisione in esame, pur rappresentando il “convitato di pietra” della fattispecie oggetto della controversia, al fine di comprendere appieno le simmetrie fiscali di un’imposta complessa qual è l’Iva. Si tratta dell’ inversione contabile, così come definita nel terzo comma dell’art. 17 del D.P.R. 633/72: in assenza di rappresentante fiscale o di identificazione diretta ex art. 35-ter, gli obblighi relativi alle cessioni di beni e alle prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato da soggetti non residenti, sono adempiuti dai cessionari o committenti che acquistano i beni o utilizzano i servizi nell’esercizio di imprese, arti e professioni; si ha una traslazione legale dell’obbligo d’imposta dal cedente/prestatore al cessionario/committente purché quest’ultimo sia un soggetto passivo. In pratica se il soggetto passivo estero che ha posto in essere l’operazione territorialmente rilevante in Italia non ha provveduto, anteriormente all’effettuazione dell’operazione stessa, a designare un proprio rappresentante ovvero ad identificarsi direttamente per adempiere ai conseguenti obblighi formali e sostanziali, questi vengono traslati in conformità al meccanismo del reverse charge in capo al destinatario della cessione o della prestazione, il quale ai sensi dell’art. 21, comma 5, emetterà la fattura in un unico esemplare che dovrà essere annotata sia nel registro degli acquisti di cui all’art. 25 del D.P.R. n. 633/1972, sia in quello delle fatture emesse di cui all’art. 23 dello stesso decreto. L’applicazione generalizzata del meccanismo del


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reverse charge si è avuta con la modifica apportata all’art. 17 dal D.P.R. 30 dicembre 1981, n. 793, il quale nel dare attuazione all’art. 21 della VI direttiva, che concedeva agli Stati membri, quando l’operazione imponibile fosse stata effettuata da un soggetto passivo residente all’estero, la facoltà di individuare in un rappresentante fiscale o nel destinatario dell’operazione imponibile la persona tenuta al pagamento dell’imposta, ha posto l’istituto sullo stesso piano del rappresentante fiscale. In pratica è possibile affermare che tra “l’inversione contabile” e il rappresentante fiscale opera un principio di alternatività-coesistenza, ossia il soggetto non residente può scegliere se ottemperare ai suoi obblighi fiscali attraverso il proprio rappresentante oppure lasciare l’incombenza al cessionario/committente, tranne nei casi in cui è obbligatoria la nomina di un rappresentante fiscale, ovvero il reverse charge per i quali si configura un rapporto incentrato sul principio di alternatività-esclusione. La funzione del diritto al rimborso. Correlazioni e coordinamento tra la VI e l’VIII direttiva In tale sistema si inserisce l’art. 38-ter del D.P.R. 633/72 il quale prevede che i soggetti domiciliati e residenti negli Stati membri della Comunità economica europea, che non si siano identificati direttamente ai sensi dell’articolo 35-ter e che non abbiano nominato un rappresentante ai sensi del secondo comma dell’art. 17, possono ottenere il rimborso dell’Iva purché non abbiano effettuato operazioni in Italia ad eccezione delle prestazioni di trasporto e relative prestazioni accessorie non imponibili ai sensi dell’art. 9, nonché delle prestazioni indicate all’art. 7, quarto comma, lettera d, ovvero, ai sensi del rinvio operato dall’art. 59 del D.L. n. 331/93 alla disciplina di cui all’art. 38ter, delle prestazioni di trasporto intracomunitario e relative prestazioni accessorie a norma dell’art. 40, commi 4-bis, 5, 6 e 8 del D.L. 331. Come si può notare, in base alla norma, il soggetto non residente può ottenere il rimborso dell’Iva versata se non ha effettuato alcuna operazione (cessione di beni o prestazioni di servizi) territorialmente imponibili nello Stato, tranne le prestazioni di servizi internazionali o connessi agli scambi internazionali per le quali è oggettivamente riconosciuto il beneficio della non imponibilità, in quanto non sono considerate effettuate in Italia per effetto dell’ultimo comma dell’art. 7, e le pre-

1 L’art. 1 dispone testualmente che “[…] si considera soggetto passivo non resi-

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stazioni di servizi per le quali, ai sensi degli artt. 17, comma 3, ultimo cpv., decreto Iva e 44, comma 2, lett. b del D.L. 331/93, gli obblighi documentali, contabili e di versamento devono essere adempiuti dai committenti soggetti passivi d’imposta attraverso la cd. autofattura. A questo punto è da chiedersi come l’Iva sugli acquisti possa essere recuperata nei casi in cui il non residente effettui delle operazioni Iva nel territorio dello Stato, ad esempio cessioni di beni, che vengono autofatturate dal cliente visto che l’art. 38-ter condiziona il rimborso dell’imposta ai non residenti alla mancata effettuazione di operazioni in Italia. La problematica sembrerebbe un nodo “gordiano” tenuto conto che, come specificato nel par. 6 a cui si rinvia, la nomina del rappresentante fiscale non può essere obbligatoria ed è alternativa al meccanismo dell’inversione contabile. Tuttavia la soluzione è a portata di mano se solo si ripercorre l’evoluzione legislativa comunitaria alla luce della funzione esercitata dall’istituto in esame. Come evidenziato nel preambolo dell’VIII direttiva, il rimborso riveste una funzione sostitutiva della detrazione con l’obiettivo di rendere neutrale l’imposta per i soggetti non residenti poiché questi non possono esercitare la detrazione. Infatti, diversamente dal contribuente stabilito nel territorio dello Stato, il soggetto non residente non usufruisce della detrazione in quanto non è obbligato alla tenuta di una contabilità Iva in cui far transitare le operazioni passive, al fine di scomputarne l’imposta da quella dovuta a seguito dell’effettuazioni di operazioni imponibili. Talché la funzione fondamentale svolta dalla detrazione viene assolta dal rimborso che costituisce soltanto una modalità attraverso la quale viene garantita la neutralità dell’imposta nei confronti dei soggetti passivi “formali” anche laddove il cessionario/committente sia residente in uno Stato diverso da quello del cedente/prestatore. Peraltro, occorre convenire con il giudice sul fatto che la norma nazionale è conforme all’art. 1 della direttiva n. 79/1072, il quale prevede il diritto al rimborso se il soggetto non residente non ha effettuato alcuna cessione di beni o prestazioni di servizi territorialmente imponibili nello Stato del rimborso ad eccezione delle prestazioni di trasporto e delle prestazioni di servizi ad esse accessorie e delle prestazioni previste dall’art. 21, par. 1, lett. b della VI direttiva1. Quindi nessuna obiezione può essere sollevata in

dente all’interno del Paese il soggetto passivo di cui all’articolo 4, paragrafo

1, della direttiva 77/388/CEE che […] non ha fissato in tale Paese né la sede


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relazione alla completa e corretta attuazione della VIII direttiva che è stata emanata in virtù dell’art. 17, par. 4, della direttiva n. 77/388/CEE2. Tuttavia, il diritto di rimborso esprime una situazione giuridica soggettiva del soggetto non residente autonomamente accertabile che trova fondamento nella VI direttiva all’art. 17, par. 3,3 alla luce del rinvio operato dal paragrafo 4 del medesimo articolo. Quest’ultima norma essendo in grado di incidere sull’an e sul quantum debeatur si impone quale disciplina sostanziale, mentre la direttiva n. 79/1072/CEE, definita al primo considerando “modalità comunitarie di applicazione in materia di rimborso dell’imposta sul valore aggiunto”, prevede prevalentemente norme aventi carattere procedimentale in quanto dirette a regolamentare le fasi applicative del rapporto tributario in cui rientra la possibilità per il contribuente di attivarsi per l’esercizio dei diritti ad esse collegati, quale il diritto al rimborso/detrazione4. Comunque, nel silenzio dell’art. 17, par. 4, l’VIII direttiva ha dettato norme non solo procedimentali ma, al fine di evitare talune forme di frode o di evasione fiscale, si è spinta sino ad escludere il diritto al rimborso per i soggetti non residenti che,

della propria attività economica né costituito un centro di attività stabile dal quale sono svolte le operazioni né, in mancanza di detta sede o di detto centro di attività stabile, il suo domicilio o la sua residenza abituale e che, nel corso del medesimo periodo, non ha effettuato alcuna cessione di beni o prestazioni di servizi che si consideri localizzata in tale paese, ad eccezione: delle prestazioni di trasporto e delle prestazioni di servizi ad esse accessorie, esentate ai sensi dell’articolo 14, paragrafo 1, lettera i, dell’articolo 15 o dell’articolo 16, paragrafo 1, B, C, e D della direttiva 77/388/CEE; delle prestazioni di servizi nei casi in cui l’imposta è dovuta unicamente dal destinatario ai sensi dell’articolo 21, paragrafo 1, lettera b, della direttiva 77/388/CEE”. 2 Art. 17, par. 4 “il Consiglio cercherà di adottare entro il 31 dicembre 1977, su proposta della Commissione e deliberando all’unanimità, le modalità comunitarie d’applicazione secondo le quali i rimborsi devono essere effettuati ai sensi del paragrafo 3 a favore di soggetti passivi non residenti all’interno del Paese […]. Qualora il soggetto passivo non risieda nel territorio della Comunità, gli Stati membri possono rifiutare il

nel periodo di riferimento, hanno effettuato cessioni di beni territorialmente imponibili, incidendo, in tal modo, sulla disciplina sostanziale. Senonché, si rileva che l’art. 17, par. 4, è stato modificato prima con la direttiva del 16 dicembre 1991, n. 91/680/CEE – la quale all’art. 28-septies, dispone che il rimborso dell’imposta sul valore aggiunto di cui al paragrafo 3 viene effettuato a favore dei soggetti passivi che non sono stabiliti all’interno del Paese ma che sono stabiliti in un altro Stato membro, secondo le modalità d’applicazione stabilite dalla direttiva 79/1072/CEE – e, soprattutto, con la direttiva del 14 dicembre 1992, n. 92/111/CEE che, nel modificare l’art. 28-septies, ha aggiunto all’art. 17, par. 4, un comma che individua quali soggetti passivi non residenti aventi diritto al rimborso coloro che abbiano effettuato all’interno del Paese unicamente cessioni di beni o prestazioni di servizi per le quali il destinatario è stato designato come debitore dell’imposta ai sensi dell’articolo 21, punto 1, lettera a.5 Inoltre, la direttiva del 17 ottobre 2000, n. 2000/65/CE, ha aggiunto all’articolo 17, paragrafo 4 lettera a i termini “articolo 21, paragrafo 1, lettere a e c”. Infine, la direttiva 2006/69/CE del 24 luglio 2006 ha previsto la sostituzione dei termini

rimborso o subordinarlo a condizioni complementari”. 3 Gli Stati membri accordano altresì ad ogni soggetto passivo la deduzione o il rimborso dell’imposta sul valore aggiunto di cui al paragrafo 2 nella misura in cui i beni e i servizi sono utilizzati ai fini: a) di sue operazioni relative alle attività economiche di cui all’articolo 4, paragrafo 2, effettuate all’estero, che darebbero diritto a deduzione se fossero effettuate all’interno del Paese; b) di sue operazioni esenti ai sensi dell’articolo 14, paragrafo 1, lettera i, dell’articolo 15 e dell’articolo 16, paragrafo 1, punti B, C e D, e paragrafo 2; c) di sue operazioni esenti ai sensi dell’articolo 13 B, lettera a e lettera d, punti da 1 a 5, quando il cliente risieda fuori della Comunità o quando tali operazioni sono direttamente connesse a beni destinati a essere esportati in un Paese non appartenente alla Comunità. 4 Sulla differenza tra norme sostanziali e procedurali, FALSITTA, Manuale di diritto tributario, Parte generale, Milano, 2005, 80 ss. 5 Art. 28-septies: “Ai fini dell’applicazione delle disposizioni che precedono [cioè il rimborso dell’Iva ai sog-

getti non residenti]: a) i soggetti passivi di cui all’articolo 1 della direttiva 79/1072/CEE che abbiano effettuato all’interno del Paese unicamente cessioni di beni o prestazioni di servizi per le quali il destinatario è stato designato come debitore dell’imposta ai sensi dell’articolo 21, punto 1, lettera a, sono anch’essi considerati, ai fini dell’applicazione di detta direttiva, soggetti passivi non residenti all’interno del Paese; b) i soggetti passivi di cui all’articolo 1 della direttiva 86/560/CEE che abbiano effettuato all’interno del Paese unicamente cessioni di beni o prestazioni di servizi per le quali il destinatario è stato designato come debitore dell’imposta ai sensi dell’articolo 21, punto 1, lettera a, sono considerati anch’essi, ai fini dell’applicazione di detta direttiva, soggetti passivi non residenti all’interno della Comunità; c) le direttive 79/1072/CEE e 86/ 560/CEE non riguardano le cessioni di beni esentate, o che possono essere esentate, a norma dell’articolo 28 quater, parte A, quando i beni oggetto della cessione sono spediti o trasportati dall’acquirente o per suo conto”.


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“articolo 21, paragrafo 1, lettere a e c” con i termini “articolo 21, paragrafo 1, lettere a, c o f, o articolo 21, paragrafo 2, lettera c”. Come annunciato nel preambolo dell’VIII direttiva, il legislatore comunitario ha ritenuto opportuno precisare le disposizioni comunitarie in materia di rimborso dell’imposta ai soggetti passivi non residenti all’interno del Paese, attraverso l’ulteriore specificazione delle operazioni imponibili che non influiscono sul diritto al rimborso, indicate nell’art. 21 della VI direttiva. Quest’ultima norma individua quale sia il soggetto passivo che deve in regime interno l’imposta. In particolare, limitatamente all’esame prefissato, si rileva che in linea generale l’Iva è dovuta dal soggetto passivo che effettua la cessione di beni o la prestazione di servizi imponibile; ciò presuppone la soggettività passiva all’interno del Paese. Nel caso di operazioni imponibili poste in essere da un soggetto passivo non residente nel territorio del Paese, il par. 1, lett. a dell’art. 21 dispone al secondo capoverso che “gli Stati membri possono, alle condizioni da essi stabilite, prevedere che il debitore dell’imposta è il destinatario della cessione di beni o della prestazione di servizi”. Innanzi è stato evidenziato che il legislatore nazionale, esercitando la facoltà concessa, ha dato attuazione al secondo capoverso della lett. a attraverso l’art. 17, comma 3 del D.P.R. n. 633/72 prevedendo l’applicazione generalizza del meccanismo del reverse charge. In tal modo si adempie agli obblighi derivanti dall’imponibilità dell’operazione e si garantisce la neutralità del sistema comune d’imposte sulla cifra d’affari. Pertanto, in virtù del nuovo assetto normativo comunitario ed in specie dal combinato disposto degli artt. 17, par. 4, e 21, par. 1, lett. a, b, c ed f – la lettera b è richiamata dall’art. 1 dell’VIII direttiva – si evince chiaramente che il soggetto non residente ha diritto al rimborso dell’Iva sostenuta in Italia ogni qualvolta il cessionario o il committente provveda ad adempiere agli obblighi Iva attraverso il meccanismo dell’inversione contabile; risulterebbe, altrimenti, stravolto il principio della neutralità, cardine del sistema dell’imposta sul va-

6 Sentenza 15 gennaio 1998, causa C37/95, in Racc. I-1 7 Cfr. sentenza 14 febbraio 1985, causa 268/83, Rompelman, in Racc. 655; sentenza 21 settembre 1988, causa 50/87, Commissione/Francia, in Racc. 4797. Nella stessa causa l’avvocato generale ha evidenziato come dal

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lore aggiunto. Invero, è evidente che in assenza di rimborso il soggetto passivo non residente, il quale ha acquistato dei beni in Italia, successivamente ceduti nel medesimo Paese, piuttosto che realizzare un utile, verrebbe a subire una perdita dovuta alla sopportazione di un costo aggiuntivo rappresentato dall’Iva, non detraibile nel proprio Stato ne rimborsabile in virtù di quanto previsto dalla normativa italiana, con una evidente lesione del principio di neutralità e della libera concorrenza. A questo proposito, è utile ricordare, che il principio della neutralità presenta un stretto collegamento la disciplina della detrazione dell’imposta. Il diritto alla detrazione, ovvero il diritto al rimborso per i soggetti non residenti (come innanzi rilevato il rimborso è funzionalmente analogo alla detrazione), che rappresenta l’aspetto più qualificante dell’Iva, garantisce la neutralità della tassazione in quanto ha lo scopo di evitare che il soggetto passivo resti gravato dall’onere dell’imposta sugli acquisti. La funzione del diritto di detrazione è stata costantemente sottolineata dalla giurisprudenza comunitaria. Nella causa Ghent Coal Terminal6 la Corte di Giustizia ha dichiarato che il sistema delle detrazioni è inteso ad esonerare interamente l’imprenditore dall’Iva dovuta o pagata nell’ambito di tutte le sue attività economiche. Di conseguenza, l’istituto della detrazione comune garantisce la perfetta neutralità dell’imposizione fiscale per tutte le attività economiche, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di dette attività, purché queste siano di per sé soggette all’Iva7. Alla luce, dunque, del carattere fondante che il diritto di detrazione riveste nel sistema dell’Iva alcuna limitazione può essere ad esso imposto se non nei casi espressamente previsti dalla direttiva8. Risultano inconferenti, dunque, le considerazioni della Commissione tributaria sulla parità “gerarchica” dell’VIII con la VI direttiva. In effetti, dalla decisione si può intuire che non è stato percepito quale fosse la fonte normativa attributiva del diritto al rimborso, con la conseguenza di tenere su due piani distinti le direttive comunitarie; mentre è di tutta evidenza lo stretto collegamento esisten-

modo in cui viene disciplinata il diritto alla detrazione dipende l’osservanza del principio di neutralità, il quale rappresenta un elemento chiave del sistema dell’Iva, imposta che colpisce il consumo finale e non le fasi economiche; quindi, il diritto di detrazione evita che l’imposta versa-

ta dalle imprese comporti per le stesse un onere fiscale. 8 In tal senso sentenza 19 settembre 2000, cause riunite C-177/99 e C181/99, Ampafrance e Sanofi, in Racc. I7013; sentenza 8 gennaio 2002, causa C-409/99, Metropol Treuhand WirtschaftsstreuhandgmbH, in Racc. I-81.


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te tra la VI e l’VIII direttiva, nel senso che quest’ultima si pone quale appendice procedimentale della prima. Necessità di una interpretazione adeguatrice dell’art. 38-ter A seguito delle intervenute modifiche all’art. 17, par. 4, che, è bene ripeterlo, in quanto norma di natura sostanziale riconosce al soggetto passivo non residente il diritto al rimborso, appare palese l’incompatibilità dell’art. 38-ter, il quale circoscrive il diritto al rimborso ai soggetti non residenti che hanno posto in essere soltanto “prestazioni di trasporto e relative prestazioni accessorie non imponibili ai sensi dell’art. 9, nonché delle prestazioni indicate all’art. 7, quarto comma, lett. d”, con le disposizioni della VI direttiva; ne deriva, di conseguenza, la diretta efficacia della disciplina comunitaria. Come è noto, l’efficacia diretta della direttiva presuppone sia l’inadempimento dello Stato, consistente nella violazione dell’obbligo di corretta trasposizione il quale si perfeziona quando il termine di attuazione è inutilmente trascorso, sia, da un punto di vista sostanziale, che le disposizioni di una direttiva siano sufficientemente precise ed incondizionate. Una norma è “sufficientemente precisa” se la fattispecie astratta ivi prevista ed il contenuto del precetto ad essa applicabile sono determinati con compiutezza in tutti i loro elementi, ed è “incondizionata”, se sancisce un obbligo non soggetto ad alcuna condizione, sì da non lasciare margine di discrezionalità agli Stati membri nella loro attuazione9. Nella fattispecie in esame ricorrono tutti i requisiti richiesti ai fini dell’efficacia diretta. Infatti, non solo è decorso inutilmente il termine per dare completa attuazione alla direttiva10, ma la norma

9 In tal senso: Corte di Giustizia, 24 marzo 1987, causa C-286/85, Mc Dermott e Cotter, in Racc. 1453; 20 settembre 1988, causa C-31/87, Gebroeders Beentjes BV, in Racc. 4635; 22 giugno 1989, F.lli Costanzo, cit.; 23 febbraio 1994, causa C-236/92, Comitato di coordinamento per la difesa della Cava, in Racc. I-483; 17 settembre 1996, cause riunite da C-264/94 a C-249/94, Cooperativa Agricola S. Antonio, in Racc. I4373. In dottrina, BARONE, L’efficacia diretta delle direttive CEE nella giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Corte costituzionale, in Foro It., 1991, IV, 126; SBOLCI, Le direttive dettagliate dopo il Trattato di Amsterdam, in Riv. Dir. Internaz., 1997, 1086.

risulta essere, nei suoi elementi oggettivi e soggettivi, incondizionata e sufficientemente precisa. L’unico elemento discrezionale si rinviene non tanto nell’art. 17, par. 3 e 4, quanto nell’art. 21, par. 1, lett. a che facoltatizza gli Stati membri a prevedere quale debitore d’imposta il destinatario della cessione di beni o prestazioni di servizi. Ne deriva che l’esercizio di detta facoltà rappresenta un elemento essenziale ai fini dell’efficacia diretta dell’art. 17, par. 4. Tuttavia, in considerazione del contesto normativo interno, avendo l’Italia esercitato concretamente tale facoltà attraverso la generalizzazione del meccanismo del reverse charge, non si può dubitare in ordine all’efficacia diretta della disposizione che attribuisce il diritto al rimborso ai soggetti non residenti che abbiano effettuato operazioni imponibili “autofatturate” dal cessionario o committente. Pertanto, nonostante la chiara lettera della norma italiana, conformemente alla giurisprudenza costante della Corte di Giustizia11 e della Corte costituzionale12 in base alla quale l’obbligo degli Stati membri derivante da una direttiva di conseguire il risultato da questa contemplato, come pure il dovere loro imposto dall’art. 10 del Trattato di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire l’adempimento di tale obbligo, vale per tutti gli organi degli Stati membri, ivi compreso i giudici nazionali, la Commissione tributaria avrebbe dovuto disapplicare la norma italiana in contrasto con una direttiva self-executing e si sarebbe dovuta conformare nella propria decisione a quanto disposto dalla norma comunitaria sostanziale e fondamentale. La proposta di modifica dell’VIII direttiva Della problematica si è fatta carico anche la Commissione europea la quale con la proposta di di-

10 L’art. 4 della direttiva del 14 dicembre 1992 n. 92/111/CEE prevede che gli Stati membri adottano le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per l’attuazione della stessa affinché il regime così adattato sia messo in vigore il 1 gennaio 1993. 11 In particolare, sentenza 10 aprile 1984, causa C-14/83, Von Colson e Kamann, in Racc. 1891; sentenza 22 giugno 1989, causa C-103/88, F.lli Costanzo, in Racc. 1839; sentenze 13 novembre 1990, causa C-106/89, Marleasing, in Racc. I-4135; sentenza 14 luglio 1994, causa C-91/92, Faccini Dori, in Racc. I-3325; sentenza 18 dicembre 1997, causa C-129/96, Inter-

Environnement Wallonie, in Racc. I7411; sentenza 5 marzo 1998, causa C-347/96, Solred, in Racc. I, 937; sentenza 25 febbraio 1999, causa C131/97, Carbonari e a., in Racc. I1103; sentenza 11 luglio 2002, causa C-62/00, Mark & Spencer, in Racc. I, 6325; sentenza 27 febbraio 2003, causa C-327/00, Santex c. USL Pavia, in Foro Amm. CDS 2003, 419. 12 Sentenza 11 luglio 1989, n. 389 in Corriere Giur., 1989, 1058. Cfr. Corte cost., sentenze 2 febbraio 1990, n. 64, in Giur. Cost., 1990, 265 e 18 aprile 1991, n. 168, in Riv. Dir. Fin., 1992, II, 85.


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rettiva del 29 ottobre 2004, COM (2004) 72813 (nel più ampio progetto di semplificazione volte a rendere il rispetto della normativa Iva più semplice per i soggetti passivi non aventi sede nello Stato membro in cui svolgono un’attività) rilevato che la direttiva 77/388/CEE conteneva una disposizione relativa all’applicazione della direttiva 79/1072/CEE, ha inserito l’art. 17, par. 4, lett. a della VI direttiva, nell’art. 1 della proposta di direttiva che modifica la procedura di rimborso per i soggetti passivi non stabiliti all’interno del Paese (VIII direttiva). Nella versione proposta il rimborso dell’Iva a soggetti passivi non stabiliti all’interno del Paese ma stabiliti in un altro Stato membro è dovuto se questi, tra l’altro, nel periodo di riferimento non hanno effettuato cessioni o prestazioni il cui luogo di effettuazione si possa considerare situato nello Stato membro di rimborso, fatta eccezione per le seguenti operazioni: I. prestazioni di trasporto e prestazioni di servizi ad esse accessorie, esenti a norma dell’articolo 14, paragrafo 1, lettera i, dell’articolo 15 o dell’articolo 16, paragrafo 1, punti B, C, e D della direttiva 77/388/CEE; II. cessioni e prestazioni per le quali l’imposta sul valore aggiunto è dovuta unicamente dalla perso-

13 Detta proposta succede alla precedente proposta di direttiva COM (1998) 377, rimasta inevasa, attraverso la quale si voleva ovviare alla procedura prevista dall’ottava direttiva attraverso il riconoscimento di un diritto di detrazione transfrontaliera che avrebbe permesso ai soggetti non residenti di recuperare l’imposta direttamente con le dichiarazioni Iva presentate nello Stato membro in cui hanno sede. Naufragato detto progetto si è optato per modifiche meno incisive che senza alterare i principi fondamentali, conservano allo Stato membro in cui l’Iva è stata versata il potere di trattazione delle domande di rimborso. In tal modo l’importo rimborsabile sarà determinato in base alla normativa vigente in materia di detrazione nello Stato membro in cui sono state sostenute le spese e i rimborsi saranno effettuati direttamente da tale Stato membro al soggetto passivo che ha presentato la domanda. Al fine di conseguire l’obiettivo della semplificazione sono state proposte le seguenti misure: – l’introduzione di un regime dello sportello unico per i soggetti passivi non stabiliti; – l’introduzione di un regime dello sportello unico per modernizzare la

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na nei confronti della quale sono effettuate, a norma dell’articolo 21, paragrafo 1, lettere a, b, c e f della direttiva 77/388/CEE. Inoltre, al fine di fornire coerenza al sistema, la proposta di direttiva della Commissione modifica l’art. 2 dell’VIII direttiva il quale condiziona il rimborso all’impiego dei beni e servizi acquistati nelle operazioni di cui all’art. 17, paragrafo 3, lett. a e b14 della VI direttiva o delle prestazioni di servizi di cui all’art. 1, lett. b), implementando la condizione dell’impiego dei beni e servizi in operazioni per le quali l’imposta sul valore aggiunto è dovuta unicamente dalla persona alla quale i beni o servizi sono forniti, a norma dell’articolo 21, paragrafo 1, lettere a, b, c e f; vale a dire le operazioni imponibili poste in essere da un soggetto passivo non residente nel territorio del Paese per le quali gli Stati membri prevedono che il debitore dell’imposta è il destinatario della cessione di beni o della prestazione di servizi, in alternativa all’identificazione diretta o alla nomina del rappresentante fiscale (21, paragrafo 1, lettera a), oppure le prestazioni in cui è necessariamente debitore d’imposta il cessionario o committente soggetto passivo in quanto destinatario di un servizio di cui all’art. 9, par. 2, lett. e15 o di un servizio accessorio

procedura di rimborso prevista dall’ottava direttiva; – l’armonizzazione dei beni e servizi per i quali gli Stati membri sono autorizzati a limitare il diritto alla detrazione; – un’estensione del meccanismo dell’inversione contabile ad alcune operazioni nei confronti di imprese effettuate da soggetti passivi non stabiliti; – una revisione del regime speciale per le piccole imprese; – una semplificazione del regime delle vendite a distanza. La misura maggiormente significativa è la creazione dello sportello unico che garantirà una diminuzione degli incombenti amministrativi e degli oneri (anche finanziari) facenti carico ai soggetti non residenti richiedenti il rimborso ed una maggiore celerità nei rimborsi in quanto il tempo necessario per evadere le domande dovrebbe ridursi da 6 a 3 mesi; il mancato rispetto del termine avrà delle conseguenze negative in capo allo Stato membro inadempiente poiché superata la scadenza la domanda di rimborso non potrà più essere rifiutata. 14 Operazioni relative alle attività economiche di cui all’articolo 4, paragrafo 2, effettuate all’estero, che da-

rebbero diritto a deduzione se fossero effettuate all’interno del paese ed operazioni esenti ai sensi dell’articolo 14, paragrafo 1, lettera i, dell’articolo 15 e dell’articolo 16, paragrafo 1, punti B, C e D, e paragrafo 2. 15 In dettaglio sono: le prestazioni derivanti da contratti di locazione anche finanziaria, noleggio e simili di beni mobili materiali diversi dai mezzi di trasporto, le prestazioni di servizi indicate al numero 2) del secondo comma dell’ articolo 3, le prestazioni pubblicitarie, di consulenza e assistenza tecnica o legale, comprese quelle di formazione e di addestramento del personale, le prestazioni di servizi di telecomunicazione, di radiodiffusione e di televisione, le prestazioni di servizi rese tramite mezzi elettronici, di elaborazione e fornitura di dati e simili, le operazioni bancarie, finanziarie e assicurative e le prestazioni relative a prestiti di personale, nonché le prestazioni di intermediazione inerenti alle suddette prestazioni o operazioni e quelle inerenti all’obbligo di non esercitarle, nonché le cessioni di contratti relativi alle prestazioni di sportivi professionisti, si considerano effettuate nel territorio dello Stato quando sono rese a soggetti domiciliati nel territorio stesso o a soggetti


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agli acquisti intracomunitari16 ovvero destinatario della cessione di beni nell’ipotesi di triangolazione comunitaria17 (art. 21, par. 1, lett. b) e c), nonché le cessioni di beni disciplinate dall’articolo 8, paragrafo 1, lettere d o e18, se effettuate da un soggetto passivo non stabilito nel Paese, i cui destinatari sono le persone identificate ai fini dell’Iva nel territorio dello Stato. Al riguardo si ritiene che la proposta di modifica dell’art. 2 non faccia altro che formalizzare l’interpretazione “adeguatrice” della norma che già dovrebbe essere alla portata degli operatori del diritto a seguito delle modifiche apportate all’art. 17, par. 4, pena l’incoerenza sistematica della disciplina relativa ai rimborsi per i soggetti non residenti che al primo articolo riconosce il diritto al rimborso nell’ipotesi di inversione contabile per smentirsi subito dopo all’articolo 2. Invero si deve tener conto che quest’ultima norma, risalente all’adozione dell’VIII direttiva, è coerente con quanto previsto nell’art. 1 nella versione antecedente alla modifica dell’art. 17, par. 4, mentre risulta non aderente al quadro legislativo attuale. In realtà, per quanto concerne la disciplina italiana, non si pone alcun problema intepretativo circa l’effettiva portata dell’art. 2, poiché il legislatore nazionale nella trasposizione della norma, rinviando genericamente ai requisiti di detraibilità di cui all’art. 19 del D.P.R. 633/72, impone semplicemente che i beni o i servizi acquistati siano inerenti all’esercizio dell’impresa, arte o professione, prescindendo da qualsiasi altra considerazione. Il rappresentante fiscale quale alternativa al rimborso ex art. 38-ter L’ulteriore profilo di criticità della sentenza è rappresentata dall’affermazione secondo cui “il ricorrente, avendo effettuato operazioni attive, avrebbe avuto l’alternativa della nomina del rappresentante fiscale”. Ad una prima lettura le considerazioni della Commissione sembrano corrette in

ivi residenti che non hanno stabilito il domicilio all’estero e quando sono rese a stabili organizzazioni in Italia di soggetti domiciliati o residenti all’estero, a meno che non siano utilizzate fuori dalla Comunità economica europea - art. 7, comma 4, lett. d del D.P.R. n. 633/1972. 16 Art. 28-ter, C: prestazioni di servizi di trasporto intracomunitario di beni; art. 28-ter, D: prestazioni di servizi accessorie a prestazioni di servizi di trasporto intracomunitario di beni; art. 28-ter, E: prestazioni di servizi ef-

quanto si afferma l’alternatività del rappresentante fiscale rispetto al rimborso ex art. 38-ter. Senonché l’inserimento nel contesto determina una interpretazione completamente diversa. Infatti, la controversia trae origine da un diniego di rimborso e, dunque, avendo il giudice considerato legittimo il provvedimento dell’amministrazione finanziaria, la frase deve essere interpretata nel senso dell’obbligatorietà della nomina del rappresentante fiscale, in presenza di operazioni attive, per recuperare l’imposta sugli acquisti. In ambito comunitario la possibilità della nomina del rappresentante fiscale è prevista dall’art. 21, par. 2, lett. a della VI direttiva, come modificato dalla direttiva 2000/65/CE del 17 ottobre 2000, il quale stabilisce che nel caso in cui debitore d’imposta è un soggetto passivo non residente, “gli Stati membri possono consentirgli di designare un rappresentante fiscale come debitore dell’imposta in sua vece. Questa possibilità è soggetta alle condizioni stabilite da ciascuno Stato membro”. Rispetto alla precedente formulazione19, limitatamente ai soggetti passivi non residente nel territorio del Stato ma, comunque, residente nella Comunità europea, è stata eliminata la facoltà concessa agli Stati membri di rendere obbligatoria la nomina del rappresentante fiscale Iva. Invero, la lett. b, par. 2, art. 21 prevede che gli Stati membri possano continuare ad imporre ai soggetti passivi non residenti l’obbligo di designare un rappresentante fiscale debitore dell’imposta soltanto ai cittadini di Paesi con i quali non esistano strumenti giuridici che disciplinino la reciproca assistenza, analogamente a quanto previsto all’interno della Comunità20. La natura facoltativa della nomina di un rappresentante fiscale è stata ribadita dalla Corte di Giustizia21 la quale ha accertato l’inadempimento dello Stato finlandese, in relazione agli obblighi incombenti ai sensi degli artt. 21 e 22 della VI direttiva nonché degli artt. 28 e 49 del Trattato, poiché impone ai sog-

fettuate da intermediari; art. 28-ter, F: prestazioni di servizi in caso di perizie o lavori effettuati su beni mobili materiali. Art. 40, comma 4- bis , 5, 6 e 8 del D.L. n. 331/1993. 17 Art. 28-quater, lett. e, VI direttiva; artt. 38, comma 7, 40, comma 2, e 44, comma 2, lett. a del D.L. 331/93. 18 Cessione di gas mediante la rete di distribuzione del gas naturale, o di energia elettrica ad un soggetto passivo rivenditore e cessione di gas mediante la rete di distribuzione di gas naturale ovvero di energia elettrica

non previsti dalla lettera d. 19 L’art. 21 stabiliva: “gli Stati membri possono inoltre prevedere che una persona, diversa dal soggetto passivo, sia solidalmente tenuta ad assolvere l’imposta”. 20 Direttiva 76/308/CEE, direttiva 77/799/CEE e regolamento n. 218/92 del 27 gennaio 1992. 21 Sentenza del 15 giugno 2006, causa C-249/05, Commissione/Repubblica di Finlandia.


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getti passivi non residenti nel Paese, i quali svolgono in Finlandia attività commerciali imponibili, l’obbligo di designare un rappresentante fiscale. L’ordinamento nazionale, conformemente alla direttiva, ha reso facoltativa la nomina in quanto l’art. 17, comma 2, del D.P.R. 633/72 prevede che gli obblighi e i diritti afferenti le operazioni attive e passive (fatturazione22, registrazione23, presentazione della dichiarazione, esercizio della detrazione24 e richiesta di rimborso25) effettuate nel territorio dello Stato da e nei confronti di soggetti non residenti possono essere adempiuti o esercitati, nei modi ordinari, attraverso l’identificazione diretta ex art. 35-ter ovvero tramite un rappresentante residente nel territorio dello Stato. La nomina del rappresentante, ovvero l’identificazione diretta, è obbligatoria soltanto nel caso in cui il cessionario e il committente sia un soggetto che non agisce nell’esercizio di imprese, arti o professioni. In quest’ultimo caso l’obbligatorietà della nomina di un rappresentante Iva, a prima vista, sembrerebbe porsi in contrasto con la disciplina comunitaria la quale ha soppresso qualsiasi facoltà per gli Stati membri di rendere obbligatoria la designazione di un rappresentante fiscale rendendo, quindi, facoltativa detta designazione. In realtà essa è conforme alla funzione genetica dell’imposta che, come è noto, si prefigge attra-

22 La fattura deve riportare gli estremi identificativi tanto del soggetto non residente quanto del rappresentante fiscale italiano e può essere inviata al cessionario o committente direttamente dal rappresentante fiscale, ovvero dalla società estera rappresentata (cfr. R.M. 7 settembre 1998, n. 128/E in I Quattro Codici della Riforma Tributaria BIG Ipsoa). 23 Le operazioni attive e passive compiute nel territorio dello Stato dall’operatore non residente tramite il proprio rappresentante tributario devono confluire nella contabilità Iva da quest’ultimo tenuta (R.M. 3 dicembre 1991, n. 465179). 24 L’Iva assolta dalla società non residente può essere detratta a condizione che gli acquisti dalla stessa effettuati siano inerenti all’attività d’impresa dalla stessa esercitata (cfr. R.M. 13 dicembre 1989, n. 460196, in I

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verso la neutralità del sistema, la realizzazione di un mercato comune che implichi una sana concorrenza, che potrebbe essere lesa nell’ipotesi di doppia tassazione o salti d’imposta. In effetti, nel caso in cui il soggetto non residente ceda dei beni o effettui delle prestazioni di servizi territorialmente imponibili a favore di consumatori finali si realizzerebbe un salto d’imposta, poiché il privato consumatore è impossibilitato ad adottare il meccanismo del reverse charge di cui all’art. 17, comma 3; inoltre il soggetto non residente godrebbe di un vantaggio concorrenziale perché potrebbe offrire ai consumatori i beni o i servizi ad un prezzo inferiore poiché non gravato da alcuna imposta26. In conclusione, diversamente da quanto sostenuto dalla Commissione, si ritiene che la società non residente non era tenuta alla nomina del rappresentante fiscale in quanto i cessionari erano soggetti passivi d’imposta che hanno provveduto ad autofatturare l’operazione. Torna ad evidenziarsi, dunque, l’equiparazione ai fini della tassazione dell’operazione tra rappresentante fiscale e reverse charge. Simmetricamente, sotto il profilo delle operazioni passive, deve rilevarsi che il soggetto non residente il quale non ha optato per la nomina di un rappresentante fiscale o per l’identificazione diretta, ha il diritto di rimborso ai sensi dell’art. 38-ter dell’Iva sostenuta sugli acquisti.

Quattro Codici della Riforma Tributaria BIG Ipsoa). 25 Ai sensi dell’art. 30, comma 3, lett. e del D.P.R. n. 633/1972, il diritto al rimborso dell’eccedenza detraibile risultante dalla dichiarazione Iva annuale, se di importo superiore ad euro 2.582,28, compete al rappresentante fiscale. Quanto ai rimborsi infrannuali, la R.M. 4 marzo 1995, n. 47/E (in I Quattro Codici della Riforma Tributaria BIG Ipsoa) ha chiarito che i soggetti non residenti privi di stabile organizzazione in Italia possono ottenere il rimborso dell’IVA assolta in Italia all’atto dell’acquisto di beni e servizi attraverso la nomina di un rappresentante fiscale. 26 Nel vigore della disciplina previgente, la quale non prevedeva alcun obbligo di designazione, nell’ipotesi prospettata l’amministrazione finanziaria era giunta ad escludere dal-

l’ambito di applicazione dell’imposta le prestazioni rese da un impresa sammarinese ad un soggetto nazionale non esercente attività d’impresa, arte o professione (nella specie un ente comunale nell’esercizio delle funzioni istituzionali), quindi, impossibilitato all’assolvimento del tributo mediante l’emissione dell’autofattura ai sensi dell’art. 17, comma 3 del D.P.R. 633/72 (R.M. 23 aprile 1997, n. 88/E, in Riv. Dir. Trib., 1998, II, 203). Contra R.M. 31 ottobre 2000, n. 162, in I Quattro Codici della Riforma Tributaria BIG Ipsoa, in cui si afferma che in presenza di prestazioni territorialmente rilevanti in Italia nei confronti di privati consumatori, benché non imponibili, in assenza di una sede o stabile organizzazione nel territorio dello Stato il soggetto non residente è tenuto a nominare un rappresentante fiscale in Italia.


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Commissione tributaria di II grado di Trento, sez. I, 19 settembre 2006, n. 53 Presidente e Relatore: Patumi Iva - Condono - Presentazione della dichiarazione modello Unico senza compilazione del quadro Iva - Inammissibilità del condono (L. n. 289 del 2002, art .7) È esclusa dalla definizione automatica (condono) dell’Iva, prevista dall’art. 7 della legge n. 289 del 2002, l’impresa che abbia presentato la dichiarazione (c.d. modello “Unico”) senza compilare il quadro relativo a detta imposta.

Svolgimento del processo L’Agenzia delle Entrate di Trento notificava, in data 8 ottobre 2004, alla T. S.n.c. un avviso di accertamento Iva relativo all’anno d’imposta 1999, con il quale, constatata l’omessa presentazione della dichiarazione, accertava, ai sensi dell’art. 55 del D.P.R. n. 633/1972, una imposta pari ad euro 35.701,12 ed irrogava sanzioni per euro 70.147,41. Nel medesimo atto, l’Agenzia comunicava alla contribuente che l’istanza di condono ex art. 7 della L. n. 289/2002, concernente lo stesso anno 1999, non poteva ritenersi validamente presentata. Contro tale atto, la società presentava domanda di accertamento con adesione e, conclusosi negativamente tale procedimento, adiva la Commissione tributaria di primo grado eccependo: 1. la validità della citata istanza di condono per gli anni d’imposta 1997/2001; 2. l’inapplicabilità dell’art. 52, comma 5 del D.P.R. n. 633/1972; 3. la mancata considerazione del versamento Iva dicembre 1999 e del credito Iva 1998; 4. in subordine, la non applicazione delle sanzioni, ai sensi dell’art. 8 del D.Lgs. n. 546/1992. L’Agenzia, costituitasi in giudizio, chiedeva il rigetto di tutte le domande della ricorrente. I giudici di primo grado, con la sentenza n. 77/3/05 del 26 settembre 2005, accoglievano parzialmente il gravame ammettendo in detrazione lire 4.036.000 e compensando le spese. Contro tale decisione, si appellava la contribuente, con atto del 23 febbraio 2006 sostenendo: a. validità del condono; b. omessa pronuncia su punti rilevanti della questione e cioè inapplicabilità del citato art. 52, comma 5, e richiesta di riconoscimento delle risultanze contabili;

c. inapplicabilità delle sanzioni; chiedendo, in conclusione: – validità dell’istanza di condono e conseguente annullamento dell’accertamento; – la non applicabilità del citato art. 52, comma 5, anche ai sensi dell’art. 10 della L. n. 212/2000; – rilevanza, ai fini della quantificazione del presunto debito tributario, delle risultanze dei registri Iva e liquidazioni periodiche; – in subordine, non applicazione delle sanzioni ai sensi dell’art. 8 del D.Lgs n. 546/1992 e dell’art. 10 della L. n. 212/2000; – condanna al pagamento delle spese di giudizio; – sospensione della riscossione delle sanzioni ai sensi dell’art. 19 del D.Lgs. n. 472/1997 e art. 47 del D.Lgs. n. 546/1992; – discussione in pubblica udienza. Con atto depositato il 14 aprile 2006, si costituiva in giudizio l’Agenzia contestando le affermazioni della contribuente e, in merito alla richiesta sospensione delle sanzioni, la subordinava alla prestazione di idonea garanzia. Con decreto del 26 aprile 2006, il presidente della Commissione convocava le parti per la camera di consiglio del 24 maggio 2006, ai sensi dell’art. 47 del D.Lgs. n. 546/1992, per discutere della richiesta di sospensione delle sanzioni. Con ordinanza emessa nella stessa giornata della camera di consiglio, il Collegio disponeva la sospensione della riscossione delle sanzioni, applicate dall’Agenzia delle Entrate, a condizione che la contribuente prestasse idonea garanzia bancaria, assicurativa o fideiussoria. Alla discussione orale del 20 luglio, le parti ribadivano i rispettivi punti di vista. Motivi della decisione L’appello, ad avviso della Commissione, è infondato e, in quanto tale, non può trovare accoglimento per i seguenti motivi: I. Non ha alcun pregio la prima censura della contribuente concernente l’interpretazione dell’art. 7 della L. 27 dicembre 2002, n. 289. Tale norma, infatti, al comma 3, afferma testualmente: “La definizione automatica di cui ai commi 1 e 2 è esclusa per i soggetti: a) che hanno omesso di presentare la dichiarazione ovvero non hanno indicato nella medesima reddito d’impresa o di lavoro autonomo, ovvero il reddito agrario [...]”. Come appare evidente dalla disgiuntiva rimarcata in corsivo, il legislatore ha inteso escludere dalla definizione in questione sia coloro che hanno


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omesso la presentazione della dichiarazione, quanto coloro che, pur avendola presentata, non hanno indicato nella medesima il reddito d’impresa o di lavoro autonomo, ecc. Il che significa che l’appellante sarebbe stata esclusa dalla definizione automatica sia nell’ipotesi che non avesse presentato la dichiarazione, sia nel caso che, pur avendola presentata, non avesse indicato il reddito ivi menzionato. Ma – come si è visto – la T. S.n.c. rientra nella prima categoria in quanto non ha presentato la dichiarazione. La tesi sostenuta dalla contribuente sarebbe stata accoglibile se la norma avesse affermato: “La definizione […] è esclusa per i soggetti: a) che hanno omesso di presentare la dichiarazione cioè non hanno indicato [...]”. Parimenti infondata, ad avviso del Collegio, la tesi dell’appellante secondo cui, nella fattispecie, la dichiarazione sarebbe stata regolarmente presentata, pur non essendo stato compilato il solo modello Iva. Come correttamente fatto osservare dall’Agenzia, il modello “Unico 2000” è un modello unificato, tramite il quale è possibile presentare più dichiarazioni (dichiarazione dei redditi, dichiarazione Iva, dichiarazione dei sostituti d’imposta e dichiarazione Irap): non compilare il modello Iva equivale ad ometterne la dichiarazione. II.La seconda doglianza dell’appellante concerne la presunta omessa pronuncia, da parte dei giudici di primo grado, della inapplicabilità dell’art. 52, comma 5, del D.P.R. 26 ottobre 1992, n. 633, è del

pari infondata in quanto la Commissione di primo grado, motivando su tale punto, ha affermato testualmente: “L’omessa presentazione della dichiarazione costituisce dunque “causa ostativa” della definizione automatica, e ritualmente l’Ufficio, constatata l’inottemperanza all’invito di comparizione e produzione della documentazione, ha proceduto alla emissione dell’avviso di accertamento”. III. Ugualmente infondata l’eccezione sulla inapplicabilità delle sanzioni ai sensi dell’art. 8 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in quanto tale norma consente tale beneficio solo “quando la violazione è giustificata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferisce”. Condizioni che, nella fattispecie, non ricorrono, come si è cercato di dimostrare finora. IV. In sede di discussione pubblica, l’appellante ha sostenuto una tesi a dir poco singolare, e cioè la responsabilità del Caf, che si sarebbe “dimenticato” di compilare la parte della dichiarazione concernente l’Iva: se tale affermazione fosse veritiera – e corroborata da prove consistenti – la contribuente potrebbe rivalersi dei danni subiti nelle competenti sedi giudiziarie. Alla luce delle suesposte argomentazioni, l’appello è da respingere, Considerata, tuttavia, la problematicità di taluni aspetti della materia in questione, si ritiene equo compensare le spese.

Nota

dono i soggetti “che hanno omesso di presentare la dichiarazione, ovvero non hanno indicato nella medesima reddito di impresa [...]”. In sostanza, il ragionamento seguìto dai giudici d’appello si articola in due passaggi, consistenti – il primo – nell’affermare che il modello Unico “è un modello unificato, tramite il quale è possibile presentare più dichiarazioni (dichiarazione dei redditi, dichiarazione Iva, dichiarazione dei sostituti d’imposta e dichiarazione Irap): non compilare il modello Iva equivale ad ometterne la dichiarazione”; ed – il secondo – nel desumere da ciò la preclusione alla sanatoria fiscale. Sul primo passaggio logico nulla quaestio. L’autonomia delle singole dichiarazioni d’imposta appare indiscutibile pur nella loro prevista contestualità documentale, ed è confermata dalle disposizioni che, ai fini sanzionatori, individuano con riguardo a ciascun tributo una distinta fattispecie di omessa dichiarazione (art. 1 del D.Lgs. n. 471 del 1997 per le imposte sui redditi; art. 5 del medesimo decreto per l’Iva; art. 32 del D.Lgs.

Nel caso di specie una società, dopo aver compilato il modello Unico 2000 nella parte relativa al reddito d’impresa ma non in quella riservata all’Iva, aveva presentato istanza di definizione automatica per anni pregressi ai sensi dell’art. 7, comma 1, della L. n. 289 del 2002 (che consentiva alle imprese – oltre che ai professionisti – di definire i redditi con “effetto ai fini delle imposte sui redditi e relative addizionali, dell’Iva e dell’Irap”). L’Ufficio aveva notificato avviso di accertamento contestando l’omessa dichiarazione dell’Iva e l’invalidità dell’istanza di condono; il ricorso proposto dalla società era stato parzialmente accolto in primo grado con riconoscimento di alcune detrazioni d’imposta; la sentenza in esame conferma la pronuncia di prime cure ritenendo – ed è questo il punto più interessante della motivazione – che l’omessa compilazione del quadro Iva del modello Unico 2000 precludesse la definizione automatica, perché il comma 3 dello stesso art. 7 della L. n. 289 del 2002 escludeva dal con-


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n. 446 del 1997 per l’Irap). Non v’è dubbio pertanto che presentare il modello Unico senza compilare il quadro Iva equivalga ad omettere la dichiarazione annuale di tale imposta. Dubbi suscita invece la sentenza nella parte in cui ricollega all’omessa dichiarazione dell’Iva la preclusione alla sanatoria fiscale. Sembra infatti che, nell’escludere dalla sanatoria coloro “che hanno omesso di presentare la dichiarazione”, il comma 3 dell’art. 7 della L. n. 289 del 2002 facesse riferimento alla sola dichiarazione dei redditi (nella specie, dei redditi di impresa), non anche alle dichiarazioni dell’Iva o dell’Irap. Come già ricordato, invero, il comma 1 dello stesso art. 7 prevedeva la “definizione automatica dei redditi” e ne sanciva gli effetti “ai fini delle imposte sui redditi e relative addizionali, dell’Iva e dell’Irap”: introducendo così

una sorta di ultrattività dell’istanza di condono, modulata sulla situazione reddituale dichiarata dal contribuente al fisco, ma idonea a definire anche le obbligazioni tributarie afferenti all’Iva ed all’Irap. Si tratta di una soluzione poco razionale, che porta a ritenere la sanatoria ammissibile per coloro che avessero dichiarato i redditi ma non il volume d’affari, ed inammissibile per coloro che si fossero comportati in maniera inversa: ma a ciò pare condurre il disposto della norma in esame. È vero quindi, come si legge in motivazione, che la società sarebbe stata esclusa dalla definizione automatica se non avesse presentato il modello Unico o se non avesse dichiarato il reddito d’impresa; più opinabile è ricondurre alle ipotesi di esclusione previste dal comma 3 dell’art. 7 della L. n. 289 del 2002 l’omessa compilazione del quadro Iva.


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Commissione tributaria regionale del Piemonte, sez. IV, 1 febbraio 2006, n. 54 Presidente: Comoglio – Relatore: D’Addesio Processo tributario - Silenzio-rifiuto - Ricorso alla Commissione tributaria nella cui circoscrizione ha sede l’Ufficio cui è stata presentata l’istanza - Competenza territoriale - Sussistenza Istanza di rimborso - Ufficio territorialmente incompetente - Inesistenza del provvedimento - Inconfigurabilità del silenzio-rifiuto In tema di contenzioso tributario, la competenza territoriale delle Commissioni si determina sulla base dell’Ufficio finanziario che ha adottato l’atto contro il quale si ricorre. Nell’ipotesi di presentazione di un’istanza di rimborso, a seguito del silenzio mantenuto dall’Amministrazione, competente a conoscere del ricorso è la Commissione tributaria nella cui circoscrizione ha sede l’Ufficio cui l’istanza è stata presentata e che, con i silenzio rifiuto, l’ha implicitamente rigettata, a nulla valendo la questione attinente la competenza amministrativa di tale Ufficio e la sua legittimazione a disporre il rimborso. L’impugnazione del silenzio-rifiuto proposta contro un Ufficio non competente a pronunciarsi, implica l’infondatezza della domanda per inesistenza del provvedimento e l’inconfigurabilità del silenzio-rifiuto. Svolgimento del processo La vicenda portata al vaglio di questa Commissione, nasce dal silenzio rifiuto formatosi a seguito della presentazione di una istanza di rimborso che il contribuente, dipendente delle Ferrovie dello Stato prima e di Trenitalia S.p.A. poi, residente in Svizzera ed iscritto all’Aire di Bardonecchia, aveva presentato richiedendo la restituzione di tutte le ritenute d’acconto operate sulle retribuzioni ottenute. Il ricorso si fondava sulla esclusione prevista dall’art. 3 del T.U.I.R che, al comma 3, lettera c stabilisce l’esclusione dalla base imponibile dei “redditi derivanti da lavoro dipendente prestato all’estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto”, e chiedeva la restituzione di tutti gli importi versati nel corso di tutto il rapporto, in via subordinata di tutti quelli versati negli ultimi dieci anni precedenti l’istanza di rimborso, ed in via ulteriormente gradata quelli versati nel termine decadenziale di 48 mesi antecedenti la data di pre-

sentazione dell’istanza di rimborso. Resisteva l’Ufficio eccependo l’incompetenza territoriale della Commissione provinciale di Torino per essere stata attribuita dalla Agenzia delle Entrate una competenza esclusiva a vagliare le questioni relative ai redditi prodotti da residenti all’estero all’Ufficio di Pescara, città la cui Commissione provinciale veniva indicata come competente. Nel merito richiamava una convenzione italo-svizzera che regolamenta la materia evitando la doppia imposizione, recepita nell’ordinamento con legge 23 dicembre 1978, n. 943. La Commissione di prime cure, rigettata la questione di incompetenza ha, sulla scorta della convenzione italo svizzera sopra citata, accolto la domanda di restituzione delle ritenute per gli anni 1998, 1999, 2000, 2001, motivando circa la esclusione della base imponibile delle retribuzioni dei dipendenti di società private (quale la Trenitalia S.p.A. deve essere considerata) essendo invece imponibili le retribuzioni pagate dalla Stato o da sue articolazioni, anche economiche, quali le Ferrovie dello Stato devono essere considerate. Appella l’Ufficio ribadendo la questione di competenza territoriale e dolendosi, nel merito, della circostanza secondo la quale anche Trenitalia S.p.A. deve essere considerata articolazione dello Stato essendo il capitale in mano pubblica. Resiste il contribuente il quale chiede in conferma della decisione che, a suo dire, avrebbe accolto la domanda ulteriormente subordinata di accoglimento della richiesta di rimborso delle ritenute versate nel termine decadenziale di 48 mesi dalla domanda stessa. Motivi della decisione Occorre innanzi tutto esaminare la questione di competenza nuovamente proposta in questa sede dalla difesa dell’Ufficio. La giurisprudenza ha, affermato che “in tema di contenzioso tributario, la competenza territoriale delle commissioni di primo grado [...] si determina sulla base della sede dell’Ufficio finanziario che ha adottato l’atto o il provvedimento contro cui si ricorre; di conseguenza, nell’ipotesi di azione proposta dal contribuente, a seguito del silenzio mantenuto all’amministrazione finanziaria su una istanza di rimborso, competente a conoscere del ricorso è


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la commissione tributaria nella cui circoscrizione ha sede l’Ufficio cui l’istanza è stata presentata e che, con il silenzio rifiuto, l’ha implicitamente rigettata, rimanendo irrilevante, ai fini della competenza giurisdizionale, la questione attinente al merito, circa la competenza di quell’Ufficio sul rapporto tributario e la sua legittimazione a disporre il rimborso” (Cass., sez. trib., 21 giugno 2002, n. 9096). Tale principio, sorto sotto il vigore del vecchio regime processuale posto dal D.P.R. 636/1972, non è modificato alla luce dell’art. 4 del D.Lgs 546/1992, ove la competenza giurisdizionale è legata alla sede dell’Ufficio competente, che determina l’individuazione della Commissione provinciale competente. Occorre ancora rilevare che il silenzio rifiuto è un istituto giuridico che trova applicazione esclusivamente nei casi previsti dalla legge. La fattispecie, in presenza della quale il silenzio dell’amministrazione assume il valore di rifiuto, non può dirsi integrata se non nel concorso di tutti gli elementi previsti dalla legge, Tra tali elementi valore determinante assume precisamente l’istanza rivolta all’organo incompetente, in difetto della quale non può neppure parlarsi di silenzio. La questione, pertanto, non può essere trattata sotto un profilo di difetto di competenza giurisdizionale ma sotto la differente questione relativa al difetto dell’esistenza di un provvedimento negativo sull’istanza di rimborso, anche se nella forma del silenzio rifiuto, la quale, attenendo alla proponibilità della richiesta di un sindacato giurisdizionale sul rapporto dedotto in giudizio, è normativamente sottratto al potere di disposizione delle parti, e quella, ulteriore, concernente gli effetti sostanziali della presentazione della domanda di rimborso ad un organo incompetenza (cfr.: Cass., sez. un., 13 novembre 1997, n. 11217; Cass., 11 settembre 1996, n. 9020; Cass., 6 luglio 2001, n. 9176). Infatti, nell’ipotesi di azione proposta dal contribuente a seguito del silenzio opposto dall’amministrazione finanziaria ad una sua istanza, la competenza a conoscere del ricorso spetta sempre alla Commissione tributaria nella cui circoscrizione ha

sede l’Ufficio al quale l’istanza stessa è stata presentata e che con il silenzio l’ha implicitamente rigettata, giacché, anche in caso di incompetenza dell’organo finanziario, si radica un procedimento amministrativo e sorge il dovere del destinatario di pronunciarsi sull’istanza, pur se al limitato fine di declinare la propria competenza (cfr.: Cass. 23 luglio 1992, n. 8906; Cass. 20 aprile 2001, n. 5862; Cass. 21 giugno 2002, n. 9096). Ne deriva che, per i motivi sopra detti, va affermata la competenza della Commissione provinciale di Torino. Gli stessi motivi che sorreggono l’affermazione della competenza giurisdizionale, portano, tuttavia, a rigettare nel merito la pretesa del contribuente, essendo del tutto carente un provvedimento impugnabile, posto che l’impugnazione di un silenzio rifiuto proposta contro un Ufficio non competente a pronunciarsi, pur essendo l’istanza di rimborso sempre valevole ai fini della interruzione del termini prescrizionali, implica l’infondatezza della domanda, per inesistenza del provvedimento impugnabile. Infatti non appare dubbio che la competenza a pronunciarsi sulla istanza presentata dal contribuente sia il centro operativo di Pescara: né vale a contestare tale affermazione la circostanza che il domicilio fiscale del contribuente sarebbe individuato in Bardonecchia. L’Agenzia delle Entrate di Susa non è competente a pronunciarsi sulla domanda di rimborso e pertanto quella domanda non poteva essere rivolta a quell’Ufficio. Conseguentemente il silenzio rifiuto non si è formato. Detta questione, esistenza di un provvedimento impugnabile, rientra nel merito della vicenda ed è rilevabile anche d’ufficio dal giudice dell’appello, non essendosi formato su di esse alcun giudicato interno. Conseguentemente la sentenza di prime cura va riformata dovendosi rigettare l’impugnazione per inesistenza del provvedimento impugnabile. Sussistono giusti motivi di compensazione integrale della spese tra le parti.

Nota

rimborso all’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate competente per territorio sulla base dell’ubicazione dell’Aire cui era iscritto. Oggetto della domanda di rimborso era la restituzione delle ritenute d’acconto operate sulle retribuzioni ottenute, in virtù dell’esclusione prevista dall’art. 3, comma 3, lett. c, D.P.R. 917/1986. L’Ufficio competente a conoscere della questione, tuttavia, era, ratione materiae, il centro operativo di Pescara, dotato di competenza esclusiva a vagliare tutte le questioni atti-

La questione centrale affrontata dalla Commissione tributaria regionale Piemonte concerne l’individuazione della competenza territoriale del giudice tributario a fronte del silenzio-rifiuto formatosi a seguito della presentazione di un’istanza di rimborso ad un Ufficio incompetente. Nel caso di specie, un contribuente non residente, ma iscritto all’Aire, aveva presentato istanza di


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nenti ai redditi prodotti da residenti all’estero (su tali profili si veda CALIFANO, Controversie in tema di crediti di imposta, centro operativo e profili di competenza territoriale, in TributImpresa, 2004, 5, 55 ss.). Il principio, secondo cui la legittimazione processuale si determina in base al domicilio fiscale del contribuente, risulta un assunto che necessita di precisazioni. Se è vero, infatti, che la legittimazione processuale passiva resta attribuita all’Ufficio territorialmente competente che ha proceduto all’accertamento in base al domicilio fiscale del contribuente, è altresì da evidenziare che nel differente caso in cui il contribuente presenti un’istanza ad un Ufficio diverso da quello che ha sede nella circoscrizione del suo domicilio, che egli individua come competente, la legitimatio ad processum spetta all’Ufficio che ha rifiutato in maniera espressa o tacita l’istanza del contribuente, e ciò anche quando lo stesso non poteva essere considerato competente a ricevere. Il ricorso in sede processuale va indirizzato nei confronti dell’Ufficio che ha emesso, in maniera tacita o espressa, un provvedimento anche se non competente. Ciò trova fondamento nell’impostazione secondo la quale l’atto emanato da un Ufficio incompetente è da valutare sotto il profilo della sua legittimità, e non sotto il profilo della sua giuridica inesistenza (cfr. Cass., sez. trib., 21 giugno 2002, n. 9096, in Giust. Civ. Mass., 2002, 1071). Tale interpretazione, tuttavia, sconta il contrario avviso delle sezioni unite della Cassazione, secondo cui la presentazione di un’istanza ad un Ufficio incompetente impedisce la formazione di un provvedimento negativo anche nelle forme del silenzio-rifiuto, determinando l’inesistenza giuridica dell’atto e conseguentemente l’improponibilità del ricorso al giudice tributario per difetto di provvedimento impugnabile (Cass., sez. un., 13 novembre 1997, n. 11217, in Corriere Trib., 1998, 43, 3203; si veda altresì, sul punto, PACE, Sulla presentazione dell’istanza di rimborso ad Ufficio incompetente: profili processuali, in GT Riv. Giur. Trib., 1998, 5, 432 ss. Da rilevare, infine, che tale orientamento delle sezioni unite è stato poi seguito da Cass., 21 ottobre 1998, n. 10413, in Corriere Trib., 1999, 6, 443). Parimenti, secondo altra interpretazione giurisprudenziale della Cassazione, il provvedimento emesso in carenza di competenza territoriale è configurabile come ipotesi di incompetenza assoluta che determina carenza di potere e quindi l’inesistenza del provvedimento (Così Cass., sez. un., 18 dicembre 1986, n. 7662, in Foro It., 1987, I, 2452; Cass., sez. un., 14 dicembre 1983, n. 7367, in Giust. Civ., 1984, I, 688; Cass., sez. un., 6 agosto 1977, n. 3581, in Foro It., 1979, I, 1262). Gli effetti che deriverebbero dalla rigorosa posizio-

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ne secondo cui il provvedimento emesso in assenza di competenza territoriale è giuridicamente inesistente, condurrebbero all’impossibilità di impugnare il provvedimento di diniego tacito o espresso per mancanza di un atto da impugnare, con i conseguenti intuibili effetti per i contribuenti. L’inesistenza derivante dalla presentazione dell’istanza ad un ufficio incompetente potrebbe infatti dar luogo ad effetti insanabili derivanti dalla perdita della possibilità di esercitare i diritti connessi ad una nuova presentazione dell’istanza per l’avvenuta consunzione dei termini decadenziali, anche sulla base della considerazione che, nel processo tributario, viene negata l’applicabilità dell’istituto della rimessione con riferimento ai termini previsti per il ricorso e per la costituzione in giudizio del ricorrente (in questi termini Cass., 19 maggio 2003, n. 7814, in Fisco, 2000, 27, 9081 ss.). Sulla questione la prassi amministrativa ha peraltro indicato che, in caso di presentazione di istanze ad Uffici incompetenti, nessuna conseguenza negativa potrà verificarsi per i contribuenti in quanto, all’atto del ricevimento, sarà cura degli Uffici trasmettere agli organi competenti tali istanze. Qualora tuttavia ciò non avvenisse, ed il provvedimento fosse emesso in mancanza di competenza territoriale, solo se l’atto fosse considerato illegittimo e non inesistente, sarebbe consentita la sua impugnazione per farne valere la relativa illegittimità avanti alla Commissione tributaria provinciale nella cui circoscrizione ha sede l’Ufficio che lo ha emanato. Sotto il profilo processuale, la soluzione che pare da condividersi è in ogni caso quella secondo la quale l’eventuale incompetenza dell’Ufficio locale dell’Agenzia che ha emesso l’atto non assume rilievo ai fini dell’individuazione della competenza delle Commissioni tributarie, la quale resta ancorata al puro dato formale della sede dell’Ufficio che ha emanato l’atto (così DELLA VALLE, La competenza, in AA.VV, Il processo tributario, a cura di TESAURO, Torino 1998, 80). Le considerazioni svolte offrono un proficuo spunto per valutare, sul piano processuale, i riflessi derivanti dalla presentazione di istanze ad Uffici incompetenti, dato che l’orientamento della giurisprudenza in ordine a tale questione non è stato uniforme. I giudici di merito e di legittimità hanno talvolta considerato valide le istanze di rimborso presentate ad Uffici incompetenti, sulla base della valutazione che l’istanza doveva essere trasmessa all’Ufficio competente a cura dell’Ufficio che non si riteneva tale, restando in ogni caso configurabile, in mancanza, un diniego tacito impugnabile avanti al giudice tributario (Cass., 8 febbraio 1988, n. 4878, in Corriere Trib., 39/1988, 2907; Comm. trib. centr., 16 gennaio


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1990, n. 211, in Corriere Trib., 10/1990, 723; Comm. trib. centr., 4 aprile 1989, n. 2451, in Corriere Trib., 34/1989, 2354; Comm. trib. centr., 7 marzo 1989, n. 1694, in Corriere Trib., 33/1989, 2292). Su tale problematica è poi intervenuta, come già segnalato, la Corte di Cassazione a sezioni unite, rilevando che la presentazione di un’istanza ad un Ufficio incompetente «osta alla formazione del provvedimento negativo anche nelle forme del silenzio-rifiuto e determina l’improponibilità del ricorso al giudice tributario per difetto di provvedimento impugnabile» (Così Cass., sez. un., 13 novembre 1997, n. 11217, cit., 3203). In tema di incompetenza, infatti, si distingue, sotto il profilo degli effetti derivanti da tale vizio, fra incompetenza assoluta ed incompetenza relativa, distinzione, questa, che viene ravvisata nella sussistenza della titolarità della funzione dell’amministrazione che ha emanato l’atto nella relativa materia: se quest’ultima opera in settori del tutto differenti, si ha incompetenza assoluta; viceversa se i compiti in quella materia sono ripartiti tra più amministrazioni, tra le quali quella che ha emanato l’atto, il provvedimento potrà risultare viziato ma non inesistente[sul tema si v. Cons. Stato, sez. V, 12 marzo 1988, n. 151, in Foro Amm., 1988, 468). Quando il difetto di attribuzione è così radicale da impedire, nella concreta fattispecie, un’espressione del potere che si vuole esercitare, la giurisprudenza si esprime in termini di incompetenza assoluta, che determina una carenza di potere e conseguentemente l’inesistenza del provvedimento (Cass., sez. un., 18 dicembre 1986, n. 7662, in Foro It., 1987, I, 2452; Cass., sez. un., 14 dicembre 1983, n. 7367, in Giust. Civ., 1984, I, 688; Cass., sez. un., 6 agosto 1977, n. 3581, in Foro It., 1979, I, 1262). Sotto il profilo che qui interessa analizzare, il provvedimento emesso in carenza di competenza territoriale è configurabile, sempre secondo la menzionata interpretazione giurisprudenziale, come ipotesi di incompetenza assoluta che determina carenza di potere e quindi l’inesistenza del provvedimento. Tali orientamenti appaiono radicali ove l’incompetenza si configuri all’interno di uno stesso apparato amministrativo, anche alla luce della recente modifica della legge sul procedimento amministrativo che ha operato una codificazione dei vizi (il riferimento è all’art. 21-octies, L. 241/1990, così come modificato dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15; per approfondimenti sui profili dell’invalidità nel diritto tributario si veda TESAURO, L’invalidità dei provvedimenti impositivi, in Boll. Trib., 2005, 1447 ss.). È, infatti, normativamente previsto, in base all’arti-

colo 5 della legge 18 dicembre 1968 e n. 249 ed all’articolo 2, comma 3 del D.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199, che «le istanze rivolte ad organi diversi da quello competente, ma appartenenti alla medesima amministrazione centrale, sono trasmesse d’ufficio all’organo competente» e che «i ricorsi rivolti, nel termine prescritto, ad organi diversi da quello competente, ma appartenenti alla medesima amministrazione, non sono soggetti a dichiarazione di irricevibilità ed i ricorsi stessi sono trasmessi d’ufficio all’organo competente». Il dato normativo consente dunque di ovviare alle conseguenze derivanti dalla violazione delle norme sulla competenza, impedendo che la linea interpretativa della Suprema Corte conduca all’impossibilità di impugnare il provvedimento di diniego tacito o espresso per mancanza dell’atto, in quanto considerato giuridicamente inesistente, e quindi il verificarsi di effetti insanabili derivanti dalla possibile consunzione dei termini per la riproposizione dell’istanza. Occorre inoltre sottolineare che, sul punto, la posizione assunta dalla prassi amministrativa risulta in linea con i principi generali di garanzia sanciti dallo Statuto del contribuente in tema di collaborazione e tutela dell’affidamento, specificamente previsti all’articolo 10 della legge 212/2000. Ed invero, con specifico riferimento alla problematica affrontata dalla sentenza in commento, la circolare n. 123/E del 2002, proprio richiamando i principi contenuti nello Statuto, ha stabilito che nell’attuale fase di soppressione dei centri di servizio e di attivazione dei centri operativi, nelle ipotesi di presentazione di istanze ad un Ufficio incompetente, nessuna conseguenza negativa potrà verificarsi per i contribuenti in quanto sarà cura degli Uffici trasmettere agli organi competenti tali istanze. Sulla base delle considerazioni suddette, pertanto, le conclusioni cui giunge la Comm. trib. reg. condivisibili sotto il profilo del riconoscimento della competenza territoriale della Commissione tributaria nella cui circoscrizione ha sede l’Ufficio cui l’istanza è stata presentata e che, con i silenzio rifiuto, l’ha implicitamente rigettata, anche quando lo stesso non poteva essere considerato competente a ricevere l’istanza stessa. Al contrario, la sentenza in commento erra laddove ritiene che «l’impugnazione del silenzio-rifiuto proposta contro l’Ufficio non competente a pronunciarsi , pur essendo l’istanza di rimborso sempre valevole ai fini dell’interruzione dei termini prescrizionali, implica l’infondatezza della domanda, per inesistenza del provvedimento impugnabile». In primo luogo, infatti, la presentazione di un’i-


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stanza di rimborso nei termini è idonea solo a non portare a consunzione i termini decadenziali, e non ad interrompere i termini “prescrizionali”, decorrendo questi ultimi dal rifiuto espresso di rimborso o, nel caso di silenzio rifiuto, dopo novanta giorni dalla presentazione dell’istanza. Oltre a ciò, dalla semplice ricognizione del dato normativo, si doveva desumere che la presentazione di un’istanza ad un Ufficio incompetente (che nel caso de quo era, rationae materie, un altro Ufficio dell’Agenzia delle Entrate, ovvero il centro operativo di Pescara) non determina la sua giuridica inesistenza ma, al contrario, in base al combinato disposto dell’articolo 5 della legge 18 dicem-

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bre 1968 e n. 249 e dell’articolo 2, comma 3 del D.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199, le istanze rivolte ad organi diversi da quello competente, ma appartenenti alla medesima amministrazione, devono essere trasmesse d’ufficio all’organo competente non essendo soggette a dichiarazione di irricevibilità. Nella concreta fattispecie questo non è avvenuto, in quanto l’Ufficio dell’Agenzia non competente non ha trasmesso l’istanza al centro operativo di Pescara, impedendo, in tal modo, che si configurasse il silenzio-rifiuto e profilando, in tale caso, anche un’ipotesi di responsabilità disciplinare, se non addirittura aquiliana dell’amministrazione.

Commissione tributaria provinciale di Vicenza, sez. II, 8 marzo 2006, n. 20 Presidente: Pittaro – Relatore: Mirizzi Processo tributario - Deposito di documenti e memorie - Termini ex art. 32, D.Lgs. 546/1992 Perentorietà (D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 32) Catasto - Classamento - Modifiche apportate all’immobile - Pregio e qualità inalterati - Rettifica di classe e di rendita - Illegittimità (D.P.R. 1 dicembre 1949, n. 1142, art. 61 ss.) I termini previsti dall’art. 32, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, per il deposito di documenti e memorie, appaiono preordinati ad una rigorosa tutela del diritto di difesa e devono, quindi, ritenersi previsti con carattere di perentorietà, pur in mancanza di una esplicita sanzione di decadenza dall’esercizio del relativo diritto per la parte onerata. Le modifiche riguardanti un fabbricato, qualora non ne mutino il grado di pregio e le qualità (e che non incidano, quindi, sulle dimensioni, sulle caratteristiche costruttive, sulle finiture o sulla dotazione di impianti) non sono idonee a variare la capacità dell’immobile di produrre reddito. Svolgimento del processo L’Agenzia del Territorio – Ufficio di V. –, preso atto della denuncia di variazione degli immobili di cui al fg. 17, particella n. 863, sub 8, e fg. 17, particella n. 863, sub 10, ubicati nel Comune di M. M., presentata dalla società C. C. S.p.A. il 23 febbraio 2004 con mod. Docfa con la proposta di classamento rispettivamente in cat. C/2, classe 1, R.C. euro 664,68, e in cat. C/1, classe 1, R.C. euro

7.696,97, ha notificato in data 13 agosto 2005 la conclusione del relativo accertamento assegnando al sub 8 la categoria C/2, la classe 2 con rendita catastale di euro 782,84 e al sub 10 la classe 4 con rendita catastale di euro 12.121,35. Il difensore della predetta società contesta il suddetto provvedimento ed eccepisce: 1) in via pregiudiziale, nullità dell’atto di attribuzione della rendita per difetto di motivazione in violazione dell’art. 3 della L. 7 agosto 1990, n. 241 e dell’art. 7 della L. 27 luglio 2000, n. 212, con conseguente violazione del diritto di difesa del contribuente (art. 24 della Costituzione), atteso che l’Ufficio nell’atto si è limitato a trascrivere le proposte del contribuente relative alla diversa distribuzione degli spazi interni per frazionamento e fusione; nessuna giustificazione adduce in ordine alla variazione della classe in palese assenza di opere o interventi edilizi atti a mutare le caratteristiche influenti sul reddito delle due unità immobiliari. Sia la normativa innanzi citata che la circolare ministeriale n. 8 del 14 agosto 2001 prevedono che l’attività amministrativa delle Agenzie del Territorio devono sottostare all’obbligo di motivazione in quanto sono illegittime le determinazioni estimative assunte allorché l’Ufficio si limita a indicare i prezzi ritenuti congrui, senza enunciare in alcun modo gli elementi di fatto eventualmente giustificativi dei prezzi stabiliti. Inoltre, evidenzia che l’Agenzia poteva rettificare le rendite proposte entro un anno (art. 1 del D.M. n. 701 del 19 aprile 1994), invece le ha notificate ben oltre tale termine e, comunque non si è attenuto alle disposizioni della circolare ministeriale n. 7/2005 che stabilisce la possibilità per l’Ufficio di agire anche oltre tale termine, però la retti-


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fica deve essere supporta da adeguata e congrua motivazione con specifici riferimenti agli elementi rilevanti in sede di sopralluogo; 2) in via principale, illegittimità del ripetuto atto di attribuzione di rendita perché attribuisce agli immobili in questione una classe erronea dalla quale scaturisce una rendita catastale arbitraria e comunque erronea in violazione degli art. 61 ss. del D.P.R. 1 dicembre 1949, n. 1142, considerato che nella procedura di classamento si prescinde completamente dal valore di mercato dei suddetti beni. Con tale procedura di classamento l’Ufficio non ha tenuto conto delle prevalenti consuetudini locali e delle caratteristiche costruttive degli immobili, conseguentemente, la classe e la conseguente rendita attribuite sono in palese contrasto con tali caratteristiche costruttive, con le finiture esterne e interne e con la dotazione di impianti esistenti nei beni in esame. Le modifiche apportate non sono consistite in ampliamenti, sopraelevazioni, alterazioni delle caratteristiche costruttive ovvero miglioramenti delle finiture esterne e interne o incrementi delle dotazioni di impianti, ma semplicemente, per il sub 8, nell’eliminazione di una scala interna di collegamento a seguito della soppressione del sub 3 che è stato appunto ripartito a seguito del frazionamento in sub 8 e in sub 9 (quest’ultimo esula dalla presente controversia), per il sub 10, nella ridefinizione dell’accesso, resasi necessaria a seguito del suddetto frazionamento. Per quanto sopra, chiede che la Commissione, in via pregiudiziale, dichiari la nullità dell’atto di attribuzione della rendita per difetto di motivazione, in via principale, l’illegittimità dell’atto di attribuzione della rendita in quanto attribuisce una classe erronea dalla quale deriva una rendita catastale arbitraria, con condanna dell’Ufficio al pagamento delle spese di lite. Il difensore della società in data 4 gennaio 2006 ha depositato una perizia di stima datata 1 dicembre 2005 degli immobili in questione redatta dal geometra D. M. nella quale sostanzialmente si attesta che la natura delle modifiche apportate e comunicate con denuncia presentata il 23 febbraio 2004 non hanno comportato alcun tipo di ampliamento o variazione delle finiture e degli impianti tecnologici presenti, ma sono consistite unicamente in una diversa distribuzione interna atta al frazionamento delle originarie unità immobiliari, per cui il pregio e la qualità del fabbricato sono rimasti del tutto inalterati. Pertanto, dal sopralluogo effettuato risulta che le strutture, le finiture esterne e interne e gli impianti sono risalenti alla costruzione dell’edificio avvenuta nel 1995 e che negli anni successivi non hanno subito alcun intervento

atto al potenziamento o al miglioramento che ne alterino le caratteristiche originarie. Conseguentemente, il professionista conferma l’appartenenza per il sub 8, sub 9 e sub 10 alla classe 1, così come proposto dalla parte. L’Agenzia del Territorio si è costituita in giudizio il 24 novembre 2005 e nelle sue controdeduzioni, depositate il 26 gennaio, afferma di ritenere che il classamento attribuito debba essere confermato, più precisamente, in linea di diritto, dichiara che nel caso di specie la rettifica del classamento proposto ha toccato soltanto la classe lasciando immutati gli altri due elementi, cioè categoria e consistenza. Riferisce che: “l’operazione trova in se stessa la propria giustificazione e motivazione. Proprio come l’azione di imbucare la lettera nella cassetta giusta non richiede alcun ragionamento aggiuntivo se non il confronto tra tutte la cassette e quella prescelta”. Asserisce che nel particolare caso relativo alle ordinarie categorie e classi catastali, le operazioni di individuazione delle fasce di classamento sono state predisposte a priori, con tutte le garanzie dei procedimenti amministrativi, proprio al fine di evitare arbitrii nei successivi casi concreti di classamento, quindi si è reso omogeneo l’intero sistema attraverso un meccanismo di reciproca comparazione tra tutte le unità immobiliari di una stessa zona censuaria; inoltre, la costante giurisprudenza e il consolidato orientamento della Cassazione hanno stabilito che il provvedimento di attribuzione ad una unità immobiliare di una categoria e classe ordinaria non richieda nessuna specifica motivazione. Può essere errata la scelta del contenuto, ma il contenuto della scelta non necessità di essere motivato essendo, per così dire, autoreferenziale. In linea di fatto, asserisce che la variazione materiale è consistita in un frazionamento e che un frazionamento non è un intervento edilizio urbanistico da potersi considerare trascurabile: da questa considerazione è partito il riesame dell’Ufficio. Conseguentemente, le rettifiche apportate (classe 2 anziché 1 al sub 8, cat. C/2, classe 4 anziché 1 al sub 10, cat. C/1) appaiono congrue considerato soprattutto che nel Comune di M. M. le classi della cat. C/1 sono sei e quindi la classe 4 è intermedia tra le due. Chiede in definitiva che la Commissione confermi il classamento attribuito con condanna del contribuente al pagamento delle spese di lite. In sede di udienza il difensore del contribuente afferma innanzitutto che il sistema adottato dall’Agenzia del Territorio di procrastinare la presentazione delle controdeduzioni in ritardo, cioè prima la costituzione in giudizio e successivamente il de-


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posito delle controdeduzioni, viola il disposto dell’art. 32 del D.Lgs. n. 546/1992 che dispone che la costituzione in giudizio della parte resistente è fatta mediante deposito presso la segreteria della commissione adita del fascicolo contenente le controdeduzioni. Nel caso in esame, l’Ufficio si è costituito il 24 novembre 2005, ma ha depositato le controdeduzioni addirittura il 26 gennaio 2006, quindi violando altresì il disposto di cui all’art. 32 dello stesso D.Lgs. n. 546, in quanto non è stato rispettato il diritto di difesa del contribuente. Ribadisce quanto già risulta dal ricorso principale e insiste sul difetto di motivazione dell’atto di attribuzione del classamento catastale atteso che nello stesso non esiste alcuna specificazione circa il mutamento della classe, mutamento ingiustificato poiché le piccole modifiche apportate al fabbricato e specificate nel ricorso non hanno mutato le caratteristiche influenti sul reddito del bene. Del resto la perizia effettuata dal geometra M. D. avvalora quanto esposto nel ricorso. Il rappresentante dell’Agenzia si limita a confermare quanto risulta agli atti dell’Ufficio. Motivi della decisione Rileva che l’Agenzia del Territorio ha depositato le controdeduzioni al ricorso in esame solamente il 26 gennaio 2006 disattendendo le prescrizioni di cui all’art. 32 del D.Lgs. 546 del 31 dicembre 1992, che recita: “1 - Le parti possono depositare documenti fino a venti giorni liberi prima della data di trattazione osservato l’art. 24, comma 1. 2 - Fino a dieci giorni liberi prima della data di cui al precedente comma ciascuna delle parti può depositare memorie illustrative con le copie per le altre parti”. Ciò premesso, i suddetti termini, che appaiono preordinati ad una rigorosa tutela del diritto di difesa costituzionalmente garantito dalla Costituzione (art. 24), debbono ritenersi previsti con carattere di perentorietà, pur in mancanza di una esplicita sanzione di decadenza dell’esercizio del relativo diritto per la parte onerata. Tale convincimento risulta convalidato dalla sentenza n. 138 del 23 aprile 2003 della Corte di Cassazione che ha affermato: “La scansione (fino a venti giorni liberi […], fino a dieci giorni liberi [… ], ecc.) non riguarda solo l’attività processuale di una parte, ma assume preciso Nota Nel caso sottoposto al vaglio dei giudici, veniva impugnato un avviso con il quale l’Agenzia del Territorio, a seguito di una denuncia di variazione, retti-

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significato di tutela (sia per rispetto del diritto di difesa che del principio del contraddittorio) della controparte stabilendo dei termini precisi di scadenza entro i quali l’attività difensiva avversa può essere espletata e, di conseguenza, controllata. L’osservanza dei termini in questione, pertanto, deve ritenersi obbligatoria in quanto diretta a tutelare il suddetto diritto di difesa di controparte ed a realizzare il necessario contraddittorio tra le parti e tra queste ed il giudice per cui correttamente i termini in questione sono stati ritenuti perentori da questa Corte (Cass., sez. trib., 10 novembre 2000, n. 14624) anche in difetto della espressa previsione legislativa richiesta dal comma 2 dell’art. 152 del codice di procedura civile […]”. La successiva sentenza n. 1771 del 26 settembre della Suprema Corte ribadisce tale orientamento precisando che: “giusto quanto disposto dall’art. 153 del codice di procedura civile, la possibilità di sanatoria (anche) a seguito di acquiescenza è ammessa soltanto con riferimento alla forma degli atti processuali e non anche relativamente all’inosservanza dei termini perentori”. Conseguentemente, nel caso de quo le controdeduzioni dell’Ufficio risultano tardive e non possono essere prese in considerazione da questo collegio giudicante. Entrando nel merito, la Commissione giudica fondate le doglianze evidenziate dal ricorrente circa le modifiche effettuate dall’Agenzia del Territorio alla classe proposta dalla società alle due unità immobiliari atteso che le stesse, peraltro modeste, sono consistite nel frazionamento del fabbricato in un numero di unità immobiliari diverso rispetto al numero originario, nell’eliminazione di una scala interna per il sub 8 e nella ridefinizione dell’accesso per il sub 10, senza l’intervento di alcuna variazione nelle dimensioni, nelle caratteristiche costruttive, nelle finiture esterne ed interne o nella dotazione di impianti delle stesse. In sostanza, come specificato nel ricorso e precisato nella successiva perizia di stima stilata da un professionista del settore, il grado di pregio e la qualità del fabbricato, costruito nel 1995 e ubicato in zona periferica del Comune di M. M., dopo le modifiche, sono rimasti inalterati, per cui esse non possono variare la capacità dell’immobile di produrre reddito. La peculiarità del contesto determina la compensazione delle spese. ficava il classamento di taluni immobili, con conseguente mutamento della relativa rendita catastale. Un primo aspetto su cui la Commissione di Vicenza è stata chiamata a pronunciarsi, sembra riguardare la lamentata violazione del combinato dispo-


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sto degli artt. 23 e 32 del D.Lgs. 546/1992, in quanto l’amministrazione avrebbe depositato le proprie controdeduzioni, non in sede di costituzione in giudizio (avvenuta il 24 novembre 2005), bensì in un momento successivo (26 gennaio 2006). Ciò avrebbe comportato una violazione del diritto di difesa del contribuente. A ben vedere, la tematica viene affrontata dalla sentenza solo in relazione al citato art. 32, evidenziando la natura perentoria dei termini, rispettivamente, di venti e di dieci giorni liberi prima dell’udienza, per il deposito di documenti e di memorie. Non viene, invece, affrontata la questione concernente le ipotesi di costituzione “soltanto formale” da parte dell’amministrazione (che, solo in un secondo momento, provvede a difendersi nel merito, depositando le proprie deduzioni). I giudici evidenziano che i termini processuali appaiono preordinati ad una rigorosa tutela del diritto di difesa costituzionalmente garantito e devono, quindi, ritenersi previsti con carattere di perentorietà, pur in mancanza di una esplicita sanzione di decadenza dall’esercizio del relativo diritto per la parte onerata. A tal proposito richiamano, tra le altre, Cass. civ., 10 novembre 2000, n. 14624 (in Fisco, 2001, 1591). Sulla base di dette considerazioni, ritengono la tardività delle controdeduzioni depositate dall’Ufficio. Relativamente alla questione concernente la lamentata assegnazione all’immobile di una classe e di una rendita catastale inadeguate, la Commissione ha accolto le prospettazioni del ricorrente in quanto le variazioni apportate non avrebbero comportato alcuna variazione nelle dimensioni, nelle caratteristiche costruttive, nelle finiture o nella dotazione di impianti. In sostanza, secondo i giudici, il grado di pregio e la qualità del fabbricato, dopo le modifiche, sarebbero rimasti inalterati e, di conseguenza, non avrebbero potuto variare la capacità dell’immobile di produrre reddito. La Commissione non prende, invece, alcuna posizione sull’interessante questione concernente la lamentata illegittimità dell’atto impugnato per difetto di motivazione. In effetti, sebbene la normativa non preveda espressamente la necessità di motivazione dell’atto contenente il classamento o l’attribuzione di una rendita, la giurisprudenza sembra, già da tempo, orientata nel senso di detta necessità. Ad esempio, secondo Cass. civ., sez. I, 3 aprile 1992,

n. 4085 (in Corriere Trib., 1992, 1383), l’avviso di classamento catastale degli immobili deve essere motivato e tale obbligo risulta osservato quando l’avviso contenga i dati oggettivi acclarati dall’ufficio tecnico e la classe conseguentemente attribuita all’immobile, in quanto, tali elementi, raffrontati con quelli indicati nella propria dichiarazione dal contribuente, consentono a quest’ultimo di intendere le ragioni della classificazione e di esplicare le proprie difese, in sede di ricorso alle Commissioni tributarie. La Corte costituzionale, con ordinanza 10 marzo 1988, n. 296 (in CED Cassazione, 1988), ha ritenuto che il classamento deve essere considerato un “provvedimento amministrativo valutativo” che, pertanto, necessita di un’adeguata motivazione, la mancanza della quale potrebbe integrare un vizio di legittimità, pur in mancanza di espresso obbligo normativo (SALANITRO, Profili sostanziali e processuali dell’accertamento catastale, Milano, 2003, 66 ss.). Quanto alla recente giurisprudenza, si veda Cass. civ., sez. trib., 19 gennaio 2006, n. 5981 (in Boll. Trib., 2006, 11, 954. Secondo detta pronuncia, la natura meramente liquidatoria dell’avviso non esime l’Ufficio emittente dalla indicazione dello specifico riferimento agli atti presupposti per consentire al contribuente un minimo di orientamento difensivo. A latere del principio generale di motivazione di tutti gli atti dell’amministrazione finanziaria, l’art. della legge n. 212/2000 impone l’allegazione degli atti eventualmente richiamati al fine di consentire al destinatario dell’avviso, in ossequio al principio di collaborazione fra fisco e contribuente, la completa cognizione degli elementi fondanti la pretesa tributaria). In effetti, il richiamo alla natura provvedimentale degli atti in esame sembra consentire di ritenere applicabili alla materia de qua i principi generali dettati in materia dal legislatore. A tal proposito, secondo l’art. 3, della legge 241/1990 (i cui principi sono stati fatti propri dall’art. 7, dello Statuto del contribuente), ogni provvedimento amministrativo deve essere motivato (secondo il citato art. 7, gli atti dell’amministrazione finanziaria sono motivati secondo quanto prescritto dall’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione). La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria.


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LIMITI ALL’ATTIVITÀ ACCERTATRICE SUCCESSIVA AL GIUDICATO CHE RICONOSCE UN RIMBORSO 27

Commissione tributaria provinciale di Verona, sez. I, 3 aprile 2006, n. 51 Presidente: Chimenz; Relatore: Crosato Processo tributario - Giudicato - Rimborso da indebito - Successiva azione accertatrice - Deducibilità questioni del precedente giudizio - Legittimità I comportamenti delle parti nel giudizio non sono censurabili, perché rientrano nell’ambito dell’autonomia loro spettante; pertanto, l’azione dell’amministrazione successiva al passaggio in giudicato della sentenza che riconosce un rimborso è legittima, ed anzi obbligatoria, in quanto intesa ad evitare un ingiusto arricchimento della controparte, anche se si riconosce che l’amministrazione avrebbe potuto chiedere al giudice, eventualmente in via subordinata, la decurtazione, dal credito vantato dal ricorrente, delle detrazioni per operazioni di acquisto finalizzate alle operazioni attive riconosciute non imponibili. Svolgimento del processo La società ricorrente, un’azienda speciale costituita con deliberazione del Consiglio comunale di Verona del 25 gennaio 1996 ai sensi degli artt. 22 e 23 della L. n. 142/1990, esegue la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani nel Comune di Verona e in Comuni limitrofi e la pulizia delle strade del solo Comune di Verona. Nel primo triennio di attività (1997-1999) ha usufruito della cosiddetta “moratoria fiscale” prevista dall’art. 68, comma 14 del D.L. n. 331/1993 limitatamente alle imposte dirette, e invece, per quanto riguarda l’Iva, si è comportata come una normale azienda commerciale, applicando il tributo a tutte le fatture emesse e detraendo l’imposta sugli acquisti. Ha poi presentato istanze di rimborso dell’Iva imputata al Comune di Verona nel 1998 e nel 1999, ed impugnato il silenzio-rifiuto dell’amministrazione finanziaria con ricorsi accolti da questa commissione e dalla Comm. trib. reg. del Veneto. Divenuta definitiva la decisione (sentenza della citata Comm. trib. reg. n. 78/21/03, depositata il 27 novembre 2003 e non impugnata presso la Corte di Cassazione) funzionari dell’Ufficio Verona 1 dell’Agenzia delle Entrate hanno redatto in data 5 maggio 2005 un Pvc che, ritenuta l’azienda ente non commerciale e soggetto alla disciplina di cui all’art. 19-ter del D.P.R. n. 633/1972, ha riconosciuto non detraibile l’intero ammontare del’Iva assolta sugli

acquisti del suddetto biennio. L’Ufficio, viste le osservazioni al Pvc prodotte dalla società ai sensi dell’art. 12, comma 7 della L. n. 12/200 le indicazioni fornite dalla D.R.E. di Venezia non ha fatto proprie integralmente le conclusioni dei verbalizzanti, ma con due avvisi di accertamento (impugnati con i ricorsi riuniti nella presente vertenza) ha dichiarato l’Amia assoggettabile alle norme di cui all’art. 19, comma 2 e 4 del D.P.R. n. 633/1972 ed ha negato la detraibilità dell’Iva sui soli acquisti correlabili alle operazioni attive escluse dal campo di applicazione dell’imposta. La pretesa è stata calcolata pari ad una percentuale dell’Iva complessivamente assolta uguale alla percentuale dell’importo delle operazioni attive escluse rispetto al totale del fatturato, ed ammonta a euro 2.005.999,88 più interessi. L’Ufficio ha inoltre irrogato sanzioni pari al 100% dell’imposta non versata, a norma dell’art. 5, comma 4 del D.Lgs. n. 471/1997. Parte ricorrente eccepisce in via pregiudiziale l’illegittimità degli atti impugnati perché riferiti a tributo ed periodo d’imposta coperti dalla citata sentenza della Comm. trib. reg. del Veneto, divenuta definitiva pertinenza dell’Ufficio che omesso di proporre ricorso per Cassazione. Sostiene infatti che a norma dell’art. 324 c.p.c. e dell’art. 28, comma c.c. il giudicato copre il dedotto e il deducibile, e pertanto l’Ufficio avrebbe dovuto avanzare le pretese oggi in esame nel corso del processo precedente. Avendo obbiettato la controparte che il processo tributario non prevede domande riconvenzionali, replica con memorie depositate l’1 marzo 2006 che potevano certamente essere presentate eccezioni tendenti a limitare i rimborsi di Iva all’ammontare riscosso con le fatture a carico del Comune di Verona ed effettivamente versato all’erario. Ancora in via pregiudiziale, eccepisce la violazione dell’art. 12 della legge 212/2000 per la mancata giustificazione dell’attività istruttoria svolta mediante indagini in loco, l’omessa indicazione delle fonti di innesco della verifica eseguita dai funzionari dell’Ufficio, l’omessa valutazione delle osservazioni presentate sul contenuto del Pvc, la rettificazione degli atti impugnati (che avanzano pretese diverse da quelle che deriverebbero dalle conclusioni dei verificatori) prima della scadenza del


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termine per la presentazione di osservazioni circa le indicazioni fornite il 4 agosto 2005 dalla D.R.E. di Venezia, ed infine la violazione dell’art. 63 del D.P.R. n. 800/1979 avendo l’Ufficio duplicato l’attività istruttoria già esperita dalla Guardia di Finanza a carico dello stesso soggetto per lo stesso tributo e le stesse annualità. L’Ufficio replica che: – l’eventuale eccesso di attività istruttoria non avrebbe riflessi sulla legittimità degli avvisi di accertamento, ma legittimerebbero semmai richieste di risarcimento di danni da parte della contribuente; – fonte d’innesco della verifica, come chiaramente indicato nella premessa degli atti, è la sola citata sentenza che ha riconosciuto escluse dall’Iva le attività svolte dalla ricorrente per il Comune di Verona; – le osservazioni della ricorrente sono state valutate dall’ente impositore, e cioè dall’amministrazione finanziaria complessivamente considerata, cui appartengono sia l’Ufficio, sia la D.R.E. di Venezia le cui indicazioni sono state recepite nei provvedimenti emanati; – l’art. 63 del D.P.R. n. 600/1973, ispirato ai criteri di economicità dell’azione amministrativa di cui all’art. 1 della L. n, 241/1990, non preclude la reiterazione di atti istruttori e non incide sulla legittimità degli atti amministrativi, comportando semmai solo responsabilità contabili il cui accertamento compete alla Corte dei Conti. Con la memoria aggiuntiva sopra richiamata la parte ricorrente ribadisce le sue argomentazioni, in parte rafforzandole con la citazione di conforme giurisprudenza. In via principale, parte ricorrente rileva che l’Ufficio confonde i concetti di operazioni “escluse” ed “esenti” dall’Iva, quando calcola il presunto debito d’imposta con il metodo del pro rata e non mediante la verifica dell’impiego dei beni acquistati, richiesta dall’art. 19, comma 4 del D.P.R. n. 800/1873. Nelle citate memorie aggiuntive contesta l’affermazione contenuta nelle controdeduzioni dell’Ufficio, che “basta semplicemente individuare l’ammontare delle operazioni escluse e con esso, automaticamente, si individua l’ammontare detraibile”, sostenendo che la citata norma prevede invece la determinazione della percentuale di indetraibilità sulla base di criteri oggettivi, dipendenti dalle concrete modalità d’impiego dei beni e servizi acquistati. In via subordinata, è eccepita l’illegittimità delle sanzioni irrogate e della pretesa di interessi moratori, per violazione dell’art. 5 del D.Lgs. n. 472/1997, perché l’asserita indetraibilità dell’Iva sugli acquisti non deriva da difetti delle dichiarazioni regolarmente presentate dalla società, bensì da una sentenza passata in giudicato, e dall’art. 10 della L. n.

212/2000, perché la società ha ritenuto di aver diritto al rimborso dell’Iva indicato nelle fatture emesse a carico del Comune di Verona in base al contenuto della risoluzione ministeriale n. 170/1998, come riconosciuto dallo stesso Ufficio. Questo definisce infondate le sudette censure, osservando che la società si è ritenuta esclusa dall’imposta quando dalle operazioni effettuate scaturiva un debito, e assoggettata all’Iva quando ne scaturiva un credito. Le parti concludono chiedendo, rispettivamente, l’annullamento degli atti o almeno delle sanzioni e degli interessi di mora, e il rigetto dei ricorsi, con vittoria di spese e onorari. L’istanza di sospensione dell’esecuzione degli atti impugnati ex art. 47 del D.Lgs. n. 548/1992 è stata accolta nell’udienza dell’1 febbraio 2006. Motivi della decisione La Commissione giudica infondata l’eccezione pregiudiziale di illegittimità degli atti impugnati perché riferiti a annualità di Iva coperta dalla sentenza n. 78/21/03 della Comm. trib. reg. del Veneto. Questa infatti ha deciso solo circa il diritto della società ricorrente ad ottenere i rimborsi richiesti, avendo ritenuto che si estendesse all’Iva il dettato dell’art. 66, comma 14 del D.L. n. 331/1993, lasciando impregiudicati tutti gli altri aspetti del rapporto tributario nel biennio 1998-1999. È vero che l’amministrazione delle finanze avrebbe potuto chiedere al giudice (eventualmente in via subordinata) la deputazione del credito vantato dal ricorrente delle detrazioni dell’imposta afferente agli acquisti finalizzati alle operazioni attive con imponibili. È anche vero, però, che la parte ricorrente avrebbe potuto limitare la sua domanda alle sole somme effettivamente versate, dedotti i crediti dichiarati e non spettanti. I comportamenti di entrambe le parti in quel giudizio, comunque, non sono censurabili, perché rientrano nell’ambito della autonomia loro spettante. La contesta azione dell’amministrazione successiva al passaggio in giudicato della citata sentenza è stata legittima, ed era anzi obbligatoria, in quanto intesa ad evitare un ingiusto arricchimento della controparte. L’istruttoria svolta dell’Ufficio, anche mediante indagini nella sede dell’Amia, è stata innescata ed è giustificata dall’esito del precedente giudizio, che avendo dichiarato escluse dall’Iva alcune operazioni attive ha implicitamente dichiarato indetraibile l’imposta sulle operazioni passive ad esse collegate, per quanto disposto dall’art. 19 dal D.P.R. n. 633/1972. Risulta dagli atti che la società ricorrente è stata informata delle ragioni della verifica.


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Non sussistono quindi le eccepite violazioni dell’art. 12, commi 1 e 2 della legge 212/2000. È evidentemente infondata e pretestuosa l’eccezione di illegittimità degli atti per violazione dell’art. 63 del D.P.R. 633/1972, atteso che l’Ufficio ha disposto una verifica, in aggiunta a quella effettuata dalla Guardia di Finanza, in conseguenza del passaggio in giudicato della sentenza sopra richiamata, che imponeva la rideterminazione dei crediti di Iva esposti nelle dichiarazioni: un fatto nuovo, che rendeva necessari controlli imprevisti. La Commissione ritiene inoltre fondate le osservazioni dell’Ufficio, secondo il quale l’eventuale reiterazione degli accessi e delle verifiche non influisce sulla legittimità dei conseguenti atti impositivi. È errata l’affermazione della parte ricorrente, che l’Ufficio abbia omesso di valutare le osservazioni al contenuto del Pvc redatto il 5 maggio 2005, presentate nei termini, considerato che l’Ufficio impositore proprio in seguito a quelle osservazioni ha ritenuto di non dover accettare le conclusioni dei verificatori, e avanzare una pretesa fiscale di minor importo. La valutazione è stata effettuata congiuntamente dall’Ufficio Verona 1 dell’Agenzia delle Entrate e della Direzione Regionale delle Entrate di Venezia, due organi dell’amministrazione della finanze, che nel suo complesso costituisce il cosiddetto “uffici impositore”. È infondata la convinzione di parte ricorrente che sia stato violato il suo diritto a presentare osservazioni anche sul contenuto di una lettera della D.R.E. all’Ufficio Verona 1, un atto interno reso noto agli interessati in osservanza del principio della trasparenza dell’azione della pubblica amministrazione, ma privo di rilevanza esterna e di riflessi diretti sulla posizione dei contribuenti, non impugnabile autonomamente in sede di giustizia tributaria. Non sussistono pertanto nel caso in esame le asserite violazioni dell’art. 12, comma 7 della L. 212/2000. Per quanto riguarda il motivo principale di ricorso, osserva la Commissione che la società ricorrente fornisce lo stesso servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi urbani a più Comuni, fra cui quello di Verona, cui presta inoltre il servizio di pulizia delle strade. Solo le fatture emesse a carico del Comune di Verona sono state riconosciute dal giudice tributario non soggette all’Iva. Ha ragione la parte ricorrente, quando sostiene che in questo caso è applicabile l’art. 19, comma

4 del D.P.R. n. 633/1972, e non il successivo comma 5, e che pertanto l’ammontare dell’Iva indetraibile dall’Amia nel 1998 e nel 1999 dove essere determinato “secondo criteri oggettivi, coerenti con la natura dei beni e servizi acquistati”. Tuttavia, evidentemente l’azienda utilizza gli stessi beni e servizi acquistati per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani in tutti i Comuni, in quota proporzionale all’ampiezza dei rispettivi territori ed alle quantità dei rifiuti, e fattura agli enti i suoi servizi sulla base dei medesimi elementi. Criterio oggettivo per la determinazione dell’Iva indetraibile sul beni e servizi finalizzati alla suddetta attività può ben essere ritenuto il calcolo fondato su una percentuale dell’Iva totale sugli acquisti pari a quella delle operazioni escluse rispetto al totale delle operazioni. Il risultato cui si giunge utilizzando tale criterio, adottato dall’Ufficio, è in realtà favorevole alla società ricorrente, perché non tiene conto del fatto che gli acquisti finalizzati all’attività di pulizia delle strade erano tutti inerenti ad operazioni fatturate al Comune di Verona ed escluse dall’Iva, e quindi l’imposta relativa era indetraibile totalmente, non per quota. La censura di parte ricorrente è infondata e priva di interesse, e la domanda di annullamento delle pretese avanzate dall’Ufficio deve essere rigettata. La Commissione ritiene invece di dover accogliere, la domanda subordinata di parte ricorrente. Effettivamente le dichiarazioni Iva erano corrette quando furono presentate dalla società, ma soprattutto all’epoca esisteva una giustificata incertezza sull’ambito di applicazione dell’art. 66 comma 14 del D.L.. n. 331/1993, fugata solo dalla giustizia amministrativa a decorrere dalla data in cui è divenuta definitiva la citata sentenza della Comm. trib. reg. del Veneto. È pertanto applicabile nel caso in esame l’art. 6, comma 2 del D.Lgs. 472/1997. Gli interessi sul debito d’imposta sono certamente dovuti, ma calcolati utilizzando gli stessi tassi, quelli cosiddetti “legali”, che l’Ufficio ha applicato sulla somma rimborsata (o che rimborserà) alla società ricorrente in esecuzione del precedente giudicato. La Commissione non è in grado di verificare, sugli atti acquisiti al fascicolo processuale, in base a quali tassi siano stati calcolati gli interessi indicati nei due provvedimenti impugnati. Sussistono giusti motivi per la compensazione fra le parti delle spese del giudizio.

Nota di Massimo Basilavecchia

strazione finanziaria successivamente ad un giudicato che riconosce un credito del contribuente per indebito assoggettamento ad Iva di talune operazioni imponibili, occorre considerare che

Nel valutare la legittimità di un’azione di controllo e di accertamento effettuata dall’ammini-


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la pretesa di rimborso dovrebbe stimolare l’Ufficio ad opporre tutte le questioni conseguenti alla prospettazione dell’istante; in difetto, contrariamente a quanto ritenuto nella sentenza che si commenta, deve ritenersi che il giudicato copra comunque anche il “deducibile”, soprattutto quando la questione omessa dall’amministrazione sembra ricompresa nell’ambito dei poteri cognitivi del giudice, in quanto direttamente conseguente all’impostazione giuridica posta a base della pretesa di rimborso. In una vicenda assai simile a quella che poi è sfociata nella sentenza n. 13916/ 2006 delle sezioni unite della Corte di Cassazione, la sentenza della commissione tributaria provinciale veronese si segnala per la rilevanza e per la difficoltà dei temi trattati, nonché per la cura e per la profondità dell’analisi, anche se le conclusioni non sembrano tutte condivisibili. Due questioni appaiono particolarmente stimolanti per alcune riflessioni di commento: quella concernente l’ambito del giudicato, formatosi in una lite di rimborso, in rapporto alla persistenza di poteri accertativi in capo all’a.f., e, in particolare, quella che riguarda il ruolo che, nell’ambito del giudizio concluso dalla sentenza definitiva, giochi l’individuazione della percentuale di indetrabilità, per un contribuente che compia un elevato numero di operazioni, che vengono in sede di giudizio di rimborso riconosciute come escluse dall’ambito di applicazione dell’Iva1. Con sentenza della Commissione tributaria regionale del Veneto, del 27 novembre 2003, passata in giudicato per omessa impugnazione, veniva riconosciuto il diritto dell’azienda speciale, costituita presso il comune di Verona, di fruire ai fini Iva dell’agevolazione prevista dal comma 14 dell’art.66 del D.L. 331/93, convertito con legge 427/93. Tale disposizione concede una detassazione del primo triennio di attività delle aziende speciali costituite presso i comuni, in verità riferibile alle sole imposte sul reddito, ma ritenuta dal giudice tributario d’appello estensibile anche all’Iva2. Dopo il giudicato sfavorevole, l’Ufficio dell’Agenzia dell’Entrate tenta una reazione: effettua una verifica fiscale nella quale individua più precisamente le operazioni attive e passive Iva effettuate, negli an-

1 Altri profili di rilievo della decisione non vengono esaminati nel presente commento per una scelta che privilegia l’unitarietà del discorso: si allude alla contestazione della reiterazione dell’attività istruttoria, dopo il giudi-

ni in questione, dall’azienda speciale, e procede poi alla rettifica delle dichiarazioni, deducendo dalla accertata inapplicabilità dell’Iva, su gran parte delle operazioni attive, l’indetraibilità consequenziale di gran parte dell’Iva detratta, negli stessi periodi, sugli acquisti di beni e di servizi. Decidendo sul motivo di ricorso dedotto dall’azienda, in ordine all’inammissibilità di una rettifica del dichiarato relativa ad annualità coperta dal giudicato, la commissione tributaria veronese rigetta la censura, ritenendo che il riconoscimento del diritto al rimborso, di cui al giudicato, lascia “impregiudicati tutti gli altri aspetti del rapporto tributario del biennio” interessato, e che la mancata introduzione della questione sulla detrabilità, nel giudizio relativo al rimborso, non sia censurabile, rientrando nell’autonoma discrezionalità delle parti in ordine alle strategie difensive, sulle quali non potrebbe operare una valutazione successiva il giudice della vicenda consequenziale. La soluzione prescelta dalla Commissione tributaria veronese non appare convincente, anche se è obiettivamente molto difficile stabilire un rapporto giuridico preciso tra l’ambito del giudicato sul rimborso ed i poteri accertativi dell’Ufficio, ed in particolare riconoscere in quali limiti questi ultimi possano continuare a svilupparsi, nel rispetto dei termini decadenziali, dopo che è stato riconosciuto il minore ammontare del debito d’imposta (o il credito) dichiarato dal contribuente. Premesso che, nella specie, l’azione di rimborso non era diretta contro un atto di diniego, e pertanto non era limitata, nella sua ampiezza, della motivazione ivi espressa, si osserva che il fondamento del credito fatto valere con l’azione di rimborso era costituito da un versamento indebito, per erronea applicazione dell’Iva su operazioni che si assumono essere indenni dal tributo. In sostanza, la richiesta di rimborso presupponeva una rettifica della dichiarazione a suo tempo presentata dalla contribuente, ma il criterio “sostitutivo” adottato con la richiesta di rimborso veniva ad agire direttamente solo sulle operazioni attive, senza produrre conseguenze sulle operazioni passive, e soprattutto sulla detrazione dell’imposta assolta a monte, che pure non resta indifferente alla diversità accertata dell’imposta dovuta a valle. Quest’ultimo aspetto, con tutta probabilità, emer-

cato, alla violazione dell’affidamento, alla applicabilità delle sanzioni, quando il comportamento dovuto viene definito solo in sede di giudicato. 2 Sulla disposizione di legge, qualificata come aiuto di stato illegittimo da

parte della Commissione europea, si veda da ultimo MICELI, Società miste e diritto tributario: le questioni aperte, in Rass. Trib., 2006, 796.


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geva chiaramente dall’istanza di rimborso, che, a quanto si desume dalla sentenza qui in esame, conteneva anche una quantificazione dell’importo da rimborsare. Il riflesso, sulle operazioni di acquisto, del nuovo criterio di qualificazione delle operazioni attive, era dunque immediatamente percepibile dall’amministrazione e dal giudice tributario: il giudicato, però, non ne fa menzione, in alcun senso3. La risposta che fornisce la Commissione veronese di primo grado, alla luce delle considerazioni precedenti, non può essere condivisa. Infatti, i poteri di controllo dell’amministrazione finanziaria, che pure in linea astratta non possono ritenersi preclusi per la preesistenza di un giudicato sul rimborso emesso in difetto di una vera azione accertatrice dell’Ufficio, si riferivano ad un aspetto direttamente consequenziale alla prospettazione giuridica posta a base della domanda di rimborso, che, come tale, non può non ritenersi compreso nell’ambito del giudicato che riconosce la sussistenza della pretesa avanzata con quella domanda. Né vale obiettare che, in tal modo, l’Ufficio viene costretto ad anticipare l’esercizio dei poteri di controllo, e a trasferirli impropriamente dalla sede amministrativa a quella processuale. Invero, il meccanismo procedurale disegnato dal legislatore tributario prevede costantemente, quale che sia la natura dell’azione di rimborso, una fase amministrativa di verifica dell’istanza, che precede e condiziona l’accesso alla tutela giurisdizionale. Dunque, le questioni, di fatto e di diritto, che l’Ufficio intende contrapporre all’istanza di rimborso, non possono essere legittimamente rinviate ad una successiva verifica dei presupposti, ma vanno contrapposte tempestivamente una volta che la pretesa restitutoria è stata formalizzata4. Come esattamente rileva - senza però trarne conseguenze - la sentenza in esame, la questione circa la indetrabilità dell’Iva sugli acquisti aveva le classiche connotazioni dell’“eccezione” da opporre, sia pure in via subordinata, a quella principale attinente alla insussistenza dell’indebito: essa avreb-

3 Riferimenti essenziali sulla portata del giudicato tributario in FRANSONI, Giudicato tributario e attività dell’amministrazione finanziaria, Milano, 2001; CONSOLO, D’ASCOLA, Giudicato tributario, in Enc. Dir.; Agg. V, Milano, 2001, 467 ss.; GLENDI, Giudicato IV) diritto tributario, in Enc. Giur., XII, Aggiornamento, Roma, 2003, e TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, 8a ed., Torino, 2003, I, 399 ss.

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be infatti comportato, se accolta, la riduzione del rimborso riconosciuto dovuto, ove l’indebito fosse stato, come in effetti è avvenuto, accertato. A ben vedere, anzi, la preclusione all’operato successivo dell’Ufficio sembra agire, prima ancora che all’interno del giudizio di rimborso, proprio in sede amministrativa, quando l’Ufficio è tenuto a fornire le sue motivazioni (tutte le sue motivazioni) a sostegno dell’atto di diniego; altrimenti, tutta la vicenda che si sviluppa dall’istanza di rimborso assumerebbe i caratteri di un accertamento “allo stato degli atti”, ampiamente modificabile per effetto di una successiva (e illimitata) attività accertatrice. È invece razionale imporre all’Ufficio, dinanzi ad un’istanza di rimborso, di esternare tutte le ragioni di un eventuale diniego, sotto pena di preclusione, per tutti i motivi ostativi non opposti: e limitare la possibilità di controlli successivi o a quanto necessario, in via meramente integrativa, per quantificare in concreto gli elementi contrari alla sussistenza del credito o funzionali ad una sua riduzione, o all’ipotesi – normativamente prevista per la sola pluralità di atti di accertamento - di sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi. Alla stregua di tale impostazione, occorre ora chiedersi come sia destinata ad operare la preclusione, quando l’Ufficio ometta l’atto di diniego, e la pretesa di rimborso sia devoluta alla cognizione del giudice tributario per effetto del verificarsi del silenzio significativo, di cui agli art.19 e 21del D.Lgs. 546/925; in altre parole, è da chiedersi se, in senso tecnico, la questione relativa alla indetraibilità dell’Iva sugli acquisti debba o meno considerarsi compresa nella materia del contendere del giudizio che deve accertare la non imponibilità delle operazioni attive. Mentre la parte resistente ha sostenuto, nel giudizio concluso dalla sentenza in esame, la mancanza di ogni preclusione in ordine a tale aspetto, per la carenza di una facoltà di introduzione di domande riconvenzionali nel processo tributario, la ricorrente ha replicato che si sarebbe trattato di una mera eccezione, che poteva e doveva essere introdotta nel processo.

4 Tanto più quelle che negano circostanze che conseguono direttamente alla prospettazione adottata a sostegno della richiesta di rimborso. 5 Nella prospettiva adottata da GLENDI, che come noto ritiene giudizio puramente impugnatorio anche quello che si sviluppa dal silenzio dell’amministrazione, anche in questo caso la preclusione deriva “dalla stabilita immutabilità dell’effetto

prodotto dall’atto”, op. cit. In generale, ad avviso di FRANSONI, la preclusione del deducibile comporta, nel processo tributario, “che le parti non potranno allegare, in un successivo giudizio, tutti quei fatti che, ove tempestivamente dedotti nel primo giudizio, avrebbero potuto condurre ad una pronuncia diversa”, op. cit., 270.


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Anche a prescindere dalla esattezza di una qualificazione della questione in termini di eccezione, non sembra dubbio che quest’ultima sia la conclusione preferibile. L’indetraibilità non agisce infatti da “controdomanda” dell’amministrazione, ma costituisce, nella prospettazione che ha poi ispirato la successiva azione accertatrice dell’Ufficio, un effetto legale della riqualificazione delle operazioni attive, da imponibili ad esenti, tale da comportare una riduzione del credito del contribuente, rideterminato nel minore ammontare pari alla differenza tra Iva dovuta, accertata come indebita, e minore importo dell’Iva detraibile. Posta in questi termini la questione, pare addirittura che, più che di eccezione, si possa parlare di proposizione di una “difesa”, in senso tecnico, non soggetta a preclusione6, nel senso che essa comunque deve costituire oggetto della decisione diretta del giudice, anche se non formalmente introdotta dalla parte resistente7. Insomma, nella valutazione dell’entità del rimborso, il giudice tributario è chiamato comunque ad applicare tutte le norme implicate dalla riqualificazione delle operazioni attive, e, se non riconosce la rilevanza di alcune di esse, sembra che anche su tale aspetto debba considerarsi formato il giudicato8. Anche valutando la precedente fase del riconoscimento del diritto al rimborso come una vicenda esclusivamente processuale, non

6 Solo per l’eccezione, ad esempio, dovrebbe operare la preclusione processuale di cui all’art. 23, D.Lgs. 546/92, per la quale solo con la costituzione in giudizio il resistente può, nel relativo atto di controdeduzioni, sollevare le eccezioni non rilevabili d’ufficio. 7 Sulle perplessità cui dà luogo l’ipotesi di domande riconvenzionali, anche nel giudizio di rimborso, CONSOLO, Processo tributario (natura e oggetto), in CASSESE (a cura di), Dig. Dir.

preceduta da determinazioni dell’amministrazione, sembra in ogni caso che, esercitando un’azione impositiva dichiaratamente tesa a circoscrivere gli effetti dell’accertamento del rimborso, quest’ultima abbia operato in violazione del comando giurisdizionale che, riconoscendo il credito in una certa entità, precludeva rideterminazioni basate su effetti normativi già implicitamente valutati nel processo. Forse, alla base di una decisione che appare “politicamente” orientata a legittimare un tardivo intervento dell’Ufficio, sta la consapevolezza che il giudicato formatosi sulla pretesa di rimborso esprimeva un’interpretazione dell’art. 66, comma 14 del D.L. 331/93 non condivisibile, ed eccessivamente ampia; di qui una sorta di favor per il recupero, almeno parziale, delle posizioni compromesse dalla carente attività difensiva, nel primo giudizio, dell’amministrazione finanziaria. Il che sembrerebbe confermato dalla circostanza che, anche nell’affrontare il motivo di ricorso più spiccatamente di merito, la commissione veronese ha accuramente evitato di entrare nel vivo della questione circa la portata della citata disposizione, e soprattutto di stabilire se, in relazione all’Iva, la detassazione conseguente alla previsione del comma 14 debba essere configurata come non imponibilità ovvero come esenzione in senso proprio.

Pubbl., V, Milano 2006, 4619, il quale osserva “quanto poi invece alla possibilità per l’autorità finanziaria di introdurre nel processo, in via appunto di domanda cd. riconvenzionale, diversi fondamenti motivatori dell’accertamento non spesi nel relativo provvedimento, questo le è precluso – e non sarà certo la forma e la nomenclatura di domanda riconvenzionale a spostare tale conclusione – per il fatto che abbiamo visto come il

giudizio tributario, pur quando potenzialmente sostitutivo, non possa svolgersi se non a rime obbligate ed in via secondaria rispetto alla motivazione dell’accertamento”. 8 Nota infatti GLENDI, op. cit., che le ulteriori manifestazioni del potere impositivo consentite sono solo quelle che non contrastano con il definitivo annullamento dell’atto impugnato.


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Commissione tributaria provinciale di Vicenza, sez. VII, 10 febbraio 2006, n. 199 Presidente: Marini – Relatore: Parendo Tributi locali - Ici - Avvisi di liquidazione - Termini legali di decadenza per la notifica - Regolamento comunale ex art. 59 - Efficacia dal periodo d’imposta successivo alla sua approvazione (D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 11; D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 59) Il termine ultimo per la comunicazione degli avvisi di liquidazione Ici relativamente agli anni di imposta 2000, 2001, 2002, 2003 rimane quello fissato dall’art. 11, del D.Lgs. n. 504/1992, prorogato al 31 dicembre 2004, dall’art. 2, comma 33, legge 23 dicembre 2003, n. 350, qualora non possa trovare applicazione il più ampio termine previsto dal regolamento comunale, adottato ai sensi dell’art. 59 del D.Lgs. 446/1997, che è efficace solo dal periodo d’imposta successivo alla sua approvazione. Svolgimento del processo R. S. ricorre avverso avvisi di liquidazione Ici relativi agli anni di imposta 2000, 2001, 2002, 2003 emessi dal Comune di C. al prot. n. X tutti inviati in busta a mezzo servizio postale in data 3 marzo 2005. Con il primo motivo in via pregiudiziale il ricorrente eccepisce la nullità degli avvisi di liquidazione attesa l’intervenuta decadenza per la liquidazione dell’imposta in violazione dell’art. 11, D.Lgs. 1992, n. 504. Rileva infatti il ricorrente che gli avvisi sono stati comunicati oltre il termine ultimo di decadenza prorogato al 31 dicembre 2004 dall’art. 2, comma 33, L. 23 dicembre 2003, n. 350. Né può essere richiamato l’art. 1, comma 67, L. 30 dicembre 2004, n. 311 dato che lo stesso concerne la proroga dei termini per l’accertamento, mentre l’art. 1-quater della L. 1 marzo 2005, n. 26 che proroga i termini per l’avviso di liquidazione è entrato in vigore il 3 marzo 2005 e gli avvisi de quo sono stati deliberati il 2 marzo 2005. Comunque rileva che la L. del 1 marzo 2005, n. 26 aveva prorogato i termini già scaduti al 31 dicembre 2004. Con il secondo motivo eccepisce l’illegittimità degli avvisi, atteso che il contribuente non è soggetto passivo dell’imposta. Il ricorrente infatti è separato legalmente dal 30 marzo 1999. Gli immobili di cui agli avvisi di liqui-

dazione, in comproprietà al 50% con la moglie e originariamente – per la precisione sino al 30 maggio 1999 – adibiti a “casa coniugale”, per tutta la durata degli anni in contestazione sono rimasti assegnati alla moglie stessa per effetto della sentenza di separazione 30 marzo 1999 omologata dal Tribunale di Vicenza in data 20 maggio 1999. Osserva che secondo le stesse istruzioni ministeriali il diritto spettante al coniuge assegnatario dell’immobile in sede di separazione, è equiparabile al diritto sull’abitazione e pertanto è il coniuge assegnatario soggetto passivo d’imposta. Con il terzo motivo deduce l’erronea quantificazione dell’imposta in quanto il Comune avrebbe dovuto applicare l’aliquota ridotta prevista per l’abitazione principale poiché l’immobile è stato concesso in uso gratuito alla moglie ed alla figlia. Infine con il quarto motivo in via meramente subordinata eccepisce l’illegittimità degli avvisi di liquidazione in ordine alla imposizione delle sanzioni ed applicazione degli interessi per violazione dell’art. 10, L. 27 luglio 2000, n. 212 essendosi il ricorrente attenuto alle istruzioni ministeriali. In via ulteriormente subordinata chiede l’applicazione dell’art. 6, comma 2, D.Lgs. 1997, n. 472 conseguente art. 8, D.Lgs. 1992, n. 546. Il Comune di C. in ordine al primo motivo del ricorso, intervenuta decadenza per la liquidazione dell’imposta fa presente: “con deliberazione del consiglio comunale n. 28 del 28 dicembre 2004, ha introdotto l’obbligo della comunicazione ai fini Ici con conseguente soppressione dell’obbligo di presentazione della dichiarazione o denuncia stabilito dall’art. 10, comma 4, del D.Lgs. 504/1992”. Pertanto, in base al comma 2 dell’art. 59 del D.Lgs. n. 446 del 15 dicembre 1997 – Potestà regolamentare in materia di imposta comunale sugli immobili – : “se sono adottate norme regolamentari nella materia di cui alla lettera l del comma 1, nel territorio del Comune non operano, per gli anni di vigenza del regolamento, le disposizioni di cui agli art. 10, commi 4 e 5, primo periodo, 11, commi 1 e 2, 14, comma 2 e 16, comma 1, del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504”. A tal proposito il termine di decadenza degli avvisi di liquidazione, a norma dell’art. 11 del regolamento comunale, derivato dalla facoltà concessa dall’art. 59, comma 3, del D.Lgs. n. 446 del 15 dicembre 1997 è fissato entro e non oltre il 31 di-


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cembre del quinto anno successivo a quello cui si riferisce l’imposizione con conseguente validità degli atti emessi da codesto Comune a decorrere dall’anno 2000. In ordine al secondo motivo sostiene che l’assegnazione della casa al coniuge a seguito di sentenza di separazione costituisce un diritto personale e non reale. In ordine al terzo motivo osserva che la possibilità di usufruire dell’aliquota agevolata decorre dal 2002 ed insiste per la conferma delle sanzioni ed interessi. Motivi della decisione Osserva la Commissione che il ricorso va accolto. Fondato ed assorbente è il primo motivo relativo alla nullità degli avvisi di liquidazione per intervenuta decadenza. Gli avvisi di liquidazione sono stati comunicati a mezzo servizio postale in data 3 marzo 2005 oltre cioè il termine ultimo del 31 dicembre 2004 così prorogato dall’art. 2, comma 33, L. 23 dicembre 2003, n. 350.

Nota La Commissione tributaria provinciale di Vicenza ha accolto il ricorso del contribuente, ritenendo applicabile, come termine ultimo per la comunicazione degli avvisi di liquidazione Ici per gli anni dal 2001 al 2003, quello fissato dall’art. 11 del D.Lgs. n. 504/1992, prorogato al 31 dicembre 2004, dall’art. 2, comma 33, della legge 23 dicembre 2003, n. 350. I giudici non hanno, quindi, ritenuto applicabile alla fattispecie la diversa previsione del regolamento comunale del dicembre 2004, poiché esso poteva trovare applicazione solamente dall’anno di imposta successivo a quello in cui il consiglio lo aveva deliberato, e cioè a partire dall’1 gennaio 2005. Infatti, secondo l’art. 52, comma 2, del D.Lgs 446/1997, i regolamenti in esame sono approvati con deliberazione del Comune non oltre il termine di approvazione del bilancio di previsione e hanno effetto a partire dall’1 gennaio dell’anno successivo. Sull’argomento, si vedano le sentenze della Comm.

Né può trovare applicazione nella fattispecie il regolamento adottato dal Comune in data 28 dicembre 2004 ai sensi dell’art. 59, D.Lgs. 446/1997. Infatti detto regolamento può trovare applicazione a decorrere dall’anno di imposta successivo a quello nel corso del quale il consiglio comunale adotta il regolamento. Nella specie pertanto i termini di decadenza per la liquidazione dell’imposta rimangono disciplinati dal D.Lgs. 504/1992 e successive modifiche che come sopra specificato erano scadute al 31 dicembre 2004. Le spese seguono le soccombenze e si liquidano come in dispositivo. P.Q.M. Accoglie il ricorso ed annulla gli avvisi di liquidazione n. 2005 – 00683 per l’anno di imposta 2000, n. 684 anno di imposta 2001, n. 685 anno di imposta 2002, n. 686 anno di imposta 2003. Condanna il Comune di C. al pagamento di euro 77,44 per spese ed euro 400,00 per diritti ed onorari oltre il Cpa ed Iva. trib. prov. Bari, sez. XVII, 10 marzo 2003, n. 47 (in banca dati fiscovideo), della Comm. trib. prov. Torino, sez. XXVIII, 18 marzo 2002, n. 20, e della Comm. trib. prov. Isernia, sez. III, 15 gennaio 2004, n. 51 (in banca dati fiscovideo), nelle quali si afferma l’illegittimità degli atti impositivi Ici notificati dopo la scadenza normativamente prevista, in quanto le disposizioni che prorogavano i termini erano entrate in vigore successivamente. In dottrina, cfr. GENTILE, Il regolamento Ici, in Fisco, 2000, 46, 13752; MARIOTTI, Regolamenti comunali Ici: sono legittime le richieste di adempimenti “a pena di decadenza” per fruire di agevolazioni previste dalla legge?, in Fisco, 2006, 22, 3377; GIANNÌ, Considerazioni sull’illegittimità dei regolamenti comunali sull’Ici che modificano i caratteri definitori della prima abitazione, in Fisco, 2004, 9, 1228; BASILAVECCHIA, Profili generali dell’imposta comunale sugli immobili, in Rass. Trib., 1999, 5, 1354; L A ROCCA, Ici: la proroga dei termini per la liquidazione e l’accertamento dell’Ici e profili di illegittimità alla luce della più recente giurisprudenza, in Fisco 2004, 24, 3680).


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Commissione tributaria provinciale di Massa, sez. I, 17 febbraio 2006, n. 4 Presidente: Manconi – Relatore: Fugacci Tributi locali - Imposta comunale sulla pubblicità - Insegne sulle cabine fototessera - Superficie inferiore a cinque metri quadrati - Imponibilità - Esclusione (D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, art. 17; L. 28 dicembre 2001, n. 448, art. 10, comma 1; D.L. 22 febbraio 2002, n. 13, art. 2-bis) L’imposta comunale sulla pubblicità non è dovuta per le insegne di esercizio delle attività commerciali e di produzione di beni e servizi che contraddistinguono la sede ove si svolge l’attività cui si riferiscono, per la superficie complessiva fino a cinque metri quadrati; pertanto è illegittima la pretesa tributaria che riguardi cabine fototessera, le cui insegne pubblicitarie occupino una superficie di soli quattro metri quadrati. Svolgimento del processo Avverso l’avviso di accertamento n. 195 relativo all’anno 2004 con il quale la società ICA S.r.l. pretende la complessiva somma di euro 1.087,54 per imposta di pubblicità nel Comune di Carrara, R. R. quale legale rappresentante della S.r.l. D. ha presentato tempestivo ricorso chiedendo l’annullamento dell’atto impugnato. Il ricorrente sostiene che essendo le superfici del-

Nota Nella sentenza in rassegna la Commissione tributaria provinciale di Massa ha affrontato il tema del trattamento riservato, ai fini dell’imposta di pubblicità, alle insegne apposte sulle cabine fototessera normalmente installate nei pressi degli uffici comunali dell’anagrafe e dello stato civile per consentire ai cittadini di ottenere la fotografia da utilizzare per il rilascio dei documenti d’identità. Il competente concessionario del servizio affissioni non aveva tenuto conto delle novità contenute nell’art. 10, comma 1, lett. e della L. 28 dicembre 2001, n. 448 (Legge finanziaria per l’anno 2002) che ha aggiunto all’art. 17 del D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507 (recante norme in merito alle modalità di applicazione dell’imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulla pubbliche affissioni) il comma 1-bis in base al quale l’imposta suddetta non è dovuta per le insegne di esercizio di attività commerciali o di produzione di beni e servizi “di superficie complessiva fino a 5 metri quadrati”. L’art. 2-bis, comma 1,

le insegne pubblicitarie inferiori a mq 5 risulterebbero esenti dall’imposta di cui si discute ai sensi del comma 1 dell’art. 2-bis della Legge n. 75 del 2002 e dell’art. 10, L. 28 dicembre 2001. L’ICA S.r.l. non risulta costituita. Motivi della decisione La Commissione esaminati gli atti di causa ritiene il ricorso fondato ed in quanto tale meritevole di accoglimento. In effetti dall’avviso di accertamento risulta evidente che trattasi di diverse cabine ubicate in più punti nel Comune di Carrara e che ogni insegna che identifica detti esercizi è inferiore ai 5 mq. Precisamente si tratta di quattro cabine le cui insegne pubblicitarie (cartello mq 3 + insegna mq 1) occupano una superficie di mq 4. La normativa richiamata dal ricorrente stabilisce che il canone non è dovuto per le insegne di esercizio delle attività commerciali e di produzioni di beni e servizi che contraddistinguono la sede ove si svolge l’attività cui si riferiscono, per la superficie complessiva fino a mq 5. Non essendo la superficie pubblicitaria di ogni punto vendita superiore ai mq 5 deve quindi ritenersi non dovuto il tributo di cui si discute. La particolarità della controversia giustifica la compensazione delle spese di giudizio.

D.L. 22 febbraio 2002, n. 13 (convertito dalla L. 24 aprile 2002, n. 75) ha introdotto la stessa esenzione in materia di canone per l’installazione di mezzi pubblicitari, di cui all’art. 62 del D.Lgs. 446/97. Pertanto risulta illegittima la pretesa tributaria che riguardi diverse cabine ubicate in più punti dello stesso comune e le cui insegne pubblicitarie occupino una superficie di soli 4 metri quadrati. Tale ragionamento d’altra parte si armonizza perfettamente con la linea di pensiero che traspare dalle modifiche normative citate, con le quali il legislatore ha voluto agevolare tutte le insegne al di sotto dei 5 metri quadrati, per le quali non sembra quindi priva di utilità la verifica di un eventuale contenuto pubblicitario, presumendo la legge che la funzione assolta sia quella di contraddistinguere il luogo ove si svolge l’attività (cfr. Comm. trib. reg. Toscana, sent. 24 marzo 2003, n. 10, in Boll. Trib., 2004, 9, 71; Comm. trib. prov. Udine, 26 aprile 2004, n. 23). È evidente in tale contesto che il limite di 5 metri quadrati indica una misura convenzionale fino alla quale le insegne costituiscono la necessaria co-


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municazione al pubblico dell’esistenza dell’esercizio e dell’attività ivi svolta e risultano sostanzialmente prive di effetto pubblicitario (in quanto l’a-

gevolazione in esame riguarda esclusivamente le insegne che contraddistinguono il luogo dell’attività economica).

APPLICAZIONE DELL’IMPOSTA SULLA PUBBLICITÀ AI CARTELLI SEGNALETICI INSTALLATI SULLE AUTOSTRADE 30

Commissione tributaria regionale del Veneto, Verona, sez. XV, 4 luglio 2006, n. 61 Presidente: Caracciolo – Relatore: Ferrarello Tributi locali - Imposta comunale sulla pubblicità - Cartelli segnaletici installati sulle autostrade - Idoneità a pubblicizzare il nome di un albergo - Imponibilità (D.Lgs. 495/92, art 134) Sono soggetti all’imposta comunale sulla pubblicità i cartelli installati sulle autostrade che indicano la presenza di strutture alberghiere con la specificazione del nome dell’albergo, trattandosi di mezzi pubblicitari ossia di mezzi idonei a far conoscere indiscriminatamente alla massa di possibili fruitori il nome e l’attività dell’azienda. Svolgimento del processo Il Comune di Peschiera del Garda per il tramite del concessionario per la riscossione dell’imposta di pubblicità (società D. S.r.l.), in data 19 settembre 2003, notificava alla contribuente società A. S.p.A. – l’avviso di accertamento (n. 708/3001) relativo alla presunta evasione dell’imposta sulla pubblicità anno 2003, di cui all’art. 5 del D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507 pari ad euro 294,17. L’oggetto del contendere era costituito dal fatto che la società A. S.p.A. aveva collocato, sull’autostrada Serenissima un cartello che, a parere del contribuente, non aveva finalità pubblicitarie e pertanto non soggetto alla relativa imposta sulla pubblicità. In particolare la controversia verteva sulla interpretazione da attribuire a detto cartello nel senso di considerarlo a semplice vocazione turistica, come sostiene il contribuente, ovvero, un cartello contenente un inequivocabile messaggio pubblicitario, a contenuto economico, e non di mera indicazione di segnaletica turistica, come sostenuto dal concessionario, e quindi soggetto all’imposta sulla pubblicità. Avverso l’anzidetto avviso di accertamento il contribuente (società A. S.p.A.) in data 15 dicembre 2003, proponeva ricorso innanzi alla Commissione tributaria provinciale di Verona, cui seguiva, in

data 20 settembre 2004, memoria illustrativa con la quale la società contribuente precisava ulteriormente che il cartello aveva semplici funzioni turistiche e che nel messaggio non erano rinvenibili scopi di natura pubblicitaria. Inoltre parte contribuente deduceva che ai fini dell’installazione del cartello, si era premunita dei prescritti nulla osta dell’ex Ministero dei ll.pp. e dell’Anas, quale ente proprietario della strada. Inoltre precisava: che non era dovuta alcuna imposta sulla pubblicità considerato che dal cartello non era rinvenibile alcun messaggio pubblicitario; che il cartello era da qualificarsi quale segnale a vocazione turistica, ai sensi dell’art. 134 del D.Lgs. n. 495/1992, avente lo scopo di informare gli utenti dell’esistenza di alcuni servizi (tra cui quelli alberghieri). Parte ricorrente chiedeva, pertanto, l’annullamento degli avvisi di accertamento. Resisteva il concessionario (D. S.r.l.) il quale, nell’interesse del Comune di Peschiera del Garda, con memoria difensiva depositata in data 23 aprile 2004 dimetteva le proprie controdeduzioni. In particolare parte resistente confutava le affermazioni del contribuente secondo cui il cartellone non aveva funzioni di pubblicità. Nel merito della controversia parte resistente precisava che la società contribuente (A. S.p.A.) era titolare di un cartello pubblicitario installato a lato dell’autostrada Serenissima, in zona di competenza del Comune di Peschiera del Garda: che col predetto cartello il contribuente intendeva pre-segnalare la presenza dell’Hotel Q. E. sito a 20 km dall’uscita del casello di Sommacampagna; e che per tali motivi la società concessionaria aveva emesso il conseguente atto impositivo finalizzato al recupero dell’imposta sulla pubblicità. Inoltre il concessionario nel confutare le affermazioni del contribuente precisava che “l’intassabilità poteva verificarsi solo nel caso in cui i messaggi fossero stati privi di rilevanza economica ovvero se contenenti informazioni non aventi finalità


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pubblicitarie”. Con ulteriore nota integrativa, depositata in data 30 settembre 2004, il concessionario, a supporto delle proprie tesi si riportava al contenuto della sentenza della Suprema Corte di Cassazione n. 17852 del 3 settembre 2004 secondo la quale sarebbero assoggettabili all’imposta comunale sulla pubblicità “i cartelli formalmente conformi ai segnali verticali di indicazione disciplinati dal codice della strada” E l’anzidetta pronuncia precisava ancora che “l’eventuale loro inclusione nell’ambito dei cd. segnali contenenti indicazioni in ordine alla localizzazione di singole industrie non ne fa venire meno la parallela natura di segnale di indicazione, contenente messaggio riferito a soggetto o ente che svolge attività economica. Essi, pertanto, precisava la Cassazione, vanno considerati ad ogni effetto come forme pubblicitarie finalizzate ad incentivare la domanda di beni o servizi o a migliorare l’immagine del soggetto pubblicizzato e, come tali, devono scontare l’imposta sulla, pubblicità” In conclusione il concessionario resistente chiedeva volersi rigettare il ricorso della Società contribuente. L’adita Commissione tributaria provinciale di Verona, sezione V, con sentenza 79 del 12 ottobre 2004, accoglieva il ricorso della società contribuente e compensava le spese. Avverso l’anzidetta pronuncia il concessionario (società D. S.r.l.), in data 6 dicembre 2005, proponeva appello innanzi alla Commissione tributaria regionale del Veneto, sezione XV, di Verona. Nei motivi a sostegno del gravame la società concessionaria per conto del Comune di Peschiera del Garda ribadita le legittimità della pretesa fiscale, eccepiva. L’illegittimità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 36 del D.Lgs. n. 546/1992 per assoluta erroneità e contraddittorietà dei motivi di fatto e di diritto posti a fondamento della decisione medesima, in violazione dell’art. 5 del D.Lgs. n. 507/1993. In particolare parte appellante censurava la sentenza sul punto in cui giustificava l’esclusione del tributo comunale sulla pubblicità sul presupposto che la posa del cartello era stata autorizzata dall’Anas. Mentre, in realtà, l’autorizzazione ad installare (in genere) cartelli, da parte dell’Anas, sulle strade o autostrade non aveva nulla a che vedere con l’aspetto puramente impositivo tenuto conto che ai fini fiscali, per effetto dell’art. 5, comma 2 del D.Lgs. n. 507/1993 “si considerano rilevanti i messaggi diffusi nell’esercizio di un’attività economica allo scopo di promuovere la domanda di beni o di servizi, ovvero finalizzati a migliorare l’immagine del soggetto pubblicizzato”

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(citata giurisprudenza della Cassazione). In conclusione la società D. S.r.l. nel ritenere che il messaggio (Hotel Q. E.) apposto sul cartello, aveva un contenuto inequivocabile di messaggio pubblicitario insisteva per l’accoglimento del proprio appello. Con vittoria delle spese processuali per entrambi i gradi di giudizio. (Allegava copiosa giurisprudenza). Resisteva la società appellata A. S.r.l., la quale con memoria costitutiva depositata in data 13 aprile 2006, nel confermare le eccezioni e le deduzioni già espresse in sede di ricorso introduttivo chiedeva volersi respingere l’atto di appello della D. e confermarsi la decisione di primo grado, con vittoria delle spese di lite per entrami i gradi giudizio. In particolare secondo parte appellata il cartello aveva la “precisa funzione di fornire agli utenti dell’autostrada l’ubicazione di un albergo e che in detto cartello non erano ravvisabili messaggi pubblicitari” come peraltro avrebbe confermato il comune di Verona. Inoltre A. precisava che il medesimo cartello era stato autorizzato dall’Anas che, tra l’altro, aveva imposto anche le dimensioni della segnaletica. Ribadiva la natura segnaletica e non pubblicitaria del cartello. All’odierna pubblica udienza dopo la relazione introduttiva intervenivano nel dibattito le parti in causa le quali esponevano le rispettive posizioni processuali. In particolare parte appellata eccepiva l’inammissibilità dell’atto di appello perché tardivo rispetto ai termini previsti dall’art. 53, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992. Motivi della decisione L’appello della concessionaria D. S.r.l. è fondato e pertanto va accolto per motivi che seguono. Preliminarmente il collegio ritiene di dover respingere l’eccepita inammissibilità da parte della società D. Al riguardo il collegio esaminati gli atti di causa poteva riscontrare che sia pure per il solo giorno, l’appellante società aveva rispettato i termini processuali. Infatti l’atto d’appello risulta spedito, a mezzo servizio postale, in data 2 dicembre 2005, la cui data di spedizione costituisce elemento prevalente (Cassazione n. 28 del 23 gennaio 2004). Passando ad esaminare il merito della controversia si osserva, anzitutto, che presupposto dell’imposta sulla pubblicità è il D.Lgs., 15 novembre1993, n. 507 il quale all’art. 5 stabilisce che “la diffusione di messaggi pubblicitari effettuata attraverso forme di comunicazione visive o acustiche, diverse da quelle assoggettate al diritto sulle pubbliche affissioni, in


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luoghi pubblici o aperti al pubblico o che sia da tali luoghi percepibile è soggetto all’imposta sulla pubblicità” ecc. mentre, quanto alle esenzioni dal tributo, l’art. 17, comma 1, lettera b del medesimo decreto legislativo stabilisce che sono esenti “gli avvisi al pubblico riguardanti la localizzazione e l’utilizzazione dei servizi di pubblica utilità, che non superino la superficie di mezzo metro quadrato”. Dalla citata normativa si deduce agevolmente che il cartello installato dalla società contribuente A. anche per le sue dimensioni, ha connotazioni e assume valenza di un preciso messaggio pubblicitario, nel senso che si avvisa la potenziale clientela che percorre “quel” tratto di autostrada Serenissima che a pochi km di distanza (da quel punto) è in funzione l’Hotel Q. E. Al riguardo la Cassazione con sentenza n. 17852 del 3 settembre 2004 stabiliva, (in sintesi) che “l’imposta sulla pubblicità si applica a tutti quei mezzi idonei a far conoscere indiscriminatamente alla massa di possibili acquirenti il nome, (ragione sociale) e l’attività. esercitata da un’azienda, ecc.”. Nel caso specifico il cartello con la scritta “Hote Q. E.” (la cui installazione era stata autorizzata dall’Anas, autorizzazione che in ogni caso, non ha nulla a che vedere con l’aspetto fiscale della questione in esame) in realtà, indica e pubblicizza a beneficio di potenziali turisti la presenza, dell’albergo posto a 20 km dall’uscita del casello di Sommacampagna; come si desume, agevolmente, dalla prova fotografica rappresentativa del cartello. Appare del tutto chiaro che il messaggio pubblicitario a contenuto economico, insito nel cartello stesso, consentiva di comunicare agli utenti dell’autostrada la presenza a distanza di 20 km di una struttura alberghiera con la indicazione della ragione sociale Hotel Q. E. In concreto il collegio, visti gli atti di causa (foto del cartello), ritiene che il segnale conteneva soprattutto un chiaro messaggio pubblicitario atto ad evidenziare, senza alcun dubbio, a mezzo dell’insegna commerciale, la realtà e la notorietà dell’unica struttura alberghiera esistente nelle zona e, per tali motivi il cartello deve ritenersi soggetto all’imposta comunale sulla pubblicità giuste anche citate norme contenute nel D.Lgs. n. 507/1993. Vale a dire che secondo l’etimo corrente la parola “pubblicità” è tale, in senso letterale, se la tipologia del messaggio è da sola capace di suggestionare o convincere i potenziali clienti di avvalersi, nel caso, dei servizi offerti dall’Hotel, come propagandato. Si ritiene pertanto che il concetto di pubblicità racchiude un processo socioeconomico di analisi, elaborazione e produzione di conoscenze anche ad uso sociale che, di norma, viene svolto da società private, a pagamento, allo scopo di reclamizzare

l’intento dell’inserzionista. Nel caso in esame l’esposizione del cartello in un punto strategico della Serenissima aveva proprio lo scopo di rendere visibile (ed accessibile) un esercizio alberghiero, senza la cui “insegna” il potenziale cliente automobilista, verosimilmente, avrebbe proseguito nel suo viaggio. La Cassazione, al riguardo, con altra sentenza n. 1801 del 4 marzo 1985, stabiliva che “qualsiasi mezzo di comunicazione con il pubblico obiettivamente idoneo a far conoscere indiscriminatamente il nome, l’attività ed il prodotto di un’azienda è soggetto all’imposta sulla pubblicità”. Nonché Cassazione n. 6487 del 10 dicembre 1984 con cui si stabiliva “Perché un messaggio o una comunicazione al pubblico sia assoggettabile all’imposta sulla pubblicità, è essenziale che essi riguardino una merce o un servizio, genericamente offerti al pubblico, ossia ad una massa indeterminata di possibili utenti o acquirenti, ed abbiano quindi la funzione di far conoscere ai destinatari la specifica merce, prodotto o servizio, in modo che richiamando l’attenzione del pubblico, ecc.”. In tal senso pure Cassazione n. 3308 del 17 marzo 1992, n. 8220 del 22 luglio 1993 e n. 9580. del 15 novembre 1994. In conclusione la Commissione ritiene che possono ritenersi esenti dal tributo quei cartelli che non fanno riferimento ad una precisa “ragione sociale”, ricollegabile ad un interesse economico, ma che individuano, invece, a favore del pubblico, semplici avvisi (segnalazioni, di natura turistica) per segnalare ad esempio – la presenza di una stazione di servizio carburanti, ovvero di cabine telefoniche; ovvero di aree di parcheggio, di servizi igienici, ovvero segnalazioni necessarie per assicurare agli utenti la corretta e sicura circolazione, ovvero anche gli avvisi al pubblico esposti nelle vetrine o sulle porte di ingresso dei locali ecc. (cfr. art. 17 del citato D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 907 relativo all’imposta comunale sulla pubblicità). Nel caso esaminato invece, non si faceva riferimento a indicazioni “impersonali”, bensì si forniva agli utenti dell’autostrada la specifica segnalazione, (con l’esposizione della sigla della società alberghiera) che alla distanza di 20 km era presente l’Hotel Q. E. individuato, appunto, con la sua precisa “ragione sociale” (art. 2292 ss. c.c.). E tale “cartello” avendo un contenuto chiaramente pubblicitario va certamente soggetto all’imposta comunale sulla pubblicità, anche perché parallelamente quel cartello contiene un preciso messaggio pubblicitario in favore della impresa alberghiera che esercita una precisa attività economica. Si ritiene, infatti, che il presupposto dell’imposta va ravvisato nella diffusione di messaggi pubblicitari intesi nel nor-


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male significato del termine, con l’esclusione di tutte le forme di comunicazione prive di contenuto pubblicitario quali ad esempio le forme di comunicazione ideologica o comunque non ricollegabili ad alcun interesse economico. Vale a dire targhe, insegne ecc. che chiaramente non perseguono fine di lucro. E nella fattispecie certamente, come anzidetto, non si può affatto negare l’interesse economico che deriva al gerente o proprietario, dalla gestione di una struttura alberghiera. In tal senso si era pure espressa la Cassazione la quale con la sentenza n° 17852 del 3 settembre 2004, superando anche l’interpretazione ministeriale (art. 134, D.P.R. n. 495/92) affermava che i cartelli di cui si tratta sono tassabili in quanto riportano il riferimento “nominativo dell’impresa”: cioè la citata ragione sociale. Ribadendo, inoltre, la stessa Corte che “è soggetto a imposta sulla pubblicità qualsia-

si mezzo di comunicazione con il pubblico, il quale – indipendentemente dalla ragione e finalità della sua adozione – risulti obiettivamente idoneo a fare conoscere indiscriminatamente alla massa indeterminata di possibili acquirenti ed utenti il nome, l’attività ed il prodotto di un’azienda, restando irrilevante che detto mezzo di comunicazione non assolva pure una funzione reclamistica i propagandistica” (citata sentenza n. 17852/2004). Per tali motivi la Commissione tributaria regionale, sezione XV di Verona definitivamente decidendo, in totale riforma della sentenza di primo grado accoglie l’appello della società concessionaria e ratifica l’avviso di accertamento n. 708/2003, posto a carico della società A. S.p.A. Stante lo scarso valore della causa (euro 294,17) il collegio ritiene di poter ordinare la compensazione delle spese fra le parti.

Nota di Attilio R. Gastaldello

ristico ai sensi dell’art. 134 del D.Lgs. 495/92, avente lo scopo di informare gli utenti dell’esistenza di alcuni servizi e che siffatta qualificazione trova conferma nell’autorizzazione all’installazione da parte dell’Anas, considerato che la pubblicità nelle autostrade è esclusa. La società concessionaria nel giudizio di primo grado ha contestato entrambi gli argomenti difensivi della ricorrente. La Commissione tributaria provinciale di Verona accoglie il ricorso con la seguente motivazione: “[...] il cartello di servizio agli utenti autostradali ha la precisa funzione di fornire agli utenti stessi un posto di ristoro e dall’esame dello stesso non si rinviene alcun messaggio pubblicitario. Inoltre il cartello è stato ritenuto conforme alla legge vigente dell’Anas, unico organo preposto al controllo e all’autorizzazione delle installazioni. Infine, il Comune di Verona ha ritenuto che per il cartello descritto non ci sia il presupposto impositivo della pubblicità”. Di tutt’altro avviso la Commissione tributaria regionale che “accoglie l’appello della società concessionaria e ratifica l’avviso di accertamento […]”. “[…] In concreto il Collegio – visti gli atti di causa (foto del cartello) – ritiene che il segnale conteneva soprattutto un chiaro messaggio pubblicitario atto ad evidenziare, senza alcun dubbio, a mezzo dell’insegna commerciale, la realtà e la notorietà dell’unica struttura alberghiera esistente nella zona e, per tali motivi, il cartello deve ritenersi soggetto all’imposta comunale sulla pubblicità […]”. Diverse sono le questioni affrontate nel giudizio d’appello, come emerge dalla lettura della parte motiva della sentenza della Commissione regiona-

In riferimento ai presupposti per l’applicazione dell’imposta sulla pubblicità ai cartelli segnaletici sui tratti autostradali, nella parte motiva della sentenza della Commissione regionale vengono affrontate diverse questioni che offrono interessanti spunti di riflessione, quali la rilevanza dell’autorizzazione dell’Anas all’istallazione dei suddetti cartelli, la rilevanza economica ed il contenuto pubblicitario. Inquadramento della fattispecie La Commissione tributaria regionale di Venezia, sezione staccata di Verona, n. XV, con sentenza n. 61/15/06, pronunciata il 20 giugno 2006 e depositata il 4 luglio 2006, accoglie l’appello proposto da una società concessionaria del servizio pubbliche affissioni e pubblicità per un Comune della Provincia di Verona, riformando la sentenza n. 104/5/05, emessa dalla Commissione tributaria provinciale di Verona, sez. V. La controversia verte sulla legittimità di un avviso di accertamento, emesso ai fini dell’imposta comunale sulla pubblicità relativa all’anno 2004, per l’installazione di un cartello segnaletico posto su un tratto autostradale che attraversa il Comune coinvolto. Il provvedimento in questione viene emesso e notificato nel settembre 2003. La ditta destinataria dell’avviso ricorre alla Commissione tributaria provinciale, adducendo che nel cartello oggetto di accertamento non è rinvenibile alcun messaggio pubblicitario. Precisa, per contro, che il cartello medesimo è da qualificarsi quale segnale tu-


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le, e tutte offrono interessanti spunti di riflessione sui presupposti per l’applicazione dell’imposta sulla pubblicità. Il problema della rilevanza dell’autorizzazione dell’Anas all’istallazione di cartelli pubblicitari sulle autostrade Secondo il giudice di prime cure, il rilascio dell’autorizzazione all’installazione del cartello de quo da parte dell’Anas comprova che il cartello medesimo non ha contenuto pubblicitario, posto che sulle autostrade non è ammessa la pubblicità “[...] il cartello è stato ritenuto conforme alla legge vigente dell’Anas, unico organo preposto al controllo ed all’autorizzazione delle installazioni”. Sul punto, la sentenza che conclude l’appello è lapidaria: l’autorizzazione suddetta “[…] non ha nulla a che vedere con l’aspetto fiscale della questione in esame […]”. Il significato è chiaro. L’autorizzazione è irrilevante ai fini della verifica circa l’esistenza dei presupposti per l’applicazione dell’imposta nel caso di specie. Tuttavia merita qui ricostruire il quadro normativo di riferimento. Il codice della strada (D.Lgs. 285/92) all’art. 23 (rubricato “Pubblicità sulle strade e sui veicoli”), comma 4, recita “la collocazione di cartelli e di altri mezzi pubblicitari lungo le strade o in vista di esse è soggetta in ogni caso ad autorizzazione da parte dell’ente proprietario della strada nel rispetto delle presenti norme”. Ai sensi del comma 1 dell’art. 53 del D.P.R. 495/92 (Regolamento di esecuzione e di attuazione del nuovo codice della strada), “l’autorizzazione al posizionamento di cartelli, insegne di esercizio e di altri mezzi pubblicitari fuori dai centri abitati, lungo le strade o in vista di esse, richiesta dall’art. 23, comma 4, del codice, è rilasciata: a) per le strade e le autostrade statali dalla direzione compartimentale dell’ANAS competente per territorio o dagli uffici speciali per le autostrade”. Ben si comprende, allora, il motivo dell’affermata irrilevanza del provvedimento autorizzativo: Se la pubblicità è consentita ed è soggetta all’autorizzazione dell’ente proprietario ossia dell’Anas, l’esistenza di una autorizzazione non può sic et simpliciter escludere l’applicazione dell’imposta. Altra è l’indagine da effettuare per valutare se sia legitti-

1 L’art. 5, comma 2 del D.Lgs. 507/93 (decreto che disciplina, inter alia, l’imposta comunale sulla pubblicità) così recita: “si considerano rilevanti i

ma l’applicazione dell’imposta, ossia verificare se il cartello abbia contenuto pubblicitario. Il contenuto pubblicitario quale presupposto per l’applicazione dell’imposta Si legge nella sentenza d’appello, relativamente ai presupposti per l’assoggettamento al tributo: “Nel caso esaminato, invece, non si faceva riferimento a indicazioni “impersonali”, bensì si forniva agli utenti dell’autostrada la specifica segnalazione (con l’esposizione della sigla della società alberghiera) che, alla distanza di 20 km era presente l’Hotel Q. E. individuato, appunto, con la sua precisa “ragione sociale” (art. 2292 ss. c.c.). E tale “cartello” avendo un contenuto pubblicitario va certamente soggetto all’imposta comunale sulla pubblicità, anche perché parallelamente quel cartello contiene un preciso messaggio pubblicitario in favore dell’impresa alberghiera che esercita una precisa attività economica. Si ritiene, infatti, che il presupposto dell’imposta va ravvisato nella diffusione di messaggi pubblicitari intesi nel senso normale del significato con esclusione di tutte le forme di comunicazione [...] comunque non ricollegabili ad alcun interesse economico […]”. Secondo il giudice d’appello l’indicazione del nome e della sigla della società alberghiera rappresenta un elemento sufficiente a qualificare il cartello come mezzo pubblicitario, giacchè soddisfa “lo scopo di rendere visibile (ed accessibile) un esercizio alberghiero”. Il convincimento trova fondamento nella disciplina del tributo, richiamata nella sentenza, e in particolare sulla disposizione contenuta nell’art. 5 del D.Lgs. 507/931. La formulazione della norma richiede che il messaggio afferisca all’esercizio di attività economiche e che possa astrattamente promuovere la vendita dei beni, la prestazione di servizi o l’immagine del soggetto, a prescindere dalla finalità del messaggio. Come affermato dalla Cassazione, il messaggio pubblicitario, per essere soggetto all’imposta, “deve avere il suo punto di riferimento nella produzione o nella vendita o nella fornitura di servizi”2. Il messaggio pubblicitario, infatti, presenta un quid pluris rispetto ai messaggi di contenuto meramente informativo (di identificazione del prodotto o dell’azienda). Secondo autorevole dottrina, la pubblicità, oltre a

messaggi diffusi nell’esercizio di una attività economica allo scopo di promuovere la domanda di beni o di servizi, ovvero finalizzati a migliora-

re l’immagine del soggetto pubblicizzato”. 2 Cass., 28 novembre 1995, n. 12319.


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rispondere alla funzione “informativa”, assolve una funzione “persuasiva” essendo finalizzata ad accrescere la propensione al consumo del prodotto o del servizio3. Interpretazione giurisprudenziale conforme alla dottrina si era già affermata nella previgente disciplina del tributo contenuta nel D.P.R. n. 639/72. Basti ricordare che la Cassazione ha affermato che qualsiasi mezzo di comunicazione con il pubblico, che, indipendentemente dalla ragione e finalità della sua adozione, risulti obiettivamente idoneo a far conoscere indiscriminatamente – cioè ad una massa indeterminata di possibili acquirenti ed utenti – il nome, l’attività ed il prodotto di un’impresa, è soggetto ad imposta sulla pubblicità, mentre è irrilevante che il predetto mezzo non assolva anche una funzione propriamente propagandistica o reclamistica4. Ne deriva l’intassabilità dei soli messaggi privi di rilevanza economica o contenenti informazioni assolutamente prive di finalità pubblicitarie e, per converso, l’assoggettabilità all’imposta degli strumenti di comunicazione comunque idonei a produrre effetti promozionali di attività economiche. Anche il Ministero delle finanze ha chiarito che “il presupposto dell’imposta va ravvisato nella diffusione di messaggi pubblicitari intesi nel normale significato del termine, con l’esclusione di tutte le forme di comunicazione prive di contenuto pubblicitario – quali ad esempio le forme di comunicazione ideologica – o comunque non ricollegabili ad alcun interesse economico”5. Giova ricordare poi che il regolamento di esecuzione e di attuazione del codice della strada contiene una nozione assai ampia di mezzo pubblicitario6. Detti mezzi presentano caratteristiche simili, ma non conformi, ai “segnali di indicazione” (ex art. 39, codice della strada). Sul punto si è espresso ripetutamente il Ministero delle finanze, sottolineando le diversità ed affermando che i primi debbono considerarsi veri e propri mezzi pubblicitari aventi rilevanza ai fini

3 URICCHIO, L’imposta sulla pubblicità, in AA.VV., Manuale dei tributi locali, Rimini, 1998, 161 ss.; FICARI, Funzione pubblicitaria dei segni distintivi di un prodotto ed imposta di pubblicità, nota a Cass., 28 novembre 1991, n. 12796, in Riv. Dir. Trib., 1992, 570. 4 Cass. civ., n. 12070 dell’1 luglio 2004; Cass., 15 novembre 1994, n. 9580; Cass. n. 3308/92; Cass. n. 8220/93; Cass. n. 6487/84; Cass. n. 1801/85; Cass. n. 1802/85. 5 Circolare del 17 marzo 1994, n. 10.

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tributari7. In tal senso si è pronunziata anche la Corte di Cassazione a sezioni unite, seppure con riferimento alla norma del previgente codice della strada (art. 11, Testo unico n. 393/1959, ora art. 53, D.P.R. 495/92), laddove afferma: “[…] fermo restando l’assoggettamento all’obbligo di corrispondere al Comune l’imposta di pubblicità prevista dalla legge [...]8. Nella pronuncia in commento, sia pure implicitamente, emerge che il giudice esclude che il cartello in parola possa avere natura di cartello segnaletico. La diversità tra cartelli segnaletici e mezzi pubblicitari è stata efficacemente illustrata dal Ministero delle finanze: “possono considerarsi al di fuori del campo di applicazione del tributo quei cartelli che si sostanziano in semplici forme di comunicazione al pubblico, prive di ogni contenuto pubblicitario”9. A mero titolo esemplificativo, il Ministero richiama i cartelli che contengono l’indicazione, a mezzo simboli quali, le posate, il bicchiere con bibita, il letto ecc. Nella medesima risoluzione viene inoltre sottolineato che “molti di questi cartelli appaiono avere caratteristiche assai simili, anche se non identiche, ai “segnali di indicazione”, destinati cioè a fornire agli utenti della strada informazioni necessarie per la corretta e sicura circolazione e per l’individuazione di itinerari, località, servizi ed impianti stradali. Per questa tipologia di cartelli, come precisato nelle risoluzioni ministeriali n. 262/E del 2 novembre 1995 e n. 48/E dell’1 aprile 1996, in considerazione dello specifico fine per il quale sono installati, si deve escludere la loro rilevanza ai fini tributari, solo però nel caso in cui abbiano caratteristiche conformi a quelle del codice della strada, approvato con D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285 e dal relativo regolamento innanzi richiamato”. Da ultimo, il giudice d’appello richiama una recente pronuncia della Corte di Cassazione, ove si afferma che i cartelli stradali sono tassabili quando riportano il riferimento nominativo all’impresa10. La sentenza afferma inoltre che “l’eventuale loro inclusione nell’ambito dei c.d. segnali contenenti

6 Nell’articolo 47 del D.P.R. 495/92, titolato “Definizione dei mezzi pubblicitari”, vengono elencate le diverse tipologie di mezzi pubblicitari soggetti alle disposizioni dettate dal legislatore del codice della strada per la tutela della sicurezza stradale. Il comma 8 definisce come “impianto di pubblicità o propaganda”, “qualunque manufatto finalizzato alla pubblicità o alla propaganda sia di prodotti che di attività e non individuabile secondo definizioni prece-

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denti, né come insegna di esercizio, né come preinsegna, né come cartello, né come striscione, locandina o stendardo, né come segno orizzontale reclamistico, né come impianto pubblicitario di servizio”. Circolari n. 262/E/95 e n. 48/E/96. Cass. Civ., sez. un., 8 luglio 1998, n. 6632. Risoluzione del 30 luglio 1997, n. 173. Cass. civ., 3 settembre 2004, n. 17852.


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indicazioni in ordine alla localizzazione di singole industrie (o di altri servizi, n.d.a.), non ne fa venire meno la parallela natura di segnale di indicazione, contenente messaggio riferito a soggetto o ente che svolge attività economica. Essi, pertanto, vanno considerati ad ogni effetto come forme pubblicitarie finalizzate ad incentivare la domanda di beni o servizi o a migliorare l’immagine del soggetto pubblicizzato e, come tali, devono scontare l’imposta sulla pubblicità”. “Tali cartelli, comunque, rivolgendosi a una massa indeterminata di possibili acquirenti e utenti svolgono, per la loro natura, una funzione pubblicitaria, la quale non deve necessariamente accompagnarsi a una vera e propria operazione propagandistico – reclamistica”. In conclusione e sotto un profilo pratico, l’orientamento che emerge dalla sentenza in commento è il seguente: sono esclusi dall’applicazione dell’imposta comunale sulla pubblicità i cartelli che possono ricondursi ai “segnali turistici e di territorio” previsti dall’art. 134 del D.Lgs. 495/92, in partico-

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lare, quale il segnale di indicazione alberghiera. Ossia la tipologia di segnali prevista nel comma 10 dell’articolo citato, rubricato “segnaletica di indicazione alberghiera” che comprende: a) un segnale con funzione di preavviso di un punto o di un ufficio di informazioni turistico – alberghiere e del segnale di informazione di cui alla lettera b seguente (fig. II. 298); b) un segnale di informazione generale sul numero, categoria ed eventuale denominazione degli alberghi (fig. II. 299); c) una serie di segnali specializzati di preavviso e direzione, posti in sequenza in posizioni autonome e non interferenti con la normale segnaletica di indicazione, per indirizzare l’utente sull’itinerario di destinazione (figg. II. 300 e II. 301)”. I cartelli che riportano la denominazione dell’impresa (sia che abbiano o non abbiano dimensioni e caratteri difformi da quelli prescritte dalla norma del codice stradale) ovvero riportano l’insegna commerciale, così da evidenziare la realtà e notorietà della struttura, hanno natura di mezzo pubblicitario e sono perciò assoggettabili all’imposta de qua.

Commissione tributaria provinciale di Siena, sez. V, 21 settembre 2006, n. 61 Presidente e Relatore: Crivelli Tributi locali - Tarsu - Avviso di accertamento Omessa indicazione dei criteri che differenziano le tariffe - Carenza di motivazione - Sussistenza (D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, artt. 68, comma 2, lett. d, 69, comma 2, 71, comma 1) È illegittimo per carenza di motivazione l’avviso di accertamento della tassa sui rifiuti solidi urbani, qualora non vengano indicati i criteri impiegati nelle delibere comunali per differenziare le tariffe per il maggior tributo dovuto dagli esercizi alberghieri rispetto ad altre categorie di immobili, facendo riferimento alla sola differente capacità economica delle due categorie. Svolgimento del processo Ricorre E. L. esercente in Chianciano Terme attività di esercizio alberghiero e quale rappresentante legale della società Compagnia Alberghiera E. S.r.l., per l’annullamento dell’avviso di accertamento per “infedele denuncia”, sotto il profilo della mancata presentazione della denuncia integrativa relativa alla Tassa sui rifiuti solidi urbani anno 2001 e della relativa iscrizione a ruolo, emes-

si dal Comune di Chianciano Terme e notificato in data 4 dicembre 2004, per un ammontare complessivo di euro 6.187,86. Parte ricorrente impugna, chiedendone la disapplicazione per vizio di legittimità, anche tutti gli atti presupposti dell’avviso di accertamento predetto, tra i quali: – il provvedimento determinativo per il 2001 delle tariffe Tarsu del Comune di Chianciano Terme (Giunta comunale n. 51 del 21 marzo 2001); – il provvedimento determinativo per il 2000, costituito non da provvedimento espresso ma da deliberazione implicita con conferma tacita delle tariffe previste per il 1999 delle tariffe Tarsu; – tutti i provvedimenti deliberativi di tariffa dal 1991 al 1999 e gli atti dagli stessi presupposti; – le delibere di Giunta di tariffa Tarsu per gli anni 2002, 2003, 2004. Lamenta: 1) La nullità dell’avviso di accertamento in parola, fondato sulla motivazione apodittica del Comune che la superficie denunciata (mq 2.500) non risponderebbe a quella effettiva (mq 2973), nonché delle delibere della Giunta comunale e del Consiglio comunale di Chianciano Terme determinative delle tariffe Tarsu per gli anni 2004 e quelli antecedenti, per violazione dell’art. 69, comma 2,


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D.Lgs. 507/93 sotto il profilo della totale assenza di motivazione in difetto di alcuna indicazione dei criteri usati per individuare il maggior tributo asseritamene dovuto dagli esercizi alberghieri rispetto alle altre categorie di immobili. Eccepisce, in particolare, l’illegittimità derivata dell’avviso di accertamento in quanto applicativo di atti amministrativi a loro volta illegittimi, quali le delibere comunali con cui sono state stabilite le tariffe. Invero, tutti gli atti indicati (in particolare, per quel che in questa sede rileva, quello del 2001) stabiliscono per le abitazioni civili una tariffa di lire 1.397 al mq. e di lire 4.608 al mq. per gli alberghi e le superfici annesse, con cospicua differenziazione tariffaria tra le due categorie economiche considerate: ciò ad onta della contraria previsione del legislatore che, nello stabilire il principio della determinazione comparativa delle tariffe per categorie omologhe, all’art. 68, comma 2, lett d del D.Lgs. 507/93, equipara la potenzialità produttiva di rifiuti delle strutture alberghiere a quella delle civili abitazioni, inserendole nello stesso gruppo di attività. Assimilazione da ritenersi ricognitiva del dato di comune esperienza per cui la produzione di rifiuti delle civili abitazioni non diverge in maniera sensibile da quella degli esercizi alberghieri. Inoltre, la Giunta comunale, prima, e il Consiglio comunale, poi, nella determinazione del quantum delle tariffe con riferimento alle singole attività economiche, sarebbero venuti meno all’obbligo di motivazione previsto dall’art. 69, comma 2 del D.Lgs. 507/93 in forza del quale “ai fini del controllo di legittimità, la deliberazione deve indicare le ragioni dei rapporti stabiliti tra le tariffe, i dati consuntivi e revisionali relativi al costo del servizio discriminati in base alla loro classificazione economica,nonché i dati e le circostanze che hanno determinato l’aumento per la copertura minima obbligatoria del costo […]”, nel mentre nessuna adeguata motivazione della accentuata differenziazione tariffaria fra categorie omologhe ha svolto il Comune che, anzi, avrebbe pretermesso l’enucleazione di qualsiasi dato giustificativo della differenziazione fra attività normativamente inserite nello stesso gruppo di incidenza sul costo del servizio. 2) Lamenta il ricorrente anche la violazione dell’art. 71, D.Lgs. 507/93, sia per difetto di motivazione dell’avviso di accertamento, sia per la decadenza del Comune prevista dall’art. 71 citato per essere stato l’avviso di accertamento notificato oltre il 31 dicembre del terzo anno successivo a quello di presentazione della originaria denuncia ritenuta infedele. Resiste il Comune di Chianciano Terme eccependo quanto al lamentato contrasto della delibera ta-

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riffaria comunale con la fonte di legge ordinaria: 1) l’inconferenza del richiamo alla previsione dell’art. 69 D. Lsv. 507/93 nel sindacato di legittimità della delibera della Giunta Comunale del 25.7.1991 per ragioni di vigenza temporale della norma; 2) l’assenza di carenze motivazionali della delibera tariffaria essendo la medesima direttamente collegabile alla precedente approvazione del regolamento con atto consiliare 184 del 27 luglio 1983 nel quale, negli artt. da 7 a 11, si operano le necessarie previsioni e distinzioni categoriali. La delibera di Giunta, richiamandosi ad atto normativo di disciplina generale, non imporrebbe alcun ulteriore requisito motivazionale. Le successive delibere consiliari del 1998, 1999 e 2000 nonché la delibera di Giunta del 2001 si porrebbero, poi, in termini puramente riproduttivi di quella del 1991, la quale ultima non sarebbe disapplicabile in sede tributaria per effetto del giudicato di piena conformità espresso dal T.A.R. Toscana con sentenza 534/1992; 3) l’insussistenza della dedotta violazione dell’art. 71, D.Lgs. 507/93 in quanto dall’interpretazione della norma, statuente la decadenza triennale, offerta dal ricorrente si perverrebbe a una decadenza sine die per l’ente impositore sol che il soggetto d’imposta si astenga fraudolentemente dall’integrare una originaria denuncia infedele. Con motivi aggiunti di ricorso, parte ricorrente rimarcava come l’avviso di accertamento non riportasse le aree assoggettate in concreto a tassazione e come queste non fossero aliunde evincibili a causa della genericità non solo dell’avviso di accertamento, ma anche della nota di risposta del Comune in data 31 gennaio 2005 in cui si svolge un mero richiamo allo schema metrico allegato all’avviso, comprendente tutte le aree dell’albergo invitandosi l’utente a individuare le aree tassate sulla scorta dei presupposti di cui all’art. 62, D.Lgs. 507/93: con ciò che l’atto è venuto meno all’onere di motivazione di cui all’art. 71, comma 2-bis, D.Lgs. 507/93. Motivi della decisione Il ricorso appare fondato e merita accoglimento. Rileva preliminarmente questa Commissione sussistere il potere di disapplicazione in via incidentale degli atti amministrativi illegittimi, sancito in generale dalla L. 20 marzo1865, n. 2248, all. E e in particolare dal D.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, per il quale le Commissioni tributarie, se ritengono illegittimo un regolamento o un atto generale rilevante ai fini della decisione, non lo applicano in relazione all’oggetto dedotto in giudizio.


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Nel merito, si rileva: in primo luogo come tutti i provvedimenti generali da cui scaturisce l’avviso e la relativa iscrizione a ruolo impugnati siano illegittimi. Trattasi, invero, di provvedimenti che prevedono tariffe per gli alberghi assai superiori alle civili abitazioni e non dissimili rispetto alle tariffe previste per i locali adibiti al commercio al minuto, ristoranti, bar e simili. Nessuno dei predetti provvedimenti generali di determinazione delle tariffe né il regolamento Tarsu cui le stesse si riportano reca motivazione circa le difformità rilevanti in relazione alle diverse categorie né, tantomeno, sussiste in esse riferimento apprezzabile alla attitudine delle varie attività economiche o commerciali a produrre rifiuti, sì da consentire la valutazione dei criteri sottostanti alla diversità tariffaria in relazione alla produzione effettiva di rifiuti, maggiore o minore che sia, presunta dall’amministrazione comunale. Tale palese vizio di motivazione rende illegittimi i provvedimenti generali in parola e, di riflesso, l’atto impositivo dai medesimi scaturente (cfr. Cons. Stato, sez. V, 28 gennaio 1998, n. 108 secondo cui “la natura dell’attività economica esercitata dalle varie categorie di contribuenti può essere assunta quale criterio per differenziare le tariffe della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, a condizione però che il Comune fornisca adeguata motivazione delle operazioni compiute e, in particolare, della congruenza della natura di tale attività separatamente considerata e lo scopo dell’atto, consistente nella copertura dei costi di esercizio”). Sul punto giova rilevare che nessuna attività istruttoria risulta essere stata svolta dal Comune di Chianciano Terme né per il 2004 né per gli anni precedenti ai fini della determinazione delle tariffe Tarsu le quali, a ben vedere, appaiono essere differenziate non tanto in relazione ai diversi costi richiesti per il servizio di smaltimento, quanto per le differenti capacità economiche delle categorie produttive. Né appare sussistere ragione per considerare gli alberghi (siano o meno ad attività stagionale) dissimili dalle abitazioni civili sotto il profilo qualitativo e quantitativo, in ragione dell’entità del tutto assimilabile dei rifiuti prodotti. Le delibere comunali statuenti le tariffe Tarsu, alle quali l’avviso di accertamento ha fatto richiamo, appaiono dunque illegittime sotto il duplice profilo della ingiustificata disparità di trattamento per elevata differenziazione tariffaria (rapporto da lire 1.397 al mq per le abitazioni civili a lire 4.608 al mq per gli alberghi) fra categorie ritenute omologhe dalla stessa legge nonché della omessa motivazione di tale differenziazione, ad onta della espressa disposizione dell’art. 68, comma 2, D.Lgs.

507/93. Invero, risiedendo il presupposto della tassa sulla raccolta dei rifiuti solidi urbani nell’idoneità dei locali a produrre rifiuti e quindi a gravare sul costo del servizio di smaltimento, ove la regolazione tariffaria deliberata dal Comune risulti immotivata, irrazionale o incongruente rispetto a tali parametri, rifacendosi apoditticamente (ancor più in presenza di un Comune con popolazione inferiore ai 35.000 abitanti per il quale il criterio tariffario non è quello della produzione media bensì quello della produzione effettiva, cfr. art. 65), ai soli costi di esercizio e, illegittimamente, a principi di capacità reddituale e contributiva delle attività, devono ritenersi affette da illegittimità per eccesso di potere (Cons. Stato, sez. V, 15 ottobre 1995, n. 1419). In realtà il Comune di Chianciano Terme ha determinato le tariffe non tanto in base alla quantità media dei rifiuti prodotti desumibile dalla destinazione d’uso del locale, prevista dalla legge sulla finanza locale, quanto con riferimento alla redditività economica svolta dall’operatore, abusivamente adottato. Dalla illegittimità delle delibere tariffarie adottate dal Comune discende l’illegittimità dell’avviso di accertamento, in quanto applicativo delle medesime, e dell’iscrizione a ruolo, in quanto esecutiva di quest’ultimo. Quanto all’eccezione del Comune secondo cui, in difetto di nuove statuizioni tariffarie con le delibere successive a quelle originarie, sarebbe confermata per legge la tariffa originaria, ancorché irrispettosa dei sopravvenuti criteri normativi, l’argomentazione è priva di pregio. È principio noto, infatti, quello secondo cui l’obbligo di conformità degli atti amministrativi così come delle fonti normative secondarie alla legge ordinaria opera autonomamente all’entrata in vigore della legge senza possibilità di sopravvivenza degli atti illegittimi per soli meccanismi di proroga automatica o di mero richiamo a delibere adottate in periodi in cui vigevano principi diversi. Con la nuova Legge sulla finanza locale scattano gli obblighi di cui agli artt. 68 e 69 e le delibere antecedenti possono ritenersi prorogate solo ove conformi ai principi ivi stabiliti. In secondo luogo, è accoglibile anche la censura di decadenza dell’avviso di accertamento in rettifica, essendo stato questo notificato nel 2004 a fronte di una denuncia originaria del 1996, epperciò ben oltre il 31 dicembre del terzo anno successivo a quello di presentazione della denuncia ritenuta infedele. L’art. 71, D.Lgs. 507/93 dispone che in caso di denuncia infedele o incompleta l’ufficio comunale provvede ad emettere avviso di accertamento in rettifica, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del terzo anno successivo a quello di presentazione della denuncia stessa. A questa fa ri-


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scontro il regolamento comunale Tarsu nella parte in cui statuisce, all’art. 28, che il Comune controlla le denunce presentate e sulla base degli elementi direttamente desumibili dalle stesse e secondo le disposizioni di legge provvede all’accertamento in rettifica nei casi di omissione, infedeltà e incompletezza nel termine perentorio del 31 dicembre del terzo anno successivo a quello di presentazione della denuncia. Ne consegue che il Comune in parola è incorso nella decadenza del relativo potere, a mente dell’art. 71, comma 1 del D.Lgs. 507/93: scaduto il termine suddetto, l’azione di accertamento da parte dell’amministrazione finanziaria deve considerarsi perenta, senza alcuna possibilità di sanatoria (cfr. Comm. centrale imposte, sez. VIII, 11 gennaio1989, n. 119). Decadenza che, involgendo lo stesso potere di accertamento, opera per tutte le annualità successive fino a quella della verifica delle aree tassabili eseguita di ufficio dall’ente impositore. Ciò indipendentemente dal decorso del triennio per talune delle annualità successive, non essendo previsto a carico del contribuente un obbligo di reiterazione annuale della denuncia, ove non siano maturati mutamenti delle condizioni di tassabilità (aree, destinazione dei locali etc.). né, a fronte di un termine stabilito a pena di decadenza, è consentito alla Commissione svolgere considerazioni interpretative fondate sugli effetti negativi a carico di una delle parti, contenendo il termine di natura perentoria, di per sé, tutte le valutazioni di opportunità svolte dallo stesso legislatore a carico della parte onerata. In terzo luogo, anche l’ultimo motivo di censura appare condivisibile a merita accoglimento. Vale

osservare come l’avviso di accertamento non riporti l’indicazione delle aree assoggettate in concreto a tassazione e come queste non siano in altro modo evincibili dall’avviso di accertamento. D’altronde, come sottolineato dal ricorrente, alla richiesta dell’esercizio alberghiero di specificazione delle aree da considerarsi assoggettate a tassazione, tra le molte indicate, il Comune ha risposto con generica nota in data 31 gennaio 2005 nella quale si fa mero richiamo allo schema metrico allegato all’avviso, comprendente tutte le aree dell’albergo e si assevera che l’individuazione compete all’utente sulla scorta dei presupposti di cui all’art. 62, D.Lgs. 507/93. ritiene la Commissione che, in tal modo, l’atto è venuto meno all’onere di motivazione di cui all’art. 71, comma 2-bis, D.Lgs. 507/93, nella parte in cui prescrive che gli avvisi di accertamento devono essere motivati in relazione ai presupposti di fatto e alle ragioni giuridiche che li hanno determinati. Con ciò che l’Ente impositore non ha adempiuto in concreto all’onere motivazionale ma è ricorso a formule di stile del tutto generiche con le quali, richiamando pedissequamente il dettato normativo e allegando lo schema metrico globale dei locali, ha invitato sostanzialmente l’utente ad un inammissibile “fai da te” nell’onere di individuare gli spazi in concreto tassati. Con ciò violando palesemente l’obbligo specificamente posto dal legislatore sull’ente. Anche sotto tale profilo, dunque, l’atto di accertamento e la conseguente iscrizione a ruolo vanno annullati. Il ricorso, pertanto, appare fondato e merita accoglimento. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano nella somma equitativamente valutata di euro 1.800,00.

Nota

D.Lgs. 507/93, per carenza di motivazione. Ciò è avvalorato dal fatto che l’art. 68, comma 2, lett. d, D.Lgs. 507/93 ed i dati della comune esperienza consentono di assimilare le strutture alberghiere alle abitazioni private quanto ad attitudine a produrre rifiuti, inserendo le stesse nello stesso gruppo di attività (cfr. sul punto risoluzione Ministero dell’economia e delle finanze, 4 aprile 1997, n. 55/E, che ha precisato come, in applicazione di quanto stabilito dall’art. 68, comma 2, nella determinazione delle tariffe si deve tener conto del criterio di omogeneità, non potendosi inserire in categorie distinte, con tariffe pertanto diverse, attività analoghe, per le quali si deve presumere la stessa potenzialità di rifiuti; Cass., 4 dicembre 2003, n. 18548; 20 settembre 2004, n. 18862, in Corr. Trib., 2004, 44, 3495). Richiamandosi anche alla giurisprudenza del Consiglio di Stato (sentenza 28 gennaio 1998, n. 108,

I giudici senesi hanno ritenuto illegittimi i provvedimenti che disattendono le regole e i criteri di calcolo fissati dalle norme vigenti (in particolare, dal D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, istitutivo della Tarsu) e, come tali (secondo quanto affermato anche dalla recente sentenza della Corte di Cassazione, 6 maggio 2005, n. 9415, in Corriere Trib., 2005, 26, 2088), disapplicabili in via incidentale. Per il Collegio, il provvedimento del Comune che tralascia di indicare i criteri di calcolo delle tariffe tra diverse categorie di immobili, basando la differenziazione tariffaria sulla sola base della capacità economica delle categorie indicate (in particolare, gli esercizi alberghieri) e quindi della presunta diversa potenzialità produttiva di rifiuti, è illegittimo e pertanto annullabile ex art. 69, comma 2,


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secondo cui il Comune deve adeguatamente motivare i criteri per la differenziazione delle tariffe in questione, in base alla natura dell’attività separatamente considerata e allo scopo dell’atto, senza limitarsi alla redditività economica svolta dall’operatore; Cons. Stato, 29 maggio 2000, n. 3092; T.A.R. Marche, 25 marzo 2002, n. 224 in Boll. Trib., 2003, 12, 954), la Commissione giudica illegittimi sia gli atti amministrativi generali dell’amministrazione comunale che l’atto impositivo formante oggetto del contendere da essi scaturente. Inoltre, l’avviso di accertamento impugnato non indicava le aree soggette a tassazione né recava i

riferimenti occorrenti per individuarle, a conferma dell’assenza di motivazione dei “presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche” che stanno alla base del provvedimento. Quanto alla eccezione sollevata dal Comune in ordine alla perdurante validità delle tariffe originariamente fissate, nonostante la loro contrarietà alla legge, per la sola circostanza che nel frattempo non erano sopravvenute nuove statuizioni, i giudici senesi sanciscono correttamente la sopravvivenza degli atti amministrativi anteriori alle vigenti disposizioni normative, solo a condizione che gli stessi siano conformi al mutato dettato legislativo.


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ATTI E INTERVENTI Consiglio di presidenza della giustizia tributaria RELAZIONE AL MINISTRO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE SULL’ANDAMENTO DELLA GIUSTIZIA TRIBUTARIA (1 gennaio 2005 – 31 dicembre 2005: stralcio del testo approvato nella seduta del 28 novembre 2006, pubblicato in data 12 febbraio 2007 sul sito www.giustizia-tributaria.it)* Premessa - Parte Prima. L’attività consiliare Parte Seconda. La giurisdizione tributaria - Parte Terza. Le riforme ritenute necessarie Premessa L’informativa che il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria propone annualmente all’esame del sig. Ministro dell’Economia e delle Finanze, oltre che ad assolvere alle attribuzioni previste dall’art. 24, lettera e, D.Lgs. 545/92, tende a dare più concreto e utile apporto al processo riformatore che connota l’evoluzione della giurisdizione tributaria e di cui lo stesso rappresentante del Governo si rende interprete presso il Parlamento, dopo aver fatto le sue valutazioni politiche. Le rappresentazioni rigorosamente precise dei dati relativi al funzionamento del settore, alla entità del contenzioso e alle sue linee di tendenza, al delicato ruolo di autogoverno del Consiglio, alle sue specifiche articolazioni ed attività svolte, alle rilevazioni di valori e di carenze, di livelli di eccellenza e di disfunzione, portano tutte alla convergenza verso un giudizio di essenzialità e di alta utilità del processo tributario, la cui finalità è quella di assicurare al contribuente la garanzia di giusto e consapevole assolvimento al proprio obbligo fiscale. Un processo che, per quanto confermativo (in media 2 volte su 5) delle ragioni del fisco, concorre a fornire anche preziosi elementi per il migliore svolgimento delle procedure impositive. Tale consolidata funzione, che trova ormai nel vivace dibattito del mondo scientifico e giudiziario prevalente condivisione, ha ottenuto un pieno riconoscimento alla giustizia tributaria del suo fondamentale e insostituibile ruolo giurisdizionale. * Della importante relazione del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, integralmente consultabile sul sito istituzionale, questa rivista riprende e pubblica le parti seconda e terza, di grande interesse non solo per i profili giuridici, ma anche per

L’ultima relazione, redatta nella immediatezza dell’approvazione del D.L. 203/05, poi convertito con legge n. 248, cadde in un momento ritenuto favorevole. Detta normativa infatti, nell’intervenire su alcuni aspetti ordinamentali e processuali, quasi tutti visti in chiave positiva, ha attribuito, tra l’altro, al giudice tributario lo status di giudice a tempo indeterminato ed inamovibile, al pari di altro soggetto investito della funzione giurisdizionale. Conquista questa da tutti ritenuta fondamentale, che ha posto le premesse e ha lasciato prevedere ulteriori iniziative legislative, che completino il quadro dell’assetto istituzionale nella direzione indicata dalla normativa medesima, quali, il cambio della denominazione, la modifica dell’art. 3, D.Lgs. 545/92 nella direzione di una auspicata pari dignità dei giudici tributari, la previsione di un adeguato trattamento economico con riferimento a quello previsto per altri giudici onorari ed altro. Anche la presente relazione, pur nel successivo silenzio del legislatore, vuole aprirsi con un certo ottimismo, che deriva dalla registrata ripresa di un dialogo istituzionale, che il Consiglio auspica e sollecita da tempo. La presenza del vice Ministro dell’Economia e delle Finanze, cui viene consegnato il testo di tutta la relazione, va interpretata come un segnale forte anche perché essa non si traduce in una visita di cortesia, ma snoderà un confronto aperto sui vari problemi che ancora investono la giustizia tributaria e rispetto ai quali è indispensabile trovare soluzioni a breve termine. È questa disponibilità al dialogo che induce ad un sereno ottimismo. Si confida, pertanto, che le ulteriori riforme auspi-

la ricchezza dell’informazione, per gli esaurienti dati statistici e per le prospettive di riforma. Si tratta di temi di assoluto rilievo per tutti coloro che a vario titolo si occupano professionalmente, istituzionalmente o scientificamente della

giustizia tributaria. Ci si augura che sulle pagine della rivista sia possibile sviluppare un proficuo dibattito, raccogliendo le tante sollecitazioni scaturenti dall’intensa ed impegnativa attività svolta dal Consiglio di presidenza.


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cate dalle articolazioni operative dei giudici e del personale amministrativo, dalle rappresentanze associative e sindacali, recepite in gran parte da questo Consiglio (in seguito enumerate in dettaglio) trovino finalmente la necessaria attenzione e diventino oggetto di opportuni interventi legislativi. Dette riforme tendono in ultima analisi a dare un’immagine (non solo formale ma anche sostanziale) di una giustizia tributaria, che svolge il proprio ruolo indefettibile in assoluta autonomia ed indipendenza e che ormai è diventata una realtà presente nelle istituzioni ed avvertita dai contribuenti, che vedono in essa una garanzia nella tutela dei propri diritti e dei propri doveri. Particolarmente significativo è quest’aspetto, da cui scaturisce l’esigenza di portare a conoscenza delle altre istituzioni dei cittadini di quanto avviene e si muove nel mondo giudiziario tributario. Di questa esigenza di dialogo verso l’esterno, il Consiglio nel 2003, si fece carico, introducendo le cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario tributario, cerimonie che non vogliono essere e non sono manifestazioni formali, ma occasioni sempre più adeguate di analisi e di concrete proposte delle intelligenze dei vari corpi del mondo tributario. La consolidata, rilevante partecipazione da parte di autorità e di operatori del settore, produce, con le argomentazioni ed il dibattito che solgono connotare dette cerimonie, proficui risultati e interessanti spunti sotto il profilo istituzionale e nondimeno organizzativo. In conclusione, la giustizia tributaria italiana può legittimamente vantare di costituire un punto di orgoglio e di autentica originalità nel panorama delle giurisdizioni europee; ne è modello di esempio e, grazie agli imminenti scambi con i paesi comunitari, costituirà senz’altro uno stimolante spunto di emulazione. Parte Prima. L’attività consiliare [Omissis] Parte Seconda. La giurisdizione tributaria Capitolo Primo 1. L’attività giurisdizionale delle Commissioni a) Dati statistici Anche quest’anno, l’esame dei dati statistici, relativi all’anno 2005, evidenzia la tendenza alla riduzione dei procedimenti pendenti innanzi alle Commissioni tributarie, ad ulteriore conferma della funzionalità e dell’efficienza del sistema. I procedimenti complessivamente sopravvenuti nel corso dell’anno 2005, sono stati 300.954, a fronte dei 364.600 definiti con provvedimenti

depositati nel corso dello stesso anno. I ricorsi sono, pertanto, così diminuiti: dai 676.026 pendenti all’1 gennaio 2005, si è giunti ai 600.371 al 31 dicembre dello stesso anno, con una riduzione pari all’11,20%. L’andamento su evidenziato non risulterebbe difforme anche se si andassero a considerare tra i ricorsi pendenti i decreti presidenziali, ex art. 27 del D.Lgs. 546/92, per i quali, alle date prese in riferimento, non risulti decorso il termine di reclamo, di cui al successivo art. 28. Difatti i numeri da valutare sarebbero di 688.531 pendenti all’1 gennaio 2005 e di 619.006 al 31 dicembre dello stesso anno, con una diminuzione in percentuale pari al 10,10%. Per quanto attiene, invece, al particolare sui ricorsi pervenuti nel corso d’anno, risulta che dai 174.760 ricorsi presentati alle Commissioni tributarie provinciali, nell’anno 2004, si è passati ai 255.276, presentati innanzi alle stesse Commissioni provinciali nell’anno 2005. Gli appelli proposti, invece, dinanzi alle Commissioni tributarie regionali, sono passati dai 42.731 del 2004, ai 45.678 del 2005. b) L’attività delle Commissioni tributarie regionali I dati provenienti dalle Commissioni tributarie regionali, come già detto, confermano la tendenza alla riduzione dell’arretrato. Sul piano della produttività le Commissioni regionali che hanno fatto registrare il maggior numero di sentenze pro-capite, depositate nel 2004, sono la Commissione tributaria regionale della Campania e quella della Basilicata, con una media di 58 decisioni per giudice. Anche in molte altre Commissioni tributarie regionali la media risulta similare: ad esempio, la Commissione tributaria regionale della Calabria e la Commissione tributaria regionale del Lazio si attestano su una media pro-capite di 57 sentenze; la Commissione tributaria regionale della Sardegna su 55; la Commissione tributaria regionale della Puglia su 50; la Commissione tributaria regionale della Lombardia su 49; la Commissione tributaria regionale della Sicilia su 44. Nelle altre Commissioni regionali la media risulta relativamente più bassa, ma non per un minore impegno dei magistrati tributari a svolgere il proprio lavoro, bensì a seguito delle minori sopravvenienze e quindi della riduzione dell’arretrato. Volendo indicare una media nazionale, si può affermare che ogni giudice tributario d’appello ha trattato 8,14 ricorsi per udienza, con una punta massima, per la Commissione tributaria regionale della Calabria, di 10,86 ricorsi. Un quadro riassuntivo concernente le Commissio-


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ni tributarie regionali fornisce i seguenti dati: a) procedimenti pendenti innanzi alle Commissioni tributarie regionali al 31 dicembre 2004: n. 138.418 (142.875 comprendendo i decreti presidenziali non reclamati); b) ricorsi sopravvenuti nel periodo 1 gennaio 2005-31 dicembre 2005: n. 45.678; c) decisioni pronunciate nel periodo 1 gennaio 2005-31 dicembre 2005: n. 65.684; d) pendenze risultanti al 31 dicembre 2005: n. 101.707 (116.191 comprendendo i decreti presidenziali non reclamati). c) L’attività delle Commissioni tributarie provinciali Anche l’analisi dei dati provenienti dalle Commissioni tributarie provinciali, conferma il dato evidenziato più volte, riassumibile nell’eccellente funzionalità delle Commissioni tributarie. L’arretrato giacente presso le Commissioni tributarie provinciali è, salvo alcune eccezioni, in costante discesa, come del resto è facilmente deducibile confrontando i dati della presente relazione con gli analoghi dati forniti per lo scorso anno. Al riguardo, si riporta il numero dei ricorsi pendenti al 31 dicembre 2005, presso le 10 Commissioni tributarie provinciali con maggiore recupero dell’arretrato rispetto al numero dei ricorsi giacenti presso le stesse al 31 dicembre 2004: Commissione

Pendenti al 31/12/04

Pendenti al 31/12/05

Diminuzione percentuale

Napoli

28.168

19.742

15.508

11.074

28,59%

Catania

17.139

13.448

21,54%

Taranto

28.931

24.219

16,29%

Roma

97.869

85.195

12,95%

Messina

22.516

19.888

11,67%

È opportuno specificare, che, dai dati sopra esposti riferiti alla presenza della maggior differenza di numero dei ricorsi arretrati, non si deve erroneamente dedurre che la produttività dei magistrati in servizio presso le altre Commissioni sia inferiore a quella dei loro colleghi dianzi indicati. Invero, dal raffronto dei dati relativi al numero di sentenze mediamente pronunciate, nell’anno in trattazione, dalle suddette 11 Commissioni tributarie provinciali, si evince che buona parte di queste ha un indice di lavoro superiore alle altre che non evidenziano questa sofferenza: Commissione

Numero medio pronunciamenti assunti

Taranto

180,73

Catania

179,88

Savona

164,00

Messina

156,02

Latina

149,77

Vibo Valentia

141,43

Catanzaro

140,74

Bari

139,54 133,19

Lucca

7.265

4.205

42,12%

Varese

13.049

8.149

37,55%

Napoli

127,16 123,63

Foggia

30.421

20.039

34,13%

Pesaro

9.448

6.838

27,62%

Lucca

118,69 115,71

Bologna

14.792

10.959

25,91%

L’Aquila

Napoli

25.949

19.797

23,71%

Roma

114,61

Pisa

114,53

Taranto

29.329

24.019

18,10%

Roma

98.439

81.789

16,91%

Catania

16.099

13.637

15,29%

Messina

22.636

20.123

11,10%

Riportiamo gli stessi dati calcolati comprendendo i decreti presidenziali non reclamati: Commissione Lucca

Pendenti al 31/12/04 7.491

Pendenti al 31/12/05

Diminuzione percentuale

4.421

40,98%

Varese

12.972

8.027

38,12%

Bari

30.607

20.913

31,67%

9.752

6.808

30,19%

Foggia

29,91%

Bologna

Varese

Bari

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Il dato relativo al numero di ricorsi trattati per udienza dai giudici delle Commissioni provinciali è pari ad una media nazionale di 10,85, con una punta massima registrata, nelle Commissioni tributarie provinciali di Catanzaro e Varese, di 23 ricorsi mediamente trattati per udienza. Per completezza si deve puntualizzare che dinanzi alle Commissioni tributarie provinciali, nell’anno 2005, sono state trattate 67.880 istanze relative a provvedimenti cautelari, ex art. 47, D.Lgs. 546/92. Nell’anno precedente, il numero fu, invece, di 54.345. Le istanze che hanno trovato accoglimento sono in percentuale il 32% a fronte del 30,61% dell’anno 2004.


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d) Esiti dei ricorsi con particolare riferimento all’amministrazione finanziaria Dalle relazioni fatte pervenire dai presidenti di Commissioni tributarie, si possono dedurre i dati relativi alla soccombenza in giudizio dell’amministrazione finanziaria nel corso dell’anno 2005. La percentuale di detta soccombenza, anche parziale, dell’amministrazione si attesta in primo grado sul 57,71 % e in appello sul 57,05%. Non si può non rappresentare, a questo punto, quanto già evidenziato da alcuni presidenti di Commissione, circa, il tipo di difesa dell’amministrazione che, a volte, appare carente o insufficiente. Sembrano frequenti, invero, i casi in cui l’amministrazione finanziaria, o non si costituisce in giudizio, o, ancorché costituita, non compare in udienza. Si riportano qui di seguito i dati relativi alla percentuale di soccombenza dell’amministrazione finanziaria in alcune Commissioni, dai quali è possibile ricavare il minimo ed il massimo delle percentuali sottoelencate. Commissione

Percentuali di soccombenza massima

Comm. trib. prov. Aosta

78,46

Comm. trib. prov. Siracusa

76,48

Comm. trib. prov. Avellino

74,12

Comm. trib. prov. Piacenza

72,52

Comm. trib. prov. Enna

72,40

Comm. trib. prov. Trieste

72,12

Comm. trib. prov. Viterbo

72,04

Comm. trib. prov. Catanzaro

71,08

Comm. trib. reg. Molise

71,00

Comm. trib. prov. Macerata

70,54

Commissione

Percentuali di soccombenza minima

Comm. trib. prov. Rovigo

31,22

Comm. trib. prov. Modena

38,56

II grado Trento

41,26

Comm. trib. prov. Belluno

41,02

Comm. trib. prov. Crotone

42,34

II grado Bolzano

42,40

Comm. trib. prov. Siena

42,86

Comm. trib. prov. Reggio Emilia

43,92

Comm. trib. prov. Cagliari

44,80

Comm. trib. prov. Torino

45,02

e) Organico dei componenti delle Commissioni tributarie La diminuzione del carico di lavoro pendente innanzi alle Commissioni tributarie, ha indotto l’organo di autogoverno a ridurre ulteriormente, rispetto agli anni precedenti, il numero di posti che sono stati messi a concorso, pur in presenza di numerose vacanze. Come più puntualmente si può ricavare dalle tabelle finali allegate alla presente relazione, il numero dei magistrati tributari in servizio al 31 dicembre 2005 è di 5.246 unità, di cui 990 presidenti di Commissione e di sezione, 904 vice presidenti di sezione e 3.352 giudici. Alla stessa data, quindi, tenuto conto dell’organico tabellare, risultano vacanti complessivamente 425 posti di presidente di Commissione e di sezione; 511 posti di vice presidente di sezione e 2.308 posti di giudice nelle varie Commissioni tributarie. Anche quest’anno trova conferma il dato che fa registrare più carenze in organico nelle Regioni nelle quali vi è un maggior numero di Commissioni tributarie provinciali. Tra queste ultime, è accentuata la “scopertura” per quelle Commissioni con un maggior numero di sezioni. La Regione con il più alto numero di vacanze in organico è la Lombardia, ove (al 31 dicembre 2005) sono scoperti 52 posti di presidente di sezione, 72 posti di vice presidente di sezione e 331 posti di giudice. In Campania, mancano 58 presidenti di sezione, 62 vice presidenti e 222 giudici; in Piemonte, sono vacanti 34 posti di presidente di sezione, 51 di vice presidente e 209 posti di giudice; nel Lazio, sono vacanti 57 posti di presidente di sezione, 36 di vice presidente e 205 posti di giudice. Vi sono, poi, Regioni in cui, a fronte di un organico ritenuto non sufficiente corrispondono maggiori vacanze. È il caso della Liguria, che, pur avendo soltanto cinque Commissioni tra regionali e provinciali (per un organico totale di 366 magistrati), registra vacanze per 22 presidenti di sezione, 27 vice presidenti di sezione e 120 giudici, con una percentuale di circa il 46%. Infine, la Provincia autonoma di Bolzano, registra oltre il 57% di scopertura di organico dove su 54 magistrati, ne risultano mancanti 31. f) Il personale amministrativo Il personale degli uffici di segreteria delle Commissioni tributarie è attualmente gestito dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, sulla base della dotazione organica prevista, per ciascuna Commissione, dal D.M. 21 dicembre 2001 (in G.U. n. 91 del 18 aprile 2002). Rispetto all’anno 2004, i dati relativi al 2005 evi-


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denziano una diminuzione generale del personale delle segreterie in tutti i profili professionali; in particolare tale diminuzione ha ancor più aggravato la carenza del profilo C1 segnalata nelle precedenti relazioni, vale a dire quello riguardante il personale legittimato, unitamente al profilo C2 ed all’area B3 (la quale è passata da una situazione di lieve esubero a quella di carenza) a svolgere le mansioni che più propriamente attengono all’espletamento del servizio giurisdizionale (assistenza ai collegi in udienza, verbalizzazione, ecc.). Per fornire un quadro riassuntivo e schematico, va detto che i dipendenti effettivamente in servizio al 31 dicembre 2005, ammontano a 2.299 unità, su una pianta organica di 2.483 unità, con una carenza pari, quindi, al 7%. Sul totale, si riscontra un lieve esubero unicamente nel profilo B1 (in tutto 18 unità), mentre in tutti gli altri dell’area B ed in tutta l’area C si evidenziano le carenze già segnalate. Invero, a fronte di una scopertura per numero di 95 unità nel profilo C1, ne ritroviamo 10 assenti nel profilo C2 e 23 nel profilo C3. Mancano, infine, 4 unità nell’area dirigenziale presso le Commissioni tributarie regionali per la Calabria, per le Marche, per la Liguria e per il Friuli Venezia Giulia. g) Le strutture materiali L’esame delle relazioni presentate a questo Consiglio dai presidenti delle Commissioni tributarie evidenzia, come dato complessivo, una situazione leggermente migliorata rispetto a quanto denunciato lo scorso anno con riferimento alla sistemazione logistica delle Commissioni tributarie. Permangono, tuttavia, situazioni localmente deficitarie che si registrano da tempo. A parte quella relativa alla Commissione tributaria provinciale di Palermo, che appare veramente grave, si segnalano le Commissioni per le quali sarebbe necessario intervenire. Queste ultime sono: le Commissioni tributarie provinciali di Varese, di Savona, di Brescia, di Cagliari, di Vercelli, di Potenza, di Trieste, di Lodi. Anche la Commissione tributaria regionale della Basilicata si trova in serie difficoltà logistiche. Per altro verso, corre obbligo di segnalare anche le situazioni che si sono risolte positivamente, come quella della Commissione tributaria provinciale di Napoli, che fu nella precedente relazione evidenziata. Anche quest’anno è opportuno ribadire l’utilità di un intervento, che consenta, ove possibile, il trasferimento della sede delle Commissioni al di fuori del capoluogo di Provincia. È appena il caso di citare le disfunzioni e le carenze, anch’esse oggetto di specifica menzione in

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molte delle relazioni dei presidenti di Commissioni tributarie relative ad arredi, strumentazione (fotocopiatrici, computer, ecc.), disponibilità di testi e di riviste giuridiche specializzate. Parte Terza. Le riforme ritenute necessarie Capitolo Primo Riforma costituzionale e progetto di modello europeo Accanto alla esigenza sopra accennata della pari dignità dei giudici tributari, occorre raggiungere ed in maniera definitiva e sotto ogni profilo, la pari dignità della giustizia tributaria con tutte le altre. Per realizzare questo obiettivo occorre inevitabilmente procedere ad una riforma costituzionale. Già nella relazione del 2003, il Consiglio si era fatto promotore di questa riforma, ancorandola al processo di giurisdizionalizzazione in atto delle Commissioni tributarie, che, di recente, si erano viste attribuire, con la legge 448/2001, la giurisdizione esclusiva in materia tributaria. La successiva legge del 2005 ha eliminato poi ogni dubbio interpretativo che era sorto, affermando che rientrano nella giurisdizione tributaria tutti i tributi di ogni genere e specie comunque denominati. La proposta non era del tutto nuova. A tacer d’altro, la Commissione bicamerale per la riforma della Costituzione, risalente ai primi anni del ’90, presieduta dall’on. Iotti e dall’on. De Mita, nel riformulare l’assetto istituzionale delle giurisdizioni, ne previde una tripartizione. Alla giurisdizione ordinaria furono affiancate quella amministrativa (comprensiva anche di quella contabile) e quella tributaria. Già dagli anni ’90 quindi, i tempi per questo salto di qualità furono ritenuti maturi per la giustizia tributaria da illustri costituzionalisti che facevano parte di quella Commissione. I tempi viceversa non erano certamente maturi, né potevano esserlo all’epoca in cui fu scritta la Carta costituzionale che non dedicò alla giustizia tributaria alcuna attenzione. Si limitò soltanto a far immaginare la sua sopravvivenza con la sesta norma transitoria quale giurisdizione speciale già esistente. Le ragioni di questa omissione sono più che comprensibili, solo se si tiene presente lo stato, all’epoca, del contenzioso tributario, le cui controversie – allora definite di natura fiscale – erano considerate avulse dalla giurisdizione. Probabilmente si fece addirittura uno sforzo per lasciare garantita la sopravvivenza dei giudici speciali intorno alla cui natura vi fu un acceso dibattito. Il costituente, era, da una parte preoccupato di garantire l’unità della giurisdizione, (tanto che qualcuno – come Calamandrei ed altri – pensò di


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sopprimere addirittura il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti, per farli rientrare nella giurisdizione ordinaria), dall’altra, ed allo stesso tempo, era fermamente convinto (Ruini in prima linea), che non era più possibile permettere che si continuasse a procedere, come nel periodo fascista, durante il quale si affermava di tanto in tanto, che qualche materia non fosse più soggetta al controllo giurisdizionale. Si disse quindi che non si poteva togliere ai cittadini, per un segmento di materia e di atti, la garanzia del ricorso giurisdizionale. Fu proposto comunque un emendamento che prevedeva, oltre alle giurisdizioni speciali del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti, le giurisdizioni fiscali per la materia tributaria. L’emendamento, ovviamente, non passò e, dopo ampia discussione, che si concentrò soprattutto sulla giustizia militare, venne fuori il testo dell’art. 103 così come oggi formulato. Malgrado la citata sesta norma transitoria fissasse un termine di 5 anni, per una nuova disciplina delle giurisdizioni speciali, il legislatore intervenne soltanto nel 1972 e da quella riforma la Corte costituzionale, con la nota sentenza del 1974, aprì le porte ad una interpretazione che poi ha consentito di ritenere la natura giurisdizionale delle commissioni tributarie. Tuttavia non sono scomparse del tutto voci omogenee, ancorché trasversali sotto il profilo politico e cattedratico, che continuano a riproporre seri dubbi su detta natura, ancorata appunto alla sola interpretazione della corte costituzionale, ancorché ribadita in altre sentenze. In effetti per ritenere definitivamente acquisita la pari dignità tra le giurisdizioni, è necessario che si intervenga in maniera espressa e precisa sul piano costituzionale, con l’inserimento della giurisdizione tributaria tra quelle previste dalla Costituzione. Neppure la composizione eterogenea delle Commissioni tributarie, i cui componenti sono impropriamente definiti giudici onorari, pone ostacoli sul piano costituzionale alla luce dell’art. 102 della Costituzione che prevede la partecipazione del popolo all’amministrazione della giustizia. In sostanza è facile ritenere che, qualora il costituente del 48 avesse avuto il quadro che oggi presenta e rappresenta la giustizia tributaria, ne avrebbe certamente tenuto conto e non avrebbe potuto così microscopicamente ignorarla nella redazione dell’art. 103 della Costituzione. È altrettanto lecito ritenere pertanto che un attento e responsabile costituente che si ponesse a riscrivere la seconda parte della Costituzione (come sembra possa avvenire in esito agli accordi politici, dopo l’esito negativo del referendum costituzionale di

quest’anno) non inserisca, qualora volesse lasciare intatto l’impianto dell’art. 103, la seguente dizione: «I Tribunali e le Corti di Appello tributarie (si dà per scontato il cambio della denominazione come si riferisce in altra parte della relazione) hanno giurisdizione esclusiva nella materia tributaria e nelle altre specificate dalla legge». Detto assetto definitivo della giurisdizione tributaria costituirebbe un modello da proporre, sia sotto il profilo ordinamentale che processuale, agli altri paesi membri della Comunità europea, nei quali, non esistendo una vera e propria giustizia del settore, il contenzioso fiscale rientra nella competenza o del giudice amministrativo o del giudice ordinario. Se si esclude sotto alcuni aspetti la Germania, che ha un sistema non molto lontano dal nostro, tutti gli altri paesi non hanno un organo giurisdizionale, neanche di natura speciale, competente in via esclusiva in materia tributaria. Il Consiglio di presidenza ha in animo di portare avanti il progetto ardito di armonizzazione delle giurisdizioni tributarie, progetto che sarebbe più facilmente credibile ove quella italiana trovasse cittadinanza piena nella Carta costituzionale. Capitolo Secondo Attribuzione di nuova denominazione agli organi di giustizia tributaria Sono diversi anni che il Consiglio di presidenza ripropone la stessa istanza tendente ad allineare, anche sotto il profilo nominalistico, gli organi della giurisdizione tributaria, ipotizzando il cambio della dizione “Commissioni provinciali e regionali” con quella più puntuale di “Tribunali e Corti di Appello tributari”. Si è detto e ripetuto che la questione, lungi dall’essere esclusivamente formale, ha dei contenuti pregnanti anche sotto il profilo del diverso messaggio che la parola Commissione (che risente inevitabilmente di un contenuto amministrativo) rispetto a quello che scaturisce dalla espressione “Tribunali e Corti di Appello tributarie”, che richiama direttamente la giurisdizione. In occasione della conversione del D.L. 203/2005, avvenuta con legge 248/05, il risultato sembrava a portata di mano. Invero dall’esame dei resoconti dei lavori parlamentari si ricava che in occasione di conversione in legge del D.L. n. 203/2005, la Commissione Finanze del Senato della Repubblica, in sede referente, in data 27 ottobre 2005 aveva approvato l’emendamento presentato dal senatore Salerno (n. 3.0.10, già citato ad altro titolo in questa relazione) con cui, sotto la rubrica “Disposizioni in materia di giustizia tributaria” veniva inserito un articolo 3-bis


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che, al suo comma 8 così recitava: «Nei decreti legislativi 31 dicembre 1992, n. 545, e n. 546, le parole “Commissioni tributarie” sono sostituite, ovunque ricorrono, dalle seguenti: “organi della giurisdizione tributaria” e le parole: “Commissione tributaria provinciale” e: “Commissione tributaria regionale” sono rispettivamente sostituite, ovunque ricorrono, dalle seguenti: “Tribunale tributario” e: “Corte d’Appello tributaria”». Va peraltro ricordato che già nella scorsa legislatura il disegno di legge A.S. n. 3766, predisposto dagli allora sottosegretari alle Finanze on.li Marongiu e De Franciscis, prevedeva una nuova denominazione degli organi di giurisdizione tributaria, trasformati in “Tribunali tributari” e “Corti d’Appello tributarie”. Detto D.L., per ragioni del tutto estranee alla questione qui in trattazione, non è mai diventato legge dello Stato. Nondimeno, in sede di conversione del citato D.L., il Governo pur avendo presentato nella legge di conversione un emendamento concernente le “disposizioni in materia di giustizia tributaria”, ha stralciato dallo stesso testo, approvato dalla Commissione finanze il cambio della denominazione di Commissione tributaria in Tribunale tributario. Si è successivamente appreso che solo la ristrettezza dei tempi di approvazione della legge di conversione (si sarebbe dovuto acquisire il parere della Commissione Affari costituzionali, che avrebbe richiesto un rinvio dell’approvazione dell’intera norma) ha impedito che la disposizione in discorso divenisse legge dello Stato. Sulla base di queste premesse, pertanto, questo Consiglio di presidenza, pur nei limiti delle attribuzioni che gli sono proprie, formula un sentito auspicio affinché il legislatore voglia con sollecitudine completare un percorso iniziato ben 141 anni or sono (con la legge 14 luglio 1864, n. 1830, istituiva delle Commissioni comunali (o consorziali) e provinciali, aventi competenza sull’imposta di ricchezza mobile. Ad esse venne ad aggiungersi poco dopo, l’istituzione della Commissione centrale, con il riconoscere finalmente alle Commissione tributarie provinciali e regionali le più consone denominazioni di “Tribunale tributario” e di “Corte d’Appello tributaria”. Capitolo Terzo Modifica dell’art. 3, D.Lgs. 545/92: previsione di ingresso nella magistratura tributaria esclusivamente nella funzione di giudice; utilizzazione della tabella E solo per concorsi esterni Alla pari dignità della giustizia tributaria, rispetto alle altre giurisdizioni, non può non corrispondere la pari dignità dei giudici tributari al loro inter-

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no. Si impone pertanto la modifica dell’art. 3 del D.Lgs. 545/92, nella parte in cui consente l’accesso alle funzioni apicali soltanto ad alcune categorie professionali, escludendone altre. Come è noto detta legge limita l’accessibilità alle funzioni direttive (presidenti di Commissione tributaria) ed a quelle direttive (presidenti di sezione) ai soli componenti provenienti da una magistratura professionale (ordinaria, amministrativa, contabile o militare). A tal riguardo, è opportuno chiarire che la predetta esclusione si riferisce principalmente, se non esclusivamente, all’attività di natura “amministrativa” svolta dai presidenti di Commissione e di sezione, posto che, con riferimento all’attività tipicamente giurisdizionale, da sempre è consentito a magistrati tributari non appartenenti a magistrature professionali di ricoprire la qualifica di vice presidente di sezione, e conseguentemente, di presiedere Collegi giudicanti. Ciò che, oltretutto, si ricava agevolmente anche dalla lettura del disposto dell’art. 2, comma 2, che espressamente prevede la sostituzione del presidente della Commissione, in caso di assenza o impedimento, per quanto attiene alle funzioni non giurisdizionali. Non appare fuori luogo ricordare che con la previgente normativa ordinamentale (D.P.R. n. 636/72) le funzioni semidirettive erano pacificamente attribuite anche a soggetti non provenienti dalle magistrature professionali, purchè in possesso di determinati requisiti culturali. E si noti che questi soggetti, in sede di passaggio dalle previgenti (commissioni tributarie di I e II grado (1 aprile 1996) alle attuali Commissioni tributarie provinciali e regionali sono stati tutti confermati nel grado, nella funzione e nell’incarico, a dimostrazione del riconoscimento della professionalità acquisita attraverso molti anni di ininterrotto e meritorio servizio (conferme definitivamente sancite dal Supremo Concesso Giurisdizionale Amministrativo: cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, sent. n. 4806 del 17 giugno 2003). Orbene, tutti questi soggetti, non potranno neanche partecipare ai futuri concorsi per l’attribuzione delle presidenze di sezione, ovvero dovranno “essere esclusi perché non in possesso dei requisiti prescritti”, secondo la dizione adoperata nelle predette fattispecie dal questo Consiglio. Il che appare manifestamente contrario oltre che alla logica, anche alla giurisprudenza amministrativa, che riconosce il consolidamento delle posizioni soggettive (anche contra legem) per effetto del notevole decorso del tempo (cfr., tra tutte, Cons. di Stato, sez. V, n. 296/79). Peraltro, ove si ponga mente locale alla circostan-


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za che finanche questo Consiglio di presidenza, che per legge è deputato ad amministrare l’intero corpus dei magistrati tributari, non riconosce più al suo interno alcuna distinzione tra giudici provenienti dalle magistrature professionali e giudici di altra derivazione (si veda l’art. 16-quater della L. n. 16/02), allora “l’aporia” dell’attuale situazione normativa risulterà ancora più evidente. Invero, non si può non prendere atto della contraddittorietà di una legge che consente ad un magistrato tributario, non proveniente da magistratura professionale, di presiedere addirittura l’organo di autogoverno della magistratura tributaria – o, in altri ambiti, di aspirare alla carica di giudice costituzionale, o di magistrato della Suprema Corte di Cassazione (v. Cost., artt. 106, comma 3, e 135, comma 2) – ma gli nega anche solo la possibilità di concorrere per l’attribuzione di una più modesta Presidenza di sezione. Due ragioni oggi rendono ancora più pressante la esigenza della riforma suddetta. La prima consegue alla introduzione dei criteri di valutazione della professionalità dei giudici tributari previsti con il noto D.L. 203/2005. Aver riattribuito al Consiglio, quale organo di autogoverno, un potere che gli è proprio, cioè quello di valutare l’attività giurisdizionale dei magistrati, riesaminando tutti i loro percorsi professionali, pone i presupposti per consentire, soprattutto nell’attribuzione degli incarichi superiori, la scelta tra i vari aspiranti sulla base di elementi cognitivi il più possibile completi. Si deve abbandonare quindi la presunzione di maggiore professionalità ad alcune categorie, presunzione forse giustificata a suo tempo dall’assenza di detti elementi cognitivi, per approdare ad una valutazione comparativa dalla quale emergerà il magistrato con maggiore esperienza professionale, con maggiori attitudini, che avrà dimostrato di essersi impegnato di più e con accentuata diligenza, nello svolgimento delle sue funzioni. La seconda scaturisce dalla riformulazione della tabella F, prevista dall’art. 44-ter e dalla legge 248/05, già effettuata dal Consiglio con l’attribuzione di un punteggio maggiore e più incisivo rispetto a quello della tabella E. Invero il punteggio della prima tabella, quantificato anno per anno per il periodo in cui il giudice svolge la propria attività giurisdizionale è stato notevolmente aumentato perché esso unitamente ai punteggi relativi ai criteri di valutazione della professionalità, consente al Consiglio, di avere quel quadro complessivo necessario per la valutazione globale delle attività di ogni singolo giudice e quindi di effettuare le necessarie comparazioni. Il punteggio della tabel-

la E, viceversa rimane fuori dalla specifica attività del giudice tributario, poiché è rapportato alle singole professioni che consentono l’ingresso nella magistratura tributaria, privilegiando alcune rispetto ad altre. Essa, pertanto, deve essere applicata soltanto in occasione dell’ingresso nelle Commissioni tributarie e non nel passaggio nelle categorie superiori. In caso contrario il divario tra le varie categorie, determinato dai punteggi della tabella E, sarebbe destinato a non colmarsi mai. È auspicabile quindi, e il Consiglio ne fa oggetto di esplicita richiesta, la modifica delle legge 448/01, nella parte in cui impone il cumulo del punteggio di entrambe le tabelle ai fini del conferimento degli incarichi. Capitolo Quarto Diverso assetto del personale delle Commissioni tributarie e del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria Anche quest’anno, il Consiglio ritiene di dover richiamare l’attenzione del legislatore, sull’anomalia derivante dal fatto che il personale amministrativo delle Commissioni tributarie abbia un rapporto organico e di servizio con la parte pubblica resistente in giudizio, fatta eccezione per le controversie in materia di tributi locali e per altri tributi minori. Pertanto, permane questa che non si esita a definire una situazione anomala già evidenziata più volte. La complessa problematica del personale delle Commissioni tributarie, relativa ai compiti specifici che impegnano un ufficio giudiziario, necessità di una immediata soluzione soprattutto in questo momento in cui aleggia, presso il Dipartimento per le Politiche fiscali, l’ipotesi di accorpare i vecchi profili professionali in nuovi profili, distinti per aree funzionali, che formeranno il nuovo ordinamento professionale. Se la giustizia tributaria troverà una sua collocazione nella Carta costituzionale – come auspicato in altra parte della relazione – questo annoso problema, che rappresenta forse l’ultimo elemento negativo che incide sulla stessa giustizia tributaria, alterandone quantomeno l’immagine della sua indipendenza e autonomia, si risolverebbe automaticamente. Invero l’attuale rapporto di servizio organico di tutto il personale delle Commissioni tributarie con il Dipartimento per le Politiche fiscali, dovrebbe inevitabilmente risolversi. Si crebbero così i presupposti in analogia a quanto avviene per altre giurisdizioni, per il suo passaggio nell’ambito della presidenza del Consiglio dei Ministri. Altre soluzioni non sono immaginabili.


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Poiché detta riforma, malgrado tutto non appare dietro l’angolo, continua a ravvisarsi la opportunità, già ipotizzata nelle precedenti relazioni, che il suddetto personale, pur continuando ad appartenere organicamente al Ministero dell’Economia e delle Finanze, venga costituito come ruolo autonomo che gli consenta di realizzare le aspettative di progressione in carriera e di mobilità attraverso la collocazione nei profili del suo ordinamento. Il ruolo autonomo in sostanza deve costituire lo strumento per una gestione che possa valutare la specificità del personale ed indirizzarne l’attività con una regolamentazione ad hoc ponendo in essere una struttura che sia consapevole delle problematiche degli uffici giudiziari della giustizia tributaria e che interagisca con questo Consiglio di presidenza. Per il buon funzionamento della giustizia tributaria, si richiede tanto la professionalità dei giudici tributari quanto quella del personale di supporto amministrativo. Ciò indipendentemente da considerazioni che incidono su aspetti burocratici, considerato che tale tematica è stata sviluppata, in tal senso, specialmente dalla dottrina che, diversamente dalla giurisprudenza, oltre al merito, ha, per sua attitudine, analizzato anche gli aspetti tecnici del processo in tutte le sue componenti. Tanto premesso, l’auspicio è che, il Consiglio in modo più coerente e conforme alla disciplina dettata dall’art. 24 del più volte citato D.Lgs. 545/92, venga chiamato a conoscere e, soprattutto, ad esprimere le sue valutazioni, allorchè siano posti in essere provvedimenti che coinvolgono il personale delle istituzioni del contenzioso tributario. E l’appello non è anacronistico ove si pensi alla prossima emanazione del D.P.R. inerente l’organizzazione degli uffici dirigenziali generali e non, del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Appare opportuno fare anche qualche considerazione sul personale del Consiglio di presidenza assegnato, a supporto dell’attività istituzionale dello stesso, ad un ufficio di segreteria la cui articolazione (tuttora prevista dal D.M. del 2001 e non ancora dall’art. 30 del D.Lgs. 545/92), è regolamentata da una deliberazione del Consiglio (Regolamento per l’organizzazione ed il funzionamento dell’ufficio di segreteria del 19 marzo 2002), di cui non si è in grado di conoscere la valenza effettiva nell’ambito del Dipartimento delle Politiche fiscali (ed il dubbio non verrebbe fugato neanche laddove dovessero verificarsi le paventate innovazioni legislative in materia). Il personale di detta struttura, operante dal 1996, è portatore di una preparazione assai specifica, che non può essere inquadrata in nessun profilo professionale previsto per il Ministero in cui è

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incardinato, ad oggi, il Consiglio. Sarebbe, pertanto, auspicabile che si definissero a quali funzioni equivalgono le competenze di cui al predetto regolamento di organizzazione, attribuite ai dipendenti tutti, con particolare riguardo ai livelli più elevati e che, in tale sede, trovassero una definizione anche le funzioni affidate alle tre figure dirigenziali cui spettano competenze diversificate, specifiche per il direttore, oggi segretario generale per regolamento e per il direttore del servizio di ragioneria, e, non meglio identificate per il terzo dirigente, come, peraltro, risulta dagli obiettivi assegnati dal Dipartimento che ne distingue le attribuzioni esclusivamente per determinazioni del Consiglio. Dette osservazioni tendono, peraltro, a porre in evidenza la differenziazione tra il personale in servizio presso le Commissioni tributarie le cui mansioni potrebbero trovare corrispondenza, in senso lato, nell’attività svolta dal personale degli uffici assegnati ai reparti del contenzioso, rispetto al personale del Consiglio di presidenza che, per le ragioni suesposte, può trovare riconoscimento solo nella classificazione di profili lavorativi dettati dal Consiglio, nell’esercizio dell’autonomia amministrativa. Detta autonomia è sempre stata disconosciuta, soprattutto in occasione della proposta del Consiglio per il riconoscimento dell’ufficio di segreteria quale struttura di livello dirigenziale generale (vedasi delibere dal 1999 al 2003 in possesso dell’a.f.), relazionata, conclusivamente, con nota del 14 novembre 2005, diretta rispettivamente al Dipartimento per le Politiche fiscali ed alla presidenza del Consiglio dei Ministri, a seguito dell’istanza del segretario generale di vedere riconosciuta l’attribuzione del trattamento economico di dirigente di I fascia, in attesa di una modifica regolamentare che preveda il posto di dirigente generale presso il Consiglio per il segretario generale, come più volte rappresentato dallo stesso Dipartimento per le Politiche fiscali. Nelle altre ipotesi di tale negazione, si è trattato, infatti, di spostamento di personale che, assegnato presso l’ufficio di supporto, si era reso inidoneo per le esigenze del Consiglio per cui si richiedeva il rientro all’ufficio di provenienza o, viceversa, di personale che sarebbe stato idoneo per il miglior funzionamento dello stesso. Capitolo Quinto Proposta di reintroduzione dell’istituto dell’anticipato possesso L’art. 16-quater, comma 1, lett. b, D.L. 28 dicembre 2001, n. 452, convertito dalla legge 27 febbraio 2002, n. 16 aggiunse al n. 1 dell’art. 11, D.Lgs.


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545/92 il seguente periodo: “Nei casi di necessità di servizio, il Ministro dell’Economia e delle Finanze può disporre, su richiesta del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, l’anticipazione nell’assunzione delle funzioni, ai sensi del quarto comma dell’art. 10 dell’ordinamento giudiziario, di cui al R.D. 30 gennaio 1941, n. 12”. L’introduzione dell’istituto dell’anticipato possesso, in analogia a quanto previsto dall’art. 10 dell’ordinamento giudiziario, risponde all’esigenza di ridurre di fatto i tempi che sono necessari per concludere la procedura della nomina o del trasferimento dei giudici. La istituzionale sinergia che intercorre tra il Ministero dell’Economia e delle Finanze e il Consiglio di presidenza, dilata inevitabilmente i tempi necessari per il perfezionamento della suddetta procedura poiché, esaurita quella concorsuale, alla delibera di nomina segue la predisposizione del D.P.R., ai sensi dell’art. 9, primo comma, con le necessarie firme del Ministro e del Capo dello Stato. Una volta formalmente completo, detto D.P.R., ha bisogno del visto della registrazione della Corte dei Conti, che di solito comporta tempi lunghi. Il legislatore nel 2001 si fece carico della esigenza di ridurre detti tempi, in casi di necessità ravvisabili dal Consiglio di presidenza e consentì, con la richiamata norma, al Consiglio stesso di richiedere al Ministro dell’Economia e delle Finanze l’anticipazione nell’assunzione delle funzioni al giudice nominato, prima della suddetta registrazione. Per ragioni non ancora del tutto chiare, ma verosimilmente riconducibili ad una mera omissione, il legislatore del 2005, nel riscrivere ex novo tutto l’art. 11 del richiamato D.Lgs. 545/92, abolendo il novennato e quant’altro, tralasciò di riproporre lo stesso periodo che prevedeva la introduzione dell’anticipato possesso. Nei lavori preparatori e nella relazione al disegno di legge, nessun riferimento viene fatto a detta abrogazione, per cui si deve ritenere che essa sia frutto di una svista e certamente non di una precisa scelta politica. Non è immaginabile infatti, che si sia voluto coscientemente eliminare un istituto che consente speditezza e rapidità superando formali lungaggini procedurali. Si auspica pertanto la reintroduzione nell’art. 11, D.Lgs. 545/92 del seguente periodo che risulta abrogato dalla legge n. 248/05 e precisamente: “Nei casi di necessità di servizio, il Ministro dell’Economia e delle Finanze può disporre, su richiesta del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, l’anticipazione nell’assunzione delle funzioni, ai sensi del quarto comma dell’art. 10 dell’ordinamento giudiziario, di cui al R.D. 30 gennaio 1941, n. 12”.

Capitolo Sesto Commissione centrale: problema ancora irrisolto La devoluzione alle Commissioni tributarie regionali del contenzioso che, ancora oggi, la Commissione tributaria centrale non riesce a definire costituirebbe, sotto più profili, un intervento doveroso da parte del legislatore. Invero, il circolo virtuoso che ha consentito di smaltire in un tempo relativamente breve il notevole arretrato giacente innanzi alle Commissioni tributarie regionali e provinciali ha, come immediata conseguenza, quella di rendere disponibili energie e risorse che potrebbero essere utilmente dedicate alla definizione del contenzioso ancora pendente innanzi alla Commissione tributaria centrale, organo peraltro posto al di fuori dell’ambito della giustizia tributaria soggetta ai poteri amministrativi di questo Consiglio. Nelle iniziali intenzioni del legislatore del D.Lgs. n. 554/92, la Commissione tributaria centrale doveva vedere la conclusione della sua attività in un lasso di tempo relativamente breve, in modo che le energie e l’indiscussa professionalità dei suoi componenti potessero essere utilizzate a tutto vantaggio delle Commissioni tributarie regionali. Ma l’intervento della Corte costituzionale sull’art. 75, comma 2, del D.Lgs. ordinamentale (sent. n. 111 del 16 aprile 1998) ha svuotato di contenuto il disegno del legislatore, dando origine alla contraddittoria situazione per cui oggi un organismo di conclamata professionalità e di indiscusso prestigio dedica la sua attività esclusivamente alla trattazione di ricorsi ormai obsoleti, il più recente dei quali risale all’anno 1996. Ciò nonostante, anche in forza di un meccanismo di reclutamento ancora molto vitale (le ultime nomine di cui si ha notizia risalgono al mese di ottobre del corrente anno 2004), la sopravvivenza del citato organo giurisdizionale – e degli oneri finanziari per il suo funzionamento - appare assicurata ancora per molti decenni a venire. Pertanto, questo Consiglio ritiene doveroso sollecitare anche quest’anno il legislatore ad avviare una riflessione circa l’utilità della sopravvivenza della Commissione tributaria centrale, al fine di considerare l’opportunità di devolvere alle Commissioni tributarie regionali il contenzioso ancora pendente innanzi al citato organo giurisdizionale, se del caso consentendo l’inserimento dei magistrati che ne fanno parte nelle Commissioni tributarie di merito. Tutto ciò non senza aver finalmente ricordato che una riforma in tal senso consentirebbe di evitare i costi aggiuntivi derivanti dal prevedibile moltiplicarsi delle cause tese al riconoscimento della responsabilità patrimoniale dello Stato per l’eccessiva durata dei processi (L. 24 marzo 2001, n° 89).


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Capitolo Settimo Previsione della impugnabilità delle ordinanze cautelari davanti alla Commissione tributaria regionale. Spettanza dei compensi ai giudici tributari per tutti i provvedimenti cautelari Il diritto potestativo di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi – riconosciuto a tutti dall’art. 24 della Costituzione – comprende anche l’azione cautelare. La tutela giurisdizionale, dovendo essere effettiva, non può consentire che la durata del processo (contenuta in tempi ragionevoli ai sensi dell’art. 111 della Costituzione) si risolva in vantaggio per la parte soccombente ed in danno per la parte vincitrice. Il soddisfacimento della sopraindicata esigenza, imposta dalla ragione prima che dal diritto positivo, serve anche ad alimentare la fiducia dei cittadini nella funzione giurisdizionale, la cui credibilità è essenziale per l’ordinato sviluppo di ogni società democraticamente organizzata. Pertanto, il legislatore deve predisporre strumenti processuali idonei ad evitare che la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio (diritto soggettivo od interesse legittimo) sia esposta al rischio di un danno irreparabile durante il tempo necessario per il suo accertamento. Nel processo tributario l’azione cautelare è prevista dall’art. 47 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546. Tale norma, emanata in conformità del principio e del criterio direttivo fissato dall’art. 30, comma 1, lett. h, della legge 30 dicembre 1991, n. 413, disciplina un procedimento incidentale (affidato all’iniziativa del ricorrente) che ha ad oggetto la domanda di sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato e si svolge davanti alla Commissione tributaria provinciale competente a decidere il ricorso. Quest’ultima, sentite le parti in camera di Consiglio e delibato il merito, decide sulla domanda incidentale con ordinanza motivata e non impugnabile, secondo la espressa previsione del comma 4 del già citato art. 47. Gli effetti della sospensione eventualmente disposta cessano dalla data di pubblicazione della sentenza di primo grado. Conseguentemente la tutela cautelare nel procedimento tributario si esaurisce nella attribuzione alla Commissione tributaria provinciale del potere di decidere sulla domanda di sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato con un’ordinanza, che è sottratta al controllo giurisdizionale di un altro giudice. Il sopraindicato quadro normativo, che contiene una restrizione alla struttura del processo cautelare sia amministrativo (articolato nella duplice

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valutazione degli organi di primo e di secondo grado) sia ordinario (articolato nella reclamabilità, davanti all’organo collegiale del provvedimento adottato dall’organo monocratico), non è adeguato alle finalità perseguite dalla giurisdizione cautelare: garantire la effettiva e piena attuazione del dictum della emananda sentenza definitiva. Infatti, il rigetto della domanda di sospensione può causare danni irreparabili al contribuente colpito da un atto impositivo infondato; l’accoglimento della stessa domanda può pregiudicare la soddisfazione della pretesa fiscale fondata. La indiscussa rilevanza della funzione dell’ordinanza cautelare consiglia di prevedere, anche per il processo incidentale, un doppio grado di giudizio (già codificato per il processo di merito) quale rimedio per contenere il rischio di danni irreparabili al quale sono esposte le parti del processo (contribuente e fisco). A tal fine occorre un intervento legislativo che, modificando il già citato art. 47 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, preveda la impugnabilità davanti alla Commissione tributaria regionale delle ordinanze emesse dalla Commissione tributaria provinciale a conclusione del procedimento incidentale avente ad oggetto la domanda di sospensione dell’atto impugnato. L’auspicata riforma legislativa – indispensabile per una completa, incisiva e significativa attuazione delle garanzie giurisdizionali a vantaggio sia del contribuente sia dell’Amministrazione finanziaria – diventa indilazionabile, ove si consideri che nel processo tributario la tutela cautelare è affidata soltanto al procedimento incidentale di sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato. Infatti, secondo il diritto vivente, nel predetto processo è esclusa l’applicabilità sia dell’art. 700 c.p.c. sia delle c.d. “inibitorie” previste dagli artt. 373 e 283 c.p.c., rispettivamente per le sentenze emesse dal Tribunale e dalla Corte d’Appello. Non è ultroneo a questo punto ribadire l’auspicio, già diverse volte formulato nelle precedenti relazioni, circa l’estensione delle spettanze ai giudici tributari del compenso aggiuntivo per le ordinanze cautelari (se del caso in misura ridotta rispetto a quanto previsto per le sentenze), in ragione del contenuto sostanzialmente decisorio delle citate ordinanze. Non è fuori luogo ricordare, al riguardo, che il giudice della cautela è assoggettato agli stessi oneri del giudice di merito: prelievo dei fascicoli presso la commissione e studio della fattispecie. E si consideri infine che la tutela cautelare deve essere assicurata anche durante il periodo feriale.


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Capitolo Ottavo Proposta di riforma dell’art. 30 del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578 La riforma introdotta con la legge n. 248 del 2 dicembre 2005, che trasforma il rapporto di impiego dei magistrati tributari a tempo indeterminato (benché di natura indiscutibilmente onoraria), rende non più differibile una modifica della legge professionale forense, nella parte in cui non prevede il diritto dei predetti magistrati ad essere iscritti all’albo degli avvocati presso i rispettivi tribunali. Attualmente la legge in epigrafe consente l’iscrizione al relativo albo professionale di coloro che per quindici anni abbiano esercitato la funzione giurisdizionale nella qualifica di vice pretore onorario, previa attestazione del presidente della Corte d’Appello competente. Benché la norma non sia stata aggiornata (la figura del vice pretore onorario non è più prevista nell’ordinamento giudiziario), la ratio della disposizione, consistente nel riconoscimento dell’attività giurisdizionale svolta a titolo onorario ai fini dell’iscrizione all’albo professionale resta indiscutibile. Nessuna disposizione, oggi, prende in considerazione la funzione giurisdizionale esercitata nelle Commissioni tributarie. Ciò, con tutta probabilità, si è dovuto anche all’incertezza circa la reale natura delle Commissioni; natura oggi del tutto acquisita, con il loro inserimento nel novero delle giurisdizioni amministrative speciali. La descritta situazione comporta conseguenze alquanto paradossali. In verità, oggi si verifica che un magistrato tributario, magari presidente di Collegio giudicante (e dunque in possesso degli ulteriori requisiti previsti dalla legge (art. 17, comma 1, legge cit.), è legittimato a firmare gli attestati di partecipazione alle udienze per i praticanti avvocati, ai fini della maturazione del richiesto tirocinio. Ma quando quel medesimo soggetto volesse far riconoscere per sé stesso la pratica dell’attività giurisdizionale (e con ben maggiore continuità), per di più esercitata nella funzione di presidente del Collegio, allora vedrebbe la propria domanda rigettata in quanto la legge non riconosce alcuna valenza, ai fini prescritti, all’attività giurisdizionale svolta, né ai fini del computo della pratica forense, né tantomeno come diritto all’iscrizione all’albo professionale. Si suggerisce, pertanto, un’integrazione del citato articolo 30 del R.D.L. n. 1578/1933, che vada a colmare la decritta lacuna normativa. Capitolo Nono Necessità dell’integrazione della commissione di cui all’art. 27 della legge 7 agosto 1990, n. 241

Fin dalla sua entrata in vigore la legge sul procedimento amministrativo (L. n. 241/90) prevedeva, all’art. 27, una Commissione nazionale per l’accesso ai documenti amministrativi, con compiti consultivi nei confronti dell’Esecutivo. Della citata Commissione il legislatore aveva chiamato a far parte “[…] quattro (componenti) scelti fra il personale di cui alla legge 2 aprile 1979, n. 97, su designazione dei rispettivi organi di autogoverno, […]”. Ciò accadeva in un’epoca in cui, evidentemente, gli organi di autogoverno delle magistrature erano solo quattro (per la magistratura ordinaria, amministrativa, contabile e militare). (Per inciso, la legge n. 97/79 è rubricata “Norme sullo stato giuridico dei magistrati e sul trattamento economico dei magistrati della giustizia militare e degli avvocati dello Stato”). Come è noto, con la riforma del 1992 il legislatore ha inteso riaffermare piena valenza giurisdizionale al contenzioso tributario, e ne ha dettagliatamente regolamentato l’ordinamento con l’istituzione, tra l’altro, anche di questo organo di autogoverno. Nondimeno, in occasione della riformulazione dell’art. 27 della legge sul procedimento amministrativo, intervenuta con la legge 11 febbraio 2005, n. 15, il legislatore ha ignorato l’esistenza del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, posto che ai quattro componenti della Commissione per l’accesso agli atti, nominati dai rispettivi organi di autogoverno, non risulta essere stato aggiunto un quinto, la cui designazione sarebbe dovuta spettare a questo Consiglio. Né, in contrario, varrebbe obiettare che, per espressa disposizione di legge, ai sensi del novellato art. 24 della legge in discorso, i procedimenti tributari sono espressamente esclusi dal diritto di accesso, e che, per l’effetto, non vi sarebbe necessità di prevedere, nella rinnovata Commissione, un componente nominato su designazione di questo Consiglio; anzi, in contrario, è facile argomentare che proprio la necessità di identificare puntualmente quali tra gli innumerevoli procedimenti amministrativi abbiano natura tributaria – e siano, pertanto, esclusi dall’accesso – giustifica – e con maggior forza – la necessità di integrare la Commissione nazionale per l’accesso con un componente la cui designazione sia dalla legge rimessa a questo Consiglio di presidenza. Tanto più che ai compiti consultivi la riforma ha inteso aggiungere anche compiti di natura “giustiziale” e di controllo, posto che alla dedotta Commissione il legislatore ha attribuito, ai sensi del modificato art. 25 della stessa normativa, anche la funzione di consentire l’accesso, su espressa richiesta (ricorso) dell’interessato, a tutti gli atti emanati da “ammi-


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nistrazioni centrali e periferiche dello Stato […]”. Un’ultima considerazione, di carattere latamente politico, si impone. Le scelte che il legislatore ha inteso effettuare nel corso degli ultimi anni – fino a giungere alla soppressione del mandato novennale dei magistrati tributari – sono state costantemente indirizzate nel senso del rafforzamento del modulo entro cui la magistratura tributaria opera, evidentemente riconoscendo i meriti e l’efficienza di una giustizia che, nell’arco di pochi anni, è riuscita nella impresa quasi ciclopica di smaltire un arretrato che, ancora agli inizi degli anni ’90, ammontava a circa 3.000.000 di ricorsi giacenti. Pertanto, è auspicio del Consiglio che, anche per quanto attiene alla problematica qui trattata, persista ed anzi venga incrementata l’opera di rafforzamento della giurisdizione tributaria e della sua magistratura. In conclusione, il Consiglio di presidenza raccomanda al Ministro, e per esso al legislatore, di integrare l’art. 27 della legge n. 241/90 con l’inserimento di un componente la cui designazione sia di competenza di questo Consiglio di presidenza. Capitolo Decimo L’abrogazione del comma 3 dell’art. 7, D.Lgs. n. 456/92. Compatibilità con il sistema processuale tributario Anche quest’anno, come in passato, il Consiglio ribadisce le forti perplessità circa la disposizione con la quale è stato abrogato il comma 3 dell’art. 7 del D.Lgs. n. 546/92, che recitava: “È sempre data alle Commissioni tributarie la facoltà di ordinare alle parti il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione della controversia”. Ebbene, è opinione del Consiglio che la soppressione in discorso risulti poco coerente con la natura stessa del processo tributario, e tale da poterne condizionare negativamente le risultanze. Notoriamente, per ragioni mai contestate da dottrina e giurisprudenza, il processo tributario si incardina con ricorso (vocatio iudicis), con tutte le conseguenze che ciò comporta. Si tratta di un processo che, pur con le dovute distinzioni, si inserisce nel collaudato schema del processo amministrativo, di cui ricalca gran parte delle peculiarità. E se anche può dirsi che, per molti versi, il processo tributario si incentra sul “rapporto” tra contribuente e amministrazione finanziaria, è pur vero che nella maggior parte dei casi esso si traduce in un processo da impugnazione di atti amministrativi. Constatazione, questa, che consente di identificare un notevole parallelismo tra il processo innanzi al complesso T.A.R. - Consiglio di Stato ed il processo innanzi alle Commissioni tributarie. Sono noti i

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caratteri del processo da impugnazione di atti: in estrema sintesi, il giudice è chiamato direttamente dalla parte a verificare che l’amministrazione (e che si tratti di amministrazione finanziaria o di altre amministrazioni non sembra fare differenza), nell’esercizio dei suoi poteri autoritativi – tipici del regime di diritto pubblico in cui essa opera – uniformi la sua azione nei confronti del contribuente al rispetto delle disposizioni di legge, in conformità ai principi costituzionali di legalità, di imparzialità, e di buona amministrazione. Questo schema processuale comporta una serie di peculiarità ben note alla dottrina ed alla giurisprudenza: dall’utilizzo di termini di decadenza in luogo degli ordinari termini di prescrizione, all’esclusione del giudizio equitativo; dalla assenza di una distinta fase istruttoria, alla tendenziale unicità dell’udienza di trattazione della causa; dalla limitazione dei mezzi di prova all’affievolimento dell’onere della prova, che in alcuni casi può degradare a mero onore del “principio di prova”. Tutto ciò senza mai dimenticare il potere – peraltro tipico delle giurisdizioni amministrative – di annullamento dei provvedimenti amministrativi tributari. Peraltro, va detto che il metodo acquisitivo è tipico dei processi amministrativi da ricorso: si pensi all’art. 44, comma 1, del R.D. n. 1054/1924 (T.U. Cons. di Stato): “Se la sezione, a cui è stato rimesso il ricorso, riconosce che l’istruzione dell’affare è incompleta, o che i fatti affermati nell’atto o nel provvedimento impugnato sono in contraddizione coi documenti, può richiedere all’amministrazione interessata nuovi schiarimenti o documenti, ovvero ordinare all’amministrazione medesima di fare nuove verificazioni, autorizzando le parti ad assistervi ed anche a produrre determinati documenti, ovvero disporre consulenza tecnica”. Ancor più chiaro il disposto dell’art. 21 della cd. “legge T.A.R.” (n. 1034/71), come recentemente modificato dalla legge n. 205/00: “6. Ove l’amministrazione non provveda all’adempimento, il presidente, ovvero un magistrato da lui delegato, ordina anche su istanza di parte, l’esibizione degli atti e dei documenti nel termine e nei modi opportuni. Analogo provvedimento il presidente ha il potere di adottare nei confronti di soggetti diversi dall’amministrazione intimata per atti e documenti di cui ritenga necessaria l’esibizione in giudizio”. Le disposizioni riportate danno contezza della necessità avvertita dal legislatore di bilanciare posizioni processuali e sostanziali attestate su piani diversi: sul piano del diritto pubblico – e perciò, in posizione di supremazia – l’amministrazione, con tutto ciò che questo comporta in termini di


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parità delle parti, sia nel procedimento amministrativo che nel processo; sul piano del diritto privato il contribuente, con i limiti propri del diritto comune. Sotto altro profilo, l’autonomo potere acquisitivo del giudice tributario trova giustificazione anche nelle modalità di svolgimento del giudizio, anch’esse non intaccate dalla mini-riforma. Come è noto, quello tributario è un processo ad udienza solo “eventuale”, posto che, ai sensi dell’art. 33 del D.Lgs. 546/92, in assenza di una specifica istanza di una delle parti, il Collegio è tenuto a trattare la controversia in camera di consiglio. L’ordinaria assenza del pubblico dibattimento e della connessa oralità rappresenta un ulteriore elemento giustificativo della necessità di dotare il giudice di propri poteri acquisitivi, in mancanza dei quali la finalità ultima del giudizio tributario, che è quella di garantire al cittadino la legittimità dell’operato dell’amministrazione finanziaria, rischia di vanificare l’effettività di quella tutela giurisdizionale che costituisce l’oggetto ultimo della domanda ad esso giudice rivolta. Ed allora, in un processo in cui il rito previsto in via ordinaria è quello camerale (mentre la pubblica udienza è del tutto residuale), e tenuto conto che l’istruttoria è a carico dell’amministrazione, ben si comprende come l’eliminazione dell’autonomo potere acquisitivo del giudice rischi di compromettere irrimediabilmente l’effettività della tutela giurisdizionale. Quanto si è fin qui esposto consente di accennare alla questione relativa all’ampliamento dei mezzi istruttori oggi a disposizione del giudice tributario; questione non nuova, posto che anche negli anni scorsi questo Consiglio non ha mancato di sottoporre al Ministro, e per esso al legislatore, la medesima problematica. Sul punto, le vicende normative e giurisprudenziali intervenute nell’ambito della giurisdizione amministrativa sono ancora una volta assai indicative. Come è noto, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 146 del 10 aprile 1987 dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 44 del T.U. Cons. di Stato nella parte in cui, nelle controversie devolute alla giurisdizione esclusiva dell’A.G.A. (e quindi, anche su diritti soggettivi), non ammetteva il ricorso a tutti i mezzi istruttori previsti dal codice di rito civile. Sia pure con un certo ritardo, il legislatore ha inteso porre rimedio alla citata limitazione con l’art. 35, comma 3, del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, ove è stabilito che il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, può disporre l’assunzione di tutti i mezzi di prova previsti dal Codice di proce-

dura civile, con l’unica esclusione del giuramento e dell’interrogatorio formale. Orbene, il parallelismo tra l’A.G.A. quando giudica nell’ambito della giurisdizione esclusiva e l’A.G.T. appare manifesto, posto che anche al giudice tributario, in forza della riforma di cui alla legge n. 448/2001, è devoluta la competenza a conoscere in via esclusiva di tributi “di ogni genere e specie comunque denominati” (artt. 12, L. cit. e art. 3-bis, comma 1, lett. a, del D.L. n. 203/05). Sulla base di queste premesse può senz’altro affermarsi che la limitazione dei mezzi di prova nel processo tributario non appare coerente con il sistema di garanzie previsto dalla Carta fondamentale dello Stato. A titolo esemplificativo, si pensi al divieto di assunzione della prova testimoniale nel processo tributario. Invero, si assiste oggi alla contemporanea presenza, da un lato, del divieto in discorso a carico del giudice, mentre dall’altro si riconosce rilevanza probatoria a dichiarazioni di scienza assunte, però, senza le garanzie offerte dalla sede giurisdizionale. Ciò rileva particolarmente nelle fattispecie in cui l’amministrazione finanziaria acquisisce e pone a fondamento dei propri atti impositivi (massimamente in materia di Iva) dichiarazioni di soggetti “terzi”, le quali evidentemente non potrebbero che essere controbattute se non con l’assunzione di testi “a confutazione”, oggi non ammessa. Detta disparità di trattamento non appare facilmente intellegibile, soprattutto alla luce del già citato principio costituzionale del “giusto processo”, svolto nel “contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo ed imparziale”. Ciò premesso, l’estensione alla giurisdizione tributaria dell’utilizzo di tutti i mezzi istruttori previsti dal codice di rito – con la sola esclusione del giuramento e dell’interrogatorio formale - oltre ad essere coerente con i principi costituzionali della parità delle parti in giudizio e dell’effettività della tutela giurisidizonale, avvicinerebbe, pur nello schema di un processo da ricorso, ancor più il rito tributario a quel processo di tipo “dispositivo” tanto invocato da giurisprudenza e dottrina. Capitolo Undicesimo La revisione dei numero dei componenti degli organi di giustizia tributaria Il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria esprime il proprio plauso all’indirizzo del legislatore per aver finalmente accolto i richiami che, da più anni, anche attraverso le pagine di queste relazioni annuali, sono stati rivolti al suo indirizzo. Il riferimento è al numero dei magistrati tributa-


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ri, ritenuto “esorbitante rispetto alle effettive necessità del contenzioso” fin dalla relazione presentata a commento dell’anno 2002 (pagina 40). Ed è proprio in quella prima relazione di questa Consiliatura che si propose testualmente, tra le misure percorribili, “[…] la creazione di una apposita Commissione di studio, composta in misura bilanciata da rappresentanti del Ministero dell’Economia e delle Finanze e di questo Consiglio, che abbia il compito di esaminare i dati e valutare infine quale possa essere il numero di magistrati tributari adeguato alle effettive necessità del contenzioso” (rel. cit., pagine 40-41). Orbene, il fatto che il legislatore, con l’art. 18, comma 4-ter, del D.L. 30 dicembre 2005, n. 273 (convertito con legge 23 febbraio 2006, n. 51), abbia inteso recepire in toto le richieste formulate al riguardo dal Consiglio di presidenza è circostanza che induce a riconoscere, nel comportamento del legislatore medesimo, quella maggiore attenzione ai problemi del contenzioso tributario che tante volte è stata sollecitata, non sempre con successo, da questo organo di autogoverno. La Commissione che si è costituita, composta in misura bilanciata dai rappresentanti del Ministero dell’Economia e delle Finanze, da una parte e del

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Consiglio dall’altra, sta svolgendo un’intensa attività. Ha già stabilito i criteri da seguire per monitorare l’intero flusso di lavoro delle singole Commissioni, al fine di rappresentare la situazione da cui sarà possibile individuare le affettive esigenze in termini di strutture personali e materiali per il funzionamento degli uffici. I dati raccolti relativamente all’anno 2006, saranno resi noti nei prossimi mesi. Il Consiglio tiene a sottolineare che ha attribuito ed attribuisce notevole importanza, soprattutto sotto il profilo di politica giudiziaria, a questa attività che avrà incidenza sulle decisioni che ne derivano. La razionale distribuzione delle risorse sul territorio è il presupposto indefettibile per un assetto organizzativo che consenta un maggiore impulso alla funzione giudiziaria, eliminando, ove esistano, squilibri ed anomalie. Conclusioni Il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, nel chiudere la presente relazione, ribadisce ancora una volta, la speranza che la giustizia tributaria completi il suo cammino e raggiunga gli ulteriori traguardi che sono negli auspici, non solo dei giudici, ma di tutti gli utenti.

ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI DELLA COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE DI MODENA IN TEMA DI RIMBORSI IRAP di Roberto Cigarini

1. Premessa - 2. Ammissibilità del ricorso in presenza di istanza di definizione automatica ex lege 289/2002, art. 7 - 3. La questio disputata: il concetto di attività autonomamente organizzata - 4. Il problema della prova relativa al presupposto d’imposta - 5. Ulteriori argomenti emersi in motivazione a favore o contro il diritto al rimborso - 6. Tipologia di dispositivi e provevdimenti sulle spese - 7. Notazioni conclusive 1. Premessa Delle sette sezioni da cui è composta la Commissione tributaria provinciale di Modena abbiamo

1 Sentenza n. 136/3/2005 del 1 dicembre 2005 (udienza 9 dicembre 2005), pres. Bruschetta, est. Mottola; sentenza n. 176/3/2005 del 24 gennaio 2006 (udienza 13 dicembre 2005),

esaminato un campione di 25 sentenze emanate in materia di rimborsi Irap negli ultimi due anni. Soltanto in due casi1 il ricorso era presentato da società che avevano eccepito l’incompatibilità dell’imposta con l’art. 33 della VI direttiva comunitaria Iva. I due provvedimenti esaminati rigettano la domanda limitandosi a rimarcare le differenze tra Iva ed Irap, senza peraltro entrare nel merito della questione se l’Irap interferisca, e perché, nel sistema comune dell’Iva. In tutti gli altri casi il ricorrente è quasi sempre un lavoratore autonomo2 e, soprattutto, un libero professionista intellettuale3.

pres. ed est. Pederiali. 2 Ci siamo imbattuti in: traduttori, cantanti lirici, scenografi teatrali, mediatori, muratori, agenti di commercio.

3 Si sono presentati i casi di ragionieri, medici, ingegneri, avvocati, dottori commercialisti, psicologi, geometri.


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Il dato che si può cogliere immediatamente ad una prima veloce lettura è la profonda diversità nello stile e nei contenuti della motivazione dei provvedimenti esaminati. Soprattutto sono diversi gli esiti cui le diverse sezioni sono pervenute. 2. Ammissibilità del ricorso in presenza di istanza di definizione automatica ex lege 289/2002, art. 7 Com’è noto gli Uffici hanno innanzitutto sollevato un’eccezione di inammissibilità della domanda di rimborso Irap in presenza di una precedente istanza di definizione automatica ex art. 7 della legge 27 dicembre 2002, n. 289. La Commissione tributaria provinciale di Modena è divisa a metà tra un orientamento sfavorevole ed uno favorevole all’ammissibilità della domanda di rimborso. Il primo osserva che per espressa disposizione della legge, la definizione automatica rende definitiva non soltanto la liquidazione delle imposte risultanti dalla dichiarazione con riferimento alla spettanza di deduzioni e agevolazioni indicate dal contribuente, ma anche “all’applicabilità di esclusioni”. L’aver intrapreso la via della definizione automatica comporta pertanto “l’automatica decadenza dal diritto al rimborso” 4. La ratio dell’istituto – si afferma – è infatti quella della deflazione del contenzioso e non è “lecito almanaccare sulle formali enunciazioni con le quali escono le diverse norme condonative”5. L’orientamento più liberale, allineato ad alcune pronunce della Commissione regionale di Bologna6, ritiene che “quando venga in considerazione la mancanza del presupposto di imposta per un difetto di requisito della fattispecie impositiva il contribuente non è vincolato dall’avvenuta presentazione della domanda di condono”7. Tale sarebbe il caso dell’inesistenza di un’attività autonomamente organizzata. 3. La quaestio disputata per professionisti e lavoratori autonomi: il concetto di attività autonomamente organizzata

4 Sentenza n. 136/3/2005 del 1 dicembre 2005 (udienza 9 novembre 2005), pres. Bruschetta, est. Mottola. 5 Sentenza n. 146/7/2005 del 20 gennaio 2005 (udienza 9 dicembre 2005), pres. Tardino, est. Roteglia. 6 Comm. trib. reg. Bologna, sez. X, 27 ottobre 2004, n. 37 – in Boll. Trib., 2005, 231 con nota di BRIGHENTI. 7 Sentenza n. 5/06/2006 del 3 febbraio 2006 (udienza 19 gennaio 2006),

Il nodo centrale della disputa ruota, com’è noto, intorno all’interpretazione della locuzione legislativa di “attività autonomamente organizzata” contenuta nell’art. 2 del decreto legislativo istitutivo dell’Irap8 dopo la modifica introdotta dall’art. 1 del decreto legislativo 10 aprile 1998, n. 137 e, soprattutto, dopo l’obiter dictum di Corte costituzionale 21 maggio 2001, n. 156. Pur nel complessivo “salvataggio” dell’imposta nella sua configurazione originaria un inciso della motivazione ha sembrato lasciare qualche apertura. I giudici della Consulta distinguono tra impresa e lavoro autonomo, notando che “mentre l’elemento organizzativo è connaturato alla nozione stessa di impresa, altrettanto non può dirsi per quanto riguarda l’attività di lavoro autonomo, ancorché svolta con carattere di abitualità, nel senso che è possibile ipotizzare un’attività professionale svolta in assenza di capitali o lavoro altrui”. Da ciò la Consulta desume sul piano dell’interpretazione della legge istitutiva del tributo che “nel caso in cui una attività professionale fosse svolta in assenza di elementi di organizzazione il cui accertamento, in mancanza di specifiche disposizioni normative, costituisce questione di mero fatto risulterà mancante il presupposto stesso dell’imposta sulle attività produttive, per l’appunto rappresentato, secondo l’art. 2, dall’”esercizio abituale di un’attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi”, con la conseguente inapplicabilità dell’imposta stessa”9. 3.1 L’autonoma organizzazione intesa come “indipendenza” nello svolgimento dell’attività Il primo indirizzo giurisprudenziale che si deve segnalare all’interno della Commissione modenese è quello per cui l’autonoma organizzazione è un sinonimo di lavoro autonomo. Ciò che rileva, per questo indirizzo, chiaramente contrario all’accoglimento delle domande di rimborso di lavoratori autonomi e professionisti, è “l’apprezzamento concreto delle modalità di esercizio professionale in termini di assoluta autonomia, ovvero senza

pres. ed est. Cigarini. Cfr. anche sentenza n. 42/06/2006 del 23 aprile 2005 (udienza 17 marzo 2005), pres. ed est. Poggi, che ritiene non preclusa l’istanza di rimborso “non attenendo alla liquidazione dell’imposta, bensì alla negazione della qualità di contribuente”. 8 Decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, art. 2: “Presupposto dell’imposta è l’esercizio abituale di

una attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi. L’attività esercitata dalle società e dagli enti, compresi gli organi e le amministrazioni dello Stato, costituisce in ogni caso presupposto di imposta”. 9 FREGNI, Questioni in tema di tassazione degli agenti di commercio, in Riv. Dir. Trib., 2004, 3, 417.


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alcun vincolo di subordinazione o nell’ambito di una struttura operativa dipendente, sì che il professionista ne abbia il pieno governo”10. “L’esistenza pur minima del requisito dell’organizzazione è una connotazione tipica del lavoro autonomo per differenziarlo, ai fini che interessano, da quello di lavoro dipendente”11. L’autonomia nello svolgimento dell’attività comporta per conseguenza che l’elemento dell’organizzazione è in re ipsa o, come afferma una sentenza modenese, sussiste “dal punto di vista ontologico”12 anche qualora manchi un complesso di beni definibile come azienda. “Un’attività libero professionale – afferma un’altra sentenza che ha respinto la domanda di rimborso di uno scenografo teatrale13 – è autonomamente organizzata se svolta senza il coordinamento ed il controllo da parte di altri soggetti; è invece non autonomamente organizzata quando è indirizzata e controllata da altri ed il rapporto professionale si sviluppa con il soggetto che coordina l’attività e non con il committente che ha richiesto la prestazione”. 3.2 L’autonoma organizzazione come sinonimo di eterorganizzazione All’indirizzo ora riassunto se ne contrappone un altro per quale il concetto di autonoma organizzazione è invece sinonimo di eterorganizzazione. Autonomamente organizzata, secondo questo orientamento, è l’attività strutturata in maniera tale da produrre, attraverso la presenza di uomini e capitali, valore aggiunto anche senza l’apporto del soggetto passivo. Il professionista solitario che incentri su di sé ogni incombenza relativa all’attività svolta, pur autorganizzandosi con beni strumentali, non svolge, dunque, un’attività autonomamente organizzata. Questo secondo orientamento, che appare minoritario rispetto al primo, non risulta sempre congruente nella motivazione che porta all’accogli-

10 Sentenza n. 154/04/2005 del 24 ottobre 2005 (udienza 24 ottobre 2005), pres. ed est. De Robertis. 11 Sentenza n. 138/04/2005 del 20 ottobre 2005 (udienza 21 settembre 2005), pres. Pinelli, est. Ratti. Su questa linea v. anche sentenza n. 140/03/2005 del 15 dicembre 2005 (udienza 7 dicembre 2005), pres. ed est. Bruschetta sul ricorso di un ingegnere libero professionista. 12 Sentenza n. 146/7/2005 del 20 gennaio 2005 (udienza 9 dicembre 2005), pres. Tardino, est. Roteglia. 13 Sentenza n. 148/07/2005 del 7 feb-

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mento della domanda di rimborso. L’assenza di autonoma organizzazione viene ritenuta, da alcune sentenze, evidente nei casi in cui l’attività del lavoratore autonomo non possa essere svolta da altri che da lui. Si è presentato il caso dello psicologo14 e l’attività di traduttore, definita come «essenzialmente propria di un’attività mentale»15. Altre sentenze introducono il concetto di «componente personale assolutamente preponderante»16. L’organizzazione di mezzi e uomini non osterebbe all’accoglimento della domanda di rimborso se l’opera del soggetto passivo è preponderante rispetto agli altri fattori produttivi. È una tesi che può dirsi debitrice di riflessioni già anticipate nella dottrina: «L’organizzazione per essere tale e rilevante non può ridursi a quegli strumenti materiali e personali servili al professionista che rende personalmente la propria opera. L’organizzazione può essere fatta anche di persone ma deve trattarsi di soggetti idonei, per legge e di fatto, a rendere in tutto o in parte, quella stessa prestazione per cui ci si rivolge al lavoratore autonomo, al professionista»17. Altre sentenze si allineano rigidamente all’obiter dictum di Corte costituzionale 21 maggio 2001, n. 156 e accolgono le domande di rimborso esclusivamente quando l’attività di lavoro autonomo sia esercitata in assenza di capitali e lavoro altrui18. Per lavoro altrui si intende anche la prestazione personale gratuita eventualmente svolta da familiari del soggetto passivo purchè connessa all’esercizio dell’attività professionale19. Non rileva invece il compenso a terzi per attività non connesse, quali ad esempio, l’attività di pulizia dei locali dove si svolge all’attività professionale. Per capitali altrui si intendono anche quelli utilizzati attraverso un contratto di locazione finanziaria20. È interessante notare che questo secondo orientamento accoglie la domanda di rimborso anche quando il soggetto passivo non è un professionista intellettuale. Com’è noto gli uffici finanziari han-

braio 2006 (udienza 25 ottobre 2005), pres. Nardi, est. Ghittoni. Sulla stessa linea è la sentenza n. 127/07/2005 del 9 dicembre 2005 (udienza 28 ottobre 2005), pres. Tardino, est. Scicchitano. 14 Sentenza n. 9/06/2006 del 1 marzo 2006 (udienza 16 febbraio 2006), pres. ed est. Cigarini. 15 Sentenza n. 42/06/2006 del 23 aprile 2005 (udienza 17 marzo 2005), pres. ed est. Poggi. 16 Sentenza n. 24/06/2005 del 13 aprile 2005 (udienza 17 marzo 2005), pres. Poggi, est. Marchese.

17 MARONGIU, Irap, lavoro autonomo e Corte costituzionale: le possibili conseguenze pratiche, in Dir. e Prat. Trib., 2001, II, 659 ss. 18 Comm. trib. prov. Modena, 12 ottobre 2004, n. 78, in Boll. Trib., 2004, n. 21, 1599 ss., con nota di BRIGHENTI. 19 Sentenza n. 12/06/2006 del 1 marzo 2006 (udienza 16 febbraio 2006), pres. ed est. Cigarini. 20 Sentenza n. 24/06/2006 del 6 aprile 2006 (udienza 23 marzo 2006), pres. ed est. Cigarini.


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no sostenuto che il dictum della Corte costituzionale varrebbe, al più, per i soli professionisti, mentre ogni altro lavoratore autonomo, se imprenditore, sarebbe in ogni caso soggetto passivo Irap. Questa tesi degli uffici è stata respinta dall’orientamento qui riassunto, che ha invece ritenuto accoglibile anche la domanda di rimborso di lavoratori autonomi imprenditori, qualora sia assente l’elemento dell’autonoma organizzazione. Il caso concretamente deciso dalla Commissione modenese riguardava un agente di commercio. L’ufficio aveva eccepito che «è inconfutabile la natura imprenditoriale del reddito e la conseguente manifesta assoggettabilità all’Irap». La Commissione ha invece osservato che «soltanto l’attività esercitata dalle società e dagli enti, compresi gli organi e le amministrazioni dello Stato, costituisce in ogni caso presupposto d’imposta. In ogni altro caso, il presupposto dell’autonoma organizzazione potrà essere valutato anche se il soggetto passivo non sia un professionista intellettuale»21. L’orientamento da ultimo citato non è isolato. Parte della dottrina ritiene che «ben può esistere impresa senza organizzazione e reddito d’impresa che non discenda da fonte organizzata […] ciò è riconosciuto espressamente dal legislatore fiscale nell’art. 51 (oggi 55 n.d.r.) del testo unico n. 917/1986»22. 4. Il problema della prova relativa al presupposto d’imposta L’orientamento che non ritiene sussistente in re ipsa nel lavoratore autonomo il presupposto d’imposta dell’esercizio di un’attività autonomamente organizzata ha dovuto anche affrontare il problema del soggetto su cui incombe l’onere probatorio23. È l’ufficio che deve provare in positivo la presenza di un’attività autonomamente organizzata o è il soggetto ricorrente che deve dare la prova negativa?

21 Sentenza n. 11/06/2006 del 1 marzo 2006 (udienza 16 febbraio 2006), pres. ed est. Cigarini. 22 FALSITTA, Ulteriori osservazioni in tema di incostituzionalità dell’Irap, in Riv. Dir. Trib., 2001, 10, 788. 23 In realtà anche le sentenze che hanno seguito l’orientamento dell’autonoma organizzazione in re ipsa hanno preso posizione sul problema della prova ma soltanto come ulteriore – e ovviamente non decisivo - argomento di rigetto della domanda. Cfr. sentenza n. 138/04/2005, cit. e sentenza n. 146/7/2005 del 20 gennaio 2005, cit. 24 Cfr. comm. trib. prov. Bari, 20 aprile

Le sentenze esaminate hanno seguito un orientamento già delineatosi a livello nazionale24 che ritiene onerato il professionista della prova della inesistenza dei presupposti dell’imposizione25, come del resto ritiene anche la dottrina26. In concreto è stata ritenuta sufficiente, ai fini della prova, l’allegazione della dichiarazione dei redditi da cui risulti l’inesistenza di spese per compensi di lavoro dipendente e ridotti costi di esercizio27. Non è stata invece ritenuta sufficiente l’allegazione del solo quadro Iq, riguardante la determinazione dell’Irap28. 5. Ulteriori argomenti emersi in motivazione a favore o contro il diritto al rimborso Oltre alla questione relativa al presupposto dell’attività autonomamente organizzata nei provvedimenti esaminati abbiamo riscontrato alcune ulteriori argomentazioni allegate dalle parti per fondare o contrastare la pretesa del rimborso Irap. È stato sollevato il problema del cosiddetto “salto d’imposta”. L’ufficio aveva eccepito che “se si accogliesse la tesi dell’esclusione dall’imposta dei professionisti o delle imprese cosiddetti “minimi o senza organizzazione” si renderebbe necessario, per mantenere razionalità al sistema impositivo, obbligare il detto soggetto “minimo” a dichiarare a priori la propria condizione di esclusione al fine di mettere il soggetto Irap, erogatore del compenso, nella condizione di non più dedurre il compenso stesso dalla sua base imponibile alla stregua dei compensi pagati ai co.co.co. […] la conseguente creazione di una terza area caratterizzata da inclusione ma esenzione andava esplicitamente prevista perché ubi lex voluit, dixit e non può certo essere la giurisprudenza, neppure suprema, a creare detta terza area”. La Commissione modenese non ha ritenuto decisivo questo argomento. Essa ha osservato che “un

2004, n. 47, in Giurisprudenza locale – Bari, 2004; Comm. trib. prov. Sassari, sez. IV, 10 maggio 2003, n. 39, T. S. c. Agenzia Entrate Sassari, in Dir. e Prat. Trib., 2004, II,1065 (s.m.). Secondo un orientamento opposto “Non è il professionista che deve fornire la prova dell’assenza del presupposto dell’i.r.a.p. ma è all’Amministrazione finanziaria che compete la prova del così detto valore aggiunto, costituito non solo dall’organizzazione, ma anche dalla sua autonomia”, Comm. trib. prov. Trento, sez. III, 10 giugno 2002, n. 34, in Boll. Trib., 2002, 13509. 25 Sentenza n. 4/06/2006 del 3 feb-

braio 2006 (udienza 19 gennaio 2006), pres. ed est. Cigarini. 26 Segnalo in proposito: TESAURO, La prova nel processo tributario, n. 14, L’onere della prova, in Enc. Dir., aggiornamento, volume III, Milano. 27 Sentenza n. 110/01/2005 del 13 dicembre 2005 (udienza 22 novembre 2005), pres. De Marco, est. Previdi. Cfr. nello stesso senso, Comm. trib. reg. Milano, sez. XLI, 7 luglio 2003, n. 36, in Dir. e Prat. Trib., 2004, II,1065 (s.m.). 28 Sentenza n. 10/06/2006, cit. Cfr. nello stesso senso, Comm. trib. prov. Bari, 20 aprile 2004, n. 46, in Giurisprudenza locale – Bari, 2004.


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accertato mancato coordinamento di norme che induca una illogicità di sistema la quale, a sua volta, nasca dal difettoso inserimento nello stesso sistema di una norma non può essere addebitato al contribuente quando, come nel caso di specie, egli ritenga di non essere soggetto d’imposta per oggettivo difetto dello stesso presupposto impositivo” 29.

in quelli di rigetto della domanda di rimborso. Il motivo generalmente addotto a sostegno della pronuncia di compensazione è l’attuale incertezza interpretativa sulla materia dei rimborsi Irap. Soltanto sporadicamente abbiamo trovato provvedimenti di condanna alle spese in alcuni casi di rigetto della domanda.

6. Tipologia di dispositivi e provvedimenti sulle spese Abbiamo infine esaminato la tipologia dei dispositivi di accoglimento individuandone essenzialmente due. Alcune sezioni adottano uno specifico provvedimento di condanna dell’Amministrazione finanziaria. Il dispositivo indica come destinatario della condanna al rimborso talora l’amministrazione finanziaria genericamente intesa, talora l’Agenzia delle Entrate che è stata parte del giudizio. In questa tipologia di dispositivo in alcuni casi viene indicato il preciso ammontare del rimborso mentre in altri la condanna si riferisce genericamente al “rimborso richiesto dal ricorrente”. In questi dispositivi si incontra sempre anche la pronuncia accessoria relativa agli “interessi di legge”. Altre sezioni adottano invece un dispositivo contenente la sola sintetica locuzione di “accoglie il ricorso”, esponendo però il ricorrente al rischio di eccezioni da parte dell’ufficio in sede di eventuale giudizio di ottemperanza30. Con riguardo alle spese del giudizio abbiamo osservato una prevalente propensione alla compensazione, tanto nei casi di accoglimento quanto

7. Notazioni conclusive La conclusione che si crede di poter trarre dalla rassegna dei provvedimenti esaminati è che, all’interno della Commissione tributaria provinciale di Modena, l’orientamento favorevole ai rimborsi Irap, secondo le linee appena riassunte, stia lentamente affermandosi31. Si tratta di un trend verosimilmente in linea con quello nazionale32. Quale che sia l’opinione su questa tormentata questione, ci sembra che a questa linea vada ascritto un merito. Sulla strada aperta dalla Corte costituzionale, e pur con motivazioni ancora bisognose di maggiore nitidezza e coerenza, crediamo vada approvato il tentativo di dare un senso alla locuzione “attività autonomamente organizzata”. La tesi dell’autonoma organizzazione in re ipsa svuota invece di qualunque significato la locuzione normativa introdotta dal legislatore del 1998, che sembrava piuttosto preoccupato “di non assoggettare i professionisti ed in genere i lavoratori autonomi ad un trattamento troppo smaccatamente deteriore rispetto ai lavoratori dipendenti ed ai collaboratori continuativi”33.

29 Sentenza n. 146/01/2005, cit. In termini pressoché equivalenti CICALA, Il rimborso dell’Irap versata dai professionisti. Una sentenza della Commissione tributaria di Roma anima (ulteriormente) la discussione, in Fisco, n. 36/2004, 6148 ss. 30 Cfr. Cass. civ., sez. trib., 24 novembre 2004, n. 22188. 31 Cfr. sentenza n. 157/01/2005 del 8 marzo 2006 (udienza 20 settembre 2005), pres. De Marco, est. Manildo

che accoglie l’istanza di rimborso dichiarando esplicitamente il proprio mutamento di indirizzo: “Ciò che appare dirimente è la decisione assunta dalla Suprema Corte di Cassazione, che con sentenza 21203 del 7 ottobre 2004 (depositata il 5 novembre 2004) ha affrontato la questione con argomentazioni logiche e giuridiche assolutamente convincenti, tanto da indurre questa Commissione provinciale ad abbandonare l’orienta-

mento finora assunto”. 32 Diciamo verosimilmente perché basiamo questa affermazione sull’esame delle sentenze che abbiamo trovato pubblicate sulle riviste giuridiche. Sembra però difficilmente contestabile che la reiterata pubblicazione di sentenze che accolgono domande di rimborso determinerà una progressiva affermazione di questo orientamento. 33 Così CICALA, op. cit., 6150


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IL PUNTO SULLA TUTELA CAUTELARE NEL GIUDIZIO TRIBUTARIO D’APPELLO di Angelo Paolo Patumi Principio comune, nella giustizia civile, penale, amministrativa e contabile, è quello della possibilità – sia pure a determinate condizioni – di sospendere l’esecuzione di una sentenza non passata in giudicato. Nell’ordinamento tributario, tale principio ha una valenza particolare, a causa degli interessi in gioco, notevolmente diversi da quelli rinvenibili nelle altre giurisdizioni. Ricordiamo che il legislatore, volendo addivenire ad una nuova, più moderna disciplina del contenzioso tributario, stabilì nell’art. 30 della legge-delega 30 dicembre 1991, n. 413, i seguenti “principi e criteri direttivi”: “h) previsione di un procedimento incidentale ai fini della sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato disposta mediante provvedimento motivato, con efficacia temporale limitata a non oltre la decisione di primo grado e con l’obbligo di fissazione della udienza entro novanta giorni”. In attuazione di tale delega, il D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, ha disposto all’art. 47 “Sospensione dell’atto impugnato”: – comma 1: “Il ricorrente, se dall’atto impugnato può derivargli un danno grave ed irreparabile, può chiedere alla commissione provinciale competente la sospensione dell’esecuzione dell’atto stesso con istanza motivata proposta nel ricorso o con atto separato [omissis]”; – comma 7: “Gli effetti della sospensione cessano dalla data di pubblicazione della sentenza di primo grado”. Dall’esame di dette disposizioni, si ricava: 1. la chiara volontà del legislatore di limitare la possibilità di sospensione ad un provvedimento “atto impugnato” dell’amministrazione (o di un concessionario della medesima) piuttosto che ad una sentenza; 2. che ciò possa avvenire solo nel corso del giudizio di primo grado, “commissione provinciale”, invece che “commissione tributaria”, o “commissione” tout court – “ricorso”, invece che “ricorso o appello”, ovvero “gravame” – “pubblicazione della sentenza di primo grado”, invece che, semplicemente, “pubblicazione della sentenza”. Questa limitazione della tutela cautelare, nel processo tributario, soltanto al giudizio dinanzi alla Commissione di primo grado, è stata più volte portata all’esame del giudice delle leggi il quale l’ha ritenuta non in contrasto con la nostra carta

fondamentale. Pronunciandosi, infatti, sull’asserito contrasto degli articoli 47 e 49 del citato decreto legislativo n. 546/1992 con gli articoli 3 e 24 Cost., la Consulta, con la sentenza n. 165 del 25/31 maggio 2000 (successivamente ribadita nelle ordinanze n. 217 del 8/19 giugno 2000, n. 325 del 12/27 luglio 2001 e n. 310 del 20 giugno/3 luglio 2002), ha infatti testualmente affermato, in motivazione: “risulta allora evidente come la garanzia costituzionale della tutela cautelare debba ritenersi imposta solo fino al momento in cui non intervenga, nel processo, una pronuncia di merito che accolga – con efficacia esecutiva – la domanda, rendendo superflua l’adozione di ulteriori misure cautelari, ovvero la respinga, negando in tal modo, con cognizione piena, la sussistenza del diritto e dunque il presupposto stesso della invocata tutela”. Quindi, continua la Corte costituzionale, è rimessa alla discrezionalità del legislatore ammettere, o non, la possibilità che il contribuente chieda la sospensione dell’esecuzione della decisione di secondo grado. Di conseguenza, “deve, pertanto, escludersi che le norme denunciate siano in contrasto con l’art. 24 Cost., nella parte in cui non consentono alla Commissione tributaria regionale, in caso di rigetto totale o parziale del ricorso del contribuente, l’adozione di misure cautelari intese ad impedire, in pendenza del ricorso per cassazione o del ricorso alla Commissione tributaria centrale, l’esecuzione della pretesa tributaria oggetto del giudizio, nei limiti fissati dalla sentenza impugnata”. Per quanto concerne l’asserito contrasto delle citate norme del decreto n. 546 con l’art. 3 della Costituzione, la Consulta argomenta: “del pari insussistente è la asserita disparità di trattamento tra le controversie in materia di imposte e tasse devolute alla cognizione del giudice ordinario, nelle quali sarebbe possibile sospendere, ai sensi dell’art. 373 del codice di procedura civile, l’esecuzione della sentenza d’appello in pendenza del ricorso per cassazione, e le controversie, nelle stesse materie, attribuite alla giurisdizione delle commissioni tributarie, per le quali tale possibilità di sospensione non è prevista”. Tale censura – continua l’Alta Corte – non tiene conto dell’ormai consolidata giurisprudenza costituzionale, che ha sempre negato l’esistenza di un principio (costituzionalmente rilevante) di uniformità tra i vari tipi di processo, pur ribadendo il cri-


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terio della ragionevolezza delle scelte legislative. “Conclusivamente, la scelta di non estendere la tutela cautelare, nel processo tributario, ai gradi di giudizio successivi al primo appare, anche in riferimento al parametro di cui all’art. 3 Cost., legittimo esercizio di discrezionalità legislativa e si sottrae, perciò stesso, alla censura di incostituzionalità”. In genere le Commissioni tributarie regionali si sono conformate a tali principi, respingendo le istanze dirette ad ottenere la sospensione dell’esecuzione delle decisioni di primo grado. Le parti private, infatti, specialmente in tempi meno recenti, hanno spesso tentato di ottenere pronunce di sospensione anche in sede di appello. Con il passare degli anni, tuttavia, constatata la fermezza delle Commissioni, i tentativi in tal senso sono diminuiti. La soluzione negativa vale non solo nell’ipotesi in cui venga chiesta la sospensione dell’esecuzione della sentenza di primo grado, ma anche nel caso in cui il contribuente, soccombente nel giudizio di

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appello, presenti un ricorso per cassazione. In tale ipotesi, valgono le considerazioni svolte ai precedenti punti 1 e 2 sull’interpretazione dell’art. 47 del D.Lgs. n. 546/1992. Un discorso a parte merita la possibilità di ottenere, dal giudice tributario di seconda istanza, la sospensione delle sanzioni. Ciò, in quanto il decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472 “Disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie, a norma dell’art. 3, comma 133, della legge 23 dicembre 1996, n. 662”, all’art. 19 “Esecuzione delle sanzioni”, comma 2, testualmente dispone: “La Commissione tributaria regionale può sospendere l’esecuzione applicando, in quanto, compatibili, le previsioni dell’art. 47 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546”. In questo caso, il giudice di secondo grado può disporre la sospensione delle sanzioni; e, nella pratica, la dispone, a condizione che la parte richiedente presti adeguata garanzia.

IL CONTRATTO DI SPONSORIZZAZIONE SOTTOSCRITTO A GARANZIA DALLO SPORTIVO: I PRIMI ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI di Alessandra Magliaro

1. Premessa - 2. La vicenda processuale - 3. Un isolato, ma significativo, precedente giurisprudenziale - 4. Cessione del diritto d’immagine a società estera e imponibilità ai fini Iva 1. Premessa Le controversie tributarie relative a sportivi professionisti hanno la caratteristica di non essere numericamente importanti e spesso non hanno grande risalto nella stampa specialistica. Le ragioni di questa apparentemente scarsa conflittualità potrebbero essere rinvenute, probabilmente, nel fatto che esiste la legge 23 marzo 1981, n. 91 che detta norme precise relativamente all’inquadramento dell’atleta professionista. L’art. 3 della legge n. 91, infatti, stabilisce che i compensi che le società erogano agli sportivi sono da consi-

1 È altresì previsto al secondo comma dell’art. 3 citato il particolare caso in cui la prestazione deve considerarsi di lavoro autonomo; ovvero quando ricorra almeno uno dei seguenti requisiti: 1. l’attività sia svolta nell’ambito di

derarsi compensi di lavoro subordinato1. Anche dal punto di vista tributario, dunque, occorre inquadrare i proventi percepiti da questi soggetti fra quelli indicati nel capo IV del D.P.R. 917 del 1986. Da questa sintetica premessa già emerge che le eventuali contestazioni sul regime tributario dei compensi degli sportivi professionisti dovrebbero avere le medesime peculiarità della categoria dei redditi di lavoro dipendente. La particolarità della prestazione e più ancora del prestatore, però, rileva e offre spunti di riflessione originale per i tributaristi dal momento che molti sportivi accanto al contratto di prestazione sportiva, sottoscrivono altri contratti collaterali (ad esempio quelli di sfruttamento dell’immagine, merchandishing ecc.) molto spesso tramite inter-

una singola manifestazione sportiva o di più manifestazioni tra loro collegate in un breve periodo di tempo; 2. l’atleta non sia contrattualmente vincolato per ciò che riguarda la frequenza a sedute di preparazione od

allenamento; 3. la prestazione che è oggetto del contratto pur avendo carattere continuativo, non superi otto ore settimanali oppure cinque giorni ogni mese ovvero trenta giorni ogni anno.


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mediari situati in Paesi terzi2. Questa situazione offre la possibilità di indagare la natura dei compensi percepiti a fronte di questi contratti. Ed invero se dal punto di vista reddituale il problema può forse considerarsi residuale dal momento che, qualora il reddito derivante da sfruttamento di immagine non si potesse inquadrare fra i redditi di lavoro autonomo, potrebbe però rientrare fra i redditi diversi, la fattispecie cambia in modo rilevante nel momento in cui si prende in considerazione il regime Iva. Se infatti si riconosce il requisito della abitualità e della professionalità nella attività di gestione della propria immagine i proventi derivanti da questa attività devono essere assoggettati ad Iva. Altro motivo della mancata divulgazione di questo genere di sentenze è, probabilmente dovuto alla notorietà dei soggetti coinvolti che facilmente potrebbero essere individuati nonostante l’eliminazione dei nomi delle parti negli atti giurisdizionali pubblicati. Una sentenza non recentissima, ma particolarmente significativa della Commissione tributaria regionale di Bologna3 (a quanto consta inedita), analizza proprio questo aspetto sotto un profilo peculiare. 2. La vicenda processuale La fattispecie prende le mosse da un contratto di sponsorizzazione, concluso tra lo sponsor e il detentore dei diritti di sfruttamento dell’immagine di un personaggio famoso, la firma di quest’ultimo a garanzia dell’adempimento delle obbligazioni promesse non costituisce, per la Commissione regionale, un semplice fatto cautelativo per lo sponsor ma una diretta assunzione delle obbligazioni della sponsorizzazione. Da ciò discende la qualificazione della prestazione resa dallo sponsorizzato come prestazione professionale avente i caratteri della abitualità e quindi l’imponibilità della stessa ai fini Iva. A queste conclusioni è giunta la Commissione tributaria regionale dell’Emilia Romagna in riforma di una precedente sentenza della Commissione

2 Recentemente con l’art. 35-bis della legge 248 /2006 di conversione del D.L. 223/2006 il legislatore fiscale ha introdotto l’obbligo per le società di calcio professionistiche di inviare all’Agenzia delle Entrate copia dei contratti di acquisizione delle prestazioni professionali degli atleti professionisti. Con il D.L. 262/2006 (con-

tributaria provinciale di Ravenna4. Preliminarmente, però, la medesima Commissione aveva dovuto esaminare anche una questione concernente la formazione di due distinti fascicoli processuali che davano luogo, in assenza di riunificazione, a due sentenze emesse dalla stessa sezione nella stessa data e con i medesimi giudici. L’anomalia aveva origine dal particolare momento storico nel quale i ricorsi in primo grado erano stati presentati e cioè 4 giorni dopo la sostituzione dell’Ufficio Iva competente (Ravenna), autore dell’avviso di rettifica, con la relativa Agenzia delle Entrate (Faenza). Il contribuente, cautelativamente, aveva proposto due identici ricorsi uno nei confronti dell’Ufficio Iva di Ravenna e l’altro nei confronti dell’Agenzia di Faenza omettendo di richiedere successivamente la riunione dei conseguenti procedimenti. La Commissione provinciale, come detto, aveva accolto entrambi i ricorsi con due distinte sentenze delle quali solo una veniva tempestivamente impugnata5. Per tale sentenza, la Commissione regionale, dopo aver individuato come legittima controparte in primo grado l’Agenzia delle Entrate, dichiarava ammissibile l’impugnazione proposta da quest’ultima. Al contrario, il secondo e parallelo procedimento, instaurato contro l’Ufficio Iva, si concludeva con il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado dal momento che l’appello avverso la relativa sentenza era stato notificato oltre i termini. La mancata riunione dei procedimenti in primo grado portava così all’anomala situazione di due diverse ma identiche sentenze delle quali una ritualmente appellata e pendente in secondo grado e l’altra divenuta definitiva a seguito della tardiva impugnazione. Proprio a proposito di tale ultima sentenza però la Commissione regionale, richiamandosi ai principi del “giusto processo” dichiarava il relativo procedimento viziato da una “mancanza assoluta iniziale”. Tale vizio inficiava la validità di tutti i successivi atti e “toglie di fatto efficacia anche al presunto passaggio in giudicato della sentenza di che trattasi in quanto non poteva essere legittimamente opposta all’Ufficio delle Entrate di Faenza dal momento che in forza dell’art. 61, comma 1,

vertito con legge 286 del 2006) si è esteso l’obbligo anche ai contratti per lo sfruttamento dell’immagine. Sul punto v. CENSI, Redditi dei calciatori e delle società di calcio professionistiche, in Corr. Trib., 2006, 3480. 3 Commissione tributaria regionale di Bologna, sez XI, 17 maggio 2005, n. 52.

4 Commissione tributaria provinciale di Ravenna, sez. I, 26 ottobre 2001, n. 293. 5 Commissione tributaria provinciale di Ravenna, sez. I, 26 ottobre 2001, n. 289; Commissione tributaria provinciale di Ravenna, sez. I, 26 ottobre 2001, n. 293.


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D.Lgs. 30/99 le Agenzie fiscali […] possono stare in giudizio nelle controversie instaurate successivamente alla loro costituzione”. Passando poi all’esame delle questioni di merito, che più interessano in questa sede, la Commissione ha operato diverse valutazioni in relazione alla presenza dei necessari requisiti, ai fini dell’imponibilità Iva, di soggettività passiva e di territorialità. La vicenda ha origine da un avviso di accertamento ai fini Iva, per l’anno d’imposta 1998, notificato ad un corridore motociclistico di fama internazionale, il quale aveva ceduto il diritto di sfruttamento della sua immagine6 ad una società di diritto olandese7. La società in questione aveva poi concluso dei contratti con degli sponsor8 ma, i singoli contratti, recavano sia la firma di quest’ultimi che quella, a garanzia, del corridore motociclistico. Secondo la difesa del contribuente tale ultima firma era richiesta, proprio dallo sponsor a fini cautelativi. La sentenza della Commissione provinciale di Ra-

6 Per una ricostruzione storica del diritto all’immagine, pur senza pretese di esaustività, si vedano per tutti DE CUPIS, I diritti della personalità, Milano, 1959; VERCELLONE, Il diritto sul proprio ritratto, Torino, 1959 e più di recente CIONTI, La nascita del diritto sull’immagine, Milano, 2000; SCALISI, Il diritto alla riservatezza, Milano 2002. Secondo un ormai consolidato orientamento il diritto all’immagine appartiene alla categoria dei diritti della personalità ed in generale costituisce la manifestazione positiva della più ampia figura della riservatezza. In tal senso anche ANSALONE, Il diritto all’immagine, in Nuova Giur. Comm., 1990, I, 228. Tale diritto si manifesta nelle diverse forme dell’originario jus excludendi, ex art. 10 c.c., nei confronti di ogni divulgazione di un proprio ritratto e del più recente diritto allo sfruttamento economico dell’immagine stessa. Sul primo dei citati aspetti e sulle conseguenti azioni inibitorie e risarcitorie numerosi sono gli scritti in campo civilistico (oltre agli autori già citati vedi anche RUFFINI, GANDOLFI, voce Diritto alla riservatezza, in Dig. Disc. Priv., sez. civ., 4a ed., VI, Torino, 1990, 75 ove richiami; FUSARO, I diritti della personalità dei soggetti collettivi, Padova, 2002 e per un approccio più operativo SASSANO, La tutela dei diritti della personalità, Rimini, 2005) e le pronunzie in ambito giurisprudenziale (tra le tante si vedano Cass., sez. I, 28 marzo 1990, n. 2527, in Giust. Civ., I, 2369, con nota di MARINI; Cass. civ., sez. I, 2 maggio 1991, n. 4785 e Cass. civ., sez. I, 16 aprile 1991, n. 4031, en-

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venna, che aveva accolto tale ricostruzione, aveva qualificato il reddito percepito dal corridore come reddito non riconducibile ad una attività di lavoro autonomo rilevante ai fini Iva ma piuttosto come attività assimilata ai sensi dell’allora art. 49, comma 2 del T.U.I.R. (ora art. 50, lettera c-bis) e dunque non imponibile ai fini Iva9. 3. Un isolato, ma significativo, precedente giurisprudenziale Questa interpretazione era conforme ad una precedente sentenza sulla stessa materia, che aveva come ricorrente un noto sciatore professionista (inedita)10 la quale, per un’ipotesi pressoché identica, aveva stabilito che “per realizzarsi concretamente in capo al ricorrente la presunzione di esercizio di lavoro autonomo, ex art. 49, comma 1 (oggi art. 53, comma 1, n.d.r.) T.U.I.R., e per analogia, il presupposto oggettivo di cui agli artt. 3 e 5 del D.P.R. 633/1972, affinché l’operazione possa rientrare nel campo di

trambe in Nuova Giur. Comm., 1992, I, 44, con nota di RICOLFI, Questioni in tema di regime giuridico dello sfruttamento commerciale dell’immagine, ove ampi riferimenti giurisprudenziali). 7 Sull’ammissibilità dello sfruttamento economico dell’immagine e sulla natura del contratto ad esso relativo vedi per la dottrina FUSI, I contratti della pubblicità, Torino, 1999; URCIUOLI, Autonomia negoziale e diritto all’immagine, Napoli, 2000; DELL’ARTE, Fotografia e diritto, Forlì, 2004 e, dello stesso autore, I contratti della fotografia e dell’immagine, Forlì, 2004; SCOGNAMIGLIO, Il diritto all’utilizzazione economica del nome e dell’immagine delle persone celebri, Dir. Inf., 1988, 1, e per un approccio di tipo professionale-contrattuale NIGRA, La pubblicità e i suoi contratti tipici, Rimini, 2001; VITALI, Contratti nella pubblicità e nel marketing, Milano, 2001; DELL’ARTE, Modelli di contratti della fotografia e dell’immagine, Forlì, 2004. 8 I contratti normalmente conclusi con gli sponsor per lo sfruttamento dell’immagine della persona nota trovano la loro origine nella duplice veste del diritto all’immagine stessa. Da un lato viene in rilievo il diritto di esclusività come contenuto negativo preordinato alla salvaguardia del bene della riservatezza, dall’altro l’opposto e complementare contenuto positivo del diritto di sfruttamento economico della propria immagine. Tale ultimo aspetto viene convenzionalmente suddiviso, a seconda delle prestazioni richieste al titolare del diritto di immagine, in un pati o in un facere. Nel primo caso tale pati si con-

cretizza in un negozio autorizzativo alla diffusione della fotografia o alla divulgazione delle azioni filmiche a cui essi partecipano. Nel secondo caso il negozio ha ad oggetto un’obbligazione di facere consistente in un intervento “attivo” in eventi o manifestazioni promozionali. 9 L’individuazione della natura giuridica di questi contratti è però tutt’altro che agevole, anche dal punto di vista civilistico, per due ordini di motivi: anzitutto perché, trattandosi di negozi nei quali coesistono gli elementi di – almeno – due diverse figure contrattuali (la prestazione di attività e l’autorizzazione all’utilizzo pubblicitario di quanto ne risulta), si presenta, come in tutti i negozi misti, il problema della prevalenza dell’uno elemento sull’altro, sicuramente rilevante ai fini dell’individuazione della disciplina applicabile; ed in secondo luogo perché, quanto al primo dei due elementi (quello cioè attinente alla prestazione di un’attività in senso lato artistica), sussiste incertezza sulla sua riconducibilità ad un rapporto di lavoro autonomo ovvero di lavoro subordinato. Il che incide sensibilmente sul profilo normativo, ulteriormente complicato da discipline pubblicistiche (ad esempio quella riguardante il trattamento previdenziale dei lavoratori dello spettacolo) che sovente vi interferiscono. In tal senso si veda FUSI, I contratti, cit., 133. 10 Commissione tributaria provinciale di Bologna, sez. XVII, 27 maggio 1999, n. 172.


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applicazione Iva, dovrebbe essere provata un’attività diretta dell’atleta volta a procacciarsi direttamente eventuali sponsorizzatori per lo sfruttamento dell’immagine. Ciò non è avvenuto nel caso di specie, visto che tutti i contratti di sponsorizzazione sono stati sottoscritti da altri e non dal ricorrente, che hanno messo a disposizione un’attività organizzata d’impresa a fronte della quale hanno percepito adeguati compensi. L’attività posta in essere dal ricorrente, atleta non soggetto ad Iva, consisteva quindi nel concedere il diritto allo sfruttamento della propria immagine, diritto che non concretizza ex lege l’esercizio di una attività imponibile: infatti il diritto all’immagine non costituisce neppure una fattispecie di bene immateriale, essendo un diritto della personalità (art. 10 c.c.) al quale è stata riconosciuta anche una tutela patrimoniale. Pertanto i redditi percepiti dal ricorrente […] “debbono” essere ricondotti alle fattispecie di cui all’articolo 49 secondo comma (oggi art. 50, comma 1, lett. c-bis, n.d.r.) T.U.I.R. 917/86, e quindi esclusi dal campo di applicazione Iva”. Anche secondo la Commissione provinciale di Ravenna e per il caso che ci occupa, infatti, era da ritenersi plausibile che le aziende sponsorizzatrici pretendessero una maggior tutela nella assunzione dei loro impegni economici, chiedendo all’atleta una firma per presa visione e garanzia di adempimento, non avendo, gli sponsor, alcun obbligo di accertamento dei rapporti tra la società olandese e il corridore. 4. Cessione del diritto d’immagine a società estera e imponibilità ai fini Iva Su tali beni veniva così riconosciuta l’esistenza della società olandese e la sua piena titolarità fiscale nei rapporti che l’amministrazione finanziaria voleva invece imputare, ai fini dell’applicazione dell’Iva, al ricorrente. Sempre secondo la Commissione tributaria di Ravenna infatti l’Ufficio non era riuscito a provare l’inesistenza giuridica, o se si vuole l’esistenza solo strumentale a fini evasivi, della suddetta società. Anche in questo caso, dunque, l’unica attività imputata, per cosi dire, all’atleta era quella di cessione del diritto di immagine e di prestazione pubblicitaria in senso lato attività

11 A questo proposito si rammenta che l’onere probatorio nel caso de quo spettava all’Ufficio in quanto non era stato ancora introdotto il comma 2-bis dell’art. 2 del T.U.I.R., il quale ha invertito l’onere della prova in materia di residenza fiscale, relativamente alle imposte dirette solo dall’1 gennaio 1999. 12 Il necessario requisito del domicilio in

non professionalmente esercitata e quindi non imponibile Iva. Al contrario, tale professionalità veniva riconosciuta alla società olandese terza, per l’opera prestata nello sfruttamento dell’immagine dell’atleta mediante tutte le necessarie attività di procacciamento sponsor, promozione eccetera. I giudici d’appello, al contrario, come già detto, hanno proceduto operando diverse valutazioni in relazione alla presenza dei necessari requisiti, ai fini dell’imponibilità Iva, di soggettività passiva e di territorialità. In particolare per quanto concerne tale ultimo presupposto, la Commissione regionale emiliana ha dapprima fatto esplicito richiamo al disposto dell’art. 7 del D.P.R. 633/72, ponendo in particolare l’accento sul fatto che, nell’ipotesi di prestazioni di servizi, le stesse si considerano effettuate nel territorio dello Stato (e quindi imponibili) quando sono rese da soggetti che hanno il domicilio nel territorio stesso. La medesima ha poi riconosciuto ampio valore alle prove addotte dall’Ufficio le quali dimostrano che, nonostante la residenza del contribuente fosse stata spostata nel Principato di Monaco, il luogo in cui si trovava il centro della vita di relazione della persona ossia dove essa intratteneva principalmente sia i rapporti personali che economici era, nel caso in esame, in Italia e dunque non potevano sussistere dubbi sul fatto che il domicilio dello stesso, ai sensi dell’art. 7 del D.P.R. 633/72, fosse in Italia11. Nel nostro Paese infatti venivano siglati i contratti di sponsorizzazione, in una villa in Italia il contribuente viveva quando era lontano dalle corse e qui intratteneva la gran parte dei suoi rapporti sociali12. Ma, come riconosce la Commissione regionale stessa, lo sciogliere positivamente il nodo del domicilio del contribuente non era ancora fatto esaustivo per riconoscerlo imponibile ai fini Iva. Il passo successivo è stato quello di attribuire un diverso valore alle firme poste dal ricorrente sui contratti di sponsorizzazione. Secondo i giudici di secondo grado la sottoscrizione da parte di quest’ultimo su tali contratti e la assunzione diretta di obbligazioni è fatto sufficientemente probante per ritenere “secondaria” la presenza della società olandese13. Tale tesi risulta avvalorata dall’esistenza di un notevole divario tra l’im-

Italia ai fini dell’imposizione Iva ex art. 7, D.P.R. 633/1972 era già stato sollevato in un parallelo procedimento contro lo stesso contribuente in materia di imposizione diretta, la cui sentenza conclusiva, in senso sfavorevole al contribuente “riportava” la sua residenza nel territorio dello Stato. 13 La reale esistenza ed attività della so-

cietà terza olandese, società cui lo sportivo aveva ceduto i diritti di sfruttamento della propria immagine, non era del resto mai stata messa in discussione e la stessa sentenza di primo grado aveva ritenuto di escludere l’ipotesi dell’interposizione fittizia.


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Atti e interventi

porto percepito dal contribuente per la cessione dei diritti di sfruttamento della propria immagine alla società terza e l’entità degli importi percepiti da quest’ultima a seguito della stipula dei contratti di sponsorizzazione aventi ad oggetto i medesimi diritti. Tale divario che proverebbe, secondo i medesimi giudici, l’assunto dell’amministrazione finanziaria,induce a ritenere una valenza “affiancatrice e non sostitutiva del corridore nella sottoscrizione dei suoi contratti di sponsorizzazione”. Dunque, secondo i giudici d’appello, l’attività effettuata dal ricorrente è a tutti gli effetti riconducibile alle previsioni dell’articolo 49 (ora art. 53), comma 1 del T.U.I.R. ed è regolarmente imponibile ai fini Iva. La ricostruzione operata dalla Commissione regionale dell’Emilia Romagna in questa fattispecie non appare, a parere di chi scrive, pienamente condivisibile dal momento che trasforma quello che è, come si è già ricordato in precedenza, un semplice fat-

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to cautelativo per lo sponsor, in una diretta assunzione delle obbligazioni della sponsorizzazione. È però comunque particolarmente significativa l’attenzione che l’Agenzia delle Entrate in primo luogo, e le Commissioni tributarie di conseguenza qualora insorgano contestazioni, manifestano nei confronti dei proventi conseguiti a fronte di contratti di cessione di immagine. Attenzione che anche il legislatore tributario ha sottolineato di recente. Ed invero, come già ricordato, all’interno della manovra d’estate al fine di contrastare l’evasione e l’elusione fiscale, l’art. 35-bis della legge 248 /2006 di conversione del D.L. 223/2006 ha introdotto l’obbligo per le società di calcio professionistiche di inviare all’Agenzia delle Entrate copia dei contratti di acquisizione delle prestazioni professionali degli atleti professionisti14. Con il D.L. 262/2006 (convertito con legge 286 del 2006), poi, si è esteso l’obbligo anche ai contratti per lo sfruttamento dell’immagine.

14 Contratti, questi, che in realtà o possono mancare o che comunque sono già acquisiti come viene sostenuto da CENSI, I redditi, cit., 3480 ss.


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GiustiziaTributaria

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Indice cronologico delle sentenze

Commissione tributaria provinciale di Brescia, sez. I, 11 gennaio 2006, n. 205

44

Commissione tributaria regionale del Piemonte, sez. IV, 1 febbraio 2006, n. 54

131

Commissione tributaria provinciale di Vicenza, sez. VII, 10 febbraio 2006, n. 199

145

Commissione tributaria provinciale di Massa, sez. I, 17 febbraio 2006, n. 4

147

Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. V, 21 febbraio 2006, n. 12

35

Commissione tributaria provinciale di Vicenza, sez. II, 8 marzo 2006, n. 20

135

Commissione tributaria provinciale di Verona, sez. I, 22 marzo 2006, n. 62

91

Commissione tributaria provinciale di Udine, sez. V, 3 aprile 2006, n. 16

25

Commissione tributaria provinciale di Verona, sez. I, 3 aprile 2006, n. 51

139

Commissione tributaria provinciale di Pordenone, sez. V, 4 maggio 2006, n. 91

100

Commissione tributaria provinciale di Verona, sez. I, 14 giugno 2006, n. 136 Commissione tributaria regionale della Lombardia, sez. XXXVIII, 21 giugno 2006, n. 69

64 107

Commissione tributaria provinciale di Treviso, sez. III, 21 giugno 2006, n. 99

73

Commissione tributaria regionale della Lombardia, sez. XI, 23 giugno 2006, n. 56

50

Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. XXXVI, 27 giugno 2006, n. 80

116

Commissione tributaria regionale del Veneto, Verona, sez. XV, 4 luglio 2006, n. 61

148

Commissione tributaria provinciale di Treviso, sez. II, 5 luglio 2006, n. 77

74

Commissione tributaria provinciale di Lucca, sez. IV, 14 luglio 2006, n. 64

78

Commissione tributaria regionale della Lombardia, sez. XX, 14 luglio 2006, n. 76

52

Commissione tributaria provinciale di Siena, sez. II, 17 luglio 2006, n. 35

83

Commissione tributaria provinciale di Ferrara, sez. I, 18 agosto 2006, n. 105

61

Commissione tributaria provinciale di Pescara, sez. II, 30 agosto 2006, n. 89

118

Commissione tributaria provinciale di Firenze, sez. XIV, 13 settembre 2006, n. 163

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GiustiziaTributaria 01

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Commissione tributaria II grado di Trento, sez. I, 19 settembre 2006, n. 53

128

Commissione tributaria II grado di Trento, sez I, 19 settembre 2006, n. 55

54

Commissione tributaria provinciale di Siena, sez. V, 21 settembre 2006, n. 61

154

Commissione tributaria provinciale di Napoli, sez. 23, 10 ottobre 2006, n. 338

92

Commissione tributaria regionale del Piemonte, sez. IV, 25 ottobre 2006, n. 32

57

Commissione tributaria regionale del Friuli Venezia Giulia, sez. I, 21 novembre 2006, n. 84

103

Commissione tributaria provinciale di Firenze, sez. IX, 21 dicembre 2006, n. 159

112

Commissione tributaria provinciale di Roma, sez. LII, 12 gennaio 2007, n. 555

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Finito di stampare nel mese di aprile 2007 presso Press Service, Osmannoro - Firenze



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